Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

ANNO 2022

I PARTITI

TERZA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

      

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

  

 

 

 

I PARTITI

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI. (Ho scritto un saggio dedicato)

La Scissione: vaffanculo a loro stessi.

La Democrazia a modo mio.

Ipocriti.

Son Comunisti…

Beppe Grillo.

Giuseppe Conte.

Luigi Di Maio.

Alessandro Di Battista.

Dino Giarrusso.

Gianluigi Paragone.

Rocco Casalino.

Virginia Raggi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Secessionismo.

La Moralità.

Il Capitano.

Il Senatur.

Giancarlo Giorgetti.

Lorenzo Fontana.

Luca Zaia.

Roberto Calderoli.

Roberto Maroni.

La Bestia e le Bestie.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

La morte del Comunismo.

Comunisti: La Scissione dell’atomo.

Ipocriti.

Razzisti e bugiardi.

Achille Occhetto.

Beppe Sala.

Carlo Calenda. 

Elly Schlein.

Enrico Berlinguer.

Enrico Letta.

Giuseppe Pippo Civati.

Goffredo Bettini.

Luigi De Magistris.

Mario Capanna.

Massimo D’Alema.

Matteo Renzi.

Maria Elena Boschi.

Matteo Richetti.

Monica Cirinnà.

Nicola Fratoianni.

Gianni Vattimo.

Fausto Bertinotti.

Laura Boldrini.

Stefano Bonaccini.

Walter Veltroni.

Vincenzo De Luca.

Le Sardine.

I Radicali.

Quelli …Che Guevara.

I Marxisti d’oltreoceano.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO AMICO TERRORISTA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Le vittime innocenti degli scontri con la polizia.

Le Primule rosse.

Il Delitto Biagi.

Le Brigate Rosse.

PAC. Proletari Armati per il Comunismo.

Lotta Continua.

La Falange armata. 

Ordine Nuovo, Avanguardia Nazionale, NAR (Nuclei armati rivoluzionari).

Gli Anarchici.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA. (Ho scritto un saggio dedicato)

 

 

 

 

 

I PARTITI

TERZA PARTE

 

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

 Non possiamo non dirci crociani. Non possiamo non dirci crociani per molti motivi. Il filosofo condannava sia il fascismo sia il comunismo. Una lezione semplice ma importante. Alessandro Gnocchi il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Non possiamo non dirci crociani per molti motivi. Il filosofo condannava sia il fascismo sia il comunismo. Una lezione semplice ma importante. L'Italia tuttora non è in grado di impararla. Mentre la condanna per il fascismo, giustamente, è ormai unanime, una parte consistente della sinistra è ancora convinta della favola secondo la quale il comunismo sarebbe una splendida idea purtroppo applicata male. Al cristianesimo abbiamo preferito qualsiasi dottrina materialista. Croce, pur non essendo credente, si dichiarava cristiano perché sapeva che, se togli il cristianesimo, la società inizia a scivolare su un piano inclinato in fondo al quale c'è sempre il disprezzo per la vita e l'individuo. Croce racconta in Contributo alla critica di me stesso di aver perso la guida della dottrina religiosa e di sentirsi «insidiato da teorie materialistiche, sensistiche e associazionistiche, circa le quali non mi facevo illusioni, scorgendovi chiaramente la sostanziale negazione della moralità stessa, risoluta in egoismo più o meno larvato». Fu il confronto con lo zio e tutore Silvio Spaventa a restituire la fede, laica e liberale, sui «fini e doveri» della vita. Maestro di Retorica, Croce disprezzava la retorica, il vero cemento (friabile) delle istituzioni italiane. Nel Contributo, il filosofo esprime il «fastidio per la rettorica liberalesca e la nausea per la grandiosità di parole e per gli apparati di qualsiasi sorta». Spirito realmente morale e dunque non moralista, politico quasi suo malgrado ma con una visione netta, Croce si chiese cosa fosse l'onestà, appunto, in politica. La risposta è secca: «L'onestà politica non è altro che la capacità politica: come l'onestà del medico e del chirurgo è la sua capacità di medico e di chirurgo, che non rovina e assassina la gente con la propria insipienza condita di buone intenzioni e di svariate e teoriche conoscenze». L'Italia ha appena vissuto un momento drammatico in cui sono approdati in parlamento uomini nuovi e interi movimenti che facevano vanto di non conoscere le istituzioni, di non essersi mai sporcati le mani con la gestione della cosa pubblica e di essere onestissimi. Risultato: una tragedia con punte di selvaggia ma involontaria comicità. Non meno importante è l'estetica crociana. Lo studioso aveva chiara un'idea che pare estranea a gran parte del mondo letterario di oggi: la critica militante non ha alcun senso se non è preceduta e accompagnata da una filosofia estetica. In caso contrario, presto o tardi, prestissimo nel caso italiano, diventa l'ancella del mercato e la sorella della pubblicità, un triste scambio di piaceri tra amici o un regolamento di conti tra bande, niente che possa convincere e stimolare un lettore. Per forza la critica non si fa più: è irrilevante, con le dovute eccezioni, e allora è meglio l'intrattenimento più o meno colto. Quando esisteva la cultura italiana, in un tempo che sembra spaventosamente lontano, si poteva procedere mettendosi in continuità con il maestro Croce oppure andare oltre il suo magistero senza contestarne la grandezza. Così fece, ad esempio, Gianfranco Contini rivendicando la critica delle varianti come integrazione (e superamento) della critica crociana. Altra epoca, altro spessore.

I sinistri educandi. Tutto: divieti, sanzioni e tasse.      

La storia insegna: chi toglie la libertà è sempre comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2022.

Si può fare una statistica ormai quasi secolare delle libertà violentate nel mondo. E da quella statistica spicca una verità senza rendiconto: vale a dire che quando c'è massacro di libertà, praticamente sempre c'è un comunista che lo compie, o lo nasconde, o lo giustifica. E mai, quando nel mondo le libertà sono state aggredite, mai il comunista si è posto a difenderle. Mai nel mondo il comunista ha combattuto il potere che di volta in volta reprimeva quelle libertà, se non per sostituirvisi impiantando un potere che a sua volta ne faceva sacrificio.

Sul grosso delle libertà sopraffatte nel mondo c'è la grinfia del comunista. C'è la censura del comunista a rendere impunita quella sopraffazione. C'è la propaganda del comunista a giustificarla. Non c'è solo l'aguzzino che a migliaia di chilometri da qui fa rogo di una iurta mongola piena di bambini: c'è anche il comunista di qui che contestualizza. Non ci sono solo i milioni di bambini denutriti nei paradisi del socialismo asiatico: c'è anche il comunista di qui che li oppone ai senzatetto di New York. Non c'è solo l'omosessuale con i testicoli spappolati nel carcere cubano: c'è anche il comunista di qui, con appeso il ritratto del "Che", che si leva a difesa dei diritti civili minacciati dal neoliberismo. Non c'è solo il male assoluto perpetrato in mezzo mondo da decenni di violenza comunista: c'è anche di chi quel male è patrono, procuratore, avvocato.

Siamo stato noi. Chi chiede più presenza dello Stato non sa quanto sia già invadente. Iuri Maria Prado su L'Inkiesta il 3 Settembre 2022

La mancanza di produttività, il ritardo rispetto alle economie avanzate, la stagnazione trentennale degli stipendi non hanno un responsabile unico, ma molto è dovuto alle inefficienze dello statalismo: chi non ha il coraggio di ammetterlo è ancora lontano dalla soluzione

Bisognerebbe intendersi, quando si dice «più Stato». Intendersi, innanzitutto, sulla realtà del sistema da cui sale quell’invocazione. Si ammetterà, infatti, che se il sistema è il nostro, che fu della pummarola nazionalizzata ed è tutt’ora quello dell’impresa posseduta al quarantacinque percento dal potere pubblico (un dato senza eguali nelle economie di mercato), allora reclamare «più Stato» non significa cambiare registro ma usare esattamente lo stesso apponendovi altre poste dello stesso segno. 

Si può sostenere che occorra e che sia giusto, ma a patto di riconoscere – ed è questo che invece generalmente si rinnega, non solo a sinistra – che l’intestazione statale di altre quote di economia, di produzione, di commercio, di acquisizione in esclusiva monopolistica di attività altrove ragionevolmente lasciate alla concorrenza privata, interviene su un ordinamento già molto impostato nella medesima direzione.

Poi si tratta di riconoscere che è «più Stato» anche quello che si auto-limita, anche quello che pianifica e organizza le ragioni della propria astensione, della propria retrocessione da attività che meglio e a minor costo possono svolgere i privati. 

È «più Stato» quello che non lascia sottoposti all’arbitrio delle procure della Repubblica i cantieri e gli investimenti produttivi. È «più Stato» quello che sgrava l’economia dall’intermediazione parassitaria di burocrazie la cui inefficienza non è più neppure un difetto, ma esattamente una causa di giustificazione della propria esistenza: too bureaucratic to fail. 

È «più Stato» quello che imponendo troppi tributi e dovendo far giustizia sociale ne toglie qualcuno anziché aggiungere un sussidio. È «più Stato» quello che non protegge le imprese e i cittadini dalle brutture del mercato impiantando il mercato falso del calmiere, del dazio, dell’esenzione, cioè le misure che spostano in là, aggravandolo, il rendiconto. 

È «più Stato» quello che non pretende di garantire il decoro e le efficienze delle professioni tramite gli Ordini professionali. È «più Stato» quello che rinuncia a garantire la sanità pubblica rendendola obbligatoria. È «più Stato» quello che fa scaricare dalle tasse l’acquisto di un libro rispetto a quello che precetta le scuole all’organizzazione della Giornata contro l’omotransfobia.

Infine, si tratterebbe di intendersi su questo: il tanto di Stato che abbiamo (poco o tanto, a seconda dei punti di vista), è sì o no responsabile della nostra mancanza di produzione, del nostro posizionamento di coda tra le economie avanzate, dello stazionamento trentennale e anzi della recessione del livello di reddito individuale? Rispondere no, suppone che si spieghi perché. Che si spieghi perché il tanto Stato che abbiamo non abbia responsabilità, per la quantità del proprio esserci, in relazione ai problemi che abbiamo. Che si spieghi perché quei problemi sarebbero invece prodotti dalla porzione minoritaria del non esserci dello Stato.

Marx è andato a vivere a New York. Marcello Veneziani 

La Verità ha riproposto uno stralcio dal libro-antologia di Karl Marx Contro la Russia, che le edizioni de Il Borghese pubblicarono per primi negli anni settanta. Ma c’è un’integrazione essenziale, e attualissima, da fare: in queste pagine emerge il Marx filo-americano, persuaso che il suo pensiero radicale potesse meglio attecchire in una società nuova, moderna, priva di storia, radici e tradizione come gli Stati Uniti. Non a caso questi scritti furono pubblicati tra il 1858 e il 1861, sul New York Tribune, poi raccolti dalla figlia Eleanor con il titolo The eastern question; articoli antirussi, filoamericani, occidentalisti, che auspicavano l’avvento del mercato libero globale e del pensiero radicale. Per la rivoluzione comunista Marx non pensava alla Russia zarista ma all’America descritta da Tocqueville, che era poi l’espansione “giovanile“ dell’Inghilterra, da Marx non a caso eletta a sua residenza, rispetto alla natia Treviri, in Germania.

Marx è il filosofo che più ha inciso nella storia del ‘900 attraverso la tragedia mondiale del Comunismo. Poi tramontò nel fallimento del comunismo, precipitò con l’impero sovietico, sopravvisse ibrido nella Cina mao-capitalista. Ma fu davvero archiviato? Da anni sostengo la tesi opposta che esposi in Imperdonabili.

Il marxismo separato dal comunismo è lo spirito dominante dell’Occidente. Scrive Marx nel Manifesto: “Si dissolvono tutti i rapporti stabili e irrigiditi, con il loro seguito di idee e di concetti antichi e venerandi, e tutte le idee e i concetti nuovi invecchiano prima di potersi fissare. Si volatilizza tutto ciò che vi era di corporativo e di stabile, è profanata ogni cosa sacra e gli uomini sono finalmente costretti a osservare con occhio disincantato la propria posizione e i reciproci rapporti”. E’ la prefigurazione della nostra epoca volatile e mondialista. Il marxismo fu il più potente anatema scagliato contro Dio e il sacro, la patria e il radicamento, la famiglia e i legami con la tradizione, la natura e i suoi limiti. Fu una deviazione la sua realizzazione in paesi premoderni come la Russia e la Cina, la Cambogia o Cuba. Il marxismo non si è realizzato nei paesi che hanno subito il comunismo, dove invece ha fallito e ha resistito attraverso l’imposizione poliziesca e totalitaria; si è invece realizzato nel suo spirito laddove nacque e a cui si rivolse, nell’Occidente del capitalismo avanzato. Non scardinò il sistema capitalistico ma fu l’assistente sociale e culturale nel passaggio dalla vecchia società cristiano-borghese al neocapitalismo nichilista e globale, dal vecchio liberalismo al nuovo spirito radical. Marx definisce il comunismo: “è il movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”. E’ lo spirito radical del nostro tempo, cancel e correct.

Nell’Ideologia tedesca, Marx dichiara che il fine supremo del comunismo “è la liberazione di ogni singolo individuo” dai limiti e dai legami locali e nazionali, famigliari, religiosi, economici. Non le comunità ma gli individui. Il giovane Marx onora un solo santo e martire nel suo calendario: Prometeo, liberatore dell’umanità. Padre dell’Occidente faustiano e irreligioso, proteso verso la volontà di potenza.

Il giovane Marx auspica nei Manoscritti economico-filosofici l’avvento dell’ateismo pratico. E nella Critica della filosofia del diritto di Hegel scrive: “La religione è il sospiro della creatura oppressa…essa è l’oppio del popolo. Eliminare la religione in quanto illusoria felicità del popolo vuol dire poterne esigere la felicità reale”. Liberandoci da Dio e dalla religione per Marx ci liberemo dall’alienazione e conquisteremo la felicità terrena. La società di oggi, atea ma depressa, irreligiosa ma alienata, smentisce la promessa marxiana di liberazione. L’utopia di una società “libertina”, dove ciascuno svolge la sua attività quando “ne ha voglia”, che abolisce ogni fedeltà e introduce “una comunanza delle donne ufficiale e franca”, fa di Marx un precursore della società permissiva. Il principio ugualitario perde la sua carica profetica e si realizza in negativo come uniformità e negazione dei meriti, delle capacità e delle differenze.

La società capitalistica globale ha realizzato le principali promesse del marxismo, seppur distorcendole: nella globalizzazione ha realizzato l’internazionalismo contro le patrie; nell’uniformità e nell’omologazione standard genera uguaglianza e livellamento universale; nel dominio globale del mercato ha riconosciuto il primato mondiale dell’economia sostenuto da Marx; nell’ateismo pratico e nell’irreligione ha realizzato l’ateismo pratico marxiano e la sua critica alla religione; nel primato dei rapporti materiali, pratici e utilitaristici rispetto ai valori spirituali, morali e tradizionali ha inverato il materialismo marxiano; nella liberazione da ogni legame naturale e da ogni ordine tradizionale ha realizzato l’individualismo libertino di Marx, liberato dai vincoli famigliari e nuziali. E come Marx voleva, ha realizzato il primato dell’azione sul pensiero. Lo spirito del marxismo si realizza in Occidente, facendosi ideologicamente radical, economicamente liberal, geneticamente modificabile.

L’ultima frontiera del marxismo si ritrova nelle porte aperte agli immigrati, dove un nuovo proletariato, sradicato dai paesi d’origine, sostituisce le popolazioni d’occidente, a sua volta sradicate. La lotta di classe cede alla lotta antisessista, antinazionalista e antirazzista. La difesa egualitaria dei proletari cede alla tutela prioritaria delle minoranze dei “diversi”.

Il marxismo vive sotto falso nome ma si muove a suo agio nella società global made in Usa; un marxismo al ketch-up, transgenico. Marx con passaporto americano sembra strizzare l’occhio ai dem di Biden. Noi ci attardiamo da anni a celebrare il suo funerale; ma è un caso di morte apparente. La Verità (21 aprile 2022)

"Bella Ciao ha rotto il ca...", l'analisi tecnica di Rocco Tanica. L'anima di Elio e le Storie tese nonché attore e autore televisivo infrange un tabù: la canzone dei partigiani ormai ha stufato tutti. Sui social è un tripudio: «Hai ragione, è una lagna, come la musica balcanica». Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 06 dicembre 2022

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

Serviva l'autocandidatura a segretario di Elly Schlein, giovane Barbra Streisand del Pd una Seracchiani che ce l'ha fatta, secondo i compagni più ustori- per propalare l'innegabile verità: «Bella e simbolica e tutto quanto; ciò detto, Bella Ciao ha rotto il cazzo». Così, tranchant.

Che non è la dichiarazione di un fascio eversore, bensì lo sfogo comprensibile di Sergio Conforti alias Rocco Tanica, classe '64. Autore e cantautore, corpo e anima degli Elio e le Storie Tese, autore e attore televisivo (grande interpretazione ne La compagna del Cigno su Raiuno) titillatore di nonsense in equilibrio tra Achille Campanile e gli stand up comedians newyorkesi, maestro di una generazione di satirici allegramente militanti alla Zoro, anarcoide di un'anarchia caricata a peyote: Rocco Tanica, dal quel popò di curriculum ha postato su Twitter le immagini del discorso del volto Dem.

DOPO IL PD «Sulle note di Bella ciao, Elly Schlein ha lanciato la sua candidatura alla segreteria del Partito Democratico: "Non siamo qui per una resa dei conti identitaria ma per dare vita a un partito plurale"». E, qualunque cosa ciò significhi, Rocco ha aggiunto la sua larvata critica alla canzone. Ed è stato subito un tripudio di retweet. Tutti a favore dell'esegesi roccotanichesca del testo. Roba fantazziona, tipo da «La corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca» col capufficio cinefilo Guidobaldo Maria Riccardelli in ginocchio sui ceci, nello scroscio di 92 minuti di applausi ininterrotti.

Dopo il post di Tanica, ecco dunque il florilegio dei commenti più disparati: «Un po' come la musica Balcanica, bella e tutto quanto, ma alla lunga rompe i coglioni...». «C'è una versione balcanica di Bella Ciao?». «Dottor Tanica qui bisogna assolutamente comporre il nuovo inno della sinistra».

«Ha ragione maestro, Bella Ciao è proprio una lagna. Non potrebbe scriverlo lei il nuovo anthem in cambio di moltissimi danari ?».

E l'animo artistico di Tanica è già avanti. Prima propone come nuovo inno della sinistra Aborto dei suoi Elio («Aborto aborto batti un colpo se ci sei/Aborto aborto, come andiamo, è tutto occhei?/Obiettori e referendum che follia/ Ma in aborto vince la tua fantasia»).

Ma è, diciamo, poco tarato sui valori Dem. Poi a chi insiste nell'essere più pop e terragno Rocco propone Vogliamo andare avanti del mitico Duo di Piandena, anno 1972: «Vogliamo andare avanti, avanti/ avanti nella democrazia e il mondo socialista è la tua garanzia/ Vogliamo andare avanti.../E torna a minacciare il centurione di ridurre l'Italia una galera, ma è solo il ruggito del piccione, è tramontata la camicia nera». «Ci sarebbe questo, ma non è centrato», si scusa Tanica. E, in effetti, il brano suddetto sarebbe perfetto per l'associazione partigiani o per Fratojanni, ma col Pd non c'entra una beata fava. Tra l'altro, nel post successivo Tanica pubblica le proposte da La Stampa sui nuovi nomi del nuovo Pd; e tra essi spiccano "Padel- Italia rimbalza"della "mozione cura di sé" e "Sushi-In regalo le salse", la mozione asiatica del "partito all you can it", che tra l'altro non è cumulabile con altre offerte. Ricorda molto i vecchi sketch di Corrado Guzzanti /Veltroni sulla "mozione Amedeo Nazzari segretario, ma purtroppo è morto».

Ecco. In questa giostra di surrealtà emerge tutto il carico narrativo dell'ex cantico delle mondine trasformato prima in canto partigiano must del 25 aprile, e poi nella sigla di una fiction spagnola dal successo planetario. Tra l'altro, anche la Casa di carta con Bella ciao non c'entra una fava, però ne escono dei balletti meravigliosi davanti alla cassaforte zecca di Stato imbottita di tritolo. Bella ciao è sempre stata materia infiammabile.

MATERIA INFIAMMABILE Qualche mese, fa Laura Pausini si rifiutò di cantarla in tv per non prendere posizioni politiche. E la sinistra ispano-italiana le cucì addosso una camicia di forza intessuta nell'orbace. Ancora prima, nel 2019, i Marlene Kuntz e Skin fornirono a Riace, in appoggio del rinviato a giudizio Mimmo Lucano, di Bella ciao una versione trascinata e sofferta, quasi intestinale; roba che Dean Martin sembrava un assolo dei Led Zeppelin. Ora, Bella ciao è indubbiamente orecchiabile. E, di valore storico. E pregna di un suo carico simbolico. Però, sentendosi a ogni latitudine non solo ha perso la carica eversiva, ma tende a produrre sensazioni orchitiche che vanno oltre le oltre le aspirazioni degli etnomusicologi e dei partigiani superstiti. Forse ha ragione Tanica. Puoi penetrare le coscienze dei popoli. Ma quando hai rotto il cazzo, «hai rotto il cazzo».

Cantare Bella ciao a Parma (purché senza ideologia). Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.

Caro Aldo, dopo 25 anni di opposizione il Pd è finalmente riuscito a tornare al governo dell’amministrazione comunale di Parma. E come primo atto pubblico il nuovo sindaco è andato a posare una rosa al monumento al Partigiano intonando Bella ciao. Le confesso però che questo gesto, pur di rispetto per chi ha combattuto per la nostra libertà, l’ho trovato impregnato di retorica. Come se si volesse marcare piuttosto un territorio che si è tornati rabbiosamente ad occupare. Alleandosi per di più, pur di raggiungere il risultato, con chi li aveva malamente sconfitti nelle ultime due tornate elettorali. Glielo scrivo nella consapevolezza dei limiti di una destra che non è risultata convincente per i tanti suoi elettori astenutisi ma anche nella constatazione di come la sinistra continui molto a mitizzarsi il passato addosso. Né gli uni né gli altri riuscendo, quindi, davvero a essere politicamente credibili per il futuro che ci attende. Mario Taliani Noceto (Parma)

Caro Mario, Distinguerei. Se a Parma si canta Bella ciao per celebrare la vittoria del centrosinistra e la fine delle altre amministrazioni, si diventa ridicoli. Parma è stata amministrata a lungo da Elvio Ubaldi, un democristiano che ricordava un po’ Guazzaloca, e come Guazzaloca si è spento prematuramente dopo aver molto amato la propria città. Poi, dopo la parentesi di Pietro Vignali — su cui il giudizio definitivo è stato dato dagli elettori che hanno fatto prevalere nettamente il suo avversario —, per dieci anni è stato sindaco Federico Pizzarotti, che dopo aver fatto la faccia feroce sull’inceneritore aveva messo su una giunta di centrosinistra (il nuovo sindaco, Michele Guerra, era il suo assessore alla Cultura). Se invece a Parma si canta Bella ciao per celebrare la Resistenza, come mi pare si sia fatto, non ci vedo nulla di male. È vero che i partigiani non hanno mai cantato quella canzone. Del resto, braccati sulle montagne, non sarebbe stato prudente cantare. Giorgio Bocca ad esempio raccontava di non aver mai intonato Bella ciao, e sperava che nessuno lo facesse ai suoi funerali (non fu esaudito). Questo anche perché Bocca, pur avendo un bellissimo ricordo dei due inverni da partigiano, aveva anche una visione molto seria e molto dura della guerra di liberazione. Va detto, però, che quando da ragazzi sulle Langhe cantavamo Bella ciao, non eravamo neppure sfiorati dall’idea di fare un gesto politico, tanto meno ideologico. Bella ciao non era «una cosa di sinistra». Era un canto di liberazione, quindi di libertà. La guerra era finita da non molto tempo, la memoria era viva, ascoltavamo i ricordi dei nonni. Prima si bruciavano i paesi, si mandavano gli ebrei ad Auschwitz, si fucilavano i partigiani contro il muro del cimitero per fare prima (le vie attorno al cimitero di Alba sono dedicate a ragazzi uccisi a vent’anni); poi i paesi si ricostruivano, nascevano industrie di successo mondiale, si pubblicavano libri come «La tortura di Alba e dell’Albese»; l’autore non era un comunista, era il vescovo. Si fidi, signor Taliani; non solo abbiamo un’idea sbagliata del Duce; abbiamo un’idea sbagliata pure della Resistenza.

Il richiamo della foresta. Augusto Minzolini il 3 Luglio 2022 il 3 Luglio 2022 su Il giornale.

I segnali si moltiplicano. E gli autori o i potenziali leader di un ipotetico nuovo soggetto di sinistra spuntano come funghi

I segnali si moltiplicano. E gli autori o i potenziali leader di un ipotetico nuovo soggetto di sinistra, massimalista, anti-sistema, anzi com'è tradizione anti-tutto, spuntano come funghi. Maurizio Landini mette a disposizione la Cgil come serbatoio per l'esperimento. Michele Santoro la sua popolarità televisiva e il suo bagaglio di esperienze di quarant'anni passati ad aizzare le piazze. In mezzo c'è anche chi dovrebbe portare i voti se li ha ancora, quel Don Chisciotte di Giuseppe Conte, leader dimezzato dei 5stelle, con accanto Marco Travaglio suo novello Sancio Panza che gli sussurra all'orecchio consigli di vita: è lui che dovrebbe accendere la miccia mandando a casa il governo Draghi solo che ha il problema di non poco conto di dover convincere i ministri grillini a lasciare il posto. Mission impossible. E poi, ancora, i tanti che in passato, a vario titolo, hanno fatto parte di quel caravanserraglio dall'ex-sindaco di Napoli De Magistris ad Antonio Ingroia, entrambi ex-magistrati fuori servizio, e l'immancabile Vauro.

È come un richiamo della foresta. L'inflazione vola causa la crisi energetica, le aziende sono in difficoltà, l'economia non tira, il carrello della spesa costa sempre di più e si preannuncia un autunno caldo, bollente come la siccità estiva. E allora l'allegra combriccola, i populisti di oggi che hanno lo stesso dna dei comunisti di ieri, annusa l'aria e pensa che ci siano le condizioni favorevoli per aprire un nuovo ciclo. Pardon per ritornare al passato. In fondo se siamo tornati all'inflazione del 1986 perché non ci dovrebbero essere gli stessi eroi, gli stessi mondi a guidare gli arrabbiati. Il primo successo di Santoro televisivo con la trasmissione Samarcanda è datato 1987, per cui ci siamo. E in fondo il pacifismo degli anni 80 inneggiava a Breznev e all'Unione Sovietica quando sfilava contro gli euromissili come quello del 2022, cinquant'anni dopo, guarda a Putin e alla Russia.

Si può scommettere che anche se cambiano le «crisi» le ricette di questo mondo saranno le stesse di tanti anni fa. Tributi su tributi perché la proprietà privata per loro è un reato. Il punto vero è che alla base della crisi di oggi ci sono proprio i programmi, sarebbe meglio dire gli slogan, di questa agorà che condiziona da sempre la sinistra (all'ultimo evento della Cgil erano presenti tutti, da Fratoianni, passando per Conte, fino a Calenda, tranne Renzi che forse di sinistra non è più). La crisi energetica che ci ha messo alla mercè della Russia è il risultato di un ambientalismo ideologico propugnato nel tempo da Santoro, grillini e compagni, che ci ha paralizzato per decenni. Le politiche del lavoro targate Cgil hanno creato nel nostro Paese una situazione paradossale: ci sono tanti disoccupati, il reddito di cittadinanza, ma anche tante offerte di lavoro che non trovano risposte. Non parliamo poi delle infrastrutture: tra autorizzazioni e regolamenti per realizzare un'opera pubblica ci vogliono tempi biblici. Insomma, la crisi che ci sta arrivando addosso oggi, nasce da politiche che non sono state fatte ieri. Il motivo? Perché i massimalisti che rispondono al richiamo della foresta della crisi, sono gli stessi che hanno bloccato il Paese per anni. Sono quelli che trovano un ruolo, un habitat nelle crisi. Che si cibano delle crisi. Come gli stregoni che ballavano la danza della pioggia a cui però capitava anche di essere travolti dalla tempesta.

Economia pianificata. Le affinità tra Hitler e Stalin sulla proprietà privata e le nazionalizzazioni. Rainer Zitelmann su L'Inkiesta il 2 Luglio 2022.

Nel suo nuovo libro, Rainer Zitelmann analizza il pensiero economico e socio-politico del dittatore tedesco che durante il regime nazista sottolineò quanto disporre dei propri beni non era in alcun modo un affare privato degli industriali. E tollerava la proprietà individuale solo se utilizzata nella cornice di obiettivi stabiliti dallo Stato 

Rispondere alla domanda sulla posizione di Hitler sulla proprietà privata e sulle nazionalizzazioni appare piuttosto semplice. In genere si ritiene che Hitler riconoscesse la proprietà privata dei mezzi di produzione e rifiutasse la nazionalizzazione. Ma fermarsi qui, come si fa di solito, significherebbe essere superficiali, perché questa affermazione è troppo generica e lascia aperte troppe domande. Nel mio nuovo libro Hitler’s National Socialism, analizzo il pensiero economico e socio-politico del dittatore.

In un articolo sul sistema economico del nazionalsocialismo pubblicato nel 1941, l’economista e sociologo Friedrich Pollock (cofondatore dell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte, che in seguito divenne il nucleo della Scuola di Francoforte) sottolineava quanto segue: «Sono d’accordo sul fatto che l’istituto giuridico della proprietà privata sia stato mantenuto e che molti tratti caratteristici del nazionalsocialismo comincino a manifestarsi, sia pure in modo ancora vago, in Paesi non totalitari. Ma questo significa che la funzione della proprietà privata non è cambiata? È vero che l’aumento del potere di pochi gruppi è il risultato più importante del cambiamento avvenuto in Germania? Io credo che sia molto più profondo e che debba essere descritto come la distruzione di tutti i tratti essenziali della proprietà privata, con una sola eccezione. Anche alle imprese più potenti fu negato il diritto di aprire nuove attività in settori in cui si aspettavano maggiori profitti, o di interrompere una linea di produzione quando questa diventava poco redditizia. Questi diritti furono trasferiti in toto ai gruppi al potere. Il compromesso tra i gruppi al potere determinava inizialmente l’estensione e la direzione del processo produttivo. Di fronte a una tale decisione, il titolo di proprietà è impotente, anche quando si basa sul possesso della stragrande maggioranza del capitale sociale, figuriamoci poi quando ne possiede solo una minoranza».

Come sappiamo, il metodo di Hitler raramente consisteva nella radicale eliminazione di un’istituzione o di un’organizzazione. Viceversa, egli continuava a corroderne la sostanza fino a che non rimaneva pressoché nulla della sua funzione o del suo contenuto originari. Solo per amore dell’analogia, dobbiamo osservare che neppure la Costituzione di Weimar venne mai formalmente abrogata: la sua sostanza e il suo intento vennero indeboliti poco a poco e, infine, all’atto pratico eliminati.

Nei discorsi pronunciati agli esordi, Hitler propugnava la nazionalizzazione della terra, ma, in linea di principio, si dichiarava ancora favorevole alla proprietà privata. Come appare evidente dalle note di Otto Wagener, lo scetticismo di Hitler in materia di nazionalizzazione derivava dalle sue convinzioni darwinistico-sociali. Otto Wagener, capo del Dipartimento di Politica Economica della NDSAP (il partito nazista) dal gennaio 1931 al giugno 1932 e che rivestiva il ruolo di consigliere politico di Hitler, riporta che nel 1930 il futuro Führer aveva dichiarato «A questo proposito, mi sembra che l’intero concetto di nazionalizzazione, nella forma che è stata sperimentata e richiesta finora, sia erroneo e sono giunto alla medesima conclusione di Herr Wagener. In qualche modo, dobbiamo applicare a tale questione un processo di selezione. Se vogliamo addivenire ad una soluzione naturale, sana e soddisfacente del problema, [è necessario] un processo di selezione di quei soggetti aventi titolo – e ai quali sia permesso – di vantare pretese e far valere il diritto di proprietà sulle aziende del Paese».

D’altro canto, in numerose occasioni Hitler sottolineò con forza che come disporre dei propri beni non era in alcun modo un affare privato degli industriali. Il 9 ottobre del 1934, ad esempio, egli dichiarò: «Pertanto la ricchezza, in particolare, non solo comporta maggiori possibilità di godimento, ma soprattutto maggiori responsabilità. L’idea che l’uso di una fortuna, non importa quanto grande, sia esclusivamente una questione privata dell’individuo dev’essere corretta, a maggior ragione nello Stato nazional-socialista, giacché, senza il contributo della comunità, nessun individuo sarebbe mai stato in grado di godere di un tale beneficio».

Per Hitler, il mantenimento formale della proprietà privata non era importante. Una volta che lo Stato ha un diritto illimitato di stabilire le decisioni dei proprietari dei mezzi di produzione, l’istituto giuridico formale della proprietà privata non ha più significato. È questo che afferma Pollock quando individua «la distruzione di tutti i tratti essenziali della proprietà privata, con una sola eccezione». Dal momento in cui i proprietari dei mezzi di produzione non possono più decidere liberamente il contenuto, l’occasione e l’entità dei loro investimenti, le caratteristiche essenziali della proprietà privata sono abolite, anche se rimane un a garanzia formale del diritto di proprietà.

Nei suoi colloqui a tavole del 3 settembre 1942 Hitler affermò che la terra era «proprietà nazionale e, in definitiva, concessa agli individui solo in prestito». Hitler riconosce la proprietà privata solo nella misura in cui essa viene utilizzata in accordo con il principio del beneficio comune prima del beneficio privato, il che significa, in concreto, solo nella misura in cui essa viene utilizzata nella cornice di obiettivi stabiliti dallo Stato. Per Hitler, il principio di “beneficio comune prima del beneficio privato” significa che, se risulta necessario per l’interesse collettivo, lo Stato ha sempre il diritto di decidere il modo, l’entità e il momento dell’uso della proprietà privata, mentre l’interesse collettivo, ovviamente, è definito dallo Stato stesso.

Nel maggio 1937 Hitler dichiarò: «Dico all’industria tedesca, ad esempio: “adesso dovete produrre questo e quello”, dopo di che ritorno su questo punto nel Piano Quadriennale. Se l’industria tedesca dovesse replicare “non possiamo farlo”, allora risponderei: “Benissimo, assumerò io il controllo delle vostre officine, ma dev’essere fatto”. Ma se l’industria mi dice “lo faremo”, allora sono ben lieto di non dover assumerne il controllo».

Che queste affermazioni di Hitler non fossero vuote minacce divenne chiaro agli industriali già il 23 luglio 1937, quando Göring annunciò la formazione della “SpA per l’Estrazione Mineraria e Fusione della Ghisa Hermann Göring”. Il processo avviato con le ripetute minacce di Hitler e di Göring condusse infine alla creazione delle Reichswerke [Industrie del Reich] Hermann Göring, che nel 1940 impiegavano 600.000 persone. La fabbrica di Salzgitter sarebbe diventata la più grande d’Europa. In tal modo lo Stato nazional-socialista aveva dimostrato che il più volte proclamato “primato della politica” era una cosa seria e che non avrebbe esitato ad avviare attività e costruire imprese controllate dallo Stato ogniqualvolta l’industria privata avesse opposto resistenza alle direttive statali. In occasione di una conversazione tenuta il 14 febbraio 1942 con Josef Goebbels sul problema dell’aumento della produzione, Hitler ebbe a dire: «…qui dobbiamo procedere rigorosamente, che l’intero processo di produzione debba essere riesaminato e che gli industriali che non vogliono assoggettarsi alle direttive che emaniamo dovranno perdere le loro fabbriche, senza curarci del fatto che ciò possa causare la loro rovina economica».

Il modello di Hitler: Stalin e la sua economia pianificata

I nazional-socialisti intendevano espandere l’economia pianificata anche nel periodo successivo alla guerra, come sappiamo da numerosi commenti di Hitler. Al trascorrere del tempo, l’ammirazione del Führer per il sistema economico sovietico crebbe. «Se Stalin avesse continuato nella sua opera per altri dieci o quindici anni – ebbe a dire Hitler ad un gruppo ristretto di ascoltatori nell’agosto del 1942 – la Russia sovietica sarebbe diventata la nazione più potente sulla terra, per centocinquanta, duecento, trecento anni, tanto è unico questo fenomeno! Che il livello di vita si sia accresciuto, non c’è dubbio. Il popolo non ha patito la fame. Tutto considerato, dobbiamo dire: hanno costruito fabbriche dove due anni fa non c’era nient’altro che villaggi sperduti, fabbriche grandi quanto le Industrie Hermann Göring».

In un’altra occasione, sempre parlando alla cerchia dei collaboratori più stretti, egli affermò che Stalin era «un genio», nei confronti del quale si doveva avere un «rispetto indiscusso», particolarmente in considerazione della vasta pianificazione economica che aveva guidato. Hitler aggiunse di non avere il minimo dubbio che nella Russia sovietica, a differenza dei paesi capitalisti come gli Stati Uniti, non è mai esistita la disoccupazione.

In diverse occasioni il dittatore tedesco osservò in presenza dei propri collaboratori che sarebbe stato necessario nazionalizzare le società per azioni più grandi, il settore dell’energia e tutti gli altri rami dell’economia che producevano “materie prime essenziali” (ad esempio, l’industria siderurgica). Ovviamente, in tempo di guerra non era il momento più opportuno per attuare nazionalizzazioni radicali di questa portata. Hitler e i nazional-socialisti ne erano ben consapevoli e, in ogni caso, avevano fatto tutto il possibile per calmare i timori per le nazionalizzazioni degli uomini d’affari del paese. Ad esempio, nell’ottobre 1942 un memorandum di Heinrich Himmler, il capo delle SS, afferma che «finché dura la guerra» non sarebbe stato possibile un cambiamento fondamentale dell’economia capitalistica tedesca.

Chiunque si fosse battuto contro di essa avrebbe suscitato “una vera e propria caccia alle streghe” ai suoi danni. In un rapporto preparato nel luglio 1944 da un Hauptsturmführer (grado paramilitare equivalente a capitano) delle SS, alla domanda «Perché le SS sono impegnate in attività economiche?» si rispondeva «Questa domanda è stata specificamente sollevata da circoli che pensano esclusivamente nei termini del capitalismo e che non amano assistere allo sviluppo di aziende pubbliche, o quanto meno aventi una natura pubblica. L’epoca del sistema economico liberale imponeva il primato degli affari, vale a dire, prima vengono gli affari, poi lo Stato. Al contrario, il Nazional-Socialismo sostiene la posizione opposta: lo Stato dirige l’economia, lo Stato non è qui per le aziende, ma le aziende sono qui per lo Stato».

Mises: «Socialismo con l’aspetto esteriore del capitalismo»

Era in questi termini che Hitler e il Nazional-Socialismo vedevano l’essenza del sistema economico che avevano instaurato, come avevano ben compreso studiosi attenti come l’economista Ludwig von Mises. Incidentalmente, egli giunse alla medesima conclusione dell’economista di sinistra Friedrich Pollock che abbiamo visto poc’anzi. Il 18 giugno 1942 von Mises inviò una lettera al New York Times nella quale, più chiaramente di tanti dei suoi contemporanei e, soprattutto, più chiaramente di tanti autori che scrivono oggi in materia di nazional-socialismo, egli riconosceva che «il modello di socialismo tedesco (Zwangswirthschaft) è contraddistinto dal fatto di conservare, sia pure solo nominalmente, alcune istituzioni del capitalismo.

Il lavoro, ovviamente, non è più “una merce”; il mercato del lavoro è stato solennemente abolito; lo Stato stabilisce i salari e assegna a ciascun lavoratore il posto che deve occupare. La proprietà privata, in teoria, è stata mantenuta. Di fatto, tuttavia, alcuni imprenditori sono stati ridotti alla condizione di capireparto (Betriebsführer). Lo Stato dice loro cosa devono produrre e in che modo, da chi ottenere forniture e a quali prezzi, così come a chi vendere a quali prezzi.

Le aziende possono presentare rimostranze in occasione di decisioni inopportune, ma la decisione finale rimane nelle mani delle autorità … Gli scambi di mercato e l’imprenditorialità, pertanto, non sono che una facciata. Lo Stato, non la domanda da parte dei consumatori, dirige la produzione; lo Stato, non il mercato, stabilisce il reddito e le spese di ciascun individuo. Si tratta di socialismo con l’apparenza esteriore del capitalismo: pianificazione ovunque e controllo totale di tutte le attività economiche da parte dello Stato. Alcune delle etichette dell’economia capitalistica di mercato sono state conservate, ma esse significano qualcosa di completamente diverso da quello che indicherebbero in un’autentica economia di mercato».

Come sappiamo dalle dichiarazioni di Hitler, una volta terminata la guerra egli si sarebbe voluto spingere ulteriormente verso un’economia diretta dallo Stato. Nei monologhi diretti al circolo dei collaboratori più intimi (le cosiddette “conversazioni a tavola”) e tenuti il 27 e 28 luglio 1941, Hitler affermò che «un impiego sensato delle risorse di un. paese può essere realizzato esclusivamente in un’economia diretta dall’alto». Più o meno due settimane dopo egli aggiunse: «Per quanto riguarda la pianificazione dell’economia, siamo a mala pena agli inizi e immagino che sarà meraviglioso costruire un ordine economico tedesco ed europeo che comprenda tutto».

·                   La morte del Comunismo.

Il libro di Pallone e Di Lazzaro.  Com’è successo che la sinistra ha smesso di essere sinistra: il trionfo dell’anti-politica e il populismo penale di Bonafede. Filippo La Porta su Il Riformista il 4 Dicembre 2022

Finalmente un libro che – in modo sobrio, preciso. Ragionevole – dice qualcosa di sinistra! Ne suggerisco la lettura a tutti quanti siano interessati all’argomento, e poi ai Letta, Conte, Calenda…: Com’è successo, di Paola Di Lazzaro e Giordana Pallone (Fandango). L’incipit è retoricamente molto efficace.

Si chiedono appunto “come è successo che”, e poi aggiungono vari interrogativi, tra cui: com’è successo che “politico” nel sentire comune sia diventato un insulto, che i segretari di partito hanno cominciato ad avere più rilevanza dei programmi politici, che dirsi “né di destra né di sinistra” sia diventato un valore in cui riconoscersi, che il taglio dei parlamentari venga considerato la panacea di tutti i mali, che la sorte di politiche e governi sia decisa con votazioni on line, che si parlasse di taxi del mare per imbarcazioni di fortuna utilizzate dai migranti, che il confronto sia ritenuto un ostacolo e la velocità delle scelte l’orizzonte da perseguire, e soprattutto (almeno per me) che i diritti sociali – ovvero le garanzie che ognuno dovrebbe avere – siano diventati privilegi, appannaggio di pochi (da eliminare non da estendere) e infine la condizione di vulnerabilità una colpa?

Le due autrici, giornaliste con formazioni diverse (una esperta di comunicazione pubblica, l’altra storica e militante nell’associazionismo) decidono di partire dal linguaggio, dalle parole-feticcio di questi anni, dalle espressioni entrate nel lessico politico-mediatico: ribaltoni, inciuci, casta, toghe rosse, quelli con attico a New York, gite in gommone, élite e gufi, fannulloni sul divano…. Ne viene fuori un quadro documentato e fedele della mutazione degli ultimi decenni, e al contempo una commedia umana dai risvolti a volte involontariamente satirici (quasi una autoparodia). Si tratta di una neolingua che semplifica oltremisura la nostra vita pubblica e ne rende impossibile qualsiasi comprensione. Limitiamoci a qualche prelievo, certo parzialissimo, ricordando che spesso dietro le ossessioni si nasconde un bisogno reale, un valore “positivo”, però interamente deformato, stravolto.

La retorica della governabilità porta a svalutare la centralità del parlamento come sede (kelseniana) della sovranità popolare e a far prevalere il governo sull’Assemblea. Mentre il mito della rapidità della decisione conduce al presidenzialismo. A forza di dire “inciucio” si delegittima poi qualsiasi tentativo di intesa politica tra forze contrapposte per cercare regole comuni in occasione di riforme istituzionali. La personalizzazione del sistema politico italiano, da Segni, Berlusconi e Di Pietro alla Bonino, Monti, Tabacci, Calenda… pur nata da una esigenza giusta (la stagione dei sindaci eletti direttamente, il metterci la faccia, etc.) introduce un elemento irrazionale, con il singolo che diventa una figura salvifica. Nel decretare la fine delle ideologie si passa alla primazia delle “scelte concrete” e degli “interessi dei cittadini” come se queste due cose “fossero un unicum indifferenziato volto a favorire crescita e sviluppo”. E non è così, poiché a contare è solo la direzione in cui si orientano le scelte.

L’anomalia di avere avuto Berlusconi, un leader e guida di governo inquisito e condannato, ha sciaguratamente spinto la sinistra (antiberlusconiana) verso un populismo penale che invece si trova all’opposto di qualsiasi sensibilità democratica, naturalmente garantista. Paradigmatico è secondo le autrici il filmato propagandistico del ministro Bonafede “lesivo delle più basilari garanzie costituzionali” quando andò ad assistere al rientro in Italia del terrorista Cesare Battisti in aeroporto, dopo l’arresto a Santa Cruz. A forza di dire che la sicurezza è un bene comune e non va lasciato alla destra, la sinistra ha accettato la retorica dell’invasione dei migranti, puntando su decreti di espulsione (governo Prodi), ordini di allontanamento, sanzioni amministrative contro chi offende il decoro, piuttosto che su politiche sociali più inclusive.

Il mito delle primarie genera l’illusione di una democrazia diretta che sostituisce alla politica come lenta costruzione di comunità, esercizio continuo di partecipazione e senso critico (la democrazia secondo Tocqueville), la partecipazione emotiva attraverso i social, la adesione fideistica al Web, la “sondocrazia”(Rodotà), una politica disintermediaria che è solo umorale. L’attacco alla casta si risolve in una campagna in favore dell’élite, dei tecnici, del “commissario” capace miracolosamente di sbloccare una situazione (dunque: una abdicazione della politica). Mentre il mito – simmetrico – del rispecchiamento (votami perché parlo come te e non perché ne so di più) genera al contrario lo screditamento di ogni competenza.

Va bene i democristiani erano ipocriti ed eccessivamente formali, ma come sappiamo l’ipocrisia è l’omaggio del vizio alla virtù. Da noi è invalsa l’abitudine dell’irrisione becera e della squalifica dell’avversario politico. Ha cominciato Grillo con l’invettiva e la lingua gergale del turpiloquio. Poi da parte della destra si è verificato un abuso di espressioni consunte come “radical chic”, “professoroni” e soprattutto “buonisti” per squalificare la sinistra: dove la critica del buonismo è solo avversione per qualsiasi pratica umanitaria, solidale, inclusiva, e alla fine delegittimazione della bontà stessa. Ma il nucleo forte del ragionamento “di sinistra” delle due autrici riguarda il ridimensionamento dello stato sociale e l’espansione della logica del mercato: è vero, il problema principale resta quello di coniugare efficienza e uguaglianza, però “l’arretramento dello stato nell’assicurare l’universalismo del sistema di sicurezza sociale attraverso una uniforme garanzia dei servizi e delle prestazioni erogate” è esattamente il punto da cui ripartire (universalismo permesso da quella tassazione progressiva che, ahinoi, è rimasta incompiuta).

Anche T. H. Marshall sosteneva che “uno stato democratico non può sottrarsi dal prendersi cura del suo sovrano, e quindi dei suoi cittadini”. Oggi si privatizza tutto, non solo la sanità o gli asili nido ma l’autodifesa attraverso le ronde: “un’altra faccia della rottura dei legami di una comunità solidale, del retrocedere delle istituzioni”. Vi sembra per caso retorico e buonista parlare di “comunità solidale”? Ecco il prendersi cura – da parte dello stato – del suo unico “sovrano” (cioè il popolo e in particolare i poveri, i meno abbienti, gli ultimi) è oggi l’imperativo di ogni sinistra, radicale o moderata, antagonista o riformista, tecnocratica o populista. Però ce ne siamo dimenticati. Com’è successo? Filippo La Porta

Occhi bendati. Il giustizialismo non è solo una piaga ideologica, ma anche linguistica. Maurizio Assalto su L’Inkiesta il 5 Dicembre 2022

Chi è a favore di una giustizia penale spiccia e sommaria viene definito giustizialista. Il termine è stato importato dal justicialismo argentino che però è tutt’altra cosa

L’immagine della giovane donna dagli occhi bendati è la rappresentazione tradizionale della giustizia che non guarda in faccia a nessuno ed è (dovrebbe essere) uguale per tutti. Per tutti, tranne che per la giustizia stessa. Non solo la vediamo troppo spesso tirata di qua e di là nel confronto politico e nelle battaglie in tribunale, a seconda delle convenienze: lo stesso avviene anche nel linguaggio.

C’è il caso del verbo giustiziare, che rimanda a una dimensione estrema della sanzione penale dove il ristabilimento della giustizia coincide con l’eliminazione fisica della persona ingiusta. Ma non sempre l’ingiusto è davvero tale: Sacco e Vanzetti, per citare un caso celebre, erano forse colpevoli? E quindi si può plausibilmente dire che furono giustiziati? O non piuttosto ingiustiziati? Certo, finirono i loro giorni sulla sedia elettrica in seguito a un legittimo procedimento penale che, sia pure attraverso forzature e omissioni, li aveva giudicati colpevoli, e quindi formalmente (e lessicalmente) l’esecuzione della condanna avvenne “secondo giustizia”. Ma quando, come è accaduto e può sempre accadere in qualche regime autoritario, la pena viene eseguita in assenza di un regolare processo, ossia bypassando il momento in cui la giustizia si reifica e viene sancita?

Di quanti desaparecidos argentini, nei vuelos de la muerte pianificati dal regime sanguinario del generale Videla, si usa dire impropriamente – paradossalmente, offensivamente – che sono stati giustiziati? Per tacere dell’uso estensivo del verbo – che anche il vocabolario Treccani qualifica come “erroneo” ma che è comune nel linguaggio giornalistico – come sinonimo di uccidere, assassinare: “commerciante reagisce a una rapina, giustiziato a colpi di pistola da uno dei banditi”. Al verbo giustiziare può essere accostato il sostantivo giustiziere, che è l’esecutore di una condanna capitale, in quanto tale sinonimo di boia, carnefice, ma anche “chi pretende di farsi giustizia da sé, di vendicare torti fatti a sé o ad altri” (vocabolario Zingarelli). Che ne è in questi casi della giustizia, della giovane donna bendata? Forse si tiene gli occhi coperti per non leggere, per non vedere la deriva linguistica che le viene inflitta.

Ma se per avventura le cascasse la benda, potrebbe pensare, a forza di venire tirata di qua e di là, di essere finita dall’altra parte del mondo: in Sud America. Nella sua famiglia lessicale allargata troverebbe infatti due sostantivi che stenterebbe a riconoscere, per ragioni semantiche come pure morfologiche: giustizialismo e giustizialista.

Complice il linguaggio giornalistico – che, se non le ha inventate, a partire almeno dagli anni dell’inchiesta Mani Pulite ne ha canonizzato l’accezione e propagato l’uso – queste due parole sono entrate prepotentemente nel nostro linguaggio. Nel dibattito pubblico l’accusa di giustizialismo è l’arma semanticamente impropria brandita da garantisti più o meno sinceri (generalmente ascrivibili allo schieramento di centro-destra) contro i presunti fautori (generalmente ascrivibili al centro-sinistra) di una giustizia penale spiccia e inflessibile, talora sommaria, poco ponderata, ignara di cautele e distinguo, magari neppure sorretta da prove inconfutabili.

Lasciamo impregiudicata la questione di diritto. Sta di fatto, però, che nella lingua e nel paese da cui la parola è stata importata, lo spagnolo e (di nuovo) l’Argentina, il justicialismo è tutt’altra cosa. Lo ricordava Alessandro Galante Garrone, giurista e storico di antica matrice azionista, in un fondo pubblicato sulla Stampa del 31 dicembre 1996: «Si dimentica un po’ da tutti che questo termine è storicamente nato con riferimento preciso al comportamento e alla figura umana del dittatore argentino Perón e al suo regime piuttosto nefasto e ridicolo, quasi sfiorante l’operetta».

Il generale Juan Domingo Perón, presidente dell’Argentina dal 1946 al ’55 e poi ancora, dopo l’esilio, dal ’73 fino alla morte nel ’74, aveva costruito il suo movimento politico come una terza via tra capitalismo e socialismo, ispirandosi alla “giustizia sociale” delle encicliche papali: giustizialismo è appunto una “parola macedonia”, nata dalla fusione di giustizia e socialismo. Soltanto la consapevolezza di questa origine sincratica rende ragione della desinenza -lismo, che nell’accezione più comune data alla parola in Italia resta morfologicamente inspiegata e inspiegabile; a meno di ricondurla all’infrequente aggettivo giudiziale, detto di “ciò che è relativo alla giustizia” (sistema giudiziale, ordinamento giudiziale), che è però un vocabolo neutro, alieno dalle connotazioni peggiorative-afflittive riversate nel nostro giustizialismo (semmai si potrebbe ipotizzare, per esprimere il concetto, un più esplicito “giustiziarismo” che si riallaccerebbe al verbo cruento di cui sopra).

La protesta filologica di Galante Garrone non ha mai prodotto risultati, nonostante questo “uso disinvolto” del termine in questione sia stato discusso anche in un convegno del 2002 a Milano e l’anno seguente in un saggio del filosofo del diritto Mario G. Losano (“Peronismo e giustizialismo: significati diversi in Italia e in Sudamerica”, in Teoria politica, XIX, 2003). E così questa parola, nella sua accezione impropria, ha proseguito indisturbata la sua marcia inarrestabile ed è oggi registrata in tutti i dizionari, accanto all’accezione propria – sebbene negli ultimi tempi venga pronunciata meno, in concomitanza forse con lo smarrimento di una sinistra così sfiduciata da aver perso pure la tentazione di ricorrere alla via giudiziaria per ribaltare il risultato elettorale.

È inevitabile, sono i parlanti che decretano il significato delle parole, anche contro ogni ragione linguistica. Una parola sbagliata è un po’ come la Coca-Cola, inventata quale medicina contro il mal di testa e diventata invece la bevanda di successo che ben conosciamo; giustizialismo è un termine efficace, ormai accettato e compreso da tutti nel suo significato secondario, più pregnante e anche più appropriato di forcaiolo o manettaro. Alla giovane donna con gli occhi bendati non resta che adeguarsi: tuttalpiù potrà dotarsi di una seconda benda e usarla per coprirsi le orecchie.

Viola Giannoli, Ilaria Venturi per repubblica.it il 9 novembre 2022. 

Il primo messaggio a studenti e studentesse del ministro dell'Istruzione e del Merito Giuseppe Valditara è una lettera sul comunismo, "una grande utopia che si converte in un incubo altrettanto grande". La lettera è arrivata alle scuole stamattina, nell'anniversario della caduta del Muro di Berlino, "Giornata della libertà", per ricordare "l'esito drammaticamente fallimentare" di quella ideologia.  

La polemica delle opposizioni

Nessun cenno, invece, sottolinea il presidente Anpi Gianfranco Pagliarulo, "al fatto che il 9 novembre è anche la giornata mondiale contro il fascismo e l’antisemitismo proclamata dalle Nazioni Unite”. La ricorrenza è rimossa, resta solo la caduta del Muro. Che "se pure non segna la fine del comunismo – al quale continua a richiamarsi ancora oggi, fra gli altri paesi, la Repubblica Popolare Cinese – ne dimostra tuttavia l’esito drammaticamente fallimentare e ne determina l’espulsione dal Vecchio Continente", scrive Valditara.

Attacca anche il Pd: "Alla denominazione 'merito', da oggi bisogna aggiungere "e della propaganda". Come altro definire il ministero dell'Istruzione dopo la lettera fuori luogo inviata da Valditara alle scuole con una lettura strumentale della caduta del Muro di Berlino? Ma perché il ministro non si occupa di scuola?", scrive Simona Malpezzi su Twitter. Per Francesco Sinopoli della Flc Cgil "la lettera di Valditara è da Minculpop" e le "lezioni di storia spettano ai docenti, non certo al ministro". 

La replica del ministro

A Repubblica arriva la replica di Valditara: “Assolutamente nessuna contrapposizione”, spiega. “Ci sono tante giornate e in ciascuna si celebra un evento di particolare rilievo: il 27 gennaio la liberazione del campo concentramento di Auschwitz dal mostro dell’antisemitismo, il 25 aprile la Liberazione dell’Italia dal nazifascismo e il 9 novembre la liberazione dell’Europa dal comunismo – dichiara Valditara - Non vedo il problema, sono figlio di partigiano della Brigata Garibaldi, non accetto lezioni da chi non ha mai rischiato la vita per combattere il nazismo. C’è chi è amico di Israele e chi è amico di Hamas. Io sono amico di Israele”. 

Il testo della lettera

Ma cosa dice la lettera? "Il comunismo - prosegue - è stato uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo, nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale", si legge nella lettera. 

La circolare prosegue spiegando che il comunismo "nasce come una grande utopia, sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l’umanità dai suoi limiti storici e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra". Tuttavia, continua Valditara, "si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte". 

Per il ministro "perché l’utopia si realizzi occorre che un potere assoluto sia esercitato senza alcuna pietà, e che tutto – umanità, giustizia, libertà, verità – sia subordinato all’obiettivo rivoluzionario". E pertanto, si legge sempre nella circolare, "prendono così forma regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare". 

Per questo "il 9 novembre resterà una ricorrenza di primaria importanza per l’Europa: il momento in cui finisce un tragico equivoco nel cui nome, per decenni, il continente è stato diviso e la sua metà orientale soffocata dal dispotismo" e che "questa consapevolezza è ancora più attuale oggi, di fronte al risorgere di aggressive nostalgie dell’impero sovietico e alle nuove minacce per la pace in Europa".

"Il crollo del Muro di Berlino - conclude Valditara - segna il fallimento definitivo dell’utopia rivoluzionaria. E non può che essere, allora, una festa della nostra liberaldemocrazia. Un ordine politico e sociale imperfetto, pieno com’è di contraddizioni, bisognoso ogni giorno di essere reinventato e ricostruito. E tuttavia, l’unico ordine politico e sociale che possa dare ragionevoli garanzie che umanità, giustizia, libertà, verità non siano mai subordinate ad alcun altro scopo, sia esso nobile o ignobile".

Condanna il comunismo. Valditara subito "purgato". Domenico Di Sanzo il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

Circolare del ministro dell'Istruzione per l'anniversario della caduta del Muro. Furia Anpi e Pd: "Minculpop"

A ogni azione del governo di centrodestra corrisponde una reazione sempre uguale della sinistra che urla al fascismo. Qualunque occasione è buona e tutti i giorni ce n'è una. L'ultima riguarda le celebrazioni per la caduta del muro di Berlino, il 9 novembre di trentatrè anni fa. Comincia il premier Giorgia Meloni, che sceglie di ricordare la fine del comunismo con un video condiviso dai canali social di Palazzo Chigi, anche se il tic antifascista scatta con una circolare inviata agli studenti dal ministro dell'Istruzione e del merito Giuseppe Valditara.

Ma partiamo da Meloni, che istituisce «Il Giorno della Libertà». Il crollo del muro «segna il tramonto del comunismo sovietico e con esso dei regimi totalitari che avevano dominato il '900 europeo e che avevano conculcato quei valori e quei diritti fondamentali che sono diventati patrimonio comune delle democrazie occidentali», spiega il presidente del Consiglio. E ancora Meloni: «La legge con cui si è istituito il 'Giorno della libertà' condanna non soltanto i regimi del passato ma anche il rischio di insorgenza di nuove forme di repressione della libertà». Il premier poi parla del popolo ucraino e della sua «lotta per la libertà». Sembra filare tutto liscio, fino a quando l'Anpi e la sinistra non cominciano di nuovo a bisticciare con la storia.

L'opposizione intravede un'opportunità per creare il caos in una circolare firmata da Valditara, titolare dell'Istruzione e del merito. La colpa del ministro? Aver raccontato l'ovvio agli studenti e cioè che «il comunismo voleva il paradiso in terra, ma ha prodotto solo morte e brutalità». Il poco che basta per rinnovare l'accusa di filo-fascismo. «Il comunismo nasce come una grande utopia ma ha preso forma in regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare», scrive Valditara, raffinato professore di diritto romano. Il ministro spiega che il comunismo «ha assunto forme anche profondamente differenti». Ma non è sufficiente per silenziare le sirene anti-fasciste.

Parte l'Anpi. Il presidente dell'Associazione dei partigiani Gianfranco Pagliarulo butta la palla in tribuna: «Nella lettera si rimuove il fatto che il 9 novembre è la giornata mondiale contro il fascismo e l'antisemitismo proclamata dalle Nazioni Unite». Pagliarulo insiste, bolla la lettera come «scorretta», «tendenziosa». Rincula il Pd. «Alla denominazione "merito", da oggi bisogna aggiungere "e della propaganda», twitta Simona Malpezzi, capogruppo dem al Senato. Non può mancare Nicola Fratoianni, deputato dell'alleanza Verdi-Sinistra, che definisce la lettera come «una lezione quanto mai stantia sul comunismo». Arturo Scotto, deputato bersaniano eletto con il Pd, tira in ballo il «Minculpop» di epoca mussoliniana.

Doverosa la replica di Valditara. «Ci sono tante giornate e in ciascuna si celebra un evento di particolare rilievo, il 9 novembre la liberazione dell'Europa dal comunismo». Il ministro reagisce: «Sono figlio di partigiano della Brigata Garibaldi, non accetto lezioni da chi non ha mai rischiato la vita per combattere il nazismo». Valditara ricorda a Pagliarulo i cortei dell'Anpi con i gruppi di manifestanti inneggianti ai terroristi palestinesi di Hamas: «Mi limito ad osservare solamente che c'è chi è un fiero e sincero amico di Israele e chi è amico di Hamas. Io sono amico dello Stato ebraico». Polemica chiusa, forse.

Il Lenin che è in noi. L’incapacità tutta italiana di condannare le ideologie di cui avremmo dovuto liberarci molti anni fa. Alberto De Bernardi su L’Inkiesta l’11 Novembre 2022.

Solo qui antifascismo e anticomunismo sono ancora tabù per una parte della popolazione e della classe politica: destra e sinistra hanno conservato nel proprio pantheon i protagonisti delle dittature totalitarie del Novecento, nonostante tutto

Ieri intorno al comunismo sono avvenuti eventi esemplari che chiariscono meglio di ogni altra presa di posizione il rapporto irrisolto della sinistra con quell’ideologia e con la serie di eventi, che sono scaturiti dalla rivoluzione d’Ottobre fino ad oggi, che ad essa si richiamano.

Cavriago: l’ultimo avamposto del bolscevismo

Partiamo dal meno rilevante, ma per molti aspetti molto significativo. Come pochissimi italiani sanno, nella piazza di Cavriago, un piccolo comune emiliano, è esposto un busto di Lenin che l’ambasciatore dell’Urss in Italia donò alla cittadina forse per ricordare la colletta fatta dai suoi cittadini per sostenere la rivoluzione bolscevica.

Dal 22 novembre, il busto autentico (quello nella piazza e ormai da tempo una copia) verrà esposto in comune e attorno a questa decisione sarà organizzata un serie di iniziative che come dice la sindaca della città sarà finalizzata per una settimana a «un confronto senza pregiudizi e semplificazioni», «che guardi avanti e non indietro» sulla figura di Lenin e sul comunismo proposti come antidoti «all’individualismo imperante e agli egoismi».

L’insieme degli eventi sarà concluso da un convegno appaltato alla rivista Limes che guarderà la storia della Russia in una prospettiva geopolitica dal titolo “Putin e il putinismo in guerra”: insomma da Lenin a Putin.

Senza fare un processo alle intenzioni sugli obbiettivi politici che la proposta sottende (ma che risultano del tutto evidenti solo dai titoli delle diverse iniziative), quel che sorprende è che tra le parole utilizzate per lanciare il programma lanciato da molti siti ufficiali delle diverse istanze istituzionali a livello cittadino e regionale, non ci sia «condanna».

A Cavriago dunque si riflette sul comunismo senza condannarlo; anzi sembra del tutto normale mescolare Lenin e Vladimir Putin quando è in corso una guerra spietata proprio contro l’Ucraina, il paese dove nel 1922 alcuni operai avevano fuso quello stesso busto. Invece di restituirlo a Mosca, proprio per questa ragione, come avevano suggerito alcuni cittadini, quel busto viene un secolo dopo ancora brandito come fondamento inossidabile dell’identità di quella piccola comunità, prima ancora che contro il buon senso e il senso del ridicolo, contro la storia stessa, come se essa si sia fermata all’epoca della guerra fredda nella quale venne esposto nel giardino della città.

Dalla parte giusta della Storia

In compenso immagino che gli ideatori dell’evento si riconoscano in quelli che hanno protestato contro l’ennesima sfilata a Predappio dei nostalgici del fascismo e ritengano esecrabile che Ignazio La Russa tenga a casa sua sulla sua scrivania un busto di Mussolini. Ma così si entra in un cortocircuito ideologico spaventoso per il quale in fascismo è condannabile come crimine della storia e il comunismo no perché stava dalla parte giusta della storia in quel lontano 1917 e nonostante le sue tragiche degenerazioni appartenga ancora al progressismo e rappresenti ancora un’eredità per la sinistra sulla quale riflettere senza pregiudizi.

Ma in realtà è vero invece il contrario: Lenin stava dalla parte sbagliata della storia, come Mussolini, e il comunismo rappresenta una variante del totalitarismo altrettanto spaventosa e sanguinosa del nazismo. Non si può oggi essere antifascisti se non si è anche anticomunisti, con buon pace della sindaca di Cavriago, perché entrambi nascono dallo stesso ceppo ideologico: la palingenesi rivoluzionaria come fine della storia, la violenza come pratica politica, l’ideologia come religione totalitaria che non ammette il dissenso e la liberaldemocrazia e il socialismo riformista con nemici da distruggere.

Il ministro anticomunista

La stessa logica è emersa nei commenti al secondo evento – questo di livello nazionale – che si e verificato ieri: la lettera che il ministro Giuseppe Valditara ha mandato agli studenti per ricordare la caduta del muro di Berlino e il collasso del comunismo.

In essa era espresso un giudizio di condanna inappellabile di quella esperienza storica: una grande utopia che in ogni luogo dove si sia trasformata in un governo effettivo ha comportato non solo la fine della libertà, ma una scia di sangue seconda solo allo sterminio degli Ebrei. «Il comunismo – scrive il ministro – è stato uno dei grandi protagonisti del ventesimo secolo – scrive ancora il ministro – nei diversi tempi e luoghi ha assunto forme anche profondamente differenti, e minimizzarne o banalizzarne l’immenso impatto storico sarebbe un grave errore intellettuale.

Nasce come una grande utopia: il sogno di una rivoluzione radicale che sradichi l’umanità dai suoi limiti storici e la proietti verso un futuro di uguaglianza, libertà, felicità assolute e perfette. Che la proietti, insomma, verso il paradiso in terra.

Ma là dove prevale si converte inevitabilmente in un incubo altrettanto grande: la sua realizzazione concreta comporta ovunque annientamento delle libertà individuali, persecuzioni, povertà, morte. Perché infatti l’utopia si realizzi occorre che un potere assoluto sia esercitato senza alcuna pietà, e che tutto – umanità, giustizia, libertà, verità – sia subordinato all’obiettivo rivoluzionario. Prendono così forma regimi tirannici spietati, capaci di raggiungere vette di violenza e brutalità fra le più alte che il genere umano sia riuscito a toccare. La via verso il paradiso in terra si lastrica di milioni di cadaveri.

Gli Irriducibili alfieri dell’utopia

Di fronte a questa constatazione inconfutabile che comporta dal punto della formazione civile dei cittadini di una nazione democratica una condanna severa come quella del fascismo, e che tra l’altro sintetizza i risultati della ricerca storica mondiale, da più parti del mondo della sinistra è montata una levata di scudi sulla base del principio che siccome in Italia il Pci è stato un grande partito democratico – per fortuna nostra mai messo nelle condizioni di governare – ogni riflessione critica sul comunismo è improponibile, come se le immagini del carcerato Antonio Gramsci, di Luciano Lama e Enrico Berlinguer consentissero di stendere un velo pietoso su Stalin, Breznev, Mao, Castro, Pol Pot, Ceausescu, Honnecker e via elencando.

Scrive infatti il segretario della Cgil Scuola Francesco Sinopoli: «Nessuno, oggi, può e deve sentirsi orfano del Muro di Berlino, ovviamente. Tuttavia, rappresentare la storia del comunismo come male storico radicale, e come caduta dell’utopia della liberazione, ancora minacciosamente presente in Cina, ad esempio, non è un’analisi, è un giudizio, e pure falso. Quell’impatto storico, di cui parla il professor Valditara, non dice nulla sull’esperienza di quei comunisti italiani (e francesi, e tedeschi, per citarne solo alcuni) che hanno liberato l’Europa dal nazifascismo e contribuito a scrivere la nostra Costituzione, o a debellare la mala pianta degli estremismi terroristici che hanno insanguinato la storia recente, o a governare in modo progressivo e moderno lo sviluppo di grandi città. Provengo da un’altra storia politica e culturale, non sono mai stato iscritto al Pci o alla Fgci, ma trovo inaccettabile questa semplificazione della storia del comunismo europeo, che ha avuto tra i suoi artefici personalità come Gramsci, Giuseppe Di Vittorio, Lama, Berlinguer, Pietro Ingrao, Alfredo Reichlin, (e potrei citarne all’infinito), la cui vita resta ancora oggi modello di riferimento per tante generazioni».

Cioè per Sinopoli il muro di Berlino, i milioni di morti nei gulag e negli esperimenti economici dei piani quinquennali, la povertà cui furono costretti i sudditi dell’impero sovietico non sono sufficienti per «rappresentare la storia del comunismo come male storico radicale e come smentita irriducibile dell’utopia della liberazione», perché qui da noi c’erano Ingrao e Berlinguer che sono passati alla storia come dirigenti democratici quanto più si sono allontanati da quei modelli e da quella utopia, seppur avessero evitato di dirlo, sennò avrebbero perso il voto del signor Sinopoli.

L’anti-anticomunismo come critica alla liberaldemocrazia

Mentre viene fatta passare per propaganda la visione del comunismo presentata dal ministro, quella di Sinopoli dovrebbe rappresentare la «libertà del pensiero», una versione della storia scevra da ideologie; rappresenta piuttosto un’ultima thule di chi non riesce a fare i conti con la storia esattamente speculare a quella di quanti continuano a dire che il fascismo «ha fatto anche cose buone» e Mussolini ha fatto rispettare l’Italia nel mondo.

Ma il retroterra ancor più pericoloso del ragionamento di Sinopoli è racchiuso nel commento finale alla lettera del Ministro che invitava gli studenti a tenere in gran conto la democrazia liberale laddove sostiene con spezzo del pericolo che «contrapporre come fa il professor Valditara, il crollo del Muro di Berlino alla vittoria delle sorti magnifiche e progressive della liberaldemocrazia non è altro che l’introduzione nelle nostre scuole di una indicazione e una mistificazione ideologica»: cioè nelle scuole non si deve esaltare la liberaldemocrazia contro i totalitarismo, che costituisce l’esito compiuto della lotta antifascista, perché è mistificatorio, ma si può invece sostenere legittimamente che nel «lampo del ’17» era racchiusa l’utopia della liberazione umana che deve costituire ancora un punto di riferimento per le giovani generazioni.

Ma propaganda di cosa?

Se dunque l’eredità comunista irrisolta aleggia nel pensiero del segretario della Cgil scuola riemerge anche in quello del Presidente dell’Anpi, che attacca il ministro per non aver ricordato il fascismo e l’antisemitismo senza dire nulla però del giudizio sul comunismo. Anche Gianfranco Pagliarulo, crede come Sinopoli, che dire che il comunismo sia stata una tragedia del XX secolo leda la «libertà d’insegnamento» oppure ritiene che fascismo e comunismo vadano condannati allo stesso modo e che lo Stato debba stimolare proprio in un paese come l’Italia il più grande partito comunista che è crollato senza mai averlo condannato, una memoria pubblica antitotalitaria e non solo antifascista? Non lo sapremo mai.

Ma la stessa domanda dovremo rivolgerla anche a Simona Malpezzi, capogruppo del Partito democratico al Senato, che ha accusato il ministro di fare propaganda; ma propaganda di cosa: dell’anticomunismo? Ma condannare il comunismo non ha niente a che vedere con la propaganda, esattamente come condannare il fascismo; altrimenti si diventa uguali a Giorgia Meloni che non condanna il fascismo, mentre la sinistra non condanna il comunismo.

Mentre l’identità repubblicana che Meloni e Malpezzi dovrebbero condividere dovrebbe fondarsi su una condanna unanime di entrambe le dittature totalitarie, invece che tenerle ciascuna nel proprio pantheon ideologico, da cui prendere distanze ambigue e contorte, ma da non rimuovere completamente perché la faccia di Mussolini e di Lenin sono inestricabilmente ancora rappresentative della loro più oscura identità. È qui che riemerge purtroppo come nelle identità politiche dei partiti italiani comunismo e fascismo costituiscano ancora dei macigni che pesano drammaticamente sulle loro visioni del mondo e impediscano all’Italia di uscire definitivamente dal XX secolo.

Gli analfabeti del comunismo. La pletora di antifascisti in assenza di fascismo non riesce a dichiararsi anticomunista neppure a trentatré anni di distanza dalla caduta del Muro. Alessandro Gnocchi il 10 Novembre 2022 su Il Giornale.

La pletora di antifascisti in assenza di fascismo non riesce a dichiararsi anticomunista neppure a trentatré anni di distanza dalla caduta del Muro (9 novembre 1989). Per appartenere alla famiglia liberal-democratica è necessario essere antifascisti e anticomunisti. Il concetto è semplice, infatti si è affermato in tutto il mondo occidentale, tranne in Italia.

Ieri abbiamo assistito a una polemica grottesca contro Giuseppe Valditara, il ministro dell'Istruzione e del Merito, colpevole di aver scritto una lettera agli studenti in cui si dice: la caduta del Muro di Berlino ci ha consegnato un mondo più libero, il comunismo voleva creare il paradiso in terra invece ha fatto milioni di morti. Qualcuno, per ignoranza o in cattiva fede, si sorprende del comunicato, insinuando sia una direttiva da Minculpop. I ministri hanno sempre scritto lettere agli studenti in occasione del ricordo di un evento storico. Basta andare sul sito del ministero, se ne trovano decine: nessuno è mai stato accusato di fare politica. Quindi il problema deve essere proprio il contenuto della lettera. Un'ovvietà per tutti, ma non per i nostalgici che vorrebbero vivere in un eterno dopoguerra. Paradossalmente, la reazione avvalora il messaggio del ministro. In effetti, per avere più libertà, ci sarebbe bisogno di intellettuali consapevoli di quello che dicono.

L'equazione democrazia uguale antifascismo è stata inventata dalla propaganda del Partito comunista italiano. L'altra equazione sbagliata è Resistenza uguale Partito comunista italiano. Molti comunisti erano antifascisti ma non democratici, fedeli alla linea più che all'Italia. Deposero le armi per ordine del Partito. Il segretario Togliatti non fece altro che adeguarsi alla volontà di Stalin. Il tiranno sovietico era impegnato a consolidare il potere sull'Europa orientale e non voleva aprire un nuovo fronte. Nella Resistenza, poi, c'erano anche i cattolici, i militari, i monarchici, i liberali, gli anarchici, gli azionisti. Sulle vittime del comunismo, inutile discutere: le cifre possono essere discordanti ma è impossibile negare sia stato una tragedia.

Ci sono fior di studi su ogni questione, a partire da quelli di Elena Aga Rossi e Victor Zaslavsky sulla puramente strategica «svolta democratica» del Pci. Se ne consiglia la lettura a membri dell'Anpi fuori dal tempo, storici a senso unico, politici analfabeti di ritorno ma anche di andata, ideologi della domenica, laureati all'università della vita, opinionisti esperti di tutto e niente.

I fatti di ieri sono anche una lezione per il centrodestra: la cultura conta. Il centrodestra non ha mai saputo creare un clima favorevole alla libertà. Anche per questo oggi deve difendersi da accuse al limite (superato) dell'idiozia.

Bugie storiche. La sinistra è vera maestra. Giuseppe Valditara, ministro dell'Istruzione e del Merito, due giorni fa, in coincidenza con il 33esimo anniversario della caduta del Muro, ha mandato una lettera agli studenti in cui diceva: il comunismo è stata un'ideologia liberticida e assassina. Alessandro Gnocchi l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

Leggere i giornali di ieri è stata una esperienza divertente, al limite del comico. Riavvolgiamo un attimo il nastro per capirci. Giuseppe Valditara, ministro dell'Istruzione e del Merito, due giorni fa, in coincidenza con il 33esimo anniversario della caduta del Muro, ha mandato una lettera agli studenti in cui diceva: il comunismo è stata un'ideologia sempre liberticida e spesso assassina. Capirai che scandalo, sono fatti ormai noti anche ai sassi ma non ai nostalgici della bandiera rossa, che si sono inalberati. Sui giornali di ieri, per proseguire la polemica, si rimproverava al ministro di raccontare la storia a metà. Il 9 novembre è l'anniversario del Muro ma anche della Notte dei cristalli, selvaggia esplosione di antisemitismo nella Germania nazista. La seconda ricorrenza è riconosciuta dall'Unione europea. Come si è permesso il ministro di ometterla? Nel 2021, il ministero non ha pubblicato alcuna lettera in merito. Nel 2020, il ministero non ha pubblicato alcuna lettera in merito. Nel 2019 e nel 2018... avete già capito. La sinistra non ha avuto niente da dire in questi anni. La polemica è strumentale. Farebbe pena se non scatenasse le risate: la sinistra post comunista accusa qualcuno di manipolare e nascondere la storia. Il Partito comunista italiano è stato maestro in questo campo: ha fatto credere agli italiani che l'antifascismo e la Resistenza fossero sinonimi rispettivamente di democrazia e comunismo; ha protetto e giustificato i criminali gappisti sterminatori di partigiani bianchi; ha cercato di minimizzare la violenza delle foibe e la catastrofe dell'esodo; ha sporcato il pacifismo sfruttandolo in chiave filosovietica e antiamericana; ha taciuto le sanguinarie vendette nel Triangolo rosso; ha sostenuto l'Armata rossa nei giorni di Praga e Budapest; ha promosso la censura di scrittori come Boris Pasternak; ha trasformato la militanza in carrierismo in ogni settore della cultura, dall'intellettuale impegnato a quello impiegato; ha negato di essere finanziato dai sovietici. Gli eredi hanno buttato il comunismo senza fare i conti con il passato e perpetuato le «lacune» storiche... Ora fanno lezione agli altri: giudicate voi con quale autorevolezza.

Il «canto triste» dei giovani di Praga. La protesta in strada e la repressione sovietica. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 15 Novembre 2022

È il 15 novembre 1968: nelle pagine degli Esteri de «La Gazzetta del Mezzogiorno» compare un reportage da Praga di Vito Maurogiovanni, collaboratore del quotidiano. Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici erano entrati nella capitale cecoslovacca e avevano messo fine alla cosiddetta Primavera di Praga.

Le truppe del patto di Varsavia avevano, così, stroncato il tentativo compiuto da Alexander Dubcek di riformare dall’interno il regime comunista. Salito al potere nel gennaio 1968, Dubcek aveva portato avanti un programma di moderate riforme, ma i Russi temevano che il suo esempio di «socialismo moderato» potesse diffondersi nel resto dell’Europa orientale. I carri armati sovietici avevano provocato morti e feriti tra i civili: il primo ministro e gli altri membri del governo erano stati arrestati. Maurogiovanni si trova a Praga il 7 novembre, pochi mesi dopo quelle vicende: quel giorno si celebra il cinquantesimo anniversario della rivoluzione russa e scoppiano gravi incidenti tra i manifestanti. Scrive Maurogiovanni, arrivato in piazza San Venceslao: «Ad un tratto avvertiamo dal fondo della piazza un mormorio che sale sempre più e non ci è difficile scorgere un corteo di dimostranti che avanza lentamente con bandiere e cartelli. Sono giovani operai, studenti, ragazze in minigonna o in lunghi impermeabili, capelloni, apprendisti in tuta: ripetono ritmicamente slogans antirussi ed avanzano compatti, sul lato sinistra della piazza in fila serrate e senza quel pittoresco disordine che caratterizza le dimostrazioni giovanili. Giunti davanti al monumento, i ragazzi si fermano: cessano d’incanto le loro grida e, all’improvviso, echeggia un canto triste. Sono mille e mille bocche che cantano, un inno lento espresso con l’intensità dei cori che si levano sotto le immense navate delle cattedrali gotiche. Il canto copre i rumori della strada, ferma i passanti, rivela nell’anonima colonna dei dimostranti l’esistenza di una grande tensione ideale». Pochi istanti dopo, racconta il cronista, quando il corteo riprende la sua marcia, arrivano i poliziotti armati di manganelli che caricano con impeto la folla che si riversa in tutte le direzioni. Maurogiovanni racconta le terribili violenze contro i manifestanti, di cui è testimone. La sera stessa, dopo una riunione degli studenti di economia e commercio, assiste ad un altro faccia a faccia con i poliziotti: «Senza manganelli, questa volta. In compenso hanno gli idranti che sparano acqua gelida nella fredda notte non appena gli studenti e gli operai si uniscono per gridare ancora la loro protesta, la loro fede in un socialismo più umano». È il «fiero novembre dei giovani di Praga».

"Praga, Stalin e le omissioni del Pci". Dopo le polemiche su Valditara, lo storico analizza le amnesie dei comunisti e dei loro eredi. Matteo Sacchi l’11 Novembre 2022 su Il Giornale.

La memoria delle forze politiche italiane sulla Storia è piuttosto ondivaga. Partiti che non si sono mai ricordati della Kristallnacht (la più nota delle molte aggressioni dei nazisti agli ebrei tedeschi) se ne ricordano di colpo se il ministro Giuseppe Valditara, scrive a proposito di quell'enorme svolta libertaria che è stata la caduta del Muro di Berlino il 9 novembre 1989. Se ne ricordano invocando una sorta di par condicio per cui se si evoca la fine (parziale) di una dittatura si dovrebbe, per forza, evocare anche un evento relativo alla dittatura ideologicamente opposta (anche se sappiamo che nazismo e comunismo non ebbero difficoltà ad essere anche alleati). Abbiamo fatto una chiacchierata sul tema con il professor Roberto Chiarini, storico contemporaneista e Presidente del Centro studi e documentazione sul periodo storico della Repubblica sociale italiana.

Professor Chiarini ma come mai solo ora ci si accorge della Notte dei Cristalli? Esiste un calendario della memoria storica che cambia nel tempo?

«Certamente, l'Italia liberale ha avuto le sue ricorrenze, l'Italia fascista le sue, celebrando a esempio la Marcia su Roma, e poi, a seguire, la Repubblica ha creato le sue come il 25 aprile. Se dobbiamo essere onesti la Notte dei cristalli non ha mai avuto una particolare attenzione in Italia. E del resto, pur essendo un evento tragico, perché porre l'accento più su quella e non sull'incendio del Reichstag, o sul Putsch di Monaco? Mi sembra che la polemica sia pretestuosa e nasca dal fatto che le ambiguità sul crollo del Muro di Berlino siano ancora forti...».

Ecco, quali sono le date o i fatti con cui la sinistra italiana, o più precisamente gli eredi del Pci, non hanno ancora fatto i conti?

«Se guardiamo alla Caduta del muro, proprio allora il partito comunista ha mandato al macero l'ideologia comunista, ma non ha affatto portato avanti un riesame della Storia alla luce di quel cambiamento. Il comunismo in Italia ha dei meriti nell'avvento della democrazia ma si è guardato bene dal prendere in esame i suoi errori o la sua adesione ad un'ideologia completamente sbagliata che invocava continuamente una crisi del capitalismo mai avvenuta».

Qualche esempio?

«L'anno scorso si celebrava la nascita del Partito comunista italiano. C'è stato qualcuno che ha rivalutato le posizioni di Turati che criticò la fuga in avanti verso il bolscevismo. Ma non c'è stata un'analisi seria dell'errore che venne commesso allora rinnegando il riformismo e contribuendo a spingere l'Italia verso l'estremismo che favorì l'ascesa del partito fascista e di Mussolini. E tra le responsabilità di Togliatti ci fu anche quella di rompere poi l'unità delle forze antifasciste, almeno sino a quando daStalin non arrivò l'ordine di fare fronte comune. Tutte questioni finite nel dimenticatoio».

Così anche per il periodo successivo alla Seconda guerra mondiale?

«Continuò come prima l'abbaglio del modello sovietico, basta pensare a tutte le false accuse a Giuseppe Saragat di essere un traditore della classe operaia al soldo dei sindacati americani per la sua scelta convintamente atlantista. Una scelta ovviamente saggia e doverosa in quell'epoca. Togliatti non fece nulla per aiutare il centrosinistra di allora, l'unico che abbia fatto vere riforme sociali nel Paese, anzi lo boicottò. E ancora più drammatico fu l'incrocio con il socialismo di Craxi. A cui fu negato anche dopo la caduta del Muro il merito di aver sepolto per primo l'armamentario ideologico marxista.Craxi arrivò a teorizzare in Italia quello che i socialisti tedeschi avevano già messo in pratica dagli anni Cinquanta. Il Pci ci è arrivato solo, e costretto, dopo il 1989 e anche così anche nei cambi di nome del partito si sono guardati bene dall'usare la parola socialismo, e questo non è un caso, è stato un modo di non fare i conti con la storia».

E poi ci sono le questioni relative alle scelte di campo internazionali. Come il caso dell'Ungheria e poi dell'occupazione sovietica della Cecoslovacchia...

«L'Ungheria nel 1956 è un caso emblematico. Persino Napolitano arrivò a giustificare l'invasione e tutti gli intellettuali che si ribellarono a questo appiattimento su Mosca vennero cacciati dal partito. Nel caso di Praga, nel 1968, Berlinguer fu più coraggioso, ma nemmeno in quel caso si arrivò a liberarsi dall'idea completamente anacronistica del crollo del capitalismo e a fare i conti col passato. E il problema è ancora lì in buona parte».

Cortina di ferro, addio! Tedeschi liberi di correre a ovest. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 10 Novembre 2022.

È il 10 novembre 1989. La notizia in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» è sensazionale: «Si è aperto il Muro». Così scrive Mario Barbi, corrispondente da Bonn: «Ha avuto l’effetto di una bomba la notizia data dal responsabile dell’informazione del Pc Schabowski: la Germania Est ha aperto le frontiere con la Germania Ovest».

La sera prima, il 9 novembre 1989, il portavoce della Repubblica democratica tedesca, illustrando la nuova legge sui viaggi all’estero appena approvata dal Consiglio dei Ministri, ha sorpreso i giornalisti annunciando che, in base alle nuove disposizioni, tutti i cittadini della Germania orientale avrebbero potuto ottenere in tempi brevi il permesso per espatriare. L’autorizzazione sarebbe stata valida anche per passare da Berlino est a Berlino ovest: a dividerle c’era il Muro, costruito a partire dall’agosto 1961 per bloccare l’esodo di decine di migliaia di tedesco-orientali verso l’occidente. Un giornalista chiede la data di entrata in vigore del provvedimento: la risposta di Schabowski lascia tutti sbigottiti: «Da adesso». La notizia corre: migliaia di berlinesi dell’Est scendono per strada e si avviano verso la frontiera con Berlino ovest. Le guardie di confine non hanno ancora ricevuto ordini precisi: le barriere, alla fine, si aprono.

In ventotto anni più di un centinaio di persone hanno perso la vita nel tentativo di attraversare quel confine: adesso, per la prima volta, i berlinesi dell’Est possono recarsi liberamente dall’altra parte del Muro. È il crollo della Cortina di ferro. «Tutti i tedeschi orientali potranno così liberamente andare all’estero, senza più bisogno di permessi e di visti. Lo storico annuncio ha in pratica abbattuto il Muro di Berlino e mette fine alle fughe attraverso la Cecoslovacchia e la Polonia. Accanto a questa decisione c’è da registrare la promessa di Krenz di indire subito libere elezioni. Accontentati anche i più accesi sostenitori delle riforme che chiedevano un congresso straordinario del Pc: a dicembre si svolgerà una conferenza di partito. L’abbattimento delle frontiere ha avuto larga eco anche in Germania Ovest: appena il cancelliere Kohl tornerà da Varsavia deciderà per un vertice con Krenz. In Polonia il cancelliere ha incontrato il premier Mazowiecki e Lech Walesa, domenica visiterà il lager di Auschwitz».

Enrico Jacchia così commenta in prima pagina: «Abbiamo chiesto per decenni l’abbattimento del muro di Berlino e adesso che lo stanno buttando giù per davvero lo fanno così in fretta che non riusciamo ad immaginare tutte le conseguenze». Le conseguenze, in effetti, saranno sorprendenti. Trentatré anni fa cambiava per sempre la storia dell’Europa.

A Berlino continua la festa della Libertà. Krenz (Ddr): «Ora elezioni democratiche». Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno l’11 Novembre 2022

«Berlino scoppia di gioia: un’irrefrenabile marea di gente attraversa le frontiere»: l’11 novembre 1989 «La Gazzetta del Mezzogiorno» continua a raccontare i momenti epocali che le due Germanie e l’Europa intera stanno vivendo. Due giorni prima, il 9 novembre 1989, è iniziato il crollo del Muro, la fine della Cortina di ferro.

«Il muro di Berlino ha cominciato, ieri, ad essere materialmente demolito. Nuovi varchi si aprono. I berlinesi dell’Ovest hanno accolto con spumante e lacrime agli occhi i loro fratelli dell’Est che, come una marea irrefrenabile, superavano la frontiera». La grande festa ha fatto passare in secondo piano un altro storico annuncio fatto da Egon Krenz: il presidente del Consiglio di Stato della Repubblica Democratica Tedesca qualche ora prima aveva, infatti, promesso elezioni libere nel Paese socialista. Il cancelliere tedesco Kohl, in viaggio a Varsavia per incontrare Lech Walesa, leader del sindacato indipendente Solidarność, è rientrato subito a Bonn.

Da mesi il regime comunista della Germania est viveva una profonda crisi: l’ultima manifestazione popolare – che aveva visto scendere in piazza a chiedere riforme e democrazia più di un milione di tedeschi dell’Est – si era svolta solo una settimana prima della caduta del Muro. L’anziano segretario del Partito comunista era stato costretto alle dimissioni. «Spalancate le porte del Muro, i berlinesi si sono riabbracciati dopo 28 anni alla porta di Brandeburgo», si legge sulla «Gazzetta».

«È stata una grandiosa festa di popolo. I “Vopos” li hanno lasciati passare tutti, senza visto, con la sola carta d’identità, rinunciando a controlli che l’intenconibile euforia aveva reso impossibili. Nella notte illuminata dalle luci livide delle torrette di controllo (l’altroieri ancora minacciose) e dai riflettori delle televisioni di tutto il mondo, i berlinesi dell’ovest hanno dato il benvenuto ai fratelli dell’Est con lo spumante e le lacrime agli occhi». I “Vopos”, cioè i membri della Volkspolizei, la polizia popolare della Repubblica democratica tedesca, rinunciano a trattenere la folla che scavalca indisturbata gli sbarramenti di filo spinato e si arrampica sul muro.

«A cavalcioni di questo simbolo ormai obsoleto, tra il giubilo generale, due anonimi muratori si sono dati da fare con martello e scalpello per togliere la prima pietra dal Muro della Vergogna. Colonne di Trabant, le anacronistiche utilitarie della Rdt, si sono formate nella notte anche ai valichi di frontiera tra le due Germanie». Irriverente la vignetta di Pillinini: «È saltato il muro» dice un uomo col giornale in mano. «Dopo una tale esplosione di fughe!», risponde l’altro.

"Misogini", "Sessisti", "Lunari". Le donne di sinistra all'attacco del Pd. Dopo l’arrivo di Giorgia Meloni a Palazzo Chigi, le donne di sinistra fanno il controcanto al Pd: "La verità è che c’è troppa misoginia nel campo della sinistra". Elena Barlozzari e Alessandra Benignetti su Il Giornale il 6 Novembre 2022.

C’è chi la accusa di vestirsi "da maschio", chi di stare "un passo indietro agli uomini", chi di avere un approccio ideologico per aver scelto di farsi chiamare "il presidente". La verità è che la sinistra fatica a gioire per una donna che rompe il soffitto di cristallo dopo anni di lotte femministe se quella donna risponde al nome di Giorgia Meloni. E allora va bene tutto pur di vendicare la lesa maestà e ogni cosa diventa pretesto per raccontare la nuova presidente del Consiglio come una specie di illusione ottica del patriarcato. Non sono argomenti politici, si parla di estetica e di linguaggio, si rimane sul pelo dell’acqua. Non tutte ovviamente si riconoscono in questo modo di confrontarsi con l’avversario. È questione di merito e metodo, ma anche di onestà intellettuale, visto che al di là dei proclami la questione femminile riguarda tutti, nessuno escluso.

Il controcanto arriva da donne che militano in ambienti non proprio affini (per usare un eufemismo) a quelli da cui proviene la Meloni. "Vorrei chiedere al Pd come ha potuto consentire con le sue politiche che la destra salisse al governo", tuona Maria Vittoria Molinari, sindacalista di Asia-Usb e presenza fissa ai picchetti anti-sfratto. Secondo lei i dem stanno portando avanti battaglie "lunari", scollegate dalla realtà delle tante donne che non ce la fanno ad arrivare a fine mese o a crescere i propri figli. "Vi posso assicurare che nelle periferie il tema dell’articolo maschile o femminile non viene proprio preso in considerazione". La Molinari snocciola le vere priorità: "La nuova premier aumenterà i salari? Abbasserà l’età pensionabile? Eliminerà i contratti di lavoro che rendono donne e uomini schiavi di un sistema ingiusto? Questo è ciò che conta". Da militante dell’estrema sinistra non si rivede affatto nelle idee della Meloni. Non le piace, non la rappresenta e non si fida: "Troppo atlantista, troppo filoamericana ed europeista, la sua presenza non ci tranquillizza".

Jasmine Cristallo, ex portavoce delle Sardine, attivista politica e femminista, della nuova premier dice: "La sua è una storia di militanza importate. È riuscita a trasformare un partito di nicchia in un partito di governo, quindi a lei il merito di aver fatto questo miracolo". Da qui a festeggiare per l’approdo a Palazzo Chigi ce ne passa: "Non basta essere donna per incarnare le istanze del femminismo". E non basta neppure avere la tessera del Pd in tasca. La Cristallo lo denuncia senza mezzi termini: "La sinistra non ha mai saputo esprimere una leadership femminile, anche quando ce n’era la possibilità, perché nei partiti come il Pd c’è una fortissima misoginia che porta ad un utilizzo strumentale delle donne: dovrebbero smetterla di usarle come bandierine e di parlare di questione femminile senza agire in modo coerente". Verrà il tempo del congresso. La speranza che si possa aprire un dibattito serio sulle pari opportunità, e non si risolva tutto in mero conteggio delle tessere elettorali, è l’ultima a morire. "Sono stata personalmente testimone di atteggiamenti maschilisti, sessisti e misogini nel campo della sinistra. È un problema sistemico con il quale il Pd deve assolutamente fare i conti".

Triste, solitario y final. L’educata rassegnazione della base dem verso la decomposizione del Pd. Carmine Fotia su L’Inkiesta il 24 ottobre 2022.

A Radio Immagina, l’emittente web del Partito democratico, si alternano le voci degli iscritti nelle sezioni che provano a capire come reagire a una storica sconfitta: fare subito il congresso, eliminare le correnti, tenere la sezioni in assemblea permanente

Esattamente quarant’anni fa, correva l’anno 1982, nel Partito comunista italiano guidato da Enrico Berlinguer si aprì una lunga discussione, una sorta di psicodramma di massa, per la sconfitta subita nelle elezioni amministrative a Castellammare di Stabia, in Campania, considerata la Stalingrado del sud; quasi dieci anni dopo, nell’89/91, il passaggio dal Pci al Pds costò un calvario ad Achille Occhetto (cui tutti quelli che sono venuti dopo dovrebbero rendere omaggio par averli salvati dal crollo del comunismo e invece l’hanno rapidamente rimosso dal Pantheon del Partito democratico, come facevano i comunisti sovietici con i leader caduti in disgrazia); nel 1993, in piena tangentopoli, Italia Radio, la radio del partito (che allora io dirigevo) fu sommersa da fiumi di telefonate accorate e disperate dopo l’arresto di Primo Greganti e, mentre gli altri leader si facevano negare, a un certo punto intervenne Massimo D’Alema per rassicurare la base. 

Per capire cosa succede oggi nella base del più grande partito della sinistra italiana, abbiamo deciso dunque di consultare uno dei pochi luoghi dove si discute fuori dalla cerchia degli oligarchi che decidono le sorti del Pd nell’infinito caminetto tra dirigenti che hanno fatto tutto e governato per dieci anni senza mai vincere un’elezione. Questo luogo è Radio Immagina, l’emittente web del Pd: «Negli ultimi giorni abbiamo superato i 50 messaggi quotidiani e sono in continua crescita», mi spiega Andrea Bianchi che ne è il direttore e che aggiunge di ritenere «prezioso avere a disposizione uno strumento come Radio Immagina per accompagnare il percorso costituente che porterà al congresso in primavera. In fondo la radio è nata proprio per contribuire, nel suo piccolo, ad allargare il perimetro e le interlocuzioni del Pd». Sentiamole, allora, queste “voci di dentro”. 

«Se si vuol salvare il partito ci vuole ricambio, dovete tirare fuori il carattere e chiedere a chi ha fallito di farsi da parte», chiede Tiziano da Campogalliano, in Molise, ma «Il ricambio generazionale senza il merito non consentirà il rilancio del partito. Il notabilato sta già reclutando proprio nel settore giovanile, per garantirsi lo status quo», denuncia Daniela, segretaria del Circolo PD di Merano, in Veneto. «Le correnti sono un problema reale per il rilancio del Partito. Sciogliamole! Sono luoghi di potere. Questo correntismo per occupare posti di potere penso sia anche alla base del cosiddetto governismo del PD, cioè ambire più a stare al governo che non ottenere cambiamenti tramite il governo. Questo i cittadini lo percepiscono. Quindi le correnti soffocano e ingessano il Partito dentro e lo squalificano fuori. Sciogliamo le correnti e affrontiamo un Congresso aperto con selezioni che partono dal basso, dai circoli» è l’analisi spietata di Diego, da Zola Predosa, in provincia di Bologna

«Ma esisterà ancora il PD? Di questo passo ho molti dubbi, continuiamo a non imparare niente, un dramma! È possibile sapere la data del congresso? Non si può stare sei mesi con un segretario dimissionario, la rivoluzione nel PD la deve fare una nuova classe dirigente, altrimenti non ci resta che votare Conte», dice sconsolato Raffaele, da Napoli

«Bisognerebbe tenere le sezioni in assemblea permanente a parlare degli enormi problemi del paese invece di programmare il congresso tra 6 mesi», racconta Massimo, da Agrigento, «Tenere aperti i circoli sta diventando sempre più difficile!» esclama Enrico, da Lugo, in provincia di Ravenna, «Poche donne nel Pd. Basta ruoli ancillari. Basta correnti fatte da soli uomini. O si cambia registro o si cambia e si fa altro», mette il dito sulla piaga, Daniela da Bergamo

«Sono il segretario del circolo del PD di Monte Sant’Angelo, dove il nostro partito ha vinto le amministrative di giugno e le politiche di settembre. Il PD qui ha avuto da solo il 49% dei voti e il centrosinistra il 52%. Quindi questo dimostra che la coalizione era un contenitore vuoto. Non ritenete opportuno farla finita con il gioco delle correnti interne? Per altro, molti capicorrente hanno pochi voti, lo dimostra il fatto che nessuno si è candidato nei collegi uninominali» dice Pasquale.

Dinnanzi a una storica sconfitta politica (sconfitta politica più che numerica) che porta al primo governo repubblicano guidato dalla destra e alla prima donna presidente del consiglio ci si aspetterebbero urla, pianti, tessere stracciate, sedi occupate, dirigenti cacciati a furor di popolo, fosse solo per il fatto che dopo anni di femminismo e quote rosa, è la destra a incarnare una leadership femminile vincente – bastava guardare l’espressione di Silvio e Matteo mentre Giorgia dichiarava. 

E invece di fronte a quella che, come ha osservato Giuliano Ferrara sul Foglio, sembra una «rivoluzione senza pathos», anche la reazione del principale sconfitto appare fredda, tutta cerebrale. Almeno, questa è la sensazione che abbiamo ricavato leggendo i messaggi «Più che mancanza di passione a me sembra che quei messaggi chiedano di rispondere alla domanda cruciale: chi siamo, con quale profilo, con quale identità, con quale riconoscibilità», replica Bianchi.

Sarà come dice Bianchi, sarà che la base del Pd è educata e questa non è certo una colpa. Tuttavia, proprio per aver attraversato e raccontato le grandi e appassionanti discussioni del passato, questa assenza di pathos – se è comprensibile in una destra che deve smussare i suoi angoli per farsi accettare –  nel Pd mi appare come una rassegnazione, la sensazione che davvero si sia al termine di un viaggio triste, solitario y final, come riassume Tony, da Mottola, in provincia di Taranto: «Caro PD penso che sia il momento di cambiare tutto e darlo in mano a una nuova generazione, se non si fa questo penso che siamo destinati a scomparire».

Triste, solitario y final. 2I dirigenti del Pd sono generali sulla collina mentre la battaglia infuria in pianura. Carmine Fotia su L’Inkiesta il 31 ottobre 2022.

Nei quartieri popolari della Capitale ci sono alcuni militanti che cercano di fare politica dal basso, andando strada per strada, casa per casa, radicandosi nel territorio e ascoltando le esigenze dei cittadini. Non sono così i vertici del Partito

«Il gruppo dirigente del Pd? Generali che stanno sulla collina mentre la battaglia infuria giù in pianura». Roberto Morassut, unico deputato eletto nei collegi uninominali di Roma, ricorre a Francesco De Gregori, il cantautore nel cuore della sinistra romantica romana, per il suo sferzante giudizio sul Partito democratico e il suo gruppo dirigente. Eh sì, perché non solo correva senza il comodo paracadute del proporzionale, ma quel collegio in cui ha vinto – il quarto, che comprende i quartieri del quadrante sud come Cinecittà, una delle zone più densamente popolate d’Europa, abitata dal mitico popolo che il Pd ha smarrito, una di quelle periferie dove i dirigenti dem sono solitamente sconosciuti – ha dovuto conquistarlo con le unghie e con i denti perché il gioco delle correnti l’aveva assegnato a un altro candidato completamente estraneo al territorio che invece Morassut, assessore nelle giunte Veltroni e parlamentare di lungo corso, che qui è nato e vive, conosce palmo a palmo. 

È uno dei tanti paradossi di un partito nel quale i dirigenti si blindano nei listini e si spartiscono i collegi senza alcuna apparente logica che non sia il bilancino delle correnti, un partito come quello romano dove la discussione interna assomiglia a quelle risse da osteria che si risolvevano con la lama della «santa smacola», magnificamente raccontate nei film di Sergio Corbucci e Gigi Magni, (ricordate il «Te devi inginocchià» pronunciato dall’ex-capo di gabinetto di Nicola Zingaretti contro un avversario interno?); un partito che adotta modi plebei senza essere popolare, che governa la regione da dieci anni, che ha riconquistato il comune, che ha espresso un segretario nazionale il quale, dopo aver nominato Giuseppe Conte «leader fortissimo dei progressisti» e averlo difeso fino al grottesco tentativo del Conte Ter con i Ciampolillo, ha lasciato senza guida un partito del quale ha detto di «vergognarsi», ecco questo partito che ha perso tutti i collegi tranne uno fa diventare l’unico eletto una mosca bianca.

«La nostra ricetta è semplice, anche se non voglio dare lezioni a nessuno – dice Andrea Raco, segretario del circolo Cinecittà-Morena – una campagna elettorale all’antica, per strada, casa per casa, e un candidato radicato». Spiega Morassut: «Sono un deputato di collegio all’inglese: vivo qui, ci sono sempre tornato dopo essere stato eletto, ho mantenuto un rapporto costante con il popolo, la gente mi riconosce e mi vuol bene perché io mi occupo di loro anche dopo il voto». Domando perché una cosa che in un partito di sinistra dovrebbe essere la regola sia invece l’eccezione. 

«La nostra classe dirigente si rifugia negli apparati correntizi, per essere tutelata si rivolge verso l’alto e non verso il basso». Il giudizio del deputato dem sul futuro del partito è severo: «Abbiamo di fronte un cartello su cui sta scritto ‘Strada senza uscita’, il ciclo cominciato nel 2007 è finito, il Pd è diventato una caricatura dei vecchi partiti di provenienza, lo dico dal 2016, quando lanciai l’dea purtroppo inascoltata di una costituente del Movimento dei democratici. Le stesse primarie, la costituente, disegnano un percorso puramente meccanico se non si affronta il tema della collocazione dei Democratici nella società italiana».

Da un quadrante di Roma all’altro, siamo alla Garbatella, Municipio popolare governato dal centro sinistra con Amedeo Ciaccheri, ma anche il luogo dove è cresciuta Giorgia Meloni, incautamente accusata da una (per altro bravissima) deputata del Pd come Lia Quartapelle di essere rimasta «una ragazza della Garbatella» e di non avere dunque la statura «da presidente del Consiglio». È qui che incontro Antonella Melito, 36 anni, consigliera comunale del Pd, di estrazione popolare, giovane, caparbia, capace. Lei è partita da basso, il circolo, poi il municipio, ora il Campidoglio. «Meglio più ragazze della Garbatella e meno ragazze cresciute nei salotti che hanno perso il contatto con la realtà. Non lo dico riguardo a Lia Quartapelle, lo dico come concetto in generale. Se una ragazza che viene da un quartiere popolare, che scala dal basso la leadership fino ad arrivare a essere la prima presidente del Consiglio donna, è la leader della destra, dovremmo porci qualche domanda sul nostro modo di essere. Quella di Giorgia Meloni è una storia antropologicamente di sinistra ma collocata a destra. Come mai una parte della società che noi dovremmo rappresentare si riconosce in lei?». 

Il futuro del Pd lo vede in un doppio ossimoro: «Entrare fuori, ovvero andare a fare politica fuori dalle istituzioni e dal partito, amalgamarsi con il popolo. Per esempio, siccome nel quartiere dove vivo io, lontano dal centro del Municipio, non c’è un circolo del Pd, per discutere dopo il voto ci siamo riuniti in un bar. E poi, uscire dentro, cioè azzerare le correnti non come contributo di idee ma come pure filiere di potere, esaltando invece la libertà del singolo di contribuire con le sue idee senza calcolare le sue convenienze in termini di potere, smettendola di guardare il nostro ombelico».

Il prossimo 11 novembre, Antonella Melito presenterà a Roma l’ultimo libro di Goffredo Bettini, «A sinistra. Da capo», con Giuseppe Conte e Andrea Orlando. Un evento che viene interpretata come la nascita della corrente «filocontiana» del Pd. Definizione che la giovane consigliera respinge: «È anche a questo che mi riferisco quando dico che occorre uscire da certe logiche. Non è la nascita di una corrente, ma una discussione su cosa deve essere la sinistra, sulla base delle idee di un dirigente che le ha sempre espresse liberamente. Non si tratta di fare una sommatoria ma se oggi vogliamo parlare di sinistra dialogare anche con Conte è necessario. Qui nel Lazio, senza un’alleanza larga consegneremo la regione alla destra. E la responsabilità sarà di chi proporrà candidature solitarie».

Triste, solitario y final. La crisi esistenziale della sinistra meridionale. Carmine Fotia su L’Inkiesta il 7 Novembre 2022.

Il Partito democratico si è dimenticato delle regioni del Sud calando dall’alto dei candidati estranei ai territori o appaltando la gestione del potere a politici locali che si comportano come notabili ottocenteschi

Dal Sud, dove il Partito democratico è stato surclassato dal Movimento 5 stelle, arriva un drammatico j’accuse: «Un isolamento come questo nella nostra storia non c’è mai stato. Un conto era un Partito comunista italiano isolato al 34% un conto è oggi. Isolato al 20%, senza leadership morali, dominato dai padrinati locali come la peggiore Democrazia cristiana, ma senza la sua capacità espansiva. Si sta sgretolando un mondo senza che vi siano opzioni alternative, senza un gruppo dirigente in grado di cogliere queste sfide». Vista da Napoli, con gli occhi di Isaia Sales – saggista, storico dirigente del Pci, poi dei Ds, consigliere economico di Antonio Bassolino e sottosegretario al tesoro con Prodi – la crisi del Pd sembra irreversibile.

Quella che a livello nazionale è una sconfitta politica nel sud è una vera e propria catastrofe esistenziale.

Del resto, perdere tutti i collegi uninominali, pur governando regione e comune, lasciare il passo al M5S, è un disastro totale: «Il risultato del voto è inequivocabile, chiaro, esplicito. Il Pd in Campania è al 15,6 5, surclassato dai cinquestelle. L’Italia è divisa e il disagio sociale si colloca soprattutto al sud. Quel voto dice: abbiamo ricevuto un segnale di attenzione a questo disagio con il reddito di cittadinanza e temiamo che possa scomparire. Se il Pd non rappresenta la sinistra c’è qualcun altro che lo farà. Per fortuna, dico io. Ci sono delle esigenze che vanno rappresentate. Il fatto che le rappresenti qualcun altro dimostra che c’è uno spazio che il Pd, con la sua storia, avrebbe tutti i titoli per rappresentare Gli elettori del M5S sono parte del nostro mondo, non sono nemici da trattare con atteggiamento cinico e invece il Pd è diventato il partito delle élite contro cui si dirige la rivolta. Anche nel 1968 il Pci era al centro dell’attacco del movimento, ma poi si aprì a quella rivolta e tenne quella spinta dentro la cornice della sinistra».

L’altro tarlo che divora il Pd è il modo di esercitare il potere. Due governatori vincono a man bassa le elezioni regionali, me nelle loro regioni il Pd alle politiche si schianta. Michele Emiliano in Puglia ha dichiarato: «Chiediamo all’elettorato di scegliere collegio per collegio quello che ritengono con più possibilità non importa se al Pd o ai cinquestelle». Dal momento che nessun dirigente del M5S ha fatto dichiarazioni analoghe, si tratta di un disarmo unilaterale, un esplicito invito a votare per un partito che è un avversario elettorale. Vincenzo De Luca a Napoli si è risposto da solo: «Perché votare il Pd? È un partito di anime morte. Autentiche nullità, imbecilli che vengono a rompere le scatole a noi che lavoriamo». Con queste premesse poste dai due più popolari leader del Pd in quelle due regioni, c’è da stupirsi che i dem non siano scesi sotto la doppia cifra.

Ma anche per questo c’è tempo, visto quel che è accaduto dopo le elezioni. In Campania il governatore vuole modificare la legge elettorale per consentirgli di correre per il terzo mandato consecutivo, mentre il figlio Piero è diventato vicepresidente dei deputati dem: «Ti chiediamo: come pensi di sostenere le ragioni del sud e al tempo stesso tollerare questa deriva regional-sovranista, clientelare, familistica, affaristica?» ha scritto a Enrico Letta un gruppo di intellettuali napoletani. «Risalendo indietro fino alle più remote formazioni politiche, noi troviamo dappertutto anche la regia personale del signore: attraverso uomini che dipendono direttamente dalla sua persona — schiavi, funzionari domestici, servitori, ‘favoriti’ personali e beneficiari remunerati in natura o in denaro dalle sue casse private — egli cerca di mantenere l’amministrazione nelle proprie mani», queste parole di Max Weber nella famosa conferenza “La politica come professione” tenuta a Monaco nel 1919, sembrano risuonare nella spietata diagnosi di Sales: «La famiglia De Luca va considerata azionista di maggioranza del Pd, gode di alta considerazione da parte del segretario e del gruppo dirigente nazionale, hanno legittimato delle satrapie e le chiamano buon governo del sud. Un ritorno alle modalità di fine Ottocento basate sul notabilato, sul familismo, sul trasformismo».

Cerco di capire meglio chiedendo lumi a Gennaro Acampora, capogruppo del Pd al comune di Napoli: «Negli ultimi anni il Pd a livello nazionale e dirigenza non ha parlato al sud al quale si è rivolto il M5S con parole chiare, come quelle sul reddito di cittadinanza. E poi i candidati sono stati calati dall’alto, estranei ai territori. Si è addirittura verificato che due figure molto forti in città come Sandro Ruotolo e Paolo Siani siano state invece candidate in provincia. Non avremmo vinto i collegi, ma avremmo certamente avuto un risultato diverso nel proporzionale. L’attuale gruppo dirigente ha perso le elezioni e non ha portato alcuna innovazione nella politica italiana». E quindi cosa dovrebbe essere il Pd? «Penso che debba essere la guida di un campo alternativo alla destra partendo dall’alleanza con il M5S».

«Il problema non è allearsi con il M5S, ma se il Pd torna o no a occuparsi dei diritti fondamentali: il lavoro, il diritto ad abitare, l’istruzione, la sanità. Noi qua a Scampia ce ne occupiamo e così riusciamo a parlare anche a quelli che generalmente del Pd non vogliono sentire parlare. E infatti a Scampia alle politiche siamo il secondo partito dopo il M5S», dice Mimmo Morfe, 37 anni, infermiere, segretario del circolo del Pd di Scampia, il quartiere delle Vele, simbolo del degrado di Napoli, con un tasso di disoccupazione al 70%, ma anche simbolo di una speranza di riscatto alimentata da uno straordinario attivismo civico troppo spesso del tutto sconosciuto ai vertici di un partito che è quello che abbiamo descritto. È proprio da quel mondo che viene Mimmo: «Io sono nato e cresciuto qui e ho deciso di far crescere qui anche i miei figli. Il partito a livello metropolitano è dominato da individualismo e correntismo e quando parlo in quel contesto avverto che non mi possono capire, ma accetto la sfida e dico la mia».

Triste, solitario y final. Il paralizzante smarrimento del Pd milanese per la candidatura di Moratti. Carmine Fotia su L’Inkiesta il 14 Novembre 2022.

L’europarlamentare Pierfrancesco Majorino spiega a Linkiesta che potrebbe candidarsi alle primarie dem per le elezioni regionali, mentre il suo partito è indeciso tra una degna battaglia di testimonianza oppure provare a strappare la Lombardia alla destra

Cosa succede nel Pd milanese, primo partito anche alle politiche, al governo della città quasi da vent’anni, con una classe dirigente giovane e di qualità, all’indomani della sconfitta elettorale nazionale e alla vigilia delle elezioni regionali dopo la rottura di Letizia Moratti con il centrodestra? È «un partito stretto tra Calenda e Conte che rischia la paralisi» dice Stefano Lampertico, già sindaco di Gorgonzola, direttore di Scarp de’ Tenis, il giornale dei senzatetto milanesi amato da papa Francesco e sul quale scrivono molte grandi firme del giornalismo milanese, uno dei tanti luoghi dove s’invera la tradizione del socialismo umanitario che ebbe nella capitale lombarda il suo più importante laboratorio e si intreccia con quella del cattolicesimo democratico e sociale interpretato dal Cardinale Martini. All’appello di Enrico Letta a iscriversi Lampertico risponde così: «Sono tra i seicento fondatori del Pd e rispondo: perché no? a patto però che il Pd torni a essere utile nei luoghi dove non c’è più, al fianco di quei volontari, quelle associazioni, quei pezzi di società civile che danno ogni giorno risposte a chi soffre. Sono il nucleo trainante di una possibile maggioranza progressista, anche in Lombardia ma, a parte i sindaci, non ha rappresentanza politica».

Parla di «smarrimento» Serafino Sorace – 34 anni, si occupa di risorse umane per un’azienda privata, ha militato da giovanissimo in Rifondazione Comunista, poi ha lasciato la politica per un lungo periodo – segretario del circolo dem dell’Ortica, 80 iscritti in uno dei quartieri storici di Milano, una periferia popolare amatissima da Enzo Iannacci e Dario Fo. Il suo circolo è un punto di riferimento per il suo quartiere e per la zona che va da Crescenzano a Lambrate: «Nel circolo ci sono molti che lavorano nel terzo settore e anche alcuni amministratori, per questo le persone si rivolgono a noi per risolvere i problemi concreti della loro vita».

Mentre Serafino parla mi viene in mente una generosa idea di Maurizio Martina, segretario provvisorio dopo Matteo Renzi e la sconfitta del 2018. Martina convocò una riunione della segreteria nazionale nella libreria di Tor Bella Monaca, quartiere simbolo delle periferie degradate romane che – basta guardare le foto dell’evento – divenne una grottesca rappresentazione nella quale la distanza siderale tra quei dirigenti e quel mondo si leggeva nelle loro facce smarrite e spaesate, in una realtà che non conosceva e che non li conosceva. «Noi qui siamo aperti quasi sempre, Ci occupiamo delle bollette, di aiutarle le persone ad aprire uno Spid, durante la pandemia abbiamo fatto la raccolta alimentare per aiutare quelli più in difficoltà. Vengono da noi perché ci conoscono e si fidano, non abbiamo bisogno di fare un tour in periferia», mi racconta Sorace.

Ecco, proprio il fatto che questo partito così vitale sta implodendo per la candidatura di Letizia Moratti conferma la crisi esistenziale in cui è finito il Pd dopo la sconfitta elettorale che mi colpisce fin dall’inizio di questo viaggio nella sua crisi. Al di là di come la si pensi sulla candidatura (anche se i sindaci e dirigenti lombardi “sospettati” di essere favorevoli a un accordo con Letizia Moratti cui ci siamo rivolti, ve lo diciamo subito, tacciono) c’è questo paradosso che Sorace che pure è contrario a un accordo su Letizia Moratti («ho cominciato a fare politica con il movimento arancione di Giuliano Pisapia che la sconfisse» esprime così: «È assurdo che una rottura nel centrodestra diventi un problema del Pd. Lo diventa perché mentre Movimento 5 stelle e Terzo Polo hanno leadership forti noi non riusciamo più a dettare l’agenda del centrosinistra. Questo immobilismo nasce dal fatto che il Pd è dominato da logiche da ex, utili solo alle correnti di potere e non al confronto sui temi e alla discussione sulle idee».

L’europarlamentare Pierfrancesco Majorino, leader della sinistra pd milanese e già assessore della prima giunta Sala, annuncia a Linkiesta la sua probabile candidatura alle primarie del centrosinistra: «Vedremo. In questi giorni chiariremo finalmente tutto. Se vi sarà un candidato unitario o passeremo dalle primarie e a quel punto deciderò. Manca davvero poco a sciogliere questi nodi».

L’europarlamentare è stato il primo a stoppare l’ipotesi Moratti e sembra aver trascinato tutto il partito: «Nel pd lombardo non ho ascoltato molte voci pro. Fino a due settimane fa Letizia Moratti la era la persona che trattava con Meloni e Salvini per diventare presidente. La cosa le è andata male così ha aperto discussione con terzo polo. È una donna della destra italiana. Autorevole, certo, ma l’autorevolezza non basta».

«Credo che molti vogliano fare implodere il Pd – afferma Lampertico – Le possibilità sono due: una degna battaglia di testimonianza con un candidato di centrosinistra doc, oppure provare a strappare la regione alla destra che la governa da 30 anni. Ovvero scegliere la purezza e la testimonianza e la possibilità concreta di vincere. Sono due prospettive rispettabili, ma io penso che bisognerebbe sedersi attorno a un tavolo con Moratti e porre alcune questioni dirimenti per le persone fragili e i ceti più poveri. La Lombardia è il motore dell’Italia, ma anche qui crescono povertà e diseguaglianze. E se si imballa il motore Lombardia si ferma l’Italia, quindi: più sanità pubblica, più trasporto pubblico, politiche sul lavoro, inclusione. Porrei queste questioni prioritarie e, come si dice a poker, andrei a vedere le carte».

«Se Letizia Moratti dicesse: scusate, sin qui ho sbagliato tutto, le premesse per un confronto magari ci sarebbero. Io credo che la sua sia solo una mossa tattica che nasce dalle difficoltà della destra. Per altro è la stessa che ha presentato mesi fa una riforma che Azione ha tanto criticato in consiglio regionale. Moratti è alfiere della privatizzazione della sanità. Oggi scopre il valore della sanità pubblica e territoriale per questioni tattiche. Detto questo, che è il mio convincimento, sul piano del consenso sarebbe una catastrofe. Perché mezzo mondo non ci seguirebbe. C’è solo una cosa peggio che perdere contro Fontana. Perdere sostenendo la Moratti».

Triste, solitario y final. Le due anime della sinistra che si contendono il Lazio (e il popolo perduto del Pd). Carmine Fotia su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.

Due iniziative politiche opposte, una al Brancaccio col Terzo Polo e l’altra all’Auditorium Parco della Musica con Conte, rappresentano in modo plastico la differente visione su cosa debba essere il Partito democratico

Lo scenario di questa tappa del nostro viaggio nella crisi del Partito democratico è ancora Roma. I luoghi del Melodramma messo in scena tra giovedì 10 e venerdì 11 di un assolato novembre capitolino sono due, diversamente ma intensamente simbolici, con i turisti a far sciame attorno a due iniziative politiche opposte. La prima, la presentazione della candidatura di Alessio D’Amato alla guida della Regione Lazio spinta dal Terzo Polo e appoggiata dal Pd, si svolge al Teatro Brancaccio, che ha accolto negli anni tanto popolo della sinistra romana; la seconda, la presentazione del libro di Goffredo Bettini, “A sinistra. Da Capo”, con Giuseppe Conte che svetta tra i presentatori, si svolge all’Auditorium Parco della Musica, simbolo degli anni ruggenti della Roma prima rutelliana e poi veltroniana, a lungo presieduto da Goffredo Bettini. 

Gli ultimi sondaggi dicono che nel Lazio la destra vincerebbe contro qualsiasi coalizione, con o senza il Movimento 5 stelle, ma è molto probabile l’ipotesi, come mi dice un politico vicino alle trattative in corso, che il campo largo si divida in tre tronconi: D’Amato, con Pd e terzo polo; M5S con un pezzo di sinistra radicale; una lista di sinistra civica che, se guidata dall’europarlamentare Massimiliano Smeriglio, già vicepresidente della regione, potrebbe sfiorare il 10%.

La prima cosa che colpisce è la composizione delle due assemblee, abbastanza simile. Tutta gente per bene, per carità: amministratori, ceto politico, intellettuali, professionisti delle burocrazie pubbliche (prevalentemente provenienti dal mondo della sanità al Brancaccio, dal mondo della cultura all’Auditorium), giovani pochissimi e quindi età media molto elevata, donne in giusta misura. Se cercate il popolo perduto, di cui ha parlato Mario Tronti in un bel libro intervista con Andrea Bianchi, non è in nessuna di queste due sale, c’è piuttosto la sua evocazione.

Nel libro di Bettini – più ricco di come lo sto schematizzando, ma non sto scrivendo una recensione – culturalmente, lo dice lo stesso autore, c’è l’eco di Pier Paolo Pasolini, di quei ragazzi di borgata assurti a simbolo della critica al consumismo della civiltà capitalistica. Quel dolore sociale che, secondo Bettini, la sinistra deve «attraversare e toccare». Dal punto di vista politico-ideologico è un ritorno all’ingraismo, rivendicato come matrice politica. È un punto di vista che delinea un Pd molto spostato a sinistra, su una linea di critica radicale al capitalismo e che si liberi delle ultime scorie renziane. Per questo propone al Pd di abbracciare il M5S, che oggi rappresenterebbe quel popolo perduto, in un bagno rigeneratore per un partito oramai percepito come puro potere. 

Si potrebbe obiettare che ad applaudire la critica al potere sia una platea composta in abbondante misura da funzionari di quel potere, per altro spesso anche bravi e onesti. Si potrebbe osservare che la sinistra è nata per emancipare il dolore sociale mentre al movimento di Conte basta assisterlo all’infinito captandone il consenso (come affiora anche nella puntuta domanda che un barbuto signore di mezza età seduto in platea rivolge a Giuseppe Conte che si sta proponendo in un’inedita versione anticapitalistica: «Ma tu che tradizione hai?»). E concludere che riproporre in questo secolo la divisione tra massimalismo e riformismo, scagliando la scintilla della rivoluzione d’ottobre contro i revisionisti non sembra un’idea così moderna. È tuttavia è un punto di vista che ha il pregio della chiarezza. Mentre dalla parte che si definisce riformista un manifesto politico di siffatta chiarezza ancora non c’è.

A qualche chilometro di distanza, nel teatro Brancaccio, lo “gnommero” (per usare la neo-lingua di Carlo Emilio Gadda che in questa via dove ha sede il teatro ambientò “Quer pasticciaccio brutto de Via Merulana”) si aggroviglia ancora. Uno dei tanti paradossi di questa storia è infatti che il candidato del terzo polo è Alessio D’Amato, assessore alla sanità della giunta Zingaretti da tutti lodato (fino a ieri anche dal M5S) per la gestione della pandemia, cresciuto nella Fgci e nella popolare borgata del Labaro dove risiedevano gli operai delle fornaci sorte in quel territorio negli anni ’40, poi dirigente del Pdci, il Partito dei Comunisti Italiani di Armando Cossutta. 

Tra la variegata platea di coloro che sono qui a sostenerlo – Carlo Calenda, Maria Elena Boschi, Monica Cirinnà, Luigi Zanda, Francesco Boccia, Luigi Manconi, Corrado Augias, tra gli altri – c’è anche Ugo Sposetti, presidente della Fondazione Enrico Berlinguer, custode della memoria storica del Pci, il quale non si limita a sostenere D’Amato nel Lazio ma mi dice che «avremmo dovuto appoggiare la candidatura di Letizia Moratti in Lombardia. Il Pci l’avrebbe fatto«. Insomma, D’Amato viene dal popolo e dalla sinistra radicale, ma la sinistra radicale non lo vuole e quella del Pd gli rimprovera di aver accettato l’abbraccio mortale di Renzi e Calenda e soprattutto, anche se non possono dirlo apertamente, di essersi “irrigidito” sull’inceneritore, come mi confida un dirigente di primo piano.

 «Vengo dalla storia del Pci e per questo penso che dobbiamo unire la sinistra, ma con un forte impianto riformista», mi dice D’Amato. Nel clima commemorativo del Brancaccio, dove sono stati presentati i buoni risultati ottenuti nella Sanità e in particolare nella lotta alla pandemia, come nel Don Giovanni c’è un Convitato di Pietra che ha le sembianze dell’Inceneritore, assurto a simbolo che poco ha a che fare con le sue concretissime valenze e che irrompe a opera di un gruppo di manifestanti che si oppongono alla realizzazione dell’opera. L’inceneritore, voluto dal sindaco dem di Roma, Roberto Gualtieri, scotta prim’ancora di essere costruito perché è stato il casus belli che Giuseppe Conte, contrario, ha usato per far cadere il governo Draghi. «La contestazione andrebbe fatta quando la monnezza a Roma arriva al secondo piano delle case, non al Termovalorizzatore. Per altro, dal punto di vista ambientale non è che fare correre i Tir sia meglio», replica il candidato. 

Su Conte è tranchant: «È sbagliato dare la patente di sinistra ha chi ha rivendicato con orgoglio i decreti sicurezza di Salvini», mi dice e aggiunge: «È stato Conte a rompere la maggioranza in regione. Ma il M5S, ricordo agli smemorati, non vinse le elezioni. Le elezioni le vincemmo come centrosinistra e poi, con un accordo d’aula, il partito di Conte entrò in maggioranza. Dobbiamo resuscitare passione e orgoglio, sento in giro mestizia e senso di sconfitta. Non possiamo consegnare il Lazio alla destra dopo dieci anni di buon governo».

Il Pd ha infine deciso di appoggiare il candidato proposto da Renzi e Calenda, ma al Brancaccio il presidente della regione, Nicola Zingaretti che si è speso fino all’ultimo per un accordo con il M5S non c’è. C’è, invece, seduto in prima fila, il sindaco. Un’assenza e una presenza che dicono tutto sulla crisi del Pd. L’inceneritore forse non sarà mai costruito ma intanto incenerisce quel che rimane del partito romano.

Triste Solitario y final. Mario Oliverio e il silenzio del Pd sul «populismo penale» calabrese. Carmine Fotia su L’Inkiesta il 28 Novembre 2022.

L’ex presidente della Regione Calabria, dopo l’ennesima assoluzione nei processi aperti contro di lui dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, racconta di esser stato «lasciato solo» dal partito in questi anni. «Pur essendo membro della direzione non sono stato mai convocato», dice. «La verità è che il Pd è subalterno all’ala giustizialista dei pm per codardia o perché qualcuno, come si dice dalle mie parti, ha i “carboni bagnati”, cioè ha qualcosa da temere»

«Sono stati per me anni di amarezza, personale e politica. Mi sono sentito offeso nella ragione stessa di tutta la mia vita, isolato, maltrattato, tradito dagli stessi compagni delle mie lotte, immerso in un mondo capovolto». Mario Oliverio, 69 anni, parla dopo l’ennesima assoluzione nei processi aperti contro di lui dal Procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri.

Una vita spesa prima nel Pci e poi nel Pds, nei Ds e nel Pd, Oliverio è stato uno dei più importanti leader della sinistra calabrese: consigliere comunale e poi sindaco di San Giovanni in Fiore, presidente della provincia di Cosenza, consigliere regionale, parlamentare, eurodeputato, presidente della Regione.

Nel dicembre del 2018, nell’ambito dell’Inchiesta “Lande Desolate”, l’allora presidente della Regione Calabria è accusato di corruzione e abuso d’ufficio nella realizzazione di alcune opere pubbliche. Per lui scatta l’obbligo di dimora nel comune di San Giovanni in Fiore, revocato da una sentenza della Corte di Cassazione nel marzo del 2019 che motiva la sua decisione parlando di un “pregiudizio accusatorio”. L’anno successivo Oliverio ottiene l’assoluzione con formula piena, «perché il fatto non sussiste». E per altri due esponenti del Pd, il vicepresidente della Regione Nicola Adamo e la deputata Enza Bruno Bossio, viene decretato «il non luogo a procedere». La Dda di Catanzaro diretta allora da Nicola Gratteri non oppone ricorso alla sentenza, che così passa così in giudicato. Nel secondo procedimento, relativo alla sponsorizzazione (95mila euro) di un evento nell’ambito del Festival dei due mondi a Spoleto (un’intervista con il giornalista Paolo Mieli, al fine di promuovere l’immagine della Calabria in una strategia di sostegno al turismo nella regione), viene accusato di peculato. Malgrado l’accusa chieda la condanna a quattro anni, il 10 novembre il tribunale lo assolve perché «il fatto non sussiste».

«In questi anni di enorme sofferenza sono stato lasciato solo dal Pd», racconta Oliverio, che nel 2019 contribuì all’elezione di Zingaretti a segretario con il 70% dei voti in Calabria, ma che oggi è fuori dal partito. «Pur essendo membro della direzione non sono stato mai convocato, nessuno del Pd ha aperto bocca neppure dopo la sentenza della Corte di Cassazione che annullò l’obbligo di dimora con motivazioni chiarissime, parlando di “chiaro pregiudizio accusatorio” e di provvedimento “abnorme”. Non parlò nessuno neppure dopo l’assoluzione con formula piena e nessuno ha profferito parola dopo l’ultima assoluzione. Ringrazio i tanti che mi hanno espresso la loro solidarietà in forma privata, mi aspetto che lo facciano in forma pubblica. La verità è che il Pd è subalterno all’ala giustizialista dei pm per codardia o perché qualcuno, come si dice dalle mie parti, ha i “carboni bagnati”, cioè ha qualcosa da temere».

Il fatto è che l’accanimento giudiziario contro Oliverio ha avuto risvolti politici rilevanti, che hanno cambiato la storia politica recente della Calabria. «È stato interrotto dall’azione giudiziaria un processo di rinnovamento che avevamo avviato, un processo di bonifica della regione dal verminaio degli interessi illeciti, abbiamo sciolto enti inutili e consigli di amministrazione, centri di malaffare e sottratto alla Regione la gestione di imponenti risorse e di appalti attraverso il trasferimento di funzioni ai Comuni, alle Province, alle Università. La Calabria aveva smesso di essere ultima in tutte le graduatorie a partire dalla utilizzazione dei fondi europei dove era giunta prima tra le regioni del sud», sostiene Oliverio.

«In Calabria viviamo sotto una dittatura giudiziaria», si sfoga Enza Bruno Bossio, parlamentare Dem non rieletta nell’ultima tornata. «C’è il caso Oliverio, ma anche quello del senatore Giancarlo Pittelli», dice.

La vicenda dell’ex presidente della Regione Oliverio è particolarmente significativa. Ma al neo ministro della Giustizia Carlo Nordio, il Comitato per Pittelli ha chiesto se non sia meritevole della sua attenzione anche la condizione dell’ex parlamentare della Repubblica, «avvocato penalista incensurato, ormai sulla soglia dei settant’anni, in condizioni di salute precarie, privato della libertà ormai dal lontano dicembre 2019, con l’accusa infamante ma mai provata di essere “l’anello di congiunzione fra Ndrangheta e massoneria”, ben prima di qualunque processo o sentenza, il quale in questi tre anni di attesa di giustizia ha collezionato ben tre sentenze della Cassazione che hanno cancellato o ridimensionato i capi d’imputazione originari e accolto le richieste della difesa su questioni parallele al giudizio principale». Lo scorso 15 novembre, Nordio ha inaugurato il nuovo palazzo di giustizia a Catanzaro, indicandolo a modello, ma che prima di assumere la carica di Guardiasigilli aveva firmato un appello a favore dell’ex senatore.

«L’ultima motivazione per revocargli i domiciliari è stata giustificata per il fatto che si era rivolto ad alcuni parlamentari, tra cui c’ero anche io, che hanno presentato un’interrogazione parlamentare sul suo caso», racconta Bruno Bossio. Che denuncia: «Questo è il clima e il Pd non si ribella ma anzi vi si sottomette. E così abbiamo avuto leggi come la Severino che ha abolito la presunzione d’innocenza per gli amministratori locali, la spazzacorrotti che equipara i reati di corruzione a quelli di terrorismo e mafia, e la definizione del traffico d’influenze impossibile da tipizzare. Ma io non mi arrendo, anche se mi calpestano e farò fino alla fine questa battaglia nel Pd».

Non è solo la vicenda giudiziaria in sé a sconcertare. È che “Il caso Oliverio” è il paradigma di una sottomissione culturale al “populismo penale”, che uno dei massimi giuristi italiani, Luigi Ferrajoli, ha definito così: «Alimenta e interpreta il desiderio di vendetta su capri espiatori. Configura l’irrogazione di pene come nuova e principale domanda sociale e perfino come risposta a gran parte dei problemi politici».

«Io penso che la sinistra si sia sempre battuta per i diritti, per la libertà, per la garanzia delle persone. E penso che il garantismo sia lo strumento per combattere con efficacia mafia e corruzione. I polveroni, l’azione inquisitoria, in assenza di fatti e persino di indizi, utilizzata a scopo mediatico, politico, nel medio lungo periodo indebolisce la stessa credibilità della magistratura», dice Oliverio. Che cita Falcone: «“A me sembra profondamente immorale che si possano avviare delle imputazioni e contestare delle cose nella assoluta aleatorietà del risultato giudiziario. Non si può ragionare: intanto contesto il reato e poi si vede. Perché da queste contestazioni poi derivano conseguenze incalcolabili. Il sospetto non è l’anticamera della verità ma del khomeinismo”». Il magistrato ucciso nella strage di Capaci, a cui spesso Gratteri viene associato da parte dei suoi sostenitori, pronunciò queste parole nella sua deposizione davanti al Csm per rispondere all’accusa di nascondere le prove dei delitti politico-mafiosi.

Quella destra all’italiana che ha spiazzato la sinistra. Fulvio Abbate su L’Identità il 4 Novembre 2022

Che differenza c’è tra lo scatto di Benigni che, un tempo, prende in braccio Berlinguer, e quello di Crosetto che prende in braccio la Meloni? In questi casi, per comprendere lo scarto sostanziale, occorrerebbe l’ausilio di uno storico. Proviamoci ugualmente. Quando Benigni prendeva in braccio Berlinguer al Paese non era ancora stato consegnato il titolo identitario di “nazione”, ed esisteva perfino un’opposizione, a suo modo anche politicamente viva, talvolta gioiosa. A sinistra, la sensazione che si potesse immaginare il cambiamento, se non proprio il “mutamento dell’esistente”. Lo storico del costume politico, in questa nostra riflessione, spiegherebbe che, sia pure fra mille difficoltà sullo sfondo, l’arrivo della precarizzazione e la fine dell’assillo ideologico, nel gesto estemporaneo di Benigni erano ancora evidenti alcuni principi in seguito cancellati da ogni discussione. Su tutti, la pregiudiziale antifascista. E ancora l’ironia che aveva portato anni prima gli studenti a scrivere sui muri delle università occupate il proprio fantasioso disincanto: “Dopo Marx, aprile”, “Dopo Mao, giugno”. Resisteva comunque un sentire, direbbe Gaber, dove “libertà è partecipazione”. Ho semplificato, lo so, spero però chiaro il concetto generale. Passando ora in dissolvenza incrociata a all’immagine del “gigante buono” Crosetto che prende in braccio la “sua” creatura, la narrazione è di tutt’altro segno, come opportunamente noterebbe l’evocato semiologo. Nella foto scattata al congresso di Fratelli d’Italia si scorge lo slogan “Appello ai patrioti”, poi lo sventolio identitario delle bandiere e, su tutto, un sottotesto che suggerisce “simpatia” e ancora implicitamente quel “presto saremo una destra ‘gollista’, ci stiamo provando, si vede, no?” Gli applausi incoronano l’ascensione della leader Giorgia tra le braccia di Guido, “commissario tecnico”, suggeritore. L’informalità in blazer proto-ministeriale a cancellare il truce simbolico del pregresso post-fascista. Nel “bunker” di Colle Oppio è adesso nato un fiore, diremmo con i versi di Fabio Concato. Incredibilmente, a nessuno verrebbe in mente di accostare la scena allo scatto di Benigni che solleva invece Berlinguer con l’immagine altrui successiva. Nonostante l’evidente spettacolare simmetria. In un attimo, l’istantanea dello “zio” che porta al cielo della nuova destra la “nipote”, sorta di cresima politica, prima che abbia inizio la distribuzione dei confetti, vista con il senno di poi, cancella ogni simile pregresso compiuto da altri sotto un segno invece ludicamente “progressista”. Dimenticate allora che nel frattempo Berlinguer appare un ricordo remoto, e la sinistra cancellata di nome e di fatto, e perfino che Benigni si sia trasfigurato in sagrestano assente all’ironia, pensa piuttosto che il mattino del giorno dopo la prova-simpatia i primi provvedimenti della destra rispondono a un impianto securitario, repressivo, demagogico, regressivo. Guido Crosetto, ottenuti i galloni di ministro della Difesa, precisa che “ora riapriremo all’arruolamento dei giovani e troveremo le giuste allocazioni per le grandi esperienze maturate all’interno. Come nelle migliori famiglie”. Parole non meno “allocate” in narrazioni da porta carraia, contrappello, cartolina-precetto, nel motto ufficioso “mutismo e rassegnazione”, forse anche nel possibile ritorno dei fumetti “Il Tromba”. Ciò che sembrava simpatia da rave post-missino in realtà non era tale; quanto al tempo dadaista di Berlinguer in braccio a Benigni cose ormai davvero postume.

Le migliori menti. Non è la destra a essere impresentabile, è la sinistra che è troppo ridicola per smuoverla dal potere. Guia Soncini su L’Inkiesta il 4 Novembre 2022

Mezza classe dirigente italiana, come buona parte del paese, non distingue i provvedimenti del governo da una parodia, o un fascista da un cialtrone. Eppure vogliono spiegarci il mondo

Non ho niente contro gli imbecilli: ho molti amici imbecilli. Imbecilli che passano per intelligenti, oltretutto, giacché il livello medio è quello che è, e se hai una laurea il pubblico pensa tu sia colto (lo pensava anche mia nonna, ma mia nonna aveva un altare di padre Pio di fianco al letto: non si dava un tono come facciamo noialtri oggi).

Non ho niente neanche contro Amici miei; la trovo un’ottima commedia, che soffre del problema di ricezione di cui soffre ormai ogni prodotto: gli imbecilli istruiti scambiano ogni protagonista di parabola satirica, dal conte Mascetti a Carrie Bradshaw, per un modello comportamentale.

Quindi, la premessa del disastro di ieri è che il pasciuto occidente del ventunesimo secolo è popolato da individui a malapena alfabetizzati cui la società ha dato ruoli intellettuali (giacché ci sono più posti da riempire che persone valide con cui riempirli, che è la ragione per cui non esistono geni incompresi né meritevoli che non hanno avuto possibilità).

E questi individui adulti, che un qualche dio inesistente mi aiuti a scriverlo senza che mi parta un embolo, fanno gli scherzi. Non fanno gli scherzi vergognandosi di sé stessi e del proprio infantilismo senile, sentendosi il Fausto Bertinotti imitato da Corrado Guzzanti, no: fanno gli scherzi e li chiamano «esperimenti sociologici». (Dei danni delle facoltà umanistiche parliamo un’altra volta). Fanno gli scherzi e se chiedi «ma sei scemo?» trasecolano: ma come, ridevi sempre al cinema, quando schiaffeggiavano i passeggeri del treno.

Quindi ieri mattina un tizio – che non conosco ma che è intellettualmente in media coi miei amici e infatti scrive su questo giornale – fabbrica un testo di comma da apporre al decreto legge sui rave; abbastanza finto da non essere credibile neanche presso un ripetente di seconda media. Le migliori menti della mia generazione ci cascano, e l’articolo potrebbe finire qui: col nostro essere la più scema generazione di tutti i tempi (fino alla prossima, cioè quella allevata dalla mia).

Ma invece mi voglio concentrare sul dopo. Prima vi ricopio il testo del falso. Diceva così: «La norma si applica esclusivamente ai raduni con finalità ludico-ricreative, aventi ad oggetto la fruizione di musica non autoctona e il consumo di sostanze psicotrope di cui al DPR 309/1990».

Si chiederanno i miei piccoli lettori: hai amici con un disturbo dell’apprendimento? Quale persona adulta in grado di intendere e di volere può credere a «musica autoctona»? Forse qualcuno nella chat di Morgan e Sgarbi, che sembra un esperimento situazionista molto spesso ma specialmente quando Amedeo Minghi interviene a gioire dell’ipotesi che le radio debbano per legge trasmettere il cinquanta per cento di musica italiana (chi sta per rispondere «come i francesi» è pregato di ricordarsi che i francesi hanno fatto la rivoluzione, noialtri al massimo abbiamo fatto il Festivalbar).

E invece là fuori – fuori dalle chat situazioniste, fuori dal nido del cuculo, fuori dal raggio d’azione degli insegnanti di sostegno – è un pieno di gente che ci ha creduto. È un pieno di gente che abbocca come l’ultimo scemo a qualunque finzione malfatta (e poi ciancia di fake news, urla al pericolo della disinformazione, stigmatizza Elon Musk che linka giornali non attendibili). Ve ne ricorderete: un attimo fa avevano creduto che un comiziante che invocava per l’occidente figli e non animali stesse dando ai bambini non europei degli animali; anche l’ultima delle cretine intuiva che si riferisse all’usanza di prendersi un cane invece di figliare, ma loro no.

L’ultima delle cretine – cioè io – l’aveva capito perché è dotata di logica e quella del cane era l’interpretazione da rasoio di Occam di quella frase: quasi sempre a essere vera è la spiegazione più plausibile, non quella che ti permette con più agio d’indignarti. Gli scemi medi non se n’erano accorti perché, dice, il filmato era tagliato; e non è che la loro urgente indignazione potesse aspettare di verificare il filmato intero: è Elon Musk che deve verificare l’attendibilità dei link, mica loro.

Ma non è neanche di questo che voglio disperarmi (oggi sono particolarmente lenta nell’arrivare al punto). È del momento in cui il Bertinotti con velleità da conte Mascetti dice che era tutto finto. E tutti – lui stesso, i miei amici imbecilli, mezza classe dirigente italiana fessa come e più dei miei amici – mica dicono: che boccalone che sono, scusate. Macché.

Dicono, e lo dicono seriamente: ecco, è l’ennesima prova che questa destra è talmente assurda e ottusa e impresentabile che tutto diventa credibile. No, coglione: è la prova che tu non sarai in grado di smuovere questa destra dal potere né ora né tra un secolo perché non distingui una parodia sciatta da un testo di legge, un fascista da un cialtrone, una laurea da una cultura, un’occupazione da adulto dallo stare sui social a cercare ogni minuto nuovi pretesti per dirci che tu sì stai dalla parte giusta.

Vi è sembrato credibile che fossero consentiti i rave se fatti con la musica degli Articolo 31 invece che dei Placebo: non vi sembra una ragione sufficiente per tacere per un pochino? Per sostituire la vocazione di commentatori culturali e politici con quella di pittori di acquarelli, o almeno per vergognarvi in silenzio per non dico mesi ma almeno ore? No, ora ci spiegate il mondo un altro po’, e in quell’altro po’ c’è: eh, signora maestra, non sono io che sono asino, è che il compito era troppissimo difficilissimo.

Caso Montesano, così la Rai si è inginocchiata al politicamente corretto. Sono tantissimi i dubbi che gravitano attorno all'esclusione di Enrico Montesano da Ballando con le stelle: ecco cosa non torna. Francesca Galici su Il Giornale il 21 Novembre 2022.

Il "caso Montesano" ha riempito le cronache dell'ultima settimana e non poteva essere diversamente, vista l'eco mediatica scatenata dalla t-shirt dell'attore. Certo, non una t-shirt qualunque, ma quella recante il logo della X Mas, uno dei corpi di combattimento più famosi della storia del nostro esercito, che durante la Seconda guerra mondiale si schierò al fianco dei tedeschi contro Alleati e partigiani. Enrico Montesano ha indossato la t-shirt durante le prove e le immagini sono state trasmesse nel corso della puntata in diretta di sabato 12 novembre. Il giorno dopo è esploso il caso, lui è stato squalificato, e sono tante le domande che ci si pone.

Una delle prime parte da una considerazione: le immagini trasmesse durante la diretta erano registrate e il "girato" (come si chiama in gergo) è necessariamente passato davanti a decine di occhi prima di finire in prima serata su Rai 1. Possibile che nessuno si sia accorto? Può essere credibile che tra tutti quelli che hanno visionato le immagini, nessuno abbia riconosciuto quel logo, o si sia chiesto, anche solo per scrupolo, cosa rappresenta? Non fosse altro che in Rai esiste un codice etico molto rigoroso, che vieta esibizioni politiche di tutti i tipi ma non solo, perché in un programma come Ballando con le stelle, sono vietati anche i loghi di marchi che non siano quelli di eventuali sponsor, nell'ottica di evitare la pubblicità occulta.

"L'etichetta di nostalgico non l'accetto, adesso basta": lo sfogo di Montesano

Seconda considerazione: come fatto notare dall'avvocato Giorgio Assumma, il logo della X Mas è stato esibito davanti alle più alte cariche istituzionali, anche alla presenza del presidente della Repubblica quando l'inquilino del Quirinale era Giorgio Napolitano. A quel vessillo sono stati fatti i più alti onori istituzionali, quindi su quale base la Rai ha deciso di squalificare Enrico Montesano dalla competizione? E a questo si collega il ragionamento fatto dall'avvocato, che probabilmente risponde alle domande precedenti: "Se l'esposizione di tale simbolo è stata ritenuta lecita e degna di rispetto dalle alte sfere della presidenza della Repubblica e dai vertici delle forze armate, come poteva destare sospetti di illegalità e di offesa ai valori della Repubblica democratica nell'attore Montesano e nei tecnici della Rai addetti alla vigilanza sulla trasmissione?".

Durante l'ultima puntata, Milly Carlucci è rapidamente tornata sull'argomento, dicendo di credere nella buona fede del concorrente e di essere "umanamente dispiaciuta per l'assenza di Enrico". La conduttrice, che del programma è anche direttore artistico, ha detto di essersi uniformata al regolamento Rai, scaricando qualunque responsabilità sull'esclusione che, evidentemente, non arriva dalla produzione della trasmissione. Dal canto suo, ospite de La Zanzara, Montesano è più agguerrito che mai: "Mi sento offeso, mi devono chiedere scusa. Devo essere riabilitato. Non ho questo tipo di storia. C'è il no logo a procedere". L'attore sperava in una sua riammissione al programma, ma le parole di Milly Carlucci in diretta sabato sembrano chiudere ogni possibilità di questo tipo.

"Altro che una maglietta". Mughini smonta l'ipocrisia sinistra su Montesano

Da più parti, proprio in ragione delle considerazioni avanzate dal legale di Montesano e dalle evidenze dei fatti, si avanza il sospetto che l'esclusione dell'attore non sia altro che l'ennesimo atto di un politicamente coretto imperante. Davanti alle sollevazioni social, alimentate dalla denuncia di Selvaggia Lucarelli, la Rai non ha avuto il polso di prendere la questione di petto, spiegando il motivo per il quale nessuno, prima della polemica, aveva considerato offensivo quel logo. Ha preferito chinare la testa davanti alla "dittatura" social, quella composta da un manipolo di utenti capaci di fare un gran casino, minacciando ipotetici boicottaggi agli sponsor e agli ascolti. E stavolta la Rai si è genuflessa, facendo una non bella figura.

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 novembre 2022.

Caro Dago, sono uno di quelli che nell’andare a leggere un articolo o un libro del professor Luca Ricolfi non ne vengono mai delusi. Vale per quest’ultimo suo “La mutazione” (Rizzoli, 2022), un libro che ha per attirante sottotitolo “Come le idee di sinistra sono migrate a destra”. 

Ne è sugosissimo il capitolo centrale, quello in cui Ricolfi documenta come la difesa anti censoria delle libertà di pensiero e d’arte che in Italia e altrove era stata una prerogativa particolarissima della sinistra viene adesso smentita e arrovesciata dagli stilemi su cui è fondata la cancel culture, e seppure in Italia non siamo agli orrori di cui questo atteggiamento si è macchiato negli Usa (e non solo). 

Lì dove – in Texas – è appena nata un’università che difende la libertà di pensiero (di tutti i pensieri) all’insegna di parole così: “Quattro quinti degli studenti di dottorato statunitensi sono disposti a ostracizzare gli scienziati di opinioni conservatrici. Non abbiamo tempo di aspettare che gli accreditati atenei si correggano da soli. Per questo ne fondiamo uno noi”.

Il fatto è, scrive puntualmente Ricolfi, che nei campus universitari americani sono all’ordine del giorno le richieste di no platforming (non fornire il palco), disinvitation (cancellare un precedente invito) se non addirittura di licenziare professori le cui convinzioni non siano politicamente corrette. Da brividi. 

A partire dal 2015 i casi di disinvitation tentati negli atenei americani sono stati ben 200 di cui 101 riusciti. E comunque anche quando gli eventi sgraditi non vengono cancellati, gli studenti che chiameremo di sinistra bloccano fisicamente l’accesso alle aule universitarie o intonano canti o percuotono tamburi in modo da impedire l’ascolto di opinioni a loro invise.

Talvolta è addirittura furibondo il fuoco di sbarramento, sui social o su giornali universitari, contro autori classici che rispondono al nome di Omero, Dante, Shakespeare, Cartesio o contro il ben di dio di scrittori moderni quali Melville, Conrad, Fitzgerald, Hemingway. E’ stato bersagliato un pittore immane quale Paul Gauguin che ebbe il torto di avere una relazione sessuale con una quattordicenne polinesiana, un torto simile a quello rinfacciato al nostro Indro Montanelli partito volontario a combattere nell’Etiopia degli anni trenta. 

Il culmine dell’abiezione che mira a cancellare il reale com’è stato e sostituirlo con un reale a misura delle odierne minchionerie ideologiche è la volta in cui la “Carmen” di Georges Bizet è stata riscritta col farla finire che è la donna a uccidere l’uomo ed evitare così di mettere in scena un “femminicidio”. 

Non so dire se non sia ancora peggio quello che è accaduto tanto nelle carceri americane che in quelle del Canada. Che degli individui nati uomini e che volevano diventare donne ma che ancora  mantenevano gli organi maschili fossero stati reclusi nelle stesse celle in cui erano le donne: numerosi i casi di stupro lì in carcere.

No, in Italia non siamo ancora a questo. E pur tuttavia, scrive Ricolfi, ci sono indirizzi allarmanti di cui è impossibile non tener conto. Confesso che non avevo mai letto il testo del decreto Zan contro l’omotransfobia, decreto bocciato in Senato dopo essere stato approvato alla Camera. 

Ricolfi punta l’ingranditore sull’articolo 4 di quel decreto, là dove si prospettava la possibilità di punire penalmente “opinioni” che nella valutazione del magistrato fossero “idonee” al compimento di atti discriminatori e violenti.

Una dizione che spalanca il campo all’azione penale contro le opinioni difformi tanto da suscitare il dissenso di un parlamentare del Pd notoriamente omosessuale, l’ex giornalista dell’ “Espresso” e senatore Tommaso Cerno, oltre che di magistrati quali Giovanni Fiandaca e Carlo Nordio fra gli altri. A giudizio di Ricolfi troppo pochi, data la rilevanza giuridica di quell’articolo.

La sinistra? Dalla libertà alla censura. Si potrebbe avere l'impressione che la cancel culture sia un fenomeno montato di recente e che abbia lambito l'Europa come un'onda lunga partita dagli Usa. Matteo Sacchi su Il Giornale il 22 Novembre 2022.

Si potrebbe avere l'impressione che la cancel culture sia un fenomeno montato di recente e che abbia lambito l'Europa come un'onda lunga partita dagli Usa. Indubbiamente la nuova censura preventiva che impera nelle serie, nei film, e persino il livellamento storiografico e scientifico nei temi di dibattito che arrivano dagli Stati Uniti hanno il loro peso. Però esiste una radice tutta italiana al fenomeno. Una radice che viene da sinistra. Per rendersene conto niente di meglio del nuovo libro di Luca Ricolfi: La mutazione. Come le idee di sinistra sono migrate a destra (Rizzoli). Il sociologo e politologo nel libro da lungo spazio all'evoluzione, tutta interna alla sinistra italiana, che ha portato molti dei suoi membri a diventare «Da libertari a censori».

Ricolfi prende atto del fatto che il nostro Paese negli anni Cinquanta e Sessanta vivesse in un clima molto rigido e bacchettone: «Sotto la censura caddero innumerevoli libri, opere teatrali e cinematografiche, programmi televisivi e radiofonici». Per capirci, l'abolizione della censura teatrale arrivò solo nel 1962 con il governo Fanfani. Per il cinema il controllo durò, occhiuto, molto più a lungo. Inutile elencare episodi d'epoca come i famosi mutandoni delle sorelle Kessler nel 1961, basti dire che gli intellettuali dell'epoca, in larga parte orientati a sinistra, si schierarono compatti sempre a favore della libertà d'espressione. Il risultato fu quello che Ricolfi definisce «l'epoca d'oro della satira» che va dal 1976 al 2005. Si andò da Quelli della notte a L'ottavo nano. Poi qualcosa è iniziato a cambiare lentamente. Natalia Ginzburg lo aveva già denunciato negli anni Ottanta: «È stato decretato l'ostracismo alla parola sordo e si dice non udente». Erano arrivate quelle che la Ginzburg chiamava «parole artificiali» fabbricate con «motivazioni ipocrite». Ma questi caveat caddero nel vuoto, anzi pian piano gli intellettuali di sinistra iniziarono a sposare questa nuova censura. Iniziarono a sposare quella che Calvino chiamava «antilingua». Su questo substrato si è innestato il fenomeno del politicamente corretto arrivato dagli Usa che è diventato quasi inarrestabile a partire dal 2013, in un crescendo di aggressività verso chi non si piega ai suoi dettami. Siamo arrivati al «follemente corretto» e a quello che ad alcuni di coloro che sono rimasti a sinistra pare un paradosso. Ovvero che la difesa della libertà di parola sia diventata un appannaggio della destra. Persino posizioni considerate un tempo femministe come la «difesa dell'utero» possono tranquillamente essere considerate ormai «anti lgbtq+». Risultato finale, da libertari a censori, seguendo il ragionamento di Ricolfi il passo è stato breve. E ora la libertà è più facile trovarla svoltando a destra.

"I ceti deboli votano la destra perché la sinistra li disprezza". Estratto da “La Mutazione”, Luca Ricolfi il 3 Novembre 2022 su Il Giornale.

Il saggio del sociologo Luca Ricolfi: "Gli eredi Pci restano leninisti: al popolo servono avanguardie"

Non è esatto affermare che la sinistra ufficiale non si chieda perché il popolo preferisce i partiti di destra.

Qualche volta prova a chiederselo. Il problema è la risposta che dà alla domanda: le destre parlerebbero «alla pancia del Paese», prospettando soluzioni semplicistiche, e solo per questo motivo riuscirebbero a intercettare il consenso popolare.

Di questa risposta la prima cosa che colpisce è il disprezzo con cui i dirigenti della sinistra guardano ai ceti deboli e alla gente comune. Ma come è possibile, mi sono sempre chiesto, che proprio i progressisti, che pretendono di battersi per i diritti degli ultimi, abbiano così poca considerazione per l'intelligenza, la sensibilità, il modo di ragionare dei ceti popolari? Da dove viene tanta supponenza? Che cosa li ha convinti che la gente non sia in grado di ragionare con la propria testa?

Alle volte mi vien da pensare che, a dispetto di ogni riconversione, revisione, autoriforma e sforzo di modernizzazione, gli eredi del Partito comunista siano rimasti profondamente e irrimediabilmente leninisti nell'anima, prigionieri dell'idea che il popolo non sia in grado di prendere coscienza dei propri interessi da sé, e che per far maturare tale coscienza siano indispensabili le «avanguardie», guide politiche e spirituali delle masse incolte.

Quali che siano le ragioni del disprezzo per i sentimenti popolari, è chiaro che una risposta così stronca alla radice ogni riflessione. Se il popolo è una massa informe, irrazionale e facilmente suggestionabile, ed è questa sua fragilità cognitiva che lo consegna nelle braccia della destra, non c'è niente da capire e niente da fare. Noi progressisti, ricchi di umanità e custodi dei più alti valori di civiltà, possiamo solo cercare di educare il popolo, denunciando le menzogne della destra e spiegando al popolo stesso che le sue preoccupazioni sono infondate.

La gente ha paura, e pensa che la criminalità sia un pericolo? La sinistra disquisisce sulla distinzione fra tasso di criminalità reale e tasso «percepito», e indica la via per sconfiggere la paura: «La politica, una buona politica, dovrebbe prendere in carico le paure degli italiani e dimostrarne l'infondatezza».

La gente pensa che, in molte realtà, gli immigrati mettano a repentaglio la tranquillità e la sicurezza degli italiani? La sinistra le spiega che la diversità è un valore, e gli immigrati sono una straordinaria occasione di dialogo e arricchimento culturale.

La gente pensa che la globalizzazione sia una minaccia? La sinistra le spiega che si tratta di una grande opportunità.

La gente pensa che l'Europa sia un problema? La sinistra le spiega che l'Europa non è il problema, l'Europa è la soluzione.

La gente pensa che gli immigrati rubino posti di lavoro agli italiani? La sinistra le spiega che gli immigrati sono una benedizione, e che quei posti di lavoro gli italiani non li vogliono più.

Si potrebbe continuare. E anche osservare che c'è del vero in alcune osservazioni e obiezioni che vengono opposte ai vissuti popolari. Prima fra tutte nella constatazione che, senza gli stranieri, molti posti di lavoro resterebbero scoperti, o potrebbero essere coperti da italiani solo con salari incompatibili con i conti economici delle imprese. Il problema, tuttavia, è che la maggior parte delle credenze e insofferenze popolari hanno una base reale.

È un fatto reale, ad esempio, che una frazione non trascurabile dei posti di lavoro occupati dagli stranieri sono sottratti agli italiani. La televisione ci mostra africani e bengalesi, chini sotto il sole cocente, a raccogliere frutta e ortaggi nei campi, ma la gente vede con i propri occhi, tutti i giorni, altri stranieri alle casse del supermercato, nei bar, nelle pizzerie. Quello degli stranieri che «fanno i lavori che gli italiani non vogliono più fare» è uno stereotipo, basato su una generalizzazione errata.

È un fatto reale che, in diversi settori, la concorrenza degli stranieri sospinge verso il basso i salari degli italiani (dumping salariale).

È un fatto reale che il tasso di criminalità degli stranieri è molto maggiore di quello degli italiani.

È un fatto reale che l'accesso ai servizi sociali e sanitari è reso più difficile e più lento dalla massiccia presenza degli stranieri.

È un fatto reale che, specie dopo il 1990, la globalizzazione ha distrutto milioni di posti di lavoro, e che i perdenti della globalizzazione non sono stati risarciti.

È un fatto reale che ci sono territori, dentro le città e fuori delle città, che sono controllati dalla criminalità straniera e in cui la vita è diventata impossibile.

Naturalmente può essere vero che, su molte questioni, le soluzioni proposte dalle forze di destra non sono convincenti, o risulterebbero inefficaci. Ma non è questo il punto. Il punto è che, troppe volte, la sinistra nega l'esistenza stessa dei problemi che la gente sente come prioritari.

Fisime gratis. Zerocalcare e Ricolfi hanno capito che se la sinistra cavilla sulle puttanate poi governa la destra. Guia Soncini su L'Inkiesta il 3 Novembre 2022

Rompere le scatole ogni giorno su schwa, intersezionalismo, rave e la convinzione che la libertà d’espressione debba valere solo per i buoni è più facile che risolvere i problemi dei poveri. E costa molto meno

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Grande è la pacificazione sotto il cielo se un sociologo settantenne notoriamente moderato con un pubblico conservatore, e un fumettista men che quarantenne centrosocialaro con un pubblico di ragazzini smaniosi, dicono non solo la stessa cosa, ma quasi con le stesse parole.

L’altroieri è uscito il nuovo libro di Luca Ricolfi, s’intitola “La mutazione”, e il sottotitolo è: “Come le idee di sinistra sono migrate a destra”. Ieri su Repubblica è uscita un’intervista a Zerocalcare, nome d’arte di Michele Rech, il disegnatore più amato da un’epoca che ha bisogno dei disegni per non stancarsi a leggere testi troppo lunghi. A domanda sull’ergastolo ostativo, Rech risponde: «La destra fa la destra. Il problema semmai è la sinistra».

(Almeno, credo abbia detto questo. La più eloquente polaroid dell’uso dei virgolettati nel giornalismo italiano riguarda sempre Zerocalcare, e proprio su Repubblica. Un paio di settimane fa le pagine locali lo avevano intervistato alla presentazione del suo libro a Palermo, e lui ha raccontato d’aver detto che no, non pensava ritornasse il fascismo, che gli pareva che le posizioni restassero neoliberiste e atlantiste, e che semmai le differenze erano sul piano sociale e dei diritti, il che non è una bella cosa, «ma non penso che mo per vent’anni non ci stanno le elezioni». Il che sulla pagina del quotidiano era diventato un dolente «Spero che in Italia ci siano di nuovo delle elezioni, almeno entro i prossimi vent’anni». D’altra parte la pretesa che fuori Roma qualcuno capisca quel che dice uno che ciancica romano è invero eccessiva).

Dunque la sinistra è diventata di destra, come dimostra ogni «e quindi il problema era» quotidiano. E quindi il problema era l’articolo determinativo maschile. E quindi il problema erano i rave. A elezioni appena vinte dalla Meloni, il format era di pertinenza delle cancellettiste che ci dicevano: e quindi il problema era che non si poteva più dire niente. Ecco, ci avete detto che esisteva la cancel culture, che l’ortodossia di sinistra era prescrittiva, e ora guardate: i fascisti al governo, puntesclamativo.

Eh sì, cocca di mamma, è proprio lì il nodo: se la sinistra si dedica sempre e solo a cavillare sulle puttanate, poi finisce così. Che gli elettori votano la destra, sperando che se devono sempre e solo sentir ragionare di puttanate almeno quella nel frattempo gli abbassi le tasse.

Del come la sinistra cavilli di puttanate, Ricolfi – che non è uno di noi che pretendiamo cogliate i riferimenti alla saggistica forestiera nonché ai nostri precedenti centocinque articoli sul tema – inserisce nel suo tomo un catalogo per principianti molto dettagliato: spiega tutto, dalla schwa all’intersezionalismo, dall’inclusività alla convinzione che la libertà d’espressione debba valere solo per i buoni.

Scrivendo duecentodieci articoli al mese su questo tema, e avendoci persino scritto un libro, le storie le sapevo già tutte, epperò rileggendo quella di Lufthansa mi sono illuminata d’una nuova consapevolezza. La storia è quella della linea aerea che smette, a bordo, di dire «signore e signori» perché vuol far sentire inclusi i non binari (cioè: coloro che non si sentono mammiferi e ai quali tuttavia la nostra società non fornisce cure psichiatriche). Ricolfi dice che Lufthansa preferisce dedicarsi a queste puttanate (la parola è sempre mia: lui non le chiama mai così perché è un signore di buone maniere) invece che darci sedili con più spazio per le gambe, cappelliere con più spazio per i bagagli, pasti migliori a bordo, e insomma tutto quello cui, da viaggiatrice, darei priorità rispetto all’essere chiamata con la desinenza giusta.

È solo in quel momento che m’illumina una consapevolezza (dopo anni che mi dedico al tema, non ci avevo mai pensato: forse sono scema). Certo che preferiscono chiamarmi con la desinenza giusta: è gratis. Ristrutturare gli aerei, o anche solo migliorare il catering, sarebbe parecchio costoso. Queste fisime, invece, sono gratis.

Sono scema ma non del tutto: l’aspetto economico non mi era completamente sfuggito. Mi era chiaro che le fisime identitariste partono dall’America perché sono una distrazione di massa: se gli americani li convinci che il problema siano la razza e il genere, magari non si accorgono di non avere il congedo di maternità retribuito, o una sanità abbordabile, o un numero decente di giorni di ferie. Se col gioco delle tre carte distogli la loro attenzione dall’assenza di diritti economici minimi, magari eviti di ritrovarteli per strada coi forconi.

Però non avevo mai pensato che, per un’azienda, chiamarmi – me cliente – con l’asterisco è una forma d’attenzione più conveniente che farmi lo sconto. Credo di aver già raccontato che Chris Rock, nel suo nuovo spettacolo, prende per il culo un’azienda che ha i cartelli in vetrina contro l’odio e il razzismo e la discriminazione, e vende pantaloni da yoga da cento dollari. Cito a memoria: credo di parlare a nome di tutta la platea dicendo che preferirei dei pantaloni razzisti da venti dollari. Cito ancora a memoria: c’è qualcuno che odiate, i poveri.

Dei poveri non frega niente a nessuno (tranne se sono fattorini di Glovo, unica categoria del cui disagio economico la politica si sia preoccupata negli ultimi anni, probabilmente perché i politici non volevano sentirsi in colpa se non avevano spicci per dare la mancia al ragazzo della pizza).

Dei poveri e della cultura, ciò che da che mondo è mondo dei poveri migliora le condizioni di vita (la cultura, o qualche Gianni Boncompagni o Maria De Filippi che metta su programmi tv che facciano da ascensore sociale: quelli però non li gestisce la politica, e infatti funzionano).

Ricolfi: «L’ideale egualitario non ha difensori, né a sinistra né a destra. L’idea della cultura come strumento di emancipazione dei ceti popolari è oggi un’idea orfana». Sospetto che dipenda anche dalla fine del conflitto generazionale, dal finto egualitarismo tra docenti e discenti.

Senza arrivare all’incredibile storia, raccontata dal New York Times, del professore di chimica organica licenziato perché dava voti troppo bassi e gli studenti somari hanno diritto di non sapere niente e avere voti sufficienti a laurearsi in medicina, basta guardare ai miei vegliardi coetanei italiani, difensori dei rave.

È perché abbiamo i figli che ci vanno, dicono. E mi torna in mente quello psichiatra che mi spiegò che l’identità di genere è il modo in cui si incanala il malessere adolescenziale che una volta diventava anoressia o eroina. Mi pare una spiegazione sensata; c’è però il piccolo problema che se digiunavi o ti facevi le pere i tuoi cercavano di farti smettere: facevano i genitori. Gli adulti di oggi fanno i coetanei dei figli, che figata il rave, che figata che vuoi riempirti di ormoni, che figata che possiamo evitare le responsabilità insieme. E che stronzo il prof che ti dà i voti bassi impedendoti di diventare medico senza sapere la differenza tra una vena e un’arteria.

Ricolfi parla di «capitale anagrafico» rispetto a qualcos’altro (se volete sapere a cosa, dovete leggere il suo libro), ma io vorrei arrubbarmi la definizione per chiedermi se siamo proprio sicuri che i giovani, in quanto tali, abbiano sempre ragione, e noialtri dobbiamo adeguarci e amare i fumetti e i rave e le parole con gli asterischi. Mi pare fosse Benedetto Croce a dire che i giovani hanno solo il dovere di invecchiare. Aggiornerei dicendo che quel dovere ce l’hanno pure (di più) gli adulti.

Luca Ricolfi, la sentenza: "Ecco chi ha ucciso il Pd". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il  7 Novembre 2022.

Con i suoi saggi il sociologo Luca Ricolfi pare essersi ritagliato, tra i tanti, il ruolo di spina nel fianco della sinistra. Dalla previsione dei disastri di una manchevole gestione del Covid alla ripetuta denuncia della devastazione della scuola, dall'analisi del declino italiano, propiziato da una Repubblica delle tasse che ha soffocato la crescita economica fino alla fotografia di una nazione ferma, ingessata in una società signorile di massa, il fondatore e presidente della Fondazione di Studi Hume è la coscienza critica delle forze progressiste. La scorsa primavera ha fatto capolino alla convention programmatica milanese di Giorgia Meloni, rivelatasi un trampolino per Palazzo Chigi. Da pochi giorni è in libreria con La Mutazione - Come le idee di sinistra sono migrate a destra, pubblicato da Rizzoli. Un manifesto del fallimento della classe dirigente del Pd.

Il suo ultimo lavoro allude al passaggio a destra di alcuni valori cardine della sinistra. Ma prima dei partiti, non è cambiata la società italiana, e in che modo?

«Sì, dei cambiamenti del sistema-Italia ci sono stati, ma il più importante a me pare l'aumento del grado complessivo di incertezza, del senso generale di vulnerabilità, provocato da un complesso di fattori: a partire dal 2011, l'esplosione del problema migratorio in seguito alla morte di Geddafi; nel 2007-2013 la instabilità finanziaria; dopo la crisi finanziaria, l'irruzione sulla scena mondiale dei cosiddetti perdenti della globalizzazione. La destra ha colto il cambiamento, cercando di dare risposte più o meno efficaci all'incertezza, la sinistra non ha minimamente capito che la globalizzazione, l'Europa, le istituzioni internazionali stavano diventando invise ai cittadini in difficoltà».

La sinistra è diventata un cartello di gestione del potere e questo l'ha allontanata dall'ascolto delle esigenze della popolazione: è stato un processo inconsapevole o nel tempo è diventata una strategia per conservare il potere, abbassando il livello di istruzione e quindi di consapevolezza generale per creare una massa manovrabile con qualche slogan politicamente corretto e quindi virtualmente incontestabile?

«Direi che è stato un processo inconsapevole, guidato dalla naturale attrazione per il potere. Escluderei che dirigenti strutturalmente incapaci di accorgersi dei più elementari e vistosi cambiamenti della realtà possano aver consapevolmente perseguito forme di istupidimento delle masse». 

Perché il merito fa così paura a sinistra, se è il solo modo di riattivare l'ascensore sociale e perché la sinistra non concepisce più la cultura come mezzo di elevazione sociale, concetto peraltro gramsciano?

«Perché, grosso modo dal 1962 (anno della riforma della scuola media), e con particolare energia dal 1968, i dirigenti della sinistra si sono convinti che la partita della competizione sociale si giocasse tutta all'interno della scuola, e che la posta in gioco fossero i titoli di studio conseguiti. Di qui l'idea - imbarazzante per la sua stoltezza - che abbassando livello degli studi e asticella della promozione si sarebbe prodotta più eguaglianza».

Merito, sovranità alimentare, made in Italy, natalità: perché la sinistra ha criticato e scatenato battaglie ideologiche contro la promozione di queste parole? Sono concetti di destra, di sinistra o semplicemente di buon senso?

«A me sembrano concetti di buon senso, che sono diventati improvvisamente radioattivi quando la destra li ha fatti propri. Nei loro confronti la sinistra reagisce pavlovianamente, come il toro davanti al drappo rosso».

Perché la libertà di pensiero è difesa dalla destra e non dalla sinistra, che pare ontologicamente allergica ad accogliere punti di vista differenti e votata a squalificare e degradare chi non si sottomette ai suoi diktat culturali e dal sapore propagandista?

«La destra si è trovata, quasi per caso, a difendere la libertà di pensiero semplicemente perché la sinistra, con l'adesione acritica al politicamente corretto, ha progressivamente assunto tratti sempre più intolleranti. Un'intolleranza che, a sua volta, deriva dalla convinzione di incarnare la civiltà contro la barbarie, la ragione contro l'oscurantismo dei conservatori».

Il reddito di cittadinanza è diventata la linea del Piave della sinistra, solo che è una bandiera grillina. È il simbolo dell'abdicazione del Pd in favore di M5S del ruolo di difensore dei poveri?

«Sì, ma non è l'unica abdicazione a favore dei Cinque Stelle. Oltre alla difesa dei poveri, i Cinque Stelle stanno sottraendo alla sinistra ufficiale la bandiera della pace, l'ecologia, l'arcipelago dei bonus più o meno assistenziali».

Qual è la dottrina delle tre società, che lei ha elaborato?

«La dottrina distingue fra tre segmenti sociali, distinti in base al rapporto con il mercato del lavoro. La prima società, o società delle garanzie, è costituita dai lavoratori dipendenti stabili delle imprese medie e grandi, per lo più tutelati dalle organizzazioni sindacali. La seconda società, o società del rischio, è costituita dai lavoratori più esposti alle turbolenze del mercato: partite Iva, piccoli imprenditori, dipendenti regolari delle piccole imprese, lavoratori a tempo determinato delle imprese medie e grandi. La terza società, o società degli esclusi, è costituita da tre gruppi principali, accomunati dalla loro marginalità: lavoratori in nero (compresi vari tipi di quasi-schiavi, che ho descritto ne La società signorile di massa), disoccupati veri e propri (alla ricerca di un lavoro), lavoratori potenziali scoraggiati (disponibili a lavorare, ma non in cerca di lavoro). È incredibile, ma ai tre tipi di società corrispondono nitidamente tre opzioni politiche: i garantiti guardano a sinistra, i membri della società del rischio a destra, al movimento Cinque gli esclusi Stelle».

Chi sono oggi i deboli che la sinistra non difende più, cosa vogliono e cosa si aspettano dalla politica?

«I dati mostrano senza ombra di dubbio che i deboli sono sovrarappresentati nella società del rischio (che guarda a destra) e nella società degli esclusi (che guarda ai Cinque Stelle)».

I progressisti si sono persi inseguendo il mito del progresso, e scambiandolo erroneamente con la globalizzazione, così come cent' anni fa la destra si perse dietro il mito dell'uomo forte?

«Sì e no, per come la vedo io c'è una differenza: il mito del progresso è una forza verso qualcosa, tipo una società prospera e liberata, mentre il mito dell'uomo forte, almeno in Italia, si formò anche, se non soprattutto, come reazione ai processi di disgregazione del sistema sociale in atto dopo la fine della prima guerra mondiale».

Perché i ricchi e chi ha posizioni di rendita vota a sinistra?

«Per due ragioni distinte. L'interesse, dal momento che la sinistra ha abbandonato la lotta di classe e si è fatta establishment, attentissima alle esigenze dei ceti alti. E l'autogratificazione, perché un ricco che vota a sinistra, difende i migranti, è sensibile alle istanze LGBT+, tende a sentirsi moralmente superiore, e al tempo stesso "lava" (a costo zero) la colpa di essere ricco».

Lei ha partecipato al convegno di Milano organizzato nella scorsa primavera dall'allora leader di Fdi. Qual è il modello sociale proposto dalla Meloni?

«Per quel che riesco a capire è parecchio diverso da quello di Salvini e Berlusconi. Fratelli d'Italia non è un partito liberista, semmai è una evoluzione della destra sociale, con robuste tentazioni stataliste e welfariste. Sul piano giudiziario, poi, Fratelli d'Italia è meno garantista di Forza Italia, come del resto è emerso chiaramente con il decreto anti-rave. E poi c'è l'aspetto più interessante: la battaglia per il merito a scuola l'ha lanciata Fratelli d'Italia, mentre gli alleati sembrano avere una visione più aziendale del ruolo della scuola».

Se perfino la Meloni promuove concetti di sinistra, significa che la destra in Italia non esiste più, o che è rappresentata da Salvini e Berlusconi o da Calenda? Insomma, da zero a quattro, quante destre ci sono in Italia?

«Direi quattro, cioè quelle che ha indicato lei, ma potrebbero ridursi presto a due soltanto: la destra sociale di Meloni, e la destra liberal-liberista di Salvini e Berlusconi, o dei leader che prenderanno il loro posto. Calenda e Renzi non li vedo benissimo, a meno che riescano a convincere il Pd ad assorbirli e a macronizzarsi».

E sempre da zero a quattro, considerate le mutazioni di Fdi, quante sinistre ci sono in Italia?

«Apparentemente sei, ma in realtà solo due: la sinistra qualunquista dei Cinque Stelle, con cespugli annessi (Fratoianni e Bonelli) e la sinistra senza volto del Pd (anche lei con cespugli annessi: +Europa, qualche pezzo di "terzo polo"). La grande incognita è quale volto assumerà il Pd dopo il congresso, sempre che la lunga attesa non l'abbia nel frattempo fatto sparire».

 C'è un idem sentire dell'elettore di destra, per esempio rappresentato dai valori dell'ordine, della sicurezza, della detassazione?

«Forse un idem sentire c'è, ma credo che il cocktail sia più complesso e sfuggente. Fra gli ingredienti che lo definiscono includerei il pragmatismo, l'ostilità verso le discussioni astratte, l'insofferenza per le ossessioni del politicamente coretto, l'anti-intellettualismo, la diffidenza verso il progresso, l'ostilità alle procedure e alla burocazia. Insomma, una sorta di neo-tradizionalismo, che poggia sulla netta sensazione che la freccia del tempo non punti sempre nella direzione giusta».

I concetti di difesa della nazione e dei suoi interessi e di patriottismo reggono in un Paese di anarchici qual è l'Italia?

«Forse sì, perché il patriottismo oggi richiesto è veramente minimale, e un problema di difesa dell'interesse nazionale esiste effettivamente».

La sfida della Meloni in Europa ha possibilità di successo e in che modo differisce da quelle di Berlusconi e di Salvini, che si scontrarono con la Ue, che ne determinò l'inizio dei rispettivi tramonti?

«Sono i tempi, più che i leader, ad essere cambiati. L'Europa ha dato così cattiva prova di sé nella gestione della crisi energetica, che l'idea di una ortodossia europea da onorare e rispettare ha perso gran parte dell'antica autorevolezza. Credo che, se ci sarà un tramonto della stella di Giorgia Meloni, sarà il risultato di vicende domestiche. Tipo estenuanti trattative e bracci di ferro con Salvini e Berlusconi sulla politica economica, errori nei tempi e nei modi di varare le misure più identitarie».

A quali misure pensa, in particolare?

«Essenzialmente tre: diritti civili, specie in materia di aborto; gestione dei migranti; merito e riforma della scuola».

Lei ha affermato che questo governo rappresenta una svolta storica non perché Meloni è una donna ma perché è una persona eccezionale, diversa da tutti gli altri politici. In che senso?

«Nel senso che ha due caratteristiche che mancano agli altri leader, di destra e di sinistra: primo, crede fortemente nelle sue idee; secondo, è disposta a rischiare per non tradirle. Resta da vedere se saprà essere all'altezza anche come premier, il silenzio sulle bollette e il pasticciatissimo decreto anti-rave non fanno ben sperare».

La crisi della sinistra non è dovuta all'incapacità di produrre leader? Il centrodestra ne ha tre, che pur con tutti i difetti, lo sono. La sinistra ha prodotto solo Renzi, che non è di sinistra: come mai, carenza di qualità o questioni ambientali e culturali che impediscono la nascita di un leader?

«Domanda difficile. Forse il problema è l'eccesso di colonnelli. Sembra che nel Pd viga una sorta di principio di limitazione del potere, per cui si cerca di evitare che qualcuno ne assuma troppo. Se qualcuno ci prova, come ha fatto Renzi, il corpaccione del partito reagisce espellendo l'intruso. È come se il Pd fosse governato da un consesso di oligarchi, che temono l'emergere di un monarca».

La destra produce il primo premier italiano, le donne del Pd protestano contro il loro partito sostenendo di essere discriminate dai colleghi capi maschi. Tra i valori trasmigrati da sinistra a destra c'è anche la promozione della donna, oppure questo è sempre stato un valore trasversale, se non addirittura di destra, visto che in tutto il mondo le donne capo arrivano da destra?

«Non credo che la promozione della donna sia una nuova bandiera della destra, semplicemente non è mai stata una pratica di sinistra. Quel che colpisce, a sinistra, è la dissociazione fra la teoria e la pratica. I miei compagni sessantottini trasformavano le donne in "angeli del ciclostile", i loro discendenti maschi da Renzi a Letta- praticano la cooptazione. D'altro canto, vien da dire: ma che dovrebbero fare, se le donne di sinistra sono acquiescenti? Dopotutto la Meloni il suo posto se lo è conquistato combattendo, non certo per gentile concessione dei maschi di destra».

Da innamorato deluso della sinistra e da eminente sociologo e politologo, che via si sente di indicare al Pd, che tra cinque mesi celebrerà un congresso fondamentale per le proprie sorti?

«Io penso che fra cinque mesi, quando si degneranno di tenere un congresso, i buoi saranno già scappati nella stalla dei cinque Stelle. A quel punto al Pd resteranno solo due strade: o calendo-renzizzarsi, con grande smacco; o diventare esplicitamente quel che già è: un partito radicale di massa, che si occupa solo di diritti civili e immigrazione, ed è sinceramente convinto di rappresentare "la parte migliore del Paese"».

Perché l'argomento dell'antifascismo e della difesa strenua della Costituzione, cavalcato dalla sinistra, non ha fatto breccia nell'elettorato e perché la sinistra continua a cavalcarlo, se è sterile?

«La sinistra cavalca l'anti-fascismo semplicemente perché i suoi dirigenti, rifiutando per decenni il dialogo con la parte avversa, hanno perso ogni capacità di comprendere i vissuti profondi della società italiana. Quanto agli elettori, secondo me l'argomento anti-fascista non funziona per due ragioni distinte. La prima è che la gente non ha perso del tutto il senso dell'umorismo, e trova ridicolo evocare il pericolo fascista. Ma c'è forse anche una seconda ragione, più profonda. Contrariamente a quel che paiono pensare gli scrittori di libri antifascisti sul fascismo, l'ambivalenza degli italiani verso il fascismo non dipende da una segreta simpatia per il Ventennio, o da una incompiuta maturazione democratica, ma da una sorta di imbarazzo per la nostra storia. Quella pagina della storia d'Italia non è onorevole, e non bastano le gesta dei partigiani ad assolvere la maggioranza, che prima seguì il Duce, e solo alla fine passò dalla parte giusta. È possibile che una parte degli italiani, più o meno confusamente, quell'imbarazzo lo senta ancora». 

I miglioratori del mondo. Il narcisismo etico della sinistra che non si è accorta che il Novecento è finito. Simone Lenzi su L'Inkiesta il 29 Ottobre 2022.

La cattiva coscienza e il senso di colpa per i propri privilegi non funzionano contro una leader credibile di destra, ma ascoltando in Parlamento Soumahoro forse una possibilità di ribaltare la retorica sovranista di Meloni ancora c’è

La politica, diceva Rino Formica, è «sangue e merda». Per raccogliere un plauso unanime basterebbe dire che in questi ultimi anni il secondo ingrediente non ce lo siamo fatti mancare. Se ne è sentito così forte l’odore che in troppi hanno smesso di andare a votare. Tuttavia mi preme assai più parlare della mancanza di sangue, soprattutto a sinistra.

Perché il 25 Settembre ci siamo accorti che la sinistra, rimbambita di marketing e storytelling, non aveva in realtà né prodotti da vendere né storie vere da raccontare. Da questo punto di vista, il discorso di insediamento di Giorgia Meloni e le repliche in aula alla Camera, sono stati illuminanti.

Da una parte la destra, incarnata in una leader credibile, una donna forte così poco abituata a camminare dietro agli uomini (con buona pace della Serracchiani) da essersi messa in tasca Berlusconi, the last of the famous international playboys, l’ultimo patriarca con harem al seguito. Dall’altra, invece, nulla. O quasi (sulla speranza annidata in questo quasi, tornerò in seguito).

Una leader credibile di destra che dice cose di destra, ma che, proprio per questo, andrebbero comprese fino in fondo. Per chi non lo avesse capito, ad esempio, il suo richiamo all’essere madre, nel famoso climax spagnolo, non serviva tanto a relegare le donne nel ruolo di madre, come si piagnucolava a sinistra.

Serviva piuttosto a parlare all’inconscio collettivo di un Paese in cui, al tempo in cui le famiglie funzionavano meglio dello Stato, a guidarle erano, con mano ferma, le donne. Da qui il sottinteso e intramontabile “tu la mi’ mamma la lasci stare”, che parla al cuore degli italiani assai più della petizione di principio delle quote rosa (soprattutto quando servono a portare in parlamento congiunte di patriarchi ben più famosi di loro, ancorché di sinistra).

Da una parte la destra, dicevo. Senza più complessi. Una destra che si è accorta con perfetto tempismo di una cosa che invece continua a sfuggire alla sinistra: il Novecento è finito. Dispiace, sono il primo ad ammetterlo, data l’età, ma è finito.

Dall’altra una sinistra affetta da narcisismo etico, la cui preoccupazione principale non è più quella di rappresentare gli interessi legittimi e le aspirazioni di chi cerca riscatto, ma quella di andare a letto ogni sera con la coscienza stirata, al calduccio della sensazione di far parte degli incompresi miglioratori del mondo.

Una sinistra il cui immaginario di riferimento e la cui esperienza di lotta per la sopravvivenza nella modernità coincide con quella di un professore di liceo (volevo dire professoressa, ma poi apriti cielo): uno insomma il cui mondo comincia a sei anni dentro una scuola e lì finisce a sessantacinque.

Nel mezzo, unico vero disagio, una vaga sensazione di frustrazione per una società che non ne onora il ruolo, ma pazienza: ci sono comunque le lunghe ferie pagate, la tredicesima, tanto tempo libero per ribadire sui social che si sta dalla parte del giusto. Ecco, la sinistra è questo: nessuno si senta offeso, nessuno si senta escluso. E per questo si è occupata soprattutto di pronomi, di articoli, di linguaggio inclusivo, di carezze a mille suscettibilità. Di quelli, insomma, che qualcuno, di là dall’oceano, chiamerebbe white men problems.

Di conseguenza, questa sinistra, che si dibatte fra la cattiva coscienza del privilegio e il senso di colpa, parla ormai soltanto a chi gode di entrambi: di privilegi e di sensi di colpa. Per quanto ne so, non esiste miscela più micidiale per condannarsi a una petulante ininfluenza.

E il pezzo potrebbe finire qui, non fosse che io alla sinistra un po’ ci tengo, fosse anche solo perché di una sinistra c’è bisogno. Ecco allora che, dai banchi dell’opposizione, si è alzato a parlare Aboubakar Soumahoro, il cui nome ho dovuto cercare su Google perché so chi è ma non sono mai sicuro di come si scrive. E, sia chiaro, posso permettermi di dirlo con leggerezza, per tanti buoni motivi.

Intanto perché non sono un professore di liceo e quindi sono dispensato dal saperla lunga. Ma soprattutto perché, provenendo da una famiglia uscita solo di recente dalla servitù della gleba (mia nonna da ragazza aveva solo un paio di scarpe, che metteva di domenica), non mi sento in colpa per essere un maschio bianco etero di mezza età che mette insieme pranzo e cena ma che ha problemi con questi nomi così incasinati.

Comunque sia, proprio in questa mia totale assenza di senso di colpa, sono rimasto impressionato, affascinato persino, dal discorso di Soumahoro, perché era pieno di quel sangue e di quella verità che mancano alla sinistra.

C’era, nelle sue parole, il sangue di una storia che nasce nella realtà del mondo e non nelle delicate proiezioni di come vorremmo fossero gli altri per adeguarli al narcisismo etico del ceto medio riflessivo. «Italiani si nasce, ma si diventa anche, e non per questo si è meno italiani»: in una frase Soumahoro ha rovesciato la retorica sovranista della Meloni, riallacciandosi idealmente al discorso altissimo di Ciampi sul patriottismo, e declinandolo nei termini di una lotta che non riguarda soltanto i nuovi arrivati, ma tutti coloro che aspirano a una piena cittadinanza. Allora ho pensato che, con storie così, raccontate così, alla fine la sinistra potrebbe persino farcela.

Certo, Soumahoro dovrebbe liberarsi di parecchi, forse troppi compagni di strada che sono l’esatto opposto di quello che lui rappresenta. Certo, dovrebbe liberarsi anche del vampirismo dei vecchi manovratori che, in ogni caso, sono già dietro le spalle di chiunque ci metta la faccia, a ragionare di liste e alleanze col bilancino, pur di salvarsi un’ennesima volta. Ma comunque, in definitiva, fosse lui, un altro, o un’altra (e Dio lo volesse, purché non un’anti-Meloni studiata a tavolino da un’agenzia di marketing), quello che mi premeva dire è semplicemente questo: stai a vedere che è tornata la Politica.

Nonostante tutto, per chi ama la democrazia, è una buona notizia.

Fu Lenin il vero maestro dei crimini di Stalin. Orlando Sacchelli il 20 Ottobre 2022 su Il Giornale.

In molti libri ed enciclopedie Lenin viene ricordato come rivoluzionario e iniziatore del movimento comunista internazionale. Si dimentica, però, che molti crimini di cui si macchiò più tardi Stalin furono avviati da Lenin stesso. E la cosa non sembra imbarazzare Bersani (e il Pd) 

Uno degli errori più grandi che possono essere fatti, limitandosi a letture frettolose, è considerare Lenin meno colpevole di Stalin. In realtà taluni gravi crimini vennero messi in pratica dai rivoluzionari russi subito dopo aver preso il potere. La violenza criminale non è figlia della degenerazione staliniana, dunque, ma era stata teorizzata e messa in pratica anni prima. Ci soffermiamo su Lenin perché, di recente, dopo le polemiche sulla cosiddetta "cancel culture" legate alla richiesta di rimuovere da taluni ministeri il ritratto di Mussolini, è spuntata una foto (che risale allo scorso mese di giugno) in cui si vede Bersani che parla in una sede del Pd con tre grossi ritratti alle spalle, tra cui campeggia quello di Lenin in mezzo a Gramsci e Togliatti. Tra i punti di riferimento ideali del primo partito della sinistra italiana, dunque, c'è anche Vladimir Il'ič Ul'janov, meglio noto come Lenin?

Sembra incredibile ma a giudicare da certi ritratti, mostrati con orgoglio nella sede dem, è proprio così. Eppure Lenin fu maestro di Stalin nella "pratica del terrore". Decenni di storiografia partigiana hanno contribuito a diffondere il mito di Lenin, che ancora oggi viene ricordato prevalentemente come rivoluzionario, politico, filosofo e scrittore d'ispirazione marxista. Un uomo di pensiero prima che di azione, a cui vengono riconosciute molte attenuanti e che non ha subito l'onta riservata a Stalin. Quasi a voler "salvare il salvabile" del comunismo sovietico, preservando da ogni accusa il suo ideatore-fondatore.

Nel libro "Il terrore rosso in Russia 1918-1923" Sergej Petrovič Mel'gunov ne parla espressamente già nei primi anni Venti del Novecento: "Gli esponenti bolscevichi sono soliti presentare il terrore come conseguenza della collera delle masse popolari: i bolscevichi sarebbero stati costretti a ricorrere al terrore per le pressioni della classe operaia... il terrore istituzionalizzato si sarebbe limitato a ricondurre a determinate forme giuridiche l'inevitabile ricorso alla giustizia sommaria invocata dal popolo". Ma la verità sarebbe stata molto diversa: "E si può agevolmente dimostrare, fatti alla mano, quanto tali affermazioni siano lontane dalla realtà", scriveva Mel'gunov.

La tirannia, gli stermini e il dispotismo contraddistinsero il comunismo sovietico fin dalle origini, come emerso dagli studi di Andrea Graziosi ("L'Urss di Lenin e Stalin", Il Mulino) e nel saggio "Stalin e il comunismo" comparso nel libro "I volti del potere" (Laterza). "Stalin apprese da Lenin la gestione spietata del potere, l'uso elastico dei precetti ideologici a seconda delle circostanze", ha scritto lo storico. E il loro culto della violenza fu presente fin dagli albori. Basti pensare cosa scriveva Lenin nel 1906 soffermandosi sulla presa del potere, per la quale sarebbe stata necessaria una guerra rivoluzionaria "disperata, sanguinosa, di sterminio". E, sempre Lenin (questa volta citando Marx), nel 1918 invitò i bolscevichi a impiegare "metodi barbari" contro i nemici della rivoluzione.

Fu sempre Lenin a ordinare "impiccagioni e torture di massa", scrive Graziosi, esplicitando che la vita di un comunista valeva da 12 a 50 vite contadine (ricorda qualcuno?), a chiedere di punire in modo durissimo i villaggi "covi delle rivolte" e il "banditismo", cancellando villaggi interi che si erano macchiati di una gravissima colpa, aver sviluppato il "libero commercio". In una lettera scritta al Comitato centrale un dirigente definì tale politica "sterminio di massa senza alcuna discriminazione". 

Lenin mise inoltre in pratica la "decosacchizzazione" nel 1919, ed arrivò persino ad affamare i nemici mediante la carestia (1921-22), oltre a far deportare gli intellettuali e reprimere i religiosi. Più tardi, negli anni Trenta, appresa la lezione Stalin perfezionò l'arma della fame. A farne le spese furono milioni di ucraini, che definirono la pratica "Holodomor" (sterminio per fame).

Il noto dissidente russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn, premio Nobel per la Letteratura nel 1970, ricordò in questo modo la repressione sovietica a Tambov, città roccaforte cosacca, nel 1919: "Folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciati dalle mitragliatrici. L’insurrezione di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti per reprimerla abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban’, del Terek, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio".

Che dire infine dei Gulag, i campi di lavoro forzato usati come mezzi di repressione degli oppositori, fondati ufficialmente nel 1930. Esistevano già ai tempi di Lenin: i primi, infatti, furono avviati nel 1923 nelle isole Solovki, nel Mar Bianco. Del resto nel "Che fare?", testo-chiave di Lenin scritto tra il 1901 e il 1902, vi erano già, nero su bianco, le premesse dei crimini del comunismo e delle sue avanguardie.

Gli orfani di Stalin indignati da Mosca. La colonnina di mercurio sale e segna temperature elettorali da punto di fusione. Francesco Maria Del Vigo il 30 Luglio 2022 su Il Giornale.

La colonnina di mercurio sale e segna temperature elettorali da punto di fusione. E a fondersi è, soprattutto, la ragionevolezza. Mancano ancora quasi due mesi alle elezioni e la stampa di sinistra ha già iniziato a raschiare il fondo del barile. Ieri, su Repubblica, i primi segnali di cortocircuito sono stati evidenti. Il giorno prima La Stampa (stesso gruppo editoriale) aveva pubblicato fantomatici report sui rapporti tra uomini della Lega e quelli del Cremlino, con conseguente ira della sinistra per le insopportabili ingerenze di Putin sulla politica italiana. Esplosa la prima cartuccia però, ne serviva subito un'altra da sparare contro il soldato Salvini, perché lui, si sa, è abituato ai colpi e non è mica facile buttarlo giù: i romanzi di appendice sulle liaison con Putin non bastano. Allora l'idea geniale del quotidiano diretto da Molinari: aggiungerci anche gli immigrati, da utilizzare come spauracchio contro il centrodestra. Una pennellata d'artista. Tenetevi ben saldi perché la sceneggiatura è da equilibrismo circense: i russi spingerebbero i barconi pieni di migranti dalla Cirenaica in Italia per mettere sotto pressione il Paese e quindi avvantaggiare elettoralmente il leader della Lega. Praticamente tutto il mondo ruota attorno a Salvini: secondo questa logica, molto poco logica, chissà che l'escherichia coli nell'Adriatico non sia una contromossa anti russa per mettere in difficoltà il salviniano Papeete. In questo racconto fantascientifico da ombrellone la sinistra cuoce nello stesso pentolone tutte le sue ossessioni: dal mito dei migranti (che strumentalizza con grande disinvoltura) al complottismo su Mosca.

Proprio loro, nipotini di un Pci che per decenni ha preso soldi dall'Unione Sovietica. Alla faccia delle ingerenze straniere E siamo solo alla fine di luglio. Tra agosto e settembre probabilmente inizieranno a captare segnali dallo spazio per dimostrare pericolose connessioni tra Salvini e i marziani. D'altronde c'erano già i fascisti, ci vuole un attimo a catapultarci pure i leghisti.

Dagospia il 21 agosto 2022. Dall’account facebook di Giorgia Meloni il 21 agosto 2022.  

Dopo i giovani candidati del Pd che negano il diritto all’esistenza e alla sicurezza di Israele, arriva anche chi inneggia all’Unione Sovietica. Questo è il post del segretario metropolitano del Pd di Napoli Marco Sarracino, uno dei capolista under 35 scelti direttamente da Enrico Letta. Sarracino, candidato alla Camera nel collegio plurinominale Napoli 2, ha scritto: “Buon anniversario della Rivoluzione”. Bolscevica, ovviamente. Con tanto di foto di Lenin e Armata rossa.

Chissà se Letta rivendicherà anche questo nelle sue interviste alle TV estere, chissà quanto la comunità internazionale apprezzerà un partito che inneggia all’Unione Sovietica - un regime totalitario comunista che ha oppresso per mezzo secolo la libertà dei popoli europei, facendo milioni di morti - mentre, tra l'altro, i carri armati russi entrano in Ucraina con tanto di falce e martello a rivendicare proprio i confini dell'URSS.

Dopo le manovre russo cinesi. America ed Europa devono capire che al mondo non c’è solo l’Occidente: la crisi mondiale vista con gli occhi di Gramsci. Michele Prospero su Il Riformista il 24 Agosto 2022 

Le “grandi manovre d’Oriente” (e anche l’invito a Mosca per il G20 in Indonesia) smontano pezzi importanti del dispositivo ideologico di una guerra ineluttabile tra democrazia e autocrazia che viene attualmente utilizzato come il principale schema interpretativo delle relazioni internazionali. Insieme alle autocrazie di Russia, Bielorussia, Tagikistan e Cina ha partecipato infatti alle esercitazioni militari congiunte anche l’India. Ovvero, la più grande democrazia mondiale che vanta una storia di “modernizzazione” in cui molto pronunciata è l’influenza occidentale.

L’Europa e l’America trascurano quel fenomeno politico rilevante rappresentato dalle molteplici esperienze di statualità che nel mondo seguono percorsi alternativi rispetto a quelli liberaldemocratici tracciati dall’Occidente. Con una impostazione dei rapporti internazionali nei termini di un generale scontro di civiltà tra mondo libero e Stati canaglia, le sorti dei valori democratici e l’avanzata della cultura dei diritti fondamentali non migliorano di sicuro. Miliardi di persone, che non vivono sotto l’ombrello delle liberaldemocrazie, non possono essere sacrificati sull’altare del loro regime politico interno assunto quale misura dell’asimmetrica legittimazione posseduta dagli Stati nelle relazioni internazionali.

Enumerando gli “elementi per calcolare la gerarchia di potenza fra gli Stati”, Gramsci nei Quaderni (Q. 4, (XVIII), p. 38 bis) ne elencava tre: “1) estensione del territorio, 2) forza economica, 3) forza militare”. A questi tre indicatori di carattere quantitativo egli aggiungeva, come quarto indice da considerare, anche “un elemento imponderabile”, cioè quello che rimarca “la posizione ideologica che un paese occupa nel mondo in ogni momento dato, in quanto ritenuto rappresentante delle forze progressive della storia”. Il possesso di tutti questi ingredienti conferisce una spiccata capacità di influenza (“un potenziale di pressione diplomatica da grande potenza”) dato che, oltre alla forza effettuale (che mostra la vittoria prevedibile sulla base del dispiegamento delle milizie), dispensa allo Stato una forza ipotetica capace di condizionamento. In virtù di questa calcolabilità delle prerogative militari, economiche ed ideologiche, alla grande potenza riesce possibile “ottenere una parte dei risultati di una guerra vittoriosa senza bisogno di combattere”.

Le relazioni internazionali esprimono, secondo l’approccio di Gramsci, un terreno di rapporti interstatali dal carattere asimmetrico perché in essi gioca, accanto alla stretta effettualità della potenza, un ruolo cruciale il momento dell’egemonia. “Il modo in cui si esprime l’essere grande potenza è dato dalla possibilità di imprimere alla attività statale una direzione autonoma, di cui gli altri Stati devono subire l’influsso e la ripercussione: la grande potenza è potenza egemone, capo e guida di un sistema di alleanze e di intese di maggiore o minore estensione”.

Non conta, dunque, solo la giuridica prerogativa di un territorio di essere un soggetto formalmente presente nelle arene delle relazioni internazionali. Va presa in considerazione anche la sostanziale possibilità di esprimere una posizione incisiva ed esercitare una visibile influenza nelle cose del mondo. Questi requisiti connessi alla capacità di influenza e direzione accompagnano solo poche delle entità statali. Una “direzione autonoma” non si esaurisce nel riconoscimento giuridico di essere parte degli attori che sono ospitati negli organismi delle Nazioni Unite; serve una effettuale condizione che mostri, nelle relazioni con gli altri, i segni dell’autonomia ovvero della forza.

Accanto a Stati che dispongono di significative risorse per esercitare un “influsso” e avere una certa “ripercussione” nei processi politici, esistono delle statualità con una rilevanza pari allo zero. Si incontrano poi altre e più grandi entità politiche organizzate dotate di una forza tale che consente loro di rivendicare il ruolo di potenza egemone. Questi Paesi sono in grado di esercitare pressioni, concordare aiuti, fornire assistenza e quindi di proporsi come Stati guida alla testa di una alleanza di nazioni che si contendono, con altre aggregazioni, il governo del mondo. Con lo scioglimento del Patto di Varsavia, gli Stati Uniti hanno coltivato la sensazione reale di essere entrati in un mondo divenuto ormai unipolare. Sulla base della supremazia, spalancata plasticamente con il collasso storico del nemico della lunga guerra fredda, il punto 4 di Gramsci, quello cioè relativo alla ideologia, è diventato il caposaldo di una operazione condotta nel solco della “fine della storia”, con le potenze del bene, dei diritti, della democrazia, autorizzate a celebrare il loro trionfo irreversibile.

Questa pax imperiale americana è durata poco perché tutte le potenze escluse, umiliate, marginali, o anche in ascesa, si sono variamente riaffacciate sulla scena. Perso il richiamo del numero 4 (la mobilitazione ideologica) che accompagnò il grande mito sovietico, alla riesumazione della potenza nazionalista e bellicosa dell’autocrazia russa contribuiscono il punto 1 (estensione territoriale, con risorse naturali di notevole rilevanza) e il punto 3 (la forza militare, con il possesso di armi atomiche). Anche se il punto 2 (la consistenza del “potenziale economico”) non è paragonabile a quello vantato dalla superiore macchina americana, il territorio pieno di risorse energetiche attribuisce alla Russia un potere di ricatto capace di indebolire la capacità produttiva delle potenze industriali occidentali.

Trascurare la rinascita russa e, addirittura, “abbaiare” con i simboli della Nato ai confini, adottando una strategia di puro contenimento militare con allargamenti ai limiti della intransigenza nei vecchi territori di influenza sovietica, non sono le sole politiche possibili verso Mosca. Il risentimento e l’esplosione dell’orgoglio nazionale dell’impero ferito (che ha un’ampia estensione territoriale, ma senza “una popolazione adeguata, naturalmente” per condurre davvero una minacciosa politica di espansione e conquista continentale) conducono a fenomeni bellici prolungati che rendono più complesso, e meno vantaggioso per l’America stessa ma soprattutto per i satelliti europei, il governo del mondo attraversato da nuove polarizzazioni militari.

Secondo Gramsci, “nell’elemento territoriale è da considerare in concreto la posizione geografica”. Nel caso specifico russo, si tratta di una territorialità di carattere pluri-continentale che mostra il governo di Mosca sospingere i propri progetti ora verso Occidente, ora verso Oriente. Mentre Pechino venne attratta in passato dagli Usa in efficaci politiche di contenimento dell’espansionismo sovietico, oggi la Cina è sospinta per ragioni tattiche verso Mosca che organizza i molteplici centri di resistenza al dominio americano. Un capolavoro con tracce di insipienza tattico-storica degli strateghi Usa ha condotto, come naturale reazione precauzionale-difensiva, verso un’alleanza tra due grandi Paesi (storicamente rivali) che accantonano differenze e convergono in una comune istanza di contenimento dell’Impero a stelle e strisce.

La Cina è la sola grande potenza che può già oggi cominciare a competere con gli Usa sulle quattro variabili indicate da Gramsci (anche nella dimensione militare e navale, infatti, sembra ormai aver imboccato la strada per colmare il divario) e ciò giustifica la crescente accentuazione del sentimento di rivalità che caratterizza l’America ossessionata dal pericolo di un sorpasso. E’ vero che il profilo ideologico non è più quello di sessant’anni fa, ma una narrazione e un simbolismo caratterizzati dal richiamo al marxismo (espressione della cultura occidentale) rimangono pur sempre nella iconografia del regime di Pechino. Se, come suggerisce Gramsci, “nella forza economica è da distinguere la capacità industriale e agricola (forze produttive) dalla capacità finanziaria”, si comprende in radice il timore serpeggiante nel governo americano.

Il potere statunitense percepisce che la globalizzazione, proprio da Clinton accelerata, ha minato la tradizionale egemonia nordamericana nell’economia-mondo e ha corroso persino la sovranità del dollaro e della borsa (anche sul versante finanziario Pechino sfida apertamente gli Usa con minacce e ritirate). Dinanzi alle “grandi manovre d’Oriente”, l’America può continuare nella battaglia frontale attirando a rimorchio un’Europa che grazie alla sua memoria storico-giuridica serve all’Impero per condurre in maniera più credibile la battaglia n. 4 (per la democrazia e i diritti). Ma alla sfida per il riconoscimento lanciata da Russia, Cina, India e Iran, Stati assai influenti e provvisti di una autonoma capacità di decisione nel campo della politica estera, l’Occidente non può rispondere spingendo semplicemente sulla leva militare.

Un accomodamento politico creativo alla spinosa emergenza di Taiwan va pure escogitata, e con tempestività. La cooperazione, il multilateralismo, la soluzione diplomatica agli obiettivi di potenza alla fine rappresentano una opzione meno costosa, più pacifica e più utile agli stessi interessi occidentali in declino e chiamati necessariamente a ridefinirsi su basi diverse, alla luce dei nuovi equilibri visibili su scala mondiale. Michele Prospero

Così l’Urss stroncò la Primavera di Praga. Il titolo eclatante della Gazzetta del Mezzogiorno. «Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno» nel 1968: repressione simile all’invasione nazista. Annabella De Robertis su La Gazzetta del Mezzogiorno il 22 Agosto 2022.

«Come Hitler trent’anni fa» titolò «La Gazzetta del Mezzogiorno». Nella notte tra il 20 e il 21 agosto del 1968 i carri armati sovietici sono entrati nella capitale cecoslovacca e hanno messo fine alla Primavera di Praga.  Le truppe del patto di Varsavia, dodici anni dopo la sanguinosa repressione in Ungheria, stroncano il tentativo compiuto da Alexander Dubcek di riformare dall’interno il regime comunista.

«La Cecoslovacchia vive il secondo grande dramma della sua storia. Fu Goebbels che ne annunciò l’invasione nel 1939 quando il nazismo decise di incorporarla nel Terzo Reich di Hitler. Ora è la volta dei Russi che credono di scorgere una nuova minaccia all’ordine in Cecoslovacchia, in un territorio in cui anche essi sono vitalmente interessati», scrive W. Rehaki sul quotidiano.

«Sin da quando Radio Praga, interrompendo la notte scorsa un normale notiziario, ha dato all’intero Paese la drammatica notizia che truppe sovietiche, tedesco orientali, polacche, ungheresi e bulgare avevano, senza alcun preavviso violato le frontiere per occuparlo, da parte responsabile ci si è resi subito conto che l’unica cosa da fare era invitare tutti alla calma ed evitare a qualsiasi costo un confronto violento con le forze di invasione che non avrebbe avuto purtroppo alcun risultato, come a Budapest nel lontano 1956».

Nella notte le truppe sono avanzate in città, infatti, quasi senza incontrare resistenza: la popolazione ha reagito in modo non violento, tuttavia non sono mancati morti e feriti tra i civili. All’alba il primo ministro Dubcek e gli altri membri del governo sono stati arrestati: i sovietici, però, non riescono a dar vita subito a un governo collaborazionista. Salito al potere nel gennaio 1968, Dubcek portava avanti un programma di moderate riforme, basato sul decentramento economico e politico, sulla rinascita dei sindacati e sulla libertà di stampa. I Russi però temono che l’esempio della Cecoslovacchia possa diffondersi nel resto dell’Europa Orientale. In un pezzo di Adam Kennett-Long, corrispondente da Mosca per l’agenzia Reuter, si apprende che la Tass, agenzia di stampa dell’Urss, ha dichiarato che proprio i dirigenti cecoslovacchi avrebbero richiesto l’intervento delle truppe per porre fine alla «contro-rivoluzione».

In pochi mesi le riforme messe in atto dal governo Dubcek saranno annullate. Nel gennaio 1969, il giovanissimo Jan Palach si darà fuoco in piazza San Venceslao, a Praga, in segno di protesta. 

Una rilettura del socialismo dato per morto, senza una degna e motivata sepoltura. GIANNI CUPERLO su Il Domani il 02 marzo 2022

«Quello che ho scritto non è la verità. È il mio lascito, la mia elaborazione del lutto, è il mio testamento», dice Achille Occhetto nel suo libro Perché non basta dirsi democratici. Ecosocialismo e giustizia sociale.

In controtendenza con lo spirito (e la moda) del tempo imbocca il sentiero eretico di una rilettura del concetto di socialismo. «Quello che è intollerabile è che, qualora lo si consideri morto, lo si faccia senza una degna e motivata sepoltura».

L’appello è a guarire una «malattia della politica» figlia del vuoto di cultura, sguardo presbite, ambizione. Un vastissimo programma. Il testamento (politico) dell’ultimo leader comunista ci raccomanda la cosa più semplice: di fare presto perché è già molto tardi. 

GIANNI CUPERLO. Deputato del Partito Democratico dal 2006 al 2018, attualmente è membro della Direzione Nazionale del partito. È stato l'ultimo segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana e il primo della Sinistra giovanile.

La fine della storia. LEA YPI su Il Domani l'08 luglio 2022.

Qualche mese prima del giorno in cui abbracciai Stalin, avevo visto il suo ritratto portato in parata per le strade della capitale, durante le celebrazioni del 1° maggio, la Giornata dei lavoratori.

Il 1° maggio 1990, l’ultimo che festeggiammo, fu anche il più felice. O forse lo ricordo così proprio perché fu l’ultimo. Di fatto non poteva essere stato granché spensierato. Le code per i generi di prima necessità erano diventate più lunghe, gli scaffali dei negozi sempre più vuoti.

Qualche mese prima del giorno in cui abbracciai Stalin, avevo visto il suo ritratto portato in parata per le strade della capitale, durante le celebrazioni del 1° maggio, la Giornata dei lavoratori. Il rituale si ripeteva identico ogni anno. I programmi televisivi cominciavano prima e non c’erano partite sul canale iugoslavo, dunque non dovevo litigare con mio padre per l’accesso allo schermo. Potevo guardare le riprese della manifestazione ufficiale, poi lo spettacolo dei burattini seguito dal film per bambini, dopodiché tutta la famiglia usciva per una passeggiata, con gli abiti della festa, a comprare un gelato e farsi scattare un ritratto dall’unico fotografo della città, di solito in posa davanti alla fontana accanto al palazzo della Cultura.

Il 1° maggio 1990, l’ultimo che festeggiammo, fu anche il più felice. O forse lo ricordo così proprio perché fu l’ultimo. Di fatto non poteva essere stato granché spensierato. Le code per i generi di prima necessità erano diventate più lunghe, gli scaffali dei negozi sempre più vuoti. A me però non importava. In passato ero stata schizzinosa a tavola, ma adesso che stavo crescendo avevo smesso di fare storie perché in tavola c’era una feta scadente invece del più desiderabile formaggio giallo; non arricciavo più il naso davanti alla marmellata stantia, quando il miele spariva dalla dispensa.

«Prima la morale, poi il cibo», ripeteva fiduciosa la nonna, e alla fine aveva convinto anche me.

Il 5 maggio 1990, a Zagabria, Toto Cutugno vinse il festival Eurovision con Insieme, 1992. Io avevo seguito abbastanza lezioni di Lingue straniere da casa da capire il testo e canticchiare il ritornello tra me: «Sempre più liberi, noi / Non è più un sogno e non siamo più soli / Sempre più uniti noi / Dammi una mano e vedrai che voli / Insieme… Unite, unite, Europe». Solo a distanza di anni avrei scoperto che una canzone che avevo inteso come un inno alla libertà e alla collaborazione per la diffusione degli ideali socialisti in tutt’Europa in realtà parlava del trattato di Maastricht, che avrebbe consolidato il libero mercato. 

Intanto l’Europa era ancora nella morsa di hooligan di ogni genere, che minavano l’ordine pubblico. Qualche mese prima la Polonia era uscita dal Patto di Varsavia. I partiti comunisti di Bulgaria e Iugoslavia avevano votato per rinunciare al proprio monopolio sul potere. Lituania e Lettonia si erano dichiarate indipendenti dall’Urss. Le truppe sovietiche erano entrate a Baku per sopprimere le proteste degli azeri. Sentii i miei genitori che parlavano di elezioni “libere” in Germania dell’Est, e chiesi a mio padre: «Perché, chi si elegge nelle elezioni non libere?». Come sempre quando una domanda lo metteva in difficoltà, lui cambiò discorso: «Non sei contenta che Nelson Mandela sia stato liberato?».

Il numero di visitatori in casa si era raddoppiato; arrivavano persino quando non c’erano partite di basket o festival di musica da guardare col Direkti. I miei genitori cominciarono a mandarmi a letto presto. Nella cortina di fumo che calava sul salotto, la gente stipata a rollarsi sigarette assumeva un’aria spettrale.

C’era costernazione nel modo in cui venivano accolti, con saluti mormorati a mezza voce, eppure non si avvertiva alcun senso di pericolo. Tutti mi sorridevano e mi davano buffetti sulle spalle, rivolgendomi le stesse domande di sempre – come andava a scuola, se ero ancora la prima della classe, se continuavo a rendere il Partito orgoglioso di me. A quelle domande rispondevo annuendo, e comunicando la buona notizia: ero appena diventata pioniera, con un anno d’anticipo rispetto ai miei coetanei. Ed ero stata scelta come rappresentante della scuola, incaricata di deporre le corone di fiori sul monumento agli eroi della Seconda guerra mondiale e di guidare i compagni nel giuramento di fedeltà al Partito. Ogni mattina, prima delle lezioni, mi mettevo sull’attenti davanti all’intera assemblea, e declamavo in tono solenne: «Pionieri di Enver! Siete pronti a combattere per la causa del Partito?». «Sempre pronti!» tuonava la risposta dei pionieri. I miei erano fieri di me, e come premio mi avevano portata in vacanza al mare. 

Più tardi, quell’estate, passai due settimane al campeggio dei pionieri. La campanella ci svegliava alle sette del mattino. Le rosette servite a colazione sapevano di gomma, ma le signore della mensa erano straordinariamente gentili, persino affettuose. La mattina andavamo in spiaggia, a prendere il sole, nuotare e giocare a calcio. All’ora di pranzo ci mettevamo in fila in mensa, dove le signore ci servivano una porzione di riso, yogurt e uva, poi venivamo spediti in camerata a fare un sonnellino, o fingere di farlo, finché alle diciassette suonava di nuovo la campanella. Dopo una partita a scacchi o a ping-pong, venivamo divisi in vari gruppi di studio: matematica, scienze naturali, musica, arte e scrittura creativa. A cena ingurgitavamo al volo la minestra di verdura per precipitarci a prendere un posto al cinema all’aperto. Dopo il film restavamo a chiacchierare fino a tardi, stringendo nuove amicizie. I più grandi e audaci si innamoravano.

Le giornate erano piene di competizioni. La gara a chi faceva meglio il letto, finiva prima di mangiare, nuotava sulla distanza più lunga, conosceva a memoria più capitali del mondo, aveva letto più romanzi, sapeva risolvere le più complesse equazioni di terzo grado e suonava più strumenti. La solidarietà collettiva che i nostri insegnanti si erano prodigati a inculcarci per un anno intero andò in fumo in quelle due settimane. Fin dai primi giorni la concorrenza reciproca non era più scoraggiata ma favorita dall’alto, e calibrata in base al gruppo di età. Adesso le corse, le finte Olimpiadi e i concorsi di poesia venivano organizzati dalla direzione, ed erano una parte così intrinseca della nostra vita al campeggio che solo gli elementi più piccolo-borghesi e reazionari potevano pensare di sottrarsi. Al termine dei quindici giorni, pochissimi bambini tornavano a casa senza almeno una stelletta rossa, un gagliardetto, un attestato di merito o una medaglia, se non come singoli individui almeno come membri di una squadra. Io avevo la collezione completa.

Il mio primo campeggio dei pionieri fu anche l’ultimo mai organizzato. Il fazzoletto rosso che avevo faticato tanto a conquistare, e che indossavo con fierezza ogni giorno a scuola, si sarebbe tramutato in uno straccio usato in casa per la polvere. Le stellette, le medaglie, gli attestati, persino il titolo di “pioniere” sarebbero diventati reliquie museali, ricordi di un’altra era, frammenti di una vita vissuta da qualcun altro, chissà dove.

Lo stesso per quella vacanza al mare, la prima e l’ultima della mia famiglia. Lo stato non ne avrebbe più spesate a nessuno. Quel 1° maggio fu l’ultima volta che la classe operaia sfilò per le strade a celebrare la libertà e la democrazia.

Il 12 dicembre 1990 il mio paese fu ufficialmente proclamato uno stato multipartitico, in cui si sarebbero indette libere elezioni. Erano passati quasi dodici mesi da quando, in Romania, Ceausescu era stato fucilato mentre cantava L’Internazionale. La Guerra del Golfo era già cominciata. I pezzi del Muro venivano venduti come souvenir nei chioschi della Berlino appena riunificata. Eppure nessuno degli eventi che per un anno intero si erano susseguiti a un ritmo serrato sembrava aver scalfito il mio paese. La nottola di Minerva aveva spiccato il volo, e come al solito si era dimenticata di noi. Adesso però ci aveva ripensato, ed era tornata indietro.

da Libera. Diventare grandi alla fine della storia, Feltrinelli 2022

La lettera di Bruno Fortichiari a Trockij: «Armata Rossa, arruola noi italiani». GIAN ANTONIO STELLA su Il Corriere della Sera il 3 febbraio 2022.  

La rivista «Quaderni di storia» pubblica il messaggio del dirigente comunista al fondatore dell’esercito sovietico con il quale proponeva di accogliere «buoni soldati della rivoluzione» in fuga dal fascismo. Ma Mosca declinò l’invito

«Ital’janskij Legion Krasnoj Armii»: una Legione italiana dell’Armata Rossa. Novantanove anni dopo essere stata scritta e seppellita in imperscrutabili archivi sovietici, una lettera al «caro compagno» Lev Trockij, recuperata dagli studiosi Marco Caratozzolo e Giorgio Fabre e pubblicata per la prima volta dalla rivista «Quaderni di storia» diretta dal 1975 dal fondatore Luciano Canfora, rivela una storia straordinaria.

Sette mesi dopo la marcia su Roma e la conquista del potere di Benito Mussolini, mentre i fascisti mostravano di che pasta erano fatti ammanettando Pietro Gobetti, pestando a sangue il deputato livornese Giuseppe Amedeo Modigliani, sbattendo via via in galera Amadeo Bordiga e un centinaio di dirigenti del Pci, il comunista Bruno Fortichiari, tra i fondatori a Livorno nel gennaio 1921 del Pcd’I, trasferito a Mosca, fece all’allora commissario del Popolo sovietico alla Guerra una proposta destinata a rimanere per quasi un secolo «segreta». 

«Caro compagno Trockij», scriveva in una lettera in russo (rivista da qualche amico madrelingua) datata 26 maggio 1923, «benché in Italia stia dominando un feroce fascismo (...) il nostro partito si sta comunque opponendo, e riorganizzandosi dopo ogni colpo ricevuto, continua la propria attività illegalmente...». Insomma, spiegava, «la situazione del nostro Paese è tale che in un futuro non molto lontano possiamo aspettarci uno sviluppo favorevole degli eventi»... Favorevole? La storia si sarebbe fatta carico di dimostrare, con ventidue anni di dittatura, di oppositori al confino e guerre in Africa, nei Balcani, in Russia e a casa nostra quanto fosse assurda e ingannevole quell’attesa. Ma lui era convinto: bastava serrar le file del partito, «conquistare le simpatie degli operai e delle masse contadine, organizzare dei distaccamenti militari armati per affrontare attacchi e offensive» e tutto ciò avrebbe indiscutibilmente portato «verso uno scontro armato».

E a quel punto? «Sin dalla nascita del nostro partito (1921) abbiamo costituito dei gruppi militari, ma essi sono armati in modo troppo inadeguato per una lotta contro il fascismo». Insomma, proseguiva Fortichiari, che nel 1924 sarebbe stato eletto in Parlamento per essere presto condannato a cinque anni di confino (in parte condonati: tubercolosi), il compagno Trockij doveva sapere che i comunisti italiani erano «buoni soldati della rivoluzione». Ma numerosi «dei più combattivi» erano «stati costretti a lasciare il nostro Paese e di giorno in giorno altri ne seguiranno».

Venendo al punto: «Ciò che si sta verificando è la perdita di tutte le giovani energie rivoluzionarie». Dunque? «Una soluzione, parziale ma efficace, potrebbe essere senza dubbio la costituzione nell’Armata Rossa di un distaccamento di ufficiali italiani rossi, [cioè] una “Legione Italiana”». Questa era la sua proposta: «So che la Russia è già molto ricca di uomini, ma sono sicuro che una legione italiana apporterebbe un supporto morale rilevante alla realizzazione degli scopi rivoluzionari, sia all’interno della stessa Armata Rossa, sia nei confronti delle forze nemiche che prima o poi saranno inviate dagli Stati borghesi contro la Russia». Certo, nella patria sovietica c’erano «pochi emigrati politici italiani, più o meno 30», ma alcuni avrebbero potuto «organizzare un nucleo permanente attorno al quale si potrebbe concentrare una parte dei compagni dispersi fuori dall’Italia». E via così...

Altri, forse, avrebbero liquidato l’appello cestinando la lettera come frutto d’un sogno velleitario. Trockji no. Anche perché, sotto la firma di Fortichiari, c’era una nota in francese che spiegava come la proposta avesse l’«approbation», con tanto di firma autografa, di Umberto Terracini, Antonio Gramsci e Mauro Scoccimarro. Come poteva lui, Trockji, fondatore e comandante dell’Armata Rossa, ignorare tout court la richiesta d’aiuto?

Va da sé, scrivono Marco Caratozzolo e Giorgio Fabre, gli autori del saggio Non solo un piccolo nucleo all’interno della straordinaria Armata Rossa sullo scoop storico, che sulle prime lo stesso destinatario dell’appello pareva «velatamente favorevole all’idea». Tanto da scrivere che «la costituzione di una legione di questo tipo dal punto di vista della rivoluzione italiana sarebbe opportuna», anche se «la direzione militare in nessun caso potrebbe assumersi questo onere a suo carico» e le complicazioni diplomatiche sarebbero state «enormi».

Buona parte dei membri del Politbjuro, però, erano ostili al progetto. «Da questa cosa non si può cavare nulla», disse ad esempio Grigorij Evseevic Zinov’ev, «Si verificherà un afflusso di emigrati, una battaglia su questo campo, il malcontento per la vita a Mosca e così via. Per non parlare delle implicazioni diplomatiche». Quello era il nodo. E la cosa, dopo un «veloce giro di opinioni» durato una settimana, finì lì. Nel dimenticatoio.

Ne scrisse, in una lettera a Palmiro Togliatti del 27 gennaio 1924, ricorda «Quaderni di storia», Antonio Gramsci accennando all’«attività che per intenderci chiamerò propria del compagno Tito» (cioè Fortichiari, come chiarì subito Togliatti in una nota), «ovvero del “sistema illegale”».

Una lettera dura dove parlava di «una grande confusione e una grande disorganizzazione» non tanto contro Fortichiari ma contro l’Esecutivo del Pcd’I: «“Arrogante e irresponsabile” per l’immagine che aveva fornito del Partito, in particolare proprio ai sovietici». Tanto più che, spiegava, «bisogna anche riflettere che nella storia dei partiti rivoluzionari il lato rappresentato dall’attività di Tito (cioè sempre l’apparato illegale, ndr) è quello che rimane sempre più oscuro e che più si presta ai ricatti, agli sperperi, alle vendite di fumo».

Tornò sul tema nel 1962, prosegue lo studio sulla rivista di Luciano Canfora, Palmiro Togliatti. Il quale nel 1924 aveva sì scritto sulla rivista parigina «Riscossa» di un potenziale «apparato militare» dei comunisti italiani, ma rivendicava ora di essere stato «molto critico di questo settore del lavoro del partito, di cui parecchie volte aveva constatato l’inefficienza mascherata da una ostentazione di cospiratività piuttosto romantica che rivoluzionaria». Resta il tema: perché, perfino dopo la pubblicazione in russo nel libro Komintern protiv fašizma («Il Komintern contro il fascismo») nel 1999 della lettera di Fortichiari, non si sono aperte riflessioni su quella richiesta di collaborazione con l’Armata Rossa da parte di notissimi esponenti dell’epoca e dei decenni successivi del Pci? Soltanto un po’ di imbarazzo, per quanto si trattasse di reggere nel 1923 l’urto di un regime fascista sempre più aggressivo? Certo pesò la scelta dei sovietici di avere buoni rapporti con l’Italia fin dal 1921, quando ministro degli Esteri era ancora Carlo Sforza.

C’era già, anzi, si legge nel saggio dei due storici un accordo preliminare del 26 dicembre 1921 «in cui le parti avevano convenuto di avere a Mosca e a Roma dei rappresentanti ufficiali.

L’accordo allora non si era però concretizzato. Ma il duce, appena giunto al potere, sin dal primo discorso alla Camera del 16 novembre 1922 dichiarò il proprio orientamento favorevole: “Per quanto riguarda la Russia, l’Italia ritiene che sia giunta ormai l’ora di considerare nella loro attuale realtà i nostri rapporti con quello Stato, prescindendo dalle sue condizioni interne, nelle quali, come governo, non vogliamo entrare, come non ammettiamo interventi estranei nelle cose nostre, e siamo quindi disposti ad esaminare la possibilità di una soluzione definitiva”». E i rapporti giunsero al punto che Vaclav Vorovskij, l’uomo dei russi in Italia, si spinse a sostenere che «i rapporti con i comunisti italiani non fossero del tutto utili (o addirittura dannosi) per l’Urss». Cinismo puro.

Di più: i rapporti si fecero via via così cordiali che Iosif Stalin se ne servì per irridere all’Europa: «Avete fatto caso che alcuni governanti europei cercano di far carriera con l’“amicizia” verso l’Unione Sovietica, e persino uomini come Mussolini, a volte, non sono alieni dallo “speculare” su questa “amicizia”?».

Un vanto per Nicola Bombacci, che prima di diventare fascista (e di finire a piazzale Loreto) era comunista e sosteneva che «le due rivoluzioni, quella fascista e quella russa possono concludersi in un’alleanza fra i due popoli». Ma sale sulle ferite per Antonio Gramsci. Convinto che il pranzo di gala offerto dall’ambasciatore Kostantin Jurenev a Benito Mussolini fosse un «infelice gesto del compagno» reo di avere «ottenuto il bel risultato di intaccare il prestigio della Russia soviettista fra i lavoratori italiani».

La rivista 

Il saggio di Marco Caratozzolo e Giorgio Fabre sulla proposta di creare un nucleo di comunisti italiani all’interno dell’Armata Rossa sovietica è contenuto nel numero 95 (datato gennaio-giugno 2022) della rivista «Quaderni di storia» , un semestrale fondato nel 1975 e diretto dallo storico e filologo Luciano Canfora. In questo fascicolo del periodico, che è pubblicato dall’editore Dedalo di Bari, sono contenuti anche altri contributi interessanti. C’è un intervento di Davy Marguerettaz sul fenomeno della schiavitù nelle diverse epoche (quella antica e quella moderna) che fa riferimento a Henri Wallon (1812-1904), uno storico francese che ebbe un ruolo importante nell’abolizione della schiavitù nelle colonie. E c’è un saggio di Livia Capponi sulla figura di Cesarione, il figlio che Giulio Cesare ebbe dalla regina Cleopatra. 

Il volto oscuro di Lenin: le ombre dietro la Rivoluzione. Andrea Muratore su Inside Over il 23 dicembre 2021. Una narrazione storiografica e politologica spesso separa nettamente la condotta del governo sovietico durante la fase fondante ad opera di Vladimir Lenin, dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917 alla morte del primo Presidente del Consiglio dei Commissari del Popolo avvenuta nel 1924, e quella segnata da una presunta “degenerazione” durante il lungo regime di Iosif Stalin, durato fino al 1953. La realtà è ben più complessa e, senza cadere in semplificazioni o demonizzazioni di sorta, si può riassumere nella presa di consapevolezza del fatto che gli attori politici e istituzionali non sono monadi che cambiano nettamente al variare della leadership.

E se Stalin è ricordato in quanto associato tanto alla fase di brutale modernizzazione politica, industriale, militare dell’Unione Sovietica quanto ai massacri, alle deportazioni in massa dei dissidenti nei gulag e alle vere e proprie politiche genocide (si pensi all’Holodomor, la grande carestia ucraina, o all’eccidio di Katyn) che furono attuati per accelerarla e consolidarne l’influenza all’estero, è bene sottolineare che le premesse di tutte le politiche repressive del potere bolscevico furono poste dal suo fondatore.

Fu la vittoria della tesi sulla de-stalinizzazione esposta da Nikita Krushev nel 1956 al XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, per assolvere la nomenklatura di cui aveva fatto parte da eventuali chiamate in correo per le brutalità dell’era di Stalin, a scaricare unicamente sul dittatore le responsabilità dei gulag, delle deportazioni, del Grande Terrore di cui buona parte del Politburo di Mosca fu invece attivo sostenitore. E a creare la dicotomia Stalin-Lenin che, alla prova dei fatti e a un’attenta analisi storica, è tutt’altro che reale.

Lenin, il giacobino di Russia

Sergej Petrovic Mel’gunov, nel saggio Il terrore rosso in Russia – 1918-1923, ha sottolineato con attenzione le radici leniniste della repressione sistemica delle opposizioni politiche e anche di diverse minoranze nazionali operate nella nascente Unione Sovietica di Lenin.

Del resto già nel suo Che fare? Lenin non aveva fatto mistero della necessità, a suo avviso, di consolidare il potere rivoluzionario con un’opera di centralizzazione dei gangli del potere nelle mani dello Stato. Fin qui, nulla di diverso da quanto enunciato o promosso da altri celebri rivoluzionari. Il marxismo-leninismo, cioè a dire il marxismo nella versione di Lenin, è all’origine della Rivoluzione d’Ottobre e portò alla costruzione dello Stato comunista in Russia, ed anche altrove, accreditando l’utopia salvifica della liberazione dell’uomo dallo sfruttamento capitalistico e quella, altrettanto chimerica, della creazione di un “Paradiso in Terra“.

François Furet nel suo libro Le due rivoluzioni. Dalla Francia del 1789 alla Russia del 1917 (1999) ha messo in correlazione i metodi di Lenin a quelli utilizzati dai giacobini francesi nel periodo del Terrore, ricordando che a detta del primo capo del  Pcus “l’emancipazione comporti di per se stessa l’esercizio finalmente sovrano dei diritti politici da parte dell’intermediario della dittatura del proletariato” secondo uno schema che rper il quale lo Stato rivoluzionario era “il garante dell’uguaglianza e dunque della libertà”, oltre che il supremo giudice.

L’accezione di “Terrore rosso” è dunque storicamente sostenibile. E tra il 1918 e il 1923 andarono in scena tutte le strutturazioni che si sarebbero poi trasmesse allo stalinismo. I primi gulag, i primi esperimenti di usi politici della carestia, le prime politiche di repressione di singoli gruppi sociali o nazionali e i primi processi-farsa di massa non sono da imputare, infatti, a Stalin ma bensì a Lenin.

Come Lenin ha anticipato Stalin

Su tutti questi profili il Terrore rosso iniziò la lunga fase della repressione interna all’Urss. Il Terrore Rosso fu il nome formale che il Partito bolscevico diede a una strutturata campagna di arresti di massa, deportazioni ed esecuzioni indirizzata ai controrivoluzionari durante la Guerra civile russa che vedeva i “rossi” opporsi alle forze bianche fedeli al mondo conservatore o ai deposti Zar e alla armate straniere. Dichiarata ufficialmente il 5 settembre 1918 in una risoluzione speciale adottata dalla leadership dei bolscevichi, questa campagna affermava che “tutti coloro che avessero a che fare con organizzazioni Bianche, cospirazioni e rivolte sarebbero stati uccisi”, e pur venendo abolita formalmente nel giro di un paio di mesi continuò, nella prassi, fino alla fine del conflitto e alla pacificazione della nascitura Urss.

Dopo lo sbarco di truppe angloamericane a Arcangelo e Murmansk a agosto e il successivo attentato della socialista rivoluzionaria Fanja Kaplan a Lenin conclusosi con un insuccesso il governo concesse alla polizia segreta, la Čeka un’autorità illimitata, autorizzando la fucilazione senza processo di oppositori politici e figure scomode di ogni tipo, l’arresto dei socialisti rivoluzionari di destra ritenuti maggiormente ostili, la presa di ostaggi fra i borghesi e gli ufficiali: il 7 settembre furono rese note 512 fucilazioni a Pietrogrado, un centinaio a Kronštadt, sessanta a Mosca, ottantasei a Perm’ e quarantuno a Novgorod, mentre in precedenza a anticipare la campagna di repressione era stata l’uccisione di tutta la deposta famiglia imperiale dello Zar Nicola II a Ekaterinenburg.

Erano anni brutali e in cui le parti in causa non si facevano sconti e il Terrroe Bianco non fu di entità minore nelle fasi iniziali del conflitto. Ma ai bolscevichi spetta il discutibile primato di aver fatto della repressione una strutturata strategia organica. E a Lenin quello di esserne stato l’iniziatore.

Lenin contribuì a dare vita al primo gulag, il campo di detenzione alle Isole Soloveckie, in Carelia, dopo la fine del primo bagno di sangue del Terrore Rosso. Il primo campo di lavori forzati fu aperto dai bolscevichi nel 1920 in una delle isole, per detenere i prigionieri della guerra civile, e fu esteso tre anni dopo ai prigionieri politici che nel frattempo erano andati accumulandosi.

Il genocidio dei Cosacchi

Ma non finisce qui. Parafrasando una celebre citazione di Karl Marx sullo Zar Pietro il Grande, Lenin nel 1918 invitò i bolscevichi a impiegare contro gli avversari della Rivoluzione dei “Metodi barbari”. Stalin avrebbe individuato un’attenta e spesso maniacale divisione tra i nemici di classe, i nemici politici e gli agenti di potenze straniere per organizzare la repressione. Lenin al fioretto preferì l’accetta: un nemico della Rivoluzione era nocivo in quanto tale e da reprimere “senza pietà”. Il ricorso sistematico alla presa di ostaggi, inclusi donne e bambini, la loro esecuzione riguardò non solo i sostenitori dei Bianchi ma anche elementi ostili come i proprietari terrieri e i loro famigliari.

Una vera e propria campagna di repressione su base etnica riguardò invece i Cosacchi abitanti l’attuale Ucraina. Il comandante dell’Armata Rossa Lev Trotski guidò nel 1918l’esercito dell’Armata Rossa contro le popolazioni del sud est, scontrandosi contro i Cosacchi provenienti dalle regioni dell’Ucraina, storicamente fedeli allo Zar. Questi sarebbero anche stati disposti a accordarsi con i nuovi padroni della Russia a patto di capire i margini di autonomia concessi alle loro tradizioni, ma tutto inutile di fronte all’avanzata imperante degli evangelizzatori rossi di Lenin. I Cosacchi, resi fortemente ostili al potere leninista dalle violenze dei bolscevichi, dalle loro violazioni e dai furti perpetrati a danno delle Chiese e dei luoghi di culto, e contrari alla politica agraria di collettivizzazione si batterono a lungo, combattendo una ostinata guerriglia contro l’Armata Rossa. La resistenza dei Cosacchi fu la Vandea del giacobinismo bolscevico.

In particolare, nel romanzo Arcipelago Gulag il noto romanziere e dissidente russo Aleksandr Isaevic Solzenicyn ha ricordato l’episodio della repressione sovietica nella città di Tambov, una delle maggiori roccaforti cosacche durante l’insurrezione iniziata nel 1919: “folle di contadini con calzature di tiglio, armate di bastoni e di forche hanno marciato su Tambov, al suono delle campane delle chiese del circondario, per essere falciati dalle mitragliatrici. L’insurrezione di Tambov è durata undici mesi, benché i comunisti per reprimerla abbiano usato carri armati, treni blindati, aerei, benché abbiano preso in ostaggio le famiglie dei rivoltosi e benché fossero sul punto di usare gas tossici. Abbiamo avuto anche una resistenza feroce al bolscevismo da parte dei cosacchi dell’Ural, del Don, del Kuban’, del Terek, soffocata in torrenti di sangue, un autentico genocidio”. Lo storico canadese Robert Gellately stima 300-500mila morti nella repressione e circa 100mila cosacchi costretti a fuggire tra il 1919 e il 1920 nella vasta campagna di de-cosacchizzazione su una popolazione di 3 milioni di abitanti, fatto che avvelenò definitivamente i rapporti tra il potere sovietico e gli storici guerrieri delle steppe, arrivati nella seconda guerra mondiale a collaborare col Terzo Reich.

Morte per fame

Un ultimo punto su cui Lenin fu anticipatore di Stalin fu quello dell’utilizzo della carestia come arma politica.

La carestia russa del 1921, che iniziò nella primavera di quell’anno e durò fino al 1923, interessò soprattutto la regione del Volga e del fiume Ural e causò la morte di circa 5 milioni di persone, portando nelle campagne a diffusi episodi di cannibalismo. Essa fu dovuta a una combinazione di effetti, con i danni provocati alla produzione agricola già dalla prima guerra mondiale e, in seguito, dagli scontri della rivoluzione e della guerra civile con la sua politica del comunismo di guerra, ma Lenin e i suoi seppero sfruttarla politicamente per reprimere la Chiesa ortodossa, ritenuta responsabile di essersi intascata e appropriata degli aiuti, e lo stesso leader sovietico dichiarò la sua intenzione in una lettera al Politburo.

L’idea era separare la Chiesa dal popolo delle campagne, vittima delle carestie, seguendo una politica di “divide et impera” che consentisse di favorire il governo nel coprire il fallimento del comunismo di guerra. Stalin avrebbe portato all’estremo questa strategia inducendo con scelte politiche una carestia genocida, l’Holodomor, ma la regia dell’uso politico di questi fenomeni fu, come in altri casi di Lenin. Architetto di tutte le principali esternazioni del potere politico sovietico. Comprese quelle passate alla storia per la loro brutalità.

30 anni fa crollava l'Unione Sovietica. Natale 1991, cala per sempre la bandiera rossa: la rivoluzione è morta. Umberto Ranieri su Il Riformista il 24 Dicembre 2021.

1) Il 25 dicembre del 1991 la bandiera rossa con la falce e il martello calava dal pennone del Cremlino sostituita da quella bianco, rosso e blu della Russia. Lo Stato nato dalla rivoluzione d’Ottobre non esisteva più. La sua capacità di attrazione era venuta meno da tempo. Era fallito il tentativo di Gorbacev di ridefinire una missione che consentisse all’Urss di rientrare nelle dinamiche del mondo globale e di ridare al comunismo la capacità di emanare un credibile messaggio universalistico. Il fallimento dell’ultimo segretario generale del Pcus metteva a nudo le insormontabili contraddizioni insite nel tentativo di riformare il comunismo sovietico.

2) L’altro tentativo di riforma fu quello condotto da Chruscev. Egli comprese che occorreva fare i conti con lo stalinismo. Difficile negare gli effetti liberatori della sua denuncia brusca, clamorosa e drammatica al XX congresso del Pcus nell’indimenticabile 1956. Tuttavia la risposta del leader sovietico alla esigenza emersa all’indomani della morte di Stalin di rivedere obiettivi, strategie e ruolo dell’Urss e del comunismo internazionale fu, come scrive Silvio Pons, debole e inefficace. Nella visione del comunismo chrusceviano restava intatta la convinzione che il capitalismo andava incontro alla depressione e alla catastrofe, assente era la capacità di intendere la tenuta e il dinamismo del sistema occidentale. Di qui le illusioni su una competizione economica vincente. Fallirà il tentativo di riformare, sulla scorta delle tesi di Evsej Liberman, l’economia sovietica, introducendovi concetti quali la produttività, gli incentivi, il profitto d’impresa.

3) Chruscev uscì di scena il 14 ottobre del 1964 vittima di una congiura che avrebbe aperto la strada all’era di Leonid Breznev. Lasciava un’Urss meno dispotica di quella che aveva ereditato ma le fondamenta del regime sovietico restavano quelle forgiate da Stalin. Negli anni di Breznev sarà raggiunta la parità negli armamenti con gli Stati Uniti ma apparirà chiaro che sotto il coperchio di ferro della dittatura politica permaneva una realtà di inefficienza e degrado economico, oltreché di fame e miseria per strati sempre più estesi della popolazione. Con l’invasione della Cecoslovacchia nell’agosto del 1968 venne stroncato l’ultimo tentativo di riformare un regime comunista. La vicenda ungherese del ‘56 e quella della Cecoslovacchia nel ’68 segneranno la fine del tempo delle riforme “dall’alto”, promosse dalle classi dirigenti dell’est. In Polonia, dalla fine degli anni Settanta aveva preso corpo un movimento di massa che “dal basso” erodeva ormai le basi del regime.

4) Era inevitabile, si chiede Silvio Pons a conclusione del suo bel libro sul comunismo La rivoluzione globale, il crollo dell’Unione Sovietica? Fu Gorbacev a provocarlo involontariamente, aggiunge Pons: «Il suo ideale di un socialismo dal volto umano lo portò a varare riforme insostenibili per le compatibilità del sistema, che innescarono la dissoluzione». Nei trent’anni successivi alla fine dell’Urss si sono moltiplicati i lavori e le ricerche per capire le ragioni di fondo che hanno portato l’Urss al crollo e il comunismo allo scacco. La rivoluzione del 1917, scrive Aldo Schiavone, “rappresentò la quintessenza di quel trionfo “giacobino” della politica… che era l’esatto contrario delle previsioni e degli auspici di Marx. In questo senso fu di sicuro “una rivoluzione contro Il Capitale” (per riprendere una formula celebre) destinata a riproporre per tutto il secolo il mito della conquista del potere come puro atto di forza e di volontà. Accadde così che il carattere giacobino della rivoluzione cristallizzatosi in una forma di Stato si trasformò rapidamente in dispotismo. Infine il colpo di grazia al sistema fu inferto dalla straordinaria trasformazione capitalistica che dalla seconda metà degli anni Settanta del Novecento aveva cambiato il volto del pianeta. Travolto dal mutamento e incapace di adeguarvisi il comunismo diventerà all’improvviso una figura inattuale e obsoleta”.

5) La verità è che avevano visto bene Julij Martov e i menscevichi: quella di Lenin fu la dittatura del partito e si trasformò dopo nella dittatura del despota Stalin sulla intera società russa. L’ultima illusione dei riformatori gorbacioviani, il ritorno a Lenin, lo aveva già sostenuto Chruscev, non avrebbe impedito una crisi sempre più profonda di quel sistema. Eduard Bernstein, il socialista più denigrato della storia del Movimento Operaio, vedrà nel leninismo la conferma che le rivoluzioni finiscono col risolversi nella pura conquista del potere. Privilegiato l’aspetto militare, la costruzione di un ordine economico e sociale nuovo si esaurirà in una serie di atti volontaristici, in “tentativi capricciosi…brancolamenti dilettanteschi” che produrranno danni irreparabili.

6) Trent’anni fa, Gorbacev uscì dalla scena come un uomo sconfitto e tuttavia, senza la sua iniziativa, la fine dell’Urss difficilmente avrebbe presentato un carattere pacifico. Quel sistema avrebbe potuto esasperare il suo aspetto concentrazionario, chiudersi senza varchi come una fortezza assediata, tentare una avventura militare. Soluzioni disperate che avrebbero imposto sacrifici sconvolgenti. Imboccare la via cinese avrebbe significato una tragedia di proporzioni incalcolabili per l’Europa e per l’Urss. Gorbacev scongiurò un simile esito. Rinunciò al profilo imperiale dell’Urss lasciato in eredità da Stalin, liquidò la concezione del potere che aveva portato alle tragedie di Berlino Est nel 1953, di Budapest nel 1956, di Praga nel 1968, di Varsavia nel 1981. Il putsch dell’agosto 1991 a Mosca fu un penoso colpo di coda di un regime ormai esausto. Gorbacev uscì dalla scena come un uomo sconfitto. La sua iniziativa, scrive Silvio Pons, «se non aveva cambiato il sistema né rinnovato il comunismo, ciò nonostante, aveva privato di senso una sua difesa ad oltranza».

7) Con la fine del comunismo implodeva un sistema totalitario. Eppure le immagini di quell’ammaina bandiera senza onore nell’indifferenza dei moscoviti suscitava una profonda tristezza al pensiero dei tanti che avevano guardato al comunismo come una utopia liberatrice. Il comunismo storico è fallito scriverà Norberto Bobbio ma i problemi restano. La via maestra per affrontarli è in un ancoraggio ideale e politico alle imprescindibili lezioni della democrazia liberale e al pensiero socialista democratico. Consapevoli come scriveva Isaiah Berlin che nessuna soluzione perfetta è possibile nelle cose umane e ogni serio tentativo di metterla in atto è destinato con ogni probabilità a produrre sofferenza, delusione e fallimento. Umberto Ranieri

·        Comunisti: La Scissione dell’atomo.

La scissione di Livorno. La tragedia di un partito ridicolo con una fama di serietà come quella del Pd. Carmelo Palma su L’Inkiesta il 7 Dicembre 2022.

L’aria da adulto nella stanza ha consentito ai dem di stare al governo quasi ininterrottamente per un decennio, pur non avendo mai vinto una sola elezione politica. Nel frattempo sono passati sotto traccia certi sentimenti populisti che da sempre animano parte della classe dirigente del Nazareno

A chi chiedesse – sono falangi – con senso di dispetto e tono di rimprovero perché estranei, competitor e spregiatori prendono così seriamente le tragedie di un partito ridicolo, come il Partito democratico si è ridotto a essere, pur non provenendo e neppure dovendo congedarsi da quella accidentata storia politica, la risposta dovrebbe essere: perché il Partito democratico ha fatto di tutto per apparire (e per alcuni tratti è anche riuscito ad essere) un partito serio e perché questa immagine di serietà da “adulto nella stanza” gli ha consentito, senza vincere una sola elezione politica dalla sua fondazione, di stare al governo quasi ininterrottamente nell’ultimo decennio.

La serietà, che sia immagine o realtà, è una rendita, ma anche un onere. Frutta, ma costa. È una reputazione conveniente (forse, in Italia, neppure troppo), ma un fardello pesante. Poi il Partito democratico voleva sembrare un partito serio per tutti, non solo per chi lo aveva o avrebbe votato, e questa sussiegosa esibizione di serietà è stata il crisma post-comunista della diversità comunista: un modo per segnare la distanza dagli altri e affermare la riconoscibile, anzi incontestabile superiorità morale progressista.

Dunque oggi merita una risposta seria anche il surreale dibattito in corso nel comitato costituente del “nuovo” Partito democratico, tra le citazioni delle tesi di Marx su Feuerbach (Gianni Cuperlo), le riletture chomskyane di Lenin (Caterina Cerroni) e le polemiche millenariste contro la deriva liberista (Andrea Orlando) di un Paese in cui lo Stato intermedia un euro ogni due di prodotto e ne incassa tra tasse e contributi più o meno altrettanto.

Certo, ci si può domandare se nell’ultimo decennio tutta questa serietà, tutta questa disponibilità al servizio, tutta questa disposizione al sacrificio – di stare al Governo e al potere, di nominare ministri e direttori generali, di “essere lo Stato” come disse l’alleato Di Maio, facendo eco a un più famoso Luigi – esprimesse solo motivazioni altruistiche e accanto ai patriottici “perché” non avesse a motivarla anche ben più particolaristici “per chi”.

Rimane però il fatto che il Partito democratico al momento del bisogno c’è sempre stato, un po’ accompagnando con fatica governi d’emergenza – prima Monti, poi Draghi – e facendo di necessità virtù, e un po’ inventandosi soluzioni tampone e ribaltamenti imprevedibili (la rottamazione renziana), come nella legislatura della non vittoria e non sconfitta 2013-2018, con risultati tutt’altro che disprezzabili e, con il senno di poi (quello dell’innamoramento per il fortissimo riferimento progressista di Volturara Appula), quasi miracolosi.

Tornando dunque alle convulsioni ideologiche del Partito democratico che oggi divora se stesso e la propria stessa origine, arrivando a rintracciare nel manifesto veltroniano del 2007 segni di inammissibile cedimento e indizi di volontaria capitolazione all’ideologia del nemico di classe, c’è seriamente da chiedersi se ci sono o ci fanno. E c’è forse, altrettanto seriamente, da rispondersi che, come quasi sempre avviene in questi casi, nel Partito democratico ci sono e insieme ci fanno e le maschere e le identità si confondono e rannodano in un’unica e inestricabile contraddizione.

Intanto: ci sono. Nella discussione del comitato costituente del Partito democratico riemergono radici sepolte, ma mai estirpate, sospetti celati, ma mai dissolti, riflessi pavloviani acconciamente dissimulati, ma mai del tutto superati.

L’impressione è che tutto quello che il Partito democratico è riuscito ad essere fino a questo momento, nei tre lustri di vita, lo sia stato quasi suo malgrado e che abbia bisogno di liberarsi dal peso di questa costrizione. È stato un partito decentemente atlantista, europeista e perfino mercatista. È stato un partito che, al netto delle derive sudiste, che nella politica italiana raccolgono comunque destra e sinistra sotto il denominatore comune di un potere neo-borbonico, ha mostrato una buona capacità di governo e, in ogni caso, una apprezzabile affidabilità.

Eppure tutto questo si sta dissolvendo, anzi sta letteralmente evaporando, mentre il richiamo della foresta dell’unità nazionale populista riporta indietro le lancette democratiche a una stagione ideologicamente pre-diessina. Anche se in teoria fa ridere, una riflessione al livello del Partito comunista dell’euro-comunismo berlingueriano, precipitata in un partito progressista di cinquant’anni dopo, fa soprattutto impressione. E fa impressione perché è vera, perché risponde a ragioni tenaci e sentimenti vivi nella classe dirigente del Nazareno e certamente in una parte del suo elettorato.

Questa è la realtà. Poi c’è la maschera, la commedia degli equivoci, il consueto moralismo ipocrita e politicismo cinico. Quello che, per spiegarsi con un esempio, porta due dirigenti come Franceschini e Orlando, che hanno fatto i ministri praticamente sempre, in nome di quel terribile partito “neo-liberale”, a collocarsi sul fronte antagonista e a proseguire la loro indefessa guerra contro Renzi e il renzismo, come dimenticando di essere stati proprio loro i principali protagonisti e beneficiari di quella stagione. In questo il Partito democratico funziona (ma funzionare non è il termine appropriato) come la curia vaticana, passi felpati e pugnali, preghiere e rese di conti sanguinose.

La costituzione politica del Partito democratico, formalmente quasi perfetta, e con un elevatissimo grado di apertura e contendibilità, si è infranta proprio su questo peccato originale, cioè su una clausola oligarchica sovrapposta al principio democratico, che ha portato alla costituzione di un conglomerato di correnti e di centri di potere radicati territorialmente, ma fluttuanti politicamente, disponibili a andare avanti come a tornare indietro, a scoprirsi renziani e a riscoprirsi anti-renziani, ad andare oltre il socialismo e a tornare ad essere la trincea dell’anti-liberalismo. Un misto di doppiezza comunista e di agnosticismo democristiano, insomma. Nel Partito democratico è tutto immobile e tutto reversibile, nulla può cambiare, ma tutto può succedere.

Così, oggi quello che succede è questa sorta di scissione di Livorno, un secolo e un anno dopo. A conferma della tesi marxiana per cui la storia si ripete sempre due volte: la prima come tragedia, la seconda come farsa.

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 3 dicembre 2022.

Il primo compito che toccherà al futuro segretario del Pd non sarà riuscire a competere con il centrodestra ma tenere unita la sinistra. Più che una missione sembra un'impresa.

Quasi fossero stati colpiti da un sortilegio oscuro, coloro che volevano democratizzare il M5S si stanno grillinizzando. Anzitutto negli atteggiamenti. I democratici di oggi somigliano infatti ai Cinque Stelle di ieri, quelli di Conte e Di Maio, che erano privi di una linea comune, rissosi e in procinto di dividersi. 

Ogni dichiarazione, ogni passaggio politico nel Pd dà la percezione di un'imminente scissione tra chi propone un rilancio del «riformismo» e chi spera di «riaccendere la scintilla della Rivoluzione d'ottobre». Perfino il dibattito sulla riscrittura del Manifesto costituente del partito viene drammatizzato, tanto da far vedere a Parisi - l'inventore dell'Ulivo - una «riedizione del congresso di Livorno», dove nel 1921 si celebrò il divorzio tra socialisti e comunisti.

Il problema del Pd non sono né il calo nei sondaggi né la competizione per la segreteria: sono i toni della dialettica interna. Il modo in cui Provenzano irride i «sedicenti riformisti che d'ora in poi è meglio chiamare conservatori», fa capire che «d'ora in poi» si procederà con l'antica liturgia della scomunica e della delegittimazione. E quando il sindaco di Bergamo Gori dice che sarebbe pronto a lasciare il Pd se vincesse Schlein, preannuncia che non si assoggetterà al patto di cui si parla al Nazareno: l'accordo tra Prodi, Letta, Franceschini e un pezzo di sinistra interna, per mettere definitivamente ai margini gli ex renziani e prepararsi a un'intesa con Conte.

Raccontano che Guerini stia insistendo con i compagni che sono stanchi di essere marchiati con la lettera scarlatta. È vero, poco prima delle elezioni aveva spiegato che «se il Pd dovesse scendere sotto il 20% sarebbe condannato», ma in queste ore chiede di «lavorare per l'unità»: «Certo bisogna capire se si vuole ricostruire il partito o dare vita alla Quinta Internazionale...». 

Perché i segnali ostili sono chiari. A partire dal discorso pronunciato da Speranza durante i lavori della Costituente, con quell'indice puntato contro il Manifesto «neo liberista» del Pd (a cui peraltro contribuì nella stesura anche Mattarella). L'idea degli scissionisti di Articolo 1 - spiega un dirigente dem - non è rientrare nel partito abbandonato negli anni del renzismo: «Loro non vogliono rimettersi con noi. Loro vogliono provare il colpaccio»: spaccare cioè il Pd e poi coalizzarsi con il M5S, «secondo il disegno di D'Alema».

 Ecco il clima di sospetto, che d'altronde aleggiava da tempo. E le forzature ideologiche operate sul profilo del partito non fanno che rafforzare la tesi di chi teme una «mutazione genetica»: perché una forza nata con la «vocazione maggioritaria» così diventa un'altra cosa. Anche se il processo era già in atto, visto che da tempo nelle dichiarazioni dei suoi dirigenti, il Pd non veniva più definito di «centrosinistra».

Lo stesso segretario, per tutta la campagna elettorale, in ogni dichiarazione ha usato solo il termine «sinistra». Come se il partito fondato da due anime ne avesse smarrita una per strada. Ecco perché a prescindere da chi subentrerà a Letta - Bonaccini, De Micheli, Ricci, Schlein - sarà un'impresa recuperare l'unità se non c'è una visione comune sulla identità. Perciò il Pd di oggi sembra il Movimento di ieri. Quello di Conte e Di Maio. Prima della scissione.

Cupio dissolvi. Il dibattito para-leninista sulla rifondazione del Pd è il solito gioco delle tre carte. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 3 Dicembre 2022.

Se alcuni dei suoi padri, ex post, ne hanno denunciato il peccato originale, non è perché quel progetto sia fallito, ma perché ha funzionato così bene da poter fare a meno di loro

Il surreale dibattito sulle radici anticapitaliste del Partito democratico con cui si è aperta la sua «fase costituente» rischia di accreditare il luogo comune secondo cui quel progetto sarebbe stato un fallimento sin dall’inizio, avendo avuto la pretesa di unire due tradizioni, post-comunista e post-democristiana, che insieme non potevano stare e che avrebbero fatto meglio a rimanere divise.

Come spesso accade in politica, il luogo comune coniato dagli avversari è stato progressivamente fatto proprio dai suoi bersagli, cioè da buona parte dei fondatori del Partito democratico.

Ma il vero motivo per cui molti di quei dirigenti sono arrivati a tale funesta conclusione è in verità la migliore dimostrazione del contrario. Se infatti, ex post, ne hanno denunciato il peccato originale, non è perché quel progetto sia fallito, ma perché ha funzionato così bene da poter fare a meno di loro.

Di qui la reinvenzione della tradizione, funzionale ad attribuire a Matteo Renzi lo snaturamento del Partito democratico, che da lui sarebbe stato trasformato in un partito di destra neoliberista, rispetto a un mitico passato socialista e rivoluzionario. Salvo poi scoprire, come è accaduto alla prima riunione della «costituente» chiamata a rifondarlo, che il Manifesto dei valori steso all’atto della sua fondazione già conteneva simili tare.

In proposito il gioco delle parti ha raggiunto negli due ultimi giorni vette inarrivabili. Il resoconto del dibattito pubblicato ieri da tutti i giornali non lascia spazio a dubbi circa il significato dell’operazione: ci sono Roberto Speranza e Andrea Orlando che se la prendono con il neoliberismo di cui sarebbe impregnata la carta fondativa del 2007 (difetto di cui sembrano essersi accorti solo nel 2022, e che comunque non ha impedito al primo di fare il parlamentare e anche il capogruppo del Partito democratico fino al 2015, al secondo di fare il parlamentare e il ministro, praticamente a tutto, fino all’altro ieri); c’è Gianni Cuperlo che cita l’undicesima tesi su Feuerbach di Karl Marx: «I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta però di mutarlo» (nella versione di Palmiro Togliatti, ma a dire il vero le cronache non specificano a quale traduzione si sia attenuto Cuperlo, ammesso che non l’abbia citata direttamente in tedesco); c’è la neoparlamentare Caterina Cerroni, coordinatrice dei Giovani democratici, che confida: «Leggevo Chomsky che citava Lenin, secondo cui senza teoria rivoluzionaria non esiste alcuna pratica rivoluzionaria» (dove la crisi dell’idea rivoluzionaria è dimostrata soprattutto dalla pigrizia di non andarsi a cercare nemmeno la citazione alla fonte diretta).

Tutto questo surreale florilegio di Marx e Lenin viene ora perlopiù interpretato come un ritorno alle origini. Sarà dunque utile un veloce ripasso.

Per chiarire quale fosse la teoria rivoluzionaria dei vertici del Partito democratico prima dell’arrivo di Renzi basterebbe ricordare come Pier Luigi Bersani, all’inizio del 2011, non si facesse scrupolo di esortare a una comune alleanza anche un «terzo polo» guidato da Pier Ferdinando Casini e Gianfranco Fini (altro che Renzi e Calenda), per non parlare del modo in cui, alla fine di quello stesso anno, decideva di appoggiare l’ascesa a Palazzo Chigi di Mario Monti (con un governo tecnico assai più conservatore e incline all’austerità di quello guidato da Mario Draghi) e insisteva, anche contro una parte della sua segreteria, perché arrivasse fino al termine della legislatura.

Una linea sintetizzata da Massimo D’Alema nel bizzarro slogan «Con Monti, oltre Monti», di cui ha lasciato testimonianza anche in un libro-intervista, scritto appena in tempo per la campagna elettorale del 2013 (Controcorrente, Laterza).

Tra i pochissimi che provarono a correggere quella linea, a onor del vero, c’erano Stefano Fassina e Matteo Orfini. Certamente non c’era Enrico Letta, di cui resta memorabile il biglietto inviato al neopresidente del Consiglio Monti in parlamento, prontamente catturato dai fotografi, in cui definiva il nuovo esecutivo «un miracolo» (per la precisione, perché anche il tono conta, il messaggio si concludeva con queste parole: «Per ora mi sembra tutto un miracolo! E allora i miracoli esistono!»)

La reinvenzione del profilo politico di Letta è infatti la più sbalorditiva di tutte. Ma è ancora niente rispetto al gioco di prestigio con cui, dopo avere eguagliato cinque anni dopo il risultato più disastroso della storia del partito (quello del Partito democratico renziano del 2018), ha pensato bene che in attesa dell’inevitabile congresso, lui e l’intero gruppo dirigente (non) uscente dovessero organizzare nientemeno che la sua rifondazione.

Il summenzionato dibattito para-leninista è la conseguenza inevitabile di questo gioco di specchi, ma anche dell’inerzia di chi dovrebbe pretendere un vero ricambio e si lascia intortare come un allocco. Senza capire che l’esito ultimo di tanti magniloquenti discorsi su Marx, Lenin e la necessità di cambiare il mondo è la demolizione del Pd in quanto tale, cioè in quanto partito capace di rappresentare la grande maggioranza riformista del centrosinistra (contrariamente a un’altra lunga serie di luoghi comuni, il Partito democratico non nacque infatti come partito unico del centrosinistra, ma come unione delle sue correnti riformiste).

Preoccupati di perdere il congresso del partito che c’è, i responsabili della disfatta elettorale stanno provando dunque a inventarsene un altro in questa singolare «fase costituente» preliminare, per cercare di rimescolare le carte ancora una volta. E così, per giustificare la fondazione di un nuovo soggetto, implicitamente o esplicitamente hanno finito per certificare il fallimento del partito attuale.

Eppure è vero l’esatto contrario. Il progetto del Partito democratico è stato un completo successo, caso più unico che raro nella storia della politica italiana in cui la fusione di due partiti abbia portato a un risultato elettorale superiore alla loro somma, tanto da non essere più messo in discussione nei successivi quindici anni (l’altro caso era il Popolo della Libertà, nato proprio per rispondere da destra a quella sfida, che però è durato assai meno).

Se il Partito democratico ha potuto esercitare un ruolo centrale nella politica italiana pur non avendo mai pienamente vinto le elezioni, se i suoi esponenti hanno potuto fare tante volte i ministri, se i suoi gruppi dirigenti hanno potuto fare e disfare tanti governi, la ragione sta proprio nella scelta di lasciarsi alle spalle partiti e partitini di centro, di sinistra e di centrosinistra – quelli sì falliti – buoni solo a farsi la guerra tra loro. Eppure, di questo passo, è proprio lì che rischiano di tornare.

Un partito a caso-cortez.  La grottesca deriva anticapitalista del Pd e la sua surreale trasformazione in Dp. Mario Lavia su L’Inkiesta il 3 Dicembre 2022.

Fondato da Walter Veltroni, il Partito democratico sta perdendo ogni sfumatura liberaldemocratica, ma per aggiungere stravaganza a stravaganza i nostalgici e la ditta sembrano comunque preferire come segretario il riformista Bonaccini alla candidata di sinistra Schlein

«Pd o Dp?»: la battuta non è surreale, perché anche se sembra incredibile scivolare dal fondatore del Partito democratico Walter Veltroni a quello di Democrazia proletaria Mario Capanna sta venendo fuori l’anima “anticapitalista” che ancora alligna come un rampicante su qualche muro del Nazareno.

Ma forse – ragiona qualcuno – è persino meglio che «i matti» (definizione non nostra, ndr) siano usciti subito allo scoperto così da determinare una reazione contraria e si possa passare a una fase più seria della discussione. E infatti ieri c’è stata una reazione e ci sarà nei prossimi giorni.

Certo è che ora che la nave è senza timoniere dalla stiva esce di tutto, compresa una trita citazione di Lenin – ma questo è colore – e vari assalitori del profilo riformatore del partito creato al Lingotto, con Enrico Letta silente che ormai non governa nulla mentre il nuovo arrivato Roberto Speranza ha dato la linea: «Bisogna espungere il liberismo che si è insinuato nel Partito democratico».

C’è da chiedersi a questo punto come il suddetto Veltroni, che pure ha lasciato la politica attiva, possa continuare a restare in silenzio di fronte a questo tentativo di seppellire il "suo" Partito democratico, che tra alti e bassi in questi anni è riuscito a mantenere un profilo riformista, sociale e liberale.

Ma a parte questo, dai toni emersi nella prima riunione dei "saggi" che hanno l’improvvido compito di scrivere un nuovo Manifesto del partito – giacché ritengono superato e pure «brutto» quello del 2008 scritto da Reichlin, Prodi, Mattarella eccetera – è abbastanza verosimile che continuando così la scissione diventerebbe inevitabile e bisognerebbe porsi semmai il problema di come gestirla: cosa accomuna le idee di Nadia Urbinati a quelle del documento laburista di Marco Bentivogli? O fra la linea di Peppe Provenzano e quella di Giorgio Gori?

Qui è veramente difficile il caro vecchio compito dei mediatori, quello che tradizionalmente alla fine s’impone "per il bene del partito", giacché è arduo fare sintesi tra chi vuole (ancora!) superare il capitalismo e chi ritiene che il medesimo capitalismo abbia bisogno di riforme, ma che è il mondo in cui viviamo e vivremo.

Marx e Lenin a parte, bisognerebbe piuttosto capire se questo Comitatone abbia la legittimità per scrivere completamente la nuova "Costituzione" finendo in questo modo per sostituirsi ai candidati: hanno creato un ginepraio tale che in teoria si potrebbe finire con un Manifesto anticapitalista e un segretario riformista. Meccanismi da manicomio.

È difficile in questo senso dare torto a Stefano Ceccanti, uno dei "saggi", pronto ad andarsene se non verrà chiarita la funzione del Comitatone che rischia di riscrivere non solo i valori ma anche regole e contenuti, come per esempio le primarie: sarebbe «un’invasione».

Tutto questo sta avvenendo sotto gli occhi di Enrico Letta, che ritiene di poter fare l’arbitro del Congresso ma che ha la responsabilità di aver nominato un Comitatone di saggi sbilanciato a sinistra, come si è visto nella riunione di ieri.

Per la prima volta da tanto tempo si risentono i riformisti "ulivisti" e quelli più recenti come Giorgio Gori: «Il messaggio degli elettori non è "cambiate il Manifesto", casomai "cambiate la classe dirigente"», ha detto ad Huffington Post. «Avremmo bisogno di un’economia più dinamica e invece discutiamo dell’ordoliberismo, cioè di un fantasma».

Nella confusione generale resta un mistero perché gli "anticapitalisti" tipo Andrea Orlando, Gianni Cuperlo, Laura Boldrini, che nella riunione hanno avuto il fragoroso apporto di Nadia Urbinati e di Emanuele Felice, non appoggino Elly Schlein, la candidatura più di sinistra che verrà formalizzata domani a Roma. La eventuale vittoria della neodeputata bolognese – ha annunciato Gori – metterebbe in discussione la sua appartenenza al Partito democratico. Vedremo quello che succederà nelle prossime riunioni del Comitatone, ma se il buongiorno si vede dal mattino è prevedibile come minimo che si spaccherà.

Può darsi che sia stata una falsa partenza, può invece darsi che sia stato l’inizio della fine, la "deriva francese", appunto una Democrazia proletaria 2.0, che darebbe forza a Giuseppe Conte e paradossalmente anche a Calenda e Renzi, che proprio su questa scommettono per portare avanti la bandiera riformista.

Giallisti e riciclati, ecco l'"armata" per rifondare il Pd. Carlantonio Solimene su il Tempo il 26 novembre 2022

C'è chi, come la vicesegretaria del Piemonte Monica Canalis, se la prende con il «romanocentrismo» del partito. Chi, come il «Collettivo delle donne del Pd», mette nel mirino il «metodo» e la «poca trasparenza nelle scelte». Chi, come Chiara Gribaudo, denuncia la pressoché totale assenza di under 40. Un piccolo campionario di distinguo per mostrare come la nascita del «Comitato costituente del Pd» battezzato pomposamente da Enrico Letta nella Direzione di giovedì abbia raccolto - eufemismo - poco entusiasmo.

C'è da comprenderli, gli scettici. Tredici anni fa, quando Walter Veltroni fondò il Partito democratico, affidò la scrittura della carta dei valori a un comitato di 45 esperti che, a sinistra, avevano un certo peso. C'erano lo stesso Enrico Letta, Piero Fassino, Massimo D'Alema, Pier Luigi Bersani, Rosy Bindi, Francesco Rutelli, Romano Prodi, Giuliano Amato, Sergio Cofferati. Oggi non solo si moltiplica la partecipazione all'organismo rendendo ancora più difficili le decisioni- sono 87 i nominati, altri saranno scelti dalle Regioni, altri estratti a sorte, alla fine si arriverà a cento delegati- ma si affolla la platea prevalentemente di seconde file. Parlamentari pressoché sconosciuti, scelti non si sa bene con quale criterio. Anzi, un criterio ci sarebbe pure, secondo i maliziosi: la stragrande maggioranza fa parte delle correnti contrarie alla candidatura di Stefano Bonaccini. E siccome la consegna della nuova carta dei valori arriverà prima dell'elezione del nuovo segretario, c'è il rischio concreto che il vincitore si ritrovi a gestire un partito con una piattaforma programmatica scritta dai suoi oppositori. Un capolavoro di coerenza.

Che poi il problema non sono solo le idee, ma gli stessi profili. Tra i Dem i mal di pancia maggiori sono per la cospicua presenza di esponenti di Articoli 1. Gli «scissionisti» dell'era renziana ora rientrano dalla porta principale e si preparano a mettere il loro marchio sul futuro del Nazareno. Roberto Speranza è, al fianco di Letta, tra i «garanti del percorso costituente». E poi ci sono i vari Alfredo d'Attorre, Roberta Agostini ed Elettra Pozzilli, riciclati come esponenti della società civile.

A proposito di società civile, alcune presenze nel comitato sono quanto meno curiose. Prendasi il giallista Maurizio De Giovanni. Popolare lo è di certo, visto che le trasposizioni dei suoi romanzi in fiction Rai sono in genere accolte da un notevole successo. Ma cosa avrà da dire sul futuro della sinistra? Magari Letta & Co. sono rimasti impressionati dalla visione di «Mina Settembre», dove una giovane donna con stipendio da assistente sociale conduce una vita a base di pochissime ore di lavoro, casa nobiliare in centro storico, aperitivi con le amiche, cene in ristoranti gourmet e il tutto attraversando una Napoli senza neanche una cartaccia per terra.

Una perfetta traduzione su schermo di quel «diritto all'eleganza e alla moda» incautamente rivendicato da Soumahoro a Piazzapulita. E che dire di Enrico Giovannini? Non c'è un comitato in cui l'ex presidente dell'Istat e pluriministro non sia stato invitato. Il problema sono i risultati. La Commissione che presiedette dieci anni fa per mettere a confronto gli stipendi dei parlamentari italiani con quelli dei colleghi all'estero si concluse con un mesto «non siamo riusciti a raccogliere i dati». Un anno dopo Giorgio Napolitano lo coinvolse nel Comitato dei saggi che doveva redigere il piano di riforme istituzionali per il Paese. Anche quell'avventura, come noto, non ebbe fortuna. Né risultano lasciti memorabili dalle sue esperienze di governo.

Insomma, non fosse altro che per scaramanzia, forse sarebbe stato meglio tenerlo fuori. L'impressione, insomma, è che il pomposo comitato nasca già sgonfio e avvolto dallo scetticismo generale. Tradotto alla perfezione dalle dichiarazioni di Bonaccini: «Il comitato? Discuteremo con le persone che ieri sono state scelte - ha detto il governatore dell'Emilia Romagna ma soprattutto dobbiamo accelerare, perché credo che i cittadini non capiscano fino in fondo quanti mesi ci mettiamo per scegliere un nuovo gruppo dirigente». Come dire: lasciamo che gli esperti giochino, ma poi sbrighiamoci a passare alle cose serie.

Marcello Sorgi per “la Stampa” il 19 novembre 2022.

Oltre a sollecitare curiosità e una proliferazione di candidature, la lunga vigilia del congresso Pd dopo la sconfitta del 25 settembre sta motivando analisi le più varie. S' intuisce che dietro il protrarsi dell'attesa (sei mesi, fino a marzo, se saranno rispettati i tempi previsti, cinque, fino a febbraio, se alla fine si troverà il modo di accorciarli) c'è un serio problema politico: la scelta di allearsi con il centro di Calenda e Renzi o con i "progressisti" di Conte, che ha ormai occupato stabilmente lo spazio alla sinistra del Pd, e, almeno nei sondaggi, lo ha anche sorpassato.

Il tema delle alleanze, inoltre, è stato storicamente al centro del dibattito interno dei due partiti di cui il Pd si proclama erede: la Dc divisa tra filosocialisti e filocomunisti e il Pci altrettanto, tra filosocialisti e filodemocristiani. Infine la costruzione del cosiddetto "campo largo" è diventata via via sempre più difficile, da quando Calenda ha escluso di potersi ritrovare in coalizione con i 5 stelle, e Conte sta demolendo una dopo l'altra, in nome di una politica radicalmente pacifista ed ecologista, i patti a livello locale con il partito di Letta.

Un bel rebus. Che difficilmente può essere risolto facendo riferimento a esempi del passato che riguardano solo il Pci, e segnatamente quello di Togliatti, Longo e Berlinguer, i tre segretari che lo guidarono nel Novecento, portandolo - soprattutto Berlinguer - a percentuali elettorali ragguardevoli (nelle europee del 1984 venne perfino superata la Dc), ma allo stesso tempo segnandone la fine, giunta poi con la caduta del Muro di Berlino nel 1989 e tutto quel che ne seguì a livello mondiale. Cercare le ragioni della crisi presente negli irrisolti problemi del passato è giusto.

Tenendo però presente che il Pd è il prodotto della crisi simmetrica di Dc e Pci, i dirigenti attuali provengono dai due grandi partiti di massa del tempo che fu. «Un amalgama mal riuscito», lo definì D'Alema. Dimenticare i democristiani, o peggio, considerare in tutto e per tutto assimilabili ai post-comunisti i democristiani di sinistra che nel 2007 confluirono, via Margherita, nel partito fondato da Veltroni, sarebbe un errore. Anzi, è da quella differenza tra chi per mezzo secolo era stato al governo e chi all'opposizione che bisogna partire - dovrebbero farlo entrambi, ex-dc e ex-pci -, per capire meglio le questioni di oggi.

Fulvio Abbate per mowmag.com il 19 novembre 2022. 

Pensa, occorreva l’arrivo dell’Ingegnere per constatare con immediatezza l'abisso del Partito democratico. Carlo De Benedetti che cala infatti il sipario sul partito che si pretendeva forte del brand veltroniano della “vocazione maggioritaria”, ai nostri occhi, va ora, idealmente, immaginato in signorile vestaglia da camera mentre, subito giù in basso, si scorge un paesaggio di macerie politiche irrimediabili. 

In un film di Dino Risi, “Il gaucho”, una scena fa al caso nostro. Siamo a Buenos Aires, nella villa di un altro Ingegnere, interpretato da Amedeo Nazzari. Questi, accogliendo una comitiva di cinematografari romani in gita, si esibisce generosamente intonando una melodia del Paese lontano.

Vittorio Gassman e Silvana Pampanini lo ascoltano stretti in un lento. A un certo punto, la Pampanini, rivolta a Gassman, ammirata, così commenta: “Ammazza, come canta bene l’ingegnere”, e Gassman di rimando: “Te credo, c’ha i soldi”. Questo breve dialogo, non sembri fuori luogo, serve a penetrare nella sostanza del nostro discorso. 

L’Ingegnere De Benedetti, come quell’altro del film, nel nostro caso, le canta adesso al Pd, forte di se stesso, con crudele chiarezza. Una prece, la sua, consegnata ad Aldo Cazzullo per le pagine del Corriere della Sera: “Il Pd è un partito di baroni imbullonati da dieci anni al governo senza aver mai vinto un'elezione”.

Ancora l’Ingegnere nostro, con ulteriore generosità, aggiunge che “la segreteria Letta è stata un disastro. Perché in campagna elettorale Letta non ha saputo indicare una sola ragione per cui si dovesse votare il Pd, ma solo ragioni per non votare gli altri. Per la sua arroganza e supponenza il Pd ha corso da solo e ha determinato la vittoria della destra, che alla luce dei risultati non era affatto scontata”. 

Si potrebbe obiettare che Letta aveva buone ragioni per indicare il sentore regressivo di una destra ancora prossima alle suggestioni fasciste, resta tuttavia che l’immagine prospettata dall’Ingegnere - i “baroni imbullonati” - brilla chiara ed evidente, rendendo impossibile assolvere chi si pretendeva invece attendibile presso un elettorato ormai fluido e preda del disincanto, ormai in fuga precipitosa da una sinistra che ha smarrito ogni simbolico, perfino blandamente progressista. Adesso qualcuno, ribaltando la citazione gassmaniana, obietterà a sua volta: “… parla bene, lui, lui che è ricco!”

Obiezione che mostra un riflesso fideistico da trascorsa sezione comunista intitolata a Togliatti, nella convinzione cocciuta che i gruppi dirigenti abbiano sempre e comunque ragione, poiché “la linea non si discute”; candido tepore autorassicurante da “centralismo democratico”, sia pure fuori tempo storico massimo. 

Magari incurante che il Pd, lo diciamo con sobrietà, non è mai apparso né carne né pesce, e neppure, volendo citare un tema alimentare apparso nelle stesse settimane dell’insediamento del governo Meloni-Salvini (da De Benedetti definito “obbrobrioso”) carne coltivata in laboratorio. Non è però ancora tutto.

L’Ingegnere, sempre in tema di finta pelle, demolisce ulteriormente il Pd con pertinenza autoptica: “Le democrazie moderne sono minate da due mali che le divorano da dentro: le crescenti disuguaglianze e la distruzione del Pianeta. Un partito progressista che non mette in cima al suo programma questi due punti non serve a niente, e infatti fa la fine del Pd; che ha conquistato la borghesia e ha perso il popolo”. 

Provo ora a immaginare ancora lo sguardo dell’Ingegnere nel suo appartamento torinese in cima alla Torre Littoria di piazza Castello. Me lo figuro adesso come già il professor Alessandro Cutolo, colui che nel trascorso tempo televisivo in bianco e nero dispensava consigli utili e illuminanti sull’esistente tutto, un istante appena ed ecco apparire il deserto dei tartari a perdita d’occhio cui ormai assomiglia il partito di cui stiamo ragionando.

Un soggetto politico in attesa di se stesso dai giorni della sua fondazione, assente perfino nelle scelte contingenti da assumere, metti, per le imminenti elezioni in Lombardia: “Sono sicuro che un candidato del Pd non vincerebbe mai. Mentre contro Attilio Fontana la Moratti può farcela. Se il Pd la appoggiasse, secondo me ce la farebbe. Se Salvini perde la Lombardia, cade. E se cade Salvini, cade il governo”, nota ancora il nostro Ingegnere. 

Perfino a dispetto di chi ragionando sulla sostanza “culturale” del Pd continua a ritenerlo impropriamente una forza di sinistra, è proprio lo “straniero” De Benedetti a chiarirne invece il carattere amorfo. Si potrebbe obiettare nuovamente su come possa un “ricco” dare lezioni di strategia a una forza politica dagli intenti progressisti.

Bene, per quanto sembri assurdo, storicamente sono sempre stati proprio gli appartenenti alle classi agiate a offrire parole dirimenti in nome della rivolta: si pensi, nell’ordine, al duca Carlo Pisacane, al principe anarchico Kropotkin, al non meno aristocratico Bakunin e a ogni altro residente dell’ideale grattacielo del socialismo o di ogni semplice sogno di ordinaria socialdemocrazia.

Ora che ci penso, il riferimento al deserto dei tartari è eccessivo, forse basterebbe, restando a Buzzati, pensare a quel suo ex voto dove le teste impagliate di rinoceronti abbattuti da un marchese, nottetempo, processano il cacciatore. Non sembri una metafora improbabile, ma, come afferma proprio De Benedetti, nei simulacri dei rinoceronti sconfitti sembra ora proprio di ravvisare una classe dirigente preoccupata di perpetuarsi, sopravvivere in quanto tale. Già, “baroni imbullonati” sullo sfondo del crescente deserto elettorale.

De Benedetti: «Pd partito di baroni. Ora appoggino Moratti, e non siano schizzinosi». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 17 novembre 2022. 

Intervista con l’Ingegnere: «Il Pd appoggi Moratti: se la Lega perde la Lombardia, cade Salvini, e se cade Salvini cade il governo. I dem hanno conquistato la borghesia e perso il popolo, escludere a priori un accordo con i 5 Stelle alle elezioni è stata una stupidaggine»

«Le democrazie moderne sono minate da due mali che le divorano da dentro: le crescenti disuguaglianze e la distruzione del Pianeta. Un partito progressista che non mette in cima al suo programma questi due punti non serve a niente, e infatti fa la fine del Pd; che ha conquistato la borghesia e ha perso il popolo».

Ingegner De Benedetti, lei ha sempre una parola buona per tutti.

«Purtroppo queste non sono parole, sono fatti: con qualche eccezione, il Pd è un partito di baroni imbullonati da dieci anni al governo senza aver mai vinto un’elezione. La segreteria Letta è stata un disastro».

Perché dice questo?

«Perché in campagna elettorale Letta non ha saputo indicare una sola ragione per cui si dovesse votare il Pd, ma solo ragioni per non votare gli altri. Per la sua arroganza e supponenza il Pd ha corso da solo e ha determinato la vittoria della destra, che alla luce dei risultati non era affatto scontata».

Con chi avrebbe dovuto allearsi?

«Escludere a priori un accordo con i 5 Stelle è stata una prova di arroganza, oltre che una stupidaggine».

I 5 Stelle avevano provocato la caduta di Draghi.

«Ma identificare il Pd con Draghi è stato guardare al passato. Agli italiani bisognava parlare del futuro».

Parliamo del futuro. Chi dovrebbe essere il prossimo segretario?

«Quelli che si sono candidati non mi sembrano in grado di scongiurare la morte progressiva del Pd».

Bonaccini non le piace?

«Lo conosco poco. Ma sono rimasto legato alla teoria di Togliatti: gli emiliani sono bravi ad amministrare il territorio, pessimi a fare politica a Roma. Tranne Bersani, che per me è sempre il migliore».

Nardella?

«È un ottimo sindaco, ha fatto bene a Firenze. Ma temo che metterebbe i due punti-chiave, le disuguaglianze e il Pianeta, in un pastone, anziché farne le priorità assolute».

Elly Schlein?

«Non ha neppure la tessera del Pd. Sarebbe il classico Papa straniero. È una figura interessante; non una leader».

E della candidatura Moratti in Lombardia cosa pensa?

«Ho idee politiche da sempre opposte alle sue. Conosco la famiglia Moratti da una vita: da ragazzo andavo al mare a Stintino, l’hotel era loro. Ricordo Angelo: persona simpaticissima, il classico borghese milanese che si era fatto da sé, aveva cominciato commerciando olio usato dei motori e ha finito con due Coppe dei Campioni. Un uomo affascinante per personalità e simpatia. Ero amico dei figli, Gian Marco e Massimo. E ho visto arrivare in famiglia Letizia».

Che opinione ne ha?

«Le riconosco professionalità, capacità, onestà, passione, ambizione: tutte qualità. Il Pd in Lombardia non ha mai toccato palla. Ha sempre vinto la Lega».

Prima di Fontana vinceva Formigoni.

«Comunione e liberazione: peggio mi sento. Un candidato del Pd in Lombardia non vincerà mai. Saggiamente Cottarelli ha rifiutato. L’altra volta ho sostenuto Gori, anche finanziariamente: ottima persona, ma la sua corsa è stata un disastro».

È sicuro che candidare uno degli altri sia la soluzione?

«La Moratti ha avviato una profonda revisione del suo passato berlusconiano. Oggi non c’è più il centrodestra; c’è una destra dura, antieuropea, di matrice postfascista».

Addirittura?

«Questo governo è disastroso».

Non è un po’ troppo severo?

«Lo sono troppo poco. È un governo obbrobrioso».

Il suo pare un giudizio ideologico.

«Al contrario: giudico i fatti. E il governo ha fatto solo stupidaggini. Una legge speciale, inutile e incostituzionale, quando la questione del rave era già stata risolta brillantemente dal prefetto di Modena. Una sparata sui contanti, il tetto a 10 mila euro, poi dimezzati. Ora si annuncia un condono. Sui migranti il governo ha fatto una figura da cioccolatai: ha proclamato “non scenderanno mai”, e li ha fatti scendere tutti. Con la Francia ha creato un caso, ci è voluto Mattarella per ristabilire un rapporto almeno formale, e La Russa anziché ringraziarlo l’ha attaccato».

La reazione francese non è stata spropositata?

«Macron non deve governare l’immigrazione nel Mediterraneo; deve governare la Francia. E ha una forte opposizione di destra, con Le Pen e Zemmour. Era chiaro che gli sarebbero saltati al collo se avesse accolto una nave che era al largo delle coste italiane. Eppure l’ha fatto. E il governo italiano ha dimostrato un’ignoranza politica tremenda. Ha perso un alleato, con un errore che un bambino delle elementari avrebbe evitato».

Che lei sia contro la destra non è una notizia. Però ora sta criticando il Pd che chiude alla Moratti. È sicuro che possa vincere?

«Sono sicuro che un candidato del Pd non vincerebbe mai. Mentre contro Attilio Fontana la Moratti può farcela. Se il Pd la appoggiasse, secondo me ce la farebbe».

Ma nel Pd ci sono militanti che straccerebbero la tessera.

«Perché non l’hanno fatto quando il loro partito governava con Salvini? E ora fanno gli schizzinosi? Come mai questo pudore improvviso? Dopo la rotta del 25 settembre, ora la sinistra deve tornare a vincere. Per farlo servono coalizioni elettorali, che non sono necessariamente coalizione politiche. Lo scopo tattico di un partito all’opposizione è mettere in difficoltà il governo. E la Lombardia è una partita decisiva».

Perché?

«Se Salvini perde la Lombardia, cade. E se cade Salvini, cade il governo».

Il Pd è frenato anche dal fatto che la candidatura Moratti viene da Renzi e Calenda.

«Non si fa politica pensando sempre ai nemici. Nella testa di Letta risuona ancora la campanella di Palazzo Chigi, che passò a Renzi con l’entusiasmo che tutti ricordiamo. Ma sono trascorsi quasi dieci anni. Il Paese affonda, e la sinistra è prigioniera dei risentimenti personali?».

Dal “Venerdì di Repubblica” l’11 novembre 2022.

Ora nel Pd si parla di Congresso. Cosa aspettarsi da un Congresso con la stessa fauna che ha ridotto il Partito nelle condizioni in cui si trova e con le solite modalità? Cambieranno alcuni musicanti e il Direttore d'Orchestra, ma dopo le roboanti dichiarazioni tutto tornerà come prima. Una specie di Congresso di Vienna del 1814. Non sono contro il troppo buono dottor Letta, ha fatto quello che poteva alle condizioni date. 

Sentire ora che i Miracolati delle Stelle debbano farci da Guida con quel Conte, buono per tutte le stagioni, Eclettico Trasformista, un Brachetti prestato alla Politica gestito da un Comico divenuto ormai un Vecchio Reperto con danno incorporato compreso nel prezzo del biglietto...

Penso che per poter finalmente trasformare il Pd non è necessario un Congresso, ma una Assemblea aperta a tutti i votanti, gli astenuti, i babbioni come me che hanno continuato a dare loro il consenso senza mai pensare, altrimenti sarebbe stato impossibile sceglierli. Fuori tutti i protagonisti di ieri, TUTTI. 

All'americana, hanno fallito, che vadano a casa, a lavorare, a fare l'altalena con i figli o i nipoti come ho fatto io. Dopo scontri feroci che prevedano anche qualche sana sediata su certe teste, uscire poi all'aperto con voci fresche, nuove, scintillanti. Un Pd nuovo di zecca. Poi gliela daranno loro a questa destra scalcinante e vociante. Bisogna far presto, costoro hanno sì e no due anni di vita governativa, forse.

Serafino

Risposta di Natalia Aspesi:

Che dire? Sono con lei, credo che in tanti lo siano. E forse questa volta io non ho votato Pd proprio perché ho fatto l'errore di pensarci. Da smemorata cosa avrei votato? Una idea antica di sinistra? Una sinistra perduta? 

Un blocco di potere che si serve di quel gentiluomo di Letta perché la sinistra si occupi di trans e gabinetti e non di milioni di altri, magari anche trans, con problemi più urgenti del mascara per tutti, e non solo economici, ma di scuola, di cultura, di sicurezza, di ordine, di giustizia sociale?

Qualcuno saprà spiegare cosa è successo, quando e perché questi maghi dell'insuccesso hanno cominciato a sbaraccare la sinistra dalla sinistra, a liberarsi dei Veltroni, dei Prodi e di tanti altri, o ad oscurare i Pisapia e tutti gli altri che ci credevano, compreso, oso dirlo e per favore limitate le noiosissime sgridate tutte uguali che continuano ad intasarmi la posta, il Renzi? 

È un momento brutto per chi ci credeva: da che parte si ricomincia, e come, e con che idee, e proposte, e accanimento ed entusiasmo e onestà e generosità?

Io mi sento così offesa da ciò che mi è stato sottratto che, ad ogni nome che rimbalza come nuovo segretario fornito di bacchetta magica per mettere in ordine la patria, scuoto la testa e poi l'abbasso.

Estratto dell'articolo di Salvatore Merlo per “il Foglio” il 31 ottobre 2022.

Chiusi nella torre d’avorio del Nazareno, protetti da pareti di sughero contro gli sconvolgenti pollini dell’oggi, centoventiquattro eletti del Pd (settanta collegati via internet) si sono riuniti ieri per preparare il congresso. “Non siamo più un partito. Siamo un trituratore industriale di segretari”, dice a un certo punto Marco Miccoli, zingarettiano spiccio. Lui è uno che va al sodo. E infatti: “Serve uno scontro duro, vero, anche drammatico”. Parole sante. Eppure non c’è dramma. Non c’è solennità. E’ un po’ come ascoltare l’Eroica in una trascrizione per armonica a bocca.

Quando per esempio interviene Francesco Boccia, l’ex ministro prima sembra Nanni Moretti (“dobbiamo dirci chi siamo e che cosa vogliamo fare”) poi diventa improvvisamente Roberto Benigni (“dobbiamo anche dirci dove andiamo e con chi”). Manca solo quello che chiede a Benigni e Troisi: un fiorino! In pratica la mozione Frittole. Poi arriva Matteo Ricci. Il sindaco di Pesaro, amico di Sala e Nardella, è sospeso tra discorso motivazionale e pubblicità del dentifricio. “Dobbiamo soprattutto essere sorridenti”, dice. Quindi passa dal Durbans allo Xanax: “Dobbiamo anche avere una scossa antidepressiva”. Ecco. “Sennò nessuno ci avvicinerà”. Mozione ansiolitica. Chi si avvicinerà a queste facce lunghe? “Proprio nessuno”, dice Stefano Bonaccini inforcando gli occhiali a goccia.

(...) Così sentiamo Peppe Provenzano ammonire Letta: “Non abbiamo invocato abbastanza la pace in Ucraina, siamo stati tiepidi”. Mozione arcobaleno. Alla fine, in quattro lisergiche ore capiamo quello che sapevamo già, e che già sanno pure tutti quelli che si sono messi a discutere per quattro ore di un congresso che durerà quattro mesi: si candidano Bonaccini, Paola De Micheli e poi Andrea Orlando sponsorizzerà Elly Schlein (che però non è iscritta). Letta resta in Italia e vuole fare il kingmaker. Probabilmente vincerà Bonaccini, e forse ci sarà una piccola scissione organizzata da tre indomiti pensionati (D’Alema, Bettini e Bersani) con il concorso esterno di Giuseppe Conte.... 

Da liberoquotidiano.it il 31 ottobre 2022.

Il clima si fa incandescente a In Onda, quando Concita De Gregorio chiede a Massimo D'Alema: "Corrisponde al vero che lei è un consigliere di Giuseppe Conte?". La domanda durante il programma di La7 nella puntata di domenica 30 ottobre, non piace all'ospite che sbotta: "Mi stupisce che lei mi faccia questa domanda, la considero veramente di bassissimo livello". E dopo il lungo silenzio, è David Parenzo a intervenire: "Non ci sarebbe niente di male...". "Ecco, non ci sarebbe niente di male", riprende ancora una volta D'Alema alquanto infastidito.

"Ogni tanto dialogo con Conte, ma anche con tanti altri. Con Matteo Renzi? No, con quelli che mi cercano", spiega l'ex premier che accusa i retroscena frutto di "dietrologie". Anche con Enrico Letta i rapporti non sono dei migliori: "Con altri nel Pd ho parlato, con quelli che mi cercano. Non mi metto al telefono... Conte mi ha cercato, ma per dire, sulla rivista che dirigo ha scritto anche Giorgia Meloni... Non se n'è accorto nessuno, ma è successo".

E proprio sull'attuale presidente del Consiglio, si sofferma l'ospite arrivando a definirla "una donna che ha personalità e grinta. Cosa mi piace di lei? Che ha fatto quello che non abbiamo fatto noi: ha tenuto in piedi un partito, un partito vero, organizzato, che fa una politica di quadri, che ha fatto politica, non è un 'Papa straniero', ed è il segretario della gioventù del suo partito, che diventa capo del partito e quindi capo del governo... Per averlo fatto io, è stato considerato quasi un colpo di Stato". 

L'eterno ritorno del "fattore K". La riapparizione di d'Alema nel dibattito a sinistra è un classico caso di ritorno del rimosso in senso freudiano. Marco Gervasoni il 6 Ottobre 2022 su Il Giornale.  

La riapparizione di d'Alema nel dibattito a sinistra è un classico caso di ritorno del rimosso in senso freudiano. E ciò che è stato rimosso è il comunismo, inteso come insieme di tic, di vezzi inconsci, di mentalità. Per capire la divisione del Pd tra «riformisti» e pro contiani, dobbiamo infatti uscire dalla piccola cronaca di ceto partitico, con le sue ripicche e i suoi personalismi, e pensare in termini di culture politiche. Quella del Pd non ha mai risolto la questione se essa sia liberal e riformista oppure ancora legata al comunismo, intesa come idea nobile, mal riuscita solo per gli accidenti della storia. Dopo il crollo del muro di Berlino, Occhetto, Veltroni e appunto d'Alema, hanno creduto di far fronte a una débâcle filosofica, prima ancora che politica, rimuovendo il comunismo, men che meno abiurandolo pubblicamente. Si illusero di poter diventare da un giorno all'altro riformisti e liberali, quando invece i capisaldi della mentalità comunista rimanevano ben presenti: come nel d'Alema «blairiano». Come tutti gli oggetti rimossi, tuttavia, essi finiscono per tornare e, tra i dogmi fondamentali del comunismo, che la sinistra post 1989 ha mantenuto, compreso il Pd, sta il «nessun nemico a sinistra». Il partito può anche spingersi, tatticamente, se la situazione lo rende necessario per conquistare o mantenere il potere, verso i lidi del riformismo. Ma mai deve lasciare che alla sua sinistra nasca un'altra forza e, nel caso, il partito ci si deve assolutamente alleare, per controllarla. È accaduto ciclicamente, con Rifondazione comunista ai tempi dell'Ulivo e ora con i 5 stelle. Finché i grillini erano quelli originari, né destra né sinistra, e finché alla guida del Pd c'era Renzi, il problema non si poneva. Ma, eliminato Renzi e diventati i 5 stelle «progressisti», il meccanismo mentale per cui mai bisogna avere nemici a sinistra, è riapparso in tutta la sua chiarezza. E, se le culture politiche possiedono una loro logica, probabilmente la «ditta» non potrà che tornare ad abbracciare Conte: con il rischio, stavolta, di esserne stritolata.

Dal Pci al Pd, 19 segretari e l'eterna disputa a sinistra su nome e simbolo. Redazione politica su La Repubblica l'1 Ottobre 2022.

Un secolo di storia travagliata e accelerata dal crollo del muro di Berlino. Da Bordiga a Letta. Dalla falce e martello al tricolore

Diciannove segretari in un secolo di storia. Dalla scissione del 1921 al Congresso costituente lanciato dal segretario Enrico Letta dopo la sconfitta alle elezioni politiche del 25 settembre, che si svolgerà nei primi mesi del 2023. La dittatura fascista, una guerra mondiale, il boom economico, gli anni di piombo, i ruggenti anni '80, la fine della prima Repubblica con l'avvento di Tangentopoli e la discesa in campo di Silvio Berlusconi, le vittorie dell'Ulivo e dell'Unione, fino al governo di unità nazionale presieduto da Mario Draghi. Il Partito democratico, fondato nel 2007 ha radici antiche e una storia travagliata, fatta di ripetute scissioni e numerosi cambi di leadership.

Il Pci nasce a Livorno nel 1921 dopo la scissione dal Psi, lo guida Amedeo Bordiga. Il primo segretario è Antonio Gramsci. Dopo il suo arresto nel 1926, a opera del regime fascista, diventa segretario del partito nel 1927 Palmiro Togliatti, che ne resta a capo fino alla morte, nel 1964. Gli succede Luigi Longo, che resterà segretario fino al 1972, quando la guida del partito viene affidata a Enrico Berlinguer. L'11 giugno del 1984 il segretario Berlinguer muore a Padova, colpito da un ictus durante un comizio per le elezioni europee. Viene eletto Alessandro Natta, che si dimette nel 1988 e al suo posto diventa segretario Achille Occhetto, artefice nell'anno successivo della cosiddetta 'svolta della Bolognina', il nuovo corso politico che prelude al superamento del Pci e alla nascita di un nuovo partito della sinistra italiana.

Il Congresso straordinario del partito che si tiene a Bologna nel marzo del 1990 culmina con la rielezione di Occhetto alla carica di segretario. Il XX Congresso di Rimini del gennaio del 1991 è l'ultimo del Pci. Il 3 febbraio 1991 viene deliberato lo scioglimento del partito, promuovendo contestualmente la costituzione del Partito Democratico della Sinistra (Pds) con la conseguente scissione di Rifondazione comunista. Ma la sconfitta alle elezioni del 1994 porta alle dimissioni di Occhetto. Al suo posto viene eletto segretario Massimo D'Alema, che ricoprirà l'incarico fino al 1998, con la fine del Pds e l'avvento dei Democratici di Sinistra. Il 14 febbraio a Firenze nascono i Ds: dal 1998 al 2001 il segretario è Walter Veltroni, dal 2001 fino allo scioglimento avvenuto nel 2007, segretario è Piero Fassino.

Nel 2007 inizia l'era del Pd che, in 15 anni di vita, ha cambiato ben 9 segretari e un 'reggente'. Il primo segretario del Partito democratico è Walter Veltroni (ottobre 2007 - gennaio 2009), che si dimette dopo la sconfitta alle urne e a cui succede Dario Franceschini (febbraio 2009 - novembre 2009); prende il suo posto Pier Luigi Bersani (novembre 2009 - aprile 2013), poi è la volta di Guglielmo Epifani (maggio 2013 - dicembre 2013), quindi di Matteo Renzi (dicembre 2013 - febbraio 2017). Prende momentaneamente il timone Matteo Orfini, a cui viene affidato il compito di "traghettatore" (febbraio - maggio 2017). E' l'intermezzo tra il primo e il secondo mandato di Matteo Renzi, che riprende le redini del partito per la seconda volta (maggio 2017 - marzo 2018). Gli succede Maurizio Martina (marzo-novembre 2018), poi tocca a Nicola Zingaretti (marzo 2019 - marzo 2021) il ruolo di leader e, infine, nel marzo del 2021 viene eletto segretario Enrico Letta. Letta, dopo le elezioni del 25 settembre, non si è dimesso, ma ha annunciato che non si ripresenterà al Congresso per la corsa alla segreteria.

Il dibattito su nome e simbolo

In principio fu il Partito Comunista d'Italia. Era il 1921 e a Livorno Antonio Gramsci fondava quello che sarebbe diventato presto "il più grande partito comunista d'Occidente". Il simbolo rappresentava una falce e un martello incrociati all'altezza dei manici. Il martello, si sposterà al centro della lama della falce qualche anno dopo, nel 1926, e vi resterà fino allo scioglimento del partito, nel 1991. Sul fondo, dietro gli attrezzi simbolo del lavoro, un sole che sorge, simbolo del socialismo e della nuova umanità promessa da Karl Marx e Friedrich Engels. Il tutto inscritto in una corona fatta di spighe di grano, il frutto del lavoro. E' il primo simbolo di una lunga serie che caratterizzerà i partiti italiani. Oggi di simboli e nomi si torna a parlare, dato che Enrico Letta non ha escluso che il percorso congressuale che si aprirà a breve possa portare alla modifica di quelli del Pd.

Il Pci apportò al suo solo lievi modifiche, la più importante della quale avvenne nel 1945, anche per distinguersi dal Partito Socialista Italiano, rinunciò al Sol dell'Avvenire sostituendolo con una stella sul fondo della bandiera rossa che sventolava sopra alla bandiera tricolore, della quale si intravedevano i colori dal bordo inferiore. Nella stessa occasione viene leggermente modificato anche il nome: non più Partito Comunista d'Italia, ma Partito Comunista Italiano. Passano sei anni e, nel 1951, si nota una nuova modifica: la bandiera, da rettangolare si fa quadrata: un formato che si adatta meglio agli spazi delle schede elettorali. Il nuovo formato porta a ridurre le dimensioni della stella e ad aumentare quelle della falce e del martello che, per entrare meglio nel disegno, vengono inclinate verso sinistra.

Con il crollo del Muro di Berlino e la lenta dissoluzione dell'Unione Sovietica, anche in Italia ci si pone il problema di come affrontare la fine del "Secolo Breve". Nel 1989 il segretario Pci, Achille Occhetto,  annuncia a sorpresa la "svolta della Bolognina". Ma il dibattito sul nome andava avanti da quasi dieci anni. Da quando il Pci entrò in crisi di consensi a partire dal 1980. Nel 1985 si affacciò per la prima volta nella storia d'Italia il Partito Democratico. Lo fa Guido Carandini, ex deputato Pci, che attacca definendo il Pci un "abbaglio" e propone il nome di Partito democratico del Lavoro. Nome su cui, nel 1989, torna anche Giorgio Napolitano. Non se ne fa nulla. Nel 1991 nasce il Partito democratico della Sinistra, Pds. Il simbolo è una quercia inscritta in un cerchio con, all'altezza delle radici, un secondo cerchio più piccolo contenente nome e simbolo storico del Pci. Il simbolo durerà fino a una seconda svolta, avvenuta nel 1998: il segretario, Massimo D'Alema, raccoglie attorno al Pds una serie di esponenti di altre formazioni politiche di derivazione socialdemocratica. Il nome viene cambiato in Democratici di Sinistra e dal simbolo sparisce la falce e martello e compare la rosa dei socialisti europei. Nove anni e due segretari dopo, nasce il Partito democratico. Alla guida dei Ds c'è Piero Fassino, ma regista dell'operazione è Walter Veltroni, allora sindaco di Roma, che dal Campidoglio porta avanti l'operazione con l'allora leader della Margherita, Francesco Rutelli. Il simbolo scelto sono le iniziali del partito, con la P rossa e la D verde, a sormontare un ramoscello d'ulivo, simbolo dell'alleanza elettorale fondata da Romano Prodi nel 1994.

Bolscevismo dem. La sconfitta del Pd sarà la sconfitta di una sinistra che ha abbandonato il riformismo. Giuliano Cazzola su L'Inkiesta il 24 Settembre 2022.

Il risultato è già scritto e sarà una débâcle per i sedicenti progressisti. La colpa è soprattutto di chi al Nazareno ha provato ad allontanarsi da quell’anima moderata che ha sempre aiutato a superare la destra 

Ho letto una intervista sul Foglio in cui l’ex leader del Pci campano Antonio Bassolino racconta che, dopo un’elezione a Castellamare di Stabia, nella quale il partito era arretrato di qualche punto, Botteghe Oscure gli aveva chiesto di presentare una relazione (Bassolino scrisse ben 16 pagine) per spiegare i motivi di quel risultato.

L’episodio ricordato da Antonio mi ha riportato indietro di anni, quando nei partiti e nei sindacati, il dibattito era una cosa seria.

A me, in quegli anni, hanno insegnato che in politica gli errori derivano sempre da un’analisi sbagliata. Nelle relazioni e negli interventi i grandi leader del passato partivano sempre da un’analisi rigorosa del contesto politico, sociale ed economico e traevano dagli elementi, che a loro sembravano importanti, gli indirizzi per l’iniziativa del partito o del sindacato.

Coloro che dissentivano dalla linea che veniva proposta si sentivano in dovere di partire da un’analisi diversa, che giustificasse le loro posizioni. Storico fu il confronto, alla fine degli anni ’50, tra Giorgio Amendola e Pietro Ingrao – che coinvolse sia il Pci che la Cgil – sul capitalismo in Italia, dopo il miracolo economico e sulle conseguenti trasformazioni che avrebbero interessato anche le classi lavoratrici.

Questo dibattito influenzò le successive linee politiche, trasferendo l’iniziativa di classe dal Mezzogiorno e dall’agricoltura all’industria manifatturiera

Della stessa importanza fu la discussione sui motivi della sconfitta della Cgil alla Fiat nelle elezioni delle Commissioni interne della Fiat nel 1955 e della FLM nel 1980. Un confronto di analogo spessore venne evitato ed eluso, dalla Fiom, dopo la sonora sconfitta nello stabilimento Fiat di Pomigliano d’Arco nel 2010.

Ma tutti questi episodi sono marginali rispetto a quanto si attende dall’esito delle urne il 25 settembre: una robusta vittoria della coalizione di centrodestra a guida di Giorgia Meloni, a cui corrisponderebbe una altrettanto vistosa sconfitta del centrosinistra e del Partito democratico.

L’aspetto più incredibile per una persona della mia generazione è quello di assistere a un cambiamento di tale portata che sta ponendo preoccupazioni nei nostri partner e alleati, senza che nessuno si azzardi a interrogarsi sui motivi.

Anche nel 2018 non si seppero (o non si vollero) approfondire i risultati di quella elezione. Ma se allora si trattò di una ventata di poujadismo sempre in agguato nelle società occidentali, oggi, se dovessero avverarsi le previsioni, ci troveremmo di fronte ad una svolta che non nasce dai vaffa urlati nelle piazze o da una rivolta plebea.

L’identità di Fratelli d’Italia ha solide radici nella storia del Paese; ha raccolto l’eredità (è questo il senso della fiamma tricolore che si trova nel simbolo) che ha vissuto, in condizioni di apartheid politico, durante settant’anni di regime democratico.

È ovvio che la nuova realtà politica e sociale abbia contribuito a cambiare anche il profilo di quel partito. Ma le sue origini destano ancora preoccupazioni e pongono degli interrogativi a cui non è stata data una risposta convincente.

Che cosa sta portando tanti italiani (sia pure a livello di una maggioranza relativa) a saltare un fosso che per decenni era stato ritenuto persino un confine invalicabile? Trasformazioni di tale portata (in fondo c’è una linea di continuità, benché con protagonisti differenti, con l’impronta antisistema del voto del 2018) non si spiegano con le analisi superficiali della sociologia: come il voto liquido e quant’altro.

C’è molto di più. Quando il segretario della Cgil continua a ripetere che i lavoratori si sentono più rappresentati dalla destra che dalla sinistra e che addirittura la sua organizzazione non si schiera in questa campagna elettorale perché «in molti casi sia governi di destra e sia governi che si richiamavano alla sinistra hanno fatto politiche che hanno peggiorato le condizioni di vita e di lavoro delle persone».

La destra può anche dissimulare i suoi valori ma, alla fine, riemergono. Certo la destra non è più una forza di conservazione economica; non è più il partito dei padroni, ma è divenuta l’alfiere del populismo, le cui promesse possono essere fatte e sostenute solo nell’ambito di un altro «ismo» malefico: il sovranismo.

Il vero nemico della destra è la società aperta, perché solo nell’isolamento e nell’autarchia ci si può illudere che nulla cambi. Ecco allora che i nemici delle classi lavoratrici non sono più i padroni, ma quelle forze politiche che, tra mille difficoltà e contraddizioni, cercano di riposizionare i fondamentali diritti sociali all’interno dei nuovi assetti dell’economia; che è poi il solo modo per poterli difendere e trasmettere alle generazioni future.

In questa campagna elettorale – mutatis mutandis – sono emersi toni da Terza Internazionale, quando i principali avversari dei massimalisti e dei comunisti non erano i fascisti e i nazisti, ma la socialdemocrazia. Tra i 21 punti che Lenin aveva imposto al Psi per essere accolto nell’Internazionale c’era l’espulsione dei riformisti.

La maggioranza massimalista di Giacinto Menotti Serrati si rifiutò di compiere questa operazione al Congresso di Livorno nel 1921 (da qui ebbe luogo la scissione del Pc d’I). Ma, poi, Serrati dovette cedere l’anno dopo, poche settimane prima della Marcia su Roma.

Paradossalmente nel dibattito elettorale di questi mesi è emersa una singolare teoria: la classe lavoratrice vota a destra perché la sinistra non svolge più la sua missione.

Ne deriva che, per risorgere, la sinistra deve ritrovare se stessa. E bandire il deviazionismo riformista.

Il regista Ken Loach – sommo guru della gauche – si è fatto latore di un messaggio in vista del voto di domenica: «Le persone votano per la destra quando sono spaventate, insicure e non hanno fiducia e questa è una diretta conseguenza del fallimento del centrosinistra, dei socialdemocratrici», ha detto il regista in piena logica terzointernazionalista. «Loro sono i responsabili perché hanno negato e non hanno rappresentato i bisogni della classe operaia. La lezione che dobbiamo trarre è che dobbiamo creare una nuova sinistra unita il cui programma sia dedicato a beni comuni, controllo democratico, protezione dell’ambiente e difesa dei servizi pubblici», ha aggiunto.

Durante la campagna elettorale le medesime considerazioni erano venute anche da autorevoli esponenti del Partito democratico. Quale è stata – secondo le nuove teorie – la Grande Eresia che ha tarpato le ali all’angelo vendicatore della sinistra con le carte in regola? Il pacchetto del jobs act, che è composto da una legge delega e da 8 decreti delegati, ma per i redenti tutto si riduce all’istituzione del contratto a tutele crescenti e alla disciplina ivi prevista per il licenziamento individuale illegittimo.

Andrea Orlando, ministro del Lavoro (in sonno), lo ha ammesso in una intervista: «Il Jobs act non è stato solo l’abolizione dell’articolo 18, è stata l’ultima grande scommessa liberista sul mercato del lavoro di una serie che inizia negli anni Novanta, e a cui la sinistra ha partecipato».

Enrico Letta si è spinto più avanti a Cernobbio. Si è esposto – insieme alla critica del Jobs act – anche all’abiura della terza via di Tony Blair: «Il programma del Pd supera finalmente il Jobs Act, sul modello di quanto fatto in Spagna contro il lavoro povero e precario. Il blairismo è archiviato. In tutta Europa sono rimasti solo Renzi e Calenda ad agitarlo come un feticcio ideologico».

Spero che arrivi un giorno in cui i nuovi leader di una sinistra avviata verso una sconfitta storica spieghino come ha potuto Tony Blair governare per 10 anni ininterrotti, senza mai essere battuto in una elezione. Dopo di lui il Labour sta ancora a pettinare le bambole.

La nuova lagna degli attivisti Lgbt: “Ai seggi discriminano i trans”. I registri elettorali ripartiti tra uomini e donne sarebbero una discriminazione. E scoppia la polemica. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it il 25 Settembre 2022.

Pensavamo ad una giornata politica fatta di percentuali, statistiche, ripartizione dei seggi, exit poll. E invece no: questa volta interviene, a gamba tesa, la candidata del Pd, Monica Cirinnà, per aprire una polemica che, sicuramente, interesserà ai 50 milioni di cittadini chiamati al voto: i registri elettorali ripartiti tra uomo e donna.

Esatto, secondo l’esponente dem, ci sarebbe una velata discriminazione ai seggi, proprio perché non sarebbero considerate le persone trans o “non binarie”: “Un ostacolo all’esercizio del voto delle persone trans e non binarie che, in questo modo, sono costrette a fare coming out”, ha affermato Cirinnà. Eppure, dal fondo della nostra estrema umiltà, ci permettiamo di evidenziare come, nell’esercizio di una votazione, non possa interessare in alcun modo il genere o l’orientamento sessuale di un individuo, né agli scrutatori, né ai votanti. A meno che non si voglia vedere un allarme omofobo in qualsiasi angolo del nostro Paese.

Ma non finisce qui. La candidata piddina prosegue nel ragionamento: “Si potrebbero, invece, dividere elettrici ed elettori in ordine alfabetico in base al cognome. Come succede altrove. Nessuno dovrebbe sentirsi discriminato, mai. Soprattutto quando esercita un diritto fondamentale come votare”. E la domanda sorge spontanea: ma c’è qualcuno che si può sentire veramente discriminato? C’è qualcuno capace di ritenere che i seggi siano luoghi in cui si esercita una discriminazione fondata sull’orientamento sessuale? A meno di novità, a chi scrive pare che il voto si fondi sul suffragio universale, pratica ricorrente dal 1946. Ergo, la preferenza espressa alle urne da un eterosessuale ha la stessa importanza di quella di un omosessuale o transessuale, sempre se proprio dobbiamo scomodare la ripartizione dei sessi.

Nonostante tutto, il gruppo Trans di Bologna ha già proceduto all’avvio di una campagna elettorale, per raggiungere cinquemila firme ed inviarle al Viminale ed a Palazzo Chigi. In caso di silenzio, ecco che gli esponenti sarebbero pronti a scomodare l’intervento della Corte Costituzionale. Anche l’esponente arcobaleno, Cathy La Torre, ha deciso di rincarare la dose: questa pratica potrebbe costituire un illecito in tema di trattamento dei dati personali, contestandola veemente dinanzi agli scrutatori del suo seggio.

Risultato finale? Lo scrutatore ha chiamato le forze dell’ordine, causa intralcio alle operazioni di voto da parte dell’attivista. Insomma, dopo le lunghe attese di oggi, per la nuova introduzione del bollettino anti-frode; nel seggio numero 16 di Bologna, pare che la fila si sia ulteriormente prolungata. E ora che succede? Invalidiamo le elezioni? Forse, qualcuno a sinistra ci ha già pensato. Matteo Milanesi, 25 settembre 2022

(ANSA-AFP il 25 settembre 2022) - Matrimonio tra persone dello stesso sesso, ma anche maternità surrogata e filiazione allargata: oggi i cubani sono chiamati alle urne per un referendum su un nuovo Codice della Famiglia, un testo molto avanzato in termini di diritti sociali ma ancora oggetto di forti resistenze. Oltre otto milioni di cubani sono chiamati a rispondere sì o no a una sola domanda: "Sei d'accordo con il Codice della Famiglia?" I seggi saranno aperti dalle 7:00 alle 18:00 ora locale (dalle 9:00 alle 20 in Italia).

La nuova legge, che modifica profondamente il testo in vigore dal 1975, definisce il matrimonio come l'unione di "due persone", legalizzando il matrimonio omosessuale e l'adozione da parte di coppie dello stesso sesso. Oltre a rafforzare i diritti dei bambini, degli anziani e dei disabili, il codice introduce la possibilità di riconoscere legalmente più padri e madri, oltre ai genitori biologici, nonché la maternità surrogata senza fini di lucro. Molti di questi temi sono fortemente sentiti a Cuba, in una società ancora intrisa di maschilismo e il cui governo comunista ha ostracizzato gli omosessuali negli anni '60 e '70. Tuttavia, negli ultimi vent'anni, l'atteggiamento delle autorità nei confronti degli omosessuali è cambiato notevolmente e il governo ha svolto una intensa campagna per il "sì".

(ANSA il 26 settembre 2022) - Con quasi il 67% dei voti favorevoli, Cuba ha detto "Sì" alla riforma del Codice della Famiglia sottoposta ieri a referendum, che introduce nel Paese matrimoni e adozioni gay e la maternità surrogata, tra le novità. 

 Lo ha annunciato oggi la presidente del Consiglio elettorale nazionale (Cen), Alina Balseiro, secondo quanto riportato dall'agenzia statale Prensa Latina. Balseiro ha affermato che, sebbene il conteggio debba ancora concludersi in alcuni collegi di tre province, il Cen convalida questi risultati come "validi e irreversibili". (ANSA).

Riportando i dati preliminari sul referendum, il Cen ha riferito che hanno partecipato al voto 6.251.786 cubani, pari al 74.01% degli 8,4 milioni di elettori registrati. Il numero totale di schede valide è di 5.892.705, che rappresenta il 94,25%. A favore del "Sì" sono state contate 3.936.790 schede, pari al 66,87%. A favore del "No" sono andate 1.950.090 schede, pari al 33,13%. Con la vittoria del 'Sì' al referendum, risulta approvato il nuovo Codice della Famiglia cubano, che andrà a sostituire il precedente del 1975.

Il nuovo testo introduce il matrimonio tra persone dello stesso sesso e le adozioni per coppie omosessuali. Disciplina la maternità surrogata e porta novità nel contrasto alla violenza di genere, insieme al divieto del matrimonio infantile. Tra le novità, prevede inoltre il trasferimento della "responsabilità genitoriale" dei minori agli anziani, cosa fondamentale per l'isola, terra di emigrazione.

Maschere nude. Il nonsense di un dibattito sull’identità di una sinistra in cui si cambiano i partiti invece dei dirigenti. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 6 Luglio 2022.

Ora che persino Prodi apre al proporzionale, l’ipotesi di un sistema elettorale in cui ciascun partito si presenta con la propria identità e il proprio programma solleva nel Pd un angoscioso interrogativo: quali sono i nostri? 

Adesso che persino Romano Prodi apre al proporzionale, con la stessa formula passivo-aggressiva – «tutto meglio del Rosatellum» – già usata da Enrico Letta e dai molti altri che finora hanno fatto di tutto per tenersi il Rosatellum, qualcosa sembra muoversi davvero, almeno a sinistra. L’ipotesi di un sistema elettorale che consenta a ciascun partito di presentarsi agli elettori con la propria identità e il proprio programma, tuttavia, ha sollevato nel Partito democratico un angoscioso interrogativo. Vale a dire: quali sarebbero la nostra identità e il nostro programma?

Obiettivamente, questioni elettorali a parte, non è un problema che riguardi solo la sinistra italiana. L’ultimo numero del Magazine del New York Times, per esempio, apre con un lungo articolo sull’estinzione dei «democratici moderati», stretti in una morsa tra un’ala radicale molto combattiva e molto forte tra i militanti, i dirigenti e alcune influenti (e affluenti) fasce di elettorato da un lato, dall’altro un presidente, Joe Biden, di lunga storia moderata e centrista, che sembra tuttavia avere sposato le posizioni dei neosocialisti. Anche sul piano dell’atteggiamento parlamentare – almeno a giudizio dei pochi moderati rimasti – ostile a qualsiasi accordo bipartisan, al punto da preferire sicure sconfitte su questioni simboliche, ma capaci di elettrizzare il proprio campo, a possibili vittorie sul piano legislativo, ottenute però al prezzo di mediazioni e compromessi.

Non ne parlo, sia chiaro, per sollecitare facili analogie con l’Italia (ognuno è comunque libero di valutare da solo quanto il parallelo regga, ed eventualmente fin dove), ma per il motivo opposto. Per segnalare cioè una curiosa differenza. L’articolo del New York Times Magazine si apre infatti con il racconto di un incontro, all’inizio di quest’anno, tra il deputato democratico Josh Gottheimer e la sua capogruppo Nancy Pelosi, per discutere il «messaggio» del partito. Incontro in cui lui le avrebbe mostrato il video di un comizio di Bill Clinton del 1996, come esempio e modello di un partito vincente. Scelta non sorprendente, considerato che Gottheimer ha lavorato come speechwriter alla Casa Bianca durante il secondo mandato di Clinton, e considerato soprattutto come ancora oggi, tanto nella sinistra americana quanto nella sinistra europea, il dibattito ruoti ancora intorno a meriti e demeriti del clintonismo e della cosiddetta terza via, e ai successi ottenuti dai leader che l’hanno incarnata, da Tony Blair in Gran Bretagna a Gerhard Schröder in Germania, e ai non pochi problemi che quei leader e quella stagione hanno lasciato irrisolti o aggravati (in America, per dirne una, una deregolamentazione finanziaria ormai generalmente riconosciuta tra le cause della crisi del 2008).

Dov’è dunque la differenza con la situazione della sinistra italiana di cui volevo parlare? Scommetto che il lettore più avvertito ci è arrivato da solo, ma meglio essere sicuri: la differenza fondamentale è che in Italia quelli che oggi guidano la tardiva crociata contro un clintonismo ormai in via di estinzione persino in patria, quando Clinton e Blair erano al potere e facevano quei discorsi, erano su quegli stessi palchi, a dire le stesse cose (o sotto, ad applaudire). La differenza è che Hillary Clinton, nel dibattito interno ai democratici, è lì dove è sempre stata, e così, sul fronte opposto, Bernie Sanders (e lo stesso vale, cambiando quel che c’è da cambiare, per gli altri partiti della sinistra europea). Solo in Italia coloro che nel 1996 lanciavano le parole d’ordine rimpiante oggi da Gottheimer sono gli stessi che oggi, fuori tempo massimo, vorrebbero anche farci la lezione sui guasti prodotti da quella stagione. È un modello intramontabile: sempre dalla parte in cui tira il vento, ma sempre nella posa del fiero anticonformista, se non proprio del rivoluzionario. Non faccio nomi perché a meritare una citazione sarebbero almeno in venti, e farei un ingiusto regalo ai dimenticati, ma soprattutto perché, com’è evidente proprio dai numeri, non è questione di persone, è questione di sistema.

Per quanto infatti le ragioni di questa anomalia possano essere numerose e varie, e anche antiche, non sottovaluterei il peso della pseudo-rivoluzione maggioritaria, con l’altalena delle coalizioni piglia-tutto in cui nascono, si unificano, si scindono e si rifondono sempre nuovi-vecchi partiti, ora in nome del liberismo ora in nome del socialismo, ma guidati sempre dalle stesse persone. Un sistema in cui da trent’anni consideriamo normale che siano i gruppi dirigenti a cambiare i partiti, anziché il contrario.

L’assurdità e l’autocontradditorietà di tutto il dibattito pseudo-ideologico su identità e programmi della sinistra riformista e radicale – del Campo largo lettiano, del Nuovo Ulivo bersanian-speranziano, del Cocomero fratoian-bonelliano – è in fondo solo l’ultima e inevitabile conseguenza di questa giostra trentennale. Un motivo in più per sperare che al proporzionale si torni davvero (vale a dire: senza coalizioni, dunque senza premi di maggioranza, e magari con una bella soglia di sbarramento).

Mattia Feltri per “La Stampa” il 5 luglio 2022.  

Il Partito comunista di Marco Rizzo - presente in Parlamento nel gruppo C.A.L.-Pc-Idv, nato dai Comunisti Sinistra Popolare-Partito comunista, a sua volta nato dai Comunisti-Sinistra popolare, nato dalla Lista Sinistra Anticapitalista, a sua volta nata dalla Lista Sinistra Arcobaleno, a sua volta nata dal Partito dei comunisti italiani, nato per scissione da Rifondazione comunista, nato per scissione dal Partito democratico della sinistra, nato dalle ceneri del Partito comunista italiano, da cui come detto era nata Rifondazione, in cui erano confluiti Democrazia proletaria e il Partito comunista dei marxisti-leninisti, dai quali si erano scissi i Comunisti unitari, da cui era nata Sinistra democratica per il socialismo europeo, da cui nascerà Sinistra e libertà, e poi Sinistra ecologia e libertà, ma nel frattempo dal Partito dei comunisti italiani si scinde l'Associazione sinistra rossoverde, da cui si era scisso il nostro Rizzo con la sua Comunisti sinistra popolare, ma anche Katia Bellillo con Unire la sinistra, mentre i trozkisti si scindono per fondare il Partito comunista dei lavoratori, poi si scinde anche la corrente marxista-leninista l'Ernesto, inteso Che Guevara, e intanto si è scissa Rifondazione per la sinistra da cui intanto si è scissa Iniziativa comunista da cui si scindono i Comunisti autorganizzati da cui si scinde Progetto comunista e non so più da chi si era scissa Sinistra classe rivoluzione, e non mi ricordo come si arriva a Sinistra italiana, che non so se si è scissa da Liberi e uguali, e vabbè mi sono perso - dicevo, il Partito comunista di Rizzo si sta per scindere.

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 7 Luglio 2022. 

«Io sono il segretario del Partito comunista ma, rispetto ai provvedimenti disciplinari, il segretario conta poco. Questo perché c'è una commissione di garanzia che decide Ecco, di fronte a questi compagni che avevano annunciato la mia espulsione dal partito via Facebook, io proporrò un atto di clemenza».

Peccato per quel «Facebook», senza il quale l'eloquio di Marco Rizzo sarebbe sembrato pienamente novecentesco e non datato 5 luglio 2022, ieri l'altro. Che è il giorno successivo all'annuncio, sulla pagina social della federazione milanese del Partito comunista, nientemeno che della sua espulsione. Un annuncio che ha avuto un'eco talmente estesa da risultare sospetta. Come se ci fosse lo zampino di Rizzo stesso, dietro la provocazione. «Macché», risponde lui, «ogni federazione ha le sue password di Facebook. Loro hanno usato la pagina per fare questa provocazione. Dovrei ringraziarli». 

Ed eccolo là, Rizzo. Legittimato dal comitato centrale, ringalluzzito da una manovra social che ha avuto l'effetto di ripuntargli i riflettori addosso, il segretario comunista s' è presentato alle manifestazioni dei tassisti e ha arringato la folla. «Voi state combattendo perché le multinazionali non vengano in questo Paeseeee!», ha scandito (replica in coro dei tassisti: «Bravoooooo!»). 

Allo stesso interrogativo a cui Lenin tentava di dare risposte molto prima di arrivare alla Rivoluzione d'Ottobre - «Che fare?» - Rizzo tenta un approccio nazionalista. «Ma mica sono Lenin, quello era un gigante, io un nano». E comunque, la risposta nazionalista del Partito comunista - visto il flirt politico con no vax, no green pass, no euro, come l'eurodeputata ex Lega Francesca Donato - è agli atti. «Va bene l'internazionalismo. Ma chi erano quelli che dicevano "patria o muerte"? Fidel Castro e Che Guevara, molto prima di me».

Torinese, anni 62, «aggiunga figlio di un operaio vero, mica come Bertinotti», Rizzo ha fatto firmare al suo Partito comunista il patto «Uniti per la Costituzione», insieme a soggetti politici come Rivoluzione civile dell'ex pm Ingroia e formazioni come Ancora Italia e Riconquistare l'Italia. Il Partito della Famiglia di Mario Adinolfi non c'è, «lui è un integralista, noi laici». 

Italexit di Gianluigi Paragone nemmeno, «vuole andare da solo». Sono tutti contro la Nato, l'Ue, l'euro, il green pass, le armi all'Ucraina. «Con quella gente», dice ogni volta che gli chiedono del suo passato, «ho chiuso per proprietà transitiva. Ti sedevi accanto a Bertinotti e spuntava D'Alema. Poi accanto a D'Alema si sedeva Dini. Facevi per andartene ed era tardi, perché stavi già nella stessa compagnia di Mastella». 

I nemici di oggi? «Letta, il Pd, le braccia politiche delle banche». E ovviamente Draghi, «uomo di quella cosa senz' anima che si chiama finanza». Nei salotti della borghesia capitolina che un tempo sussurrava alla destra post-fascista, dicono che il nome di Rizzo sia gettonato. «Boh, mi apprezzeranno per la lealtà nazionale. Io quando torno a Torino becco gli amici di sempre. Operai, cassintegrati, camionisti, gente così».

Il leader del Partito accusato da alcuni compagni flirtare con la destra. E lui: "Fesserie, si fanno solo pubblicità". Ma restano i vecchi marxisti...Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 06 luglio 2022

C’è sempre un comunista più comunista degli altri. 

Prendete i comunisti della comunistissima sezione del Partito Comunista della Federazione di Milano. Avrebbero espulso, a maggioranza, in un post sulla loro pagina Facebook, il Segretario Generale del Partito Marco Rizzo, «assieme a tutto il gruppo dirigente del Partito». La motivazione è implacabile: Rizzo sarebbe troppo poco comunista. Troppo poco. Rizzo. Uno che ha Marx impresso nei neuroni e la falce e martello nel simbolo del suo partito e sempre presente nei selfie, nei ritratti, perfino sui muri di casa che odorano di cellula bolscevica. Rizzo. Uno che, da deputato per Rifondazione comunista, arrivò a criticare Cossutta e Bertinotti perché troppo moderati. 

Ecco, quel Rizzo lì è oggi bersaglio dei compagni federali milanesi che si prendono «la responsabilità politica di questa decisione, consci di essere in minoranza in un CC svuotato di tutte le sue funzioni e prerogative, ma in enorme maggioranza nel corpo sociale del nostro paese. Un corpo sociale che può e deve essere recuperato alla lotta per il socialismo, senza scorciatoie opportunistiche che conosciamo bene da decenni». Scritto proprio così. Con una chiosa che ricorda il garrire dei rossi stendardi nei campi e nelle officine: «Compagne, compagni: il lavoro che ci attende è lungo e difficile. Ma siamo sicuri di possedere tutta la forza per affrontarlo. Una forza che ci arriva dall’unico soggetto che può cambiare la storia: il proletariato». Uno scenario che evoca quasi la mitica scissione del ’21, o un apologo di Majakovskij (anch’egli comunista). Quasi. Anche perché il comunicato di benservito sembra davvero uscito da un tazebao di un secolo fa. 

Si legge roba del tipo: «La recente seduta del Comitato Centrale ha ratificato l’avvio di una nuova fase nel Partito Comunista. Questa nuova fase si caratterizza essenzialmente nella profonda revisione di alcune indicazioni strategiche contenute nel documento del nostro terzo Congresso. Tra esse la decisione di procedere ad alleanze politiche con partiti e organizzazioni che verranno individuati». Cioè: si critica la decisione di Rizzo di aver stipulato accordi elettorali con Ancora Italia, Riconquistare l’Italia, Azione civile di Antonio Ingroia, e poi l'appoggio alla ex leghista Francesca Donato a Palermo.

Oppure: «Non sfugge a nessuno che in questa fase storica sia necessario lavorare intelligentemente per recuperare delle classi popolari sempre più disaffezionate alla militanza. Da qui a collaborare con il Popolo della Famiglia (come accaduto in Sardegna) o con chi ritiene di dover combattere insieme a chi si richiama al tradizionalismo cattolico contro il materialismo ateo, ce ne passa». Non ce ne passa che, onestamente, ad un’attenta esegesi del testo, di tutto ciò non si capisca una beata fava. Oltre la coltre fumosa degli slogan antiNato, antiOccidente, antitutto, s’avverte solo una puntina di astio nei confronti del compagno Rizzo svendutosi evidentemente all’Occidente, ai padroni, ai poteri forti (non si capisce bene in quale ordine, e a che titolo). 

Rizzo emanerebbe zaffate di borghesia, rantolerebbe nel tradimento degli ideali e delle alleanze. Di più, aggiungono gli accusatori,  «alleanze politiche con strutture tanto distanti dal pensiero marxista-leninista e dalla lotta di classe renderebbero e rendono ancora più urgente una ratifica attraverso il coinvolgimento di tutto il corpo del partito». Sembra di esser tornato al febbraio 2020 quando Rizzo, intervistato da Libero, venne attaccato da altri compagni comunisti in un memorabile ciclostilato: «In tutta l’intervista l’imbroglione trotzkista non dice una sola parola contro il capitalismo, a favore dell'abbattimento del potere borghese e del socialismo, contro i fascisti del XXI secolo e il loro duce Salvini e perfino nemmeno contro il governo del liberale trasformista Conte». Avesse avuto sottomano l’estensore del comunicato, Rizzo l’avrebbe mandato nel gulag. Qui, si limita a precisare che, naturalmente, rimane saldamente Presidente del Pc.

In serata la Commissione Centrale di Controllo e Garanzia del Partito Comunista, accusa il furto della password di Facebook, e  denuncia il raid della sedicente federazione milanese, inducendo il sospetto di una fake news. Ma non è una fake. Alcuni, a  Milano hanno preso quello di Rizzo come un tradimento del mandato. Rizzo però è felice: «Abbiamo avuto una pubblicità della Madonna, prima non ci filava nessuno. Ora vado su Facebook e destituisco Draghi. Magari funziona...».

La battaglia a suon di espulsioni. La tragicommedia del Partito Comunista di Marco Rizzo, “espulso” dai militanti tra rossobrunismo e alleanze con Adinolfi. Carmine Di Niro su Il Riformista il 5 Luglio 2022 

Volano schiaffi e purghe nel Partito Comunista di Marco Rizzo. È una storia di espulsioni e contro-espulsioni quella che arriva dal minuscolo partitino di Rizzo, che nel corso degli anni è passato dallo storico PCI a Rifondazione Comunista, quindi creatori Comunisti-sinistra popolare diventato l’attuale Partito Comunista, in un cammino che nel tempo ha portato le sue posizioni sulla scia di quel rossobrunismo anti-Euro, anti-immigrazione, anti-Green pass e contrario alle politiche per i diritti civili.

Troppo per la Federazione milanese del partito, guidata a Luca Ricaldone, che non ha apprezzato il costante spostamento a destra di Rizzo e le alleanze con piccoli movimenti che variano dall’estrema destra e all’estrema sinistra fino ai cattolici, dall’ex pm Antonio Ingroia all’ex leghista Francesca Donato. A far saltare i nervi agli iscritti milanesi l’accordo elettorale con l’ultracattolica Popolo della famiglia di Mario Adinolfi in Sardegna.

Da qui la scelta, provocatoria, di espellere via Facebook il leader del Partito. Nel post di rottura con Rizzo si sottolinea infatti “una virata che si configura a tutti gli effetti come deriva elettoralista, di cui negli ultimi 18 mesi già avevamo visto diversi segnali, a iniziare dalla presenza del nome del segretario generale nel simbolo elettorale. Di fronte a tutto questo assistiamo non solo a un Partito che nell’ultimo Comitato centrale ha visto ben 8 compagni su 40 non votare la relazione del segretario; a questi se ne accompagnano altrettanti che, per un motivo o per l’altro, hanno apertamente espresso la loro contrarietà a tale virata“.

Perciò “avendo loro tradito il mandato del 3° Congresso, la federazione di Milano del Partito comunista decide a maggioranza di espellere tutto il gruppo dirigente del Partito, a cominciare dal segretario generale Marco Rizzo“.

Poche ore dopo però è arrivata la contromossa di Rizzo, con la purga nei confronti di chi voleva espellere il leader dei Comunisti. In un post che utilizza tra l’altro termini cari alla destra, “Zecche sulla criniera di un destriero”, è il presidente e rappresentante legale del Partito, Canzio Visentin, a rispondere per le rime. 

“In questo mondo dei social basta impossessarsi della password di Facebook di una federazione del Partito e decidere che il segretario nazionale è espulso. Di questi bontemponi si sta occupando la Commissione Centrale di garanzia e, per rimpinzare le casse, la tesoreria e gli avvocati – scrive Visentin -. Il segretario generale Marco Rizzo sta bene e gode della fiducia (certificata col voto ad ampia maggioranza – 7 voti contrari ed 1 astenuto – del Comitato Centrale del 25 Giugno) di tutto il Partito, che approva la scelta di unire le forze reali del dissenso in questo Paese”, è il messaggio, con la questione che rischia a questo punto di finire in un’aula di tribunale.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

·                   Ipocriti.

Sepolcri imbiancati. Premessa: siamo garantisti convinti, per cui prima di esprimere giudizi o emettere verdetti vale la pena attendere la conclusione delle indagini dei magistrati di Bruxelles. Augusto Minzolini il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Premessa: siamo garantisti convinti, per cui prima di esprimere giudizi o emettere verdetti vale la pena attendere la conclusione delle indagini dei magistrati di Bruxelles. Ma già l'accusa di aver svolto «ingerenze» nel Parlamento europeo in favore del Qatar, Paese dove si stanno svolgendo i mondiali di calcio, famoso per la durezza del regime e l'assenza di ogni rispetto per i diritti umani, lascia di stucco se si pensa che gli indagati appartengono tutti alla sinistra: c'è un ex eurodeputato, Antonio Panzeri, che ha militato prima nei Ds, poi nel Pd e infine ha aderito ad Articolo Uno, il gruppo messo in piedi da Speranza, Bersani e D'Alema; c'è la vicepresidente del Parlamento Ue, la socialista greca Eva Kaili; e, insieme a loro, alla moglie e alla figlia di Panzeri e ad altre tre persone, è finito davanti ai magistrati di Bruxelles pure Luca Visentini, segretario generale dell'International Trade Union Confederation, il più grande sindacato del mondo.

Appunto, siamo garantisti, ma intanto nelle perquisizioni degli accusati sono saltati fuori 600mila euro in contanti, somma che solo sceicchi e oligarchi tengono nel cassetto. Il paradosso maggiore, però, è un altro e lambisce i confini della realtà: Panzeri è anche il fondatore di una Ong, la Fight Impunity, impegnata nella «lotta contro l'impunità per gravi violazioni dei diritti umani e crimini contro l'umanità». Sembra di avere di fronte il dottor Jekyll e mister Hyde: da una parte il difensore dei diritti, pronto a lanciare anatemi contro chi vuole un'immigrazione regolata; dall'altra il lobbista che agisce nel Parlamento Ue in favore del Qatar per far dimenticare alla comunità internazionale come vengono calpestati da quelle parti i diritti. Una contraddizione scioccante che dimostra come certe ideologie siano finzioni in cui le parole non hanno valore e i comportamenti smentiscono le teorie. Uno schema vecchio: si predica bene nei discorsi e si razzola male per fame di dollari. Per cui tutto è possibile. La coerenza a sinistra è diventata un sepolcro imbiancato.

Quello che più dà fastidio, però, è come il grande tema dei diritti umani spesso sia brandito come un'arma dalla sinistra contro la destra. O, addirittura, diventi argomento di «razzismo» politico. Basti pensare che il giorno prima di questo euro-pandemonio è stata presentata l'ultima edizione di «Politico 28» nella quale Giorgia Meloni, con il sottotitolo «la Duce», guida la classifica dei cattivi tra i politici europei. E, invece, la storia del Qatar che si infila tra i parlamentari socialisti di Strasburgo, così come le faccende opache che hanno coinvolto quello che fino all'altro ieri il nuovo leader della sinistra italiana, Aboubakar Soumahoro, dimostrano una realtà ben diversa. La verità è che la difesa dei diritti civili non dovrebbe avere un colore politico, ma dovrebbe essere patrimonio comune dell'umanità. Anche perché «pecunia non olet» pure a sinistra: il giorno in cui il suo compagno di partito, Panzeri, è stato messo sotto accusa dai magistrati belgi per aver preso mazzette dagli emiri, Massimo D'Alema ha presentato al governo italiano un compratore per la raffineria di Priolo. Indovinate di che nazionalità? Naturalmente del Qatar.

Il progressismo Pd a misura di islam. La sinistra italiana ha sempre legittimato gli integralisti dell'Ucoii. Gian Micalessin l’11 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Garantisti sì, fessi no. I sacchi di soldi elargiti alla «sinistra» eurobrigata guidata dalla socialista greca Eva Kaili e dall'ex eurodeputato dem Antonio Panzeri non bastano, da soli, per emettere una condanna preventiva. D'altra parte sarà difficile stupirsi se quelle accuse risulteranno, alla fine, quanto mai fondate. L'idillio ideologico-finanziario che lega il Pd italiano e la sinistra europea all'Islam della Fratellanza Musulmana sovvenzionato dal «grande fratello» qatariota dura da oltre un decennio. E l'Italia ne rappresenta, grazie ai governi Pd, una delle culle più accoglienti. Per scoprirlo basta sostituire al nome di Fratellanza Musulmana e Qatar la sigla del loro referente nostrano ovvero quell'Ucoii, Unione delle comunità islamiche in Italia, che - pur rappresentando un'ala minoritaria e non proprio moderata dell'Islam italiano - ne è diventato grazie a governi e amministratori del Pd la voce più ascoltata e autorevole.

Ma per comprendere la pericolosità dell'idillio dem-islamista vanno ricordati alcuni retroscena. Il Qatar da sempre accoglie e protegge la diaspora della Fratellanza Musulmana, un movimento integralista giudicato sovversivo e pericoloso da molti paesi arabi e islamici. Un giudizio non proprio campato in aria visto che tra le fila della Fratellanza sono cresciuti i leader di Hamas prima e di Al Qaida poi. A Doha, invece, è vissuto in esilio, fino alla morte sopraggiunta lo scorso settembre, Yusouf Al Qaradawi, il predicatore simbolo della Fratellanza Musulmana autore di una fatwa in cui pronosticava la riconquista di Roma «attraverso la predicazione e le idee». Predicazione e idee destinate a far assai poca strada senza i soldi riversati in Italia ed Europa da Doha e dai suoi prestanome. Da noi, grazie alle «disattenzioni» dei governi Pd arrivano, dopo il 2013, circa 25 milioni di euro della «Qatar Charity» con cui l'Ucoii conta di realizzare 45 progetti per la costruzione di moschee, luoghi di preghiera e centri culturali islamici. Il tutto mentre Al Qaradawi suggerisce di destinare qualche spicciolo anche al Caim, il Coordinamento Associazioni Islamiche di Milano, Monza e Brianza. Un'intuizione a dir poco lungimirante visto che subito dopo il sindaco di Milano Giuseppe Sala fa eleggere nelle liste Pd e accoglie in Consiglio comunale la militante islamica Sumaya Abdel Qader. Una militante orgogliosamente velata formatasi, guarda caso, tra le fila del Forum Europeo delle Donne Musulmane, braccio operativo della Fratellanza Musulmana a Bruxelles. Una mossa che alla luce delle attuali cronache la dice lunga sui rapporti intessuti dal Pd con l'Ucoii e i suoi referenti internazionali. Legami confermati dalle scelte dell'ex-ministro della giustizia Andrea Orlando firmatario, nel 2016, della convenzione che affida proprio agli imam dell'Ucoii il compito di prevenire la penetrazione nelle carceri dell'Islam radicale. Una mossa che equivale a mettere la volpe nel pollaio.

Gli imam dell'Ucoii sono, infatti, i principali propagatori del verbo integralista propugnato dalla Fratellanza Musulmana. Ma il pollaio italiano è ben più ampio del ristretto universo carcerario. E lo dimostra la Firma del «Patto nazionale sull'Islam» con cui l'Ucoii diventa nel 2017 un interlocutore ufficiale dei nostri governi. Mentre l'accusa di «islamofobia» diventa l'anatema con cui tacitare qualsiasi critica al diffondersi di un islam radicale garantito dal denaro distribuito all'Ucoii e agli spregiudicati esponenti di un pensiero progressista modellato sul verbo di Doha.

Dai diritti agli affari: la triste parabola di una sinistra che si è venduta. Tocca a Panzeri dopo il caso Soumahoro. Quella deriva dietro il paravento delle "lotte". Stefano Zurlo il 10 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Quasi cinquecentomila euro in contanti. Mazzette, ipotizzano gli inquirenti. E allora si resta sbalorditi perché Antonio Panzeri è una delle voci storiche del riformismo ambrosiano e italiano, un punto di riferimento per la sinistra che a Milano faticava a toccare palla. Oggi che non è più in prima linea, il suo nome può suscitare interrogativi sbiaditi, ma Panzeri, classe 1955, è stato il leader milanese della Cgil e per un certo periodo si pensava a lui come al possibile successore di Sergio Cofferati, a sua volta per una breve stagione il vero antagonista di Silvio Berlusconi.

Panzeri ha interpretato a lungo una linea pragmatica, forse l'unica praticabile nella metropoli lombarda alle prese con la deindustrializzazione, e certo fa impressione pensare che oggi si sospetti una deriva oltre il confine della legalità: la capacità di leggere la realtà senza gli occhiali dell'ideologia avrebbe lasciato il posto ad altre logiche e altre prospettive. Una parabola avvilente, se sarà confermata dallo sviluppo delle indagini.

Panzeri è per lungo tempo una figura di raccordo fra la Cgil e il partito, naturalmente il Pci e poi le sue evoluzioni. Il tutto in un'epoca in cui le due chiese officiavano lo stesso rito e incrociavano i percorsi dei loro colonnelli. Panzeri è per due mandati segretario della Camera del lavoro di Milano, insomma è ai vertici del sindacato, poi deve lasciare, come da statuto, e inizia la carriera politica. Nel 2004 viene eletto al Parlamento europeo, con 105 mila preferenze, naturalmente nella circoscrizione Nord-Ovest, e sembra portare a Bruxelles le istanze di una sinistra meno legata ai vecchi dogmi ormai in soffitta e pronta a dialogare con il ceto medio e la borghesia meneghina.

Ma le cose vanno diversamente; Panzeri viene rieletto la seconda e la terza volta, ma il rapporto con il Nazareno si consuma: l'europarlamentare esce dal Pd e aderisce ad Articolo 1, poi si ritrova fuori dall'emiciclo: in realtà continua a frequentare il mondo della politica. È direttore della Ong Fight impunity che annovera nel comitato scientifico personaggi come Emma Bonino e Federica Mogherini.

Insomma, l'impegno anche dopo aver lasciato la prima linea: forse, dietro le quinte, se dobbiamo dare credito a quel che sta emergendo a Bruxelles, Panzeri transita in quella fase al partito degli affari. I suoi interlocutori non sono più i lavoratori milanesi, gli operai costretti a reinventarsi dopo il declino delle fabbriche e l'esplosione del terziario; no, dai radar di Panzeri sarebbero usciti anche gli euroburocrati e i funzionari della Ue, o forse no, perché spezzoni dell'apparato si sarebbero integrati fra Bruxelles e Strasburgo con emiri e mediatori mediorientali.

Tutto da dimostrare, in un'inchiesta che per una volta non nasce in Italia. La cronaca giudiziaria ci ha abituato per lunghi periodi a indagini che colpivano il centrodestra. Quando, a finire sotto i riflettori sono i protagonisti dell'altro versante, si tende a catalogarli come un'eccezione. Un'eccezione che ai tempi di Mani pulite tolse dall'imbarazzo l'allora Pds perché i miglioristi furono equiparati ad una variante degli allora impresentabili socialisti.

Qui non è facile cavarsela con le acrobazie semantiche e i distinguo capziosi ma resta il fatto che la storia gloriosa di Panzeri non può essere cancellata. E mette a disagio pensare che possa aver virato in altra direzione, privilegiando intrighi e oboli.

Chissà. La vicenda di Aboubakar Soumahoro, che peraltro non è indagato, insegna che proclami e invettive qualche volta sono solo un paravento: dietro si nascondono pasticci, o peggio rapporti opachi. Certo, sono storie diverse e con differenti profili: fra l'altro da qualche tempo Panzeri era finito nella penombra e non aveva più la notorietà del deputato della sinistra radicale, scintillante campione dell'opposizione al governo Meloni.

Battaglie su battaglie, manifestazioni, assemblee e cortei, talk e interviste. Poi dietro le quinte affiora altro. Non proprio edificante. Anche se sarebbe a dir poco ingeneroso trasformare gli elementi investigativi che arrivano dal Belgio in una sentenza di condanna.

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 7 Dicembre 2022.

Professor Massimo Cacciari, come si salva la sinistra?

«Solo se affronta sul serio la questione sociale. Dovrebbe essere il cuore del suo agire».

Tra operai che votano a destra e astensionisti ci sarebbe una prateria da conquistare.

«Come hanno capito tutti quelli che negli ultimi vent' anni sono passati rapidamente dal 5 al 30 per cento. Ma per farlo bisogna essere credibili nelle proposte. E costruirvi attorno un radicamento sociale e territoriale frutto delle lotte che si compiono, non di quelle fatte per portare le borse al capocorrente di turno. Invece vedo che nel Pd la discussione congressuale gira ancora su chi ha più immagine per fare il segretario». 

Manca umiltà?

«Questa è una cosa che a destra hanno capito. Giorgia Meloni cerca di essere umile, perché percepisce la delegittimazione che investe il sistema politico.

Invece a sinistra tutti professori, e più perdono e più diventano arroganti». 

La sinistra però non è in crisi ovunque?

«Il Welfare del dopoguerra fondava le sue fortune anche su uno scambio iniquo tra i Paesi ricchi e quelli in via di sviluppo e la politica delle socialdemocrazie era quella dello Stato sociale. Rappresentavano settori sociali relativamente omogenei, classi organizzate da potenti sindacati. Il venir meno di questi fattori spiega le ragioni oggettive della crisi delle socialdemocrazie».

 Quel mondo non c'è più da tempo.

«Sì, è crollato. Ci aggiunga che la ricchezza ha smesso di crescere negli ultimi vent' anni in tutta Europa. Un terremoto. Ma cosa si fa dopo un terremoto? Si può piangere, accucciarsi sulle macerie o provare a pianificare nuovi paesi e città».

La sinistra non ha fatto lo sforzo necessario per compiere un nuovo inizio?

«No. Non era facile, ma bisognava almeno provarci. Ciò presupponeva un'analisi sociale, politico-culturale e geopolitica. Un'indagine sul mutamento avvenuto. Invece si è preferito subire i processi, adeguandosi alle politiche neoconservatrici». 

E lì che la sinistra smarrisce il suo popolo?

«Non c'è stato alcun tentativo di rappresentare quei settori sociali che nella globalizzazione perdevano peso economico, sindacale e politico. Le misure adottate sono state poco più che pannicelli caldi, assistenziali. I vincoli, come il pareggio di bilancio, son diventati obbiettivi. L'austerità il discorso dominante, come se fosse neutrale e colpisse tutti allo stesso modo».

La destra ha offerto risposte più efficaci?

«Una destra sociale c'è sempre stata. Le destre, anche quelle storiche, totalitarie, che non esisteranno mai più, vanno affrontate su questo terreno: occupazione, reddito, politiche redistributive. La sinistra accusava la destra di non farlo o di fingere di farlo, di essere "serva dei padroni". Il confronto assolutamente primario avveniva su questo terreno». 

E oggi?

«Oggi la destra, persa la carica anti istituzionale, guadagna proprio dove la sinistra ha "sbaraccato"». 

 Qual è il rischio che corre il Pd?

 «Di diventare una sorta di Partito d'Azione o di Partito radicale. Ho molta riconoscenza per le battaglie di un Pannella, ma non può essere quello il destino di un partito di massa». È troppo concentrato sui diritti? «I diritti vanno bene, per carità, ma devono essere sempre affrontati in relazione a quelli sociali, previsti non a caso dalla Costituzione. Le disuguaglianze, la precarietà, il lavoro femminile, di cosa credete che discutono le masse?». 

Chi sceglie tra Bonaccini e Schlein?

«Non mi appassiono alla contesa. Trovo sbagliato il metodo. Servirebbe una discussione radicale, che prendesse atto della svolta epocale avvenuta con la nuova forma della globalizzazione, con il dominio del capitale finanziario». 

Il comitato degli 87 non sta facendo questo?

«Per carità! Una cosa ridicola. Le pare che i valori si scrivano a tavolino? E tra "saggi" scelti da chi? Da un gruppo dirigente come l'attuale del Pd?». 

Quindi la colpa della sinistra è di essere stata gregaria?

«Sì, non ha una posizione autonoma, ha subito i processi. Non è stata parte, non ha saputo rappresentare una posizione autonoma su nessuno dei grandi temi che la globalizzazione impone. La globalizzazione è irreversibile, ma non conduce da sé alla Repubblica universale di Kant. Crea disuguaglianze, ridistribuisce poteri. Su questo occorre confrontarsi e anche combattere». 

Un altro esempio di questa sudditanza?

«L'Occidente. È giusto essere da questa parte, naturalmente, mica si può stare con Putin o con la Cina. Ma con l'ambizione di riformarne le istituzioni e la linea politica, non piegati interamente sui Biden di turno». 

Il Pd è stato troppo al potere?

«Il Pd si è trasformato in partito ministeriale. Mutamento che viene da molto lontano».

Ma alla fine chi dovrebbe rappresentare?

«I giovani, quasi tutti precari. Le donne, che sono le peggio trattate in Europa. La classe media impoverita. C'è chi parla di nuova plebe. A ragione. E allora occorrono i tribuni: tribuni capaci di far politica e governare. Non demagoghi che durano un mattino». 

Nel concreto?

«Serve un partito che organizzi, rappresenti e difenda con radicalità questi interessi e solo così si salverà anche la democrazia, se non si vuole ridurre alla più vuota delle procedure».

Il "compagno" Pierluigi Bersani beccato a fare spesa da Louis Vuitton. Il Tempo l’01 dicembre 2022

Il cliente del negozio di alta moda che meno ti aspetti. Fanno discutere le foto, pubblicate da Dagospia, di Pierluigi Bersani, "pizzicato" mentre fa spesa nella boutique  di Louis Vuitton a Roma.

L'ex leader del Partito Democratico, ora alla guida del movimento Articolo Uno insieme a Roberto Speranza, stava comprando probabilmente un regalo, piuttosto voluminoso. Un'immagine che stride con quella del "vecchio compagno" che prometteva di "smacchiare il giaguaro" e si schiera in prima linea per difendere i diritti delle persone più povere.

"Come pensa che la prendano questa foto le persone che vivono situazioni di disagio?" commenta tagliente Dagospia. "Alla faccia della sinistra del popolo", aggiunge il sito di Roberto D'Agostino.

Brunella Bolloli per Libero Quotidiano il 2 dicembre 2022.

Da Melenchon a Louis Vitton. Il passo è breve, a quanto sembra. Ma è Lacoste o la gauche? La confusione è grande, almeno quanto lo sbigottimento. È lui o non è lui, diceva il saggio, anzi Dagospia, autore dello scoop. Ma cosa ci faceva Pier Luigi Bersani in via Frattina, al centro di Roma, dentro la rinomata boutique? Più che del caro bollette era intento a occuparsi del caro borsette.

Un regalo per chi? Forse per Elly Schlein, l'ex vice di Stefano Bonaccini che domenica annuncerà la sua candidatura alla segreteria del Partito democratico? Staremo a vedere.

Di sicuro c'è un fatto: Bersani avrà pure «smacchiato il giaguaro», ma se c'è da comprare un oggetto in pelle, un dono che non passi inosservato e gli permetta di fare bella figura, non bada a spese.

Alla faccia dei «poveri cristi» a cui quei cattivoni del governo Meloni hanno deciso di togliere il reddito di cittadinanza dei suoi amici grillini, e lui sa cosa vuol dire. Lui che viene da Bettola, 2.586 anime in provincia di Piacenza, e lì ha cominciato tutto dando una mano nella pompa di benzina del padre. Lui che tra un bicchiere di lambrusco e una scorpacciata di gnocco fritto serviva messa in paese e intanto studiava filosofia.

PASSIONE POLITICA Pare che i suoi genitori, cattolici e democristiani, siano rimasti sconvolti quando nel '70 ha deciso di fondare una sezione di Avanguardia operaia. I biografi ufficiali raccontano degli inutili sforzi dello zio missionario affinché il giovane Pier Luigi si convertisse sulla strada della Dc. Niente da fare: la passione politica batteva forte da un'altra parte, così dalla comunità montana piacentina, il compagno Bersani è arrivato prima in Regione, poi in Parlamento, quindi al governo. Ministro dell'Industria e del commercio con Prodi, poi con D'Alema e con Amato: sono gli anni in cui il Partito comunista diventa prima Partito democratico della Sinistra (Pds) e poi Ds, i Democratici di sinistra nati sotto le fronde dell'Ulivo che portano per la prima volta insieme ex democristiani ed ex comunisti.

In breve, il Nostro fa un carrierone e non stiamo qui a ricordare le primarie Pd vinte nel 2012 con Le Monde che lo incorona «l'uomo tranquillo della sinistra italiana», cui segue però la "non-vittoria" alle Politiche dell'anno dopo. Ricordiamo bene, però, le recenti esternazioni in diretta tv, sempre a favore degli «ultimi», «di chi è costretto ad andare alla Caritas per sfamarsi», dei «precari», perché «questi della destra si sono presentati dicendo "qui cambia la musica, mettiamo ordine", dopodiché si è visto subito che questi disciplinatori sono a corrente alternata, mettono un po' di regole e un po' ne tolgono. Le hanno messe ai poveracci del reddito, alle Ong, ai giovani dei rave, minacciano di metterle agli studenti che portano il telefonino in classe».

L'altra sera su La7, l'esponente di Articolo 1 era carico come un teenager dopo un concerto di Vasco, ce l'aveva con la legge di bilancio: «Ragazzi, ma in questa manovra ci sono delle cose che fanno pensare che qui si sta prendendo una strada pericolosissima!

Stanno dando una pillola scaduta e avvelenata», insisteva l'ex segretario.

CHI PREDICA BENE Sul deputato della Sinistra italiana Soumahoro, poi, l'apoteosi: «Sicuramente quello che sta venendo fuori non è accettabile», ha detto, «ma anche un prete che ha peccato può dare il messaggio giusto. Lui difende i migranti dallo sfruttamento, è un problema che esiste, non lo si può buttare via a causa di questa vicenda». Al che il capogruppo di Forza Italia alla Camera, gli ha replicato: «La sinistra predica bene e razzola male». Perché Aboubakar Soumahoro è colui che si è presentato in Parlamento con gli stivali di gomma in difesa dei migranti e dei lavoratori sfruttati come quelli delle coop gestite dalla suocera, e ha la moglie che si fa i selfie con le borse griffate. E l'ex leader dem sta con loro.

Confessiamo: a noi Bersani sta simpatico. Ci piace il suo linguaggio bersanese diventato cult con Crozza e sviscerato da Ettore Maria Colombo nella bella biografia dedicata all'ex ministro. Ma questa cosa dello shopping non proprio da mercato rionale stona con i discorsi da pauperista che gli sentiamo fare nei comizi. Poi, certo, è giusto separare lavoro e vita privata e non ha commesso alcun reato. Però, come in quella foto da solo al tavolo di un bar con la birretta, anche questo scatto rubato è circolata e sui social ormai sono partiti gli sfottò. Come direbbe lui stesso: «Non si può rimettere il dentifricio dal tubetto...».

Alessandro Trocino per corriere.it il 9 dicembre 2022.

Pensava di averlo colto in castagna, di aver beccato l’ennesimo compagno con il rolex. E invece ha fatto, parole sue, una figuraccia, che lo ha fatto sentire — parole sue — «una merda». 

Il clamoroso mea culpa è di Alessandro Sallusti, direttore del quotidiano «Libero», che in vita sua di editoriali e commenti velenosi e anche oltre ne ha fatti parecchi. Stavolta però ha ammesso di essersi pentito: schiacciato, più che dal peso del senso di colpa, dall’ironia elegante di Pier Luigi Bersani. 

È successo, infatti, che nei giorni scorsi Sallusti aveva visto e pubblicato una foto dell’ex segretario dem fuori da un negozio di Louis Vuitton, a Roma. Un marchio di lusso ben noto che, ai suoi occhi, non dovrebbe essere frequentato da un esponente della sinistra (quasi) radicale. 

E così aveva anche ironizzato sul fatto che «il paladino della sinistra operaia frequentasse le stesse boutique dei milionari».

Una presa in giro in fondo piuttosto innocua, considerando le ironie che in passato erano state riservate alla doppia morale e all’ipocrisia di chi scendeva in piazza per gli operai e poi viveva nel lusso della ztl. Basti ricordare Fausto Bertinotti, preso in giro per il cachemire, che sosteneva non fosse così di valore: «Il primo me lo comprò Lella al mercato dell’usato. Quando la leggenda prese corpo, poi me ne furono regalati altri. Il più bello da due operaie di una fabbrica di cachemire. Me lo mandarono con una lunga lettera. Scrivevano: fa male ad arrabbiarsi per le polemiche, noi siamo proletarie e vorremmo che lei valorizzasse il nostro lavoro». 

Ma sull’arguzia di Sallusti è piombata la risposta di Bersani, ancora più elegante perché non pubblica ma arrivata via telefono al direttore di «Libero», come ha poi raccontato nel suo podcast del venerdì: «Niente da obiettare, ognuno fa il suo mestiere come ritiene. Dispiace soltanto di vedere rovinata la sorpresona di Natale per mia moglie».

Touché. Anche Sallusti ha un cuore, e una compagna, e così sprofonda: «Giuro che mi sono sentito una m..., come poche volte mi è successo in carriera». E ancora: «Solo un moralista cretino avrebbe potuto fare ciò che ho fatto». 

Ora al Corriere racconta: «La battuta contro di lui era un classico a cui non sono riuscito a resistere. Quando ho ricevuto il suo messaggio ci sono rimasto veramente male. Ho aspettato qualche giorno, perché non sapevo cosa dirgli. Poi ci ho riflettuto e ho deciso di fare pubblicamente mea culpa. Per un altro non lo avrei fatto, ma lui è veramente una bella persona. Questa mattina mi ha mandato un messaggio di stima e mi ha detto che le mie parole valgono un regalo di Natale».

Del resto, il rapporto tra i due è di lunga data: «Quando Bersani ha avuto l’ictus, senza consultare neanche Berlusconi, ho fatto in prima pagina il titolo: Forza Bersani. E ho scritto, Pier Luigi non farci scherzi, sei l’unico nemico vero che abbiamo, mica ci lascerai a prendercela con Franceschini?». Due mesi dopo, Sallusti è in una saletta di Linate e vede avvicinarsi Bersani: «Lo ricordo come se fosse ora. Viene verso di me, mi mette una mano sulla spalla e, con la sua cadenza emiliana, mi dice: uè, ragazzo, sarò anche comunista, ma certe cose non le dimentico».

Laburista a chi? Se la destra attacca i poveri, la sinistra non dovrebbe difendere la povertà. Francesco Cundari su L’Inkiesta il 25 Novembre 2022.

Il modo in cui il Partito democratico si sta accodando a Conte nella battaglia sul reddito di cittadinanza è un altro segno dell’egemonia grillina

A giudicare dai toni e soprattutto dal lessico con cui il Partito democratico sembra deciso a schierarsi in difesa del reddito di cittadinanza, si direbbe che il Movimento 5 stelle abbia già vinto la battaglia decisiva per l’egemonia a sinistra.

Ci sono naturalmente mille buoni motivi per contestare le scelte del governo, ma dal momento in cui dichiara di voler sostituire il reddito di cittadinanza con una norma mirata al sostegno alla povertà, sarebbe forse il caso di incalzarlo sul merito e di impegnarsi per incidere sul modo in cui tale provvedimento sarà disegnato, non foss’altro perché questa è stata esattamente la posizione del Partito democratico, per anni, almeno fino al 2019.

Inutile rifare ancora una volta tutto l’elenco delle scelte che i dirigenti del Pd si sono rimangiati pur di inseguire Giuseppe Conte, persino su una riforma costituzionale contro la quale avevano votato ben tre volte in Parlamento (il taglio dei seggi). Inutilissimo ricordare cosa dicevano del reddito di cittadinanza fino al 2018, o per essere più precisi fino al 5 settembre 2019 (giorno in cui è entrato in carica il secondo governo Conte, fondato sull’alleanza Pd-M5s).

Interessante è invece lo slittamento lessicale e culturale, per non dire ideologico, che si riscontra nel modo in cui tanti esponenti del Pd, e specialmente della sua ala sinistra (stavo quasi per dire «laburista»), denunciano l’attacco ai poveri, la caccia ai poveri, la crociata contro i poveri del governo Meloni, rappresentata dalla scelta di cancellare il reddito di cittadinanza.

È naturale che i politici di oggi non si esprimano come i partiti comunisti, socialisti e socialdemocratici del secolo scorso (e risultano anzi grotteschi quando lo fanno), tuttavia c’era una ragione se quei partiti parlavano di proletariato, classe operaia, classi popolari, ma raramente di poveri. E non certo perché nell’Italia degli anni Cinquanta e Sessanta non ci fossero poveri e non ci fosse un problema sociale legato alla povertà diffusa, ben più grave di adesso.

C’era però l’idea che obiettivo della politica, e in particolare di quei partiti, dovesse essere l’emancipazione, attraverso la partecipazione e attraverso il lavoro. Di qui l’articolo uno della Costituzione, l’idea cioè del lavoro – non del reddito – come fondamento della cittadinanza.

Una vecchia frase fatta dice che la sinistra dovrebbe combattere la povertà, non la ricchezza. Un’altra frase fatta, non meno diffusa, dice che la destra combatte i poveri, anziché la povertà. Giustamente, però, a nessuno è mai saltato in mente di dire che la povertà vada difesa.

La storia insegna: chi toglie la libertà è sempre comunista. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 02 ottobre 2022.

Si può fare una statistica ormai quasi secolare delle libertà violentate nel mondo. E da quella statistica spicca una verità senza rendiconto: vale a dire che quando c'è massacro di libertà, praticamente sempre c'è un comunista che lo compie, o lo nasconde, o lo giustifica. E mai, quando nel mondo le libertà sono state aggredite, mai il comunista si è posto a difenderle. Mai nel mondo il comunista ha combattuto il potere che di volta in volta reprimeva quelle libertà, se non per sostituirvisi impiantando un potere che a sua volta ne faceva sacrificio.

Sul grosso delle libertà sopraffatte nel mondo c'è la grinfia del comunista. C'è la censura del comunista a rendere impunita quella sopraffazione. C'è la propaganda del comunista a giustificarla. Non c'è solo l'aguzzino che a migliaia di chilometri da qui fa rogo di una iurta mongola piena di bambini: c'è anche il comunista di qui che contestualizza. Non ci sono solo i milioni di bambini denutriti nei paradisi del socialismo asiatico: c'è anche il comunista di qui che li oppone ai senzatetto di New York. Non c'è solo l'omosessuale con i testicoli spappolati nel carcere cubano: c'è anche il comunista di qui, con appeso il ritratto del "Che", che si leva a difesa dei diritti civili minacciati dal neoliberismo. Non c'è solo il male assoluto perpetrato in mezzo mondo da decenni di violenza comunista: c'è anche di chi quel male è patrono, procuratore, avvocato.

Le cose buone fatte dal Pci? Ecco come ha devastato l'economia. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 15 novembre 2022

Siccome ho scritto che in Italia non ci sono state cose buone fatte grazie ai comunisti, né cose cattive che siano state fatte senza il loro contributo, il mio amico Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, mi ha rinfacciato l'elenco di positive acquisizioni che si dovrebbero all'iniziativa di quella tradizione politica. Scrive Sansonetti: «Divorzio, aborto, riforma sanitaria, riforma psichiatrica, 150 ore...». 

Ora, divorzio e aborto (che non tutti giudicano cose buone) non solo non si ottennero per iniziativa comunista, ma anzi quel partito assai malvolentieri, e non per convinzione, si risolse infine a non avversare quelle due riforme. La riforma sanitaria, appunto una delle cose pessime cui il Pci contribuì, ha devastato la pubblica economia e ha imposto un monopolio illiberale e anti-concorrenziale anche più ingiusto e inefficiente rispetto al pregresso sistema mutualistico, e in nome dell'universalismo ha prodotto l'intreccio di corruzione e malaffare di cui fanno le spese proprio i più bisognosi tra gli obbligati a sottoporvisi. 

La riforma psichiatrica sarebbe pietoso lasciarla da parte, una legge antireferendaria ripudiata dallo stesso (Basaglia) cui continua demagogicamente a essere riferita. Infine, le cosiddette «150 ore per il diritto allo studio», una specie di presidio di tipo cubano che non aveva nulla a che fare con ciò che si fa nelle democrazie decenti, cioè apprestare un sistema scolastico e dell'istruzione capace di tirar su la gente senza mezzi, ma era rivolto a riaffermare "il diritto operaio al sapere", ovviamente nel quadro della retorica operaista che ha garantito agli operai italiani i salari più bassi dell'Occidente avanzato. 

Non voglio dilungarmi, e ovviamente il discorso meriterebbe ben altro spazio di approfondimento. Ma sono parole contrarie ai fatti le cose buone apportate dai comunisti a questo Paese. E sono fatti contro le parole quelle invece cattive.

I fiumi di soldi dal Cremlino tollerati se vanno a sinistra. Paolo Guzzanti il 15 Settembre 2022 su Il Giornale.

Oggi i dem si indignano, ma fu il Pci a introdurre la corruzione della politica con i fondi illegali dell'Urss.  

Troppe cose non quadrano nella storia dei finanziamenti russi a partiti e politici accennata dal ministro della Difesa americano, poi rafforzata da indiscrezioni senza padre né madre. La storia, se non sono pronte altre scatole cinesi, sarebbe questa: il ministro americano Blinken davanti alle telecamere svela il contenuto di un rapporto dei servizi segreti americani secondo cui la Russia avrebbe speso centinaia di milioni per corrompere politici e partiti di paesi stranieri per favorire si suppone - la sua bellicosa politica estera. Poi un funzionario di rango minore afferma che fra questi Paesi c'è l'Italia e che i partiti beneficiati dai russi sarebbero quello della Meloni, di Salvini e il Movimento Cinque Stelle. Queste dichiarazioni provocano il prevedibile putiferio senza né capo, né coda perché manca sia la logica, il movente, che la fonte. È bizzarro, per non dire ridicolo, che i più indignati per questo fumosissimo scandalo, siano proprio gli uomini del Pd a partire dall'intrepido suo segretario. Enrico Letta è al timone di un partito fatto per metà dal vecchio Pci e per metà dalla vecchia Dc. E anche se lui non proviene dalla metà comunista, non può far finta di non conoscere il codice genetico del partito, quello comunista, che ha introdotto la corruzione della politica attraverso gli illegali e sontuosi finanziamenti russi, costringendo i partiti democratici ad approvvigionarsi in maniera altrettanto illegale. Ogni anno un funzionario del Pci andava a Mosca con una valigetta vuota e la riportava piena di milioni di dollari che venivano controllati al ritorno da due agenti del Tesoro americano che volevano controllare che le banconote non fossero false. Poi la banca vaticana dello Ior cambiava i dollari in lire. Alla fine, tutti i partiti democratici che avevano praticato il finanziamento illegale furono condannati a morte e sono scomparsi, mentre soltanto Il PCI si è salvato per il rotto della perché nel 1989 una provvidenziale amnistia cancellava tutti i gravissimi peccati di corruzione del sistema democratico commessi con sfacciato candore dal PCI. Oggi si alza un gran polverone su un possibile finanziamento russo a partiti e politici. Se fosse vero sarebbe gravissimo, ma con poco senso. Che gli americani vogliano danneggiare Giorgia Meloni è in aperta contraddizione con lo stile e la diligenza con cui il Dipartimento di Stato ha cercato di capire la figura e il progetto politico della Meloni. Lo hanno fatto non solo con lei ma probabilmente ha giocato a suo favore il fatto di essere una possibile candidata alla guida del governo italiano con una posizione nettamente filoatlantica, anche se sostenendo che l'Italia deve essere risarcita dai costi derivati da una scelta netta senza se e senza ma.

Quanto alla Lega, le note e passate simpatie di Matteo Salvini per Vladimir Putin non spiegherebbero il movente perché è universalmente nota l'alleanza politica fra la Lega, il partito di Putin, quello della Le Pen e dell'ungherese Orban in un contesto che non è più da tempo quello attuale dal momento che oggi Salvini si è riposizionato a causa dall'aggressione all'Ucraina. Perché, dunque, come e quando il Cremlino avrebbe speso una somma di denaro per investirlo in una incomprensibile «operazione simpatia»? Non solo mancano le prove, ma manca il senso. Ma, ammesso e non concesso, perché? Per creare una superflua turbolenza che non raggiungerebbe mai le proporzioni dello scandalo, in mancanza assoluta di prove e logica. Per quanto riguarda i Cinque Stelle si potrebbe capire il senso, ma non l'attualità. È un dato di fatto che Conte abbia ordito l'abbattimento del governo Draghi per incassare i voti dell'elettorato contrario all'invio di armi agli ucraini con una giravolta sull'invio delle armi a chi sta resistendo. Nel suo caso la logica ci sarebbe ma manca comunque qualsiasi prova.

Francesco Storace: tutti gli affari della sinistra con Cina e Putin. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 16 settembre 2022.

Ma quanto sono ipocriti a sinistra. Si riparano dai venti fragorosi sui finanziamenti russi al Pci con l'alibi del tempo trascorso («Siamo un'altra cosa»), dicono adesso. Come se sull'ambiguità delle relazioni internazionali dei figliocci di quel partito si debba solo risalire al tempo del Togliattismo. No, anche gli idoli di adesso hanno peccati da farsi perdonare e persino i loro cuginetti a Cinque stelle. Nel gioco delle relazioni pericolose spiccano tutti, a sinistra, e suscita davvero indignazione il loro accanimento su colpe inesistenti a destra. Spesso si sono fatti fare anche fessi da Mosca. Accadde a Romano Prodi e Massimo D'Alema, per la crisi energetica del 2007. All'epoca fu siglata un'intesa Eni-Enel con Gazprom, che in realtà ci mise in condizioni di sudditanza verso Mosca. E la partita la condusse con mano di spregiudicato mazziere l'ex cancelliere tedesco Schroeder. Sai che gliene fregava della fratellanza progressista...Venne poi il tempo di Enrico Letta.

Era il 2013 e nel giro di una giornata, nel freddo polare di Trieste, l'allora premier siglò con Vladimir Putin una serie di accordi a raffica sicurezza compresa dai quali non si evinceva un giudizio così definitivamente negativo sull'uomo di Mosca. Anzi, Letta uscì da quella radiosa giornata davvero tanto contento. Ma gli autogol della sinistra italiana non hanno riguardato solo la Russia, dopo la grande stagione dell'Urss in cui i comunisti di allora almeno ammettevano i legami con i fratelli del Pcus. Anche la Cina è tutt' ora protagonista di dubbie relazioni. Nei giorni scorsi, per merito de Il Giornale, è emersa la fitta collaborazione di sodali di Enrico Letta con paradisi fiscali nei quali occultare denaro evidentemente accumulato in maniera illecita. Al segretario del Pd è stata sollecitata chiarezza, senza accusarlo di fatti specifici. Ma dalla sua bocca non è uscita una parola. E la grande stampa gli ha riservato il trattamento di riguarda che di solito è omesso quando si tratta della Meloni, di Salvini o di Silvio Berlusconi.

SOSPETTI

Per non parlare poi dei compari di merenda pentastellati. Ancora è fresco nella memoria di molti il caso di Vito Petrocelli, ex presidente della commissione esteri del Senato. Da quella postazione è stato cacciato a furor di popolo per il suo esplicito sostegno all'invasione russa in Ucraina, arrivando anche a votare "no" alla risoluzione del governo Draghi sulla guerra in Ucraina, in difformità rispetto alla indicazioni del partito (dove pure fiorivano altri sotterranei distinguo). In quel caso, le polemiche furono davvero feroci, con l'imbarazzo di un Movimento politico in cui i filoPetrocelli stavano acquattati pur condividendone le posizioni a sostegno di Mosca. Ma altrettanto clamore hanno suscitato nel tempo i sospetti rapporti del M5s con il Venezuela. Tra Chavez e Maduro c'è stata una fitta rete di relazioni che sono arrivate a far partire un'indagine giudiziaria su un presunto versamento di discrete quantità di quattrini che sarebbero addirittura arrivate in valigetta a Gianroberto Casaleggio. 

Una questione ancora non chiara. Ma che aldilà del presunto maneggio di denaro si parlò di ben 3,5 milioni di dollari campeggia sulla politica internazionale dell'Italia proprio perché i pentastellati non hanno mai voluto assumere posizioni di netta condanna del regime rosso di Caracas. Va detto anche che il figlio di Casaleggio, Davide, non ha esitato a denunciare il giornalista spagnolo che aveva realizzato lo scoop. Il che, se vale per tutelare l'onorabilità e la memoria del padre, nulla sposta rispetto alla linea filovenezuelana del Movimento cinque stelle. In Italia c'è comunque un'inchiesta della Procura di Milano. Il paradosso, per un Movimento come quello di Beppe Grillo, è che tutto possa finire in prescrizione. Salvando quelli che non la volevano per i processi. Sono quelli che strillano contro la destra per non far parlare dei peccatucci di casa loro. 

Fondi russi, il foglio che incastra la sinistra: ferie pagate, cosa state vedendo. Libero Quotidiano il 16 settembre 2022

C'è stato un tempo in cui l'Urss non si limitava a finanziare il Pci con operazioni politiche. Ma agiva come la più grande agenzia di viaggio nazionale per i compagni italiani che si guadagnavano gite premio in aereo a Mosca o crociere sul Mar Nero, per veder realizzate le promesse del sol dell'avvenire e consolidarsi nella propria fede filo-sovietica, magari con relativa delusione al ritorno.

A occuparsi di questi tour con l'avallo del Pci e del Pcus era l'Italturist, un'agenzia di viaggio operativa per circa un trentennio, dall'inizio degli anni '60 fino alla fine degli anni '80, e presieduta all'inizio da Armando Cossutta, che raccontava quell'esperienza con entusiasmo e la presentava come strumento di servizio al popolo, a cui consentiva di visitare «Paesi proibiti»: l'Urss, ma anche la Cina e Cuba, tutti rigorosamente comunisti. 

Una prima svolta ci fu all'inizio degli anni '70 allorché l'Italturist, fino ad allora di proprietà del Pci, fu ceduta alla Lega delle cooperative immobiliari, partecipata anche dal Psi, della cui sezione milanese era stato presidente Francesco Siclari. Lo stesso Siclari fu "promosso" a presidente dell'Italturist, che di fatto continuava ad agire nell'orbita del Pci: sotto la sua gestione, come ci dicono le nostre fonti, professionisti che lavoravano per Italturist in vari settori, «si consolidò quel criterio "meritocratico" che permetteva a tre categorie, sindacalisti e militanti del partito, dirigenti del Pci, e villeggianti generici provenienti dalla classe operaia, di prendere il volo in direzione Mosca o Leningrado per una vacanza su mezzi sì scassati ma a prezzi ridottissimi. Talmente bassi, se non nulli, che l’agenzia turistica non riusciva a coprire le spese ed era cronicamente in perdita. I debiti venivano poi gentilmente ripianati non solo da Italturist e dagli organismi collegati, ma anche dal fornitore, cioè l’Urss».

Se consideriamo che la Italturist organizzava un volo a settimana verso la Russia, che su ogni volo c’erano un centinaio di passeggeri e che solo il volo costava circa 100mila lire (non pagate dai passeggeri), «possiamo affermare», continuano le fonti, «che tra anni ’60 e ’70 l’Urss abbia tappato le falle di Italturist, versando qualche miliardo di lire». Vacanze a carico del Cremlino che offriva lo svago al proletariato italico, all’insegna di Falce e Martello... All’inizio degli anni ’80 Italturist iniziò a contemplare, tra le sue mete, anche posti turistici come Santo Domingo. Solo che a metà del decennio un Jumbo della compagnia restò piantato a terra nell’aeroporto di New York, tra le proteste dei viaggiatori che avrebbero dovuto raggiungere Santo Domingo e quelli che avrebbero dovuto tornare in Italia. Fu il punto di non ritorno: l’Italturist passò sotto il controllo dell’Unipol, trasformandosi in un’azienda di mercato. Da allora forse gli aerei cominciarono ad arrivare in orario, non come quando c’era Breznev...

L'illusione della "glasnost". Il comunismo? Non è morto. Pier Luigi del Viscovo su Il Giornale l'1 settembre 2022.

La glasnost, operazione trasparenza, fu talmente veloce da non far vedere le ragioni della fine del comunismo, e infatti ce lo ritroviamo ancora tra i piedi. 

Il comunismo contiene molti e forti punti di contatto con le dottrine religiose che vogliono gli uomini tutti uguali e che insistono sulla distribuzione dei beni e sulla generosità verso gli altri. Tuttavia, non è una fede ma una teoria economica che, mettendo insieme fattori sociali ed economici, costruisce un modello per l'equa distribuzione della ricchezza, che era il tema centrale dell'economia nel primo secolo della rivoluzione industriale, quando la creazione di ricchezza non pareva così in discussione.

A differenza della fede, ha il grande vantaggio di poterlo sottoporre alla prova dei fatti. Così, più Paesi nel corso del Novecento l'hanno adottato e tra questi il più importante è stato l'Unione Sovietica, retta per 70 anni da un regime comunista. Sì perché fu subito chiaro che il modello avesse bisogno di un regime, poiché pare che i cittadini non si trovassero poi tanto bene. In effetti, pure chi non abbia grandi conoscenze di economia può giudicare quanto i russi o i tedeschi dell'Est fossero contenti del modello comunista. Comunque, la bocciatura della storia è in economia: assolutamente incapace di produrre ricchezza, ha mostrato molte debolezze anche sulla distribuzione, la sua ragion d'essere. Infatti, è imploso su se stesso, dopo esser durato 70 anni, non poco. Di tutto l'esperimento l'aspetto forse più sorprendente è la quasi totale mancanza di analisi del risultato.

In pochi anni, a me gli occhi, carta vince e carta perde, et voilà: giù il muro, glasnost, perestroika e scioglimento dell'URSS, quasi si trattasse dell'ultimo e più marginale staterello sullo scenario geopolitico. Tanto per dire, il fascismo, considerato volgarmente l'antagonista del comunismo, ha governato per 20 anni ma è stato archiviato con un processo storico molto lungo e puntellato di occasioni di ricordo. Al punto che oggi è facile etichettare un movimento o un esponente politico come fascista per bollarlo negativamente. Certo, è un paragone insostenibile nel contenuto ma è giusto per cogliere il senso, anzi l'assenza, dell'elaborazione storica del comunismo sovietico, i cui principi e valori sono vivi e vegeti nella nostra società. Non per un caso ma per un vero capolavoro.

I figli del PCI hanno subito condannato il comunismo, alcuni addirittura sostenendo di non esserlo mai stati e di non aver mai approfondito il significato di quella C nel simbolo. L'abilità è stata puntare il dito sulla dittatura e sulla mancanza di libertà, sorvolando leggiadri sull'incapacità del sistema di produrre la ricchezza che ambiva a distribuire. Così da sdoganare un'idea semplice: purché in democrazia e libertà, quei principi possono funzionare e sono auspicabili. Anche la contro-narrazione di fine secolo concentrò le sue bordate sulla libertà anziché insistere sul valore della competizione e dello spirito di impresa. Probabilmente valutando che sul piano dell'economia non sarebbe stato facile contrastare quel proselitismo, arrivato negli anni '70 a un terzo dei cittadini e tra i giovani di allora, oggi adulti, anche di più. Fatto sta che è tuttora molto forte, specie nella parte della società non esposta alle leggi del mercato e dell'iniziativa personale, con il sindacato in funzione di vestale ad alimentare la fiammella. Però il comunismo non è un regime politico ma una teoria economica e come tale nella pratica ha fallito. La glasnost su questo è stata una finestra aperta e richiusa troppo in fretta. 

 Paragona Stalin a Hilter: finisce in carcere a 72 anni. Il politico russo è stato condannato a 15 giorni di reclusione per un post su Facebook in cui prendeva in giro la legislazione russa che vietava il parallelo. Il Dubbio il 31 agosto 2022.

Un tribunale di Mosca ha condannato a 15 giorni di carcere un politico liberale che ha fatto un parallelo tra il regime di Stalin e la Germania nazista. Leonid Gozman, 72 anni, è stato condannato per un post su Facebook del 2020, in cui prendeva in giro la legislazione russa che vietava di paragonare l’Unione Sovietica alla Germania nazista, dicendo che «è sbagliato mettere un segno di uguaglianza tra loro, Hitler era un male assoluto e Stalin ancora peggio». Il tribunale distrettuale di Tverskoy ha stabilito che l’osservazione di Gozman ha violato la legge.

Gozman, critico della campagna del Cremlino in Ucraina, ha lasciato la Russia quando è iniziato l’attacco su larga scala, ma è tornato a giugno per quella che ha descritto come una scelta «morale». Il ministero della Giustizia russo lo ha classificato come «agente straniero», una definizione che implica un ulteriore controllo da parte del governo. A luglio è stato brevemente trattenuto dalla polizia dopo che il ministero dell’Interno russo aveva emesso un mandato di arresto per indagare su un caso penale a suo carico. Gozman è stato accusato di aver violato la legge che impone ai cittadini russi di notificare alle autorità la cittadinanza straniera o il permesso di soggiorno. L’uomo ha detto di aver notificato alle autorità la sua cittadinanza israeliana, ma queste hanno sostenuto che non l’ha fatto entro i termini previsti. L’indagine su questo caso è ancora in corso e Gozman potrebbe essere condannato a una multa o a lavori socialmente utili se riconosciuto colpevole.

"Io, militante dem, minacciata per aver protestato contro il Pd". Dopo la rivolta dei Giovani democratici trentini, che non si sentono rappresentati nelle liste elettorali per le prossime Elezioni Politiche, arrivano le intimidazioni per la portavoce della protesta Vittoria De Felice. Quello che è successo dalla sua parole. Roberta Damiata l'1 Settembre 2022 su Il Giornale.

Cosa sta succedendo nel Pd in Trentino? Da tempo aleggia una certa irritazione da parte dei Giovani democratici che non hanno gradito il metodo adottato dai vertici del partito per la composizione delle liste elettorali per le prossime Elezioni Politiche. A farsi portavoce di questo profondo malessere , la giovane attivista molto nota in Trentino e in Campania, Vittoria De Felice, militante nei dem trentini dal 2018. Ma proprio da quel momento, quello della “denuncia pubblica” - riportata non soltanto dal nostro, ma da molti altri quotidiani sia nazionali che locali, la vita dell’attivista dem -, ha preso un corso molto complicato. Prima le intimidazioni, poi l’attacco tramite social, come racconta lei stessa a “La voce del Trentino”. Messaggi intimidatori da parte di una persona che diceva di essere parte del Partito democratico e che ha detto esplicitamente che “si prenderanno dei provvedimenti nei suoi confronti”. A queste parole aveva risposto: "Devo forse preoccuparmi di ricevere qualche gesto estremo solo perché sto esprimendo un malessere?”. L’abbiamo incontrata per capire come stanno ora le cose.

L’avevamo lasciata con una lettera firmata dai giovai del Pd trentino, una richiesta d'aiuto al vertice del partito. Poi invece sono arrivate le intimidazioni cosa è successo?

“Ho scritto una lettera aperta al Partito Democratico per cercare soluzioni e soprattutto chiedere come mai sto vivendo questa situazione, che é davvero strana e particolare da raccontare. Purtroppo ad oggi continuo a subire intimidazioni, il perché non l'ho compreso. Da sempre sono una ragazza propositiva ed attiva riguardo le attività del partito. Sono meravigliata da questo atteggiamento di chiusura, nonostante la mia volontà di cercare dialogo e capire quale sia il problema. Credo che questo riguardi la tematica giovanile. Da sempre noi giovani abbiamo bisogno di apprendere, soprattutto nelle sezioni di partito, e sono molto contenta di farlo, ma purtroppo anche questo mio desiderio non é visto di buon occhio”

Nella sua lunga militanza nel PD non è la prima volta che lei si trova davanti ad alcuni ostacoli, si è chiesta perché

“È sempre il discorso della poltrona, che riguarda il livello nazionale. Si ha paura che la nuova arrivata possa soffiare la poltrona a qualcuno, invece di capire che i giovani militanti sono risorse e vorrebbero spendersi per il proprio territorio portando idee innovative su cui lavora insieme”.

Ha provato a far ascoltare la sua voce, magari con i suoi diretti responsabili di partito?

“Ho provato ed ho chiesto più volte quale fosse il problema, ma se la risposta é il silenzio, comprendo che forse non c’è volontà o forse é più comodo non affrontare i problemi. Io non sono così, amo la chiarezza e vorrei capire quale fastidio una giovane laureata con idee e tanta voglia di fare può arrecare ad un partito”.

Questa è ovviamente la sua parola, perché dall’altra parte non c’è stato nessun tipo di risposta alla sua richiesta.

“Esatto. Al momento nessuno in Trentino é aperto al dialogo, credo che se ci fosse una reale intenzione di avere dei giovani nel partito e di concedergli spazio, non ci sarebbero problemi. Invece non c'è un minimo confronto, ma questo non mi impedirà di continuare a chiedere il perché, e a capire che motivazioni ci sono dietro questo atteggiamento”.

In un articolo de “La voce del Trentino” si legge che le intimidazioni sono arrivate proprio da un qualcuno che diceva di essere membro del suo partito, e che sostanzialmente le ha chiesto di "rimanere buona”. Pensa di aver sbagliato qualcosa per provocare una simile reazione?

“Quando si vivono delle ingiustizie e si chiedono delle spiegazioni al Segretario del Partito non si sbaglia mai. Anzi perché subire degli atteggiamenti ingiusti e restare in silenzio? Bisogna chiedere le motivazioni sul perché si arriva a questo. Ho la tessera da tanti anni e mi meraviglio di questo atteggiamento. Mi hanno lanciato delle intimidazioni, in cui dicevano che prenderanno dei provvedimenti nei miei confronti. Devo preoccuparmi di qualche gesto estremo perché dico la verità? La risposta è no!”.

Secondo lei quali errori, anche in virtù delle prossime elezioni, stanno commettendo nel PD?

“Assolutamente la gestione e la salvaguardia dei militanti nei territori. É gravissimo lasciare i giovani iscritti al partito che militano da soli, o non intervenire in caso di problemi. Non permetterò assolutamente questo, anzi spero di poter aiutare altri giovani che si sentono abbandonati dal partito. É importante esserci nei momenti difficili, come in questo momento che sto attraversando, che non é semplice”.

In passato alcuni giornali hanno parlato anche del suo aspetto fisico, cosa che c’entra poco con la politica, sottolineando il fatto che il suo sia solo un desiderio di voler apparire?

“Che sia un uomo o una donna credo sia ingiusto attribuirgli un valore solo per un mero fattore estetico. Oggi abbiamo bisogno di esempi, io voglio donare il mio cervello al servizio dei cittadini. Ho studiato e continuerò a studiare per cercare di trovare soluzioni sostenibili per il nostro Paese e credo che dobbiamo guardare ad altre qualità invece che di concentrarci ad attaccare una persona solo per l'aspetto estetico. Dobbiamo proteggere i giovani da questa mentalità superficiale e di facciata che non fa bene a nessuno. Proprio riguardo il mio aspetto, ho attraversato un periodo molto pesante, poiché nella scorsa campagna elettorale comunale, tanti giornali hanno parlato in maniera negativa del mio aspetto, e non tollero questo tipo di commenti, né di pregiudizi. Sono una donna e posso essere di aspetto gradevole o no, ma dobbiamo essere tutte giudicate solo per il valore che possiamo apportare alla nostra società, ognuna con la propria passione e con i propri sacrifici”.

Parlando in concreto, quali sono le sue idee o le proposte che vorrebbe fare?

“La nostra generazione affronta tante difficoltà e non é semplice in generale. La fuga dal nostro Paese sembra essere sempre una soluzione, perché non ci sono opportunità. Questo meccanismo è pericoloso, perché non permettiamo ai giovani di potersi inserire nel proprio territorio. Le dirò proprio riguardo a queste tematiche avevo pensato ad alcune idee, perché aldilà dei programmi politici, c'è la necessità di garantire la dignità alle persone. Questo é possibile grazie allo sviluppo sostenibile che é la chiave che permetterà di poter cambiare la situazione attuale, perché non ha grandi costi e soprattutto è realizzabile in poco tempo. Grazie al sistema dell'economia circolare possiamo usare qualsiasi tipo di elemento e poterlo riutilizzare, così da favorire lo sviluppo economico riciclando quello che consumiamo. Lo sviluppo sostenibile é anche sviluppo sociale e lotta alla povertà che promuove un capitalismo etico che tende a promuovere dei valori nei processi economici, invece di favorire un capitalismo consumistico e cannibale. Le proposte sono tante, anche grazie all'evoluzione dello sviluppo sostenibile c'è la possibilità di creare tante nuove professioni che possono garantire lo sviluppo del nostro Paese e soprattutto possiamo permettere ai giovani di restare nel proprio territorio senza dover lasciare i loro affetti perché non ci sono possibilità”.

Dopo quello che sta raccontando, ha pensato di lasciare il PD?

“Non vorrei mai uscire dal partito democratico, ma tanti giovani come me, si sentono tagliati fuori, forse perché portatori di innovazione e perché lottano per un'Italia diversa che realmente può garantire un futuro ai ragazzi ed anche un ritorno ai valori. La nostra generazione é sempre più sola e poco considerata . Paghiamo anche il prezzo della pandemia, che ha cambiato le nostre vite e proprio per questo abbiamo bisogno di nuovi esempi per capire che possiamo farcela. Chiedo al partito di ascoltare me ed anche tanti ragazzi e ragazze che come me, hanno la passione per la politica e vogliamo assolutamente portare una boccata di innovazione. Siamo stanchi di vedere sempre le stesse persone e soprattutto notare che le cose non cambiano e viviamo sempre peggio. Vogliamo dignità e combattere tutti i giorni per tutelare la gente dalla povertà e garantire che un posto in Italia per i giovani c'è. Il nostro Paese non può essere solo questo, anzi dobbiamo trattenere tutti i giovani talenti per ritornare a vedere l'Italia che splende”.

Ha chiesto aiuto alla base del partito a Roma?

“Ho parlato e chiesto aiuto alla Segreteria del Segretario Enrico Letta con cui ho avuto una interlocuzione ieri. Hanno ascoltato i miei problemi ed ho dato loro tutte le informazioni necessarie, su quanto mi é successo sul territorio. Hanno dimostrato apertura ed ascolto e sono in attesa dei provvedimenti che prenderanno. É stato bello poter essere ascoltati, e spero che questa situazione venga presa sul serio, ma anche per i tanti militanti che sono divisi in tutta Italia e che hanno bisogno di tutela da parte del Partito. Spero nel cambiamento e che la comunità del Partito democratico sia piena di persone che sono aperte al dialogo e che non creano muri".

Se si trovasse davanti al segretario Letta cosa le direbbe?

“Prima di tutto perché ho dovuto subire tutto questo? Le sembra giusto? Io gratuitamente come tutti gli altri giovani, sono in un partito dove pago la tessera e sono felice di farlo ma solo se la mia passione non viene affogata da persone che non devono aver paura del confronto. La comunicazione é sinonimo di intelligenza, e mi dispiace se qualcuno si é sentito minacciato dalla mia presenza perché troppo comunicativa o solare e quindi da eliminare perché forse visibile. Non sono discorsi intelligenti per me, perché premierei ragazzi che hanno tanta voglia di fare e che sono sempre attivi”.

La questione morale. Sono passati poco più di quaranta anni da quando Enrico Berlinguer pose la cosiddetta "questione morale". Augusto Minzolini il 21 Agosto 2022 su Il Giornale.

Sono passati poco più di quaranta anni da quando Enrico Berlinguer pose la cosiddetta «questione morale» che cambiò il carattere identitario del Pci inserendo nel Dna di quel partito e in tutte le sue trasformazioni successive un senso di superiorità verso gli altri di cui ancora oggi trasuda il Pd.

Disse all'epoca Berlinguer: «I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela». Ora, Enrico Letta non me ne voglia, ma se c'è un partito che corrisponde più di altri a quella fotografia negativa oggi è il suo. Anche negli altri non mancano i mascalzoni certo, ma nel Pd ormai c'è un sistema che lega politica-potere-affari. La conversazione violenta tra il capo di gabinetto del sindaco di Roma Gualtieri, Albino Ruberti, con il fratello dell'eurodeputato Francesco De Angelis, Vladimiro, in un lessico che ricorda da vicino quello che usciva dalla bocca di Buzzi e Carminati, non racconta un episodio, ma è l'immagine di un costume. E sia pure in un linguaggio meno aulico, rammenta i discorsi che Massimo D'Alema faceva ad un novizio inesperto di questo tipo di politica nella vicenda delle corvette e dei sommergibili che dovevano essere venduti alla Colombia. Le tre parole politica, potere, affari ormai da quelle parti vanno a braccetto: Francesco De Angelis, fratello di Vladimiro, uno dei protagonisti della discussione animata all'insegna del galateo criminale, non è solo un eurodeputato, ma anche il presidente del consorzio Industriale Lazio, l'organismo che dovrà gestire diversi fondi del Pnrr. Quando si parla di commistione di ruoli. È naturale quindi che se si passa dalle idee a parlare di ben altro lo scontro non risparmi nessuno, che alla fine l'epilogo non preveda superstiti.

Ora, nessuno vuol fare il moralista, per primo il sottoscritto: ognuno ha la sua etica e spesso il moralismo di facciata è parente prossimo del giustizialismo. Come diceva Pietro Nenni: «A fare a gara a fare i puri, troverai sempre uno più puro che ti epura». Solo che il moralismo, o meglio la visione manichea della politica sul piano dell'etica (noi siamo gli onesti, gli altri sono i banditi) ha animato la sinistra per molto tempo e sotto sotto ne è il collante anche ora. Anzi questa filosofia è stato lo strumento usato per decenni per far fuori intere classi dirigenti (basta pensare a Tangentopoli), avversari politici (da Berlusconi in giù) ed eretici (Renzi e altri). Una filosofia ovviamente ammantata dall'ipocrisia perché valeva solo per gli altri. Solo che il predicare bene e il razzolare male nel tempo ha finito per condizionare molto i comportamenti del Pd. Se vuoi crocifiggere gli altri e apparire come un asceta a parità di peccati, devi aver un santo in Paradiso, cioè la magistratura: ed è il motivo per cui il Pd continua a garantirla in tutti i modi, a salvaguardare un sistema giudiziario che fa acqua da tutte le parti e, nel contempo, ad esserne garantito (nessuna sorpresa se presto ci sarà uno scandalo contro il centrodestra: è tradizione).

Contemporaneamente, se scambi la politica per il Potere è ovvio che non ti rassegni a perderlo. Per impedirlo criminalizzi l'avversario, tenti di delegittimarlo, come in queste settimane lo consideri mezzo fascista o amico di Putin. Pensi cioè di avere la ragione morale per mettere in campo gli strumenti che hanno permesso al Pd negli ultimi dieci anni di stare al governo senza aver vinto un'elezione. Solo che dal 2011 tanta acqua è passata sotto i ponti e molti si sono accorti che se c'è una questione morale quella investe il Pd. Per cui gli struzzi che vogliono ancora tenere la testa sotto la sabbia, abbiano almeno il pudore d'ora in avanti di non agitarla contro gli altri.

Pd, Pietro Senaldi: "Il partito è zozzo ma non si ripulisce". Pietro Senaldi su Libero Quotidiano il 21 agosto 2022.

Il Pd è diventato un partito zozzo. Si potrebbe dire che, a furia di fare l'esame del sangue agli altri e pretendere dai rivali certificati di democraticità e adeguatezza etica e morale, ha smarrito la coscienza di se stesso, ma sarebbe fargli uno sconto. La realtà è che il Pd, un po' come Dorian Gray, sa di essere marcio dentro e si preoccupa solo di imbellettarsi, incipriarsi direbbe il femminista Letta, per far colpo sugli elettori grazie al trucco.

Non credo che il segretario sia compromesso con gli scandali che hanno travolto il suo partito in questi giorni e hanno reso manifesto al Paese due fatti gravi. Il primo è che i dem stanno allevando giovani generazioni di dirigenti che, a furia di dar la caccia all'antifascista, sono diventati antisemiti. Il secondo è che il partito ha affidato la città di Roma a uno che, quando parla con i compagni di bottega, usa un linguaggio da malavitoso e urla come un maiale allo scanno. L'incarico di capo di gabinetto del sindaco Gualtieri è arrivato dopo vent' anni nei quali Albino Ruberti, figlio di un ex ministro dell'Università, ha guidato società a intero capitale pubblico, le cui nomine dirigenziali, va da sé, sono tutte politiche. Letta non c'entrerà, però sette anni in Francia non sono una scusa per non sapere, ma una lacuna che un capo ha il dovere di colmare.

LA FISSA DEI GIOVANI - Da sempre Enrico ha la fissa dei giovani. Li voleva far votare a sedici anni e ora progetta di regalargli diecimila euro al diciottesimo compleanno, una mancia pre-elettorale così, per mostrare attenzione. Li usa come spot, un po' come Renzi utilizzava le candidature femminili - da Mogherini a Mosca, da Picierno a Chinnici (dove sono finite costoro?) - e con questo criterio solo pochi giorni fa ha esibito davanti ai riflettori cinque trentenni esordienti come capilista. Di questi, tre hanno già tradito sentimenti anti-semiti. Nel frattempo l'ebreo Emanuele Fiano, figlio del deportato ad Auschwitz Nedo, è stato sbattuto a guadagnarsi il seggio in un collegio difficile per la sinistra perché ha già fatto troppe legislature.

Perfino l'Olocausto in casa dem ha un limite temporale di risarcimento. Il Pd arriverà il 25 settembre con 120-130 eletti. Letta ne conosce come le sue tasche almeno l'80%, gli altri poteva farseli spiegare meglio.

Il segretario è di una leggerezza sconvolgente, vorrebbe scivolare sulle cacche che pesta tutti i giorni come un toboga sull'acqua, ma esse sono troppo grandi per non inzaccherarlo e affondarlo. Ma il tentativo di far passare come un incidente locale il video che ha portato all'apertura di un'inchiesta e alle dimissioni del braccio destro del sindaco di Roma è destinato al fallimento.

Dare di matto in strada, gridare «se non ti inginocchi ti sparo e racconto a tutti quello che mi hai chiesto» a chi ti ha appena detto «me te compro» non è un'ordinaria lite sul calcio, come l'interessato ancora sostiene. E se lo fosse, sarebbe perfino più grave, per la sproporzione tra argomento e toni, che se non si trattasse invece di una questione di soldi e polizze assicurative da far sottoscrivere al Campidoglio, come molti sospettano. Ruberti è bravo ma fumantino, è cosa nota. Questa è la giustificazione del partito locale. Però i fumantini che si ispirano anche solo nei modi a Tony Montana, il criminale interpretato da Al Pacino in Scarface, andrebbero allontanati a prescindere da un'organizzazione che ha l'ambizione di guidare un Paese, non ricoperti di responsabilità e incarichi.

NON SALVATE IL SINDACO - Siamo a Roma, la città dove è nata la regola che la moglie di Cesare deve essere al di sopra di ogni sospetto. Ruberti è la moglie, il sindaco Gualtieri è Cesare. Non bastano le dimissioni della consorte per chiudere la vicenda. Un energumeno simile non può essere messo in tasca e poi far finta di niente, parafrasando un'infelice battuta di D'Alema su Brunetta. Se non ti inginocchi racconto tutto, minacciava l'orco, rivolto a un candidato dem al parlamento e a una consigliera comunale. Ci inginocchiamo noi, se è questo il problema, ma ora l'ex capo di gabinetto vuoti il sacco. Davanti a tutti e subito, non solo quando le elezioni saranno passate e lui sarà costretto davanti ai pm. La colpa di Letta, nella questione, è aver lasciato che il Pd romano rimanesse un organo autonomo dentro il corpaccione dem, con proprie regole, pratiche lottizzatorie e potentati. L'organo ora è divorato dal cancro dell'avidità, dell'arroganza e dell'impunità e le sue metastasi già si vedono nell'intero partito.

Una sfiga tira l'altra, non c'è altra spiegazione. Letta ha sbagliato tutto fin dall'inizio in questa campagna elettorale e qualcuno, probabile che sia un nemico interno, ha avuto la pazienza di conservare il video incriminato per due mesi, per tirarlo fuori quando faceva più male. Il segretario ha impostato la campagna elettorale su difesa dell'Agenda Draghi e levata di scudi generale contro il pericolo centrodestra e ha tagliato i ponti con i grillini, colpevoli di aver fatto cadere il governo, per stringere un'alleanza con Calenda.

ARGOMENTI DEBOLI - Poi però si è accorto che gli argomenti erano deboli: Draghi ha fatto sapere di non aver nessuna agenda, dell'uomo nero nel nostro Paese nessuno ha più paura, la guerra sta sulle scatole agli elettori più della Russia e il binomio caro bollette e inflazione non rende percepibili all'italiano medio i miracoli dell'ex premier. C'è voluto poco anche per Letta a quel punto per capire che la battaglia per battere il centrodestra era persa in partenza. L'ex premier ha quindi puntato sul richiamo della foresta, barra tutta a sinistra, per diventare il primo partito in Italia, in modo da non farsi cacciare almeno per un po' anche in caso di sconfitta elettorale. Largo a Fratoianni e Verdi, anche al prezzo di sacrificare alle loro truppe qualche seggio sicuro e qualche deputato dem di provata fede e lunga militanza. Ed è così che ha perso Calenda, che si è andato ad alleare con Renzi, lasciando il Pd solo con Di Maio e pochi altri sfigati. A quel punto, il capolavoro delle liste: retromarcia sui progressi progressisti del Pd renziano e spazio solo ad amici e nostalgici Ds, con l'innesto di qualche giovane che, se avesse fatto in tempo, si sarebbe iscritto al Pci, come fece l'attuale ministro del Lavoro e capobastone dem, Orlando, pochi mesi prima che il partito si sciogliesse. Fatali le conseguenze: ritrovarsi in lista piccoli antisemiti e qualche mela marcia del sistema capitolin-laziale democratico. In attesa che lo facciano il deputato mancato (perché costretto al ritiro dallo scandalo) Francesco De Angelis e il fratello Vladimiro, su vibrante invito del fumantino hooligan Ruperti, per ora in ginocchio c'è Letta. E dopo il 25 settembre la mannaia di qualche suo candidato gli mozzerà il capo.

Da repubblica.it il 19 luglio 2022.

Sprezzante col Pd (ma non è più una notizia da tempo), proiettato sulle prossime politiche. Per sé, per i suoi. «Voi qui siete tutti uomini e donne del partito: ma vi ricordate una proposta chiara e comprensibile che ha fatto il partito su Sud e Lavoro? Zero. Balbettano. Stanno a Roma tra carbonare e amatriciane». Ostinato sul terzo mandato: «Certo che ci penso. Mi attaccano solo sette livorosi. E se decido, devono andare a Pompei a piedi». Pessimista sull’assetto del Paese: «La situazione è nera».

Vincenzo De Luca alla festa del Pd a Napoli. Contro ministri e dirigenti Pd, a ribadire però il proprio ruolo come leader (o viceré) del Mezzogiorno. Intervistato da Luigi Vicinanza , l’ex direttore de l’Espresso - che dedica due pensieri, in incipit, sia alla prematura scomparsa della vicesindaca Mia Filippone, sia alla figura di un maestro come Eugenio Scalfari - il presidente della Campania provoca e analizza, s’infuria e deborda, a un certo punto grida contro il Pd giustizialista e contro i magistrati che «mettono in carcere gli innocenti e non rispondono».

Urla: «C’è un responsabile Giustizia che fa delle dichiarazioni idiote. Neanche l’abuso di ufficio siamo riusciti a cancellare. Come Pd siamo subalterni a ideologismi giustizialisti. Ma dove c... vivono questi che stanno a Roma?». Si “vendica” poi dopo due anni dello scontro che, pre-pandemia, mezzo partito tentò per preferirgli l’ex ministro 5S alla guida della Regione: «Mi volevano fottere per portare Sergio Costa in Campania. Figuriamoci. A loro mica interessa capire i territori. Perciò, il Pd a Roma non mi ama? Non me ne fotte niente».

Poi lancia un attacco frontale al meccanismo di selezione dei dirigenti: "Negli altri partiti - spiega De Luca - la selezione dei gruppi dirigenti è rigorosa: ti presenti, ti candidi, se vinci vinci, se perdi chi s'è visto s'è visto. Nel nostro Paese invece la selezione dei gruppi dirigenti avviene in negativo, più sei un pinguino, più perdi elezioni, più fai carriera. Questo è il dato del Pd. Questo meccanismo di selezione dei gruppi dirigenti  è quello che Gramsci definiva la storia del grande uomo e del cameriere: fare il vuoto intorno per emergere e distinguersi. La selezione dei gruppi dirigenti non avviene sulla base del radicamento che si ha nel territorio. Ci sono dirigenti che hanno perduto nei loro territori e fanno i dirigenti nazionali. E nessuno invece ricorda che io sono il dirigente del Pd più votato d'Italia alle ultime regionali".

Per De Luca la classe dirigente del Pd si divide in correnti, sottocorrenti e tribù. "E' il punto supremo di sviluppo del correntismo" osserva. E rincara la dose: "Il Pd ha assunto il peggio del Partito comunista e il peggio della Democrazia cristiana: il centralismo burocratico del Pci e il correntismo della Dc. Non ha assorbito le cose migliori, il senso dell'organizzazione e della militanza dei vecchi comunisti e la cultura della persona, e il personalismo del cattolicesimo democratico, per cui a volte ci presentiamo come una banda di sciamannati, e troppi dirigenti del partito impiegano il 99% del loro tempo non ad affrontare e risolvere i problemi, ma a costruire sistemi di relazioni. A me questa cosa fa schifo".

In piazza Municipio, con i 40 gradi, sono in 300 circa, compresa la pattuglia di “fedelissimi” salernitani che fa da claque, mentre gli altri non gradiscono, ovviamente. Specie quando il presidente della giunta regionale insiste e chiama in causa direttamente il segretario metropolitano. 

«Marco Sarracino - lo chiama - ma è tanto chiedere al Pd di Roma di fare una proposta su un Piano straordinario di assunzioni nella nostra pubblica amministrazione? È troppo chiedere che dicano una parola chiara su Lavoro e Sanità, visto che abbiamo un ministro della Salute inesistente in questo Paese? Lo sappiamo che le cose peggioreranno in Sanità, che non si prevedono assunzioni, che non ci sono più soldi?». Ma nel Paese o in Campania, chiede Vicinanza. «No, in Italia. Poi certo avremo problemi anche qui». Cittadini avvisati, è sempre colpa di Roma.

De Luca è in campo, chiaro. «Sono disponibile a dare una mano per la costruzione di una grande forza riformista che abbia dentro la sinistra storica, il cattolicesimo democratico, il mondo laico. Ma facciamo piazza pulita dei partitini inutili. E prepariamoci con le unghie e con i denti. Certo, col Pd, non equivochiamo. Faremo la solita battaglia dall’interno. Dobbiamo intestarci un Programma per 200mila posti di lavoro nella Pa».

Si parte dall’analisi del Paese sull’orlo delle elezioni anticipate. «È sconcertante quello che sta facendo Conte. Gli sento dire: i poveri , i salari, le fragilità. Sì, e allora? Qual è la soluzione? Ma tu vuoi fare il barricadero Di Battista, adesso? Ma, avrebbe detto Montanelli, questo non è cavallo per la tua coscia. Dovevamo piuttosto fare una operazione di verità, con lui, con gli errori dei Cinque Stelle. Invece: il campo largo si è già ristretto. 

La situazione del governo mi pare sempre più irrecuperabile e non oso immaginare a quale livello di rigonfiamento sia il fegato di Mario Draghi. E se ci saranno elezioni a breve, come credo, con un popolo che va politicamente solo per fiammate, con un Pd che da anni non si schioda dal 20 per cento, qui abbiamo il rischio di avere Meloni e Salvini a guidare il Paese. Sia chiaro: dureranno quattro mesi. Ma avremo il Paese al disastro. Mi spiace, ma non riesco a essere ottimista. Situazione allarmante». 

Nell’intervista ci sarebbe anche il momento dell’ autocritica: Vicinanza gli chiede del disastro Eav, del caos trasporti e del raggiungimento dei tetti di spesa in Sanità. De Luca accetta: «che i problemi non siano risolti è chiaro». Sulla Circum, rilancia la tesi del presidente Eav, Umberto De Gregorio in prima fila: «Ma se prima non avevano mai fatto gare per nuovi treni, se avevamo convogli vecchi di 50 anni, cosa ci si contesta?». 

Anche sulla Sanità, colpa di chi c’era decenni fa, anche se De Luca governa dal 2015: «Abbiamo ereditato disastri del passato, noi siamo quelli che sono venuti dopo il commissariamento della Sanità, e se sforiamo i tetti ci ri-commissariano. Ma dico ad alcuni malviventi dei laboratori d’analisi privati: non provate a ricattare la Regione, vengo con la Finanza» . 

L’ultimo passaggio che lo galvanizza è sul De Luca ter in Regione. In Veneto, Zaia è al terzo mandato e va bene a tutti, qui invece si protesta, osserva Vicinanza, «Ma è una battaglia pilotata da 6 o 7 ex comunisti, stanno avanti a me da 20 anni. Un grumo di rancorosità penose, fanno polemiche idiote.

E uno, solo di vitalizi, si mette in tasca netti fra 6 e 7mila euro al mese». Il riferimento è all’ex parlamentare, e storico dell’antimafia, Isaia Sales, peraltro - nella battaglia sul terzo mandato - in compagnia di autorevoli costituzionalisti, docenti, intellettuali ed economisti. Scenari che De Luca cancella con un ghigno teatrale dei suoi. L’ultimo viceré del Sud è in campo e lotta. «E dico al Pd, basta con correnti e sottocorrenti, tribù e sottotribù». Va da sé che non valga per la propria (territoriale e familiare). 

Massimo Colaiacomo per “la Repubblica - Edizione Roma” il 18 luglio 2022.

Come trasformare un museo da deposito, prezioso e importante quanto si vuole, di testimonianze e memorie artistiche in un luogo che parla al presente del visitatore e alza il velo sul futuro? Una domanda simile pareva improponibile a metà del Novecento e non poteva certo avere risposte ovvie e scontate. 

Palma Bucarelli, storica direttrice della Gnam (la Galleria nazionale di arte moderna di Roma ) dal 1942 al 1975, è stata in questo una pioniera, una visionaria che ha rivoluzionato per quel tempo la fruizione dell'arte. Grande apertura culturale e preparazione scientifica, indipendenza di giudizio, viaggiatrice infaticabile, protagonista della vita mondana e curiosa di ogni novità, erano qualità che in lei si esaltavano grazie anche a un carattere forte e asseverativo. 

Nata a Roma nel 1910, Palma si era laureata con Piero Toesca in storia dell'arte. Al corso di perfezionamento post- laurea conosce Giulio Carlo Argan, storico dell'arte e futuro sindaco di Roma, con il quale stabilisce un rapporto, personale e professionale durato l'intera vita.

Dopo aver vinto un concorso " per la carriera direttiva degli storici dell'arte", lavora per un periodo alla Galleria Borghese, prima di essere trasferita a Napoli dove rimane per un anno. Nel 1937 torna a Roma, ispettrice alla Sovrintendenza del Lazio. Su questa circostanza aleggiavano già all'epoca non poche voci: si disse che il suo rientro a Roma fosse stato favorito da Paolo Monelli, prestigioso giornalista, suo compagno e molto amico di Giuseppe Bottai, ministro della Cultura nel regime fascista.

Oppure da Argan, collaboratore, con Cesare Brandi, dello stesso ministro. Senza escludere che sia stato lo stesso Bottai, di sua iniziativa, invaghito della giovane Bucarelli, ad accogliere la richiesta di trasferimento. Perché Palma aveva bellezza e fascino, capace di sedurre chiunque. Il buon Monelli ne fu ammaliato, se è vero che dal loro primo incontro, nel 1936, aspettò 27 anni prima di sposarla, nel 1963. 

Sulla vita privata di Bucarelli, però, fa aggio il suo profilo di sovrintendente innovatrice se non proprio rivoluzionaria alla Galleria. 

Amante e mecenate della pittura astratta e informale, la sua apertura all'arte contemporanea, con la costruzione di percorsi didattici e cicli di conferenze per favorirne la comprensione a un più ampio pubblico incontrò non pochi ostacoli e resistenze, al punto che arrivarono interrogazioni parlamentari. 

Come quelle di Mario Alicata, geloso custode dell'ortodossia estetica marxista, nel 1951, mentore di quel "realismo socialista" lontano dai gusti della Bucarelli. E l'anno dopo, una nuova interrogazione per denunciare l'acquisto di opere di Klee, Ernst, Giacometti e Picasso. Fra gli italiani Morandi, Scipione, Savinio.

E ancora Perilli, Consagra, Dorazio, Turcato, Corpora, Scialoja, Capogrossi. 

A ogni acquisto e a ogni grande mostra ( Picasso, Scipione, Mondrian) si accompagnano polemiche infuocate da parte della politica. Solo negli anni Sessanta arrivano i primi importanti riconoscimenti. È il caso del ciclo di conferenze, nel 1961, negli Stati Uniti e la nomina, nel 1962, a commendatore della Repubblica da parte del presidente Antonio Segni.

L'ansia di promuovere quelle novità che incontrano il suo gusto non cessa con gli anni. Diventa anzi febbrile se è vero che Palma decide di imprimere un'inedita svolta all'attività della Galleria ospitando gli spettacoli di Tadeusz Cantor, i concerti di Nuova Consonanza, la mostra di Piero Manzoni ( 1971) con il controverso acquisto della " Merda d'artista", con ovvie e inevitabili nuove interrogazioni parlamentari. La sua vita pubblica si conferma un crocevia di polemiche feroci seguite automaticamente da altrettanti riconoscimenti. Così nel 1972 riceve la Légion d'Honneur e diviene Accademica di San Luca, per essere nominata, nel 1975, Grande ufficiale della Repubblica. Lasciata la Galleria per la pensione, prima di morire, nel 1998, dona una sessantina di opere d'arte a quella che era stata la sua casa e in cui effettivamente abitò, dal 1952, dopo averne ricavato un piccolo appartamento.

Gli antimoderni che dicono no a ogni novità. Vincenzo Trione su Il Corriere della Sera il 12 Luglio 2022.  

C’è un ampio gruppo di intellettuali di sinistra impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma e iniziativa che riguardi i beni culturali

Le concessioni dei siti archeologici per i concerti (Circo Massimo per i Måneskin e Caracalla per l’opera lirica)? Il trasferimento della Biblioteca di Storia dell’arte da Palazzo Venezia a Palazzo San Felice (a Roma)? Lo spostamento della Biblioteca Nazionale di Napoli all’Albergo dei poveri? E ancora: il patrimonio dei libri di Umberto Eco diviso tra Brera e Università di Bologna? Il prestito all’estero di alcuni capolavori? L’esposizione delle straordinarie sculture della controversa famiglia Torlonia? E l’arena da costruire al Colosseo? Domande diverse alle quali la risposta è sempre la stessa. «Io preferirei di no», come ripete il Bartleby di Melville.

Potrebbe essere, questa, la battuta utilizzata dai tanti iscritti all’ampio, diffuso e trasversale partito degli antimoderni di sinistra. Nella maggior parte dei casi, si tratta di intellettuali che condividono inclinazioni conservatrici. Da anni questo partito è in azione, impegnato a opporre rifiuti ideologici a qualsiasi cambiamento, portato a fare barricate contro ogni riforma dei beni culturali. Pur indossando la maschera dei progressisti, gli animatori del gruppo sembrano non essere mai usciti dal Novecento.

Mirano a non intaccare lo status quo, attenti a non alterare consuetudini oramai ridotte a ritualità svuotate di senso, afflitti da un passatismo rigido, ostili nei confronti di ogni avanguardia e di ogni contaminazione, interpreti di un’Italia che guarda soprattutto dietro di sé, ancorata al culto dell’antichità e del Rinascimento. I rischi insiti nelle sistematiche e prevedibili interdizioni sono chiari. Incapaci di farsi coscienze critiche, gli antimoderni di sinistra tendono a valutare in modo pregiudiziale iniziative e provvedimenti volti ad alterare l’ordine delle cose, senza entrare davvero nel merito di quelle proposte. Voci di un Paese che troppo spesso vive il presente non come opportunità né come domanda aperta, ma come inciampo della storia.

L’Ucraina ci fa capire tante cose del nostro Pci. Che cosa significa essere ex-comunista. Claudia Mancina su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

Che cosa significa essere ex-comunista? In questi tempi di guerra è difficile sottrarsi all’interrogativo. Manconi, per esempio, ha lavorato parecchio sul tema della sinistra, delle sue involuzioni o, come si è efficacemente espresso, della sua “catastrofe culturale”. Ma io sento una specifica responsabilità dell’essere ex-comunista, di essere stata per quasi vent’anni iscritta al Pci e poi di avere partecipato e attivamente contribuito alla fine di quel partito e di quella tradizione. Gli ex-comunisti, certamente, sono solo una parte del Pd. Quando il partito fu fondato, mettendo insieme i Ds (ultima incarnazione dell’eredità comunista) e la Margherita (ultima incarnazione dell’eredità della sinistra democristiana) sembrò evidente la prevalenza degli ex-Pci. Prevalenza numerica, ma non solo: di tradizione politica e di elaborazione intellettuale.

Fu un errore di valutazione. Con gli anni, superate certe diffidenze, gli esponenti di provenienza cattolico-democratica o cattolico-liberale hanno guadagnato una incontestata egemonia culturale e politica. Basta spuntare l’elenco delle maggiori cariche di partito e non solo: il segretario Letta, il presidente Mattarella, il commissario europeo Gentiloni, i ministri Guerini e Franceschini. Anche Draghi, sebbene non dal partito, viene comunque dalla filiera cattolica. Mi fermo qui. Quale può essere la ragione di questa egemonia? In prima battuta, si potrebbe dire che i cattolici democratici si sono trovati, con la caduta dei regimi comunisti, dalla parte giusta della storia. Non avevano abiure da fare. Sarebbe però una spiegazione, anche se non sbagliata, insufficiente. Nei giorni scorsi Recalcati ha parlato di mancata elaborazione del lutto da parte dei già comunisti. Questa è la chiave giusta, tradotta in termini politici. Noi comunisti ci siamo trovati, indubbiamente, dalla parte sbagliata. Eppure da quella parte c’eravamo stati in modo un po’ speciale, con tutta l’originalità del comunismo italiano: dall’adesione di Togliatti alla democrazia, al progressivo distacco di Berlinguer dall’Unione sovietica. In quel campo, tuttavia, sia pure con un piede solo, noi ci stavamo.

Eravamo comunisti. Non credevamo più che l’Unione sovietica fosse la patria del socialismo, ma avevamo ancora il mito della rivoluzione russa. Qualcuno distingueva tra Lenin e Stalin per salvare il primo. Pensavamo che la democrazia fosse la strada giusta, ma per arrivare a una sorta di nuovo e inedito socialismo. Il mercato ci sembrava comunque una bestia diabolica da domare con l’espansione più ampia possibile dello stato. Eravamo per l’Europa, sì, ma per un’Europa diversa, non troppo americana, non troppo capitalista. Soprattutto, ci sentivamo diversi dai socialdemocratici che erano bravi (quelli degli altri paesi), ma in fondo accettavano il capitalismo limitandosi ad addomesticarlo un po’. Su questa nostra tiepida coscienza scaldata dal senso di superiorità si è abbattuto l’89 e poi Tangentopoli. Allora il partito ebbe la forza di tirarsi su per il colletto, tipo barone di Münchausen, e di cercare una nuova identità. Non siamo stati però capaci di elaborare, per l’appunto.

Quella sinistra che definisce filo-Putin tutti i pacifisti

L’eccezionalità del partito italiano avrebbe dovuto essere il punto di partenza per fare veramente i conti con il comunismo, con la sua storia grande e tragica. Avrebbe dovuto portarci a capire che la deviazione non iniziò con Stalin, che il destino fu scritto tra il febbraio e l’ottobre del 1917, quando fu affossata la rivoluzione democratica, sciolta l’Assemblea costituente, messe le fondamenta dello stato totalitario. Fu invece usata come schermo per non farli, i necessari ma scomodi conti. I luoghi comuni, le pigrizie intellettuali, le vecchie amicizie e inimicizie non furono sottoposte a severo scrutinio, ma conservate, se mai un po’ impolverate, e pronte a essere tirate fuori all’occasione. E l’occasione, cari ex-compagni, è arrivata con l’invasione dell’Ucraina. Credevamo di essere oramai definitivamente entrati nella Nato, dopo la presa di posizione di Berlinguer che risale, pensate, al 1976. E invece siamo ancora lì, al mito dell’Unione sovietica in absentia. Cioè, l’Unione sovietica non c’è più, ma il riflesso di solidarietà, di vicinanza, direi quasi di affinità è ancora vivo.

Travestito da pacifismo, o da realismo, o dal nichilismo del né-né, è un riflesso che fa sentire comunque più vicina la Russia, anche se criticata, degli Stati Uniti. La patria del capitalismo suscita più diffidenza di quella che fu la patria del socialismo. Certo, nessuno lo dice proprio così esplicitamente. Si dice piuttosto che la colpa è della Nato, che si è allargata a Est: ma se ci chiedessimo perché i paesi già appartenenti alla sfera di influenza sovietica hanno voluto entrare nella Nato? Forse avevano paura della Russia, forse volevano avvicinarsi, anche culturalmente, all’Europa occidentale? Oppure si dice che non c’è differenza tra l’imperialismo russo e quello americano: le bombe sull’Ucraina sono considerate equivalenti a quelle sull’Iraq o sulla Serbia. Ma, anche se per assurdo una simile equivalenza si potesse sostenere, come potremmo concluderne che non ci sia differenza tra una democrazia, con tutti i suoi difetti, e una autocrazia sanguinaria, dove non esiste libertà di opinione, non esiste informazione indipendente, e i dissidenti vengono ammazzati o messi in prigione?

Per un ex-comunista, questa tragica involuzione della Russia post-sovietica, che dopo una breve speranza di democrazia sembra essersi ricollegata, con un bel salto temporale, all’autocrazia zarista, per di più condita con la ferocia stalinista, è una sentenza terribile. Se settant’anni di comunismo hanno prodotto questo, che altro c’è da dire sul comunismo? Molto ci sarebbe stato da dire, se avessimo riflettuto su noi stessi, sulle scelte del Pci, mai portate sino in fondo, certamente, e tuttavia capaci di farne un partito costitutivo, a modo suo, della democrazia italiana e quindi, anche se non vi piace, occidentale. Ormai è tardi per farlo. Di quella grande e spesso eroica vicenda storica, che dovremmo considerare chiusa per sempre, restano questi incongrui riflessi: contro gli americani, contro la Nato, contro le spese militari, contro il dovere, morale prima ancora che politico, di aiutare un popolo invaso che, anziché arrendersi, combatte strenuamente contro l’aggressore. Claudia Mancina

Pierluigi Panza per il Corriere della Sera il 30 luglio 2022.

C'è o ci fu una benestante classe sociale occidentale chiamata gauche caviar , sinistra al caviale, il tedesco Salonkommunist , il francese Bourgeois-bohème , l'inglese Champagne socialist , l'americano Limousine liberal Lo scrittore Tom Wolfe, che ne vide gli appartenenti da vicino nel salotto della moglie di Leonard Bernstein a New York, in un articolo pubblicato l'8 giugno 1970 sul «New York Magazine» usò per descriverla la locuzione radical chic: l'articolo era accompagnato da una fotografia di tre donne bianche, vestite in abiti da sera, che salutavano col caratteristico braccio alzato e pugno chiuso con guanto nero, gesto di protesta delle Pantere Nere.

Questa datata sinistra glamour e decadente è ritratta in un libro a quattro mani di Fulvio Abbate e Bobo Craxi, Gauche caviar. Come salvare il socialismo con ironia (Baldini+Castoldi, pagine 248, e 18), che ricorda quei dialoghi settecenteschi tra accademici arcadici oppure oziosi. 

Il libro è un ircocervo composto come quel gioco surrealista chiamato «Cadavere squisito» nel quale ciascun partecipante si passa un bigliettino per scrivere una frase e poi piega il margine e lo passa a un altro al fine di creare un testo frutto di spontaneità. Per leggere questo libro sono richiesti il piacere postmoderno per il situazionismo, l'inattualità, il vintage, lo spiazzamento, perché è composto da scambi di lettere tra i due autori che contengono irriverenti, colte e talvolta sconnesse riflessioni e ricordi sulla sinistra al caviale.

Fondato su fonti variabili, che vanno da Marx a Quelli della notte, il testo può essere letto come un ironico dizionarietto socio-culturale delle preferenze della sinistra col cashmere, le borse griffate e le cinture Hermès «indossate in bella posa davanti al Ponte Vecchio». Tra bon ton, zuppe di farro e profumo di lavanda emergono quali sono gli scrittori «giusti». Che non vanno letti, ma almeno citati come il Milan Kundera della Insostenibile leggerezza dell'essere e Fabio Volo, «perché incarna la profondità delle cose in superficie». Tra i filosofi più apprezzati ci sono Alain Finkielkraut, per il bel nome, e il «campione del settore» Bernard-Henri Lévy, che «innalza una pettinatura come nessuno al mondo».

Tra i vari artisti spicca il disegnatore Tullio Pericoli e la sua rubrica «Tutti da Fulvia il sabato sera» (tra mobili di design) mentre il politico di riferimento resta Jack Lang con i suoi capelli «cotonati e brizzolati» e casa arredata in stile Luigi XIII nel Marais, il quartiere più gay-friendly di Parigi dove le librerie espongono i volumi di Tom of Finland, si parva licet, il Michelangelo dell'illustrazione omosex. Per la cena, la mecca sono le ostriche da Bofinger, dietro Place de la Bastille.

Tra i quartieri in ascesa dove prender casa c'è NoLo, North of Loreto a Milano. Il sogno è ballare il cha-cha-cha in un chiringuito indossando «ciabatte di marca rigorosamente Champ di plastica», magari cantando Siamo i Watussi di Edoardo Vianello, cantante che i veri radical hanno conosciuto in una festa con Fausto Bertinotti. L'incubo contemporaneo è il loro essere i meno schierati pro-Zelensky, giusto per farsi notare dalla parte sbagliata della storia. Come gli Usbek e Rica delle Lettere persiane i due autori mostrano i peggiori difetti di una classe sociale in un dialogo semiserio strettamente declinato in chiave autobiografica e memorialistica.

Fulvio Abbate: «Mi vergogno di essere stato comunista». E si scaglia contro la sinistra al caviale. Giorgia Castelli domenica 5 Giugno 2022 su Il Secolo d'Italia.

«Il comunismo è tristissimo». Fulvio Abbate, in un’intervista a Libero attacca duramente la sinistra. «Io mi vergogno di esser stato comunista. Fu un errore di valutazione, pensavamo di essere rivoluzionari, mentre il comunismo è organizzazione, dove prevale lo Stato e quindi il sistema». Il marchese Abbate, classe ’56, palermitano, giornalista, critico d’arte, scrittore visionario, esce con un libro scritto in coppia con Vittorio Michele Craxi detto Bobo. Il titolo è Gauche Caviar – Come salvare il socialismo con l’ironia (Baldini+Castoldi, pp 248, euro 18).

Fulvio Abbate, “Gauche caviar”

«La cuspide della Gauche caviar – spiega Abbate – non è quello che, pensano i semplici, Michele Serra costretto dalla moglie a creare un profumo Eau de moi; io vado oltre, penso al profumo di Andy Warhol, a Pasolini che in Uccellacci e uccellini si chiede “Dove va l’umanità” e quella risposta, “Boh!” connota una grandissima eleganza intellettuale. D’altronde io sono quello che, con una mostra, nell’87, consacrò la pop art e il dadaismo di Bettino Craxi. Se poi lei mi parla di superiorità “morale” che la sinistra ritiene di avere: beh, quella riverbera nell'”amichettismo” di tipo veltroniano alla Concita De Gregorio, per esempio».

E spiega: «L’amichettismo è una forma di cooptazione, un obbligo a cui uno scrittore vero non può piegarsi. Certo, poi essendo io uomo di mondo, so che la pago. E rimango fuori dai loro giri, tanto non devo mica diventare direttore di Radio3. Epperò l’intellettuale non deve essere organico». A proposito di Pasolini. Fratelli d’Italia ha recentemente inserito nel suo Pantheon dei grandi conservatori proprio Pier Paolo Pasolini. A sinistra non l’hanno presa bene. Lei, invece? «Io ci ho appena scritto un libro (Quando c’era Pasolini, Baldini+Castoldi, ndr). L’attenzione della Meloni per lui non è incongrua, in quanto Pasolini era custode della tradizione. Per esempio era antiabortista».

Il morbo del "fighettismo". Francesco Maria Del Vigo il 30 Maggio 2022 su Il Giornale.

Alla fine anche a sinistra si sono stufati della sinistra. Quantomeno della sua propaggine più caricaturale. Era inevitabile, prima o poi doveva succedere. Ieri lo ha confermato Nicola Zingaretti, uno che bazzica quegli ambienti da una vita, e quindi ha i titoli per parlare e demolire la sua casa d'origine, non prima però di aver squadernato una serie di luoghi comuni: «Dobbiamo essere intransigenti fra i due opposti estremismi: il conservatorismo, che non cambia la condizione di vita delle persone e dà ai populismi e ai fascismi la bandiera per rappresentare ingiustamente certi valori. Così come non serve il fighettismo che usurpa in Italia la parola riformismo».

Dunque, potremmo discettare a lungo sul valore e l'importanza del conservatorismo, sul fatto che ormai è più facile trovare un panda nel centro di Milano che un populista in circolazione e che il fascismo - eccezion fatta per il metaverso in cui vivono gli antifascisti militanti, che di qualcosa devono pur campare - è morto e sepolto da più di un settantennio. Ma questo è il solito arsenale spuntato della sinistra, niente di nuovo sotto il sole.

La vera svolta, la novità, è l'autodenuncia di «fighettismo». Che poi è quell'insopportabile complesso di superiorità che trasforma una certa sinistra italiana in una élite che in confronto Bilderberg è una bocciofila. La convinzione - tanto profonda quanto infondata - di essere depositari di un primato morale che permette di guardare tutti dall'alto verso il basso. Ed è questo il vero problema della sinistra italiana: aver ucciso nella culla il riformismo e contrapporre al pensiero forte conservatore e liberale un non pensiero come il «fighettismo», che è solo una posa, un atteggiamento, una forma senza una sostanza. E, non a caso, il presidente della Regione Lazio si autodenuncia a una kermesse organizzata da Sinistra civica Ecologista, dalla quale lancia un nuovo «campo largo»: la «rete rosso verde Alternativa comune». Ed è subito un capolavoro involontario, perché questa nuova creatura, in bilico tra l'ecologismo gretino e quel che resta della sinistra post sessantottina, capitolina e molto salottiera, è la maiuscola rappresentazione del «fighettismo» stesso. E più che un campo largo, rischia di essere l'ennesimo vicolo stretto. Dal fighettismo allo sfighettismo il passo è brevissimo.

Il Partito Democratico dei soli uomini al comando pretende le quote rosa dagli altri. Carlo Solimene su Il Tempo il 24 maggio 2022.

Il tema è serio e va maneggiato con cura. Ma, per farlo, sarebbe opportuno non avere scheletri nell'armadio. Invece... Succede questo: il sindaco uscente di Verona Federico Sboarina ha deciso di anticipare le nuove nomine al vertice di Veronafiere. Il consiglio di amministrazione uscente andava a scadenza il 30 giugno ma il primo cittadino ha bruciato i tempi. Il problema non sono le elezioni del prossimo 12 giugno (con ballottaggio il 26) nel capoluogo scaligero. I tempi erano così stretti che difficilmente a occuparsene avrebbe potuto essere il successore di Sboarina (o Sboarina stesso, visto che si è ricandidato). Quindi nessuna «scortesia istituzionale», come pure si è detto. Il problema è che su quindici poltrone disponibili il primo cittadino non ne ha destinata neanche una sola al sesso femminile. I nominati sono tutti uomini, a partire dalla presidenza del Cda riservata al leghista Federico Bricolo. Con la Lega che è uno dei partiti che sostiene la ricandidatura di Sboarina.

Insomma, al di là di come la si voglia guardare, un'operazione politica gestita non proprio nella maniera migliore. Fatto sta che la scelta tutta al maschile di Sboarina ha provocato la reazione in batteria di svariati esponenti del Partito democratico, tra cui - naturalmente - diverse donne. Per Beatrice Lorenzin «non c'è stato alcun rispetto della parità di genere». Per Alessia Rotta si è trattato di «una pratica spartitoria inaccettabile tipica di chi predilige logiche di potere all'interesse generale, che in questo caso è ancora più odiosa perché esclude la rappresentanza femminile da un ente di primo piano per la città». Per Valeria Fedeli si è di fronte a «una destra retriva e discriminatoria». Ma da che pulpito viene la predica? Dallo stesso partito che, alla formazione del governo Draghi, indicò come papabili ministri tre maschietti: Dario Franceschini, Andrea Orlando e Lorenzo Guerini. Che poi altri non sono che coloro che muovono i fili di tutto il Pd, padroneggiando tre potenti correnti, insieme con il segretario Enrico Letta, ovviamente maschio.

La questione, peraltro, fu tra i nodi che portarono alle dimissioni dalla segreteria Nicola Zingaretti, sempre maschio, così come tutti i suoi predecessori al vertice del Nazareno. Il buon Letta, da parte sua, una volta insediatosi provò a rimediare indicando due capogruppo donne alle Camere, ottenendo il via libera, però, solo dopo le polemiche velenose degli uscenti. La pezza individuata, poi, fu subito sconfessata nelle successive amministrative, quelle dell'autunno 2021. In tutti i Comuni principali al voto - da Napoli a Bologna, da Milano a Torino passando per Roma e tanti altri - i Dem lanciarono candidati sindaci uomini, peraltro neanche giovanissimi (si andava dai 41 anni del bolognese Matteo Lepore in su). Una donna neanche a cercarla col lumicino. Anche in quel caso qualche polemica, ma nessun cambio di abitudini. Sboarina, insomma, si sarà comportato in maniera molto discutibile. Ma, prima di guardare alle quote rosa degli altri, sarebbe meglio concentrarsi sulle proprie. Almeno per dare il buon esempio.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 15 maggio 2022.

Allievo di pochi, maestro di molti, Goffredo Fofi ha attraversato oltre sessant' anni di storia culturale e politica italiana, dagli anni '50 quando lavorò al suo primo, e in qualche modo già definitivo libro della vita, il saggio L'immigrazione meridionale a Torino, già pronto per Einaudi, rifiutato e poi uscito da Feltrinelli nel 1964 fino a oggi, instancabile nel pubblicare articoli, curare collane editoriali, firmare prefazioni, cioè «fare» attraverso lo «scrivere». 

In mezzo, il'68 studentesco, il'69 operaio, l'inquieto '77, gli anni del terrorismo, poi dell'edonismo, che per lui forse fu anche peggio, poi del berlusconismo, che ha combattuto senza cedere di un passo, poi i Duemila... Ed eccolo ancora qui: impegnato, sia nel senso che è attivissimo su mille fronti, sia nel senso di engagé. La cultura serve soltanto se migliora la realtà sociale. 

Un orizzonte- da cui si attende di vedere spuntate un'alba nuova - fatto di pacifismo, quartieri popolari, migranti, minoranze, chiunque sia Straniero.

Oggi Goffredo Fofi - saggista, attivista, critico cinematografico e letterario, uomo di editoria e giornalista che ha fondato, diretto, animato decine di riviste: Quaderni piacentini, La Terra vista dalla Luna, Ombre rosse, Linea d'ombra, Dove sta Zazà... - ha 85 anni, la quasi totalità dei quali passati accanto ai maggiori intellettuali italiani dal dopoguerra in avanti.

Il momento giusto per guardare indietro. E così ecco il suo nuovo libro, Cari agli dèi (edizioni e/o), in cui l'autore traccia i ritratti-ricordi delle persone che, fra quanti lo hanno segnato di più, se ne sono andate troppo presto, o prima di aver dato tutto ciò che avrebbero potuto. Addii anzitempo. Fu Menandro a dire «muore giovane colui che gli dèi amano». 

Fra autobiografia intellettuale, diario di una vita di relazioni letterarie e Spoon River politico-umanitaria, il libro di Fofi - culturalmente onnivoro, filosoficamente anarchico e politicamente intollerante, da sinistra, alla sinistra ortodossa - è un meraviglioso excursus lungo un'Italia militante, colta e impegnata che, al netto di un eccesso di ideologia, esalta, per reazione, la mediocrità e il conformismo dell'intellighenzia italiana di oggi.

E fra scudisciate al comunismo osservante, ufficiale e borghese (ce n'è anche per i «ruffiani einaudiani»), riserve sui vari leader carismatici del movimento studentesco e dei gruppi politici in cui si divise (soprattutto Lotta continua), qualche delusione (il comunista doc Gianni Rodari), e diverse perplessità sul culturame attuale (con «quegli strambi festival dove la cultura si fa chiacchiera e passerella»), Fofi ha facile gioco a illuminare alcune figure che tutti dovremmo ricordare, da lui tutte frequentate e amate. Come il sindaco-poeta Rocco Scotellaro, limpido esempio di intellettuale gramscianamente inteso, morto trentenne nel '78. 

O Raniero Panzieri (1921-64), sociologo e interprete di una nuova sinistra non stalinista, uno che sapeva (come Fofi) che il mondo non lo si capisce coi libri, o solo coi libri, come erano invece sicuri i «professorini e professoroni di marxismo». O Peppino Impastato, ucciso- e anche per questo dimenticato- lo stesso giorno di Aldo Moro, 9 maggio del '78. O le grandi romanziere «meridionali» Mariateresa Di Lascia (1954-94) e Fabrizia Ramondino. O Grazia Cherchi (1937-95), alla quale Fofi era legatissimo, ma che non accettò che lui scrivesse, nel '95, che la sinistra era ormai morta. 

 O Severino Cesari (del quale Fofi apprezza tutte le stagioni della sua vita, un po' meno quella di Stile Libero). O Alessandro Leogrande (1977-2017) - scrittore, giornalista, tarantino e talent scout eccezionale, come lo è sempre stato Fofi - fra i migliori giovani italiani della sua generazione. 

Tutti, uomini e donne, nomi di fama o meno, accomunati da pochi tratti: essere alieni dal narcisismo mediatico, inseguire la moralità della politica e credere nel valore essenziale dell'amicizia. «Perché senza amici, la vita non è vita».

Dagotraduzione dal Miami Herald il 10 maggio 2022.

Presto gli insegnanti delle scuole pubbliche in Florida dovranno dedicare almeno 45 minuti di istruzione alla "Giornata delle vittime del comunismo" per insegnare agli studenti chi sono stati i leader comunisti e in che modo il loro regime ha fatto soffrire i popoli. 

Davanti a una folla di sostenitori, il governatore Ron DeSantis ha firmato l’House Bill 395, l’atto con cui ha istituito la "Giornata delle vittime del comunismo" il 7 novembre, rendendo la Florida uno dei pochi stati ad adottare la ricorrenza.

Sicuramente è il primo Stato a imporre che in quel giorno a scuola di studino i regimi comunisti. Secondo la legge che ha firmato, dall’anno scolastico 2023/2024 gli alunni dovranno imparare chi erano Joseph Stalin, Mao Zedong e Fidel Castro, così come dovranno conoscere la «povertà, la fame, la migrazione, la violenza sistematica e la repressione della parola perpetrata durante i loro regimi».

«Il conteggio dei corpi di Mao è qualcosa che tutti devono capire perché è un risultato diretto di questa ideologia comunista», ha detto DeSantis, osservando che decine di milioni di persone sono morte in Cina sotto il suo governo. «So che qui non abbiamo bisogno di una legislazione per farlo, ma penso che sia nostra responsabilità assicurarci che le persone sappiano delle atrocità commesse da persone come Fidel Castro e anche più recentemente da persone come Nicolas Maduro». 

Insieme al disegno di legge sulle vittime del Comunismo, De Santis ha ancora firmato un altro decreto per intitolare alcune strade agli esuli cubani Arturo Diaz Artiles, Maximino e Coralia Capdevila e Oswaldo Paya. 

«Ci sono così tante persone nella nostra comunità che hanno sofferto, i nostri stessi familiari hanno sofferto, e per noi è così gratificante onorarli», ha affermato Armando Ibarra, presidente dei Miami Young Republicans e fondatore della Florida Commission of Victims of Communism.

Il gruppo di Ibarra lavora a stretto contatto con la Victims of Communism Memorial Foundation, un'organizzazione internazionale che commemora le vittime del comunismo e promuove l'educazione sui mali dei regimi comunisti. L'organizzazione ha sviluppato il proprio progetto, uno dei materiali su cui lo State Board of Education modellerebbe le proprie lezioni, ha affermato il senatore di Miami Manny Diaz, che è stato nominato la scorsa settimana nuovo commissario statale per l'istruzione.

«Non l'abbiamo esaminato, ma le cose stabilite nel disegno di legge devono essere insegnate», ha detto Diaz.

La storia delle celebrazioni. Primo Maggio, quando e perché è nata la festa dei lavoratori: “8 ore di lavoro, 8 di svago, 8 per dormire”. Elena Del Mastro su Il Riformista l'1 Maggio 2022.

Il Primo Maggio ricorre la festa dei lavoratori in quasi tutti i paesi del Mondo. Ma perché proprio in questa data? Come è nata l’idea di celebrare tutti i lavoratori? La storia di questa festività inizia nel 1867 negli Usa, precisamente a Chicago. Ma la prima nazione a ufficializzare la ricorrenza fu la Francia. Era il 20 luglio 1889 quando durante il congresso della Seconda Internazionale, riunito nella capitale francese, venne indetta una grande manifestazione per chiedere alle autorità pubbliche di ridurre la giornata lavorativa a otto ore.

“Otto ore di lavoro, otto di svago e 8 per dormire”. Era questo lo slogan dei lavoratori, nato in Australia, ma che a fine ‘800 si diffuse in tutto il mondo. Inizia tutto negli Usa, a Chicago, il 1° maggio 1886. Una data che resta scolpita nel diritto dei lavoratori. Quel giorno, infatti, viene approvata la legge per il tetto delle otto ore lavorative nella giornata, secondo il principio dei “tre otto”. Fino ad allora le persone lavoravano anche fino a sedici ore al giorno, spesso in pessime condizioni e rischiando la vita.

L’episodio che ha dato origine a tutto è noto come Haymarket Affair. Nei primi giorni di maggio del 1886 negli Stati Uniti fu organizzato uno sciopero generale, definito dai sindacati “La Grande Rivolta” per ridurre la giornata lavorativa a 8 ore. In quei giorni a Chicago in piazza Haymarket si tenne un raduno di lavoratori e attivisti anarchici in supporto ai lavoratori in sciopero, trasformatosi in tragedia. La protesta durò tre giorni e culminò appunto, il 4 maggio, con un massacro represso nel sangue: le vittime furono 11.

Oggi quella data è festa nazionale in molti Paesi, tranne che negli Stati Uniti dove il “Labor Day” si festeggia il primo lunedì di settembre ed è differente dall’”International Workers’ Day” che in America è stato riconosciuto ma mai ufficializzato come giorno dei lavoratori.

In Italia la festa dei lavoratori fu ratificata nel 1891 ed è legata ad un altro evento storico tragico, la strage di Portella della Ginestra, in provincia di Palermo. Il primo maggio 1947 una folla di lavoratori si trovava lì per celebrare la ricorrenza – sospesa durante il fascismo ma poi ristabilita dopo la Seconda guerra mondiale – e per protestare contro il latifondismo. Sul luogo però c’erano anche gli uomini del bandito Salvatore Giuliano, che aveva rapporti sia con i monarchici sia con la mafia. Giuliano e i suoi uomini spararono sulla folla uccidendo sul momento 11 persone (un’altra morì in seguito a causa delle ferite) tra cui due bambini. Altre 27 furono ferite. I mandanti della banda di Giuliano non furono mai scoperti.

Dal 1990 i sindacati confederali Cgil, Cisl e Uil, in collaborazione con il comune di Roma, organizzano un grande concerto in pizza san Giovanni per celebrare il Primo maggio, rivolto soprattutto ai giovani.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Buon Primo maggio. La festa dei nullafacenti.

Editoriale del Dr Antonio Giangrande. Scrittore, sociologo storico, giurista, blogger, youtuber, presidente dell’Associazione Contro Tutte le Mafie ONLUS, che sul tema ha scritto alcuni saggi di approfondimento come "Uguaglianziopoli. L'Italia delle disuguaglianze" e "Caporalato. Ipocrisia e speculazione".

Il primo maggio è la festa di quel che resta dei lavoratori e da un po’ di anni, a Taranto, si festeggiano i lavoratori nel senso più nefasto della parola. Vogliono mandare a casa migliaia di veri lavoratori, lasciando sul lastrico le loro famiglie. Il Governatore della Puglia Michele Emiliano, i No Tap, i No Tav, il comitato “Liberi e Pensanti”, un coacervo di stampo grillino, insomma, non chiedono il risanamento dell’Ilva, nel rispetto del diritto alla salute, ma chiedono la totale chiusura dell’Ilva a dispregio del diritto al lavoro, che da queste parti è un privilegio assai raro.

Vediamo un po’ perché li si definisce nullafacenti festaioli?

Secondo l’Istat gli occupati in Italia sono 23.130.000. Ma a spulciare i numeri qualcosa non torna.

Prendiamo come spunto il programma "Quelli che... dopo il TG" su Rai 2. Un diverso punto di vista, uno sguardo comico e dissacrante sulle notizie appena date dal telegiornale e anche su ciò che il TG non ha detto. Conduttori Luca Bizzarri, Paolo Kessisoglu e Mia Ceran. Il programma andato in onda il primo maggio 2018 alle ore 21,05, dopo, appunto, il Tg2.

«Primo maggio festa dei lavoratori. Noi abbiamo pensato una cosa: tutti questi lavoratori che festeggiano, vediamo tutte ste feste. Allora noi ci siamo chiesti: Quanti sono quelli che lavorano in Italia. Perchè saranno ben tanti no?

Siamo 60.905.976 (al 21 ottobre 2016). Però facciamo così.

Togliamo quelli sotto i sei anni: 3.305.574 = 57.600.402 che lavorano;

Togliamo quelli sopra gli ottant’anni: 4.264.308 = 53.336.094 che lavorano;

Togliamo gli scolari, gli studenti e gli universitari: 10.592. 685 = 42.743.409 che lavorano;

Togliamo i pensionati e gli invalidi: 19.374.168 = 23.369.241 che lavorano;

Togliamo anche artisti, sportivi ed animatori: 3.835.674 = 19.533.567 che lavorano;

Togliamo ancora assenteisti, furbetti del cartellino, forestali siciliani, detenuti e falsi invalidi: 9.487.331 = 10.046.236 che lavorano;

Togliamo blogger, influencer e social media menager: 2.234.985 = 7.811.251 che lavorano;

Togliamo spacciatori, prostitute, giornalisti, avvocati, (omettono magistrati, notai, maestri e professori), commercialisti, preti, suore e frati: 5.654.320 = 2.156.931 che lavorano;

Ultimo taglietto, nobili decaduti, neo borbonici, mantenuti, direttori e dirigenti Rai: 1.727.771 = 429.160 che lavorano».

Questo il conto tenuto da Luca e Paolo con numeri verosimili alle fonti ufficiali, facilmente verificabili. In verità a loro risulta che a rimanere a lavorare sono solo loro due, ma tant’è.

Per non parlare dei disoccupati veri e propri che a far data aprile 2018 si contano così a 2.835.000.

In aggiunta togliamo i 450.000 dipendenti della pubblica amministrazione dei reparti sicurezza e difesa. Quelli che per il pronto intervento li chiami ed arrivano quando più non servono.

Togliamo ancora malati, degenti e medici (con numero da precisare) come gli operatori del reparto di ortopedia e traumatologia dell’Ospedale di Manduria “Giannuzzi”. In quel reparto i ricoverati, più che degenti, sono detenuti in attesa di giudizio, in quanto per giorni attendono quell’intervento, che prima o poi arriverà, sempre che la natura non faccia il suo corso facendo saldare naturalmente le ossa rotte.

A proposito di saldare. A questo punto non solo non ci sono più lavoratori, ma bisogna aspettare quelli futuri per saldare il conto.

Al primo maggio, sembra, quindi, che a conti fatti, i nullafacenti vogliono festeggiare a modo loro i pochi veri lavoratori rimasti, condannandoli alla disoccupazione. Ultimi lavoratori rimasti, che, bontà loro, non fanno più parte nemmeno della numerica ufficiale.

Falce e martello, da simbolo comunista a vessillo sovranista? Non è questione di universi paralleli, è il «qui e ora» del gran circo politico che partorisce una provocazione o forse, con qualche acrobazia, una domanda: la vecchia bandiera falce&martello è ormai diventata un simbolo di «destra»? Leonardo Petrocelli su La Gazzetta del Mezzogiorno l'1 Maggio 2022.

C’è un mondo in cui la sinistra tifa per i neonazisti ucraini del Battaglione Azov e storce il naso se due cosmonauti russi espongono falce e martello all’esterno della Stazione spaziale internazionale, quasi il «Vessillo della Vittoria», innalzato a Berlino nel 1945, fosse ormai diventato un simbolo conservatore. Da fascisti putiniani e impenitenti. E difatti qualche destrorso se la ride e, interiormente, plaude pure. Ma non è questione di universi paralleli, è il «qui e ora» del gran circo politico che partorisce una provocazione o forse, con qualche acrobazia, una domanda: la vecchia bandiera falce&martello è ormai diventata un simbolo di «destra»?

Tralasciando tutta la questione che attiene alla «denazificazione» dell’Ucraina e alla rilettura della guerra in atto - da parte russa - come una specie di spin off in sedicesimo della «Grande guerra patriottica», cioè della Seconda guerra mondiale, il nodo più interessante resta quello della interpretazione simbolica in casa nostra. Non c’è dubbio che, negli ultimi decenni, con una rincorsa troppo lunga per essere riepilogata, la sinistra abbia cambiato pelle incarnandosi oggi in un progressismo riformista che non c’entra nulla con il comunismo post bellico. Anche perché quest’ultimo prima ancora di essere un soggetto politico camminava sulle gambe di un tipo umano che aveva cittadinanza in un contesto collettivo. E sul collettivo ragionava. I diritti sociali, ad esempio, presuppongono identità, legami, comunità. Le grandi proteste nascono da piazze omogenee in cui tutti sono operai, magari tutti meridionali, tutti comunisti, tutti o quasi con famiglia. E poi per battaglie di questo tipo bisogna radicarsi da qualche parte e presumere di restarci. L’avvelenato incrocio fra precariato, abbattimento delle frontiere e mito del globetrotter ha sostanzialmente partorito un tipo umano individualista, una monade liquida e senza ormeggi. Oggi a Bari, domani a Bruxelles, dopodomani a Shanghai. Prima cameriere, poi dottorando. Tutte le battaglie di cui si incarica sono dunque planetarie, generali, e non potrebbe essere diversamente: l’ecologia, la libera circolazione, i diritti umani dall’altra parte del pianeta, la riscrittura della storia attraverso i tribunali della cancel culture. Tutto il mondo diventa un Occidente dilatato all’infinito. Ai tempi della scuola di Francoforte la sinistra sfidava l’industria culturale americana, oggi studia il Vangelo secondo Netflix con la sua catechesi Lgbtqi+ e inclusiva.

Questa sinistra, ormai maggioritaria, tutta uteri in affitto, monopattini, sindaca e assessora, ha perso per strada le categorie del passato. O meglio, le ha smarrite dopo aver rotto i legami sociali con le sue classi di riferimento. Perché c’è anche chi non è riuscito a scappare. È rimasto intrappolato in fabbrica, nelle periferie, ai margini del villaggio globale dove Europa non significa libera circolazione ma regole assurde, vincoli di bilancio e austerità a palate. Si è beccato tutto il controcanto, il lato oscuro del grande racconto globale. E ha svoltato a destra lì dove i sovranisti hanno saputo costruire un racconto anti-occidentalista e no global quale «voce» degli ultimi, come il recente voto francese ha ancora una volta certificato.

Si è verificato così un primo grande «fidanzamento» rosso-bruno: la destra ha iniziato a occuparsi di periferie e gente che votava a sinistra, smarrite le certezze, si è spostata dalla parte opposta facendone propri i riferimenti. Più difficile, naturalmente, per militanti storici o intellettuali affermati operare il salto, ma di fatto molti patemi della «vecchia sinistra» inquadrano gli stessi nemici dell’altra faccia della luna. E allora se è improbabile incontrarsi su Salvini o sulla Le Pen è più semplice che entrambi i fronti convergano su Putin, apprezzandone da destra l’impostazione conservatrice e patriottica, da sinistra la tensione anti-americana e anti-Nato. Il tutto mentre i riformisti vedono nello zar, oltre che un sanguinario invasore di Stati, un ostacolo alla civilizzazione occidentale della Russia nonché un diabolico inciampo sulla via della universalizzazione dei diritti.

La guerra mette, o dovrebbe mettere, tutti d’accordo nell’umana solidarietà verso il popolo ucraino ma la lettura delle cause geopolitiche e delle premesse ideali, nonché il ragionamento sulle soluzioni possibili, svela la «frattura». Ne sa qualcosa l’Anpi, fino a ieri inattaccabile, oggi costretta a difendersi per la propria contrarietà all’invio di armi e per qualche post, vecchio di sette anni, sugli orrori dei paramilitari ucraini di estrema destra. Cortocircuiti di un mondo impazzito in cui, alle celebrazioni del 25 aprile, qualcuno ha pensato bene di portare in piazza a Milano la runa nazista del Battaglione Azov. Chissà che in qualche adunata sovranista non spunti ora una falce e martello. Non ci sarebbe da sorprendersi. Ormai vale tutto.

85 anni dalla morte del pensatore sardo. Rileggiamo Gramsci, ci serve un grande pensiero della crisi. Michele Prospero su Il Riformista il 28 Aprile 2022. 

Il destino di un classico è di essere letto nei modi più differenti e persino contrastanti perché le categorie che ha affinato appartengono, più che all’autore del testo, all’interprete il quale è autorizzato a muoversi tra le pagine del suo pensatore per rispondere alle proprie domande, per dare un senso ai propri problemi. Ogni fase politico-culturale ha decodificato Gramsci proiettandosi oltre il testo per accostarsi a nodi storico-politici percepiti come vitali e con profonde ricadute nella attualità.

Il tradimento della filologia (se ne facciano una ragione alla Fondazione Gramsci: il pensatore sardo non può ancora essere osservato come un Monti o Berchet qualsiasi) è in tal senso un ritrovato inevitabile ed è il segno della grandezza di un classico che è tale proprio perché il suo testo offre un catalogo variegato di temi dal quale è possibile estrapolare delizie concettuali con la forzatura creativa dell’interprete intelligente. Non tradì forse lo stesso Gramsci le regole aride della ermeneutica testuale per afferrare il succo problematico-critico del suo Machiavelli?

I Quaderni oggi andrebbero letti come il deposito culturale che elabora i materiali per delineare un grande pensiero della crisi. Dopo l’impazienza di tipo bergsoniano-sorelliana della gioventù che lo aveva indotto ad esaltare la fretta, la rottura, il gesto ostile alla temporalità riformista, nella riflessione carceraria riaffiora il gusto per esplorare gli enigmi del tempo lungo. Più temporalità si intersecano in Gramsci quale pensatore della crisi della prima globalizzazione capitalista, interrotta con la guerra e con i totalitarismi. Il tempo brevissimo della sconfitta lo induce a scrutare il brusco processo degenerativo che, dalle elezioni quasi costituenti del 1913 passando per l’esperienza della guerra vista come “mucchio di tutte le crisi”, perviene alla catastrofe dell’ordinamento liberale. Per essere afferrata adeguatamente, la caduta del regime liberale andrebbe compresa con l’apertura all’indagine della lunga durata dei processi di modernizzazione.

Sotto la lente analitica di Gramsci ricadono taluni aspetti problematici essenziali: la questione della laicità, il contrasto originario centro-periferia, la frattura città-campagna, la distanza tra élite intellettuale e ceti subalterni. La tarda risoluzione della crisi di secolarizzazione (Stato territoriale accentrato) e di socializzazione-nazionalizzazione delle masse (suffragio universale) è assunta come la solida cornice che fa da sfondo per comprendere il collasso della debole organizzazione statuale sconvolta dinanzi all’età della accelerazione frenetica della società di massa. Dinanzi all’arretramento traumatico delle dinamiche di internazionalizzazione degli scambi, sotto i ritrovati della guerra imperialista e della proletaria guerra alla guerra, gli Stati deboli, perché di più recente costituzione, franano innescando fenomeni degenerativi. Oltre alle parabole del ciclo economico e agli accadimenti di carattere geopolitico che svelano i tratti del disordine mondiale, Gramsci indirizza la riflessione verso la carenza soggettiva (culturale, politica) degli attori.

La soluzione carismatica alla crisi (che è economica, istituzionale, ideologica) del primo Novecento si afferma perché sia le forze borghesi che quelle socialiste scontano gli effetti ingovernabili della destrutturazione della mediazione (parlamentarismo, partiti). Il declino della mediazione (per il doppio sovversivismo: da un lato la slealtà costituzionale delle classi dominanti, dall’altro le seduzioni mitiche dei ceti subalterni incapaci di esprimere proprie élite) lascia sguarnito il sistema, che viene commissariato dal capo carismatico. Un’idea mitica del tempo (la velocità della decisione scavalca l’ordine delle compatibilità, la successione del prima e del dopo e risolve d’incanto problemi epocali) consente al capo carismatico di sedurre le masse con aspettative di rigenerazione complessiva legate al potere personale. Con il “martello del dittatore” il capo carismatico travolge le strutture fragili di un ordinamento sradicato e aleatorio nella capacità di sussistenza in un tempo tempestoso.

Sul piano della spiegazione dei tratti specifici dello Stato totale fascista, Gramsci non ritiene di assumerlo come una configurazione che sperimenta una semplice regressione formale-procedurale rispetto agli istituti liberali. Il governo di partito unico, che trascende gli istituti della rappresentanza individualistica, viene giudicato come un fenomeno di modernizzazione dall’alto (esiste anche un cesarismo “obbiettivamente progressivo”) che decide le dinamiche del capitalismo secondo un calcolo politico e in cambio della assimilazione-conservazione di istanze riformatrici restringe il ventaglio della rappresentanza plurale e conflittuale.

La risposta più efficace al tema della crisi delle democrazie novecentesche Gramsci la rinviene nella costruzione di una densa società civile con molteplici reti di mediazione. Una eco di Tocqueville si avverte in Gramsci, e la si coglie nella sua enfasi sulla mediazione come momento indispensabile sia per la stabilizzazione-consolidamento della democrazia (punto di vista interno, liberale) che per la sostenibilità della guerra di posizione, con investimenti di organizzazione, cultura, soggettività (punto di vista esterno, socialista). In un tempo di crisi della forma della democrazia, e di irruzione del leader con un preteso tocco provvidenziale, le categorie di Gramsci tratteggiano una mappa concettuale da recuperare per evitare la catastrofe degli ordinamenti costituzionali. Michele Prospero

Era guerra contro l’invasore o era guerra civile? Mattarella e la resistenza, la storia è diversa: i tedeschi li abbiamo traditi, gli americani ci hanno invaso. Paolo Liguori su Il Riformista il 27 Aprile 2022. 

Dopo tanti anni un 25 aprile, festa della Liberazione, che ha rivisto un movimento. Per due anni non si era celebrata, prima era una festa stanca, ormai logora, perché è ormai lontano il tempo della Liberazione. Ieri c’è stato un grande movimento e allora potremmo dirci contenti perché torniamo ad un punto fermo della vita del nostro paese. E invece no, non siamo contenti, perché il movimento c’è stato per l’Ucraina. Allora bisogna dare le armi all’Ucraina perché i partigiani combattevano con le armi o non bisogna darle?

La discussione è durata in maniera più o meno caotica tutto il giorno, poi le parole esaustive del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, di fronte al quale io mi inchino perché è il mio Presidente. Però mi dispiace, non ha detto una cosa corretta. “Una mattina mi sono svegliato e ho trovato l’invasor”, sono le parole di ‘Bella ciao’, pronunciate da Mattarella. Si riferiva alla guerra partigiana? Sì, diceva che proprio per questo motivo l’invasore russo in Ucraina e l’invasore in Italia devono essere messi sullo stesso piano e sullo stesso piano la Resistenza.

Ma i tedeschi erano invasori in Italia? No, i tedeschi erano alleati dell’Italia, noi li avevamo voluti come alleati. E quando sono cominciati a sbarcare gli americani, in Sicilia nella sua terra, quelli erano gli invasori. Ci sono state anche battaglie contro pochi fascisti che resistevano e ci sono stati morti. Altri italiani, hanno poi preferito andare con americani e inglesi. Il 25 luglio buttarono a mare Mussolini ma Badoglio disse ‘la guerra continua’ e quindi eravamo ancora in guerra con gli americani, al fianco dei tedeschi. Poi l’8 settembre, giorno in cui si fece l’armistizio, passammo dall’altra parte – naturalmente non lo dico per lei, Presidente, che lo sa benissimo ma per chi potrebbe essersi confuso – il Re in fuga a Bari e noi, da un certo punto dell’Italia in su, nel nord, cominciammo a sostenere la Resistenza, la guerra partigiana con le armi. Ma contro chi? Contro altri italiani che combattevano a fianco della Repubblica di Salò. Quindi italiani da una parte e italiani dall’altra. Era guerra contro l’invasore o era guerra civile?

Perché subito dopo il 25 aprile ne abbiamo fatto una bandiera della Resistenza e del Fronte di Liberazione Nazionale? Perché ne avevamo bisogno per presentare una classe politica all’estero che fosse dignitosa, perché quella di prima aveva perso con Mussolini onore e dignità. Sono tutte questioni politiche, non sono questioni militari, non sono questioni di eroismo contro l’invasore. Sono questioni di opportunità politica. Per fortuna l’Italia ha scelto la parte giusta, ha lasciato andare la parte sbagliata. Questo va raccontato ai ragazzi, questo va raccontato nelle scuole, non che quella guerra partigiana era uguale a questa resistenza ucraina. Per paradosso questa resistenza ucraina ha molte più ragioni perché si tratta veramente del russo invasore. Noi i tedeschi li avevamo scelti, li abbiamo traditi, li abbiamo abbandonati. Questa è la verità storica, il resto sono parole che si sono usate giustamente il 25 aprile per passare dalla parte giusta e farci dare il Piano Marshall. Oggi si usano a sproposito e bisogna stare attenti a non confondere le idee dei giovani perché altrimenti non si sa dove finiamo.

Paolo Liguori. Direttore editoriale di Riformista.Tv e TgCom 

Anpi, Parisi non la dice tutta: i partigiani “rossi” combattevano per Stalin, non per la libertà. Marzio dalla Casta giovedì 21 Aprile 2022 su Il Secolo d'Italia.   

Dice al Foglio Arturo Parisi, Gran Muftì del prodismo al tempo dell’Ulivo, che «il ruolo storico dell’Anpi» è «ormai esaurito». Non è la sua, si badi, una semplice opinione. Bensì certezza ricavabile dalla lettera A dell’articolo 1 dell’atto costitutivo della stessa Anpi. «L’associazione – vi si legge – ha lo scopo di riunire tutti coloro che hanno partecipato con azione diretta alla guerra partigiana contro i nazifascisti, contribuendo a ridare al nostro Paese la libertà e la democrazia». Ne discende che essendo il suo presidente, Gianfranco Pagliarulo, nato solo nel 1949 egli non possa fregiarsi del titolo di partigiano. Né, a maggior ragione, esserne il capo.

Parisi al Foglio: «L’associazione ha esaurito il suo ruolo»

Parisi coglie nel segno. Ma anche Marcello Veneziani, nel momento in cui si chiede perché solo ora la sinistra si accorge che l’Anpi è praticamente senza partigiani. Un interrogativo condivisibile e che rilanciamo volentieri: come mai? Veneziani se lo spiega con il fatto che l’Anpi ha una posizione non conforme sulla guerra in corso: pendente più dalla parte dell’invasore russo che dell’invaso ucraino. E questo con buona pace dei versi di Bella ciao, che non per caso Parisi esorta a rileggere una volta constatato, scrive il Foglio, che combattere per la libertà «è un concetto che oggi sembra non andare più a genio all’Anpi senza partigiani».

Sulla Resistenza verità ancora lontana

Ma l’affermazione è tanto vera, quanto incompleta. È infatti il caso di aggiungervi che sul punto il comunista Pagliarulo è in perfetta sintonia con i veri partigiani rossi, per i quali la lotta al nazifascismo era solo il preludio all’avvento dello stalinismo. È il motivo per cui non esitarono ad eliminare partigiani “bianchi“, monarchici, liberali e persino socialisti. Messa così, appare quindi chiaro che al ragionamento di Parisi manca il pezzo finale: la riscrittura, secondo verità storica, della Resistenza: oltre la retorica ufficiale e la rendita di posizione fin qui goduta da chi ha politicamente egemonizzato quel fenomeno, rendendo praticamente sinonimi antifascismo e democrazia. Un’equazione falsa e pericolosa, che ora proprio l’imbarazzata equidistanza tra Mosca e Kiev esibita dal “partigiano” Pagliarulo impone di cancellare.

Il 25 Aprile festa dell'Occupazione. Francesco Maria Del Vigo il 19 Aprile 2022 su Il Giornale.

Siamo arrivati a questo paradosso: le vestali della Liberazione (italiana) tifano l'Occupazione (dell'Ucraina).

Siamo arrivati a questo paradosso: le vestali della Liberazione (italiana) tifano l'Occupazione (dell'Ucraina). Qualche giorno fa, dalle colonne del Corriere della Sera, Massimo Gramellini (non esattamente una penna di destra) ha suggerito di ribattezzare l'Anpi come «Associazione nazionale putiniani italiani». In effetti l'acronimo è molto versatile e d'altronde già da anni definiva più che altro l'«associazione nipoti dei partigiani italiani», perché di reduci della Resistenza - per evidenti questioni anagrafiche - ne sono rimasti pochi e i loro eredi, più che a custodire la memoria del passato, sembrano interessati ad alimentare le futili polemiche del presente. Se da tempo l'Anpi è in crisi politica ed esistenziale, la guerra in Ucraina ha definitivamente surriscaldato e mandato in cortocircuito i sedicenti custodi della Resistenza. Uno scivolone dopo l'altro, con una perseveranza che non può essere casuale. E, difatti, non lo è.

All'indomani della strage di Bucha, l'Associazione, afflitta da una incontinenza di dichiarazioni e da una ossessiva ricerca di visibilità, si è sentita in dovere di diffondere un comunicato assurto ormai a canone del «neo-neneismo»: non sto con Putin (leggasi: ci sto eccome, ma non è elegante dirlo), ma nemmeno con l'Ucraina e la Nato. «Condanniamo fermamente il massacro, in attesa di una commissione d'inchiesta internazionale guidata dall'Onu e formata da rappresentanti di Paesi neutrali, per appurare cosa davvero è avvenuto, perché è avvenuto, chi sono i responsabili», commentava Gianfranco Pagliarulo. Una posizione talmente ambigua da sollevare le ire persino di Paolo Flores d'Arcais (non esattamente una penna di destra, bis). Pochi giorni dopo, sempre il presidente, giusto per non farsi sfuggire neppure una polemica, risponde alla Brigata ebraica che propone di sfilare al corteo del 25 aprile con le bandiere della Nato, dicendo che quelli dell'Alleanza atlantica sono vessilli «inadeguati in una circostanza in cui si parla di pace». Come se l'Italia fosse stata liberata con mazzolini di fiori e non con i fucili e come se gli americani non avessero avuto un ruolo fondamentale nella Resistenza.

Ma d'altronde, ormai è ovvio, il nemico dell'Anpi non è l'invasore, cioè Putin, ma gli Usa e la Nato. Occupazione e liberazione sono etichette da appiccicare alla bisogna per attaccare un nemico o difendere un amico. Lo testimoniano i post del 2014 e del 2015 in cui Pagliarulo si scagliava contro il regime «nazista» di Kiev e faceva da gran cassa alla propaganda del Cremlino. Sempre dalla parte dei compagni che sbagliano. Allora, cari amici dell'Anpi, a questo punto, fate una cosa meno ipocrita: inventatevi una festa dell'Occupazione e celebrate quella. Sarebbe più coerente.

Giampiero Mughini per il Foglio il 13 febbraio 2022.

Era una cucina relativamente grande, in un appartamento al secondo piano di una straduzza romana che moriva sul retro di piazza Navona la cucina della casa dove vivevano Maurizio e Marcella Ferrara e dove per lungo tempo hanno vissuto i loro due figli, Giorgio e Giuliano. 

Una cucina al cui desco mi sono seduto tante volte nei quattro o cinque mesi del 1989 in cui Maurizio e io stavamo apprestando una sorta di duello intellettuale, lui un comunista aperto a tutte le sfide e a tutte le domande ma che non voleva rinnegare un etto della sua storia e della sua identità, io un dannato "anticomunista" affascinato dalla storia delle famiglie borghesi che avevano costituito il nocciolo più vitale dell'italo comunismo.

Il libro/ intervista uscì dall'editore Leonardo nel gennaio 1990 con il titolo Ferrara con furore. vendette poco e niente, qualcosina più di mille copie. Vedo adesso che su Amazon ne offrono una copia a 60 euro. E' uno dei più bei libri mai pubblicati in Italia su quel che erano davvero, quali libri leggevano, con quali donne si sposavano, i personaggi intellettualmente più rilevanti di quel PCI che è stato l'unico partito comunista al mondo dal volto umano. Il ricordo di quella cucina mi è venuta subitanea alla mente quando, solo per un istante, le condizioni di salute di Giuliano erano sembrate allarmanti. 

Era stato Maurizio, che nel 1989 aveva 68 anni e dunque era molto più giovane di quanto lo sia io adesso, a dirmi che avrebbe voluto farlo quel libro/ interrogatorio. Da tempo riceveva richieste di scrivere la sua autobiografia, solo che lui preferiva invece un confronto con chi aveva una storia diversa dalla sua: "Io sono uno che ha sempre proclamato con forza la sua 'appartenenza'; tu sei uno che rivendica caparbiamente la sua 'non appartenenza', il suo non schierarsi con nessuno. Trovarmi di fronte un membro della nobile confraternita dei cani sciolti, e tuttavia interessato alla storia e alla tematica della sinistra, rispondere a un interrogante che so implacabile ma leale, mi stimola ".

Sono le parole di Maurizio che stanno in testa al nostro libro. Sì, era una storia di famiglie borghesi italiane del Novecento, e che famiglie. Quella di Ferrara cominciava dal papà Mario, uno dei tenori del liberalismo italiano tra le due guerre, proseguiva con suo fratello Giovanni che sarebbe stato uno degli intellettuali chiave del Partito repubblicano di Ugo La Malfa, si prolungava con il figlio Giuliano, dapprima uno che aveva fatto il politico di professione nel Pci torinese, più tardi uno che ne era uscito rumorosamente sino a manifestare una sua pronunziata empatia per quel craxismo che negli anni Ottanta faceva da bestia nera del Pci. 

Poi c'era la famiglia di origine di Marcella, lei che per un lungo tempo era stata la preziosa collaboratrice di Palmiro Togliatti, dico la famiglia De Francesco, le due "sorelline" Marcella e Giuliana, quella che avrebbe sposato Franco Ferri, uno che era stato un gappista comunista nella Roma del 1943-1944( loro due genitori del notissimo fotografo Fabrizio Ferri), per poi morire suicida nel 1975.

Famiglie che si intricavano l'una con l'altra, i Ferrara con gli Amendola, il padre Giovanni (sodale di Mario Ferrara) e i suoi figli che tutti e tre avevano scelto il Pci nel secondo Dopoguerra. I Ferrara con Antonello Trombadori e sua moglie Fulvia. E a proposito del rapporto di Maurizio con la famiglia Amendola e con la sua storia, c'è un piccolo particolare che da solo vi spiega la temperie del libro da cui sono partito. Stavamo parlando dell'ignobile aggressione squadrista a Giovanni Amendola (era la terza che subiva) il 25 luglio 1925, mentre lui era in auto sulla strada da Montecatini a Pistoia, un'aggressione che indurrà Amendola a riparare in Francia e più precisamente a Cannes, dove morrà nove mesi dopo, il 7 aprile 1926. Durante i nostri colloqui e nel raccontare questa tragedia Maurizio usa a un certo punto le seguenti e testuali parole: "Amendola morì anche di cancro". Al che io ebbi un soprassalto. Fin da ragazzo avevo imparato che Amendola era morto delle conseguenze dell'aggressione. Solo che qualche dubbio mi era venuto quando avevo letto i particolari fisici della cosa: che Amendola era rimasto in auto sul sedile retrostante e che quei bastardi lo avevano colpito con bastoni e randelli attraverso i finestrini. Niente che attenuasse la barbarie dei loro gesti, ma che metteva in dubbio che Amendola ne fosse stato fisicamente squarciato.

Che poi il cancro abbia trovato facilmente la strada in un uomo fisicamente provato, non c'era dubbio. Solo che non può iscrivere che uno è morto" anche di cancro ". Se aveva un cancro, è morto di quello. Dopo un estenuante dialogo, Maurizio si risolse a scrivere come sto dicendo, che Amendola era morto di cancro. Solo che quando il libro uscì, uno dei figli ancora viventi di Amendola insorse contro le parole di Maurizio, ossia contro la verità dei fatti. 

Se non ricordo male inviò una lettera a un giornale, al che Maurizio provò a rabbonirlo pubblicamente, beninteso senza smentire quello che era stato scritto e stampato e che a lui era certo arrivato da papà Mario. L'ho detto, era il romanzo che raccontava da dentro la storia di alcune famiglie italiane d'eccellenza. Perché se ne vendettero così poche copie? Semplicissimo. 

Il cognome "Ferrara" batteva in quel momento ogni record quanto all'essere il bersaglio dell'odio ideologico e dell'invidia nei confronti di Giuliano da parte del lettore medio "di sinistra", quello che non potevano n essere il destinatario di un libro siffatto. Franco Cordelli, mio amico da sempre, mi confidò che aveva creduto che il libro fosse un'intervista al Ferrara "traditore" e perciò non lo aveva comprato. Quando si accorse dell'errore, lo divorò in una notte. E quanto all'essere un "traditore ", anch' io facevo la mia porca figura dopo avere scritto compagni addio.

I girotondi dei missini, il cappio in Parlamento della Lega, le “lezioni” del Pds. Come è potuto accadere? Il ricordo di Riccardo Nencini su Il Dubbio il 20 febbraio 2022.

Giugno 1992, un ricordo nitido: i consiglieri comunali fiorentini del Msi in girotondo attorno alla federazione provinciale socialista di Firenze. Urlano: “Ladri”. Giorni dopo, socialisti additati dal Pds come esempio di corruzione, mentre la Lega mostra il cappio dell’impiccato a Montecitorio e le tv di Berlusconi imperversano di fronte al palazzo di giustizia di Milano.

Una tenaglia politico-mediatica alimentata dalla magistratura e un’ondata populista che si abbatte con veemenza soprattutto sui socialisti, rei di aver snaturato il loro dna (parole di Berlinguer) per cavalcare il sogno di un’Italia nuova, dinamica, che la cultura comunista proprio non riesce a incrociare. Lo slogan è semplice, tanto efficace quanto falso come bisante: la politica è malata, la società è sana. Conseguenze: chi imbraccia la questione morale è pulito, tutti gli altri appestati.

Attenzione. Non era una novità per nessuno che i partiti fossero finanziati anche illecitamente e che vi fossero politici che dell’arricchimento personale avevano fatto la loro bussola. Tutto vero. Il punto è che, da un certo momento in poi, ciò che era stato tollerato viene perseguito. Qual è quel certo momento? L’adesione dell’Italia al Trattato di Maastricht e il contestuale crollo del muro di Berlino. Le politiche di spesa vengono imbrigliate nelle regole ferree del Trattato, c’è un trasferimento di sovranità verso Bruxelles; il ruolo geopolitico dell’Italia cambia, si immiserisce, la presenza del più grande partito comunista d’Occidente non è più un pericolo ora che l’Urss è alle corde.

Di nuovo attenzione: non è che di scandali non ce ne fossero stati in passato, non è che fossero ignote le fonti sovietiche di finanziamento al Pci, non è che le grandi società di Stato evitassero di invitare a pranzo i tesorieri di tutti i partiti. Se vi annoiano i documenti, leggete almeno “Il tesoriere”, il bel romanzo di Gianluca Calvosa edito da Mondadori. La differenza è che la classe politica aveva reagito compatta, si era ribellata alla gogna. Tutta la classe politica. Quando Aldo Moro era intervenuto alla Camera (1977) dichiarando che la Dc non si sarebbe fatta processare (scandalo Lockheed), il Pci era rimasto in silenzio, protagonista com’era del governo Andreotti. Aggiungo che l’ombrello americano proteggeva ancora il sistema politico.

Veniamo al dunque. Con i primi anni Novanta la storia si avvita, la presunzione di innocenza si rovescia in presunzione di colpevolezza, si annuncia la rivoluzione ora che il mondo è cambiato. A morte i partiti, ma non tutti i partiti. Tuttavia, poiché “le rivoluzioni sono tristi” (Dahrendorf) e tradiscono i sogni, la generazione sessantottina allocata tra stampa e magistratura che invoca la tempesta perfetta sui partiti sacrileghi s’imbatte nell’uomo di Arcore. Storia nota, storia recente. La novità è che oggi conosciamo anche i numeri del lavoro svolto da Mani Pulite: condannato solo il 54% degli indagati.

Gli effetti: privatizzazioni selvagge, personalizzazione della politica, rottura degli equilibri costituzionali, fine del garantismo. Non sono ingenuo. Molti di questi fattori si sarebbero presentati comunque, figli di profondi cambiamenti sociali e della globalizzazione. C’è un però. In Italia sono calati come una mannaia, altrove, pur in presenza di altrettante tangentopoli (Khol sotto inchiesta in Germania, Gonzales in Spagna, uomini di Mitterrand in Francia), gli effetti sono stati più contenuti, la democrazia parlamentare ha retto senza offrire il fianco all’antipolitica.

Un’ultima domanda: perché Craxi capro espiatorio? Le tesi si rincorrono. Sigonella, Israele, complotti. Che Di Pietro frequentasse il consolato americano a Milano è un fatto accertato, e nei documenti leggi anche dell’altro e non era il the delle cinque. Ma io vedo di più. Condannato per una colpa politica. L’aver rappresentato un’eresia, il riformismo del socialismo umanitario, una minoranza invisa sia alla cultura comunista che a quella cattolica dominanti in Italia, l’aver rotto una consuetudine consociativa, l’aver difeso economia di mercato e stato sociale in un paese dove il profitto viene considerato peccato. Questo, non perché i socialisti fossero più malandrini di altri.

L’oggi è sintetizzato nelle parole di Gherardo Colombo, uno dei protagonisti del pool: “Sono finite le indagini ma non la corruzione. La sfiducia cresce, il tessuto sociale è liso, logoro, consumato”. Nutrita dallo scontro “buoni contro cattivi” la Seconda Repubblica è nata defunta. Servirebbe normalità, la normalità di un paese civile.

Feltri, Mani Pulite “graziò” solo i comunisti: “Chiesi il motivo a di Pietro e lui…” Gabriele Alberti venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Fa bene Vittorio Feltri a ribadirlo anche a trent’ anni dall’inizio di Mani pulite. Il pool che indagò sui partiti poi spazzati via dal ciclone delle inchieste salvò solo l’ allora partito comunista poi Pds. E a tal proposito il direttore editoriale di Libero fornisce anche una rivelazione interessante per mettere a posto le tessere di un mosaico composito. Già, si tratta di una circostanza che i più trascurano, “un particolare su cui tutt’ ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza”. E invece trattasi di un particolare rilevantissimo.

Feltri: Mani Pulite salvò i comunisti. “Di Pietro mi disse…”

Scrive Feltri: “Antonio (Di Pietro, ndr), cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n’era uno che non avesse profittato della mangiatoia; compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l’insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica?”.  La risposta di Di Pietro alla domanda cruda fu attendista “Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai“.

Feltri: “Il Pds si accomodò al governo”

Sappiamo come sono andate le cose. Mentre il pentapartito fu spazzato via, “il Pds si accomodò al governo”. La conclusione a cui è giunto Feltri è la seguente: gli ex comunisti furono risparmiati dalla ventata di Tangentopoli “per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti”. Un solo esempio, ricorda Feltri: ” Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure”. Ebbene, si arrivò a una bizzarra conclusione delle indagini: “nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono”. Sprizza indignazione il direttore di Libero: “Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo”. 

“Un particolare su cui tutt’ora si sorvola”

Feltri già si è scusato qualche giorno fa per avere all’epoca cavalcato l’onda di Tangentopoli, che lui ha definito una “strage degli innocenti”, per i risvolti giustizialisti e la furia manettara che palesò . La sua lettura trova conferma nelle rivelazioni di qualche giorno fa di Cirino Pomicino. Ossia la volontà di voltare la pagina politica verso sinistra a determinata con l’appoggio dei grandi gruppi industriali. L’ex  ministro Dc ha rivelato  come dietro la rivoluzione giudiziaria che azzerò la politica italiana ci fosse uno schema ben preciso. L’establischment industriale disegnò un vero e proprio disegno politico: virare a sinistra, cambiando lo schema precedente. Fu De Benedetti, mesi prima che scoppiasse mani Pulite a farglielo capire in un colloquio riservato. Ora si capiscono tante cose. Fa bene Feltri a rammentare che l’esclusione dei comunisti dalle indagini di Tangentopoli non può essere derubricato a particolare insignificante. 

"Perché la magistratura ha graziato i comunisti": Mani Pulite, Vittorio Feltri e una sporca verità sui compagni. Vittorio Feltri su Mani Pulite: "Perché la magistratura ha graziato i comunisti". Libero Quotidiano il 17 febbraio 2022.

Oggi è il 17 febbraio e Vittorio Feltri, direttore di Libero, dedica il suo video editoriale al 30esimo anniversario dell'inizio di Mani Pulite. "Fu un episodio piuttosto importante per la vita del nostro Paese", dice Feltri facendo notare che "si dice che quella inchiesta abbia fatto piazza pulita di tutti i politici corrotti. Ma non è del tutto vero". E spiega: "Il finanziamento ai partiti era illegale per cui erano quasi costretti a rubacchiare qua e là. C'è da chiedersi come mai il pentapartito che all'epoca governava non avesse cercato di legalizzare il finanziamento ai partiti". Ma soprattutto, fa notare il direttore, "di tutta la vicenda di Mani Pulite ho potuto constatare che tutti i partiti furono spazzati via, la Democrazia Cristiana, il partito socialista, i socialdemocratici, i repubblicani e persino i liberali. Solo uno riuscì a sopravvivere: il vecchio partito comunista che nel frattempo aveva cambiato nome, ma solo il nome". "Come mai si è salvato", chiede provocatoriamente Feltri. "Il sospetto può essere uno: la magistratura ha favorito un partito che, secondo Antonio Di Pietro che lo disse a me personalmente, era coinvolto come tutti gli altri nella spartizione del denaro sgraffignato". "Dicono i magistrati che furono trovate delle prove", continua Feltri, "ma in realtà le prove non le hanno mai cercate, mentre per gli altri partiti le hanno cercate e le hanno trovate per poi fare quel massacro che tutti sappiamo". Conclude Feltri: "Noi vogliamo solo sapere come mai la magistratura era tanto affezionata e voleva tanto bene al partito comunista". 

Mani Pulite, l'affondo di Vittorio Feltri: "L'unico tabù del pool furono i comunisti. E chissà perché..." Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 18 febbraio 2022

A trenta anni dall'inizio di Mani pulite, la famosa o famigerata inchiesta che ha frantumato la Prima Repubblica, c'è ancora qualcosa che non è stato detto ad alta voce. E non riguarda una mia idea bislacca, ma una realtà evidente, come dire che il mare è salato. Il pentapartito, che all'inizio degli anni Novanta era la maggioranza di Governo, fu completamente massacrato da Di Pietro e soci togati. Il povero e rimpianto Citaristi, segretario amministrativo della Dc, fu messo in croce: gli rifilarono un numero spropositato di avvisi di garanzia, relativi al reato di finanziamento illegittimo, tale da costituire un record mondiale. A lui, che era ricco di suo, e non aveva certo bisogno di incassare tangenti. Ma allora questi erano considerati dettagli ininfluenti. Egli pur essendo persona specchiata fu trattato quale delinquente incallito. Poi la faccenda si chiarì, ma intanto il mio concittadino bergamasco per lungo tempo rimediò una figuraccia, per quanto immeritata. Di Craxi, la Malfa ed altri personaggi schiaffeggiati dalla magistratura sappiamo tutto, incluse le persecuzioni di cui furono vittime.

C'è solo un particolare su cui tutt' ora si sorvola, quasi fosse una sciocchezza. Antonio, cioè il Pm paragonato alla Madonna, era mio amico e mi confidò che alle ruberie partecipavano tutti i politici, chi più e chi meno. I partiti erano coinvolti nella spartizione delle bustarelle, non ce n'era uno che non avesse profittato della mangiatoia, compreso il revisionato Pci, che aveva cambiato l'insegna a Botteghe oscure, ma i suoi costumi non erano mutati. Dissi a Di Pietro: come mai voi della Procura avete finora distrutto tutte le forze politiche tranne quella di ispirazione sovietica? Lui mi rispose: tempo al tempo, arriverà anche il loro turno. Che invece non giunse mai. Infatti chi ha buona memoria rammenterà che mentre il pentapartito fu sgominato e finì in galera, il Pds si accomodò al governo.

Io, persona semplice, pensai e penso tuttora che i compagni furono risparmiati, pur avendo incassato denaro sporco, per il semplice e drammatico motivo che essi erano amici della Procura di Milano dalla quale furono protetti. Un solo esempio. Si accertò che una mazzetta gigante, un miliardo e 300 milioni, sganciata dalla Montedison, fu recapitata a Botteghe Oscure. Una prova inequivocabile che anche i rossi amavano i soldi in nero. Alla conclusione delle indagini, nessuno fu incriminato perché non si era capito in quali mani i quattrini fossero andati. Cosicché i capi della sinistra si salvarono. Se questa non è una schifezza io sono Giulio Cesare. Trattasi di una storia che autorizza a sospettare che i comunisti e i magistrati erano culo e camicia. Ed è meglio ricordarlo.

"Così il Pci ha approfittato di Tangentopoli..." Edoardo Sirignano il 25 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Enzo Carra, protagonista dell'arresto più celebre di Mani Pulite, ribadisce come il giustizialismo di quel periodo storico servì a cancellare solo una parte di storia politica del nostro Paese.

“Il Partito Comunista approfittò di quel periodo per rigenerarsi”. A rivelarlo è Enzo Carra, già portavoce della Democrazia Cristiana e protagonista dell’arresto più celebre di Mani Pulite, a margine di un convegno sull’anniversario di Tangentopoli, che ribadisce come il giustizialismo di quel periodo, nei fatti, è servito a cancellare una parte di storia del nostro Paese.

Che ricordo ha di quegli anni?

“E’ stata una fase in un certo senso rivoluzionaria. Tutti quanti, politici, partiti, magistratura e giornalisti, avevano perso un po' la testa. Ciò non vuol dire impazzire, ma che alcuni credevano davvero nella possibilità di un processo rigeneratore. Altri, invece, inerti, mi riferisco ai politici, cercavano di frenare, ma quando uno corre come un ossesso è difficile stopparlo. C’è stato, quindi, uno scontro violento. E’ chiaro, però, che chi andava a piedi non poteva sconfiggere carrarmati possenti, come quelli di una certa magistratura”.

Non sono stati, quindi, tempi semplici?

“A trent’anni di distanza, avendola conosciuta bene quella stagione e sulla mia pelle, non come altri, posso dire che non è stata una passeggiata, né per una parte, né per l’altra. Insistere su quel periodo come se fosse ancora pagina a parte della storia italiana è un errore. Ancora non abbiamo, direbbe qualcuno più saggio di me, storicizzato quella stagione, frutto di difficoltà, paura, terrore, assassini e criminalità”.

Da cosa ritiene sia venuto fuori tutto ciò?

“Mani Pulite non è sbocciata come un fiore nel deserto o un veleno, ma è stata generata dalla grande paura, dal degrado che c’era stato in precedenza nel nostro paese e che in molti avevano ignorato”.

Chi è stato più penalizzato?

“Le parti politiche più colpite sono state quelle che avevano ancora qualche carta da spendere ed erano i socialisti, che avevano il problema Craxi e una certa parte della Dc”.

Possiamo, quindi, dire che i Ds allora furono risparmiati dai giudici?

“Ho rivisto tutte le carte. I Ds già avevano messo in conto l’esigenza di cambiare. Non erano più il partito comunista di un tempo. Non dimentichiamo che Mani Pulite avviene a ridosso della caduta del muro di Berlino, avvenimento di cui si sono accorti in pochi. Anzi tutti hanno finto che fosse successo niente per continuare un po'. Questo è stato il guaio. Tutto ciò, quindi, è stata una riscossa per il Partito Comunista che ha trovato una via d’uscita. Diciamo che ha approfittato di quel periodo per rigenerarsi”.

Quali sono state le conseguenze?

“L’Italia, quando è scomparsa la Dc, che metteva insieme la tradizione dei cattolici, ha perso un pezzo della sua storia”.

Una certa magistratura, però, ancora oggi tende a cancellare chi la pensa in modo diverso, come accaduto prima con Berlusconi, poi con Renzi, Salvini…

“Stiamo parlando di parti in conflitto tra loro. Non sempre la politica ha dimostrato di saper combattere ad armi pari con la magistratura. Un dibattito come quello dell’altro ieri al Senato che ha votato non per Renzi, ma a favore della politica, della democrazia, può essere la strada. Si tratta di un caso sintomatico di come spezzettando i problemi a volta la stessa politica sbaglia. Sul singolo episodio chi dice che il magistrato non possa aver ragione”.

Da Tangentopoli a mafiopoli: la lunga egemonia dei pm. Cicchitto, Gargani, il pg Marino e Sansonetti ricordano gli anni di Tangentopoli: fu un blitz contro i partiti ordito dai poteri forti con giornali e toghe. Valentina Stella su Il Dubbio il 25 febbraio 2022.

«Il dibattito finora svolto per il trentennio di Mani pulite è caratterizzato da un livello elevato di mistificazione. È stato cancellato il fatto che il finanziamento irregolare dei partiti ha visto come originari protagonisti i padri della patria, da De Gasperi a Togliatti, a Nenni, a Saragat, a Fanfani. Era un finanziamento che proveniva dalla Cia e dal Kgb e da una serie di fonti interne, dalla Fiat alle cooperative rosse, alle industrie a partecipazione statale. Il partito diverso dalle mani pulite di cui parlò Enrico Berlinguer era un’assoluta mistificazione». Partiamo dalle conclusioni di Fabrizio Cicchitto per darvi conto del convegno “A Trenta anni da Tangentopoli e da Mafiopoli – Ruolo politico anomalo della magistratura non in linea con la Costituzione per configurare una fantomatica Repubblica giudiziaria”, organizzato dal Centro Studi Leonardo Da Vinci e dall’Associazione Riformismo e Libertà, e moderato dal nostro direttore Davide Varì.

Secondo Cicchitto «molto prima di Forza Italia, e ovviamente in termini del tutto rovesciati, il primo partito- azienda è stato il Pci. Tutti sapevano tutto, compresi i magistrati e i giornalisti. Don Sturzo ed Ernesto Rossi fecero denunce assai precise: rimasero del tutto inascoltati. Poi con il 1989 c’è stato il crollo del comunismo e, con il trattato di Maastricht, il sistema di Tangentopoli è diventato antieconomico. In uno Stato normale, quel sistema avrebbe dovuto essere smontato con un’intesa fra tutte le forze politiche e la stessa magistratura, invece è avvenuto il contrario. I poteri forti hanno deciso di smontare il potere dei partiti, in primo luogo quello della Dc e del Psi».

Ad aprire i lavori della conferenza Giuseppe Gargani, avvocato ed ex parlamentare europeo, che ha iniziato soffermandosi proprio sulla stagione di Mani Pulite: «Oggi riteniamo di poter pretendere una risposta sul perché vi furono iniziative giudiziarie che non si svolgevano nelle sedi riservate, sacrali della giustizia, ma richiedevano il consenso di interi settori dell’ opinione pubblica. Tanti cittadini si riunivano davanti ai tribunali per osannare gli eroi che mettevano alla gogna i politici, praticando un metodo che non ha precedenti nella storia repubblicana. Noi non chiediamo inchieste parlamentari: chiediamo, come ho fatto per tanti anni, un confronto con i principali protagonisti di quel periodo, per un esame di coscienza critica e per riconoscere responsabilità colpose o dolose di ciascuno, la politica, la giustizia, i magistrati, l’informazione, per riconoscere le degenerazioni derivanti dal potere di supplenza che la magistratura accentuò in maniera vistosa in quel periodo».

Allora vi fu «un disegno strategico, ebbe a dire un senatore di grande spessore come Giovanni Pellegrino, che aveva come obiettivo una posizione di primato istituzionale della procura della Repubblica e quindi della magistratura inquirente. Il pubblico ministero aveva solo funzioni di giudice etico, di far vincere il bene sul male, che riscatta la società, punisce in maniera emblematica il male ed esaurisce nell’indagine la fase giurisdizionale che ha bisogno del processo».

A Gargani è seguito Raffaele Marino, sostituto procuratore generale presso la Corte d’Appello di Napoli, a cui è stato chiesto se ai tempi di Tangentopoli vi sia stata una torsione del diritto: «Davigo non rappresenta la magistratura, nel senso che le sue idee sono le sue idee, non sono le idee della magistratura, dico io per fortuna. Io ho vissuto Tangentopoli come gip: ricordo che c’era l’avvocato Taormina, che girava per le carceri a chiedere ai giudici che cosa dovesse dire il suo assistito perché potesse essere liberato. Questo era, diciamo, il clima dell’epoca».

Il direttore del Riformista, Piero Sansonetti, si è soffermato sul ruolo della stampa: «Allora i giornali lavorarono in maniera unificata: Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Vi posso raccontare il giorno in cui arrivò il decreto Conso che depenalizzava il finanziamento dei partiti. Io ero all’Unità. Arrivò un editoriale di Cesare Salvi, molto favorevole al decreto. Poi la sera ci fu come al solito la consultazione fra i direttori verso le sette e si decise di buttare a mare il decreto. Fu cambiato l’ editoriale dell’Unità, fu fatto un editoriale contro il decreto. Il giorno dopo tutti i giornali uscirono contro il decreto e a mezzogiorno Scalfaro annunciò che non avrebbe firmato il decreto. Esso non cadde per l’opposizione politica, cadde per l’opposizione dei giornali. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle». Tutto il dibattito e gli interventi degli altri numerosi ospiti si possono riascoltare su Radio Radicale.

Mani Pulite, Sallusti: “C’era un patto. I giornalisti concordavano le prime pagine. Ma su Greganti”…Redazione venerdì 18 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Sallusti conferma: è vero. C’era un patto fra direttori negli anni di Mani pulite: concordavano le prime pagine. E aggiunge addirittura che in quel periodo si crearono persino due pool di testate e giornalisti: uno di serie A e uno da girone minore. E, soprattutto, guardando a ritroso rilancia: «è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti. E in quel momento che i cronisti– ricostruisce il direttore di Libero – divennero gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali»…Quella in corso in quegli anni di rivolgimenti e dramma, fu una vera caccia all’ultimo scoop. Una guerra spietata tra le testate – dai direttori in giù – per carpire l’ultimo dato e aggiornare il bollettino delle vittime. Poi divenne impossibile tenere quel ritmo e continuare su quel crinale: e si dichiarò una tregua. Descrive così Alessandro Sallusti all’Adnkronos, l’atmosfera e il modus operandi di quegli anni: quasi come un’ossessione, l’estenuante ricerca di nomi e notizie dell’ultimo minuto. Un incubo in cui si erano infilati i giornalisti nelle anni di Mani Pulite, pronti a «scannarsi per un nome in più o uno in meno». Fino a ritrovarsi in un incubo insostenibile… 

Mani Pulite, Sallusti conferma: il patto fra direttori? C’era eccome

«Sì, si era creato un pool di direttori, che avevano, ovviamente, i loro capiredattori. I loro terminali interni. E si coordinavano per i titoli e le prime pagine». Così Alessandro Sallusti, conferma all’Adnkronos l’esistenza del cosiddetto “patto fra direttori” negli anni di Mani Pulite. «Però attenzione allo scambio di carte», racconta direttore di Libero, che in quegli anni era caporedattore centrale del Corriere della Sera: «Ci sono state due fasi. All’inizio c’era la guerra, nel senso che si faceva a gara per avere l’esclusiva. Ogni giorno era un bollettino, ogni giorno c’era l’elenco degli indagati, degli arrestati, e così via. Inizialmente fra i giornali, che allora si vendevano, c’era una concorrenza spietata. Questa gara portò sostanzialmente a uno sfinimento quasi fisico dei partecipanti. Era diventato un incubo. Un’ossessione. Non si mollava mai la presa. Ricordo che è ad un certo punto il segretario di redazione del Corriere mi disse “Alessandro, hai battuto il record di permanenza consecutiva al giornale: 136 giorni senza mai staccare un giorno”. Ma non ero l’unico, ovviamente»…

«Si crearono due pool tra le testate giornalistiche: uno da Champions League e uno minore»…

Poi, prosegue Sallusti, «a un certo punto, almeno secondo la percezione con cui io l’ho vissuto, si è detto basta. La vita era diventata impossibile. E anche la professione. Tutte le notti svegli fino alle due a correre nelle edicole notturne, era diventato un incubo. E allora si dichiarò tregua. Invece di stare a scannarci per un nome in più o uno in meno, ci si metteva d’accordo scambiamoci le informazioni. E sostanzialmente – rammenta Sallusti – si crearono due pool. Uno da Champions League, diremmo oggi, formato da Corriere della Sera, Repubblica e Stampa, che al suo interno era mediato dall’Unità che triangolava tra Corriere e Repubblica, che anche per una questione di stile non si parlavano direttamente. E poi c’era un altro pool, diciamo minore, formato, se non ricordo male, da Messaggero, Avvenire e Giorno. Questi due pool erano in concorrenza fra loro, ma all’interno di ogni poll c’era un patto. Ovviamente il patto fra Corriere, Repubblica e Stampa aveva una valenza giornalistica e anche politica».

Sallusti: «Così i giornalisti diventarono gli addetti stampa delle Procure»…

E allora, continua la sua ricostruzione Sallusti: «Verso le cinque o le sei del pomeriggio, quindi prima di iniziare a pensare alla prima pagina, c’era questo scambio di telefonate per chiedere quello che si sarebbe fatto il giorno dopo. Che cosa si pensava e così via. Poi si arrivava anche a informarsi reciprocamente del titolo in maniera letterale. Ma non era tanto una questione di titolo letterale, ma di dire “oggi si va addosso a Tizio, domani a Caio”. E questo era un lavoro che avveniva quotidianamente: non c’è il minimo dubbio. Nessuno può smentirlo”. “E comunque sì, si può dire anche che il ruolo del giornalista fu quello di fare il passacarte della procura – sottolinea Sallusti -, si sperimentava non solo un nuovo modo di fare le inchieste giudiziarie, ma anche un nuovo modo di fare il giornalismo. Fino a quel momento tirare fuori una carta delle procure era impensabile. Ed è lì che nacque la “giustizia spettacolo”. Lì nacque il patto fra procure e giornalisti, ma non nacque perché ci fu una riunione per deciderlo, nacque. Ed è ovvio che tra il furore cieco dell’opinione pubblica, tra i giornali che ogni giorno vendevano 10mila copie in più, fra l’ebrezza di partecipare a un’impresa, si è diventati, non per scelta, gli addetti stampa delle procure. E se qualcuno non assecondava il pool, addio notizie e addio verbali».

«Ma quando mi venne cassato il titolo su Primo Greganti, cassiere del Pds, indagato…»

E ancora: «Quando tu per giorni fai titoli “indagato Craxi”, “indagato Forlani”, e così via. Poi a un certo punto, per sbaglio, le procure mettono gli occhi su Primo Greganti, cassiere del Pds, e io faccio il titolo “indagato il cassiere del Pds”, e mi viene cassato perché non si poteva fare: allora lì cominci a chiederti “ma com’è questa storia?“. E quindi poi maturano certe considerazioni e certe scelte»… E a tal proposito, Sallusti con l’Adnkronos conclude la sua disamina soffermandosi su quanto scritto oggi dal direttore del Fatto Quotidiano, Marco Travaglio. Secondo il quale «quella del 1992-’93 fu una rara parentesi di normalità nel Paese di Sottosopra che, prima e dopo, ha sempre confuso le guardie con i ladri, i giornalisti con i leccaculo». «Diciamo che i giornalisti alle procure da quel periodo in poi hanno leccato il culo a lungo – chiosa Sallusti –. E qualcuno lo fa ancora adesso in maniera totalmente acritica e omertosa. Quindi sì: Travaglio ha ragione. Talmente ragione che siamo ancora in una stagione di giornalisti leccaculo. Solo che adesso lecchiamo il culo alle procure. Ora non so se il culo delle procure è più profumato del culo di qualcun altro, ma sempre culo è…».

"Il pool non toccò i Ds perché aveva bisogno di un sostegno politico". Francesco Boezi il 22 Febbraio 2022 su Il Giornale.

L'ex pm di Mani pulite: "Io avrei dovuto essere il trait d'union, ma non ho accettato".

L'avvocato Tiziana Parenti, l'ex pm e parlamentare soprannominata «Titti la Rossa», ricorda il sostegno dei Ds a Mani Pulite, «l'imprevisto» Berlusconi ed i motivi per cui decise di lasciare.

Come mai soltanto alcune forze politiche vennero defenestrate?

«L'interrogativo su cui ancora oggi ci si interroga per cui tutti i partiti di governo furono travolti da Mani Pulite e in primis il PSI e la DC, quest'ultima seppure con i dovuti distinguo, mentre rimase fuori dalla tempesta il PCI -PDS, ad eccezione di alcune posizioni per responsabilità personale, si può risolvere solo se pensiamo alle contingenze politico-economiche e alla fine del comunismo che ormai rendeva accettabile, anche oltre Oceano, come referente l'ex Pci, ormai PDS».

Lei avrebbe voluto indagare sui Ds ma qualcuno la fermò?

«È pacifico, solo se si rileggono i giornali dell'epoca che, il PDS, dopo un momento iniziale di esitazione, appoggiò in toto, sul piano politico, Mani Pulite. Al tempo stesso Mani Pulite aveva bisogno, secondo le stesse parole di D'Ambrosio, di avere una forza politica, che fosse stata forza di governo, che li appoggiasse a prescindere da se, come e quanto anche questo partito avesse partecipato al finanziamento illecito o tangentizio, che di sicuro, almeno per una buona parte degli anno ottanta, si era svolto in modo diverso dagli altri partiti».

In che senso ne «aveva bisogno»?

«Perché, a prescindere dalle simpatie politiche di alcuni e non certo di tutti i componenti del pool, un'operazione del genere ed una loro conquista diretta del potere non sarebbe stata possibile senza l'appoggio di un grande partito popolare che comunque sarebbe restato sotto scacco proprio perché salvato».

E lei?

«Avrei dovuto essere lo strumento dell'operazione e questo non l'avevo capito in perfetta buona fede all'inizio. Ho ritenuto che il mio compito fosse quello di un normale Pm che svolge le sue indagini. Ma non era questo che mi si richiedeva. Quando ho avuto chiara la situazione, non ho lasciato equivoci circa il fatto che o mi veniva ritirato l'incarico o non potevo fare altro che andare avanti secondo i miei doveri, a prescindere e magari anche contro le mie idee».

C'è chi pensa che l'obiettivo del pool non fosse la rivoluzione.

«Che cosa perseguisse il pool non lo so e neppure so su quali basi potesse ritenere di conseguire il risultato di andare al potere. Ho l'impressione che non si sia mai detta la verità da parte di tanti soggetti e non solo del pool».

Poi arrivò la discesa in campo di Silvio Berlusconi...

«Di certo Berlusconi è stato l'imprevisto che nessuno aveva calcolato ma che nelle pianificazioni della strategia politica sempre dovrebbe essere calcolato. Il fatto è che quella strada era stata fin troppo liscia, solo se si pensa che in due anni scarsi è stata distrutta una classe politica, che pur con tutti i torti e peccati ha reso questo Paese ricco, libero e sicuro. L'unico che ha avuto il coraggio di impersonare questo imprevisto è stato Berlusconi».

Craxi, Berlusconi e oggi Renzi. Siamo alle solite?

«Con Berlusconi e la lunga sequenza dei processi a suo carico, poi finiti nel nulla con una sola eccezione che peraltro nulla aveva a che fare con la sua attività politica, inizia una nuova epoca che in qualche misura resiste come nel caso di Renzi. Ma questi scontri non sono più contro un intero sistema come all'epoca, ma sono contro la singola persona».

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la 

La “confessione” del compagno Ranieri ignorata da giornali e politica. Lo storico dirigente del Pds riconosce la deriva giustizialista ai tempi di Tangentopoli. Ma nessuno (o quasi) se n'è accorto...di Francesco Damato su Il Dubbio il 22 febbraio 2022.

Umberto Ranieri, storico dirigente napoletano del Pd, cinque volte deputato, una volta senatore, tre volte sottosegretario agli Esteri, un migliorista a 24 carati di quello che fu il Pci, ha scritto per Il Mattino una lunga, onestissima e sotto molti aspetti inedita “riflessione” su Mani pulite da lui vissute non certo come un passante.

Riconosciuto ad Enrico Berlinguer il merito di avere sollevato per primo la cosiddetta questione morale denunciando l’esorbitante spazio occupato dai partiti in una situazione bloccata dalla mancanza di alternative agli equilibri politici formatisi a livello sovranazionale dopo la seconda guerra mondiale, Ranieri ha contestato all’allora popolarissimo segretario del Pci di non avere praticamente fatto nulla per andare oltre alla denuncia e rimediarvi. All’alternativa da costruire con gli scomodi cugini o compagni socialisti, specie quando Bettino Craxi ne assunse la guida, pur non citati né gli uni né l’altro stavolta da Ranieri, il segretario comunista in effetti preferì il compromesso storico con la Dc. Che pure era la prima beneficiaria del blocco politico in cui l’economia “ampiamente statalistica” la faceva da padrona. E alla cui ombra, tra appalti e simili, si sviluppava la pratica del finanziamento “irregolare” che “in una certa misura riguardava anche il Pci”, per cui “sarebbe una manifestazione di ipocrisia negarlo”, ha scritto Ranieri.

Quando esplose il bubbone con Tangentopoli, Mani pulite e varianti «il Pci/ Pds fornì un acritico sostegno all’azione giudiziaria persuaso che l’attività repressiva potesse favorire quel rinnovamento che non si era capaci di produrre per via politica. Un appoggio – ha insistito Ranieri- che non venne meno neppure di fronte all’emergere di riserve sulla legittimità o correttezza delle modalità operative della procura di Milano», specie con l’abuso delle manette.

«Fu Gerardo Chiaromonte – ha raccontato Ranieri- a denunciare senza incertezze ed esitazioni lo sconfinamento della giurisdizione penale e la messa in mora dei principi di garantismo. Fu un drammatico errore che Gerardo denunciò assecondare gli umori giustizialisti e non prevedere che “gli effetti di un terremoto giudiziario sulla evoluzione del sistema politico avrebbero potuto essere più dannosi che vantaggiosi».

Infatti «all’orizzonte comparve il cavaliere Berlusconi» vincendo le elezioni del 1994 non solo o non tanto per le capacità manipolatrici e di fuoco mediatico attribuitegli dagli avversari quanto perché «in realtà, una parte considerevole degli elettori non ritenne giusto che a essere spazzata via dalle inchieste fosse solo l’area dei partiti di governo, che non corrispondesse alla realtà quella sorta di “univocità di colpa”».

A proposito del tentativo fallito dal governo Amato, col famoso decreto legge del ministro della Giustizia Giovanni Conso, per una uscita cosiddetta politica da Tangentopoli, e non solo giudiziaria o manettara, Ranieri ha scrupolosamente testimoniato, da deputato qual era a quei tempi, che la Commissione degli affari costituzionali della Camera se n’era già occupata convenendo con un complesso di «sanzioni amministrative e pecuniarie per l’illecito finanziamento dei partiti, e clausole che comportavano insieme alla confessione l’uscita dei responsabili del reato dalla vita politica». «Altro che colpo di spugna», ha scritto Ranieri aggiungendo che «furono il pool di Mani Pulite e l’Associazione nazionale dei magistrati a impedire che si adottasse il provvedimento» varato da governo «minacciando fuochi e fiamme e intimorendo il presidente Scalfaro, che rifiutò di firmare il decreto».

Di fronte ad “una politica rimasta debole”, che “ha continuato a subire negli anni successivi un forte condizionamento da parte del potere giudiziario”, per cui “non si è riusciti a ripristinare rapporti di maggiore equilibrio istituzionale”, i referendum sulla giustizia appena ammessi dalla Corte Costituzionale “forse aiuteranno il Parlamento a misure di modernizzazione del sistema giudiziari”, ha scritto Ranieri esortando a “impegnarsi perché accada”.

Ebbene, sapete dove Il Mattino ha pubblicato domenica questa pò pò di riflessione, testimonianza e quant’altro? A pagina 43, senza un rigo – dico un rigo – di richiamo in prima pagina. Dove invece si è preferito il richiamo che meritava, per carità, ma non meno dell’articolo di Ranieri, il drammatico ricordo del suicidio del padre e parlamentare socialista bresciano Sergio Moroni da parte della figlia Chiara: un dramma che senza la “riflessione” di Ranieri non si potrebbe certo valutare appieno.

Ma ieri, lunedì, non so per caso o per una qualche graduatoria politica, ho trovato sulla prima pagina dello stesso Mattino il giornale al cui allora direttore Giovanni Ansaldo chiesi e ottenni da studente universitario di scrivere, vedendomi commissionare un bel pò di recensioni di libri politici- il richiamo in prima pagina di un’intervista di Luciano Violante in cui si dà “ragione a Craxi”. Ma allora cosa avrà mai fatto Ranieri al Mattino, mi chiedo cogliendo l’occasione per attribuire anche a noi giornalisti la responsabilità della crisi della politica.

Le tensioni sulla scuola rischiano di degenerare: qualcuno strumentalizza i nostri figli. Francesco Storace su Il Tempo il 19 febbraio 2022

In campana, che ci si fa male. La protesta degli studenti rischia di degenerare, il fuoco della contestazione a tratti violenta divampa, occhio che se non si pone un argine crolla tutto e diventa davvero difficile ricostruire. Tra Napoli, Palermo Milano, Roma e soprattutto Torino ieri si sono registrate tensioni di cui non si sentiva la mancanza, finanche con aggressioni a danno di poliziotti e carabinieri chiamati a garantire la sicurezza di tutti. C'è un diritto a manifestare che non si può mettere in discussione; ma c'è anche il dovere di contrastare ogni tipo di strumentalizzazione. E quando - come ha detto il sottosegretario all'istruzione Rossano Sasso - si urlano «slogan che richiamano apertamente gli anni di piombo», si rompe ogni dialogo possibile. La violenza è inaccettabile. A Torino sei carabinieri e un funzionario di polizia sono stati aggrediti in maniera selvaggia, a bastonate e a pietrate. Anche questo spettacolo non lo si vedeva da tempo. Le forze dell'ordine erano schierate a difesa di un obiettivo di altri tempi, nella Torino operaia: la Confindustria, con il tentativo di un gruppo di giovani di forzare i cancelli di ingresso della sede dell'organizzazione. Poco prima un lancio di uova riempite con vernice rossa aveva imbrattato la facciata dell'edificio.

È impossibile non risalire con la memoria a quegli anni terribili della violenza - e poi del terrore - contro i luoghi simbolo. La polizia. I «padroni». I cosiddetti nemici del popolo colpiti dagli studenti. Che cosa c'entra tutto questo con le rivendicazioni dei nostri figli? Chi li spinge a quel tipo di assalti? Chi ordina loro di aggredire poliziotti e carabinieri? Domande obbligate, perché è impossibile immaginare che quei ragazzi abbiano organizzato da soli tutto quel gran casino. La protesta studentesca ha messo nel mirino l'alternanza scuola lavoro e il ministro Pietro Bianchi. Il che ci può sicuramente stare, soprattutto di fronte alle tragedie dei giorni scorsi e due ragazzi morti. Ma se la rabbia sfocia nella violenza contro obiettivi così precisi, diventa impossibile non ripensare proprio a quei terribili periodi e auspicare che non ci sia la stessa sottovalutazione di allora ai primi episodi da parte dello Stato.

È un clima che si sta intossicando, che inevitabilmente si intreccerà con le tensioni sociali in arrivo. Ora che la pandemia pare volgere al termine, non saranno più i no-vax a creare allarme nelle piazze. Agli studenti si uniranno quanti temeranno per i posti di lavoro se non si riuscirà per davvero a intercettare la ripresa di cui tanto si parla senza ancora vedere i risultati promessi. E lo stesso Draghi rischia di diventare il bersaglio della contestazione: perché è il suo governo a dover portare l'Italia fuori dalla crisi che viviamo. L'investimento nella scuola deve essere considerato prioritario, così come quello sul lavoro. L'illusione assistenzialista deve lasciare il passo a politiche di sviluppo reale. Se tutto rimane come ora, l'avrà vinta chi soffia sul fuoco della protesta.

Il cattivo esempio. Redazione il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Gli studenti si sono messi a manifestare e ad occupare scuole. Niente di nuovo sul fronte occidentale. Per due anni li abbiamo chiusi a casa, costretti alla didattica a distanza, colpevolizzati per la movida, abbiamo impedito loro di fare sport, stare all'aperto e, invece di urlare per come abbiamo trattato le loro giovani libertà, manifestano contro l'alternanza scuola-lavoro. Viene da pensare che abbiamo perso una generazione. Poi, però, ascolti le loro rivendicazioni: «Nessuno di noi morirà più al servizio dei padroni». A cui segue la richiesta che gli stage siano retribuiti. E allora capisci tutto. Sono semplicemente i figli - poco originali - di quelli che hanno sempre gridato al «padrone»: sembrano usciti da un film di Nanni Moretti, invece al massimo hanno giocato a Fortnite.

È dunque il solito gruppo di ideologizzati, una minoranza degli studenti, che non sanno quello che dicono, ma sanno bene cosa vogliono: fare nulla ed essere pagati dalla collettività. Il problema è che oggi rischiano di essere accontentati. Chiedono il «reddito di formazione». Se solo studiassero, saprebbero quanto costano alla collettività e che l'alternanza scuola-lavoro esiste in tutti i Paesi civili. Può essere migliorata, senza dubbio. Nei Paesi anglosassoni è volontaria, è tipica del percorso educativo di ogni famiglia, indipendentemente dal censo. Nei Paesi continentali è invece regolata dallo Stato, con accordi fatti con i privati, e, come tutte le procedure burocratiche, essa non si sottrae a quella ineludibile legge: rispettiamo l'obbligo che ci impone la norma, senza però crederci davvero.

Ci sono centinaia di straordinari esempi di «alternanza» e altrettanti non funzionanti. La critica studentesca sarebbe sacrosanta se poggiasse sul suo miglioramento e non sulla richiesta di una retribuzione. Gli esempi migliori di queste esperienze rappresentano un costo per le aziende che li mettono in piedi. Un costo ragionato per formare i propri dipendenti del futuro.

In un mondo normale, vogliamo esagerare, si paga per stare in bottega e imparare un mestiere. Vaglielo a spiegare oggi ai giovani studenti gné gné che manifestano insanguinati o che chiedono il «reddito di formazione». Certo, in un Paese che ha speso 20 miliardi di reddito di cittadinanza e ha incluso tra i percettori anche i ventenni, beh in un Paese di questo tipo è del tutto evidente che la politica solletichi la presunzione che tutti abbiano diritto ad un reddito senza fare un accidenti.

Figuratevi un po' voi se a questi poveri disgraziati si imponga di «fare le fotocopie o portare il caffè». «Dov'è la nostra dignità?», si chiedono retoricamente in piazza. Invece pretendere un reddito di formazione o cittadinanza, è forse più dignitoso?

Tommaso Biancuzzi, ecco chi è il nuovo Mattia Santori della sinistra. Francesco Curridori il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi, è l'astro nascente della sinistra, un ragazzo che mediaticamente sta rubando la scena al leader delle Sardine.

Per ogni stagione politica, la sinistra trova il suo eroe. Se il governo giolloverde ha visto la nascita del fenomeno delle sardine con Mattia Santori capo-popolo, quello di Mario Draghi deve vedersela con Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi.

È lui il giovane della provincia di Padova che si è fatto paladino della battaglia contro gli scritti alla prova di maturità. "Vogliamo un elaborato scritto da presentare oralmente, preparato coi docenti, interdisciplinare e che vada oltre i programmi", ha detto a Repubblica il leader del sindacato dei ragazzi delle superiori che raccoglie 10mila iscritti. E così, dopo aver criticato il governo per l'eccessivo uso della Dad, ora gli studenti si lamentano perché non possono avere “la pappa” preparata insieme ai docenti. D'altronde l'obiettivo dichiarato di Biancuzzi è quello di “liberarci del fardello di una scuola gentiliana".

Ovviamente il novello Santori è un antifascista doc che il 17 ottobre scorso ha partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Cgil dopo l'assalto di Forza Nuova.“Era importante esserci. Noi c'eravamo. Studentз e antifascistз, sempre”, ha scritto nel suo profilo Facebook. Ovviamente, in ogni suo post, non manca mai la schwa, neutra, non-binaria e inclusiva. Insomma, Biancuzzi sembra avere tutte le caratteristiche del prototipo dell'attivista amante del politicamente corretto, assiduo frequentatore delle manifestazioni pro Lgbt. Il Ddl Zan, però, è solo un lontano ricordo, mentre l'esame è alle porte. Il principale avversario è il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, reo di “raccontarci che va tutto bene, che è tutto tornato alla normalità e che ci siamo lasciatз la pandemia alle spalle”. Ma non solo. “Tommy”, come viene chiamato il nuovo barricadero della sinistra, sta spopolando, con interviste e articoli, su tutti i giornali “amici”: da Left a L'Espresso, da Repubblica al Manifesto.

Il giovane rivoluzionario rosso, partito dal Veneto leghista, in queste ultime settimane si è mobiliato anche contro l'alternanza scuola-lavoro, ribatezzata Pcto e, all'inizio di dicembre, ha partecipato anche a un evento del Pd. “Più di 40 interventi tra associazioni, amministratori, parti sociali, cittadine e cittadini. Dobbiamo raccogliere l’invito di Andrea Riccardi ad aprire un processo per sviluppare la politica dove hanno vinto i partiti della rabbia e della paura”, ha scritto Biancuzzi, orgoglioso di aver preso parte a TorBellaMonaca all’Agorà democratica sul tema delle periferie. Chissà se anche lui, come Mattia Santori, nutre il desiderio nascosto di intraprendere la carriera politica.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Da ilgiornale.it il 12 febbraio 2022.

Per ogni stagione politica, la sinistra trova il suo eroe. Se il governo gialloverde ha visto la nascita del fenomeno delle sardine con Mattia Santori capo-popolo, quello di Mario Draghi deve vedersela con Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi. 

È lui il giovane della provincia di Padova che si è fatto paladino della battaglia contro gli scritti alla prova di maturità. «Vogliamo un elaborato scritto da presentare oralmente, preparato coi docenti, interdisciplinare e che vada oltre i programmi», ha detto a Repubblica il leader del sindacato dei ragazzi delle superiori che raccoglie 10mila iscritti. E così, dopo aver criticato il governo per l'eccessivo uso della Dad, ora gli studenti si lamentano perché non possono avere “la pappa” preparata insieme ai docenti. D'altronde l'obiettivo dichiarato di Biancuzzi è quello di «liberarci del fardello di una scuola gentiliana».

Ovviamente il novello Santori è un antifascista doc che il 17 ottobre scorso ha partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Cgil dopo l'assalto di Forza Nuova. «Era importante esserci. Noi c'eravamo. Student? e antifascist?, sempre» ha scritto nel suo profilo Facebook. Ovviamente, in ogni suo post, non manca mai la schwa, neutra, non-binaria e inclusiva. Insomma, Biancuzzi sembra avere tutte le caratteristiche del prototipo dell'attivista amante del politicamente corretto, assiduo frequentatore delle manifestazioni pro Lgbt. 

Il Ddl Zan, però, è solo un lontano ricordo, mentre l'esame è alle porte. Il principale avversario è il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, reo di «raccontarci che va tutto bene, che è tutto tornato alla normalità e che ci siamo lasciat? la pandemia alle spalle». Ma non solo. “Tommy”, come viene chiamato il nuovo barricadero della sinistra, sta spopolando, con interviste e articoli, su tutti i giornali “amici”: da Left a L'Espresso, da Repubblica al Manifesto.

Il giovane rivoluzionario rosso, partito dal Veneto leghista, in queste ultime settimane si è mobiliato anche contro l'alternanza scuola-lavoro, ribatezzata Pcto e, all'inizio di dicembre, ha partecipato anche a un evento del Pd. «Più di 40 interventi tra associazioni, amministratori, parti sociali, cittadine e cittadini. Dobbiamo raccogliere l’invito di Andrea Riccardi ad aprire un processo per sviluppare la politica dove hanno vinto i partiti della rabbia e della paura», ha scritto Biancuzzi, orgoglioso di aver preso parte a TorBellaMonaca all’Agorà democratica sul tema delle periferie. Chissà se anche lui, come Mattia Santori, nutre il desiderio nascosto di intraprendere la carriera politica.

Mortificano le vere lotte femministe, Hoara Borselli all'attacco delle barricate della sinistra per il cognome materno. Hoara Borselli su Il Tempo il 20 febbraio 2022.

 Le frasi e le declinazioni al femminile, gli asterischi, la schwa: per la sinistra le parole sono fondamentali e inclusive, tanto che finisce per perdersi in sterili battaglie ideologiche sulle lettere. L'ultima «conquista» di genere arriva dalle parole pronunciate dal ministro delle Pari opportunità, Elena Bonetti, in un'intervista rilasciata al Corriere il 18 Febbraio, sul provvedimento, in corso di approvazione al Senato, che permetterebbe alle donne di attribuire al figlio il proprio cognome. La Bonetti ribadisce: «Ai figli il cognome della madre. Basta rinviare la libertà delle donne».

Difficile, se non impossibile, trovare un nesso logico tra l'attribuzione del cognome della madre ai figli e la conquista di libertà per le donne. Se il senso delle lotte femministe nostrane per l'emancipazione della donna passa dal nome di appartenenza, è il caso di ricordare loro quali battaglie hanno dovuto affrontare le nostre paladine per portare in dote al genere femminile conquiste come la legge 898 sul divorzio del 1° Dicembre 1970 e la 194 sull'aborto, del 22 Maggio 1978. E poi la riforma dello stato di famiglia, e l'abolizione del reato di adulterio (che era un reato esclusivamente femminile), per non parlare del diritto di entrare in magistratura (1964) e nel governo col rango di ministro (1976). Un tempo le femministe combattevano per ideali concreti per migliorare veramente la condizione della donna. Sessualità, stupro, violenza domestica, costruzione degli asili, erano ciò per cui venivano riempite le piazze con vere rivoluzioni culturali. Oggi quelle stesse femministe, di fronte alla proposta della Bonetti, lancerebbero il loro il fazzoletto rosa al vento, in segno di resa. «La battaglia dei cognomi» può calare un mesto sipario su quello che fu, e aprire scenari desolanti su ciò che sarà. Immersi nella sterile narrazione di un politicamente corretto esasperato, che non consente di parlare delle donne come persone che si possono difendere.

Il MeToo ha consegnato l'immagine del genere femminile come quella di un burattino fragile e senza coraggio. Un femminismo negazionista che per affermare il giusto principio di difesa, di quello che un tempo veniva definito «sesso debole», non ammette riflessioni e tratta le ragazze come esseri inconsapevoli, in balia degli eventi, destinate ad essere dominate dagli uomini. Attribuire ai figli il cognome della madre è veramente la conquista di emancipazione cui si sentiva il bisogno? L'enigma del cognome pone poi un ulteriore quesito sterile: se i genitori non dovessero trovare l'accordo per il nome cosa succede? A questa domanda il ministro Bonetti propone che venga attribuito il doppio cognome in ordine alfabetico, mozione che viene subito rimandata alla mittente nell'intervista in quanto viene fatto notare che in questo modo, tra qualche generazione, i bambini avranno decine di cognomi. La risposta del ministro di IV è degna del miglior Antani di «Amici Miei»: «Innanzitutto non è obbligatorio aggiungere entrambi i cognomi. Si può decidere per uno solo, quello della madre o del padre indifferentemente. Il legislatore cercherà sicuramente di semplificare, ma la semplicità non consiste di certo nell'attribuire in automatico, e sempre, il cognome del padre, come avviene adesso».

Ci troviamo di fronte all'ennesima sterile controversia ideologica di sinistra. Per i democratici, la battaglia contro la nomenclatura parentale diventa una priorità essenziale, riducendo e depotenziando gli argomenti concreti per le donne come le discriminazioni sul lavoro o le adozioni. Al contrario è più proficuo perdersi nel politicamente corretto della linguistica per dare un segnale fatuo di rivoluzione culturale. Pochi giorni fa è stata promossa una raccolta firme «a difesa della lingua nostra» su change.org, dopo che il ministero dell'Istruzione aveva usato la schwa in un documento ufficiale, scatenando una petizione contro il famigerato asterisco in quanto «frutto di un perbenismo, superficiale e modaiolo, intenzionato ad azzerare secoli e secoli di evoluzione linguistica e culturale con la scusa dell'inclusività». Da madre mi sono chiesta se poter attribuire ai miei figli il mio cognome avrebbe legittimato il mio ruolo più di quanto già non lo sia. «No», mi sono risposta, anzi, se sentissi la necessità di vedermi un passo avanti rispetto al padre per sentirmi migliore, vorrebbe dire che il MeToo è stato invasivo nella mia testa più di quanto non lo sia stato un figlio nel mio corpo.   

In Onda, Marianna Aprile smonta il femminismo di facciata della sinistra: figure femminili solo a destra. Il Tempo il 23 gennaio 2022.

Si parla tanto di una candidatura di una donna per il Quirinale, ma poi i buoni propositi restano sempre parole e vengono spazzati via dai fatti. Marianna Aprile, caporedattrice del settimanale Oggi, distrugge la sinistra nel corso della puntata del 22 gennaio di In Onda, programma di La7 condotto da David Parenzo e Concita De Gregorio: “Non solo a destra non voteranno Rosy Bindi, anche a sinistra. Sono abbastanza pessimista che una delle due caselle tra Quirinale e Palazzo Chigi possa essere riempita da una donna. Anche se in questo giro forse qualche profilo davvero votabile ci sarebbe stato. Se le cose sulla riforma della giustizia fossero andate diversamente ad esempio Marta Cartabia avrebbe avuto un curriculum da uomo, passatemi l’espressione. Quindi sufficiente per arrivare al Quirinale. Elisabetta Belloni è altrettanto autorevole e solida come figura ma non come candidatura, visto che le due cose spesso non coincidono. Sia in Europa che in Italia la leadership femminile si forma a destra invece che a sinistra. Se n’è discusso molto quando è stata eletta la nuova presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, abbiamo gioito perché la triade dei vertici europei è tutta al femminile. Ma poi molte sostenitrici della battaglia della parità di genere hanno storto il naso perché è una donna ma non la pensa come loro, sono tutte donne di destra. Il problema è proprio questo, gioire per i progressi che fanno le donne solo se la pensano come me, questo indebolisce molto la faccenda”.

“Il problema vero - continua la Aprile sul fronte Quirinale - è che anche all'interno dei singoli partiti non c'è unione e non c’è capacità dei singoli partiti di orientare il voto di lunedì e dei giorni successivi. Non soltanto a guardare le coalizioni a destra e sinistra. Lo stesso Enrico Letta ha esplicitato la volontà di puntare su Mario Draghi, ma sogna Sergio Mattarella. All’interno del Movimento 5 Stelle una grande fronda non vorrebbe Draghi e ha fatto il nome di Mattarella e poi altri hanno fatto nomi puramente di bandiera. Nel centrodestra non ne parliamo. Draghi potrebbe essere la vittima di una mancanza di capacità politica, più che ci sia l’intenzione di non mandarlo al Colle. Sarebbe la debacle più totale, ci rimettiamo Draghi e ci rimettiamo sei leader dei sei partiti. Dimostrino - chiude la giornalista - di saper fare qualcosa”.

La sinistra fa solo propaganda, il centrodestra continua ad eleggere donne. Francesco Boezi il 23 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Mentre la sinistra fa delle donne una bandiera ideologica, il centrodestra continua ad eleggere, per meriti, esponenti in ruoli apicali. Dalla Metsola alla Meloni: perché la "questione femminile" a destra è già stata superata.

L'elezione di Roberta Metsola, esponente del Partito popolare europeo, a presidente del Parlamento europeo contribuisce a squarciare un velo d'ipocrisia che risultava già di per sé compromesso. Il centrodestra, tanto quello italiano quanto quello continentale, continua, su base meritocratica, a proporre donne per i vertici politico-istituzionali, mentre il centrosinistra ha fatto della "questione femminile" un aspetto puramente propagandistico.

La tendenza diviene evidente, per il Belpaese, con il dibattito attorno alla successione del presidente Sergio Mattarella: il centrosinistra ventila da mesi la necessità di proporre una donna per il Colle ma non fa nomi. Il dibattito verte sul genere ma non su una personalità specifica. E questo contribuisce a rivelare la natura strumentale dell'impostazione del "campo largo" guidato da Enrico Letta, Giuseppe Conte, Roberto Speranza e così via.

"Donna al Colle? Irritante senza nomi". Rivolta rosa nei giallorossi

In merito a tutto questo, si è pronunciato anche il direttore del Tg La7 Enrico Mentana quando, attraverso un post apparso sui social, un ragionamento successivo all'elezione della Metsola, ha posto il tema senza troppi fronzoli. Mentana ha ricordato i casi della Metsola, di Ursula Von der Leyen e di Christine Lagarde. Tre donne molto diverse tra loro per provenienza politica e competenze settoriali ma accomunate dall'essere associabili al centrodestra. La Lagarde è una tecnica, certo, ma è anche stata capo di Dicastero in due governi repubblicani in Francia. Le altre due esponenti politiche, ad oggi, ricoprono due diversi ruoli apicali a Strasburgo e Bruxelles, essendo espressione del Ppe.

Poi c'è lo schema partitico italiano che prevede un solo leader femminile di grande rilievo: Giorgia Meloni che guida Fratelli d'Italia sin dalla sua fondazione e che è arrivata, in specie negli ultimi mesi, a poter contendere il primato elettorale nella coalizione di centrodestra (ma pure rispetto al quadro partitico nel suo insieme). Fatti che lo storytelling progressista non può smentire.

Il dibattito propagandistico per il Colle

Sin da quando si è iniziato a ragionare di chi avrebbe potuto prendere il posto del presidente Sergio Mattarella, il centrosinistra tutto, con consueti toni moralistici, ha decantato la necessità di eleggere una donna. Ipotesi che, in questo momento preciso, appare del tutto archiviata. Giuseppe Conte, il "capo grillino", ha proposto una donna per il Quirinale ma non ha fatto nomi. Massimo D'Alema, attraverso un'intervista al Manifesto, ha detto che i partiti sarebbero dovuti entrare nell'ordine d'idee di avanzare candidature femminili. Ma pure in questo caso non sono emersi nominativi e figure precise. Siamo, insomma, alla pura propaganda fine a se stessa.

"Dire 'una donna al Quirinale' è offensivo. Serve il merito"

La pensa in maniera simile l'onorevole Erica Mazzetti, parlamentare di Forza Italia, che anzitutto rivendica quanto messo in campo, in termini pragmatici e non teorici, dal suo partito: "Metsola, von der Leyen, Lagarde, tre donne di centrodestra al vertice - premette la deputata al Giornale.it - , a livello italiano pensiamo a Elisabetta Casellati e alle nostre ministre, Gelmini e Carfagna che portano certamente un valore aggiunto alla società come lo portono molti uomini". E ancora: "Nel centrodestra e soprattutto in Forza Italia - continua - vengono premiate e proposte donne nei ruoli chiave in modo naturale senza un'ideologia sessista che ha dato il peggio di sé anche in questa elezione per il Capo dello Stato, con una stucchevole propaganda senza finalità, fatta "forse" di belle parole e non di azioni concrete. Quando sento qualcuno che dice "ci vuole una donna al Quirinale" - conclude la Mazzetti - mi viene spontaneo rispondere: ci vuole una persona capace di ricoprire il ruolo e non una selezione differenziata!".

"La questione femminile a destra non è mai esistita"

Se l'elezione della Metsola è una notizia delle ultime settimane, scendendo sul piano nazionale, non rappresenta certo una novità il fatto che sia una donna a guidare la destra italiana. Giorgia Meloni, che aveva già conquistato da giovanissima la leadership del movimento giovanile di Alleanza Nazionale e che era stata la più giovane vicepresidente della Camera, è il vertice inscalfibile di Fratelli d'Italia sin dalla scissione operata nei confronti del Pdl. "La questione femminile a destra - premette Chiara Colosimo, consigliere regionale di Fdi nel Lazio - non è mai esistita. Lo spazio è stato sempre dato a chi è più bravo e più presente di altri. Il merito - sottolinea - è sempre stato l'unico criterio di selezione della classe dirigente". La stessa Colosimo rivendica di aver ricoperto una serie d'incarichi in funzione della meritocrazia, che è la cifra culturale cui associa il suo mondo: "Sì, sono esistite delle quote ma io sono sempre stata contraria alle "quote panda". Non sono emersa in quanto donna, ma perché ho portato avanti delle battaglie. La stampa, all'inizio, era sorpresa che io coordinassi anche il servizio d'ordine delle manifestazioni: non c'è da sorprendersi, invece, perché a destra contano l'impegno e la propria capacità di farsi valere. Il che non dovrebbe avere un rilievo per il genere ma a prescindere".

"Può diventare la prima premier donna": l'Economist promuove Meloni

"Gran parte della vostra condizione di rifugiate, oserei dire - insiste la Colosimo, rivolgendosi a chi, da donna, ha scelto di militare a sinistra - dipende proprio da voi. Vi battete per farvi chiamare "consigliera"... . Beh, credo che questo sia gran parte del problema: il tema non è se c'è la "a" finale ma se siete capaci di fare le cose per bene, e soprattutto quelle giuste". La "questione femminile", che per il consigliere regionale di Fdi non risiede dalle sue parti ma altrove, dipende quindi dallo stesso comportamento politico di chi, preferendo lottare per le desinenze, fatica spesso a rivendicare ruoli.

Il protagonismo delle donne nel centrodestra

Non si tratta soltanto di ottenere spazi ed incarichi, insomma, ma anche di parità effettiva, in specie rispetto alle condizioni di partenza. Questi elementi consentirebbero - dicono tutti e tre i partiti principali della coalizione - di far sì che le donne, nel centrodestra, siano protagoniste. Di questa opinione è anche l'onorevole Laura Cavandoli, che è espressione della Lega di Matteo Salvini. "Il centrodestra - annota le leghista - esprime nel governo ottimi ministri e sottosegretari donne, solo con una maggioranza di centrodestra è stata eletta una donna Presidente del Senato, la seconda carica dello Stato". E ancora: "Le donne del centrodestra sono ottimi sindaci e assessori comunali e regionali. Solo il centrodestra ha candidato donne a presidente di Regione, eleggendo Jole Santelli in Calabria, Nicoletta Spelgatti in Valle d'Aosta e Donatella Tesei al governo dell'Umbria, e individuato in donne ruoli apicali nell'amministrazione delle regioni e province autonome", ha osservato la parlamentare, parlando con IlGiornale.it

La carica delle donne di destra 

Per la parlamentare leghista, oltre alla forma, esistono differenze di sostanza che fanno della sinistra una parte politica che tende a strumentalizzare la "questione femminile": "La realtà è che la sinistra promuove le donne come quote, nella Lega e nel centrodestra, invece, le donne vengono valorizzate e sono protagoniste. A pochi giorni dal voto per il prossimo presidente della Repubblica, non mi stupirei - conclude la Cavandoli - se si trovasse una convergenza su una proposta del centrodestra per una donna tra le tante competenti che hanno espresso le loro capacità nella società civile e nell'attività politica".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

·        Razzisti e bugiardi.

I trogloditi e i lanciafiamme le parole disperate del Pd. Edoardo Sirignano su L'Identità il 17 Ottobre 2022

Disperazione. Non è il titolo di un film, ma quanto sta accadendo nelle ultime ore all’interno del campo progressista. L’elezione, prima di La Russa al Senato e poi di Fontana alla Camera, mette sotto scacco un’intera area politica. Nessuno sa cosa fare e quindi l’unica strategia è infiammare il clima, diffondere odio. Un autunno che doveva essere freddo per il caro bollette diventa caldo per le tensioni. Se tutti pensavano, che le conseguenze delle sanzioni, avrebbero fatto dimenticare la destra e la sinistra dei tempi di Gaber non è così. Anzi sembrano tornare, all’improvviso, i famosi anni di piombo. Basta qualche parola del nuovo Parlamento, infatti, per far ricomparire la stella a cinque punte nella capitale. C’è una chiara scritta contro la seconda carica dello Stato. “La Russa – appare su un muro – Garbatella ti schifa”, con lo storico simbolo delle Br e la famosissima sigla Antifa. Messaggio, tra l’altro, cancellato da volontari e non dalla prima istituzione della città, il sindaco di Roma Roberto Gualtieri. Ignorato finanche uno striscione sul Colosseo, raffigurante l’ex ministro della Difesa e oggi primo inquilino di Palazzo Madama a testa in giù. A infuocare il tutto, secondo i più, sarebbero gli stessi piddini. Non contribuiscono, ad esempio, a spegnere le fiamme le ultime dichiarazioni di Enrico Letta. Il segretario dei dem parla addirittura di “logica incendiaria da parte di chi ha vinto”. Il docente di Parigi, in queste ultime ore, abbandona i panni del moderato, indossati fino al 25 settembre e si rimette sul binario dei compagni, scimmiottando il capo politico del Movimento Giuseppe Conte. La dimostrazione plastica è quanto accaduto alla chiusura del congresso del Partito Socialista Europeo, dove il numero uno del Nazareno insieme al cancelliere tedesco Olaf Scholz e all’alto rappresentate Ue Josep Borrell, intona “Bella Ciao”. Nulla contro la canzone, che certamente non appartiene a una cultura politica. Considerando il clima che si respira nel Paese e tenendo conto che le stesse parole dal pisano erano già state utilizzate davanti l’ambasciata iraniana solo pochi giorni prima, sarebbe stato meglio avere un atteggiamento più sobrio in una fase in cui tutto può essere travisato. Il modus operandi, infatti, viene emulato dagli Scientologist di quella che qualcuno chiama “ la nuova setta”. Gara sui social per mettere hashtag con le parole “fascismo” o “lotta per cambiare”. I meme che ricordano il passato di destra dei neo eletti presidenti delle Camere inondano gli stati di WhatsApp. Ricompaiono addirittura i lanciafiamme di Vincenzo De Luca. Il presidente della Regione Campania, ospitato dai Giovani Imprenditori di Confindustria, senza giri di parole, definisce Fontana “pericoloso” e La Russa “troglodita”. A quest’ultimo critica addirittura il look: “Mi auguro – ribadisce l’ex sindaco di Salerno – che vada vestito un po’ meglio, senza la camicia e la panza di fuori per motivi estetici”. La differenza rispetto al passato è che stavolta il bodyshaming non può essere nemmeno pensato. Alla leader di Fdi, poi, le viene contestata addirittura l’onestà intellettuale. Sulla stessa linea d’onda del governatore la conterranea Valeria Valente, indicata dai più come la prossima capogruppo al Senato, che al posto di mediare definisce i colleghi parlamentari “profili estremisti” di una “destra reazionaria, illiberale e oscurantista”. L’avvocato napoletano si candida come Wonder Woman: “A noi il compito di vigilare, arginare e impedire derive che porterebbero l’Italia indietro di decenni”. Ecco perché inizia una vera e propria gara al veleno tra chi si candida a succedere Letta. Dopo la Schlein, che parla di “eredi del duce”, Andrea Orlando accusa gli avversari di “dividere il paese”. A creare non poche tensioni, però, sono le parole del primo cittadino di Empoli Brenda Bernini, che dalla sua pagina Facebook definisce gli uomini della Meloni “neri per sempre”. Altro che integrazione. La scelta di lanciare la finta bandiera del mondo Lgbt Zan al ruolo di vice Fontana non basta a riconquistare la fiducia di un popolo che in una stagione critica, tutto vuole tranne che divisioni. A dirlo gli ultimi sondaggi. Secondo una rilevazione di YouTrend/Agi, i dem, in sole tre settimane, avrebbero perso oltre un punto percentuale, a vantaggio del Movimento di Conte che è ormai a un passo dal prendere la leadership del centrosinistra.

Natalia Aspesi per “la Repubblica” il 17 ottobre 2022.

Piombato a Berlino tra amici di sinistra e neppure un refolo da destra, Enrico Letta si è detto contrario al fatto che la destra abbia eletto alle somme cariche del Parlamento due tipi oltre che bruttini, di destra, però paleolitica tipo sacrifici umani. 

Due giorni prima, nel furore distributivo di destra di sedie e scranni di destra, a gente di destra, il mondo dell'informazione, annegato nel mare di destra, si è ricordato solo verso tarda notte che forse non tutto è destra, che da qualche parte, in rassegnato dormiveglia, poteva essere rimasto qualche rimasuglio di sinistra. Infatti in tanto fracasso di varie destre, si è intrufolato l'educato e flebile commento proveniente da sinistra, del solitario gentiluomo Enrico Letta: faremo opposizione! Scusi sa, ma non ci si aspettava il contrario.

A questo punto pare utile riassumere la giornata fatidica, simile alla Notte di San Bartolomeo, non per dare consigli al Pd come se noi ne sapessimo più dei suoi chiacchieroni (come invece pretendono gli eternamente incazzati di sinistra nei siti), ma per avvertirlo che sarà dura tornare a far capolino nella testa degli italiani non di destra, che per rabbia o paturnia hanno votato a destra e il risultato è questo macello. Soprattutto perché questa destra- destra-destrissima è maestra nel tener desto il popolo, più che con le promesse mirabolanti per ricchi e poveri, con la scelta pittoresca dei suoi rappresentanti e le loro meravigliose sceneggiate.

Certo sarà dura per noi vecchi antifascisti non buttarci dal nostri terrazzi fioriti (siamo granscic) quando una faccia che più fascistissima non si può, e in più al massimo di una risata che neppure il diavolo saprebbe imitare, farà cucù di destra dallo scranno del Presidente del Senato (non si può mai dire, però); e per noi femministe d'antan? Come sopravvivere quando l'altra poltrona che fu della gloriosa Pivetti l'hanno assegnata a un barbettino calvo al massimo della sua vendicativa felicità che, dicono, abbia già pronto il Premio Mamma e Papà dell'Anno. 

Ma poi mi sono ricordata che quelle importantissime cariche non contano nulla, non gli ha mai dato retta nessuno ed era molto peggio se a questi due simpatici ragazzacci avessero dato un ministero nuovo, fatto proprio per loro, quello dei Littoriali a uno e all'altro quello dei Miracoli di genere. 

Due maschi comunque. E poi una appassionante gragnola di pericolosi avvertimenti, fanculi tra destre causa una eroica Signora non eletta come promesso dalla destra ministro delle Dentiere di destra, mentre un Anziano Ricco e Potente di destra, barcollante e tenuto su da stampellieri di destra, all'improvviso mostra mani che si immaginano fatte per accarezzare testoline di piccini di destra, farsi adunche come quelle delle streghe (di sinistra?, non credo, troppa fatica) e il volto da gentile trisnonno farsi terrorizzante come quello di Vlad l'Impalatore causa presunto affronto. E così il simpatico e tinto barzellettiere rivela la sua vera natura di dispotico vendicativo padrone, dal passato e forse presente oscuro, che grida: «Qui comando io e basta!».

Alla Giorgia! All'Amata d'Italia! Magari gliela fan pagare! Su un foglietto minatorio l'Anziano Furibondo di destra ha elencato gli orrori della giovane socia di destra che a sua volta lo minaccia di rappresaglie di destrissima. L'aria ormai è irrespirabile, tipo Odissea nello spazio , tanto che persino l'eroico Mentana che più serafico non ce ne è, nel suo telegiornale infinito, pare perdere la trebisonda. Ora perché riassumo quella fatidica giornata del nostro più che scontento, orrore vero e proprio, affinché i Nostri ne tengano conto? Perché nello sfrenato marasma del presente dove non conta la realtà ma lo spettacolo, non l'atomica ma la Ramazzotti incinta, la sinistra deve smetterla di credere importanti parità e diritti, che la maggior parte del popolo considera noiosi o superflui.

Voi Nostri siete sempre puntigliosi e seri, incravattati fuori e dentro, non avete fantasia, vi mandate pubblicamente fanculo ma con garbo, non vi rasate la testa con il segno di falce e martello: anche se giovani non siete giovani, non fate cose da giovani e su TikTok un disastro! In più siete distratti e magnanimi, e questo vi rende fragili e ricattabili. Noi tutti dovevamo riempire le piazze contro il ritorno in Senato, anche se legale, di una persona che ha riempito le cronache con le sue scostumatezze e il resto tanto più grave. Invece, ma sì, è un vecchietto, che danno vuoi che faccia più! Invece. Siamo stati dalla parte della ragione e della giustizia senza saperlo comunicare, siamo riusciti a togliere quel minimo di peccato che rendeva amabili i trans, rendendoli dei casti lacrimosi.

E, contemporaneamente, tutti presi non a liberare il sesso che ne avrebbe sempre bisogno, ma ad autorizzare ed etichettare nuove variabili che a stargli dietro ti dimentichi di beneficiarne. Abbiamo sempre più con generoso paternalismo dato voce e spazio alle donne, ma mai il potere, e noi signore contentissime così, mentre a destra, giustamente, una non chiedeva il permesso e li metteva tutti in riga. Diciamolo pure, ci siamo stufati di noi stessi, allora perché dovremmo piacere agli altri? La mia impressione è che anche la destra non piace e non piacerà, ma procurerà i brividi dei thriller, e risate amare, e lacrime, il che ci farà sembrare vivi senza esserlo. 

Una nota generica se posso permettermi: meno risposte indignate ad ogni fesseria o orrore del governo di destrissima se no a furia di cianciare non hai tempo per fare: che certo è molto più difficile ma bisogna almeno tentare. Domanda né di destra né di sinistra: che fine ha fatto il probo Conte? Non è che ce lo troveremo al governo di destra stremato dalla propria incompetenza tipica della destra, costretto a chiedere sostegno alla destra detta progressista?

Ilvo Diamanti per “la Repubblica” il 17 ottobre 2022.

Dopo le recenti elezioni del 25 settembre il Pd ha iniziato un viaggio alla ricerca di se stesso. Senza una mappa e un orizzonte ben definito, come emerge dal sondaggio condotto da Demos. D'altronde, ha ottenuto un risultato "deludente". Il più basso nella storia del partito, ad eccezione del 2018. Anche in quell'occasione il segretario del partito, Matteo Renzi, si dimise. 

L'exploit del M5S (32,7%), peraltro, aveva rivelato un clima anti-politico e anti-partitico, che sottolineava il "vizio" del Pd, agli occhi di molti elettori: troppo "istituzionalizzato". A immagine del sistema. 

Oggi, il problema si ripropone, nonostante rimanga il secondo partito. Il successo dei FdI, infatti, assume un significato analogo all'affermazione del M5S nel 2018.

Appare un voto di "rottura", che spinge il risultato del Pd al di sotto delle attese. Tanto da indurre Enrico Letta a pre-annunciare un congresso, nei prossimi mesi. Comunicando, al tempo stesso, la propria rinuncia a ri-candidarsi.

D'altra parte, non è una novità per un partito che, in 15 anni, ha cambiato 10 segretari, di cui 2 reggenti. A partire da Veltroni "eletto" nel 2007. A differenza delle occasioni precedenti, però, questa volta non è in discussione solo la guida del partito, ma la sua identità, il suo futuro. Un sondaggio recente di Demos, lo dimostra. Anche se sottolinea, con chiarezza, come non sia in discussione la sua esistenza. Infatti, solo una frazione minima dei suoi elettori (6%) ritiene che il Pd abbia "concluso il proprio percorso". E sarebbe meglio, per questo, "scioglierlo". Mentre la maggioranza pensa che occorra un congresso "per scegliere un nuovo leader" (40%). O, meglio ancora, che vada "rifondato, con un nuovo statuto e un nuovo nome" (46%). Una "larga parte del partito", dunque, considera necessario andare oltre "questo" Pd. Ma per riprendere il cammino.

Senza cancellare né rimuovere la propria storia. Al contrario. Mantenendo le proprie radici. Che affondano nell'Ulivo. O meglio, nel passaggio "dall'Ulivo dei partiti al partito dell'Ulivo". Attraverso il "mito fondativo" delle Primarie. Come le definì Arturo Parisi, che (accanto a Prodi) ne è stato - se non il primo - uno dei primi sostenitori. (Ne scrissi anch' io, all'epoca). 

L'Ulivo. Soggetto politico a vocazione maggioritaria, destinato ad accogliere le componenti più diverse del centrosinistra. Come avvenne alle elezioni del 2006. In vista delle quali, nell'autunno del 2005, le primarie designarono Romano Prodi candidato premier dell'Unione di centrosinistra. Si trattò, allora, di una investitura. 

A cui parteciparono oltre 4 milioni e 300 mila elettori. Ben oltre i confini dell'Ulivo, dunque. Una sorta di prefigurazione del "Campo largo" a cui ancora oggi fa riferimento Enrico Letta. Tuttavia, proprio per questo, una gran parte degli elettori del Pd pensa che le primarie dovrebbero essere "più aperte". "Allargando il campo" a figure e candidati esterni al partito. Non per circoscriverne l'identità e il profilo, ma, al contrario, per aprire il Pd, in una fase nella quale appare fin troppo "definito", cioè "confinato". Rispetto alla società. 

E, soprattutto, alle componenti che, in origine, si riconoscevano nel centrosinistra.

Una questione chiarita da Carlo Trigilia in un libro recente: "La sfida delle disuguaglianze" (Il Mulino). Che la Sinistra e il Pd stanno perdendo. Visto che, come emerge dal sondaggio di Demos, solo una frazione dei giovani (con meno di 30 anni) e, ancor meno, fra gli operai e i disoccupati, dicono di votare Pd. Poco meno di un terzo degli operai, inoltre, ha scelto i FdI. Il partito, insieme al M5S, verso cui si rivolgono maggiormente anche i disoccupati. 

Per questo, di fronte alla scelta del prossimo segretario, la base del Pd guarda a soluzioni diverse e diversificate. Anche se il Presidente dell'Emilia-Romagna, Stefano Bonaccini, risulta il "preferito". Indicato da oltre un quarto degli elettori Pd intervistati. Dietro a lui, non per caso, incontriamo Elly Schlein (a distanza: 9% di preferenze). La sua "vice". A conferma delle radici. Impiantate nel "Cuore Rosso" dell'Italia, per riprendere il titolo di un saggio di Francesco Ramella (Donzelli, 2005). Tuttavia, è significativo come, intorno a loro (anzitutto, a Bonaccini), vi sia grande dispersione di nomi e leader (perfino di altri partiti. Come Giuseppe Conte e Carlo Calenda). Che ottengono una quota di preferenze molto limitate.

Ma pari a Enrico Letta (comunque, auto-escluso). Su tutti, però prevale largamente chi non ha idee, al proposito. Oltre il 40% degli elettori Pd (del campione intervistato), infatti, non indica un possibile leader. Per questo motivo appare ampia la domanda di una "Rifondazione Democratica". Che pensi al futuro senza dimenticare la propria storia. Per questa stessa ragione, però, è facile prevedere che il viaggio del Pd alla ricerca di se stesso non sarà facile.

Il lato sinistro di Giuseppi. Tommaso Cerno su L’Identità il 28 Settembre 2022. 

C’è una domanda che mi frulla in testa. Perché, quando Conte parla, sembra di sinistra, mentre quando parla Letta sembra solo Letta che parla? Nel bla bla bla del Letticidio, la più acrobatica capriola all’indietro della sinistra nel Dopoguerra, si parla di sesso degli angeli. C’è quello del lavoro precario (come se un partito al governo da dieci anni si svegliasse adesso e qualcuno ci crede pure), c’è quello che è colpa di Renzi (ne ha tante, per l’amor di Dio, ma non questa) e c’è quello di una donna alla guida (che ormai vuol dire copiare la destra). Poi ci sono gli intelletti fini, quelli che hanno letto centomila libri e sanno tutto, ma poi non capiscono perché gli operai di mezza Italia votano a destra da anni. E ci sono quelli che dicono che in fondo va bene così, meglio piccoli ma padroni a casa nostra.

Come un pianeta morto, insomma, che si raffredda, la sinistra non solo non sa più vincere ma nemmeno discutere (che era la cosa che da sempre sapeva far meglio). Intanto, schifato da tutti, preso in giro per la pochette, dall’altra parte del mondo progressista, si stava congelando nel freezer del conformismo draghiano pure un altro signore, Giuseppe Conte. Finto a capo di un Movimento 5 stelle che dopo avere conquistato mezza Italia era finito al governo e si era frantumato in mille pezzi, perdendo consenso, appeal e credibilità di fronte ai suoi elettori.

Io non so dirvi se Conte è di sinistra o no, quando è solo in bagno e si guarda allo specchio (Letta di sicuro no), ma posso dirvi che nelle ultime settimane se fingeva, beh era un grande attore. Perché a girare per l’Italia come ho fatto io, che ho avuto la bella pensata di mette in edicola un nuovo quotidiano quando l’editoria è una roulette russa, la gente di sinistra ogni tanto la testa la alzava quando il Tg passava quel signore. E senza bisogno di dire che Giorgia Meloni è Mussolini, che sua nonna era la tata di Goebbels e che il suo cane è senz’altro un Doberman feroce che ringhia ai gay.

Allora mi domando: ma uno, dico uno solo dentro il Nazareno che – a memoria – sono tre piano di palazzina pieni di uffici, a cui sia venuto in mente non tanto di allearsi con Conte ma almeno di domandarsi: che cosa dice di così strano che lui sembra di sinistra e io no?

Non è una domanda difficile da farsi. E, a dire il vero, nemmeno la risposta è da Einstein. Ora, tralasciando tutti quelli che ripetono la filastrocca del voto di scambio sul reddito di cittadinanza (li tralascio perché quelli sì che non sono di sinistra) se una sinistra che si candida a governare un Paese vincendo le elezioni (perché a governarlo senza vincere sono i più bravi e questo lo sappiamo tutti) non si fa questa domanda, mi viene il dubbio che la vera rimozione che il Pd ha fatto in questi anni non è Renzi o Zingaretti ma l’origine di ogni suo male. E ciopè la grande frattura fra piazza e palazzo che si consuma lentamente, prima con i Girotondi di Nanni Moretti, poi con il popolo viola, poi con Grillo che viene cacciato dalle primarie Pd da Piero Fassino. E, obbedendo all’ex segretario Ds, si fa un partito che di fatto travolge ormai da 15 anni il Partito democratico. In un modo o nell’altro. Ogni volta che si vota.

Ecco che la girandola di nomi per il passaggio di testimone di Letta non mi solletica. Bonaccini, Schlein, ma mettici pure De Caro, Serracchiani o Pinco Palla. Tutte brave persone. Tutta gente perbene. Ma inutile se prima non si evoca il fantasma della sinistra dall’armadio in cui è stato ricacciato a forza di fare e disfare governi e non si risponde alla domanda sospesa. Perché Conte quando parla sembra uno di sinistra e invece Letta quando parla sembra solo Letta che parla?

Domani, per il giornale di De Benedetti "il problema sono i campagnoli. Francesco Storace su Libero Quotidiano il 28 settembre 2022

Roba da mani nei capelli. Nel tentativo di riuscire a capacitarsi della netta sconfitta della sinistra, certo giornalismo le inventa tutte per offrire una giustificazione ai propri riferimenti politici. Non si tratta di partiti e correnti, ma di chilometri, confini, scarpe adatte. È come se la colpa della vittoria del centrodestra fosse tutta del responsabile dell'organizzazione del Pd, non del segretario del partito, poverino. Chi doveva preparare l'istruttoria sulle candidature nei collegi non aveva consultato google maps, evidentemente.

La ridefinizione dei nuovi collegi dopo il taglio dei parlamentari a cui praticamente tutti hanno detto sì, ha accorpato a Modena - ecco l'esempio trovato per giustificare la bocciatura del sindacalista ivoriano Aboubakar Soumahoro, poi ripescato nel proporzionale - aree periferiche e rurali che votano la destra. Ohibò, non esistono più quei compagni che mettono il santino elettorale in tasca e vanno a votare secondo le indicazioni del p-a-r-t-i-t-o. Il caso della città emiliana «dimostra che con questi collegi il Pd non può vincere».

È il nuovo scoop del giornale di Carlo De Benedetti, Il Domani. Mica le strategie sballate, e nemmeno le politiche folli proposte da Enrico Letta. Macchè, il problema del Pd è che non ci sono più i contadini di una volta...

UNA QUESTIONE DI CONFINI

Insomma, la colpa di una sconfitta rovinosa è dei collegi e non di una sinistra giudicata indecente dagli elettori in ogni parte d'Italia, centrale o periferica che fosse. Parlano del collegio di Modena e dimenticano il dettaglio che hanno prevalso alla Camera in appena 12 collegi e al Senato in 5. L'armata del centrodestra ha vinto 121 sfide per Montecitorio e 56 per Palazzo Madama.

Nella ricerca delle analisi più pazze del mondo, punta dritto al podio proprio il direttore de Il Domani, Stefano Feltri - niente a che vedere con il Maestro Vittorio - novello Alberto Sordi del giornalismo («a noi c'hanno rovinato gli americani»).

Cerca cerca, sono riusciti finalmente a trovare la causa della devastante sconfitta nei territori: i confini dei collegi uninominali. Eppure era noto: se deputati e senatori sono di meno, è evidente che avranno di fronte territori più vasti per dover conquistare i voti necessari. Che facciamo? Torniamo a mille parlamentari o il Pd si adegua ai nuovi collegi?

Ma loro niente, al Domani è tutto chiaro. Di fronte ai troppi trombati eccellenti, ci sarà un motivo, si sono detti in redazione. Non per la arroganza dei candidati paracadutati o per la loro lontananza dalla società reale; no, sono stati i chilometri da dover percorrere. Giacca e cravatta per il centro delle città, stivali e maglione nelle periferie. Perché un conto è potersi muovere nella ztl, altro è scarpinare per le campagne. Vuoi mettere tornare alla porchetta dopo aver pasteggiato per anni con caviale e champagne?

TROPPO LONTANI

E così la riduzione dei parlamentari con il conseguente ampliamento dei collegi ha scombinato i piani della sinistra. Come se il problema delle modifiche territoriali non riguardasse pure il centrodestra. Semplicemente nel campo rosso c'è la lontananza dai territori, la fine del radicamento nelle città. E la scarsa capacità di applicare una legge elettorale che proprio il Pd- con Renzi - volle approvare, "aggravata" dal referendum sul taglio dei parlamentari. I paracadutati - e a iosa, anche in maniera indecente - li hanno avuti tutti. Anche il centrodestra, certo, che però competeva col favore popolare alle sue spalle. Ma se corri con il vento contrario devi saper scegliere candidati conosciuti più agli elettori locali che alla grande platea nazionale. Si sono trombati da soli. 

Le due mosse della sinistra (e della stampa amica): nascondere la crisi. Federico Novella il 29/09/22 su Panorama

Commentatori subito pronti a spostare l'attenzione ed il bersaglio sulla Lega (che è comunque al Governo) A leggere la stampa, sembra quasi che la vera notizia non sia la vittoria del centrodestra alle elezioni, ma la sconfitta della Lega. E’ vero, Salvini ha lasciato per strada metà dei consensi, e certamente sarà interessante registrare la sua posizione nel governo su tanti temi sensibili. Ma non staremo esagerando? Troppo spesso mirabili politologi, sedicenti superpartes, hanno il vizio di soffermarsi sui guai di una sola parte politica: quella che combattono. E sminuendo il resto. Anche prima del voto, venivano rimarcate con grandissima foga le divisioni tra i leader del centrodestra: leader che poi, a partire dal giorno della presentazione del cartello elettorale, si sono mossi come un sol uomo, o quasi. Ecco, a differenza del centrosinistra, Berlusconi, Salvini e Meloni hanno saputo interpretare istantaneamente lo spirito di questa (sgangherata) legge elettorale. Per governare occorre unirsi, non certo andare in ordine sparso per motivi di orgoglio, come accaduto alla compagnia di Letta, Calenda e Conte. Il governo che verrà sarà chiamato ad affrontare una delle fasi più difficili della vita repubblicana, e occorrerà giudicarlo senza sconti, vista anche la mole di promesse e di aspettative sul tavolo. E però, detto questo, non possiamo fare a meno di notare che ci sono sconfitti e sconfitti. Lo stesso “maistream” , per usare una parola in voga, che fino a ieri suonava l’allarme democratico, e intendeva convincerci che dopo le elezioni ci saremmo risvegliati nel trentennio, quello stesso centro comunicativo oggi pare individuare un solo grande sconfitto, Salvini, dimenticandosi lo sfacelo del campo progressista. Ma la Lega, pur avendo subito la batosta, resta un partito con una base di ferro che si è già attivata, una piattaforma ideologica sostanzialmente immutata negli anni, e poi l’organizzazione farà il suo corso. Nel medio periodo, difficilmente la Lega potrà sparire dai radar, perché contiene al suo interno gli anticorpi derivanti dai territori che sono alla base del rinnovamento. Dalle parti del partito democratico, invece, il livello di caos sembra aver superato il livello di guardia. In vista del congresso, spuntano candidati più o meno improbabili, mentre la frattura tra filo-grillini e filo-calendiani sta diventando una voragine. Siamo al ground zero della sinistra, ormai arretrata non solo al confine delle Ztl delle grandi città, ma direttamente arroccata nelle isole pedonali. Il fatto che una buona metà del panorama politico rischi la disintegrazione per mancanza di idee, e per mancanza di coraggio, sarebbe un fatto degno di notizia. Lo sport preferito di questi giorni sembra invece questo: ingigantire i problemi dei vincitori, e minimizzare le tragedie degli sconfitti, che tirano avanti scaricandosi la colpa l’uno sull’altro. Ma la campagna elettorale sarebbe finita: anche se qualcuno, evidentemente, non se n’è accorto.

Ragioni e prospettive del risultato elettorale. Di Nazzareno Pietroni il su formiche.net 

Il centrosinistra, sconfitto perché disunito e centrato sui diritti civili, deve trovare un’identità politica e culturale. Il centrodestra, vincente perché coeso e attento a temi socioeconomici, deve dimostrare di saper governare. L’analisi di Nazzareno Pietroni

I risultati elettorali del 25 settembre premiano il centrodestra e puniscono il centrosinistra, con un’affluenza in calo. Il blocco sociale di centrodestra ottiene un numero di preferenze analogo a quello della precedente tornata ma vince perché unito nei collegi elettorali. Anche il centrosinistra prende all’incirca gli stessi voti delle elezioni del 2018 ma viene penalizzato dall’assenza di candidature di coalizione nei collegi elettorali. I cinque stelle vedono i loro consensi più che dimezzati ma vincono al sud. Il terzo polo Calenda-Renzi conquista un proprio spazio politico, determinato a implementarlo nel tempo.

Le dinamiche del voto si muovono su più livelli. Il primo dato che emerge è la tendenziale permanenza dei cittadini nei recinti elettorali: il grosso degli spostamenti ha riguardato travasi interni ai blocchi di destra e sinistra, con i cinque stelle che hanno attinto o hanno restituito consensi a destra e sinistra: FdI ha preso voti dalla Lega, da Forza Italia e dai cinque stelle di destra; il PD ha concesso voti di centrosinistra al Terzo polo e di sinistra ai cinque stelle. In ogni caso il consenso politico italiano ha espresso una forte componente identitaria destra/sinistra, che ha consentito spostamenti di voto essenzialmente nell’ambito della stessa area politica.

Il secondo rilievo riguarda l’offerta politica. Il centrodestra ha vinto perché coalizzato intorno a un nucleo di valori e interessi condivisi, connessi a sicurezza, nazionalismo, atlantismo e crescita economica, accantonando i distinguo su europeismo e interessi corporativi: l’operazione ha funzionato, perché ha consolidato il consenso d’area e attratto qualche voto dall’esterno. Il centrosinistra si è diviso tra radicalismo e liberalismo, assistenzialismo grillino e agenda Draghi, ideologia LGBTQ e pragmatismo civile, sostegno militare all’Ucraina e crisi economica, offrendo una proposta politica poco definita e centrata prevalentemente su europeismo e antifascismo. L’operazione non ha funzionato: da un lato ha confermato la presa identitaria antifascista sull’elettorato tradizionale ma dall’altro non è risultata competitiva con la chiara offerta politica dei cinque stelle (assistenzialismo) e del Terzo polo (liberalismo progressista).

Una riflessione particolare merita la concentrazione dell’offerta politica di centrosinistra sul tema dei diritti civili, dell’aborto e della tutela delle minoranze di genere. Tale scelta segue un’impostazione consolidata, che prevale sull’impegno per le rivendicazioni socioeconomiche e la definizione di proposte di cambiamento della società. I risultati elettorali mostrano che, nonostante le drammatizzazioni elettorali e il supporto dell’informazione e della cultura dominante, la strategia non ha pagato in termini di voti e non ha spostato rilevante consenso politico; anzi appare ragionevole ritenere che tale strategia, in un periodo di crisi economica, possa aver fatto defluire consensi verso partiti più attenti ai problemi socioeconomici dei cittadini.

Una terza questione riguarda l’effetto politico e culturale della vittoria elettorale di Fratelli d’Italia. Non è dubbio che l’elettorato di centrodestra non condivida gli allarmi sul rischio fascismo e ritenga che sia giunto il momento di consegnare il tema alla storia. Sul versante opposto la dirigenza del centrosinistra può prendere atto dell’evoluzione dei tempi e chiudere l’epoca dell’antifascismo militante e delle pregiudiziali a destra, politiche e culturali, oppure può perseverare nella contrapposizione ideologica, alimentando l’identità antifascista della propria base: nel primo caso contribuirà alla democrazia dell’alternanza e ridurrà le lacerazioni sociali sulla questione; nel secondo caso compatterà una parte del consenso di sinistra ma ostacolerà la dialettica democratica, alimentando contrapposizioni culturali risalenti nel tempo e riducendo la propria capacità di attrarre consenso nell’area moderata.

Particolare attenzione meritano inoltre le emozioni sottostanti la campagna elettorale. Il centrodestra veicola emozioni prevalentemente positive, come speranza/promessa di miglioramento e cambiamento (economico e socioculturale), rassicurazione (sicurezza e immigrazione) e orgoglio identitario (nazionalismo e protezionismo sociale/produttivo). Il centrosinistra esprime prevalentemente paura per la destra montante, rabbia verso l’invasore russo, compassione nei confronti dei soggetti deboli (migranti e minoranze) e rassicurazione europeista. La componente positiva/negativa di tali emozioni può aver contribuito non poco al risultato elettorale.

Infine contano i leader. Non è dubbio che Giorgia Meloni sia stata la leader vincente: ha posizioni politiche coerenti nel tempo, non ha votato la rielezione di Mattarella al Quirinale, è stata all’opposizione del governo Draghi, non ha condiviso la gestione della pandemia, è univocamente atlantista, è abile nella comunicazione ed è donna. La sua leadership è costata cara innanzitutto a Matteo Salvini, che ha pagato i troppi errori degli ultimi anni, un’immagine politica indebolita e una comunicazione non sempre efficace. Sul versante opposto Enrico Letta non ha acceso le folle, ha confermato la sua posizione di leader di un sistema in crisi economica, è risultato incerto nella linea politica, ha deluso le componenti pacifiste dell’area progressista, ha mostrato scarsa empatia nella comunicazione, offrendo nell’insieme una prestazione di leadership non all’altezza delle attese. Nel contempo il Segretario del PD ha sofferto la concorrenza di Giuseppe Conte, che ha resuscitato i cinque stelle collocandoli chiaramente a sinistra e si è legittimato come rappresentante delle marginalità sociali, riscuotendo il consenso derivante dal reddito di cittadinanza e dalla critica al metodo Draghi.

In definitiva il centrosinistra ha perso perché non è stato unito su valori e interessi condivisi, ha privilegiato i diritti civili sulle questioni socioeconomiche, ha pagato il prezzo della pandemia e della guerra, non ha avuto un leader attraente. Il centrodestra ha vinto in quanto coeso nei programmi e nei collegi elettorali, attento a temi sensibili per i cittadini e sospinto da una leader in ascesa come Giorgia Meloni. Nei prossimi mesi al centrosinistra spetta il compito di trovare una propria identità politica e culturale, da presentare al Paese e sostenere coerentemente nel tempo. Al centrodestra compete dimostrare di saper governare.

Il Pd a parole e quel sistema di amicizie che l’ha reso arido. Fulvio Abbate su L'Identità il 7 ottobre 2022. 

Nel primo pomeriggio di ieri sono stato ospite di Rai News 24. Sugli schermi, lì in studio, scorrevano in diretta i volti della direzione del PD, al Nazareno. Mentre si ragionava dei massimi sistemi delle bollette presto sul tavolo da lavoro di Giorgia Meloni, ho modo di cogliere di sbieco le posture dimesse e “assembleari” di Orfini, di Bettini e altri ancora, così nell’attesa che parlasse Bonaccini, il futuro in pectore di un partito incapace di indicare la propria esatta natura politica, il proprio cosmodromo ideale. Non era esattamente uno psicodramma ciò cui assistevo, neppure il “franco dibattito sulle ragioni della sconfitta”, sembrava piuttosto di ritrovare una desueta diretta di ItaliaRadio, ciò che fu la radio del Pci, poi dei Ds, e in seguito una cooperativa d’area che dava conto del ribollire degli “umori all’interno della sinistra” nei momenti di impasse.

Tornando verso casa da Saxa Rubra, all’altezza Tor di Quinto, è giunto naturale un tweet, ancora più doveroso pensando alla mia irrilevanza nel palmarès e delle “anime belle” del mondo conosciuto della sinistra che sappiamo. Certo che l’accusa e gli stessi insulti che il popolo social della destra diffusa rivolge ai “radical chic, sarebbero venuti addosso perfino all’incolpevole, al sottoscritto. Il mondo, in tempo di semplificazione, non va per il sottile, cerca comunque a caso un capro espiatorio, il primo bersaglio. Nulla è più penoso e retorico del rivendicare la propria “libertà”, d’essere individualità, resta su tutto che gli insulti non fanno caso alle sottigliezze, ai distinguo. Il mio tweet recitava: “Ma quale discussione sul futuro del Pd? È semmai giunta l’ora di presentare loro il conto per tutte le volte che abbiamo sentito aria di cooptazione clientelare amichettistica. Sia in ambito politico sia nel contesto cine-artistico-letterario-giornalistico-editoriale.”

Inutile aggiungere che nessuno di coloro che un verso di Fabrizio De Andrè, “… per quanto voi vi crediate assolti siete per sempre coinvolti”, circoscrive, si è mostrato sotto il mio rigo per obiettare, forse anche redarguire il narcisismo del refrattario alla colpa, magari perfino commentando piccato: d’ufficio o in quanto persona d’area che voglia sopire per antica abitudine subalterna il dissenso, la dissociazione dalla mediocrità interessata. Nel silenzio ho anzi intuito altrettanto senso di fastidio, indifferenza supponente e ancora interessata, ipocrisia; ciò che giunge proprio dai “clientes”, coloro che nel patto con i sistemi culturali di potere e di cooptazione trovano ragioni di splendore pubblico, perpetuandosi come anime belle, tutti lì a portare il loro sassolino d’oro fasullo alla costruzione del consenso sempre in nome della veltroniana “vocazione maggioritaria”.

Si sappia, il tema del governismo non riguarda soltanto coloro che aspirano ad occupare cariche parlamentari e, appunto ufficiali. A sinistra è un batterio che colpisce pure i “pifferi”, per dirla con Elio Vittorini. Coloro che, per restare in argomento culturale, ogni qualvolta c’era da plaudire il nulla e la mistificazione sono lì in prima fila.

Queste mie parole resteranno lettera morta, serviranno all’altrui scrollata di spalle, la stessa che con sufficienza sempre si riserva a coloro che non hanno mai nutrito ambizioni di potere, ancor meno festivaliere.

Che le classi dirigenti abbiano come una unica aurea esigenza personale di sopravvivere, perpetuarsi come organismi, amebe monocellulari, è storia biologica nota, meccanica del potere stesso, anche quando appare la pretesa di parlare in nome della “democrazia progressiva”.

Irrilevante che non sia affar mio, che posso invece vantare il baronale titolo di autentico radical chic, della vera “gauche caviar”, che è sempre e comunque altro dalla subcultura dei subalterni interessati, poco importa se laureati, in quanto, lo ripeto, individualità. Resta alla fine la soddisfazione di un’eterna estate, pensando a Camus, di non essere parte di una ipocrita e servile schiuma.

Le ragioni di una sconfitta. Massimo Carugno, Avvocato e scrittore, su Il Riformista il 28 Settembre 2022 

Erano i primi anni del Berlusconismo quando il cavaliere era affiancato da un ancora balbettante Fini, alla guida di Alleanza Nazionale, e dai variopinti acronimi del CCD, dell’UDC e compagnia cantante condotti, in maniera continua o alternata, da Casini, Mastella e Buttiglione. A parte Fini era tutta roba da “0 virgola” eppure Silvio, che aveva la tendenza a fagocitare più di un facocero, concedeva a quegli alleati posti da ministro e sottosegretario, presidenze di regione, sindacature di città importanti, conscio che i partners politici andavano alimentati affinché l’alleanza crescesse e prosperasse.

Un andazzo che, a parte la parentesi megalomane del partito unico durata lo spazio di un sorriso (relativamente ai tempi lunghi della politica), il centrodestra ha sempre mantenuto e che ancora oggi alimenta. Si pensi al romanaccio e meloniano di ferro Marco Marsilio, designato ed eletto nel 2019 governatore dell’Abruzzo, sebbene Fratelli d’Italia avesse riportato, alle politiche dell’anno precedente, percentuali ad una cifra e, nella regione della Maiella e del Gran Sasso, appena il 5%.

E allora andateli a vedere i dati di queste ultime elezioni che hanno avuto solo l’unica novità di romperci le balle a ferragosto e rovinarci l’estate. Sin dai primi sondaggi ciò che emergeva era che, a parte un testa a testa tra Fli e PD su chi fosse il primo partito, quella che sovrastava era la coalizione del centrodestra che cominciava a navigare su cifre stratosferiche grazie alle abbondanti previsioni sui risultati di Lega e Forza Italia.

Di contro, dalla parte opposta, la coalizione guidata dall’Enrico “stai sereno”, a parte i dati del PD, balbettava, per le altre forze, con sondaggi che andavano dai prefissi di telefonia mobile allo “0 virgola” di Di Maio.

Poi i risultati hanno cambiato le previsioni ma si sa, i sondaggi alimentano il voto e molti italiani sono saliti sul carro del vincitore. Il partito della Meloni è cresciuto a dismisura, compensando anche la flessione degli alleati, ma confermando alla alleanza la maggioranza assoluta doppiando quella avversaria.

Certamente ci sono i “se”, quelli che, con l’aggiunta delle palle, trasformano mia nonna in mio nonno.

Se fosse stato fatto il campo largo, se Calenda, se Renzi, eccetera, eccetera, eccetera.

Ragioniamoci.

Azione e Italia Viva sono le uniche forze che vengono da una tradizione di centro sinistra e un loro posizionamento nella coalizione guidata da Letta non avrebbe stonato. Quanto all’armata di Conte di sinistra non ha nulla, anzi non ha nulla di politico. Aveva una truppa di parlamentari e alle elezioni ha raccolto una truppa consistente di elettori (solo al sud grazie alla elemosina di stato). Era stata roba buona per farci un governo che ostacolasse i deliri di potere di Salvini e sarebbe stata roba buona per un alleanza elettorale, ma nulla di più. Quanto a programmi, temi e linea politica dal reddito di cittadinanza alle follie di Bonafede in tema di giustizia, dal taglio dei parlamentari alla “via della seta”  e infine alla rinuncia alle olimpiadi, hanno fatto più danni al paese degli Unni di Attila. Prima scompaiono e meglio è.

Dal canto suo la sinistra, intesa sotto il profilo della omogeneità politica, resta quello che è stata e che sarebbe comunque stata: una coalizione con un partito forte e degli alleati molto deboli che non ha retto il confronto con la destra.

E qui la responsabilità è tutta del PD che, dalla svolta “veltroniana” della vocazione maggioritaria, pare non si sia più scrollato la tendenza a divorare tutto ciò che è cosparso dal sapore del “potere”. Manco a parlarne di cedere qualche candidatura sicura a presidente di regione. Se tra le forze minori di sinistra c’è scappato qualche sindaco di città importante è stato solo perché c’erano personalità talmente forti che dir di no era una follia. Lo stesso discorso vale per le presidenze delle province.

Se poi si scivola sugli enti di controllo regionale o sulle partecipate comunali la voracità “piddina” si moltiplica e agli altri non è mai rimasta più di una briciola ogni tanto.

È chiaro che così non si alimentano gli alleati. La coalizione non cresce e non diventerà mai competitiva nei confronti degli avversari, dando la ridicola sensazione di sembrare un canotto che sbatte contro una portaerei.

A volte la percezione è che nel Partito Democratico si coltivi ancora il disegno del P.U.S. (Partito Unico della Sinistra) e che tutti gli altri prima si estinguono e meglio è. Forse dalle parti del Nazareno non si capisce che il mondo della sinistra italiana è molto meno omogeneo di quello della destra (che pure di differenziazioni importanti ne ha) e che tra le componenti socialiste e riformiste, quelle della sinistra radicale, quelle ambientaliste e via discorrendo ci sono delle peculiarità che faticano a riconoscersi nel Partito Democratico. Ci sono identità politiche che se non vedono nella competizione elettorale un simbolo che le rappresenti, in maniera forte, chiara e credibile sotto il profilo del risultato, piuttosto non vanno a votare o si disperdono in più rivoli. Quelli sono voti (e tanti) che qualunque soggetto politico diverso da quello di appartenenza non raccoglierà mai.

Questo è il vero “vulnus” della coalizione di sinistra. Un limite che se non verrà colmato con una seria politica delle alleanze, che sia costante e perdurante nel tempo e non un analgesico cui ricorrere solo alla viglia delle tornate elettorali per prevenire il dolore derivante dalle tranvate date dall’avversario, non permetterà mai che si crei un fronte forte in grado di competere faccia a faccia con la destra. Se alle altre forze della sinistra non verranno concessi spazi di governabilità non cresceranno mai e non avranno quella autorevolezza necessaria a raccogliere, attorno a un unico progetto, quel consenso necessario a competere con una seria prospettiva per la guida del paese.

Una questione vitale sia sotto il profilo della somma dei voti ma anche sotto quello di una completezza e armoniosità di un progetto politico che sorga dalla sintesi delle varie culture della sinistra.

Questo e quel che si dovrebbe fare e che non so se si farà.

La sinistra ha abbandonato I Diritti Sociali dei tanti (Il popolo dei ceti medio e bassi) poco rappresentati in Parlamento in favore de I Diritti Civili dei pochi (Immigrati, mussulmani, LGBTQIA+, ecc.) sovra-rappresentati in Parlamento rispetto al numero reale nella società italiana.

Da liberoquotidiano.it il 29 settembre 2022.

L'imprenditore cosmopolita e il montanaro eremita, la sinistra gourmet e quella talmente pane e salame da non essere più, forse, nemmeno sinistra. Oscar Farinetti e Mauro Corona sono agli antipodi, e bene ha fatto Bianca Berlinguer a metterli accanto nella prima puntata di Cartabianca, su Rai3, dopo lo «tsunami Meloni». 

Si parla del futuro, imminente governo di centrodestra. Panico tra i sinceri democratici progressisti, di cui Farinetti, Mister Eataly, rappresenta al meglio l'umore: «Da figlio di partigiano, il fatto che ci sia la fiamma tricolore sul simbolo non mi è molto consono. Io ricordo quello che la Meloni diceva su Orban e Trump», esordisce spingendosi poi in una profezia cupissima: «Temo che l'Italia, su certi fronti, possa prendere posizioni che non ha mai preso». 

Qualcuno fuori tempo massimo ha rispolverato l'etichetta "sovranismo", che andava molto in voga 3 o 4 anni fa e che oggi sembra decisamente superata da storia ed eventi. Ma non per Farinetti, che mette in guardia gli italiani: «Io voglio essere europeo. Il sovranismo è un danno suicida per il nostro Paese. Noi dobbiamo essere aperti al mondo e non dobbiamo essere orgogliosi di essere italiani, ma riconoscenti per avere questa fortuna». A fare da contraltare a chi intravede decrescita infelice, clausure nordcoreane e, magari, pure la costruzione di qualche muro dalle parti del Brennero o del traforo del Monte Bianco ci pensa Corona, uomo di terra, pietre e ruspante buonsenso.

«Non arriverà nessun fascismo adesso, sarà un governo di centrodestra che ha anche delle idee buone, ad esempio sulle pensioni e le tasse». Così, papale papale. Una considerazione fatta ravanando nelle tasche degli elettori, quelle che il Pd è (anzi, era) solito frequentare solo quando ci si doveva inventare qualche gabella in più. Un Pd che per dirla con le parole dello stesso Corona «ha abbandonato le fabbriche e gli operai». Impossibile stupirsi per l'esito delle urne: «Ho sentito delle affermazioni a sinistra sul fatto che quella del 25 settembre è stata una giornata triste. Ma il voto è stato un esercizio democratico». Pure troppo, per qualcuno.

Laura non c’era. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2022.

Il prossimo segretario del Pd farà bene a guardare tutti i giorni, prima e dopo i pasti, il video delle giovani di sinistra che esortano Laura Boldrini a lasciare la piazza in cui si manifestava a difesa del diritto all'aborto. «Lei non dovrebbe stare qui. Avete messo la pillola abortiva a pagamento» accusa una delle ragazze. «Il problema della pillola è la distribuzione» spiega Boldrini, professorale. «Lo vada a dire ai poveri e ai precari che il problema è la distribuzione!» insiste l'altra. A quel punto Boldrini potrebbe compiere un gesto rivoluzionario e riconoscere la realtà: «Non abbiamo capito che certi diritti stavano diventando un lusso per benestanti e che una sinistra che parla solo di diritti civili e mai di sostegno materiale ai poveri non è di sinistra. Ti chiedo scusa». Arresterebbe la deriva, forse. Invece sale in cattedra per impartire la lezioncina sull'unità delle donne, che la ragazza le ritorce contro: «Sa perché non siamo unite, signora? A lei di chi sta nelle case popolari non frega niente, a me sì». Boldrini potrebbe ancora riscattarsi dicendole: «Da domani trasferirò l'ufficio a Tor Pignattara e chiederò al mio partito di moltiplicare le sezioni nelle periferie». Invece estrae dalla borsa il cliché terrazzato del Babau Nero con cui da trent'anni la sinistra giustifica il proprio lassismo: «Allora fatevi difendere il diritto all'aborto da Fratelli d'Italia!». Poi si allontana dalle contestatrici, applaudendole sarcastica e un po' schifata. Temo, ricambiata. Flavia Amabile,

Simona Buscaglia per “la Stampa” il 29 settembre 2022.

Migliaia di donne sono scese in più di cinquanta piazze italiane per difendere la legge 194, a tre giorni dalle elezioni che hanno consegnato l'Italia nelle mani del centrodestra e per avvertire Giorgia Meloni: il diritto all'aborto non si tocca. Ieri era la Giornata Internazionale dell'aborto sicuro, ma soprattutto era il giorno successivo alla decisione del gruppo di FdI nel Consiglio Regionale della Liguria di astenersi durante la votazione di un ordine del giorno sul «diritto delle donne di scegliere l'interruzione volontaria di gravidanza». Una decisione che per chi si schiera a favore della 194 e del diritto delle donne di scegliere rappresenta un chiaro segnale di quello che potrà accadere d'ora in poi. Riempire le piazze è stata la risposta, anche se la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni non ha ancora ricevuto l'incarico di formare un governo.

I presidi e le mobilitazioni si sono svolti in quasi tutte le regioni. A Milano, Roma, Bologna, Cagliari, Brescia, Palermo, Catania, Firenze, Verona, Genova, Reggio Calabria, Modena, Napoli, Catania, Torino - e per la prima volta anche in Molise - le militanti di «Non Una di Meno» e le migliaia di persone che si sono unite alla loro protesta hanno rivendicato il diritto a un aborto «libero, sicuro e gratuito». I manifestanti hanno ricordato che dall'inizio dell'anno sono «73 le vittime della violenza di genere» e denunciato il pericolo rappresentato dalla vittoria di Giorgia Meloni e di una destra «razzista e antiabortista».

Nessun orgoglio, nessun entusiasmo per la possibilità che l'Italia abbia per la prima volta una presidente del Consiglio. «Non è una vittoria delle donne», dicono le militanti di Non una di meno, visto che «vuole garantire il diritto a "non abortire", cancellare i diritti delle persone transgender e l'educazione alle differenze». Come spiega Valeria Valente, presidente della commissione parlamentare d'inchiesta sul femminicidio, «Giorgia Meloni deve sapere che le donne non le consentiranno di fare passi indietro sui diritti».

«Ma quale Stato, ma quale Dio, sul mio corpo decido io», è scritto su uno dei tanti cartelli presenti alla manifestazione a Milano. Il corteo è partito davanti a Palazzo Pirelli, sede del consiglio regionale lombardo: «Partiamo da qui non a caso, siamo sotto una Regione che dovrebbe tutelare il nostro diritto alla salute, con consultori laici e pubblici dove nessuno viene discriminato o si imbatte in obiettori che ti dicono cosa fare del tuo corpo, ma spesso non è così, qui come altrove. 

Vogliamo gli obiettori fuori dalle nostre mutande!». Si definiscono «furiose e preoccupate contro la deriva che potrebbe prendere il Paese guidato dal centrodestra, perché Meloni è espressione del peggior patriarcato». In circa un migliaio si sono ritrovati a Torino e centinaia a Roma. Ovunque striscioni, cori e slogan per difendere la 194 e contro Meloni.

A nulla serve la precisazione del coordinatore nazionale di Fratelli d'Italia Giovanni Donzelli che «in Liguria «non c'era la volontà di indebolire e eliminare la legge 194, ma di rafforzarla in tutte le sue parti». 

Le polemiche investono anche il ministro della Salute Roberto Speranza. A un anno di distanza dalla prima richiesta, l'associazione Luca Coscioni ha rivolto un appello ad «aprire i dati sulla 194 per poter conoscere la reale applicazione della legge».

Valentina Ruggiu per repubblica.it il 29 settembre 2022.

"Vada via perché lei e il Pd non rappresentate le rivendicazioni di questa piazza". Così alcune manifestanti a Roma hanno contestato la onorevole Laura Boldrini arrivata all'Esquilino per unirsi alla manifestazione organizzata da Non una di meno per la Giornata mondiale dell'aborto libero, sicuro e gratuito. Un duro botta e risposta che è stato ripreso e condiviso sui social. 

Nel filmato si vede la onorevole provare a replicare alle accuse delle manifestanti. "Ci sono donne che in Parlamento hanno lottato e l'hanno voluto l'aborto, quindi la lotta tra il Parlamento e il fuori non funziona. Dovremmo essere tutte unite", dice Boldrini.

"Sa perché non siamo unite?", risponde la manifestante, "perché a lei delle persone che stanno nelle case e nei quartieri popolari non gliene frega niente, invece a me sì e io li difendo. Beatrice Lorenzin (ex ministro della Salute ndr) ha reso la pillola anticoncezionale a pagamento. Lei mi dice che il problema non è quello ma è la distribuzione. Lo vada a dire ai giovani, ai precari a chi vive nei quartieri popolari. E non ha mi ha risposto sui tagli che sono stati fatti alla sanità, sui consultori che sono stati chiusi e su una legge che non viene applicata".

"Se devi fare questi show...a differenza degli altri io sono qui con voi", risponde Boldrini provando a placare la giovane. "Non è uno show, io la rispetto come persona ma non come istituzione. Ve ne dovete andare via perché voi non rappresentate le rivendicazioni di questa piazza. Le donne, le compagne, che sono venute qua a manifestare per l'aborto libero e gratuito non ce l'hanno anche per colpa sua. Il suo partito non ha difeso questo diritto. Se ne vada". "Allora ve lo difenderà Fratelli d'Italia", ha risposto seccata Boldrini prima di lasciare la piazza tra i cori delle manifestanti.

 "I dirigenti del Pd vadano nelle periferie..." Il 'mea culpa' sui diritti sociali. Lo scontro tra le attiviste pro-aborto e la Boldrini riaccende lo scontro tra diritti sociali e diritti civili. Ora il Pd fa 'mea culpa'. Francesco Curridori il 29 Settembre 2022 su Il Giornale.

"I vostri principi e valori sono per i ricchi, perché noi nelle periferie non abbiamo servizi”. In questa frase, gridata in faccia a Laura Boldrini da un'attivista durante una manifestazione pro-aborto, si racchiude i motivi della sconfitta del Pd alle Politiche.

L'ex presidente della Camera è stata letteralmente mandata via dalla piazza perché ha commesso l'errore di fondo della sinistra italiana che mette sullo stesso piano i diritti civili e i diritti sociali. L'esito delle urne ha messo in evidenza che il M5S è cresciuto molto puntando sul reddito di cittadinanza e sul contrasto alla povertà, mentre il Pd che si è concentrato maggiormente sui diritti civili cresciuto è calato vistosamente dall'inizio della campagna elettorale. Dentro il Pd, però, è ancora presto per fare mea culpa. “I diritti sociali van tenuti insieme coi diritti civili”, ribadisce la deputata Chiara Gribaudo, parlando con ilGiornale.it. Gli fa eco il collega Andrea De Maria che, per sostenere la sua tesi, prende come esempio lo Ius Scholae “che riconosce un diritto di civiltà ed insieme promuove coesione sociale ed integrazione”. Secondo il parlamentare dem, insomma, non si può scegliere tra i due diritti perché “con la destra al governo saranno a rischio diritti consolidati e, con la flat tax, sarà colpita l'equità sociale”. 

L'uscente Alessia Morani ritiene che le contestazioni alla Boldrini siano legittime “poiché siamo in democrazia”, ma proprio per questo motivo crede che “nessuno possa cacciare da una piazza chi manifesta per la difesa di un diritto”. Se, dunque, secondo la parlamentare uscente, sulla 194 è bene che la sinistra non si divida perché “l’avversario politico è da un’altra parte”, sulla recente campagna elettorale il Pd deve fare autocritica. È stata condotta “senza messaggi e proposte forti per dare soluzioni ai problemi delle persone che sono terrorizzate per il loro futuro”, dice la Morani spiegando che “non è tanto l’attenzione ai diritti civili che ci ha penalizzato ma la mancanza di proposte convincenti su economia e lavoro”. Ed è in questa mancanza che si è inserito il M5S difendendo strenuamente il reddito cittadinanza, mentre il Pd ha fatto una campagna elettorale “focalizzando l’attenzione sui motivi per cui gli italiani non avrebbero dovuto votare la destra piuttosto che sulle nostre proposte”, ammette la Morani. Che, poi, attacca i vertici del Pd: “Se alcuni nostri dirigenti politici andassero nelle periferie e nei quartieri popolari si accorgerebbero delle condizioni in cui vivono tantissime persone: immondizia sotto i palazzi, strade crivellate dalle buche, microcriminalità diffusa. Agli abitanti di quei quartieri devi risolvere i problemi che vivono ogni giorno”. Secondo la Morani, il Pd, anziché utilizzare le soluzioni “veloci, dirette e brutali” dovrebbe “realizzare politiche sociali per fare uscire gli abitanti di quei quartieri da degrado esistenziale, sociale e urbano”. Essendo venute a mancare queste risposte “non possiamo avere consenso da chi abita nelle periferie. Anzi, per loro, - ammette la deputata dem - in qualche caso siamo parte del problema”.

“Boldrini vattene”. Contestazione al sit-in sull'aborto: dem cacciata a male parole. Il Tempo il 29 settembre 2022

Brutta serata per Laura Boldrini, contestata pure dalle femministe. Ieri sera a Roma alla piazza convocata per ribadire la necessità del diritto all’aborto da ‘Non Una di Meno’, le studentesse hanno allontanato la deputata dem. «Vattene, non rappresenti le rivendicazioni di questa piazza» un passaggio del duro botta e risposta ieri in piazza Esquilino a Roma tra l'onorevole Pd e alcune manifestanti intervenute al sit in organizzato per la Giornata mondiale dell’aborto libero, sicuro e gratuito. La presenza della Boldrini non è piaciuta alle partecipanti, che l’hanno attaccata fino a costringerla ad allontanarsi dalla piazza.

Il casus belli è la pillola anticoncenzionale. Una manifestante, Giulia, chiede alla Boldrini: «Lei lo sa cosa fece la Lorenzin?». Si riferisce all’ex ministro della Salute che «rese la pillola anticoncezionale a pagamento Non lo sa?». Boldrini prova a difendersi: «Ma il problema non è questo...». «Ah, non è questo?», la incalza la ragazza. «Il problema è la distribuzione della pillola», ricorda Boldrini. «Lo vada a dire ai giovani, ai precari, a chi vive nei quartieri popolari», continua la femminista. «Capisco che sei arrabbiata...», prova a placarla la deputata ma è una missione impossibile: «Chi rappresenta, lei?», chiedono alla deputata. Boldrini abbozza una risposta: «Rappresento i principi e i valori». «Si vede che non li rispetta, mi dispiace tanto». «Andatevene subito, non rappresentate le rivendicazioni di questa piazza, non accettiamo la presenza di chi rappresenta il simbolo di una politica guerrafondaia come quella del Partito Democratico», urla una seconda manifestante.  

Boldrini prova a far valere le sue ragioni: «Il diritto all’aborto ce l’avete, ci sono donne in parlamento che hanno combattuto per questo. La rottura tra dentro e fuori non funziona, dovremmo essere unite». Torna alla carica la prima ragazza. «Lo sa perché non siamo unite? Perché a lei delle persone nelle case popolari non gliene frega niente. Io quelle persone invece le difendo. Sui tagli non mi ha risposto, sui consultori chiusi nemmeno. Non se nemmeno dell’esistenza della legge 405, che non viene applicata. A voi non ve ne fotte un cazzo». Boldrini si spazientisce: «Se devi fare questi show...». «Non è uno show», aggiunge la ragazza. E Boldrini: «A me questo sembra un atteggiamento assurdo, bisogna parlare con rispetto». C’è chi precisa il tenore delle critiche: «La stiamo criticando politicamente, non personalmente. Non rispettiamo ciò che lei rappresenta». Boldrini prova un’ultima difesa: «Ma se siamo l’unico partito che difende questa legge...». «A noi non è sembrato», replicano ancora. «E allora ve la difenderà Fratelli d’Italia», conclude la deputata Pd con un applauso ironico alle sue contestatrici, prima di voltare le spalle e allontanarsi dalla discussione. È a quel punto che le manifestanti la cacciano, al grido di «Via, via, via!». «Vada a raccontarlo da un’altra parte che lei è un’alternativa», aggiunge qualcun’altra. L’onorevole è stata respinta con perdite. 

Monologo dentro la vagina. Le contestatrici esagitate di Boldrini, lo sciocco legislatore e il mio caro, carissimo, Nuvaring. Guia Soncini su L'Inkiesta il 30 Settembre 2022.

Le adolescenti che protestano in piazza contro chi ha reso a pagamento la pillola anticoncezionale non sanno che non è mai stata gratis né quanto sia difficile acquistare una confezione da tre anelli di silicone

Mentre cominciavo a scrivere questo articolo, nella mia carrozza del treno due ragazzine che avranno avuto sedici anni, o poco più o poco meno, ridevano istericamente. Oltre a una beauté de l’âge, ne esiste anche una specifica sovreccitazione, e quella delle passeggere non era dissimile da quella del video meno sorprendente che si veda da ieri sui social.

Nel video romano, altre ragazzine – più di malumore ma altrettanto esagitate – aggrediscono Laura Boldrini, nel loro universo corresponsabile di non concedere alle cittadine italiane l’aborto gratuito e la pillola pure.

Qualunque adulta sorride, perché la prescrittiva gratuità dell’aborto è il problema della 194 da cui discendono tutti gli altri. Se a chi se lo può permettere fosse consentito andare ad abortire in clinica, i medici obiettori nella sanità pubblica peserebbero meno sull’efficienza del servizio. Ma la 194 è una legge beghina che permette ai medici di obiettare alle loro mansioni, e vieta alle pazienti di pagare per disfarsi d’una gravidanza indesiderata.

Alla Boldrini – a qualunque politica di sinistra di lungo corso, e dico «politica» per assecondare lo sciocco identitarismo per cui, per legiferare sui raschiamenti, occorre avere un utero – si potrebbe semmai rinfacciare di non aver demolito e riscritto la 194 quando sono state al governo. Ma per sapere cosa rinfacciarle devi conoscere il mondo, e le sedicenni sono convinte il mondo sia cominciato quando loro si sono aperte un TikTok.

Sì, lo so che chiunque si affacci sui social vede trentacinquenni certissimi che queste siano state le prime elezioni in cui i fuorisede non potevano votare, ma quella è patologia. Il non sapere un cazzo delle sedicenni è invece fisiologico: sono nate ieri, cosa volete che sappiano.

Ognuno conosce solo la propria esperienza, io che pure di anni ne ho cinquanta sono qui che mi chiedo di cosa parlino quando rimproverano la Boldrini di non essersi opposta a chi ha reso a pagamento la pillola: ho preso la pillola dal 1986 a una decina d’anni fa e l’ho sempre pagata, se era gratuita devono rimborsarmi un sacco di soldi.

Al cui proposito, lasciate che vi parli del contenuto delle mie mutande. Ho smesso di prendere la pillola perché a salvarmi dall’endometriosi è arrivato un sostituto per l’inventore del quale vorrei non solo il Nobel per la medicina ma anche quello per la Pace.

Il Nuvaring è un anello di silicone che t’infili nelle innominabilità (suona scomodissimo; non lo è) per ventuno giorni al mese, lo stesso ciclo della pillola anticoncezionale, e ha fatto per la qualità della mia vita miracoli che nessun oggetto o essere vivente avevano compiuto mai.

Perché ve ne parlo? Mi sono forse messa a piazzare anticoncezionali come la Ferragni piazza tortelli? No, è che il Nuvaring è venduto in due tipi di confezioni. Quella da uno costa diciannove euro e quarantacinque. Quella da tre ne costa quarantotto.

Se siete disorganizzate come me, comprerete quella da tre per evitare di ritrovarvi ogni mese senza proprio nel giorno in cui dovete infilarlo, non essendovi ricordate di comprarne uno nuovo per tempo. Ma, nel comprare quella da tre, risparmiate anche qualche decina di euro l’anno.

Quindi, quando il mese scorso sono andata in una farmacia diversa dal solito, e mi hanno detto che potevano vendermi senza problemi la confezione da uno, ma non quella da tre per la quale serve la ricetta non ripetibile, la sedicenne in me ha urlato allo scandalo: volete impedirmi di risparmiare.

Il vantaggio d’essere una vecchia bacucca è che t’interroghi sulle ragioni delle cose. Ho chiesto a diversi farmacisti e medici, e pare che la ragione sia che, «secondo il legislatore», se io assumo ormoni, ogni tre mesi devo farmi controllare e verificare se quegli ormoni vanno ancora bene per me.

Il legislatore è evidentemente uomo, altrimenti saprebbe che nessuna donna va ogni tre mesi dal ginecologo. Altrimenti saprebbe che nessuna dà duecento euro al ginecologo per avere una ricetta: vai a fartele fare dal medico della mutua (che le fa fare dalla segretaria), e puoi prendere ormoni per una vita senza che nessuno ti abbia mai fatto fare un dosaggio ormonale.

Lo so, lo so: il punto non è che il legislatore non sa queste cose perché, non essendo donna, non ne ha fatto esperienza; è che non le sa perché non si è informato sulla materia di cui legifera. Abbiamo sostituito l’identitarismo allo studio: se non sei in grado di capire come funziona un apparato riproduttivo dai libri, sarà utile che almeno tu ne abbia uno, per capire che leggi fare a di esso tutela.

A ogni farmacista ho chiesto: ma il legislatore che le permette di darmi dieci o venti confezioni da un solo Nuvaring senza ricetta, ma ritiene di tutelarmi dall’incauto acquisto d’una confezione da tre, a quel legislatore lì non sarebbe meglio riconoscergli un’invalidità intellettuale con relativo sussidio che gli consenta di ritirarsi senza ulteriori danni dal mondo del lavoro? Ogni farmacista ha emesso gemiti d’impotenza. La mia ginecologa mi ha poi detto che per il legislatore il farmacista può vendermi non più di un anello al mese, e non senza ricetta. Informazione evidentemente andata perduta nelle comunicazioni ministeriali a tutti i farmacisti che ho incontrato.

Chissà se tutto questo la Boldrini (o la Lorenzin, o chi vi pare) lo sa: io non sarei andata a strillarglielo perché sono un’adulta; e chi ha l’età per strillarglielo non lo sa perché, ontologicamente, non sa un cazzo.

Poi nella carrozza è arrivato il controllore. Le ragazzine sono corse da lui e, sempre ridendo moltissimo, gli hanno detto che avevano sbagliato treno e dovevano andare a Imola. Lui le ha guardate e, come un adulto così ottuso da pensare di poterne cavare una risposta razionale, ha chiesto perché mai avessero preso un treno con scritto «Bari centrale». Loro hanno detto «eh, non abbiamo guardato», perché hanno l’età alla quale Letta voleva concedere il diritto di voto e non sanno come si prenda un treno.

Guardavo loro, guardavo il video della Boldrini, pensavo alla sconfitta di Letta, e pensavo a quelle due righe di Scott Fitzgerald che più o meno dicevano: per molto tempo, da allora in poi, Anson credette che un dio protettore ogni tanto interferisse nelle vicende umane.

Chi usa l'esca anti-Israele per i voti degli estremisti. Il caso La Regina non è isolato: da Craxi a D'Alema e Boldrini, la sinistra attratta dalle bugie di Gaza. Fiamma Nirenstein il 21 Agosto 2022 su Il Giornale.

Molti miei amici di sinistra non sono affatto antisemiti, anzi, capiscono e sostengono lo Stato d'Israele. Ma sono l'eccezione, non la regola. La «faccenda» dei post antisraeliani di La Regina non è un caso disgraziato che riguarda il carattere di un giovane ignorante, un incidente. L'uso dell'antisemitismo antisraeliano come arma di consenso, come esca sui social media, come visione del mondo o come modo d'essere (antimperalista, antirazzista, terzomondista, globalista etc) e quindi, in questo periodo, come attrazione elettorale cospicua e utilizzabile, è anzi molto attraente perché è di massa. Una fetta non piccola di elettorato pensa che Israele non abbia diritto di esistere, che sia uno Stato di apartheid, che il bds, ovvero il boicottaggio e il disinvestimento siano un'arma dovuta. Ogni 83 secondi, sui social appare un post antisraeliano-antisemita; i dati sono in crescita verticale, come verifica il Rapporto Annuale sull'Antisemitismo del Centro per lo Studio dell'Ebraismo Contemporaneo dell'Università di Tel Aviv. Leader come Jeremy Corbyn, la cui stella è poi declinata, ne hanno fatto una bandiera; più del 25% degli ebrei nelle città europee si sentono insicuri e molti se ne vanno. Nizza da 20mila ebrei e passata a 3000, un trend che sta decimando le comunità.

La Regina ha scritto uno slogan efficace; come dice la scrittrice Ruth Wisse, popolarizzare l'odio antiebraico, paga. L'anno scorso in Germania, gli attacchi antisemiti sono cresciuti a 3028 da 2351, e crescono in Francia, Inghilterra etc. «Kill the jews» è uno slogan comune. Che per Israele si intenda il popolo ebraico è facilmente deducibile dagli attacchi continui alle sinagoghe, ai negozi, alle persone, dalle menzogne e dai «blood libel». L'«Occupazione» è oggetto di continue proteste, ma le Ong se ne infischiano delle occupazioni del Tibet, di Cipro, del Sahara... L'antisemitismo è carne e sangue della sinistra, per liberarsene deve prendere atto delle sue fondamenta teoriche (Marx, Proudhon, Bakunin) e storiche. Lo stalinismo avviò la «nazificazione» di Israele che oggi culmina nell'assurda accusa (tutta di sinistra) di apartheid; ha arato tutti i terreni delle Ong rendendoli complici di un odio inveterato verso lo Stato Ebraico. La New Left americana ha approfondito il solco col «suprematismo bianco ebraico» e gli ebrei sono diventati il nemico fantasticato dei movimenti antioppressione. È dunque un lavoro indispensabile quello che deve estrarre il cancro antisemita e ristabilire la verità su un Popolo e un Paese il cui peccato è quello della sopravvivenza democratica a costo di una battaglia infinita. Lo storico comunista Alberto Asor Rosa scriveva che l'ebraismo «da razza deprivata è diventata una razza guerriera, persecutrice e omologata alla parte più spregiudicata del sistema occidentale». Anche Natalia Ginzburg rimpiangeva «l'Ebreo curvo» e disprezzava quello «abbronzato». Su questa base, Craxi giustificava il terrorismo, D'Alema pensava che Israele «rinchiuda i palestinesi dentro un Bantustan» e chiamava la guerra a Gaza «spedizione punitiva», la Boldrini ha invitato alla Camera Mohamed Ahmed al Tayyeb, l'Imam che invoca la distruzione di Israele, le manifestazioni dell'Anpi per il 25 aprile con le bandiere degli Hezbollah e dei Palestinesi cacciano la Brigata Ebraica, Di Battista e Grillo dicono cose così violente che chi scrive ha difficoltà a riportarle... Il lavoro a sinistra non consiste nel cacciare La Regina: è grande quasi come quello intrapreso e certo non concluso dalla destra, che almeno è stata costretta alla gola dalla storia. Qui, invece, il campo è intonso.

La sinistra è da sempre contro Tel Aviv. Scacco a La Regina. Ecco cosa ha combinato questo giornale, scovando le uscite social anti-Israele del segretario del Pd della Basilicata. Marco Gervasoni il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

Scacco a La Regina. Ecco cosa ha combinato questo giornale, scovando le uscite social anti-Israele del segretario del Pd della Basilicata, candidato al Parlamento nel reparto «giovani». Letta si è adombrato, lamentando che il Giornale «ha voluto sollevare questa polemica». Come se i quotidiani prossimi al Pd non passino il loro tempo a scandagliare vite e pensieri degli avversari politici finanche quando frequentavano le elementari. È il giornalismo, bellezza. Semmai v'è da notare il doppio registro etico: sono bastate le scuse de La Regina per chiudere il caso. Quando invece qualche fesso della destra se ne esce con battute antisemite, ne viene chiesta la radiazione: come è accaduto di recente a un consigliere regionale campano di Fratelli d'Italia, giustamente sospeso dal partito. Sapere un segretario regionale Pd e quasi certo parlamentare che nega, per di più sghignazzando, il diritto all'esistenza di Israele, preoccupa non poco. Anche perché laggiù vi sono potenze come l'Iran che hanno nella propria ragion d'essere la sua distruzione. Diciamo che il caso ha reso noto a molti quelli che alcuni sanno da tempo: la sinistra italiana mai è stata con Israele, anzi nella sua storia ha sempre parteggiato non solo per i palestinesi ma per gli Stati che Israele lo minacciano. E non parliamo solo dei comunisti: anche Bettino Craxi, che noi continuiamo a stimare immensamente, peccò di eccessiva distanza da Israele e di soverchia simpatia per il cosiddetto «mondo arabo». E lo stesso dicasi per la sinistra democristiana, quella che poi, con gli eredi del Pci, ha dato i natali al Partito democratico. Solo con Silvio Berlusconi e poi con Matteo Renzi, il governo italiano ha riconosciuto che Israele è l'unica democrazia liberale del mondo arabo e che va difeso, ma prima di tutto va compreso. Si dirà: ma è una bagattella social, eppure chi conosce un po' il mondo della sinistra sa che, antropologicamente, il cuore dei militanti del Pd batte più per i palestinesi che per Gerusalemme (o Tel Aviv, come si vuole). Il Pd continua a coltivare questa ambiguità: da un lato non può attaccare direttamente Israele per ragioni di real politik, ma la difesa suona sempre un po' di ufficio. Ambiguità ora aggravata dall'alleanza con l'estrema sinistra di Fratoianni. Che invece ha le idee chiare ed è platealmente pro palestinese, fino a sostenere le azioni violente del movimento internazionale Bds, favorevole al boicottaggio totale di Tel Aviv. Sono contro le sanzioni a Putin, ma le vogliono per l'unica democrazia del mondo arabo, attorniata da macellai urlanti e armati. Alla fine, Fratoianni e La Regina stanno in un collegio blindato, Emanuele Fiano, emblema della Comunità ebraica milanese e non solo, in uno a quasi certa debacle. Prendiamo atto.

La comunità ebraica sconcertata dall'attacco "Tesi di odio, abbiamo un grande problema". La protesta di Ruth Dureghello. Il dem Fiano: "Dichiarazioni inaccettabili". Alberto Giannoni il 20 Agosto 2022 su Il Giornale.

Pd, abbiamo un problema. Il mondo ebraico italiano è sconcertato per il caso del segretario dei democratici lucani Raffaele La Regina, e guarda con inquietudine a ciò che si sta muovendo a sinistra in vista delle elezioni politiche.

Si intravedono segnali preoccupanti, che sembrano preannunciare qualche imminente «scricchiolio». Il timore è una scarsa tenuta nella difesa di Israele, di una posizione cioè che nel filone Pci-Pds-Ds, ha faticato parecchio a farsi largo fra ostilità, pregiudizi e vecchie obbedienze.

La vicenda di La Regina, ieri, ha suscitato autentico sconcerto, anche per le (non) reazioni. Il giovane capolista lucano doveva rappresentare - con pochi altri - il tentativo di un rinnovamento anche anagrafico del partito. Ma nel suo curriculum - il Giornale lo ha raccontato ieri - sono emerse posizioni anti-israeliane di allucinante superficialità e ostilità, che hanno indotto la presidente della Comunità ebraica di Roma, Ruth Dureghello, a intervenire: «Candidare i giovani in Parlamento è una scelta di valore, soprattutto se i candidati portano valore e idee innovative - ha scritto - Se bisogna leggere tesi di odio che negano il diritto d'Israele ad esistere allora abbiamo un grande problema».

E che ci sia questo problema lo denotano non solo le uscite come quelle di La Regina, ma anche le reazioni. Mentre dal centrodestra sono piovute moltissime critiche, da Matteo Salvini a Daniela Santanchè, a sinistra hanno prevalso tiepidi silenzi o frettolose difese.

Il segretario Enrico Letta si è precipitato a stabilire che le scuse del suo capolista chiudevano il caso, intanto il deputato (ed ex presidente della Comunità ebraica di Milano) Lele Fiano si è rimesso al segretario e il consigliere comunale milanese (già presidente dell'Unione dei giovani ebrei d'Italia) Daniele Nahum ha parlato sì di uno «scivolone», in cui «è doveroso non incappare», garantendo al contempo che la posizione del Pd «è sempre stata chiara». Anche per Fiano, sollecitato da più parti, la cosa migliore era «che dichiarasse e fugasse ogni dubbio se ve ne fossero mai, il segretario Enrico Letta». «Dichiarazioni gravi e inaccettabili» - ha concesso il deputato milanese - ma che «non hanno nulla a che fare con la posizione del Pd».

La Regina resta candidato insomma, e a tutti sta bene - sembra normale - che sia così. La vicenda - compresa la voluta, generale, sottovalutazione a sinistra - ricorda quella del candidato sindaco di Sesto San Giovanni, Michele Foggetta, un esponente della sinistra che era stato autore di veri e propri insulti verso Israele. In quel caso era intervenuto per condannarli il presidente del presidente del Memoriale della Shoah Roberto Jarach; Foggetta si era scusato e l'evidente imbarazzo non aveva impedito al Pd di continuare la sua campagna per quel candidato sostenuto - insieme ai 5 Stelle - con tanto di comizi di Letta e Giuseppe Conte. Lo stesso Fiano era andato a volantinare a Sesto pochi giorni dopo.

Ora, per paradosso, Fiano è stato candidato proprio nel collegio (quasi impossibile) che comprende Sesto, mentre il Pd concede dignità di grande alleato, e collegio sicuro, a un altro anti-israeliano come Nicola Fratoianni, mentre a Milano lascia a casa un giovane come Pierfrancesco Maran e affida tutto a Lia Quartapelle, che proprio due giorni fa, «come un rifondarolo» qualsiasi twittava contro Israele, definendo «grave e preoccupante» la misura presa nei confronti delle ong palestinesi. Segnali, che non passano inosservati.

Francesca Galici per ilgiornale.it il 20 agosto 2022.

Alla fine Raffaele La Regina non ha fatto alcun passo indietro. E questo nonostante l'esponente piddì, considerato dai dirigenti dem una colonna per il partito e per questo candidato in Basilicata, sia stato pizzacato da il Giornale con le mani nel sacco. Nei giorni scorsi avevamo infatti pubblicato alcune sue, sconcertanti dichiarazioni contro lo Stato di Israele. Il post che ha maggiormente fatto indignare la comunità israeliana è uno in cui il candidato si esprime così: "In cosa credete di più: legittimità dello Stato di Israele, alieni o al mollicato di Mauairedd? E perché proprio al mollicato?". 

Le voci di un passo indietro

Ieri Raffaele La Regina aveva provato anche a scusarsi. Durante la conferenza stampa di presentazione dei candidati, l'esponente del Pd ha cercato di porre una pezza: "Rispetto ad alcune mie parole del passato, voglio scusarmi. Si trattava di parole sbagliate e voglio essere chiaro: non ho mai messo in dubbio la legittimità dello Stato di Israele - né in passato, né mai - e né il suo diritto ad esistere". Parole che Enrico Letta ha accolto quasi con clemenza genitoriale, puntando addirittura il dito contro il Giornale: "Le parole di Raffaele La Regina chiudono una polemica che il Giornale ha voluto alzare". Durante il suo intervento al Nazareno ha poi chiosato: "Siamo sempre molto trasparenti".

Peccato che i diretti interessati non la pensino così. "Le scuse di circostanza del signor Raffaele La Regina sono per noi del tutto insufficienti, poiché di circostanza e soltanto strumentali al raggiungimento del suo obiettivo personale: l'elezione in Parlamento", ha dichiarato ieri in una nota in una nota Alessandro Bertoldi, presidente di Alleanza per Israele. 

Poi, la richiesta: "Chiediamo con forza al segretario del Partito democratico Enrico Letta di escludere questo candidato dalle liste, dando un chiaro segnale di vicinanza al popolo ebraico, così come gli chiediamo di premiare invece chi ha da sempre portato avanti la difesa dello Stato d'Israele e la lotta contro l'antisemitismo". Quindi, Bertoldi conclude: "Il Partito Democratico che accusa, talvolta strumentalmente, di simpatie per il ventennio le formazioni politiche di centrodestra non dovrebbe lasciare spazi interpretativi circa la presenza nelle sue liste, tra l'altro in posizione di elezione certa, di candidati che addirittura negano a Israele il suo diritto ad esistere". 

Lo scontro tra Salvini e Letta

La rinuncia alla candidatura di Raffaele La Regina, che è il secondo pezzo del puzzle che Enrico Letta perde dopo aver fatto tanta fatica per costruire le liste, è stata commentata anche da Matteo Salvini: "Nella notte, La Regina ha fatto un passo indietro. Meglio tardi che mai. Grazie a chi, soprattutto sui social, ha alzato la voce per costringere il Pd a cambiare idea sul loro pupillo. Salgono così a tre, in una manciata di ore, gli addii a sinistra". Il primo ad aver lasciato le fila del Pd è stato Francesco De Angelis a seguito della violenta discussione verbale che ha visto protagonista il capo di Gabinetto di Roberto Gualtieri, Albino Ruberti.

(ANSA il 20 agosto 2022) "Quando si ha 20 anni si esprimono e si pensano molte cose. Poi si cresce, si studia, si cambia idea. Rinuncio alla mia candidatura perché il Pd viene prima di tutto e perché questa campagna elettorale è troppo importante per essere inquinata in questo modo". 

Così il segretario Regionale del Pd lucano, Raffaele La Regina, annuncia il ritiro della sua candidatura come capolista in Basilicata, a causa della polemica legata a frasi antisemite scritte dallo stesso La Regina in un post su Facebook.

Scacco matto a La Regina. Letta ripesca Amendola. Ma scoppia un altro caso. Il capolista in Basilicata conferma la candidatura, poi cede e la ritira. Troppo gravi i suoi tweet contro lo Stato di Israele. Domenico Di Sanzo il 21 Agosto 2022 su Il Giornale.

Uno psicodramma in diretta Twitter. Raffaele La Regina si arrende nel primo pomeriggio e annuncia il suo passo indietro. Insostenibile il peso delle polemiche che sono scoppiate dopo che Il Giornale, il 19 agosto, ha rivelato i suoi cinguettii e i suoi post su Facebook in cui metteva in dubbio la legittimità dello Stato di Israele. Candidato capolista alla Camera in Basilicata, il giovane segretario del Pd lucano non correrà più per un seggio a Montecitorio. «Quando si hanno 20 anni si esprimono e si pensano molte cose. Poi si cresce, si studia, si cambia idea», esordisce La Regina. Poi la notizia, che aspettavano in tanti: «Rinuncio alla mia candidatura perché il Pd viene prima di tutto e perché questa campagna elettorale è troppo importante per essere inquinata in questo modo». Al suo posto, come capolista in Basilicata, subentra il campano Enzo Amendola, sottosegretario a Palazzo Chigi con delega agli Affari europei. «Enrico Letta mi ha chiesto di correre come capolista alla Camera in Basilicata dopo la rinuncia di Raffaele La Regina - scrive Amendola su Twitter - come sempre, la mia candidatura è al servizio della nostra comunità. Grazie Raffaele, hai dimostrato amore per il Pd. Adesso facciamo vincere il Sud. Uniti».

Amendola negli scorsi giorni era stato tentato dalla rinuncia, perché candidato solo al terzo posto nel collegio di Napoli al Senato. Manovre che hanno ripercussioni sulla politica lucana. L'ex governatore Marcello Pittella si ribella: «Due veti sono troppi, ne bastava uno!». Pittella, escluso dalle liste del Pd, passa ad Azione di Carlo Calenda e correrà capolista al plurinominale in Senato con il Terzo polo. La Regina, ex assistente di Giuseppe Provenzano al ministero per il Sud, è stato travolto dalle polemiche in seguito all'esclusiva del Giornale sulle frasi contro Israele. Poi sono spuntati anche altri tweet. Contro Expo, contro l'Unione europea, contro il Tap. Un caos ingestibile dal punto di vista comunicativo. E infatti La Regina, nella tarda serata di venerdì, mette il «lucchetto» al suo profilo Twitter. Ma la mossa di nascondere i tweet non fa altro che peggiorare la situazione. A notte fonda filtra l'indiscrezione della rinuncia alla candidatura. Fino alle 10 del mattino non si capisce cosa farà La Regina. Ed ecco che l'ex assistente di Provenzano si fa sentire di nuovo su Twitter, ma per smentire il passo indietro. «Nessun passo indietro, stiamo lavorando alla campagna elettorale con passione e determinazione. La vicenda di ieri si è chiusa con le mie scuse, la destra vorrebbe tenerla aperta. Come detto al Pd, giovani e Sud saranno il motore della crescita del Paese. Andiamo avanti!», commenta il non ancora ex candidato. Ma la polemica prosegue. «Incredibile il Pd. Invece di prendere le distanze da La Regina che su Israele ha parlato come il più estremo degli estremisti islamici, conferma la sua candidatura e se la prende con Matteo Salvini - scrivono in una nota i capigruppo della Lega Riccardo Molinari e Massimiliano Romeo. «Mi rivolgo alla comunità ebraica: vi sembra normale che il Pd candidi uno che mette in dubbio la legittimità dello Stato di Israele?», attacca il leader di Italia viva Matteo Renzi. Sale la pressione e a quel punto La Regina decide di fare un passo indietro, stavolta definitivo.

Archiviato il caso-La Regina, scoppia il caso di Rachele Scarpa, un'altra degli under 35 scelti da Letta. Scarpa, capolista a Treviso, in un post dell'11 maggio 2021 accusava Israele di «apartheid».

Il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, di Forza Italia, attacca: «Oggi tocca a Rachele Scarpa, quest'altra giovanissima promessa del Pd si distingue per ritenere Israele uno stato assassino. E questi vorrebbero anche governare il Paese». Il senatore di Fdi Giovanbattista Fazzolari parla di «antisemitismo camuffato da ostilità nei confronti di Israele» da parte della sinistra.

Marco Belpoliti per “la Repubblica” il 15 giugno 2022.

Il titolo del libro che ha pubblicato nel maggio del 2021, giunto all'ottava edizione, Io sono Giorgia (Rizzoli), racchiude il senso stesso della personalità politica della segretaria di Fratelli d'Italia: il pronome della prima persona singolare, riferita ovviamente a sé stessa, è lo stigma della sua forza; Io seguito dal verbo: Io sono.

Niente da dire: un'affermazione incontrovertibile, così come il nome: Giorgia. Non il cognome, che è l'appartenenza a una gens, a una famiglia, c'è anche quella spiccatamente matrilineare, ma il nome proprio, segno d'una identità semplice, diretta e immediata.

Se si fosse intitolato: Io sono Giorgia Meloni, non avrebbe funzionato. Chi ha inventato quel titolo, editore, ghost writer o pubblicitario che sia, ha reso perfettamente lo stigma della capa di Fratelli d'Italia - non Sorelle d'Italia, perché sono gli uomini ora da conquistare. 

Poi la foto di copertina di Giammarco Chieregato, anch'essa perfetta nell'interpretare il ruolo che vuole avere la candidata Prima ministra, prima donna della storia della Repubblica italiana. 

Ti guarda dritto negli occhi senza sorridere, in modo quasi neutro. Il punctum dell'immagine è la mano che, senza reggere la testa - non è la foto d'una "pensatrice", cui la testa pesa -, s'appoggia alla guancia e solleva leggermente la chioma, che cade sul lato destro del viso, mentre il resto del corpo è sfumato.

Si tratta senza dubbio della fotografia d'una diva, ma non di una diva cinematografica, e neppure televisiva; piuttosto una foto pubblicitaria in bianco e nero con cui si promuove un prodotto di bellezza, una crema per il viso, oppure un profumo, usando una modella anonima, capace di trasmettere un messaggio diretto: la-uso-io-che-sono-come-te. Non troppo bella, e neppure brutta, una donna qualsiasi, che però ci tiene al proprio volto, alla sua pelle.

La forza di Giorgia Meloni sta in questa medietà, che sa trasformarsi in un messaggio pubblicitario: nella "naturalezza". Giorgia, poi, è uno dei nomi più diffusi oggi in Italia tra le bambine, uno dei primi dieci, e proviene, da una antica radice greca: indica la lavoratrice della terra, la contadina. 

La leader della destra italiana, destinata a rinverdire i fasti del Movimento Sociale e di andare elettoralmente al di là del passato neofascista del partito creato dai reduci della Repubblica di Salò, non poteva avere un nome più adatto.

La autobiografia, scritta in prima persona singolare, costruisce la leggenda di Santa Giorgia Meloni, una ragazza acqua e sapone, cioè autentica, che ha edificato il proprio mitologema partendo da una frase pronunciata il 19 ottobre 2019: «Io sono Giorgia. Sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana», cui si era aggiunge la frase: «Non me lo toglierete». Nella costruzione della mitologia personale di Giorgia Meloni il tema vittimistico è rovesciato in un'affermazione polemica rivolta a "voi": «togliere», ovvero «portar via».

Nel suo libro l'io domina sul noi, rovesciando uno dei punti salienti del secolo passato, dove il Noi ha dominato, sia a destra che a sinistra, sulla prima persona singolare: il collettivo era più importante del singolo. 

Giorgia Meloni è il perfetto prodotto della televisione berlusconiana, della cultura del narcisismo, come l'ha definita Christopher Lasch in suo libro, il cui sottotitolo è: "L'individuo in fuga dal sociale in un'età di disillusioni collettive".

L'autobiografia Io sono Giorgia è scandita su quella frase emblematica: «Sono donna», «Sono una madre», «Sono una italiana», «Sono di destra». Quel «Sono di destra» è lo slogan centrale della sua identità. Il capitolo con questo titolo è aperto da una frase dei Maroon 5, il gruppo musicale pop rock: «Ora il mio cuore si sente come un tizzone e sta illuminando l'oscurità/ Porterò queste torce per te e sai che non le farò mai cadere».

Anche nel primo capitolo, intitolato Piccole donne, c'è l'immagine del fuoco: «Allora dovremmo tutti bruciare insieme», recita un verso di Ed Sheeran il cantautore inglese. Il fuoco indica la passione, sia umana che politica, e la fiamma è il principale simbolo del Movimento Sociale Italiano: la fiamma tricolore.

La passione è il leitmotiv dell'autobiografia di Giorgia, su cui è costruita la sua immagine pubblica. Ma non c'è solo quella. Al di là dell'invenzione pubblicitaria, del mitologema personale costruito con attenti strumenti retorici, del tutto simili a quelli utilizzati per la pubblicità di prodotti estetici - l'estetica è importante per Giorgia, così come lo era, in senso rovesciato, quindi simmetrico, per Silvio Berlusconi -, c'è la faccia trash della Meloni.

In un libro di Tommaso Labranca, che andrebbe riletto con attenzione, Andy Warhol era un coatto. In Vivere e capire il trash, pubblicato l'anno della vittoria elettorale di Berlusconi, sono enucleate le cinque caratteristiche del Trash: la libertà di espressione, il massimalismo, la contaminazione, l'incongruenza, l'emulazione fallita.

Come commenta nella sua fulminante voce Trash nel volume della Treccani Arte Elio Grazioli, alla caratteristica fondamentale della rivendicazione trash «fa da sfondo un apparente e significativo ossimoro libertà-fallimento».

La parte trash della Meloni consiste proprio nel trasformare alcune delle sue caratteristiche apparentemente fallimentari - l'inflessione romana, da borgatara, il suo modo di vestirsi, le posture che prende nei comizi -, in elementi di libertà e di positività.

«Io sono Giorgia» significa: io sono una del popolo, io so come vive la gente che si è fatta da sé. La borgatara diventa perciò una popolana, secondo una tradizione a Roma propria dei personaggi della letteratura dialettale (pasquinate e Trilussa): popolana che dice la verità.

Così viene percepita anche al Nord, dove ora raccoglie consensi rubando sostenitori ed elettori alla Lega di Matteo Salvini, un leader che ha cercato di costruirsi una identità trash, ma finendo per essere kitsch. Contro la ragazza Giorgia, che da bruna si è trasformata in bionda, le felpe di Salvini appaiono una trovata da oratorio, o al massimo da centro sociale.

Un leader che s'è intestato un partito, ma senza realizzarlo fino in fondo, distruggendo nel contempo la mitologia leghista precedente: un vero fallimento. Dal punto di vista del mitologema, Matteo non può gareggiare con l'invenzione di Io-Giorgia.

Se è vero che la politica resta ancora oggi una questione di simboli, a destra non c'è gara. Basta vedere, o rivedere, Io, io, io... e gli altri, il film di Blasetti interpretato da Walter Chiari, per capire come andrà a finire.

Niccolò Dainelli per leggo.it il 15 giugno 2022.  

Guido Crosetto ha attaccato Lilli Gruber, giornalista e conduttrice di Otto e Mezzo, paragondola a Erode. Questo il twitter del cofondatore dei Fratelli d'Italia: «La Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell’infanzia». 

In molti su Twitter si stanno chiedendo il perché di questo paragone. E la spiegazione sta nella puntata di Otto e Mezzo di  martedì 14 giugno. Lilli Gruber ha mandato in onda un estratto dell'intervento di Giorgia Meloni al comizio di Vox, partito di estrema destra spagnolo, a Marbella. La Meloni si è dichiarata contro le lobby lgbt, ma a favore della famiglia tradizionale, contro l'immigrazione incontrollata, ma favorevole all'apertura delle frontiere, favorevole alla "vita", e contraria alle ideologie del "fine vita". Un discorso in crescendo che ha fatto breccia tra i militanti del partito di estrema destra spagnolo. 

Una clip che non è piaciuta a Guido Crosetto, visti i toni che la Meloni ha tenuto durante il comizio. E per questo, dunque, secondo il deputato, la Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell'infanzia. Crosetto fa riferimento alla Strage degli innocenti raccontato nel Vangelo secondo Matteo, in cui Erode il Grande, re della Giudea, ordinò un massacro di bambini allo scopo di uccidere Gesù, della cui nascita a Betlemme era stato informato dai Magi.  

Il tweet di Crosetto è diventato subito virale scatenando le ire di chi sta dalla parte dell'informazione e l'ilarità, invece, di chi sostiene il deputato di Fratelli d'Italia. C'è chi infatti risponde con la stessa ironia «O come la Meloni ai diritti umani», e chi invece «Chi ha detto infatti che la Gruber è una giornalista?». In molti, adesso, si chiedono se Lilly Gruber risponderà.

Libero Quotidiano il 15 giugno 2022.

Lilli Gruber risponde a Fratelli d'Italia e lo fa nel corso dell'ultima puntata di Otto e Mezzo. Al centro del dibattito c'è Giorgia Meloni, forte del risultato alle amministrative e finita sotto il fuoco della sinistra per aver parlato in Spagna, alla convention di Vox. E così la Gruber ieri sera ha condotto una trasmissione dove gli ospiti "rossi" presenti hanno picchiato duro sulla leader di Fratelli d'Italia rispolverando la retorica "nera" per attaccarla dopo il risultato elettorale delle Amministrative. E Guido Crosetto, come vi abbiamo raccontato, ha tuonato contro la Gruber: "La Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell’infanzia".

E questa sera a fare da scudo alla Gruber c'ha pensato Pier Luigi Bersani: "Fratelli d'Italia al Nord non arriva neanche lontanamente alle cifre che stimano i sondaggi, se fossi in loro ci farei una riflessione... Poi, sull'intervento della Meloni a Vox, io lo distribuirei pubblicamente perchè è un'operazione verità. Perché sia nel tono aggressivo e rabbioso che nei contenuti, loro sono questo: un restyling di 'Dio - Patria - Famiglia'. Ma non puoi pensare che gli italiani non reagiscono se gli tocchi nel profondo il senso democratico. Io non condivido le parole usate da Crosetto..".

La risposta della Gruber non si è fatta attendere: "Possiamo sbagliare come giornalisti ma certamente noi non manganelliamo". 

"Compagna chic, impari la decenza". La Gruber finisce nella bufera. Marco Leardi il 15 Giugno 2022 su Il Giornale.

Dopo una puntata di Otto e Mezzo piena di critiche a Giorgia Meloni, la giornalista finisce nelle polemiche. Crosetto attacca: "Sta al giornalismo come Erode al rispetto dell'infanzia".

"Meloni, destra di governo o estrema destra?". La domanda, più che altro, era un assist. Nella puntata di Otto e Mezzo in onda ieri sera su La7, il dibattito sull'attualità politica si è trasformato in una sorta di tiro al bersaglio contro la leader di Fratelli d'Italia. Nulla di nuovo sotto il sole, soprattutto alla luce degli attacchi piovuti contro la suddetta esponente politica dopo le amministrative. Nel talk show della rete terzopolista non sono per l'appunto mancate critiche a senso unico, accompagnate da una conduzione che - ancora una volta - è stata accusata di smaccata faziosità.

Durante e dopo la puntata in questione, infatti, su Lilli Gruber si è scatenata la bufera: in molti hanno rimproverato alla giornalista di aver fatto trasparire la propria ostilità politica alla Meloni. Già durante la diretta, l'atteggiamento della conduttrice e quello di certi suoi ospiti erano stati stigmatizzati sui social da alcuni telespettatori. Tra di essi, anche il fondatore di Fratelli d'Italia, Guido Crosetto, che aveva riservato alla giornalista un tweet al fulmicotone. "La Gruber sta al giornalismo come Erode al rispetto dell’infanzia", aveva scritto l'imprenditore.

A finire tra le critiche, anche gli interventi di alcuni ospiti intervenuti nel corso del dibattito. Ad esempio, la filosofa Rosi Braidotti, che aveva accostato le tesi della Meloni a quelle Putin, parlando di "propaganda di stampo assassino". Parole alle quali la stessa leader di Fratelli d'Italia aveva poi risposto a tono: "Risponderà delle sue affermazioni nelle sedi opportune. È finita la ricreazione, cari amici della sinistra senza argomenti e senza dignità. Ora basta".

In riferimento a quanto andato in onda, le rimostranze nei confronti di Lilli Gruber non si sono però esaurite con la serata di ieri. Stamani, infatti, presenziando in collegamento a un dibattito proprio su La7, anche la senatrice di Fratelli d'Italia, Daniela Santanchè, è tornata sull'argomento. Ospite di Myrta Merlino, l'imprenditrice ha colto l'occasione per evidenziare il proprio disappunto. "Ieri sera su La7 abbiamo visto una delle peggiori pagine della televisione, perché quando si fanno le trasmissioni tutte contro la leader di un partito c'è qualcosa che non funziona", ha attaccato la Santanchè. E ancora, esplicitando il soggetto di quelle critiche: "Parliamo della compagna chic, Gruber, non di un conservatore o di un liberale...".

Poi, la senatrice di Fratelli d'Italia ha replicato anche alla conduttrice Myrta Merlino, che provava a stemperare gli animi. "Una giornalista dovrebbe informare, non dovrebbe dare opinioni così pesanti... Impari la decenza", ha chiosato.

"Propaganda di stampo assassino". La prof in tv contro Giorgia Meloni. Francesca Galici il 14 Giugno 2022 su Il Giornale.

Ancora un attacco contro Giorgia Meloni dopo il suo intervento in Spagna e dopo le amministrative che vedono FdI in netta crescita.

Giorgia Meloni come Vladimir Putin: questo è il parallelismo fatto da Rosi Braidotti, professoressa, durante l'ultima puntata di Otto e mezzo. Ha definito "Propaganda assassina" il comizio fatto dalla leader di Fratelli d'Italia durante un appuntamento elettorale degli alleati di Vox a Marbella. "O si dice sì o si dice no. Sì alla famiglia naturale, no alle lobby LGBT, sì alla identità sessuale no alla cultura gender, sì alla cultura della vita no all'abisso della morte, sì all'universalità della Croce no alla violenza islamista, sì ai confini sicuri no all'immigrazione di massa, sì al lavoro della nostra gente, no alla grande finanza internazionale. Viva l'Europa dei patrioti", ha detto Giorgia Meloni parlando in Spagna.

Parole che hanno scosso Rosi Braidotti, che collegata con Lilli Gruber ha fortemente dissentito, addirittura dichiarando di provare timore: "Ho paura cara Lilli, questo tono riconfortato dalla vittoria elettorale, una furia scatenata contro i presunti nemici dei sacri valori Dio Patria e Famiglia. Linguaggio violento contro omosessuali, donne non madri, migranti". Alla filosofa viene lasciato ampio spazio per esprimere la sua opinione e lei non si fa pregare, muovendo ulteriori accuse a Giorgia Meloni oltre a quelle già mosse dal Pd nel pomeriggio: "Mi rassicura perché capisco chi è veramente la Meloni. Mi sembra che ricalca la rabbia micidiale di Putin, Kirill e Dugin, che rivendicano anche loro quei valori ma esclusivamente russi e in contrapposizione con l'Occidente decadente. Ed è per questo che vogliono distruggerci".

Anche la conduttrice è rimasta attonita davanti a queste parole, ma soprattutto davanti alla conclusione portata dalla professoressa: "Discorsi ideologicamente diversi si ricongiungono su violenza, misoginia, omofobia, una propaganda di stampo assolutamente assassino che mi fa molta paura e molta tristezza. Se questo è il programma io resto all'estero, grazie". L'incremento del consenso alle urne da parte di Fratelli d'Italia ha evidentemente scosso molti intellò rossi, che ora hanno ripreso la campagna d'odio contro Giorgia Meloni.

"È ripartita la solita solfa del Pd che non fa altro che certificare il successo di FdI in queste amministrative e la loro consueta incapacità di interpretare le vere necessità degli italiani. Le bugie della sinistra crescono esponenzialmente con il consenso che gli italiani tributano a Giorgia Meloni e a Fratelli d'Italia. Questo modo becero di intendere il confronto politico non fa altro che certificare il terrore crescente di chi non ha altro da offrire all'Italia se non il proprio odio per chi non si piega agli interessi loro e dei potentati che rappresentano", ha sintetizzato Maria Cristina Caretta, deputata di Fratelli d'Italia.

Francesca Paci per “La Stampa” il 15 giugno 2022.

All'indomani del voto da cui i rispettivi partiti sono emersi vincitori, schizzano scintille tra Giorgia Meloni e la responsabile esteri del Pd Lia Quartapelle, che commenta il discorso della leader di FdI al comizio dell'ultradestra spagnola Vox evocando il passato fascista che non passa. Dura la replica dell'altra: pretendo di sapere se Letta condivide. 

Meloni è fascista o no?

«Ho toccato un nervo scoperto. Da anni è in atto un tentativo di creare una internazionale sovranista che ha caratteri eversivi e che vede alleate l'ultra destra americana, i neofascisti europei e gli oligarchi russi che agiscono per conto di Putin e finanziano il World Congress of Family.

Tutti sanno che FdI non ha preso soldi da Mosca, ma Meloni ha pronunciato un discorso che contiene le parole d'ordine di questa galassia. In Italia si presenta come una leader di destra moderata ma a Marbella è andata a fare campagna per Vox, i nostalgici del franchismo. Della serie, dimmi con chi vai e ti dirò chi sei. È come se la leader di FdI avesse detto in spagnolo cosa pensa davvero». 

Meloni chiede a Letta cosa ne pensi il Pd. Cosa ne pensa?

«Meloni parla come se in Italia ci fosse un complotto contro la famiglia tradizionale. Io non lo vedo. Lei lo agita per nascondere che su economia e lavoro non sa cosa dire. Se Meloni ha una ricetta migliore di Draghi contro l'inflazione e il lavoro la proponga. Perché invece fa proclami e urla additando come nemici quanti difendono la libertà sessuale? Chi vuole la famiglia tradizionale ha tutto il diritto di averla, ma mi ripugna chi vuole discriminare altre esperienze di vita. Vogliamo far crociate per dividere le famiglie le une dalle altre? » . 

E se evocare il fascismo fosse un modo un po' semplicistico per non dire che la leader di FdI ha un messaggio chiaro per un popolo definito, ossia quanto manca alla sinistra?

«Il suo messaggio, tutto rivolto al passato, sta riscuotendo un certo successo, è vero, tra gli italiani preoccupati del presente. Ma non serve ad aiutare chi affronta le difficoltà e l'incertezza del futuro. Noi vogliamo sostenere gli italiani a muoversi verso un futuro in nome di salari giusti, transizione ecologica, lavoro, Europa». 

La crescita di FdI e l'ambizione di Meloni alla guida del Paese, sono un pericolo fascista per la nostra democrazia?

«Gli sbandamenti di Salvini hanno aperto un'autostrada a Meloni. La destra è contendibile, lei ne approfitta. Siamo il primo partito in Italia. Per contrastare la sua crescita dovremmo occuparci dell'astensione. Se vogliamo difendere la democrazia ed evitare che diventi un sistema autoreferenziale, bisogna ridare ragioni per partecipare a chi si astiene».

Eppure sulla guerra Meloni è super atlantista. Non basta la svolta filoccidentale a fugare i fantasmi del fascismo?

«L'atlantismo di Meloni è quello di Trump e di Kaczyski. E il linguaggio violento che usa contro i gay o gli immigrati alimenta l'odio e la divisione sociale. Così non rende più forte l'Italia. Un Paese diviso è un Paese più debole».

 "Il Medioevo...". E la Boldrini si unisce al coro anti-Meloni. Marco Leardi il 15 Giugno 2022 su Il Giornale.

Tra i detrattori di Giorgia Meloni mancava qualcuno che evocasse i fantasmi del Medioevo. Ci ha pensato Laura Boldrini con un tweet. E la sardina Santori: "È rigurgito del fascismo che fu".  

Il fascismo, la xenofobia, l'oscurantismo. Il pericolo nero e il Medioevo. Gli slogan, gira e rigira, sono sempre gli stessi. Rilanciati e ripetuti, all'occorrenza, per "mascariare" l'avversario di centrodestra. Nelle ultime ore, dopo il positivo risultato ottenuto alle urne da Fratelli d'Italia, i detrattori avevano scaricato su Giorgia Meloni quasi tutti i loro abituali leitmotiv critici. All'appello mancava solo qualcuno che evocasse il cosiddetto "secolo buio" (definizione peraltro discutibilissima), ma alla fine è arrivato pure quello. A colmare il vuoto, in particolare, ci ha pensato Laura Boldrini.

La deputata Pd e presidente del Comitato della Camera sui diritti umani nel mondo ha commentato a modo suo la partecipazione della Meloni a un evento elettorale in Spagna. "Ma che società vorrebbe Giorgia Meloni? Nel suo comizio tra i nostalgici del dittatore Franco in Spagna tratteggia una società cupa, vecchia, che cancella le differenze, nega i diritti e si allontana dall'Europa", ha attaccato la Boldrini su Twitter, rimproverando alla leader di Fratelli d'Italia di aver espresso posizioni troppo conservatrici per i suoi gusti. Quindi, la bacchettata finale: "Giorgia, siamo nel 2022...Il Medioevo è passato da un pezzo!".

Il tweet della deputata Pd ha chiaramente generato una valanga di commenti, non tutti di eguale segno. Accanto alle reazioni dei sostenitori della Boldrini sono infatti comparsi dei tweet di dissenso nei confronti di quel biasimo espresso dalla parlamentare dem. Alcuni, peraltro, hanno associato il fermento anti-Meloni innescatosi nell'area progressista proprio al clima politico post-elettorale. "Non avete fatto passare nemmeno una settimana per partire all'attacco", ha osservato ad esempio un'utente.

Peraltro al coro intonato da sinistra contro la leader di Fratelli d'Italia si era unita nelle scorse ore anche la voce della sardina Mattia Santori. Da Bologna, l'esponente dem aveva parlato di "discorso intriso di ignoranza e anacronismo". "Si finge destra sociale che non è altro che un rigurgito del fascismo che fu", aveva aggiunto il consigliere comunale Pd, sempre attingendo all'ormai noto repertorio delle critiche evregreen.

Le parole e il sospetto. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 16 giugno 2022.

Almeno potevano essere più originali. Non appena ha vinto e si è dimostrata vera avversaria da battere, i compagni si sono uniti in massa, come i proletari di Marx, contro Giorgia Meloni, rispolverando per screditarla tutto l'armamentario di accuse trite e ritrite sebbene destituite di fondamento. E allora ecco che dal Pd le hanno dato della fascista, della razzista, della reazionaria, della neonazionalista... Ah già, stavolta hanno aggiunto ai fanta-insulti anche quello di filo-russa.  Che tristezza: temendo di non riuscire a battere la Meloni sul campo e nel merito, i piddini non trovano miglior arma che quella di offenderla. Dimenticando che così rischiano di fare solo il gioco di Giorgia: più la insultano e più gli italiani sono indotti a votarla. Ma, si sa, l'arte del tafazzismo ha una lunga tradizione a sinistra... Ha cominciato l'altro ieri il vicesegretario del Pd, Giuseppe Provenzano, colui che già si era arrogato il diritto di dichiarare Fdi «fuori dall'arco costituzionale». Due giorni fa, a corto di idee, ha sciorinato la solita stanca litania: «La Meloni ha dimostrato di rappresentare una destra estrema, inadatta a governare, attraversata da sentimenti xenofobi e reazionari». Provenzano si ricordi che non porta bene dare a un leader di destra dell'unfit, dell'inadatto. Lo aveva fatto l'Economist nel 2001 contro Berlusconi: poi il Cav ha governato per 8 anni...

NIENTE FAIRPLAY - Ma l'affondo meno atteso e perciò più odioso arriva proprio dal leader dem Enrico Letta che finora aveva sempre dimostrato fairplay verso la Meloni. Ora invece, sentendosi il fiato di Giorgia sul collo, la spara grossa. «Sento tanto parlare», dice Enrico che non sta sereno, «del percorso moderato della Meloni. Ma ho visto il video del suo sostegno al candidato di estrema destra in Andalusia (del partito Vox, ndr).  Guardatelo: è da brividi». Noi lo abbiamo guardato, e i brividi li proviamo solo per le frasi di Letta. In quel discorso la leader di Fdi parla di difesa della famiglia naturale, di minaccia delle lobby Lgbt, di promozione della cultura della vita e delle radici cristiane e di rifiuto della violenza islamista e dell'immigrazione di massa, e di lotta per tutelare la nostra civiltà. Nulla di nuovo sotto il cielo, sono i riferimenti valoriali che da sempre nutrono il lessico e l'immaginario della Meloni e della destra conservatrice che lei rappresenta.

ATTACCO SGANGHERATO - Eppure per Lia Quartapelle, deputata e responsabile Esteri del Pd, queste frasi confermano la sua «mentalità fascista», essendo «parole d'ordine fasciste», «rantoli rancorosi», figli di «un passato spaventoso che non passa». Ma fin qui siamo alla nota reductio ad hitlerum. Il passo ulteriore e inaccettabile è l'allusione all'appartenenza della Meloni a una destra mondiale che vanta un filo diretto, anche economico, con la Russia. «Nel suo discorso per la candidata di Vox c'erano tutti i luoghi comuni di questa internazionale di destra, sostenuta finanziariamente dalla Russia, legata alla destra trumpiana che sta dietro all'assalto del Congresso Usa del 6 gennaio», avverte la Quartapelle. Un attacco talmente sgangherato ed eclatante da non poter restare lettera morta. La Meloni prima si appella al segretario dem: «Pretendo di sapere da Letta se condivide queste affermazioni». Poi minaccia querela: «Dice la Quartapelle in queste deliranti dichiarazioni che noi faremmo parte di una Internazionale di destra sostenuta finanziariamente dalla Russia. Mi aspetto che dica esattamente a cosa fa riferimento o dovrà dirlo ai giudici». Messa alle strette, la Quartapelle è costretta a correre goffamente ai ripari: «Nessuno accusa Fdi di prendere finanziamenti dai russi», dice, ma «la Meloni sa bene che la rete che ha diffuso il messaggio di Vox fa parte di una galassia ambigua legata all'Alt Right americana e ad alcuni oligarchi russi». Dove non poté l'onestà intellettuale riuscì la strizza... Né potevano mancare le parole di un altro "rosso" del Pd, l'europarlamentare Pierfrancesco Majorino che accusa la leader Fdi di neonazionalismo: «Il comiziaccio di Meloni dai fascisti di Vox racconta dove va la destra europea. Il crollo di Salvini non deve far credere che il neonazionalismo sia sconfitto».

CHE SPOCCHIA - Ma l'assedio concentrico contro la Meloni coinvolge anche esponenti in teoria più moderati come Carlo Calenda di Azione. Che, ringalluzzito dalla buona performance alle Amministrative, gioca a dare lezioni di competenza a destra e a manca, soprattutto a destra. E allora va giù pesante dando a Meloni dell'incompetente che parla a vanvera ed è degna al più di stare nei parchi giochi. «La politica non è aprire bocca e dare fiato a seconda delle inclinazioni del Paese», sentenzia l'illuminato Carlo. «Alla Meloni l'unica cosa che non deve succedere è di andare al governo, perché questo giochino di dire la prima fesseria è finito. Quella non è politica. Andassero a fare qualcos' altro. Ci sono i Kinder Garden, posti dove ci si arrampica sulle altalene, si va sopra il muro. Ma il governo è un'altra cosa». Dio santo, quanta spocchia... La verità è che fino a tre giorni fa la Meloni veniva coccolata dalla sinistra perché avrebbe potuto distruggere politicamente Matteo Salvini, il vero Nemico; e veniva anche invitata agli incontri insieme a Letta, in un clima di civile confronto, al punto che gli editorialisti del Corriere avevano evocato un governo rosso-nero, di alleanze molto trasversali tra Pd e Fdi. Ora però Giorgia ha dimostrato di non essere una pedina nelle mani dei dem, utile a spaccare il fronte della destra per far restare al potere la sinistra. Ha dimostrato piuttosto di essere colei che, la sinistra, potrebbe sbatterla fuori dalle stanze del potere, e grazie al voto degli elettori. La Meloni fa paura, e molto, al Pd. Per questo viene descritta come un mostro. Ennesima conferma che una Giorgia premier non è un'ipotesi così remota... A noi piace immaginarlo, se non altro perché vuoi mettere la goduria di vedere i dem rosicare? 

Milano, scandalo comunista: "Bella Ciao", ecco a cosa hanno costretto i bimbi di 2° elementare. Miriam Romano Libero Quotidiano il 05 giugno 2022.

In piazza gli iscritti dell'Anpi, con bandiere tricolore e fazzoletti al collo. Gonfaloni a lutto e i soliti volti noti nel mondo della sinistra milanese. Ieri a Milano si sono celebrate le funzioni funebri per Carlo Smuraglia, presidente onorario dell'Anpi ed ex partigiano, avvocato e parlamentare, morto lo scorso 30 maggio a 98 anni.

La camera ardente è stata allestita a Palazzo Marino, sede del consiglio comunale, per onorare l'ex partigiano con un tributo simbolico del capoluogo lombardo. Una cerimonia che si è svolta, quasi fino alla fine, senza troppi fronzoli. Cuscini di rose rosse sulla bara, qualche biglietto lasciato in ricordo del defunto.

Pochi presenti. Forse per colpa in parte del ponte e del brutto tempo. Ma tutti si aspettavano qualche persona in più. Landini, Camusso, Emanuele Fiano, Pagliarulo, non sono mancati. Tutto è filato liscio, fin quando in piazza Scala, dove alla spicciolata si dirigevano i pochi iscritti all'Anpi, non è arrivata pure una scolaresca. Bambini di seconda elementare di una scuola milanese. Una mattinata che per loro doveva essere dedicata a una gita scolastica. Erano diretti all'acquario civico di Milano, insieme alle loro insegnanti. Ma hanno deviato, in parte, il percorso.

INDOTTRINATI

Si sono fermati davanti alla camera ardente. Un po' confusi i bimbi si sono guardati attorno. Nessuno di loro conosceva Smuraglia. Nessuno di loro, molto probabilmente, della seconda guerra mondiale, di conflitti e della storia del nostro paese, sapeva nulla. Troppo piccoli per capire e per sapere. I programmi scolastici della seconda elementare si fermano molto prima. Eppure, si sono trovati nel mezzo di quella piazza insieme agli iscritti all'Anpi che celebravano la Resistenza. Così i membri dell'Anpi si sono stretti attorno a quella scolaresca e hanno fatto partire a sorpresa il canto Bella, ciao.

I bimbi ancora più confusi.

Al centro dell'attenzione della piazza, di microfoni e telecamere di giornalisti che riprendevano l'evento. Sono diventati protagonisti all'improvviso di quella cerimonia. Qualcuno di loro, conoscendo le parole della canzone, si è unito al coro. Le maestre non hanno esitato a intonare Bella, ciao, pure loro. Hanno eseguito l'intera canzone, tra applausi dei presenti e sguardi ancora più attoniti dei bambini. Per quei bimbi Bella, ciao è un canto come un altro, senza significato.

Eppure, viene da chiedersi se i genitori di quei piccoli alunni fossero d'accordo a fargli prendere parte alla cerimonia. E se, addirittura, madri e padri ne fossero a conoscenza. I loro bimbi sono diventati protagonisti della giornata insieme all'Anpi. Bella, ciao, infatti, è sicuramente un inno dei partigiani. Ma è pure una canzone carica di contenuti politici, considerato «l'inno dei comunisti». È dunque giusto che vada per bocca di bambini piccoli e inconsapevoli? La scolaresca è arrivata in piazza Scala ieri mattina guidata dalle maestre. Le insegnanti ci hanno tenuto ad assicurare che i bambini non hanno imparato Bella, ciao a scuola.«"Non siamo state noi a insegnarglielo. Gli alunni che conoscevano la canzone, infatti, non l'hanno imparata tra i banchi di scuola. Ma molto probabilmente l'hanno sentita cantare dai loro genitori. È un canto famoso e semplice da ricordare per i bambini», hanno spiegato. Sempre con Bella, ciao, bandiere di Rifondazione Comunista e il pugno chiuso, saluto comunista, alla fine della cerimonia, la folla ha salutato la salma di Smuraglia fino al carro funebre.

Laura Boldrini eroina degli antisionisti: la foto, ecco che cosa state vedendo. Libero Quotidiano il 05 giugno 2022

È stata l'eroina degli immigrazionisti, quindi la campionessa degli antisessisti, ora le mancava al cursus honorum solo il diventare il riferimento degli antisionisti.

La deputata dem Laura Boldrini da alcuni giorni è in visita in Israele dove sta tenendo una serie di incontri con personalità della società civile e della politica sia israeliane che palestinesi. Ieri era in Cisgiordania, l'area nell'est di Israele che i palestinesi reputano autonoma da Tel Aviv sulla base degli accordi di Oslo del 1993, mentre gli israeliani chiamano col nome di "territori contesi", essendo l'accordo definitivo tra Israele e Palestina ancora ben lontano da venire. Su questa base gli israeliani, da tempo, hanno ripreso a edificare case e ad abitare in quella zona: sono le costruzioni dei coloni che i palestinesi reputano una forma di occupazione. E lo reputa anche la Boldrini che su Facebook avverte: «Visitiamo i territori palestinesi occupati».

E quindi racconta le condizioni in cui i militari israeliani costringerebbero a vivere i palestinesi: «senza accesso all'acqua e all'elettricità», con «case demolite», senza «il permesso né di camminare, né girare in auto lungo alcune strade, né di avere attività commerciali». Questo racconto porta la Boldrini a ricordare che «mantenere l'occupazione israeliana della Palestina vuol dire vivere in uno stato di conflitto permanente» e ad auspicare «l'unica strada possibile: due popoli, due Stati».

Ma il problema non sono tanto le parole della Boldrini, tutto sommato ragionevoli considerato il suo arcinoto approccio filopalestinese; quanto i commenti dei suoi follower su Facebook che si scatenano con le più pesanti frasi antisioniste. C'è un'utente che chiede «un'azione di boicottaggio, disinvestimento e sanzioni contro lo stato occupante e di apartheid» e contro «la perenne impunità dell'occupante sionista», un'altra che parla di «campi di concentramento in cui sono racchiuse due generazioni di Palestinesi». E c'è chi, oltre a boicottaggio e sanzioni, chiede all'Occidente di inviare armi ai palestinesi proprio come fa con gli ucraini: «Non vedo nessuna possibilità di miglioramento per i palestinesi se la comunità internazionale non agisce contro Israele come sta facendo contro Putin», si legge in un commento. E c'è anche chi ribalta la verità storica, notando come il terrorismo, anziché da alcune formazioni palestinesi, sia portato avanti dallo Stato di Israele: «Teniamo presente», avverte un'utente, «che Israele è nato dal terrorismo». Ecco, se intenzione della Boldrini era parlare il «linguaggio della riconciliazione» tra filo-palestinesi e pro-israeliani, si può dire che già in Italia il suo obiettivo sia clamorosamente fallito. Figuriamoci in Terrasanta.

La democrazia della Boldrini. Francesco Maria Del Vigo il 7 Maggio 2022 su Il Giornale.

Laura Boldrini è una donna di grande sintesi. Uno di quei rari personaggi che in poche parole riesce a sgretolare molteplici miti di bonomìa ed edificare solidissimi muraglioni di pregiudizi. 

Laura Boldrini è una donna di grande sintesi. Uno di quei rari personaggi che in poche parole riesce a sgretolare molteplici miti di bonomìa ed edificare solidissimi muraglioni di pregiudizi. Giovedì, ospite di Piazza Pulita, ha ricamato un piccolo capolavoro di spocchia sinistra in pochissime parole. Un bignami su quanto l'idea di democrazia del Partito Democratico sia alquanto poco democratica. Il suo è stato una ragionamento palmare: Giorgia Meloni non potrebbe governare nemmeno se vincesse le elezioni. Oh, l'ha detto davvero, c'è il video. Quasi una liberazione, con la elle minuscola, ovviamente; ha reso plasticamente quel mostruoso complesso di superiorità che rende molta sinistra allergica alle urne: cioè l'ipotesi che possa vincere qualcosa che non sia la sinistra stessa. In trenta secondi ha liquidato qualche millennio di democrazia.

Ecco le motivazioni, ora utilizzate nei confronti della leader di Fdi, ma sempre valide per essere usate per randellare qualsivoglia nemico: «Reazionaria e oscurantista, non abbastanza improntata all'europeismo, che non sa prendere le distanze dall'estremismo che la infiltra e che non è liberale». Massì, ma allora, cara Boldrini e caro Pd, facciamo direttamente una cosa: smettiamola con questo vezzo - vetusto e costoso - delle elezioni, con la sciocca illusione che il popolo sia sovrano, che i cittadini possano scegliere i loro politici e il loro governo. E ogni cinque anni rieleggiamo direttamente tutti gli esponenti della sinistra. Intanto è questa la democrazia a misura di Pd. Una sinistra molto liberale, vero?

Ps: A proposito, che fine ha fatto la famosa boldriniana solidarietà femminile? Perché questo, nei confronti della Meloni, sembra proprio un linciaggio mediatico.

"Destra reazionaria...", "Surreale". Botta e risposta tra Boldrini e Meloni. Francesca Galici il 6 Maggio 2022 su Il Giornale.

Laura Boldrini a Piazzapulita attacca Giorgia Meloni, che dai social replica all'esponente del Pd, che ha usato parole forti contro la destra.  

Laura Boldrini, deputata Pd e presidente del comitato della Camera sui diritti umani nel mondo, è stata ospite della trasmissione Piazzapulita su La7, dove ha ferocemente attaccato la leader di Fratelli d'Italia: "È una destra moderna quella guidata da Giorgia Meloni? Direi di no. È una destra reazionaria, oscurantista, non europeista, non liberale, che non sa prendere le distanze dagli estremismi e che sui diritti civili è sempre contro".

Le parole di Laura Boldrini hanno scatenato la reazione di Giorgia Meloni, che in un video ha risposto punto per punto a quanto detto dall'esponente del Partito democratico: "Questo simpatico siparietto andato in onda ieri a Piazzapulita merita di essere commentato. È surreale dall'inizio alla fine", ha replicato la leader di Fratelli d'Italia. Giorgia Meloni ha poi continuato: "Il famoso Partito democratico dice in tv che, se democraticamente Fdi vincesse le elezioni, non potrebbe governare. Voglio dire, io comincio a suggerire a Enrico Letta di cambiare il nome di questo partito perché comincia ad essere un po' surreale e ridicolo...".

La Meloni, poi, aggiunge: "Perchè Fdi è un partito illiberale. E perchè è un partito illiberale? Perchè è contrario alla riforma del catasto, è contrario all'esproprio delle aziende balneari del governo per mettere all'asta degli stabilimenti e dargli alle multinazionali straniere. Cioè noi siamo illiberali e non possiamo governare, perchè non vogliamo tassare le case e siamo illiberali perchè pensiamo che un'impresa rispettando le regole che gli aveva dato lo Stato italiano dopo aver investito non possa essere espropriata per fare un favore ai soliti noti dei soliti poteri forti"

La leader di Fratelli d'Italia ha poi proseguito, commentando l'atteggiamento assunto dal conduttore di Piazzapulita: "Punto primo: Corrado Formigli chiede a Boldrini, cioè a un esponente politica del Pd, che fu presidente della Camera per i partiti della sinistra estrema, se secondo lei Meloni e Fdi potrebbero, nel caso in cui vincessero le elezioni, governare. E già questo è divertente...". Giorgia Meloni ha poi proseguito nel suo commento al conduttore di Piazzapulita: "Perchè una cosa è se chiedi: secondo te governerebbero bene o male... No, loro ti chiedono, seppure gli italiani li dovessero votare, Fdi e Meloni possono governare? Fanno questa domanda a Boldrini che è un'avversaria di Fdi, una cosa surreale...".

Da liberoquotidiano.it il 6 maggio 2022.

Laura Boldrini mette nel mirino Giorgia Meloni. Nel salotto di Piazzapulita, l'ex presidente della Camera non perde occasione per attaccare senza se e senza ma la leader di Fratelli d'Italia e il partito. Di fatto la Boldrini non ha usato giri di parole e commentando le ultime mosse della Meloni e la convention dello scorso weekend a Milano, ha affermato: "La Meloni non è abbastanza moderna per governare". 

Poi arriva l'affondo più pesante che mette nel mirino tutto il partito: "Quella che rappresenta la Meloni è una destra oscurantista, reazionaria, una destra non sufficientemente portata all'europeismo". Ma a questo punto la Boldrini pone una sorta di veto morale su Fratelli d'Italia alla guida di un governo e lo fa in modo chiaro e diretto: "Questa destra non può guidare un Paese fondatore dell'Unione europea. Questa destra non sa prendere le distanze dall'estremismo che la circonda e che la infiltra".

Insomma a quanto la Boldrini ha deciso che solo la sinistra rossa può andare al governo. Evidentemente il concetto di democrazia rappresentativa è stato dimenticato dal presidente della Camera. 

Ma non è finita, davanti a Formigli rincara ancora la dose: "Questa non è una destra liberale, per esempio hanno bloccato la riforma del catasto ferma da dieci anni". Evitare un salasso sulla casa, secondo la Boldrini, è dunque essere illiberali. Ma è nel finale che la Boldrini va all'attacco totale difendendo anche il reddito di cittadinanza e accusando Fratelli d'Italia di non meritare il governo proprio perché vuole abolirlo. Insomma tutte le decisioni indigeste alla sinistra fanno storcere il naso alla Boldrini...

Da liberoquotidiano.it il 6 maggio 2022.  

Scontro a PiazzaPulita. Da un lato Laura Boldrini, dall'altro Nunzia De Girolamo. Al centro della contesa c'è Giorgia Meloni. Nel corso della trasmissione condotta da Formigli, la Boldrini di fatto ha messo nel mirino proprio la leader di Fratelli d'Italia. Le parole usate dall'ex presidente della Camera pesano come un macigno. Come abbiamo già ricordato, la Boldrini ha messo nel mirino la destra di Giorgia Meloni usando queste espressioni piuttosto criticabili: 

"Quella che rappresenta la Meloni è una destra oscurantista, reazionaria, una destra non sufficientemente portata all'europeismo". E ancora: "Questa destra non può guidare un Paese fondatore dell'Unione europea. Questa destra non sa prendere le distanze dall'estremismo che la circonda e che la infiltra". Insomma la Boldrini taglia fuori dalla corsa al governo proprio la leader di Fratelli d'Italia.

Per l'ex presidente della Camera, la Meloni non potrebbe guidare un governo perché a suo dire rappresentante di una parte politica illiberale. Ma lo show anti-Meloni della Boldrini non è finito qui. Nel corso dell'ultima puntata di PiazzaPulita, Formigli ha mandato in onda alcuni spezzoni di alcuni interventi della Meloni nel corso della convention di Milano dello scorso 1 maggio. La Boldrini, mentre le immagini andavano in onda, si sarebbe lasciata sfuggire qualche sorriso di troppo. 

E così la De Girolamo ha deciso di commentare in questo modo la reazione dell'ex numero uno di Montecitorio: "Non mi piace la superiorità intellettuale che qualcuno crede di avere a sinistra rispetto a una donna come la Meloni". Poi arriva l'affondo diretto proprio sulla Boldrini: "Laura, che è un'amica, mentre andavano in onda le parole della Meloni aveva dei sorrisi che non gradisco. Io non sorrido quando parla Letta, ho grande rispetto ad esempio per D'Alema". Poi rincara la dose: "Io non rido...". Bastano dunque tre parole per sottolineare la figuraccia della Boldrini. Insomma la De Girolamo ha dato una lezione di stile alla Boldrini insegnando all'ex presidente della Camera il rispetto per gli avversari politici, troppo spesso trattati con sufficienza da una certa sinistra che ha ancora la puzza sotto il naso... 

Giorgia Meloni al contrattacco su Laura Boldrini: "Mi dà dell'illiberale e non vuole farmi governare se vinco". Il Tempo il 06 maggio 2022.

«Questo simpatico siparietto andato in onda ieri a "Piazza Pulita"» tra Laura Boldrini e Corrado Formigli «merita di essere commentato, perché è surreale dall’inizio alla fine...». Giorgia Meloni posta sui social un video dal titolo "La mia risposta alla Boldrini" per replicare alle dichiarazioni dell’ex presidente della Camera, secondo la quale la leader di Fdi non rappresenta una «destra moderna», ma «reazionaria, oscurantista, non europeista e liberale». 

L’ex ministro della Gioventù non ci sta e attacca anche Enrico Letta: «Il famoso Partito democratico dice in tv che, se democraticamente Fdi vincesse le elezioni, non potrebbe governare. Voglio dire, io comincio a suggerire a Enrico Letta di cambiare il nome di questo partito perché comincia ad essere un po' surreale e ridicolo... ». 

Alla domanda di Formigli, sottolinea Meloni, «Laura Boldrini dà una risposta fantastica: intanto dice "no"», che noi anche se vinciamo democraticamente le prossime politiche, non «possiamo governare. Dopodiché, ecco la cosa più divertente, c’è la ragione per la quale Fdi non potrebbe governare, anche nel caso i cui i cittadini, popolo sovrano, li votasse... Perché Fdi è un partito illiberale. E perché è un partito illiberale? Perché è contrario alla riforma del catasto, è contrario all’esproprio delle aziende balneari del governo per mettere all’asta degli stabilimenti e dargli alle multinazionali straniere. Cioè noi siamo illiberali e non possiamo governare, perché non vogliamo tassare le case e siamo illiberali perché pensiamo che un’impresa rispettando le regole che gli aveva dato lo Stato italiano dopo aver investito non possa essere espropriata per fare un favore ai soliti noti dei soliti poteri forti. Ecco a voi signori - conclude Meloni- la sinistra italiana spiegata in due minuti...».

“Gravità assoluta”. Annalisa Chirico si scaglia contro Laura Boldrini: le manca l'abc della democrazia. Il Tempo il 07 maggio 2022.

È nata una bufera per le parole di Laura Boldrini, esponente del Partito Democratico ed ex numero uno della Camera dei Deputati, in merito ad una possibile impossibilità a governare per Giorgia Meloni, che secondo i sondaggi è al primo posto nei partiti italiani con il suo Fratelli d’Italia. A mettere a tacere la Boldrini ci ha pensato Annalisa Chirico, giornalista de Il Foglio, esterrefatta per le dichiarazioni pronunciate con tanta nonchalance: “Le parole di Boldrini verso Meloni sono di una gravità assoluta. All’ex presidente della Camera manca l’abc della democrazia costituzionale. Governa chi prende più voti, e i voti li danno i cittadini. Questa superiorità morale ha rotto (non fa neanche più ridere)”.

Mauro Zanon per “Libero quotidiano” il 5 maggio 2022.

Per capire a cosa potrebbe assomigliare una Francia tutta a sinistra guidata da Jean-Luc Mélenchon, leader della France insoumise (Lfi) ed ex ministro dell'Istruzione del governo Jospin, è sufficiente ascoltare le parole di Aymeric Caron, ex opinionista televisivo che ha deciso di candidarsi sotto la bandiera mélenchonista alle prossime elezioni legislative (si terrano il 12 e il 19 giugno per rinnovare la composizione dell'Assemblea nazionale, la Camera bassa francese). 

In un estratto televisivo circolato ieri sui social network, e che ha creato una valanga di polemiche a Parigi, Caron invoca l'idea di un "permis de voter", una patente per votare da concedere soltanto a una parte dei francesi (quelli che votano a sinistra, va da sé) e affinché «il cittadino incolto e irresponsabile» non possa più avere «voce in capitolo». Candidato della France insoumise nel Diciottesimo arrondissement, Aymeric Caron è un pazzo pericoloso. Vuole delle patenti per votare per i cittadini che ne sono ritenuti degni. Chi decide? «La società». «È ignobile questo eugenismo civico», ha commentato in un tweet al vetriolo Emmanuelle Ducros, giornalista del quotidiano L'Opinion. 

L'estratto televisivo risale al 2017, ma la proposta è contenuta in un libro-programma che il neomélenchonista Caron ha pubblicato un po' di anni fa, "Utopia XXI": libro che è ancora disponibile sugli scaffali francesi e che è il manifesto del suo pensiero. 

Contattato da Tf1, il candidato alle legislative di Lfi ha detto di «non rinnegare le sue dichiarazioni», spiegando che «il criterio dell'età non basta» per il diritto di voto. «È questo dunque il nuovo progetto della Nuova unione popolare ecologica e sociale, un progetto estremista che porta alla morte della democrazia!», ha commentato la deputata della République En Marche Laëtitia Romeiro Dias, in riferimento alla coalizione dei partiti progressisti (socialisti, ecologisti e comunisti) guidata da Mélenchon che si presenterà compatta alle legislative. «Il candidato Lfi Aymeric Caron vuole instaurare "una patente per votare" contro i "cittadini incolti e irresponsabili".

Chi deciderà? Lui, immaginiamo», ha twittato Florian Philippot, ex braccio destro di Marine Le Pen, oggi presidente di Les Patriotes. Quando Caron dice che spetta alla "società" decidere, intende questo: «Così come la nostra società decide chi può essere medico e chi può essere avvocato, noi stessi abbiamo creato delle istanze con dei saggi per consegnare diplomi agli uni e agli altri. Allo stesso modo, spetta alla società decidere chi può condurre un'auto». Perché dunque non aggiungere anche il "patentino di voto"? L'idea fa rabbrividire chiunque abbia a cuore la democrazia. Non sorprende, tuttavia, che venga da un partito presieduto da un leader che ha come modello Maduro.

Articolo uno per cento. Ma che cosa se ne fa Letta di un partitino che porta pochi voti e tante ambiguità? Mario Lavia su L'Inkiesta il 25 Aprile 2022.

Il movimento di Speranza e Bersani, che è andato a congresso nel weekend, reclama «un passo di inclusione» da parte del Pd. In cambio, su un tema centrale come l’aggressione all’Ucraina, offre posizioni ben distinte e distanti da quelle della dirigenza dem (e molti applausi per Conte)

Ma che se ne fa Enrico Letta di Articolo uno? Perché dovrebbe imbarcare nel Pd un partito dalle dimensioni molto ridotte le cui posizioni sono ben distinte e distanti da quelle del segretario dem e di gran parte del suo gruppo dirigente?

Articolo uno – il cui congresso si è tenuto nel weekend – è un piccolo partito che cerca di presidiare uno spazio a sinistra del Pd senza farsi ingoiare dalla risacca estremista d’opposizione (tipo Nicola Fratoianni), aderendo cioè a una logica di governo e di mediazione.

Tuttavia l’impressione è che i suoi militanti e dirigenti non riescano o non vogliano rimuovere incrostazioni che vengano da lontano: l’antiamericanismo, una certa logica statalista e una qual rigidità “ideologica” e persino comportamentale (perché non invitare al congresso Italia viva se non per una rigidità di stile?).

Di qui l’evidente “tifo” per la sinistra del Pd (al congresso hanno parlato Andrea Orlando e Peppe Provenzano, i due capi di quella corrente), cioè per quel pezzo di Pd che Letta ha di fatto silenziato sulla questione più importante di tutte, il vero spartiacque storico e politico di questa fase, l’aggressione di Vladimir Putin all’Ucraina, e che in generale sembra più in sofferenza rispetto ai “fasti” della gestione de sinistra di Nicola Zingaretti.

Sulla guerra del Cremlino la posizione di Pier Luigi Bersani è ostinatamente per una trattativa che non è alle viste e che non basta desiderare e che sarà possibile solo se Kiev non soccombe: e questo continuo gridare “pace e trattativa” pare piuttosto una foglia di fico per poter continuare a criticare gli Stati Uniti e la Nato solo un pochino meno di quanto si condanni Mosca.

Esemplare da questo punto di vista il discorso di Massimo D’Alema, sempre acclamato dai suoi, incardinato su una doppiezza di fondo: la Russia è l’aggressore ma in fondo che cosa ha fatto l’Occidente per mantenere un ordine internazionale che le fosse gradito? È una domanda che apre una serie di riflessioni importanti ma che in qualche modo consente di sfuggire all’urgenza di oggi: battere Putin, in tutti i modi, che è tra l’altro la linea del governo Draghi di cui Articolo uno fa parte.

Insomma, l’idea che il Cremlino sia colpevole ma che abbia «anche qualche ragione» – un colpo al cerchio e un colpetto alla botte – insieme alla reale opposizione all’aumento delle spese militari – malgrado il sì espresso in Parlamento – è distonica rispetto a quella del governo, dell’Unione europea e della Nato: e dunque non amalgamabile con quella di Letta, Lorenzo Guerini, Piero Fassino, Vincenzo Amendola, Roberta Pinotti, Lia Quartapelle, il gruppo che dirige la politica internazionale del Pd. Mentre il congresso di Roberto Speranza si è spellato le mani per Gianfranco Pagliarulo e Maurizio Landini, capi neutralisti: ecco dunque che la guerra di Putin invece di unire ha allargato il fossato.

Dunque se Letta intendesse proseguire (e qui l’interrogativo è lecito) su una strada atlantista, riformista e politicamente “draghiana”, non avrebbe senso mettersi in casa esponenti che continuano a riporre massima fiducia in uno come Giuseppe Conte (molto applaudito dai congressisti), sposando persino la tesi che quest’ultimo sia un perseguitato dal “mainstream” e chissà da quali poteri, senza minimamente curarsi degli scandali sulla gestione dei servizi segreti e della missione russa nei giorni iniziali della pandemia. Coerentemente, Carlo Calenda ha ribadito ai congressisti che uno che non sceglie tra Emmanuel Macron e Marine Le Pen non è alleabile, e chissà se nell’animo di tanti bersaniani quell’equidistanza non dispiaccia.

Lo schema di Pier Luigi Bersani in fondo è lo stesso della famosa foto di Narni (2019) con Zingaretti, Conte e Speranza: il primo se n’è andato, il secondo ha perso la metà dei voti, il terzo regge (confermato senza avversari) alla guida del suo partitino, con la differenza che le elezioni si avvicinano e adesso Bersani è costretto a chiedere a Letta di aprirgli le porte del Nazareno da cui uscì – Renzi regnante.

Altrimenti il futuro del suo partito diventa davvero difficilissimo, e per questo Bersani chiede al Pd «una novità entro l’anno» come Speranza aveva reclamato «un passo di inclusione», e tuttavia Letta al congresso non è andato oltre la conferma del campo largo: alleanza sì ma sull’ingresso dei bersaniani non un accenno. Anche perché nel partito sono in molti a dire al segretario che non gli conviene spostare a sinistra l’asse del suo partito: non è da escludere che la cosa potrebbe far perdere voti più di quanto ne possa portare. E Letta lo sa.

Tasse e "Bella Ciao". La sinistra di governo dei marziani di Leu. Paolo Bracalini il 24 Aprile 2022 su Il Giornale.

Al congresso di "Articolo1" l'asse con Pd, M5s e Cgil. E Speranza vuole ancora le mascherine.

In pochi se ne sono accorti, ma al governo c'è anche Articolo Uno, il partitino di Speranza, che a Roma celebra un congresso con un unico candidato alla segreteria, il segretario Speranza medesimo, ovviamente riconfermato. Avendo più ministri che voti, il tema di Articolo Uno è trovare un modo per sopravvivere in Parlamento alle prossime elezioni, con i seggi dimezzati dal taglio dei parlamentari. Una prima ipotesi era quella di confluire tutti nel Pd, da dove vengono, ma il problema è che nel Pd non ce li vogliono perché i posti buoni in lista saranno pochi, ci manca solo di doverseli spartire con i profughi di Speranza. La strada quindi è quella di allearsi con Pd e M5s nel famigerato «campo progressista», nel quale la truppa di Speranza coprirà l'ala di sinistra-sinistra, il Pd quella di centro, e i grillini quella populista-qualunquista (settore magnificamente coperto da Conte), il ruolo che ha già nel governo Draghi, ma come alleato minoritario e ininfluente. E così il congresso di Articolo Uno (più noto come Leu, il nome del gruppo parlamentare di cui fa parte) si è aperto con il gruppetto dirigente che intona «Bella Ciao», in attesa di accogliere l'ospite Gianfranco Pagliarulo, l'ex comunista (già Pci, poi senatore cossuttiano) presidente dell'Anpi, che parteggia per la Russia e vuole smantellare la Nato. «Fatemi partire dai fondamentali. È la prima cosa che voglio dire: a a Milano alla grande manifestazione del 25 Aprile al fianco dell'Anpi. Il valore supremo dell'antifascismo va coltivato ogni giorno» dice Speranza, prima di ospitare sul palco Anastasia, una ragazza ucraina. Sono pacifisti, sono a fianco dell'Anpi, ma sono pur sempre nel governo Draghi, fermamente atlantista, infatti - controvoglia - hanno dovuto votare l'invio delle armi a Zelensky. Perciò il ministro ammicca all'Anpi e a tutto il mondo della sinistra anti-americana che, più o meno apertamente, è per il disimpegno dell'Italia nel conflitto ucraino, ospita sul palco il segretario della Cgil Maurizio Landini per il quale se continuiamo ad aiutare Kiev «c'è il rischio concreto che si trasformi in guerra nucleare». Ma Speranza deve tenere insieme anche la linea della sua maggioranza, per cui ricorda che «tutti i Paesi europei si sono giustamente schierati al fianco dell'Ucraina. Non ci si poteva voltare dall'altra parte. Si tratta di un' aggressione ingiustificabile. Non possono esserci zone grigie o giudizi a metà».

Per contrastare l'aumento dei prezzi dell'energia la ricetta del partito di Speranza è quella di tassare le imprese. I soldi, dice, «vanno presi senza paura di toccare gli extraprofitti». Tra gli ospiti della prima giornata, oltre al segretario Pd Enrico Letta, ci sono anche il leader M5s Giuseppe Conte e il ministro Luigi Di Maio. Perciò Speranza, che punta ad un'alleanza elettorale anche con i grillini oltre al Pd, li lusinga elogiando la misura più fallimentare del governo Conte, il reddito di cittadinanza: «Ci piaccia o no, rappresenta di fatto l'unica risposta per milioni di cittadini che vivono in condizioni disperate». Altro che smantellarlo come chiedono Renzi e Calenda (oltre al centrodestra). Lo stop alle mascherine all'aperto? Anche su questo la posizione della sinistra di governo è da marziani. «Più si tiene impianto di precauzione è più si contiene la pandemia - dice il ministro Speranza -. Siamo fuori dall'emergenza grazie ai vaccini, ma non siamo fuori dalla pandemia».

Ci sono troppe vie Togliatti ma Togliatti non è Balbo. Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 18 aprile 2022.

Caro Aldo, a proposito di Italo Balbo, concordo con lei che qualunque dedica a un gerarca fascista sia quantomeno inopportuna, specie se ha ucciso e fatto uccidere persone inermi. Considero peraltro che in Italia decine di strade e piazze celebrano il ricordo di Palmiro Togliatti, personaggio di ben altro spessore, ma che non ha lasciato solo buoni ricordi; mi riferisco al suo rifiuto di intervenire in aiuto dei soldati italiani che tornavano dalla Russia, sconfitti e tormentati dalla fame, dal freddo e dalla stanchezza. Il suo «niet» ha significato la morte di migliaia di giovani che avrebbero invece potuto ricostruirsi una vita. Cesare Calza, Milano

Caro Cesare, Capisco il suo ragionamento. E sono d’accordo con lei: ci sono in Italia fin troppe strade e vie dedicate a Palmiro Togliatti. Anche se la sua figura storica non può essere messa sullo stesso piano di quella di Italo Balbo. Togliatti ha sulla coscienza probabilmente più morti di quelli di Balbo. E i contadini e operai ferraresi massacrati dagli squadristi di Balbo — compreso un sacerdote, don Minzoni — non valgono né più né meno degli anarchici fatti fucilare non solo da Togliatti, ma anche da Togliatti nella Barcellona della guerra civile. Togliatti fu uno dei più stretti collaboratori di un criminale politico come Stalin; e se è vero che tentò sempre di moderare l’azione del dittatore di Mosca, è anche vero che fu sempre il collaboratore di un dittatore. Ma nella storia italiana Togliatti ebbe anche un’influenza positiva, che purtroppo non possiamo riconoscere a Balbo, nonostante le sue perplessità sulle leggi razziali, sull’alleanza con Hitler, sull’ingresso in guerra. Togliatti portò il comunismo italiano dentro il fronte antifascista durante la Resistenza, e poi dentro la costruzione della Repubblica e dello Stato democratico. Evitò una guerra civile come quella che insanguinò la Grecia. Invitò i suoi a tenere i nervi a posto financo dopo che un estremista di destra gli aveva sparato a bruciapelo. Continuò ad avere atteggiamenti inaccettabili, come quando si schierò con l’Unione sovietica nei giorni dell’aggressione agli insorti ungheresi. Era, come riconobbero anche i suoi nemici, uomo di vasta cultura e di grandi capacità di direzione politica. È insomma un italiano controverso. 

La morte di Gramsci. Un funerale in rosso con le bugie di Togliatti. Francesco Perfetti il 29 Giugno 2014 su Il Giornale.

"Il Migliore" tentò subito di attribuire la fine del fondatore del PCdI a Mussolini. Ma la sua fine rimanda piuttosto ai metodi staliniani...

Subito dopo la morte di Antonio Gramsci, avvenuta il 27 aprile 1937, Palmiro Togliatti pubblicò su Lo Stato Operaio un necrologio in cui scriveva che la morte del fondatore del PCdI rimaneva avvolta da «un'ombra che la rende inspiegabile» e lasciava intuire che dietro di essa potesse nascondersi la volontà di Mussolini e, più in generale, del fascismo di liberarsi definitivamente di un avversario irriducibile: «Chi conosce Mussolini e il fascismo sa che avanzare questa ipotesi è legittimo. La morte di Gramsci rimane inspiegabile, soprattutto per il momento in cui è avvenuta» quando, cioè, spirata la pena, egli «aveva il diritto di essere libero, di chiamare presso di sé amici e medici di fiducia, e di essere quindi liberamente assistito». Che l'ipotesi di Togliatti rispondesse a motivazioni di natura propagandistica è evidente, se non per altro, per la considerazione che né Mussolini né il fascismo potevano avere interesse a provocare la morte del leader comunista quando il regime era all'apice della popolarità. Tanto più che già nell'ottobre del 1934 era stata notificata a Gramsci la concessione della liberazione condizionale che sarebbe diventata totale libertà il 21 aprile 1937, pochi giorni prima della sua morte.

Le «ombre» evocate da Togliatti, tuttavia, non sono mai state dissipate, ma le anomalie che si riscontrano negli eventi che fanno da corona alla morte di Gramsci e le ricerche storiografiche sembrano condurre in una direzione diversa da quella indicata dal «Migliore». Le versioni sulla fine del fondatore del PCdI sono ammantate di mistero. Ce n'è una, per dir così, ufficiale, secondo cui Gramsci, colpito da ictus cerebrale, sarebbe morto dopo una lunga agonia fra le braccia della cognata Tatiana Schucht, che ne scrisse in proposito in una lettera inviata all'economista Piero Sraffa: una testimonianza che, considerata l'attività di «informatrice» della stessa, non è attendibile e appare il frutto di un tentativo di manipolazione. Ce n'è un'altra fondata sulla testimonianza di degenti della clinica, che parla di suicidio e che pure appare inverosimile. Ci sono ulteriori ipotesi a cominciare da quella che parla di un omicidio per avvelenamento, prassi che i servizi segreti sovietici erano abituati a seguire.

Nel 2008 lo storico Piero Melograni ricordò la reticenza che negli ambienti della cultura ufficiale marxista avvolgeva quell'evento e aggiunse: «Io, e non solo io, ho il sospetto, lo dico apertamente, che Gramsci sia stato ucciso per ordine dei sovietici, come in parte fanno pensare le parole di Togliatti». Concluse, poi, con un auspicio: «È un sospetto, un'ipotesi di ricerca e mi piacerebbe che gli storici lavorassero in futuro su di essa svolgendo indagini che non mi sembrano facili». L'invito è stato raccolto da Luigi Nieddu, un appassionato cultore di Gramsci alla cui memoria ha dedicato più volumi, il quale, al termine di un'indagine durata diversi anni e supportata da una puntigliosa ricerca archivistica e da un'approfondita conoscenza della letteratura in materia, ha sottoposto a critica tutti gli indizi che mettono in discussione la versione ufficiale della morte del fondatore del PCdI. Aghata Christie faceva dire a Hercule Poirot che un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza e tre indizi diventano una prova. Nel libro di Nieddu gli indizi sono ben più di tre. C'è la storia del certificato di morte non firmato da nessun medico e privo di indicazione delle cause del decesso; c'è la vicenda della cremazione del cadavere effettuata senza una richiesta esplicita e indispensabile secondo la legislazione del tempo. C'è la vicenda delle otto fotografie del cadavere di Gramsci, scattate dopo la morte, apparse, scomparse e ricomparse e, tutte e sempre, ritoccate. C'è l'altro mistero delle ciocche di capelli brizzolati prelevate dal fratello Carlo sulla salma prima che fosse avviata al forno crematorio, per qualche tempo esposte in una delle teche della Casa Museo allestita nel comune di Ghilarza dove Gramsci aveva vissuto gli anni dell'infanzia e dell'adolescenza e poi improvvisamente scomparse. E via dicendo.

Quel che sembra assodato è che Gramsci, attorniato da un nugolo di agenti messigli alle costole dall'Nkvd per il tramite di Lev Boris Helfand, figlio di quel Parvus che aveva organizzato nel 1917 il rientro di Lenin in Russia e che poi era diventato amico di Galeazzo Ciano, non intendeva trasferirsi in Urss temendo di finire sotto processo e di diventare vittima delle «purghe» di Stalin. Che i suoi timori non fossero campati in aria lo dimostra un episodio agghiacciante. Quando Davide Lajolo, che aveva visto le bozze del libro di Renato Mieli, Togliatti 1937, sui processi di quell'anno, chiese a Togliatti se le cose scritte su di lui fossero vere o false, si sentì rispondere che erano vere. E alla domanda successiva su che cosa avrebbe fatto Gramsci, se fosse stato al suo posto, ebbe questa lapidaria risposta: «Sarebbe morto!».

Luigi Nieddu non parla solo delle circostanze della morte di Gramsci. Nel suo volume c'è un'altra ipotesi importante relativa al famoso «quaderno» mancante dei Quaderni del carcere già oggetto di una lunga e articolata polemica storiografica cui hanno preso parte diversi studiosi gramsciani, da Franco Lo Piparo a Luciano Canfora. La tesi di Nieddu è che quel quaderno, di cui si è perduta traccia ma sulla cui esistenza non sussistono più dubbi, contenga gli appunti che Gramsci, anche sulla base della testimonianza del fratello, continuava a vergare, come aveva fatto in carcere, anche durante la permanenza nella clinica romana. Con molta probabilità, il contenuto di quel «quaderno» era scomodo per il partito e soprattutto per un Togliatti i cui rapporti con Gramsci erano diventati tempestosi, anche perché Gramsci era convinto che all'origine della sua condanna al carcere ci fossero concrete responsabilità di un Togliatti divenuto, ormai, stalinista convinto e inossidabile.

I protocolli dei Savi di Kiev. Dagli zar a Putin, i russi sono sempre stati maestri di menzogne. Maurizio Stefanini su L'Inkiesta il 12 aprile 2022.

Un libro di Bigazzi, Fertilio e Germani racconta i meandri della dezinformacija (molto più di fake news), cioè il metodo di distorsione delle informazioni con falsità, depistaggi, invenzioni che è diventato celebre in epoca sovietica e prosegue anche adesso.

“Bugie di guerra, la disinformazione russa dall’Unione Sovietica all’Ucraina” si intitola il libro di Paesi edizioni che esce giovedì e che cerca appunto di ricostruire la continuità di un certo tipo di propaganda.

Il racconto inizia già da una copertina che raffigura la ragazzina simbolo della guerra in Ucraina, immortalata dal padre fotografo il 22 febbraio 2022 – cioè due giorni prima dell’inizio della guerra – con il lecca lecca e il fucile in mano, in attesa dell’invasore russo come fosse una vedetta. «L’autore del manifesto si chiama Oleksii Kyrychenko, ed è il padre della bambina che ha scattato e poi pubblicato sul suo profilo Facebook la foto-simbolo della guerra e dei suoi orrori», spiega l’editore Luciano Tirinnanzi nella premessa del libro. «Perché abbiamo scelto quell’immagine così forte ed evocativa? Non solo per rendere ancora più attuale il contenuto di questo libro, ma anche perché la storia di quella foto resterà a lungo come un caso-scuola della comunicazione visiva e, al tempo stesso, della propaganda politica in tempo di guerra. Che poi è l’oggetto ultimo di questo saggio».

«Mi chiamo Oleksii. Ho una moglie e tre figli. Prima della guerra lavoravo come ingegnere in un’azienda di Kiev. Vivevo nella mia casa in una piccola città vicino a Kiev. La fotografia è il mio hobby. Mi sono diplomato in arte fotografica», ha raccontato il padre. «La tensione nervosa era molto grande nelle ultime settimane prima della guerra. L’Occidente e l’intelligence ci parlavano di una guerra inevitabile, ma per noi era incredibile. Allo stesso tempo, la società occidentale ha dimostrato di essere “preoccupata” ma di non far seguire subito sanzioni contro la Russia. Così ho deciso di fare delle foto che potessero attirare l’attenzione sulla possibile guerra. Desideravo dimostrare come sarebbe potuta apparire l’Ucraina nel prossimo futuro. Come si può vedere, ho scattato questa foto il 22 febbraio 2022, cioè due giorni prima dell’inizio della guerra». La foto della figlia con una caramella e un fucile in un edificio abbandonato. «La pistola è mia, mia figlia non sa sparare. Lei ha 9 anni. Naturalmente, la pistola non è stata caricata durante le riprese».

Racconta Oleksii che lo stesso giorno ha pubblicato la foto su alcuni gruppi Facebook di fotografi stranieri. È stato immediatamente bandito in quelli con amministratori russi, ma anche negli altri gruppi ci sono state dure critiche. «Infine, la foto è rimasta visibile in un solo gruppo. E l’indomani, senza dichiarare guerra, alle 4 del mattino, Putin ci ha attaccato. […]. Alcuni giorni fa, ho caricato questa foto nel gruppo ucraino di Facebook “hobby per la coltivazione di cactus”. E improvvisamente si è diffusa in tutto il mondo ed è diventata un meme. Poi questa foto è stata pubblicata persino da Donald Tusk (grazie, Donald!) nel suo tweet al Parlamento europeo. Ora, l’atteggiamento verso questa foto è completamente diverso, in quanto il mondo ha visto il vero volto dell’invasione russa». 

Osserva Tirinnanzi, «ciò che il fotografo intendeva comunicare, l’indignazione che intendeva suscitare, è dunque arrivato in tutta la sua drammaticità a ciascuno di noi. In modo meno edulcorato e certo non in posa, infatti, simili scene si sono poi verificate puntualmente: il popolo ucraino davvero resiste e arma i suoi figli contro l’invasore russo, per non vederli morire». Che è poi il messaggio esattamente contrario a quello di Alessandro Orsini secondo cui «i bambini possono vivere bene anche sotto una dittatura», efficacemente volgarizzato da Crozza nel concetto «e hanno anche meno carie, perché con la fame non abusano di zuccheri».

Il libro è poi diviso in tre parti. “Dezinformacija. La strategia del Cremlino dall’epoca sovietica alla Russia di Putin” è a cura di Luigi Sergio Germani: direttore scientifico dell’Istituto Gino Germani di Scienze Sociali e Studi Strategici, ed esperto di politica interna ed estera russa, con particolare riferimento alle strategie di guerra ibrida e servizi d’intelligence russi. «Sin dall’antichità la disinformazione come strumento di potere costituisce un argomento centrale del pensiero politico e strategico», ricorda. «E ciò vale sia in Oriente che in Occidente. Basti pensare ai trattati di strategia militare dei pensatori dell’antica Cina – e in particolare lo stracitato Sun Tzu, secondo cui “tutta la guerra si basa sull’inganno” – che sottolineano l’importanza di confondere la mente del comandante nemico e demoralizzare le sue truppe».

Ma la Russia in ciò ha raggiunto delle vette. Già in epoca zarista, se si pensa al modo in cui l’allora servizio segreto Ochrana fabbricò il famigerato falso antisemita dei “Protocolli dei Savi di Sion”. Ma in epoca sovietica a tal punto la fama del know-how sovietico in materia crebbe che “Dezinformacija” divenne un termine internazionale. Faceva parte «di una categoria più ampia degli strumenti utilizzati da Mosca – le cosiddette “misure attive” (aktivnye meroprijatija) – per creare divisioni e instabilità all’interno del mondo occidentale, e fiaccare sempre di più la sua volontà di fronteggiare la sfida sovietica a livello militare». Così furono diffuse ad esempio le voci che il virus Hiv/Aids era stato creato dal Pentagono nell’ambito di un progetto di ricerca sulle armi biologiche svolto nella base militare di Fort Detrick, nel Maryland; che la Cia aveva assassinato John F. Kennedy, Martin Luther King, Olaf Palme e Indira Ghandi; che il Pentagono avrebbe prodotto un’arma «etnica» in grado di uccidere solo le persone di colore ed innocua per i bianchi; che bambini sudamericani verrebbero cresciuti e ingrassati per fornire organi umani destinati al mercato americano; che la Cia e i servizi segreti italiani avrebbero appoggiato le Brigate Rosse e le formazioni terroristiche di estrema destra in Italia nell’ambito della «strategia della tensione».

Non era però solo verso l’esterno ma anche verso l’interno: «il controllo dell’informazione consentiva al regime sovietico di sopprimere l’autonomia della società civile, impedendo ai cittadini di costituire delle comunità indipendenti dal Partito-Stato, assicurando così la completa sottomissione della società e degli individui all’apparato di potere». È «un’eredità che la Russia di Vladimir Putin ha ereditato e applica ancora oggi alla lettera», anche perché nell’era della Rete e dei Social vi sono opportunità in passato sconosciute. Gli «hacker patriottici» diventano a loro volta uno strumento essenziale. Sono tutti strumenti di guerra non lineare che il Cremlino ha scatenato fin dall’inizio della crisi ucraina nel 2014. Nella propaganda anti-ucraina sono stati utilizzati tra loro elementi chiaramente in contraddizione: definire il governo di Kyiv «nazista» è ad esempio non omogeneo al definirlo «asservito a lobby gay», dal momento che i nazisti gli omosessuali li mandavano nei lager.

È lo stesso che sì è visto al momento dell’abbattimento del volo MH17 Amsterdam-Kuala Lumpur della Malaysia Airlines da parte di un missile dei separatisti filo-russi del Donbass, quando fonti russe hanno diffuso le tesi sia che il missile fosse stato lanciato dagli ucraini e/o che fosse stato un missile israeliano; sia che fossero stati invece caccia ucraini, o Usa, o Nato; sia che c’era una bomba a bordo. La stessa eterogeneità di tesi che abbiamo visto sui cadaveri di Bucha, di cui le fonti russe hanno sostenuto sia che fossero in realtà attori; sia che fossero stati messi dopo; sia che fossero stati uccisi dagli ucraini. Come spiega Germani, «per i tecnici della disinformazione del regime putiniano, …l’idea della verità è irrilevante. Anzi, un obiettivo della disinformazione russa di oggi è sovvertire il concetto di “verità” e accreditare l’idea che non esiste una versione “vera” degli eventi, allo scopo di paralizzare il processo decisionale del target cui si mira. Quindi, la disinformazione russa oggi mira non tanto a prima parte persuadere il pubblico di destinazione a credere a una tesi precisa, ma piuttosto punta a creare confusione cognitiva, a mettere in dubbio le narrazioni occidentali, a relativizzare e screditare il concetto di “verità” facendo passare l’idea che esistano “molteplici verità” e che tutta l’informazione è manipolata, da qualunque parte essa provenga». Un po’ quello che si è visto sulle polemiche No Vax, infatti pompate a loro volta dai troll putiniani.

“La guerra fredda e l’ingerenza russa in Italia”, la seconda parte, è di Francesco Bigazzi: già direttore dell’Ansa, poi corrispondente del Giorno e di Panorama, è stato collaboratore di numerose riviste scientifiche, settimanali e quotidiani. Dal 2004 al 2009 addetto stampa e cultura presso il consolato generale di San Pietroburgo, è uno dei massimi esperti italiani del dissenso dell’Est europeo. Anche lui ricorda come «L’importanza della dezinformacija cresce enormemente negli anni del terrore staliniano, fino a diventare uno dei settori più importanti dell’attività del Kgb. Nel momento stesso in cui Felix Dzerzhinsky decide di dare vita alla Čeka, ritiene indispensabile creare contemporaneamente un Ufficio disinformazione. Del resto, proprio quando Stalin, nella primavera del 1946, intende riorganizzare il Kgb, ecco che nel nuovo organico viene inserita un’apposita struttura specializzata nel lavoro di disinformazione. In questa nuova Direzione è previsto che agiscano di concerto la sezione “DN” e il Gruppo speciale per missioni particolari presso il ministero della Sicurezza di Stato».

Nel tracciare questa storia, Bigazzi dedica un ampio spazio alle risorse investite nell’editoria. «Non è un caso che una parte molto rivelante dei finanziamenti del Pcus ai partiti “fratelli” abbia finito per essere convogliata nel settore propaganda. Le case editrici “sorelle” sin dagli anni Cinquanta cominciano a ricevere somme di denaro sempre più grandi. L’appetito verrà mangiando. Per soddisfare la sete di denaro della stampa non solo “sorella”, ma anche “amica”, si escogitano nuovi sistemi di finanziamento, sempre più sofisticati. Al punto che i loro corrispondenti stranieri dalla fine degli anni Cinquanta, nel vano tentativo di sviare i sospetti, vengono foraggiati nientemeno che con i soldi fatti versare dalla Croce rossa e dalla Mezzaluna rossa».

Nel ricostruire vicende di rapporti con vari gruppi editoriali italiani, «a dir poco singolare» viene definita «la vicenda del quotidiano Paese Sera che riesce, con metodi oltremodo sbrigativi e al limite del ricatto, a ottenere un ultimo finanziamento alla vigilia del crollo. Come si può leggere in un documento di cui chi scrive è entrato in possesso, il Pcus autorizza il pagamento di 900 milioni di lire alla testata per la seguente motivazione: «Il compagno “N” [il cui nome non viene rivelato perché al momento in cui viene mandato in stampa questo libro si trova sotto inchiesta giudiziaria, nda] è estremamente convincente quando afferma che potrebbero emergere “rivelazioni scandalose a proposito degli organismi, delle proposte e delle persone che impartivano ordini”». Cioè, o pagate, o diciamo che ci avete pagati!

C’è d’altronde un altro documento, del 17 gennaio 1983. «In conformità alla delibera del Cc del Pcus del 22 maggio 1982 è stata prestata un’assistenza finanziaria alle forze sane del Partito comunista italiano (Armando Cossutta). Questo ha permesso loro di acquistare il pacchetto azionario di controllo del quotidiano Paese Sera, di sostituire il direttore del giornale e alcuni corrispondenti esteri. Il passaggio di questo quotidiano, largamente conosciuto in Italia, nelle mani del compagno Armando Cossutta e dei suoi amici schierati su posizioni marxiste-leniniste e in rapporti di amicizia con l’Urss, permetterà al giornale di fornire una corretta interpretazione della politica estera e interna dell’Unione Sovietica e di contribuire alla propaganda delle conquiste del socialismo reale, del movimento comunista internazionale e del movimento operaio italiano, con ampia eco anche in altri Paesi capitalistici. Per poter proseguire la pubblicazione del giornale, gli amici stanno facendo ogni sforzo per raccogliere i mezzi a loro disposizione. Nel contempo il compagno Armando Cossutta chiede che venga fornito da parte nostra un aiuto urgente (telegrammi cifrati Kgb da Roma prot. Spec. 2994 dell’1 dicembre e prot. Spec. 3333 del 26 dicembre 1982). Secondo gli amici un tale aiuto potrebbe essere preteso vendendo loro, con una usuale transazione commerciale in valuta, 600 mila tonnellate di petrolio e 150 mila tonnellate di carburante per motori diesel, ma applicando condizioni di favore – una certa diminuzione dei prezzi (1% circa) e una maggiore rateazione dei pagamenti (3-4 mesi invece del mese solitamente concesso). Sarebbe opportuno soddisfare la richiesta summenzionata degli amici italiani affinché questi possano ottenere dalla transazione commerciale circa 4 milioni di dollari. Boris Ponimariov». Direttore del Dipartimento internazionale del Pcus dal 1955 al 1986.

“Le tecniche moderne: cyber disinformazione e giornalismo collettivo”, cioè la terza parte, è infine di Dario Fertilio: giornalista, scrittore, docente di Teorie e tecniche della comunicazione giornalistica all’Università Statale di Milano, e con Vladimir Bukovskij ideatore di Memento Gulag, giornata della memoria per le vittime dei totalitarismi che si celebra il 7 novembre. Ci ricorda che una novità apportata da Putin nella storia della propaganda e della guerra parallela è consistita nella invenzione di «una vera e propria fabbrica di troll». «Ovvero, nel gergo di Internet, utenti anonimi di una comunità virtuale, che intralcia il normale svolgimento di una discussione inviando messaggi provocatori, irritanti o fuori tema».

«Nota in Occidente come Internet research agency (Ira), la Agenstvo Internet Issledovanij è la principale fabbrica di troll russa. Si sviluppa rapidamente, impiegando già nel 2015 più di mille dipendenti nella sede centrale di San Pietroburgo, quartiere di Olgino, allungando i suoi rami operativi su un’area vasta e difficilmente controllabile (dal momento che molti collaboratori lavorano su pc remoti in differenti località)». «Qualche fuga di notizie e vari studi di contro-intelligence europea e americana permettono di conoscere diversi particolari organizzativi della “fabbrica di troll”: persino gli stipendi accordati alle reclute, che pur aggirandosi su appena 700-800 euro al mese, costituiscono comunque un reddito allettante per un cittadino medio in Russia. Ogni membro dell’agenzia ha il compito di crearsi alcuni account falsi, dai quali diffondere una quantità fissa giornaliera d’informazioni fittizie o inquinate su argomenti sensibili per la politica estera di Mosca».

«Quali? Sostenere la legittimità dell’occupazione della Crimea ucraina; la guerra contro Kiev; influenzare la politica americana (il che avviene per la prima volta in occasione delle elezioni presidenziali che portano all’elezione di Donald Trump)». La supervisione del commando di manipolatori in rete spetterebbe a un amico personale del presidente Putin, Vyacheslav Volodin, già presidente della Duma. «L’efficacia di questa fabbrica della disinformazione risiede essenzialmente nel coordinamento delle attività: una volta individuato il bersaglio, si procede all’invasione di siti, blog e social network, diffondendo notizie allarmanti e manipolate (come l’inesistente esplosione di una fabbrica chimica in Louisiana). Oppure critiche all’opposizione interna russa (segnatamente nei confronti del dissidente Aleksey Navalny). O ancora elogiando l’azione di Vladimir Putin e di Mosca, prima durante la guerra in Siria, al fianco del presidente Bashar al Assad, e poi al momento dell’invasione in Ucraina. «Normalmente i troll utilizzano per comodità i contenuti propagandistici diffusi da agenzie controllate dal Cremlino – come Russia Today o Sputnik News – ma in alcune circostanze confezionano anche prodotti più sofisticati, come nel 2015 il video falso, interpretato da un attore, in cui un soldato americano sparava platealmente contro un Corano».

All’attenzione mondiale è arrivata in particolare l’attività di questi troll in occasione della campana elettorale Usa del 2016, ma non sono mancate operazioni in Italia. Dall’offensiva contro Mattarella, con un hashtag sostenuto da centinaia di profili che ne chiedevano le dimissioni, ai commenti sulla operazione «Dalla Russia Bugie di guerra con amore»: la missione sanitaria mandata nell’Italia in preda alla pandemia all’epoca presentata come operazione umanitaria, di cui alla fine sono saltati fuori pesanti retroscena non solo propagandistici ma addirittura spionistici.

Ecco tutte le fake news dei russi per coprire i massacri. Alessandro Ferro su Il Giornale il 10 aprile 2022.

In ogni guerra, in ogni conflitto, la vera verità non è mai al 100%: propaganda, fake news, esagerazione e qualsiasi altro aggettivo fanno parte integrante dello scontro. La prima cosa inconfutabile di quanto succede in Ucraina, però, è che Putin abbia invaso deliberatamente il Paese di Zelensky, e chi trova giustificazioni per qualcosa del genere mente sapendo di mentire. L'invasore, però, ha raccontato e racconta a se stesso e alla propria gente una serie di panzane inenarrabili, al limite del ridicolo, convincendosi e provandosi a convincere che le cose vadano esattamente come dicono loro. I russi di Putin stanno commettendo una serie di violazioni incredibili che vanno contro tutte le regole di guerra, dalle Convenzioni di Ginevra allo Statuto di Roma oltre ad altre leggi e accordi internazionali, molti delle quali la Russia stessa è firmataria. Ecco come smonteremo pezzo per pezzo le frottole raccontate dall'informazione (finta) putiniana.

Il bombardamento degli edifici

"L'esercito russo non colpisce i civili", ha affermato più di un commando militare russo: ma è credibile, una cosa del genere, di fronte a decine di migliaia di condomini bombardati in giro per l'Ucraina? Obiettivamente sarebbe stato meglio tacere. Quella che hanno chiamato "missione militare speciale" riguarda non soltanto obiettivi sensibili ma la stessa incolumità dei civili. Come abbiamo scritto sul Giornale.it, "gli oggetti civili non devono essere oggetto di attacco o di rappresaglia. Gli attacchi devono essere strettamente limitati a obiettivi militari", recita l'Art.52 del Protocollo aggiuntivo alle Convenzioni di Ginevra dell'8 giugno 1977. Questa sezione si concentra sui selvaggi attacchi della Russia contro edifici e infrastrutture civili. I russi stanno bombardando case familiari tranquille, ospedali dove le persone stanno già combattendo per la propria vita. Asili, scuole e persino rifugi antiaerei. Ed è la prima, grossa, fake news alla Putin.

Il numero dei russi uccisi

Come abbiamo visto sul nostro Giornale, una delle propagande più becere che la Russia porta avanti dal 24 febbraio riguarda i caduti sul campo di battaglia: quanti sono esattamente? Se, certamente, gli ucraini montano i decessi per eccesso, i russi li montano per difetto. Tra le 1.300 perdite complessive che dichiara il Cremlino e le 19mila dichiarati dall'Ucraina c'è una bella forbice che non può mai essere né a favore del primo numero e neanche del secondo. Questo significa che i russi hanno subìto ingenti perdite, molto più gravi delle previsioni, e che si cerca di nascondere ad arte quanto accaduto con dietrofront, smentite, accuse. Una disinformazione a prova di Putin, che nel suo Paese chiude le redazioni contro il regime.

La fake news dell'ospedale

Una delle cose più gravi accadute finora è lo scempio che hanno provocato i russi nell'ospedale di Mariupol, città devastata e rasa al suolo. Come sottolinea il Corriere, lo stesso Cremlino ha risposto con tesi diverse: prima ha sostenuto che l'edificio fosse vuoto di pazienti e pieno di "neonazisti del Battaglione Azov". Poi, accortosi che non esistono resti militari, ha inventato la balla della recita. Una recita? Ma neanche un bambino di 5 anni crederebbe alla "recita". L'ambasciata russa a Londra bolla come "fake" una delle gestanti, "È una beauty blogger ingaggiata per recitare in due parti". Una ragazza partorisce, l'altra muore. La prima viene intervistata dai media filorussi che titolano sull'"imbroglio dell'ospedale". Però, le parole della sopravvissuta sono ben diverse da quelle raccontate da Mosca e la versione russa viene smentita, e zittita. La neomamma, infatti, ha raccontato ogni momento del vero bombardamento e della vera morte dell'altra donna.

Gli orrori a Bucha

L'altra follia a cui abbiamo assistito in questi giorni è la negazione di quanto accaduto a Bucha, città degli orrori che al momento conta 360 civili uccisi e molto bambini. "I cadaveri che vedete sulle strade di Bucha non esistevano prima che i soldati russi arrivassero. Cioè se ne andassero": il lapsus freudiano dell'ambasciatore russo all'Onu, Vasily Nebenzy, è veramente la punta dell'iceberg delle frottole. Come quando si parlava dell'ospedale che, secondo la versione russa, si trattava di manichini, morti finte, non persone vere in carne e ossa. Anzi, in realtà corpi presi chissà da dove per "una messinscena ben organizzata" come ha affermato il portavoce dello zar, il fedelissimo Dymitri Peskov. A incastrare ulteriormente i russi anche le immagini dei droni, dall'alto, a mostrare lo scempio compiuto ovunque. Ma neanche quelle servono a far ammettere qualcosa.

La strage di Kramatorsk

Infine, la strage compiuta nella stazione di Kramatorsk dove 50 innocenti sono morti, era stata anche questa premeditata dai russi: due missili cadono tra gli sfollati in attesa del treno, si viene a sapere della notizia della strage ma un canale Telegram filorusso cancella il post di pochi minuti prima dove si annunciava un attacco missilistico con tanto di post: "vedranno l'inferno". Il Cremlino probva a buttare la questione sul tipo di missile, non prodotto da Mosca e che si tratta di una "provocazione per addossarci la colpa". I missili SS21 (classifica Nato) sono assolutamente in uso tra le forze filorusse del Donbass, lo sanno tutti. Putin, però, è così convinto che gli Occidentali siano scemi da raccontarne una al giorno. Ma il tempo, lo sappiamo, saprà essere galantuomo.

Lo sterminio comunista degli Ucraini. Di Andrea Lombardi su Culturaidentita.it il 25 Febbraio 2022

Inedite per la maggior parte in Italia e qui presentate per la prima volta nel loro insieme grazie all’Ucrainica Research Institute di Toronto (Canada) che ci ha permesso di riprodurle, pubblichiamo queste rarissime fotografie della carestia pianificata e della collettivizzazione forzata sovietica dell’Ucraina del 1932-1933, e delle sue vittime, e a corredo del testo riprendiamo un approfondimento storiografico a cura di Riccardo Michelucci (“Avvenire”) su questo importante avvenimento “dimenticato” del ‘900, tornato ora tragicamente alla ribalta. 

Poco più di trent’anni fa, il grande storico inglese Robert Conquest inaugurò gli studi sul cosiddetto “Holodomor”, il più imponente sterminio della storia europea del XX secolo dopo l’Olocausto. Nel suo monumentale lavoro pionieristico Harvest of Sorrow (tr. it Raccolto di dolore), uscito nel 1986 – prima del crollo dell’Unione Sovietica -, riuscì a documentare il disegno criminale di Stalin che causò la morte per fame di milioni di ucraini, nei primi anni ’30. Da allora il dibattito ha visto gli storici dividersi non tanto sulle cause della carestia, quanto per stabilire se sia corretto o meno definirla «un atto di genocidio», con le implicazioni politiche che ne deriverebbero.

Il primo a ritenerlo tale, molti anni prima dello stesso Conquest, era stato Raphael Lemkin, il giurista polacco che coniò il termine genocidio e si batté per inserirlo nel diritto internazionale. Un riconoscimento ufficiale del dramma ucraino è stato però finora sempre ostacolato dall’opposizione prima dell’Unione Sovietica, poi della Russia. Un contributo importante in questo dibattito arriva adesso dal saggio Red Famine: Stalin’s War on Ukraine della studiosa Anne Applebaum, già vincitrice del premio Pulitzer nel 2004 per un libro sui gulag dell’era sovietica. Editorialista del Washington Post e grande esperta di storia russa, Applebaum si è avvalsa di una gigantesca mole di fonti documentarie inedite provenienti da archivi locali e nazionali russi e ucraini (alcuni dei quali aperti per la prima volta negli anni ’90), nonché testimonianze orali dei sopravvissuti pubblicate dall’Istituto ucraino della memoria nazionale.

Com’è stato sottolineato da altri storici, la brutale collettivizzazione delle terre voluta da Stalin scatenò e poi intensificò quella carestia, che non colpì soltanto l’Ucraina ma interessò anche altre parti dell’Unione Sovietica. Nelle lettere private degli archivi di stato russi, i leader sovietici parlano di «spezzare la schiena alla classe contadina», e la stessa politica venne attuata nei confronti della Siberia, del Caucaso del nord e della zona del Volga, causando anche l’annientamento di oltre la metà della popolazione nomade del Kazakhstan.

Non v’è dubbio, però, che i maggiori danni e il più alto numero di vittime sia stato registrato proprio in Ucraina, dove le radici storiche di quei fatti, come racconta Applebaum, affondano nei secoli precedenti. I territori che gli zar avevano confiscato agli ottomani e ai cosacchi nel XVII e XVIII secolo cominciarono a essere considerati parte essenziale dell’impero russo fin dall’ascesa della dinastia Romanov. Durante la guerra civile che seguì la rivoluzione bolscevica, la classe contadina ucraina, essenzialmente conservatrice e anti comunista, non volle mai sottomettersi al nuovo potere e resistette strenuamente alle armate di Lenin. Sul finire degli anni ’20 i contadini furono costretti ad abbandonare le loro terre per aderire alle fattorie collettive dello stato. Gran parte di essi si opposero duramente alla collettivizzazione, rifiutandosi di cedere il grano, nascondendo le derrate alimentari e uccidendo il bestiame. Il politburo sovietico lo considerò un atto di ribellione e, pur di fronte alla sempre più grave carenza di cibo nelle campagne, mandò gli agenti e gli attivisti locali del partito a requisire tutto quello che trovavano, compresi gli animali. Al tempo stesso fu creato un cordone attorno al territorio ucraino per impedire la fuga.

Il risultato fu un’immane catastrofe: almeno cinque milioni di persone morirono di fame in tutta l’Urss non a causa del fallimento delle coltivazioni, ma perché furono deliberatamente private dei mezzi di sostentamento. Di questi, circa quattro milioni erano ucraini. Stalin rifiutò qualsiasi forma di aiuto dall’esterno, accusò i contadini che stavano morendo di fame di essere loro stessi colpevoli di quanto stava accadendo e promulgò leggi draconiane che esacerbarono la crisi. Chiunque veniva trovato in possesso anche solo di una buccia di patata era passato per le armi.

Applebaum spiega che la carestia non fu causata dalla collettivizzazione, ma fu il risultato della confisca del cibo, dei blocchi stradali che impedirono alla popolazione di spostarsi, delle feroci liste di proscrizione imposte a fattorie e villaggi. Il capitolo sulle conseguenze della carestia è a dir poco agghiacciante: dopo aver citato un rapporto riservato nel quale il capo della polizia segreta di Kiev elenca 69 casi di cannibalismo in appena due mesi, racconta casi di persone che uccisero e mangiarono i propri figli, la totale estinzione di cani e gatti, la scomparsa della popolazione di interi villaggi, i carri per il trasporto dei defunti che raccoglieva anche i moribondi e poi li seppelliva ancora vivi. Il mondo contadino ucraino fu il bersaglio principale di quegli anni di terrore che vide anche brutali persecuzioni antireligiose, con la sconsacrazione e la distruzione delle chiese, la lotta allo scampanio che rappresentava un’antica tradizione popolare.

Lo sguardo della studiosa statunitense si sofferma su tutti gli aspetti della vicenda, analizzando anche il modo in cui l’identità nazionale dell’Ucraina post-sovietica sia stata costruita attorno a essa, e approfondisce il tema delle coperture nazionali e internazionali che hanno consentito di celarla agli occhi del mondo. Non solo l’Unione Sovietica non la riconobbe mai, ma soffocò qualsiasi forma di dissenso e manipolò le statistiche demografiche, secondo le quali nel 1937 circa otto milioni di persone risultavano svanite dal Paese. Quanto ai corrispondenti a Mosca dei giornali stranieri, con la sola eccezione dell’eroico giornalista gallese Gareth Jones, non si sognarono di raccontare quei fatti. William Henry Chamberlin del “Christian Science Monitor” scrisse che i cronisti «lavorano con una spada di Damocle sulla testa: la minaccia di espulsione, o il rifiuto di un permesso per rientrare, che è poi la stessa cosa».

Ma l’Holodomor fu davvero un atto di genocidio? Applebaum non ha dubbi e ritiene che quanto accadde tra il 1932 e il 1933 coincide perfettamente con la definizione di Lemkin, ma resta purtroppo escluso dalla formulazione redatta nel 1948 con la “Convenzione sul genocidio”. Non a caso l’Unione Sovietica vi contribuì in modo decisivo proprio al fine di escludere l’olocausto ucraino. Finché il diritto internazionale non sarà aggiornato in tal senso, l’Holodomor continuerà dunque a rimanere formalmente escluso dalla lista dei genocidi.

La caccia agli ebrei di Stalin, l’ultima purga dell’Urss. Andrea Muratore su Inside Over il 29 gennaio 2022.  

L’Unione Sovietica di Stalin è stata, nella seconda guerra mondiale, la nazione grazie alla cui avanzata si sono potuti scoprire i peggiori orrori associabili al regime nazista, primi fra tutti i campi di sterminio liberati dall’Armata Rossa tra il 1944 e il 1945 nella sua avanzata verso Occidente. Avendo, inoltre, subito più perdite di ogni altro Paese per la guerra e per le politiche di pulizia etnica e di sterminio condotte dai tedeschi, prima fra tutti la “Soluzione Finale” della questione ebraica, l’Urss staliniana volle porre nell’immediato dopoguerra la questione del superamento dell’oppressione di popoli come gli ebrei in cima all’agenda politica. Stalin contribuì in maniera decisiva alla nascita di Israele nel 1948, i suoi alleati (Cecoslovacchia in testa) armarono Tel Aviv fino ai denti, il blocco comunista lo sostenne in sede Onu.

Ma negli ultimi anni del regime il graduale avvicinamento di Tel Aviv all’Occidente, unitamente all’apertura di frange sotterranee e di settori del potere sovietico a una distensione della Guerra Fredda in vista della successione a Stalin portò gli ebrei nel mirino della dittatura bolscevica come potenziale “popolo ostile”. La morte di Stalin interruppe, in tal senso, quella che fu l’ultima purga del trentennio del suo dominio sullo Stato comunista: la repressione del presunto complotto dei medici ebrei. Una delle pagine meno conosciute della storia dell’Urss.

L'ultima campagna di terrore e le sue origini

Il 13 gennaio 1953 Stalin parlò alla popolazion sovietica e le annunciò l’esistenza del “complotto dei medici” : secondo le accuse del dittatore sovietico, nove medici che curavano personalmente gli inquilini Cremlino e il loro entourage, di cui sei ebrei, avevano assassinato tra il 1945 e il 1948 alcuni stretti collaboratori di Stalin e si preparavano a uccidere i maggiori dirigenti politici e militari dell’Urss, secondo gli ordini ricevuti “dagli imperialisti occidentali e dai sionisti”.

Così facendo l’anziano dittatore voleva rendere esplicito un clima di tensione e terrore per alzare l’escalation di una repressione già avviata da alcuni anni con attacchi mirati a esponenti dell’apparato, molti dei quali ebrei.

Va sottolineato un fatto importante: gli ebrei nella Rivoluzione bolscevica e nell’edificazione dell’Urss erano stati a lungo protagonisti. Fortemente repressi dall’impero zarista, ben inseriti nelle città nei club culturali e politici, i membri dell’élite ebraica di aree come Mosca e San Pietroburgo avevano contribuito sia al progetto di Lenin che all’edificazione del regime di Stalin. Ebreo era Lazar Kaganovic ed ebree erano le consorti di due suoi colleghi nel Politburo del Partito Comunista, Vjaceslav Molotov e Kliment Vorosilov, così come l’ex rivale di Stalin Lev Trotskij, comandante dell’Armata Rossa durante la guerra civile. Tutti gli ebrei dell’Europa orientale avevano poi visto i sovietici come liberatori proprio perché la scelta dei nazisti era stata il loro sterminio. Gli ebrei avevano combattuto nell’Armata Rossa contro i tedeschi ricevendo in proporzione alla popolazione un numero di onorificenze maggiore di ogni altro gruppo etnico.

Tuttavia, già pochi mesi dopo la nascita di Israele, nel maggio 1948, il regime staliniano iniziò a vedere gli ebrei come “quinte colonne” ostili. “Tra la fine del 1948 e l’inizio del 1949” – scrive Timothy Snyder in Terre di sangue – “la vita pubblica in Unione Sovietica virò verso l’antisemitismo” anche remando contro la genuina simpatia della popolazione di molte aree del Paese per uomini e donne che avevano sofferto privazioni ancora più gravi delle loro durante l’invasione e l’occupazione nazista di parte del Paese. “Stalin aveva deciso che gli ebrei stavano influenzando lo Stato sovietico più di quanto i sovietici stessero facendo con quello ebraico” e nel quadro generale reso teso dal blocco di Berlino Ovest da parte dell’Urss, dal consolidamento dei due blocchi su scala globale, dalla minaccia di una nuova guerra mondiale, dalla corsa sovietica verso la parità atomica il regime pensò a una nuova purga per compattare il fronte interno come fatto con il Grande Terrore del 1937-1938.

L'architetto dell'antisemitismo di Stalin

In quest’ottica, gli ebrei sovietici divennero un bersaglio naturale. Questo per un triplice ordine di motivi. In primo luogo, la Grande Guerra Patriottica contro la Germania aveva risvegliato nell’Urss il nazionalismo panrusso come collante dello sforzo bellico e l’idea della primazia dell’etnia russa nel quadro politico dell’Unione, facendo rifiorire le pulsioni più ataviche tra cui la diffidenza verso gli ebrei. In secondo luogo, si ricominciò a perseguitare ogni tipo di nazionalismo potesse essere ritenuto in qualche modo ostile, e in quest’ottica, nota Osservatorio Russia, ” le accuse rivolte agli intellettuali ebrei di scarsa adesione agli interessi della «patria socialista», dedicandosi alla difesa del particolarismo identitario e l’accusa di apoliticismo e di essere estranei alla causa dell’«internazionalismo proletario», furono tra i vettori che rimodellarono l’atteggiamento del Cremlino verso gli ebrei”. In terzo luogo, nonostante proprio gli ideali egalitari e emancipatori della Rivoluzione fossero stati tra i moventi dell’avvicinamento di molti ebrei alla causa bolscevica, nel secondo dopoguerra la natura cosmopolita e fluida della cultura ebraica, capace di adattarsi a contesti diversi, fu tra i motivi che giustificò il sospetto del regime di Stalin proprio a causa del suo presunto percorso di convergenza con l’individualismo borghese di stampa occidentale.

Gli ebrei, dunque, erano visti di traverso in quanto presunti nazionalisti sostenitori di una potenza straniera che l’Urss aveva per prima riconosciuto e da cui poi si era allontanata, Israele, ma anche perché ritenuti apolidi e internazionalisti. Due tesi che sarebbe stato spericolato portare alla convergenza, ma che nel paranoico clima dell’Urss postbellica trovarono un cantore in Andrej Zdanov (1896-1948).

Zdanov fu fedelissimo braccio destro di Stalin, responsabile della politica culturale e della propaganda, un Goebbels rosso dalla profondissima capacità di comunicazione. Nel 1946 coniò la sua celebre dottrina in cui il mondo veniva diviso in due campi: quello “imperialista”, guidato dagli Stati Uniti, e quello “democratico”, guidato dall’Urss, i cui avversari venivano dichiarati esplicitamente rivali della causa nazionale, dunque traditori. Prese il via la cosiddetta Zdanovscina, il regno del terrore culturale contro l’intellighenzia. Per due anni, dal 1946 al 1948 (e cioè fino alla sua morte) Zdanov divenne l’occhio di Stalin su medicina, letteratura, filosofia, linguistica (della quale il dittatore era fanaticamente appassionato), economia. La cultura ebraica ne fu pesantemente penalizzata, e si preparò l’identificazione tra l’ebreo, il borghese e l’Occidente, dunque il mondo imperialista. Ironia della sorte, una chiave di lettura non dissimile, nella semplicità della relazione causa-effetto, da quella nazionalsocialista.

Fino al 1952, nota Luis Rapport nel saggio La guerra di Stalin contro gli ebrei, ” gli ebrei vennero estromessi ed eliminati dalle file del Partito e dai gangli vitali della società sovietica” nel silenzio e inesorabilmente: “nella nuova edizione della grande enciclopedia sovietica, pubblicata nel 1952, la voce “Ebrei” passò dalle 54 pagine dell’edizione precedente – suddivise per storia cultura e religione – a due misere pagine. In quella due pagine, la frase: “Gli ebrei non costituiscono una nazione”. I vertici dell’Esercito vennero ripuliti di 63 generali e 260 colonnelli ebrei, estromessi o eliminati tra il 1948 e il 1953”, mentre uomini celebri dell’intellighenzia ebraica come il direttore del Teatro yiddish di Mosca Solomon Mikhoels, furono fatti assassinare per essersi opposti al nuovo clima.

La morte improvvisa di Zdanov, nel 1948, segnò una nuova fase della repressione. E sarebbe stato il viatico per il lancio dell’ultima, grande purga immaginata dal dittatore sovietico. Una purga che solo la sua morte e l’eliminazione successiva del suo “boia”, Lavrentij Berija, avrebbe impedito di portare a compimento.

Il complotto dei medici

Già dal 1949 iniziarono gli arresti di importanti personalità ebraiche, mentre il 27 novembre del 1951 finirono in carcere per opera dei proxy sovietici di Praga i politici ebrei Rudolf Slànsky, segretario generale del partito comunista cecoslovacco, e il suo vice Bedrich Geminder, che sarebbero stati processati e giustiziati un anno dopo, ironia della sorte proprio leader del Paese che su ordine dell’Urss aveva rifornito di armi Israele nel 1948.

Nel maggio 1952 in Unione Sovietica furono invece processate quindici persone collegate al disciolto  Comitato Ebraico Antifascista che proprio in Mikhoels aveva avuto il suo presidente. Essi erano ritenuti colpevoli di aver chiesto otto anni prima a Stalin, di istituire in Crimea una Repubblica ebrea in vece del remoto territorio assegnato agli Ebrei in Estremo Oriente. Il processo si sarebbe concluso concluso a luglio con la condanna a morte di 13 imputati. Nel novembre dello stesso anno la stampa ucraina annunciava come a Kiev molti ebrei fossero stati fucilati per “ostruzionismo controrivoluzionario”. Il romanziere Il’ja Erenburg, il violinista David Ojstrach, lo scrittore Vasilij Grossman furono emarginati dalla vita pubblica del Paese in quanto ebrei.

Tutto era maturo perché la campagna informale assumesse strutturazione: la caccia agli ebrei, nell’intenzione di Stalin, avrebbe dovuto sostanziarsi nell’azzeramento della loro intellighenzia, in deportazioni nei gulag e in esecuzioni di membri di spicco per mostrare al Paese la volontà di reprimere ogni frangia ritenuta ostile al potere sovietico.

“Verso la fine di agosto del 1948”, nota Rapport, “dopo l’improvvisa morte di Zdanov, una sconosciuta addetta al reparto radiologico dell’ospedale del Cremlino – Ljdija Timasuk – esaminò, chissà come e per conto suo, gli elettrocardiogrammi di Zdanov, e informò gli organi di sicurezza sulla possibilità che l’illustre membro d’apparato non fosse deceduto di morte naturale. La Timasuk era solo una paramedica, da sempre divorata dall’odio per la propria superiore (ebrea) direttrice del reparto elettrocardiografico, Sofija Karpaj (in odore di arresto, che puntualmente avvenne nell’estate del 1951)”; quattro anni dopo, una sua lettera avrebbe svolto da catalizzatore per la campagna annunciata da Stalin all’inizio del 1953.

Nell’ottobre del 1952 Semyon Ignatyev, capo dell’MGB, informò il capo di Stato che erano state trovate prove in merito all’esistenza di un complotto per eliminare i dirigenti del partito. Colpito dalla rivelazione, il dittatore ordinò l’arresto dei cospiratori, nove medici di cui sei ebrei, e ordinò alla Pravda di preparare il terreno mediatico alla campagna anti-ebraica: epurazioni e avvisaglie di pogrom cominciarono a svilupparsi per tutto il Paese, e si parla di circa 2mila vittime tra la fine del 1952 e l’inizio del 1953.

La morte di Stalin interruppe questo pericoloso trend. L’Urss, nella destalinizzazione, non proseguì in questa paranoica persecuzione. Ma tuttora è impossibile sapere cosa sarebbe stato degli ebrei sovietici, più volte perseguitati nelle terre rese sanguinanti dai due totalitarismi del Novecento, nei mesi e negli anni successivi. Misteri di una superpotenza comunista dalle enormi contraddizioni. Andata vicina a risvegliare i demoni che aveva sconfitto con la forza delle armi pochi anni prima.

Le storie dimenticate degli italiani non ebrei deportati ad Auschwitz. LAURA FONTANA Il Domani il 22 Gennaio 2022.

Nonostante la mole impressionante di studi oggi disponibili, Auschwitz resta per molti, sostanzialmente, un’idea e un’immagine (del male, della crudeltà, della disumanizzazione).

Quando a prevalere è la dimensione simbolica o il discorso morale attorno al tema, il rischio è quello di sconnettere i diversi elementi della storia e di tramandare un racconto sempre più generico e impreciso, confondendo i percorsi delle vittime e i contesti della loro deportazione.

L’intuizione di approfondire queste vicende mi ha portato a scoprire le storie di 1.200 non ebrei internati in quel campo. Sono emerse le biografie di tante storie dimenticate di “triangoli rossi” (simbolo nel lager dei prigionieri politici).

LAURA FONTANA. Storica della Shoah ed esperta di didattica. È responsabile per l’Italia del Mémorial de la Shoah di Parigi, ha pubblicato numerosi saggi scientifici in diverse lingue. È autrice di Gli Italiani ad Auschwitz. 1943-1945. Deportazioni, “Soluzione finale”, lavoro forzato. Un mosaico di vittime, Oswiecim, Museo Statale di Auschwitz-Birkenau, 2021.

L’INCOMPARABILE PARAGONE TRA LA SHOAH E LE FOIBE. La linea sottile tra l’uso pubblico e l’abuso politico del passato. RAOUL PUPO Il Domani il 21 Gennaio 2022.

La cosa strana è che si debba discutere seriamente, a livello professionale, di un paragone fra realtà incommensurabili, come la Shoah e le Foibe. In alcuni ambienti più radicali si è diffusa la formula della “nostra Shoah”, che ha trovato largo ascolto da parte delle forze politiche di destra, non solo estrema.

Se ne trova traccia anche nella scelta del 10 febbraio quale data per il giorno del ricordo: un’opzione questa che ha ufficializzato un orientamento diffuso nel mondo della diaspora giuliano-dalmata, ma che ha spalancato la strada a due ordini di equivoci.

RAOUL PUPO. Storico. Professore di Storia contemporanea all'Università di Trieste. Tra le sue ultime pubblicazioni: Fiume città di passione (Laterza, 2018), Adriatico amarissimo. Una lunga storia di violenza (Laterza, 2021), Il lungo esodo. Istria: le persecuzioni, le foibe, l'esilio (ediz. aggiornata, Rizzoli, 2022).

L’antisemitismo è un’emergenza sociale del nostro presente. GADI LUZZATTO VOGHERA Il Domani il 20 Gennaio 2022.

Negli ultimi anni l’antisemitismo ha assunto un ruolo sempre più rilevante nel dibattito pubblico, ma non è facilmente identificabile nei suoi tratti salienti.

In special modo in concomitanza con il giorno della memoria, è urgente chiarire quale sia stato il rapporto fra l’ideologia antisemita e le dinamiche politiche, economiche e militari che hanno permesso il funzionamento della macchina dello sterminio organizzata dal nazismo e attuata con la collaborazione di molti altri soggetti.

E, d’altra parte, è necessario interrogarsi su quali siano i meccanismi presenti nella società contemporanea che alimentano e sostengono l’antisemitismo nel nostro presente. 

GADI LUZZATTO VOGHERA. Storico dell'ebraismo e dell'età contemporanea. Dal 2016 direttore della Fondazione centro di documentazione ebraica contemporanea di Milano.

Cosa resterà della memoria dell’orrore senza i testimoni? VALERIO DE CESARIS, Rettore Università per Stranieri di Perugia, su Il Domani il 27 Gennaio 2021.

Oggi l’imperativo della tradizione ebraica “Zakhòr” (“ricorda!”), ha acquistato un valore universale, in riferimento alla Shoah. Tanto che nel 2005 l’Onu ha istituito il Giorno della memoria, da celebrarsi ogni 27 gennaio.

Gli interrogativi che il Giorno della memoria pone sono molti. Come ricordare, quando la generazione dei testimoni si sta esaurendo?

Auschwitz è una pietra d’inciampo nella coscienza della civile Europa. È un nome incancellabile. Dimenticarlo, significherebbe tradire il ricordo delle vittime del genocidio, ma anche abbassare la guardia di fronte al razzismo e all’antisemitismo.

Settantasei anni sono trascorsi da quando, nella gelida mattina del 27 gennaio 1945, i soldati dell’Armata Rossa varcarono i cancelli di Auschwitz e si trovarono di fronte l’orrore del lager nazista. I sovietici liberarono circa 7000 prigionieri ancora in vita. Videro le macerie dei forni crematori, fatti saltare in aria dai tedeschi nel tentativo disperato di occultare le prove del genocidio. Si addentrarono tra i sentieri e gli edifici di quel luogo di morte, in cui in breve tempo erano state uccise oltre un milione di persone, dopo la “soluzione finale” decisa da Hitler contro gli ebrei.

Oggi l’imperativo della tradizione ebraica “Zakhòr” (“ricorda!”), ha acquistato un valore universale, in riferimento alla Shoah. Tanto che nel 2005 l’Onu ha istituito il Giorno della memoria, da celebrarsi ogni 27 gennaio. Da allora, si sono moltiplicate le iniziative culturali e pedagogiche, come il treno della memoria, i viaggi delle scuole ad Auschwitz. Visitare quel lugubre angolo d’Europa, in una sorta di pellegrinaggio civile, è necessario.

Assistiamo però al paradosso di una memoria istituzionalizzata e celebrata con solennità che non riesce ad arginare l’antisemitismo, che anzi aumenta, dilaga nel web ed esplode non di rado in atti di violenza contro gli ebrei, in molti paesi.

SE QUESTO È UN UOMO

Per questo gli interrogativi che il Giorno della memoria pone sono molti. Come ricordare, quando la generazione dei testimoni si sta esaurendo? Chi raccoglierà l’eredità di quegli ex deportati, che attraverso il doloroso racconto delle persecuzioni subite hanno mostrato l’abisso in cui l’umanità sprofonda quando si scatenano gli odi più oscuri? Come trasmettere la coscienza storica a un mondo affetto da presentismo, schiacciato sull’oggi, privo di visioni per il futuro e incapace di trarre lezioni dal passato?

C’è anche, come una pagina nascosta della Storia, la vicenda dei rom, ai quali la coscienza europea non ha mai riconosciuto di essere stati vittime della persecuzione, sebbene nei lager nazisti ne siano stati uccisi centinaia di migliaia, forse mezzo milione. Il loro è un genocidio dimenticato. Sempre colpevoli, i rom, agli occhi degli italiani e degli europei. Sono un popolo considerato ancora oggi “abusivo”, intruso. L’Europa del secondo Novecento si è interrogata sulla violenza scaturita dall’antisemitismo, mentre ha continuato a ignorare l’antigitanismo.

Auschwitz è una pietra d’inciampo nella coscienza della civile Europa. È un nome incancellabile. Dimenticarlo, significherebbe tradire il ricordo delle vittime del genocidio, ma anche abbassare la guardia di fronte al razzismo e all’antisemitismo, spettri che incombono minacciosi anche sul nostro tempo. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Gerusalemme”, recita un salmo della Bibbia. “Mi si attacchi la lingua al palato se lascio cadere il tuo ricordo, Auschwitz”, dovremmo anche dire.

Ogni memoria, anche quella forte della Shoah, va alimentata dalla cultura e dalla conoscenza storica, altrimenti sbiadisce e diventa mera retorica. Per ricordare davvero, occorre avere senso storico e comprendere i rischi che la dimenticanza del passato pone nel nostro tempo. Non si tratta di fare analogie improbabili tra il passato e il presente, ma di trarre dal passato qualche lezione.

Alcuni giorni fa è circolata sui social la fotografia di un uomo nudo, inginocchiato sulla neve, con lo sguardo a terra, visibilmente disperato. Un migrante intrappolato in un campo in Bosnia, lungo quella rotta balcanica che è diventata un attraversamento dell’inferno per chi spera di raggiungere l’Europa. All’immagine molti hanno associato la celebre poesia di Primo Levi: “Voi che vivete sicuri / nelle vostre tiepide case, / voi che trovate tornando a sera / il cibo caldo e visi amici: / considerate se questo è un uomo…”.

Auschwitz è il simbolo della privazione dell’umanità. Continuare a farne memoria ha soprattutto il senso di condannare e di combattere ogni privazione di umanità nel tempo in cui viviamo. 

VALERIO DE CESARIS, Rettore Università per Stranieri di Perugia. È professore associato di Storia contemporanea (M-STO/04) all’Università per Stranieri di Perugia. Nella sua attività di ricerca, si è occupato inizialmente di storia del giornalismo cattolico.

Nonostante la sofferenza patita, la speranza domina l’abominio. ALBERTO CAVAGLION su Il Domani il 18 Gennaio 2022.

La scrittura del testimone del caos parte da una premessa distruttiva, l’elemento negativo sembrerebbe prevalere, ma assai prima di Auschwitz abbiamo appreso che l’apocalisse non è mai irredimibile.  

Un’antologia scolastica di questi testi, scritti al ritrarsi della lava, sarebbe auspicabile. Sarebbe più utile di un frettoloso, rituale viaggio di istruzione ad Auschwitz. 

La desolazione prodotta dalla pandemia rende prossimi a noi i filosofi del ciononostante, gli antichi e i moderni. Ascoltare le loro voci aiuterebbe a reagire contro le cerimonie stanche e ripetitive che spesso accompagnano il giorno della memoria. 

ALBERTO CAVAGLION. Storico e docente italiano. Laureatosi in lettere e filosofia all'Università di Torino nel 1982, fu dal 1982 al 1984 borsista dell'Istituto italiano per gli studi storici e della Fondazione Luigi Einaudi di Torino. Studioso dell'ebraismo, insegna all'Università di Firenze. È membro del comitato di redazione de "L'indice dei libri del mese" e dal 2012 del comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di Liberazione in Italia. Ha curato edizioni commentate delle lettere di Felice Momigliano a Giuseppe Prezzolini (Torino, Fondazione Luigi Einaudi, 1984) e a Benedetto Croce ("Nuova Antologia", n. 2156, ottobre-dicembre 1985, pp. 209–226) e di Se questo è un uomo di Primo Levi (Torino: Einaudi, 2000; n. ed. 2012); l'edizione italiana del Dizionario dell'olocausto (Torino, Einaudi, 2004), gli Scritti novecenteschi di Piero Treves (con Sandro Gerbi, Bologna, Il mulino, 2006), e gli Scritti civili di Massimo Mila (Milano, Il saggiatore, 2011).

Nella legge sul giorno della memoria manca la responsabilità dei fascisti. MICHELE SARFATTI su Il Domani il 15 Gennaio 2022.

Dal luglio 2000 la legge sul Giorno della memoria invita gli italiani a ricordare, ogni 27 gennaio, la Shoah e le «leggi razziali», i deportati politici, i militari internati, coloro che si opposero allo sterminio a rischio della vita.

La legge del 27 gennaio ha una singolare lacuna: il suo titolo e il suo testo menzionano i «campi nazisti», ma non contengono i vocaboli fascismo, fascisti.

Concerne l’insieme della Shoah, la persecuzione antiebraica avvenuta in Italia, tutti i perseguitati italiani, i soccorritori. Né essa, né altre leggi della nostra Repubblica hanno per oggetto la violenza omicida italiana fascista nelle terre colonizzate o occupate e le sue vittime. 

MICHELE SARFATTI. Storico. Studioso della persecuzione antiebraica e della storia degli ebrei in Italia nel Ventesimo secolo. Dal 2002 al 2016 direttore della Fondazione Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea CDEC, Milano. Componente del Comitato scientifico e d’onore della Fondazione Museo della Shoah, Roma. Tra le sue ultime pubblicazioni: Gli ebrei nell’Italia fascista. Vicende, identità, persecuzione, Einaudi, 2018; Il cielo sereno e l’ombra della Shoah. Otto stereotipi sulla persecuzione antiebraica nell’Italia fascista, Viella, 2020.

Il dovere di studiare e conoscere le vite dei deportati politici. MASSIMO CASTOLDI su Il Domani il 17 Gennaio 2022.

Gianfranco Maris intuiva già allora i rischi impliciti in una politica della memoria limitata alla pur necessaria narrazione delle vittime, a partire da quando divengono tali, cioè da quando, dopo l’arresto, sono inermi nelle mani dell’oppressore.

L’interesse prioritario per la condizione di vittima assoluta, propria della Shoah, ha fatto sì che nella percezione collettiva tutti i deportati fossero assimilati tra loro.

Anche e soprattutto per questo è importante parlare oggi con maggiore impegno di deportazione politica, ovvero della deportazione di chi si è opposto, di chi ha detto no. Parlare di deportazione politica vuol dire ricostruire la storia di una cultura di opposizione. 

MASSIMO CASTOLDI. Filologo e critico letterario, docente di Filologia italiana all'Università di Pavia. Si è occupato di memorialistica della Resistenza e delle deportazioni, collaborando con la Fondazione Memoria della Deportazione, che ha diretto fino al 2017. Tra le numerose pubblicazioni in ambito letterario e linguistico, ha recentemente pubblicato per Donzelli editore Insegnare libertà. Storie di maestri antifascisti (2018), con il quale ha vinto il Premio The Bridge, e Piazzale Loreto. Milano, l'eccidio e il «contrappasso» (2020).

Tre proposte politiche per rendere più efficace la memoria della Shoah. JOSHUA EVANGELISTA su Il Domani il 27 gennaio 2021. 

Ricordare l’Olocausto ci ha insegnato che di fronte al male estremo si può scegliere. Oggi, vent’anni dopo la legge che ha istituito il Giorno della Memoria, dobbiamo constatare che questo percorso sta mostrando alcune criticità.

La critica, portata avanti dalla Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti attraverso una Carta della memoria, è che quel “mai più” sia nel tempo diventato una formula rituale e retorica e, soprattutto, senza alcun progetto per il futuro.

Oggi la Fondazione verrà ascoltata dalla Commissione esteri della Camera e condividerà tre proposte concrete che possono avvicinare maggiormente il nostro Paese alla prevenzione di nuovi genocidi.

In occasione del 27 gennaio, quando in tutto il paese si ricorda lo sterminio degli ebrei, è importante riflettere sull’efficacia di questa ricorrenza alla luce delle sfide del nostro tempo. Scriveva lo storico Yehuda Bauer che la Shoah è stato un genocidio senza precedenti, che si proponeva di eliminare gli ebrei non solo in un territorio, ma in ogni luogo della terra in quanto elementi corrosivi di tutta l’umanità. La sua memoria ha permesso ad altri popoli, come ad esempio agli armeni e i ruandesi, di rivendicare sulla scena pubblica il diritto al riconoscimento delle proprie sofferenze e, soprattutto, il diritto alla giustizia.

Allo stesso tempo, a livello educativo la riflessione sull’Olocausto è stata fondamentale per far capire che i genocidi non sono stati una catastrofe extra-storica, ma sono avvenuti per la responsabilità degli esseri umani, in un campo di battaglia dove c’erano carnefici, complici, giusti, spettatori indifferenti e resistenti. In poche parole, questa memoria ci ha insegnato che di fronte al male estremo si può scegliere, perché nulla è scontato e determinato a priori.

Oggi, venti anni dopo la legge n. 211 del 20 luglio 2000 che ha istituito il "Giorno della Memoria”, dobbiamo constatare che questo percorso sta mostrando alcune criticità che, se non affrontate alla radice, rischiano di limitarne la funzione pedagogica e di mostrare una profonda inadeguatezza rispetto alla possibilità di prevenire nuovi genocidi e, quindi, di rendere effettivo il “mai più”.

La critica, fatta da molti studiosi e portata avanti dalla Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti attraverso una Carta della memoria che è stata sottoscritta da storici, filosofi, politici ed esperti di prevenzione dei genocidi, è che quel “mai più” sia nel tempo diventato una formula rituale e retorica e, soprattutto, senza alcun progetto per il futuro. In altre parole, è come si ignorasse il fine ultimo della memoria.

In quest’ottica, come ha scritto la semiologa Valentina Pisanty ne I guardiani della memoria (Bompiani, 2020), sembra che «l’assolvimento del dovere della memoria sia di per sé garanzia di un futuro libero da ogni ingiustizia paragonabile a quella patita dagli ebrei durante gli anni del nazifascismo». La domanda da porsi è: basta ricordare per tutelarsi contro la possibilità che ciò che è accaduto capiti di nuovo?

La parola genocidio è stata coniata dal giurista ebreo Raphael Lemkin nel 1942 per indicare la volontà di distruzione di una collettività etnica, religiosa o sociale. Lemkin la considerava una minaccia che riguardava l’umanità intera, poiché la distruzione di qualsiasi minoranza annientava non solo chi veniva colpito, ma impoveriva la ricchezza della pluralità umana. Nel dopoguerra Lemkin lavorò strenuamente per la promulgazione di leggi internazionali che proibissero il genocidio, raggiungendo questo obiettivo nel 1951, con l’entrata in vigore della Convenzione per la prevenzione e la repressione del delitto di genocidio. C’è un aspetto importante della Convenzione: vi si afferma che devono essere puniti non solo gli atti di genocidio, ma anche l’incitamento diretto e pubblico a commetterli.

Dal ’48 ad oggi, secondo le stime di Genocide Watch, si sono susseguiti più di 55 genocidi con oltre 70 milioni di vittime. Allo stesso tempo sono nati i Tribunali penali internazionali, si è affermato il principio di intervento umanitario e si ragiona intorno all’Early warning system, un sistema di allerta qualora si creano i presupposti per un genocidio.

La memoria della Shoah, oggi, ha senso se politici e cittadini che il 27 gennaio pronunciano “mai più” si impegnano concretamente per contrastare l’odio contemporaneo. Ricordare la Shoah dovrebbe significare scavare a fondo sui meccanismi dell’antisemitismo e interrogarsi sulle complicità che lo hanno permesso, ma nello stesso ragionare sugli strumenti politici e culturali che possono impedire oggi un nuovo genocidio.

Oggi, 27 gennaio 2021, la Fondazione Gariwo, la foresta dei Giusti verrà ascoltata dalla Commissione esteri della Camera dei deputati a proposito di memoria e prevenzione di nuovi genocidi. In quell’occasione condividerà con i deputati tre proposte concrete che possono avvicinare maggiormente il nostro Paese alla prevenzione di nuovi genocidi.

In primis chiederà la nomina di un advisor italiano, all’interno del Parlamento, che lavori con il Consulente speciale dell’ONU e con l’Unione europea. Proporrà inoltre alla Commissione esteri di assumersi l’impegno di redigere ogni anno un rapporto in cui si presentano all’opinione pubblica lo stato internazionale  dei diritti umani nell’ottica di prevenzione di nuovi genocidi (del resto la Shoah ci ha insegnato che la mancanza di informazione è un presupposto basilare per la perpetrazione di crimini contro l’umanità). Infine suggerirà la creazione, anche in Italia, di una agenzia autonoma e indipendente sui diritti umani, che in collaborazione con la Corte penale internazionale possa indagare in modo permanente sullo stato dei diritti nel mondo e sui crimini contro l’umanità.

Sono azioni concrete che porterebbero l’Italia ad aderire a modelli già presenti in altri paesi del mondo e che l’Unione europea ci chiede da tempo. Del resto, fare memoria oggi non può prescindere dal guardare cosa succede ai rohingya in Bangladesh, nei campi di concentramento per uiguri nello Xinjiang, nello Yemen colpito da una guerra fratricida, alla minoranza yazida in Iraq, durante gli scontri nel Sahel. Così fare memoria oggi non può prescindere dal porre la massima attenzione verso i fondamentalismi, i nuovi megafoni dell’odio e quei conflitti che potrebbero scaturire nel futuro prossimo a causa dei cambiamenti climatici.

DAGONEWS il 22 gennaio 2022.

Le biografie di oltre 200 donne delle SS che prestano servizio nel campo di sterminio di Auschwitz e delle loro "feste dopo il lavoro" sono state pubblicate online nel tentativo di mostrare al mondo che non erano coinvolti solo gli uomini.

Intitolato "Donne che lavorano per le SS", il progetto del Museo statale di Auschwitz-Birkenau documenta la vita delle donne al servizio di Adolf Hitler.

Una di loro era Maria Mandl, un'alta guardia delle SS ad Auschwitz dall'ottobre 1942 all'ottobre 1944, e soprannominata "La Bestia" dai prigionieri.

Nata nel 1912, figlia di un calzolaio, iniziò a lavorare nel campo di concentramento nazista a Lichtenburg in Germania nel 1938 prima di essere trasferita al campo femminile di Ravensbruk, sempre in Germania. Nel 1942 fu mandata ad Auschwitz dove divenne famosa per il suo sadismo e per aver mandato "circa mezzo milione di donne e bambini a morire nelle camere a gas". 

Dopo il 1945, Mandl fuggì sulle montagne della Baviera meridionale, ma fu catturata e detenuta a

Dachau. Fu poi consegnata alla Polonia nel novembre 1946 e successivamente condannata a morte per impiccagione a 36 anni.

Ma, oltre all’orrore, le immagini mostrano anche come queste donne si divertissero con le guarie delle SS. Sylwia Wysinska del dipartimento dell'istruzione del Museo di Auschwitz racconta: «Alcune guardie delle SS che lavoravano nel campo trascorrevano il loro tempo libero incontrando gli uomini delle SS dopo il lavoro. Le visite notturne degli ufficiali delle SS devono essere state piuttosto rumorose visto che nel marzo 1943 il comandante proibì loro di entrare negli alloggi femminili. Ma questo non ha impedito alle donne di intrattenere stretti rapporti con gli uomini delle SS. Di conseguenza, dozzine di coppie si sono formate ad Auschwitz e alcune di loro si sono sposate». 

Una di loro era Luise Viktoria Rust. Nata il 14 gennaio 1915 a Varel in Bassa Sassonia, nel novembre 1940 iniziò a lavorare come guardia delle SS nel campo di concentramento femminile di Ravensbrück. Nella sua autobiografia si legge: «Lavorò ad Auschwitz dall'aprile 1942 al gennaio 1945. In questo periodo, ha incontrato SS Rottenführer Heinz Schulz, che ha sposato nel luglio 1943. Durante i preparativi per il suo matrimonio, ha ordinato che il suo abito da sposa fosse confezionato nel laboratorio di sartoria del campo». 

Libia, il crimine fascista rimosso: gli orribili campi in cui morivano i civili. ANTONIO SCURATI su Il Corriere della Sera il 21 Gennaio 2022. 

La prefazione di Antonio Scurati al poema «Il mio solo tormento» (Fandango) in uscita il 24 gennaio, opera dell’arabo Rajab Abuhweish vittima della repressione italiana 

«La mia opinione è che si dovrà venire ai campi di concentramento». Con questa frase, nel 1930, Emilio De Bono, ministro delle Colonie dell’Italia fascista, comunica a Pietro Badoglio, governatore delle colonie libiche, che per piegare la resistenza dei guerriglieri senussiti guidati da Omar al-Mukhtàr, eroe della Resistenza della Cirenaica all’invasore italiano, si sarebbe dovuto procedere a una delle più grandi deportazioni di massa della storia del colonialismo europeo. I due sono ben consapevoli della gravità della misura e mettono in conto, esplicitandolo, che il provvedimento avrebbe portato alla decimazione dell’intera popolazione della regione. Il 20 di giugno del 1930, Pietro Badoglio, l’uomo al quale l’Italia si affiderà per la propria rinascita tredici anni dopo, scrive, infatti a Graziani: «Qual è la linea da seguire? Bisogna anzitutto creare un distacco territoriale largo e ben preciso fra le formazioni ribelli e le popolazioni sottomesse. Non mi nascondo la portata e la gravità di questo provvedimento che vorrà dire la rovina della popolazione cosiddetta sottomessa. Ma oramai la via ci è stata tracciata e noi dobbiamo perseguire sino alla fine anche se dovesse perire tutta la popolazione della Cirenaica». L’uccisione di un intero popolo veniva quindi considerata ciò che oggi chiameremmo «danno collaterale». Benito Mussolini, capo del governo e Duce del fascismo era pienamente informato del tragico progetto e lo approvava pienamente.

Quando si parla di campi di concentramento, il nostro immaginario ci riporta subito al filo spinato di Auschwitz-Birkenau e alla tragedia della persecuzione degli ebrei e dell’Olocausto. In pochi sanno o fingono di non sapere che ben prima dell’orrore nazista a costruire dei luoghi di concentrazione e sterminio furono proprio gli italiani fascisti nelle colonie di quello che era chiamato pomposamente l’impero italiano.

Il sistema dei campi in Cirenaica costituì un salto di qualità nelle politiche di repressione attuate dal regime fascista. Nei primi anni Trenta, nelle 15 istituzioni concentrazionarie della colonia libica, vennero deportate più di 100.000 persone. Alcune di queste morirono prima di raggiungere i campi, sfinite dalle estenuanti marce che potevano superare le centinaia di chilometri, ma la maggior parte, circa 50.000 morì proprio a opera del sistema detentivo, uccisa dall’inedia, dal tifo petecchiale, dalla dissenteria, dalla malaria, dallo scorbuto e varie setticemie, per non parlare delle sevizie quotidiane e le esecuzioni esemplari, smentendo vistosamente i piani sanitari e le precise norme dell’amministrazione coloniale.

L’internamento coloniale è stato un grande laboratorio d’oltremare per l’applicazione di pratiche repressive e violenza razzista che avrebbe poi trovato anche uno sbocco legislativo nella penisola. Per dirla con le parole della storica Silvana Patriarca: «Il colonialismo prima e il razzismo fascista poi servirono ad affermare la bianchezza degli italiani mostrandola incarnata nel potere e nel privilegio che gli italiani detenevano, o aspiravano a detenere, nelle colonie rispetto ai non europei».

Quello che si configura, a distanza di quasi un secolo, come un vero e proprio genocidio non ha mai costituito oggetto di dibattito su chi siamo stati nel nostro passato. Dovremmo avere l’onestà di addossarci quella responsabilità e non dimenticare che gli italiani sono stati anche fascisti, razzisti e colonialisti.

Mi sembra indispensabile scardinare il nostro modo di vederci come vittime della Storia o continuare a perpetuare il mito autoassolutorio degli «italiani brava gente». È indispensabile non soltanto perché ci consentirebbe di chiudere i conti con il passato ma anche, e soprattutto, perché illuminerebbe il nostro presente. C’è, infatti, un rapporto direttamente proporzionale tra la pervicace rimozione del nostro ruolo di carnefici nella storia coloniale e la nostra attuale predisposizione a continuare a pensarci come vittime dei nuovi fenomeni migratori. Non vogliamo sapere e accettare di esser stati carnefici perché rimaniamo avvinghiati alla posizione simbolica della vittima anche riguardo al dramma delle attuali migrazioni di popoli dall’Africa e dal Medio Oriente verso le spiagge delle nostre vacanze. Riconoscerci come attori della violenza nel recente passato coloniale scardinerebbe anche l’attuale, comoda, autoassolutoria e fasulla identificazione simbolica con la posizione della vittima ogniqualvolta un telegiornale riferisce di naufraghi alla deriva nei pressi delle nostre coste. Anche allora, tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi come vittime, come la parte offesa, dolente. Tanti, troppi tra noi continuano a pensarsi nella stessa posizione dei nostri nonni, costretti dalla miseria (e da politiche sciagurate) ad abbandonare la propria terra con una valigia di cartone e la morte del cuore. In questo modo, possiamo continuare a ignorare che i dannati dell’emigrazione non siamo noi ma «loro», gli «altri», i disperati che vorremmo «ributtare» a mare.

Che l’Italia e in misura ancora maggiore gli italiani, abbiano una questione irrisolta con il proprio colonialismo è cosa risaputa, ma che si continui a eludere la necessità di riaprire quella pagina di storia è diventato insostenibile sul piano delle nostre responsabilità storiche riguardo al presente. E anche su quello della nostra identità. Sapere si esser stati colonialisti, fascisti, invasori e razzisti in un recente passato, ci aiuterà a capire chi siamo oggi, chi e cosa vogliamo e possiamo essere domani.

Ben venga quindi la traduzione in italiano del Canto di El-Agheila, testimonianza umana e politica di una storia universale di resistenza, che ci costringe a una riflessione non più procrastinabile sul passato violento e coloniale del nostro Paese.

Nel testo che pubblichiamo in questa pagina Antonio Scurati cita il libro di Silvana Patriarca Il colore della Repubblica (Einaudi): un testo che racconta la vicenda dei «figli della guerra», nati dalle relazioni tra donne italiane e militari alleati non bianchi, che dopo il conflitto furono spesso oggetto di comportamenti razzisti da parte dell’ambiente circostante. A partire da questa vicenda poco indagata e considerando anche l’eredità del colonialismo italiano, l’autrice – docente di Storia europea presso la Fordham University di New York – riflette sul modo in cui il nostro Paese si è autorappresentato. «Finché gli italiani bianchi – scrive Silvana Patriarca – non abbandoneranno la concezione etnorazziale dell’identità nazionale, coloro che non sono conformi alla “norma somatica” continueranno a subire qualche forma di emarginazione, discriminazione, esclusione».

Il razzismo antiebreo macchiò pure il pensiero marxista. Dove nasce l’odio antisemita: a destra ma anche a sinistra così si è radicato. Giuliano Cazzola su Il Riformista il 19 Dicembre 2021. Piero Fassino è un galantuomo. Nella sua intervista a Il Riformista ha fatto delle affermazioni importanti, per il ruolo istituzionale che ricopre e per la sua storia politica e personale: affermazioni non solo condivisibili, ma coraggiose, nel momento in cui, in Europa, per fortuna non ancora in Italia – si ripresenta il mostro dell’antisemitismo. Fassino individua una origine comune del socialismo e del sionismo, come se volesse che il primo fosse garante e protettore del secondo.

«Il sionismo nasce alla fine dell’Ottocento come un movimento di liberazione nazionale e sociale del popolo ebraico. E nasce – sostiene Fassino – insieme al movimento socialista, tant’è che molti dirigenti socialisti vengono da origini ebraiche – si pensi a Treves e Modigliani, leaders del Partito Socialista. E le interazioni tra movimento socialista e movimento sionista erano fortissime, come testimonia la prima tessera del movimento sionista fondato da Theodor Herzl, che aveva come immagine un bue che traina un aratro in un campo di grano con il sole all’orizzonte, cioè un simbolo socialista. L’ebraismo – prosegue il presidente – oltre che essere una radice della civiltà e della storia europea, è anche parte della storia del movimento socialista del continente. Nascono insieme e crescono insieme. Non solo, ma l’avvento del fascismo prima e del nazismo – e di molte dittature dello stesso stampo reazionario in Ungheria, Polonia, Romania – e le loro persecuzioni contro gli ebrei, rinsaldano ancora di più il rapporto tra l’ebraismo e la sinistra, in una solidarietà cementata dalla comune lotta contro un comune nemico».

Per inciso ho apprezzato che Fassino, rievocando le origini del socialismo, si riferisca a esponenti di quella corrente riformista che venne espulsa dal Psi, per ordine della III Internazionale, in un Congresso, convocato apposta nel 1922, che si svolse nella Capitale una ventina di giorni prima della Marcia su Roma, tanto che Giacinto Menotti Serrati, il 28 ottobre era a Mosca dove si era recato per comunicare a Lenin la notizia dell’espulsione che lo stesso Serrati aveva rinviato il più possibile. Poi si dice della vigilanza rivoluzionaria… Ma la questione che intendo sollevare riguarda – potrei azzardare – l’approccio storico. Perché anche nella sinistra vi è una radice antisemita. Non mi riferisco solo ai tempi nostri e a quanti onorano gli ebrei solo da vittime dei campi di sterminio, mentre solidarizzano con quelli che vorrebbero vederli, adesso, cacciati dal loro Stato e magari defunti. Vi sono tracce di antisemitismo anche nel pensiero, negli scritti e delle iniziative dai padri nobili, tanto del socialismo umanitario quanto di quello scientifico. Potremmo definirlo un antisemitismo di classe, nel senso dell’identificazione degli ebrei con il capitalismo e i poteri forti. Oggi questi accostamenti sono politicamente scorretti, ma è sufficiente raschiare la superficie di certe analisi e chiamare in causa certi personaggi come cospiratori ai danni dell’umanità per capire che la “demoplutocrazia giudaica” è dietro l’angolo.

Ma torniamo alla storia, a quell’Ottocento che diede i natali a quelle grandi ideologie che adesso lottano per sopravvivere e difendere il meglio del Continente dal ritorno di nuove barbarie. C’è un saggio di George L. Mosse, Il razzismo in Europa (Laterza, prima edizione 2003) che svela una realtà meno rassicurante di quella ricordata da Fassino. Scrive Mosse che «l’identificazione degli ebrei con il capitalismo finanziario fu tipica dell’intera Europa». Vengono riportate considerazioni che sembrano stampate oggi in quella terra di nessuno in cui, a loro insaputa, l’estrema sinistra e l’estrema destra si incontrano. Viene citato un brano (1870) di Eduard Drumont: «L’espropriazione della società ad opera del capitale finanziario avviene con una regolarità paragonabile alle leggi di natura. Se entro i prossimi cinquanta-cento anni non si fa nulla per arrestare questo processo, tutta la società europea cadrà, mani e piedi legati, nelle mani di poche centinaia di banchieri».

L’ebreo che usava l’oro come un’arma era ritenuto incapace di un lavoro onesto. Pierre-Joseph Proudhon (chissà se Bettino Craxi ne fosse a conoscenza quando scrisse, con l’aiuto di Luciano Pellicani, quel famoso saggio che buttò lo scompiglio nel campo di Agramante della sinistra?) scorgeva – rammenta Mosse – negli ebrei e nel capitalismo finanziario il “nemico implacabile e odiato”. In sostanza, il socialista umanitario era spinto su una posizione razzista (“si deve rimandare questa razza in Asia o sterminarla”) dall’avversione per il capitalismo finanziario. Anche Karl Marx ebbe e manifestò le sue opinioni negli scritti sulla questione ebraica (1844). A suo avviso gli ebrei simboleggiavano non solo il capitalismo finanziario, ma il capitalismo di qualsiasi tipo. Ma anche in questo caso Marx si distingueva – se possiamo dirlo – per il rovesciamento della prassi. «L’emancipazione sociale dell’ebraismo è l’emancipazione sociale dall’ebraismo». L’abolizione dell’usura – sosteneva il filosofo tedesco – e delle sue pre-condizioni (cioè il capitalismo) avrebbe fatto scomparire l’ebreo, dato che le accuse contro di lui non avrebbero avuto più niente su cui basarsi ed egli perciò si sarebbe “umanizzato”.

In conclusione questo scritto vuole essere solo un piccolo affresco per ricordare che l’antisemitismo in Europa ha radici molto profonde e assai diffuse più o meno in tutte le culture che ne hanno intessuto la storia. Purtroppo quando si parla di origini giudaico-cristiane si racconta solo una parte della verità. Seguendo il saggio di George Mosse si scopre che l’antisemitismo nel Vecchio Continente è una suggestione trasversale qualunque sia il motivo con cui si pretende di giustificarlo e i mezzi con cui combatterlo ed estirparlo. È difficile limitarsi a segnalare una questione razziale senza affrontarne un’altra attinente al potere. Ma è altrettanto difficile fare il contrario. Giuliano Cazzola

La sinistra scopre adesso le malefatte del Kgb. Paolo Guzzanti il 19 Dicembre 2021 su Il Giornale. Cambia il vento, si calma la bufera e - senza fare una piega e neanche un plissé -la sinistra italiana esce dalla stagione dell'innocenza e scopre che il Kgb fu davvero l'incubo che ha imperversato su tutti i Paesi occidentali. Cambia il vento, si calma la bufera e - senza fare una piega e neanche un plissé -la sinistra italiana esce dalla stagione dell'innocenza e scopre che il Kgb fu davvero l'incubo che ha imperversato su tutti i Paesi occidentali, battendo per efficienza e cinismo la Cia americana. E questo anche perché il Kgb non era un servizio segreto, ma l'istituzione armata e anche intellettuale del potere sovietico che dominava su politici, militari, scuole, moda, il giornalismo, oltre a fabbricare carriere per i suoi agenti di influenza all'estero mentre organizzava guerriglie, colpi di Stato, stragi e uccidere anche attraverso l'uso del comparto detto «Kamera» in cui si fabbricavano agenti patogeni con cui far morire d'infarto dì cancro, leucemie, ictus. Da noi in Italia era severamente vietato, dalla sinistra, nominare il Kgb le cui azioni erano sempre attribuite a una formazione di fascisti, massoni deviati, servizi segreti deviati, insomma una sorta di compagnia di giro guidata dal celebre Licio Gelli, nato fascista, diventato partigiano e poi doppiogiochista ma anche venditore di materassi in Romania in combutta con la Scuritate (il servizio segreto rumeno) di Nicolai Ceausescu. Aldo Moro poco prima di essere rapito e ucciso aveva denunciato gli strani studenti russi che seguivano fin troppo le sue lezioni e le sue abitudini. Io ho presieduto una Commissione bicamerale d'inchiesta e fui invitato, con l'intera commissione, dal Procuratore Generale di Budapest che ci spiegò per filo e per segno come il gruppo militare operativo delle Brigate Rosse protagonista nella cattura, interrogatorio ed esecuzione dell'omicidio Moro fosse sotto il comando e controllo congiunto della Stasi tedesco-orientale e del Kgb. Ricordo l'imbarazzo del capogruppo del Pds quando chiese: «Non potrebbe essere che quelle che lei chiama Brigate Rosse fossero dalle brigate rivoluzionarie di qualche movimento di liberazione, dette rosse per comodità?». Il procuratore rispose: «No, onorevole, si tratta proprio delle Brigate Rosse italiane, comandate dal Kgb». Era il 2005 e il Kgb benché formalmente scomparso era vivo e vegeto e fece fuori i miei migliori informatori di cui il più celebre fu Alexander «Sasha» Litvinenko. Da allora questa ed altre verità sono state sepolte dalla sinistra mediatica italiana che mi linciò dandomi del pazzo. Oggi la sinistra ci ripensa e scopre che il Kgb fu realmente la bestia nera della nostra storia e di tanti altri paesi. Come mai? Perché essendo priva di idee, tutto quello che sa fare fin dai tempi di Veltroni è mettersi al rimorchio del partito democratico americano. E poiché il presidente Biden ha appena lanciato strali contro la Russia evocando il Kgb (a causa della nuova guerra fredda fra Washington e Mosca) sul caso Kennedy, eccoti che la sinistra italiana ai mette al rimorchio di quella americana e scopre con candido stupore l'esistenza e la natura stessa del Kgb sovietico. Del resto, la stessa sinistra italiana ha recentemente scoperto che Bettino Craxi era davvero un grande socialista, e - per bocca dell'arcinemico Prodi- che Berlusconi è un insigne statista. Paolo Guzzanti

Il manifesto del libero pensiero. Stufi di quella sinistra che vuole rieducare tutti, idea odiosa che genera ancora più odio. Paola Mastrocola, Luca Ricolfi su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. Caro Filippo, intanto grazie per l’attenzione e il tempo che hai voluto dedicare al nostro Manifesto! Se abbiamo ben capito tu dici: d’accordo, il clima di censura e autocensura del politicamente corretto sarà anche opprimente ed eccessivo, ma ben peggio la volgarità imperante. E tracci un quadro ahimè realistico e deprimente del mondo in cui viviamo, esprimendo appieno il tuo disagio, e disgusto, di vivere in questi tempi. D’accordo. Condividiamo totalmente. Non ci piace per niente il mondo in cui ci è toccato vivere. E lo abbiamo detto più volte (Luca ha scritto un libro per descrivere questa società, chiamandola “società signorile di massa” e descrivendo proprio quel che tu dici). Ma ci pare di aver preso molto esplicitamente le distanze dal mondo dei social e affini (talk show, politicanti e altri ciarlatani da circo), che non giudichiamo nemmeno degno di esser preso in considerazione. Anzi, a chi decide di navigare in quella melma diciamo: chi è causa del suo mal pianga se stesso. Nessuna pietà e comprensione gli è dovuta. Certo, siamo consapevoli di un possibile equivoco sulla parola libertà, liberare, ecc. Noi intendiamo che si debba liberare il pensiero, e le parole, dalla dittatura del Bene. E tu dici che il pensiero e le parole, sui social e affini, sono già abbastanza liberati, anzi, sfrenatamente e spudoratamente liberi. Il rischio di questo equivoco ci è ben presente, faremo di tutto per chiarirlo in ogni occasione. Quindi la tua tesi è: c’è un “cattivismo” da combattere, dunque sopportiamo la promozione continua del Bene e la retorica buonista e il politicamente corretto, e anche l’ipocrisia (omaggio del vizio alla virtù, perfetto!), perché almeno cercano di porre un freno alla volgarità e cattiveria dilaganti, cercano in qualche modo di rieducare. Per carità, è vero che c’è molto di che combattere; e sicuramente una massiccia dose di super-io sarebbe bene che l’umanità la recuperasse! Come anche un po’ di sana e semplice educazione, e pudore. Dovremmo ricominciare a educare, e a educarci: e qui tutto parte dalle famiglie, dai nuovi genitori che di fronte ai nuovi figli ci sembrano davvero disarmati e impreparati, o forse solo molto distratti da altro (social, socializzazioni selvagge, intrattenimento-divertimento al primo posto, ecc.): sarebbero gli adulti i primi a dover essere ri-educati…

Il manifesto del libero pensiero, chi sono i veri nemici del politically correct

Ma avremmo 3 obiezioni:

1. Non ci piace un’élite che si arroga il compito di rieducare le masse….

2. Il politicamente corretto può anche avere un senso, ma i suoi eccessi no! E ora ci pare che stiamo arrivando a eccessi intollerabili, a un “follemente corretto” (di cui forniamo nel Manifesto svariati esempi, cui tu non fai il minimo cenno: com’è? Li approvi, questi esempi folli? Non ti disturbano??) che sinceramente non è accettabile, offende la nostra intelligenza, scavalca il senso comune, e sfiora il ridicolo.

3. C’è anche qualcosa di personale, che vogliamo aggiungere contro la tua tesi: noi abbiamo un grado di tolleranza verso l’ipocrisia e la retorica davvero molto basso…!! Ma soprattutto ci pare che questa imposizione dall’alto su cosa è bene dire e pensare sia non solo intollerabile, ma anche perniciosa. Sa di élite e di establishment, Filippo! E pensare che tutto ciò ci viene dalla sinistra, sinceramente… come fai tu ad accettarlo?

Inoltre noi abbiamo un dubbio (che nel Manifesto abbiamo espresso, forse troppo debolmente): e cioè, quanto più l’oligarchia dominante (dei pochi buoni e illuminati che noi chiamiamo Custodi del Bene) si affanna a dirigere le nostre vite, i nostri pensieri e le nostre parole, imponendoci dall’alto quel che è giusto secondo loro, tanto più l’odio del volgo cresce. E il volgo, si sa, si esprime come può, cioè in quei modi volgari, violenti e gretti che tanto ci indignano e che ci muovono, noi Custodi del Bene, a intensificare fino alla follia il politicamente corretto per lanciarlo contro l’odio e la volgarità sempre più dilaganti… Lo vedi che è un serpente che si morde la coda? Cioè, siamo sicuri che il rimedio all’errore non inneschi e moltiplichi l’errore?

Ma poi, gli odiatori sui social sono un’esigua minoranza di mentecatti, che come tali andrebbero trattati; invece i media, le case editrici, le agenzie pubblicitarie, li prendono molto sul serio, danno loro uno spazio enorme. Perché? Perché in fondo gli sono utilissimi. Li cavalcano per i propri scopi. Bisognerebbe invece semplicemente ignorarli, e staccare la spina, prendere chilometri di distanza, lasciandoli a sguazzare nel loro fango. Ma qui, il mondo della cultura (scelgo questo ambito perché noi vi apparteniamo), si faccia qualche domanda e si prenda qualche colpa: perché molti di noi scrittori, e artisti, attori, registi, stanno sui social? Perché accettano e condividono quel fango? Per autopromozione? Per stare sotto i riflettori? Per vendere? Per esserci, e non sparire nel nulla? Non dovremmo invece, proprio noi che viviamo tra le parole e i libri, affrontarlo quel nulla, e affermarlo con forza proprio in opposizione a quel mondo che tanto ci indigna? Quel nulla che poi nulla non è, lo sappiamo bene, ma è riprenderci quella riservatezza, quello spazio di silenzio, concentrazione, studio, pensiero (libero!), che poi sarebbe semplicemente la sostanza del nostro lavoro. O no? Sarebbe bella una riflessione sul mondo degli intellettuali (non mi piace la parola intellettuali, ma non ne trovo un’altra e spero tu m’intenda…), non trovi?

Ignorando dunque com’è giusto l’esigua e chiassosa e volgare minoranza che si affolla sui social, proviamo ora a pensare invece alla maggioranza, all’umanità media e non solo ai beceri volgari che ne sono le frange estreme; pensiamo alla gente normale, comune e normalmente perbene, alla gente che lavora, coltiva buoni sentimenti, ha una buona educazione, ma non è accecata da ideologie e non appartiene a nessuna setta di eletti né bazzica in luoghi di potere: ebbene, a noi non par giusto che questa gente venga giudicata male a priori, e quindi osteggiata e denigrata, e anche esclusa, solo perché non parla e non pensa come i potenti Detentori del Giusto e del Buono hanno deciso che si debba parlare e pensare! Sì, può anche venire esclusa: banalmente dalle cene con amici, e, meno banalmente, da relazioni utili, lavori, appalti, finanziamenti. Solo perché non appartiene alla parte giusta del Paese? E chi lo ha deciso qual è la parte giusta? Noi non vogliamo che esista una parte giusta (o migliore!) del Paese, che si è autonominata come tale e pontifica dall’alto. Soprattutto se quella parte appartiene al mondo della sinistra, che ci piacerebbe vedere più in sintonia col sentire della gente comune e non ergersi a giudice e giustiziere dell’umanità perduta…

Invece non abbiamo proprio capito l’ultima parte del tuo articolo, sulla disabilità. Non ci passa nemmeno per la testa di dire “afflitto” o “infelice” a uno che sta sulla sedia a rotelle! Ma come ti viene in mente? Semplicemente abbiamo detto che chiamarlo “persona con disabilità” non ci pare possa rendere meno dolorosa e più accettabile la sua condizione. E nemmeno che tale nuova definizione sia più rispettosa da parte nostra. Semmai molto più ipocrita!!! Sappiamo tutti bene che quel “con”, a dispetto del suo senso letterale, non aggiunge un bel niente e non ribalta certo quel che è e resta una mancanza! Dài, Filippo…! Sai benissimo che il rispetto, sempre dovuto, passa da ben altro: gesti, sentimenti… E sì, anche compassione, perché no? Mi ci fai pensare adesso… Dire afflitto o infelice è sottolineare la condizione svantaggiata dell’altro. Va bene, e allora? La pietà umana, la compassione alla lettera, come “capacità di provare dolore insieme all’altro”, al meno fortunato (cum+patior: con+patire), non è sempre stato un valore? Non lo è più? Cioè, vogliamo essere così tanto ipocriti da non compatire più la persona colpita da disgrazia, anzi da felicitarci con lei per la disabilità con la quale convive?? (ma si potrà dire “disgrazia”? No, non credo proprio!! E neanche “colpita”! Quali altre parole vogliamo trovare, Filippo?).

Non so, mi pare che stiamo dimenticando i fondamenti del nostro essere umani. La semplicità e tragicità della condizione umana, che dovrebbe tutti accomunarci, senza tanti distinguo, sottigliezze folli, e ipocrisie: siamo già tutti naturalmente inclusi, nella vita e nella morte, nella buona e nella cattiva sorte. Non abbiamo bisogno di distinguere e difendere e premiare, e inventare!, infinite categorie di derelitti, a cui dobbiamo naturalmente, per comune appartenenza al genere umano, tutto il rispetto e tutta la compassione e tutto l’aiuto, che non hanno bisogno di essere esibiti, legiferati, e imposti! Cerchiamo di recuperare qualche goccia di buon senso, e smettiamo di ergerci a Legislatori del Bene, perché produrremo solo i Sudditi del Male… Comunque, Filippo caro, la verità è che continueremmo all’infinito a parlare con te! Perché è bello dialogare tra di noi, e con te è un vero dialogo, con dubbi, e posizioni anche divergenti, ma con grande rispetto reciproco, e passione, ci pare di poter dire… Di nuovo grazie! Con la segreta speranza di rivederci presto, magari sugli scogli neri di lava di qualche isoletta vulcanica, che ci ricordano la nostra comune, e molto inclusiva, precarietà…

Paola Mastrocola, Luca Ricolfi

Al di là della retorica. Il peggiore di tutti gli antisemitismi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Un’aggressione di stampo razzista non è la stessa se avviene nel Paese che non ha mai conosciuto mozioni e normative discriminatorie o, invece, in quello che le ha viste stabilirsi. Non cambia il fatto puro di quella violenza: ma cambia il modo in cui essa ridonda a sfregio della civiltà che vi assiste. In un caso, è l’inedito scandaloso che oltraggia un ambiente civile vergine e attonito; nell’altro, è la riproposizione angosciante di una realtà che, riproponendosi, non può dirsi pregressa. In un caso è possibile dire: “Che questo non si ripeta”. Nell’altro, no: perché si è già ripetuto.

È con questo criterio che la riproposizione della violenza razzista dovrebbe essere considerata nei Paesi che già l’hanno conosciuta, prodotta, o perfino messa nella legge. Ed è quindi con questo criterio che la violenza antisemita dovrebbe essere considerata nel nostro Paese, che quella violenza ha coltivato e reso sistematica, ordinamentale e, letteralmente, nazionale.

L’inchiesta del Riformista sull’attentato antisemita del 1982, e sulle possibili aree oscure dei fatti e delle omissioni che l’hanno preceduto, o che addirittura hanno contribuito a prepararlo, non ha solo il pregio di un’importante opera di illuminazione: ma anche quello di rendere possibile una ricognizione morale sulla società abbastanza noncurante davanti all’oscenità di un attacco antisemita a poca distanza da dove, giusto qualche decennio addietro, furono scritte le leggi razziali, e proprio nei luoghi dove gli ebrei erano rastrellati. Di là dalla retorica corrente, trionfante in qualche commemorazione solitamente stracca o nelle denominazioni altisonanti di certe commissioni parlamentari, l’Italia ha un rapporto disturbato con ciò che è stata in quegli anni non troppo lontani. Deve essere considerato, perché rischia di sfuggire: molti, tra gli uomini e le donne che quel giorno appresero dell’attentato in cui fu ucciso un bambino ebreo, erano senzienti e consapevoli quando, pochi lustri prima, il loro Paese toglieva i diritti agli ebrei e li faceva infilare nei vagoni piombati.

Riconoscere che quell’attentato non è stato diffusamente risentito come un affronto intollerabile proprio perché avvenuto in quel medesimo Paese, e che questa mancanza denuncia il persistere di un gravissimo difetto di maturità civile, costituirebbe il primo passo. Ed è quello che renderebbe dovuto, e non procrastinabile, il secondo: la richiesta che si faccia chiarezza sulle inquietanti ipotesi di cui ha dato notizia questo giornale. Iuri Maria Prado

Israele contro Laura Boldrini: «Ha invitato a Montecitorio ong accusate di terrorismo». Il Corriere della Sera il 22 dicembre 2021. La deputata Pd ha offerto spazio ai rappresentanti di alcune ong finite su una «black list» di sigle che fiancheggiano l’estremismo palestinese. «Siamo scioccati» dice l’ambasciata. La replica: «Accuse non provate». Rischia di diventare un caso diplomatico l’invito fatto dall’ex presidente della camera e attuale deputata Pd Laura Boldrini ad alcune ong palestinesi, ospitate a parlare a Montecitorio. L’ambasciata d’i Israele in Italia ha protestato dicendosi «sconvolta» perché quelle organizzazioni ai loro occhi sono fiancheggiatrici dei terroristi. Laura Boldrini ha subito rintuzzato le accuse, dichiarando che le accuse di terrorismo nei confronti dei relatori palestinesi arrivati alla Camera devono essere provate. Il caso è scoppiato dopo che la parlamentare del Pd ha invitato due ong palestinesi - Al Haq e Addameer - a parlare davanti al comitato della Camera sui diritti umani nel mondo. Entrambe le sigle, però, erano state inserite nell’ottobre scorso dal governo di Gerusalemme in una «black list» di attivisti che appoggiano il terrorismo mediorientale. L’ambasciata israeliana si è detta «scioccata» da quella presenza in una sede istituzionale: Al Haq e Addameer vengono infatti considerate parte del Fronte popolare per la liberazione della Palestina. La sede diplomatica ha sottolineato in particolare la presenza di Shawan Jabarin; questi è accusato di avere organizzato e compiuto personalmente un attentato nel quale è stata uccisa una giovane israeliana, Rina Shnerb. Nello stesso attacco erano rimasti feriti il padre il fratello della donna. Jabarin, 61 anni, che è stato arrestato varie volte dagli israeliani e ha passato in carcere diversi anni, è riconosciuto come uno attivista per i diritti umani da organizzazioni quali Human Rights Watch e Amnesty International. Le sei ong palestinesi messe al bando dal governo israeliano sono accusate di aver sottratto fondi destinati al finanziamento di progetti umanitari e di collaborazione «sotto copertura» con il Fronte popolare di Liberazione della Palestina. La decisione del Governo israeliano ha sollevato le critiche non solo di diverse organizzazioni per la difesa dei diritti umani - come Amnesty International e Human Rights Watch -, ma anche di alcuni Governi - Italia, Francia, Regno Unito, e il Dipartimento di Stato USA - e di rappresentanti delle organizzazioni internazionali. «Ad oggi il Governo di Israele non avrebbe ancora fornito alcun tipo di risposta convincente circa l’operato di matrice terroristica delle ong» così Laura Boldrini ha difeso l’operato dei rappresentanti palestinesi e la scelta di invitarsi a Montecitorio. «Il governo italiano - ha aggiunto l’ex presidente della Camera - intende portare quindi avanti un’azione di sensibilizzazione nei confronti delle autorità israeliane affinché vengano fornite prove più circostanziate a sostegno delle gravi accuse mosse alle organizzazioni, perché le informazioni fornite finora da parte israeliana non appaiono sufficienti».

Israele, la vergogna della sinistra: ai compagni piace l'antisemitismo in guanti bianchi. Iuri Maria Prado su Libero Quotidiano il 23 dicembre 2021. Le simpatie e le indulgenze di sinistra verso l'antisemitismo obliquo, quello che si nasconde dietro lo schermo ipocrita della critica anti-israeliana, sono anche più immonde di certe scoperture razziste addebitabili a certa destra minoritaria e non rappresentativa. Il terrorismo antisemita e la realtà di pistola, di sassi e di coltelli che gli ebrei d'Europa, siano vecchi o bambini, debbono fronteggiare per il fatto di essere ebrei, inducendoli a temere per sé stessi proprio nei luoghi dove i loro genitori e i loro nonni erano rastrellati e infilati nei vagoni piombati, proprio i luoghi dove una retorica bolsa organizza sfibrate ricorrenze alla Memoria e istituisce improbabili commissioni parlamentari, rappresentano l'inevitabile corrispettivo di giustizia sostanziale che si merita l'ebreo perché Israele, risaputamente, pratica l'apartheid, bombarda i civili per programma e, intollerabilmente, non riconosce il diritto civile e politico dei tanti che in modo sacrosanto rivendicano la necessità democratica di distruggere lo Stato degli ebrei. Il 25 d'aprile della Repubblica Bella Ciao, con il sistematico corollario della sassaiola sulla Brigata Ebraica e dei roghi delle bandiere israeliane, così come le valorose campagne di boicottaggio delle produzioni e delle imprese israeliane su cui una nobile propaganda appone una bella stella gialla, hanno cittadinanza incensurata nel Paese delle leggi contro l'odio e della Costituzione in nome della quale si reclamano giuramenti antifascisti.

E intanto la democrazia è rassicurata dalla guardia profilattica della sinistra, la cui macchia antisemita è nulla a paragone del merito nell'impedire l'assalto delle destre.

Laura Boldrini ci porta in guerra con Israele. Rabbia per le Ong palestinesi: "Sono terroristi". Francesco Storace su Il Tempo il 22 dicembre 2021. Tenete lontana dalla Farnesina Laura Boldrini. Non sia mai nel futuro aspirasse al ministero degli Esteri, fatele passare ogni velleità. Combina guai anche da ex presidente della Camera riuscendo a scatenare l’ira della rappresentanza di Israele in Italia. In Medio Oriente non è che gli animi siano così tranquilli e ci doveva pensare lei ad incendiare il clima invitando nel comitato che presiede, quello sui diritti umani nel mondo, un paio di personaggi ritenuti non proprio raccomandabili dallo Stato ebraico, che li bolla come terroristi. Per la Boldrini si tratta invece di attivisti per i diritti umani…. Ne sa più lei dei servizi israeliani, evidentemente. L’audizione dei due soggetti - lunedì scorso - ha provocato choc presso l’Ambasciata di Tel Aviv a Roma e probabilmente anche nella stessa Capitale di Israele. Laura Boldrini non ha trovato di meglio che invitare in videoconferenza i rappresentanti di un paio di quelle organizzazioni palestinesi che vogliono semplicemente che Israele sia messo al bando. Tutto normale dunque, per le nostre relazioni internazionali. Si tratta di Al-Haq e Addameer, bollate dall’ambasciata israeliana di Roma come «parte dell'organizzazione terroristica Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp)». Il che non è esattamente il migliore dei biglietti da visita. 

Nel mirino della polemica, in particolare, è finito il direttore generale di Al-Haq, un gentiluomo di nome Shawan Jabarin. Costui si porta appresso da oltre dieci anni il giudizio della Corte suprema d’Israele che lo paragona a un «dottor Jekyll e Mister Hyde», che agirebbe a volte quale responsabile di un'organizzazione per i diritti umani, a volte come «attivista di un'organizzazione terroristica». Jabarin è accusato di avere organizzato e compiuto personalmente un attentato nel quale è stata uccisa una giovane israeliana, Rina Shnerb, «il cui unico "crimine" era la sua identità ebraica». Nello stesso attacco erano rimasti feriti il padre il fratello della donna. Ovviamente, dal proscenio e dalla polemica non può restare esclusa la Boldrini che sale in cattedra a difesa del personaggio - arrestato varie volte dagli israeliani e ha passato in carcere diversi anni - affermando che si tratta praticamente di una specie di santo. Invece, proprio l'audizione di Shawan Jabarin, direttore generale di Al-Haq, si è trasformata in un comizio fuori luogo: Jabarin ha definito Israele «un sistema di apartheid», «una potenza occupante non ordinaria» e «un finto stato democratico», senza che la presidente del Comitato lo invitasse a toni meno belligeranti, diciamo. Quel che è stato ignorato è proprio il contesto delle accuse mosse da Tel Aviv alle Ong invitate dalla Boldrini. Nei mesi scorsi - ha ricordato la leghista Susanna Ceccardi, deputata europea ed attenta osservatrice di cose mediorientali - il Ministero della Difesa israeliano ha messo al bando sei Ong, tra cui Al-Haq e Addameer, «perché si ritiene che, attraverso il pretesto della difesa dei diritti umani, offrano sostegno economico e copertura alle attività del Fronte popolare, che, a sua volta, è accusato di aver tratto in inganno le Ong europee, presentando progetti fittizi, falsificando fatture, deviando gare d'appalto, il tutto per poter finanziare l'attività terroristica. Questo punto però è irrilevante per Laura Boldrini». Che chiede «le prove» come se fosse un inquirente. Sul punto, l’ex presidente della Camera è attaccata anche da Fratelli d’Italia. Lo fa in particolare il deputato Andrea Delmastro, che è membro della commissione esteri di Montecitorio: «A distanza di un mese dalla scioccante scoperta, avvenuta a seguito di una mia interrogazione, che i soldi della cooperazione internazionale della Farnesina finiscono ad organizzazioni terroristiche, Laura Boldrini invita personaggi politici legati a organizzazioni terroristiche in Palestina. La Farnesina finanzia indirettamente organizzazioni terroristiche e la Camera dei Deputati diventa il loro palcoscenico. La politica estera in era pentastellata e sinistra oscilla fra regimi brutali come quello cinese, regimi dittatoriali come quello di Maduro e terrorismo internazionale: siamo oltre la decenza. La politica estera e la diplomazia parlamentare sono nelle mani di un ideologismo folle e talebano che non sa sottrarsi nemmeno dall'abbraccio del terrorismo internazionale». Dettaglio non trascurabile, il silenzio sul tema di un personaggio di solito abbastanza ciarliero come Emanuele Fiano. Questa volta, di fronte alla gaffe di Laura Boldrini - arrivata ad ignorare le accuse di uno Stato che a lui è caro - ha preferito tacere. Eppure invitare a parlare di diritti umani personaggi accusati di terrorismo dovrebbe indurre lui e tanti altri a prendere posizione contro l’incredibile sottovalutazione operata dall’ex presidente della camera dei Deputati. Ma siccome si tratta di una compagna di partito, stavolta Fiano ha scelto la strada del mutismo. Idem per Enrico Letta e tutti quei parlamentari di sinistra pronti a sbottare ogni volta. Adesso no e viene da chiedersi quanta strumentalità ci sia invece quando protestano per gli attacchi ad Israele. Qui si è trattato di una questione davvero rilevante. Perché l’accusa di terrorismo non è polvere da nascondere sotto il tappeto. Anche perché è proprio l’ambasciata israeliana di Roma a ricordare come stanno le cose: «I terroristi non possono dare lezioni alle democrazie sui diritti umani». Quell’invito a parlare ai membri di un organo istituzionale della Camera rappresenta «un riconoscimento per il terrorismo e contrasta completamente con l’aspettativa dell’intera comunità internazionale di dissuadere e impedire alle organizzazioni terroristiche di operare dall’interno di strutture civili e di impedire che qualunque forma di finanziamento finisca nelle mani delle organizzazioni terroristiche». Per questo, da Israele si suggerisce: «Invece di dare un palco alle organizzazioni terroristiche, la sottocommissione dovrebbe dare un chiaro messaggio che chieda all’Italia di dichiarare che le organizzazioni terroristiche non saranno finanziate dall’Italia e che l’Italia taglierà qualsiasi legame con le organizzazioni terroristiche designate come tali, anche se queste nascondono le loro azioni con una copertura umanitaria». Difficile ascoltare parole di concordia dalla Boldrini. Stupisce invece proprio la bocca chiusa di Fiano.

Paolo Bracalini per "il Giornale" il 22 dicembre 2021. L'ambasciata d'Israele in Italia è «sconvolta dall'invito fatto a terroristi e organizzazioni terroristiche a parlare di diritti umani alla Camera dei deputati». L'invito, tramite un'audizione in videoconferenza, è del «Comitato permanente sui diritti umani nel mondo» costituito in seno alla commissione Esteri e presieduto dalla deputata Pd Laura Boldrini. Ospiti della Camera dei deputati, i rappresentati di due ong palestinesi, «Al-Haq» e «Addameer», definite ufficialmente nei mesi scorsi dal ministro della Difesa israeliano Benny Gantz organizzazioni terroristiche che spalleggiano il «Fronte popolare per la liberazione della Palestina» (Fplp), nella lista nera della Ue e degli Usa per terrorismo. Un fatto che la deputata Boldrini non ignorava certamente, avendo firmato proprio lei una interrogazione parlamentare per chiedere spiegazioni sull'inserimento di sei ong palestinesi (tra cui appunto le due invitate dal comitato) nella black list del governo israeliano. Durante l'audizione è stata data la parola a Sarah Francis, rappresentante di Addameer, e a Shawan Jabarin, direttore di Al Haq. Quest'ultimo secondo lo Shin Bet (l'intelligence israeliana) è in realtà un membro Fplp. Di lui nel 2009 la Corte Suprema israeliana ha scritto che "agisce come dottor Jekyll e Mister Hyde, a volte come amministratore delegato di un'organizzazione per i diritti umani", e altre volte come attivista in un'organizzazione terroristica che non ha evitato omicidi e tentati omicidi e che non ha nulla a che fare con i diritti». L'Ambasciata spiega poi che «Addameer ha rappresentato in tribunale Samer Arbid, un terrorista palestinese che lavorava in quell'organizzazione e che ha ucciso in modo crudele e disumano Rina Shnerb, una giovane donna israeliana innocente il cui unico "crimine" era la sua identità ebraica». L'invito, scrivono gli israeliani, «è un riconoscimento per il terrorismo e contrasta completamente con l'aspettativa dell'intera comunità internazionale di dissuadere e impedire alle organizzazioni terroristiche di operare dall'interno di strutture civili e di impedire che qualunque forma di finanziamento finisca nelle mani delle organizzazioni terroristiche». La Boldrini, in risposta all'ambasciata israeliana, rivendica come legittima l'audizione delle due organizzazioni palestinesi perché le accuse di Israele sarebbero prive di «sufficiente documentazione a supporto». Da quale parte stia la Boldrini, tra Israele e Palestina, del resto è noto. Non è infatti nuova a iniziative del genere. Da presidente della Camera nel 2017 invitò il rappresentante in Italia di al Fatah, Yousef Salman, uno che definisce gli israeliani «assassini», «nazifascisti», e «nemici della civiltà, della democrazia e dell'umanità». Le uniche voci in appoggio di Israele arrivano dal centrodestra. «Grave l'invito, i legami di Addameer e Al Ha con il terrorismo antiebraico sono noti - commenta la Lega -. Non a caso, durante la loro audizione, hanno definito lo Stato di Israele "razzista e coloniale": espressioni inaccettabili». Da Forza Italia esprime «sconcerto e rammarico» il deputato Fi Andrea Orsini, membro della commissione Esteri. «La politica estera in era pentastellata e sinistra oscilla fra regimi brutali come quello cinese, regimi dittatoriali come quello di Maduro e terrorismo internazionale: siamo oltre la decenza. Faccio appello alle forze di centrodestra del Governo: fermateli!» scrive in una nota Andrea Delmastro, capogruppo di Fratelli d'Italia in commissione Esteri alla Camera.

"Il rapper odia gli ebrei. Si può definire antisemita". Daniel Mosseri su Il Giornale il 22 dicembre 2021. La libertà di espressione deve valere per tutti: tanto per chi diffama, quanto per chi è stato diffamato. Lo ha stabilito la Corte costituzionale tedesca dando ragione a un rappresentante della Amadeu Antonio Stiftung, una fondazione berlinese impegnata contro il razzismo, che aveva chiamato il cantante tedesco Xavier Naidoo «un antisemita». Nato nel 1971 a Manheim da genitori sudafricani, Naidoo è famoso in Germania per le sue canzoni R&B e per le sue uscite ora omofobe, ora antisemite. Nel 2015 è chiamato a rappresentare il suo paese all'Eurovision del 2016, invito ritirato dopo che una raccolta di firme online e le pressioni dei Verdi lo squalificano per il testo omofobo e transofobo della sua canzone «Wo sind die jetzt». Naidoo fa poi notizia perché chiama il Consiglio centrale degli ebrei tedeschi «il Consiglio centrale delle menzogne», scrive su Twitter che «tradimento, corruzione e ricatto» sono «il modo di vivere degli ebrei», che tutti gli ebrei dalla pelle chiara sono ingannatori e che «ci sono tanti ebrei in questo brutto mondo di molestatori di bambini». Senza dimenticare di sostenere ancora che lo sterminio «è una finzione storica di successo» mentre i Protocolli dei savi di Sion, un finto documento storico ferocemente antisemita, è uno dei «documenti più importanti della storia dell'umanità». Nel 2017 una rappresentante della Fondazione Amadeu Antonio partecipa a una conferenza sui Reichsbürger, un movimento di nazionalisti che rimpiange l'Impero guglielmino visto che la nostalgia per il Terzo Reich è vietata per legge. A una domanda di un giornalista su cosa pensa di Naidoo e dei suoi testi, la rappresentante risponde: «È un antisemita: non dovrei dirlo perché ha la denuncia facile, ma può essere facilmente provato». La querela del cantante arriva puntuale e sia il Tribunale regionale di Ratisbona sia il Tribunale regionale d'appello di Norimberga censurano le affermazioni della donna perché dannose per la dignità del cantante che avrebbe subito anche un effetto-gogna. La Corte di Karlsruhe ha ribaltato invece la sentenza stabilendo che le due corti hanno trascurato la centralità della libertà nel pubblico scontro fra le idee. Per cui se detesti gli ebrei non ti puoi offendere se poi ti danno dell'antisemita.

Se la sinistra vede fascisti anche tra i liberali. Marco Gervasoni il 24 Dicembre 2021 su Il Giornale. Gli Inti Illimani, «el pueblo unido jamas sera vencido», e quindi «la musica andina che noia mortale», cantava Lucio Dalla. Per la sinistra, il Cile è un luogo della memoria traumatizzata. Secondo l'agiografia, nel mentre Allende costruiva il paradiso in terra, arrivò il fascista Pinochet a bloccare tutto. In realtà il presidente socialista stava minando economicamente il Paese e un colpo di stato militare - violento, sanguinario e ovviamente ingiusto - lo rovesciò, creando una dittatura ferocissima. Che tuttavia contribuì a modernizzare il paese, come hanno riconosciuto anche molti storici progressisti. Sì, ma qui la storia non c'entra, è solo propaganda, e non della migliore. Quella di considerare la vittoria del candidato dell'estrema sinistra, Gabriel Boric, come una vendetta di Pinochet, quasi mezzo secondo dopo. Come se a Santiago non fossero mancati governi, anche di sinistra, in questo torno di tempo. La vocazione dei post comunisti al reducismo e alla nostalgia, peraltro sentimenti assai nobili, trova una piccola conferma anche da una baruffa sui social. All'economista Francesco Ramella, che si poneva gli stessi interrogativi di tutti i giornali seri internazionali, cioè se il programma economico di Boric «distruggerà il Cile» (cosi il Wall street journal di ieri), può capitare di essere apostrofato come «fascista». Poco male, i social non sono un pranzo di gala e chi li frequenta deve accettare le regole del gioco. Non però quando a praticare il fango è un ministro, nella fattispecie Andrea Orlando, che fascista ha definito Ramella, per ironia della sorte pure editorialista di Domani, il quotidiano di De Benedetti, non certo di ultradestra. Questa piccola baruffa chiozzotta ci dice però tre cose. Una, che per la sinistra non di 50 anni fa ma di oggi «neoliberismo» e «fascismo» sono sinonimi. Ramella è infatti membro dell'Istituto Bruno Leoni, il più importante pensatoio «liberista», dicono a sinistra, in realtà semplicemente liberale. Non a caso gli strali del ministro sono piovuti quando Ramella difendeva il premio Nobel Milton Friedman, reo a suo tempo avere elogiato le misure economiche di Pinochet (condannando tutto il resto). Insomma, se privatizzi sei fascista, se nazionalizzi, un compagno: allora con questo criterio il governo più a sinistra della storia italiana dovrebbe essere la Repubblica di Salò. La seconda: che Orlando e i suoi paiono dei piccoli Togliatti, uso a trattare con gli scarponi chiodati gli intellettuali che osavano criticare il comunismo. Segno di una preoccupante regressione del Pd verso la casa madre comunista. Terzo: che a sinistra c'è tanta voglia di anni Settanta. E qui, scusate, ci scorre un brivido. Marco Gervasoni

Strasburgo, Pd e M5S non votano la condanna del regime comunista di Cuba. Lo sdegno della Meloni. Redazione il 17 dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. Ci sono i diritti e ci sono i dritti. E non sempre collimano. È il caso della Risoluzione contro il regime castrista approvata ieri dall’Europarlamento e che ha visto le delegazioni di Pd e M5S – i dritti, appunto – letteralmente squagliarsi proprio quando bisognava difendere i diritti degli abitanti di Cuba. Strano, ma vero: i signori dem, solitamente lestissimi ad ergersi a difensori degli oppressi, hanno mostrato evidente imbarazzo nel condannare la repressione comunista made in Caraibi. Tanto è vero che non l’hanno condannata. Un’ambiguità non sfuggita ai parlamentari di FdI-Eccr a Strasburgo, che in una nota hanno attaccato la pilatesca posizione dei loro colleghi della sinistra.

Cuba nega i diritti umani

In due (Gualmini e Toia) si sono astenuti, mentre un terzo (Smeriglio) ha votato contro. Così come hanno fatto gli ex-grillini ora accasati nel gruppo dei Verdi. Quelli ortodossi, invece, hanno preferito astenersi. Sia come sia, nessuna condanna del regime di Cuba è venuta da Pd e M5S. Se per i primi è evidente il retaggio del legame ideologico che tuttora unisce i cascami del castrismo agli ex-comunisti nostrani, tra i secondi vige un vago e confuso terzomondismo che li ha portati prima ad orbitare intorno al regime venezuelano di Maduro e ora a simpatizzare per quello di Miguel Diaz-Canel.

Com’era immaginabile, la votazione di ieri ha infiammato il dibattito anche in Italia. Giorgia Meloni ha chiesto a Letta e a Conte «di dissociarsi pubblicamente» dal voto delle loro delegazioni. «La sinistra – ha sottolineato la leader di Fratelli d’Italia – si riempie la bocca di stato di diritto in Ue, ma non ha il coraggio di condannare un regime brutale che da oltre 60 anni regala miseria e repressione al popolo cubano». Pd e M5S rappresentano anche un pezzo della maggioranza. Un motivo in più per chiamare in causa anche Draghi e Di Maio. «Al premier e al ministro degli Esteri – ha concluso la Meloni – chiediamo di ribadire ufficialmente il sostegno del governo italiano per una Cuba finalmente democratica e libera dal comunismo». 

La sinistra scopre adesso le malefatte del Kgb. Paolo Guzzanti il 19 Dicembre 2021 su Il Giornale. Cambia il vento, si calma la bufera e - senza fare una piega e neanche un plissé -la sinistra italiana esce dalla stagione dell'innocenza e scopre che il Kgb fu davvero l'incubo che ha imperversato su tutti i Paesi occidentali. Cambia il vento, si calma la bufera e - senza fare una piega e neanche un plissé -la sinistra italiana esce dalla stagione dell'innocenza e scopre che il Kgb fu davvero l'incubo che ha imperversato su tutti i Paesi occidentali, battendo per efficienza e cinismo la Cia americana. E questo anche perché il Kgb non era un servizio segreto, ma l'istituzione armata e anche intellettuale del potere sovietico che dominava su politici, militari, scuole, moda, il giornalismo, oltre a fabbricare carriere per i suoi agenti di influenza all'estero mentre organizzava guerriglie, colpi di Stato, stragi e uccidere anche attraverso l'uso del comparto detto «Kamera» in cui si fabbricavano agenti patogeni con cui far morire d'infarto dì cancro, leucemie, ictus. Da noi in Italia era severamente vietato, dalla sinistra, nominare il Kgb le cui azioni erano sempre attribuite a una formazione di fascisti, massoni deviati, servizi segreti deviati, insomma una sorta di compagnia di giro guidata dal celebre Licio Gelli, nato fascista, diventato partigiano e poi doppiogiochista ma anche venditore di materassi in Romania in combutta con la Scuritate (il servizio segreto rumeno) di Nicolai Ceausescu. Aldo Moro poco prima di essere rapito e ucciso aveva denunciato gli strani studenti russi che seguivano fin troppo le sue lezioni e le sue abitudini. Io ho presieduto una Commissione bicamerale d'inchiesta e fui invitato, con l'intera commissione, dal Procuratore Generale di Budapest che ci spiegò per filo e per segno come il gruppo militare operativo delle Brigate Rosse protagonista nella cattura, interrogatorio ed esecuzione dell'omicidio Moro fosse sotto il comando e controllo congiunto della Stasi tedesco-orientale e del Kgb. Ricordo l'imbarazzo del capogruppo del Pds quando chiese: «Non potrebbe essere che quelle che lei chiama Brigate Rosse fossero dalle brigate rivoluzionarie di qualche movimento di liberazione, dette rosse per comodità?». Il procuratore rispose: «No, onorevole, si tratta proprio delle Brigate Rosse italiane, comandate dal Kgb». Era il 2005 e il Kgb benché formalmente scomparso era vivo e vegeto e fece fuori i miei migliori informatori di cui il più celebre fu Alexander «Sasha» Litvinenko. Da allora questa ed altre verità sono state sepolte dalla sinistra mediatica italiana che mi linciò dandomi del pazzo. Oggi la sinistra ci ripensa e scopre che il Kgb fu realmente la bestia nera della nostra storia e di tanti altri paesi. Come mai? Perché essendo priva di idee, tutto quello che sa fare fin dai tempi di Veltroni è mettersi al rimorchio del partito democratico americano. E poiché il presidente Biden ha appena lanciato strali contro la Russia evocando il Kgb (a causa della nuova guerra fredda fra Washington e Mosca) sul caso Kennedy, eccoti che la sinistra italiana ai mette al rimorchio di quella americana e scopre con candido stupore l'esistenza e la natura stessa del Kgb sovietico. Del resto, la stessa sinistra italiana ha recentemente scoperto che Bettino Craxi era davvero un grande socialista, e - per bocca dell'arcinemico Prodi- che Berlusconi è un insigne statista. Paolo Guzzanti

·        Achille Occhetto.

Paolo Conti per il “Corriere della Sera” il 24 Ottobre 2022. 

Achille Occhetto risponde al telefono dopo un paio di squilli, la voce è spezzata: «Cosa posso dire di più? Un figlio è un figlio, tutte le altre possibili parole non contano Se n'è andata per sempre una parte della mia vita». Poi un singhiozzo, la comunicazione finisce. Il dolore dei personaggi conosciuti dal grande pubblico fatalmente diventa materia per i mezzi di comunicazione. Il motore del meccanismo è un inevitabile processo di identificazione: un personaggio viene visto per anni in tv; la sua vita, per varie ragioni, è seguita, e quindi il pubblico ne condivide anche i dolori, le tragedie. 

Forse per queste ragioni, chissà, l'ex segretario del Pci e poi del Pds sceglie Facebook per comunicare il più innaturale dei lutti possibili nella vita di un essere umano: «Mio figlio Malcolm è stato stroncato da un infarto a Las Palmas. Lo comunico impietrito e con indicibile dolore con questa immagine di vita». E pubblica una foto del figlio Malcolm, film maker e direttore della fotografia, mentre prepara alcuni piatti. Dunque una personalità creativa ed effervescente.

Malcolm, 53 anni, era il primo dei due figli (l'altro è Massimiliano) nati dal primo matrimonio di Achille Occhetto con l'attrice italo-somala Elisa Kadigia Bove. Temperamento da vera artista, quello di Elisa: i primi passi al Piccolo Teatro di Milano diretto da Giorgio Strehler, una collaborazione con il compositore Luigi Nono, un paio di apparizioni in film diretti da Lamberto Bava e Sergio Martino, un ruolo in «Matrimoni» di Cristina Comencini nel 1998, infine la presidenza dell'Associazione donne immigrate africane. 

Malcolm era dunque figlio di un politico e di una artista impegnata e aveva trovato una sua strada nel mondo del cinema. Lavorava in Spagna e su Linkedin offriva questa immagine di sé, definendosi film maker ma anche studente a Roma 3 di Ingegneria meccanica: «Multifunzionale, curioso, capace nella organizzazione e nel problem solving, esperienza acquisita a partire dal settore cinematografico seguita da esperienze nel teatro, televisione fino alla realizzazione di materiale audiovisivo per il web. 

Ideale per un ambiente in cui sia richiesta flessibilità nei ruoli e nei compiti assegnati. Puntuale nelle scadenze e negli appuntamenti avendo lavorato e vissuto negli Stati Uniti ed in Germania a Berlino dove la puntualità è imprescindibile. Vorrei inoltre dopo tanti anni di freelancing trovare posto in una azienda dove potere esprimere un senso di appartenenza.» 

Dice Massimo Ammaniti, psicoanalista: «La morte di un figlio è sempre innaturale, elaborare un simile lutto è comunque difficile. Ma oggettivamente lo diventa ancora di più quando il genitore, come nel caso di Achille Occhetto, è avanti nell'età mentre il figlio che muore ha ancora gran parte della vita davanti a sé». Molte le testimonianze di solidarietà arrivate ad Occhetto, 86 anni, ora sposato da lunghi anni con Aureliana Alberici. Tra queste Piero Fassino e Antonio Bassolino, compagni di un'antica militanza.

La madre attrice, la nascita in Sicilia e il dolore del partito per Malcolm Occhetto. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 24 Ottobre 2022.

Il figlio, stroncato da un infarto, era nato in Sicilia, dove Occhetto – torinese per nascita e formazione, poi segretario provinciale di Milano – era stato mandato alla fine degli Anni Sessanta dal partito. 

«Sono passato dal tutto al niente nel giro di poche ore. Per descrivere la mia vicenda, uso l’immagine di un altoforno che va a pieno regime e che poi, improvvisamente, viene spento». Tutte le volte che dalle dimissioni del giugno del 1994 ai giorni nostri hanno chiesto ad Achille Occhetto della sua uscita di scena dal Pci-Pds, dal partito che per lui era stato casa, famiglia e comunità, da quella «cosa» che lui aveva radicalmente cambiato alla Bolognina facendo scomparire dalla carta d’identità quella parola — «comunista» — ecco, tutte le volte il segretario della «svolta» ha sempre usato quell’immagine. L’altoforno che «va a pieno regime e che poi, improvvisamente, viene spento». Non il forno, che lo riaccendi e riscalda. Ma l’altoforno, che come hanno insegnato anni di cronache dall’Ilva, una volta spento non si riaccende certo premendo un tasto. Dal tutto al niente, che poi non ritornerà mai qualcosa ma niente rimane. E dev’essere senz’altro per la potenza dell’immagine, oltre al suo essere profondamente vera e sincera rispetto alla permanenza di Occhetto nel mondo degli ex comunisti che l’hanno messo da parte e poi rimosso, se adesso tanti dei suoi vecchi «compagni» la ricordano nel momento del dolore, del tutto che diventa niente senza avere per davvero la possibilità di tornare qualcosa.

Il momento in cui Achille Occhetto piange l’improvvisa scomparsa del suo primogenito Malcolm, annunciata ieri con un post su Facebook, che era nato dal matrimonio con l’attrice italo-somala Elisa Kadigia Bove. Solo l’intreccio tra la politica che si fa partito e il partito che si fa famiglia può spiegare determinati meccanismi ormai decisamente fuori dal tempo, come fuori dal tempo sembrano essere i partiti stessi. Come per i figli di tutti i dirigenti del Pci, Malcolm era un figlio del Pci. 

Era nato in Sicilia, infatti, dove Occhetto – torinese per nascita e formazione, poi giovanissimo segretario provinciale di Milano, quindi dirigente nazionale di Botteghe Oscure – era stato mandato alla fine degli Anni Sessanta per tentare di contrastare l’ascesa della Dc di Salvo Lima e Vito Ciancimino, negli anni tragici del «sacco di Palermo». Segretario della federazione del capoluogo, poi segretario regionale. Funzionava così, all’epoca: i migliori venivano mandati lontano da casa, là dove c’era bisogno. E la loro casa — e quella delle loro famiglie, i luoghi di nascita dei figli, i figli stessi — diventava là dove il partito aveva stabilito che fosse. Quel partito, poi, Achille Occhetto l’ha scalato. 

Alla morte di Enrico Berlinguer, nel 1984, per la successione circolano due nomi: il suo e quello di Luciano Lama. Verrà scelto, come segretario, Alessandro Natta. Ma quattro anni dopo, quando Natta finisce all’ospedale per un malore, nel garage di Botteghe Oscure — poco prima del telegiornale delle 20 — Occhetto sigla col suo alleato del momento (che sarebbe diventato il suo nemico interno dopo) Massimo D’Alema un patto che avrebbe retto il partito negli anni a venire. Una sorta di staffetta: oggi Occhetto, che va a guidare il Pci; domani D’Alema, che ripiega alla direzione dell’Unità prima e alla guida del gruppo parlamentare negli anni a venire.

Nel frattempo, è il partito a essere cambiato. Anche grazie a un’intuizione di Occhetto. Tre giorni dopo la caduta del Muro di Berlino, il neosegretario – celebrando alla Bolognina il quarantacinquesimo anniversario della battaglia di Porta delle Lame – annuncia la svolta. È il 12 novembre 1989. Un anno e tre mesi dopo, a Rimini, si apre il ventesimo e ultimo congresso del Pci, che diventa Partito democratico della sinistra. Lì, in quel momento, ascesa e caduta, altare e polvere, si fondono per Occhetto in una cosa sola. La «svolta» viene approvata ma per l’elezione di Occhetto, triturata dai franchi tiratori interni, non ci sono i numeri. La sua ultima elezione verrà formalizzata a Roma, lontano dall’impatto storico e dalle luci della ribalta dell’assise riminese. 

Il resto è storia: la rottura con D’Alema e un pezzo di gruppo dirigente, l’abito marrone del confronto tv con Berlusconi, la sconfitta alle elezioni politiche del marzo del ’94 e la goccia delle Elezioni europee di tre mesi dopo, che fa traboccare il vaso. «Akel», come lo chiamava il padre, esce dal gruppo ela sua foto scompare idealmente da ogni pantheon. Quando nel ’96 l’Ulivo vince le elezioni e quando nel ’98 D’Alema diventa il primo ex comunista a guidare il Paese da Palazzo Chigi, lui è nelle retrovie, a seguire una corrente di sinistra che poi lo porterà alla nascita di una «Lista Di Pietro-Occhetto» che sarà l’embrione del partito personale del solo Di Pietro, l’Italia dei valori. Nel momento del dolore per la scomparsa del figlio Malcolm, oggi, tutta la vecchia guardia del «partito» sta tornando a stringersi discretamente attorno a Occhetto, al segretario della «svolta». È tornata a riaccendersi quella fiammella di quasi trent’anni fa. La famiglia che torna partito, il partito che torna famiglia. E il niente che ritorna tutto, con quell’altoforno che riscalda ancora. Anche se a occhio nudo sembra, e irrimediabilmente, spento per sempre.

·        Beppe Sala.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 19 settembre 2022.

Moderato come sanno esserlo gli uomini di destra costretti a farsi passare per politici di sinistra; manager del più bel capitalismo lombardo riallineatosi al progressismo green, da amministratore delegato della Pirelli ai monopattini elettrici, perché anche i pneumatici Cinturato a volte slittano a sinistra; e sindaco-modello di qualsiasi idea prêt-à-porter: oggi va lo smoking dell'altissima borghesia milanese alla Prima della Scala domani la T-shirt del compagno sexy Che Guevara, Hasta Victoria' s Secret siempre, Beppe Sala brianzolo di Varedo, mobili, Made in Italy, meneghin e il sogno di conquistare Milano, dal contado alla metropoli andata senza rimpianti né ritorni ha 64 anni, segno zodiacale Bocconi, ascendente Camaleonte. Dagli abiti grisaglia, nuance Bicocca, alle inguardabili calze arcobaleno, ha sempre dato prova di una straordinaria capacità di mimetizzarsi. Con chi vince.

Naso grosso e cervello fino, e una discreta passione per la vela, Cécco Bèppe Sala sa fiutare il vento come pochi, e seguirlo meglio di chiunque altro. Tutte le cordate giuste in Pirelli fino a diventare il braccio destro di Marco Tronchetti Provera; poi la scelta nel momento opportuno di prendere il largo, e una cospicua buonuscita, per passare alla pubblica amministrazione; grande salto a Direttore generale del Comune di Milano come braccio armato di Letizia Moratti nell'epoca d'oro della Casa delle Libertà, quando di fatto diventa l'uomo della donna di Berlusconi; una pausa di vera gloria manageriale universale «Expo un attimo a fare un giro...» per ritrovarsi due volte, senza avversari, sindaco progressista della città più conservatrice d'Italia, al netto della cerchia dei Cap 20121, 20122 e 20123 dove Sala ha il 95% dei consensi. Quadrilatero, bike sharing, Ddl Zan, Ztl e giacche di visone Black-Glama a pelo corto.

Occhio lungo nel rivendere come nuovissimo il già visto e campione nell'intestarsi le intuizioni delle giunte Albertini e Moratti, Beppe Sala è l'uomo giusto al posto sbagliato per la destra e l'uomo sbagliato al posto giusto per la sinistra. 

Ed ecco perché lo votano tutti. Democristianamente è il sindaco perfetto nel sublimare le due anime della città: la Milano borghese élitaria e produttiva di banche e di potere e la Milano operaia e popolare filo-immigrazionista, tutta piste ciclabili e orgoglio gay. Finanza bianca, estremismo verde, bandiera rossa e famiglie arcobaleno: è l'esibizionismo ideologico necessario per accreditarti in un mondo che non è il tuo. Intelligente, furbo, determinato: destra e sinistra fanno tutte il tifo per lui.

«Sì, ma adesso: che cazzo ce ne facciamo di due stadi?!». San Siro, san Bernardo, santo subito, Sankt Moritz, sanatorie e sandali francesi. Servitore ligio dei padroni di rito meneghino e una certa tendenza all'oscillazione politica, Beppe Sala prima ha veleggiato dentro il Pd, per abbandonare la rotta appena viste le troppe correnti; poi una sbandata, rientrata al momento strategico, per Renzi; una proclamata adesione ai Verdi di fatto non concretizzata; poi il progetto di un polo progressista, riformista e antipopulista mai andato in porto; quindi un estemporaneo avvicinamento a Di Maio; infine un ripensamento estivo - il tempo di studiare i sondaggi e passare una sera alla festa dell'Unità milanese - e si torna a votare Pd: «È sempre stato il mio partito di riferimento» (sic!). L'upgrade ieri, sul palco di Monza accanto a Enrico Letta: «Lotteremo fino all'ultimo voto». Da simpatizzante a militante.

Domanda: ma Beppe Sala, una volta lasciate dietro di sé le macerie di Milano svendita del patrimonio immobiliare cittadino per fare cassa, una spianata devastante di piste ciclabili, un bilancio economico basato sulle multe, e un modello sicurezza non così sicuro, glielo ha detto persino Chiara Ferragni (wow!) - cosa vuole fare da grande? 

Sala d'attesa aspettando la leadership di un grande partito. C'è chi scende e c'è chi Sala. Salah Al-Din, ramadan in Duomo e kebab. Salagram e l'ossessione social, proprio lui che poi tuona contro i politici su TikTok... 

Le mille facce di Giuseppi Sala. Versione yuppie ambrosiano con loft e gin tonic quando viveva single felice a Brera. Versione buon padre di famiglia allargata ora che abita in zona Risorgimento con la compagna, i tre figli di lei, il cane Whisky e uno stuolo di domestici, e Adieu all'indipendenza (e pure vaffanculo al federalismo). Versione bulletto brianzolo quando stava per arrivare alle mani con gli anarchici che lo contestavano al Corvetto. Versione Re Sole quando fra yesmen e yeswomen tiranneggia su Palazzo Marino, e anche oltre (fu il governatore Attilio Fontana, con pragmatismo lumbard, a rimetterlo in riga: «L'è 'n poo tròpp comandina»).

Versione glamour-chic quando posò sulla copertina di Style con due bambini, un maschietto bianco e una femminuccia nera - photo opportunity del miglior immigrazionismo patinato - sotto il titolo: «Milano città aperta». 

Poi, certo: sulle chiusure, il lockdown, Covid sì Covid no, gli aperitivi sui Navigli, le colazioni a Chinatown - #MilanoNonSiFerma #MaAncheSì lo smartworking e #MilanoDeveRipartirte... la gestione della pandemia è stata quello che stata Ma la città continua ad amarlo. Un amore del tutto disinteressato dopo un passato sentimentale piuttosto animato e due divorzi - per Chiara Bazoli (figlia di quei Bazoli), la più bella first sciura sotto la Madonnina; una passione per la bicicletta, compagno bipartisan di pedala sia di Bruno Tabacci sia di Alessandro Sallusti; carattere irritabile e inquieto, ambiguo e ambizioso, «bravissima persona, solo un po' ganassa»;

gusti musicali che oscillano fra Ghali, Riders on the Storm dei Doors e Bella ciao; cattolico praticante; interista per convinzione e Lgbtq per interesse (no dài, non è vero: era felicissimo quando unì in matrimonio civile la zia Gabriella e la compagna Gianna), Beppe salottiero Sala non si può negare è l'esempio più invidiabile di manager prestato alla politica che da politico è riuscito a continuare a fare il manager. Perdendo qualcosa nel rispetto delle norme burocratiche, ma guadagnandoci in efficienza. Come si dice a Milano: «Inscì aveghen!». 

Cose che Beppe Sala adora: il dialetto; riempire la città di bici e monopattini, vietare i Diesel 5 (tanto lui mica deve comprare una macchina nuova), vendere la sua auto, usare quella blu; le gabbie salariali («Te l'avevo detto che è di destra...»), decidere quali artisti russi possono o no esibirsi alla Scala; la villa a Zoagli, che gli ristrutturò l'architetto De Lucchi, quello dell'Expo; postare «scorci suggestivi» di Milano; gli asterischi; la fig*.

Cose che Beppe Sala odia: i parcheggi (per gli altri); essere contraddetto; dover ammettere che l'area C non è una tassa sull'inquinamento per abbassare i livelli di polveri sottili ma una tassa sul traffico per fare cassa; la casa a Pontresina, in Engadina, quella che aveva dimenticato di dichiarare nell'autocertificazione per il «decreto Trasparenza» (infatti l'ha venduta); e soprattutto i milanisti, e un po' anche i milanesi. Altrimenti non deliberava due milioni e 850mila euro per insegnare nelle scuole cittadine la cultura e la lingua rom. Però, come si dice a Brera, «Milano non savà un Pavadiso, ma è così inclusiva».

·        Carlo Calenda. 

Il Bestiario, il Calendino. Il Calendino è un leggendario animale con il corpo da Calenda e la testa da tenero orsetto Trudi. Giovanni Zola il 14 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il Calendino è un leggendario animale con il corpo da Calenda e la testa da tenero orsetto Trudi.

Del Calendino gli antichi greci e latini come Socrate e Seneca, ma anche tutto il filone della filosofia di Francoforte da Hegel a Freud, per non parlare dei sociologi moderni come Bauman, non ne parlano mai, non c’è traccia neanche a cercare col lanternino. Niente di niente. Il nulla eterno.

Effettivamente il “fenomeno” Calendino rimane a tutt’oggi un mistero irrisolto, un po’ come l’inutilità della prima e ultima fetta del pan bauletto. Il Calendino emerge dall’umidità come un fungo da un giorno all’altro senza chiedere permesso e senza presentarsi, come fosse stato lì da sempre, dandosi anche una certa necessaria importanza come un predestinato. Insomma Il Calendino ha l’atteggiamento beffardo di quelli che al ristorante agitano in alto la bottiglia del vino vuota cameriere per farsene portare un’altra.

In realtà il Calendino non ha mai fatto nulla di così importante nella sua esistenza per essere considerato un cavallo di razza. E’ vero che in tenera età fu il protagonista di un episodio del film Cuore, ma dato che è il nipote del famoso regista Comencini, sorgono alcuni dubbi sul fatto che sia stato scelto per meriti artistici. La leggenda narra infatti che la mamma del Calendino minacciò il nonno che se non avesse scelto il figlio per il film gli avrebbe tolto le mutande tirandogliele verso l’alto.

Così il Calendino in politica si pone come l’ago della bilancia delle forze contrapposte mettendosi al centro, nella mediana, insomma in mezzo agli zebedei. La sua posizione è equidistante, quel che basta a sinistra per essere nel giusto e quel tantino a destra per essere col popolo, un poco in alto per avere una visione lungimirante e abbastanza in basso per poter raccontare senza vergogna e con un pizzico di orgoglio di essersi fatto le canne da giovane. Insomma un democristiano moderno, un uomo per tutte le stagioni, un Belotti che va alla Roma per fare panchina.

Nell’era del vuoto culturale e di idee il Calendino appare come un piccolo eroe rivoluzionario agli occhi dei media che ne danno un risalto esagerato per quello che rappresenta, come se il facocero Pumbaa fosse il protagonista del Re Leone.

Infine molti studiosi pensano che il Calendino sia destinato all’autoestinzione, come una sorta di Arlecchino che a furia di agitarsi sul palco si storta le caviglie da solo cadendo a terra, mentre il pubblico applaude credendo che si tratti della solita pantomima.

Il Cappellaio Matto. Nel campo più o meno largo di Enrico Letta, già scoppiato prima di nascere, spicca, non ce ne voglia, la figura di Carlo Calenda. Augusto Minzolini il 6 Agosto 2022 su Il Giornale.  

Nel campo più o meno largo di Enrico Letta, già scoppiato prima di nascere, spicca, non ce ne voglia, la figura di Carlo Calenda. In questa edizione «speciale» del Paese delle Meraviglie in cui succede di tutto, dove qualsiasi argomento è prezioso per una polemica in un caravanserraglio in cui alloggiano pseudo-liberali, radicali, cattolici, riformisti o supposti tali, verdi delle origini, post-comunisti e comunisti (ricorda il bar di guerre stellari), non si capisce il ruolo che il leader di Azione si è dato. Due giorni dopo l'accordo siglato con il segretario del Pd appare stupito come Alice per la presenza di Fratoianni e Bonelli. Addirittura incredulo di fronte alle loro asserzioni, come se non fosse a conoscenza di ciò che pensano da sempre, a quale elettorato si rivolgono e quale sia il loro retroterra culturale e programmatico. Che poi, in realtà, non è poi tanto diverso da quello di piddini o ex-piddini come Orlando, Speranza o Provenzano. Calenda, invece, parla come se fosse precipitato in questo strano Paese direttamente da un altro mondo: si mostra inconsapevole, perplesso, tentato dalla voglia di prendere il biglietto per il viaggio di ritorno.

Francamente la sorpresa di Calenda non convince. Il personaggio non è un novizio della politica, ha fatto il ministro, ha dialogato per tanto tempo con le strane creature che Letta desidera avere nel campo largo. Desideri - e di questo bisogna dargli atto - che il segretario del Pd non ha mai sottaciuto, né nascosto. Motivo per cui c'è da chiedersi se in realtà nel Paese del «campo largo» Calenda non interpreti il ruolo di Alice ma quello del Cappellaio Matto. E già, perché non c'è nessuna relazione - e coerenza - tra il Calenda che si presenta al Comune di Roma in alternativa sia alla destra sia alla sinistra, che la tira per mesi e mesi sull'idea di un terzo Polo, che poi fa l'accordo con Letta, ben conoscendo la geografia politica che persegue il suo alleato e che ora, come un marziano caduto sulla terra, lancia veti e scomuniche come se non avesse capito due giorni fa i contorni della coalizione in cui si è ficcato.

Sì, c'è un «nonsense» nel suo comportamento. C'è del «genio e sregolatezza» che sconfina nel masochismo verso se stesso o nel sadismo verso i suoi alleati e lo schieramento a cui ha aderito. Ma, soprattutto, fa a botte con quell'immagine di serietà e professionalità che il leader di Azione ha tentato di darsi. È difficile rivendicare tali requisiti, infatti, se non sai o non ti rendi conto degli alleati con cui ti accompagni. Se ti sposi con Letta e ti nascondi i parenti che il tuo nuovo coniuge si porta dietro. E, soprattutto, viste le incongruenze e le contraddizioni che il nostro Cappellaio Matto fa finta di scoprire oggi, appare sempre più evidente che nella trattativa con il Pd l'unico dato certo, che ha contato davvero, non è stato il programma ma quel trenta per cento di candidature per cui il leader di Azione ha barattato la scommessa di un anno fa. A questo punto solo le urne ci diranno se il Cappellaio del campo largo è matto davvero o no.

 Elezioni, il ritratto di Carlo Calenda: un tuttologo sceso in politica. Claudio Querques su Il Tempo il 7 agosto 2022.

Se hai un nonno lombardo-valdese che ha il tuo stesso nome, ambasciatore a Tripoli nel 1969, ministro plenipotenziario in Libia, e una madre che si chiama Cristina Comencini, che è figlia di Luigi, l’altro nonno regista, non hai molte scelte. O ti ritiri nella tua tenuta, fai magari l’agricoltore, metti l’etichetta sul miele e sui pomodori Bio o accetti la sfida. Carlo Calenda ha fatto clic sulla seconda opzione: ha raccolto l’eredità genetica e ne ha fatto nutrimento per il suo smisurato ego. «Mio nonno è stato un modello per me, uomo tosto, caratteraccio ma colto e con un grandissimo senso delle istituzioni», raccontò in un’intervista, descrivendo il suo avo e in fondo anche se stesso. Per capire qualcosa di Carlo jr bisogna dunque partire da qui. Dal suo culto degli «antenati». Dal timore di deluderli, non reggere il confronto con il padre del padre, dalle sue competizioni compulsive. Fin da piccolo. Eccolo allora, Carletto, 9 anni. 1981. I bambini che fanno cinema, e diventano piccole star spesso sono destinati a soffrire da grandi. Se il successo gli gira le spalle, se vengono messi da parte. Lee Aaker, l’attore-bambino di Rin Tin Tin, dopo aver lottato per liberarsi dalla dipendenza da alcol e droga, in preda a turbe psichiche e disturbi della personalità, morì indigente. Carlo no. Faceva la quarta elementare quando recitò con Eleonora Rossi Drago nello sceneggiato Cuore, romanzo strappalacrime di Edmondo De Amicis. Dietro la macchina da presa c’era nonno Luigi, il padre di sua madre e della Commedia all’italiana. L’altro nonno. Poi per lui più niente, neanche un Carosello. Il luminoso orizzonte era comunque segnato. Precoce in tutto, padre quando gli altri hanno i brufoli e sono ancora figli, a soli 16 anni. Il primo lavoro, il porta a porta per vendere polizze, la gavetta esibita con orgoglio. Sempre con quel cognome ingombrante, un peso per chiunque avesse desiderato una vita semplicemente normale. La maturità classica tra biberon e pannolini al liceo Mamiani. L’università a «La Sapienza», la laurea in Giurisprudenza con quella amnesia da smemorato sul voto («105 o 107?, non ricordo...»). Un cursus senza infamia e soprattutto senza la lode che t’aspetteresti dal nipote di cotanto nonno. L’anatomia del predestinato incompiuto sarebbe monca se non citassimo le «canne» che il giovane Carlo non disdegnava e non ha mai rinnegato. Uno spinello «ma solo ogni tanto per provare». L’allegra brigata degli amici di Roma nord, le frequentazioni parioline. Lo stage alla Ferrari, il rapporto desublimante con Luca Cordero di Montezemolo, («...continuo a dargli del lei»), l’esperienza in Confindustria, direttore degli Affari internazionali; il matrimonio con l’amatissima Violante Guidotti Bentivoglio e gli altri tre figli, tutti battezzati, compreso Giulio, marxista-leninista, («un piccolo comunista che adoro...»). Diciamolo: la tentazione di classificarlo tra i Capalbio-boys è forte. L’humus è quello, le partenze intelligenti, le biciclettate Chiarone-Macchiatonda. Ma Calenda è un’altra cosa. Tiene insieme i tratti della gauche caviar con i toni da guascone, il polically incorrect con il generone romano. È il profilo della destra che piace alla sinistra. Tutt’altro che un moderato, però. Se avesse voluto emulare il suo avo celebratissimo avrebbe continuato la strada diplomatica. Invece, al contrario di Enrico Bottini, il bimbetto di «Cuore», Carlo è partito dagli Appennini senza mai arrivare alle Ande. Il rapporto con Matteo Renzi è un capitolo a parte. Grandi amori. Litigi monumentali. L’anfitrione e il rivale si fondono. La nomina ad ambasciatore presso l’Unione europea a Bruxelles quando il toscano era premier fece infuriare tutti. Poi il lancio in politica. L’ex militante della Fgci, pizzaiolo alle feste dell’Unità, deluso senza partito e senza scranno che arriva da un binario morto (Italia Futura) in via Veneto: ministro allo Sviluppo economico. Carlo e Matteo, dicevamo. Prima amici, poi fratelli-coltelli. Costretti a convivere in una stessa bolla, due gocce di una stessa lacrima, aggrappati a quel che resta della scia di Mario Draghi pur pensandola all’opposto su tutto o quasi. Non è uomo da passioni fredde, Calenda. Vive di brevi ma intensi innamoramenti, sempre «en marche», come Macron, di cui è strenuo ammiratore. La tessera del Pd quando tutti la stracciano, le dimissioni quando gli altri la riprendono. E poiché solo chi ha avuto troppo si sente autorizzato a chiedere di più, eccolo tentare in solitario la scalata verso il Campidoglio. Sarebbe stato il suo trampolino per Palazzo Chigi. Risultato: Azione al primo turno è la lista più votata (19,3%), quasi ex aequo con la sindaca uscente Virginia Raggi. Tutt’e due fuori dal ballottaggio, però. Il resto è storia dei nostri giorni. Calenda europarlamentare che cannoneggia i grillini e i post grillini su Twitter, il bersaglio preferito. I selfie con la Bonino, incravattato, descamisados, strariparante contro tutti e contro nessuno. L’elogio del nucleare e dei termovalorizzatori, la rincorsa ai distinguo, i veti sul perimetro delle alleanze, la stretta di mano con Letta. Con il sospetto che in cuor suo anche lui abbia tramato "Enrico stai sereno".

Carlo Calenda: ecco la sua Roma, dal quartiere africano a via Rasella (passando per Confindustria all’Eur). Paolo Conti su Il Corriere della Sera il 9 Agosto 2022

Il leader di Azione è spesso etichettato come “pariolino”. Ecco dove ha realmente vissuto: da via Piccinni a Prati, dal Prato della Signora a via Rasella 

Carlo Calenda, in tante semplificazioni mediatiche, viene immediatamente collocato in un’area unica, i Parioli. Diciamo così lo sfondo caro a tanti romanzi di Alberto Moravia e anche di Giorgio Montefoschi. Ma non è così semplice. Perché Calenda nasce, come ha raccontato in diverse interviste, nel quartiere Africano, per la precisione in via Piccinni. Le origini sono note: alta borghesia intellettuale romana, un nonno omonimo (Carlo) ambasciatore molto stimato, l’altro nonno materno il grande regista Luigi Comencini.

Il giovane Calenda vive in via Piccinni con il padre e la madre (l’economista e scrittore Fabio Calenda, la regista Cristina Comencini) fino ai 12 anni. Poi Borgo Pio, piazza Amerigo Capponi, letteralmente all’ombra del cupolone di san Pietro. Poi la famosa paternità precocissima a 16 anni, nuovo trasferimento stavolta sulla Salaria, ovvero Prato della Signora. Liceo Mamiani in anni politicamente infuocati, partecipazione a più di una occupazione. Poi adesione alla Fgci. Ovviamente il centro di gravità è quell’area romana, appunto Parioli-Roma Nord. Ma Calenda, in diverse occasioni giornalistiche, ha tenuto a precisare di non aver mai trascorso le sue serate e nottate adolescenziali e giovani né in piazza Giochi Delfici né in piazza Euclide: anzi, ha rivendicato di aver coltivato molte amicizie negli anni adolescenziali nella borgata Fidene, il che ha un suo senso geografico pensando al periodo in cui viveva sulla Salaria. Per chi non è romano significa aver evitato le due ideali piazze principali (Giochi Delfici e Euclide) di Roma Nord: quadrante della borghesia benestante, la stessa che (per capirci) l’estate gravita tra il Circeo, Sabaudia e l’Argentario.

Ora abita a due passi da piazza Barberini, cioè in via Rasella: cuore del centro storico, accanto anche a piazza di Spagna e quindi a Fontana di Trevi. Gira, ha raccontato, con un vecchio motorino usato e mai in macchina. Racconta di non aver mai dimenticato i sei mesi passati a Cinecittà quando ha girato col nonno Luigi Comencini, da esordiente però protagonista, il celeberrimo «Cuore televisivo » nel 1984 dove era il personaggio centrale di Enrico accanto ad attori del calibro di Johnny Dorelli, Giuliana De Sio, Bernard Blier e addirittura Eduardo de Filippo. Un mosaico che renderebbe difficile sintetizzare tutto nei Parioli, anche se il quartiere è rientrato nelle cronache familiari: il padre Fabio , per anni collaboratore di Affari & Finanza, oltre che membro di importanti uffici di studi bancari, è stato uno dei truffati del cosiddetto Madoff dei Parioli, il finanziere Gianfranco Lande. Una importante amicizia paterna (e qui torniamo in area Parioli), quella con Luca Cordero di Montezemolo, apre a un giovane Carlo Calenda le porte per lavorare accanto a lui prima nello staff Ferrari e poi anche alla presidenza della Confindustria. Poco dopo comincia il suo impegno politico, le radici nel centro di Roma. I Parioli? Nulla di centrale, alla fine, nella sua vita di oggi.

Roberto Gressi per il “Corriere della Sera” il 9 agosto 2022.

Calenda Carlo, nato a Roma il 9 aprile 1973, un metro e ottanta per ottanta chili, segno zodiacale Ariete. Che per chi ci crede vuol dire spontaneo, impulsivo, impaziente, audace, passionale, aggressivo, affetto da precipitazione, assolutismo, esaltazione. 

Il padre è lo scrittore Fabio Calenda, la madre è la regista Cristina Comencini, in famiglia uno zio ambasciatore in Libia, India e Nepal e pure consigliere di Pertini. Un prozio paterno, Felice Ippolito, uno dei padri dell'industria nucleare italiana, un nonno, Luigi Comencini, celeberrimo regista, a sua volta sposato con la principessa Giulia Grifeo di Partanna, nobiltà siciliana.

È per tutto questo che non c'è nepotismo alcuno quando il nonno lo chiama, undicenne, a recitare insieme alla madre, nello sceneggiato Cuore , tratto dal libro di Edmondo De Amicis. Perché la parte di quel bambino di terza media, nella classe più famosa e variegata d'Italia, è assolutamente la sua. 

Enrico Bottini, rampollino di una famiglia borghese, suo padre è ingegnere e lui avrà comunque la possibilità di continuare gli studi. È un bambino comune, non va male a scuola ma nemmeno è abbastanza bravo da meritare delle medaglie.

Riceve un'educazione infarcita di valori e lui stesso ha sempre buoni propositi, però è perennemente invidioso, vagamente pavido e adora Garrone, che lo difende. Però a Calenda-Bottini lasciano il bel visino ma tolgono la voce, sarà doppiato da Giorgio Borghetti. E allora basta con il fare l'attore afono, qui urge un ruolo da protagonista. 

Laurea in Giurisprudenza alla Sapienza con 107, un filo sotto l'eccellenza, un lavoro alla Ferrari e poi a Sky, assistente del presidente di Confindustria con Luca Cordero di Montezemolo, viceministro allo Sviluppo economico con Enrico Letta e Matteo Renzi, poi ministro con Renzi e Paolo Gentiloni, parlamentare europeo con una valanga di preferenze ma nella lista del Pd e poi, finalmente, segretario di Azione. Basta stare in qualche modo sotto padrone, ora è lui, Calenda con la sua creatura, l'arbitro assoluto del bene e del male. 

Definire tormentato il suo rapporto con il Pd sarebbe perlomeno un eufemismo.

Per lo più lo vede dalla parte di Lucy van Pelt che tiene fermo il pallone davanti al segretario-Charlie Brown di turno. Che lo sa che gli sarà sottratto all'ultimo secondo, ma non resiste all'idea di calciarlo e finisce regolarmente a gamba all'aria. 

Prende la tessera del Pd nel 2018 e la fa a pezzetti poco dopo. Vola a Strasburgo con i dem e li molla quando Nicola Zingaretti favorisce la nascita del governo con i Cinque Stelle, partecipa a un estenuante tira e molla con il Partito democratico sulla candidatura a sindaco di Roma, con lui che li insulta e loro che insistono: dai Carlo, guidaci tu. Fino all'inevitabile epilogo. Corsa solitaria, niente, nemmeno il ballottaggio, ma un terzo posto tra gli applausi che gli conferma una certezza: terzo, come terzo polo, una forza da lui guidata capace di destrutturare centrodestra e centrosinistra e di imporre l'agenda Draghi per la guida del Paese. 

E se Mario dovesse dire no?

Sarebbe un peccato, ma pazienza, un degno sostituto non manca, è Carlo Calenda medesimo.

D'altra parte è o non è «il nuovo eroe della politica italiana» per la rivista Forbes ?

Ed è lui o non è lui «il politico che usa meglio i social», per la rivista Rolling Stone? 

Di Twitter è il principe assoluto, lo usa per frustare, blandire, avvertire, insultare, incoraggiare, promuovere e affondare, con epigrammi che nemmeno Marziale. Certo, come Jep Gambardella de La grande bellezza è dotato di un superpotere, quello di far fallire le feste, soprattutto quelle apparecchiate da Enrico Letta che lui bolla come «ammucchiate». 

Le forbici con le quali ha fatto a striscioline l'intesa firmata con il Partito democratico e +Europa hanno fatto indignare Emma Bonino: «Sono incredula, non è serio cambiare opinione ogni tre giorni, soprattutto se si vuole governare». Ma lui ribatte che non fa politica «per andare appresso ad una cosa che sembra il giorno della marmotta, dove c'è una sinistra incasinata che ha dentro di tutto: dai comunisti alla Bonino».

Enrico Letta si ripropone ora la congiura del silenzio, e dopo averlo bollato con: «Non ha onorato la parola data, che promesse può fare agli italiani?» punta a fare la sua campagna elettorale evitando di ingarellarsi in un eterno ping pong di rasoiate con lui. Ma Carlo non se ne cura. Ha di fronte un dilemma ben più importante: firme o non firme? Perché correre da solo vuol dire raccogliere da un minimo di 750 a un massimo di 2.000 sottoscrizioni per ogni collegio, impresa faticosa sotto il sole d'agosto. 

E allora una soluzione forse c'è, ma non è gratis. Matteo Renzi spinge per l'alleanza e lui le firme di Italia viva, da portare in dote, ce le ha. In più promette, in questo caso, un risultato a due cifre per il terzo polo centrista, roba mica da poco, che può cambiare gli equilibri. Certo Calenda dovrebbe prendersi nelle liste, oltre a Renzi medesimo, anche Maria Elena Boschi, Francesco Bonifazi, Teresa Bellanova e Elena Bonetti. E fidarsi.

Perché il canto della sirena è soave, ma poi i marinai sotto incantesimo in genere vengono divorati. E quindi ci attendono altre avvincenti puntate, con l'Italia che si divide in due in attesa del 22 agosto. Una metà aspetta la presentazione delle liste, l'altra metà attende con impazienza, nello stesso giorno, il primo episodio del prequel del Trono di Spade : House of the Dragon , che sempre di una lotta per il potere tratta.

Estratto dell’articolo di Daniela Ranieri per “il Fatto quotidiano” il 17 giugno 2022.

[…] Dopo le amministrative, è tornato il mito del Grande Centro Riformista, schizofrenicamente scisso tra i due suoi maggiori (si fa per dire) rappresentanti: Renzi, che da quando si è ritirato dalla politica viene intervistato da tre quotidiani al giorno; e Calenda. […] 

[…] l'ex di Confindustria, Ferrari, Sky, Montezemolo, Monti, già viceministro di Letta e Renzi, poi da questi fatto Rappresentante permanente presso la Ue (con disappunto dei veri diplomatici), dunque creato ministro neoliberista dell'Eccellenza, prende la tessera del Pd, si fa eleggere al Parlamento europeo coi voti del Pd, ma con un simbolo proprio (Siamo europei), e pochi mesi dopo, alla formazione del governo coi 5Stelle, lascia il Pd, cambia nome al suo partito personale (Azione), ma non si dimette da europarlamentare; […] si candida a sindaco di Roma […] perde […] e annuncia che non farà il consigliere comunale, buttando a fiume 220mila voti di romani, salvo poi ripensarci e giurare di restare, salvo poi ri-ripensarci e dimettersi (il suo slogan era: "Roma, sul serio"). 

Rabelais lo avrebbe preso ad archetipo del personaggio garrulo, pasticcione, inaffidabile, fallimentare, cazzaro per sua stessa dichiarazione ("Ho sostenuto per 30 anni le cazzate dei neoliberisti"), […] invece per i nostri giornali è un leader di ragguardevole carisma e autorevolezza […]

[…] come ha dimostrato Youtrend, […] Calenda ha appoggiato candidati arrivati secondi o terzi insieme ad altre liste, o non ha presentato il simbolo, e ha preso lo 0,4% a livello nazionale. […] Passiamo a Renzi: Repubblica lo intervista in qualità di vincitore morale e ago della bilancia, alimentando la sua mitomania elettorale; in realtà s' è presentato col simbolo del suo non-partito in sole 9 città sulle 971 al voto; in altre, ha adottato la solita strategia parassitaria: a Genova ha appoggiato Bucci, candidato di Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia; a Lodi il candidato di centrosinistra; a Rieti quello di centrodestra; in nessun caso è stato determinante. 

Eppure, queste due schiappe della politica sono gli idoli dei giornali, che schifano i 5Stelle e vogliono impedire che il Pd si sposti a sinistra […] Da anni pompano gente "di centro" che nella realtà fisica non esiste (Pisapia - che doveva "federare" il Pd con Renzi - Monti, Passera, Bonino, Gori, Sala, etc.). […]

Ci si guarda bene dal dire la verità: Azione e Iv sono partiti di plastica costruiti sui nomi, ancorché scarsi, dei loro leader; sono scatole vuote, senza radicamento, che alle elezioni si agganciano a questo o a quel cacicco locale senza scrupoli e schizzinosità, tanto possono contare su una campagna elettorale permanente e gratuita. […] 

Cesare Zapperi per il Corriere della Sera il 28 maggio 2022.

«A chi compra due copie del libro, manette rosa in omaggio». Per Carlo Calenda è il giorno della presentazione della sua ultima fatica editoriale («La libertà che non libera», edito da La nave di Teseo) nello splendido scenario della terrazza del Pincio, ma da due giorni tiene banco una vicenda che poco o nulla ha a che spartire con un saggio politico (anche se a suo modo riguarda la libertà, per diversi aspetti). 

Il leader di Azione con una battuta cerca allora di sdrammatizzare e mettere a tacere le polemiche per l'esclusione dalla lista «Agenda Como 2030», in corsa per il Municipio del capoluogo lariano, di Doha Zaghi, poliedrica artista del mondo hot, nota al pubblico specializzato come «Lady Demonique». Per Calenda è una storiella minore, una di quelle candidature che sfuggono quando un movimento cresce in fretta e raccoglie adesioni «alla garibaldina».

Ed è infastidito dal clamore che ha suscitato.

L'ex ministro se la prende con la stampa, rea di prestare attenzione più alle situazioni pruriginose che ai temi seri. «Oggi (ieri per chi legge, ndr ) ci sono 30 articoli sull'ex candidata dominatrice - scrive su Twitter -. Ho finalmente capito come andare sui giornali. Altro che piano sul nucleare o sulla sostituzione del gas russo (zero articoli), bisogna buttarsi su altri lidi. Altro che centro studi. Fruste e manette». E in serata, alla presentazione romana del suo libro aggiunge: «Io chiedo ai giornali, se noi siamo decaduti, voi vi siete sfracellati contro un muro?

Ho tolto questa signora dalle liste di Azione perché non c'erano i presupposti per candidarla e perché sono un liberale e non un anarchico». 

Sarà pure, ma il caso ha avuto le sue piccole conseguenze sul piano locale. Andrea Luppi, coordinatore comasco di Azione, si è dimesso dopo essersi visto scavalcato dal leader nazionale. In riva al lago, malumori e imbarazzi si mescolano. 

Alcune difese della prima ora della candidata esclusa (come quella della aspirante sindaca del centrosinistra Barbara Minghetti) sono successivamente rimaste isolate. La professione di Doha Zaghi per molti resta «scandalosa», si concilia poco o nulla con l'impegno civico, anche se si cerca di evitare di dirlo ad alta voce per non apparire benpensanti. A chi chiede cosa ci sia in contrario ad una sua candidatura, Calenda risponde: «Non c'è nulla di male. Non qualifica però per fare politica. Altrimenti, vale tutto ed è inutile criticare i 5 Stelle». 

La performer si dice sorpresa per la solenne bocciatura del leader di Azione, al cui fianco si era mostrata a fine marzo in occasione del lancio della candidatura di Minghetti: «Non mi sarei mai aspettata che dal partito arrivasse l'indicazione di sopprimermi politicamente. Accetto la decisione di Calenda e ne prendo atto perché tanto non cambierà mai idea, ma voglio precisare che non sono solo una mistress o una "scappata di casa" e l'ho dimostrato». Doha affonda i colpi: «Azione si è rivelato un partito moralista anziché europeista. Perché allora nello statuto del partito non hanno mai specificato che non possono partecipare alla vita politica le persone che hanno avuto o hanno a che fare con il mondo dell'erotico?».

 Dal “Corriere della Sera” il 28 maggio 2022. 

«Nel mio cuore ci sono mio marito, i miei figli e il mio donatore. Il mio donatore è il mio angelo custode». Lo ha detto Violante Guidotti Bentivoglio, moglie di Carlo Calenda, raccontando il suo percorso di malata oncologica al convegno per il 30° anniversario dell'Associazione Donatori Midollo Osseo (Admo). Violante Guidotti Bentivoglio, 49 anni, scoprì di essere malata nell'agosto del 2017, quando ricevette una doppia diagnosi di leucemia e tumore al seno. 

«Sono stata curata e sono andata in remissione - ha ricordato nel suo intervento sul palco - ma dopo 6-7 mesi ho avuto una recidiva della leucemia e sono stata costretta a sottopormi a un trapianto di midollo osseo». In un paio di settimane venne identificato un donatore compatibile che consentì di intervenire col trapianto in modo tempestivo, un caso che non sempre si verifica: «Era un donatore giovanissimo, di 20 anni, con il quale ho stretto una relazione a distanza; per quello che è possibile, dal momento che sono donatori anonimi. Nei suoi confronti mi sono sentita di dover trasmettere con una relazione epistolare tutto il mio senso di gratitudine e di farlo sentire partecipe di quello che aveva fatto donando a me le sue cellule». 

Un rapporto che è rimasto solido nel tempo, con una data speciale a consolidarlo: «Ogni anno - ha raccontato ancora - in occasione del giorno del trapianto di midollo gli scrivo una lettera e gli racconto quello che è successo, quello che mi ha portato quell'anno. Lui mi ha salvato la vita. Senza il suo gesto, probabilmente, sarei ancora ad aspettare».

 Il rapporto tra donatore e ricevente è uno degli aspetti critici, secondo Guidotti Bentivoglio, del trapianto: «La donazione ha un elemento carente: quello di non permettere la gratitudine dei pazienti nei confronti di chi, con un gesto tutto sommato semplice ma anche molto difficile, ha salvato loro la vita». La presidente della Commissione Igiene e sanità del Senato Annamaria Parente, annuncia: «Istituiremo la giornata per la donazione di midollo osseo». 

Violante Guidotti: «Il donatore che mi ha salvato fa lo scout e studia ingegneria. Vorrei vederlo in foto». Alessandra Arachi su Il Corriere della Sera il 29 Maggio 2022.

La moglie di Carlo Calenda: «Così ho affrontato la leucemia. C’era una possibilità su 100 mila di trovare una compatibilità al 100%. Lui è la mia anima gemella»

Violante Guidotti Bentivoglio, se potesse avere davanti la persona che le ha donato il midollo cosa farebbe?

«Lo guarderei negli occhi e lo abbraccerei. Mi manca molto il non poter conoscere il suo viso, la sua voce. Soffro il poter essergli grata soltanto a metà».

Le ha salvato la vita?

«Sì, avevo una leucemia mieloide acuta traslocazione genetica 8/21».

Molto grave?

«Nella sua gravità è di una categoria a rischio basso, con maggiore chance di guarire».

Anche se non è permesso conoscere i donatori, vorrebbe incontrare il suo? Vorrebbe che donatori e riceventi si potessero incontrare?

«Capisco che questo non sia possibile. Ci potrebbero essere richieste economiche, purtroppo va messo in conto anche questo. E poi c’è una tutela psicologica, potrebbe sempre esserci una ricaduta. Però...».

Però?

«Almeno una sua fotografia la vorrei».

Cosa sa della persona che le ha donato il midollo?

«Quello che mi ha scritto lui. Ci possiamo scrivere. Studia ingegneria, è uno scout, penso che sia molto credente, ha quasi vent’anni. Ne aveva sedici all’epoca del trapianto».

Ovvero parliamo di quattro anni fa.

«Il 12 settembre 2018» (qui l’intervista a Io Donna).

Una data indelebile.

«Il 12 settembre è una giornata di raccoglimento. Ripercorro quel periodo tra me e me. Poi mi stringo alla mia famiglia, a mio marito, ai miei figli: stiamo più vicini fra di noi».

Suo marito, Carlo Calenda, come ha vissuto la sua malattia?

«In quel periodo era ministro, è diventato ancora di più un family man . Si è diviso tra l’essere ministro e l’essere papà di tre figli. Non era scontato».

Come si è accorta di avere la leucemia?

«Era il 29 agosto del 2017, ero al mare in Toscana, mi sentivo male. Sono andata al pronto soccorso in costume da bagno, convinta di tornare indietro subito. Sono rimasta lontana un mese e mezzo, senza nemmeno poter salutare i miei figli».

Tra il 29 agosto 2017 e il 12 settembre 2018 è passato un anno: come mai non ha fatto il trapianto subito?

«Perché nel frattempo ho fatto una cura per la leucemia. Ma mi è stato anche diagnosticato un tumore al seno».

Anche un tumore?

«Sì, un incidente di percorso, come dico io. Me lo hanno trovato mentre facevano i controlli per la leucemia».

Ed è stata operata?

«A gennaio 2018. L’operazione è andata bene. Soltanto che dopo un po’ c’è stata la ricaduta della leucemia».

Quindi il trapianto.

«Già, ho cercato una compatibilità con mio fratello ma c’era soltanto al 50%. Poi è stato trovato questo ragazzo giovanissimo: 100%. C’è una possibilità ogni 100 mila che questo succeda. La mia anima gemella. Aveva l’età che ha mio figlio adesso».

Cosa ha detto ai suoi figli?

«Li abbiamo preparati alla malattia, ma la malattia si chiamava soltanto 8/21. Non leucemia».

E come l’hanno presa?

«Abbiamo cercato di far pesare loro tutto il meno possibile. A me avevano detto che per tanti mesi non avrei potuto abbracciarli e baciarli. Ma non ce l’ho fatta, ho trasgredito».

Lei parla di questo suo dolore con tanta serenità.

«Serenità no. È il tempo che aiuta a lenire il dolore, più che altro. Parlo del mio male perché è importante farlo, non ci si deve vergognare ».

Cosa ha fatto dopo, quando è stata bene?

«Ho pensato che dovevo ridare agli altri. Ho fatto volontariato».

Che tipo di volontariato?

«In un’associazione che si chiama Susan G. Komen Italia. È un’associazione che si occupa di prevenzione di tumori al seno. Per la leucemia purtroppo la prevenzione non si può fare. Mentre il tumore al seno che colpisce una donna ogni nove, si può prevenire».

Cosa ha fatto nell’associazione?

«Ho coinvolto tutti quelli che potevo coinvolgere negli eventi per la raccolta fondi. Sono arrivata lì come volontaria, poi sono entrata nel consiglio direttivo e da gennaio sono direttore generale».

Candida Morvillo per corriere.it il 5 maggio 2022.

La libertà che non libera era, in principio, quella che Carlo Calenda ha sperimentato da ragazzo, prendendosela di prepotenza e illudendosi di poter avere tutto. Ora, La libertà che non libera - Riscoprire il valore del limite è il titolo di un saggio politico, in uscita oggi per la Nave di Teseo. 

Un saggio che reclama il ritorno all’ethos e alla preminenza della comunità sull’individuo, ma che è anche un po’ la proiezione storica di un personale arco individuale che il fondatore di Azione racconta al Corriere da Strasburgo, dove ha portato tre dei suoi quattro figli a sentire il discorso di Mario Draghi all’europarlamento. 

Lui dice: «È un libro controverso per un liberale come me, perché teorizzo il limite del liberalismo per come l’abbiamo inteso: l’uomo alla ricerca di diritti illimitati ha finito per confondere i desideri coi diritti. Da qui, quelli che dicono: non voglio pagare per le armi ucraine; non mi rompete col Covid... La nostra idea di libertà è diventata: sto sul divano, compro su Amazon, m’intrattengo con social e tv. Ed è la classe dirigente che è così».

Lei come ha imparato il valore del limite?

«Ho una mamma valdese e la mia educazione è basata sul senso del limite, sul ricordarsi che a un diritto corrisponde un dovere. Tuttavia, proprio per questo, col senso del limite ho un problema: non usare toni eccessivi, non infiammarmi, non cedere all’egotismo è una ricerca continua. Infatti, il mio non è un libro bacchettone: l’ho scritto consapevole che darsi un limite è uno sforzo significativo».

Quando non ha retto lo sforzo?

«A 14 anni, ho completamente deragliato, ho cominciato a farmi le canne, a non andare a scuola, sono stato bocciato, poi ho avuto una figlia a 16. Ho fatto tutto quello che serviva per dire: non mi rompete. Frequentavo brutta gente, facevo a pugni, mi rompevano il naso, facevo politica in modo violento. Ma, nell’istante in cui è nata Taj, sono cambiato. Mamma mi ha cacciato di casa e sono andato a vivere da nonna. Con la bambina, ho fatto proprio il padre, non ho delegato. E, in un giorno, ho recuperato l’anno perso a scuola, mi sono messo a vendere polizze. Mi sono laureato lavorando». 

Che cosa le fa pensare, adesso, che siamo pronti al cambiamento epocale di valori che auspica?

«La forza degli eventi storici, con la guerra e la crisi economica e sociale, determinerà la necessità che questo avvenga. Serviranno più collettività e l’accettazione di valori ordinatori della società superiori al desiderio impossibile della libertà individuale. Io ho fiducia perché negli uomini c’è sempre il desiderio di una ricerca di senso, che, per come la vedo io da laico, sta nella filosofia, nell’arte e nella passione civile, in quello che Simone Weil chiama “il destino eterno dell’uomo”». 

Nella pratica, da dove si comincia?

«Dalla scuola, smettendola di trascurare il sapere non funzionale. Faccio una proposta: tutti i ragazzi italiani di qualunque condizione sociale devono fare il liceo. Gli studi professionali e tecnici devono essere rinviati a dopo. Prima, dobbiamo formare uomo e cittadino. In una società del benessere, fino a 18 anni, s’imparano arte, storia, musica, cultura, cose che daranno un vantaggio competitivo dopo e che, soprattutto, eviteranno la frustrazione che deriva dall’essere incanalati verso una professione che, tanto, cambierà e senza avere altro mondo che non stare sui social e comprare cavolate. Io, ai miei figli, ho vietato videogiochi e telefonini fino ai 14 anni, così che si abituassero, invece, a leggere libri». 

Nel libro, descrive genitori che, per primi, si riconoscono solo diritti. Che propone? Di rispedirli a scuola?

«Purtroppo, i ragazzi andrebbero sottratti alle famiglie e messi a scuola anche al pomeriggio, portati a visitare i musei, i siti archeologici». 

Quando scrive «oggi restano inevase due domande fondamentali: come vivere e perché vivere?», lei che risposte si dà?

«Vivo per lasciare una traccia che migliori il mio Paese. Mia madre mi ha sempre spronato a fare grandi cose. Per quanta fatica costi la politica, oggi sono un uomo molto più felice di quando guadagnavo un milione di euro lavorando meno. Lo sono perché ho trovato il mio posto».

Come e quando decise di abbandonare lo stipendio?

«Nel 2012, lavoravo a Napoli, andavo in barca a mangiare a Nerano. Lasciai quando fu creata Italia Futura e poi mi candidai con Scelta Civica. Ho fatto cinque anni da ministro senza essere parlamentare e ho speso tutti i risparmi, ma mia moglie Violante me lo dice sempre: sei più felice adesso. È una decisione che non ho rimpianto e neanche lei». 

A San Valentino, su Instagram, sotto una foto con lei, ha scritto: «Nella mia vita, c’è un solo pilastro».

«Ci siamo conosciuti a un ballo di 18 anni e innamorati in una settimana. Avevo una figlia, non era facile. Violante è quadratissima e, soprattutto, non gliene frega di quello che faccio: se fossi presidente della Repubblica, non le importerebbe. Se “sfigheggio”, come si dice a Roma, tipo dico “hai visto quanto sono bravo”, dice: vai a comprare il pane. Ha su di me un effetto di sanità mentale. Per un politico, l’egotismo è una malattia professionale, il rischio è sentirsi attori». 

Da figlio e nipote di registi, di Cristina e Luigi Comencini, attore rischiava di diventarlo.

«Recitai nello sceneggiato Cuore a dieci anni, ero un attore pessimo. Mi piacque il set solo perché passai con nonno tanti mesi ed ero totalmente innamorato di Giuliana De Sio, la maestrina dalla penna rossa». 

Tornando a sua moglie: nel 2017, ha avuto leucemia e tumore al seno e, dopo, al Corriere, ha confessato che i primi due giorni non voleva accettare l’idea. Lei, invece, come reagì?

«Mi concentrai sull’organizzazione militare della crisi. Ero ministro, per cui i bambini venivano a studiare al ministero e tutte le sere andavo da lei in ospedale. Era come se avessi rimosso il rischio che le potesse accadere il peggio. Tant’è che il medico mi chiese: ma ha capito che rischia la vita? Risposi “sì, ma posso solo organizzarmi mentre voi la curate”. 

Dopo, quando Violante è stata bene, ho realizzato che la ferita era invece profonda. Poi, lei ha avuto una ricaduta, un trapianto di midollo. Ma, se la vede adesso, è più bella di prima. E ora è amministratore delegato della Komen, una Onlus per la prevenzione del tumore al seno: ha girato quello che le è accaduto di male in bene. Ha anche lei trovato il senso della vita».

Lei come pensa di cambiare un Paese con un partito al 5 per cento?

«Facendolo arrivare al 20, come ha fatto la destra, andando in giro per l’Italia e facendo capire che non sono una moneta falsa. Io non credo che le persone non vogliano migliorarsi o vogliano che i loro figli stiano dieci ore sui videogiochi, invece di avere cultura e prospettive».

·        Elly Schlein.

Il Bestiario, la Gattoparda. La Gattoparda è un leggendario animale che vuole dare una svolta a sinistra al Pd senza rinunciare al pullover di cachemire. Giovanni Zola l’8 Dicembre 2022 su Il Giornale.

La Gattoparda è un leggendario animale che vuole dare una svolta a sinistra al Pd senza rinunciare al pullover di cachemire.

La Gattoparda è un mitico essere creato in laboratorio e programmato per essere una predestinata della politica italiana di sinistra, tanto da presentarsi come candidata per diventare “La Segretaria” del Pd. Di fatto i meriti per ricoprire un ruolo così importante sono un mistero, un po’ come un mistero è stata la scelta di Mattia Binotto alla guida della Ferrari, ma con la differenza che, se non altro, Mattia faceva cambiare le gomme in 2,2 secondi.

D’altra parte nessuno si è permesso di fermare la volontà della Gattoparda di candidarsi come “La Segretaria” del Pd, in quanto, se solo avesse voluto, avrebbe potuto comprare il Pd insieme a tutto Largo del Nazareno solo grazie alla paghetta settimanale del padre miliardario. Ma si sa, da diversi anni ormai più si è ricchi e più si è di sinistra, probabilmente per cercare di levarsi di dosso il senso di colpa che nasce dall’andare in vacanza alla casa ai Caraibi il ponte dal 25 aprile al primo maggio.

La Gattoparda sembra voler proporre un vento nuovo di ricostruzione del Pd proponendo pochi ma innovativi concetti chiave. Mentre infatti i suoi predecessori hanno insistito su principi, per quanto sacrosanti, come lavoro, diritti, giustizia sociale e ambiente, lei invece, in una sorta di rivoluzione copernicana, insiste su concetti come lavoro, diritti, giustizia sociale e ambiente.

Ma la vera novità su cui la Gattoparda insiste per conquistare il ruolo de “La Segretaria” del Pd, è una decisa svolta a sinistra, facendo attenzione a non esagerare, in quanto se si svolta quattro volte a sinistra si torna sempre al punto di partenza. La Gattoparda quindi auspica una mobilitazione collettiva, dai volontari delle feste dell’Unità che le hanno insegnato a friggere le salamelle e a limonare durante il concerto degli Inti Illimani, ai presidenti delle cooperative che tanto hanno preso e nulla hanno dato, fino agli amministratori delle grandi città che tanti sacrifici hanno fatto per limitare il traffico a favore dei milionari del centro storico.

Insomma per la Gattoparda è arrivato il momento di ricostruire una nuova comunità senza più rinunciare a tre punti fondamentali: un’identità chiara, proprio come lei che si dichiara bisex, comprensibile, proprio come lei che ha tre cittadinanze, e coerente, proprio come lei che è di sinistra ma un patrimonio che supera il PIL del Luxemburgo.

AGI il 2 dicembre 2022. Ignoti hanno incendiato nella notte ad Atene un'automobile della consigliera Susanna Schlein, n.2 dell'ambasciata italiana in Grecia. L'auto è andata completamente distrutta dopo un'esplosione. Lo riferisce in una nota la Farnesina, che "condanna con la massima fermezza il grave atto criminoso a danno del primo consigliere della sua famiglia".

Svegliata da alcuni botti in rapida successione, prosegue la nota, la consigliera Schlein si è subito accorta del tentativo di appiccare il fuoco a una seconda auto di sua proprietà, nei pressi della quale è stata rinvenuta una bottiglia molotov con la miccia semi-consumata. La polizia greca sta effettuando i necessari rilievi scientifici ed investigativi. La Farnesina esprime vicinanza e massima solidarietà alla consigliera Schlein e alla sua famiglia.

Tajani visiterà l'ambasciata

 "Attentato contro il Primo Consigliere dell'Ambasciata d'Italia in Grecia. Ho telefonato a Susanna Schlein per esprimerle la mia solidarietà. Oggi sarò ad Atene per incontrare il primo ministro Mitsotakis. Visiterò l'ambasciata d'Italia", scrive su Twitter il ministro degli Esteri, Antonio Tajani.

Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 2 dicembre 2022.

Potrebbe essere collegato alle proteste per la detenzione di Alfredo Cospito, l’anarchico di 57 anni condannato all’ergastolo e sottoposto al regime di 41 bis, l’attentato contro il primo consigliere dell’Ambasciata d’Italia in Grecia Susanna Schlein, sorella della possibile candidata alla guida del Pd Elly Schlein, ad Atene.

È la convinzione di chi sta indagando sull’incendio che ha distrutto l’auto della diplomatica ma che poteva avere conseguenze più gravi. Secondo i primi accertamenti svolti ad Atene e riferiti in queste ore ai vertici di Farnesina e Viminale c’era una seconda molotov vicino a un’auto che si trovava sotto la finestra della camera da letto di Schlein e all’impianto del gas. «Se fosse esplosa poteva provocare vittime», è la convinzione degli investigatori.

«La mia famiglia è ancora molto scossa per il terribile rischio che abbiamo corso questa notte. È stato del tutto inaspettato. Ora dobbiamo guardare avanti e non avere paura, affidandoci all’azione della magistratura italiana e greca per identificare i responsabili», ha commentato la stessa Schlein che vive ad Atena con il marito e i due figli.

Cospito è stato condannato per l’attentato di dieci anni fa contro Roberto Adinolfi, l’amministratore delegato di Ansaldo Nucleare che fu gambizzato, e di aver messo due pacchi bomba nel 2006 nella Scuola per allievi carabinieri di Fossano, in provincia di Cuneo.

Lo scorso aprile è stato deciso il regime di 41 bis dopo il sequestro di alcune lettere con esponenti anarchici Cospito ha cominciato lo sciopero della fame e nei prossimi giorni è prevista una decisione sui giudici per il suo ricorso. Nell’attesa in molti Paesi, sono cominciate mobilitazioni e proteste. Gli investigatori ellenici ritengono che l’azione nei confronti di Schlein possa essere maturato proprio tra i gruppi più estremisti.

La diplomatica: Primo Consigliere dell'Ambasciata italiana in Grecia. Chi è Susanna Schlein, la sorella della dem Elly obiettivo di un attentato: "Pista anarchica". Redazione su Il Riformista il 2 Dicembre 2022

L’auto di Susanna Schlein era parcheggiata nei pressi di un condominio, ad Atene. È stata incendiata, appiccato il fuoco la scorsa notte e la vettura è andata completamente distrutta. La ricostruzione dell’Ansa riporta le prime notizie sulle indagini della polizia greca sul rogo doloso e la nota della Presidente del Consiglio italiana Giorgia Meloni, che cita l’ipotesi di una pista anarchica dietro quello che il ministro degli Esteri Antonio Tajani non ha esitato a definito "attentato". Susanna Schlein è Primo Consigliere dell’Ambasciata italiana della capitale italiana in Grecia e sorella di Elly Schlein, deputata ed esponente del Partito Democratico, vice presidente dell’Emilia Romagna, probabile candidata alla segreteria dem.

L’incendio stava per causare danni anche a un’altra auto della diplomatica, che si è svegliata nel cuore della notte, per via di alcuni botti in rapida successione e si sarebbe accorta del tentativo di appiccare il fuoco anche alla seconda vettura. Le autorità hanno infatti rinvenuto nelle vicinanze dell’azione una bomba molotov con una miccia mezza esaurita. Sul posto sono intervenuti vigili del fuoco. La Farnesina ha condannato con massima fermezza l’atto criminoso ed espresso la sua vicinanza e solidarietà alla diplomatica.

"Esprimo la vicinanza mia personale e del Governo italiano al Primo Consigliere dell’Ambasciata d’Italia ad Atene, Susanna Schlein, e la profonda preoccupazione per l’attentato che l’ha colpita – ha scritto in una nota la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni in una nota – , di probabile matrice anarchica. Seguo la vicenda con la massima attenzione, anche tramite il Ministro degli Esteri Antonio Tajani, oggi in visita ad Atene".

Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha annunciato infatti in un post sui social network che oggi si recherà ad Atene: "Attentato contro il Primo Consigliere dell’Ambasciata d’Italia in Grecia. Ho telefonato a Susanna Schlein per esprimerle la mia solidarietà. Oggi sarò ad Atene per incontrare il Primo Ministro Kmitsotakis. Visiterò l’Ambasciata d’Italia", si legge su Twitter. Susanna Sylvia Schlein ricopre un incarico che costituisce il terzo grado della carriera diplomatica italiana. Ad Atene Schlein è la seconda persona in carica dopo l’ambasciatrice Patrizia Falcinelli.

Elly Schlein qualche giorno fa ha annunciato di aver aderito al percorso costituente del Pd. Potrebbe sciogliere la riserva nei prossimi giorni per la candidatura ai vertici del Partito. 37 anni, nata a Lugano, figlia di un politologo statunitense e di una docente italiana. Si è dichiarata apertamente bisessuale. È stata eurodeputata nelle liste del Partito Democratico prima di passare a Possibile fino al giugno 2019. È vicepresidente della Regione Emilia Romagna. Si è candidata indipendente nelle liste della coalizione di centrosinistra ed è stata eletta alle elezioni politiche dello scorso 25 settembre. Il Guardian l’ha definita "stella nascente dell’alleanza della sinistra italiana" e l’ha paragonata alla parlamentare statunitense Alexandria Ocasio Cortez, considerata il volto della nuova sinistra.

Chi è Elly Schlein, l’anti-Meloni “astro nascente della sinistra italiana”: da Occupy Pd alla candidatura alle primarie. Redazione su Il Riformista il 5 Dicembre 2022

Ci aveva pensato il Guardian a incoronarla a distanza, qualche mese fa, a ridosso delle elezioni politiche, “astro nascente della politica italiana”. Elly Schlein: da Occupy Pd alla candidatura alla segreteria del Partito Democratico, da “Coraggiosa” alla Bella Ciao intonata dai presenti all’evento di ieri al Monk a Roma. Dopo settimane di voci è arrivata infatti la candidatura ufficiale alla segreteria dem nelle primarie che si terranno nei primi mesi del 2023, presumibilmente a marzo. Schlein da sabato è sotto protezione, dopo l’attacco alla sorella diplomatica, Susanna Schlein, ad Atene. Vuole riportare il partito a sinistra, parla di rinnovamento, di progressività fiscale, del diritto alla casa, della scuola pubblica.

“Siamo qua non per fare una nuova corrente, siamo un’onda non una corrente nuova. Non ci saranno mai gli schleiniani”, ha detto ieri durante l’incontro “Parte da noi” la candidata un po’ Alexandria Ocasio Cortez, un po’ Greta Thunberg, un po’ sinistra giovanile un po’ sinistra in cerca di facce nuove e che nel Pd forse neanche si riconosce. Il congresso è cominciato da poche settimane, a fine febbraio gli iscritti si esprimeranno sui candidati alla segreteria. I due candidati più votati saranno sottoposti al voto degli elettori del partito alle primarie. Il duello annunciato, al momento, sembra quello tra Schlein e Stefano Bonaccini: un derby considerando che fino a qualche settimana fa Schlein era vice del governatore dell’Emilia Romagna. La terza candidata è l’ex ministra Paola De Micheli.

La storia di Elly Schlein

Schlein, per via dei suoi trascorsi dentro e fuori il Pd, a intermittenza vicina e lontana, è un po’ outsider e un po’ giovane promessa. È nata in Svizzera, nel 1985, da madre italiana e padre americano. Lui politologo, lei docente. Il nonno, Agostino Viviani, era un noto avvocato senese antifascista, senatore del Partito Socialista. Il nonno paterno, Harry Schlein, era emigrato negli Stati Uniti da una famiglia di origine ebraica da Leopoli per sfuggire alle persecuzioni. Ha due fratelli, un maschio e una femmina. Quest’ultima, Susanna, Primo Consigliere d’Ambasciata ad Atene nei giorni scorsi vittima di un attentato per il quale la sorella è stata messa sotto protezione.

 Bologna si è laureata in Giurisprudenza, dopo essere arrivata in Italia a 19 anni, con una tesi sulle persone straniere detenute nelle carceri italiane. La carriera politica cominciò in università, con le due elezioni al Consiglio di Facoltà come rappresentante degli studenti. Da giovane è stata volontaria nella campagna elettorale di Barack Obama, un’esperienza che raccontò in un blog. Al 2013 risale l’iniziativa OccupyPd: una protesta contro i 101 franchi tiratori che affossarono l’elezione di Romano Prodi a Presidente della Repubblica. Quella piattaforma, contraria a ogni accordo per un governo di “larghe intese” con il centrodestra, avanzò anche 102 proposte per cambiare il centrosinistra. Schlein ne fu il volto più riconoscibile.

L’anno dopo fu candidata ed eletta nelle liste del Pd alle Europee dopo essere entrata nella direzione nazionale. Una sorpresa quelle 53mila preferenze che le valsero a 29 anni l’elezione. A Bruxelles si è occupata soprattutto di immigrazione: è stata per due anni relatrice dei Socialisti Europei alla riforma del regolamento di Dublino. Dal partito però uscì in aperto contrasto con il segretario dell’epoca Matteo Renzi – “Se la Schlein va alla segreteria mezzo Pd viene da noi, è un dato di fatto. Se Pd e 5 stelle si mettono d’accordo chi ha l’animo riformista non può stare con Conte e Casalino”, aveva pronosticato a inizio ottobre l’ex premier e leader di Italia Viva. L’eurodeputata entrò in Possibile con Pippo Civati, dal quale pure si allontanò dopo qualche tempo. Provò a mettere insieme una lista unitaria di sinistra per le elezioni europee del 2019, un tentativo che si arenò.

Si candidò invece alle Regionali del 2020 con la piattaforma ecologista-progressista “Coraggiosa” a sostegno della ri-candidatura del Presidente Bonaccini. A San Giovanni in Persiceto aspettò e interrogò il segretario della Lega Matteo Salvini con un gruppo di attivisti sulle politiche migratorie dell’Unione Europea e su altri temi. “Finalmente, dopo anni che faccio la stessa domanda a Salvini senza risposte, ieri sera gliel’ho fatta in faccia. Perché a Bruxelles non siete mai venuti alle 22 riunioni di negoziato sulla riforma migratoria più importante per l’Italia?“, scriveva nel post del video che divenne virale sui social. Schlein risultò primatista di preferenze, con 22mila vori personali raccolti tra tre collegi. A Bologna prese più voti del solo Pd e venne nominata vice presidente con delega al Welfare e Politiche per il clima. Bonaccini fu confermato governatore. 

Alle ultime elezioni politiche del 25 settembre 2022 si è candidata come capolista, da indipendente, nelle liste Pd pur non essendo iscritta al Pd, in un collegio plurinominale in Emilia Romagna ottenendo un seggio alla Camera. Dopo l’elezione si è dimessa da vice presidente dell’Emilia Romagna. Fa parte della commissione Affari Costituzionali. Al Partito Democratico si dovrà iscrivere appositamente per correre alle primarie.

Schlein è una convinta europeista, apprezzata da chi a sinistra appoggia posizioni progressiste, le lotte sull’accoglienza dei migranti, le battaglie civili come la parità di genere, i diritti delle minoranze, contro le discriminazioni verso la comunità LGBTQIA+. Durante una puntata della trasmissione di Daria Bignardi, L’Assedio, fece lei stessa outing. Nel suo discorso di ieri ha parlato di diritti, lavoro, giustizia sociale e ambientale. Ha difeso il reddito di cittadinanza, attaccato le trivellazioni, i condoni e il consumo di suolo. “Se lo facciamo insieme io ci sono, non mi tiro indietro, costruiamo insieme questa candidatura per dimostrare che io posso diventare la segretaria del nuovo Pd. Insieme a voi voglio diventare la segretaria del nuovo Pd”.

“C’è una bella differenza tra il dirsi femminili e femministe, se decidi di non difendere i diritti delle donne, a partire da quelli sul proprio corpo”, aveva detto dal palco dell’evento di chiusura di campagna elettorale da Milano lo scorso settembre. “Sì, sono una donna, amo un’altra donna e non sono una madre. Ma non per questo sono meno donna”, aveva aggiunto ribaltando il tormentone della Presidente del Consiglio Giorgia Meloni. 

La sfida tra Schlein e Bonaccini. Se Elly Schlein punta alla segreteria del PD studi prima la storia del PCI…Michele Prospero su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

La vulgata giornalistica vuole che con Elly Schlein, da quasi dieci anni accasata nelle istituzioni anche grazie all’onda lunga della “rottamazione”, il Pd viri finalmente a sinistra e ritrovi di colpo l’intransigenza e le radici da troppo tempo smarrite per colpa del virus contagioso del governismo. E che con Bonaccini, invece, l’ancoraggio risieda tutto nelle pieghe del moderatismo quale tratto di un riformismo di destra (del partito) che nelle grigie amministrazioni locali ha trovato terreno fertile.

Secondo questa ricostruzione, il suo campo d’azione sarebbe in una zona ambigua, dove ad attenderlo troverebbe per giunta lo spettro inquietante di un Renzi redivivo, barcamenantesi dietro le quinte nel ruolo di gongolante regista occulto. Tuttavia, per cogliere le differenze tra i due principali candidati alla segreteria del Nazareno, risulterebbe utile accantonare il “renzometro”, adoperato pigramente sui media per misurare la loro passata distanza o vicinanza dal capo fiorentino. Meglio sarebbe affidare alla storia la ricostruzione dell’età renziana. E muovere, per attingere un’essenziale diversità identitaria tra gli sfidanti, dalla risposta da loro fornita alla stessa domanda dei giornalisti.

Interpellata da Lilli Gruber circa il suo rapporto con la cultura politica comunista, che è una delle due correnti ideali fondative del Pd, Schlein ha balbettato che preferiva non rispondere, essendo nata solo nel 1985. Lei che è venuta al mondo dopo Locke, Constant, Tocqueville non potrebbe dare un giudizio valutativo neppure sul liberalismo. E una stizzita astensione, nel classificare le cose e i movimenti politici, dovrebbe dichiararla anche sulle correnti democratiche o autoritarie sorte prima del fatidico 1985, quando matura il tempo del giudizio. La storia e le culture, però, non iniziano con la propria data di nascita. Non ci sarebbe altrimenti motivo, considerata la rassicurante anagrafe del primo sospiro emesso da Giorgia Meloni, di interrogarsi sulle ricadute del fascismo e cantare in un locale romano, per stigmatizzarle, “Bella ciao”.

Culturalmente più onesto, perché per nulla reticente, si rivela il discorso di Bonaccini. Il quotidiano Italia Oggi gli chiede: “La sua prima tessera è stata quella del Pci. Imbarazzato?”. Avrebbe potuto cavarsela frugando nel repertorio zeppo di amnesie inventato da Veltroni, e invece così risponde: “Sono orgoglioso delle mie origini politiche nel Pci. E’ stata una grande storia. Il Pci è stato un punto di forza della stabilità del nostro sistema politico. Ma ha dato anche una spinta notevole all’alfabetizzazione di tanta gente e difeso le fasce più deboli della popolazione, emancipandole. Ha contribuito alla stesura di una Costituzione che è stata un modello per molti paesi, ha tenuto alto il valore dell’antifascismo”. Non si potrebbe formulare meglio il senso attuale dell’orgoglio comunista, rivendicato da Bonaccini per via degli effetti rilevanti dell’azione del vecchio partito nel consolidamento democratico e civile del Paese. Che Schlein, munita di “zaino e taccuino”, consideri invece una storia ormai morta quel laboratorio di pensiero e di analisi, che legami profondi presenta con i Quaderni di Gramsci, conferma i guasti del nuovismo, il quale alla fatica della riflessione preferisce il gesto, la trovata della comunicazione, che spesso si rivela, per struttura, un chiacchiericcio senza memoria.

C’è del vero nel rilievo secondo cui ad entrambi i candidati manchi ancora una marcata visibilità nel dibattito politico nazionale. Per colmare la lacuna, Bonaccini dovrebbe lavorare anche per ampliare il ventaglio del suo sostegno oltre le soglie del buon governo dei territori. Un dialogo con la sinistra di Orlando e Cuperlo lo aiuterebbe molto nell’arricchimento della proposta politica. Gioverebbe, oltre che alla rassicurazione sulla tenuta organizzativa del partito dopo il congresso, anche al consolidamento della coalizione al suo seguito, che, altrimenti, rischia di pagare il prezzo dell’essere troppo schiacciata, nella geografia interna, attorno all’area di Base Riformista. Le istanze monotematiche (nuovi diritti civili e libertà individuali, giustizia climatica) che Schlein avanza sono una componente essenziale dell’agenda programmatica di tutte le formazioni della sinistra occidentale. Altra cosa, però, è l’effettiva possibilità di tramutare un’importante sensibilità settoriale (ambiente, tematiche di genere) nella cultura politica necessariamente sfaccettata chiamata a dirigere un organismo complesso come un partito.

Già rasenta il paradosso il fatto che una non ancora iscritta al Pd si candidi direttamente alla guida della segreteria. Senza aver avuto un qualche ruolo negli organismi dirigenti, senza aver ricevuto un mandato collettivo dai componenti dell’organizzazione, è possibile che il vento forte dei media accompagni una outsider alla conquista dei galloni della leadership interna. In questo senso, Schlein, osannata dai numerosi media che si mostrano amici come la risoluzione alla malattia mortale del Nazareno, in realtà appare come una manifestazione della decadenza di un partito. Non esiste forza politica in occidente che non sprigioni un visibile senso della partizione. Non si riscontra alcun soggetto rilevante che non avverta la necessità di presidiare la propria autonomia organizzativa dalle interferenze ambientali. E non è data notizia di partiti che non affidino esclusivamente all’apprendimento intra-organizzativo la valutazione dei canali dell’ascesa e della caduta della leadership.

Tra gli osservatori, ci si esercita già nel prevedere l’effetto dissolvente che una vittoria mutilata di uno qualsiasi dei due rivali avrebbe sulla tenuta del Pd. È evidente che una copertura a sinistra servirebbe molto a Bonaccini per conferire un’indispensabile garanzia di gestione unitaria alla sua segreteria. Non è vero che il suo trionfo – a cui dovrebbero nell’immediato seguire le dimissioni da presidente della regione, perché non è ammissibile che il leader dell’opposizione non sia presente in Aula – sarebbe accolto da grida di giubilo nel terzo polo. E’ lampante che, con l’autonomismo del politico emiliano, proprio Calenda vedrebbe ridimensionati sensibilmente gli spazi per un’espansione elettorale e sarebbe costretto a reimpostare le forme della competizione.

Con il successo congressuale di Schlein, e quindi con i paventati rischi dell’indebolimento drastico della matrice ideale-programmatica di un partito di governo, si aprirebbero, invece, dei sentieri vasti per tentare la rinascita egemonica del centro della “serietà”, che al momento si segnala in affanno. Anche Conte (e l’appoggio del Fatto quotidiano sembrerebbe confermarlo) non avrebbe molto da temere dall’eventuale concorrenza dei temi civili e ambientali di Schlein. Potrebbe confidare, al contrario, che dalla possibile fuga verso il terzo polo della residua sinistra di governo esca fuori un Pd così rimpicciolito e smarrito nelle certezze da diventare un agevole spazio di occupazione. Michele Prospero

Elly Schlein e il comunismo, le sue parole a Otto e mezzo. Daniele Dell'Orco su Libero Quotidiano il 05 dicembre 2022

Secondo Lilli Gruber la «stampa di riferimento della destra italiana» scriverebbe cose «tremende» su Elly Schlein, candidata come prossima segretaria del Partito Democratico. Schlein ha dato appuntamento ai suoi sostenitori al centro culturale Monk di Roma per annunciare ufficialmente la propria candidatura alla segreteria del partito, anche perché il suo nome è uno di quelli emersi più di frequente nel dibattito su chi avrebbe preso il posto di Enrico Letta. 

BENALTRISMO

A Otto e Mezzo su La7, imbeccata non solo dalla Gruber ma anche da Massimo Giannini de La Stampa e Lina Palmerini del Sole che sembravano quasi volerle "aprire" la strada verso la segreteria di un partito ucciso dal correntismo, dal politichese, dal moralismo straccione e dalla totale mancanza di idee, Schlein ha mostrato i tipici caratteri di ciò che ha contribuito ad affossare il Partito democratico: una marea di benaltrismo, di non detto, di approccio "peace and love" di facciata che poi finisce per diventare regolamento di conti nei salotti del potere. Schlein a Roma presenta un «percorso collettivo» (cosa sarebbe? Una comune come quelle che dirigono le scuole occupate?) ma evita con tutte le forze di ammettere di voler prendere in mano le redini del Pd che, con una svolta radicale come quella che incarnerebbe la già vice governatrice dell'Emilia Romagna insieme al suo rivale per la segreteria Stefano Bonaccini, rischierebbe addirittura la scissione. Il che, visto il numero di elettori rimasto, significherebbe sparire. Ieri, peraltro, è stato l'ultimo giorno di "normalità" per la Schlein, già posta dalla Prefettura di Bologna in via precauzionale in uno stato di "vigilanza radiocollegata con passaggi frequenti e numerose soste". 

Una "scorta soft", in attesa che domani un Comitato per l'ordine e la sicurezza possa approfondire la questione della sua protezione e valutare i provvedimenti. Poche ore prima dell'ospitata in tv, infatti, ad Atene è stata incendiata l'auto di Susanna, sorella di Elly, primo consigliere dell'ambasciata italiana di Atene. Vicino all'auto di Susanna Schlein è stata trovata una bomba molotov inesplosa e questo fa pensare alle persone che stanno indagando sull'accaduto che l'attacco fosse mirato contro il consigliere in particolare. Sul caso stanno indagando la polizia greca e la procura di Roma. Elly Schein ha detto a Gruber che è stata proprio sua sorella a darle la forza di continuare il proprio lavoro, proprio come sta facendo anche lei ad Atene: «Mia sorella è tornata subito a lavoro, l'ho voluto fare anche io». «Non dobbiamo avere paura», ha detto Susanna Schlein a sua sorella. 

L'ANTI MELONI

La Gruber la definisce «l'anti Meloni». Un bel complimento, anche per via di questo parallelismo familiare visto lo straordinario legame tra Giorgia Meloni e sua sorella Arianna, ma visti i risultati raggiunti dal premier è fin troppo generoso. Un altro epiteto che sa di "auspicio" più che di verità. Sebbene sia stata posta palesemente di fronte ad una platea di giornalisti "tifosi", Schlein è riuscita a cadere nel vittimismo più volte, come quando ha rimproverato i presenti di voler fare certe domande solo a lei e non ai colleghi uomini sull'annosa questione degli equilibri di potere tra i capibastione del Pd (di cui non ha nemmeno la tessera), quando in realtà è un tema dibattuto da vent' anni. O come quando, appunto, fomentata dalla Gruber contro la "stampa di destra" ha sostenuto che chi la definisce «comunista, anticapitalista, ecologista, privilegiata, ebrea ma antisraeliana» voglia muovere delle accuse false e che «puzzano di sessismo, di antisemitismo e di omobilesbotransfobia».

Epperò, un potenziale segretario di partito dovrebbe iniziare ad abituarsi al fatto che alcune posizioni politiche debbano essere o rivendicate con orgoglio o smentite con franchezza. Pur senza abiurare il comunismo e le sue nefandezze, sostiene di essere una «nativa democratica» poiché «nata nel 1985» e quindi di non aver avuto tempo di aderire al comunismo. La Meloni invece, che è nata 32 anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale, le associazioni col fascismo se le deve beccare ancora. Per doppia morale, mania di persecuzione e capacità di schivare gli argomenti, Schlein al Nazareno potrebbe arrivarci col tappeto posto davanti. Rosso.

Pd, l'ora di Schlein. Dietro di lei la Ditta e Franceschini re dei tradimenti. Pasquale Napolitano il 5 Dicembre 2022 su Il Giornale.

Elly Schlein vuole scrivere una «storia nuova» nella sinistra italiana. Ma si affida alla «vecchia ditta».

La parlamentare, con tripla cittadinanza (italiana, svizzera e statunitense), lancia la scalata al Pd. Partito al quale non è ancora iscritta. E infatti il primo atto di Elly Schlein sarà la sottoscrizione della tessera dei democratici. Al Monk di Roma, l'ex vicepresidente dell'Emila Romagna, annuncia la discesa in campo: «Se lo facciamo insieme io ci sono, non mi tiro indietro, costruiamo insieme questa candidatura per dimostrare che io posso diventare la segretaria del nuovo Pd. Insieme a voi voglio diventare la segretaria del nuovo Pd», annuncia la deputata dem accompagnata dalle note di Bella Ciao.

Al suo fianco tutta la nomenclatura della sinistra italiana: Letta, Orlando, Franceschini, Zingaretti, Boldrini. Tra i volti nuovi spicca la sardina Mattia Santori, costretto ad accodarsi dopo una fulminante (e non felice) carriera da leader. Le primarie si svolgeranno il 19 febbraio 2023. Al momento gli unici due sfidanti di Elly saranno e il governatore dell'Emilia-Romagna Stefano Bonaccini e l'ex ministra delle Infrastrutture Paola De Micheli. L'orizzonte della sfida di Schlein è la rottamazione del Pd e la costruzione di una cosa rossa nella quale far riconfluire D'Alema e Bersani. Schlein diventa la zattera per la vecchia ditta. È quasi uno scherzo del destino, per lei arrivata in politica grazie alla rottamazione renziana.

Tra gli sponsor della marcia verso la guida del Pd di Elly c'è, quasi a sorpresa, l'intramontabile Dario Franceschini. L'uomo dei mille tradimenti, pronto a cambiare leader ad ogni congresso. Pare che a favorire il matrimonio tra Schlein e Franceschini sia stata Michela De Biase, moglie dell'ex ministro. Però Franceschini è bravo a fiutare l'aria della vittoria e tuffarsi sempre sul cavallo vincente.

Stavolta la vittima del tradimento è Andrea Orlando che aveva sperato fino all'ultimo in un asse con Franceschini. Un copione già visto. Da lettiano e bersaniano, l'ex ministro della Cultura passò in un nano secondo sul carro di Matteo Renzi nel 2013. E poi ancora una doppia mossa: appoggiò la nascita del governo Gentiloni nel dicembre del 2016, dopo le dimissioni di Renzi, per poi riappacificarsi con l'ex sindaco di Firenze al congresso del 2017. Un esperto di posizionamenti. Anche dopo la caduta di Renzi alle politiche del 2018, Franceschini fu scaltro a riciclarsi nell'era zingarettiana. Franceschini punta sul carro di Elly. Mandando all'aria l'accordo con Orlando. Il tradimento è servito.

Cosa farà adesso Orlando? L'ex ministro della Giustizia dovrebbe appoggiare la Schlein. Una parte della sua corrente, con Peppe Provenzano in testa, è già al fianco della parlamentare emiliana. Lui aspetta e non decide: «Se Bonaccini rappresenta il vecchio ed Elly Schlein il nuovo si vedrà nello sviluppo del lavoro del comitato costituente ma a sorpresa le istanze di novità e di cambiamento arriveranno dal mondo cattolico, dal mondo ambientalista» - commenta Orlando ospite del Caffè della domenica di Maria Latella a Radio 24.

In attesa di Orlando, la marcia di Schlein inizia. Non si torna indietro: «Parte da noi una storia nuova che possa costruire l'alternativa che merita questo Paese. Il governo Meloni ha già dimostrato il suo volto». E subito marca la differenza con il suo sfidante Stefano Bonaccini sull'autonomia differenziata: «Il disegno di Calderoli di autonomia differenziata va rigettato con forza. È un modello che cristallizza le diseguaglianze, che affonda le sue radici nella secessione. Non possono esserci compromessi. Il Paese va ricucito, non diviso ulteriormente».

Il governatore dell'Emilia si era espresso a favore dell'autonomia differenziata. Eccoli i primi colpi dell'eterno e noioso congresso dem.

Francesco Verderami per il “Corriere della Sera” il 9 dicembre 2022. 

Uno nessuno centomila Franceschini. C'è un motivo se l'ex ministro della Cultura ha stilato una lista dei modi in cui viene definito nel Palazzo: «Il manovratore, Andreotti, il gattopardo, Richelieu...». 

L'elenco è lungo. In fondo è ciò che appare agli occhi dei suoi interlocutori, siccome viene costantemente indicato al centro di ogni trama. Anche quando giura di non esserne coinvolto. L'ultimo caso è il sostegno alla candidatura di Schlein per la guida del Pd, sulla quale si narra ci sarebbero le sue impronte. Ne parlavano giorni fa persino due esponenti del centrodestra, che lo conoscono perché come lui sono figli della Dc. 

«Dario non l'ho proprio capito», diceva Rotondi. E Cesa di rimando: «Come fai a non capire. Lui sceglie chi poi vince».

Invece Franceschini ritiene stavolta di non aver fatto un calcolo ma un azzardo, nel senso che considera arrivato il momento di agire nel Pd con uno «strappo, uno sprazzo di novità». Lo ha spiegato ai compagni di corrente: «È cambiato il mondo, è cambiata la politica ed è cambiato il modo di fare politica». 

Ai suoi occhi Bonaccini tranquillizza la macchina del partito, che si sente «rassicurata» perché il governatore è espressione del buon governo emiliano ed è in «piena continuità» con la tradizione Pci-Pds-Ds-Pd. Ma non invertirebbe la tendenza verso un lento quanto inesorabile declino. Al contrario Schlein incarna «una nuova sinistra, puntata sui diritti civili, sull'ambientalismo. È giovane, molto mediatica, più strutturata di quanto sembri».

Cogliendo le perplessità dell'uditorio, Franceschini è stato ancor più diretto: «Chi l'avrebbe detto che Meloni sarebbe diventata premier?

Dobbiamo capire che questa è la stagione della radicalità. Perciò bisogna provarci con Schlein, che è una sveglia».

Anche troppo a sentire alcuni deputati dem. Quando alla Camera si sono votate le mozioni sull'Ucraina, l'hanno vista infrangere la disciplina di gruppo, evitando di votare contro il documento «tardo-pacifista» di Sinistra e Verdi. 

Ma senza dichiararlo. L'escamotage - non apprezzato dai suoi compagni - avrà fatto sorridere Franceschini, artefice di molte manovre parlamentari e convinto che Schlein abbia il profilo idoneo per ricomporre l'area progressista e contrastare l'azione di M5S.

Perché, secondo l'ex ministro, è quello con i grillini il fronte su cui combattere oggi: l'atteggiamento aggressivo di Conte sull'elettorato di opposizione sta erodendo fasce di consenso. E serve un Pd «più innovativo» per contrastarlo. 

Ecco l'analisi che utilizza per ribattere alla tesi di un pezzo del partito, secondo cui «per cinismo e opportunismo» avrebbe puntato su Schlein per sopravvivere alla sconfitta insieme ad altri del sinedrio. 

Tesi che peraltro confligge con la versione opposta, anche questa giunta alle sue orecchie: e cioè che è diventato matto o si è rimbecillito.

Certo, colpisce la scelta di Franceschini, che negli anni del liceo andava in classe con la copia del Popolo, sebbene sapesse che i «compagni» gliela avrebbero bruciata. È passato molto tempo da allora. Oggi l'ex ministro riconosce che il Pd rischia di spegnersi. E per evitarlo indica una linea che attraversa trasversalmente le correnti del partito e le spacca. 

L'altro ieri la sinistra interna si è riunita e si è divisa in tre: Zingaretti e Orlando per Schlein; Gualtieri per Bonaccini; mentre Bettini pensa ancora a Ricci o Amendola. Allo stesso modo nel gruppo lettiano, Meloni è per il governatore emiliano e Boccia per la sua attuale vice in regione. La verità è che tutte le aree sono destinate a scomporsi. In futuro saranno una o centomila, si vedrà. Di sicuro per Franceschini questa è l'«ora della radicalità». E del «primum vivere».

Siamo alle solite. Schlein occupa lo spazio vitale della Ditta, seguiranno guai. Mario Lavia su L’Inkiesta il 9 Dicembre 2022.

Andrea Orlando, Gianni Cuperlo o chi per loro potrebbero scendere in campo per estromettere la giovane candidata dalle primarie, per poi arrendersi a una sconfitta onorevole con Bonaccini

Gli eredi della Ditta soffrono Elly Schlein. Prima di rassegnarsi a sostenerla ci penseranno non una ma dieci volte. Prima bisogna verificare se è possibile scendere in campo direttamente nella speranza di tagliarle la strada. Come? Puntando ad arrivare secondi nella votazione degli iscritti, quella che seleziona i due che poi si sfideranno nelle primarie aperte del 19 febbraio, dando per scontato che nei circoli Partito democratico vincerà Stefano Bonaccini.

Si ristabilirebbe così una competizione più “domestica” tra la sinistra dem e il “centro” del partito, con imprevedibili appoggi e spostamenti di ruolo e con l’estranea Schlein che in questo schema farebbe la parte che ebbe Ignazio Marino nelle lontane primarie del 2009, quando l’illustre chirurgo nelle sezioni finì appunto terzo dopo Pier Luigi Bersani e Dario Franceschini (ai tempi però anche il terzo poteva partecipare alle primarie aperte, ora come detto vanno solo i primi due).

Sarebbe un bel colpo di scena se in campo scendesse Andrea Orlando, che sin qui è parso piuttosto incerto sul da farsi, o Gianni Cuperlo, che parlando con La Stampa non ha escluso di poter correre lui o un altro esponente della Ditta che fu (Peppe Provenzano si è chiamato fuori, ma allora chi?), tenendo conto la sinistra resta malgrado tutte le peripezie una corrente ancora abbastanza strutturata nella base del partito.

La Ditta – dicono i malevoli – deve difendere il suo spazio che è seriamente minacciato da Schlein, i cui contenuti pure non sono lontani da quelli di Orlando o Cuperlo, sebbene agli occhi di questi ultimi (e in generale dei dalemiani-bersaniani) sembrino meno “politici” di come li affrontano loro. Torna qui un’antica diffidenza “di pelle” che gli eredi del Partito comunista nutrono nei confronti di una eterodossa che secondo loro maneggia la politica senza la Politica con la “P” maiuscola, un po’ la versione aggiornata dell’idiosincrasia dei comunisti verso i “gruppettari” di una volta: Elly per loro naviga troppo in superficie, non coglie la complessità, si sarebbe detto un tempo.

Non è un caso se finora da Orlando o da Goffredo Bettini per non parlare direttamente di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema non sia venuto un fiato in favore di Elly Schlein della quale pure condividono la radicalità della critica al “neoliberismo”, qualsiasi cosa voglia dire, cioè all’idea, come ha detto la candidata alla segreteria, che «il modello di sviluppo neoliberista si è dimostrato assolutamente insostenibile per le persone e per il pianeta». Una visione che la filosofa Claudia Mancina ha definito «millenaristica» e che per gli eredi della Ditta non è roba da appaltare a un’estranea ma che al contrario va portata avanti direttamente dalla sinistra dem.

Come sempre, poi, c’è dietro tutto questo anche il fatto piuttosto antipatico che il partito di Bersani e Speranza, Articolo Uno, avrebbe fatto tutto un percorso per rientrare nel Partito democratico vedendo alla fine il proprio spazio naturale occupato da Elly e dai suoi: tanta fatica per niente! Ecco perché i Bersani e i D’Alema stanno pensando a scendere in campo attraverso un loro candidato.

Sia Cuperlo che Orlando hanno già perso in due primarie diverse, nel 2013 il primo e nel 2017 il secondo, entrambi battuti da Matteo Renzi. Il che non esclude che ci riprovino, uno dei due o qualcun altro. Ma devono mettere in conto il rischio di perdere persino tra gli iscritti, superati dalla “estranea” Schlein e dal favorito Bonaccini: che alle primarie se la vedrebbero tra di loro, senza la Ditta.

Elly e la sinistra delle anime belle. Fulvio Abbate su L’Identità il 2 Dicembre 2022

Va Elly Schlein alla conquista del Partito democratico. Sicura di piacere ai ragazzi e alle ragazze che amano, metti, la trasmissione di Zoro, e compiaciuti si sorridono nella convinzione d’essere il sale, di più, la zuppa di farro della terra, magari gli stessi che in Soumahoro scorgevano il nuovo Cristo tra i muratori, tra i migranti. Elly Schlein su Twitter si presenta così: "Parlamentare alla Camera eletta da indipendente nel Gruppo PD-Italia democratica e progressista. Salveremo il mondo con un pollo di gomma con carrucola."Elly Schlein non è dadaista, eppure minaccia molta fantasia, e intanto sorride a sua volta a chi sembra saperla lunga in fatto di anticonformismo, merce perfetta per una borghesia giovanile letterariamente glam. "Elly Schlein domenica si candida alla segreteria del Pd dal palco del Monk. Una candidata indie", subito un commento plaude alla sua decisione.

"Indie" sta per indipendente. Si spera anche dall’entusiasmo amichettistico di chi ritiene che la sinistra debba soprattutto essere galateo per "anime belle", piscinetta ideale, fosforescente come in un quadro di David Hockney: azzurro e splash! Accompagnata ancora dalla voce di una Billie Eilish, cantante a sua volta indie pop. Quanto al "Monk", dove Elly Schlein motiverà l’intento di conquista del Pd, leggiamo, è un locale "volutamente ispirato dal talento onnivoro e rivoluzionario del pianista jazz Thelonious Sphere Monk, nasce a Roma nel quartiere Casalbertone/Portonaccio, a meno di un chilometro da uno dei più importanti punti di snodo della capitale ovvero la Stazione ferroviaria e metropolitana di Tiburtina. E’ uno spazio multiforme e variegato votato alla condivisione, al benessere e alla fruizione funzionale e consapevole dei contenuti culturali, in un continuum di stimoli ed esperienze". Una carta da visita senza prenotazione obbligatoria che, per estensione, sembra restituire gli stessi desiderata politici di Elly Schlein. Un altro utente ancora di lei scrive: "E’ brava, è donna, è di sinistra: la perfetta antagonista della Meloni". Bene, cosa deve fare la sinistra per essere tale? Semplice, assomigliare a un non meno ospitale CAF cui possano rivolgersi i più deboli per avere garantiti i diritti minimi di democrazia, e di cittadinanza. Quali questi ultimi? Sempre più semplice: case, scuole, ospedali, libertà civili, laicità e garanzie di tolleranza, compresa rispetto all’ambito delle pulsioni sessuali. Ci sarebbe poi, pensando all’invecchiamento vertiginoso della popolazione, da ragionare sulle case di riposo, anzi, sugli ospizi. Che siano degni di questo nome, così da non correre il rischio d’essere picchiati e malversati da un personale crudele, così come avviene in un romanzo di Gianni Celati, "Le avventure di Guizzardi". Ho voluto scrivere "ospizi" in omaggio a un lemma, diciamo, ottocentesco, affinchè sia chiaro il rimando al germe del socialismo da cui la sinistra dovrebbe trarre se stessa, sia pure in forma indie. Immaginando il seguito, ipotizzando davvero che Elly Schlein raggiunga la cima del Nazareno, ce la vidi tu dietro la scrivania di triste fòrmica dell’agognato CAF? Avrà parole esatte, proprie, adeguate per rispondere all’umile Italia, per dirla con Pasolini (evocato nel logo di Portonaccio-Casalbertone dove si trova il "Monk"?) di chi attende gli arretrati da una vita o semplicemente il buono-pasto dei già citati diritti di cittadinanza minimi? O sarà molto più semplice immaginarla circonfusa dagli emoticon della bella gente che ha ridotto la sinistra all’ammazzacaffè. Al ginseng, tutto vero, ma pur sempre ben oltre l’amaro. Polli di gomma con carrucola di tutti i paesi unitevi.

Alessandro Sallusti per “Libero quotidiano” il 20 Novembre 2022.  

Elly Schlein, un nome da imparare perché la ragazza ci darà soddisfazione. Deputata, ex vice presidente della regione Emilia Romagna, Elly Schlein, 37 anni, pur non essendo iscritta al partito - e già questa è una anomalia - si è candidata alla segreteria del Pd. Il suo curriculum si adatta perfettamente al caos identitario che regna dentro quel partito.

Tre passaporti, uno italiano, uno americano e uno della Svizzera dove è nata da genitori di nazionalità diversa, padre americano e madre italiana. Padre americano, dicevamo, ed ebreo ma lei è decisamente anti atlanti sta e non nasconde le sue simpatie per i palestinesi, così come nonostante abbia avi ucraini è contraria al sostegno militare a Kiev. Dichiaratamente bisessuale, a Daria Bignardi che la intervistava ha confessato che «ho avuto diverse relazioni in passato: ho amato molti uomini e ho amato molte donne. In questo momento sto con una ragazza e sono felice finché mi sopporta...».

Politicamente ha frequentato da esterna tutte le correnti del Pd, da quella più radicale di Pippo Civati fino a quella più moderata del governatore Stefano Bonaccini al quale ora vuole contendere la futura leadership del partito. Fin qui le note biografiche che in verità sono ben più ricche di colpi di scena. In sintesi: comunista, anticapitalista, ecologista terzomondista, utopista ma anche europeista (ha fatto una legislatura al parlamento europeo nelle fila del Pd, ovviamente da esterna) ma soprattutto ambiziosissima.

Chi, se non lei che vuole essere ed è stata, nonostante la giovane età, ha sperimentato tutto e il contrario di tutto, può mettersi alla guida del Pd? Il suo motto su Twitter è: "Salveremo il mondo con un pollo di gomma con la carrucola in mezzo", personaggio - così mi dicono i ben informati - della serie di videogiochi Monkey Island ambientato in una misteriosa isola dei Caraibi. Ecco, questa è la donna che sta per scalare la sinistra italiana, conta di farlo con un pollo dotato di carrucola. Ma il bello è che con il casino che c'è potrebbe farcela, dalle sue parti del resto i polli certamente non mancano. E allora sì che ci divertiremo tutti.

Dagospia l’11 novembre 2022. PER CONDANNARE IL PD ALL’OPPOSIZIONE ETERNA NON C’E’ NULLA DI MEGLIO DI ELLY SCHLEIN – LA VICEPRESIDENTE DELLA REGIONE EMILIA SCENDE IN CAMPO: "PARTECIPO AL CONGRESSO PD, NON STO A GUARDARE" – FIGLIA DI LUMINARI, BISESSUALE, AMAZZONE LGBTQ, EBREA ASCHENAZITA MA ANTI ISRAELE, LA SINISTRATA CHE SEMBRA USCITA DA UN FILM DI GUADAGNINO E’ SOSTENUTA DA FRANCESCHINI (CHE AUSPICA UN TICKET CON NARDELLA) - LEI SI SCAGLIA CONTRO LE CORRENTI: "ANCORA SI PENSA CHE DIETRO UNA DONNA DEVE ESSERCI SEMPRE UN UOMO CHE LA SPINGE" (IN CHE SENSO?) - COSA FARANNO ORLANDO E BETTINI?

Silvia Bignami per repubblica.it l’11 novembre 2022.

 Elly Schlein fa un passo avanti. Aderisce "con grande piacere" al percorso costituente del Pd, e di fatto si rende disponibile a correre per la segreteria. Non da sola però, ma "con tante e tanti" che vorranno accompagnarla: "Ci sono, ma serve un percorso collettivo". Di sicuro "non resto a guardare - dice - C'è già una nuova classe dirigente che aspetta una opportunità. Forse è proprio questa. Ascolterò le tante reti che ci sono in questa società. Non è oggi il momento di avanzare corse solitarie, ma è il momento di costruire una visione collettiva insieme. Diamoci un appuntamento. Riconciliamoci con i mondi fuori che non si sono sentiti accolti". Una chiamata a incontrarsi, insomma, per partire tutti insieme. 

In una diretta Instagram, la parlamentare, ed ex vicepresidente della Regione Emilia Romagna, spiega: "Finora non ho voluto alimentare un processo troppo schiacciato sui nomi. Ho visto anche il mio nome circolare e ho parlato con tante e tanti di voi di cosa serve per sciogliere i nodi irrisolti e le contraddizioni di questi anni. Io trovo molto significativa l'apertura di un processo costituente e ricostituente del Pd dopo la botta delle elezioni. E' un gesto non scontato. 

Ora - prosegue - non serve solo una frettolosa corsa a cambiare il gruppo dirigente, ma una riflessione larga e aperta su cosa vogliamo diventare. A me interessa aderire a questo percorso per portare un contributo di proposte. Non certo da sola, ma con tante e tanti altri che hanno condiviso queste proposte". 

Schlein precisa anche di voler mettere insieme una rete di movimenti che riconcili il Pd con tutta la società fuori che si è allontanata dai partiti della sinistra: "Teniamoci strette e teniamoci stretti" dice la parlamentare: "Io non ho mai creduto che le traiettorie individuali possano cambiare le cose, sono le traiettorie collettive che contano. Affolliamo questo percorso, dobbiamo essere parte del cambiamento. Qui si apre una occasione nuova. Nove anni fa non ci fu l'apertura e l'intelligenza di fare autocritica, per riconnettersi con i bisogni essenziali delle persone. Se si apre una opportunità di questo tipo che facciamo? Stiamo a guardare? Io credo di no. Dobbiamo rimettere in discussione tutto. L'unico modo per riuscirci è vivere questo cambiamento. Serve una casa comune". 

Tenendosi lontano però dalla cooptazione delle correnti: "Scalziamo quelle dinamiche di cooptazione che abbiamo visto spesso: tra le tante ricostruzioni alcune mi hanno fatto sorridere. In questo Paese ancora si fa fatica a pensare che una donna possa farsi strada senza che ci sia un uomo che la spinge da dietro. Finora ho sempre rifiutato la cooptazione, non le seguirò certo adesso. C'è già una nuova classe dirigente, se le si da una occasione. Forse è proprio questa." E forse si deve partire anche dalle Regionali in Lombardia e Lazio, dove il centrosinistra si presenta di nuovo diviso: "La maggioranza mostra le prime divisioni, ma anche il campo progressista si dimostra diviso. E' irresponsabile proseguire in queste divisioni, anche in vista degli appuntamenti regionali".

Elly Schlein sarà dunque della partita. Una decisione che arriva dopo che a lungo il suo nome è stato tirato in ballo nell'ambito del congresso dem, con le correnti e diversi dirigenti nazionali del partito che, nonostante non vi fosse alcun accordo con Schlein, hanno tentato di riposizionarsi anche sul suo nome. Schlein, che è stata per due anni vicepresidente della Regione Emilia Romagna, potrebbe affrontare nell'assise Pd, se dovesse proseguire nella sua corsa, l'attuale numero uno dell'Emilia Romagna Stefano Bonaccini, pure lui disponibile a correre per la segreteria, con l'appoggio di tanti amministratori e dell'ala riformista del partito. Un derby tra il numero uno dell'Emilia Romagna e la sua ex vice, mentre sempre emiliano romagnola è pure la terza candidata per ora in campo, la piacentina Paola De Micheli, che oggi presenterà la sua candidatura al circolo Pd di Bologna Passepartout.

Si vedrà se davvero questa sarà la gara. Per arrivarci infatti restano ancora aperti molti passaggi, dall'assemblea nazionale (probabilmente il 19 novembre) che dovrà fissare le regole della contesa congressuale,  al voto nelle sezioni, durante il quale verranno selezionate le candidature: solo i primi due classificati nel voto degli iscritti accederanno poi alle primarie aperte, che secondo le regole (modificate da Nicola Zingaretti) si trasformeranno così in un ballottaggio.

La data votata dalla direzione per le primarie, il 12 marzo, è stata approvata come mediazione tra le anime del partito, profondamente spaccato tra chi chiede tempi rapidi e chi invece avrebbe voluto un percorso costituente anche di un anno. Bonaccini insiste però da tempo per accorciare i tempi, supportato anche da un gruppo di oltre 150 amministratori, e da una lettera al Nazareno sottoscritta da una pattuglia di democratiche tra cui l'europarlamentare Elisabetta Gualmini. Letta aveva nella sua "chiamata" alla costituente aperto alla possibilità di accorciare i tempi. Se davvero, come sembra, sarà possibile farlo, toccherà all'assemblea nazionale Pd provarci.

Elly Schlein, "ecco chi c'è dietro di lei": adesso si capisce davvero tutto. Libero Quotidiano il 10 ottobre 2022.

Elly Schlein "è il più perfetto prodotto da laboratorio liberal-radical-progressista e euro-atlantico: gauche al ragù e sociostile bourgeois-bohème", scrive Luigi Mascheroni nel suo articolo su "Gli insopportabili" su Il Giornale. Che ricorda che la Schlein, neo paladina del Pd e aspirante segretaria, è "cittadina americana, svizzera e italiana, figlia di luminari, un passaggio dal Dams così, per sfizio - volontaria nelle due campagne elettorali di Barack Obama, bisessuale, amazzone delle battaglie Lgbtq, una giovinezza trascorsa nella confort zone fra la Ztl e il ddlZan, famiglia dell'establishment ed ebrea aschenazita ma rigorosamente anti Israele - outfit da centro sociale senza mai averci messo piede, e frequentazioni che non si possono definire di ambito proletario. Perfetta per candidarsi a prossimo segretario del Partito democratico", ironizza Mascheroni.

Classe 1985, la Schlein "è bravissima. Ma ancora più brava è l'agenzia di comunicazione politica americana che l'ha presa sotto la sua ala: la Social Changes, famosa per aver curato le campagne digitali di molti candidati dem negli Stati Uniti, a partire da Barack Obama, e che è sbarcata da tempo in Italia con l'obiettivo di 'costruire una sinistra transnazionale in grado di battere la destra'".

Ma attenzione, conclude Mascheroni, i suoi amici sono: "Fabrizio Barca, Alessandro Zan, Gassmann, Sandro Veronesi, il regista Gabriele Muccino, la Boldrini, la Murgia, Concita De Gregorio, Daria Bignardi, la Michielin, Rula Jebreal e la Ferragni". Della serie, "dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei".

Iuri Maria Prado per “Libero quotidiano” il 25 settembre 2022.

Dunque il Pd ricomincia da Elly Schlein, vicepresidente della Regione Emilia Romagna e candidata di spicco della lista-scioglilingua "Partito Democratico - Italia Democratica e Progressista" (potevano scriverlo tre volte, quattro volte, "democratico": vedi mai che tirava su i sondaggi). E se c'era bisogno di una riprova del fatto che il centrocomunista non ha da opporre alla controparte un bel nulla, se non un vacuo identitarismo da cinepanettone democratico, appunto, eccola qui: la via lesbo-arcobaleno al progressismo autunno-inverno 2022.

A impostarla in questo modo sono loro, è lei, che contro le rivendicazioni materno-cristiane dell'avversaria adopera lo slogan da telenovela open minded «Sono una donna, amo una donna», che è insieme superfluo e insufficiente per preferirla all'altra e conduce soltanto alla domanda essenziale: e chi se ne frega? Salvo forse che in qualche poco determinante centro anziani in cui si sospira sul mondo andato a rotoli per colpa dei capelloni e della minigonna, infatti, un elettore che non vota per una candidata perché è omosessuale verosimilmente non esiste, e che non esista è ovviamente una buona cosa.

E allora non si capisce per quale motivo mai il curriculum sessualmente orientato dovrebbe dire qualcosa di apprezzabile sulla presentabilità politica di una persona e non ridursi, piuttosto, a quel che è: vale a dire soltanto un'altra specie di populismo in versione Erasmus, un'etichetta (ma auto-imposta) sul solito pacco di fesserie della solita sinistra che a Dio-Patria-Famiglia oppone Fedez-Greta-Zan, e all'avvento delle destre pericolose la guarentigia democratica del Sabato Progressista. 

Il tutto, ma guarda un po', nel preannuncio della seconda stagione dell'affascinante avventura con i 5Stelle del Professor Graduidamende, quello con cui a sinistra son certi di andare d'accordo dalla A alla Z sugli interscambiabilissimi programmi di grassazione e redistributivi che sono il nerbo trasversale dei garanti dell'Italia statalista e parassitaria. 

Quando dice, a proposito delle donne, «non siamo uteri viventi, siamo persone», Elly Schlein avrebbe perfettamente ragione: avrebbe, perché il guaio è che in controluce la sua alternativa non è una raccomandabile compostezza civile asessuata,mala preminenza morale degli “uteri di sinistra”, una roba di cui,francamente, uno (e si spera anche una) farebbe volentieri a meno. 

Il problema di questi qui resta sempre lo stesso anche con l’innesto di queste qui, e cioè che al possibile difetto liberale altrui oppongono il sicuro, ma moltiplicato, difetto liberale loro, con il reddito da 25 Aprile e il diritto acquisito all’endorsement della stampa coi fiocchi, con il comizio legittimato in coming out e con le aule sorde e maschiliste finalmente aperte al bivacco dei manipoli Lgbtq.

È una sinistra parecchio convenzionale quella che pretende di riformularsi in una specie di laburismo sindacal-ecologista che mette in Costituzione l’obbligo gay friendly e tanta galera democratica per chi fa il saluto sbagliato. Parecchio convenzionale e soprattutto parecchio vecchia, se al posto dei lucertoloni che andavano in pellegrinaggio a Mosca presenta i virgulti che in piega sessualmente corretta ne continuano in purezza la tradizione.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 10 ottobre 2022.  

Elly Schlein è la risposta a una domanda che nessuno ha fatto. E per di più è sbagliata. 

E nemmeno l'argomento in realtà interessa molto. Tema: come sarà la nuova sinistra?

Di sinistra ma non piddina (pro memoria: chiarire se è iscritta o no al Partito democratico), ultra gender oriented, così femminista da essere trans-femminista, così ambientalista da essere ecosocialista, e talmente a vocazione internazionale da percepire Bologna una città che si attraversa a piedi come una metropoli cosmopolita, Elly Schlein è il più perfetto prodotto da laboratorio liberal-radical-progressista e euro-atlantico: gauche al ragù e sociostile bourgeois-bohème. 

È cittadina americana, svizzera e italiana, figlia di luminari, un passaggio dal Dams così, per sfizio - volontaria nelle due campagne elettorali di Barak Obama, bisessuale, amazzone delle battaglie Lgbtq, una giovinezza trascorsa nella confort zone fra la Ztl e il ddlZan, famiglia dell'establishment ed ebrea aschenazita ma rigorosamente anti Israele - outfit da centro sociale senza mai averci messo piede, e frequentazioni che non si possono definire di ambito proletario. Perfetta per candidarsi a prossimo segretario del Partito democratico.

Elly Schlein è il nuovo volto di quella sinistra di lobby e di potere che ha trasformato la battaglia delle idee in pura ideologia e ha scambiato i diritti sociali con quelli civili, inseguendo i secondi e dimenticandosi i primi. 

E comunque, chi ha detto che sembra uscita da un film di Guadagnino è un genio.

Elly Schlein, super star della New left alle tagliatelle, è una di quelle persone di cui non condivi le opinioni, ma i privilegi sì. 

Privilegiata, mojito e arcobaleno, cannabis light e eutanasia, slogan e retorica («Possiamo unire le lotte per la giustizia sociale e ambientale, nel segno dell'intersezionalità, attorno a una visione condivisa: ecologista, progressista e femminista insieme», «Giusto! Sono d'accordo con il compagno busone»), la Schlein è l'upgrade bolognese di Alexandria Ocasio-Cortez, nuove chierichette del pensiero egemone che piacciono a tutti coloro per i quali i partiti democratici non sono mai abbastanza di sinistra. Forza Elly, che portiamo il Pd al 4%! 

Elly ti presento Schlein.

Ma chi è Elena Elly Ethel Schlein? La risposta più stupida ma non del tutto sbagliata sarebbe: la Serracchiani più le Sardine.

In realtà, la storia anzi un'epopea è più complessa. Comincia in Ucraina e finisce a Bologna, passando per New York, la Resistenza e la Svizzera: persino l'Europa non è abbastanza. Vorremmo essere lei. E ha solo 37 anni... 

Elly Schlein nasce a Lugano nel 1985. Il padre è americano, discendente da ebrei originari di Leopoli poi emigrati negli Stati Uniti, professore di Scienze politiche alla Franklin University Switzerland di Lugano. La madre, già preside della facoltà di Giurisprudenza dell'Università degli studi dell'Insubria, è nipote di Agostino Viviani, celebre antifascista, senese, senatore del Partito Socialista Italiano. Solo il pedigree vale un 15%. Wow! (anche se lei preferisce dire «Woke»).

Epifanie. All'età di cinque anni Elly suona il pianoforte. Adora anche la chitarra elettrica. Giovanissima è appassionata di cinema, poi aspirante regista e lavora per Cinecittà Luce. Si diploma a Lugano e poi si laurea in Giurisprudenza a Bologna (con due tesi: sui migranti in carcere e sui diritti dello straniero, già allora per fare dispetto a Salvini). Poi è una delle Lemnie dem che lanciano la campagna di mobilitazione #OccupyPd. Aderisce alla linea civatiana (come ha detto qualcuno la Schlein sarebbe tipo Pippo Civati, ma senza l'irresistibile femminilità di Pippo Civati). Nel 2014 è eletta parlamentare europea nel Pd - da cui si dimette perché non sopporta, ricambiata, Matteo Renzi) e nel 2020 diventa vicegovernatore dell'Emilia-Romagna con un numero impressionante di voti. «Yes, we can». Che se sei un nerd si dice «Ma sì, ci sta».

Elly, non si può negare, è bravissima. Ma ancora più brava è l'agenzia di comunicazione politica americana che l'ha presa sotto la sua ala: la Social Changes, famosa per aver curato le campagne digitali di molti candidati dem negli Stati Uniti, a partire da Barak Obama, e che è sbarcata da tempo in Italia con l'obiettivo di «costruire una sinistra transnazionale in grado di battere la destra». 

E così i new liberal credo obamiano e Open Society Foundations - si prenderanno il Pd italiano. Per trasformarlo in un partito radicale di massa: diritti individualistici più turbocapitalismo occidentale. Perché se il gay pride è sponsorizzato da Amazon e Netflix qualcosa vorrà pur dire.

«Società aperta», immigrazionismo, cancel culture, posizione sulla Russia molto tiepida e sessualità fluida. Il meraviglioso mondo di Elly. 

Non si è ancora capito se Elly Schlein sia l'anti Meloni o la nostra aspirante Sanna Marin. Il Guardian la vede come la rifondatrice della sinistra, come ai tempi di Jeremy Corbyn (e non andò benissimo). Per Renzi invece se lei diventasse segretaria del Pd mezzo partito si iscriverebbe a Italia viva. «E sono stato prudente». Imprudente, furba, incisiva, ricca, determinata (come dice chi la conosce bene «è una per la quale l'amicizia conta fino a un certo punto: lei è proiettata sul potere»), esibita sensibilità ambientalista, parlantina spinta (con un pizzico di fuffa), autostima fortissima e ars oratoria deboluccia gli slogan sono un po' da studentessa appena tornata da una manifestazione di Lotta continua anni '70 e svolgimenti da temino di liceo (i grandi problemi dell'umanità, la disuguaglianza, l'inquinamento, il superamento del patriarcato, la fame nel mondo, i monopattini, «Chi non canta Bella ciao è incivile»), Elly Schlein è solo un po' meno idealista di Alessia Piperno, più ideologica di Fratoianni, meno cinica della Cirinnà, empatica come Carola Rackete e amabile quanto Fiano.

Dimmi chi sono i tuoi amici e ti dirò chi sei. Personaggi che sostengono la causa Schlein: Fabrizio Barca, Alessandro Zan, Gassmann, Sandro Veronesi, il regista Gabriele Muccino, la Boldrini, la Murgia, l'amichettista Concita De Gregorio «Elly è la soluzione perfetta!» Daria Bignardi, la Michielin, Rula Jebreal e la Ferragni.

Gnè, gnè, gnè.

Comunque, la copertina fluid che le dedicò l'Espresso... beh, diciamo che non è stata tra le più riuscite del settimanale.

Cose belle per Elly: i talk show, la decrescita felice, i videogiochi (Monkey Island), il cinema di Guadagnino (stiamo scherzando, dài), la sinistra bancaria, la frase «Ci siamo ricongiunti con il fuori» («Ma che cazzo vuol dire?», «Boh»), gli asterischi, la scevà, le donne (ma anche gli uomini).

Cose non così belle per Elly: le larghe intese, Matteo Renzi, il Jobs act, i franchi tiratori che impallinarono Prodi, e forse anche Prodi, il ticket con Bonaccini, Bonaccini, la Tav, i binari (è una battuta...), il nucleare, i parrucchieri, gli uomini (ma anche le donne).

Domanda: ma era davvero così importante parlare della propria bisessualità?

«Sono un donna, sono una lesbica, non sono una madre». Ma chi se ne frega? E comunque bisogna andare oltre il genere. Dobbiamo essere inclusivi! Via quei pronomi maschili e femminili. Egli, ella, esso, essa, Elly...

Per il resto, ci sono persone che una volta famose diventano insopportabili. E persone che sono già insopportabili prima ancora di diventare famose.

E non è questione di maschile o femminile.

·        Enrico Berlinguer.

Ma Berlinguer restò comunista fino alla fine. Marcello Veneziani 

Il centenario della nascita di Enrico Berlinguer di oggi sarà un’altra tappa del processo mediatico e politico di beatificazione del segretario comunista. Ormai Berlinguer passa per un liberale, un occidentalista, un postcomunista, un precursore dell’euro-sinistra, perfino un amico di Almirante. In Italia, del comunismo è rimasta viva solo la memoria di due miti, entrambi sardi: Gramsci e Berlinguer, a cui sono dedicate apologie, elogi e santini. Cancellata la memoria del Partito Comunista, rimosso pure Togliatti, perché perdura invece la loro mitologia? Perché ambedue non andarono al potere. Il mito di Berlinguer più si allontana dalla storia più cresce di statura. Berlinguer fu una figura dignitosa, sobria e austera, anche se vogliono perfino negargli la tristezza del suo volto e del suo modo di parlare e vogliono fissarlo for ever sorridente tra le braccia di Benigni. Berlinguer non aveva la statura di Togliatti né la sua sinistra grandezza e la sua lucidità; e quanto a svolte fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Per lunghi anni allineato ai più sordidi atti e documenti sovietici, Berlinguer fu mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l’Assoluto. Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà tramite la copiosa apologetica su di lui vogliono giustificare il loro passato comunista. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi del comunismo e separarli dalle nefandezze dei regimi comunisti. 

Berlinguer fu comunista nonostante gli orrori del comunismo, anche dopo Budapest e Praga, fu legato all’Unione Sovietica fino agli anni settanta, sognava l’eurocomunismo al tempo in cui Craxi calava la sinistra nella storia d’Italia e nel presente occidentale. Non uscì mai dal Canone. Avviò un graduale distacco dall’Urss ma senza approdare a una svolta socialdemocratica. Non fece analisi acute, memorabili o lungimiranti; sulla questione morale fu preceduto dalla destra nazionale che prima di lui e con più forza denunciò la corruzione politica e la decadenza morale. La modestia fu la sua virtù ma anche la sua misura. La sua aria grigia da funzionario di partito era riscattata dall’aura nobiliare un po’ disfatta. Non fu un gigante né un liberale, ma un comunista per bene, perciò merita rispetto. Anche perché, dicevamo, per fortuna sua e nostra, non andò mai al potere. La stessa “fortuna” capitò nella disgrazia a Gramsci, che teorizzò in carcere un regime totalitario ben più efferato di quello che lo aveva messo in galera.

Quando in seguito alla crisi energetica l’Italia scelse l’Austerità, il Pci di Berlinguer la vide come “l’occasione per trasformare l’Italia” come recitava un libro firmato da Berlinguer per gli Editori Riuniti. Berlinguer, nel ’77, lo ribadì in due pubbliche occasioni, un incontro con gli intellettuali al teatro Eliseo di Roma, un altro con gli operai al teatro Lirico di Milano incentrati sulla svolta austeritaria. Introdotto da Giorgio Napolitano, Berlinguer disse agli intellettuali raccolti intorno al Partito-Principe: “austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia”. Ma voleva dire per lui soprattutto superamento del modello capitalista. Berlinguer combinava l’austerità, che a volte somigliava all’autarchia mussoliniana degli anni trenta, con un riferimento terzomondista che strizzava l’occhio al Vietnam e più cautamente alla Cina di Mao. Ma restava saldamente ancorato all’Urss con queste parole inequivocabili dette agli operai a Milano e raccolte in quel libro: “noi rispondiamo di no a chi vuol portarci alla rottura con altri partiti comunisti; a chi vuol portarci a negare quello che è stato la Rivoluzione d’ottobre e gli altri rivolgimenti che hanno avuto luogo nell’Oriente europeo ed asiatico, il ruolo che esercitano l’Unione Sovietica e gli altri paesi socialisti negli equilibri internazionali e nella lotta per la pace mondiale; a chi vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che esistono in quei paesi”. Poi si prodigava in un’apologia del “centralismo democratico” in cui, sì, tutti hanno diritto alla loro opinione ma “la posizione che risulta maggioritaria diventa la posizione di tutto il partito e tutti, quindi, sono tenuti a rispettarla”. Questo era al tempo Berlinguer, leninista, brezneviano e filosovietico. Contrariamente all’immagine che si vuol accreditare oggi, nella politica d’austerità di Berlinguer non c’era tanto il rigore o la questione morale ma la spallata al capitalismo, “il declino irrimediabile della funzione dirigente della borghesia”, l’egemonia del movimento operaio unita all’egemonia culturale, esplicitata nell’incontro del teatro Eliseo quando il segretario del Pci sottolineò che le forze intellettuali “hanno oggi in Italia un peso sociale quale non avevano mai avuto e…hanno in larghissima misura un orientamento politico democratico di sinistra”. L’austerità era per il Pci di Berlinguer il cavallo di Troia del comunismo in Occidente. Arrivò poi la reaganomics, l’edonismo yuppie degli anni ottanta, il collasso sovietico, la mutazione neoborghese della sinistra a liquidare con l’austerità anche il modello comunista. Fu così che l’austerità anziché indicare uno stile sobrio di vita evocò l’arcigno grigiore del comunismo al tramonto. Di cui Berlinguer fu l’icona triste in Italia, nonostante le postume beatificazioni, gli enfatizzati strappi e le benigne immagini ridenti. La Verità (25 maggio 2022)

Un tè (e biscotti della salute) con Enrico Berlinguer, l’ultimo leader rosso. Paolo Franchi su Il Corriere della Sera il 4 luglio 2022.  

Lo conobbi quando ero un ragazzo militante. Con la sua morte finirono la storia del Pci, il più grande partito comunista occidentale, e la mia età giovane. Timido e introverso (Parlato lo chiamava “il sardomuto”) fu più vicino a Togliatti di chiunque altro. 

Enrico Berlinguer nel 1980 al Lingotto, Torino, durante lo sciopero contro i licenziamenti alla Fiat che si concluse con la “marcia dei quarantamila” quadri aziendali e una sconfitta storica per il sindacato. Nato a Sassari nel 1922, divenne segretario del Partito comunista nel 1972 e lo restò fino alla morte, avvenuta nel 1984

A cent’anni dalla nascita Enrico Berlinguer è stato ricordato, tranne rare eccezioni, con toni che vanno dal nostalgico al (dichiaratamente) celebrativo. La nostalgia, in chi, come nel mio caso, il suo tempo lo ha vissuto da giovane, si capisce: al fascino del “come eravamo” è difficile resistere. La celebrazione un po’ meno: giurerei che sarebbe stato il primo a rifiutarsi di essere rappresentato come un santino. Almeno per come lo ho conosciuto io. Prima da dirigente della federazione giovanile del Pci, poi da giornalista comunista e infine da cane sciolto e, soprattutto, da giornalista punto e basta.

La prima prova importante che dovette affrontare, divenuto segretario in pectore perché Luigi Longo era stato colpito da un ictus, fu l’elezione del presidente della Repubblica. Andò male. Aveva puntato tutte le sue carte su Aldo Moro, e invece la vigilia di Natale del 1971, alla ventitreesima votazione, fu eletto, con i voti determinanti del Movimento sociale, Giovanni Leone. Dovette tirare le somme dell’operazione fallita davanti a un comitato centrale (io c’ero, nella delegazione dei giovani) alquanto malmostoso. Quando disse che il Pci aveva sottovalutato il ruolo della massoneria, si levò un brusio di sorpresa, e pure di fastidio. Probabilmente aveva ragione lui (della P2 ufficialmente si seppe quasi dieci anni dopo), ma il parlamentino comunista mugugnò come se avesse detto che non si erano tenuti nel giusto conto gli intrighi dei marziani. E qualcuno tra i più anziani, nei corridoi, lasciò intendere che magari Berlinguer sull’argomento era più preparato degli altri: non era forse in odore di massoneria suo padre, il grande avvocato antifascista e socialista Mario, che lo aveva raccomandato a Palmiro Togliatti per consentirgli, parola di Giancarlo Pajetta, di «iscriversi giovanissimo alla direzione del partito»? 

Umorismo sardo

Invece i giovani comunisti (io, a dire il vero, meno di altri) lo apprezzavano assai. Per i suoi gusti, pure troppo. Al congresso di Firenze della Fgci, marzo 1971, delegate e delegati lo osannarono a lungo, levando alto il pugno, al grido: «Evviva/il grande/partito comunista/ di Gramsci/Togliatti/Longo e Berlinguer!». Lui, dalla tribuna, li guardò prima stupito, poi visibilmente infastidito, e li esortò pure, senza successo, a smetterla. Perché gli era estraneo, e inviso, il culto della personalità, certo. Ma pure per via della sua ritrosia e della sua timidezza. Che lo rendevano amabile, anche perché non erano disgiunte da una vena quasi impalpabile di ironia e pure, va aggiunto, da un particolarissimo senso dell’umorismo, quanto sardo e quanto british non saprei. Eravamo di nuovo a Firenze, per non so più quale convegno. Ci portarono a cena in un ristorante che non c’è più da un pezzo, in via degli Orti Oricellari, gli ero seduto accanto. Il maître, in tutta evidenza un compagno, gli espose a lungo, con dovizia di particolari, il ricco menù. Berlinguer lo ascoltò attento. Solo alla fine gli disse con un sorriso: «Grazie, ma vorrei solo del tè con dei biscotti». Il compagno maître non si perse d’animo, e gli propose un elenco infinito di dolci, gelati, sorbetti, semifreddi. Dall’espressione del volto mi sembrava di poter arguire un notevole interesse, e pure una certa indecisione tra le tante scelte possibili. Ma alla fine, sempre sorridendo, infierì: «Grazie, e complimenti. Ma io vorrei dei biscotti della salute. Possibilmente Gentilini». Riservato. Schivo. Introverso.

Stima e prestigio

Nei suoi primi anni da segretario il “sardomuto”, come lo aveva definito con l’abituale ferocia Valentino Parlato, era molto stimato dai “quadri” del famoso “apparato del partito”, in generale brave persone, non grigi burocrati stalinisti, che lo consideravano uno dei loro, molto meno dai giornalisti (compresi alcuni comunisti, a cominciare dal mio maestro Aniello Coppola) e dal grande pubblico. Il suo prestigio crebbe assai, ovviamente, con le grandi vittorie elettorali del 1975 e del 1976, e fu appena scalfito dal fallimento della politica di unità nazionale e più in generale del compromesso storico, drammaticamente sancito dal rapimento e dall’assassinio di Aldo Moro, il suo unico, vero interlocutore politico, che però non esitò a sacrificare in nome della più assoluta fermezza nella lotta contro il terrorismo. Bettino Craxi mi raccontò di avergli chiesto a quattr’occhi, in uno di quei terribili cinquantacinque giorni, il perché di tanta irremovibilità: «Eravamo soli nel cortile di Palazzo Chigi, lui, ricordo, era appoggiato alla portiera della sua automobile. Gli dissi che capivo bene la posizione comunista, ma non capivo perché il Pci contrastasse così ferocemente la sola idea che altri, in primo luogo noi socialisti, provassero a cercare una strada per salvare la vita del prigioniero. Mi rispose che era in gioco la sicurezza dello Stato».

Lui e Togliatti

Sin dai suoi primi passi in politica Berlinguer era stato quello che si diceva un homo togliattianus. Lo rimase a lungo, ben oltre la morte di Togliatti. La stessa proposta del compromesso storico, che pure fu considerata una clamorosa svolta, era in realtà uno sviluppo a suo modo coerente della strategia indicata dal Migliore fin dal 1944. E la politica di unità nazionale (1976 - 1979) ne era una variante. Morto Moro, tutto questo non stava più in piedi, ma una strategia di ricambio non c’era, a meno che il Pci non si risolvesse a fare i conti con la storia, mettendo in discussione la propria identità comunista (originale, originalissima, sì, ma pur sempre comunista) e avvicinandosi a tappe forzate al movimento socialista europeo. Ma questo Berlinguer, «comunista per fedeltà agli ideali della giovinezza», non intendeva assolutamente farlo. E non solo perché il movimento socialista, in Italia, era il Psi di Craxi: le socialdemocrazie, lo ripeté un’infinità di volte, quando non si limitavano a gestire il sistema capitalistico tutt’al più lo ritoccavano in questo o quell’aspetto, mentre dal capitalismo bisognava «fuoriuscire». 

Terza via e questione morale

Giusta o sbagliata che fosse (io la ritenevo sbagliatissima, tanto è vero che quando si delineò con chiarezza, correva l’anno 1981, lasciai nello stesso tempo Rinascita e il partito), questa posizione consentiva sì di fare propaganda, ma non di fare politica. Tanto più adesso che stavano entrando in una crisi che si sarebbe presto rivelata senza sbocchi tanto il socialismo reale quanto la democrazia dei partiti della Prima Repubblica. Berlinguer ne era, credo, consapevole, anche perché sapeva, a differenza degli altri leader dell’epoca, che ci sono momenti storici in cui la politica assume anche una dimensione tragica. Ma non aveva risposte efficaci. Portò il suo partito sino alle colonne d’Ercole del comunismo, ma non le varcò compiutamente, preferendo mettersi in caccia di chimere, come un’inesistente «terza via» tra socialdemocrazia e comunismo, e brandire come una clava contro tutti gli altri partiti (il Psi ovviamente in testa) una «questione morale» da cui solo il Pci sarebbe stato indenne. E fino all’ultimo, anche se di compromesso storico non parlava più, cercò di tenere in vita un dialogo riavvicinato con la Dc di Ciriaco De Mita per sbalzare da Palazzo Chigi quel Craxi che, a suo giudizio, rappresentava «un pericolo per la democrazia».

Le lacrime

Tutto questo lo fece con una passione, e anche con un tormento individuale oggi impensabili, che rendono meritati tutti gli omaggi che gli sono stati tributati. Il mio, per quel niente che vale, fu un incontenibile pianto, per lui e per la mia giovinezza che se ne andava definitivamente, quando appresi del male che lo aveva colpito. Quanto Berlinguer fosse rispettato, e anche amato, ben oltre i confini del suo partito lo si capì forse solo nei giorni della sua agonia (Padova, 7 - 11 giugno 1984), di fronte alla folla gigantesca che partecipò ai suoi funerali (gli ultimi grandi funerali politici della storia repubblicana), e più ancora quando, pochi giorni dopo, il Pci, nelle elezioni europee, sorpassò per la prima e l’ultima volta la Democrazia cristiana. Il tributo dedicato dalla maggioranza degli italiani al combattente politico caduto sul lavoro nel fuoco di una lotta per la vita o per la morte fu sicuramente sincero. Ma scoprimmo presto (non tutti, qualcuno ci mise più tempo del dovuto, qualcun altro non se ne accorse mai) che si era trattato soprattutto di un’appassionata, e meritatissima, testimonianza. Perché un berlinguerismo senza Berlinguer era letteralmente impensabile. Il suo carisma personale e politico aveva rappresentato, per apparente paradosso, una formidabile risorsa esterna per attutire la portata di una crisi già aperta da anni. Con la sua morte, iniziò, simbolicamente e non solo, la fine del più grande e prestigioso partito comunista d’Occidente.

Senza Berlinguer politica più povera. Nel 1984, a Padova, la morte del leader Pci. Annabella De Robertis su la Gazzetta del Mezzogiorno il 12 Giugno 2022.

«Oggi l’Italia politica è più povera»: così Giuseppe Giacovazzo comincia il suo editoriale in prima pagina su «La Gazzetta del Mezzogiorno» il 12 giugno 1984. Il giorno prima si spegneva a Padova a causa di una emorragia cerebrale, Enrico Berlinguer, segretario del Partito Comunista Italiano.

Il 9 giugno, il leader sardo era stato colpito da un ictus durante un comizio e si era accasciato, visibilmente provato dal malore, davanti a migliaia di persone che provavano a sostenerlo e lo incitavano a interrompere il comizio. «L’Italia politica è più povera. Non solo per i compagni di Berlinguer e per coloro che l’hanno amato. Ma anche per quanti, a qualunque fede appartengano, sentono che con lui scompare una delle più alte coscienze della nostra vita democratica. Il Pci, nei 63 anni della sua complessa storia, ha avuto tre grandi leader, oltre la parentesi di Luigi Longo. Gramsci, Togliatti, Berlinguer. Ebbero in comune la terra di Sardegna (Togliatti solo per gli studi liceali) e quella stessa malattia finale che non perdona. Tre leaders, tre differenti classi sociali. Gramsci figlio di proletari. Togliatti proveniente dalla piccola borghesia. Berlinguer di illustre famiglia aristocratica: fu prescelto da Togliatti, ma somigliava per carattere molto più a Gramsci», è il commento del direttore del quotidiano.

Nato nel 1922 a Sassari, Berlinguer si spegneva a soli 62 anni: segretario del Pci dal ‘72, fu promotore dell’idea di un «compromesso storico» tra le due grandi forze popolari, quella comunista e quella democristiana. Soprattutto, fu il leader che guidò il partito verso il progressivo distacco dall’Unione Sovietica e condusse un’aspra battaglia politica contro il nuovo corso del Partito socialista italiano guidato da Bettino Craxi – resta celebre e significativa del livello della polemica la contestazione a cui Berlinguer fu sottoposto mentre si accingeva ad intervenire sul palco del congresso socialista nel maggio ‘84.

«Ora è il momento di chiedersi » – continua Giacovazzo – «se a Botteghe Oscure emergerà un leader destinato a rilanciare il disegno dell’alternativa di sinistra, oppure il continuatore di quella politica che non ha mai relegato in soffitta il dialogo con il partito dei cattolici democratici». Il 13 giugno a Roma si tennero i funerali: circa un milione e mezzo di persone partecipò alla cerimonia in piazza san Giovanni in Laterano, in quella che fu la più grande manifestazione pubblica dell’Italia del Novecento (Renato Guttuso ne realizzò un celebre e straordinario affresco) a te4stimonianza di una popolarità che andava oltre i confini del mondo comunista.

I 100 anni del leader Pci. Perché Enrico Berlinguer è stato il più importante riformista italiano. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Giugno 2022. 

Abbiamo pubblicato molti articoli su Berlinguer, in occasione del centesimo anniversario dalla sua nascita. Tutti, secondo me, molto belli e di grande interesse. Eppure io resto convinto che nessuno ancora sia riuscito a fare una vera fotografia politica del leader comunista. Io penso che Berlinguer sia stato, nella storia d’Italia, la figura più importante di politico riformista. Proprio così: la più importante. L’Italia ha avuto tra i protagonisti della sua storia tante figure altissime di riformisti. Penso a Turati, naturalmente, a Matteotti (ucciso dai fascisti esattamente 98 anni fa) a Nenni, a Saragat, e anche ad alcuni democristiani, come Fanfani e Donat Cattin. Berlinguer però è stato il più completo e quello di maggior successo. Anche se non si è mai dichiarato riformista. È l’unico che ha portato a compimento un piano di riforme profondissimo, assai articolato, e che ha cambiato in modo radicale il paese.

Sicuramente dal punto di vista teorico Filippo Turati è il maggior esponente del riformismo. Ed è stato il leader che ha difeso la sua idea in condizioni pazzesche. Bersagliato dall’attacco da sinistra, che veniva da Mosca, e dal Pci nascente, e dai massimalisti di Serrati, e assediato fisicamente dalla destra fascista. Di certo però, se dovessi chiedervi quali sono le riforme immaginate e realizzate da Serrati vi costringere al silenzio. Nenni, Saragat e Fanfani, tutti insieme, furono gli autori delle riforme del primo centrosinistra. Non furono però riforme devastanti, mi pare. Buona la riforma della scuola, che però restava giustamente dentro il solco del gentilismo. Forse sbagliata la nazionalizzazione dell’elettricità. Fallita la riforma del regime dei suoli. Forse la cosa più importante fu il piano casa, che però va interamente attribuito a Fanfani ed è precedente al varo del centrosinistra. L’esperienza del primo centrosinistra fu interessante dal punto di vista riformista, ma di successo modesto e durò poco. Sapete tutti come fu interrotta sul nascere: col tintinnio delle manette che nel 1964 costrinse Moro e Nenni a segnare il passo e a mettere in piedi un governo conservatore e piuttosto immobile. Evitando in questo modo di fare la fine della Grecia, che tre anni dopo cadde in mano ad un gruppo di militari golpisti.

Berlinguer aveva un grande rispetto per le tradizioni del suo partito. Gli piaceva innovare, ma sottotraccia. Non amava i colpi di scena. Forse l’unico colpo di scena che si concesse fu il varo del compromesso storico. Ci torniamo tra pochissimo. Perciò andava cauto anche con le parole. Non diceva: il comunismo è fallito. Diceva: “si è esaurita la spinta propulsiva della rivoluzione di ottobre”. La sostanza era la stessa. Così la parola “riformista” non era nel suo vocabolario. Una volta Alfredo Reichlin – tra tutti i dirigenti del Pci della sua generazione, credo, il più intelligente – gli propose di sdoganare il termine riformista. “Enrico – gli disse – noi siamo il partito delle riforme, perché non lo rivendichiamo?”. Berlinguer lo guardò, sorrise, restò qualche secondo in silenzio, come faceva sempre lui, credo che anche un po’ arrossì, poi scosse appena la testa e rispose: “non posso”. Glielo spiegò bene perché. Certo – disse – che siamo riformisti, ma ammetterlo sarebbe come ammettere una sconfitta. Riformatori, Alfredo, noi siamo solo riformatori.

Oltre ad essere timidissimo, Berlinguer, era anche molto autoironico. Se oggi uno pensa a Berlinguer (ma anche a Craxi, o a Fanfani, o a Cossiga) e poi fa una carrellata, nella sua mente, dei capi politici di oggi, penso che si spaurisca. Berlinguer era saldamente riformista. Perché era convinto che lo svilupparsi di una offensiva di riforme fosse l’unica strada per trasformare l’Italia, attenuare le ingiustizie, ribaltare i rapporti di potere tra le classi e infine avvicinarsi, lentamente, per esperimenti, e in modo molto pragmatico, a una modello futuro e ragionevole di socialismo. La strategia del compromesso storico è esattamente questo: un piano politico, non ideologico, non tattico, non di potere. Un piano di riforme. Berlinguer era socialista e riformista. Aveva del tutto superato il togliattismo. Togliatti considerava la politica l’arte del potere. Perché nonostante tutte le sue saggezze era un rivoluzionario. Berlinguer considerava la politica l’arte del cambiamento. Dico meglio: l’arte delle riforme.

La differenza con gli altri leader riformisti italiani sta nei risultati. Sicuramente Berlinguer non aveva l’altezza intellettuale e teorica di Turati, ma aveva una capacità di spuntarla che nessun altro leader politico ha mai avuto. Le sue battaglie erano di solito vincenti. L’unica che perse la perse dopo essere morto: quella con Craxi contro l’abolizione della scala mobile. Ma non sappiamo come sarebbe andato a finire lo scontro, se Berlinguer fosse rimasto vivo. La sua tendenza riformista gli permetteva di combattere e vincere anche battaglie che non erano sue. Prime tra tutte quella sul divorzio e poi quella sull’aborto. Non era stato lui a volerle, era stato Pannella, ma le sposò e fu lui a portarle in porto. Se non le avesse combattute fino allo stremo (specialmente quella sull’aborto) erano guerre perse. Se diamo un ‘occhiata a cosa era l’Italia , poniamo, nel 1975, e che cosa era diventata alla fine del 1978, ci troviamo di fronte a un salto inaudito. In nessun altro paese d’Europa ci fu una mutazione così rapida. Nella struttura sociale, nei rapporti tra le classi, nella politica e nel costume. Vado a memoria. Cito qualche cambiamento.

Nel 1975 il capo della Confindustria, che era Gianni Agnelli, e il capo della Cgil, che era Luciano Lama, firmarono un patto che sanciva il punto unico della scala mobile. Provo a spiegare. Era un’epoca di inflazione galoppante e la contingenza (regolata appunto dalla cosiddetta scala mobile) era la parte più consistente del salario. Ogni pochi mesi aumentava in proporzione all’aumento del costo della vita. E salvava i salari. La contingenza però era in percentuale. Se scattava del 3 per cento, per esempio, uno stipendio di 200 mila lire al mese aumentava di 6 mila lire al mese, invece uno stipendio di cinque milioni al mese aumentava di 150 mila lire. Le differenze aumentavano. Il punto unico invece unificava gli aumenti. Diciamo 10 mila lire uguali per tutti per ogni punto di contingenza. L’effetto, se proiettato in una quindicina d’anni, sarebbe stato una riduzione fortissima nella forbice delle retribuzioni.

In quegli stessi anni fu approvato il nuovo stato di famiglia, che recepiva il primo femminismo, e con un referendum si stabilizzava il divorzio. Poi il Pci entrò direttamente nella maggioranza e ottenne la riforma Basaglia, cioè – primo paese al mondo – la chiusura dei manicomi considerati struttura autoritaria; poi la riforma sanitaria , primo paese al mondo a garantire la sanità gratuita e qualificata per chiunque; l’equo canone, che considerava come essenziale il diritto alla casa e favoriva clamorosamente chi aveva le case in affitto; la riforma dei patti agrari, che limitava il latifondo e il potere dei proprietari; i nuovi contratti di lavoro che aumentavano i salari, abolivano il cottimo e la gabbie salariali, e addirittura imponevano la scuola gratuita durante l’orario di lavoro, e infine l’aborto e l’università di massa.

L’idea che Berlinguer sia stato uno sconfitto, secondo me, è la più infondata delle idee possibili. Ha vinto decine di battaglie. Tutte quelle riforme furono volute, scritte e imposte dal suo Pci. Il quale si era trascinato dietro una Dc che, soprattutto dopo la morte di Moro, aveva perso una sua guida saldamente conservatrice e considerava il Pci la sua ancora di salvezza. Berlinguer ha vinto anche a dispetto delle condizioni proibitive della lotta politica, in quegli anni, dominata dalla lotta armata. Probabilmente è riuscito persino in una impresa difficilissima: usare la spinta devastante del terrorismo evitando che trascinasse il paese su posizioni reazionarie ma permettendo, al contrario, che diventasse uno stimolo alle riforme. Un giorno dovremo ragionare bene su quegli anni. Penso che scopriremo che le cose andarono in maniera abbastanza diversa da come ce l’hanno raccontata finora.

P.S. Non ho parlato di Craxi. Lo avrete notato. Su di lui c’è da fare un discorso a parte. Fu un grande riformista ma fu sconfitto. Dalla Dc, tornata conservatrice dopo Zaccagnini, e dal colpo di mano della magistratura. Non so cosa sarebbe successo se due giganti come Craxi e Berlinguer invece di combattersi avessero trovato una via comune. Magari, oggi, sapremmo più precisamente cosa si intende per socialismo…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

100 anni dalla nascita del leader Pci. Berlinguer non ha mai rinunciato alla terra promessa. Fausto Bertinotti su Il Riformista l'8 Giugno 2022. 

La figura di Enrico Berlinguer continua a costituire un prisma attraverso il quale leggere la storia del Paese nel secondo dopoguerra e, in essa, le vicende della sinistra italiana. Per questo, anche un anniversario come il centenario della sua nascita fuoriesce dal canone celebrativo e ci propone diversi spaccati della società italiana, mentre riaccende a sinistra, per quel che è possibile nella sua radicale attuale crisi, antiche controversie. La polarizzazione di quest’ultimo ciclo politico del Paese, tra il basso e l’alto della società, ne esce confermato anche in questo caso. Nel sentire comune popolare, il ricordo di Berlinguer si impasta con la nostalgia per un tempo nel quale la politica era parte della vita stessa delle persone e delle comunità.

Coloro che lo ricordano e per alcune intere generazioni, restano in tanti, lo ricordano come uno degli ultimi grandi leader che il Paese ha avuto, leader che erano l’espressione di una politica forte e di una serietà nell’impegno e nella direzione politica che erano l’espressione di una nobiltà nella presenza pubblica e insieme di un’umanità di fondo. La comune considerazione che mescola per il politico la stima e l’affetto per la persona attraversa gli schieramenti partitici e l’opinione popolare. In essa, il popolo di sinistra prende poi una colorazione particolare, sua specifica. Porta con sé, allora, il tempo delle grandi conquiste sociali, civili e culturali, il tempo nel quale si è realizzato quel che è stato descritto nella letteratura politica come “il caso italiano” perché in esso si è determinato, per un intero decennio, un rapporto virtuoso tra il conflitto di classe, il conflitto sociale, l’emergere di nuovi bisogni e di nuovi diritti e un processo di riforme che hanno cambiato il Paese, dallo Statuto dei diritti dei lavoratori, all’ascesa del salario, alla riforma delle pensioni, alla sanità pubblica, alla conquista delle leggi sul divorzio e sull’aborto.

Sempre dentro quello stesso mondo popolare, quello del Pci, poteva cantare allora, in quel tempo: “Non c’è lotta, non c’è conquista” senza il grande Partito comunista. Anche chi sentiva un eccesso di patriottismo di partito nello slogan e di retorica in quella formula non può non vedere il nesso tra quella stagione sociale e politica e quel che è rimasto della memoria di Berlinguer, in quel popolo. Anche nella memoria passa oggi la linea di divisione tra l’alto e il basso del Paese. Nella società politica la memoria di Berlinguer divide, ed è raro che si renda giustizia. In chi gli fu avversario, specie in chi si autodefinisce riformista, il tempo non solo non ne ha mitigato l’avversione, ma spesso ha indotto ad attribuire a lui e alle sue scelte politiche la causa di una drammatica uscita di scena dei partiti riformisti, come quella della Democrazia cristiana, la cui ragione andrebbe invece ricercata nella propria vicenda storico-politica. Ma anche tra chi si definisce oggi riformista e tra chi aveva militato anche con ruoli dirigenti nel Pci di Berlinguer, il giudizio sul leader comunista, seppur per ragione opposte a queste ultime, risulta spesso inattendibile. Nella sua beatificazione, infatti, scompaiono non solo gli spigoli che hanno reso caratteristica la sua personalità politica, ma scompare proprio quel nucleo rivoluzionario che ha reso legittima e costante la sua rivendicazione di essere comunisti.

La risposta alla domanda chi e che cosa è stato Enrico Berlinguer va dunque ricercata rifiutando sia l’infondata demonizzazione che una strumentale beatificazione. Credo che la cifra più rispondente alla sua presenza così significativa sulla scena politica e nella storia del Movimento operaio del secondo dopoguerra sia da cercare in un canone oggi desueto quanto, in altri tempi, potente: l’ortodossia. Berlinguer è stato, io credo, l’ultimo seppur creativo custode di una specifica ortodossia. Non già la classica ortodossia comunista, quella che prende le mosse dalla rivoluzione di ottobre, quella marx-leninista, cioè quell’ideologia che ha segnato il canone dell’intera politica nella storia del Movimento operaio dopo la rivoluzione di ottobre. Invece di quella, si tratta per Berlinguer di un’inedita e originale ortodossia, quella che poteva affondare le sue radici nel partito nuovo di Togliatti e il cui “rinnovamento nella continuità” ha rappresentato l’ispirazione centrale ed è stata pensata e praticata come il fondamento della centralità della politica stessa e del ruolo del partito, del Partito comunista italiano. Di nuovo, nella storia contemporanea di questo partito, uno slogan ha riassunto, e non casualmente proprio uno slogan, un modo di essere, ha illustrato un’ispirazione, ha dato conto di una storia condivisa e di una storia in essere. Lo slogan in questo caso è quello noto: “Gramsci, Togliatti, Longo, Berlinguer.” Ogni svolta, ogni scarto, ogni contraddizione viene sciolta così in una storia condivisa che i suoi dirigenti illustrano nella contiguità fino a investire il simbolico, l’immaginario.

Quella storia ha una meta che viene sempre confermata e un soggetto storico per conquistarla, sul quali si fonda anche quest’ultima ortodossia. La meta è il socialismo, cioè il superamento della società capitalistica, il soggetto è quel popolo che si costruisce nella lotta di classe, nell’azione politica, nella costruzione della cultura, in una tensione per l’egemonia e per la trasformazione della società. Nella costruzione di Berlinguer nessun gradualismo, nessuna svolta, nessuna manovra tattica quandanche tutte considerate necessarie e persino da mettere a valore possono sostituirsi alla meta. Il mondo di Berlinguer non esiste senza la Gerusalemme, chi lo vorrebbe arruolare tra i riformisti di questi nostri opachi tempi se ne faccia una ragione. La Gerusalemme può essere rimandata, anzi secondo quel canone, improntata anche al realismo politico, doveva essere rimandata, non essendoci le condizioni storiche per la sua conquista immediata, ma rimandata per essere preservata. Senza Gerusalemme, non c’è solo la morte della politica, della politica come prassi autonoma, come prassi non dipendente dal sistema capitalistico dal potere. Senza Gerusalemme c’è solo la fine della storia del Movimento operaio e della sua ambizione.

Non è un vezzo il sistematico rifiuto del Segretario del Pci di dirsi riformista, il rifiuto di usare quel riferimento politico, oggi così diffuso. L’uso dell’autodefinizione di riformatori da parte dei comunisti e non solo di loro a sinistra, anziché la definizione di riformisti, indica uno spartiacque. Persino nella battuta di Berlinguer: “I comunisti sono conservatori e rivoluzionari”, c’è quel nucleo di verità che consiste nel rifiutare l’approdo socialdemocratico. Torna di nuovo il canone di questa specifica ortodossia, quel rifiuto viene da lontano ma viene sempre rinnovato. Ci aveva già pensato Togliatti quando sostenne, pur senza successo, la candidatura del leader socialista Pietro Nenni a primo presidente del Consiglio della repubblica italiana. Ci avevano pensato comunisti e socialisti, da Nenni a Lombardi, nell’aspra condanna e nel rifiuto della svolta di Bad-Godesberg, quello della socialdemocrazia tedesca. Lo confermerà Berlinguer quando dirà solennemente in un difficile comitato centrale: “Non diventeremo mai socialdemocratici”.

Nel ponte tra la Gerusalemme e il popolo c’è la radice dell’ultima ortodossia, quella di Enrico Berlinguer. Ancora, anche per questo, si può partire da Togliatti. Nel primo numero di Rinascita settimanale, era il 1962, egli fa un bilancio di vent’anni di lotte politiche. Lo avrebbe potuto fare allo stesso modo per suoi anni Berlinguer. Scriveva Togliatti: “Sono vent’anni che si combatte in Italia. Vent’anni che due forze avverse, l’una di progresso e di rivoluzione, l’altra di conservazione e reazione, si affrontano e si misurano in un conflitto che ha avuto diverse fasi, nessuna delle quali però si è conclusa in un modo che potesse significare il sopravvento definitivo dell’uno o dell’altro dei contendenti”. Togliatti infine così conclude: “Da questo dato di fatto parte e sopra esso si fonda tutta la situazione del nostro Paese ed è un dato che non muta, che conserva tutto il suo valore, nonostante le trasformazioni profonde che la situazione stessa subisce”. Berlinguer eredita questa lettura del Paese e in quel suo tempo che vede cambiare nel profondo e radicalmente nel Paese si impegna a tenere la barra diritta della ricerca di un’altra società, evitando sistematicamente la rottura, ma riprendendo la sfida del balzo in avanti per assumere la gradualità del cambiamento, la difesa del quadro demografico, senza rinunciare alla meta.

Così Berlinguer colloca il Pci accanto ai movimenti della grande riscossa operaia e studentesca aperta dal biennio ’68-’69, ma non ne assume mai né le domande più radicali, né le esperienze contestatrici, fino al drammatico errore di interpretazione sul ‘77. Berlinguer costruisce il distacco dall’Urss costantemente, in una progressione, ma non rompe quel legame con uno strappo neppure quando si rivelerebbe così necessario come a Praga. Nella politica di Berlinguer, tanto la politica del compromesso storico, fino al sostegno alla cattiva esperienza del governo di unità nazionale, ma anche quando con coraggio e lucidità di fronte al delinearsi del rovesciamento del conflitto di classe e al prendere corpo nella politica anche delle forze di sinistra, della logica delle compatibilità col mercato e della subalternità al sistema, Berlinguer scopre la radice di classe per un nuovo futuro della politica, quasi un nuovo inizio. Dai trentacinque giorni alla Fiat allo scontro sulla Scala mobile, Berlinguer si riavvia a rieleggere la politica dalle fondamenta, sulla contesa di classe.

Conta niente che chi scrive veda in quest’ultimo Berlinguer il leader di un partito operaio che cerca la via per evitare sì la sconfitta, ma soprattutto e peggio di questa l’integrazione subalterna del partito nel sistema, l’abbandono della Gerusalemme. Conta di più cercare di capire come e perché ci fosse un filo conduttore che connetteva svolte, strappi e anche scelte politiche tra loro per natura così diverse, come quelle che abbiamo indicato, un filo conduttore da cercare di cogliere nella sua realtà e nel suo investimento. Il filo di Berlinguer. Per parte mia, cercherei questo filo conduttore nella sua nuova lettura di un’ortodossia considerata necessaria per la vita del partito di massa.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Il centenario della nascita del leader Pci. “Berlinguer sottovalutò tre nemici: borghesia reazionaria, Usa e Urss”, l’intervista a Pietro Ingrao sul segretario del Pci. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Giugno 2022. 

In occasione del centenario, ripubblichiamo una lunga intervista rilasciata diversi anni fa da Pietro Ingrao, nella quale si ripercorre la storia di Berlinguer e si riflette sui successi e sui fallimenti dell’ex segretario comunista che moriva esattamente 38 anni fa.

Nel 1976 Ingrao fu chiamato improvvisamente a un alto incari­co: fu designato dal partito come candidato alla presidenza della Camera (dai tempi di Umberto Terracini – nel ‘48 – nessun comunista aveva più avuto una così alta funzione pubblica), e venne eletto alla terza carica dello Stato.

Quando sei stato presidente della Camera avevi rapporti stretti con Berlinguer, che era il segretario del partito?

Pochi. Botteghe Oscure non si occupò molto del mio impegno alla guida della Camera.

Come fu decisa la tua candidatura a presidente della Camera? In quel periodo tu nel partito eri all’opposizione. Ti eri opposto alla linea del compromesso storico, ti eri dimesso dall’incarico di presidente del gruppo parlamentare…

Sì, la proposta mi colse del tutto di sorpresa. Tra me e la direzione di Botteghe Oscure non c’era proprio un feeling. Io ero andato da Berlinguer a dirgli tutte le mie riserve nei riguardi della linea cosiddetta del compromesso storico, anche se i rapporti personali tra me e lui furono sempre buoni, schietti, e c’era una grande stima reciproca. Ma quanto alle opinioni politiche, il mio dissenso dalla linea berlingueriana era forte. Naturalmente la proposta di fare il presidente della Came­ra per me fu una grande sorpresa. Non ci pensavo minima­mente. Invece andò così. C’erano appena state le elezioni politiche del 1976, il Pci aveva avuto un balzo nei voti, e già comunisti erano sindaci a Torino, Bologna, Roma, Napoli. Ma la Dc restava pur sempre il primo partito. Nel quadro della ricerca di una intesa tra Dc e Pci si decise di assegnare ai comunisti la Presidenza della Camera. E il Pci fu chiama­to a indicare il suo candidato. Quella mattina io mi trovavo in casa, era l’ora di pranzo. Stavo mangiando con Laura, mia moglie, in cucina. Eravamo soli. Mio figlio Guido era a scuola, le figlie grandi ormai vive­vano tutte fuori di casa. D’un tratto squillò il telefono. Andai a rispondere. Era Berlinguer. Mi dice molto brevemente come stavano le cose: “Guarda, noi qui stiamo discutendo la questio­ne della presidenza della Camera. Abbiamo pensato tutti a Gior­gio Amendola, ma lui non ne vuole sapere. Allora è venuta la proposta che faccia tu il Presidente”. Non mi disse altro, era uomo di poche parole. Io gli chiesi un po’ di tempo per riflette­re. Tornai in cucina e raccontai la cosa a mia moglie: non mi parve affatto entusiasta. Mi disse: “Ma in che lavoro ti vai a cac­ciare?” Non fui della stessa opinione. Ci pensai qualche minu­to, mangiai un frutto, non mi consultai con nessun altro: ripresi il telefono, chiamai Berlinguer e dissi di sì, che accettavo.

Come mai?

Il lavoro nel Parlamento mi è sempre piaciuto molto. Alla fine degli anni Cinquanta fui io a chiedere di uscire dalla Segreteria e di lasciare la direzione della sezione “Stampa e propaganda” per andare a lavorare alla Camera.

Perché lo facesti?

Per due ragioni. La prima riguardava me stesso. Per come mi conoscevo ritenevo che tra le mie doti non ci fosse quella cosiddetta dell’ “agit-prop”. Sapevo che c’erano compagni molto più bravi di me in quel lavoro. Per esempio Pajetta, per il quale, peraltro, non avevo grande simpatia personale (né lui l’aveva per me). Pajetta sapeva inventare slogan, costruire una campagna di comizi, mettere in burla gli avversari: insomma aveva un talento per tutte quelle cose che deve fare un agit-prop. lo no. E infatti Pajetta fece la propaganda molto meglio di me. La seconda ragione per la quale chiesi di lasciare la segre­teria è che quel palazzo – Botteghe Oscure- a me non era mai piaciuto molto. Sembrerà strano, ma non mi garbava il clima, il gergo, il tipo di relazioni che era in uso fra quegli apparati. Ero abituato ai rapporti che avevamo al giornale, all’Unità: forse per il compito stesso a cui bisognava assolvere, erano molto più concreti, più intensi, più aperti. E poi la situazione nella Segreteria del partito per me era diventata difficile, per­ché su temi di fondo non la pensavamo nello stesso modo: da parte mia c’erano dissensi forti, specie con l’analisi e l’ipote­si politica a cui guardava Amendola, che già allora pesava molto nel gruppo dirigente.

Il lavoro alla Camera ti piaceva?

Sì. Lo trovavo molto appassionante: prima di tutto per il continuo confronto che si realizzava con l’avversario politico e anche all’interno dei vari rami della sinistra di opposizione. Inoltre nella segreteria del gruppo parlamentare lavorava un compagno di grande intelligenza, Renzo Làconi. Aveva il senso dell’aula, la prontezza nel confronto delle opinioni, e anche la battuta pungente che faceva scattare gli ascoltatori. Era sardo, e un grandissimo oratore. Ricordo che a Torino, quando si andava a tenere un comizio – o a parlare in una sala, in un cinema – ti dicevano: occhio all’orologio, a mezzogiorno il locale deve essere vuoto perché a mezzogior­no i torinesi si alzano e vanno a pranzo. E tutti avevano spe­rimentato la dura legge del mezzogiorno torinese. Accadde qualcosa del genere anche a Togliatti e ne restò stupito. Tene­va il comizio di chiusura della Festa dell’Unità in una grande arena. Di solito quando parlava Togliatti non volava una mosca, nessuno nemmeno si alzava dalla sedia. Quella volta però Togliatti fu troppo lungo, e ad un certo punto gli ascol­tatori cominciarono ad andar via: ci parve incredibile e inac­cettabile. Làconi forse fu l’unico a violare il vincolo del mez­zogiorno torinese: una volta parlò fino alle 12 e 25 senza che nessuno si levasse dalla sedia…

Perché il lavoro alla Camera ti piaceva?

A tanti di noi piaceva: forse la durezza della cospirazione clandestina ci aveva messo in testa quel tipo di democrazia parlamentare-assembleare. E per una ragione di fondo: avevamo bisogno del confronto pubblico delle idee, la messa a prova delle ideologie in campo aperto. Speravamo così di costruire un rapporto permanente con il Paese: sulle decisioni da prendere. A volte, nell’urto delle opinioni, in quell’assemblea si arrivava anche alle zuffe vio­lente. Ma esisteva anche un rispetto reciproco. Sovente in quelle aule scattava un uso che a me piaceva molto: ed era quando la sera, a fine seduta, uno di noi si leva­va in piedi dal suo banco e interrogava il governo su un even­to di rilievo che era accaduto in quel giorno, se mai in qual­che sperduto paesino, e che a noi sembrava grave. Chiedeva­mo -appunto- che il ministro venisse a riferire ali’ assemblea: e il ministro – anche un avversario antipatico come Scelba – di solito veniva, e riferiva, e si discuteva. E si ottenevano anche delle cose. Oggi mi pare che questo collegamento atti­vo, quotidiano del Parlamento con le vicende del Paese si sia sbiadito, per non dire addirittura scomparso. Io invece avevo fitta in testa l’idea di estendere questa rela­zione “assembleare” anche alla vita dei comuni, alle provin­ce. Avevo in mente una sorta di figura di sindaco-capopopolo, che chiamava a discutere i problemi della città coralmente: a volte anche coinvolgendo i cittadini in assemblee di piazza.

Per tutte queste ragioni, diversi anni dopo, accettasti la proposta di fare il Presidente della Camera …

Beh, avevo in mente questa forma della politica. In verità allora compagni miei molto cari mi rimbrottarono: la conside­rarono una decisione sbagliata. Ricordo che dissentì da quella mia scelta anche un amico carissimo come Trentin. Io invece non ebbi rimpianti. Poi -vedi- il partito comunista era una cosa strana. Con quale logica politica “correntizia” si potrebbe mai spiegare la decisione che in un posto rifiutato da Amendola ci andasse – lasciami dire queste parole un po’ presuntuose – il principale antagonista di Amendola? Forse in nessun altro par­tito poteva accadere una cosa del genere. Così eravamo.

Tu mi hai detto che qualche anno prima di diventare presidente della Camera andasti da Berlinguer e criticasti il compromesso storico. Giusto?

Sì.

E come andò quell’incontro?

Bene e male. Bene perché lui fu molto civile, molto corret­to. Ascoltò con garbo. Male, perché credo che non capì le ragio­ni del mio dissenso. Anche perché forse io non seppi spiegare la mia obiezione fondamentale. Che poi era questa: avvertivo ormai una crisi della nostra politica, dopo le grandi novità e gli eventi mondiali del ‘68. Sentivo che bisognava cambiare stra­da. E il compromesso storico, così come Berlinguer lo aveva proposto, proprio non mi sembrava una svolta, a guardare quel compromesso prudente che cercava l’elefante democristiano.

Eri contrario a una intesa con la Dc?

Non è proprio esatto. Io non pensavo che fosse impossibi­le avere un rapporto e forse anche un’intesa politica di fondo con la parte avanzata e riformatrice del mondo cattolico ita­liano. Avevo molte relazioni con tutta una componente di quel mondo cattolico: punti di incontro forti con persone come La Pira, e con figure del pensiero e della vita religiosa come padre Balducci. Ero convinto che il partito comunista e la Democrazia cri­stiana fossero i soggetti politici principali della vita politica italiana in quegli anni Sessanta e Settanta. Ma il quadro poli­tico del Paese mi sembrava già in forte agitazione, e con fratture sostanziali che apparivano roventi. E il fermento non scuoteva solo i partiti. Agiva una pluralità di presenze anche nel mondo cattolico ufficiale: e vedeva accomunate sulla scena le Acli di Labor, la sinistra della Cisl, e leader sin­dacali di forte originalità come il segretario dei metalmecca­nici della Fim Pierre Carniti. Agivano anche intrecci forti. La stessa Chiesa italiana aveva avuto molte facce. Da quella pesante e chiusa di Pio XII, a quella intensa di tutta un’ala influenzata dal pensiero francese di Maritain e Mounier. Per non parlare di Papa Giovanni.

E perché allora respingevi l’idea dell’accordo col mondo cattolico?

Il mondo cattolico era una realtà di livello mondiale: a molte facce. E io ne avevo conosciuto una di queste, che sen­tivo duramente ostile e lontanissima dalle mie speranze.

Però quando Berlinguer propose il compromesso storico c’era già stato papa Giovanni, c’era Paolo VI, e quella componente reazionaria della Dc che tu dici era stata sconfitta. Aveva vinto Moro …

Sì, per un verso quello che dici è vero. Ma la partita nella Dc non era affatto chiusa. La componente reazionaria era forte, anche se si mescolava volutamente con altre correnti o fazioni. Direi che il partito democristiano era una sogget­tività al tempo stesso coesa e ultra differenziata. Aveva­no preso qualcosa dalla duttilità (e dalle molte facce) della Chiesa cattolica. E all’interno pesava molto anche il gioco delle personalità, i retroterra culturali diversi, gli orienta­menti “locali. E poi forse i capi democristiani si illudeva­no ancora -in quei brucianti anni 70 – di avere in mano carte e fili che si erano invece consumati. Ricordo di molti incontri che ho avuto, quando ero presi­dente della Camera, con Galloni, che era un uomo di Zaccagnini, ma anche con Flaminio Piccoli. Io dicevo: “Se davve­ro volete giungere a questa intesa con i comunisti, dovete spicciarvi: l’Italia non può reggere in questa incertezza, è pericoloso …” Mi rispondevano: “Le resistenze sono enormi, abbiamo bisogno di tempo”. Nei modi suoi agì tutto un fondo con­servatore (per non dire reazionario) del Paese. Non so dire quanto in quella resistenza c’entrarono di mezzo anche figu­ri come Licio Gelli o capi di una losca ala massonica. E in fondo si capisce. In caso di un accordo Moro-Berlin­guer veniva spezzata -in un pezzo d’Europa non da nulla- la dura frontiera che dal ‘45 spaccava il globo in due parti. La posta era davvero grande.

Rivedendo quel periodo lì, trent’anni dopo, e rileggendo le riforme che furono approvate, si ha l’impressione di una avanzata impetuosa. Ci furono grandi conquiste del movimento dei lavoratori …

Sì, furono conquiste di grande importanza. Ma furono selvaggiamente combattute: anche come sviluppi e frutti della cruciale insorgenza del ‘68. A mio avviso negli anni 70 ci fu una parte della borghesia padronale ita­liana che effettivamente si chiese se non fosse possibile arri­vare ad un accordo con il partito comunista. Quindi le cose si spinsero abbastanza avanti. Ricordo episodi, fatti, cose, dai quali risultava evidente che pezzi della borghesia erano pru­dentemente favorevoli a un accordo col Pci, o perlomeno si interrogavano: e cercavano di leggere cosa fossero e dove portassero effettivamente quei comunisti strani, che avevano avuto anche litigi e rotture con Mosca. E Berlinguer, in qual­che modo, sembrava a loro un’altra cosa. Contemporaneamente però ci fu un’altra ala del mondo borghese che condusse una lotta all’ultimo sangue per impe­dire l’incontro. Abbiamo parlato di Licio Gelli. Forse c’è stata qualche esagerazione sul ruolo della P2. Ma l’opposi­zione aspra del governo americano è fuori discussione. E gli americani non stavano con le mani ferme.

Se capisco bene, l’obiezione fondamentale che tu facevi era di “realizzabilità’’. Cioè dicevi: “questo incontro è impossibile’’. È così?

No: io pensavo che per fare quella operazione bisognasse sviluppare molto di più l’aspetto della rivoluzione sociale rispetto all’aspetto dell’accordo politico: cioè che bisognasse riprendere e rilanciare il grande moto del ‘68, che non era ancora spento. Di quel moto la dirigenza comunista non affer­rò tutta la portata, né seppe trame le conseguenze. lo pensavo che dovessimo prendere atto della singolarità o stranezza della situazione italiana: nelle sue due facce. Una è che in Italia c’erano dei preti reazionari, feroci, che difen­devano il potere temporale e la conservazione sociale: di cui c’erano esemplari antichi e nobilissimi come il cardinale Ottaviani, e poi ceffi come Gedda. Ma a fianco a loro già negli anni Cinquanta erano sorte figure nuove ed emozionanti (ma che ebbero purtroppo vita breve) come Don Milani.

Tu vedevi il compromesso storico come qualcosa che ingabbiava questo processo: che gli dava uno sbocco politicista?

Esattamente. Politicistico. E lo vedevo come una formula che ci toglieva la possibilità di giocare la carta giusta, che era quella di una rivoluzione sociale che andasse incontro alle nuove domande, che sgorgavano da due fonti: la seconda mutazione capitalistica – il post-fordismo se vogliamo chia­marlo così – e la nuova dimensione “globale” che rimescola­va i soggetti e i luoghi dei saperi nuovi. Tutte le mie riserve sul cammino del compromesso sto­rico si ingigantirono quando diventai presidente della Camera. Presto avvertii – per esempio – chiaramente che la relazione tra Dc e Pci era affidata in gran parte ai colloqui tra Ferdinando Di Giulio (che era il vice-capogruppo e poi il capogruppo del Pci) e Franco Evangelisti (che era l’uomo di fiducia di Andreotti). L’incontro tra Di Giulio ed Evangelisti avveniva ogni mattina e – se posso usare questo termine – diventò una specie di istituzione riservata (ma non troppo). Di Giulio era una persona molto intelligente, Evangelisti era un fac­cendiere che si occupava della politica corrente. Si incon­travano ogni mattina sui divani del Transatlantico di Mon­tecitorio. E discutevano punti di mediazione, intese, intrec­ci da cancellare. Con questo rapporto di vertice ci si illudeva di poter aggi­rare ostacoli ben più corposi, che investivano nodi sostanzia­li: prima di tutto quell’intreccio tutto italiano (e spesso torbi­do) rappresentato dall’industria di Stato, che aveva impresso il suo timbro in larga parte alla modernizzazione dell’Italia, e ormai doveva misurarsi con la dimensione “globale” e la nuova ondata di tecnica innovativa che sbrigativamente noi chiamavamo “post-fordismo”. E in Italia non c’ era in campo solo la borghesia conserva­trice: c’era la parte reazionaria della Chiesa, o anche la Dc moderata ma ben radicata e coriacea. E soprattutto c’erano gli americani (Moro fu lasciato ad atten­dere lungamente in anticamera nell’incontro delle Hawaii), tutte forze che erano contrarissime all’accordo Dc-Pci. E per quel che ne so erano contrari anche i sovietici.

Quando eri presidente della Camera come ti comportasti di fronte a questa crisi?

Feci alcuni tentativi. Per esempio feci il tentativo di atti­vare un livello di potere laterale ma importante, e cioè il potere locale: quello che era chiamato “delle cento città”. Noi comunisti eravamo diventati forti nei Comuni e nelle Regioni. Avevamo da poco conquistato per la prima volta il posto di sindaco in grandi città come Roma, Torino, Napoli. Dirigevamo Regioni che incidevano nella lunga storia d’Italia, come l’Emilia, la Toscana, l’Umbria: luoghi vitali nello sviluppo del paese e che alle loro spalle aveva­no la memoria di grandi tradizioni socialiste. E anche luo­ghi di potere a grande autonomia come la Sicilia e la Sar­degna, che godevano di poteri speciali. Mi chiedevo se – nella partita che s’era aperta – non dovesse entrare in campo tutta questa rete che indicavamo col nome di “pote­re locale”, ma che aveva un grande peso in una nazione delle “cento città” come era l’Italia.

All’inizio degli anni ‘80 Berlinguer lascia la strategia del compromesso storico e lancia l’idea dell’alternativa di sinistra. È una svolta?

Si, ma restano i limiti di cui discutevamo prima, secon­do me. Resta il limite fondamentale: la valutazione inade­guata del livello sociale della battaglia. Berlinguer aveva un rapporto debole con tutta una componente sociale che tra il Sessanta e il Settanta aveva aperto un nuovo discorso socia­le sul lavoro, come luogo centrale dell’emancipazione umana, e avviata una lettura nuova, seppure ancora insicu­ra, dei mutamenti sconvolgenti del capitalismo post fordi­sta. Certo: ricordo bene che proprio quando cominciarono il tramonto del Sessantotto e la controffensiva guidata dalla Fiat, Berlinguer scese in campo personalmente: andò a parlare davanti ai cancelli della Mirafiori occupata dagli operai: e fu un incontro emozionante. Eppure, a mio avvi­so, egli non afferrò ancora la centralità del nuovo livello di scontro che s’era aperto, ad esempio, tra gli operai della Fiat e l’innovazione reazionaria di Romiti. E cercò, sì, l’in­contro con Moro, e dialogò con monsignor Bettazzi. Ma non provò a misurarsi col mondo a cui venivano rispondendo avanguardie come Balducci. Enrico è una figura che vede la crisi del conservatorismo cattolico. E tenta addirittura un’intesa di governo tra cattolici e comunisti: in una nazio­ne d’Europa, sede del papato e paese di frontiera tra Est e Ovest, e tra Nord e Sud: quindi luogo ultra sorvegliato dagli americani e dai sovietici. In un tal luogo pensare di poter vincere senza giocare la carta di nuove alleanze sociali e – lasciami dire questa parola presuntuosa -senza inventare possibili nuovi luoghi di potere, era illusione.

Sono due critiche opposte: avere mancato sul piano sociale e non essersi posto il problema del potere …

No, non sono opposte. Io le considero due critiche coordi­nate. Questo rimanda a un discorso che vado facendo nuovamente ancora oggi: per esempio quando mi capita di partecipare alle riunioni con i giovani insisto sempre e testardamente su una domanda: dob­biamo capire come si incide sui punti dove si prendono le decisioni: quelle vere: formali e di sostanza.

La critica a Berlinguer, dunque è una sola. Sia il Berlinguer del compromesso storico sia quello dell’alternativa manca nel legame sociale, nella capacità di fronteggiare il nuovo mondo produttivo …

Sì, manca nel cogliere le novità che si producono nel con­flitto sociale, e quindi in quello che una volta si chiamava il “legame con le masse popolari”. Può sembrare una afferma­zione ingiusta e persino paradossale, perché la popolarità di Berlinguer è stata enorme. I suoi funerali videro davvero un corteo immenso, una nazione in lacrime. Eppure io, in più occasioni decisive, ho avvertito in lui l’illusione di poter sca­valcare i problemi reali con una intuizione “tattica”. Così come era illusione pensare che si potessero eludere i tre gran­di nemici: la borghesia reazionaria italiana, l’amministrazio­ne americana e l’Unione sovietica. L’ostilità delle due grandi potenze fu decisiva. Quelle due metà del mondo avevano una formidabile rete di penetrazio­ne e di controllo nella e sulla politica italiana. E c’è una strana somiglianza tra le carenze del tentativo che fa Berlinguer, e quello che nello stesso periodo mettono in campo Moro e Zaccagnini (e forse persino uno come Piccoli) di portare a quelle nozze la Dc senza aprire una lotta interna, senza attac­care i luoghi di potere che dentro la Dc si battevano per una strategia diversa e opposta. Per questo essi perdono: perché non danno vera battaglia agli avversari. Non vanno a fondo delle questioni. Ricordo i colloqui che ho avuto in quegli anni con un fun­zionario della Camera che si chiamava Tullio Ancora, ed era un uomo di fiducia di Moro. Spesso io gli segnalavo proble­mi politici urgenti e lui mi recava in risposta l’opinione di Moro. Diceva Moro: “Si, è vero, ma non si può. Non ce la facciamo. Ci vuole tempo”. Sembrava una linea realista, ma non lo era. In verità Moro è andato parecchio avanti: ricordo, poco prima di morire, quel famoso discorso di Benevento, in cui egli mette esplicitamente sul piatto la possibilità di un incon­tro tra Dc e sinistra sul tema del socialismo. Per la prima volta dentro la Dc viene rinominata questa questione. E – a mio avviso – egli non alludeva solo a un governo coi socialisti e coi comunisti, ma al tema grandissimo del rapporto tra catto­lici e socialismo.

Hai detto che uno degli ostacoli fu l’Urss …

Sì. Forse io di questo mi accorsi tardi. Però a un certo punto la consapevolezza fu chiarissima. In ogni modo la vicenda della repressione di Praga fu un grande e sciagurato punto di verifica. Anche Longo lo vide: l’Urss non cambia: e non permette – nella sua area – che altri cambi. E questo modificava quasi tutto della nostra prospettiva politica. Praga fu una tragedia: prima c’era stata Budapest, poi venne la maz­zata di Praga che fu definitiva. E chiuse ogni ipotesi di resta­re amici stretti dell’Urss e al tempo stesso costruire una via nuova al socialismo in Europa. Io, la prima volta, ai tempi di Budapest, sbagliai clamorosamente: difesi i sovietici che aggredivano l’Ungheria. La seconda volta non sbagliai. Capii che si era chiusa una fase.

Poi si arriva. al ‘79, ci sono le nuove elezioni del Parlamento e tu non torni a fare il presidente della Camera. Perché?

Io a quel punto mi sono reso perfettamente conto del fatto che su sulle basi – diciamo così – del “compromesso storico” non ce l’abbiamo fatta e non ce la possiamo fare. E allora quan­do viene il momento della decisione di nominare il nuovo pre­sidente della Camera, e quando il partito mi chiede di tornare presidente, io dico di no. Ricordo una serie di colloqui lunghi e tesi con Berlinguer, a casa sua. Lui un po’ non capisce, un po’ tenta di persuadermi. Ma io avevo ormai maturato a lungo il mio no. Si arriva a una riunione di Direzione per prendere la deci­sione. E là, a un certo punto, si alza Ugo Pecchioli e dice: “Noi siamo abituati a vivere e operare in un partito nel quale quando il partito prende una decisione si dice sì e basta”. Insomma, mi accusò di grave, illecita indisciplina. Anni dopo, lui che era per­sona molto seria e leale, un giorno mi avvicinò e mi disse: “Ti ricordi quella volta che io ti rivolsi quell’attacco? Mi sbagliavo io. Non avevo capito … “. Devo dire che mi fece piacere. Comunque io ressi a tutte le pressioni, anche di Berlinguer. Mantenni la mia decisione di non candidarmi a presidente della Camera, perché ero certo che la politica del Pci non reggeva, e la prospettiva cosiddetta del “compromesso storico” ormai era in crisi. E volevo tornare a pensare, a cercare le cause degli errori, e le possibili vie di uscita. Per esempio: mi rendevo conto che in molti paesi d’Europa le cose erano andate diver­samente. Specialmente in Austria, in Germania, nei paesi scan­dinavi. Là la socialdemocrazia aveva trovato una sua via. Ce l’aveva fatta. Mentre noi no. Noi eravamo andati molto avanti nella presenza tra le masse ma non eravamo riusciti a costrui­re una prospettiva di governo e di rinnovamento sociale.

Berlinguer, secondo te, sottovalutò l’importanza delle socialdemocrazie europee?

Sì. Anch’io sottovalutai quell’importanza. Penso che non abbiamo saputo tessere un rapporto costruttivo con le social­democrazie europee e una prospettiva di lotta comune con esse. E non abbiamo capito abbastanza il tipo di esperienze sociali che avevano preso corpo in Nord Europa. Del resto abbiamo lasciato morire senza un sostegno reale anche il gra­cile tentativo dell’eurocomunismo: un errore che conferma ancora la nostra debolezza – di fatto – nella relazione con il nostro Continente, e nonostante l’eco mondiale che aveva suscitato il comunismo italiano.

Neanche Amendola capì il ruolo delle socialdemocrazie?

Secondo me neanche Amendola: lui era convinto che il problema vero fosse che il capitalismo italiano era arretrato: era uomo che aveva in mente soprattutto progetti di moder­nizzazione capitalistica italiana: almeno così penso. Lui poi era uno che voleva fare un socialismo suo, senza modelli; però diceva: “non tocchiamo l’Urss”. Mi sembrava che il filo ultimo del suo ragionamento fosse: “E’ vero, l’Urss non va bene, c’è stata Budapest, c’è stata Praga, c’è stata Kabul: però noi non dobbiamo impicciarci”. E questo francamente a me appariva pesantemente contraddittorio: duramente astratto, nonostante il suo continuo richiamo al realismo.

Il tuo quindi è un giudizio critico, su Berlinguer?

Penso che Berlinguer ebbe il forte merito di intendere fer­mamente il nodo, il problema di prospettiva che avevamo davanti. Capì la drammaticità del momento. Si rese conto che stavamo attraversando un crinale decisivo. E tentò una via di salvezza. Questo è un suo merito: e confesso che questo aspetto della sua posizione io non lo afferrai subito: e nem­meno il coraggio di alcune sue affermazioni. Per me più che lo scritto sul “compromesso storico”, la sua vera svolta fu quan­do rispose a una domanda esplicita di Gianpaolo Pansa, gior­nalista del “Corriere della Sera”, che lui si sentiva più tran­quillo sotto l’ombrello della Nato. Quindi – nonostante le apparenze – egli andò molto avanti nel giudizio sull’Urss. Però ho l’impressione che non tentò le alleanze interna­zionali necessarie. Restò chiuso in Italia. Anche l’idea del­l’eurocomunismo – che aveva una sua novità e segnava un forte attacco all’Urss – non mi pare che l’abbia vista come decisiva. Non ci puntò molto. Ebbi l’impressione di una sua adesione piuttosto formale, rituale. Il comunismo italiano ha faticato tanto a costruire un rapporto reale con la socialdemocrazia europea. E invece quello era un interlocutore neces­sario, o almeno un forte alleato possibile. Forse sono ingiu­sto. Ma Berlinguer non afferrò e non enunciò le condizioni per una possibile alleanza europea.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il centenario della nascita del leader Pci. Perché Berlinguer fallì: quando preferì i vecchi miti al riformismo. Umberto Ranieri su Il Riformista il 10 Giugno 2022. 

«Nel comporre storie dei nostri tempi, le passioni alterano la verità»? È l’interrogativo che si pone Benedetto Croce nel corso di una conversazione tenuta agli allievi dell’Istituto italiano per gli studi storici. Non si tratta di perseguire la assurda liberazione dell’animo umano dalle passioni né di discacciarle, concludeva il filosofo, ma di convertirle in virtù. Oggi è possibile una riflessione appassionata e insieme laica e critica sulla figura di Enrico Berlinguer a cento anni dalla nascita e sulla politica del Pci negli anni della sua segreteria. Laica perché libera la figura di Berlinguer da forme di sacralizzazione che lo hanno ridotto a una icona, critica perché fa emergere i limiti della cultura politica del segretario del Pci protagonista dell’estremo tentativo di «tenere in vita una tradizione politica che si stava disfacendo in quanto aggredita nelle sue fondamenta sia sociali che ideologiche». In quel tentativo si incarnano il suo prestigio e la sua tragicità.

Per i comunisti, il compromesso storico era lo sbocco di tutta la storia precedente del partito. La stessa vittoria elettorale del ‘75/’76 fu interpretata come qualcosa che veniva da lontano, il risultato di un lungo processo politico. Quella politica fu intesa dall’intero gruppo dirigente come la continuazione e lo sviluppo della linea di unità democratica. Occorreva riprendere il filo spezzato nel 1947 dalla guerra fredda e puntare a una nuova tappa della rivoluzione democratica e antifascista. Il compromesso storico non costituiva la risposta provvisoria a una situazione contingente ma una scelta che dava una forma definitiva al futuro politico del Paese. Berlinguer portava alle ultime conseguenze la tradizione togliattiana. Per Aldo Moro, il suo interlocutore nella Dc, l’unico elemento chiaro era preservare l’unità e la forza della Democrazia Cristiana. Qualunque sviluppo della vicenda politica italiana aveva come condizione per Moro che la Democrazia Cristiana restasse unita. Lo disse con chiarezza: «L’intesa con il Partito Comunista è compatibile con i vincoli internazionali dell’Italia, solo se la Dc conserva il suo ruolo di guida e di garanzia». Moro avvertì la necessità di un diverso tipo di rapporto con il Pci ma escludeva che la evoluzione della vicenda politica potesse muovere nella direzione auspicata da Berlinguer. La sua era «una manovra tattica accorta e intelligente che non comportava accordi di lungo periodo».

In realtà, il compromesso storico costituì il tentativo estremo del Pci di assumere il ruolo di forza di governo senza un ripensamento di fondo del proprio impianto ideologico e sarà la spia della difficoltà del Pci ad acquisire una visione della democrazia come dialettica di schieramenti alternativi in un quadro istituzionale comune.

Il retroterra culturale della proposta di alternativa avanzata dal Pci nel novembre del 1980 era lo stesso che aveva sorretto il compromesso storico: l’alternativa non era la proposta di uno schieramento politico e sociale che si candidava alla direzione del Paese in opposizione a quello guidato dalla Dc. Essa nasceva da una lettura pessimistica della società italiana che si riteneva investita da una crisi storica e dalla denuncia di una questione morale che si configurava come una emergenza democratica. Posta in questi termini, la proposta suscitava la netta contrarietà dei socialisti per i quali si risolveva nel passaggio dalla egemonia della Dc a quella del Pci. Berlinguer avvertiva che un’alternativa di governo avrebbe inevitabilmente richiesto una profonda trasformazione del partito, del suo ruolo, della sua identità. Una prospettiva che egli volle scongiurare.

Non sfuggirà al segretario del Pci il manifestarsi dei segni di un corrompimento della vita pubblica e farà di questo tema, con lungimiranza che deve essergli riconosciuta, uno dei motivi dominanti della sua battaglia negli ultimi anni di vita. Non riuscirà tuttavia a indicare una strategia politica in grado di dare una risposta praticabile ed efficace al vero problema all’origine dei fenomeni di degenerazione della vita pubblica e di invadenza dei partiti: un sistema politico da quarant’anni privo di alternanza. Da questa contraddizione il Pci non verrà fuori. Fu estranea al pensiero di Berlinguer l’idea di una trasformazione del sistema politico italiano in senso bipolare per consentire un meccanismo di alternanza nella vita del Paese. Prevalse la convinzione che fuori dall’assetto politico istituzionale entro cui si era sviluppato nel dopoguerra il Pci avrebbe rischiato la marginalizzazione.

Dopo l’esperienza della solidarietà nazionale, come osserveranno Pietro Scoppola e Giovanni Sabbatucci, il Pci, per candidarsi al governo, non ha più bisogno di un assetto consociativo. Il suo ruolo di governo non dipende da una legittimazione esterna ma dalla sua capacità di costruire, sulla base di un convincente programma, uno schieramento politico maggioritario. È questa la via per sbloccare la democrazia italiana. Per guidare la formazione di uno schieramento alternativo di governo il Pci avrebbe dovuto condurre alle estreme conseguenze la revisione ideologica. Qui si apriva la contesa nel Pci tra miglioristi (ancora non venivano definiti tali) e Berlinguer. Il Pci avrebbe dovuto trasformarsi, sulla base di un ripensamento ideale e culturale, in una forza socialdemocratica. Questa, nella sostanza, la posizione dei riformisti che, pur tra incertezze e contraddizioni, delineava una possibile alternativa alla linea berlingueriana. In realtà il Pci ritenne sempre di compiere il rinnovamento politico e culturale nel segno della continuità. Il nuovo si aggiungeva e sovrapponeva al vecchio lasciandolo sussistere.

Il risultato fu un impasto spesso contraddittorio e fonte di ambiguità. Alla affermazione fatta nel corso di una conferenza stampa televisiva sotto l’incalzare degli avvenimenti polacchi, che si era esaurita la spinta propulsiva dell’Ottobre, si accompagnò il rilancio della strategia della “terza via”. In quella stessa conferenza Berlinguer aggiunse che «gli insegnamenti fondamentali che ci ha trasmesso prima di tutto Marx e alcune delle lezioni di Lenin conservano una loro validità». Il segretario del Pci è ancora convinto che il comunismo sia da riformare e sia riformabile. Era il 1981. Berlinguer sembra dire ai militanti che la critica del socialismo reale non significa che si diventi socialdemocratici. Ricordo ancora l’impressione che fecero su di me, giovane segretario regionale di una regione del Sud, le parole di Berlinguer alla riunione del Comitato centrale dopo le elezioni politiche (ed europee) del 1979 in cui il Pci subì la prima sconfitta elettorale del dopoguerra. Berlinguer sostenne che il Pci non era una socialdemocrazia che si danna per qualche punto in più o in meno alle elezioni (ne avevamo persi ben quattro!). Noi eravamo il partito comunista! Un solo dirigente della generazione più giovane in quella fase sostenne una linea alternativa a quella di Berlinguer: fu Riccardo Terzi alla cui intelligenza politica vorrei rendere omaggio.

La preoccupazione di Berlinguer che lo strappo con l’Urss potesse essere vissuto come un cedimento fu talmente assillante che nel messaggio per il nuovo anno, su l’Unità del 31 dicembre di quel 1981, parlerà di decrepitezza della cultura riformistica, tuonerà contro il fallimento del riformismo che resterebbe per sua natura subalterno al capitalismo e concluderà con un richiamo alle virtù della diversità comunista in contrasto con i vizi e i mali altrui. Berlinguer non percepì la portata delle novità che stavano cambiando il mondo e il capitalismo. Le note e gli appunti di Tonino Tatò pubblicati da Einaudi restituiscono un universo concettuale in cui a colpire non è tanto la sopravvivenza di mitologie della tradizione comunista quanto l’emergere di una rappresentazione del mondo che mostra di non cogliere ciò che va maturando. Il capitalismo usciva dalla lunga crisi degli anni Settanta in forme destinate a mutare le caratteristiche di fondo della economia internazionale mentre al vertice del partito, era dominante la convinzione che fosse in atto una degenerazione della società occidentale.

Del resto, in un’altra famosa intervista, quella rilasciata a Scalfari il 28 luglio del 1981, Berlinguer sostenne che si dovesse «discutere in quale modo superare il capitalismo… esso oggi sta creando masse crescenti di disoccupati, di emarginati, di sfruttati. Sta qui al fondo la causa non solo dell’attuale crisi economica, ma di fenomeni di barbarie, del diffondersi della droga, del rifiuto del lavoro, della sfiducia, della noia, della disperazione». Insomma per Berlinguer il capitalismo era responsabile nientedimeno che del “male di vivere”! Eccessi ideologici che alimentavano miti e velleità. Mentre si proclamava la prospettiva dell’alternativa si accentuava nel corpo del partito una larghissima diffidenza verso i socialisti. In questo clima maturava la bruciante sconfitta alla Fiat. Una condotta politica che avrebbe fornito argomenti al Psi per ritornare alla collaborazione con la Dc.

La sua eredità non fu lieve, dal referendum sulla scala mobile la cui sconfitta determinò il mutamento profondo negli equilibri politici alla fatica che comportò per il Pci aprirsi all’idea di riforme istituzionali, all’illusione che resistette a lungo, soprattutto dopo l’arrivo di Gorbaciov, di una ripresa del comunismo come cultura politica e come sistema. E tuttavia, al di là di qualunque disaccordo, la mia generazione non può non serbare riconoscenza verso Enrico Berlinguer: in anni critici della storia dell’Italia repubblicana, quando erano in molti coloro che dichiaravano di non tenere né per lo Stato né per le Brigate rosse, montava la violenza e suggestioni estremiste si diffondevano tra i giovani egli fece del Pci un argine a questa ondata distruttrice. Né va smarrito, in un mondo politico che sembra usare la parola come elemento di manipolazione, la sua lezione di sobrietà, il rifiuto di ogni affabulazione, l’alto senso di responsabilità verso il Paese. Umberto Ranieri

100 anni dalla nascita di Berlinguer. La doppiezza comunista fu la fortuna del Pci. Biagio Marzo su Il Riformista il 9 Giugno 2022. 

Enrico Berlinguer morì a sessantadue anni e si stanno celebrando i cent’anni della sua nascita. Nel corso della campagna campale delle elezioni europee, a Padova, ebbe un malore che lo portò dopo pochi giorni al decesso. Per dirla con i versi di Garcia Lorca: “Sui gradini sali Ignazio con tutta la morte addosso. Cercava l’alba ma l’alba non era”. È stato un personaggio tra i più popolari, influenti, carismatici e iconici della sinistra internazionale e della cosiddetta Prima repubblica. Per ricostruire i passaggi più importanti della sua biografia politica di ci serviamo dell’interessante documentazione delle “Note e appunti riservati di Antonio Tatò a Enrico Berlinguer”. Tatò è stato l’ombra di Berlinguer. Gli anni presi in considerazione vanno dal 1969 al 1984. Per intenderci, dall’autunno caldo delle lotte studentesche e operaie agli anni di piombo, al rapimento di Aldo Moro, al referendum sul taglio dei tre punti della scala mobile fino al governo Craxi.

Del periodo che va dal ‘69 all’84 ci interessa considerare le carte relative al rapporto tra Pci e Psi, in particolare quelle che riguardano Berlinguer e Craxi. Due facce della stessa medaglia. Bettino Craxi, nel 1976, dopo la sconfitta elettorale del Psi sulla linea politica degli “equilibri più avanzati”, fu eletto, nel Comitato centrale di luglio, all’Hotel Midas, segretario nazionale del Psi. Succedeva a Francesco De Martino, portatore di una politica originale che il Psi pagò amaramente e come si disse allora: “Il Psi aveva scosso l’albero e il Pci e la Dc raccolsero i frutti”. Il segretario socialista espresse la sua linea politica in un fondo sull’Avanti! in cui attaccava l’esecutivo Dc e il Pri e apriva in modo soft al Pci, puntualizzando che per una partecipazione diretta al governo si sarebbe dovuto creare un diverso rapporto di forza tra i due partiti ( Pci e Psi ) nello stesso tempo, necessitava una maggiore autonomia dall’Urss del Partito comunista. A ben vedere, non c’era occasione in cui il bipartito non faceva “riverenze” al Pci e questo, da parte sua, le accettava di buon grado. Questo accadeva quando ormai da tempo Berlinguer era saldamente alla guida delle Botteghe oscure.

Berlinguer e Craxi erano due leader profondamente diversi sul piano caratteriale, politico e culturale. Il loro rapporto era segnato da una profonda conflittualità che va dall’ascesa di Craxi alla segreteria del Psi sino alla morte di Berlinguer. I due si conoscevano bene, visto che entrambi erano figli della sinistra storica. Nel dopoguerra il Pci e il Psi lavoravano gomito e gomito, stretti prima dal Fronte popolare e poi dal Patto di unità d’azione, ragion per cui gli esponenti dei due partiti si relazionavano combattendo per lo stesso ideale socialista a favore dell’emancipazione delle classi lavoratrici. Berlinguer e Craxi si erano formati in quel mondo, uno a Roma l’altro a Milano. Il giovane socialista aveva svolto il suo primo lavoro politico di funzionario nella sezione del Psi di Sesto San Giovanni; il giovane comunista, per dirla con una battutaccia di Gian Carlo Pajetta, si era iscritto direttamente alla Direzione del Pci. In concreto, non è così, fu responsabile dei giovani comunisti sardi e di quelli della Fgci nazionale.

Erano della stessa pasta, entrambi cocciuti nell’affermare le loro idee e decisi e intransigenti a esercitare le loro leadership. Entrambi si erano gettati anima e corpo nelle organizzazioni giovanili dei loro partiti, sacrificando gli studi, e non solo quelli, diventando dei professionisti della politica. Berlinguer era un leader legato al comunismo. Pur essendo un comunista di scuola italiana, di forti convinzioni democratiche, non rinunciava alla rivoluzione e, nonostante il continuo sbandieramento della “questione morale”, non disdegnava il finanziamento illegale delle Coop rosse, dell’import ed export verso il blocco comunista e i finanziamenti da Mosca, ossia dalla capitale di uno Stato nemico. L’apparato elefantiaco comunista aveva un costo salato, molto salato che assorbiva tante risorse.

Per Tatò, braccio destro di Berlinguer, contava solo la “questione morale” e la sua influenza fu negativa nei rapporti con il Psi che veniva definito in mille modi: dal socialfascismo al partito di avventurieri, ad occupatori di poltrone, ad arrampicatori politici… Insomma, tra il Burlesque e il Circo Barnum. La doppiezza comunista fu la fortuna del Pci. Senza questa qualità il partito comunista più grande dell’Occidente non sarebbe arrivato dove arrivò. Dunque, per dirla tutta, non partito della “questione morale”, che nell’idea originaria berlingueriana significava anche l’occupazione partitocratica della Stato, piuttosto della doppiezza. Dal canto suo, Craxi era un tipico socialista riformista gradualista di scuola liberalsocialista, che voleva governare il sistema Italia per modernizzarlo nel vero senso del termine. Ragion per cui, trovava l’ostilità della stragrande maggioranza dell’élite e dell’establishment, reazionari, conservatrici e dei radical chic.

Guarda caso, all’epoca di Tangentopoli vennero fuori con il loro vero volto giustizialista che trovò nel Pci-Pds l’interlocutore privilegiato. I giornali dei cosiddetti padroni del vapore e i giornalisti di sinistra fecero il resto. Insomma, il combinato disposto di mezzi di informazione del partito dei Pm funzionò sul vento della “questione morale” portandoci all’Italia populista di oggi. Craxi liberò il socialismo italiano dai lacci e lacciuoli del massimalismo per portarlo nel circuito del socialismo e della socialdemocrazia europea, allora col vento in poppa. Fu la grande stagione del socialismo di governo che segnò un’epoca, mentre il comunismo era arrivato al punto di non ritorno. Il breznevismo lasciò in eredità una crisi irreversibile del comunismo e c’è da chiedersi come mai Berlinguer non si accorse che il comunismo stava per tirare le cuoia. Nonostante ciò si schierò a favore dell’installazione dei missili sovietici SS20, il cui obiettivo militare era l’Italia e successivamente tentò di rianimare la sua politica, inutilmente, con l’eurocomunismo. In seguito, tentò di superarlo con la “terza via”.

Vero è che Berlinguer era comunista dalla testa ai piedi, disprezzava il socialismo riformista fino al punto che contestò, nell’ottobre del 1980, la relazione sui rapporti Pci e Psi di Natta in Direzione, accusando Craxi di guidare un partito di destra e non cambiò il giudizio fino alla morte. Tant’è che rifiutò il compromesso sul taglio dei punti della scala mobile propostogli dal leader socialista, mettendo in difficoltà il segretario della Cgil Lama e arrivando a tal punto da indire il referendum. Che perse. Il Pci si è battuto contro il capitalismo e prova ne sia che il segretario comunista lanciò, grossolanamente, la sfida dell’occupazione della Fiat e però Botteghe Oscure fu restia ad accettare, nel 1985, morto Berlinguer, la vendita sotto costo della Sme dell’Iri a Carlo De Benedetti, col portafoglio a destra e con il cuore a sinistra, si fare per dire. Craxi fu il primo presidente del Consiglio socialista che non trovò un accordo con Botteghe oscure. Anzi trovò di fronte a sé il muro di gomma comunista e se non bastasse il suo governo fu considerato uno dei peggiori della Repubblica italiana.

Con il rapimento Moro e suoi cinquantacinque giorni di prigionia gli schieramenti partitici si divisero e mentre Berlinguer era con il partito della fermezza, Craxi era per quello della trattativa, per liberare lo statista Dc dai suoi assassini. Alla vigilia delle elezioni del 1978, il segretario socialista propose la “Grande riforma istituzionale”, che poi nella riflessione sua e di Giuliano Amato – consigliere in questa materia – alternò tra il presidenzialismo all’americana e il semipresidenzialismo alla francese. L’idea della Grande riforma era concepita per smantellare le sovrastrutture consociative, specie quelle dei regolamenti delle Camere. Quello che non capì Berlinguer fu che Craxi iniziò a ragionare sulle contraddizioni della Prima repubblica per superare la centralità della Dc e sostituirla con quella del Psi per costruire in prospettiva con i comunisti la sinistra di governo.

Il leader del Pci rifiutò senza mezzi termini, posizionando il partito nelle secche dell’alternativa democratica. Dopo la seconda svolta di Salerno. Fatto sta che al di là del compromesso storico non andò e, finita la solidarietà nazionale, si trovò senza alcuna strategia. Berlinguer e Craxi avevano come stella polare la politica con la P maiuscola ed erano due “Hombres vertical” ognuno dei quali era figlio del Novecento e legati al cordone ombelicale: uno a quello comunista e l’altro a quello socialista. Sarebbe ingiusto dire che nella loro politica c’era opportunismo. Biagio Marzo

Tommaso Labate per il “Corriere della Sera” il 7 giugno 2022.

«Mi raccomando, cercate di non parlare in casa perché sarà piena di microfoni». Frammenti di storia che ritrovano un'attualità sinistra, a quaranta e passa anni di distanza. 

Nell'agosto del 1979, Enrico Berlinguer porta la famiglia in vacanza. Moro è morto da un anno e mezzo; dall'intervista al Corriere in cui il segretario del Pci aveva dichiarato di sentirsi più sicuro nella Nato di anni ne sono passati tre. La minaccia del terrorismo lo costringe a evitare la Sardegna. 

Si decide di andare in Unione Sovietica, passando in mare dalla Grecia. All'arrivo, sul ponte della nave, Berlinguer esclama: «Oddio, c'è Ponomarëv!», il dirigente del Pcus che si occupava dei partiti comunisti non al governo. Da lì l'indicazione alle figlie Bianca e Laura, «non parlate in casa perché sarà piena di microfoni», la concreta paura di essere spiati poi trasformata in una specie di gioco.

A cento anni dalla nascita di Enrico Berlinguer, Fabrizio Rondolino imprime su carta un «documentario» sulla sua vita (Il nostro Berlinguer. Racconti e immagini di una vita straordinaria , Rizzoli), selezionando da una sterminata pubblicistica le istantanee che ricostruiscono l'esistenza del leader più amato della sinistra italiana e superando i luoghi comuni dell'uomo sobrio fino all'austerità, silenzioso fino alla timidezza, severo fino alla tristezza. D'altronde, come disse il fratello Giovanni, «Enrico era allegro, gli piaceva divertirsi».

Quel divertirsi che si manifesta negli anni Trenta al Bar Sechi di piazza Azuni, a Sassari. Quando la leggerezza della quotidianità si impone su un'infanzia che rimarrà segnata dalla morte della mamma. «Il bar aveva una sala biliardo. Nel retro si giocava a carte. Poker o ramino. Lì Enrichetto faceva l'alba, perdendo somme notevoli e marinando la scuola» (la citazione recuperata da Rondolino è del Berlinguer segreto di Amedeo Lanucara). L'amore per il poker, caratteristica del Berlinguer privato, tornerà nelle parole del fratello Giovanni: «Sì, però non è vero che perdeva. E coi soldi si comprava i libri di filosofia. E la filosofia credo fu l'anticamera della politica».

Già, la politica. Nel 1944, presentatogli dal padre, Berlinguer conosce Togliatti a Salerno. L'anno dopo è a Roma, dirigente del Movimento giovanile comunista. Dirà il suo compagno Renzo Trivelli: «Mangiavamo assieme alla mensa. Enrico a volte estraeva un pacchettino con pecorino sardo e l'offriva a tutti. Spesso, dopo pranzo, scendevamo giù in strada a tirare quattro calci al pallone: cappotti e giacche in terra erano i pali delle porte». 

Compra un'Harley Davidson troppo grande per lui; quando arriva negli uffici della Direzione, i compagni della vigilanza lo aiutano a scendere e salire dal mezzo. Qualche mese dopo, accampando motivi di sicurezza, il partito gli proibirà di usarla. «Fu un dispiacere vero», si legge nelle pagine di Rondolino.

Il racconto segue un ordine cronologico. La morte di Togliatti, la successione a Longo alla guida del Pci, gli articoli per Rinascita sulla questione cilena, la solidarietà nazionale, la morte di Moro, la sfida con Craxi, i fischi al congresso socialista. 

Fino agli ultimi giorni, al maledetto giugno del 1984. «Il 30 maggio Berlinguer è allo stadio per la finale della Coppa dei Campioni fra la Roma e il Liverpool. Giuseppe Fiori lo incontra all'Olimpico e l'umore del segretario è eccellente: «Diversamente da tutte le altre volte, l'aspetto era d'un uomo nient' affatto esausto, anzi al meglio del vigore». 

Tre giorni dopo, in occasione della Festa della Repubblica, parla in tv adombrando un bis al Quirinale di Pertini: «È stato un grande presidente e torneremo a votarlo». 

Il 5 giugno si riunisce la direzione del partito, con la scelta di promuovere un referendum sulla scala mobile che passa «con un voto di stretta misura» (Luciano Barca). Il 7 arriva a Padova, per quelli che sarebbero stati l'ultimo drammatico comizio, il malore, il canto del cigno. La testimonianza dell'autista Alberto Menichelli, citata da Rondolino: «Salimmo in camera, si stese sul letto. Aveva conati di vomito, diceva che era la reazione alla cena di Genova. (…) Realizzai che "la cena di Genova" furono le ultime parole pronunciate da Berlinguer».

La sua coerenza illumina tutta una stagione politica. Il mio ricordo di Enrico Berlinguer, un omaggio alle sue contraddizioni. Bobo Craxi su Il Riformista il 3 Giugno 2022. 

La scomparsa di Berlinguer che avvenne nelle circostanze tragiche che conosciamo cinque anni prima della caduta del muro lo tenne a riparo dal confrontarsi con lo schianto delle società in cui dominava il Socialismo Reale; quelle che produssero un grande deficit democratico unito alla grande penuria economica. Questo non rende meno doveroso un omaggio a chi meglio ha saputo sintetizzare nella sua persona il legame fra l’esperienza dell’utopia comunista con le masse popolari Italiane.

Non dovendo innalzare un velo sulle differenze e sulle asprezze politiche intercorse fra i socialisti italiani, ben prima che fossero guidati da mio padre Bettino e i comunisti guidati da Berlinguer, penso sia opportuno – in occasione del centenario della sua nascita – valutare la figura di questo uomo politico italiano mettendo in risalto tutto ciò che di buono ha incarnato nella lunga stagione in cui ha rappresentato i comunisti italiani ovvero la forza politica di sinistra più radicata nell’Italia del dopoguerra. Evitando di fare bilanci “á rebours” nel quale far trasparire le luci e le ombre di un lungo percorso politico e di una Storia che soltanto evocata produce in sé “un giudizio storico” per dirla con Croce.

Berlinguer ha cercato di sottrarre il comunismo italiano da una totale sovrapposizione con il comunismo sovietico di cui intuiva i limiti, ma dovendosi muovere dentro una cornice ideologica dal perimetro chiuso e stretto ha confidato nella occasione offerta dalla crisi economica mondiale sfociata nelle risposte autoritarie sudamericane ed anche europee per fare appello alla necessaria coesione nazionale sviluppata come “compromesso” per bypassare la rigida imposizione bipolare costituita dall’equilibrio della guerra fredda che ha separato i due mondi. Dovendosi muovere su questo difficile crinale politico ed ideologico seppe trasformare il Partito comunista italiano in una forza che intuiva la necessità di cambiamento, ma non era in grado di esserne conseguente per le incrostazioni ideologiche e per il freno costituito delle analisi politiche troppo legate alla retorica della rivoluzione di ottobre e alla tarda visione marxista di una società nella quale non tanto il capitalismo in sé quanto le libertà si andavano affermando mentre invece le società comuniste apparivano abbondantemente deficitarie di slancio economico vitale e di decenti libertà civili, di movimento e di pensiero.

La stessa critica alla socialdemocrazia risentiva di un atteggiamento persino pregiudiziale, sia sul terreno di analisi economica “.. le socialdemocrazie” diceva alla fine degli anni settanta “si sono limitate alla gestione del capitalismo…” sia su quello strettamente politico nel quale non mancò di giudizi sprezzanti nei confronti dei socialisti italiani : “… il Psi è diventato il punto di riferimento per un’area neo-liberale, neo-socialdemocratica e persino estremista…”. D’altronde incalzato com’era dall’iniziativa del revisionismo socialista e dalla fine dell’esperienza della solidarietà nazionale, Berlinguer sembrò esser destinato più alla gestione e alla salvaguardia di mantenere saldo ed unito il proprio popolo, la grande area di consenso consolidata che rappresentava un tratto organico della società italiana, che offrire a tutto il paese una reale e concreta prospettiva di governo e di cambiamento.

Era ovvio che la crisi delle società del socialismo realizzato una volta entrate in crisi rappresentavano in ogni caso un freno e un ostacolo a sviluppare un cambiamento radicale che non rappresentasse una cesura traumatica con la tradizione e i presupposti della rivoluzione di Ottobre di cui ebbe a rivendicarne l’attualità nel 1981 ovvero ben 64 anni dopo. Berlinguer aveva un tratto umano che considero fu tanta parte del trasporto e della stima di cui egli era circondato, non parlo soltanto della venerazione dei propri militanti spinta ai confini del culto della personalità come spesso accade ai capi politici delle organizzazioni di massa, ma anche di tutti coloro, amici od avversari che riconoscevano nel suo carattere di anti-divo il carisma proprio di un leader che dissimulava la propria intransigenza dietro un aspetto sinceramente mite e gentile.

L’uomo non era affatto chiuso nelle sue tetragoni posizioni anche se il tatticismo sovente sovrastava le esigenze di cambiamento reale che le speranze suscitate nel Pci richiedevano. L’esigenza di richiamare l’intero sistema politico ad un confronto con la “questione morale” non si riferiva soltanto all’indignazione che suscitavano gli scandali e gli scandaletti della gestione quotidiana che non risparmiavano neanche il suo partito a livello locale, quanto alla denuncia, sacrosanta, di un’eccessiva pervasività del sistema politico nella gestione del bene pubblico che produceva il male della politica, il proliferare di clientelismo e malaffare. Invocare la “diversità” comunista, non lo metteva al riparo dal ritardo delle analisi su società occidentali che erano profondamente cambiate, e il solo richiamo al valore dell’onestà – mutuato poi dall’esperienza di Casaleggio – non rappresenta di per sé il tratto sufficiente per governare i cambiamenti con efficacia seppur resta necessario.

Altalenante nei suoi giudizi su socialisti e socialdemocrazie, convergente spesso sulle analisi di natura internazionale e non indulgente sull’adozione del criterio della governabilità come valore politico necessario in sé scambiato per compromesso di potere in particolare quando il compromesso non erano i comunisti a sottoscriverlo. Sono felici le intuizioni ed i suoi pensieri “lunghi” perché si capisce che era attraversato da molte curiosità e da tanti dubbi, c’è una bella descrizione finale dei rischi che collegano le società del capitalismo maturo. “Viviamo in un’epoca per molti aspetti suprema della storia dell’uomo sia per le possibilità che per i rischi. L’allarme non riguarda solo il rapporto tra lo Stato e l’elettronica ma riguarda anche i fiumi, i laghi, i mari, l’aria che respiriamo l’atmosfera e la troposfera della terra. Grava infine sull’umanità l’incubo di una crescente insufficienza delle risorse alimentari…”.

Ed ancora: “Quali furono gli obiettivi per cui è sorto il movimento per il socialismo? L’obiettivo del superamento di ogni sfruttamento e di oppressione dell’uomo sull’uomo, di una classe sulle altre, di una razza sull’altra, del sesso maschile su quello femminile, di una nazione su altre nazioni… la pace fra i popoli, il progressivo avvicinamento fra governati e governanti, la fine di ogni discriminazione nell’accesso al sapere e alla cultura”. Difficile non sottoscriverne in toto le parole. Ho un ricordo vivido di Enrico Berlinguer. In casa, lo voglio dire con grande sincerità, non ho mai sentito pronunciare una parola di ostilità nei confronti della sua persona, anzi. Fu molto bello quando nel pieno di una partita di calcio a Milano in cui sedevo fra lui e mio padre Bettino ad un certo punto quest’ultimo, che aveva preparata tutta la messinscena, gli si rivolge dicendogli che gli avrebbe voluto parlare.

I compagni avevano già preparato una sala all’interno di una cooperativa socialcomunista a Lampugnano non lontano da San Siro (Cervetti e Tognoli furono gli organizzatori dell’incontro). Berlinguer non fece una piega e poi si rivolse a me dicendo bonariamente: “Vedi? Tuo padre è prepotente, vuole farmi lavorare persino la domenica…”. Craxi non si perdonò la battuta teatrale che di fatto inasprì l’ira funesta dei socialisti al Congresso di Verona dopo i mesi della lotta senza quartiere condotta dai comunisti contro di loro nei luoghi di lavoro, nel sindacato, nelle fabbriche.

Un nuovo solco si creò a sinistra e non fu possibile nella storia poterlo superare. E infatti finì con la fine tragica delle due parti in lotta.

Rendo omaggio alla memoria di Enrico Berlinguer. La nobiltà della coerenza delle proprie convinzioni politiche, opposte alla disinvoltura della politica che abbiamo conosciuto in questi ultimi quarant’anni, fanno risplendere le personalità e le classi dirigenti che hanno costituito l’ossatura democratica di questo paese. Rimpiangerli non è una concessione retorica, ma un reale sentimento unito al bisogno di non dimenticarne la grandezza.

Bobo Craxi

100 anni dalla nascita del leader Pci. “Diventò Berlinguer in carcere, era un ribelle e Togliatti lo amò”, intervista a Fabrizio Rondolino. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Giugno 2022. 

Con Il nostro Berlinguer, un album di racconti e immagini del più amato leader comunista italiano, il giornalista Fabrizio Rondolino ci consegna l’esperimento di un genere nuovo, che unisce documenti e testo, scatti rubati e foto d’archivio. Un lavoro poderoso – 350 pagine, edito da Rizzoli – che sembra voler consegnare, come in una capsula del tempo, i ricordi migliori di una storia unica e irripetibile alle generazioni nate dopo Berlinguer.

Raccontare la storia politica con le immagini è una scelta stilistica coraggiosa.

Di mio in questo libro c’è poco, c’è stato un lavoro di montaggio, una ricerca di fonti e di foto eloquenti. Alcune iconiche, altre sconosciute e particolari. Lo definisco un documentario su carta.

Il documentario su una figura unica, nella storia della politica. Che non assomiglia a nessun’altra, che si fatica a inserire una categoria…

Era un ribelle. Questa è la sua prima categoria. Un ribelle che si è poi ribellato anche alle definizioni, alle compressioni della storia. Non ha avuto una formazione marxista classica, e anzi ha avuto una formazione irregolare, non lineare.

A scuola non brillava.

A scuola non andava bene, ma leggeva sempre tanto. Da solo. Di tutto. Lo zio Ettorino, un anarchico, lo affascinava. Fu lui a parlargli per primo di idee rivoluzionarie, mentre il papà, Mario, era stato tra i fondatori del Partito Sardo d’Azione. E quindi senatore socialista dal ’48 al ’68. Una famiglia dalla storia laica, mazziniana, risorgimentale.

Però nessun comunista, in famiglia. E men che meno tra i cugini Cossiga…

Da comunista, è autodidatta. Legge da adolescente il Manifesto del Partito Comunista. Da sardo, è attratto dalla figura di Gramsci, di cui però si iniziano a pubblicare i Quaderni solo dopo il 1948. Si forma con Kant e gli illuministi francesi. Una serie di letture significative, a partire da Kant. Perché tutti i comunisti amano Hegel. Lui no. E questo secondo me influirà sul suo modo di essere laico, tollerante e ironico. Le cifre del Berlinguer anche più maturo.

Perché diventa comunista?

Non tanto perché fosse comunista. Anche perché la Sardegna nel ’43 era un mondo a sé, non c’erano stati i tedeschi, non c’erano i partigiani. E allora rispetto a quella massa di lavoratori, di poveri, di analfabeti che emergevano dalle rovine della guerra, Enrico Berlinguer capì che doveva unirsi alla più grande forza popolare.

E fa della ribellione una rivalsa.

Il suo era un sentimento di ribellione contro la propria famiglia e la propria classe sociale. Poi c’è da tenere conto delle vicende della vita: gli muore la madre quando era ancora piccolo. E la sua spinta a uscire dal guscio della famiglia diventa disperata e urgente. Capì che la ribellione di uno non porta a niente, quella di tanti cambia la storia.

Quando inizia a fare politica? Nel libro troviamo bellissime foto di lui da ragazzo.

Con il carcere. Nel 1944 lui è a capo della sezione giovanile del Pci di Sassari. Ha 21 anni e si nota subito la grande energia, lo nominano segretario dei giovani. Pochi giorni e si trova alla testa di un assalto a un forno, seguito da violenti incidenti. Lui viene arrestato in casa, in quanto segretario dei giovani comunisti. La cosa era seria: vigeva la legge marziale, rischiò la pena di morte.

Che successe?

In carcere lesse molto e venne riconosciuto dai detenuti come il giovane politico che aveva messo in gioco la sua vita per dare il pane ai poveri. Quando uscì era già rispettato da tanti…

La vulgata dice che “si iscrisse giovanissimo alla Direzione”.

Non è così, appunto. Fece una bella gavetta. Pochi mesi dopo il carcere comunicò alla famiglia di voler dedicare la vita al partito, facendo attività politica tout court. Anche suo padre era parlamentare, sì, ma per i borghesi l’attività professionale andava preservata, lo studio legale Berlinguer rimase sempre attivo a Sassari. Lui decise di voltargli le spalle, di chiudere con il passato e di sostituire suo padre con Togliatti.

Una adozione platonica, una affiliazione?

Sì, ma fortissima. Mario Berlinguer e Palmiro Togliatti erano stati compagni di scuola, per un anno, quando il padre di Togliatti si spostò a Sassari per lavoro. Avevano legato e quando Togliatti era nel ’43 a Salerno, ecco che Mario presenta suo figlio Enrico a Togliatti. Che se ne innamora: ci vede l’animo ribelle in un figlio dell’alta borghesia, la miscela perfetta per quello che Togliatti stava cercando.

Cosa stava cercando?

Di conquistare i moderati e i borghesi. Di liberarsi dei partigiani armati, dei più facinorosi. La “generazione di ferro” cresciuta nella durezza della Resistenza e dell’esilio non andava più bene. Quindi cerca di acquisire, di “collezionare” il nipote di Giolitti, il figlio di Amendola, Maurizio Ferrara – il papà di Giuliano – che era a sua volta figlio di un deputato liberale, e il figlio dell’avvocato Berlinguer, azionista. Un quadrifoglio di talenti che estendevano il loro carisma su fasce elettorali più ampie del passato.

Per cosa si mette in luce il giovane Enrico?

Per due cose: l’impegno sul lavoro, con quattordici-sedici ore di lavoro continuativo, e la discrezione. Enrico scriveva discorsi, intesseva relazioni, studiava tantissimo. Un lavoro indefesso, instancabile. Togliatti da Salerno porta con sé a Roma il giovane Enrico. E appena nel 1945 si libera Milano, Togliatti lo manda lì per guidare i giovani comunisti del Nord. Con il compito non scritto di “normalizzare” il Pci, di smilitarizzare il fronte. Da lì a pochi mesi diventa il capo dei giovani comunisti italiani.

Una carriera spedita, un leader amato da tutti…

Ecco, questo no. Ha avuto almeno due momenti di brusca frenata. Nel 1956 dovette lasciare la Fgci ed uscì dalla Direzione del Pci: dopo l’invasione dell’Ungheria, si tenne una concitata assemblea dell’organismo dirigente; da un verbale molto stringato che ho potuto esaminare, si legge che il giovane Berlinguer ebbe il coraggio di difendere – lui solo, insieme a Di Vittorio – gli insorti di Budapest che si opponevano alla Russia. Apriti cielo. Lo mandarono a coordinare la scuola di formazione delle Frattocchie, praticamente in ritiro spirituale.

E il secondo stop?

Quando viene sospettato di ingraismo. Siamo nel 1966, lui è il responsabile dell’organizzazione e viene mandato a concludere il congresso della Federazione di Roma. A Botteghe Oscure si stava consumando uno scontro molto violento tra amendoliani e ingraiani. La linea della Direzione è di dare una bastonata agli ingraiani in modo definitivo. Lui va con questo mandato ma, inaspettatamente, fa di testa sua. E riesce a mettere d’accordo i litiganti. Realizza un compromesso, una convergenza tra le due correnti in lotta tra loro. Si infuriano Mario Alicata e Giorgio Amendola, che vanno dal segretario Longo e fanno convocare Berlinguer. La cosa ha conseguenze molto serie. Pochi mesi dopo c’è il congresso nazionale: tutto il gruppo dirigente viene confermato salvo Enrico Berlinguer, che per essere umiliato viene spedito in Sardegna a fare il vice segretario regionale.

Il Vaffa del Pci a Berlinguer. Da cui però, come dopo ogni caduta, Enrico Berlinguer si è saputo riprendere.

Le punizioni nel Pci non duravano mai troppo a lungo. E tutti gli riconoscevano un equilibrio di carattere raro: era un partito di prime donne, lui sapeva mediare con tutti. Ed aveva questa vocazione all’unità di intenti che seppe portare fuori, nel rapporto con la Dc.

Quello con Craxi fu uno scontro vero, invece?

C’era una difficoltà caratteriale, ma tra i due secondo le mie ricerche c’era grande stima. Si consultavano più spesso di quanto dicessero. Si appassionavano come ragazzini, nelle loro conversazioni, soprattutto sulla politica internazionale. Sulla quale c’era anche una intesa profonda. E sulla giustizia, si capivano più di chiunque altro.

Sulla giustizia?

Nel 1983 a Torino scoppiò una piccola tangentopoli ai danni di una giunta Pci-Psi. Le delegazioni dei due partiti, guidate da Craxi e da Berlinguer, si incontrarono fuori dai riflettori, in quella scuola delle Frattocchie che per Enrico era così famigliare. Stilarono un documento congiunto in cui Berlinguer fece scrivere: “Si invita la magistratura ad evitare strumentalizzazioni nelle inchieste in corso”.

Però nessun fronte comune verso Palazzo Chigi?

Berlinguer non muore da isolato profeta come qualcuno vuole far credere. Morì avendo in testa una strategia che puntava a dare al Paese una nuova stabilità all’insegna del progressismo, e su questa strada dialogò a fasi alterne con il Psi e con la Dc. E per la verità anche con i repubblicani di Spadolini, che per lui, di origine mazziniana, dovevano stare nell’albo di famiglia.

Un accordo sfiorato e mandato in aria dal fato.

Poco prima del comizio di Padova, dove morì, incontrò De Mita per dirgli: “Sono disposto a dare i voti del Pci se eliminate il referendum sulla scala mobile e proviamo a fare una maggioranza temporanea Dc-Pci-Pri fino alle prossime elezioni”.

In chiave antisocialista, quindi.

Perché la battaglia faceva leva sulla scala mobile. Ma c’era più stima di quanta non si pensi, con Craxi. Quando Minoli chiede a Berlinguer cosa pensava di Craxi risponde: “Un giocatore di poker”. Si pensò a un insulto, tutt’altro. Enrico era appassionato di poker, da ragazzo aveva guadagnato anche discrete somme, al tavolo da gioco. Per lui essere un bravo giocatore di poker era il miglior complimento possibile.

Poi la morte, improvvisa.

Sopraggiunta tagliando in due la storia della sinistra italiana, che dopo Padova non ha più trovato un nuovo Berlinguer.

Berlinguer non ebbe il tempo di indicare un successore, o sì?

Disse più volte, nell’83-84, che non voleva fare il segretario a vita, ma non indicò mai un successore. Il cambio sarebbe presumibilmente avvenuto nell’87, quando era previsto il congresso.

E perché dopo un gigante come Berlinguer si scelse un chimico ligure di seconda fila, Alessandro Natta?

Natta fu una scelta di continuità e insieme di transizione, vista l’età.

Perché hai deciso di affidare la tua narrazione di Berlinguer alle immagini? Un mezzo che riesce a parlare meglio alle nuove generazioni?

Ho affidato la mia narrazione anche, non solo alle immagini. E oltre alle foto ci sono volantini, tessere, memorabilia: un baule dei ricordi per i meno giovani, un’esperienza spero nuova per i più giovani.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Politici & antipolitici. Il ricordo di Berlinguer e De Mita nell’Italia dei populisti al potere. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 27 maggio 2022.  

L’interminabile faida grillina evidenzia la differenza tra i leader di ieri e i demagoghi di oggi: che quelli erano in grado di suscitare ammirazione anche tra gli avversari, persino a distanza di decenni; mentre questi si disprezzano pure tra di loro, già dopo dieci minuti. 

La coincidenza tra il centenario della nascita di Enrico Berlinguer e la morte di Ciriaco De Mita ci ricorda come un tempo leader politici diversissimi, schierati su fronti opposti, fossero tuttavia capaci di suscitare stima e apprezzamento molto oltre i confini dei propri partiti e del proprio tempo.

Quanto fossero diversi Berlinguer e De Mita, anche per quello che hanno rappresentato e ancora rappresentano nella coscienza collettiva, non dovrebbe esserci bisogno di dirlo. Basta comunque a ricordarcelo il fatto che la rottura con la Democrazia cristiana e con la stagione della solidarietà nazionale, sulla linea che culminerà un anno dopo nella famosa intervista a Repubblica sulla «questione morale», Berlinguer la inaugura nel 1980 proprio dai luoghi di quel terremoto in Irpinia che segnerà, in modo ben diverso, l’immagine di De Mita.

Fa però un certo effetto, oggi, assistere a tanti segnali di nostalgia e a tante rivalutazioni delle grandi figure della cosiddetta Prima Repubblica, a lungo così disprezzata. Un effetto tanto maggiore nel momento in cui il movimento che più di ogni altro ha lucrato sulla demonizzazione di quella storia e di quell’idea della politica, fondata sul ruolo dei partiti, va letteralmente in pezzi, nella stessa legislatura inaugurata dalla sua trionfale vittoria elettorale, al primissimo contatto con la prova del governo.

Mentre da un lato gli antichi avversari, nel ricordo dei militanti e dei dirigenti che li hanno seguiti o che li hanno combattuti, si tributano reciproci attestati di stima e persino di affetto, dall’altro parlamentari, ministri e dirigenti del Movimento 5 stelle non fanno altro che offendersi e scomunicarsi a vicenda, a un ritmo tale da rendere arduo ogni conteggio.

Non si fa in tempo ad appassionarsi alla vicenda dell’ex presidente della commissione Esteri Vito Petrocelli, schierato con Putin, che accusa gli altri di avere tradito gli ideali del movimento (non del tutto a torto, peraltro), che si presenta il caso del candidato a sostituirlo, fortunatamente senza successo, Gianluca Ferrara, autore di un libro in cui si parla degli Stati Uniti come dell’«Impero del male». Ma non c’è il tempo di chiarire nemmeno questo episodio (ammesso ci sia ancora qualcosa da chiarire), che spunta il deputato (e tesoriere) Claudio Cominardi, il quale pubblica su Instagram un bel graffito raffigurante Mario Draghi al guinzaglio di Joe Biden, suscitando la comprensibile indignazione del ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, e la meno comprensibile replica del leader, Giuseppe Conte: «Adesso non mi fate parlare di una foto postata. Mi hanno detto che si tratta di graffiti, non diamo importanza».

Ma non c’è tempo di soffermarsi neanche su questa interessante vicenda, perché esplode, in tutta la sua potenza cinematografico-letteraria, il caso Giarrusso, inteso come Dino. L’europarlamentare grillino se la prende infatti sia con Conte (il quale a sua volta lo accusa di volere solo poltrone e incarichi), sia con l’ex oppositore interno (ora forse sostenitore esterno, vai a sapere) Alessandro Di Battista, dopo avere coperto di contumelie quelli che prima di lui (lui Giarrusso, s’intende) avevano lasciato il movimento ma non avevano lasciato il seggio parlamentare. Cioè esattamente quello ha annunciato di voler fare.

È probabile che mentre questo articolo sarà in stampa (si fa per dire) il numero dei casi nel frattempo scoppiati e il numero degli scoppiati nel frattempo fuoriusciti (o rincasati, o rincasati e rifuoriusciti), sarà ulteriormente aumentato, com’è naturale e forse anche giusto che sia, in un partito nato da una cerimonia chiamata Vaffa Day. In fondo, è un ritorno alle origini.

La coincidenza temporale tra queste surreali vicende e il nostalgico ricordo di Berlinguer e De Mita ci segnala così anche la principale differenza tra politica e antipolitica, o per meglio dire tra i politici di ieri e i populisti di oggi: che quelli erano in grado di suscitare rispetto e ammirazione anche tra gli avversari più lontani, persino a distanza di decenni; mentre questi si disprezzano pure tra di loro, già dopo dieci minuti.

Enrico Berlinguer, che flop su Rai3. La conferma: il crollo della sinistra italiana. Gianluca Veneziani su Libero Quotidiano il 28 maggio 2022.

Sì, quando c'era Berlinguer la sinistra comunista prendeva percentuali più che dignitose. Sì, quando c'era Berlinguer, non ci si doveva accontentare di cifre da prefisso telefonico, o quasi. Ma ora che Berlinguer non c'è più anche i programmi che lo celebrano in modo a dir poco stucchevole restano inchiodati a numeri sotto la soglia di sbarramento della competitività televisiva.

Nel fiume di retorica commemorativa che ha inondato il piccolo schermo in occasione del centenario della nascita del segretario del Pci, la Rai ha rivoluzionato il palinsesto pensando a contenitori ad hoc, speciali serali, spazi di approfondimento. Credeva di poter fare bingo in termini di ascolti, magari solleticando il sentimento della nostalgia dei vecchi di sinistra, e contando sulla volontà di emulazione dei giovani che si affacciano oggi alla politica.

Il risultato invece è stato disastroso.

L'altro ieri RaiTre ha proposto in prima serata il documentario del 2014 di un collezionista seriale di flop, Walter Veltroni, dedicato al leader comunista e intitolato Quando c'era Berlinguer.

DISFATTA TV - Chi si aspettava che lo zoccolo duro e rosso di Telekabul avrebbe seguito con passione il tributo al leader comunista è rimasto deluso: il film veltroniano ha registrato appena il 3% di share con soli 561mila spettatori, classificandosi ultimo tra i programmi di prima serata sui primi sette canali. Per intendersi, Don Matteo 13 su RaiUno ha ottenuto un riscontro undici volte superiore, superando il 34% di share. Ma hanno fatto meglio del Berlinguer di Walter pure la non troppo accessibile lectio comica di Ale e Franz su RaiDue, Corso Sempione 27 (3,1% di share) e Transformers: L'ultimo cavaliere su Italia 1 (5,2%). L'omaggio al segretario del Pci addirittura veniva eguagliato dal vecchissimo Top Gun su Iris col 2,9% di share.

A penalizzare il documentario veltroniano erano i ritmi blandi del prodotto, con lo spazio lasciato a lunghissimi monologhi di Berlinguer e interviste lacrimevoli o zuccherose da cui il segretario comunista usciva come un santino. Per dirla con un giudizio tecnico, una palla mortale. Ma forse, a scoraggiare la visione, era lo stesso tema: siamo così sicuri chele vicende di un leader, ricordato ora perlopiù da una certa intellighenzia radical chic che ne ha tradito le residue istanze proletarie per mantenerne invita solo il supponente principio della superiorità morale, ora appassionino così tanto il pubblico, anzi il popolo?

Se fosse così, non si spiegherebbe perché anche Passato e Presente, il programma condotto da Paolo Mieli su RaiTre non abbia avuto alcuno exploit il 25 maggio, in occasione della puntata-omaggio a Berlinguer: solo un 3,1% di share e 381mila spettatori, al di sotto delle medie del format, tra il 3 e il 4%.

INSUCCESSI - Cifre residuali, come prevedibile, anche per i documentari in onda su Rai Storia in tarda serata il 25 maggio, Il giorno e la Storia ed Enrico Berlinguer 1972 -1984. E pure il ricordo di Umberto Broccoli su RaiDue durante I Fatti Vostri nella mattina del 25 non ha portato benefici di audience al programma, che galleggiava tra il 10,3 e il 10,9% per intendersi, il giorno seguente ha registrato medie tra l'11,5 e l'11,8%). Insomma, non c'è un fattore Berlinguer a galvanizzare gli ascolti e trascinare le masse davanti alla tv. Anzi, più che tifo o antipatia, sembra che il leader Pci oggi, forse anche per il tramonto delle ideologie, susciti indifferenza. E il paradosso è che la stessa Rai, che ha ricordato con tanta prosopopea Enrico, vorrebbe far fuori dai palinsesti sua figlia Bianca, "rea" di condurre Cartabianca con troppa disinvoltura (leggi eccessiva indipendenza dal Pd), ma con share doppi degli speciali dedicati al padre. Qualcosa scricchiola nell'egemonia culturale, tanto cara all'ex segretario Pci. 

Berlinguer compie 100 anni: voleva cambiare il Paese nel segno di Gramsci. L'editoriale di Nichi Vendola: «Diciamo così: tutto un secolo che ci sta sulle spalle, ci pesa, ci insegue, ci interroga, talvolta ci minaccia». Nichi Vendola su La Gazzetta del Mezzogiorno il 25 Maggio 2022.

Berlinguer compie cento anni. Diciamo così: tutto un secolo che ci sta sulle spalle, ci pesa, ci insegue, ci interroga, talvolta ci minaccia. Il Novecento e il post Novecento in cui siamo, in questi nostri frivoli, torbidi e drammatici anni Venti. Un secolo in cui le attese palingenetiche riposte in quel «rosso straccio di speranza» di cui scrive Pasolini ne Le ceneri di Gramsci verranno travolte dalle guerre mondiali, sequestrate dal fascismo e dal nazismo, falsificate e svuotate di senso dai regimi del cosiddetto «socialismo reale» e dal loro crollo rovinoso. Cento anni eppure le «belle bandiere» del comunismo italiano continuano a sventolare nell’immaginario collettivo, non smettono di stimolare la ricerca storica e il dibattito, riemergono come una peculiare «nostalgia di futuro» dalle secche di un presente livido e orfano di passioni, raccontando una storia straordinaria e singolare che seppe appassionare tanta Italia e tanto mondo. Nonostante il cupio dissolvi degli eredi politici e nonostante l’anticomunismo d’ordinanza, resiste una suggestione, una narrazione, persino una mitologia, come fossero dei semi piantati sulla terra e che continuano e forse continueranno a dare germogli.

Da Gramsci a Berlinguer, quella storia si è compiuta, la forma politica che ne fu forgiata si è esaurita, il loro «partito» è morto e non c’è resurrezione che non sia folclore: ma la loro «partita» no, è tutt’altro che chiusa o conclusa, direi anzi che è appena iniziata…

Enrico Berlinguer, il comunista italiano che ci ha fatto scoprire la dignità della politica. GIANNI CUPERLO, dirigente Pd, su Il Domani il 24 maggio 2022

Su Berlinguer c’è un pensiero di Mario Tronti che quella curiosità spiega come meglio non si può, «Si conoscono bene solo gli uomini che non sono niente di diverso da quello che appaiono».

A scorrere i titoli, solamente i titoli, si ha la percezione di quanto complessa sia stata quella vita e quella biografia, eppure la strategia politica del segretario Berlinguer è stata una, unica.

Enrico Berlinguer è stato sempre e sempre è rimasto un comunista italiano. Dove l’aggettivo non è dettaglio, ma sostanza. Quella matrice divenuta identità ne ha scortato l’esistenza e contrassegnato l’eredità.

Fin dalla sua nascita Domani ha cercato di riempire un vuoto: in Italia il dibattito pubblico è dominato da quarant’anni dalle stesse facce e dalle stesse opinioni. Per questo abbiamo cercato di trovare e dare risalto a prospettive, voci e idee più giovani e fresche. Soprattutto nelle pagine della cultura abbiamo dato fiducia a scrittori e scrittrici, artisti di ogni genere, per esporvi ed esporci a punti di vista spiazzanti, originali, per farci magari divertire, talvolta arrabbiare, sempre pensare. Se pensi che questo lavoro sia importante, aiutaci a farlo crescere con un abbonamento annuale. Così sarai parte della comunità di Domani.

GIANNI CUPERLO, dirigente Pd. Deputato del Partito Democratico dal 2006 al 2018, attualmente è membro della Direzione Nazionale del partito. È stato l'ultimo segretario della Federazione Giovanile Comunista Italiana e il primo della Sinistra giovanile.

IL LIBRO “LA SCORTA DI ENRICO”. Gli angeli custodi di Berlinguer sono il simbolo dell’utopia comunista. LUCA TELESE su Il Domani il 24 maggio 2022

Raccontare le storie di questi uomini (e del leader che hanno protetto) significa compiere un viaggio a ritroso, nella memoria, intorno alla figura di Enrico Berlinguer.

E infine bisogna provare a dire cosa fosse la mitica «vigilanza» di Bot­teghe Oscure e chi faceva parte di questo gruppo sele­zionatissimo di militanti che aveva l’onore (e l’onere) di costituire il nucleo centrale e incandescente, il noc­ciolo duro del Pci.

Uomini come Menichelli, e con lui i tre diversi nu­clei intorno a cui era nata e si era strutturata la scorta di Berlinguer (quello romano, quello toscano e quello emiliano), erano anche la sintesi della stratificazione di diverse generazioni e di diverse anime del Pci, l’auto­biografia involontaria di un partito.

Fin dalla sua nascita Domani ha cercato di riempire un vuoto: in Italia il dibattito pubblico è dominato da quarant’anni dalle stesse facce e dalle stesse opinioni. Per questo abbiamo cercato di trovare e dare risalto a prospettive, voci e idee più giovani e fresche. Soprattutto nelle pagine della cultura abbiamo dato fiducia a scrittori e scrittrici, artisti di ogni genere, per esporvi ed esporci a punti di vista spiazzanti, originali, per farci magari divertire, talvolta arrabbiare, sempre pensare. Se pensi che questo lavoro sia importante, aiutaci a farlo crescere con un abbonamento annuale. Così sarai parte della comunità di Domani.

Enrico Berlinguer, questo sardo esile e tenace, il suo tempo lo ha attraversato...

Da “il Messaggero” il 24 maggio 2022.  

Pubblichiamo in anteprima uno stralcio del libro di Fabrizio Rondolino “il nostro Berlinguer”, a 100 anni dalla nascista

Su Berlinguer è stato scritto tanto, tantissimo (...) abbiamo scelto in chiusura il ritratto di Vezio Bagazzini. Il suo minuscolo bar a due passi da Botteghe Oscure, ingombro di bandiere, ritratti, manifesti del pci (e della Roma) era, per chiunque lavorasse in Direzione o ci passasse per una riunione, un appuntamento irrinunciabile: «Er rapporto privileggiato co' Botteghe Oscure se deve ar bar e al calcio.

Lì c'erano 'n sacco de esperti di calcio, da Napolitano in giù. E Berlinguer era pure un grande appassionato: c'aveva simpatie pe' la Juve e pe' il Cagliari, e ogni tanto purtroppo i compagni della vigilanza lo portarono a vede' la Lazio. Quando iniziai a porta' i caffè a Botteghe Oscure, chiesi consiglio a Raparelli, mio padre politico, e a Testori Gino, detto er Cobra, come mi sarei dovuto comporta' se c'avessi avuto occasione di incontrare Berlinguer: loro, che c'avevano più soggezione di me, mi consigliarono di non parlare mai, di ascoltare.

E fu così che quelle poche vorte che lui passò de sabbato pomeriggio forse stava al Partito a preparare i suoi discorsi per la domenica io m' ammutolivo, nun me veniva artro che fa' qualche battuta sul calcio. Nonostante lui fosse molto gentile e sempre mi rispondeva di suo pugno agli auguri che io gli mandavo, non riuscivo a dargli del tu: perché me sembrava come dare del tu a Giovanni XXIII... (...) Mi ricordo che passava la giornata in quer buco d'ufficio e quanno se doveva riposa' andava in una stanzetta scarna che dava su via dei Polacchi, su 'na branda, con una umiltà francescana. Qualche battuta sui nostri figli si chiamano tutti e due Marco comunque la facemmo, e soprattutto sul calcio.

Lui aveva un piede buono e tutte le volte che poteva, tirava due calci sul primo prato che capitava. Ogni tanto scherzava sulla Roma, che è la mia squadra, e soprattutto mi raccontano che sfotteva Tonino Tatò sulla Roma che non andava mai bene. Quando ricordo il Berlinguer politico non posso fare a meno di piangere. È che lui si poteva trovare di fronte a 5000 o a 500 mila persone, come nei comizi dopo le grandi battaglie politiche, e sempre riusciva a comunicare con tutti. Come Gesù Cristo alla Pentecoste che si faceva capire in tutte le lingue.

Quando stavi sotto Botteghe Oscure lui sembrava che ti guardasse negli occhi, sapeva perfettamente quello che te mancava. Te ricaricava, te trasformava. Questo non l'ho più riscontrato co' nessuno. Sentivi che stava a cambia' qualche cosa è più forte di me, non riesco a trattenere la commozione te dava 'na carica incredibile. Come cazzo facesse lo sa solo lui...chi je scriveva i testi, chi lo consigliava no lo so. Ma quando parlava, porco Giuda, coi toni nemmeno enfatici nun era manco un grandissimo oratore sembrava che sapeva quello che c'avevi dentro: un problema coniugale, d'affitto, se c'avevi un problema de lavoro, se il figlio nun andava bene a scola... nu lo so: te volava via il tempo quanno lui stava a parla'; e poi uscivi che te sentivi ricaricato, la diversità era questa».

Francesco Specchia per “Libero quotidiano” il 21 maggio 2022.

Ci sono amicizie infrangibili, più infrangibili delle ideologie. Prendete l'amicizia -intrecciata a un romantico senso del dovere - tra Alberto Menichelli, Lauro Righi, Dante Franceschini, Pietro Alessandrelli, Torquato «Otto» Grassi, Alberto Marani e Roberto Bertuzzi: ossia il drappello di uomini che, all'ombra dell'allora teatro maestoso di Botteghe oscure, simboleggiarono la parabola di una parte d'Italia, dopo essere stati assegnati alla protezione dello storico segretario del Pci. Sono, costoro, i protagonisti de La scorta di Enrico - Berlinguer e i suoi uomini: una storia di popolo (Solferino, pp.418, euro 22) il libro-omaggio che Luca Telese dà alle stampe alla vigilia dei cent' anni della nascita del segretario comunista. 

Il nucleo del libro è Berlinguer, figura da sempre nel cuore Telese che ne sposò una figlia. E Telese, qui, affresca con passo di racconto per nulla agiografico, la vicenda stessa del Paese in cui si riflettono atti opere e omissioni della politica, del politico e della sua scorta, appunto.

«Era un gruppo fatto di uomini e di caratteri diversi», i migliori scelti dal partito, scrive Telese. «Franceschini il gigante buono, loquace. Lauro il taciturno con il cuore d'oro. Bertuzzi il ribelle orfano, che diventa il figlio adottivo del partito. Alessandrelli un militante umanissimo, capace di intuizioni sorprendenti. 

Marani e Grassi, i due giovani operai che arrivano dal far west comunista modenese. In questo gruppo Alberto Menichelli, il romano di Roma, il figlio burbero dell'apparato che governa tutti con la sua ironia sottile, crea il gruppo e lo guida: è un primus inter pares, ma anche un osservatore attento e curioso di ogni dettaglio».

E di ognuno dei guardiaspalle viene svelata, dalla fine della guerra agli anni '80, la vita madida di sangue, sacrifici, sudore e polvere da sparo. Al capitolo su Lauro Righi detto "Fila" il racconto si snoda in terza persona: «Nell'estate del 1944, in un paesaggio che ormai è diventato un fronte di battaglia e di guerriglia contro l'esercito tedesco e i loro alleati della Rsi, Lauro compie - ad appena sedici anni - la sua «scelta di campo». Comincia con qualche missione come staffetta. 

Poi va a piedi, camminando per oltre settanta chilometri, dalla sua casa fino alla mitica Repubblica partigiana di Montefiorino. Quando parte non sa esattamente dove andrà, e non sa nemmeno cosa troverà: ma sa a cosa si oppone, il fascismo. È la grande decisione della sua vita». Nella scheda compilata sudi lui dal partito si legge «Compagno retto e parsimonioso, che non si è mai trovato in difficoltà finanziarie pur inviando mensilmente una notevole parte del suo stipendio ai genitori, che versano in condizioni disagiate» (unico problema è la lingua: Righi parla soltanto il dialetto).

Alla voce "Dante Franceschini" l'uomo che riuscì a toccare la gobba di Andreotti durante i pedinamenti, spicca un aneddoto raccontato in prima persona durante la naja: «Un giorno, a me e a un altro ragazzo del mio corso arrivarono due pacchi dal distretto militare. Il mio amico aprì quello con il suo nome e tirò fuori un cappotto di panno grigio. Io estrassi dal mio una giacca color cachi. L'istinto del senzavestiti cronico che ero fu quello di avvicinarla subito al corpo, per farmi un'idea della misura. Perfetta. Una volta tanto era la mia. Non feci in tempo a concedermi un sorriso che dalla sua branda un romano, uno dei veterani, mi gridò: "A Franceschì, manna un telegramma a casa, finché puoi, che mo so cazzi tua!". E io: "Perché?". E lui: "Si t' hanno mandato la sahariana vor di' che domattina te ne parti pe' l'Africa"». 

Su Piero Alessandrelli, si ricostruisce il valore dell'antifascismo: «Il padre di mia moglie era un operaio specializzato anche lui, lavorava in una segheria di marmo. Si chiamava Abele, ma tutti lo conoscevano come Pioppo, perché era molto alto. Era anche lui un antifascista, e quando andavamo a trovarlo ad Alviano mi faceva trovare dentro casa una copia dell'Unità.

Per dare un'idea di quanto l'antifascismo fosse un sentimento radicato, dato che il padre della moglie di uno dei suoi figli era stato in una squadraccia (e aveva un'amante), lui gli aveva detto davanti a tutta la famiglia: "Io non ho mai dato l'olio di ricino ai paesani e non ho mai tradito mia moglie e tu, in casa mia, non ci potrai entrare mai"». 

Nello scorrere delle pagine, le vite della scorta si sovrappongono ai mille abbagli e alle mille scelte della storia d'Italia. Alcune indelebili. La volontà di Enrico di mettersi sotto il cappello della Nato (decisione che oggi appare oracolare) e di non schierarsi a favore dell'invasione d'Ungheria; il fallito Golpe Borghese e piazza Fontana; il terrorismo e il rapimento Moro; e prima l'attentato a Togliatti. Eppoi, il clima rovente del '68. 

E quello del '77, in pieno brigatismo. Eppoi, la marcia dei quarantamila della Fiat. A proposito della marcia. Interessante è la rilettura, attraverso la testimonianza di "Otto" Grassi, del "Discorso dei cancelli" di Mirafiori fatto da Berlinguer nell'80, dopo 35 giorni di sciopero che portarono all'autunno caldo finito con la Cig per 24mila dipendenti, e con la marcia dei 40mila quadri Fiat. Quella, allora, venne considerata una sconfitta del Pci.

Scrive, invece, con onestà, Telese: «Ecco perché anche il discorso ai cancelli non va giudicato con il metro degli anni Ottanta. Ma con quello degli anni Duemila. Con gli occhi di oggi, non con quelli di ieri: va pesato nel tempo in cui gli operai hanno abbandonato la sinistra, avvertendola come un corpo estraneo, e votano a maggioranza per la Lega, per il M5S, e adesso persino per il partito di Giorgia Meloni. Chiedo a Otto cosa avrebbe voluto dire a Enrico, quando in auto era rimasto in silenzio: "Che mi ero emozionato a vedere, lì ad ascoltarlo, gli operai dell'Emilia-Romagna, i miei compagni di Modena. Che aveva fatto una cosa giusta". In fondo la lezione dei cancelli, quarant' anni dopo, è semplice: un leader deve stare con il suo popolo. E ci sono momenti in cui ci deve restare anche quando non c'è la certezza di vincere».

Nella sottovalutazione - direi giusta - di Togliatti, Telese, per rendere fiammeggiante Berlinguer, evoca il Gramsci «tentato dall'interventismo nel 1914, insofferente all'immobilismo dei socialisti riformisti negli anni Venti, appassionato nel suo più celebre e romantico grido di battaglia, quello consegnato a un immortale editoriale della Città futura del febbraio 1917: "Odio gli indifferenti"». Ecco, a Luca l'operazione fiammeggiante è riuscita. Perché, comunque la si possa pensare, se c'è uno a cui questo paese - e questa sinistra- non potrà mai rimanere indifferente, be', quello è proprio Enrico Berlinguer. 

Simonetta Fiori per “la Repubblica” il 24 maggio 2022.  

«Enrico è stato il primo comunista che ho conosciuto, forse il secondo. Ho un ricordo nitido del nostro primo incontro: timido, austero, con quel rigore che caratterizza la sardità. Ma non riesco a liberarmi dal senso di dolore e sgomento dell'ultima volta, quando lo vidi nell'ospedale di Padova ormai senza coscienza. Un'immagine che ancora mi accompagna». 

Luciana Castellina sembra indifferente agli agguati della vecchiaia, il bel volto ancora perfettamente disegnato, la voce importante di chi è abituato a parlare nelle piazze. Ad agosto compie 93 anni, molti dei quali trascorsi in accordo e disaccordo con Berlinguer, il segretario del Pci di cui il 25 maggio ricorre il centenario della nascita. «Il nostro è stato un rapporto anomalo.

È lui che ci ha cacciati dal partito nel 1969. Ed è lui che ha insistito nell'84 perché noi del Manifesto vi ritornassimo. La sua scomparsa ha segnato il nostro destino, e quello della storia del paese». 

Il primo incontro fu subito dopo la guerra.

«Nel 1947, alla riunione del Fronte della Gioventù, come allora si chiamava il movimento dei giovani comunisti e socialisti. Io avevo 18 anni, lui 25. Era il capo del Fronte. Mi chiese timidamente di spostare delle panche per far posto a chi arrivava». 

Era timido?

«Non so se fosse timidezza o scarsa abitudine a stare con gli altri. Mi apparve subito meno socievole del fratello Giovanni, che avevo conosciuto a casa mia insieme al loro padre, un avvocato antifascista amico del mio patrigno. Enrico sembrava più chiuso. La sua ironia l'avrei scoperta più tardi». 

Cos' era la sua ironia?

«Un tono scherzoso, che gli evitava le rotture sul piano personale. Anche nei momenti più difficili sapeva alleggerire. E nella distanza politica la sua ironia impediva che la contrapposizione degenerasse in uno scontro violento». 

La timidezza traspare anche davanti al suo popolo in festa. Sembra sempre un po' a disagio, non alza mai il pugno. L'esatto contrario del tribuno populista.

«Questo è vero. Ma, attenzione, la sobrietà era una cifra dei dirigenti comunisti. Togliatti parlava come un professore di liceo, Enrico con uno stile scabro, asciutto. Mi ricordo una donna vicino a me ai suoi immensi funerali. Mi disse: nei suoi discorsi non ci sono mai i fronzoli, si vede che è sincero. Nel Pci non si gridava. Sia Togliatti che Berlinguer si sarebbero vergognati a usare toni urlati o a far leva sugli istinti più bassi». 

Avete lavorato insieme al primo piano di Botteghe Oscure.

«Sì, era il segretario della Fgci appena ricostituita, io poi sarei diventata direttrice di Nuova Generazione , il settimanale dei giovani comunisti. Ma lo vedevamo poco. Al cinema o in pizzeria, Enrico non veniva mai. Se ne stava chiuso nella stanza e noi andavamo a bussare alla sua porta solo se era necessario. Era difficile avere rapporti personali con lui». 

Che spiegazione si è data?

«Era già nella direzione del Pci, con una responsabilità importante, quando ci fu l'attentato a Togliatti. Questo significò per lui vivere a 26 anni sotto scorta, praticamente segregato».

Com' era con le compagne?

«Serio, rispettoso. In un universo che pure era caratterizzato da un'egemonia maschile, non ricordo uno sguardo di sufficienza. C'era tra noi un rapporto paritario. Sul piano più personale, vivevamo tutti dentro la gabbia del ruolo. A me non è venuto mai in mente di pensare a lui come uomo. E lui non mi guardava come donna. Faceva parte della nostra militanza comunista: non solo non avevamo rapporti sentimentali, ma non ci pensavamo proprio». 

Fu lui a scegliere come icona femminile la santa martire Maria Goretti, vittima di un omicidio a seguito di un tentativo di stupro.

«Sì, proprio lui. Ma non per puritanesimo sessuale. La scelse perché incarnava il valore della resistenza, per di più era cattolica. Certo, il partito all'epoca era molto bacchettone. Ricordo la faccia che aveva fatto Enrico a Praga, quando chiesi ospitalità a Bubi Campos Venuti, futuro urbanista, per un bucato. Dividevano la stessa stanza e Berlinguer restò perplesso davanti al filo steso con le mie mutandine. Dovetti combattere non poco all'interno di Botteghe Oscure per conquistare un rapporto più moderno tra uomini e donne». 

Ma sul biliardino era più avanti Berlinguer.

«Una parte di noi difendeva la natura politica dei nostri circoli, escludendone il profilo ricreativo. Ma Enrico aveva capito che mentre i giovani cattolici potevano disporre dei giochi in oratorio, i nostri militanti - per larghissima parte contadini poverissimi - sarebbero rimasti esclusi da ogni divertimento. Così ci impose il calciobalilla nelle sezioni del Fgci». 

Comprese per tempo anche che era opportuno creare un rapporto con i giovani democristiani.

«Per alcuni aspetti erano più avanti di noi. Scoprirono Gramsci quando noi non l'avevamo ancora letto. Da responsabile degli studenti universitari comunisti, su incarico di Enrico andai a trattare con Franco Maria Malfatti, che era il loro leader. 

Gli proposi di andare a Varsavia al congresso della federazione mondiale della gioventù. Ma lui vi mandò al suo posto Lucio Magri. Più tardi molti di loro sarebbero confluiti nel Pci». 

Lei prima ha detto che fu Berlinguer a espellere gli eretici del "Manifesto" nel 1969. In realtà tentò in tutti i modi di mediare.

«Cercò di trattenerci, consentendoci il dissenso all'interno del Pci a condizione però che rinunciassimo alla nostra rivista. Non voleva che anche i filosovietici facessero il loro giornale, cosa che gli metteva molta più paura. Noi non cedemmo e il partito ci espulse. Lui all'epoca era il vicesegretario, destinato a succedere a Longo». 

Ma non ci fu una rottura sul piano personale.

«No, con Enrico non ci furono mai toni aspri. Questo era il tratto umano a cui facevo riferimento prima. Anche durante i conflitti più accesi tra ingraiani e amendoliani evitava di schierarsi. Ma non certo per opportunismo. Aveva una sua forma di disciplina fortemente interiorizzata. E non assumeva atteggiamenti che avrebbero potuto incrinare l'unità del partito».

Indicò in uno del vostro gruppo, Luigi Pintor, il giornalista italiano più bravo. E sarà sempre Pintor a scrivere sulla sua morte a Padova: sarei voluto essere sul palco a sorreggerlo.

«A tenerli uniti più della politica era la sardità. Non credo si siano frequentati molto. Caratterialmente diversissimi, c'era tra loro una silenziosa e intima connivenza».

Con il gruppo del "Manifesto" avete fortemente avversato il compromesso storico. A distanza di quasi cinquant' anni nessun ripensamento?

«No, per niente. Fu un errore. Enrico non aveva capito nulla del Sessantotto e delle spinte che arrivavano dagli studenti e dal movimento operaio. E confuse il mondo cattolico con la Democrazia Cristiana, un partito dove allignava anche la corruzione». 

Berlinguer avrebbe fatto della "questione morale" un tema politico centrale.

«Fu proprio allora, al principio degli anni Ottanta, che cominciò il nostro riavvicinamento. Accusato da una parte del suo stesso partito di moralismo, in realtà fu il primo a vedere il deterioramento del sistema democratico in Italia. In una famosa intervista su Repubblica a Eugenio Scalfari, nel luglio del 1981, denunciò l'occupazione dello Stato da parte dei partiti, ridotti a macchine di potere e di clientela».

Tra voi erano venuti meno i motivi di contrasto.

«Sì, a cominciare dal rapporto con l'Unione Sovietica con cui nel frattempo aveva rotto. L'ultimo Berlinguer è quello più a contatto con i movimenti sociali. Fu tra i primi leader politici ad avvistare la questione ecologica: l'austerità era la formula con cui voleva porre limiti allo sviluppo anche per affrontare l'emergenza ambientale». 

E poi ci fu anche la scoperta della questione femminile.

«Si presentò a un seminario della Libreria delle donne a Milano e per due giorni ascoltò le teorizzazioni delle femministe più radicali. Ormai quasi su tutto eravamo sulle stesse posizioni. Nell'84 venne al nostro congresso del Pdup e chiese a Lucio di rientrare nel partito. Poco dopo sarebbe mancato». 

Lei era a Trieste quando fu colpito da ictus durante un comizio in piazza delle Erbe a Padova.

«Partimmo l'indomani all'alba con Tortorella. Lo vidi sul letto intubato, accanto i figli ancora piccoli. Non sono mai riuscita a liberarmi da quell'immagine di dolore e sgomento. Fu per me un lutto personale e un lutto politico. Con la perdita di Enrico tramontava il nostro progetto comune». 

Ancora si discute dei limiti della sua azione politica e delle sue fondamentali aperture. Ma a distanza di tanti anni resta indiscutibile la tempra morale. E la coerenza.

«Sì, anche tra i più giovani è ancora molto viva la sua immagine di onestà e di integrità morale. Per tutti noi la politica è stata innanzitutto "la scoperta degli altri", e questo continua ad affascinare molto i ragazzi»

Ti voglio bene. Quando Benigni prese in braccio Berlinguer e un po’ cambiò il mondo. Mario Lavia su L'Inkiesta il 24 Maggio 2022.

Un ricordo personale è forse il modo meno retorico per celebrare il centenario della nascita del segretario del Pci, avvenuta il 25 maggio 1922. Di quella manifestazione del 1983 al Pincio, che influì sulla percezione della sua immagine tra le masse, sarebbe rimasto solo questo gesto.

Noi che eravamo sul palco guardammo subito con timore Tonino Tatò, che era il segretario particolare, l’ombra di Enrico Berlinguer. Lui si voltò, sorridendo, fece con la mano come per dire “okay”, aveva capito la nostra ansia. Perché la scena era stata incredibile, inverosimile, assurda: Roberto Benigni, famoso per la sua comicità surreale, aveva preso in braccio il Segretario Generale del Partito Comunista Italiano! Era il 16 giugno 1983, sulla magnifica terrazza del Pincio, a Roma. Il ricordo personale di quel pomeriggio è forse il modo meno retorico o scontato di celebrare il centenario della nascita di Enrico Berlinguer, nato il 25 maggio 1922.

Tutti hanno visto la fotografia di quella “sollevazione” che forse per la prima umanizzò in modo così plateale il leader del Pci, o meglio desacralizzò la figura del capo comunista («Questo è un comunista autentico!», aveva urlato il comico toscano prendendolo in braccio): oggi è difficile da capire ma quello era ancora il tempo dei grandi leader, dei capi politici, tanto più nel mondo della sinistra, del Pci, dove il Segretario era la Guida, anche se criticata anche all’interno senza tanti problemi; e poi Enrico Berlinguer aveva quel tratto di “Capo” che la sua gente sentiva vicino e al tempo stesso distante come appunto un “Capo” deve essere. Ma chi avrebbe osato prendere in braccio Togliatti o Longo, o Nenni o De Gasperi? La cosa di Benigni riuscì perché non era minimamente preparata, nemmeno lui aveva pensato a quel gesto clamoroso. Riuscì anche perché il segretario del Pci stette al gioco e con grande divertimento («La cosa più sbagliata che dicono di me? Che sono triste, perché non è vero», disse a Giovanni Minoli). Quello di Benigni fu un colpo di genio che è restato nell’album della politica italiana come il grande “gesto laico” nella chiesa comunista.

Ma ecco come andò tutta la faccenda. In vista delle elezioni politiche, il Pci di Roma e noi della Fgci romana decidemmo di organizzare una manifestazione-concerto a Villa Borghese, al Pincio, location molte altre volte utilizzata (nel lontano 1975 lì si tenne una Festa della Fgci a cui prese parte Pier Paolo Pasolini che tenne uno dei suoi ultimissimi discorsi pubblici perché morì tragicamente qualche mese dopo), e noi giovani puntammo – anche all’epoca era all’ordine del giorno – sul tema della pace e del disarmo. Era l’epoca della battaglia contro i missili a Comiso.

Doveva essere una cosa grossa perché avrebbe parlato Berlinguer. Grazie a Goffredo Bettini e Walter Veltroni (che erano già dirigenti del Pci ma erano anche stati entrambi segretari della Fgci di Roma) si mise su un cartellone di tutto rispetto: Roberto Vecchioni, il Banco del mutuo soccorso, Nada, i Nomadi, Luca Barbarossa e appunto Roberto Benigni, tutti artisti che suonarono gratis o poco più, erano tutti elettori del Pci. Tra gli oratori parlò anche Natalia Ginzburg, che era candidata al Parlamento, fece un breve ma denso discorso sui pericoli che correva il pianeta per effetto del riarmo nucleare. Qualcuno negli anni passati ha scritto che non c’era molta gente, ovviamente non è vero, all’epoca il Pci era in grado di portare molta gente in piazza: con Berlinguer poi, e a poche settimane dal voto! Il Pincio era strapieno.

La preparazione era stata meticolosissima. Tatò chiese a Bettini una traccia del discorso che Berlinguer avrebbe tenuto, e Bettini mi coinvolse, così che quel pomeriggio al Pincio sentii che qualche frase che avevo scritto io era rimasta nel testo pronunciato dal segretario del Pci. Nei giorni precedenti eravamo andati Bettini e io a Botteghe Oscure per discuterne con Tatò e tra l’altro ricordo che siccome avevo scritto del movimento per la pace come di “un soggetto politico”, Tatò mi sorrise dicendo: «Eh no, “soggetto politico” Berlinguer te lo cassa…»: era gergo ritenuto troppo “di sinistra”. A un certo punto telefonò Eugenio Scalfari: c’era stato un sondaggio su Repubblica non positivo per il Pci (i primi sondaggi, era un’altra epoca) e Tatò con quella sua bonomìa romanesca gli disse: «Eugè, è inutile che giocate a poker, tanto vinciamo noi».

Beh, a vent’anni sono episodi che ti colpiscono. Insomma, arriviamo al fatidico giorno molto tesi. In effetti, di primo pomeriggio di gente non c’è n’era molta. Poi aumentò. Quelli del Banco furono molto bravi, come pure i Nomadi, che suonarono la sera dopo il comizio di Berlinguer. Nada cantò con la base registrata nel pomeriggio ed era carinissima, un po’ troppo punk per i comunisti. Dopo i musicisti e i vari interventi politici toccò a Benigni che attaccò con i suoi discorsi al tempo stesso astratti e realisti, le battute contro la Dc e i socialisti, un po’ le solite cose. Tutti i dirigenti erano sul palco, Renato Nicolini, l’amato inventore dell’Estate romana, era il “presentatore” della manifestazione. Nel frattempo era arrivato anche Berlinguer, con Tatò appunto.

Io ero sulla sinistra, guardando il palco, non lontano da Veltroni (che credo si veda in qualche fotografia allargata, vicino alla batteria dei Nomadi). Bene, Benigni va avanti, il pubblico si era scaldato con le sue battute. Comincia a elogiare alla sua maniera e con il suo accento fiorentino Berlinguer, che era lì vicino, dice qualcosa sul fatto che il segretario del Pci era esile – «oh, lo si può prendere in braccio» –, i due si guardano, si capiscono, forse l’attore gli fa come per dire “posso?”, è una frazione di secondo, poi fa un passo, lo solleva, il leader comunista gli si aggrappa al collo, scattano decine di flash, urlo della folla, Berlinguer ride di gusto, scende giù dalle braccia di Benigni e dice: «È andata bene, non sono caduto…».

E attaccò il suo discorso. Benigni sotto il palco era raggiante. In un secondo erano cambiate molte cose. Il significato politica di quella nostra manifestazione non è passato alla storia, ma quell’immagine di Benigni con il Segretario in braccio cambiò per sempre la percezione che grandi masse avevano di Enrico Berlinguer, che entrava nel suo ultimo anno di vita. Ma questo noi quel giorno non potevamo saperlo.

L'eredità di Berlinguer imbarazza il Pd. Marco Gervasoni il 26 Maggio 2022 su Il Giornale.

Berlinguer ti voglio bene. Il titolo del vecchio film con Roberto Benigni traduce bene il sentimento delle rievocazioni di ieri, centenario della nascita del leader comunista.

Berlinguer ti voglio bene. Il titolo del vecchio film con Roberto Benigni traduce bene il sentimento delle rievocazioni di ieri, centenario della nascita del leader comunista. Ti voglio bene, appunto, ma non ti amo (più). È stato certo opportuno ricordare l'uomo politico, perché, per citare il presidente della Repubblica, «fu un protagonista della vita del Paese», ma l'atmosfera in casa piddina ci sembrava quella di chi fosse pronto a imbalsamare (metaforicamente) l'ultimo vero capo comunista italiano. Il Pd ha dimenticato Berlinguer, come Miriam Mafai riteneva dovesse fare la sinistra? Sì e no. Sì, perché la sua figura, soprattutto nelle parole di Enrico Letta, è stata inserita in una teca e non sembra avere più molto da dire. No, perché in realtà il berlinguerismo, o almeno alcuni suoi aspetti, sembra ancora nel sangue non solo degli ex comunisti ma persino degli ex Dc, come Letta appunto. Basti pensare al giustizialismo, alla questione morale, al rapporto magistratura-politica, alla presunzione di superiorità etica: il Pd non sembra essersene discostato molto, anche se i 5 stelle si sono impadroniti della versione più selvaggia di questi temi.

Sono questi i «valori» di Berlinguer a cui il Pd afferma di ispirarsi? L'altro elemento, toccato non a caso di sfuggita nelle rievocazioni, ma fondamentale, visto il momento attuale, è il rapporto tra Berlinguer e la Russia, allora sovietica. Abbiamo ascoltato di nuovo la leggenda dello «strappo» da Mosca. E scriviamo leggenda perché così risulta dagli studi, già di qualche anno fa, di Silvio Pons, uno dei massimi storici del comunismo internazionale, ma soprattutto a lungo Direttore della Fondazione Gramsci, una fonte non sospetta. Carte d'archivio (anche sovietiche) alla mano, tutto questo atlantismo di Berlinguer non risulta: anche perché egli fu, nella fase finale della sua vita, in prima fila con il Pci a opporsi alle basi missilistiche dell'Alleanza atlantica, come quella di Comiso.

Quei movimenti pacifisti a senso unico non ragionavano molto diversamente da quelli che oggi parteggiano per Putin: e, in ogni caso, ostacolare quelle basi voleva dire oggettivamente schierarsi con l'Urss, come disse allora il presidente francese Mitterrand (che pure voleva bene più a Berlinguer che a Craxi). Questo va ripetuto, visto che il Pd, oggi meritoriamente atlantista, come tutti i neofiti tende a impartire lezioni a chi atlantista lo è sempre stato: vedi le critiche di qualche giorno fa a Berlusconi. Non a caso, in una parte della sinistra diffusa, questi sentimenti anti-americani e neutralisti, che erano di Berlinguer, sono ancora ben vivi. Non aver finora toccato l'argomento, da parte di Letta, è un segno di debolezza. O almeno di scarsa chiarezza. Marco Gervasoni

Berlinguer, il tormento e la memoria. Euronews Italiano il 25 maggio 2022. 

Dal compromesso storico alla "lezione morale". Dall'allontanamento dall'Unione sovietica alla necessità di avvicinarsi alla Nato. Enrico Berlinguer, che celebriamo nel giorno del centenario dalla sua nascita, il 25 maggio 1922, è stato uno degli attori principali della storia della cosiddetta Prima repubblica italiana. 

A 26 anni entra nella direzione del Pci e dopo un solo anno diventa segretario generale della Federazione dei giovani comunisti italiani. Nel 1958 è già vice segretario, sotto Togliatti, nel 1960 responsabile dell'organizzazione del partito, e nel 1972 segretario nazionale. Lo rimarrà fino alla sua morte, nel 1984, causata da un ictus durante un comizio a Padova.

"Un duro avversario, ma un uomo corretto e responsabile", lo definì Giulio Andreotti in uno dei suoi libri della serie Visti da vicino, in cui dedica un intero capitolo al segretario del partito comunista che più di tutti si prodigò nella ricerca di un compromesso, appunto, tra i valori e gli ideali del socialismo e la necessità di guidare il Paese in uno dei momenti più bui della sua storia, dopo l'attentato di Piazza Fontana e durante gli anni del terrorismo.

Lo stesso Berlinguer, in un articolo pubblicato su Rinascita all'indomani del colpo di stato in Cile che destituì Salvador Allende, scrisse: "È il problema delle alleanze, dunque, il problema decisivo di ogni rivoluzione e di ogni politica rivoluzionaria, ed esso è quindi quello decisivo anche per l’affermazione della via democratica". 

L'eurocomunismo di Berlinguer

Da qui la sua capacità di non appiattirsi aprioristicamente su un modus operandi, quello dell'Unione sovietica, che ebbe il coraggio di condannare in occasione della repressione dell'invasione in Ungheria nel 1956 e, successivamente, dell'invasione a Praga nel 1968. 

Non a caso, nel dodicesimo congresso del Pci nel 1969, tre anni prima di diventarne segretario, Berlinguer paragonò l'evento al quinto congresso, il primo dopo la Liberazione, e all'ottavo, qualche settimana dopo l'intervento sovietico in Ungheria. E in seguito, nel giugno dello stesso anno, fu il primo leader europeo a esprimere apertamente critiche nei confronti dell'Urss nel corso della Conferenza internazionale dei partiti comunisti. Leonid Breznev, al tempo capo del Partito comunista sovietico, dopo l'intervento di Berlinguer uscì indispettito dall'aula. 

Il primo di altri strappi, tra cui si può anche menzionare l'affermazione, a Roma, nel luglio 1975, insieme a Santiago Carrillo, alla guida del partito comunista spagnolo, che il vero socialismo si basa sul più ampio confronto tra tutte le forze politiche, socialiste, socialdemocratiche, cattoliche. Nello stesso anno il direttore della Cia William Colby confidò al Consigliere per la Sicurezza Nazionale Henry Kissinger che vi era stata una significativa riduzione dei fondi destinati al Pci da parte del Pcus: Berlinguer, secondo la nozione dell'eurocomunismo, propendeva per una maggiore collaborazione dei partiti comunisti europei affrancandosi da quello sovietico. Fino ad arrivare a dire in un'intervista a Giampaolo Pansa del Corriere della sera: “Mi sento più protetto sotto l’ombrello della Nato”. 

Il compromesso storico

Da quando, nel 1972, Berlinguer divenne segretario del Pci, avviò un processo di dialogo sempre più fitto con la Democrazia cristiana, parte di un progressivo allargamento del bacino di elettorale del Pci, grazie soprattutto alla capacità di Berlinguer di portare al suo partito voti non solo dell'elettorato tradizionale, proletari, operai e salariati, ma anche di una parte di ceto medio, a cui espressamente si rivolse: "Pur essendo necessario un approfondimento differenziato da zona a zona, la possibilità di una alleanza permanente della classe operaia con strati del ceto medio della città e della campagna è determinata da una convergenza di interessi economici e sociali che trae origine dallo sviluppo storico e dalla attuale struttura del capitalismo", scrisse nel 1973.

Alle elezioni del 20 giugno 1976, le prime in cui l’età minima del voto venne abbassata da 21 a 18 anni, il Pci ottenne il suo massimo risultato storico alle politiche, 34,4 per cento, senza tuttavia il “sorpasso” sulla Democrazia Cristiana, che prese il 38,7 per cento. 

Cent'anni fa a Livorno nasceva il Partito Comunista Italiano

Per la prima volta si aprì dunque un tavolo di trattative per spartire le cariche delle istituzioni repubblicane, e Pietro Ingrao, prima volta nella storia per un comunista, ebbe la presidenza della Camera dei deputati. Il Pci ebbe quindi, grazie al lavoro di mediazione di Berlinguer, un peso negoziale notevole su molte decisioni prese dal governo Andreotti. 

Nel 1978 questo lavoro di mediazione culminò con il fallito tentativo del Compromesso storico, che avrebbe portato a un governo della "balena bianca" supportato per la prima volta dai comunisti. Senonché Il rapimento ad opera delle Brigate rosse di Aldo Moro, presidente della Dc e altro regista del compromesso storico, nel giorno stesso in cui si votò la fiducia per il nuovo governo, il 16 marzo rimise tutto in gioco, e la cooperazione tra i due partiti si fece sempre più rada. 

La questione morale

La sfiducia di Berlinguer nei confronti del sistema partitico italiano, che non si risolse mai tuttavia in un disimpegno, si può riassumere in un'intervista del 1981 a Eugenio Scalfari: 

«I partiti di oggi sono soprattutto macchine di potere e di clientela: scarsa o mistificata conoscenza della vita e dei problemi della società e della gente, idee, ideali, programmi pochi o vaghi, sentimenti e passione civile, zero. Gestiscono interessi, i più disparati, i più contraddittori, talvolta anche loschi, comunque senza alcun rapporto con le esigenze e i bisogni umani emergenti, oppure distorcendoli, senza perseguire il bene comune. La loro stessa struttura organizzativa si è ormai conformata su questo modello, e non sono più organizzatori del popolo, formazioni che ne promuovono la maturazione civile e l’iniziativa: sono piuttosto federazioni di correnti, di camarille, ciascuna con un “boss” e dei “sotto-boss”. 

La lezione di etica, correttezza, rispetto e, al contempo, abilità e intuizione politica, spiegano perché la sua figura viene ricordata da tutti come uno degli esempi più lodevoli della politica italiana, a prescindere dallo schieramento. "Berlinguer è stato protagonista della vita del Paese che ha dimostrato un profondo rispetto per la costituzione e le sue regole e un'attenzione morale costantemente espressa e sollecitata", ha detto oggi in un evento commemorativo a Sassari il presidente della Repubblica Sergio Mattarella. "Due aspetti inscindibili tra loro e strettamente collegati che rappresentano con un messaggio sempre attuale per la nostra Repubblica".

Il grande leader del Pci. Cento anni fa nasceva Enrico Berlinguer, le sue idee ancora attuali contro il populismo. Michele Prospero su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

Non è certo l’allarme sulla degenerazione dei partiti, che occupavano in maniera rapace le risorse del pubblico potere e si svuotavano di ogni idealità, il fulcro della cultura politica di Berlinguer. Questa metamorfosi della forma partito, pure con decisione denunciata, ha per lui ragioni più profonde della corruzione del ceto politico. E proprio da ciò che non è visibile nella superficie bisogna cominciare l’analisi. Come i più rilevanti dirigenti della sua generazione, egli ragiona (lo impone la struttura stessa del pensiero comunista) sul nesso tra ordine del mondo e prospettive nazionali. Per un partito di origine esterna, cioè sorto sulla frattura dell’Ottobre, la dimensione internazionale è cruciale nella manutenzione dell’identità e nella decifrazione dei termini attuali del conflitto tra le classi.

Quello che si è soliti definire il “secondo Berlinguer” ha in realtà un assillo ideale che lo ricollega saldamente al nucleo persistente del suo modo di pensare la politica. L’esaurimento della spinta propulsiva del ’17 è percepito come un fenomeno dissolvente che in prospettiva può svuotare una tradizione. Se alla perdita della presa mobilitante del comunismo reale, come movimento internazionale di liberazione, si aggiunge anche l’impatto epocale della nuova rivoluzione conservatrice, appena sbocciata in America e Inghilterra, il quadro della disperazione teorica che attanaglia il leader sardo si percepisce in tutta la sua portata. Non solo l’Ottobre è un mito politico sempre più lontano dalle credenze collettive, ma certi legami di ferro, sorti in suo nome in tempi eroici, si rivelano un impaccio sulla via della legittimazione e l’oro di Mosca appare come un fardello non più sostenibile per ricoprire i costi della politica. Anche gli elementi di socialismo, che nel trentennio glorioso sono stati strappati dalle sinistre europee, vacillano sotto il fuoco espansivo del neoliberismo ormai egemone su scala mondiale.

Il “secondo Berlinguer” reagisce sì al fallimento della strategia di inserimento graduale nell’area governativa avviata dopo il 1976, quando si trattò di scongiurare che il fenomeno delle maggioranze negative (la somma dei seggi delle sinistre e dei missini rendeva impossibile qualsiasi governo) facesse precipitare Roma nelle vicinanze di Weimar. Ma la ripresa, dinanzi ai cancelli di Mirafiori, di una eccitante iniziativa conflittualistica, modulata dopo il tempo del negoziato e dell’attesa (che era passato con i costi della rottura del Pci con fasce di “seconda società” soprattutto giovanile), si intreccia ad una congiuntura mondiale che non lascia scampo alle antiche certezze. La svolta neoliberista sollecita aggiustamenti nelle categorie per parlare a nuovi soggetti e però, in attesa di categorie aggiornate, non resta che mobilitare le tute blu colpite dalle contraddizioni della società.

Il duello con Craxi, più che da asperità caratteriali, nasce da questa congiuntura epocale che vede declinate a sinistra due opposte letture della “modernità”. Craxi è un grande politico realista che anticipa di un decennio la metamorfosi identitaria che poi sarà effettuata, su basi programmatiche analoghe, anche dai laburisti e dalla Spd costretti, contro il declino del secolo socialdemocratico, a stringere un patto faustiano che, in cambio del ritorno al governo, richiede l’oblio dell’identità. Nel suo agire il leader socialista è stato una lepre che, più veloce di altri non solo in Italia, è riuscita ad afferrare il nuovo con categorie disincantate e soprattutto a competere, con una spregiudicata e per certi versi fascinosa abilità di manovra, per la conquista e la tenuta del potere. L’operazione di ridefinizione dei fini ideali riuscì perché il Psi, nel suo insediamento sociale, non era un partito operaio, come lo erano invece i modelli dei partiti di massa del socialismo europeo. La conquista di uno spazio rilevante nei ceti medi dinamici e nelle nuove figure professionali, emerse con la ristrutturazione tecnologica del capitale, facilitava per il socialismo craxiano l’abbandono di fette notevoli del corpo dottrinario e simbolico novecentesco.

La specificità della condotta di Craxi fu che egli saltò la fase della resistenza, che impegnò invece i vecchi socialisti europei, immersi in strenue battaglie difensive nelle fabbriche e nelle miniere, contro il nascente credo neoliberista, e si gettò in prima persona a promuovere dal governo l’erosione della antica coalizione lavorista. Su queste basi, nel segno cioè di una modernizzazione che postulava l’aggressione ai paradigmi neo-corporativi e al ruolo politico-legislativo del sindacato, nacque il lungo duello a sinistra conclusosi senza alcun vincitore.

In nome del moderno, Craxi attaccava la base sociale della sinistra in ritardo nella comprensione delle grandi trasformazioni, ma la sua ascesa elettorale non fu celere, perché un limite espansivo per il garofano fu la sempre ribadita alleanza con la Dc e la riverenza alla formula del pentapartito. Il male francese (mesto declino del Pcf al cospetto di un Ps più moderno nelle categorie politiche, e però unitario a sinistra, e capace perciò di assorbire i ceti intellettuali più rilevanti della gauche) per il Pci non si produsse.

A salvarlo dal contagio letale fu il monopolio della funzione di opposizione di sistema. Anche l’altra crepa, quella sociale, che vide il Pcf subire una perdita di radicamento (che portò alla sostituzione della sua leadership nella protesta tribunizia, che si orientava sempre più verso altri interpreti, con le “cinture rosse” espugnate dalla destra radicale), fu schivata grazie alla inopinata, e per certi versi antitogliattiana, torsione operaista che Berlinguer ordinò. Per non perire sotto i colpi di una lenta marginalizzazione sociale-mobilitante e politico-culturale, il Pci si arroccò a protezione dell’identità combattendo, oltre che sul piano del recuperato conflitto di classe (la sconfitta del referendum sulla scala mobile lo isolava, ma garantendo comunque una funzione di rappresentanza sociale), anche su quello del ripudio della omologazione delle forme politiche.

Con una sensibilità anche in questo caso poco togliattiana, Berlinguer difese lo spazio vitale del partito con una mistica della “diversità” che esaltava l’eccezionalismo comunista e lo splendido isolamento, accarezzato anche con iniezioni di antipolitica necessarie per raffigurare i partiti avversari (ma soprattutto i potenziali alleati nella “alternativa democratica”) come degli indifferenziati cartelli di potere. Finché è vissuto Berlinguer, il Pci ha rintuzzato colpo su colpo i segni del declino schizzando oltre la sintesi togliattiana con i ritrovati di una contaminazione volontaristica (cultura dei movimenti, della differenza, dell’ambientalismo, della pace) e con un ripiegamento sociale (neo-operaismo). La corazza identitaria però urtava con i fenomeni oggettivi di deindustrializzazione che svuotavano la base della protesta operaia e nelle urne restringevano il voto di classe. E soprattutto la fortezza della diversità non reggeva dinanzi alla crescita del partito degli amministratori, al ruolo del consenso strutturato grazie al successo straordinario dei modelli economici regionali prodotti con i giganteschi fenomeni della cooperazione, delle assicurazioni, al mutamento antropologico dei nuovi quadri, con la sete governista e di spartizione del potere che alimentava i sogni di ascesa dei cinici “ragazzi di Berlinguer”.

Nessuno dopo Berlinguer, né la sensibilità migliorista attenta ai tempi della politica né quella movimentista curiosa per le forme di una alternativa di società, avrebbe potuto mantenere la sintesi, precaria ma unitaria, che egli aveva costruito negli anni ’80 andando anche oltre il quadro teorico del “moderatismo togliattiano”. Con il mito di un capo che si sacrificava tragicamente nella piazza di Padova, esplodeva la sintesi che era, per così dire, tutta racchiusa nel corpo di un leader che era riuscito a saldare una discesa nelle pieghe del sociale e una inebriante esaltazione della diversità, che nella sua grammatica e nelle potenzialità conteneva anche una indubbia venatura antipolitica. Senza la connessione sistematica con i lineamenti di una critica dell’economia politica neoliberista, il grido contro la deriva dei partiti culmina, è un fatto di esperienza, nel populismo della società civile che abbatte le forme della mediazione politica.

Oggi Berlinguer nulla può dire alla politica italiana perché nessuna forza parlamentare rilevante ha una qualche ispirazione socialista. Quello che il suo messaggio può ancora trasmettere riguarda invece le forze europee. Mantenere un legame di classe (anche in Italia le coalizioni di centrosinistra hanno vinto solo dopo l’onda d’urto di intense mobilitazioni sociali-sindacali che hanno prodotto crepe nella composita coalizione berlusconiana) e una idea di rinnovamento delle forme della politica è per la sinistra la ricetta indispensabile per resistere e rilanciare una nuova offerta dopo la grande crisi del 2008 (che ha spezzato il paradigma economico contro il quale il leader comunista aveva ingaggiato un corpo a corpo irriducibile). Le sinistre dei valori e dei buoni sentimenti distribuiti tra i ceti medi riflessivi sono state travolte dalla rabbia populista e sovranista che, con il giustizialismo o la rivolta antipolitica, raccoglie una crisi di rappresentanza (del lavoro) e una crisi di legittimazione (della politica).

I problemi più urticanti sono gli stessi degli anni ’80, quando una nuova corrente del liberismo trionfava nelle culture, negli interessi sociali e nelle organizzazioni politiche. Ora che quel modello è in declino nelle idealità e in difficoltà appare anche nelle forme del potere, minacciando persino in America i baluardi storici del costituzionalismo, rimane aperta la sfida di cercare, anche con Berlinguer, soluzioni nuove a problemi antichi. Governare con la lente di una moderna critica del capitalismo, questo è il nodo originario che resta sempre da sciogliere a sinistra e in tale ottica non è vero che l’ultimo Berlinguer sia un puro residuo di archeologia passatista. Con strumenti di azione antichi, egli ha combattuto un nemico dal volto nuovo, un dominio di classe dalle radici profonde e capace sempre di esibire inedite maschere. Se declina una esigente idealità socialista, a subire l’eclisse è anche la forma storica di democrazia, che non può certo essere salvata dai simulacri di partito affiorati nei tempi di un’antipolitica che si è fatta sistema. Michele Prospero

Si fa torto anche alla sua storia e alla sua memoria. Enrico Berlinguer riformista, solo una leggenda metropolitana. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista il 6 Luglio 2022. 

Adesso non mettiamo in giro la leggenda metropolitana secondo la quale Enrico Berlinguer sarebbe stato “il più importante riformista italiano”. In primo luogo la mistificazione offende proprio lui, la cui ispirazione ideologica e la conseguente azione politica in tutte le due fasi fondamentali (quella più moderata e quella radicale) ha sempre contestato alla radice il riformismo e la social democrazia. Proprio per evitare l’omologazione social democratica nella fase moderata (quella della politica di unità nazionale) Berlinguer lanciò la strategia del compromesso storico fondata sull’ipotesi del tutto velleitaria e irrealistica di realizzare il socialismo con l’alleanza con la Dc. Sempre per esorcizzare il riformismo e la socialdemocrazia Berlinguer lanciò l’ipotesi dell’eurocomunismo, smontata da Norberto Bobbio (la terza via tra comunismo e socialdemocrazia non esiste) e scomparsa rapidamente dall’orizzonte per la sua inconsistenza politica e culturale.

Poi attribuire il merito del divorzio e dell’aborto a Berlinguer è del tutto sbagliato. Tutti sanno che quelle due grandi riforme civili furono imposte a un Pci recalcitrante dall’iniziativa del Partito Radicale di Pannella e del Psi in quella vicenda guidato da Loris Fortuna. Allora chi scrive era responsabile stampa e propaganda del partito socialista e ricorda bene le prediche che a noi socialisti facevano Berlinguer e Bufalini: “Non conoscete l’Italia, con la vostra linea ci porterete alla sconfitta”, tant’è che tramite la senatrice Tullia Carrettoni il Pci fece di tutto per tentare una intesa con la Dc cambiando in peggio la legge. Il fatto è che Berlinguer e Bufalini non solo non avevano capito che l’Italia di quegli anni non era più quella bigotta degli anni Quaranta e Cinquanta, e che a sua volta la base comunista era molto più avanzata di loro e si buttò a capofitto nella battaglia referendaria. Ma se non ci fossero stati Fortuna e Pannella il gruppo dirigente del partito comunista ci avrebbe trascinati in una mediazione pasticciata.

Lo scontro fra Berlinguer e Craxi non può essere ridotto a una sorta di incomprensione caratteriale. Berlinguer espresse contro Craxi un settarismo che era la negazione del riformismo. Berlinguer definì quello presieduto da Craxi un governo di destra, bacchettò Luciano Lama che lo aveva definito una novità storica, poi diede il suo avallo a una occupazione della Fiat, e nella fase radicale dell’alternativa di Salerno egli ha elaborato una piattaforma che è stata il punto di partenza del giustizialismo e del populismo evocando la questione morale e il “partito diverso”.

Così Berlinguer ha lasciato in eredità al suo partito anche quella battaglia sul referendum sulla scala mobile che si è risolto in una delle più cocenti sconfitte del Pci e furono gli operai del Nord a dare un contributo decisivo affinché i comunisti perdessero.

Quindi possiamo dire una sola cosa e cioè che Berlinguer fu più autonomo di Togliatti nei rapporti con l’Urss ma rimanendo rigorosamente in quel perimetro. Comunque Togliatti era certamente più garantista di lui almeno da quando agì in Italia (stendiamo un velo di silenzio su quello che gli fece negli anni Trenta) tant’è che nel 1946 diede via libera a quella amnistia che riguardò non solo i Partigiani ma anche i fascisti. D’altra parte la conferma di tutto ciò sta nella conclusione disastrosa di tutta la vicenda: i cosiddetti “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni con la consulenza giuridica di Violante) respinsero la proposta strategica dei miglioristi di dar vita ad un grande partito socialdemocratico e riformista e fecero da sponda al pool di Mani Pulite venendo ricambiati con l’impunità. Scelsero la via di inserirsi nell’operazione nuovista dando vita ad un partito neoliberista e giustizialista, così connesso con magistratura democratica che una parte di quel partito si associò nella battaglia contro Falcone (c’è un famoso articolo sull’Unità di Pizzorusso e il testo dell’intervento al Csm di Elena Piaciotti a confermare questa valutazione). Fabrizio Cicchitto

Il dibattito sul leader Pci. Enrico Berlinguer è il papà del nulla populista. Fabrizio Cicchitto su Il Riformista l'1 Giugno 2022.

È arduo sostenere che Berlinguer può rappresentare un argine al populismo. Al contrario a nostro avviso è condivisibile quello che afferma Claudio Mancina: “il suo moralismo aprì la strada ai tic populisti” (Il Riformista, 26 maggio 2022). Per quello che ci riguarda molte riflessioni le abbiamo già fatte in un precedente articolo sempre sul Riformista: “Fu l’ultimo Berlinguer che rese giustizialista il Pci” (Il Riformista, 4 dicembre 2021).

Per comodità di analisi distinguiamo due Berlinguer: il primo Berlinguer, quello dei tre saggi su Rinascita per il compromesso storico e dell’azione politica sul terreno della costruzione dell’Unità nazionale nel periodo ’76-’79, e “l’ultimo Berlinguer” descritto in modo magistrale da Piero Craveri in un saggio sulla rivista XXI Secolo del marzo 2002. C’è un orizzonte comune a entrambi i Berlinguer ed è quello costituito dal comunismo: egli vuole rimanere comunque in quell’ambito, nella prima fase in una posizione d’apertura e di attacco, nella seconda in un arroccamento volto a salvare il salvabile dopo che la politica di unità nazionale si era risolta in una sconfitta che poteva finire in una rotta.

Berlinguer è stato certamente molto più autonomo dall’Urss di Togliatti (che però in Italia non è mai stato giustizialista: basti pensare all’amnistia), ma non ha mai del tutto rotto con l’esperienza del comunismo reale del quale si elencavano “i limiti” (e già questa era una distinzione “limitata” e insufficiente), ma di cui si arrivò a ribadire la “superiorità morale sul capitalismo” (magari al netto degli attentati). Berlinguer a livello internazionale ebbe rapporti con partiti socialdemocratici, spesso per distinguerli da Bettino Craxi (trattato specie dopo il 1981 come un “socialfascista” tant’è che la sua presidenza del Consiglio fu considerata come un’operazione “di destra”), ma tenendo sempre a mantenere la distinzione di fondo tant’è che con grande enfasi fu lanciata l’ipotesi dell’eurocomunismo che poi fallì sia per la sua inconsistenza culturale (una sorta di terza via fra la socialdemocrazia e il comunismo reale), sia perché, per opposti motivi, non ressero alla prova né il partito comunista di Carrillo (arrivato quasi a parlare di totalitarismo a proposito dell’Urss), sia del Pcf di Marchais che rapidamente tornò all’ovile.

In ogni caso nei tre anni dal 1976 al 1979 Berlinguer tentò tutte le aperture possibili e immaginabili nei confronti della Dc considerata non solo l’interlocutore strategico del Pci (al punto tale che con essa o larga parte di essa si sarebbe dovuta costruire una società socialista, obiettivo francamente privo di qualunque realismo), ma anche il punto di riferimento valido per mantenere in una condizione di cattività e di subalternità il Psi: basti pensare come fu trattato non Craxi, ma De Martino, allora segretario del Psi, quando quest’ultimo alla fine del 1975 attaccò il governo e avanzò la proposta che la sinistra unita (PCI-PSI) trattasse con la Dc (su questo nodo sono assai significative le riflessioni di Claudio Petruccioli nel libro scritto a quattro mani con Emanuele Macaluso, Comunisti a modo nostro). Quella fase si concluse con una dura sconfitta del Pci a proposito della quale andrebbe anche sottoposta a una riflessione critica la posizione di assoluta intransigenza sulla trattativa durante il caso Moro assunta dal Pci.

Rimango convinto che, paradossalmente, proprio il Pci che sosteneva la strategia del compromesso storico con la Dc (che aveva una lontana possibilità di riuscire sotto forma di ingresso nel governo solo grazie ad Aldo Moro: Plechanov non ha scritto a vanvera il libro su “la funzione della personalità nella storia”) avrebbe dovuto assumere una posizione simile a quella di Craxi: consisteva non “nella trattativa”, ma “in un’autonoma iniziativa dello Stato” (la messa in libertà di un brigatista che non aveva commesso reati di sangue, la chiusura di uno stabilimento carcerario) che avrebbe posto un rilevante problema politico alle Br proprio rispetto alla sua area esterna di riferimento che era per gran parte favorevole alla liberazione di Moro.

Ma specialmente una mossa del genere da parte del Pci sarebbe venuta incontro sia alle lettere di Moro (che ponevano il problema della vita dell’ostaggio in termini di straordinaria forza culturale, indipendentemente dal fatto che egli parlava di sé stesso: altro che Moro “drogato” o che scriveva “sotto dettatura”, un’autentica infamia nella quale si mescolavano insieme gesuitismo e cinismo staliniano di quart’ordine, di cui però furono responsabili Andreotti, una parte degli amici di Moro e i cattocomunisti), sia alla stretta drammatica in cui si trovava la Dc per cui avrebbe trovato nel Pci davvero una sponda positiva valida per l’oggi, ma anche per il futuro (altro che le lettere a Berlinguer dell’ottuso Tatò che, non avendo capito nulla della natura profonda della Dc, affermava che anzi quella era l’occasione per incalzare ancora di più la Dc costringendola addirittura a espellere la sua destra: la risposta a queste idiozie di un personaggio molto sopravvalutato fu “il preambolo”). In ogni caso, dopo il fallimento della politica di unità nazionale, Berlinguer organizzò la ritirata rovesciando totalmente la politica precedente: così a Salerno fu inopinatamente lanciata la strategia dell’alternativa, ma con un metodo opposto a quello del compromesso storico.

Mentre la strategia del compromesso storico aveva al centro un alleato ben preciso, cioè la Dc e il mondo cattolico, nel caso dell’alternativa questo interlocutore non c’era, perché anzi quello potenziale o possibile, come sosteneva quella che allora veniva chiamata “la destra comunista”, cioè i socialisti, era addirittura demonizzato. Così il contenuto dell’alternativa divenne la assolutizzazione della questione morale, fondata sull’esaltazione del Pci come “il partito diverso”. In tutto ciò non c’era solo il nullismo politico più assoluto, ma anche una incredibile mistificazione: Berlinguer sapeva benissimo che sul terreno del finanziamento il Pci non era affatto un partito diverso perché anzi il suo finanziamento era il più irregolare fra tutti: sommava insieme i soldi del Kgb, quelli delle società di import/export, le cooperative rosse (che in sede Italstat partecipavano pro quota alla ripartizione di appalti che erano tutti rigorosamente manipolati), le imprese private che lavoravano per le regioni e i comuni rossi. Quando poi i grandi gruppi industriali-editoriali, dopo il 1989-1991, finito il pericolo comunista, hanno deciso di liberarsi della Dc, del Psi, dei partiti laici, in una prima fase questo moralismo è stato cavalcato e ha messo al riparo dai guai giudiziari proprio il Pds dei “ragazzi di Berlinguer” (Occhetto, D’Alema, Veltroni, con l’apporto politico-giuridico di Luciano Violante).

Poi, passata quella fase e quella successiva fondata sull’attacco a Berlusconi, quel giustizialismo sempre più becero si è ritorto anche contro il Pd, di passaggio in passaggio, da Berlinguer ai “ragazzi di Berlinguer”, a Sandro Curzi, a Samarcanda, siamo arrivati a Travaglio e quindi a Grillo, a Casaleggio e adesso addirittura a Conte. Oggi, per un verso, meritoriamente Enrico Letta sulla vicenda Ucraina ha assunto una posizione europeista e atlantista, ma per altro verso egli dice no ai referendum sulla giustizia e segue Zingaretti (quello che a un certo punto di è dimesso da segretario perché il Pd gli faceva schifo) nell’alleanza preferenziale con il M5s di Conte, che è inattendibile e impresentabile in politica estera e ultragiustizialista in politica interna e che sta preparando qualche scherzo per il 21 giugno in sede di dibattito parlamentare così come ha cercato di muoversi Salvini: il partito russo in Italia cerca di farsi sentire.

Poi, certo, tuttora il “comunismo” e il “post comunismo” italiani mantengono una parte almeno della loro forza mediatica. Ciò lo si vede specialmente in occasione degli anniversari. Così i 100 anni dalla nascita del PC d’Italia nel 1921 sono stati celebrati, prescindendo dal fatto che in quei due Congressi paralleli si parlò moltissimo di “fare come la Russia”, ma solo Giacomo Matteotti parlò del pericolo fascista incombente: massimalisti e fazione comunista esaltavano la rivoluzione proletaria, ma “il partito armato” lo aveva fatto Mussolini ed era all’attacco proprio in quei giorni. Su Berlinguer abbiamo visto un bel documentario di Walter Veltroni su Rai Tre: si è trattato di una straordinaria e anche bella santificazione, però senza alcun cenno di riflessione critica.

Certo, poi, Enrico Berlinguer è sempre stato una persona seria, eticamente motivata, impregnato di politica e di cultura e allora, anche tenendo conto di ciò che ha provocato il suo errore più rilevante, cioè il moralismo che a sua volta ha prodotto un populismo antipolitico, antiparlamentare e antioccidentale, non si può fare a meno di rendergli comunque l’onore delle armi. Fabrizio Cicchitto

Marcello Veneziani per “La Verità” il 25 maggio 2022. 

Il centenario della nascita di Enrico Berlinguer, che cade oggi, sarà un'altra tappa del processo mediatico e politico di beatificazione del segretario comunista. Ormai Berlinguer passa per un liberale, un occidentalista, un postcomunista, un precursore dell'euro-sinistra, perfino un amico di Almirante. 

In Italia, del comunismo è rimasta viva solo la memoria di due miti, entrambi sardi: Gramsci e Berlinguer, a cui sono dedicate apologie, elogi e santini. Cancellata la memoria del Partito Comunista, rimosso pure Togliatti, perché perdura invece la loro mitologia? Perché ambedue non andarono al potere. Il mito di Berlinguer più si allontana dalla Storia più cresce di statura. Berlinguer fu una figura dignitosa, sobria e austera, anche se vogliono perfino negargli la tristezza del suo volto e del suo modo di parlare e vogliono fissarlo forever sorridente tra le braccia di Benigni.

Berlinguer non aveva la statura di Togliatti né la sua sinistra grandezza e la sua lucidità; e quanto a svolte fu più ardito Occhetto, seppur col favore dei muri crollati. Per lunghi anni allineato ai più sordidi atti e documenti sovietici, Berlinguer fu mestamente comunista, non lasciò tracce importanti, si oppose alla socialdemocrazia e la storia gli dette torto, considerò il Partito come l'Assoluto.

Fu una persona onesta, per bene, ma basta la sua decorosa mediocrità per farne un santo con relativa agiografia? In realtà tramite la copiosa apologetica su di lui vogliono giustificare il passato comunista. Berlinguer è un pretesto narrativo per santificare gli eredi del comunismo e separarli dalle nefandezze dei regimi comunisti. 

Berlinguer fu comunista nonostante gli orrori del comunismo, anche dopo Budapest e Praga, fu legato all'Unione Sovietica fino agli anni Settanta, sognava l'eurocomunismo al tempo in cui Craxi calava la sinistra nella storia d'Italia e nel presente occidentale. Non uscì mai dal Canone. 

Avviò un graduale distacco dall'Urss ma senza approdare a una svolta socialdemocratica. Non fece analisi acute, memorabili o lungimiranti; sulla questione morale fu preceduto dalla destra nazionale che prima di lui e con più forza denunciò la corruzione politica e la decadenza morale.

La modestia fu la sua virtù ma anche la sua misura. La sua aria grigia da funzionario di partito era riscattata dall'aura nobiliare un po' disfatta. Non fu un gigante né un liberale, ma un comunista per bene, perciò merita rispetto. Anche perché, dicevamo, per fortuna sua e nostra, non andò mai al potere. La stessa «fortuna» capitò nella disgrazia a Gramsci, che teorizzò in carcere un regime totalitario ben più efferato di quello che lo aveva messo in galera. 

Quando in seguito alla crisi energetica l'Italia scelse l'Austerità, il Pci di Berlinguer la vide come «l'occasione per trasformare l'Italia» come recitava un libro firmato da Berlinguer per gli Editori Riuniti. Berlinguer, nel 1977, lo ribadì in due pubbliche occasioni, un incontro con gli intellettuali al teatro Eliseo di Roma, un altro con gli operai al teatro Lirico di Milano incentrati sulla svolta austeritaria.

Introdotto da Giorgio Napolitano, Berlinguer disse agli intellettuali raccolti intorno al Partito-Principe: «Austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia». Ma voleva dire per lui soprattutto superamento del modello capitalista. Berlinguer combinava l'austerità, che a volte somigliava all'autarchia mussoliniana degli anni Trenta, con un riferimento terzomondista che strizzava l'occhio al Vietnam e più cautamente alla Cina di Mao. 

Ma restava saldamente ancorato all'Urss con queste parole inequivocabili dette agli operai a Milano e raccolte in quel libro: «Noi rispondiamo di no a chi vuol portarci alla rottura con altri partiti comunisti; a chi vuol portarci a negare quello che è stato la Rivoluzione d'ottobre e gli altri rivolgimenti che hanno avuto luogo nell'Oriente europeo ed asiatico, il ruolo che esercitano l'Unione Sovietica e gli altri Paesi socialisti negli equilibri internazionali e nella lotta per la pace mondiale; a chi vuol portarci a negare il carattere socialista dei rapporti di produzione che esistono in quei Paesi». 

Poi si prodigava in un'apologia del «centralismo democratico» in cui, sì, tutti hanno diritto alla loro opinione ma «la posizione che risulta maggioritaria diventa la posizione di tutto il partito e tutti, quindi, sono tenuti a rispettarla». Questo era al tempo Berlinguer, leninista, brezneviano e filosovietico.

Contrariamente all'immagine che si vuol accreditare oggi, nella politica d'austerità di Berlinguer non c'era tanto il rigore o la questione morale ma la spallata al capitalismo, «il declino irrimediabile della funzione dirigente della borghesia», l'egemonia del movimento operaio unita all'egemonia culturale, esplicitata nell'incontro del teatro Eliseo quando il segretario del Pci sottolineò che le forze intellettuali «hanno oggi in Italia un peso sociale quale non avevano mai avuto e... hanno in larghissima misura un orientamento politico democratico di sinistra».

L'austerità era per il Pci di Berlinguer il cavallo di Troia del comunismo in Occidente. Arrivò poi la reaganomics, l'edonismo yuppie degli anni Ottanta, il collasso sovietico, la mutazione neoborghese della sinistra a liquidare con l'austerità anche il modello comunista. Fu così che l'austerità anziché indicare uno stile sobrio di vita evocò l'arcigno grigiore del comunismo al tramonto. Di cui Berlinguer fu l'icona triste in Italia, nonostante le postume beatificazioni, gli enfatizzati strappi e le benigne immagini ridenti.

Parla il portavoce del segretario socialista. “Quando Craxi scoppiò a piangere per la morte di Berlinguer”, intervista ad Antonio Ghirelli. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Maggio 2022. 

Quando è arrivata la notizia della morte di Berlinguer, Bettino Craxi era a Madrid. Era Presidente del Consiglio. Con lui c’era il suo capoufficio stampa che era Antonio Ghi­relli. “Me lo ricordo benissimo – racconta – Craxi ebbe una reazione incredibile: scoppiò a piangere”.

Craxi aveva affetto per Berlinguer?

No, direi di no. Direi che lo detestava. I due si detestava­no reciprocamente e in modo completo. Però ci doveva esse­re qualcosa che li univa. In fondo non si danneggiarono mai troppo l’uno con l’altro. E poi la politica è così, certe volte è inspiegabile. Fatto sta che Craxi pianse.

Si detestavano?

Sì, è una vecchia e incancellabile tradizione nella sinistra. Nenni detestava Pertini. Pertini detestava Craxi. Ingrao dete­stava Amendola. E ci sono decine e decine di altri casi: è stata la regola.

Antonio Ghirelli oggi ha ottantadue anni. E una splendida biografia. Si è iscritto al Pci clandestino a Napoli, nel ‘42. Conosceva a quell’epoca il giovane Giorgio Napolitano, e lo incitava a iscriversi pure lui. Napolitano si iscrisse l’anno dopo. Ghirelli prima partecipò a varie insurrezioni antitede­sche, poi passò le linee e raggiunse gli americani, che erano sbarcati a Salerno, nel settembre del ‘43. Si unì alla quinta armata e fu addetto ai rapporti coi partigiani del nord. Iniziò allora a fare il giornalista, faceva la radio, notizie dal fronte, in diretta. Era una radio per i partigiani. Dice che il mestiere lo imparò tutto lì. Poi dopo la liberazione lavorò in molti gior­nali di sinistra.

A Bologna, a Milano, lavorò anche all’Unità, con Pajetta, e infine andò a Roma a Paese Sera. Con Cohen e con Mario Meloni, in arte (successivamente) “Fortebrac­cio”. Dice che furono grandi giornalisti e grandi direttori. Nel ‘56 con altri intellettuali uscì dal partito per via dell’invasio­ne dell’Ungheria da parte dell’armata rossa sovietica. Però non volle andare a lavorare nei “giornali borghesi” e allora si inventò il lavoro di giornalista sportivo. È stato per un paio di decenni tra i migliori e più celebri giornalisti sportivi italiani. Forse il numero 1. Diresse Tuttosport e poi il Corriere dello Sport. Tornò al giornalismo politico negli anni settan­ta, da socialista. Diresse il Mondo e il Globo poi fu portavo­ce del presidente Pertini, successivamente di Craxi, più tardi fu direttore del Tg2 e infine dell’Avanti. Dice che nei primi anni ottanta fece di tutto con il suo amico Chiaromonte, dirigente di primissimo piano del Pci, per organizzare un incontro riservato e serio tra Craxi e Berlinguer. Non ci riuscirono . Craxi non ne voleva sapere e Berlinguer neppure. C’era un abisso di carattere tra i due.

Perché Craxi aveva un grado di sopportazione così basso per i comunisti?

Io credo che fosse una cosa antica. Risaliva al ‘48. Craxi era un ragazzino e suo padre, che era stato viceprefetto socia­lista di Milano dopo la liberazione, e poi prefetto di Como, si presentò alle elezioni per il Fronte, cioè per la lista social­ comunista. A Milano i socialisti erano più forti dei comunisti. Raccoglievano più voti. Però i comunisti erano molto più organizzati. E così i comunisti riuscirono a lavorare molto meglio sulle preferenze e elessero tutti i loro. Il papà di Craxi restò fuori, e fu molto deluso. Bettino visse male questa delusione di suo padre e da allora decise che gliela avrebbe fatta pagare ai comunisti. Secondo me l’origine dell’ostilità è que­sta. Poi naturalmente c’erano tutte le ragioni politiche che si conoscono. Però l’ostilità era fortissima e istintiva. Craxi si rifiutava persino di conoscere il partito comunista. Non vole­va saperne delle differenze interne, degli amendoliani, dei filo-socialisti. Io provavo a spiegargliele queste cose. Lui non sentiva. Per lui era tutto uguale: il Pci era il Pci e basta. Un comunista italiano per lui era come un comunista russo.

Cosa pensi di Berlinguer?

Era potenzialmente un cattolico più che un comunista. In lui il momento morale, il momento etico era largamente prevalen­te su quello sociale. Io ebbi una grande simpatia per lui. Anche per la spinta democratica che diede al suo partito. Fu una scel­ta giusta e autentica, che io apprezzai molto. Era molto inte­ressante il suo lavoro. Invece mi deluse la sua politica dopo il ‘76. Soprattutto la scelta dell’austerità. Mi parve una scelta marxisticamente scandalosa. La società italiana si avviava verso la meta postindustriale, era evidente la fine della società fordista, e io non capisco cosa c’entrasse l’austerità. Non aveva posto l’austerità in quella situazione. Io ricordo il discorso del­ l’Eliseo, quando Berlinguer spiegò agli intellettuali perché bisognava scegliere l’austerità. Mi colpì penosamente quel dis­corso. Io credo che lo sviluppo sia il contrario dell’austerità. Lo sviluppo è benessere diffuso, è una moltiplicazione di ricchez­ze. Io guardo con simpatia al comunismo cinese. È basato sulla ricerca dello sviluppo. Penso che nel socialismo ci sia un ele­mento di giacobinismo che è fondamentalmente giusto. I gran­di processi storico-economici e storico-politici vanno guidati. Quando è cambiato il mondo? Quando è nata la modernità? Con l’illuminismo, non con la rivolta delle plebi. Con l’ideo­logia della ragione. E quella ideologia ti dice che la ricerca del profitto e del successo personale appartiene alla natura del­l’uomo, e che il compito della politica non è di impedire quel­la ricerca, anzi deve assecondarla, però deve guidarla e rego­larla: evitare che diventi un fattore di violenza e di instabilità. Il compito della politica è di regolare quella ricerca di succes­so dentro un quadro di solidarietà sociale.

È l’austerity l’errore fondamentale di Berlinguer?

Fu un errore anche aver accettato quel governo che Moro gli presentò nel marzo del 1978, poche ore prima di essere rapito. Il governo Andreotti, il primo della solidarietà nazionale. Era un governo di destra. Berlinguer doveva respingerlo: Invece accet­tò e poi dopo un po’ si accorse che non era possibile restare in quella gabbia, ma ne uscì malissimo, con grande confusione, e nell’80 finì a fare il comizio davanti ai cancelli della Fiat. Credo che l’ultimo Berlinguer avesse proprio sbandato.

Cosa ti disse Craxi di Berlinguer, quando seppe che era morto?

Non disse niente. Parlò solo con le lacrime. Lui era uno di poche parole. Craxi era una brava persona, un bravo compagno. Non sono vere le cose che si dicono su di lui. Mi ricordo una volta che andammo in Argentina per l’insediamento di Alfon­sin, il nuovo presidente, il leader dei radicali. Un certo pome­riggio c’era una riunione ufficiale con Craxi in un teatro. Era alle cinque del pomeriggio. Io andai un’ora prima per vedere com’era fatto il posto, vedere se iniziava ad arrivare qualcuno, eccetera. Trovai il teatro stracolmo. E quando entrò Craxi ci fu una standing ovation e una emozione incredibile. Chiesi: ma come mai tanta popolarità per Craxi? Mi spiegarono che Craxi durante la dittatura li aveva aiutati in tutti i modi, sempre, si era occupato moltissimo dell’Argentina. Mi ricordo anche un incontro con Reagan. Incontro ufficiale, Reagan, Craxi e il ministro degli esteri nostro, Andreotti. Craxi chiese a bruciapelo a Reagan: “quanto deve durare ancora Pinochet?”. Ci fu grande imbarazzo. Poi Reagan chiese: “E cosa dovremmo fare, secondo lei?”. Craxi disse che bisognava appoggiare Frei, che con Frei si poteva ottenere l’appoggio della Chiesa e che la Chiesa aveva una influenza su Pinochet. Forse Reagan gli diede retta, perché due anni dopo Frei era presidente del Cile.

Se Craxi e Berlinguer si fossero parlati sarebbe cambiato qualcosa per la sinistra italiana?

Certo, sarebbero cambiate moltissime cose. Fu un dram­ma la loro incomunicabilità. Gli altri dirigenti dei due partiti non avevano la loro statura. Non potevano fare le cose che avrebbero potuto fare loro.

Chi era Berlinguer?

Non era tanto un politico quanto un moralista. Profonda­mente democratico. Un democratico nel senso associazioni­sta, non nel senso marxista del termine. Poi era un testardo, un uomo tenace, duro, un uomo dritto, “vertical”, come dico­no gli spagnoli. Lo ho ammirato molto ma non ho condiviso quasi nulla delle cose che faceva. Un uomo carismatico, ma carismatico moralmente non politicamente: come padre Pio.

Quindi lui non aveva molto a che fare con Togliatti?

Assolutamente no. Niente. Togliatti era politica pura. Come diceva Croce: “Totus politicus”. Togliatti ha fatto l’am­nistia ai fascisti, ha fatto votare al Pci il concordato, ha fatto la svolta di Salerno, con un discorso storico al teatro Moder­nissimo, accettando il governo Badoglio quando nessuno lo voleva accettare. Ed è sbarcato a Selemo con in valigia i Qua­derni dal carcere di Gramsci, e quindi già chiara l’idea di rifondare da capo e di democratizzare il Pci, e di staccarlo daJla Russia e di destalinizzarlo. Togliatti era un politico geniale. Lui quando arrivò qui in Italia sapeva tutto dell’Ita­lia, del fascismo, della politica nazionale. Quando Pajetta occupò la prefettura di Milano, Togliatti gli telefonò e disse: “E adesso cosa fai? Hai un disegno? Se non ce l’hai lascia stare l’occupazione e torna in federazione”. Era un grande stratega, non era un propagandista.

Però Togliatti accettò l’invasione dell’Ungheria, mentre Longo e Berlinguer condannarono l’invasione della Cecoslovacchia…

Sì, ma tu devi tenere conto del fatto che ciascuno di noi ha la cultura dei suoi quarant’anni. Non si può chiedere a me di capire la musica rap, io sono rimasto ai Beatles e scrivo con la macchina da scrivere… Togliatti era uno del suo tempo. Aveva fatto 20 anni in esilio, era sopravvissuto allo stalinismo. Quello era Togliatti. Chi non ha conosciuto gli anni ‘30 non può capire Togliatti. Cosa poteva fare Togliatti allora, nel ’56?

Nenni però ruppe.

Ma Nenni doveva preoccuparsi del partito socialista non della responsabilità. Mi colpisce ancora oggi quella cultura, del Pci. Erano due cose diverse. Come si poteva rompere gui­dando il Pci?

Di Berlinguer cosa salvi oggi?

Salvo la sua straordinaria buona fede. Salvo il suo cari­sma, che fu il ca risma di un educatore. Berlinguer fu un modesto politico ma un grande educatore, fu una specie di mazziniano, ha creato un tipo di comunista che non era più stalinista, ma era appassionato, devoto alla causa.

Fu uno sconfitto?

Non si è mai posto il problema di vincere. Aveva una misu­ra del mondo molto diversa da quella di un rivoluzionario. Il rivoluzionario ha il dovere di vincere, il moralista no.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il centenario della nascita. Quando Rossana Rossanda disse: “Berlinguer un grande che sbagliò tutto”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 4 Giugno 2022. 

In occasione del centenario, ripubblichiamo una lunga intervista rilasciata diversi anni fa da Rossana Rossanda, nella quale si ripercorre la storia del Pci e del manifesto e si esprime un giudizio molto critico nei confronti dell’ex segretario comunista.

Rossana Rossanda ha conosciuto Berlinguer personalmente. Abbastanza bene. Negli anni Sessanta, prima della radiazione del suo gruppo dal partito. E poi, da leader del manifesto, ha battagliato con Berlinguer per tanti anni, finché Berlinguer è morto. Non è mai stata tenera con il segretario del Pci e anche oggi la sua analisi è molto critica, è severa. Rossana Rossanda è stata parlamentare del Pci tra il ‘63 e il ‘68. Una sola legislatura. La federazione di Milano gli propose di fare anche la seconda, sebbene a quel punto il suo dissenso col partito fosse già piuttosto netto. Lei però disse di no. Nel mondo stavano succe­dendo tante cose interessanti, di cui voleva occuparsi: la legislatura finì proprio durante il maggio francese.

Hai nostalgia di quel periodo? E forse anche un po’ di nostalgia del Pci?

Il Pci a quel tempo era una gigantesca macchina che pro­duceva cultura, conoscenza. Quello che non ho mai perdona­to al Pci degli anni successivi, e poi al Pds e ai Ds, è di avere fracassato questo colossale ufficio studi.

Quando hai conosciuto Berlinguer?

Nei primi anni Sessanta. Ricordo un episodio curioso, a questo proposito. Doveva essere il ‘64 o il ‘65, poco dopo la morte di Togliatti. Longo era segretario di transizione. Una volta incontrai Amendola in ascensore e lui mi chiese: “Allo­ra, chi sarà il prossimo segretario del Pci?” Io risposi a lume di logica: “Non so, bisogna vedere se nel partito prevale la destra o la sinistra; il prossimo segretario sarai tu o sarà Pietro Ingrao … “. Lui scosse la tesa e mi disse di no. Disse che lui o Ingrao avrebbero diviso il partito e questo non si poteva fare. E poi disse: “stringiamoci tutti attorno ad Enrico, capito?”… Io non avevo proprio capito. Gli chiesi: “Chi è Enrico?” Non mi veniva neanche in mente Berlinguer, non è che Berlinguer nel ‘64-’65 fosse una figura di spicco. Lui mi disse chi era Enrico e che sarebbe stato lui il successore.

Quindi la candidatura fu decisa molto prima del ‘69, quando emerse in alternativa a Napolitano?

Sì, credo che sia stata una candidatura costruita dal partito a tavolino. Con molto anticipo e molto lavoro. Mi ricordo un’altra cosa. Nel Pci non si personalizzava. Per esempio non sono mai state usate le fotografie dei dirigenti nei manifesti: nome cognome e basta. Si fece un’eccezione solo per Togliat­ti, un paio d’anni prima che morisse, quando andò per la prima volta in Tv. Per il resto niente. I volti erano proibiti. Per Berlinguer fu diverso: la sua faccia fu usata moltissimo nella propaganda del Pci. Fece parte della strategia mediatica del Pci. Forse anche perché era bello, perché aveva questo volto scavato, sofferto, intelligente, piuttosto carismatico…

Tu, in quegli anni, lo conoscevi appena?

Sì, anche perché lui, lo sai, è sempre stato un tipo molto riser­vato. Io quando stavo a Botteghe Oscure stavo alla commissio­ne culturale. Avevamo le stanze al quinto piano. Mi ricordo che con me c’era Sandro Curzi, c’era Chiarante, c’era Ledda, c’era Romagnoli. Sai chi era Romagnoli? È morto giovanissimo, era bravo, intelligente, era una delle grandi promesse della Cgil. Noi eravamo un gruppo di giovani, un po’ agitati, e tra noi c’era un bel clima. Man mano che scendevi di piano trovavi i leader più importanti, fino ad arrivare al secondo piano, il piano nobi­le, dove c’erano i grandi. Togliatti, Amendola, Ingrao, Pajetta. Su da noi però salivano quasi solo Pajetta e Amendola. Pajetta perché era un tipo che voleva essere ovunque. Amendola per­ché era un organizzatore occhiuto, voleva controllare. Amen­dola era liberale in economia, ma in politica non molto. In poli­tica era rigido e aveva un’idea molto rigida del partito. In quel periodo conobbi Berlinguer, che era stato assegnato all’orga­nizzazione. Però non lo vedevo quasi mai. Lui certo non era il tipo da venirci a trovare al quinto piano, come Amendola e Pajetta. Era un uomo di partito. Proprio partito-partito. Mi ricor­do che una delle prime volte che ebbi a che fare con lui fu a metà degli anni Sessanta in un’occasione un po’ particolare. Mi ero accorta di stare male, dovevo operarmi e sembrava anche che fosse una cosa piuttosto grave. Allora andai da lui per dirgli della malattia e per avvertirlo che per un po’ di tempo sarei spa­rita dalla circolazione. Lui si rabbuiò. Mi disse: “Che disdetta, proprio adesso che c’è la campagna elettorale… “. Non so che campagna elettorale fosse, non importantissima, una tornata di amministrative, credo: so però che io ci rimasi male. Mi sarei aspettato che mi avesse chiesto della malattia, avesse dimostra­to dispiacere per la mia situazione, un po’ di preoccupazione, invece lui parlò solo di campagna elettorale. Il partito, il parti­to. Da allora non ebbi più molti contatti, finché lui non diventò vicesegretario del Pci.

Cioè al XII congresso, quello del ‘69. Che fu un congresso di scontro tra voi del futuro manifesto e il partito. Giusto? Voi avevate presentato una mozione congressuale contrapposta a quella della maggioranza.

Sì, fu un congresso di scontro politico. Berlinguer in quel­l’occasione fu garante che noi avremmo avuto diritto pieno di parola. Di tutto il nostro gruppo solo io ero riuscita a farmi eleggere delegata al congresso. Però Pintor e Natoli erano membri uscenti del comitato centrale e quindi potevano anche loro intervenire. Naturalmente ai congressi non è che poi pos­sono parlare davvero. tutti gli aventi diritto. Si dividono gli interventi, su basi territoriali, o di incarico, o di competenza eccetera. Berlinguer ci garantì che avremmo parlato tutti e tre. E in tre giorni diversi. Ottenemmo una posizione non eccel­lente per i nostri interventi: i secondi a parlare per tre mattina­te successive. Come sai, i primi interventi della mattina non sono i più ascoltati, in genere. Le sale sono ancora vuote e disattente. Però ci fu questa forma di cortesia: non il primo inter­vento, cioè il peggiore possibile, ma il secondo. Comunque quando parlammo Luigi, Aldo ed io, la sala non era affatto vuota, non mancavano i giornalisti e avemmo anche molto suc­cesso. Prendemmo grandissimi applausi. Io parlai di politica estera, Natoli di politica interna e Pintor del partito. Ci diedero 20 minuti di tempo per i nostri discorsi. Io iniziai così il mio intervento: “Mentre noi discutiamo a questo congresso, le truppe di un paese socialista stanno occupando un altro paese socialista…”. L’invasione della Cecoslovacchia era avvenuta da pochi mesi. Non fu accolto bene questo mio inizio di dis­corso. Seduto alla presidenza c’era Ponomariov, che rappre­sentava il Pcus, e che io conoscevo anche molto bene, perché spesso, quando era a Milano, veniva a cena a casa mia. Quan­do io dissi quelle parole, Ponomariov si alzò e uscì dalla sala. Indignato. Poi, uno dopo l’altro, si alzarono tutti i delegati dei vari paesi socialisti e uscirono anche loro. Restò al suo posto, immobile, solo il rappresentante del Vietnam del nord. E questo fatto a noi piacque molto. Ne discutemmo nei giorni successi­vi, ci sembrò un segno importante. Il Vietnam era il Vietnam.

Il vietnamita non uscì per simpatia verso di voi?

Purtroppo, scoprimmo dopo, non uscì per una ragione diversa: in quel momento non aveva l’interprete e quindi non aveva capito cosa avevo detto…

Il congresso si concluse con la elezione di Berlinguer alla vicesegreteria, e cioè con la sua designazione a erede di Togliatti e di Longo…

Sì, Berlinguer tenne un discorso di insediamento molto aperto. Aperto soprattutto nei nostri confronti. Fece ragiona­menti di sinistra, importanti. Io allora compii un gesto che penso sia stato sbagliato. Quando si trattò di illustrare la nostra mozione, la illustrai ma dissi che non la mettevamo ai voti per­ché avevamo trovato interessante il discorso di Berlinguer.

Perché dici che fa una scelta sbagliata?

Perché noi avevamo creduto che quel discorso di Berlin­guer fosse la vera ricerca di una ricomposizione con noi. Che sarebbe finita l’emarginazione, che ci avrebbero proposto di tornare a lavorare, con le nostre idee, dentro al partito. Inve­ce passarono i mesi e noi fummo lasciati ai margini. Non arri­vò nessuna proposta. Noi eravamo tutti “bestie di partito”, volevamo lavorare nel partito, non ci fregava niente del Par­lamento o cose simili. In tutto quel periodo non ci chiamaro­no. Mi ricordo solo una volta che mi chiamò Pajetta e mi chiese un articolo per l’Unità. Avevano arrestato due dissi­denti sovietici che si chiamavano Danijel e Sinijavski. Mi disse di scrivere su di loro. Poi quando gli portai l’articolo mi disse che non andava bene e che non lo pubblicava. Pajetta era così. Togliatti era diverso. Quando dirigevo la commis­sione culturale del Pci, una volta Togliatti mi chiese di scri­vere un pezzo per Rinascita di polemica con un discorso di Krusciov sugli intellettuali. Io scrissi un articolo che iniziava così: “Non siamo d’accordo con Krusciov … “. Glielo mandai. Il giorno dopo, mentre era riunita la segreteria, Togliatti mi mandò a chiamare e mi fece consegnare un bigliettino scritto con il suo famoso inchiostro verde. Diceva. “L’articolo va bene ma non va bene come inizia. Devi iniziare: siamo d’ ac­cordo con il compagno Krusciov … e poi mettere tutte le cri­tiche”. Io gli risposi con un altro biglietto. “No, io non sono d’accordo e quindi non posso iniziare scrivendo: sono d’ac­cordo”. Allora lui mi mandò un altro biglietto proponendomi di iniziare con le parole. “siamo perplessi… “ Io gli risposi: “no, non sono affatto perplessa, dissento e basta… “ Allora lui mi mandò un altro biglietto ancora, un po’ ironico e un po’ brusco. “Scusa, ma chi è il segretario del partito: tu o io?” Poi proseguimmo la trattativa per ore a suon di bigliettini finché non trovammo un compromesso, come si faceva sempre nel Pci. Pajetta invece non trattò: non pubblicò l’articolo e basta.

Siamo arrivati alla primavera del ‘69. E voi decideste di fare la rivista, cioè il manifesto.

Decidemmo il primo aprile. Delegarono a me il compito di informare il partito. Allora io andai da Enrico Berlinguer. Gli dissi: “Non vengo a chiederti un consiglio, vengo a informarti che noi facciamo una rivista. Non ti chiedo un consiglio per il semplice motivo che so che tu mi consiglieresti di non farla.” Lui mi disse: “Sì, ti consiglio di non farla… “. Io gli spiegai che la decisione era irrevocabile e gli chiesi se ci sarebbero state sanzioni amministrative. Lui mi disse: no. Lui escluse sanzio­ni. Ne parlai con Ingrao, e Ingrao fu molto scettico. Mi disse: “Berlinguer non potrà mantenere questa promessa, le sanzioni ci saranno perché la pressione nel partito sarà fortissima”. Quando in maggio il primo numero della rivista era pronto, portai a Berlinguer le bozze. Lui le lesse e il giorno dopo mi chiamò. Era molto allarmato. Mi disse: “altro che rivista di ricerca, questa è una rivista politica, di lotta politica… “. Berlin­guer, aveva ragione. Poi mi disse: “Io sto partendo per Mosca dove devo fare un discorso importante e impegnativo alla con­ferenza dei partiti comunisti. Possiamo evitare che io sia assa­lito dai sovietici per via della vostra rivista?” Gli dissi di sì, che avremmo rinviato di qualche giorno l’uscita della rivista.

Il manifesto uscì in giugno.

E appena uscì il manifesto, si riunì la quinta commissione del comitato centrale. Non mi ricordo bene cosa fosse questa quinta commissione, era qualcosa che aveva a che fare con la disciplina. Credo che in quella riunione i toni furono alti, si gridò molto contro di noi. Allora Berlinguer mi chiamò di nuovo e mi disse. “Siete sicuri di volere andare avanti? Per il partito è un grosso problema … “. Io gli dissi che saremo anda­ti avanti e lui mi comunicò che ci sarebbe stato un comitato centrale sul manifesto. Si tenne la riunione del comitato cen­trale e lì fu espresso un giudizio molto negativo sul manife­sto, ma i toni furono civili. Io conoscevo come si faceva lotta politica in altri partiti comunisti, e vidi che nel Pci si era molto più educati. Non ci dissero che eravamo traditori, spie e quelle altre cose lì che si usavano a quell’epoca. Diedero un giudizio politico pesantissimo su di noi, ma un giudizio politico. Ci dissero che eravamo un gruppo di sinistra e una frazione. E la parola frazione era una parola nefasta nel Pci, Comunque il comitato centrale si concluse con la condanna politica e con la richiesta a noi di riflettere. Nessuna minac­cia di cacciata dal partito o altro. Nei mesi successivi ho avuto molti incontri con Berlin­guer. In luglio e in agosto. Lui continuava a ripetermi che quello che noi stavamo facendo metteva in difficoltà il par­tito, e che bisognava trovare una soluzione. Mi diceva: “Non so se sono giuste o sbagliate le cose che andate dicendo, non è questo il punto. Può anche darsi che alcune delle idee che voi sostenete debbano essere messe in circolazione nel par­tito, e che si debba discuterle. Però non in questo modo. È molto rischioso. Per esempio può succedere che così come voi avete fatto una rivista, anche qualche altro gruppo decida di fare una rivista, magari di segno opposto, e allora il danno sarebbe molto grave”. Non so bene a cosa pensas­se, e a chi pensasse, ma credo che lui temesse un dissenso organizzato e finanziato dai sovietici. E pensava che un dis­senso organizzato di questo tipo sarebbe stato letale per il Pci. Voleva trovare una via d’uscita. Mi fece varie proposte che io respinsi.

Quali furono queste proposte?

Mi propose di assumere la condirezione dell’Istituto Gramsci, e di affidare al Gramsci il compito di discutere i temi che noi ponevamo. Poi mi propose di allargare la dire­zione del manifesto ad altri compagni che non facessero parte del nostro gruppo, mi pare di ricordare che fece il nome di Trentin e di qualcun altro…

Voi non prendeste in considerazione queste proposte?

Noi rispondemmo di no. E in settembre uscimmo col secondo numero della rivista, il più famoso, quello che aveva in copertina il titolo: “Praga è sola”. Allora si riunì di nuovo la quinta commissione. Berlinguer mi chiamò di nuovo, mi disse che la situazione stava precipitando, che i sovietici non accet­tavano, eccetera. Bufalini poi disse a Natoli che loro fino a quel momento erano riusciti a tenere buoni i sovietici, pro­mettendo che il dissenso sarebbe rientrato. Che era un maldi­pancia passeggero. Dopo il numero con “Praga è sola” i sovie­tici si arrabbiarono moltissimo e chiesero un taglio netto. Si tenne una seconda riunione del Comitato centrale che avanzò alle federazioni la proposta di discutere e condannare i nostri errori. Nelle federazioni ci fu una grande discussione, ma non ci furono grandi condanne. Alla fine Berlinguer mi chiamò di nuovo e mi disse che gli spazi ormai erano troppo stretti: biso­gnava chiudere. Disse che a novembre ci sarebbe stata una riunione del Comitato centrale nella quale ci sarebbe stata la proposta di radiazione se noi non avessimo fatto un passo indietro. Gli dissi che noi non facevamo passi indietro. Il Comitato Centrale si riunì il quattro novembre. Prima della riunione Berlinguer mi disse che uno di noi avrebbe avuto diritto di parola senza limiti di tempo, e che poi, alla fine della discussione, prima delle conclusioni, avremmo avuto anche un diritto di replica senza limiti di tempo. Berlinguer era attentissimo a queste cose. Era civilissimo e correttissimo. Io par­lai mezz’ora. Poi prima del voto ci fu una interruzione dei lavori. Quando rientrai nella sala del comitato centrale per il voto, vidi che c’era una barriera di fotografi. Mi colpì molto quella barriera, quei flash. Capii che eravamo fuori, definiti­vamente fuori: fu un momento di grande tristezza, di dolore. Fu l’unico momento di vero dolore.

Non hai più visto Berlinguer?

No, non credo. Fino agli anni 80 non l’ho più visto. O forse l’ho incontrato per caso qualche volta in aeroporto. Di Berlinguer ho questo ricordo. Un uomo molto corretto, senza mai prepotenza, senza impulsi ad offendere, a ferire. Longo con noi fu più duro. Usò la frase che aveva usato Togliatti con i dissidenti filo-jugoslavi (Cucchi e Magnani) e cioè disse “i pidocchi nella criniera di un cavallo di razza”. Berlinguer mai. E non ci disse mai neppure: “Piantatela, siete dei pazzi che state sbagliando tutto”. Non espresse mai disprezzo per le nostre idee. Fu il più aperto, forse. I vecchi erano veleno­si. Anche Terracini e Secchia, che erano considerati di sini­stra e che erano stati emarginati dal gruppo dirigente, però con noi furono spietati. Mi ricordo che nei primi tempi dopo la radiazione, l’Unità ci mosse qualche attacco feroce. Quel­li del tipo “chi li paga? …” e cose simili. Poi questi attacchi cessarono all’improvviso e non ci sono più stati. Io sono con­vinta che cessarono perché era intervenuto Berlinguer. Più tardi però ho avuto l’impressione che con il passare degli anni Berlinguer avesse chiuso con il suo atteggiamento di disponibilità e di apertura. Non solo verso di noi, ma in generale verso i movimenti. Berlinguer aveva avuto un atteg­giamento di dialogo e di apertura al dubbio di fronte ai gran­di sconvolgimenti del ‘68 e del ‘69. Da un certo momento in poi questo atteggiamento sparisce. Credo che fu il suo errore. L’errore che ha pagato nel ‘79, quando fallì la politica di solidarietà nazionale e lui si trovò che aveva tagliato i ponti alle spalle e non c’erano vie solide d’uscita.

Parliamo di Berlinguer del ‘77. Quello con il quale tu più hai battagliato.

Faccio tre critiche. La prima cosa che non mi piacque fu quando lui esercitò una pressione su Lama, a metà degli anni 70, per ridurre la libertà di dialettica sindacale. In quel momento la Cgil stava svolgendo un ruolo molto di sinistra in Italia, era ancora condizionata dalla spinta formidabile del ‘68-’ 69 e anche della stagione successiva, con la battaglia contrattuale del ‘72, la nascita dei consigli eccetera. A quel punto si creò una tensione tra sindacato e partito. Berlinguer operò per contenere questa spinta del sindacato. Non so se fu una idea sua o di altri, non so se intervenne autonomamente o spinto da Amendola e dalla destra del Pci. Seconda critica. Quando nel ‘74 ci fu la crisi dell’ energia, Berlinguer intervenne al comitato centrale e parlò della “produzione come bene in se”. Cioè assunse una posizione che andava oltre l’interclassismo tradizionale. Fu una rottu­ra ideale. La terza critica è la più importante: il compromesso storico. Io considero quei suoi articoli del ‘73, quelli nei quali lanciò la parola d’ordine del compromesso storico, un errore gravissimo. Per il loro contenuto e per il momento in cui vennero pubblica­ti. E cioè mentre in Italia era ancora fortissima la spinta del ’68.

Spiegami bene perché il compromesso storico secondo te è stato un errore.

Era un progetto politico abbastanza alto. Partiva da un giu­dizio negativo, giusto, sulla modernizzazione capitalistica, e cioè su un progetto e una cultura che trasformavano il mercato e la merce in valori, anzi nei valori principali. Berlinguer pensò che bisognasse ostacolare questa tendenza, e che la cul­tura cattolica e quella comunista erano diverse, avevano altri valori e potevano impedire quel tipo di modernizzazione. Lui credeva molto a questo. Forse anche perché era stato influen­zato da Franco Rodano che lavorava da tempo a un’idea di que­sto genere e all’incontro tra comunisti e cattolici. Poi c’era anche Bufalini che spingeva in quella direzione. Bufalini era una persona per bene, anche se con noi fu sempre molto aspro. Del resto tutti i dirigenti del Pci che io ho conosciuto, al di là delle loro posizioni politiche, mi sono sempre sembrati perso­ne per bene. E poi allora c’era uno stile, anche nelle polemiche; più garbato rispetto ad oggi. Oggi se vuoi criticare qualcuno il minimo che puoi fare è dire che è un assassino figlio di spie …

Queste però non sono ancora critiche al compromesso storico …

L’errore fu un enorme errore di valutazione. Soprattutto dopo il Cile, Berlinguer si era convinto che in Europa cre­scesse un pericolo autoritario, che se la sinistra avanzava e rendeva più forti le sue posizioni questo aggravava il perico­lo, e che l’emergenza nazionale fosse quella di scongiurare questo pericolo. E così preparò la proposta di compromesso storico senza avere la garanzia di un comportamento adegua­to della Dc. Non c’era in quel momento nessuna decisione da parte di Moro di procedere seriamente in quella direzione. Vedi, io ho un’opinione su Moro diversa da quella più diffusa. Io non esalto la figura di Moro. Credo che Moro fosse un debole e che avesse un’idea intrigante della politica. Se leggi i diari di Pietro Nenni trovi molte cose a questo proposito. Soprattutto le pagine che si riferiscono al ‘63 e al ‘64, cioè al primo governo di centrosinistra e poi alla crisi Sifar, al “tin­tinnar di spade” e alla minaccia di golpe. Nenni racconta un Moro che fa un passo avanti, due indietro, mezzo avanti, mezzo indietro … ma a Nenni viene il dubbio che tutto que­sto non sia né indecisione, né prudenza, ma che sia un modo per fregarti. Penso che avesse ragione. E penso che Berlin­guer si fece un po’ fregare da Moro e dalle sue prudenze. Quando nel ‘76 decise di dare l’astensione del Pci al gover­no monocolore dc di Andreotti, il Pci in cambio non riceve niente. Assolutamente niente: portò solo sangue alla Dc.

Tu dici: questo compromesso storico era sbagliato e non era realizzabile. Ma anche se fosse stato realizzabile era sbagliato. Mi hai spiegato perché pensi che non fosse realizzabile. Ma perché era anche sbagliato?

Il Pci in Italia era un grande partito socialdemocratico con saldi principi. Questo era. Voleva le riforme. Leviamoci dalla testa che sia esistito in qualche momento del dopoguerra un partito comunista che si preparava a prendere il potere. Questo non lo ha fatto mai. E non solo perché, dopo Yalta, le condi­zioni geo-politiche non lo permettevano. Anche per profonde valutazioni politiche. Non solo Berlinguer, ma neanche Togliatti ha mai considerato una disgrazia il fatto che gli equilibri del mondo impedivano al Pci di prendere il potere. Era ben felice che una soluzione alla “polacca” fosse da escludere. Ed era convinto che la situazione italiana consentiva di lottare per­ delle profonde modifiche della società, dell’economia, della politica, senza rotture e senza bisogno di passare dal potere. Cioè pensava che per mantenere aperta una prospettiva socia­lista non fosse necessario tenere aperta la prospettiva della rivoluzione. Togliatti pensava che ci fosse un’altra via. Per questo dico: partito socialdemocratico con saldi principi. Nella proposta di “compromesso storico” avanzata da Berlinguer questa prospettiva per la prima volta scompare. L’idea di lavo­rare per creare un’Italia socialista non c’è più. Cancellata. Inve­ce io penso che quella possibilità fosse ancora viva. Per questo dico che il compromesso storico era sbagliato. Bisognava lavo­rare a un’ipotesi di società che fosse lontana dai regimi comu­nisti dell’est ma anche dalla piattezza socialdemocratica. E c’ e­rano le forze, in quegli anni, per fare questo. Negli ultimi anni 60 e nei primi anni 70 la spinta del ‘68 era ancora formidabi­le, e anche il quadro internazionale era aperto. Erano in corso grandissimi mutamenti, anche nella Chiesa, per esempio, e noi comunisti in Italia contavamo moltissimo: eravamo la cultura politica italiana, influenzavamo fortissimamente e cambiava­mo il senso comune: non dovevamo lasciar cadere tutto que­sto. Nei film e nei romanzi italiani degli anni Sessanta e Settan­ta c’è questa idea, è una cosa che torna sempre: la speranza di cambiare l’Italia, la speranza socialista.

L’errore di Berlinguer? Non capì queste cose. E quando ci fu il golpe in Cile si convinse che Allende avesse perso per­ché si era spinto troppo a sinistra e perché sul piano interna­zionale, e anche in Europa, stesse maturando una spinta rea­zionaria, autoritaria e anche fascista, in parte dovuta all’ec­cessivo avanzamento della sinistra. Non è così mai, e non era così allora. Non è vero che le spinte a destra sono provocate da un eccessivo avanzamento della sinistra. È il contrario. Le svolte conservatrici e reazionarie maturano quando la sinistra arretra, rinuncia all’egemonia del suo pensiero. È sempre stato così. E in quella prima metà degli anni 70 in Europa non stavano avanzando la reazione e il fascismo. Proprio no. Nel ‘74 cade la dittatura in Portogallo e subito dopo in Gre­cia, nel ‘76 finisce il franchismo. Per questo credo che il compromesso storico sia stato sba­gliato. Partiva da un’ipotesi sbagliata e di fatto fece perdere alla sinistra quegli anni decisivi, l’inizio degli anni Settanta, nei quali c’erano le condizioni per una avanzata importantissima. Quando poi ci si accorse che il compromesso storico non stava in piedi, ormai era tardi, c’era stata la svolta in tutto il mondo, la Trilateral aveva portato avanti il suo disegno di restaurazio­ne e aveva vinto il nuovo liberismo della Thatcher e di Reagan.

Ti faccio una obiezione. Con il governo di solidarietà nazionale, e cioè tra il 1978 e il 1979 (dopo il rapimento di Moro e con Andreotti presidente del Consiglio) il Pci ottiene un numero incredibile di riforme. La riforma sanitaria, quella psichiatrica, il nuovo diritto di famiglia, l’equo canone, l’aborto … Allora non è vero che restò a mani vuote?

Io penso che quelle riforme furono la coda del ‘68, furono l’eredità “legislativa” del sessantotto.

Parliamo di Berlinguer e del movimento del ‘77. Berlinguer fu molto critico con quel movimento. Usò delle parole durissime, inusuali per lui. Parlò di “diciannovismo” riferendosi ai movimenti ribellisti del 1919 dai quali poi nacque il fascismo.

Berlinguer è sempre stato molto critico verso i movimen­ti. Almeno, lo è stato dagli anni 70 in poi. Non li ha mai capi­ti, lo hanno sempre preoccupato, ha sempre temuto che espri­messero delle spinte a sinistra incontrollate, che sfuggivano alla politica del partito e che per questo finivano per alimen­tare la destra. Mentre invece la destra ha sempre vinto quan­do queste spinte si sono affievolite, non è mai stato il contrario. In questo Berlinguer era più conservatore di Togliatti. Per esempio Togliatti nel ‘60 non si fece affatto intimorire dalla crescita del movimento, improvvisa e imprevista, e anzi seppe utilizzarla molto bene, seppe – come si dice – caval­carla. Cosa è stato il ‘77? Un movimento per certi versi molto più fragile per altri più avanzato e forte del ’68.

Perché dici più avanzato?

Perché poneva dei problemi molto moderni, Come la libe­razione dal lavoro. È un errore credere che il ‘77 fu l’anno delle Brigate Rosse. Il ‘77 fu l’anno dell’autonomia. Le Br casomai cavalcarono il ‘77, anche perché il movimento fu lasciato solo dalla sinistra storica. Quando Berlinguer, rife­rendosi a quel movimento, dice “diciannovismo”, aggrava, di molto, l’errore che il Pci aveva commesso con il ‘68. Il Pci con il ‘68 era stato eccessivamente prudente, ma anche con momenti di apertura. Come quando Longo si incontrò con i capi del sessantotto romano. Nel ‘77 invece fu chiusura tota­le. E così, quando, due anni dopo, la solidarietà nazionale finì, il Pci si rese conto che in quegli anni aveva solo dato, non aveva niente in mano. La “conventio ad escludendum” si chiuse di nuovo e Berlinguer venne spinto a sinistra dai fatti e· cambiò politica partecipando ai 35 giorni di lotta alla Fiat: ma era troppo tardi, non c’erano più le basi per la svolta, i movimenti stavano perdendo.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019. 

Il suo moralismo aprì la strada ai tic populisti. Intuizioni e limiti della visione politica di Enrico Berlinguer: luci e ombre del segretario del PCI. Claudia Mancina su Il Riformista il 26 Maggio 2022. 

La figura di Enrico Berlinguer è avvolta dalla nostalgia di un tempo che non c’è più, il tempo di una politica seria e di politici che miravano a determinare, e non a seguire, l’opinione pubblica. Una politica i cui soggetti erano partiti con una identità forte, formatasi nella storia del paese, che evolvevano con grande lentezza, attraverso dibattiti colti ma anche duri scontri (a volte, soprattutto nel caso del Partito comunista, sottotraccia). E certamente Berlinguer fu questo, soprattutto negli anni Settanta, gli anni delle vittorie e dei grandi progetti.

Non privi, gli uni e le altre, di aspetti contestabili: la vittoria sul divorzio raggiunta dopo aver tentato in tutti i modi di evitare il referendum; il tema dell’austerità, che oggi qualcuno legge in chiave ecologista ma era una ripresa del vecchio anticonsumismo comunista, come copertura ideologica per la politica economica di crisi; il compromesso storico, con tutte le sue ambiguità e oscurità. Comunque proposte politiche forti, che definivano l’identità del Partito in un periodo di grandi mutamenti sociali e culturali. Ma Berlinguer fu anche, negli ultimi anni, l’uomo di una transizione iniziata dopo la morte di Moro e la fine del progetto di unità nazionale, nella quale si posero alcune basi della trasformazione della politica che si affermò negli anni Novanta e dura ancora oggi. Dopo la “seconda svolta di Salerno”, quando liquidò la strategia del compromesso storico, si concentrò, anche incontrando opposizioni nel gruppo dirigente del suo partito, su temi piuttosto vaghi, come l’alternativa democratica e la questione morale.

Perché vaghi? Parlare di alternativa democratica avrebbe avuto un senso preciso se avesse contemplato una apertura al Psi. Ma sappiamo che Berlinguer diffidava profondamente di Craxi, accusato dai comunisti di avere operato una mutazione genetica del Partito socialista, e considerato uomo di destra, fino al punto da escludere anche solo la possibilità di sostenere un suo governo. Per la verità diffidenze e ostilità non mancavano certamente anche dall’altra parte. Oggi possiamo dire che la storia italiana avrebbe avuto tutt’altro corso, se i due partiti della sinistra fossero riusciti a costruire un’alleanza per il governo nazionale, come peraltro facevano da sempre nei governi locali.

Quanto alla questione morale, esposta nella sua versione più nota nella intervista a Scalfari del 1981, può apparire un’idea molto attuale, perfino profetica. Ma va guardata più da vicino. Nel porre l’accento sulla questione morale Berlinguer coglie due punti importanti. Il primo è che la politica deve avere un fondamento etico, non può essere solo ricerca del consenso e del potere. Il secondo punto riguarda l’occupazione dello Stato da parte dei partiti, una degenerazione particolarmente grave, che, come si vedrà di lì a poco, ha effetti profondamente corruttivi sul sistema politico ma anche sulla società intera. In tutto questo c’è un aspetto convincente. Lascia però perplessi il rapporto che Berlinguer istituisce tra la questione morale e la “diversità” dei comunisti. Quando Scalfari nell’intervista gli chiede perché dilaga il malcostume, il segretario del Pci risponde: perché noi siamo tenuti fuori dal governo.

Lo stesso intervistatore resta stupito: una questione così strutturale può essere ascritta soltanto all’esclusione dei comunisti? La risposta sta nell’idea della diversità, secondo la quale i comunisti, rispetto agli altri, sono a priori dotati di un più forte fondamento etico perché investiti di un compito storico di realizzazione della giustizia sociale. O, nei classici termini marxisti, perché interpreti e portatori del movimento storico verso il socialismo. Del resto Berlinguer non seguitò sempre a parlare di “fuoriuscita dal capitalismo”? Qualcuno sostiene che si trattava di una frase propagandistica, ma questa è una giustificazione debole. Il pensiero dei comunisti, compreso Berlinguer, era un pensiero forte. Parlare di fuoriuscita dal capitalismo significava riconnettersi alla critica del capitalismo della tradizione marxista e leninista, ed era un altro modo per affermare la distanza dalla socialdemocrazia: una distanza che non venne mai meno, nonostante i rapporti coltivati con i grandi socialisti europei, Brandt, Palme, Mitterand. L’insistenza sulla diversità andava incontro a un senso comune del partito, rassicurandolo dopo la delusione di fine anni Settanta e il fallimento del compromesso storico.

Ma rappresentava un ritorno indietro rispetto a quella proposta che, per quanto criticabile, era comunque una proposta strategica. In realtà l’accento sulla questione morale e sulla diversità rivela l’assenza di strategia e il conseguente isolamento del partito. Ma soprattutto il discorso di Berlinguer lascia scoperto il piano istituzionale, non si traduce in nessuna proposta di riforma della regolamentazione dei partiti, che è il problema che ci portiamo dietro da Tangentopoli in poi. Pensiamo alla questione del finanziamento o a quella degli statuti, cioè della mancata attuazione dell’art.49 della Costituzione. Né Berlinguer né il Pci nel suo complesso hanno mai avuto una sensibilità per le riforme istituzionali, delle quali il Paese aveva e ha più che mai bisogno. Non trovando espressione in progetti di riforma, questi due temi – questione morale e diversità – sono stati ereditati dai movimenti populisti.

Qualcuno ha sostenuto che Berlinguer è uno dei padri dell’antipolitica. Senza arrivare a tanto, non possiamo non vedere come, in modo forse paradossale e certo da lui non voluto e non immaginato, l’ultimo Berlinguer sia stato un uomo di transizione dalla vecchia politica a un nuovo universo, dove il posto dominante è stato preso dall’appello diretto del leader ai seguaci, dalla sottolineatura di una identità “altra” rispetto al sistema, dalla denuncia moralistica. Un universo populistico nel quale non poteva esserci posto per il Partito comunista – e per nessuno dei partiti della Prima Repubblica. Claudia Mancina

Enrico Berlinguer parlava di etica e intascava rubli dall'Urss, Renato Farina: chi era. Renato Farina su Libero Quotidiano il 26 maggio 2022

Ieri è stato il centenario della nascita di Enrico Berlinguer. È stato celebrato ovunque sotto l'insegna palpitante della nostalgia. Avvertenza. Siamo qui a rovinare, educatamente però, la festa. Non ci riusciremo, lo sappiamo da prima: siamo una vocina che si disperderà nel coro trionfale. Ma ci prendiamo la soddisfazione di desacralizzare, con un paio di petardi fornitici a suo tempo dal Gatto sardo, il clima da alba rugiadosa che pare essere di precetto per la circostanza. Ecco la coppia di frasi dettatemi da Francesco Cossiga, il quale portava ancora i segni, a un passo dalla morte, delle pugnalate subite dal cugino: 1) «Di Berlinguer non posso dire figlio di buona donna perché la madre era mia zia». 2) «Berlinguer aveva la fissazione moralistica». Ma la applicava altruisticamente solo agli altri. Ma certo. Berlinguer è stato la rovina di questo Paese, inquinando con poche sciagurate mosse sia la politica sia la morale. Istituendo il dogma della superiorità morale del Partito comunista e in generale della sinistra. Eleggendo a suprema categoria politica, dopo il compromesso storico, la "questione morale". E ad avere in mano il vaglio non poteva che essere il Partito comunista, dividendo i giusti dai corrotti, chiamando come una chioccia intorno a sé "gli onesti", con il sostegno dei quali ripulire l'Italia dai dirigenti degli altri partiti, tutti corrotti. Una giravolta tattica.

Dopo l'ascesa che pareva irresistibile dei consensi a metà degli anni 70 (era diventato segretario dopo Luigi Longo nel 1972), l'elettorato gli stava voltando le spalle, il sodalizio con la Dc non rendeva più, ed ecco il rinnegamento. Si era illuso di consumare la Dc, di inghiottirsela grazie alla inerzia della storia che andava a sinistra. Fiasco. Improvvisamente si era accorto di essersi lasciato ingannare da una congrega di mascalzoni. Pose insomma (ed era il biennio 80-81) le premesse teoriche e propagandistiche del giustizialismo forcaiolo (e dunque di Mani Pulite) e dell'anti-politica, quindi è lui, il vero padre (ig)nobile - in tutti i sensi - del grillismo e del contismo. 

LA DICHIARAZIONE

Perché nessuno lo ricorda? Carta canta. L'occasione è il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Sull'Unità del 7 dicembre si annuncia la svolta con una intervista ad Alfredo Reichlin. Berlinguer spiega la sostituzione della politica con l'etica: «La questione morale è diventata la questione politica prima ed essenziale... non possiamo più chiedere al Partito comunista di logorare il suo grande, intatto, prestigio politico-morale in un'azione di appoggio subalterno a questa Dc... fra le masse dei credenti è diffusa la riprovazione verso la corruzione nella Dc». Ma non siamo ancora alla dichiarazione ufficiale della superiorità morale. 

Accade con l'intervista di Eugenio Scalfari del 31 luglio 1981, poi riedita, negli anni seguenti, con qualche aggiunta, come vero e proprio manifesto del partito dell'onestà nel 2012, pro Cinque Stelle. Citiamo le frasi di E.B. equivalenti a sassate contro il prossimo e a ghirlande di fiori intorno alla propria testa: «Noi dichiariamo di essere un partito "diverso" dagli altri. I partiti hanno degenerato, quale più quale meno, recando danni gravissimi allo Stato. Ebbene, il Partito comunista italiano non li ha seguiti in questa degenerazione. A noi hanno fatto ponti d'oro, la Dc e gli altri partiti, perché abbandonassimo questa posizione d'intransigenza e di coerenza morale e politica. Ci hanno scongiurato in tutti i modi di fornire i nostri uomini per banche, enti, poltrone di sottogoverno, per partecipare anche noi al banchetto. Abbiamo sempre risposto di no. Se l'occasione fa l'uomo ladro, le nostre occasioni le abbiamo avute anche noi, ma ladri non siamo diventati». (La questione morale. La storica intervista di Eugenio Scalfari. Roma, Aliberti, 2012) 181. 

La giustificazione ideologica di Mani pulite nasce da queste parole, da quella creduta e falsa dichiarazione di purezza, viene l'epurazione del Pentapartito, e la salvezza degli allora Pds. Il pool sarà incoronato come implementazione dell'idea berlingueriana di "questione morale" tradotta in manette. A sostenerlo furono, a riprova dell'ideologia forcaiola inaugurata da E.B., i "ragazzi di Berlinguer", così definiti nel libro di Umberto Folena. E - altrettanto non a caso - l'idea squamosa dell'alleanza tra Pd e M5S cos' è se non suggello berlingueriano postumo all'alleanza degli onesti. Alessandro Natta, allora vice di E.B., in privato aveva commentato così le parole del segretario: «Le cose sono dette in modo irritante: gli altri sono ladri, noi non abbiamo voluto diventarlo! C'è una verità sostanziale, ma il tono è moralistico, settario, nel senso di una superiorità da eletti, da puri». 

Da puri? Da sepolcri imbiancati. Il Pci era il partito più sporco di tutti. Qui non si parla di arricchimenti individuali, ma di falsificazione del gioco democratico, grazie a finanziamenti colossali ottenuti da Mosca o tramite mediazioni import-export. La quantità è di circa 500 milioni di dollari, secondo le carte analizzate negli archivi da Valerio Riva e Francesco Bigazzi. Il tutto comprendeva un'«assistenza fraterna» reciproca: cioè l'aiuto alla penetrazione di spie fino alla formazione di una vera e propria quinta colonna sovietica protetta da Botteghe Oscure.

La politica degli onesti con Berlinguer era questa miseria di doppia morale. Mentre proclamava il primato dell'etica, chiedeva i soldi a Mosca per finanziare la sua propaganda sulla moralità. La tangente sul lavoro dei detenuti nel gulag sovietico. Complimenti. Invece di enunciare queste verità, si celebra il mito dell'eroe. Si somministra l'incantamento di massa, grazie a frammenti televisivi che sono icone di un paradiso perduto, trasfigurazione mediatica del taumaturgo, colui che se non fosse morto avrebbe risanato l'appestata Italia. 

COME UN EROE?

In tutti questi anni, ed anche ieri, è stata riproposta la tragica sequenza del decesso del segretario del Pci. La potenza delle immagini traballanti e la magia dei commenti commossi è tale che è come se Berlinguer, deceduto 38 anni fa, morisse sempre di nuovo per noi italiani, centomila volte, su quel palco di Padova dove stava tenendo un comizio, e stava male, barcollava, il cervello gli si apriva in due, ma non voleva arrendersi, finché cadde come corpo morto cade. Uno ha il dovere di inchinarsi davanti a questa resistenza da guerriero antico. È la moralità della politica. Morire per l'idea. Ma uccidere la reputazione altrui resta un delitto anche se muori da eroe. Le due pugnalate a Cossiga inferte dal cugino? L'aver fatto pesare sudi lui, su Andreotti e su Paolo VI l'assassinio di Moro, che invece fu liquidato dalla sentenza - si legga Leonardo Sciascia - che il segretario del Pci pronunciò alla Camera un'ora dopo il rapimento quando incise una lapide per il morituro: «Il grande statista», seppellendolo. Moro che lo capì, non gli scrisse dalla sua prigionia neppure un rigo, accusò l'amico Francesco di essersi lasciato ipnotizzare dal cugino Enrico di cui aveva soggezione sin dall'infanzia. La seconda coltellata è stata quando Berlinguer usò con cinismo la pietas di Cossiga per costringerlo alle dimissioni: Francesco aveva detto una parola innocua e umanissima a Donat-Cattin sul figlio di quest' ultimo, Marco, ricercato per terrorismo. Ah, la moralità. 

·        Enrico Letta.

Il Bestiario, il Nullino. Il Nullino è una bestia leggendaria con il corpo da serpente e la testa da umano che parla in prima persona plurale: “Siamo proprio un bel serpentello”. Giovanni Zola il 24 Agosto 2022 su Il Giornale.

Il Nullino è una bestia leggendaria con il corpo da serpente e la testa da umano che parla in prima persona plurale: “Siamo proprio un bel serpentello”.

Il Nullino, come ermeticamente il nome suggerisce, in natura non esiste. È una proiezione immaginaria che gli antichi si inventarono per spaventare i bambini: “Guarda che se non dormi arriva il Nullino che ti porta via!” Col tempo i bambini, avendo sgamato che il Nullino non esiste, andarono a dormire all’ora che volevano facendola in barba ai genitori e inventando la professione dei metronotte.

Il filosofo antico greco Parmenide, fondatore dell’ontologia e della disciplina sportiva del Curling, cita il Nullino nel suo famoso principio “L’essere è, il Nullino non è” o anche “Il Nullino a pranzo non divide il conto alla romana.”

Non esistendo nella realtà, il Nullino, per farsi spazio nel mondo animale e avere una ragion d’essere, critica e attacca verbalmente i suoi avversari. Per questo motivo si unisce in grandi assembramenti che nella realtà non esistono, cercando di far numero. Tali assembramenti talvolta degenerano in ammucchiate dove è consigliata la mascherina.

Il paradosso drammatico del Nullino è che esso non sa di non esistere e per questo si atteggia con arroganza andando addirittura in giro ad affermare di essere il possessore della leggendaria “Agenda Draghi”, che nessuno sa esattamente cosa sia realmente, benchè molti studiosi siano convinti che sia un libro inedito de “Il Trono di Spade”.

Inoltre il Nullino, cercando di far colpo sull’opinione pubblica, sostiene, in estrema sintesi, che sia necessario liberalizzare le droghe leggere per gli LGBTQ+ di colore che hanno ricevuto la cittadinanza grazie allo Ius Scholae. Tale affermazione è la prova provata che il Nullino non esiste e se esistesse sarebbe Godot nella famosa piace teatrale.

In sostanza il Nullino, essendo un essere astratto, è pieno d’invidia per qualsiasi altro essere concreto e pensante. Per questo si apposta in silenzio aspettando che altre specie si esprimano, per uscire dal suo nascondiglio immaginario attaccando l’avversario con mature argomentazioni del calibro: “Specchio riflesso” o “Chi lo dice lo sa di essere!”

 Vittorio Feltri disintegra Enrico Letta: "Vizio comunista", perché è un perdente. Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 18 settembre 2022

Il Pd di Enrico Letta è destinato a perdere le prossime elezioni politiche perché non ha smarrito il vizio di essere comunista, forse non nella forma ma di sicuro nella sostanza. L'ideologia marxista si è in parte evoluta ma ha mantenuto le caratteristiche del passato, e i partiti che ha figliato assomigliano a chi li ha generati. Il problema è che a distanza di molti anni dalla fine del sovietismo non si è ancora esaurita una mentalità russa, la quale continua a influenzare il comportamento dei compagni. Niente di spaventoso, siamo tutti consapevoli che il socialismo reale ha avuto un ruolo drammatico nella vita di tanti Paesi, compreso il nostro. Ora però sarebbe giunto il momento di rivedere la storia, cioè di aggiornare le idee rendendole compatibili con l'attualità. Operazione che non sta riuscendo ai dirigenti progressisti, afflitti dalla nostalgia per i tempi trascorsi e incapaci di fare un passo avanti verso il futuro.

Da Occhetto a D'Alema che tentarono di rinnovare il vecchio Pci sono trascorsi vari anni, ciononostante non si sono visti molti progressi sul piano dell'ammodernamento delle strutture ideologiche del comunismo, che è rimasto legato a vetusti schemi di cui Enrico Letta è tuttora erede. Cosicché non c'è traccia di maturazione nella politica democratica. Il partito seguita a inciampare nel vecchiume rosso senza dare segni di evoluzione. Non ce la fa a uscire dalla gabbia comunista, percorre sempre la stessa strada antiquata disseminata di presunzione, di politicamente corretto e di luoghi comuni. Non è un caso che il programma del Pd comprenda la voglia di dare ai giovani di 18 anni un assegno di 10.000 euro non si sa per quale ragione, di conferire la nazionalità italiana agli scolari, insomma una serie di provvedimenti inspiegabili che comprendono anche diversi benefici da garantire agli omosessuali. Senza contare il resto: ovvero il reddito di cittadinanza, il salario minimo e altre misure destinate ad aggravare il debito pubblico e a non apportare alcun beneficio alla società. Davanti a questo quadro desolante è evidente che gli italiani siano perplessi e non abbiano voglia di farsi governare dal Pd. E preferiscano affidarsi a Giorgia Meloni per dirigere l'Italia, una persona che porta con sé una ventata di aria fresca e che promette una politica innovatrice. Speriamo non ci deluda.

Felice Manti per il Giornale il 16 settembre 2022.

Dottor Jekill o Mister Hyde? Dove finisce l'Enrico Letta politico che vuole guidare (di nuovo) il Paese e dove inizia l'Enrico Letta lobbista? Domanda legittima che il Giornale pone al segretario Pd in campagna elettorale, finora senza risposta. Abbiamo ricostruito gli interessi e i legami di Letta con la Cina, solida alleata della Russia di Putin, attraverso la sua nomina nel Cda della holding del lusso cinese Liberty Zeta Ltd e nella società Tojoy, legata al presidente Xi Jinping di cui è stato co-presidente per l'Europa occidentale fino a marzo 2021.

Un intreccio di relazioni costruite nell'interregno tra l'addio di Letta alla politica con le dimissioni da parlamentare - dopo lo strappo su Palazzo Chigi orchestrato da Matteo Renzi col suo tweet #Enricostaisereno - e il suo rientro al Nazareno come salvatore della patria. Sette anni in cui si è dato da fare. Si chiama élite capture. Si assume o si coopta un ex politico in un'impresa privata che opera sotto le direttive di uno Stato straniero «in cambio delle loro conoscenze e a discapito degli interessi dei cittadini dell'Ue e degli Stati membri», scrive il Parlamento europeo che il 9 marzo scorso ha approvato la risoluzione contro «le ingerenze straniere in tutti i processi democratici nell'Ue», realizzate non solo attraverso i fantomatici rubli in nero ai partiti di cui parlano gli Usa ma soprattutto attraverso parcelle (e influenze) in chiaro. 

Lo ha sottolineato anche il Copasir nella relazione del 19 agosto scorso.

Adesso che Letta è tornato a far politica, come si concilia il suo lobbismo filocinese, la tutela dell'Europa e la fedeltà al modello atlantico? Nel suo magico mondo è tutto ok, tutto si può conciliare.

Quando nel 2019 il ministro degli Esteri Luigi Di Maio spalancò le porte dell'Italia a Pechino, dall'esilio il leader Pd commentò: «Non c'è alcuna contraddizione tra la nuova Via della Seta, le regole europee e la fedeltà agli Stati Uniti». Ma solo se la fedeltà agli americani di cui parla Letta è quella ai paradisi fiscali, dal Delaware al New Jersey, in cui hanno sede le società per cui l'ex premier ha lavorato. 

Che così fanno dumping a scapito del gettito italiano (6,4 miliardi di euro il danno calcolato) e danneggiano il made in Italy. Privilegi che a parole il politico Letta dottor Jekill vorrebbe abolire, mentre il lobbista Letta Mister Hyde ne approfitta. A quale dei due credere? 

Poi c'è un potenziale conflitto d'interessi. In questi sette anni, lo scrive nel suo curriculum, Letta è stato advisor di Equanim, società francese che ha contribuito attraverso la controllata Usa a ripulire l'immagine del regime saudita di Mohammad bin Salman dopo l'omicidio del giornalista Usa Jamal Kashoggi e che ha tra i suoi clienti anche Facebook, Disney, Google, la Monsanto e i big della farmacia mondiale, da Astrazeneca a Bayer.

Ma ha anche lavorato nella società di head hunting Spencer Stuart, di cui di recente si è servito anche Mario Draghi. È stato nominato nell'advisory board di Amundi, società specializzata nell'asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole che in Italia ha inglobato Cariparma e che potrebbe scalare Banco Bpm. 

È stato advisor di Tikehau Capital, società che nel 2020 ha favorito un'operazione Italia-Cina attraverso l'acquisizione del 30% di un'azienda di motori elettrici e una linea di credito accordata da Cassa depositi e prestiti per sostenere gli investimenti in nuovi impianti e macchinari ad alta tecnologia per il mercato automotive cinese. C'è anche il Letta presidente dell'associazione Italia-Asean dietro?

Plausibile, ma non è questo il punto. Quando Letta dice che il mercato delle auto elettriche è il futuro parla il politico dottor Jekill o il lobbista Mister Hyde?

Da ansa.it l'11 febbraio 2022.

È on line sul sito di ogni parlamentare la dichiarazione dei redditi del 2021. La documentazione patrimoniale dei deputati e dei senatori è disponibile sulla pagina personale di ogni singolo deputato e senatore. 

È il segretario del Pd Enrico Letta il leader con il reddito complessivo più alto in base alla documentazione patrimoniale presentata che riguarda i redditi del 2020.

Il segretario Dem ha un reddito 621.818 euro. Segue Matteo Renzi con 571.391 euro. Al terzo posto si classifica Giorgia Meloni con 134.206 euro. Il leader di Leu Roberto Speranza ha un reddito complessivo di 107.842 euro. 

Il segretario di Sinistra Italiana Nicola Fratoianni ha un reddito complessivo di 101.800 euro. "Ultimo" in base alla documentazione il segretario della Lega Matteo Salvini di 99.699 euro.

È Niccolò Ghedini, senatore di Forza Italia e avvocato di Silvio Berlusconi il senatore più ricco in base alla documentazione patrimoniale presentata che fa riferimento all'anno 2020.

Il senatore di Fi ha un reddito complessivo di 2 milioni 689 euro. Al secondo posto, un altro avvocato, la senatrice della Lega Giulia Bongiorno con un reddito complessivo di 2 milioni 402euro.

l senatore a vita Renzo Piano dichiara un reddito imponibile di 1 milione 860 euro. Non risulta visibile la dichiarazione patrimoniale del senatore a vita Mario Monti. 

Il premier Mario Draghi ha un reddito complessivo di 527.319 euro. Nella documentazione patrimoniale presente sul sito del governo risulta inoltre che il capo del governo è proprietario di 16 immobili tra terreni e fabbricati tra cui un appartamento a Londra, varie proprietà tra Roma, Anzio, Stra in provincia di Venezia e a Città della Pieve.

Tra i ministri politici: il titolare della Farnesina Luigi Di Maio ha un reddito complessivo di 98.471. euro, il ministro per i Rapporti con il Parlamento Federico D'Incà 95.811, Stefano Patuanelli, ministro per le Politiche agricolo è di 98.980 euro. 

Fabiana Dadone, ministro per le politiche giovanili 98.471euro il leghista Giancarlo Giorgetti, ministro Sviluppo Economico ha un reddito di 99.883 euro. Erika Stefani, ministro per le disabilità 99.699.

Il ministro per il Turismo Massimo Garavaglia ha un reddito complessivo di 98.874 A guidare la delegazione di Fi è Renato Brunetta con 206.996 euro. Mara Carfagna, ministro per il Sud ha un reddito di 139.833 euro mentre il ministro per gli affari regionali Maria Stella Gelmini ha un reddito di 100.324 Il ministro per le Pari Opportunità Elena Bonetti in quota Iv) ha un reddito complessivo 99.864. 

Per il Pd, il ministro del Lavoro Andrea Orlando ha un reddito complessivo 104.269 euro, quello della Difesa Lorenzo Guerini è pari a 112.018 euro. Il ministro della Cultura Dario Franceschini ha un complessivo di 165.384 euro.

Giovanna Faggionato per "Domani" l’Articolo del 13 luglio 2021. 

Ai numeri 76-78 dell’avenue degli Champs Elysée, a Parigi, ha sede l’ultima avventura di Enrico Letta, anzi penultima, visto il suo ritorno improvviso in patria a fine marzo per riprendere le redini del Partito democratico. Molti sanno che l’ex primo ministro italiano nella capitale francese è stato il direttore dell’istituto per gli affari internazionali della prestigiosa università di Sciences Po e presidente del Jacques Delors Centre, l’istituto intitolato a uno dei padri fondatori dell’Unione europea, probabilmente il più nobile ex presidente della commissione Ue. Pochi invece hanno seguito con costanza i suoi rapporti con il mondo del business che con l’allontanamento dalla politica si sono moltiplicati.

Il suo nome è stato citato in aprile dal quotidiano Le Monde, quando è stato siglato uno degli accordi più importanti per l’economia continentale degli anni a venire: i due giganti transalpini di acqua, rifiuti ed energia, Veolia e Suez, hanno trovato l’intesa per fondersi dando vita a una società da 37 miliardi di fatturato, pari al giro di affari di un colosso dell’automotive come Stellantis. Suez si era opposta per via giudiziaria al tentativo di acquisizione di Veolia dando vita a una battaglia durata tre stagioni. La stampa italiana ha raccontato i tentativi di mediazione del ministro dell’economia francese Bruno Le Maire, ma non ha raccontato che a permettere la pace è stata la la mediazione della società parigina, Equanim, di cui Letta è presentato come fondatore.

Equanim si definisce la «prima piattaforma di mediazione internazionale» e il suo modello di business, sulla carta, è piuttosto semplice: arruolare personalità di altissimo livello del mondo degli affari e della politica internazionale che possano avere un ruolo di mediatori in conflitti complessi come quello Veolia Suez. 

Sul suo sito appare un cameo di Letta, affiancato a una sua dichiarazione: «Nel contesto di contenziosi internazionali ad alta intensità, Equanim permette alle parti di coinvolgere individui della vita pubblica e economica internazionale come co-mediatori e operatori di mediazione per fornire una soluzione completa alle dispute più complesse».

I giornalisti francesi che abbiamo contattato si sono attenuti a quanto dichiara la società, noi abbiamo chiesto chiarimenti sia a Equanim che a Letta. Secondo i documenti del registro delle imprese francese, le azioni della società sono detenute solo da tre dei fondatori: l’ex ministro dell’interno francese, Matthias Fekl, collaboratore del candidato alle presidenziali Benoit Hamon che sfidò Macron, dall’ex vicesindaco della capitale francese Patrick Klugman, partner dello studio legale Gka e associati, e dall’avvocato Ivan Terel esperto di diritto internazionale dello stesso studio.

Ma al loro fianco sono elencati altri tre fondatori d’eccezione, Letta appunto, che è anche presidente onorario del consiglio strategico internazionale della società, Maurice Levy, celebre manager e milionario francese, già presidente e direttore generale del gigante pubblicitario Publicis e Gérard Mestrallet, altro grande capitano d’azienda d’oltralpe, già presidente di Suez e direttore generale di Engie, che attualmente guida anche l’agenzia francese per lo sviluppo della città saudita Alula e siede nella commissione reale del regime saudita per Alula, a fianco a Matteo Renzi. 

È a Mestrallet che Equanim ha affidato la mediazione vincente su Suez, azienda che ha guidato per anni, e per cui gli è stata pagata una parcella da dieci milioni di euro. Mastrellet come Letta non è socio della società ma partecipa alla sua attività.

Il consiglio strategico internazionale che Letta presiede poi annovera molte altre personalità notevoli: l’ex ministro dell’interno francese, Bernard Cazeneuve, l’ex premier belga Yves Leterme, che nel 2016 ha abbandonato definitivamente la politica e ora tra i tanti incarichi è anche membro dell’organo di controllo finanziario dell’Uefa, Henrie De Castries che presiede l’institute Montaigne ed è il vicepresidente di Nestlé, l’ex primo ministro svedese Carl Bildt, oggi presidente dello European council of foreign relations, e poi Gerard Kromme, presidente di ThyssenGroup, Anne Marie Idrac, ex segretario di stato per i trasporti in Francia e consigliere di Total, AirFrance, Klm, e Thomas Glocer, ex amministratore delegato del gruppo Reuters e presidente del Council of foreign relations, amministratore indipendente di Morgan Stanley, solo per citarne alcuni.

Equanim è stata fondata a febbraio 2021, appena un mese prima che Letta fosse richiamato di improvviso a guidare il partito democratico fuori dalle secche in cui era finito con la fine del governo Conte due e le successive dimissioni di Nicola Zingaretti. 

Allora l’attuale segretario del Pd doveva sentirsi ben lontano dalla politica partitica e pronto ad arricchire il bouquet di incarichi che ha accumulato negli anni vissuti distanti da Roma, ma che gli sono stati affidati anche per lo status della sua esperienza politica di alto livello in Italia. Era il 2016 quando Letta fu nominato nell’advisory board di Amundi, società specializzata nell’asset management, controllata dal gruppo Credit Agricole e nota in Italia soprattutto per aver acquisito Pioneer dalla Unicredit di Jean Pierre Mustier, con una trattativa avviata nel dicembre di quell’anno.

Amundi non ha voluto rendere pubblica quale sia stata la retribuzione per quell’incarico, ma ci ha confermato che Letta lo ha lasciato a marzo di quest’anno per incompatibilità con il ritorno alla politica italiana. Nella galassia Crédit Agricole nel frattempo è entrata una lettiana doc come Alessia Mosca, anche lei docente a Sciences Po, nominata di recente presidente di Crédit Agricole Italia.

In quel board Letta ha seduto per cinque anni a fianco di personalità provenienti dal mondo delle istituzioni come Jurgen Stark, l’ex capo economista e membro del direttivo della Banca centrale europea e grandi patron di impresa francesi come Levy, presidente e direttore generale del gruppo pubblicitario Publicis, che ritroviamo accanto a Letta anche nella ben più recente avventura di Equanim.

Proprio a Publicis, l’ex premier italiano ha ottenuto un altro incarico di rilievo: nel maggio del 2019 è diventato membro del consiglio di sorveglianza del gruppo. Inoltre, sempre con Levy e Thomas Glocer, altro advisor di Equanim, sedeva nel comitato rischi e strategia. 

L’ultimo bilancio depositato da Publicis registra l’impegno e la remunerazione di Letta: per otto sedute, sempre presente, è stato pagato 100 mila euro. 

Per dare una idea del livello di clienti e di rischi che può affrontare il gigante della pubblicità francese, basti dire che una delle sue controllate ha curato per vent’anni e continua a curare l’immagine della monarchia saudita. Si tratta della società di pubbliche relazioni americana Qorvis ingaggiata dalla monarchia di Riad nel 2001 dopo l’attentato dell’undici settembre realizzato da dirottatori in maggioranza sauditi. Publicis ha acquisito la società nel 2014 e ha continuato il rapporto con il cliente anche in seguito alle rivelazioni sull’omicidio del giornalista Kashoggi, anzi ha moltiplicato i contratti.

Nel febbraio 2018, Levy era uno dei sostenitori della narrazione riformista sul paese arabo. A fine ottobre dello stesso anno, quando per la prima volta la monarchia saudita ammise che l’omicidio di Kashoggi, il giornalista dissidente smembrato nel consolato saudita di Istanbul, era stato pianificato, gli venne chiesto se Publicis avrebbe smesso di curare l’immagine di Ryad come avevano già fatto altre grandi firme. 

«Per il momento stiamo esaminando tutti gli aspetti e monitorando la situazione con molta attenzione», si è limitato a dire l’allora presidente, «Come sapete, al momento c'è una situazione quantomeno confusa». I sauditi hanno ammesso la pianificazione dell’omicidio, ma argomentava Levy, «nessuno sa chi ha dato l'ordine per il momento. Possiamo immaginare, ma non abbiamo prove».

Nel 2020, quando già Letta sedeva nel consiglio di sorveglianza e nel comitato rischi, secondo i portali specializzati del settore pubbliche relazioni Qorvis ha ottenuto un contratto annuale da 690mila dollari per gestire la pubbliche relazioni della commissione per i diritti umani del regno saudita, messa in piedi proprio per migliorare l’immagine del regno.

Poco dopo l’ingresso in Publicis, Letta ottiene un nuovo incarico. L’8 agosto 2019, data fortunata per la simbologia cinese – l’8 è il numero che più si avvicina all’infinito - le agenzie battevano la seguente notizia: «Mentre la Cina celebra i quarant’anni della sua riforma e della sua politica di apertura e continua a guidare l’iniziativa globale della via della seta, la compagnia cinese Tojoy sta dimostrando un continuo impegno nel business globale accogliendo talenti internazionali di alto livello. Questo luglio l’ex primo ministro italiano Enrico Letta e l’ex cancelliere austriaco Werner Faymann hanno raggiunto ToJoy come co-presidenti di Tojoy Western Europe».

Tojoy si definisce un acceleratore di start up per le imprese cinesi e per le imprese europee che vogliono entrare nel mercato cinese. Il nome del gruppo è Tojoy Sharing group, che richiama la sharing economy e la gioia della condivisione. Ultimamente i comunicati della società insistono molto sul sostegno alla Belt and road initiative di xi Jinping. 

I due co-presidenti Letta e Faymann hanno seguito l’esempio di un altro ex premier europeo, Leterme, che ritroviamo tra gli advisor di Equanim e che negli anni è stato aspramente criticato per la sua condotta abbastanza spregiudicata al confine tra politica, lobbying ed economia. Leterme è co-presidente della società cinese, assieme all’ex presidente serbo Boris Tadic e all’ex presidente della Costa Rica, Jose Maria Figueres.

Un mese prima di diventare presidente di Tojoy per l’Europa occidentale, Letta aveva presenziato e tenuto un discorso alla cerimonia che la società aveva organizzato in occasione dell’apertura del suo primo ufficio in Europa, a Parigi. Con lui hanno celebrato il momento anche l’ex premier francese François Fillon, quello spagnolo Luis Zapatero, l’ex vicepremier olandese Brinkhorst e al portoghese Portas. 

Sul sito di Tojoy c’è una vetrina di foto con 36 ex capi di stato e di governo, che vanno dall’ex presidente francese François Hollande, all’ex vicepremier tedesco, Sigmar Gabriel, ma solo alcuni hanno ruoli che vanno oltre il partecipare al «network globale» della società e Letta è tra questi.

Secondo alcuni i giornalisti che lavorano a Pechino ToJoy non è una azienda molto conosciuta, seppure sia un gruppo con una storia decennale. In ogni caso chi conosce bene il sistema cinese spiega che quella di offrire ruoli onorari a leader stranieri è una prassi piuttosto comune. 

ToJoy non ha risposto alle nostre richieste di chiarimento. In compenso sappiamo che l’estate scorsa ha aderito alla rete internazionale per le piccole e medie imprese (Insme) che lavora sotto l’ombrello dell’Ocse e ne ha incontrato i vertici italiani.

Il presidente di Insme Italia, Sergio Arzeni, dice che ToJoy mette insieme circa 750mila tra imprese e investitori cinesi con una diffusione capillare che non si limita alle grandi città. Il punto di contatto tra la rete italiana e ToJoy è l’ex premier belga Leterme, che è stato vicesegretario dell’Ocse quando Arzeni era il direttore del centro per l’imprenditorialità dell’organizzazione internazionale: «Siamo legati da stima e amicizia», dice Arzeni organizzatore del primo incontro ministeriale Ocse che ha dato vita a Insme, tenuto in Italia quando era premier Amato e Letta era ministro dell’industria.

«La scorsa estate abbiamo discusso di progetti di piccoli produttori italiani di qualità da portare in Cina, vino, cibo, artigianato, coinvolgendo Unioncamere e Simest perchè li segnalassero, ma poi con il lockdown non se ne è fatto più nulla». 

Anche se recentemente la società diffonde comunicati che vengono ripresi da diversi portali di informazione italiani, dall’AdnKronos a LaSicilia, l’unico affare concreto sembra l’accordo di distribuzione dei prodotti della società Nokonden, produttore di macchinari di disinfezione e analisi medica, in una joint venture con un produttore di disinfettanti e termoscanner, l’affare migliore in tempi di Covid 19.

L’ex premier Leterme somma molti più incarichi di Letta, da Volkswagen all’Uefa, che portano a continue sovrapposizioni di ruoli. Affianca Letta in Equanim e nel club di Madrid, una organizzazione internazionale di politici che organizza eventi e attività su temi di interesse internazionale. 

E da quando ha un rapporto consolidato con ToJoy ha moltiplicato gli interventi pubblici a favore dei dirigenti di Pechino. Il 26 giugno scorso la sua faccia appariva sulla copertina del tabloid popolare Southern Metropolis Daily dell’area di Guangzhou city, per un’intervista in cui sottolineava «la serenità, la gentilezza e la saggezza« dimostrate dai leader del partito comunista cinese nei loro scambi.

Il professore di relazioni internazionali Jonathan Holslag, docente della Vrije Universiteit Brussel, l’ateneo fiammingo di Bruxelles, ha più volte criticato sulla stampa belga e olandese l’incarico di Leterme nel veicolo di investimento cinese. Per il professore gli ex uomini di stato stranieri aiutano gli imprenditori cinesi ad avvicinarsi al partito comunista. La stampa cinese, scrive Holslag, descrive il patron di ToJoy, Lu Junqing, come un faccendiere: «La sua spalla sinistra è la politica, la spalla destra è il business». E ancora: «Fonti cinesi descrivono il suo modello di business come l’economia delle foto di gruppo». Il suo sarebbe niente di meno che un ruolo di mediatore tra politica e affari, in quella zona grigia che Letta ha con gli anni frequentato progressivamente di più.

Oltre ad Amundi, l’incarico che l’attuale segretario del Partito democratico ha mantenuto più a lungo, è quello di amministratore della Liberty Zeta, società di diritto britannico con sede in Regent’s Street a Londra. 

La Liberty Zeta è una holding che ha come azionisti diversi fondi di private equity riconducibili al fondo Glendower Capital e al fondo Bluegemm e che gestisce sostanzialmente i proventi del business del marchio di moda Liberty che ha il suo store allo stesso indirizzo nel centro della capitale britannica. Letta ne è stato tra gli amministratori da maggio 2016 a marzo 2021. Né la società, né lui hanno risposto alle nostre domande, ma tra tutti questo appare l’incarico decisamente meno problematico.

·        Giuseppe Pippo Civati.

Civati, il ritorno 5 anni dopo: ma il palazzo non mi manca. Giuseppe Alberto Falci su Il Corriere della Sera il 20 Agosto 2022.

Giura che fino a due giorni fa non sapeva nulla della candidatura. Giuseppe Civati in questi anni ha aperto il blog di successo «Ciwati» e fa l’editore di professione

Giura che fino a due giorni fa non ne sapeva nulla della candidatura. Giuseppe Civati, per tutti Pippo, classe ’75, un blog che ha avuto successo, «Ciwati», una legislatura a Montecitorio, professione editore, si è eclissato per cinque lunghi anni. «Ho aperto una casa editrice che si chiama People, è il mio lavoro e rimarrà lo stesso qualunque sia il risultato elettorale». Già enfant prodige della sinistra. Già compagno di Leopolda di Matteo Renzi: con lui, nel 201o, lanciò la rottamazione della nomenklatura Pd, ma quella liaison si concluse malamente in meno di un anno, così nel 2013 Civati sfidava lo stesso Renzi nelle primarie per la guida del partito. Già «sciccionista», quando nel 2015 lasciò il Pd per fondare Possibile. Adesso il ritorno: è stato prescelto in quota Sinistra italiana-Verdi nel centrosinistra guidato da Enrico Letta per un posto nel listino plurinominale in Emilia-Romagna al Senato.

Assicura che in questi anni la politica non gli è mancata, almeno quella del palazzo. Anzi. «Li ho vissuti con molto distacco. D’altro canto — scherza — non ho rapporto sereno con i voti di fiducia. Insomma, avrei fatto fatica». Prima il governo Conte 1, risultato dell’alleanza tra Lega e M5S, poi l’esecutivo giallorosso, infine il gabinetto guidato da Mario Draghi. «È stata una legislatura folle e devo ammettere che è stato un sollievo non dovermi confrontare con alcuni passaggi critici di questi ultimi cinque anni. Io soffro le larghe intese… ». E se all’indomani nessuno dovesse avere i numeri per governare e si riproponesse un governissimo con tutti dentro? Non ci vuole pensare, Civati, a questo scenario. Né tantomeno fa i salti di gioia quando viene evocata la cosiddetta «agenda Draghi»: «È venuto invece il momento di scrivere una grande agenda dei prossimi anni, ambiziosa e senza paura».

A chi gli sottolinea di essere in una lista «gemellata» alla corsa di Pier Ferdinando Casini, prescelto dal Pd per il collegio uninominale di Bologna, la risposta di Civati suona così: «Non ho scelto né l’una, né l’altra cosa, fino all’altro ieri non ero candidato». Altro chiarimento: «Non sono del Pd. In questi anni ho continuato a seguire le battaglie di Possibile, partito che è molto cresciuto, è molto giovane, grazie al lavoro di Beatrice Brignone, candidata con me in Emilia-Romagna».

Resta la domanda: come nasce la candidatura di Civati? «È arrivata perché Possibile ha aderito alla lista di Sinistra italiana e dei Verdi. E si è stabilito che potessero assegnarci un collegio buono. Tuttavia il risultato dipende da 1.500 fattori». Un giudizio sul segretario del Pd Enrico Letta? «Mentre con Renzi era impossibile avere una discussione serena, per usare un aggettivo che piacque tanto, con Enrico anche nei momenti di maggiore divisione c’è sempre un rapporto corretto e leale». Ora però ci sarà da affrontare una campagna elettorale lampo: «È ancora tutta da pensare. Non so cosa farò. La parola chiave sarà clima, perché dipenderà tutto da questo. Da qui passerà la riforma del Paese, la sua indipendenza, la sua libertà».

·        Goffredo Bettini.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 21 novembre 2022.

La frase che gli piace di più pronunciare è: «Sento aria di crisi». Nelle crisi lui sguazza, nelle difficoltà sciaguatta, nelle emergenze diguazza. Vive di alleanze, apre e chiude porte, battezza correnti, fa nascere coalizioni, tesse relazioni, indica candidati, se ci sono due amici li divide, se ci sono due nemici fa da pontiere, è esperto di rimpasti, sa quando è tempo di congressi... Lui, secondo la filosofia delle terrazze romane, non vuole solo partecipare alla politica, vuole avere il potere di farla fallire. E ci è sempre riuscito. 

Sì, va bene. Ma che lavoro fa Goffredo Bettini? Risposta più semplice: il funzionario di partito fin dagli anni '70. Risposta più complessa: rivoluzionario di professione sempre a galla, padrone per decenni della sinistra romana, che la sua pancia allatta e contiene, ora in apparente disarmo ma per questo ancora più pericoloso «Quello che conta non è il potere, è l'influenza che uno sa esercitare» Goffredo Bettini è, in fondo, uno che risolve i problemi di governo. 

Un po' Mr. Wolf lui adora il cinema, che è una passione, ma ancora di più uno strumento famigliare di potere, la longa manus cultural-mondana chiamata festival che dà e che riceve e un po' Nero Wolfe, il detective capace di venire a capo dei casi più intricati stando seduto a rimuginare sulla frusta poltrona di casa: «Io non sono un consigliere, sono solo uno che pensa. La mia forza è il disincanto».

La nobilesca schiatta dei consigliori romani, che comincia con Cosmo Quorli e transita in Salvo Nastasi - la storia dei grandi camerlenghi che dominano i corridoi del Potere, al di qua e al di là del Tevere - in lui si sublima. Sciarpa extra long, centocinquanta chili, camminata incerta e bastone del comando. Goffredone imperatore di Roma. 

Collage di appellativi e/o epiteti di Goffredo Bettini, guru e stratega del centrosinistra anni Novanta e Duemila, e oltre. Il Richelieu del Nazareno. Ras del Pd romano. Dominus capitolino. Gran Visir. Genio oscuro della Sinistra. Gran tessitore. Antipapa rosso. Kingmaker della politica romana. Burattinaio di mille trame.

Mistero Bettini, soprannominato Panzarella perché tutti gli pizzicano la pancia in segno di amicizia. Apparentemente uomo senza qualità, dice cose che sembrano banali e spesso sbagliate, non controlla i pacchetti di voti ma le Fondazioni sì assunzioni, posti, stipendi... - sempre la robba conta, si esprime con concettosi ragionamenti pieni di sensibilità de sinistra, suggerisce soluzioni di basso cabotaggio democristiano spacciandole per elaborazioni di alta strategia, eppure è ascoltato cum reverentia ac tremore dai vertici dem e suscita ancora una incomprensibile fascinazione sul mondo post comunista e le residuali brigate metalmeccaniche. Berlinguer 4.0 senza la Resistenza al fascismo.

Imperatore di «Roma potentona», ippopotamo dalla mente sottile, deus ex machina senza autista, senza auto blu, senza cariche, senza televisione e in tasca solo telefonini di modello archeologico - un Brondi o un Nokia - come solo i veri uomini di potere sanno permettersi, scuola Ingrao e realismo togliattiano, physique du rôle del monsignore, altro che monaco, camicioni come fossero tonache che sembra Aldo Fabrizi - Benvenuto reverendo! Goffredo Bettini, Sua Eminenza Grigia, ha fatto e disfatto la storia della sinistra italiana. 

Storia triste, solitaria y final. Nel gruppo dirigente della Fgci romana, nella segreteria di Massimo D'Alema, responsabile della propaganda del Pci, padre padrone del magnificato modello Roma, inventore della candidatura a sindaco di Francesco Rutelli, mente del veltronismo, capo della comunicazione con Enrico Gasbarra alla Provincia di Roma, capo delle relazioni esterne della giunta Marrazzo, regista dell'operazione Ignazio Marino, padrino politico di Nicola Zingaretti - e intanto deputato, senatore, europarlamentare fra Pds, Ds, Ulivo e Pd, che ha inventato lui infatuazione e immediata rottura con Renzi («Goffredo aveva una strategia così raffinata da essere inesistente»), burattinaio del secondo governo Conte e ispiratore dell'asse Pd-grillini, sempre dietro le quinte ma con aristocratica eleganza. 

Lombi aristocratici, romanissimo per nascita, figlio di Wilde Pasquali, che in prime nozze aveva sposato un principe musulmano, nipote di un pascià, e dell'avvocato Vittorio Bettini dei Rocchi Bettini Camerata Passionei Mazzoleni, nobile e grande proprietario terriero marchigiano Podere operaio - ottima educazione, ottimissime letture fra Lenin e Dostoevskij e il meglio dell'intellighenzia come amici di famiglia, Goffredo Bettini - settant'anni da poco, a proposito Auguri, e ci ricordiamo le feste di compleanno romane: bicchierate, un pezzo di centrosinistra e uno di centrodestra, da Giuseppe Provenzano a Gianni Letta, glamour, larghe intese e polpette al sugo - non ha mogli, non ha figli, solo una magnifica ossessione per il cinema e le bellezze turgide della Thailandia dove sverna da anni, organizza festival e dà consigli sulle cose italiane a dieci ore di fuso orario di distanza, sempre rilanciando la missione palingenetica della sinistra. Dalla Thailandia con amore. Il partito «Thailandia viva». La corrente thailandese del Pd.

Un po' cicisbeo impomatato un po' monarca senza regno, malinconico e goloso (va pazzo per le mozzarelle, i supplì e il profitterol invero sublime di Regoli, il più buono di Roma), amicissimo perfino della vecchia guardia dell'Msi dai tempi in cui era in Campidoglio, temutissimo dal popolo di Capalbio, 

nel senso che gli stanno tutti in soggezione, autorità suprema della presentabilità sociale (chi è nel suo elenco fa gara a farlo sapere), il vezzo di abitare sempre in appartamenti piccolissimi e modesti, scantinati e case-studio in cui ricrea ogni volta il medesimo habitat, niente comfort ma tanti sgabelli e poltroncine («Accomandati, mio caro...»), pantofole di pile e pile di libri, richiestissimo dai salotti e i gruppi editoriali, voce chioccia e vanità, quando va in tv pretende sempre di essere l'unico ospite del programma, da Barbara o chez Lilli, e alla fine della trasmissione arriva immancabile la telefonata dell'Ingegnere, De Benedetti. «Complimenti, sei stato bravissimo». Fa crollare gli ascolti, ma averlo in studio fa blasone.

Esponente più prestigioso dell'ala poltronista del Pd in eterna lotta con quella movimentista, sorta di ministro ombra alla Nostal'gija della sinistra post sovietica ferma agli anni Cinquanta e che sta sempre dalla parte sbagliata della Storia, Goffredo Bettini in realtà non ha mai elaborato il lutto per la morte del comunismo. Quando si sciolse il Pci si ammalò di depressione. E oggi sembra soffrire di una regressione infantile a quel mondo lontano... Nuovo libro firmato dal Kompagno Bettini: A sinistra da capo. Sunto: «Quando passeggio sulla Neva mi sento più a casa che nel deserto del Texas». «Stalin fu Asia. Lenin era Europa». «La sinistra deve riprendere la missione che ha perduto. La sinistra inizia da Spartacus». «Io sono contro il nuovismo senza idee».

Bettini sarà decaduto, ma il piglio dispotico gli è rimasto. Quanto alla sinistra, invece, non c'è neanche più. Ma restano le sfide, gli accordi, le strategie, le frasi fatte, i consigli («In politica si vince meglio quando nessuno ti prende sul serio»), le candidature, i favori, gli appoggi, i telefonini che squillano. «Ciao, sono Goffredo: tutto risolto».

Lettera di Goffredo Bettini, pubblicata dal “Giornale” il 22 novembre 2022.

Caro direttore, in un suo articolo pubblicato domenica ha polemizzato con la sinistra Pd e con me. Lo ha fatto sul piano politico, ponendo questioni vere e legittime. Abbiamo orientamenti diversi, ma non solo questo è naturale in democrazia ma è il sale della politica; che pretende le differenze e i conflitti. 

Con garbo, mi viene da dirle che il riferimento alla Neva, pubblicato nel mio nuovo libro «A sinistra. Da capo» e sul quale hanno polemizzato anche alcune vestali del «riformismo», in verità non era un riferimento nostalgico al comunismo, ma il contrario. Appunto, il riconoscimento che la grande città in cui scorre la Neva, San Pietroburgo, nel corso della storia è stata una delle più alte espressioni della coscienza europea. 

Puskin, Gogol e Dostoevskij. E poi Shostakovich, che suonò la sua sinfonia sotto i bombardamenti tedeschi non come un inno a Stalin, piuttosto al valore universale della libertà. Semmai, quelle espressioni dolci sulle atmosfere di San Pietroburgo le ho riprese dalle pagine di due magnifiche poetesse dissidenti e perseguitate dal potere di Mosca, Akmatova e Cvetaeva. 

Invece, la pagina uscita ieri su di me a firma di Luigi Mascheroni è un attacco morboso alla mia persona. Non entro nel merito. Ognuno, nei limiti della legge, può esprimere qualsiasi opinione. Le dico solo che si tratta di affermazioni facilmente dimostrabili come non vere.

Non sono mai stato il capo della comunicazione di Gasbarra, né quello delle relazioni esterne di Marrazzo.

Le presunte disfatte che avrei provocato, subito dopo, sono contraddette nello stesso articolo dalle operazioni politiche che avrei guidato, tutte vincenti: i sindaci Rutelli e Veltroni, la nascita del Pd, l'elezione di Marino, la segreteria di Nicola Zingaretti. Potrei aggiungere la vittoria di Marrazzo, quella di Gualtieri e la formazione del governo Conte II. Le elenco solo per rispondere alla malevolenza, non certo per far intendere che sono state solo farina del mio sacco. Infine: il poltronaro.

Ditemi di tutto, ma le mie ripetute dimissioni da ruoli di potere senza poi avere alcuna rete di protezione, sono note: da assessore al Comune di Roma (incarico svolto per pochi mesi), dal Senato della Repubblica, da presidente della Festa del cinema di Roma dopo la vittoria di Alemanno (nonostante avessi una maggioranza granitica nel Cda), la rinuncia dopo una sola legislatura a ricandidarmi al Parlamento europeo, il diniego a tornare in Parlamento a queste ultime elezioni (proposta che mi era stata avanzata dal segretario Letta). So che queste precisazioni lasciano il tempo che trovano. Ma, siccome l'ho sempre rispettata professionalmente, spero che le possa verificare personalmente.

Mattia Feltri per “la Stampa” l’11 novembre 2022.

Ieri ho letto sul Fatto Quotidiano l'anticipazione del nuovo libro di Goffredo Bettini (se qualcuno non sapesse chi sia, è uno che ama aggrottare la fronte e scrutare il futuro per dispensare consigli che il Pd segue da almeno quindici anni, cioè da quando non vince più le elezioni). Non è vero: non ho letto l'anticipazione. Ho letto le prime sei righe, dove dice molto male di Matteo Renzi col quale, ammette, fu tuttavia «benevolo», per quanto «con prudenza» e «mantenendo una marcata autonomia». 

Sarei anche andato avanti, ma lette le prime sei righe sono venuto meno. E non so se fu il delirio, ma sentivo la voce di Bettini «La sola proposta propulsiva, credibile, combattiva è Matteo Renzi» (aprile '13); «si vince innovando, Renzi è l'innovazione» (giugno '13); «Renzi premier? Lo voterei subito» (luglio '13); «il giorno dopo che Renzi avrà vinto le primarie, cambierà la politica italiana» (luglio '13);

«mettere Renzi alla gogna è autodistruttivo per il Pd» (luglio '13); «la premiership più capace è quella di Renzi» (luglio '13); «ha ragione Renzi, il governo Letta non può durare» (luglio '13); «Renzi è la nostra e vera unica risorsa per dare un governo democratico all'Italia» (luglio '13); «Renzi è innovativo, dinamico, popolare. I giovani del Pd lo sostengano» (settembre '13); 

«Renzi ha straordinariamente rimesso in moto la politica italiana e ridato una speranza al Paese» (maggio '14); «la resistenza a Renzi nel Pd è avventurosa e arriva da leader del passato» (aprile '15) Benevolo, ma con prudenza e mantenendo una marcata autonomia Se servisse, negherebbero pure il nome della madre.

Dagospia il 10 novembre 2022. Estratto da “A sinistra. Da capo”, di Goffredo Bettini (ed. Paper First)

Con Renzi avviene la rottura dello scorrere regolare delle cose, interne ed esterne al Pd. È una vampata, al suo nascere irresistibile. Tutto il tradizionale insediamento del vecchio gruppo dirigente della sinistra viene frantumato dal suo interno (). 

Molti ne furono conquistati. Anch' io, lontano mille miglia perfino antropologicamente dal fiorentino, con prudenza e sempre mantenendo una marcata autonomia, fui benevolo verso questo impeto. (). Questo racconto durò fino allo straordinario risultato delle Europee del 2014.(...) Da quel momento in poi iniziò tutta un'altra storia. Oppure, si scoprì la natura vera di quella precedente. (...) Intelligente, accattivante, capace anche di risultati rilevanti.

Ma via via sempre più abbozzolato nella contemplazione di se stesso e della sua bravura; sempre più saccente, propagandistico, restio al dialogo. Come i veri populisti, propenso a caricare su di sé tutta la verità, a respingere ogni rilievo, a dileggiare le critiche, a combattere i propri avversari per distruggerli.

Non avevo mai incontrato Conte, pur percependolo come una persona rispettabile, un professionista affermato, dai modi educati e dallo stile (direi con valenza positiva) democristiano.

Ero rimasto impressionato dalla nettezza e capacità comunicativa della sua perorazione parlamentare contro la Lega. A seguito della mia intervista sul Corriere della Sera, una volta partito il governo, Conte mi cercò. Chi lo conosce, sa che le sue telefonate non sono brevi. Un pregio? Un difetto? Non so. (...) Il nuovo premier, rubando a se stesso le ore di sonno (è un lavoratore instancabile), si dava il tempo per argomentare, per raccontare, per rendere viva la rappresentazione delle sue esperienze positive o negative. 

E poi invitava a dire la tua, con la stessa calma e profondità. All'inizio, la sua fu la curiosità di dialogare con chi aveva di fatto, insieme ad altri, aperto la strada al suo nuovo governo (). Mi sorpresi della sua cultura. Non solo giuridica. Ma storica, filosofica e scientifica. Constatai che gli si poteva dire tutto senza remore, a condizione di trasmettergli una considerazione di stima e una solidarietà nell'impresa comune che avevamo entrambi dinanzi.

Il segretario del Pd, in un'ampia e bella intervista al Corriere della Sera, pronunciò la "scandalosa" frase: "Conte è oggettivamente un punto fortissimo di riferimento di tutte le forze progressiste". Quale scandalo? Indicava la realtà del momento. 

Conte era il capo di una coalizione larga, dov' era presente tutto il campo progressista ().Zingaretti non ha mai parlato di Conte come il capo dei progressisti. Conosciamo le differenze delle storie e delle idee alle quali il Pd non deve mai rinunciare. Ha detto "punto di riferimento". Vale a dire che in quel momento il nostro riferimento era colui che, grazie anche al nostro consenso, governava la nazione. Rappresentandoci pienamente. Non ha detto: "Noi siamo Conte". Semmai, molti del Pd, in seguito, diranno: "Noi siamo Draghi!".

In quei giorni, avvertii quanto fosse necessaria la stretta politica di cui ho precedentemente parlato. E una certa lentezza di Conte nel cogliere il cambio di fase. Con orgoglio rivendicava mesi di buon governo e di risultati. Non intendeva creare squilibri, cambiare la squadra, ricalibrare i rapporti tra i partiti. Aveva le sue ragioni. Sentiva che se avesse mosso qualcosa, il rischio sarebbe stato di mandare giù l'intera struttura del governo, soprattutto non si fidava di Renzi ed era sicuro che aprire a un "tagliando" generale avrebbe messo in discussione la sua stessa leadership. 

(...) Nelle conversazioni che in quel periodo intrattenni con il "fiorentino", incominciò a emergere una sua convinzione di fondo. La maggioranza poteva andare avanti. Parte del governo doveva cambiare, ma, se si voleva una vera svolta, occorreva togliere di mezzo il premier. Provò a incoraggiare tutti in questa direzione; proponendo la leadership di volta in volta a Zingaretti, a Franceschini, a Di Maio. E non so a chi altri. Sarebbero andati tutti bene, tranne l'avvocato del popolo.

Renzi trovò un granitico rifiuto del Pd. Non avvertii, tuttavia, in lui una volontà di rompere. Piuttosto una preoccupazione, un'ansia, un protagonismo in tutte le direzioni () Dopo numerosi incontri (nella mia casetta di quaranta metri quadri), Renzi mi parve rassegnato rispetto alla nostra posizione su Conte: giusta, logica e pratica; perché mai i 5 Stelle avrebbero accettato la decapitazione del loro leader ().A un certo punto non so cosa successe. Non posso fare congetture né indicare precise responsabilità. Fatto sta che il leader di Italia Viva virò con decisione e all'improvviso. (...).

Nei mesi precedenti si era parlato più volte di un ritorno di Draghi. Nei momenti più difficili, questo nome importante e ingombrante si era ripresentato sullo sfondo (). Nelle ore del ripensamento di Renzi, probabilmente si era consolidata la notizia che a certe condizioni Draghi avrebbe accettato di guidare il governo. 

Inoltre, dopo la vittoria di Biden, mutò l'indirizzo della politica estera americana. Dall'isolazionismo di Trump, si passò a un interventismo nello scenario mondiale che pretendeva una maggiore disciplina atlantica da parte anche del governo italiano. Conte pagò le aperture multilaterali verso la Cina, la Russia, l'idea di un'autonomia europea.

Il governo Conte II non era stato perfetto: alcune materie governate mediocremente; qualche lentezza e indecisione, qualche impuntatura (ricordo la questione dei servizi segreti che non ho ben compreso politicamente, anche se respingo l'assai poco limpida battaglia sotterranea che su questo tema ha svolto Renzi) che hanno reso il cammino più faticoso. Ma è stato il governo più di sinistra degli ultimi anni, più collegiale nella sua conduzione, più vicino al sentimento dei cittadini sui temi sociali e della lotta alla pandemia. Non c'erano questioni di merito a giustificare la sua caduta.

La vera ragione è stata che quel governo aveva marcato un'autonomia e rappresentato un'increspatura rispetto all'establishment occidentale; non disposto ad accettarla e perdonarla. Il tritacarne mediatico investì anche me: la responsabilità era di aver sostenuto con chiarezza, coerenza e insistenza la linea che il Pd aveva scelto: l'incontro tra il Pd, un partito di sinistra, e il Movimento 5 Stelle trasformato via via, grazie a noi e grazie a Conte, in un partito democratico in grado di assumere responsabilità di governo e di collocarsi senza esitazioni nel contesto europeo.

In questo quadro di assoluta forza esterna di Draghi (ma di una progressiva sconnessione interna alla sua larga maggioranza) si profilò l'elezione del presidente della Repubblica.

() Il presidente del Consiglio in carica mantenne un riserbo, una posizione di sospesa indifferenza. Almeno così la lessi. Ma fu chiaro che il suo legittimo desiderio era quello di arrivare al Quirinale. Penso, addirittura, che nel momento in cui aveva accettato di assumere l'incarico di primo ministro, considerò esserci un implicito assenso verso quella destinazione. (...).

Via via sentii però cambiare il clima () in presenza di una diffusa convinzione che lo stesso Draghi avesse quell'ambizione, si determinò una certa diffidenza e un certo fastidio. Si avvertì una postura di superiorità non curante della politica, dei partiti e del Parlamento. Non dico che ci fosse: ma l'impressione fu questa; e alla fine questo conta.

() Ancor di più, mi colpì negativamente l'intervista di Bruno Vespa a un uomo intelligente e spesso saggio come il ministro Giorgetti: "Draghi potrebbe guidare il convoglio anche dal Quirinale. Sarebbe un semipresidenzialismo de facto in cui il presidente della Repubblica allarga le sue funzioni approfittando di una politica debole". (...). 

Nel nostro campo, ero convinto che la proposta migliore fosse quella di Dario Franceschini () Su Franceschini ci sarebbe stato l'appoggio del Movimento 5 Stelle, da me verificato personalmente. Di certo all'interno del partito, a partire dal segretario, l'idea era valutata con grande favore. Ma la destra non era in grado e non aveva voglia di fare operazioni politiche coraggiose. 

Mi convinsi allora che avremmo potuto mettere in campo un'assoluta novità. Non un politico in senso stretto, ma un uomo di cultura, uno studioso, un combattente sul fronte del sociale e degli "ultimi", un alto rappresentante del travagliato mondo cattolico: Andrea Riccardi, il capo spirituale della comunità di Sant' Egidio. Quando espressi a Letta questo mio pensiero lo trovai già pronto. E debbo dire persino entusiasta. Lo aveva valutato anche il segretario tenendolo accuratamente coperto. Anche Conte mi disse di averci già pensato e che gli sembrava un'ottima soluzione. D'altra parte, il Movimento 5 Stelle aveva bisogno di una personalità irregolare e fresca, non usurata. (...)

Così come un altro bel nome, peraltro di donna, quello di Elisabetta Belloni, fu gestito malissimo. (...) In una riunione negli uffici del Parlamento tra Letta e Conte, alla quale successivamente si aggiunse Salvini (che ottenne al telefono dalla Meloni il via libera), c'era stata una valutazione positiva su questa candidatura. Ma l'immediata uscita pubblica di Salvini sull'accordo fu assai maldestra. Prontamente Di Maio intervenne a gamba tesa. E lo stesso fece il ministro della Difesa, Guerini, riservatamente nel Pd. Renzi esplicitò in tv e alle agenzie la sua contrarietà, facendo naufragare definitivamente questa ipotesi.

Un voto contro la fiducia alla relazione di Draghi avrebbe innescato la caduta del governo e dunque portato alle elezioni anticipate. Conte non era convinto della meccanicità di questo scenario. Sosteneva che il governo poteva andare avanti anche senza di lui, che avrebbe assunto una posizione di astensione. Se davvero egli era considerato così indispensabile, perché nei precedenti mesi era stato trattato anche dalla stampa governativa in modo ostile e selvaggio? E perché Draghi non aveva accettato di definire un cronoprogramma di misure urgenti, rispetto a una situazione che si prospettava già pienamente drammatica? 

() Molti italiani sentivano le proposte del Movimento 5 Stelle consegnate a Draghi come ragionevoli e urgenti; quegli stessi italiani, tuttavia, non avrebbero compreso la liquidazione di un quadro politico che era stato percepito come utile e produttivo. Infine, era del tutto sbagliato levare la spina in un momento nel quale, anche grazie al Pd, il governo si era aperto a un incontro con i sindacati e a un'agenda sociale con provvedimenti di giustizia e di lotta alla povertà.

Fino all'ultimo, nelle ore successive alla relazione di Draghi e prima delle sue conclusioni, Conte mi sembrò incerto ma sensibile alle argomentazioni del Pd (). Dopo la replica di Draghi, tuttavia, non ci fu più niente da fare. Il premier non concesse nulla, fu corretto ma freddo e in certi momenti quasi sprezzante. La formulazione che ebbe sul bonus 110%, così caro a Conte, fu quasi derisoria. Dopo quelle conclusioni, lo strappo parve inevitabile.

·        Luigi De Magistris.

Luigi De Magistris, l'ex pm che volle ispirarsi a Che Guevara. Pietro De Leo su Il Tempo il 23 agosto 2022

Nel caos di una politica dove la parola data e le alleanze durano meno di una zanzara al cospetto del Ddt, il gesto rivoluzionario è rimanere sempre uguali a se stessi. È il caso di Luigi De Magistris. «In Parlamento, alla guida di Unione Popolare non darò tregua alla borghesia mafiosa, ai colletti bianchi che depredano il denaro pubblico cementificando il rapporto delle mafie con la politica». Parole sue, queste, presentandola sua ultima creatura politica. Tutto uguale, quindi, per quanto sia dietro l'angolo il rischio di fare la rievocazione dei bei tempi andati. Uguale l'aspirazione a creare un movimento nazionale per quanto il nome, unione popolare, segnali un abbassamento di penne rispetto a Dema, acronimo di Democrazia e Autonomia, ma vagamente egoevocativo. Uguale quel respiro di ribellismo partenopeo, richiamante l'«amm a scassà», motto della prima vittoria al Comune di Napoli, per quel pm (andato a sbattere su alcune inchieste ad alto impatto mediatico in cui si quagliò poco ma si fece tanto casino, citofonare Mastella) che volle farsi politico e alcune cose le azzeccò pure.

Sì, perché il guaio di De Magistris è che indovinò lo spirito della storia senza essere lui a capitalizzarlo, ma altri. Elo spirito era la foga anti sistema. Così si candidò all'Europarlamento nel 2009 tra le fila di Antonio Di Pietro, e il favore persino dello stesso Beppe Grillo. Archeologia politica, questa, ma era nota la sintonia tra il fu pm di Mani Pulite e il comico engagé di se stesso. Poi Grillo fece in proprio e, tra le tante dissociazioni in questi anni, ci fu anche quella verso il favore espresso a De Magistris. Che però era solo all'inizio. Dopo l'Europarlamento arrivò Napoli e la smania di fare da solo. O quasi. Al massimo con l'universo dei centri sociali, con cui fu sempre in amorevoli e amministrativi intenti. Per esempio, sotto la sua Amministrazione, fu sanata l'occupazione dell'ex Asilo Filangieri (un plesso molto antico, che risaliva alla seconda metà del 1500) da parte di un collettivo , poi riorganizzatosi in altra forma. E De Magistris andò addirittura a festeggiare il momento con un brindisi. Oppure ecco che, il giorno della seconda vittoria elettorale, quando De Magistris esultava innanzi alla folla, accanto a lui sventolava una bandiera del centro sociale «Je so Pazzo», e dietro campeggiava lo striscione di «nsurgencia». Centri dell'antagonismo partenopeo. E non ebbe dubbi, De Magistris, quando a Napoli nel 2017 arrivò Matteo Salvini per una tappa che doveva segnare un passaggio importante per la costruzione della Lega nazionale.

«Io sto con i centri sociali», assicurava De Magistris a fronte dei primi segnali che gli attivisti avrebbero fatto un bel po' di caos. Cosa che in effetti, purtroppo, si verificò. «La città si sta difendendo da un'evidente provocazione», aggiunse in seguito. Quando al contrario «la città» vera, quella dei negozianti costretti ad abbassare le serrande e dei cittadini a obbligati stare in casa, sacramentava per un sabato mandato all'aria dalla guerriglia urbana. Che c'entra un ex magistrato, che iniziò la carriera politica con un altro ex magistrato, a strizzare l'occhio ai vivai dell'illegalità? «Mi contraddico, contengo moltitudini», direbbe il poeta Walt Whitman. E a De Magistris capita spesso assai. Leggere, per credere, questo stralcio di discorso pronunciato nella sua seconda campagna elettorale per il Comune: «Come cazzo si fa a odiare? Non abbiate pregiudizi, come quelli sui migranti e sugli oppressi». Poi, qualche parola più in là, lancia un messaggino aulico a Matteo Renzi, altra sua grande passione: «Ti devi cacare sotto! Cacati sotto». Insomma, moratoria dell'odio e irradiamento dell'odio nel giro di qualche secondo.

Ma d'altronde, da quelle parti politiche, sono i decibel a contare. In un fantastico mondo in cui la potenza è nell'annuncio e nell'evocazione iconografica dei miti. Alla prima categoria, per esempio, appartenne la volontà, non realizzata, di creare una flotta di imbarcazioni napoletane per andare a salvare i migranti sul Mediterraneo. Alla seconda, invece, l'amore per Che Guevara. Un'immaginetta sovente compare, alle spalle di De Magistris, durante i collegamenti televisivi che fa dal suo studio.

«Del Che ho la passione per il popolo e l'ansia di giustizia, mi ispirala sua figura. Mi piacerebbe essere ricordato come il Che Guevara di Napoli», disse una volta, evidentemente dimentico di qualcosina che combinò il Che, tipo la repressione dei dissidenti. Mentre la pubblicistica trovava via più facile nel paragonarlo con il più domestico Masaniello. Fatto sta, che comunque di questo bollore vesuviano, esaurito il doppio mandato in Comune è rimasto ben poco.

Già, perché se De Magistris della forza antisisistema fu precursore, del suo trionfo vero fu solo spettatore, perché altri personaggi, ed altri volti avevano mietuto. Con uno di questi, Alessandro Di Battista, attualmente un senza casa politico, prova a giocare di politiche intese. Sì, perchè se De Magistris non parla benissimo di Conte («sono più vicino io di lui alla base del Movimento», ha detto di recente) tutt' altro slancio lo ha per Di Battista: «C'è un dialogo. Se avesse voglia di partecipare al nostro progetto si potrebbero fare tante cose insieme». Il Che Guevara del Vomero e il Che Guevara di Roma Nord. Più che irrealistico, imprudente: due galli nel pollaio, come noto, si «scassano» tra loro.

·        Mario Capanna.

Carlo Cambi per “La Verità” il 23 maggio 2022.

«Ce n'est qu' un début», è solo l'inizio.  La voce però non è più rabbiosamente allegra come ai tempi dei Campi Elisi, ora è pensosamente grave quasi ad annunciare «l'inizio della fine del mondo come l'abbiamo conosciuto finora. Sparano a fianco dell'Ucraina e non si rendono conto che il vero bersaglio sono loro, la loro idea di superiorità». 

Mario Capanna è tornato nella terra dove tirano le radici natie: tra i grumi di catrame di Alberto Burri, «medico come il vero eroe che ho tenuto come fratello: Gino Strada, uno che faceva la guerra alla guerra» e l'arte assoluta, ieratica, pacifica di Piero della Francesca. A Città di Castello dove ruscella un Tevere, che non è il Piave, ancor timido, ma già fiume universale coltiva l'unico albero che gli s' addice, ma non in senso politico: l'ulivo. Che è pace e luce, nutrimento ed energia «del naturale», specifica. Produce un extravergine di pregio e si dedica a un paio di ettari di orto biologico. 

Guai però a figurarselo come un Cincinnato della sinistra, a 77 anni si nutre ancora del potere della fantasia. Il mondo va in direzione ostinata e contraria e capita che un reduce mazziniano (come chi scrive) e un vessillifero del marxismo (come chi parla) di fronte a una guerra con troppi tifosi si trovino nella stessa trincea a sperare pace. Di questo qui si ragiona.

Sorpreso da questa sinistra atlantista, bellicista?

«Sorpreso? E perché mai. È da parecchio tempo che ci lotto dentro e contro. Pier Paolo Pasolini aveva visto giusto. Quando parlava del processo di omologazione non era campata per aria la sua analisi, e quel processo ha lavorato a fondo. Oggi l'atteggiamento prevalente è: se non penso credo di vivere meglio. Siamo passati dal cogito ergo sum al digito ergo sum il che è una catastrofe». 

Eppure il Pd continua a esercitare la sua pretesa superiorità morale ed egemonia culturale e porta la sinistra al fronte

«Perché, il Pd è di sinistra? Io non l'ho capita così. Nell'attuale maggioranza Enrico Letta è il più atlantista, è stato il primo a dire sì all'aumento al 2% delle spese militari, è il primo a inneggiare alla Nato.

C'è un appiattimento che è il pasoliniano processo di omologazione. La controprova sta nel fatto che il Pd sopisce sistematicamente chi esercita il dubbio. La questione fondamentale è questa: è necessario che menti libere lavorino per creare spirito critico nelle persone che è il grande assente del nostro tempo». 

Inciso: per questo ce l'hanno con gli studi classici? Le lauree in filosofia come la sua?

«Logico, non vogliono che la gente ragioni. Prevale il tecnicismo, a scuola come nel lavoro». 

A proposito di lavoro. La sinistra «sua» aveva a riferimento gli operai. E oggi?

«Oggi il mondo del lavoro, il mondo reale delle persone nella loro difficoltosa quotidianità non sono minimamente rappresentati. Non è un caso che a capo del governo ci sia un banchiere».

In questo pezzo di Umbria convivono la ragion pratica con Draghi a Città della Pieve, e la ragion critica a Città di Castello. Quale prevarrà?

«Per ora comanda il sistema, ma non è affatto vero che i giovani sono tutti bolliti. Ce n'è una gran parte che si interroga sull'assetto del mondo. Coloro i quali s' impegnano, e sono tanti, in una battaglia nella difesa dell'ambiente e dell'ecosistema hanno una funzione profondamente critica. 

Ci sono molti carboni accesi sotto la cenere. Il problema è che però non riescono a darsi una prospettiva. E la sinistra in questo mostra tutti i suoi limiti».

E però l'Europa con la guerra ha rimesso nel cassetto il Green deal. Ora che si spara viene buono anche il carbone. Non è così?

«È la più evidente prova di quella che chiamo l'imbecillità italo-europea. Mi diletto di filologia e dico imbecille senza offesa: in baculum, senza bastone, debole. Avrebbero bisogno di un sostegno, ma siccome sono stupidi non lo trovano e si inventano le sanzioni. Un disastro». 

Le sanzioni, dicono, sono un disastro per Vladimir Putin. Non è così?

«Mettono le sanzioni perché sono stupidi ignorando che fanno più male a noi. Noi italiani lo sappiamo bene. Dopo il '35 e la conquista dell'Etiopia, misero le sanzioni a Mussolini. Che le usò per inventarsi l'oro alla patria, l'autarchia e raggiungere il culmine della sua popolarità. Cuba da 70 anni sotto sanzioni ha tirato avanti, anzi in alcuni settori come la medicina dà lezioni al cosiddetto Occidente. L'Iran tira dritto da decenni, ora gli vanno a chiedere il petrolio per fregare Putin».

Allora qual è la verità?

«Che in Europa e in Italia le sanzioni stanno determinando una miscela esplosiva di inflazione e recessione che porta alla stagflazione. Una tragedia per tutti, mortale per chi sta peggio. Si può essere più stupidi? Per mascherare tutto questo s' inventano le bischerate sul filo-putinismo. Questa guerra non è Russia-Ucraina, è Russia-Ucraina-Nato-Usa. 

Non rendersi conto da parte dell'Europa che Joe Biden sta prendendo due piccioni con una fava è drammatico. Gli Usa vogliono indebolire l'Europa dal lato economico e questa guerra è una manna dal cielo e vogliono ingabbiare la Russia». 

Siamo obnubilati dal sì alle armi?

«Il provincialismo misero che ottenebra le menti italiche, soprattutto quelle governative, fa sì che non si prenda atto che è cominciata l'era post-americana. Che cosa diversa dalla fine della globalizzazione. C'entra il fatto che gli Usa non vogliono dirsi la verità: il loro ruolo di dominatori mondiali acquisito dopo la seconda guerra mondiale, per quanti sforzi facciano per non farlo tramontare, sta esaurendosi». 

Ma se tutti vogliono entrare nella Nato?

«Partiamo da un dato: sommando tutti gli aderenti presenti e futuri prossimi della Nato si arriva all'11% della popolazione mondiale. Sono ricchi, ma sono quattro gatti, metà dei cinesi o degli indiani! Non rendendosi conto che il loro tempo sta finendo, gli americani cosa fanno? Entrano in guerra contro la Russia.

Non è vero che armano solo l'Ucraina, stanno partecipando in modo attivo alla guerra. Ma non si limitano a questo. Nel Pacifico hanno fatto una Nato bis con il patto con Gran Bretagna e Australia dopo che la Cina ha fatto l'accordo con le isole Salomone. 

Sono un migliaio di isole, sono una diga nel Pacifico che consente ai cinesi di controllare le rotte di navigazione. Hanno fatto un'altra Nato in America centrale, un patto con la Colombia che definiscono Paese principale alleato, ma non aderente. Sono andato - a volte mi comporto da pazzo! - a leggermi tutto il trattato Nato, non è prevista la condizione di non aderente. Dunque c'è uno scopo politico». 

La Nato si occupa di armi, non di politica

«E invece gli Usa si preparano a contrastare con la Nato la prossima probabile vittoria di Lula in Brasile, si schierano contro l'Argentina che è entrata nella Via della seta, contro il Venezuela che vogliono ora sfruttare per il petrolio in chiave anti-russa. La guerra russo- ucraina- Nato-Usa è una tragedia immane ed è da considerarsi come antesignana dello scontro tra Stati Uniti e Cina». 

Scenario da guerra mondiale?

«La guerra mondiale è già in corso da tempo; è una guerra commerciale che per il momento non ha bisogno di attivare le testate nucleari, ma non è meno devastante. Anche in seguito alla guerra russo-ucraina-Nato-Usa siamo in presenza di una crisi alimentare che sta uccidendo tre quarti del mondo, ma il problema secondo i nostri astuti governanti è continuare a mandare armi. Gli Stati Uniti hanno il complesso del gallo presuntuoso. È convinto che il sole sorge perché lui canta. Pensano di poter continuare a dominare quando non ne hanno più né la forza né la comprensione del mondo». 

C'è anche uno scontro di civiltà?

«Come c'è il fondamentalismo islamico c'è quello dell'Occidente che sostiene: non c'è miglior ragione della mia perché ho la democrazia, i valori, la cultura. Questo fondamentalismo distrugge la capacità di confronto tra sistemi politici, tra economie con la pretesa di egemonia. 

Ma il mondo sta andando verso il multipolarismo. Il mondo è una realtà meravigliosamente complessa, invece in Occidente lo riduciamo all'immagine che piace a noi. Negli Usa la prima industria è quella della fiction e in Ucraina inventano Zelensky che è il ventriloquo di Biden e di Johnson».

Come se ne esce?

«Da 20 anni teorizzo la necessità di eleggere un Parlamento mondiale che sia realmente rappresentativo. Mandiamo in soffitta l'Onu che non serve a nulla e lo si vede nella guerra in corso. Questo Parlamento si elegge in un giorno seguendo i fusi orari: ogni 7 milioni e mezzo di persone, un deputato. 

Il Parlamento avrà così 1.000 membri che si dividono in commissioni: disarmo, economica, ambiente. Per evitare il marasma totale serve la politica: abbandonare la vecchia strada per la nuova. In caso contrario avremo la catastrofe di cui il Covid e i mutamenti climatici sono l'avvisaglia. 

Bisogna eliminare gli elementi d'imbecillità come questo linguaggio bellicista che vuole armi e armi e con la parola pace che viene messa sotto i piedi e che invece dovrebbe essere la prima o forse la sola a esser pronunciata».

 Si torna all'utopia?

«Non è utopia. A metà giugno esce in libreria per Mimesis un libro da me curato che s' intitola: Il risveglio del mondo, testimonianze sul Parlamento mondiale. Sono trentotto riflessioni - compresi premi Nobel - di persone che pensano un futuro migliore possibile. O così o cento, mille Ucraina». 

·        Massimo D’Alema.

Avanti! della Domenica. Massimo D’Alema e il vizio dell’invadenza. Nautilus su Il Riformista l’8 Novembre 2022

Quattro anni fa – dopo un volontario esilio durato una legislatura –  Massimo D’Alema si ripresentò davanti ai suoi elettori pugliesi. Non finì bene. Tre mesi fa non si è visto né sentito in campagna elettorale e nessuno sa per chi abbia votato. Da tempo la sua attività professionale è quella di mediatore d’affari e tra i suoi cimenti c’è quello di interloquire con le autorità pubbliche: non più per guidarle, ma per convincerle sui vantaggi di una transazione commerciale. Tutti buoni motivi per spingere Massimo D’Alema verso un certo riserbo. Un atteggiamento che, a maggior ragione, dovrebbero condividere i media. Non solo perché le mediazioni nei quali è impegnato D’Alema non riguardano le cerase pugliesi, ma perché quando si cambia mestiere i media farebbero bene a ricordare il cambio di status. E invece fanno finta di nulla.

Altrove non è così. Come sa l’ex cancelliere tedesco Gerhard Schroeder che, da quando venne assunto dalla russa Gazprom, è stato ignorato dai media tedeschi. Nei giorni scorsi, ricercato da tv e giornali, D’Alema ha insistito sulla leadership di Giuseppe Conte e su una politica «unitaria» tra Pd e Cinque stelle. Un giorno, forse, capiremo le ragioni della fascinazione esercitata da un avvocato d’affari che si è talmente vantato dei Decreti Sicurezza sui migranti da lasciarsi immortalare al fianco di Salvini, con tanto di cartello. Come un uomo sandwich. Forse D’Alema si prepara a confluire in una nuova forza, una Costituente tra Cinque stelle ed ex comunisti?  Nel frattempo c’è da chiedersi chi sia oggi Massimo D’Alema, in segno di rispetto verso uno dei personaggi politici più rilevanti della Seconda Repubblica, che ha contribuito ad un passaggio storico: il primo governo progressista del dopoguerra, quello del 1996.

Dopo le elezioni del 25 settembre, qualcuno ha ipotizzato che l’ex premier abbia votato per il Movimento Cinque stelle. Un’ illazione alla quale lui ha reagito in modo disordinato: «Una campagna vergognosa». Per la verità di una campagna orchestrata, nessuno si è accorto. E poi imbastita da chi? Suvvia! E però D’Alema non ha detto a chi abbia dato il suo voto. Se fosse vero, come lascia intendere che non ha votato Cinque stelle, verrebbe da chiedergli: caro Massimo sei stato aderente alle indicazioni del tuo “partito”, Articolo Uno? Ma davvero hai votato per il Pd del detestatissimo Letta? E allora perché non lo dici?

Resterà un mistero buffo, anche alla luce dell’affermazione più sbalorditiva di tutte: «Questa campagna è una inaccettabile violazione di un principio della democrazia: la segretezza del voto». La segretezza del voto? Ma davvero? Un personaggio pubblico che si batte per far prevalere le proprie idee, dovrebbe essere orgoglioso del proprio voto, ansioso di farlo conoscere a tutti. Ma la veemente iperbole per proteggere la segretezza del suo pensiero ci dice che anche per lui – come hanno capito da tempo tutti i leader della sua generazione – è arrivato il tempo di una serena quaresima.

Estratto dell’articolo di Marianna Rizzini per “il Foglio” il 6 ottobre 2022.

"Campagna vergognosa": sono le 12.44 di mercoledì quando la notizia irrompe sugli schermi degli smartphone. L'ex premier Massimo D'Alema smentisce di aver votato per l'ex premier Giuseppe Conte, azione che alcuni retroscena gli avevano attribuito il giorno prima. Ma non si sa se le parole saranno sufficienti, visti gli indizi che le avevano rese non così incredibili agli occhi di molti osservatori, e nonostante la veemenza di D'Alema: "Inaccettabile violazione di uno dei principi della democrazia: la segretezza del voto. In ogni caso la notizia per cui avrei votato Movimento 5 stelle è falsa". (...)

E la smentita di D'Alema smentiva la questione voto, sì, ma non il pregresso. E cioè tutta quella serie di segnali che, nei mesi scorsi, avevano fatto intravedere la presenza di un filo rossogiallo teso tra due personaggi all'apparenza così diversi, per giunta identificati, negli slogan dei rispettivi avversari, l'uno come esponente della "casta" e l'altro come simbolo di "anticasta" assurta al potere. (...)

Andando a ritroso, dice un insider, "D'Alema e i Cinque Stelle si erano già incrociati nell'ambiente della Link Campus", e si sa che da quel mondo provengono figure per così dire tecniche poi cooptate nell'era governativa contiana. Correndo invece avanti, alla primavera-estate che ha visto la crisi del governo Draghi, è la comune posizione sulla guerra in Ucraina (comune a D'Alema e Conte, contro la linea Draghi) che porta cemento al ponte politico tra i due, al punto che l'impianto delle obiezioni di Conte a Draghi sul tema Ucraina appariva ai dalemiani "molto dalemiano", dice un ex dalemiano.

E il discorso di D'Alema al congresso di Articolo 1, nell'aprile scorso, era parso, con il senno di poi, un possibile canovaccio d'ispirazione per la linea contiana successiva: "Pensare che la democrazia superi la sua crisi mettendo l'elmetto è semplicistico", aveva detto D'Alema in quell'occasione, " e può essere disastroso per le forze democratiche e di sinistra a cui apparteniamo. La democrazia deve essere una forza in grado di offrire speranza e questo richiede una visione delle relazioni internazionali in cui torni a essere centrale un'espressione antica: la coesistenza pacifica Una politica saggia avrebbe cercato di usare la distanza dalla posizione cinese invece di cercare di coinvolgere la Cina nel conflitto".

Quanto al giudizio critico su Draghi stesso, la linea D'Alema e la linea Conte avevano più di un punto in comune (della serie: premier tecnico uguale rovina per l'Italia). Nei giorni scorsi, poi, quando Rosy Bindi, alla testa un gruppo di intellettuali e politici, ha fatto appello a Pd e M5s per la costituzione di un fronte progressista (con eventuale "scioglimento dell'esistente", cioè del Pd), c'è chi ci ha visto contaminazioni dalemiane di fatto. E insomma, ride amaro un dirigente pd, "la direzione di oggi si apre con Conte e D'Alema appollaiati sulla finestra del Nazareno". 

Da italian.cri.cn il 13 luglio 2022.

Negli ultimi dieci anni, la Cina ha raggiunto l’obiettivo della costruzione di una società moderatamente prospera in tutti gli aspetti, iniziando un nuovo percorso verso la costruzione completa di un paese socialista moderno. Nel frattempo, la Cina si dedica sempre a promuovere la pace e lo sviluppo mondiali, impegnandosi a offrire proposte, intelligenza e piani cinesi per un migliore futuro condiviso dell’umanità. 

Durante un’intervista concessa giorni fa al nostro corrispondente a Roma, l’ex Presidente del Consiglio italiano e presidente della Fondazione Italianieuropei Massimo D’Alema ha affermato che negli ultimi anni la Cina ha registrato importanti risultati di sviluppo nei campi dell’economia, della scienza, della tecnologia, dell’istruzione e così via, fornendo anche contributi positivi alla crescita e alla governance globali.

Durante l’intervista D’Alema ha apprezzato in particolare i risultati storici raggiunti dalla Cina nella lotta alla povertà, ritenendo che l'esperienza cinese in merito rivesta un importante significato di riferimento per i paesi in via di sviluppo che si trovino ad affrontano ancora reali problemi di povertà e fame. 

La Cina è un paese antichissimo, che sta avanzando verso la modernità a grandi passi. D’Alema ha ricordato che ciò viene anche testimoniato dallo sviluppo del Paese in diversi settori.

Insistendo sulla strada del socialismo con caratteristiche cinesi, la Cina ha raggiunto risultati notevoli, e si sta sforzando per raggiungere obiettivi di sviluppo ancora più grandi. D’Alema ha detto di ritenere che il modello cinese sia stato più resistente ed efficace perché il Partito Comunista Cinese ha avuto la capacità di integrare il Marxismo e le tradizioni e realtà cinesi. 

Sulla base dei successi ottenuti, la Cina sta avanzando verso l’obiettivo della grande rinascita della nazione cinese. Nell’intervista, D’Alema ha spiegato come egli comprenda questo sogno nutrito dal popolo cinese.

Attualmente il mondo si trova di fronte a diverse sfide globali che hanno a che fare con gli interessi comuni e il futuro del Pianeta, come la pandemia di Covid-19, la debole ripresa economica mondiale, i cambiamenti climatici e diverse questioni regionali. In questo caso la comunità internazionale ha più che mai bisogno di solidarietà e collaborazione. In che modo Cina ed Europa possono rafforzare la loro sinergia in merito, così da avere effetti concreti? D’Alema ha espresso il suo parere al riguardo.

A conclusione dell’intervista, D’Alema ha espresso la sua speranza che la Cina possa svolgere un ruolo ancora maggiore a favore della pace, che rappresenta un tema fondamentale per tutti i paesi e le regioni del mondo.

Massimo D'Alema fa lo spot a Xi Jinping: cosa c'è dietro la "vergogna comunista". Giovanni Sallusti su Libero Quotidiano il 15 luglio 2022

L'ultima vita di Massimo D'Alema coincide con la prima (e con tutte quelle in mezzo, probabilmente): si svolge all'insegna della propaganda comunista.

Che oggi ovviamente significa intrupparsi nel coro lodatore delle magnifiche sorti e progressive garantite al mondo dalla Cina del Grande Timoniere Xi Jinping. Ovvero, il più grande totalitarismo esistente sulla faccia della Terra. Che nel Belpaese è pieno di estimatori (non ultimo quel Peppino Conte che gioca a fare lo statista in bilico sul precipizio), ma nessuno dotato della forza retorica e del fideismo di comprovata tradizione marxista di Baffino.

IL SOL DELL'AVVENIRE - È stato talmente zelante, nel suo ultimo spot pro-regime, che l'Ambasciata della Repubblica Popolare lo ha onorato di retweet entusiasta. L'occasione era un'intervista a ChinaMediaGroup, il network d'informazione che sta sotto il diretto controllo del Dipartimento Propaganda del PCC, diciamo un contesto in cui è difficile esercitare la critica su anticaglie come i diritti umani. Il nostro comunque non ne aveva nessuna intenzione, anzi è partito in quarta con un peana al gigante asiatico che si è "liberato dallo spettro della fame e della povertà".

Si potrebbe far notare che mentre il Dragone fissa la soglia di povertà a 1,5 dollari al giorno, nei Paesi a reddito medio-alto (quale è oggi indubitabilmente la Cina) la Banca Mondiale la prevede a 5,5 dollari al giorno. Con questa metrica assai più realistica, si verificherebbe che esistono ancora 371 milioni di poveri cinesi, ben il 26,5% della popolazione. Ma dispute statistiche a parte, dev'essere il crescendo rossiniano-maoista che ha colpito l'Ambasciata, visto che D'Alema sentenzia come "quest' esperienza dovrebbe essere studiata dai Paesi in via di sviluppo", e come la Cina sia oggi "un Paese molto avanzato in grado di offrire una prospettiva alle nuove generazioni".

Ecco, vorremmo allora modestamente chiedere al Mago Dalemix (copyright Dagospia) quale sia esattamente questa mirabolante "prospettiva" che la dittatura comunista squaderna davanti ai "Paesi in via di sviluppo" e soprattutto alle "nuove generazioni", cioè ai nostri figli. Forse i circa 1400 laogai tuttora esistenti nel paradiso terrestre di Xi?

Trattasi tecnicamente di campi di concentramento, le cui graziose condizioni quotidiane di vita prevedono: lavori forzati fino a 18 ore al giorno, uso della denutrizione e della tortura come sistemi punitivi, sedute periodiche di "autocritica" in cui i detenuti si accusano a vicenda o si auto-accusano di comportamenti criminali (è la buona, vecchia "rieducazione" del compagno Mao). Inutile dire che in tali luoghi di villeggiatura si può finire anche solo (anzi, soprattutto) perché non si condivide l'opinione idilliaca di D'Alema sul regime. O piuttosto l'avveniristica "prospettiva" è quella del Partito Unico che tutto fagocita, dalle aziende agli individui, che mette fuori legge il dissenso, che impedisce spesso la libertà di culto, anche per i cristiani?

HONG KONG VIOLENTA - O magari il Lider Maximo si riferisce alle sacrosante botte e alle illuminate carcerazioni imposte ai leader della protesta di Hong Kong, questi sovversivi che coltivano ancora il vizio anglosassone insito nella storia dell'isola, la libertà, e che ora giustamente assaggiano il manganello della Repubblica popolare? O ancora la buona pratica potrebbe essere la gestione della pandemia Covid, che è esplosa nel mondo anche per le omissioni e gli insabbiamenti della dirigenza cinese, la quale piuttosto che lanciare l'allarme si dedicava a far sparire nei suddetti laogai medici, infermieri e giornalisti che parlavano di un virus mai visto prima? Non è dato sapere, sarebbe gradita risposta. Quel che è certo è che D'Alema chiude il suo equilibrato discorso citando il "rispetto del diritto internazionale" tra i fronti su cui è imprescindibile collaborare con Pechino, in particolare per quanto riguarda "il diritto di ciascun Paese di non essere aggredito, invaso, e la garanzia dei confini". Per dire quanto la tirannia comunista non veda l'ora di impegnarsi sul tema: la risoluzione trionfalmente presentata da Xi al sesto plenum del Comitato Centrale del PCC prevede entro il 2049 l'annessione forzata (loro dicono "riunificazione") di Taiwan alla Cina. Sipario, Baffino torni pure a imbottigliare il suo vino. 

Volano schizzi di fango. Quella faida a sinistra D'Alema-De Benedetti. Paolo Bracalini il 10 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il "Domani" rivela nuovi affari dell'ex premier. E lui esplode: "Voi raccattate m..."

D'Alema si è «rotto i cogl...» (ma come «concetto generale») degli articoli che lo tirano in ballo a proposito di affari milionari e mega-commesse internazionali. Lo ha spiegato direttamente lui, al telefono, in un colloquio molto dalemiano con il videdirettore del Domani, Emiliano Fittipaldi, autore dell'inchiesta sulla transazione di 35 milioni di euro da parte dell'Eni ad una società di Francesco Nettis, «l'ex socio di D'Alema». Tutto ciò dopo le inchieste sulla compravendita di armi in Colombia, in cui D'Alema si presentò come intermediario (anche quelle tutte accuse «che non c'entrano un beato caz...»). Il quotidiano di De Benedetti racconta di due telefonate con l'ex premier, la prima è «nei limiti della cordialità, la seconda meno». Ma il «meno» è un eufemismo. Oltre alle parolacce, agli insulti personali a Fittipaldi (a cui D'Alema pretende di dare lezioni di giornalismo), alle minacce di querela, D'Alema ingaggia uno scontro anche con l'editore del quotidiano diretto da Stefano Feltri, cioè l'ingegner Carlo De Benedetti. La trascrizione del colloquio è esilarante perché è dalemismo puro (ma va letta simulando mentalmente la voce di D'Alema, sennò non rende). «Buonasera (rivolto al cronista, ndr), ho fatto il suo lavoro, quello che dovrebbe fare lei. Ho parlato con tutti i protagonisti, anche con il mio avvocato. Mi sono un po' rotto i coglioni. Un concetto generale». Poi spiega perché l'inchiesta sarebbe infondata, e aggiunge: «Abbiamo tutta la documentazione, i riscontri, potrei persino mandarle le fotocopie ma non le mando un cazzo». Quindi annuncia un causa legale, insieme all'Eni, «così ci divertiamo», perché la tesi che Nettis mi avrebbe dato mezzo milione in cambio della mia mediazione con Eni è una cazzata priva di qualsiasi fondamento!». A quel punto non è più un dialogo ma un'esplosione dell'ego esasperato dell'ex segretario Ds. Urla: «Io ho fatto il giornalista, mentre lei raccatta merda di mestiere. Io ho fatto il direttore di un grande giornale dove uno come lei non l'avrei assunto. Noi non cercavamo di raccattare merda». La grande direzione giornalistica a cui D'Alema fa riferimento è quella dell'Unità, che D'Alema ha diretto in quanto organo del partito, come pure ha fatto Walter Veltroni (e prima ancora Pietro Ingrao, Gian Carlo Pajetta , Emanuele Macaluso, tutti parlamentari del Pci), non per meriti giornalistici ma in quanto importante esponente del partito di cui l'Unità era l'espressione cartacea. In realtà D'Alema ha sempre odiato i giornalisti, da lui definiti «iene dattilografe», compresi i vignettisti, visto che chiese tre miliardi di lire a Forattini (D'Alema però non risulta abbia rinunciato alla pensione Inpgi, quella degli ex giornalisti). Contro il Domani D'Alema ha anche un altro obiettivo da colpire oltre ai giornalisti, cioè l'editore De Benedetti. Dice, sempre incazzatissimo, «noi, Nettis, Eni e io, a farle causa, il suo padrone i soldi li ha, lui sì veramente, e so bene come li ha fatti quindi è in grado di ripagarci». Quindi, dopo aver accusato il quotidiano di dare credito a «cazzari che si dicono cazzate senza alcun riscontro», si congeda con un ghigno satanico: «Scriva quello che vuole, l'idea di citare l'ingegner De Benedetti mi diverte».

Tra i due, in effetti, ci sono antiche ruggini. Ogni tanto si insultano a vicenda. Quando D'Alema uscì dal Pd per andare in Leu, De Benedetti la definì una «avventura ridicola». Richiesto di replicare a questa affermazione, D'Alema rispose: «Non mi interessa, non mi occupo di insider trading». Prima ancora, quando l'editore (allora) di Repubblica lo accusò di aver ammazzato il Pd, D'Alema gli affibbiò il nomignolo di «berluschino» («Ci sono tanti imprenditori che vogliono fare i Berlusconi di sinistra, che vogliono condizionare la politica. Ma sono dei Berlusconi di serie B, dei "berluschini"»). D'Alema? «É un caso umano», gli risponderà poi De Benedetti. La rissa continua.

D’Alema e De Benedetti, il ritorno in scena dell’eterno duello (a sinistra). Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.

L’ex premier: forse ho rimosso dalla mia testa tutti i litigi con lui. 

«Guardi, io De Benedetti l’avevo proprio perso di vista. Non credo che lui abbia qualcosa contro di me, di sicuro io non ho nulla contro di lui. Anzi, glielo dico: nei giorni scorsi, quando ha rilasciato l’intervista al Corriere sulla Russia, ne avevo talmente apprezzato il contenuto che l’ho cercato per dirglielo».

Per alcuni siamo di fronte all’ennesimo capitolo di uno dei più antichi scontri fratricidi nel triangolo politico-economico-intellettuale della sinistra italiana. Per uno dei diretti interessati, che è Massimo D’Alema, «non c’è davvero nulla di più di un rapporto normale, con alti e bassi; anche se, oddio, non vorrei che si fossero attivate forme di reazione psicanalitiche a me ignote che hanno contribuito a rimuovere dalla mia testa le volte che nella mia vita ho litigato con De Benedetti...». E poi c’è l’altro, l’ingegner Carlo De Benedetti, per decenni editore di Repubblica, oggi proprietario del quotidiano Domani.

Proprio tra le pieghe di un’inchiesta del Domani sui rapporti tra l’Eni e la società Blue Power di Francesco Nettis spunta un investimento di quest’ultimo nell’azienda vinicola della famiglia D’Alema. L’ex presidente del Consiglio reagisce male, «diciamo pure che mi sono rotto i cog…i e che querelo, perché se qualcuno adombra che io ho dato una mano a uno per un contenzioso con l’Eni, si presuppone che questo qualcuno l’investimento nell’azienda dei miei figli per restituirmi il favore lo faccia dopo, non prima. Ma non querelo solo io, anche la logica dovrebbe presentare una querela…». E comunque, questo l’aveva detto rispondendo al Domani, «l’idea di citare l’ingegner De Benedetti mi diverte».

Che si trovino prima o poi l’uno contro l’altro in un’aula di tribunale è improbabile. Non è un caso che i due, tra le carte bollate degli avvocati e la sciabola delle contese retoricamente sanguinolente, abbiano scelto sistematicamente la seconda. Nel 2017, intervistato da Aldo Cazzullo per il Corriere , De Benedetti liquida come «ridicola» la scelta dalemiana di varare la lista di Leu. L’altro replica: «De Benedetti? Non l’ho letto. È un autore verso il quale non ho nessun interesse, diciamo, non occupandomi di insider trading…». Il riferimento, neanche troppo velato, era alla confidenza fatta dall’allora premier Matteo Renzi all’Ingegnere nel gennaio 2015 sull’imminente varo del decreto sulle banche popolari; indicazione che quest’ultimo aveva trasmesso al suo broker, innescando un intervento della Consob che però si era risolto con un’archiviazione.

Il round precedente era andato in scena sette anni prima nel maggio del 2010. In un libro-intervista con Paolo Guzzanti, De Benedetti accusa D’Alema di «aver ammazzato il Pd» e di «aver fatto solo politica in vita sua, cioè nulla». L’altro reagisce male, senza concedere all’Ingegnere neanche l’onore della citazione: «Ci sono anche nel nostro campo tanti imprenditori che vogliono fare i Berlusconi di sinistra, che vogliono condizionare la politica. Ma sono dei Berlusconi di serie B, dei Berluschini…».

Che non si siano mai tanto amati non è un mistero per nessuno. In trent’anni di endorsement nei confronti dei leader del centrosinistra, mai l’Ingegnere ha benedetto le cose dalemiane. «Certo, a volte me la sono presa per le cose che i suoi quotidiani scrivevano di me, tipo la storia dell’inciucio con Berlusconi. Ma sono cose che fanno parte della normalità di un rapporto dialettico», riflette oggi D’Alema.

Le foto di protagonisti e comprimari del quarto di secolo di centrosinistra italiano ingialliscono ogni giorno di più. Loro, però, resistono. D’Alema era uscito dal partito figlio della catena Pci-Pds-Ds-Pd per fondare un partito nuovo, anche se più piccolo; De Benedetti era uscito dall’orbita di Repubblica per inseguire romanticamente — quantomeno nel metodo — la stessa stella polare nel giornalismo. Amici e detrattori di entrambi credono che i due si somiglino. E il troppo somigliarsi, quasi sempre, genera dispute per cui non c’è fischio finale. Quasi mai.

LE CARTE VERSO LA PROCURA DI MILANO. Affare Eni-Blue Power, per l’amico di D’Alema «30 milioni sono pochi». GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 14 maggio 2022.

«Sono tutte balle, e io non sono affatto potente», dice Massimo D’Alema a Domani, in merito all’inchiesta su una presunta trattativa tra lui e l’ex avvocato esterno dell’Eni Piero Amara, che ha raccontato ai magistrati di Milano che sarebbe stato convocato alla fondazione Italianieuropei per far ottenere alla Blue Power di Francesco Nettis, ex socio in affari di D’Alema, decine di milioni di euro dall’Eni per un brevetto mai usato.

«La vostra non è un’inchiesta giornalistica. Questo e prendere e passare veline di merda», dice D’Alema a Domani. Ma la procura di Perugia è pronta a mandare gli atti a Milano che dovrebbe indagare e capire se Amara è un calunniatore oppure dice tutta, o in parte, la verità.

come fanno a sapere Casali – se non si è mai occupato dell’operazione Blue Power – e Calafiore che l’Eni intende dare a Nettis esattamente la cifra che verrà transata mesi dopo, cioè 30 milioni di sterline? (definite da D’Alema una «manciata di soldi» visto che Nettis chiedeva oltre un miliardo di sterline di danni). Una pura casualità? 

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Così l’Eni ha dato 35 milioni all’ex socio di D’Alema. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 9 maggio 2022

Il colosso petrolifero ha transato nel 2019 con la Blue Power del pugliese Francesco Nettis una somma da capogiro.

L’accordo, finito male, era su un nuovo brevetto per il trasporto del gas. Ora la vicenda è nei verbali di tre procure.

Amara: «Incontrai D’Alema alla fondazione Italianieuropei». Nettis investì nei vigneti dell’ex premier oltre 500mila euro

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI. Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

D’Alema e il vigneto in Umbria: dai soldi di Nettis al fondo estero. GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 10 maggio 2022.

Tra le pieghe della storia dei 35 milioni di euro pagati da Eni alla misteriosa società Blue Power dell’imprenditore Francesco Nettis, c’è anche quella di un’azienda agricola dal nome francese ma con sede in Umbria, in provincia di Terni.

Negli atti del notaio, oltre ai nomi nome di Nettis e dei figli dell’ex leader della sinistra, D’Alema risulta procuratore dei suoi rampolli. «Procuratore de che? Procuratore della repubblica?».

La Madeleine è una società semplice, e non ha alcun obbligo di depositare bilanci pubblici. Dunque non sappiamo qual è il suo giro d’affari.

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI. Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

D’Alema: «Mai incontrato Amara. E Nettis non è stato nostro socio». EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 09 maggio 2022

Il colloquio con Massimo D’Alema, a cui Domani ha rivolto alcune domande sulla transazione tra l’Eni e Blue Power e sui suoi presunti rapporti con Piero Amara, si svolge in due tempi.

La prima telefonata è nei limiti della cordialità, la seconda meno.

«No caro Fittipaldi, queste non sono domande. Se lei fosse un giornalista avrebbe fatto il lavoro che ho fatto io, ho messo insieme informazioni esatte, precise. Io ho fatto il direttore di un grande giornale, dove uno come lei non l’avrei assunto. Noi cercavamo di non raccattare merda». 

EMILIANO FITTIPALDI per Domani il 9 maggio 2022.

Il colloquio con Massimo D’Alema, a cui Domani ha rivolto alcune domande sulla transazione tra l’Eni e Blue Power e sui suoi presunti rapporti con Piero Amara, si svolge in due tempi. La prima telefonata è nei limiti della cordialità, la seconda meno.

Presidente D’Alema, lei si è mai occupato, anche informalmente, del contenzioso tra Eni e Blue Power di Francesco Nettis? 

Mah...So che loro avevano un contenzioso, non so se l’hanno chiuso...lo sapevo perché sono amico di famiglia, ma non me ne sono occupato da un punto di vista professionale. Il padre era uno che distribuiva le bombole del gas. 

Il figlio ha fatto carriera però... 

Sì, poi il figlio ha avuto un affare con Eni, ma so che gli ha tirato una fregatura micidiale, poveretto. Lui gli ha fatto una causa per un miliardo, alla fine credo che l’Eni l’abbia liquidato con una manciata di soldi. 

Ho visto che Nettis è pure socio della sua società che produce vino, la Madeleine. 

Nettis? No, mi pare di no. Forse non è vero. 

Non è stato socio dei suoi figli con il 30 per cento? 

No. Non mi risulta.

Le carte della società dicono altro. Qualcuno dice che lei ha provato a intermediare la transazione di Blue Power con Alessandro Casali. Quest’ultimo che lei e Amara avete avuto un incontro alla fondazione Italianieuropei. 

Lo conosco Casali, ma con Nettis non c’entra nulla. Amara poi presso la fondazione non ha mai messo piede. Non ho mai avuto incontri con lui, mai discusso di questa questione, sarebbe stata la persona meno indicata per fare una cosa così. Sono curioso di vedere il suo articolo, che darò al mio avvocato. 

Non conosce nemmeno Giuseppe Calafiore?

No, non lo conosco assolutamente, mai andato a pranzo o cena, che mi ricordi. Non ho alcun rapporto particolare. 

Che rapporti ha con Casali? Lui dice che vi vedete spesso nel suo studio e in fondazione. 

Ho rapporti con Casali, qualche volta mi invita a cena. Parliamo di due o tre volte l’anno. Nel mio studio? Mi pare una versione molto esagerata, lei dice delle cose strane. 

Le riferisco solo quello che mi ha detto Casali. Senta, a noi risulta che Nettis abbia finanziato l’azienda vinicola Madeleine con circa 500mila euro, comprando pure il 30 per cento delle quote dai suoi due figli. Poi Nettis esce dal capitale nel 2018: negli atti della camera di commercio si legge che ha ceduto le quote per soli 30mila euro. Mi manca qualcosa per spiegare questa discrasia? 

Sì, sicuramente le manca qualcosa. Una cosa sono le azioni, un altro è un credito che poi si può recuperare. Devo controllare comunque, ora sono all’estero e nel week-end è difficile. 

Non si preoccupi, posso aspettare. 

Va bene.

D’Alema richiama dopo appena un’ora e mezza. «Buonasera. Ho fatto il suo lavoro, quello che dovrebbe fare lei. Ho parlato con tutti i protagonisti, anche con il mio avvocato: mi sono un po’ rotto i coglioni. Un concetto generale. Siccome abbiamo da fare con i vari Belpietro, la metto nella lista. Allora, Nettis quando uscì dalla Madeleine fu liquidato e ha avuto un po’ più di quanto aveva messo, perché la società fu rivalutata. Abbiamo tutta la documentazione, i riscontri, potrei persino mandarle le fotocopie, ma non le mando un cazzo». 

Prendo atto. E sulla vicenda Nettis-Eni?

Il contenzioso si è chiuso in modo disastroso per Blue Power: ancorché il giudice inglese avesse ammesso il contenzioso per 700 milioni di euro, Eni lo ha chiuso al 4 per cento del valore. Operazione che la compliance dell’Eni ha considerato molto positiva. Ho parlato con l’avvocato Speroni (probabilmente intende Stefano, direttore affari legali dell’Eni, ndr), ho fatto il suo lavoro diciamo. Con Eni le facciamo causa insieme, così ci divertiamo. 

Scusi ma perché... 

Quindi la tesi che lei ha sostenuto prima al telefono, che Nettis mi avrebbe dato mezzo milione in cambio della mia mediazione con Eni è una cazzata priva di qualsiasi fondamento! 

Veramente non l’ho mai...

Io ho fatto il giornalista (urla), mentre lei raccatta merda di mestiere. Noi siamo pronti, Nettis, Eni e io, a farle causa, il suo padrone i soldi li ha, lui sì veramente, e so bene come li ha fatti e quindi è in grado di ripagarci. Arrivederci. 

Ma perché si incazza in questo modo? Io le ho fatto solo delle domande. 

No caro Fittipaldi, queste non sono domande. Se lei fosse un giornalista avrebbe fatto il lavoro che ho fatto io, ho messo insieme informazioni esatte, precise. Io ho fatto il direttore di un grande giornale, dove uno come lei non l’avrei assunto. Noi cercavamo di non raccattare merda. 

È un inchiesta che... 

Ascolti! Lei lavora sulla base di una registrazione con questo Calafiore, che avrò visto una volta alla cena dei Cavalieri della Roma, che ha fatto in modo illecito una registrazione a questo Casali, e Casali gli ha detto una montagna di cazzate. Millanterie pure. Compreso il fatto che io avrei preso i soldi per Leu, che è un’organizzazione che non esiste: era un cartello elettorale. Cazzari che si dicono cazzate, senza alcun riscontro.

Casali ha ribadito che l’incontro tra lei e Amara c’è stato. Lei prima mi ha persino negato che Nettis fosse socio della sua società, nonostante vi abbia dato mezzo milione. Come mai? 

Ma io non me lo ricordo! Comunque, ho molti dubbi che Casali possa aver detto quello che lei mi dice. Forse al bar, ma non a lei o a un magistrato. Sarebbe un pazzo, sarebbe una falsità e lo denuncerei. Comunque scriva quello che vuole, l’idea di citare l’ingegner De Benedetti mi diverte.

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Pasquale Napolitano per “il Giornale” il 26 aprile 2022.

Nel 1999, da presidente del Consiglio in carica, Massimo D'Alema partecipò a un incontro riservato, organizzato da Enrico Cuccia, boss di Mediobanca e Alfio Marchini, all'epoca un giovanissimo manager, ricordato per le sue non fortunate esperienze politiche da candidato sindaco di Roma, in un'abitazione della Capitale. 

Lo scopo dell'incontro, al quale era presente lo stesso Cuccia, fu quello di ottenere l'appoggio dell'allora capo dell'esecutivo alla scalata di Roberto Colaninno su Telecom Italia.

L'episodio spunta nel racconto che Franco Bernabè, ex amministratore di Telecom Italia all'epoca dell'Opa di Colaninno, consegna al giornalista Alan Friedman nel suo ultimo libro «Il prezzo del futuro- Perché l'Italia rischia di sprecare l'occasione del secolo» (La nave di Teseo) in uscita in questi giorni. 

Nelle oltre 500 pagine il giornalista statunitense stronca le misure grilline e riserva un capitolo all'attuale inquilino di Palazzo Chigi ribattezzato l'ammazza-spread. L'incontro tra D'Alema e Cuccia riscrive la verità su una delle operazioni finanziarie più controverse della storia d'Italia. 

Per quale motivo l'allora capo del governo in carica, che avrebbe dovuto mantenere una posizione neutrale, decide di incontrare Cuccia che appoggiava la scalata? E soprattutto perché l'incontro avvenne in una casa privata? E non a Palazzo Chigi. Dove sarebbe stato naturale avvenisse?

Bernabè consegna a Friedman la sua tesi: «D'Alema si sentiva lusingato dalle attenzioni che gli riservava Enrico Cuccia. D'Alema, che voleva accreditarsi sia come sponsor del capitalismo sia come amico dei poteri forti italiani, e quindi affidabile nei confronti del sistema, va a questo incontro con Cuccia, che è un incontro veramente anomalo, perché fatto dal presidente del consiglio in casa di un privato con Cuccia». 

Poi il racconto di Bernabè si sposta sulle posizioni che emersero rispetto all'operazione all'interno del governo guidato dall'ex leader dei Ds e nell'intera classe politica. «L'unico politico di peso che all'epoca affrontò di petto D'Alema, criticando Colaninno e le segrete trame di Mediobanca, fu il leggendario Beniamino Andreatta, il grande liberale che oggi è la bussola morale che ispira l'operato di Mario Draghi, di cui per anni è stato il mentore.

Andreatta si domandò: "Cosa avesse da gioire D'Alema per un'operazione che avrebbe addossato debiti su Telecom, dimezzandone il flusso di cassa disponibile per gli investimenti"». 

C'è un secondo episodio raccontato da Bernabè che avvalora la tesi di un pieno coinvolgimento di D'Alema nella scalata a Telecom Italia. E stavolta Bernabè è testimone oculare. Friedman chiede a Bernabè che ruolo avesse avuto D'Alema. «Il Tesoro deteneva ancora il 3,5 per cento di Telecom, il governo D'Alema ufficialmente si era dichiarato neutrale, eppure il primo ministro dava l'impressione di aver concesso il proprio endorsement a Colaninno, con quel suo commento sui "capitani coraggiosi"».

Il secondo episodio riporta al pomeriggio di una domenica del febbraio 1999. Era appena stato dato l'annuncio dell'Opa Telecom e Bernabè era andato a un incontro con D'Alema in persona. Incapace di trattenere la rabbia e la delusione, si era lamentato di quello che lui definiva «l'appoggio che il suo governo aveva concesso a un gruppo la cui componente finanziaria di natura speculativa predominava palesemente su quella industriale».

Il giornalista incalza Bernabè chiedendo se ricorda un clima di particolare freddezza alla fine dell'incontro. «Freddezza? Ma che freddezza?- sbotta Bernabè -. Era proprio uno scontro e molto, molto duro. Io non riuscivo a credere che D'Alema sostenesse quell'operazione e lui invece non solo la sosteneva, ma argomentava a favore del fatto che a quel punto si sarebbe salvaguardata l'italianità. Io gli ho detto: "Scusami, ma per salvaguardare l'italianità ammazzi le prospettive di crescita di Telecom Italia?" "Ah, non ti permettere"».

«Io dissi a D'Alema: "Sono stupefatto che un primo ministro italiano, in un capitalismo così fragile, consenta un'operazione che in nessun altro paese mai è stata consentita, cioè di fare un'operazione ostile su un incumbent di un settore molto particolare"». Il giornalista americano ha provato a chiedere a Massimo D'Alema un commento sulle ricostruzioni di Bernabè. Nessuna risposta.

Amara: «Ecco cosa mi chiese D’Alema alla sua fondazione». GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 12 maggio 2022.

Domani ha letto integralmente il verbale inedito, datato 24 novembre 2019, in cui Amara dà conto per la prima volta della vicenda Blue Power davanti ai magistrati milanesi Laura Pedio e Paolo Storari che lo interrogavano su tutt’altre questioni.

Finora era noto che l’ex avvocato esterno dell’Eni aveva rilasciato sei interrogatori tra dicembre 2019 e gennaio 2020: si tratta dei celebri verbali sulla fantomatica Loggia Ungheria.

Adesso si scopre che Amara già a novembre 2019 aveva riempito due interrogatori fino ad oggi rimasti segreti. Una lunga parte è dedicata alla Blue Power e a un presunto incontro con D’Alema. 

GIOVANNI TIZIAN ED EMILIANO FITTIPALDI. Giovanni Tizian, classe ’82. A Domani è capo servizio e inviato cronaca e inchieste. Ha lavorato per L’Espresso, Gazzetta di Modena e ha scritto per Repubblica. È autore di numerosi saggi-inchiesta, l’ultimo è il Libro nero della Lega (Laterza) con lo scoop sul Russiagate della Lega di Matteo Salvini.

Emiliano Fittipladi, nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Stralci del capitolo 11 de “Il Grande Inganno”, di Paolo Cirino Pomicino (ed. Lindau), pubblicati da “La Verità” il 26 aprile 2022.  

La drammatica svendita di grandi eccellenze nazionali finanziarie e manifatturiere al capitalismo internazionale, in particolare negli anni '90, è continuata sottotraccia anche negli anni successivi e purtroppo sempre sotto i governi di centro-sinistra. Il caso più emblematico è stato quello dell'Unicredit sotto la guida del francese Jean Pierre Mustier. 

Quando arrivò Mustier, l'Unicredit era la prima banca italiana e anche la più internazionalizzata. L'anno precedente aveva superato lo stress-test della Banca Centrale Europea, che simula eventi negativi per verificare la tenuta patrimoniale delle banche. Vediamo allora cosa ha fatto Mustier nel silenzio complice del Tesoro e dello stesso parlamento.

Nell'ottobre 2015 Federico Ghizzoni, amministratore delegato di Unicredit, su spinta di Jean Pierre Mustier, già in predicato di assumere la guida della banca, vendette agli americani di Fortress la controllata Unicredit credit management bank, che produceva valore per sé e per la casa madre grazie a una innovativa piattaforma per la gestione degli Npl, i cosiddetti crediti non performanti.

Naturalmente, vendendo lo strumento, furono ceduti a Fortress anche 2,4 miliardi di euro di Npl e, un anno dopo, questa volta direttamente da Mustier, altri 17,7 miliardi al 13-14% del valore nominale dei crediti in sofferenza. Un gigantesco trasferimento di valore dagli azionisti, piccoli e grandi, a società specializzate nel settore, che la grande finanza aveva subito organizzato; e un grave danno anche per i debitori. 

Complice la vigilanza della Bce, le banche sono state costrette a vendere i crediti non performanti a prezzo vile, piuttosto che gestirli in proprio negoziando con i debitori, e cioè con famiglie e imprese, eventuali «saldo e stralcio».

L'Unicredit, con la sua Uccmb, svolgeva questa attività, ma grazie alla decisione di Ghizzoni e di Mustier la finanza internazionale trovò il Bengodi, perché comprò a prezzi bassissimi i crediti deteriorati, trattando successivamente a sconto con i debitori e realizzando plusvalenze del 70-80% rispetto ai prezzi di acquisto.

Non contento degli incassi generati dalla vendita di alcuni gioielli, Mustier varò un aumento di capitale monstre, come sussurrarono, compunti, alcuni grandi opinionisti. In tal modo fu spazzato via quel minimo di incidenza esercitato sulla prima banca italiana da alcune fondazioni nazionali, come la Fondazione Cassa di risparmio di Torino e quella di Verona.

E così Mustier, già libero da ogni controllo grazie al silenzio di governo e parlamento, si era liberato anche del proprio consiglio di amministrazione. I fondi internazionali gli erano devoti. Diventa difficile non ricordare alcuni conflitti di interesse inquietanti, con Mustier socio e in seguito manager del fondo Tikehau Capital, tra i cui azionisti c'è Amundi, alla quale Mustier aveva venduto Pioneer. 

Per buona parte della gestione Mustier il ministro del Tesoro è stato Pier Carlo Padoan, che non si pose mai il problema del danno per il paese causato dal passaggio in mani francesi di una grande società di raccolta del risparmio, che invano Poste italiane aveva tentato di acquistare rappresentando, il risparmio delle famiglie, una delle poche «materie prime» di cui l'Italia è ricca. Quella di Padoan è la mentalità del tecnico privo della sensibilità politica tanto cara alla sinistra italiana e alla finanza internazionale, nonostante l'insegnamento contrario offerto dai nostri cugini francesi.

La musica non cambiò neanche con i governi giallo-verde e giallo-rosso, anzi la questione si aggravò perché era subentrata una più grande incapacità politica. L'Unicredit, però, non fu l'unico caso di distrazione dei governi e del Tesoro italiani sulle questioni bancarie. Un caso più complesso, e forse anche più grave, è quello del Monte dei Paschi di Siena, il cui azionista da anni è il ministero dell'Economia, alias il Tesoro italiano.

Vista la complessità della vicenda e le eventuali responsabilità ministeriali nella gestione di una banca ridiventata pubblica, scrissi nel 2017 una lettera riservata al direttore generale del Tesoro, all'epoca Vincenzo La Via, e alla Banca d'Italia, per chiedere alcuni chiarimenti. La Banca d'Italia rispose, correggendo e integrando due mie domande ma confermando la vendita di 27 miliardi di euro di Npl a trattativa privata. Governo e Mps rimasero invece in un silenzio imbarazzante.

Dopo la privatizzazione e la quotazione degli anni '90 la gestione del Monte fu affidata, di fatto, alla omonima fondazione, emanazione dei poteri locali quasi tutti in mano alla sinistra comunista. Ed è successo di tutto e di più.

Dopo la tragica operazione dell'acquisto di Antonveneta a prezzi sbalorditivi, il mio vecchio amico Franco Bassanini, eletto senatore nel collegio di Siena, dichiarò che si trattava della migliore operazione possibile (purtroppo approvata anche da Mario Draghi, governatore della Banca d'Italia). E invece fu l'inizio del crollo della banca. Dichiarazioni e coperture politiche di questo tipo aiutarono il disastro del Monte dei Paschi. Quando era banca pubblica, al Monte non accadeva ciò che poi è accaduto, la sua solidità era nota e apprezzata.

Una strana sequenza di eventi ha accompagnato la lunga involuzione di Mps. Il governo dell'Ulivo lo privatizzò negli anni '90, poi la sinistra lo guidò per oltre venti anni attraverso l'omonima Fondazione, con i disastri ricordati. Sempre la sinistra comunista, dopo averlo messo in «braghe di tela», lo rese di nuovo pubblico e ora tenta di privatizzarlo nuovamente. 

Quando parlo di sinistra comunista parlo dei dirigenti della seconda Repubblica, perché quelli della prima erano tutt' altra cosa sul terreno della gestione e del rigore. Tanto per semplificare, e senza offendere nessuno, nella prima Repubblica Bassanini non ebbe mai incarichi politici o societari importanti e non influenzava quasi per nulla la politica del partito comunista italiano.

Nella seconda Repubblica ha ottenuto un potere politico, societario e finanziario molto esteso e ha anche ricevuto la Legion d'onore dal presidente francese Jacques Chirac. Chissà perché! Dalla presidenza della Cassa depositi e prestiti a quella di Open Fiber, fino alla riforma della pubblica amministrazione compiuta da ministro della Funzione pubblica nel governo Prodi (cambiata poi altre quattro volte dai successori) i risultati non furono mai brillanti.

Oggi tutti vedono che Mps da solo non regge e, dopo la rinuncia dell'Unicredit alla fusione, l'orizzonte è sempre più incerto. Bisognerà rinegoziare la nuova privatizzazione del Monte con l'Europa in maniera diversa, considerando il contesto mondiale molto cambiato a causa della pandemia. 

Una presenza pubblica nel sistema bancario oggi si impone, come peraltro accade da tempo nelle banche francesi, tedesche e anche in quelle britanniche. Il fallimento delle politiche pubbliche degli anni '90 trova nella crisi del Monte dei Paschi la più eloquente conferma, aggravata dalle inquietanti ombre sulla morte violenta di David Rossi, il giovane responsabile della comunicazione istituzionale della banca.

Il terzo episodio che, insieme ai primi due già descritti, testimonia l'inadeguatezza della politica degli ultimi trent' anni è la questione Aspi (Autostrade per l'Italia). Privatizzata nel 1999, per oltre vent' anni ha operato con scarsissimi controlli dal ministero delle Infrastrutture. Dopo il crollo del ponte Morandi a Genova, nel 2021 è stata ripubblicizzata con Cassa depositi e prestiti e ha sostituito i «perfidi» gestori Benetton con due grandi fondi finanziari, Blackstone e Macquarie, in genere investitori di breve periodo interessati esclusivamente al rendimento economico, ai quali è stato ceduto il 49% della proprietà, mentre Cassa depositi e prestiti detiene il controllo con il 51%. Un disastro frutto di ignoranza o di altro?

Se si era persa la fiducia nel gestore, il governo avrebbe dovuto convocare i vertici di Aspi, comunicarglielo e promuovere la rescissione contrattuale consensuale della concessione, lasciando inalterata nel frattempo la gestione durante il tempo necessario per spacchettare i 2.800 km in concessione e metterli in gara. 

Lo Stato avrebbe così incassato una cifra importantissima, con la quale far fronte agli oneri derivanti dalla rescissione contrattuale di una concessione fin troppo benevola. Avrebbe poi dovuto affidare la rete autostradale a tre o quattro soggetti industriali, piuttosto che conferire il tutto a un soggetto esclusivamente finanziario, Cassa depositi e prestiti, affiancato dai due fondi finanziari prima citati.

Sarebbero state pratiche corrette, quelle indicate, rispettose del diritto internazionale e potevano esaurirsi in 12-18 mesi senza le ridicole dichiarazioni «di guerra» ascoltate per due anni. È accaduto l'esatto contrario, non sappiamo se per ignoranza o per interessi occulti, perché si stenta a capire il motivo della presenza di due fondi speculativi nella nuova proprietà. 

È sempre bene, però, ricordare i fatti. La folle convenzione con i Benetton, tanto criticata, fu istruita sempre dalla sinistra nel periodo 2006-2008, con il secondo governo Prodi e in particolare dal ministro delle Infrastrutture Antonio Di Pietro. All'ex pubblico ministero, in un duro scontro televisivo, ho chiesto invano di esibire il proprio stato patrimoniale e confrontarlo con il mio.

Sto ancora aspettando.

DAGONOTA il 2 marzo 2022.

Sul caso D’Alema e Colombia Bono prende indirettamente le distanze anche da Giuseppe Giordo, direttore generale Navi Militari di Fincantieri. 

E risponde, giustamente, che la società, nelle trattative commerciali internazionali, ha sempre avuto e ha interlocuzioni esclusivamente con le istituzioni preposte, sia italiane che estere".

Ergo: i rapporti tra Giordo, “baffino” e lo studio di Miami non sono i benvenuti. Perché Leonardo invece ancora tace? 

Caso COLOMBIA: Fincantieri, interlocuzioni solo con istituzioni preposte

(LaPresse il 2 marzo 2022) - "Fincantieri nelle trattative commerciali internazionali ha sempre avuto e ha interlocuzioni esclusivamente con le istituzioni preposte, sia italiane che estere". 

E' quanto fanno sapere dalla società in merito alla tentata compravendita di mezzi da guerra, mai conclusa, in tra azienda italiane e governo colombiano.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 2 marzo 2022.

È davvero interessante la parabola dell'ex premier Massimo D'Alema, noto per essere il primo capo di governo post comunista capace di convincere la sinistra italiana a bombardare uno Stato sovrano, la Serbia. Era 1999. Da allora Max ne ha fatta di strada e dopo aver installato una merchant bank dentro a Palazzo Chigi (Guido Rossi dixit), adesso lavora in proprio e si è messo a fare anche il venditore di armi. Questo grazie ai contatti privilegiati dentro a Leonardo e Fincantieri. L'ultimo affare noto riguardava 4 corvette Fcx30, due sommergibili Trachinus (2 miliardi di euro di valore) e 24 caccia M346 (2,13 di euro).

La parte di D'Alema e della sua squadra avrebbe dovuto essere di 80 milioni, circa il 2 per cento della torta, una fetta che l'ex ministro degli Esteri considerava «un risultato straordinario». O perlomeno questo era quello che aveva assicurato ai soci nell'affare, due quarantenni pugliesi, Francesco Amato e Emanuele Caruso, promotori di progetti con la loro Cooperacion America latina, un'organizzazione fondata l'anno scorso tra Italia e Colombia. L'ex premier per fare affari approfitta dei suoi canali privilegiati dentro alle aziende, dove, come vedremo, può contare sui «massimi livelli». 

Di certo il 15 dicembre Dario Marfé, della divisione aerei di Leonardo, vicepresidente senior dei servizi commerciali & clienti gli scrive: «Buonasera Presidente, scusandomi per il ritardo, Le invio in allegato alcune brochure che descrivono le soluzioni offerte da Leonardo divisione elettronica per radar aeroportuali e centri air traffic control». I dépliant riguardano le caratteristiche principali di cinque prodotti, per cui possono essere organizzate anche presentazioni dedicate.

A questo punto Marfé tira fuori l'argomento aerei da guerra che evidentemente è già sul piatto: «A presto risentirLa anche sul tema M-346» conclude. Nel carteggio mail e nei gruppi Signal aperti dal gruppo colombiano con l'ex premier c'è anche la proposta di novembre per 24 aerei da guerra per la Air force colombiana. Costano 32 milioni l'uno (768 milioni), ma il valore della commessa quasi si triplica comprendendo 800 milioni di euro di costi di manutenzione, 500 di opere civili e per l'ammodernamento delle basi aeree e 200 milioni per equipaggiamenti, simulatori e corsi di formazione.

Per questo nuovo business l'ex premier ha suggerito al gruppo di lavoro colombiano, a inizio ottobre 2021, negli uffici della fondazione Italianieuropei di Roma, di ingaggiare l'avvocato Robert Allen di Miami come interfaccia con le aziende italiane. Quest' ultimo ha uno studio specializzato in compravendite di superyacht. Il rappresentante dello studio in questa vicenda è Umberto Bonavita, nato nel 1973 negli Usa. In Italia è praticamente un fantasma. Nel 2021 è passato una sola volta dall'aeroporto di Fiumicino. 

Nel 2019 aveva visitato l'Italia insieme con la moglie, la cognata e i tre figli. Nel settembre di quell'anno è stato avvistato insieme a Gherardo Gardo, commercialista bolognese, professionista di fiducia di D'Alema. L'ex leader del Pds cita sia lui che Bonavita come partecipanti alla trattativa tra il governo colombiano e le aziende italiane. Sul sito dello studio Gardo è specificata l'attività di consulenza societaria e fiscale negli Stati uniti, in particolare a New York e Miami.

Sulla pagina online, tra i commenti favorevoli c'è anche quello di Bonavita. Gardo e Bonavita sarebbero stati a Cartagena il 14 dicembre presso la Cotemar (l'omologo di Fincantieri in Colombia) per un incontro con l'ammiraglio Rafael Callamand. Insieme con loro ci sarebbe stato anche il responsabile per l'America Latina di Fincantieri Stelio Antonio Vaccarezza. Altro soggetto appartenente al team dalemiano è Giancarlo Mazzotta, politico pugliese di Forza Italia e già sindaco di Carmiano, comune sciolto per presunte infiltrazioni mafiose.

Mazzotta è attualmente imputato in due processi (in uno è in attesa dell'udienza preliminare), accusato di diversi illeciti, dalla frode processuale all'istigazione alla corruzione ai reati fiscali.Questa è la squadretta che va in giro per il mondo a rappresentare l'ex premier. A fine gennaio Bonavita, Gardo e Mazzotta sono a Bogotà per seguire le trattative e accogliere alcuni importanti manager italiani di Fincantieri e Leonardo. 

Per l'azienda navale atterrano Giuseppe Giordo, general manager della divisione militare, Achille Fulfaro, vicepresidente vendite e direttore commerciale, Vaccarezza, e Aurora Buzzo, project e negotiation manager. Il 27 gennaio i quattro si recano presso il circolo della Marina militare per la presentazione ufficiale dell'azienda tricolore in vista della conclusione dell'affare. Il pomeriggio firmano un memorandum of understanding con due capitani di fregata, advisor per gli acquisti della Marina colombiana.

Nelle stesse ore Bonavita accompagna il rappresentante di Leonardo in Sud America, Carlo Bassani, al ministero della Difesa. Bassani aveva già avuto un contatto con il gruppo colombiano a novembre quando aveva inviato i suoi componenti all'Expodefensa di Bogotà per fare la loro conoscenza. Prima dell'incontro al ministero della Difesa del 27 gennaio, a quanto risulta alla Verità, ci sarebbe stata nella stanza di Mazzotta al Sofitel una call a cui parteciparono fisicamente Mazzotta, Gardo, Bonavita, Amato e Caruso e in video si collegarono Marfé, rimasto in Italia causa Covid, e D'Alema.

Al centro della call la firma dei contratti di Allen, indispensabili per lo sblocco dell'affare.In vista dell'appuntamento, Marfé, il 17 gennaio, aveva scritto un messaggio Whatsapp a Gardo in cui si era discusso proprio di Allen: «Credo che per fine settimana avremo ultimato il processo di due diligence». Risposta del commercialista: «Grazie dell'aggiornamento. Con la fine del processo di due diligence spero possa essere definito anche l'incarico formale. Spero di avere conferma della data in giornata, mi aggiornerò con Robert Allen Law nel pomeriggio». 

Marfé rassicura Gardo sul contratto per lo studio legale: «Assolutamente sì, su incarico formale, ne ho parlato ai massimi livelli per evitare rallentamenti». Ma a quanto ci risulta i red alert «reputazionali» su una società che dovrebbe occuparsi di compravendita di barche di lusso avrebbero fatto incagliare definitivamente l'accordo.

L'8 febbraio 2022 era prevista una videoconferenza con il ministro della Difesa Diego Andrés Molano Aponte, D'Alema e gli amministratori delle società, ma non si è svolta per questioni burocratiche.In una mail preparatoria del 3 febbraio inviata all'Ufficio di Presidenza della Repubblica della Colombia da parte del gruppo di lavoro locale si legge che alla «riunione virtuale» per «presentare la proposta di collaborazione con le forze armate colombiane» avrebbero dovuto prendere parte l'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo e il direttore generale di Fincantieri Giuseppe Giordo «insieme al presidente Massimo D'Alema [] e all'avvocato Umberto Bonavita».

Quando viene riprogrammata la videoconferenza D'Alema non avrebbe più risposto. In compenso l'8 febbraio si è tenuta una riunione tecnica via etere a cui avrebbero preso parte anche Bassani e Bonavita, gli stessi che si erano recati al ministero della Difesa.Marfé il 9 febbraio, a proposito della call del giorno precedente, scrive a Gardo per chiedere un parere sul fatto che alla Webex «non abbia partecipato nessuno dell'Aeronautica Militare della Colombia, ma bensì solo rappresentati della Marina». 

Per questo propone di potersi sentire nei giorni successivi «per fare il punto della situazione dell'iniziativa e definire/condividere i prossimi passi». Gardo, prova a tranquillizzarlo e assicura che sarà loro «cura approfondire tale argomento e capire le intenzioni a livello istituzionale» per poi «concordare i prossimi passi e definire tutte le formalità a oggi ancora sospese».

Interessantissimo quanto dice D'Alema il 10 febbraio 2022 a proposito del contratto che le aziende italiane sarebbero state sul punto di firmare prima dell'esplosione del Colombia-gate: «Per Fincantieri mancano due settimane, credo, ancora. C'è una seconda particolarità di questi contratti che voglio sottolineare. 

Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un "cap", in inglese. In questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire. È chiaro? Perché il valore di questo contratto è più di 80 milioni. Quindi, anche per questo, diciamo, ci vuole un po' di tempo. Però io sono in grado di ga-ran-ti-re nel modo più assoluto che i contratti si stanno facendo e saranno fatti».

Poi specifica un «altro tema» che ritiene particolarmente importante: «Noi abbiamo chiesto che i contratti prevedano, oltre al "success fee" anche un compenso come "retailer", come rimborso spese, diciamo. Su questa seconda parte non abbiamo ancora ottenuto una definizione quantitativa, però, sarà parte anche questo del contratto, o forse si farà un piccolo contratto ulteriore, diciamo». 

L'ex ministro degli Esteri cerca di allettare gli interlocutori, dopo che è saltata la riunione tra il ministro della Difesa colombiano e i rappresentanti delle aziende italiane: «Noi abbiamo preso impegno, noi e anche Robert Allen, la società americana, che tutti i compensi, a qualsiasi titolo ricevuti, saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana. Mi riferisco a tutti i compensi che avrà Robert Allen a qualsiasi titolo, a tutti i compensi che riceverà da Fincantieri e da Leonardo, a qualsiasi titolo come success fee o come rimborso spese. Tutti questi, tutti, saranno divisi a metà con la parte colombiana».

D'Alema parla a nome di Allen con il gruppO colombiano che non lo ha ancora ingaggiato, ma che, è il consiglio, dovrebbe farlo. Perché rivolgendosi a uno studio legale americano il contratto «sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati uniti d'America» e di quelle europee, cosa fondamentale per un Paese chiacchierato come la Colombia, a causa del narcotraffico e del riciclaggio, ma soprattutto perché «la legge americana protegge il rapporto tra il legale e il suo cliente, con il segreto. Se invece è un contratto puramente commerciale non c'è segreto». 

D'Alema vuole capire se il business si possa chiudere «in tempi stretti», prima delle elezioni legislative colombiane di maggio, e poi cerca rassicurazioni: «Ma davvero il Parlamento e il governo della Colombia possono fare questo acquisto senza una gara. Internazionale, senza un "tender"?». 

Dopo aver ascoltato la risposta dell'interlocutore, riattacca: «C'è un problema politico: prima o dopo le elezioni?». Poi fa sapere: «Il comandante della forza aerea colombiana verrà in Italia il 28 febbraio. Sarà ospite di Leonardo. E anche del governo italiano. Io chiederò di incontrarlo. È utile che io lo incontri. Se voi gli fate avere il messaggio che è utile che incontri anche me, tutto diventa più facile».

Il 28 febbraio sul sito Internet, Sassate, è uscito il primo articolo sulla nuova passione da venditore di armi di D'Alema. C'è stato l'incontro? Non ci risulta. Nel frattempo, ieri, l'aviazione militare colombiana ha annunciato l'avanzamento delle trattative per l'acquisto di 21 F16 della statunitense Lockheed. Anche perché i sudamericani inizialmente non volevano gli M-346, aerei da addestramento, ma gli Eurofighter (prodotti da un consorzio europeo di cui fa parte anche l'Italia con Leonardo). In questo caso, però, l'acquisto non sarebbe stato gestito da D'Alema & C.. Per questo ad Amato e Caruso in uno degli incontri con l'ex primo ministro a Roma sarebbe stato chiesto di «orientare le potenziali necessità del comparto aereo» colombiano verso gli M-346. Sembra con scarsi risultati.

Le armi di D'Alema: affare da 4 miliardi. Ecco la sua rete. Luca Fazzo il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'ex premier di una chiedono sarebbe il mediatore fornitura con la Colombia Fdi e Iv chiarimenti.  

Un caso Beppe Grillo-Moby moltiplicato per mille, un signore che non è in Parlamento ma che conosce assai bene i palazzi della politica e i modi per oliare un affare. E che affare. Perché il signore in questione si chiama Massimo D'Alema, è stato segretario del Pds, ministro degli Esteri e presidente del Consiglio. E due mesi fa si è proposto al governo colombiano come mediatore di una commessa da quattro miliardi di euro per navi, sommergibili e aerei da guerra prodotti dalle aziende di Stato italiane. In particolare da Leonardo, l'ex Finmeccanica presieduta da un ex banchiere di area ulivista come Alessandro Profumo. Lo stesso che nel 2015 partecipò alla cena da mille euro a coperto per finanziare la fondazione di D'Alema. Dalla Procura di Roma si apprende che per adesso nella vicenda non si intravvedono profili di rilevanza penale. Ma la rilevanza politica è evidente, e altrettanto cospicui gli interrogativi che attendono risposta, con Fdi e Iv che già annunciano un'interrogazione al governo. Perché una trattativa tra l'Italia e il governo colombiano per la fornitura bellica era già in corso dal 2018, nell'ambito dei piani di collaborazione tra i paesi. Oggetto, tra l'altro, gli aerei prodotti da Leonardo. Che a dicembre quando sente sul collo il fiato della concorrenza coreana, chiede l'appoggio del governo, che ovviamente arriva. Incontri e trattative si susseguono. Fin quando a metà febbraio una stupefatta ambasciatrice colombiana a Roma chiama il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè e gli dice di avere ricevuto una chiamata di D'Alema che si offriva come mediatore della fornitura per incarico di Leonardo. Mulè chiede spiegazioni, Leonardo nega tutto. Il problema è che D'Alema non millantava affatto. L'ex premier quell'incarico dalla azienda del suo amico Profumo l'ha ricevuto davvero, nonostante la legge 185 vieti l'utilizzo di mediatori nelle forniture di armi. E nonostante una trattativa ufficiale fosse già in corso. Perché Leonardo si affida a D'Alema? «È una domanda dice il sottosegretario Mulè - a cui non riesco a trovare una risposta sensata. Ho chiesto a Leonardo di fornirmene una, ed è da due settimane che aspetto invano». Nel frattempo, il sito «Sassate» rende nota la vicenda. E La Verità pubblica l'audio di una riunione tra una serie di interlocutori sudamericani e italiani in cui D'Alema spiega molto chiaramente che «questo negoziato deve passare attraverso di noi, un solo canale». E l'«obiettivo alla fine è avere un premio di otto milioni di euro». Esattamente il due per cento della commessa. A registrare l'audio, uno dei partecipanti che poi - forse perché estromesso dall'affare - lo mette in circolazione. La versione ufficiale di Leonardo è di non avere dato alcun incarico a D'Alema. Versione solo formalmente vera, perché l'incarico va a uno studio americano, il Robert Allen Law di Miami, che in realtà è uno studio di copertura di D'Alema. E che i rapporti tra l'azienda di Stato e «Baffino» ci siano lo dimostra il fatto che, secondo quanto risulta al Giornale, fin dall'anno scorso una serie di accordi erano stati stretti tra Leonardo e un commercialista bolognese il cui principale pregio è essere il professionista di fiducia di D'Alema. Si chiama Gherardo Gardo, ed era presente per conto di D'Alema ad un incontro il 14 dicembre scorso a Cartagena con alcuni esponenti locali, ma già prima di quell'incontro era in contatto con la struttura operativa di Leonardo. Insomma il 17 febbraio quando Lucio Cioffi, direttore generale di Leonardo, dopo la chiamata dell'ambasciatrice colombiana a Mulè giura al sottosegretario di non sapere nulla di un ruolo di D'Alema forse non racconta tutto. E intanto aspetta risposta un'altra domanda: a chi si riferiva l'ex premier quando nella riunione garantiva che il governo italiano sapeva della sua attività?

Difesa, la mediazione di D'Alema su aerei e navi militari: "Ci dividiamo 80 milioni". Giuliano Foschini su La Repubblica l'1 marzo 2022.  

I mezzi prodotti da Leonardo e Fincantieri dovevano essere venduti alla Colombia 

Una compravendita tra aziende italiane e il governo colombiano per mezzi da guerra: nello specifico due sommergibili prodotti da Fincantieri e alcuni aerei di Leonardo. Una contrattazione portata avanti, nel ruolo di mediatore, dall’ex presidente del consiglio, Massimo D’Alema, per conto di uno studio legale di Miami. E saltata soltanto all’ultimo momento. Sul piatto, per l’intermediazione, 80 milioni di euro.

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” l'1 marzo 2022.  

I venti di guerra devono aver messo appetito anche a Massimo D'Alema. Il quale nei mesi scorsi ha provato a fare da intermediario per una vendita al ministero della Difesa colombiano di 4 corvette Fcx30 e due sommergibili classe Trachinus prodotti da Fincantieri e di alcuni aerei M346 di Leonardo. Un lavoro per cui lui e gli altri broker contavano di portare a casa 80 milioni di euro.

La notizia è stata anticipata ieri dal sito «Sassate» di Guido Paglia intitolato «Difesa-Leonardo-Fincantieri: ecco la passione della "terza età" di D'Alema». Dopo lo scoop è stata una corsa a smentire più o meno ufficialmente. Per esempio, da Fincantieri ci hanno fatto sapere di non aver dato nessun incarico di brokeraggio, né firmato alcun accordo con la Colombia. Stesso discorso da Leonardo. 

Ma per quanto riguarda l'azienda di costruzioni navali esiste anche un memorandum of understanding del 24 gennaio 2022 con le firme di Giuseppe Giordo e Achille Fulfaro, direttore e vice della divisione militare di Fincantieri e dei capitani di fregata German Monroy Ramirez e Francisco Joya Preito per la parte colombiana. In mezzo un «gruppo di lavoro» colombiano, guidato da due broker italiani entrambi quarantenni, impegnati in svariati settori, dall'energia agli armamenti. I rapporti con il governo di Bogotà, inizialmente sono stati tenuti da loro.

Mentre D'Alema per la sua parte si è fatto rappresentare dall'avvocato Umberto Bonavita dello studio di Robert Allen di Miami, specializzato in compravendite di superyacht. Ma evidentemente anche di navi da guerra. I contratti di consulenza, a suo dire, li avrebbe dovuti firmare lo studio statunitense. Alle riunioni con la struttura colombiana ha partecipato come rappresentante di D'Alema anche un ex sindaco pugliese, Giancarlo Mazzotta, con diversi problemi giudiziari. 

Nei giorni scorsi è stato, per esempio, rinviato a giudizio, per i reati istigazione alla corruzione, violazione dei sigilli, frode processuale, abuso edilizio e paesaggistico. Con tutti e tre i figli (uno dei quali consigliere regionale) e un fratello è stato invece richiesto il rinvio a giudizio anche per una cosiddetta frode carosello per ingannare il fisco attraverso alcune società cartiere.

La trattativa per navi e aerei sarebbe andata avanti per sei mesi, a partire dal settembre 2021, e si sarebbe incagliata quando il sottosegretario Giorgio Mulè, esponente di Forza Italia, è venuto a sapere della vicenda: «I rapporti con il governo della Colombia si sono sempre svolti, ovviamente, in totale trasparenza. In Italia, grazie a una consolidata amicizia e stima con l'ambasciatrice Gloria Isabel Ramirez Rios, ho avviato alcuni mesi fa i contatti con le autorità colombiane per approfondire eventuali collaborazioni tra le nostre industrie impegnate nella difesa, in particolare Leonardo, e le forze armate colombiane.

Si tratta di normali attività che avvengono nell'ambito dei rapporti cosiddetti gov to gov cioè tra governo e governo, in questo caso quello italiano e colombiano. Quando, di recente, l'ambasciatrice mi ha fatto presente - non senza stupore - dell'interessamento presso di lei del presidente Massimo D'Alema (che io non conosco) sulle vicende legate a Leonardo in qualità di non meglio precisato "rappresentante" dell'azienda ho rilevato l'irritualità di questo approccio e ne ho informato i vertici di Leonardo e, ovviamente, il ministro della Difesa Lorenzo Guerini». Per questo gli intermediari del gruppo di lavoro colombiano hanno pensato di essere stati presi in giro e il 24 febbraio hanno inviato un approfondito report alle due aziende in cui ricostruiscono tutta la vicenda.

Per esempio si legge: «[] Tramite incontri svoltisi in Roma nel mese di ottobre con autorevoli figure del panorama politico nazionale, siamo stati eruditi sulle modalità di collaborazione con strutture complesse come Fincantieri e Leonardo in materia di presentazione e di giuste procedure di compliance». Successivamente i broker stranieri avrebbero deciso, su indicazione di D'Alema, «di conferire mandato [] allo studio Robert Allen Law di Miami []».

Una scelta che, a giudizio dell'ex premier, avrebbe garantito il mantenimento del «segreto tra il legale e il suo cliente» al contrario di un banale «contratto puramente commerciale». Ma qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto: «Purtroppo, le interlocuzioni con lo studio legale non sono state particolarmente incisive, in quanto, ancora ad oggi, non siamo riusciti a comprendere il tenore delle comunicazioni dello studio e le società dove, nonostante siano state presentate offerte agli indirizzi istituzionali che abbiamo favorito noi stessi, effettuati incontri in Colombia, non abbiamo ricevuto alcun feedback» si legge nella mail.

Ma in tutta la faccenda la parte più interessante è l'interlocuzione del 10 febbraio scorso, tramite una call con un'interprete, di D'Alema con il capo del gruppo di lavoro colombiano. L'ex ministro degli Esteri, dopo aver saputo dell'intoppo con l'ambasciatrice colombiana, ha chiesto di rimanere l'interlocutore privilegiato nelle trattative: «Siccome c'è un dialogo tra i due governi» dice, «noi abbiamo il sottosegretario alla difesa, l'onorevole Mulè, che ha parlato con il viceministro della difesa di Colombia. Per questo è importante che anche io possa parlare con il ministro della Difesa. Io naturalmente informo il governo italiano.

Ma dobbiamo evitare che ci siano due canali paralleli. Perché tutto questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale. Quindi, dobbiamo dare il senso che noi abbiamo rapporti, non soltanto con i militari e i funzionari, ma anche con il governo. Anche perché l'ambasciatrice di Colombia in Italia, anche lei si sta occupando di questo problema. 

E lei sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori, diciamo. Io le ho spiegato che, diciamo, da una parte è lo stato colombiano, è il governo, che compra, ma in Italia non è il governo che vende. Sono due società quotate, non è il governo, quindi non ci può essere un contratto tra due governi. La questione è delicata». 

Il motivo? Semplice: «Perché noi rischiamo di avere delle interferenze in questo negoziato che non è utile che ci siano. Noi abbiamo interesse che il negoziato passi dalle società italiane, attraverso Robert Allen e dall'altra parte le autorità colombiane, senza interferenze».

Il rappresentante colombiano si lamenta per avere dovuto sostenere spese vive senza rimborsi. A questo punto D'Alema specifica: «L'avvocato Bonavita che è venuto in Colombia non ha ricevuto nessun euro, l'avvocato (inc.) non ha ricevuto un euro. Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro quindi si può fare un investimento perché l'obiettivo non è quello di avere 10.000 euro per pagare un viaggio adesso, ma alla fine di avere un premio di 80 milioni di euro, questa è la posta in gioco e allora creare delle difficoltà rispetto all'obiettivo perché uno non ha avuto 10.000 euro mi sembra stupido semplicemente stupido». 

Un discorso che riprende pochi minuti dopo: «Non appena noi avremo questi contratti, noi divideremo tutto, sarà diviso tutto, questo non è un problema. Però, ecco, mi sembra che non dobbiamo creare difficoltà per l'obiettivo principale, che è raggiungere il contratto tra le società italiane e il governo colombiano. Quello è il premio importante, non il rimborso spese». 

D'Alema va in pressing: «Oltretutto tra alcuni mesi ci sarà la nomina degli amministratori italiani che potrebbero cambiare io spero di no, ma potrebbero cambiare. Questo potrebbe cambiare le cose. Dobbiamo concentrare lo sforzo per concludere questo accordo entro un paio di mesi. Almeno un accordo generale, diciamo, poi si vedranno i particolari».

D'Alema si lamenta perché nei giorni precedenti sarebbe saltata una call con gli amministratori delegati di Leonardo e Fincantieri e per questo chiede «una chiamata con il ministro e con i ceo delle due imprese italiane (Alessandro Profumo e Giuseppe Bono, ndr)». 

Poi aggiunge: «Se il ministro dice che non vuole incontrare anche in modo virtuale le società, potrei organizzare una call dove ci sono io e magari il viceministro italiano, un politico, senza le aziende». Ma, come detto, in quel momento D'Alema starebbe vendendo la pelle di un orso che non ha ancora catturato. E che anzi potrebbe avergli fatto saltare l'accordo. 

Nell'audio l'ex primo ministro informa il suo interlocutore che il pagamento del team colombiano potrà avvenire solo dopo che lo studio Allen avrà chiuso gli accordi con le aziende italiane. Quindi punta ad allargarsi ad altri mercati dell'America Latina e l'interlocutore gli spiega che è possibile farlo in Argentina, Uruguay, Paraguay e Panama. Purtroppo per lui, sembra che, per ora, non sia riuscito a portare a casa neanche l'affare colombiano. Una mediazione da 80 milioni di euro.

D’Alema, polemiche e accuse sulle armi per la Colombia: soltanto incontri istituzionali. Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 3 Marzo 2022.

L’ex premier: da quell’affare io non avrei avuto un euro.  

«Barbarie…», sussurra. Poi, subissato dalle domande di amici e conoscenti rispetto alla storia per cui è tornato sui giornali, e cioè l’intermediazione per una fornitura militare di aziende italiane al governo della Colombia, Massimo D’Alema ha spiegato fino a ieri sera la sua versione dei fatti. Anche a proposito dell’audio, pubblicato dal sito del quotidiano La Verità, in cui l’ex premier parla di una provvigione di 80 milioni di euro se l’affare fosse andato in porto («Io non ho ricevuto nessun euro (…). Allora noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? Perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi ottanta milioni di euro») e di provvigioni garantite («Noi abbiamo ottenuto il 2% di provvigione, senza alcun tetto. E siamo in grado di garantire la firma del contratto»). Nella vicenda, compaiono studi legali americani (Robert Allen Law), mediatori colombiani e due italiani residenti in Sudamerica (Francesco Amato ed Emanuele Caruso).

Partiamo dal principio. «Io ho una società di consulenza. Mi occupo, diciamo, anche di aiutare le società italiane all’estero. Ma non faccio il negoziatore, non faccio trattative e non incasso provvigioni. Non avrei visto neanche un euro», ha spiegato fino a tarda sera dall’Albania. Sull’opportunità che un ex presidente del Consiglio si occupi di trattative del genere, risponde che lui non lavora con aziende di Stato, anche se la legge non lo impedirebbe. La storia del suo coinvolgimento nella questione colombiana viene spiegata così: «È una storia semplice, con dei rimandi a quell’interesse nazionale di cui evidentemente a qualcuno non importa così tanto…». Comunque sia, è la sua ricostruzione per punti, tutto parte dalla decisione del governo colombiano di ammodernare il proprio sistema militare: aerei da combattimento, corvette, sottomarini. È un settore in cui ci sono eccellenze italiane, aziende del calibro di Fincantieri e Leonardo. Che però, in una prima fase, per usare un gergo calcistico, sembrano non toccare palla. In un secondo momento la situazione cambia. «Nessun incontro con faccendieri o simili. Ma incontri istituzionali a livello di cancelleria, e cioè di ministero degli Esteri», ha spiegato D’Alema in privato riferendosi al fatto che, a un certo punto, i rappresentanti delle aziende italiane sono stati ricevuti da rappresentanti degli Esteri, della Difesa e dell’esercito di Bogotà. Poi questi canali si interrompono, probabilmente per superare il livello successivo della trattativa era previsto un incontro col ministro della Difesa in persona che invece non ha luogo, la commessa sembra saltata. E qua torna in gioco D’Alema. «Con l’obiettivo di riattivare dei canali istituzionali che si erano interrotti. Canali istituzionali, ripeto. Il governo della Colombia. Non faccendieri o cose opache».

Come si muove l’ex presidente del Consiglio per rianimare i fili di un dialogo che sembrano essersi spezzati, per riattivare una trattativa che pare finita su un binario morto? Va a incontrare l’ambasciatrice colombiana in Italia, che sembra rassicurarlo. Parallelamente, si preoccupa, per interposta persona, di sollecitare l’interesse del sottosegretario alla Difesa italiano, Giorgio Mulè. Riassumendo, «non sono andato a trattare né sarei andato in Colombia, non avrei incassato alcuna provvigione. Mi sono limitato a mettere in contatto delle aziende italiane con un governo straniero, ad attivare dei canali ufficiali».

La fine della storia? Probabilmente non se ne farà nulla, la fornitura militare del governo della Colombia sarà appannaggio di qualcun altro. «L’interesse nazionale, le aziende italiane e i loro lavoratori, verosimilmente, non interessavano a tutti quelli che hanno inquinato questa storia anche utilizzando con registrazioni parziali...», è la riflessione dell’ex presidente del Consiglio. Che, sempre in privato, ha notato come le indiscrezioni uscite in Italia abbiano fatto il paio con alcuni articoli usciti in Colombia. Un amico gli ha anche chiesto se non avesse il sospetto che l’emersione della consulenza non fosse un obiettivo per colpirlo, per fargli un dispetto. «Mah — ha riflettuto — e che fastidio posso dare io? Non faccio politica, non faccio nulla. Lavoro e basta».

"No comment…". Quel silenzio a sinistra su Baffino D'Alema. Francesco Curridori il 3 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il caso 'D'Alema-Colombia' imbarazza la sinistra italiana. Se Articolo Uno si fida delle spiegazioni fornite dall'ex premier, il Pd si trincera dietro un silenzio assordante.

“Di D’Alema non parlo”. La vicenda che ha coinvolto l’ex ministro degli Esteri imbarazza non poco la sinistra italiana.

“D’Alema ha chiarito sui giornali questa vicenda. Mi fido della sua versione”, si limita a dire a ilGiornale.it Arturo Scotto, coordinatore nazionale di Articolo Uno, il partito a cui ha aderito l’ex primo ministro dopo l’uscita dal Pd nel 2017. Da Federico Fornaro, capogruppo del partito alla Camera, arriva una dichiarazione praticamente identica. “Dalle armi vendute alla Colombia non avrei preso un euro”, ha assicurato l’ex premier dalle colonne di Repubblica. Ma, al di là degli eventuali risvolti che avrà la vicenda, D’Alema è tutt’ora il primo e unico presidente del Consiglio proveniente dal mondo Pci-Pds-Ds e sorprende notare che il politico, che per tutta la Seconda Repubblica è stato considerato un punto di riferimento per la sinistra italiana, ora sia motivo di imbarazzo. “Non voglio intervenire su questo tema”, ci viene detto da un esponente di spicco del Pd. “Non ne so nulla”, dichiara il deputato Matteo Mauri. “Stavolta passo” oppure “Non parlo perché non mi va di alimentare polemiche”, sono le risposte più frequenti di quei pochi esponenti che decidono di rispondere. Il deputato Walter Verini, invece, taglia corto: “Il Pd pensa al Pd e al paese”.

Eppure D’Alema, solo pochi mesi fa, sembrava aver espresso la volontà di rientrare nel Pd. “Della vicenda dell’intermediazione per conto di Leonardo nulla posso dire, perché nulla so”, chiarisce Nicola Oddati, coordinatore delle Agorà democratiche che si sofferma, invece, sulle recenti dichiarazioni dell’ex premier sulla guerra in Ucraina. “Le opinioni di D’Alema sono sicuramente interessanti, quando si è d’accordo o quando la si pensa in modo diverso. Però oramai – sentenzia Oddati - il suo percorso e quello del Partito Democratico sono diversi, e sono storie non più destinate a fondersi”. Insomma, a Largo del Nazareno si prosegue con la linea espressa da Enrico Letta in Parlamento a sostegno della risoluzione del Governo e delle determinazioni dell’Unione Europea. “Non c’è spazio per sottigliezze geopolitiche teoriche. Putin attenta non solo all’Ucraina, ma alla sua libertà di autodeterminarsi e alla democrazia in quanto tale”, conclude Oddati.

Michele Anzaldi di Italia Viva, invece, invita a distinguere le due situazioni: “Un conto sono le opinioni politiche, un altro è il caso raccontato dalla stampa che D’Alema, in quanto ex presidente del Consiglio, deve chiarire nell’interesse delle Istituzioni. Se fosse vero, sarebbe alquanto sconveniente per un ex premier”. Dal Carroccio arrivano critiche ben più pesanti. "Sinistra imbarazzante: da una parte critica Salvini perché parla di pace e diplomazia, dall'altra tace sugli affari di D'Alema che ha tentato di vendere armi alla Colombia", fanno trapelare fonti della Lega. In Transatlantico anche il deputato forzista Andrea Ruggeri fa notare: “Certo che se fosse successo a Berlusconi, Salvini o Renzi sulla stampa sarebbe scoppiato un casino...". Con D’Alema, invece, prevale l’imbarazzo. Soprattutto a sinistra.

Bugie e amici pericolosi I buchi neri di D'Alema. Luca Fazzo il 4 Marzo 2022 su Il Giornale.

Le dichiarazioni dell'ex premier aprono dubbi sul suo ruolo nella compravendita di armi.

Qualcuno mente, nello strano affare dei quattro miliardi di aerei, sommergibili e navi da guerra che Leonardo e Fincantieri volevano vendere alla Colombia. Per essere precisi: o mente Massimo D'Alema, l'ex leader del Pds ed ex presidente del Consiglio, che mediando l'affare puntava a incassare una ottantina di milioni di provvigione; o mente Leonardo, che nega di avergli affidato alcun mandato. Di certo, chiunque abbia ragione, stupisce il giro di personaggi che ruotano intorno a D'Alema: che nelle interviste dichiara di lavorare con rispettabili colossi come Ernst&Young, ma poi si muove in questa vicenda circondato da personaggi improbabili.

Ieri Leonardo, l'ex Finmeccanica amministrata da Alessando Profumo, ha brontolato perché nelle cronache è stata presa di mira mentre Fincantieri, anch'essa coinvolta nella vicenda, è scivolata in secondo piano. La spiegazione è semplice. Fincantieri ha gestito le sue trattative con le autorità colombiane autonomamente, senza mai chiedere il sostegno del governo italiano. Invece Leonardo a metà dicembre, preoccupata dall'entrata in scena della concorrenza coreana, chiede aiuto a Palazzo Chigi. Il ministero della Difesa interviene, nella persona del sottosegretario Giorgio Mulè, che avvia i contatti con Bogotà. Ed è questo a rendere inspiegabile perché poco dopo venga avviata una trattativa parallela gestita da D'Alema e dai suoi collaboratori. A che serviva, oltre che a procurare a «Baffino» una provvigione colossale?

Per rispondere a questa domanda, servirebbe capire se e quali incarichi D'Alema abbia ricevuto da Leonardo. Ed è qui che le versioni divergono. Leonardo sostiene di essersi limitata a fornire un Nda (No-disclosure agreement, una trattativa riservata) allo studio legale di Miami Robert Allen, e di non avere poi siglato, a differenza di Fincantieri, alcun accordo definitivo; ieri sul Fatto l'azienda di Stato afferma testualmente che «se dallo studio Allan l'hanno passato a D'Alema sono problemi loro». Non ne sapevamo niente, insomma. Peccato che su Repubblica Massimo D'Alema affermi testualmente «io ho subito informato Leonardo e Fincantieri (...) ho parlato con il direttore commerciale di Leonardo». Quindi o D'Alema millanta o l'ex Finmeccanica sapeva bene che dietro lo studio di Miami c'era il nostro ex capo del governo.

Ma non è l'unica cosa che non torna. Nella sua intervista, D'Alema sostiene di avere appreso a un certo punto della faccenda che «non c'erano stati contatti a livello governativo». Non è vero, la trattativa era iniziata fin dal 2018, ma non è questo il dettaglio chiave. D'Alema aggiunge: «Ho parlato con l'ambasciatrice della Colombia. Non ne sapeva nulla. Ne sono rimasto sorpreso e ho provveduto a informare il viceministro della Difesa, Giorgio Mulè». D'Alema spiega di non avere incontrato personalmente Mulè, ma di averne ricevuto il via libera ad andare avanti. Il problema è che D'Alema non spiega perché si sia rivolto proprio a Mulè, che non conosce e che non era la figura istituzionale di riferimento. La spiegazione più ovvia è che a fare a D'Alema il nome di Mulè sia stata proprio l'ambasciatrice, che col viceministro era in contatto da tempo. Altro che «non ne sapeva niente».

E chi è il personaggio che il 17 febbraio va a incontrare Mulè per conto di D'Alema? Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di un paese pugliese sciolto per mafia, lui stesso indagato per istigazione alla corruzione e altri reati. Lo stesso Mazzotta che, secondo la Verità, partecipa per conto di D'Alema ai vertici con gli interlocutori colombiani della fornitura. E che quando entra nell'ufficio di Mulè indica al sottosegretario proprio in D'Alema il suo mandante. Risultato: appena Mazzotta inizia a parlare di Colombia, aerei e Leonardo, Mulè lo sbatte fuori, invitandolo a tornare con un mandato ufficiale. Che non c'è, e infatti Mazzotta non si fa più vedere. Ma esisteva invece un mandato informale? In ogni caso è bene ricordare che il reato di traffico di influenze scatta anche se gli appoggi politici vengono solo millantati.

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 3 marzo 2022.  

Uno statista che si spende per l'interesse nazionale, e fa ottenere a due società di Stato una commessa da 4 miliardi di euro, oppure un intermediario che mira alla sua fetta di una provvigione da 80 milioni di euro? Non si scappa, questo è il dilemma che investe il ruolo di Massimo D'Alema, ex presidente del Consiglio, che si muoveva dietro le quinte per «facilitare» l'acquisto da parte della Colombia di aerei, radar, corvette e sottomarini, prodotti militari di Fincantieri e Leonardo.

E già fioccano le interrogazioni parlamentari, del partito di Matteo Renzi e di Giorgia Meloni. Lui non ha dubbi: «Ho cercato di dare una mano a imprese italiane per prendere una commessa importante. Ero stato contattato da personalità colombiane. Evidentemente a qualcuno dava fastidio ed è intervenuto per impedirlo. Sia il governo sia l'ambasciata colombiana erano stati chiaramente avvertiti di tutto. Trovo incredibile come sia facile reclutare in Italia qualcuno disponibile a danneggiare il Paese». 

La storia non è così lineare, però. È proprio un esponente del governo, il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé (Forza Italia) che s' è messo di traverso quando è stato informato dell'operazione. «A metà febbraio - dichiara - l'ambasciatrice della Colombia mi ha chiamato, parlandomi dell'interessamento del presidente D'Alema per conto di Leonardo. Ho sollevato la questione di questo intervento a mio giudizio irrituale.

Da parte mia c'è stata sorpresa nell'apprendere dell'interessamento di D'Alema, perché Leonardo stava già dialogando con il governo colombiano attraverso le normali vie istituzionali». C'è un ennesimo audio di D'Alema, una esclusiva del quotidiano La Verità, registrato dagli interlocutori colombiani di D'Alema, che getta altra luce sulla vicenda. «Noi - scandisce l'ex premier al telefono - abbiamo ottenuto il 2% di provvigione, senza alcun tetto. Un risultato importante. 

E siamo in grado di ga-ran-ti-re la firma del contratto». Ma insiste sulla necessità di tenere un solo canale di trattativa e di schermare il tutto attraverso uno studio legale americano perché «la Colombia è all'attenzione degli Stati Uniti». E se c'è di mezzo uno studio legale, si può ricorrere al segreto professionale. Risultato importantissimo, si potrebbe dire, perché era una commessa da 4 miliardi di euro (per due sottomarini, quattro corvette, ventiquattro aerei M346) da cui gli 80 milioni di provvigione che si sarebbero divisi tra la cordata dalemiana, i soci dello studio Robert Allen Law, e i «colombiani».

Tra essi, anche due improbabili mediatori, i cineasti italiani Francesco Amato ed Emanuele Caruso, residenti in Sudamerica, che per l'ex premier erano consiglieri del ministero degli Esteri della Colombia. 

«Opero da qualche tempo con un incarico delle autorità colombiane nell'ambito della cooperazione internazionale. Premetto che conosco il Presidente D'Alema, persona che stimo ma con cui non ho avuto alcun rapporto d'affari», ci scrive Caruso. È un fatto, comunque, che grazie agli intermediari di D'Alema il 27 gennaio scorso una delegazione di Fincantieri ha presentato i prodotti al ministero colombiano della Difesa, così come il rappresentante di Leonardo in Sudamerica. E un mese prima, Dario Marfé, importante manager della divisione aerei, girava a D'Alema le brochure dei loro prodotti.

Estratto dell’articolo di Camilla Conti per “il Giornale” - 30 Gennaio 2016   

«A Palazzo Chigi c'è l'unica merchant bank dove non si parla inglese». Correva l'anno '99 quando l'avvocato Guido Rossi commentava con una velenosissima battuta la benedizione dell'allora premier Massimo D'Alema alla scalata a Telecom da parte di Colaninno, della razza padana di Gnutti, con la partecipazione di Mps e delle coop rosse di Unipol. […]

Aldo Cazzullo per il “Corriere della Sera” - 07 maggio 2006

[…] D’Alema non è il solo.

«Ma è il più attrezzato. Crede nel dialogo: lo cercò ai tempi della Bicamerale. E’ convinto della necessità di riforme costituzionali. Ha il profilo giusto per tutelare i diritti dell’opposizione. Lui stesso riconosce che il tempo della battaglia politica per lui è passato, che il suo futuro è da uomo delle istituzioni. Sarebbe meglio come capo dello Stato che come ministro degli Esteri».

[…] «Anche le battute di Berlusconi su D’Alema con la falce e il martello sul cuore rientrano nella magia delle parole. Sono espressione di una politica un po’ stracciona, di tipo televisivo. La realtà è diversa, in questo caso opposta. Ha ragione Riccardo Barenghi, quando sulla Stampa scrive che D’Alema in questi dieci anni è stato il meno comunista di tutti. Oggi lo considero un liberale. L’uomo delle privatizzazioni. Glielo dice uno che con D’Alema ha sempre avuto rapporti un po’ così...». 

Così come?

«Sempre molto schietti. Talora polemici. Io non posseggo la prudenza teologale dei chierici medievali, sono abituato a dire quel che penso, anche se sgradevole. Ma poi ci siamo parlati. D’Alema è uomo di straordinaria onestà intellettuale: sa riconoscere i propri errori, com’è accaduto dopo la scalata alla Telecom».

La cito:

«Palazzo Chigi, l’unica merchant bank in cui non si parla inglese». 

E ora, proprio lei...

«D’Alema è venuto qui, in casa mia. Pensa che io abbia un minimo di polso di quanto avviene a Milano, ha chiesto di vedermi. Gli ho detto che posso dimenticare i suoi errori, non perdonarli. E’ stato molto spiritoso: ha risposto che lui perdona, ma non dimentica; anche perché quella della merchant bank gliela ricordano tutti giorni. Un po’ come accade ame con la storia dei poteri forti... ». 

Dicono che i poteri forti non vogliano D’Alema.

«Ma quali sono i poteri forti? Io non l’ho ancora capito. Non ho altro potere che quello mio personale, e i poteri forti non fanno capo a persone. In realtà, essi non esistono. Esistono concentrazioni di interessi anche economici, che credo di aver contribuito a dipanare con la legge antitrust ».

[…] Nell’intervista a Paolo Conti del Corriere, Claudio Rinaldi sostiene che D’Alema è uomo di potere anche al di fuori della politica, che i suoi rapporti con il mondo economico lo rendono improbabile come arbitro.

«Quali rapporti? Quelli con Unipol? A parte il fatto che quella scalata anch’io ho contribuito a farla saltare, ormai è evidente che Consorte e Sacchetti non facevano affari per i Ds ma per sé. La questione semmai è rivisitare il sistema delle cooperative. D’Alema ha fama di spregiudicatezza, ma in realtà è a suo modo un moralista». 

«[…] D’Alema è molto cambiato. In meglio. E’ maturato, ha perso quella sicurezza arrogante, ha imparato a usare meglio la televisione. E poi è un borghese; l’idea del comunista straccione non esiste più. […]». […] «[…] D’Alema ha dimostrato in questi anni una grande attenzione verso Milano, la Lombardia. […]». […]

Estratto dell’intervista di Paolo Conti a Claudio Rinaldi per il “Corriere della Sera” il 3 marzo 2022.

“[…] D’Alema è sempre stato un uomo di potere nel senso più lato. Un giurista di sinistra come Guido Rossi ha potuto dire che a palazzo Chigi dirigeva una merchant bank…Ha avuto dimestichezza con personaggi come Giovanni Consorte. Con tutte le mani in pasta, si puo’ fare l’arbitro? E’ uomo molto disinvolto. […] Durante la Bicamerale, D’Alema ha mostrato di non essere molto affezionato all’attuale carta costituzionale. 

Mise in cantiere con disinvoltura cambiamenti radicali. E poi il tratto umano. Non parliamo di una persona cordiale. Tende a essere esplicitamente sprezzante verso i comuni mortali. […] La biografia di D’Alema è composta in gran parte da difese polemiche dei partiti contro la società civile”.  

Fabio Amendolara e Alessandro da Rold per “la Verità” il 3 marzo 2022.  

Quando da Fincantieri è arrivata a Sace, l'agenzia di Stato che si occupa delle garanzie dei crediti all'export, l'informazione preliminare sulla trattativa per la fornitura alla Marina colombiana di fregate e sottomarini nella quale è spuntato Massimo D'Alema, due manager della società, come ha svelato ieri la Verità, hanno risposto subito alla chiamata alle armi, facendo sapere di «non vedere l'ora di collaborare alla transazione». Ora che è scoppiata la bomba Sace sceglie il silenzio. Contattata dai cronisti, la società ha fatto sapere che la posizione ufficiale è «non commentare».

Che l'ex premier Massimo D'Alema avesse fatto di Sace uno dei suoi numerosi ministeri degli Esteri non è un segreto. A dimostrarlo fu la tornata di nomine nelle aziende partecipate statali del 2019, quando durante il governo Pd-M5s di Giuseppe Conte il compagno Max caldeggiò con una zampata la nomina di Rodolfo Errore come presidente e Pierfrancesco Latini come amministratore delegato (quest' ultimo spinto anche dall'ex amministratore delegato di Cdp Fabrizio Palermo). L'operazione non è stata difficile. 

A ratificare i desiderata di D'Alema fu l'attuale sindaco di Roma Roberto Gualtieri, all'epoca ministro dell'Economia e da sempre esponente di spicco della dalemianissima Fondazione Italiani Europei.Errore fu una delle diverse nomine dalemiane di quel periodo, cresciute intorno a Ernst & Young, network mondiale di servizi professionali di consulenza e revisore contabile dove l'ex ministro degli Esteri è presidente dell'advisory board.

Donato Iacovone, capo di Ernst & Young Italia, è così diventato il presidente Webuild-Salini Impregilo, partecipata di Cassa depositi e prestiti: Errore era un partner della società di consulenza. Negli ultimi due anni della Sace dalemiana si è sviluppato un asse di ferro con Fincantieri, un rapporto così stretto che, quando Mario Draghi arrivò a Palazzo Chigi nel 2021, ha fatto sorgere più di qualche domanda allo stesso Mef di Daniele Franco. 

A farsi qualche domanda è stata la stessa Corte di conti nella relazione del 2020 quando sottolineò come «particolarmente rilevante l'esposizione di Sace nei confronti del settore crocieristico (45,8 per cento), in aumento rispetto all'anno precedente (41,4 per cento)». I magistrati contabili chiesero anche di diversificare, vista anche «l'elevata concentrazione» nel settore crociere con Fincantieri.

Non è un caso, fanno notare nelle ultime ore, come la decisione del ministero dell'Economia di riprendersi Sace da Cassa depositi e prestiti (che con Gualtieri, pur restando nell'orbita di Cdp è passata «sotto l'indirizzo e il coordinamento» del ministero) abbia spinto alla fine Errore, il 20 gennaio scorso, a rassegnare le dimissioni. Del resto tra il 2020 e il 2022 l'esposizione dell'agenzia assicurativa statale a garanzia dei prestiti del gruppo di Trieste è arrivata a toccare la cifra di oltre 30 miliardi di euro. 

Per di più, l'incidenza del settore crocieristico sul portafoglio privato di Sace è pari al 45,8 per cento e vale 22,7 miliardi di euro. Il dato è nella relazione sulla gestione dell'ultimo bilancio disponibile di Sace. In questi anni Errore e Latini hanno lavorato sempre nella stessa direzione. E se il primo ha sempre potuto contare su D'Alema, il secondo ha invece avuto sempre un rapporto stretto con Fabio Gallia, ex numero uno di Cdp e attuale direttore generale di Fincantieri.

I due sono stati manager di banche come Capitalia e Bnl, poi nella Cdp di Claudio Costamagna (nominato presidente nel 2015) hanno lavorato insieme, Gallia da amministratore delegato, Latini a capo dei rischi di via Goito. Sul rapporto tra i due si è sviluppato l'incremento della gestione delle relazioni commerciali tra Roma e Trieste. 

E la questione ha creato più di qualche malumore negli ultimi due anni, anche perché concedere così tante garanzie al settore crocieristico durante il Covid non è stato di sicuro una mossa vincente. Senza poi ricordare il caso delle due fregate Fincantieri cedute all'Egitto durante la scorsa primavera, caso che ha creato non poche polemiche in Italia. Errore, come detto, si è dimesso il 20 gennaio. Ma quel rapporto stretto con Fincantieri e D'Alema non si è mai interrotto.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 3 marzo 2022.

Con chi parla Massimo D'Alema nell'audio che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi e in cui l'ex premier discuteva di forniture militari da vendere in Colombia? Con un ex comandante delle Autodefensas unidas de Colombia, i sanguinari gruppi paramilitari impegnati nella guerra contro i rivoluzionari comunisti delle Farc. Si tratta di Edgar Ignacio Fierro Florez, meglio conosciuto come Don Antonio. Si era parlato di lui sui giornali colombiani nel 2006, quando gli era stato sequestrato un computer contenente informazioni su «Jorge 40», ovvero l'ex comandante delle Auc Rodrigo Tovar Pupo, condannato negli Usa per narcotraffico.

Nel 2011 anche Fierro era stato condannato da una corte colombiana a 40 anni di carcere per vari reati, compresi numerosi omicidi commessi dai paramilitari. Tre anni dopo Don Antonio, però, ha beneficiato di un «perdono pubblico». Emanuele Caruso, 42 anni, laurea in Scienze politiche, originario di Lecce, con importanti esperienze nel settore della cooperazione internazionale, insieme con il socio Francesco Amato, ha fatto conoscere Fierro a D'Alema.

Successivamente, quest' ultimo ha chiesto e ottenuto di avere un incontro a quattr' occhi (via computer) con l'ex militare, dopo una discussione con Amato: «Ho pensato che era utile che ci parlassimo noi due. Direttamente» aveva commentato l'ex ministro. «Fierro, prima di passare alle Auc, era stato un comandante dell'esercito. I gruppi paramilitari all'epoca erano emanazione del governo di destra per contrastare i rivoluzionari di estrema sinistra delle Farc» ci ha spiegato Caruso. 

«Finite le ostilità, ha ottenuto il perdono pubblico del presidente per aver deposto le armi e per il suo impegno sociale. In Colombia era comandante di un'intera Regione. Chi ha i suoi trascorsi in quel Paese gode di grande considerazione nella zona di provenienza. E apre ancora molte porte nel mondo delle forze armate».

Ma è accusato di tantissimi omicidi «Sono gli orrori della guerra civile» sospira Caruso. Ma D'Alema sapeva con chi stesse trattando? «Sapeva come si chiamava. Non so se abbia fatto delle ricerche». Certo se non lo avesse fatto, per un ex presidente del Copasir, il Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, sarebbe un errore non da poco. Ma torniamo al cuore degli affari di D'Alema con la Colombia. 

Nel faccia a faccia del 10 febbraio scorso l'ex leader del Pds ha spiegato all'ex sanguinario paramilitare: «Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un "cap", in inglese. In questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire. È chiaro? Perché il valore di questo contratto è più di 80 milioni».

In spagnolo ha aggiunto: «Nosotros tambien estamos trabahando sin contracto», ovvero «Noi lavoriamo anche senza contratto». Ma perché era disposto a lavorare anche senza accordi in mano? Forse perché pensava di aver trovato il modo di fare molti più soldi del previsto, come aveva spiegato lui stesso, lo scorso dicembre, in un messaggino telefonico a proposito dell'oggetto di una successiva riunione: «La questione riguarda l'esperienza fatta da Fincantieri in Indonesia con un modello contrattuale molto interessante. Un po' diverso da come avevamo immaginato, ma molto più profittevole». 

In effetti a giugno del 2021 Fincantieri si è aggiudicata una maxi gara indetta dalla Marina indonesiana. L'azienda italiana si è accaparrata la fornitura di sei Fremm e di altre due fregate (ammodernate) di classe Maestrale. Secondo le notizie di stampa il valore della commessa, non dichiarato ufficialmente da Fincantieri, sarebbe di 4 miliardi di euro.

Abbiamo chiesto a Caruso di spiegare che cosa intendesse D'Alema con «modello più profittevole». Risposta: «Il sistema applicato in Indonesia consentiva ai broker dei contratti di consulenza molto interessanti rispetto alla mediazione vera e propria che ha un "cap" molto più basso». 

Caruso e il socio Amato il 14 ottobre 2021 avevano scritto a Leonardo per informare l'azienda della loro esistenza e delle loro potenzialità in veste di «consiglieri del ministero per le Relazioni estere della Repubblica della Colombia» con cui stavano «lavorando ad un progetto per la strutturazione di un'Assemblea parlamentare che possa avere una collocazione presso le Nazioni unite federando gli eletti del parlamento di Colombia, Argentina, Uruguay e Paraguay».

Nella mail specificavano che avevano «potuto pianificare una serie di attività Istituzionali e opportunità di cooperazione» nei settori delle infrastrutture strategiche, dell'energia, della sicurezza e della formazione, delle forniture e tecnologie militari, delle miniere. Ma questa tipo di comunicazione non gli aveva dato soddisfazione: «Fincantieri neanche ci ha risposto» continua Caruso, «mentre Leonardo si è limitata a dare riscontro della ricezione della mail e successivamente a invitarci al loro padiglione dell'ExpoDefensa di Bogotà, se non ricordo male, solo dopo il primo incontro con l'ex premier».

E questo come è avvenuto? «Giancarlo Mazzotta, un politico di Forza Italia, che il mio socio già conosceva, gli ha spiegato che ci conveniva incontrare D'Alema per i nostri progetti e ci ha portato da lui. Era inizio ottobre del 2021. Gli abbiamo illustrato quali fossero i capisaldi del progetto di federazione dei paesi dalla sicurezza all'ambiente. E quindi abbiamo iniziato a parlare di armi. A questo punto lui ci ha detto di avere relazioni importanti in seno alle partecipate italiane leader di quel mercato». 

Vi ha fatto i nomi dei suoi contatti? «Ha parlato di amicizia personale con il dottor Alessandro Profumo e con il dottor Giuseppe Giordo». Ve li ha presentati personalmente? «No. Giordo lo abbiamo conosciuto in una videoconferenza e durante una visita istituzionale a Bogotà. Profumo mai» Con chi avevate interlocuzioni dentro a Leonardo? «Dirette con nessuno. Abbiamo parlato una sola volta in una videoconferenza di gruppo con Dario Marfé. Però i rapporti con le partecipate li tenevano il presidente e i suoi uomini». Ma quindi quanto sostenuto da D'Alema e cioè che il suo ruolo è stato solo quello di presentarvi ai vertici delle partecipate non è corretto? «Assolutamente no, perché tutti i documenti, tutte le proposte delle aziende le abbiamo ricevute direttamente dal presidente o dai suoi uomini, in particolare Mazzotta».

E chi sono i suoi collaboratori? «Noi parlavamo con Gherardo Gardo, un commercialista di estrema di fiducia del presidente, e con Mazzotta, che ha confidenza con il presidente (si danno del tutto), anche se ci meravigliava il fatto che fossero di due aree politiche opposte». Quindi voi i rapporti con Fincantieri e Leonardo li avete avuti sempre mediati? «Assolutamente sì, nonostante la presentazione che abbiamo inviato via mail».

E i soldi di cui parla D'Alema, più di ottanta milioni, sotto quale forma dovevano arrivare? «Mediante un contratto di consulenza allo studio di Robert Allen, professionista di riferimento del presidente D'Alema per le sue attività svolte all'estero. Come ci ha confidato l'ex premier in persona». 

Anche voi avete preparato un mandato per quello studio «Su indicazione diretta del presidente D'Alema. Lui ha giustificato la segnalazione con motivi di trasparenza e controlli. Ci ha spiegato che è uno studio legale esperto di transazioni internazionali che avrebbe superato le restrittive condizioni di compliance dettate dalla politica delle società a partecipazione pubblica». 

Nell'affare c'era "solo» il 2 per cento dei contratti o c'era anche qualcos' altro? «Oltre al 2 per cento c'era la gestione mediante società da gestirsi il loco delle opere propedeutiche all'installazione delle tecnologie militari e le opere civili presso le strutture militari in cui sarebbe avvenute le forniture, come l'allargamento delle piste aeree o l'ampliamento dei cantieri navali. Per gli aerei si parlava di altri 500 milioni. Per le navi di 200 milioni». E in questo D'Alema c'entrava qualcosa? «Ci avrebbe segnalato delle persone da inserire all'interno della società da costituire in Colombia e a cui sarebbe stata affidato il compito di realizzare le opere».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 4 marzo 2022.

Massimo D'Alema per giustificare il suo intervento nella trattativa per una commessa da 4 miliardi di euro con le forze armate colombiane ha dichiarato di essere stato contattato da «personalità politiche» dello Stato sudamericano. Ma non ha fatto i loro nomi. A quanto ci risulta i suoi interlocutori, sin dall'inizio, sono stati due italiani, Emanuele Caruso e Francesco Amato, a cui poi si è aggiunto un ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani di estrema destra messi al bando una quindicina di anni fa.

Edgar Ignacio Fierro Florez, meglio conosciuto con il nome di battaglia di Don Antonio, è stato anche condannato a 40 anni di carcere per i suoi delitti, ma a lui D'Alema si rivolgeva con deferenza. Sapeva chi fosse? «Io lo avevo detto al suo stretto collaboratore Giancarlo Mazzotta. Anche che aveva militato nelle Autodefensas unidas» ci ha spiegato Amato. 

Fa sorridere pensare che l'ex leader comunista si sia trovato a fare affari con un estremista di destra accusato di aver ucciso gli avversari politici e di aver militato in milizie coinvolte anche nel narcotraffico, a partire dal capo supremo Salvatore Mancuso, estradato negli Usa e poi graziato.

Fierro è stato cacciato dall'esercito regolare quando era capitano per aver organizzato una perquisizione dove non c'era niente da perquisire. Si arruolò subito nelle Auc e per tre anni ebbe incarichi di comando. Il suo gruppo, nella zona che controllava, seminò il terrore, massacrando attivisti per i diritti civili, sindacalisti, professori universitari, commercianti, allevatori, ladruncoli e tossicodipendenti. 

Quindici persone vennero uccise in un solo week end. Sui siti colombiani ci sono le storie di alcuni di questi morti, in una sorta di Spoon river di persone che, per il loro impegno politico a favore dei più deboli, sarebbero state certamente applaudite a un dibattito alla festa dell'Unità. Tra i nomi più noti dei martiri di questa mattanza il sociologo Alfredo Correa de Andreis. Fierro, che nel mondo delle forze armate, apre ancora qualche porta, era appellato da D'Alema con il soprannome di «senatore», come forse gli era stato presentato, anche se era solo un pregiudicato.

D'Alema con i giornali amici ha rivendicato di essersi interessato alla vendita di aerei e navi da guerra solo per amor di Patria, non certo per mettere da parte gli oltre 80 milioni di euro che aveva promesso a Fierro si sarebbero divisi alla fine dell'affare. «È un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire» ha trillato con l'ex comandante delle Autodefensas unidas de Colombia.

Ma con Repubblica si è schermito, assicurando di non avere ben chiaro che cosa «possa essere il success fee in un'operazione di questo tipo». Peccato che il premio da 80 milioni a cui ha fatto riferimento dell'audio che abbiamo pubblicato in esclusiva corrisponda esattamente al 2% delle offerte da 4,16 miliardi complessivi che Fincantieri e Leonardo hanno inviato, attraverso lo studio Robert Allen law, in Colombia. Nella proposta di Leonardo, per 24 caccia M-346 equipaggiati, manutenzione e opere civili annesse la spesa era di 2,13 miliardi di euro, mentre nel prospetto di Fincantieri 2 fregate Fxc 30 venivano offerte per 900 milioni, 2 sottomarini classe Trachinus a 730 milioni, costi a cui occorreva aggiungere 450 milioni di manutenzione e 50 per servizi logistici, per un totale di 2,03 miliardi.

Grazie a D'Alema i broker italiani e lo studio Allen sono riusciti a portare a casa un memorandum of understanding firmato a Bogotà il 27 gennaio 2022 da Giuseppe Giordo, general manager della divisione militare, e Achille Fulfaro, vicepresidente vendite e direttore commerciale.

Con Leonardo la trattativa per la vendita di 24 caccia era meno avanzata. Era iniziata dall'ufficio più importante dell'azienda di via Montegrappa, quando D'Alema si era rivolto direttamente all'ad Alessandro Profumo, che aveva trasferito la pratica al vicepresidente e capo del commerciale Dario Marfé. 

Quest' ultimo si era subito messo a disposizione del politico per informazione e invio di materiali. L'affare doveva essere sembrato migliore di quello (da 5 aerei) a cui stava lavorando un broker colombiano con la supervisione del ministero della Difesa, anche perché riguardava aerei da addestramento non particolarmente ricercati sul mercato.

A fine dicembre era stato siglato un Nda, un non disclosure agreement con l'avvocato Umberto Bonaventura dello studio Allen, accordo di riservatezza propedeutico alla due diligence e all'eventuale firma di un contratto. Il nome dello studio, come detto, è stato segnalato dall'ex premier. 

Ma a destare i primi sospetti in Leonardo sarebbe stato l'incontro organizzato per un loro manager, Carlo Bassani, al ministero della Difesa di Bogotà, a cui avrebbero partecipato ufficiali della Marina che sembravano più interessati agli elicotteri che agli aerei.

All'azienda sarebbero apparse eccessive anche le provvigioni richieste e il core business dello studio Allen, specializzato nella vendita di yacht di lusso.

L'8 febbraio viene organizzata una conference call. Che finisce in modo disastroso, come racconta Mazzotta, stretto collaboratore di D'Alema in questo business, a Caruso: «Caro Emanuele sono profondamente e amareggiato per la pessima figura di oggi. Alle ore 17 ero a Roma nello studio del presidente e, purtroppo, alle 17 e 30, si è collegata solo la parte italiana e più precisamente: il Presidente, il direttore generale di Fincantieri Spa, dottor Giuseppe Giordo, e l'amministratore delegato di Leonardo Spa dottor Alessandro Profumo.

Nessuno della parte colombiana si è collegato. Come ti ho anticipato si registra purtroppo una brutta battuta di arresto che rischia di compromettere definitivamente ogni forma di collaborazione. Mi sono speso personalmente con il Presidente, mettendoci la faccia, e francamente, nonostante i miei ottimi rapporti con lui, credo che si sia disaffezionato a proseguire». 

In realtà due giorni dopo D'Alema chiede e ottiene di avere una call a quattr'occhi con Don Antonio, il criminale della guerra civile colombiana.Il 21 febbraio l'avvocato Bonavita scrive ad Amato: «Questa settimana chiudo definitivamente con le ditte italiane. Entro giovedì devo avere in mano i due contratti». Cioè entro il 24. Ma nessuno si fa più sentire e i due broker inviano alle due aziende un report in cui ricostruiscono tutta la loro attività per arrivare al risultato, dagli incontri romani «con autorevoli figure del panorama politico nazionale» alle interlocuzioni «non particolarmente incisive con lo studio Allen».

Uno sfogo che mette definitivamente in allerta i vertici di Leonardo e manda all'aria il progetto. Ma quanto ci abbia creduto D'Alema emerge dai messaggi apparsi sul gruppo Signal aperto dai due broker italiani con «Massimo D.» a cui risulta collegato un numero di telefono riconducibile all'ex premier. Qui Massimo D. distribuiva informazioni e consigli, in italiano e spagnolo.

Negli sms fa riferimento a memorandum e accordi di riservatezza, a «informazioni relative a Fincantieri» smistate «da Giancarlo» e al «catalogo di Leonardo» che sarebbe arrivato «in giornata». 

Quindi mette in guardia Amato: «L'importante è che Fincantieri e la Marina colombiana si capiscano. Il nostro obiettivo è che dopo il 14 (dicembre, ndr) inizi una trattativa diretta. Non dimenticare che stiamo aspettando l'invito di Leonardo, invito che deve essere inviato a Robert Allen». L'obiettivo è far fuori i concorrenti: «Va tutto bene, abbiamo solo il problema dell'azienda colombiana che ha già un contratto con Leonardo, ma lo risolveremo. Ora dobbiamo mandare gli inviti a Robert Allen e alle due società».

Sui soldi tranquillizza l'interlocutore: «Devi avere pazienza e fare la tua parte, stiamo andando bene e alla fine avrai grandi vantaggi ora è importante che arrivino gli inviti». Qualcuno parla di riunione e Massimo D. lo corregge: «Non abbiamo una riunione. Abbiamo un saluto. Il Ceo di Fincantieri ringraziera il senatore (Fierro, ndr) per il suo impegno per promuovere la collaborazione tra i due Paesi. lo mi uniro. Assicureremo il nostro impegno. Se Giancarlo vuole assistere io non ho problemi. Ma in silenzio». 

In una mail inviata allo studio americano, i broker scrivono che Fincantieri è una società collegata a Leonardo. Massimo D. li corregge: «Fincantieri non è del gruppo Leonardo, ma non e un problema. Loro risponderanno che sono pronti a venire il 7 o l'8 (dicembre, ndr).Hanno concordato già tra la società e gli avvocati. Prima non ce la fanno».

La visita a Cartagena, negli uffici della Cotemar, armatore pubblico colombiano, avverrà qualche giorno dopo, il 14 dicembre.«Verranno con una proposta strutturata. Compresa la parte finanziaria» anticipa sempre Massimo D.. Esattamente quello che i colombiani troveranno nella proposta. Amato e Caruso ricevono precise istruzioni: «Tutti gli inviti e le manifestazioni di interesse dovrebbero andare allo studio americano, cioè a Umberto, quando abbiamo le carte in mano negoziamo con le aziende (Leonardo e Fincantieri). È assolutamente necessario evitare che gli inviti vadano direttamente alle aziende». Così da evitare di perdere le sontuose provvigioni.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 5 marzo 2022.

Dall'audit interno di Leonardo sta emergendo che lo studio Robert Allen law di Miami a cui l'azienda stava preparando un contratto di mediazione per un affare da 2,13 miliardi (vendita di 24 caccia da addestramento) era un accordo capestro. L'avvocato presentato da Massimo D'Alema come intermediario a 24 carati voleva essere pagato in anticipo e con provvigioni fuori mercato. L'azienda aveva deciso che sino a 350 milioni di euro di acquisti non avrebbe corrisposto nulla, perché aveva già in mano una commessa di quell'importo, per 5 aerei. 

Oltre i 350 milioni scattavano provvigioni al 2 per cento e un premio al raggiungimento dei 2 miliardi. Tutte questioni citate da D'Alema quando, discutendo con l'ex sanguinario comandante dei gruppi paramilitari colombiani Edgar Ignacio Fierro Florez, parla di «risultato straordinario». Ma Leonardo voleva pagare solo a risultato ottenuto. Per questo sarebbe saltato l'accordo.

Ma se D'Alema ha introdotto negli uffici di Leonardo e Fincantieri un avvocato quanto meno poco esperto di vendite di armamenti, la vera cosa incredibile è che un uomo che è stato presidente del Consiglio, ministro degli Esteri e presidente del Copasir abbia passato ore a parlare e scrivere con due presunti broker pugliesi che più andiamo avanti con le indagini e più assomigliano ai protagonisti di Tototruffa. Emanuele Caruso e Francesco Amato sono una strana coppia che si conosce un paio di anni fa attraverso comuni amici. Entrambi sono di origine pugliese. 

Il primo, 42 anni, originario di Copertino (Lecce), su Internet è praticamente inesistente. Nel 2016 è stato eletto come consigliere comunale del Pd a San Pietro in Lama e nel 2017 ha lasciato l'incarico perché accusato da un'assessora di essere una «persona avvezza alla menzogna».

Negli ultimi anni non ha dichiarato redditi in Italia e gli ultimi incassi ufficiali risalgono al 2009, 590 euro da una banca. In questi giorni è stato avvistato presso il palazzo della Regione Puglia. L'amico trentasettenne di Lequile (Lecce), anche se da anni vive a Malaga, Francesco Amato, riteneva che il collega fosse in una qualche sede di una fantomatica «Difesa avanzata», una specie di branca dei servizi segreti. 

Ma a Caruso la fantasia non deve mancare visto che si è autonominato dirigente dell'Osservatorio per l'antiterrorismo in Medioriente e segretario generale della Camera EuroMediterranea per l'industria e le imprese che avrebbe il patrocinio dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo, rilasciato «mediante atto pubblico» nientemeno che da «Sua eccellenza ambasciatore Sergio Piazzi», ovvero l'ex alto funzionario dell'Onu che da otto anni ha l'incarico di segretario generale dell'organizzazione internazionale che raggruppa 34 Paesi del Mediterraneo che tramite lo strumento della diplomazia parlamentare sostengono l'integrazione e collaborazione pacifica dell'area del Mare nostrum.

Presidente della Camera EuroMediterranea risulta essere Baddredine Toukabri, cinquantaquattrenne tunisino residente anch' egli in provincia di Lecce; negli anni 80 ha lavorato per un po' di tempo presso l'Ambasciata statunitense di Roma. Ma le qualifiche di Caruso, che poi ha distribuito nomine anche al compare Amato, non sono finite. Per esempio, nei documenti che manda in giro, si definisce direttore pro tempore della Polizia mediterranea, naturalmente collegata all'Assemblea. 

Il contatto telefonico di questa presunta forza pubblica è il cellulare di Caruso e l'indirizzo della sede ufficiale di Perugia si trova in una zona non proprio ben frequentata. Nella documentazione in possesso della Verità c'è anche il verbale di una presunta «prima riunione plenaria programmatica delle attività 2021-2022» dell'Assemblea del Mediterraneo. 

È il 6 settembre 2021 e sette presunti membri dell'istituzione si sarebbero riuniti per raccogliere la proposta di costituire un'assemblea gemella in America Latina, guidata dalla Repubblica della Colombia. «La proposta presentata da strutture patrocinate come la Camera dell'Industria e delle imprese del Mediterraneo e la Polizia del Mediterraneo» prevedeva un protocollo da far gestire da una serie di personaggi colombiani, tutti coinvolti, come sorprendersi, nella trattiva per le armi di Leonardo e Fincantieri, compreso l'ex squadrista delle Auc. 

Tanto che il progetto era rivolto «principalmente per l'integrazione dei paramilitari che hanno aderito alla pace e agli accordi di disarmo e vittime degli eventi legati agli scontri degli anni passati». Così, testuale.

Nel verbale si legge che Caruso si sarebbe interfacciato sul punto con Piazzi, che da 37 anni vive all'estero e nella sua carriera è stato per esempio capo delle operazioni umanitarie in Ruanda e nel Corno d'Africa. Abbiamo chiesto al segretario generale Piazzi che cosa sappia di queste iniziative e abbiamo ricevuto una risposta sorprendente: «Noi ci occupiamo di processi di pace e di corridoi umanitari, come stiamo facendo in Ucraina, non di armi. Emanuele Caruso? Non conosco questo signore, mai sentito in vita mia». 

La Camera EuroMediterranea e la Polizia mediterranea guidate da Caruso dovrebbero avere il vostro patrocinio. «Mai avuto notizia di queste due organizzazioni. Abbiamo l'Interpol, l'Europol, ma non ho mai sentito parlare di polizia del Mediterraneo. Non hanno nessun patrocinio. Non so che cosa siano queste sigle».

Quando gli mostriamo il verbale dell'assemblea di settembre sbotta: «Il logo non è il nostro. Non so niente di quello che si è detto in quella riunione, né conosco qualcuna delle persone citate. Si sono attribuiti un patrocinio e una partnership che non esistono. Qui c'è qualcuno che non ci sta con la testa che si è inventato questo documento di sana pianta. È qualcuno che non sa neanche fare i documenti falsi. Usano un linguaggio che non è quello delle Nazioni unite, a cui fanno riferimento. 

Per di più l'Assemblea del Mediterraneo e l'Onu non hanno nessuna relazione istituzionale al contrario di quanto è scritto. È stato creato qualcosa di estremamente falso. È una cosa tutta inventata e il logo che hanno messo sul documento è un nostro vecchio simbolo in cui non è stata cambiata la precedente scritta in arabo».

Non conosce nemmeno il presidente tunisino? «Mai sentito nemmeno lui» conclude Piazzi. «E adesso se gentilmente mi manda questi documenti io passo tutto al Parlamento italiano e chiedo all'ufficio diplomatico di intervenire attraverso i canali istituzionali preposti. Ci troviamo di fronte a dei truffatori». 

Questi pataccari nel verbale di settembre avevano descritto il logo dell'Union de coperacion para America latina (Ucai), l'organizzazione in via di costituzione. Quel simbolo e quello della Cancelleria (il ministero degli Esteri) della Colombia sono gli stessi che a inizio settembre sono finiti su un altro documento questa volta inviato da Caruso e Amato a Fincantieri e Leonardo per annunciare di aver «accettato» «con grande onore e senso del dovere» «l'incarico di consiglieri del ministro degli Affari esteri della Colombia», nomina avvenuta «nell'ambito dei programmi» che puntano, «mediante il patrocino Onu», alla costituzione dell'Assemblea parlamentare sudamericana.

L'organismo progettato nella riunione fantasma dell'Assemblea del Mediterraneo che a detta di Piazzi non si sarebbe mai tenuta. Insomma un'altra clamorosa fake news. La sede dell'Ucai coincide con l'indirizzo del ministero di Bogotà. Ma uno dei due broker, Amato, che quando era in call con D'Alema faceva collegare in segreto anche il papà Oronzo («volevo che vedesse con chi parlavo»), forse rendendosi conto di aver tirato troppo la corda, ammette: «Non siamo mai stati in quegli uffici e credo che anche la nomina a consiglieri sia falsa». 

Eppure D'Alema si sarebbe bevuto tutto, così come le aziende partecipate: «La lettera di invito alle società italiane in Colombia recava l'intestazione della Cancelleria, cioè del ministero degli Esteri e non di qualche gruppo di cittadini privati» ha detto. Peccato che quelle carte le spedissero i broker pataccari.

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” il 6 marzo 2022.

Nella vicenda della trattativa mediata da Massimo D'Alema per vendere due fregate, due sommergibili e 24 caccia alle forze armate colombiane i brutti ceffi non finiscono mai. Nei mesi scorsi il quarantaduenne Emanuele Caruso, uno dei due broker ingaggiati in Puglia dall'entourage dell'ex premier (l'altro è il trentasettenne Francesco Amato), ha fatto circolare il resoconto di una riunione fantasma del 6-7 settembre 2021 dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo. 

In quella seduta sarebbe stato lanciato il patrocinio e la partnership a favore di una fantomatica Unione di cooperazione di Paesi sudamericani. Nella relazione erano citate «le persone nominate per la Cooperazione riguardo ai progetti da sviluppare in Colombia». Nell'elenco c'era il capo del «gruppo di lavoro», tale Eder Perneth Caicedo, con ogni probabilità un costruttore di Baranquilla, dove i broker, ma anche D'Alema, stavano interessandosi alla costruzione di un porto.

Nella lista anche il capitano di fregata Francisco Joya Preito che il 27 gennaio 2022 ha siglato il memorandum of understanding con i manager di Fincantieri Giuseppe Giordo e Achille Fulfaro. Infine, nel quartetto che avrebbe dovuto lavorare all'«integrazione dei paramilitari» che si erano macchiati di orribili delitti nel Paese, c'erano altri due esponenti del team coinvolto anche nella trattativa per gli armamenti prodotti da Leonardo e Fincantieri. Si tratta di due ex combattenti delle Autodefensas unidas de Colombia, le famigerate Auc che si sono distinte in operazioni di pulizia etnica e narcotraffico.Il primo è il già da noi citato comandante Edgar Ignacio Fierro Florez. 

Adesso, selezionato con scarsa prudenza dai due broker pugliesi, spunta anche Oscar José Ospino Pacheco. Classe 1966, conosciuto con il nome di battaglia di Tolemaida, è stato accusato tra le altre cose dell'omicidio di Valmore Locarno e Víctor Hugo Orcasita, entrambi assassinati nel marzo 2001, leader sindacali della Drummond, compagnia che in Colombia opera nei settori minerari, ferroviari e portuali.

Per quei delitti Pacheco è stato condannato a 27 anni di prigione. Adesso, come Fierro, dovrebbe essere tornato un uomo libero, come dimostrerebbe il documento di Caruso. Particolarmente interessante è ciò che dice Fierro a D'Alema nella video conferenza del 10 febbraio richiesta dall'ex segretario del Pds dopo un'accesa discussione con Amato. 

A seguito di quella disputa, l'ex squadrista domanda se il «presidente» abbia avuto problemi con il broker ottenendo questa risposta da D'Alema: «Innanzitutto ho pensato che era utile che ci parlassimo noi due. Direttamente. Francesco Amato è un simpatico giovane, a volte fa un po' di confusione, come succede alle persone più giovani. Quindi, qualche volta può essere utile parlarsi direttamente».

Nel medesimo colloquio l'ex paramilitare tratta D'Alema come se fosse un procacciatore d'affari delle aziende statali italiane: «Da parte colombiana abbiamo tutte le condizioni per garantire che Fincantieri e Leonardo abbiano la possibilità di vendere i prodotti offerti. Stiamo praticamente lavorando come agenti di Leonardo e Fincantieri».

L'ex premier, davanti a queste affermazioni di Fierro non batte ciglio e chiede chiarimenti sui tempi dell'operazione, essendo preoccupato per le imminenti elezioni legislative in Colombia. Fierro lo rassicura, spiegando che la politica può essere bypassata grazie ai rapporti con un alto ufficiale dell'Aeronautica: «Il generale è dentro alla nostra squadra. Può aiutarci ad accelerare il processo di acquisto dei prodotti offerti da Leonardo». 

Un eventuale cambio di governo sembra non preoccupare l'ex militare, che dice: «Le persone che abbiamo nel nostro team rimangono in posizioni chiave che possono aiutare a decidere se assumere, acquistare. Sono loro che stabiliscono se è prima o dopo le elezioni». Quindi Fierro conclude: «Il ministro della Difesa se ne andrà tra due o tre mesi, ma ci sono ancora due funzionari che fanno parte della nostra squadra, che possono gestire tutto ciò di cui abbiamo bisogno e tutto ciò per cui ci siamo impegnati con Leonardo».

Ma a rendere ancora più inquietante la storia, oltre alle trattative con spietati ex paramilitari, è la girandola di carte false che il team che collaborava con D'Alema ha esibito per rendere più credibili le proprie proposte. Documenti intestati a istituzioni dai nomi pomposi, ma in realtà praticamente inesistenti. 

Ieri abbiamo recuperato due nuove lettere di patrocinio, apparentemente firmati dall'ambasciatore Sergio Piazzi, segretario dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo. Documenti destinati a Caruso e che offrivano il patronage alle sue creature. In una datata 5 agosto 2021 Piazzi dava la sua benedizione alla «delegazione che andrà a effettuare (che cosa non è chiaro, ndr), mediante il responsabile per le relazioni in America latina, Francesco Amato, presso la Pregiatissima Repubblica di Colombia».

Non è specificato nemmeno da chi fosse composta la delegazione, ma quasi certamente il riferimento è ai componenti del gruppo di lavoro citato nel resoconto del 6 settembre, compresi i due ex paramilitari. Nella lettera del 5 agosto viene citato il «presidente Francesco Maria Amoroso», ex parlamentare, anche lui pugliese, di An. 

Peccato che questi sia stato al vertice dell'Assemblea nel 2013 e 2014 e il suo nome compaia in una missiva fotocopia di patrocinio «gratuito» del 2013 che la Apm avrebbe concesso alla Camera EuroMediterranea, altra creatura di Caruso. Ma pure di questo documento, Piazzi nega la paternità. L'ambasciatore, dopo averci inviato un format originale, sottolinea: «Qui si può leggere il nome corretto in arabo dell'Assemblea e c'è l'indirizzo vero a pie' di pagina. In più ho controllato che, per le rare occasioni di patrocinio, inviamo messaggi di posta elettronica e non pagine a sé stanti». 

Aggiunge: «È pericolosissimo quanto accaduto e il Parlamento italiano ha contattato la Procura di Roma. Abbiamo inviato tutti i documenti disponibili». Sembra di capire che confermi di non avere mai incontrato Caruso per i patrocini «Assolutamente no e non ho mai saputo nulla della sua Camera EuroMediterranea. Ho dubbi che esista». Quando contestiamo a Caruso i documenti del patrocinio dell'agosto del 2021 e la relazione della riunione della Apm del 6 settembre, nega di averli inviati a chicchessia: «Io non conosco questi documenti. Non so chi le abbia mandato queste carte», ci assicura. 

Successivamente ci ha inviato una richiesta di codice fiscale inoltrata all'Agenzia delle entrate un anno fa per la Polizia Mediterranea ovvero una «Polizia volontaria internazionale» con sede in via del Macello 31 F, a Perugia. «La polizia è regolarmente costituita e ha avuto la visita della Digos poco tempo fa per la verifica del patrocinio del ministero degli Affari interni (sic, ndr)» insiste.

«E mi dispiace che iniziative sulla legalità possano screditare le persone. Forse non sono così matto e cazzaro. Se poi qualcuno vorrebbe (sic, ndr) farmi passare per questo non posso starci». In realtà all'indirizzo della nuova presunta forza dell'ordine si trova solo uno studio di commercialista che fa da sede legale dell'associazione. Caruso nega anche di aver fatto il consigliere comunale del Pd a San Pietro in Lama (Lecce), e di essersi successivamente dimesso. 

In effetti si è candidato, ma è stato primo dei non eletti con una quarantina di voti in una civica spostata verso il centro-destra, ma rinforzata con tre tesserati del Pd, tra cui Caruso. Che nei mesi successivi ha polemizzato con gli ex compagni di partito insieme con un'altra candidata. Su Internet i due avevano scritto: «La reiterata sequela di eventi, comunicati e commenti, senza ottenere risposte ma, anzi, continuando a subire attacchi ed insulti, ci lascia spoetizzati». Anche noi, di fronte a questa storia, ci troviamo un po' «spoetizzati».

Giacomo Amadori per “La Verità” il 7 marzo 2022.

La vicenda della compravendita di armi gestita da una strana banda di intermediari in affari con Massimo D'Alema è finita in Procura come annunciato ieri dalla Verità. L'ufficio giudiziario prescelto dall'Assemblea parlamentare del Mediterraneo (Apm), organismo che tesse relazioni diplomatiche tra i Paesi che si affacciano sul Mare nostrum, è quello di Napoli dove la Apm ha la propria sede ufficiale. 

A far scattare la denuncia sono stati i documenti farlocchi pubblicati dal nostro giornale e utilizzati per accreditare sia presso le istituzioni colombiane che presso le aziende italiane (Leonardo e Fincantieri) due strani broker: i pugliesi Emanuele Caruso, 42 anni, e Francesco Amato, 37. 

Entrambi, a partire dal settembre scorso, hanno iniziato a lavorare a una trattativa che aveva l'obiettivo di vendere alle forze armate colombiane armamenti made in Italy del valore di oltre 4 miliardi di euro e per l'esattezza due fregate Fcx30, due sommergibili Trachinus e 24 caccia da addestramento M-360. 

Ma Caruso e Amato per raggiungere il risultato hanno iniziato a stampare nomine con il ciclostile in fantomatiche organizzazioni internazionali, tutte, sembra, partorite dalla fantasia della strana coppia. A onor del vero Amato con noi ha scaricato sul socio la responsabilità di quel fiorire di enti e incarichi, mentre ha ammesso di aver coinvolto nell'affare, grazie ai suoi ganci colombiani, i due sanguinari ex paramilitari Edgar Ignacio Fierro Florez e Oscar José Ospino Pacheco.

Amato, che dice di vivere in Spagna, sarebbe entrato in confidenza con potenti famiglie sudamericane di latifondisti da responsabile per l'acquisto di frutta esotica (avocados in particolare) di un importante marchio della grande distribuzione. La Apm di fronte alle lettere di patrocinio tarocche ad associazioni come la Polizia del Mediterraneo e la Camera EuroMediterranea per l'industria e le imprese ha deciso di rivolgersi alla magistratura, come ci aveva anticipato il segretario generale Sergio Piazzi.

Ieri è stato diramato un comunicato ufficiale: «L'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo ha presentato sabato 5 marzo una denuncia presso la Procura di Napoli, città in cui ha sede il Segretariato dell'Apm, a carico del sedicente Emanuele Caruso e altri soggetti ignoti in relazione a quanto emerso da due articoli pubblicati dal quotidiano La Verità su presunte intermediazioni per la vendita di armi in Colombia», si legge nel comunicato. 

Che prosegue così: «In questi articoli si dava conto di presunti rapporti tra l'Apm e alcuni soggetti, da noi immediatamente denunciati all'autorità giudiziaria per tutelare la nostra organizzazione. Nella denuncia è stato chiarito che ogni informazione pubblicata risulta palesemente falsa, come correttamente riportato dal quotidiano La Verità, che ha ricevuto esaustive spiegazioni da parte del Segretario generale dell'Apm, ambasciatore Sergio Piazzi».

L'atto d'accusa contro i due broker (in particolare contro Caruso) termina così: «Inoltre, come precisato sia a mezzo stampa, che ribadito nella denuncia, non è mai esistito nessun rapporto, né abbiamo mai avuto notizia di persone, associazioni e fatti descritti nei suddetti articoli. Abbiamo quindi denunciato tali circostanze all'autorità giudiziaria al fine di punire gli autori materiali dei reati commessi, ma anche per ribadire l'immediata presa di distanza da vicende che risultano essere le più lontane possibili dalla missione dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo, che agisce nel pieno rispetto delle norme legislative nazionali e internazionali per promuovere azioni di diplomazia parlamentare, volte a costruire iniziative di pace e sicurezza nell'area Euro-Mediterranea e nel Golfo». Adesso Caruso ed Amato la loro pila di carte e titoli dovranno mostrarli ai magistrati. 

Striscia la Notizia, Massimo D'Alema e le armi in Colombia? Testimonianza-bomba del sindaco: "Quella telefonata..." Libero Quotidiano il 7 marzo 2022

Striscia la Notizia è tornata a indagare sul tentativo di vendita di armi alla Colombia con Massimo D’Alema presunto intermediario. Si tratta di una vicenda piuttosto delicata e scottante, quella di cui si sta occupando Pinuccio. Stasera, lunedì 7 marzo, il tg satirico di Canale 5 ripartirà dall’audio in cui si sente l’ex premier mettere fretta ai suoi interlocutori.

A preoccuparlo sarebbe stato il possibile cambio ai vertici di Fincantieri e Leonardo, che avrebbe potuto mandare all’aria la trattativa da 4 miliardi e quindi l’eventuale commissioni da 80 milioni. L’affare sarebbe stato condotto per conto di Leonardo, l’azienda a partecipazione statale amministrata da Alessandro Profumo, che in passato ha anche sovvenzionato “Italianieuropei”, la fondazione di D’Alema. Pinuccio si chiede se Leonardo sapeva del ruolo dell’ex premier: è andato a rivolgere la domanda direttamente all’azienda attiva nel settore della difesa, ricevendo però come risposta un “no comment”.

Allora l’inviato di Striscia ha indagato sulla pista pugliese dell’inchiesta: Giancarlo Mazzotta, l’ex sindaco di Carmiano - paesino in provincia di Lecce sciolto per mafia - che avrebbe partecipato agli incontri con i colombiani. Mazzotta avrebbe dichiarato che D'Alema, Alessandro Profumo e Giuseppe Giordo (direttore generale navi militari di Fincantieri) si sarebbero incontrati a Roma per una telefonata con la Colombia.

Giacomo Amadori Fabio Amendolara per “la Verità” il 9 marzo 2022.

Il Colombia-gate approda in Senato, in commissione Difesa nell'ambito di una rapida serie di audizioni sull'esportazione di armi italiane all'estero. Lo ha annunciato ieri sera il senatore Maurizio Gasparri: «Ovviamente informazioni e chiarimenti vanno chiesti anche al governo. Ma sarà interessante sentire Profumo, e non solo, sulla questione esportazioni e sulla vicenda Colombia in particolare. Come si è letto e sentito in alcune registrazioni nella questione colombiana, che riguarda la vendita di aerei, navi e altro, sarebbe stato in qualche modo attivo e presente anche l'ex presidente del consiglio Massimo D'Alema».

A proposito della trattativa per 2 fregate, 2 sommergibili e 24 caccia da addestramento verranno sentiti con ogni probabilità l'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo, a cui si rivolse D'Alema, e l'ad di Fincantieri Giuseppe Bono. Ma a quanto risulta alla Verità verrà chiamato anche il generale Luciano Portolano, segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti.

«Le audizioni», ha sottolineato Gasparri «ci consentiranno di capire come procede questo export in generale, regolato da chiare norme, ma anche cosa sia successo con la Colombia. Profumo ci dovrà rispondere anche su fatti e circostanze che abbiamo letto sui giornali e sentito in tv. Profumo non ha voluto rispondere alla stampa, ma non potrà non farlo in Senato dove presto lo aspettiamo».

Chissà se verrà convocato sotto gli occhi dell'ex ministro della Difesa Roberta Pinotti (Pd) anche un altro dei protagonisti della trattativa per le armi alla Colombia Giancarlo Mazzotta, ex sindaco pugliese dalle tribolate vicende giudiziarie. Sarebbe stato lui a portare nell'ottobre scorso due broker (Francesco Amato ed Emanuele Caruso) nella sede di Italianieuropei, fondazione presieduta da D'Alema. E sempre Mazzotta si sarebbe presentato nell'ufficio del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè per capire se nel filo diretto tra il governo colombiano e quello italiano si potesse inserire anche D'Alema: «Il presidente è nei paraggi del ministero. 

Se c'è bisogno lo faccio salire» avrebbe detto al sottosegretario prima di essere messo alla porta. L'ex premier italiano in questi giorni è sotto un treno. Con le persone a lui più vicine, con la stessa difficoltà che aveva Arthur Herbert Fonzarelli, detto Fonzie, a dire «ho sbagliato», ha ammesso di aver commesso un grave errore ad affidarsi a personaggi su cui non aveva fatto fare nessun tipo di controllo e che lo hanno messo in contatto anziché con il ministro della Difesa colombiano con un ex paramilitare condannato a 40 anni di reclusione per crimini di guerra.

Ma D'Alema ha passato il cerino a Mazzotta sulla questione più scabrosa, ovvero la mediazione multimilionaria che il gruppo Leonardo avrebbe dovuto affidare allo studio legale di Robert Allen a Miami e in particolare al collaboratore Umberto Claudio Bonavita. Ebbene a fare il nome dello studio Allen a D'Alema sarebbe stato proprio Mazzotta. E l'ex segretario del Pds lo avrebbe indicato a Profumo.

Una segnalazione che avrebbe portato l'azienda a preparare un contratto che, però, non è stato firmato. Insomma a far partire la valanga che sta travolgendo l'ex primo ministro, oggi consulente di Ernst & Young e advisor con una propria società, sarebbe stato proprio Mazzotta. Che in questi giorni si è inabissato come uno di quei sommergibili che provava a far vendere con l'aiuto di D'Alema alla Marina militare colombiana. I due broker ci hanno parlato anche di un audio di Mazzotta dal contenuto controverso.

«Ha detto qualcosa come "se volete continuare a camminare con le vostre gambe dovete rispettare il presidente"» ci ha raccontato Amato, promettendoci l'invio del file. Caruso ha negato: «È un audio personale, ma non minaccioso, in cui Mazzotta parla anche dei suoi rapporti con D'Alema». Ricordiamo che Mazzotta è stato sindaco di Carmiano, un municipio sciolto per infiltrazioni mafiose. È stato primo cittadino per due mandati, il secondo dei quali interrotto dal ministero dell'Interno il 5 dicembre 2019, cosa che non gli ha impedito, un anno fa, di presentare la sua lista per concorrere per il terzo incarico risultando, però, sconfitto per un centinaio di voti. 

Era andato a casa perché avrebbe, stando alla ricostruzione degli ispettori ministeriali, «istigato un esponente di spicco della locale organizzazione criminale, suo stretto parente, affinché, con metodi mafiosi, costringesse un consigliere comunale ad assicurare il suo appoggio politico al primo cittadino, facendolo così desistere dal proposito di dimettersi». Una questione finita al centro di un'indagine giudiziaria ribattezzata «Cerchio», che proprio nel 2019 ha portato al rinvio a giudizio di Mazzotta, che ora sta affrontando un processo per estorsione aggravata dal metodo mafioso. 

Durante l'ultima udienza, il 14 febbraio scorso, è stato ascoltato in aula un pentito della Sacra corona unita che ha confermato ai giudici di aver avuto un incontro con l'ex sindaco in un bar, durante il quale gli fu chiesto appoggio per la campagna elettorale. «Ma non se ne fece nulla», ha spiegato il collaboratore di giustizia, «perché nel frattempo venni arrestato». Ma nel corso di quelle ispezioni al Municipio sarebbe emerso pure «un condizionamento criminale nel settore degli appalti di lavori e servizi pubblici».

La relazione della Prefettura inviata al ministero lo definisce un «sistema», caratterizzato «da un diffuso ricorso a procedure irregolari e da una costante frammentazione degli interventi che, in elusione della normativa di settore, hanno favorito sempre le stesse ditte». Il Prefetto di Lecce ha inserito nella black list cinque delle società riconducibili all'ex sindaco e alla sua famiglia (misura poi sospesa dal Tribunale), mentre la Guardia di finanza stava ricostruendo quella che gli investigatori hanno definito una «frode carosello» realizzata grazie a false fatture per una presunta evasione fiscale milionaria. 

Il prossimo 18 marzo ci sarà l'udienza preliminare per Mazzotta e i suoi tre figli. L'ex sindaco è stato rinviato a giudizio anche per aver violato i sigilli di un lido di cui era custode giudiziario dopo che era stato sequestrato per abusi edilizi. I magistrati gli contestano anche la frode processuale e l'istigazione alla corruzione. Un comportamento che avrebbe adottato di fronte a un comandante e a un tenente della polizia provinciale di Lecce, per fargli ritardare le operazioni in corso o fargli compiere atti contrari ai propri doveri.

E avrebbe pronunciato frasi da commedia all'italiana: «In questa struttura se volete siete i benvenuti anche con le vostre signore noi abbiamo sempre delle tessere a disposizione per i nostri clienti e comunque anche quando lo stabilimento è pieno, ci sono sempre dei posti in prima fila riservati». Ma Antonio Arnò e Alessandro Guerrieri, anziché cedere, hanno mandato alla sbarra il presunto furbacchione. Che avrebbe continuato con le sue proposte, anche dopo la stesura del verbale da parte dei due poliziotti: «Nella mia struttura c'è sempre un posto in prima fila per le personalità di spicco come prefetti e procuratori e anche per voi posso riservare lo stesso trattamento».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 10 marzo 2022.

In questi giorni è in corso un audit interno di Leonardo avviato al fine di ricostruire la trattativa per la vendita di armi alla Colombia portata avanti con la mediazione di Massimo D'Alema. Il potere di verifica è in mano al presidente dell'azienda, il generale Luciano Carta, già direttore dell'Aise, il nostro controspionaggio. 

Voci interne da tempo riferiscono di un presidente e di un amministratore delegato, Alessandro Profumo, che convivono da separati in casa e certamente questa vicenda non aiuterà a cementare i loro rapporti. Leonardo dalla primavera del 2021 aveva già un sales promoter locale, la Aviatek group, società specializzata in energia, aviazione, ingegneria, presieduta da tale Luis Zapata.

Il broker è stato contrattualizzato dopo mesi di reputation check per i suoi agganci in Colombia. Con lui in campo Leonardo inizia a trattare la vendita di 5 aerei d'addestramento M-346 con l'Aeronautica militare colombiana. Un affare da 350 milioni di euro. 

A quanto risulta alla Verità l'inizio della trattativa sarebbe stato ufficializzato anche presso l'Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento del ministero degli Esteri, anche se dalla Farnesina fanno sapere che non è chiaro quando le aziende debbano segnalare l'avvio delle contrattazioni e che le società non sono tenute a comunicare informazioni relative a intermediazioni, né tantomeno sul valore delle provvigioni.

In autunno, però, Zapata viene scavalcato. Un amico di Massimo D'Alema, il plurimputato ed ex sindaco di Carmiano Giancarlo Mazzotta, mette in campo due broker pugliesi che sembrano usciti da una di quelle classiche storie italiane in cui niente è come sembra. I due vantano curriculum e contatti che si stanno dimostrando o falsi (i primi) o compromettenti (i secondi). Mazzotta li porta da D'Alema e i quattro iniziano a parlare della possibile vendita alle forze armate colombiane di 2 fregate, 2 sommergibili e ben 24 M-346, merce con valore superiore ai 4 miliardi di euro. 

D'Alema ne parla con Profumo e questi con ogni probabilità è ingolosito dalla proposta, anche se Leonardo aveva intavolato da oltre un anno un confronto sul tema con le autorità colombiane. Non è chiaro se sia l'ex sindaco pugliese o l'ex premier, ma qualcuno indica come mediatore da contrattualizzare lo studio Robert Allen Law di Miami. Iniziano le trattative per l'accordo. Il succo è che il nuovo broker verrà pagato se il prezzo dell'affare supererà i 350 milioni di euro.

In questo caso la provvigione sarà del 2%. E forse, come ha dichiarato D'Alema, oltre al «success fee» i mediatori avrebbero incassato pure «un compenso come "retailer", come rimborso spese». Inoltre, superato il tetto dei 2 miliardi, sarebbe stato previsto un ulteriore lauto premio. Di certo D'Alema contava di portare a casa almeno 80 milioni di euro da dividere tra la parte italiana e quella colombiana. L'importante era che risultasse come consulente l'avvocato Umberto Claudio Bonavita dello studio Allen.

La preparazione del contratto è andata avanti spedita sino a fine febbraio. L'ultimo contatto tra Bonavita e Leonardo sarebbe avvenuto intorno al 22-23 febbraio ed è stato fissato in vista di un imminente contrattualizzazione. Qualche giorno prima, l'8 febbraio l'ad Profumo, il dg di Fincantieri Giuseppe Giordo e D'Alema avrebbero dovuto parlare con il ministro della Difesa, Diego Molano Aponte, ma questi non si era presentato. Ma questa brutta figura non aveva fatto arenare la trattativa. Subito dopo, però, succede qualcosa che probabilmente crea un corto circuito.

Il 10 febbraio D'Alema parla con un ex paramiliatare delle Auc, Edgar Fierro, temendo di essere stato scavalcato dal governo italiano come interlocutore privilegiato, e cerca nuovamente di agganciare Aponte: «Dobbiamo evitare che ci siano due canali paralleli» sostiene. E aggiunge: «Perché tutto questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale». Cioè il suo e quello dell'improvvisato circo Barnum che lo accompagna. Ma il sottosegretario Giorgio Mulè viene a sapere dalla ambasciatrice della Colombia in Italia che D'Alema si era presentato da lei dicendo di agire per conto di Leonardo.

A questo punto il politico di Forza Italia convoca il direttore generale dell'azienda Lucio Valerio Cioffi nel suo ufficio. È il 17 febbraio. Mulè ricorda al manager di essere stato coinvolto a dicembre dalla stessa azienda affinché il governo seguisse la trattativa per la vendita degli M-346, e chiede a che titolo si stia muovendo D'Alema. Il dg balbetta e se ne va. Nello stesso pomeriggio si fa sotto con Mulè anche Mazzotta il quale spiega al sottosegretario che D'Alema si trova nei paraggi e che è pronto a incontrarlo. L'esponente del governo mette alla porta l'ex sindaco.

Ma a Leonardo, nonostante la trattativa parallela sia stata scoperta, non devono sapere che pesci pigliare e inizialmente fanno finta di niente. Il 21 febbraio Bonavita scrive a uno dei due broker, Francesco Amato: «Questa settimana chiudo definitivamente con le ditte italiane. Con questo abbiamo il mandato. Entro giovedì devo avere in mano i due contratti». Cioè il 24 febbraio quando, effettivamente, ci sarebbe stato l'ultimo contatto. Sino ad allora, probabilmente, nessuno aveva avuto da ridire sul coinvolgimento, seppur non ufficiale, di Mazzotta, imputato per estorsione aggravata dal metodo mafioso, e dei due broker denunciati nei giorni scorsi per aver falsificato documentazione di un importante organismo internazionale per arricchire i propri cv.

Non era stato approntato nessun controllo approfondito nemmeno sullo studio Allen specializzato non certo nella compravendita di armi, bensì di super yacht. E D'Alema? Qualcuno aveva pensato a come ufficializzare il suo ruolo o doveva rimanere un fantasma? Forse la risposta la darà l'audit. 

Secondo una prima versione ufficiosa l'allarme rosso sulla trattativa sarebbe scattato il 28 febbraio, cioè lo stesso giorno in cui il sito Sassate dà la notizia della mediazione di D'Alema nella trattativa per la vendita di armamenti. In quel momento non si sa ancora né del ruolo dei broker, né di Mazzotta, né dei rapporti pericolosi con i paramilitari colombiani. 

Tanto meno era stato reso pubblico l'audio in cui D'Alema rivendicava un guadagno per sé e i suoi da 80 milioni di euro. Tra il 17 e il 28 febbraio Mulè e il sito Sassate (il primo direttamente, l'altro sul Web) avevano fatto sapere a Leonardo che il ruolo di D'Alema era di pubblico dominio. Il nome dell'ex premier doveva restare coperto? È difficile spiegare diversamente l'improvviso stop per la sola emersione del ruolo dell'ex segretario del Pds, di cui era informato dall'autunno lo stesso a Profumo.

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per “la Verità” l'11 marzo 2022.  

Ha cinquantadue anni, amministra tre società, ha tre figli ed è coinvolto in tre processi. Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di Carmiano (Lecce), Comune sciolto per mafia proprio per le sue relazioni pericolose, ha deciso, dopo giorni di silenzio, di rispondere alle nostre (insistenti) domande... su un altro giornale. Evitando così di essere inchiodato alle sue bugie. Questo politico pugliese dalle molte relazioni è imputato per numerosi illeciti che vanno dall'estorsione aggravata dal metodo mafioso, ai reati fiscali, all'istigazione alla corruzione ecc. ecc., e allo stesso tempo è uno dei protagonisti della vicenda sulla trattativa per la vendita di 4 miliardi di euro di armamenti alla Colombia.

Ha consegnato la sua versione alla Repubblica spiegando che a chiedere di far scendere in campo Massimo D'Alema sarebbe stato uno dei due broker coinvolti nell'affare, Francesco Amato. Il quale, con il socio Emanuele Caruso, avrebbe individuato lo studio americano a cui affidare la stipula del contratto di intermediazione con Leonardo e Fincantieri, le società che avrebbero dovuto vendere fregate, sommergibili e aerei alla Colombia e pagare per l'intermediazione oltre 80 milioni di euro agli uomini di D'Alema.

Quest' ultimo, come abbiamo già scritto, ha riferito ad alcuni amici che l'avvocato gli era stato indicato da Mazzotta e non dai broker. E lo stesso ex sindaco a Repubblica ha concesso: «Tra l'altro conoscevo quello studio». Poi ha detto di essere stato convinto a interagire con i broker dalle «carte ufficiali» (false) che gli avevano mostrato (parla addirittura di «un mandato generale ed ufficiale conferito direttamente dalla vice presidente della Colombia») e di incontri di altissimo livello in Colombia (ma mai con politici, solo con militari e imprenditori). Fa riferimento alla visita nello stabilimento della Cotecmar, la Fincantieri colombiana, senza specificare che è un'azienda, non un ministero.

Dopo aver letto le parole di Mazzotta, Amato sorride amaro: «E allora io sono babbo Natale». Non è difficile smentire Mazzotta, visto che nell'audio si sente distintamente D'Alema parlare anche a nome dello studio Allen mentre dialoga con un collaboratore dei broker: «Noi abbiamo preso impegno, noi e anche Robert Allen, la società americana che tutti i compensi, a qualsiasi titolo ricevuti, saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana». Insiste affinché i broker si affidino ai servigi di Allen: «È molto importante che la parte colombiana sia rappresentata da una società legale, di avvocati. Dev'essere uno studio legale. Per due ragioni. Innanzitutto il contratto tra Robert Allen e la parte colombiana sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati Uniti d'America. Perché Robert Allen è una società americana».

I colombiani, scegliendo uno studio americano, oltre ad avere garantita la privacy, dimostrerebbero di essere un soggetto «trasparente, accettabile». Quindi conclude: «Noi siamo pronti, la parte italiana è quasi pronta. E non appena saranno firmati gli ultimi contratti tra Robert Allen e le società italiane saremo perfettamente pronti». 

Mazzotta ha fatto riferimento anche al suo incontro con il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, avvenuto il 17 febbraio, appuntamento in cui l'esponente del governo avrebbe ribadito l'importanza per il Paese di chiudere l'affare. L'ex sindaco ha aggiunto che dopo il colloquio con Mulè ci sarebbe stata la videochiamata tra D'Alema e l'ex paramilitare Edgar Fierro: «Inspiegabilmente Amato e Caruso insistono nell'organizzare la telefonata di cui si è tanto parlato. Dall'altra parte, a loro dire, vi era un Senatore (Fierro, ndr) rappresentante di un gruppo di parlamentari colombiani. Col senno di poi, quella telefonata, anche per il modo con cui è stata condotta aveva tutt' altro significato».

Insomma ipotizza un trappolone. Peccato che la call, a quanto risulta alla Verità, contrariamente a quanto sostenuto da Mazzotta, preceda di una settimana l'incontro con Mulè. D'Alema quel giorno dice a Fierro: «L'ambasciatrice di Colombia in Italia, anche lei si sta occupando di questo problema. E lei sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori».

La diplomatica, tra il 25 gennaio e il 2 febbraio, era stata messa da Mulè per due volte allo stesso tavolo con i responsabili delle relazioni internazionali di Leonardo e aveva trattato con loro il tema degli armamenti. Evidentemente D'Alema, dopo quegli appuntamenti, viene a sapere (probabilmente da fonti interne all'azienda) di quel canale di trattativa alternativo al suo e il 9 febbraio prova a contattare l'ambasciatrice. 

Il giorno successivo cerca di aggirare l'ostacolo rivolgendosi al «senatore» Fierro, che considera in grado di incidere sul governo colombiano: «Questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale» sostiene. In quel momento l'incontro con Mulè non c'è ancora stato e D'Alema sta provando a scavalcarlo. Il giorno successivo, l'11 febbraio, la diplomatica si reca dall'ex premier per affrontare la questione e subito dopo Baffino inaugura la linea trattativista. Quella che porta Mazzotta al ministero della Difesa.

Ma Amato conosce davvero la vicepresidente della Colombia? «Non si è mai parlato con Mazzotta di questo. Comunque ho già trovato tutte le prove che smontano le dichiarazioni di quel signore e le ho già consegnate al mio avvocato. Per esempio dimostrerò che noi non conoscevamo lo studio Allen. Ce lo segnalano il presidente e Giancarlo. Carta canta». 

Nell'intervista Mazzotta è riuscito a smentire anche un proprio messaggio Whatsapp su una call andata male: «Quando dico che c'erano anche Giordo (Giuseppe, manager Fincantieri, ndr) e Profumo (Alessandro, ad di Leonardo, ndr) esagero. Io non so chi c'era. Non ero nella stanza del presidente D'Alema».

Ma a noi risulta che, invece, i due manager fossero in collegamento. In uno screenshot di una chat del presidente di Italianieuropei con Amato spunta anche la testolina di Mazzotta e in vista di un'altra call D'Alema si raccomanda: «Non abbiamo una riunione. Abbiamo un saluto. Il Ceo di Fincantieri ringrazierà il senatore (Fierro, ndr) per il suo impegno per promuovere la collaborazione tra i due Paesi. lo mi unirò. Assicureremo il nostro impegno. Se Giancarlo vuole assistere io non ho problemi. Ma in silenzio». 

Ma se le bugie di Mazzotta rischiano di avere le gambe corte, sono molto più documentati i suoi guai giudiziari. In particolare il procedimento per estorsione aggravato dal metodo mafioso. Stiamo parlando dell'inchiesta Cerchio, che ha scoperchiato ciò che sarebbe accaduto nella Cassa rurale all'epoca amministrata dal fratello dell'ex sindaco, Dino (soprannominato, coincidenza, «il colombiano»), e poi commissariata.

Per cercare di mantenere il controllo dell'istituto di credito, alle elezioni per il rinnovo degli organi amministrativi, si sarebbe mosso un cugino dell'allora primo cittadino, tale Gianni Mazzotta, detto «Conad», appellativo con il quale è conosciuto negli ambienti della mala capeggiata dai temutissimi fratelli Tornese. Per evitare ai soci della banca di presentare una lista alternativa a quella del «colombiano», «Conad» avrebbe usato queste parole: «C'è gente fiacca (brutta in dialetto leccese, ndr) che ve lo consiglia». 

Nello stesso fascicolo c'è un altro capo d'imputazione, che riguarda le pressioni su un consigliere comunale di maggioranza che voleva dimettersi e che fu raggiunto anche questa volta da Gianni «Conad». Secondo i magistrati il consigliere alla fine fu «costretto» ad appoggiare il sindaco. E, così, è scattata l'aggravante del metodo mafioso. 

Un'accusa che si è riversata nella relazione della Prefettura che poi ha portato allo scioglimento del consiglio comunale. In quel dossier gli ispettori prefettizi hanno ricostruito che tramite un'ingombrante e chiacchierata parentela del primo cittadino anche con un boss locale, Mario Tornese, che i magistrati antimafia indicano come appartenente alla Sacra corona unita, la mala sarebbe riuscita a insinuarsi negli uffici e a condizionarli. Soprattutto nel settore più delicato: quello degli appalti.

Tanto da portare all'affidamento del servizio di raccolta e di smaltimento dei rifiuti a una società che poi è stata colpita da interdittiva antimafia, che annoverava tra i suoi dipendenti «soggetti pregiudicati, riconducibili per stretti legami parentali», è scritto nella relazione del Prefetto, «a esponenti di spicco della criminalità organizzata». Mazzotta a un certo punto deve essersi sentito come il perno attorno al quale ruotavano banca e municipio, visto che gli investigatori l'hanno intercettato mentre spiegava: «Ci teniamo le mani tra di noi, è un cerchio e diventeremo sempre più forti». Poi il Comune è stato sciolto e Mazzotta si è dato agli armamenti.

Giacomo Amadori per “la Verità” il 12 marzo 2022.

Ostriche De Claire Dousset, gamberi rossi imperiali, ricci di mare, carpaccio di capesante con la zucca, tartare di tonno con le puntarelle. E di fronte a un menù costellato di tali prelibatezze che si sono accomodati, all'apice della trattativa per la vendita di 24 M-346 all'aviazione colombiana, l'ex premier Massimo D'Alema e l'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo. Si sono dati appuntamento al ristorante Pierluigi, uno dei migliori indirizzi per degustare plateau di crudo a Roma. Questo locale, con pescheria a vista, si trova in piazza de' Ricci a 300 metri a piedi da piazza Farnese dove ha il suo quartier generale la fondazione Italianieuropei, presieduta dall'ex ministro degli Esteri.

Due pranzi la cui importanza può essere apprezzata solo ricordando quanto è successo prima e dopo quegli appuntamenti conviviali. In autunno D'Alema si era rivolto a Profumo per sponsorizzare il proprio gruppo di lavoro durante la trattativa per rifornire l'esercito colombiano di nuovi armamenti, tra aerei, navi e sommergibili, per un valore di 4 miliardi di euro. D'Alema e i suoi collaboratori pensavano di poter incassare almeno 80 milioni di provvigioni.  Quando l'ex primo ministro bussa alla porta di Profumo è già in corso un'altra trattativa intermediata dalla società colombiana Aviatek di Luis Zapata.

Il vecchio leader della sinistra pensa di scavalcare il competitor indigeno, probabilmente puntando sui buoni uffici dell'amico Profumo. Che in effetti mette in contatto D'Alema con i vertici della divisione commerciale e in particolare con il vicepresidente Dario Marfé che il 15 dicembre scrive a D'Alema una mail con allegati i dépliant informativi di alcuni sistemi radar: «Le brochure sono indicative delle caratteristiche principali dei prodotti» scrive il manager, «in particolare per i radar Atcr 33S - 44S e Par sono in atto avanzamenti tecnologici e miglioramento delle prestazioni che qualora di interesse potranno essere riassunti in una presentazione dedicata». 

In calce i saluti: «Con i colleghi della divisione Elettronica resto a disposizione per eventuali chiarimenti / approfondimenti. A presto risentirLa anche sul tema M-346». Ovvero l'affare riguardante i 24 caccia del valore di 2,13 miliardi. Un prezzo che, in caso di successo, avrebbe fatto scattare un ricco premio per D'Alema e i suoi.

Ma sembra che nessuno abbia in alcun modo ritenuto necessario ufficializzare il ruolo del fondatore di Liberi e uguali nella trattativa e il contratto di intermediazione stava per essere firmato con l'avvocato Umberto C. Bonavita dello studio Robert Allen Law di Miami, nome indicato proprio da D'Alema o da uno dei suoi uomini, Giancarlo Mazzotta. 

L'8 febbraio l'ex segretario del Pds, Profumo e il direttore generale della divisione navi da guerra di Fincantieri, Giuseppe Giordo, si sono anche collegati per una videoconferenza con il ministro della Difesa colombiano Diego Molano Aponte che, però, diede buca agli illustri interlocutori italiani. La cosa mandò su tutte le furie D'Alema che ebbe una discussione con il broker Francesco Amato, il quale aveva organizzato quella call e che sino a quel giorno si era impegnato per l'affare a proprie spese.

L'ultimo battibecco con il «presidente» lo ricorda Amato: «Gli ho detto: "Mi parli di contratti da oltre sei mesi, dove cazzo stanno 'sti contratti? Io il lavoro l'ho fatto, tu mi stai prendendo per il culo". Lui mi ha risposto: "Tu non mi parli così". E io di rimando: "Io ti parlo come cazzo voglio caro presidente". E lui: "Con te non parlo più"».

Dopo il fallimento del collegamento con il ministro uno stretto collaboratore di D'Alema, Mazzotta, aveva scritto ad Amato: «Mi sono speso personalmente con il Presidente, mettendoci la faccia, e francamente, nonostante i miei ottimi rapporti con lui, credo che si sia disaffezionato a proseguire». Il 10 febbraio D'Alema si era lamentato sia della figuraccia che di Amato con l'ex paramilitare colombiano Edgar Fierro, uno dei mediatori: «[] l'altra sera, da noi era sera, quando non ci siamo collegati con il ministro, questo ha creato un problema molto serio di credibilità [] perché chiaramente ci sono delle pressioni sui vertici delle aziende, di altri, che dicono "ma no, questo canale non funziona, dovete rivolgervi a noi, perché questi non hanno rapporti con il governo colombiano". Questi saremmo noi, chiaro?».

E quanto al broker aveva aggiunto: «Amato è un simpatico giovane, a volte fa un po' di confusione, come succede alle persone più giovani». Ma mentre la trattativa sembrava complicarsi D'Alema e Profumo si sono visti ben due volte a pranzo da Pierluigi. Ancora nessuno sapeva in che business fosse coinvolto l'ex premier. Uno dei due appuntamenti risale alla prima metà di febbraio, nei giorni in cui D'Alema incontra l'ambasciatrice colombiana e, in compagnia di Profumo, non riesce a parlare con il ministro della Difesa del Paese sudamericano.

A quel primo pranzo i due, che sono (separatamente) clienti saltuari del ristorante, si presentano accompagnati da un gruppo di persone. La comitiva si accomoda nel dehor esterno riscaldato. Un po' di giorni dopo i commensali diminuiscono e a tavola si ritrovano solo in quattro. Mangiano le rinomate crudités del locale e un secondo sempre di pesce. Il tutto annaffiato da vino bianco. Il 21 febbraio l'avvocato Bonavita sembra certo e manda questo messaggio ad Amato: «Questa settimana chiudo definitivamente con le ditte italiane. Con questo abbiamo il mandato. Entro giovedì devo avere in mano i due contratti». 

Cioè il 24 febbraio, quando effettivamente, ci sarebbe stato l'ultimo contatto ufficiale con Leonardo. Nelle stesse ore, come detto, D'Alema e Profumo pranzano di nuovo insieme. Poi le fughe di notizie fanno deragliare l'affare. La possibile mediazione dell'ex premier esce come indiscrezione sul sito Sassate. Il giorno dopo La Verità pubblica l'audio in cui l'ex leader del Pds parla dei suoi futuri possibili guadagni. Scandisce: «Siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». Viste le aspettative immaginiamo che il conto da Pierluigi lo abbia pagato D'Alema.

D’Alema e gli aerei alla Colombia: il caso arriva in Parlamento. Terremoto per Leonardo e Fincantieri.  Giuliano Foschini, Luca Pagni su La Repubblica il 17 marzo 2022.  

Interrogazione al ministro Guerini e inchiesta interna di Leonardo: “Chi ha autorizzato la trattativa parallela?”. Trema la poltrona di Profumo.

L’incredibile storia della vendita (vera o millantata che fosse) delle navi e aerei militari italiani alla Colombia, rischia di non essere soltanto un problema per la reputazione dell’ex premier Massimo D’Alema. Che di quella trattativa è stato in qualche modo protagonista. Ma in queste ore si sta rivelando, al contrario, un terremoto soprattutto per i vertici delle due più importanti aziende di Stato italiane, Leonardo e Fincantieri: l’amministratore delegato, Alessandro Profumo, in particolare, e il manager della società di navi, Giuseppe Giordo.

D’Alema e gli aerei alla Colombia: il caso arriva in Parlamento. Terremoto per Leonardo e Fincantieri. Giuliano Foschini, Luca Pagni La Repubblica il 17 Marzo 2022. 

Interrogazione al ministro Guerini e inchiesta interna di Leonardo: “Chi ha autorizzato la trattativa parallela?”. Trema la poltrona di Profumo. 

L'incredibile storia della vendita (vera o millantata che fosse) delle navi e aerei militari italiani alla Colombia, rischia di non essere soltanto un problema per la reputazione dell'ex premier Massimo D'Alema. Che di quella trattativa è stato in qualche modo protagonista. Ma in queste ore si sta rivelando, al contrario, un terremoto soprattutto per i vertici delle due più importanti aziende di Stato italiane, Leonardo e Fincantieri: l'amministratore delegato, Alessandro Profumo, in particolare, e il manager della società di navi, Giuseppe Giordo.

Il caso, come era inevitabile che fosse (e come probabilmente voleva chi ha diffuso gli audio dell'incontro) è diventato politico. Nel governo e in Parlamento - ieri è stata depositata un'interrogazione al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, dal segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni- c'è chi chiede risposte su come la trattativa sia stata condotta e vuole risposte sulle eventuali responsabilità dei manager. 

In un momento, questo, che non è affatto neutro. A maggio, infatti, l'esecutivo dovrà ridisegnare i vertici di Fincantieri mentre il prossimo anno tocca a Leonardo. Con l'idea, che potrebbe riprendere quota, di creare un'unica grande azienda della Difesa italiana. La questione ruota attorno a un punto, al centro anche dell'inchiesta interna che Leonardo ha aperto in queste ore.

La società italiana aveva in piedi una trattativa ufficiale per la vendita di sei velivoli M346 con un intermediario colombiano. Una trattativa di cui erano a conoscenza tutti i manager della società, a partire dell'ad Profumo. E della quale era stato interessato anche il governo italiano, che aveva preso contatti ufficiali con l'esecutivo di Bogotà. Nello specifico, da un anno esisteva un contratto con un promoter locale, la Aviatek group, scelto dopo mesi di ricerca. «Da chi - si chiede in sintesi nell'audit - e per quale motivo viene autorizzata una trattativa parallela? Chi sapeva e cosa?».

In un'intervista a Repubblica , l'ex premier D'Alema ha raccontato di essere stato contattato da due presunti emissari del governo colombiano e di averli messi in contatto con Leonardo e Fincantieri. E di averlo fatto gratuitamente, senza aver avuto alcun incarico dalle due aziende italiane. E di essersi mosso anche perché le società sono clienti importanti di Ernst&Young, la società di consulenza di cui l'ex premier è presidente dell'advisor board. 

Da parte loro, le aziende non hanno mai negato i contatti con gli intermediari che avrebbero dovuto favorire gli eventuali contratti. Anche se c'è una differenza nelle posizioni dei due colossi di Stato. Fincantieri era arrivata a firmare quello che nel gergo degli affari si chiama Mou (memorandum of understanding), un documento in cui si fissano i contorni dell'operazione ma senza entrare nei dettagli economici. 

Leonardo non era nemmeno arrivata a questo punto: secondo fonti vicine all'azienda, si stava solo valutando eventuali «opportunità di business», e per questo era stato chiesto al responsabile commerciale di verificare se fosse stato possibile ampliare la commessa e al momento era solo stato firmato un accordo di confidenzialità con lo studio americano Robert Allen Law e fornito materiale che si può ricavare anche dal sito aziendale.

Non è chiaro, però, perché viene scelto un nuovo studio quando esisteva già un riferimento. E per quale motivo viene consentito un sovrapporsi di trattative. Dall'esito dell'audit di Leonardo dipenderà il futuro immediato di Profumo. 

Fermo restando che al governo ritengono molto difficile che il prossimo anno possa restare in azienda, magari come presidente, come si era ipotizzato nei mesi scorsi. Il prossimo mese dovrebbe concludersi invece l'esperienza in Fincantieri di Giuseppe Bono, che guida il gruppo dal 2002. Non saranno le uniche nomine da fare: cambio di vertici anche in Invitalia, Snam, Italgas e Autostrade.

Guido Paglia per sassate.it il 18 marzo 2022.  

A tre settimane dallo “scoop” di Sassate sul nuovo mestiere di “broker” di sistemi d’arma di Massimo D’Alema (e della devastante inchiesta a puntate de “La Verità”, che ha definitivamente scoperchiato le sconcertanti avidità del Lider Maximo e compagnia cantante), qualcosina si muove.

I cuor di leone di Repubblica finalmente ammettono che la poltrona di Profumo traballa, Nicola Porro fa sentire in tv le tronfie conversazioni di D’Alema, Dagospia aggiunge che forse il segretario del Pd Letta l’ha scaricato e la sinistra in concorrenza con LeU si arrischia perfino a presentare un’interrogazione. Un po’ poco per uno scandalo di queste proporzioni, ma bisogna accontentarsi. Per ora.

Ma Leonardo e Fincantieri, in attesa che ci sia uno di quei pm che vedono i reati solo a destra e sia disposto a muoversi, che fanno? Ecco, questo quesito merita di essere approfondito. Perché, malgrado l’audit disposto dal presidente Carta (silenzio di tomba sui primi risultati), “Arrogance” Profumo continua a tenere strettamente sotto controllo e a “silenziare” quasi tutti i media.

Solo il tanto bistrattato Giuseppe Bono (portato in palmo di mano all’estero, ma che ora -secondo i giornaloni- dovrebbe passare la mano solo per motivi anagrafici), è andato giù duro all’interno dell’azienda. Prima ancora che si rendesse necessario l’audit del presidente Massolo sulla regolarità delle procedure, ha inciso col bisturi sull’operato del suo DG, Giordo. E grazie ai rapidi accertamenti, svolti dall’ufficio legale interno, ha già fatto chiarezza sui retroscena dell’”affaire” inviando un report dettagliato all’azionista di controllo CdP e al MEF. E cosa dice il documento?

1) che l’AD era stato informato soltanto sommariamente (e pure in ritardo) della trattativa messa in piedi con D’Alema e Profumo per i sistemi d’arma da vendere alla Colombia; 

2) che Bono, finalmente messo al corrente del coinvolgimento del Lider Maximo, mise in guardia Giordo dall’utilizzare canali non istituzionali (come quello peraltro già esistente e curato dal sottosegretario Mulè), autorizzando una mera trasferta “esplorativa” nel paese sudamericano;

3) che l’AD di Fincantieri non fu informato del fatto che sarebbe stato firmato un MoU, sottoscritto da due oscuri capitani di fregata, oltretutto in pensione; scavalcando così l’autorità ufficiale che già stava trattando con l’Italia.

E siccome Bono non ama questo genere di comportamenti e reticenze, ha comunicato al MEF (e all’azionista CdP) di aver provveduto a sospendere fino a nuovo ordine le trasferte di Giordo e contestualmente avviato un’iniziativa disciplinare nei suoi confronti.

Resta ora da accertare, da parte del governo, se in seno all’alleanza Profumo-Giordo (con o senza D’Alema) esistano altri retroscena inesplorati. Tipo possibili intese per la soluzione del problema Oto Melara-Wass. 

Una vicenda che interessa anche Rheinmetall, il cui CEO Armin Papperger ha formulato proprio nei giorni scorsi un’interessante proposta veicolata in un’intervista al Sole24Ore. E che avrebbe meritato maggiore attenzione dai distratti (ma quando si toccano temi sgraditi a Profumo, è sempre così) media italiani.

Da avionews.com il 18 marzo 2022.  

La Colombia rischia d’influenzare il futuro di Leonardo e Fincantieri. L'incredibile storia della vendita (vera o millantata) di navi ed aerei militari italiani alla Colombia, rischia addirittura di mettere a repentaglio il futuro di un manager del calibro di Alessandro Profumo, attuale ad di Leonardo. 

Anche perché lo tsunami Colombia si abbatte sul Governo in un momento delicato come questo: a maggio, infatti, l'esecutivo dovrà ridisegnare i vertici di Fincantieri mentre il prossimo anno tocca a Leonardo. Con questo affaire sul groppone, dicono i bene informati, potrebbe riprendere quota l'idea di creare un'unica grande azienda della Difesa italiana. Soprattutto, però, potrebbe essere messa in discussione la figura del manager Profumo, da tempo al centro delle cronache.

Il business, anticipato dal sito "sassate.it", era la vendita alla Colombia di quattro corvette e due sommergibili prodotte da Fincantieri e di alcuni aerei di Leonardo, entrambe partecipate dal Governo italiano. Secondo "La Repubblica" adesso la questione si sta rivelando un terremoto proprio per i vertici delle due aziende di Stato. O meglio, a rischiare, adesso è l'amministratore delegato di Leonardo, Alessandro Profumo. 

Il caso, inevitabilmente, da affaire economico è diventato politico. Il segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni ha depositato un'interrogazione al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, ma sono molti di più quelli che chiedono risposte su come la trattativa sia stata condotta e sulle eventuali responsabilità dei manager.

In un'intervista a "Repubblica", l'ex-premier Massimo D'Alema ha raccontato di essere stato contattato da due presunti emissari del governo colombiano e di averli messi in contatto (gratuitamente) con Leonardo e Fincantieri. La questione ruota attorno ad un punto: Leonardo aveva in piedi una trattativa ufficiale per la vendita di sei velivoli M-346 con un intermediario colombiano. Della trattativa erano a conoscenza tutti i manager della società, a partire dall'ad Profumo, ed era stato interessato anche il Governo italiano, che aveva preso contatti ufficiali con l'esecutivo di Bogotà.

Le aziende non hanno mai negato i contatti con gli intermediari. Con una differenza: Fincantieri era arrivata a firmare un Mou, ossia un Memorandum of understanding, documento in cui si fissano i contorni dell'operazione senza entrare nei dettagli economici. Leonardo, invece, stava solo "valutando eventuali 'opportunità di business'", firmando un accordo di confidenzialità con lo studio americano Robert Allen Law. Quello che non è chiaro è perché venga scelto un nuovo studio quando esisteva già un riferimento. 

La questione è al centro di un audit interno a Leonardo. "Da chi e per quale motivo viene autorizzata una trattativa parallela? Chi sapeva e cosa?", si chiede nell'audit della società. Dall'esito dell'audit dipenderà il futuro immediato di Profumo: un futuro che, al momento, viene dato parecchio in bilico. Anzi, sono tanti, anche nel Governo, a ritenere che sia molto difficile che Profumo possa restare al timone di Leonardo anche l'anno prossimo.

DAGONOTA il 18 marzo 2022.

Che fine hanno fatto i Gabibbo “alle vongole” che al servizio dei poteri marci sul “Corriere della Sera” davano la caccia alla Casta politica evitando di inciampare sui bilanci taroccati delle loro aziende che facevano affari con le opere pubbliche pagando tangenti?

E dove sono finiti i mastini da tartufo che scodinzolavano dietro ai pubblici ministeri ai tempi di Mani pulite e venivano sfamati con le notizie (senza riscontri) degli arrestati sbattuti in prima pagina? Se la cosiddetta “rivoluzione italiana” (Mieli & Scalfari) trent’anni dopo si è rivelata una balla colossale per la stessa ammissione dei suoi protagonisti al Tribunale di Milano meglio metterci una pietra sopra.

Già, “il miracolismo mediatico” (Mario Perniola, “Miracoli e traumi della comunicazione”, Einaudi) che genera in tutti una eccitazione fuori misura “rispetto all’effettivo peso degli avvenimenti”. Ma se nel tritacarne oggi finiscono i giudici-eroi di Tangentopoli non troverete uno straccio di articolo, un commento in difesa delle ragioni e dell’onore perduto dell’ultima Casta da parte dei loro ex aedi. 

La fine, secondo il politologo Angelo Panebianco, della stessa “rivoluzione giudiziaria”. Meglio gettare nell’oblio quanto è stato narrato per anni come un avvenimento epocale. Un addio alle armi, insomma. Una ritirata vergognosa davanti ai lettori residuali dopo il grande esodo dalle edicole.

E veniamo all’oggi. 

Nelle redazioni dei giornali - “Corriere”, “Repubblica”, “la Stampa” -, non suscita curiosità, non diciamo scandalo, l’affaire della vendita delle armi alla Colombia, in tempi di guerra, da parte di Finmeccanica e Leonardo con la mediazione dell’ex capo del governo, Massimo D’Alema. E senza che arrivasse uno straccio di smentita da parte dei presunti “furbetti del quartierino” distribuiti tra il tavoliere della Puglia e le piantagioni della Colombia. 

L’inchiesta avviata in febbraio dal sito Sassate.it di Guido Paglia e da “la Verità” di Maurizio Belpietro, ben documentata con gli articoli di Giacomo Amadori e Fabio Amendolara – e corredata di agghiaccianti “audio” e scambi di mail tra i protagonisti-mediatori (D’Alema&C) e la casa madre Leonardo guidata da Alessandro Profumo -, è ribalzata sui social e soprattutto in tv con effetti assai più devastanti per Leonardo e per il governo Draghi, fermi nella loro arroganza del silenzio omertoso.

Se in via Solferino i guardiani della notizia sonnecchiavano, a Largo Fochetti si risvegliavano dal torpore il 2 marzo riportando nel titolo l’audio in cui l’ex premier avvertiva i suoi interlocutori: “Ci dividiamo 80 milioni”. Ma il giorno dopo correva ai ripari ospitando una intervista lecca-lecca a Massimo D’Alema: “Dalle armi vendute alla Colombia non avrei preso un euro”. E gli 80 milioni da spartire? Quisquiglie per Max e il suo intervistatore. 

Così, occorre aspettare giovedì 17 marzo dopo l’incalzare dell’inchiesta de “la Verità”, dei social e dei programmi tv “Striscia la notizia” e Fratelli di Crozza”, il quotidiano fondato da Scalfari tornava sull’”incredibile” (sic) storia della vendita delle armi che potrebbe costare la riconferma di Profumo in Leonardo. 

Ancora una volta a fare da cassa di risonanza sull’affaire delle armi sono stati i programmi satirici “Striscia la notizia” (Canale 5) e “Fratelli di Crozza” (Nove). Da settimane Pinuccio e la redazione di Antonio Ricci non facevano del sarcasmo su un presunto episodio di corruzione, sia pure finito nel nulla, ma quell’informazione negata dai media tradizionali. Sono cronaca senza bavagli gli interventi puntuali del conduttore di “Radio Scoglio 24” che aspettano ancora un cenno di risposta da parte di Profumo e del “governo dei migliori” di Mario Draghi. Finora sempre negato. Ah, saperlo!

E forse anche il professore al catodo sonnecchiava nelle Langhe quando “Striscia” e “Fratelli d’Italia” hanno sbeffeggiato il Tg1 di Monica Maggioni che aveva mandato in onda le immagini fasulle dei missili russi in Ucraina rubate da un video-gioco. “Il tono scherzoso, meglio del tono serioso, risolve in genere le grandi questioni con più efficacia”, sosteneva Orazio. 

È un vero peccato, allora, che il critico televisivo del “Corriere” invece di sottolineare il ruolo meritorio dei due programmi sull’affaire Leonardo-D’Alema colga l’occasione per bacchettare il comico Maurizio Crozza, reo di aver messo in onda un monologo beffardo alla Dario Fo del “Mistero buffo” giudicato “non un passaggio satirico, ma un comizio antiamericano”. 

Giacomo Amadori François De Tonquédec per “la Verità” il 22 marzo 2022.

Alla fine è spuntata anche la carta che conferma quanto fosse avanzata la trattativa per far mettere sotto contratto da parte di Leonardo i D'Alema boys nella ormai celebre vicenda. Lo ha mostrata ieri in tv Nicola Porro durante la trasmissione Quarta Repubblica. Lo scorso 5 marzo La Verità aveva svelato i punti chiave della bozza di accordo tra Leonardo e lo studio Robert Allen Law, nella persona del socio Umberto Bonavita. Professionisti ingaggiati come broker in Colombia e coinvolti nell'affare dall'ex premier Massimo D'Alema, che con i suoi interlocutori sudamericani aveva spiegato che l'obiettivo era «avere un premio da 80 milioni».

Avevamo scritto a proposito del documento collegato alla vendita di circa 24 M-346 all'aeronautica militare colombiana: «L'azienda aveva deciso che sino a 350 milioni di euro di commessa non avrebbe corrisposto nulla, perché aveva già in mano una commessa di quell'importo, per 5 aerei. Oltre i 350 milioni scattavano provvigioni al 2 per cento e un premio al raggiungimento dei 2 miliardi. Tutte questioni citate da D'Alema quando [] parla di "risultato straordinario". Ma Leonardo voleva pagare solo a risultato ottenuto. Per questo sarebbe saltato l'accordo». 

Le verifiche La bozza di accordo è stata attenzionata nell'audit che Leonardo sta conducendo sulla vicenda della compravendita di armi da 4 miliardi di euro e ieri sera, come detto, è stata mostrata in carta e inchiostro da Porro. Un documento che dimostra quanto fosse avanzata la trattativa che secondo Bonavita avrebbe dovuto concludersi entro il 24 febbraio e che invece è saltata dopo che la notizia della negoziazione è finita su siti e giornali.

L'atto, che ha in testa la dicitura «registrato/consegnato a mano» è indirizzato a Robert Allen Law, presso la sede nel Four seasons office tower al 1.441 di Brickell avenue. La missiva, che è «all'attenzione di Umberto C. Bonavita», ha come oggetto «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite», inizia così: «Cari signori, a seguito delle nostre recenti conversazioni siamo lieti di sottoporvi per la Vostra accettazione, la nostra proposta di contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite», relativo alla promozione della «vendita di aeroplani M-346 Fa in Colombia».

Gli incassi All'articolo 4, denominato «termini e condizioni di pagamento», si trova la conferma del «success fee» promesso da D'Alema durante la conference call con l'ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani di estrema destra Edgar Ignacio Fierro Florez, meglio conosciuto con il nome di battaglia di Don Antonio: «4.1 La Società corrisponderà al Promotore, per intero e come corrispettivo finale per le attività e i servizi resi dal promotore, un compenso (di seguito denominato "success fee") pari al 2% (due percento) del prezzo netto di vendita del prodotto, come di seguito definito, a condizione che il contratto venga eseguito per l'acquisizione di almeno 6 (sei) M-346 Fa aeromobile e per un importo superiore a 350.000.000 di euro (trecentocinquanta milioni di euro)». 

La call di «Baffino» E proprio D'Alema, parlando in conference call con Fierro, aveva sintetizzato il contenuto per filo e per segno: «C'è una seconda particolarità di questi contratti che voglio sottolineare. Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un "cap", in inglese. In questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale al 2% del business, dell'ammontare del business. Questa è una decisione straordinaria, non è stata facile da conseguire. È chiaro? Perché il valore di questo contratto è più di 80 milioni». 

Infatti D'Alema puntava al 2 per cento sia del contratto per gli aerei da circa 2 miliardi che per quello per 2 fregate e due sommergibili che Fincantieri era pronta a vendere alla marina colombiana, sempre con la mediazione dei suoi consulenti. Gli intrecci in Usa Il collegamento tra Bonavita e D'Alema lo abbiamo ricostruito ieri, grazie a un socio dell'ex premier, Massimo Tortorella, proprietario di una holding britannica, la Falcon, e del gruppo Consulcesi. 

Infatti ha ammesso di aver fatto conoscere a Massimo D'Alema Gherado Gardo, il commercialista coinvolto nell'affaire della fornitura di aerei e navi alla Colombia. D'Alema in un'intervista a Repubblica aveva provato a scaricare sul gruppo collegato a Fierro e agli italiani Emanuele Caruso e Francesco Amato la scelta di Robert Allen Law: «Loro hanno scelto questo studio legale americano, un business law molto attivo in America Latina». 

Ma i broker avevano smentito dicendo che era D'Alema ad appoggiarsi a Bonavita e a un commercialista di fiducia, Gardo appunto. Il giro di società In effetti i due professionisti vanno a braccetto. Per esempio Gardo e Bonavita sono entrambi nella Wey Llc, che ha due sedi a Miami, una al 1.200 di Brickell Avenue e una al 1.441, suite 1.400. La stessa sede dello studio Allen, che ne è anche il «registered agent». Nelle slide di presentazione della Wey del 2016 si trovano le foto di Bonavita, presidente della società e Gardo, amministratore delegato. Gardo è anche manager, insieme con Danielle Bonavita, stretta parente di Umberto, nella Pondarosa Llc.

Come detto, ieri Tortorella ci ha svelato gli stretti rapporti che intercorrono tra il commercialista e D'Alema da quando lo stesso imprenditore di stanza a Londra aveva inviato il professionista a fare una perizia per valutare l'effettivo valore della quota del 15 per cento che Tortorella voleva rilevare nella Madeleine, la tenuta vitivinicola di Narni dell'ex premier.

«Da là si conoscono, là hanno creato i rapporti. So che comunque sono entrati in simpatia perché me lo ha detto proprio Gherardo, anche se non so che consulenze gli abbia dato D'Alema» ci ha confessato Tortorella. Gardo e Bonavita si sarebbero interessati anche dell'accordo con Fincantieri per navi e sommergibili, altro affare miliardario. Porro ieri ha lanciato anche la notizia di un contratto siglato il 9 settembre 2019 tra il colosso della consulenza aziendale e della revisione contabile Ernst & Young e l'azienda della cantieristica navale. 

Un accordo da 560.000 euro per fornire analisi di mercato nel settore militare in Libano e Kuwait e ulteriori 400.000 euro per eventuali servizi legali. Ricordiamo che dal 2020 D'Alema è presidente dell'advisory board proprio di E&Y. C'entra qualcosa l'ex segretario del Pds con il contratto di settembre 2019? Al momento non ci elementi per affermarlo.

Di certo D'Alema, mentre discuteva di provvigioni legate alla vendita di navi da guerra, sembrava conoscere bene, come probabilmente molti altri addetti ai lavori nel settore delle consulenze, gli affari dell'azienda triestina: «La questione riguarda l'esperienza fatta da Fincantieri in Indonesia con un modello contrattuale molto interessante. Un po' diverso da come avevamo immaginato, ma molto più profittevole». Ma questa è un'altra storia.

I vini di Massimo D'Alema non sono un grande affare. Cosa dice il terzo bilancio della Silk Road Wines. Andrea Giacobino su Il Tempo il 30 giugno 2022

Non è un grande affare il vino di Massimo D’Alema & C. Lo testimonia il terzo bilancio, depositato qualche giorno fa, della Silk Road Wines («Vini della strada della seta» dall’inglese). Costituita nel 2019, vede l’ex segretario dei Ds quale amministratore assieme al noto enologo Riccardo Cotarella: i due figli del politico (Francesco e Giulia) hanno cadauno il 17,5%, il 50% è delle tre figlie di Cotarella (Dominga, Enrica e Marta) mentre il 15% restante è del fondo lussemburghese Amana Investment Glass Fund di Massimo Tortorella, presidente di Consulcesi Group.

La società, che commercializza vini all’ingrosso fuori dall’Ue (anche in Cina), ha chiuso il 2021 ricavi diminuiti anno su anno da 81mila 384 a 72mila 984 euro anche se l’utile è progredito da 32mila a 66mila euro, interamente riportato a nuovo. Un calo di vendite dovuto, spiega la nota integrativa, all’onda lunga della pandemia. La società ha però usufruito di tre contributi pubblici Covid-19 per oltre 50mila euro complessivi.

Giacomo Amadori e François De Tonquedec per “La Verità” il 21 marzo 2022.

Abbiamo trovato dentro alla società di vino della famiglia di Massimo D'Alema il primo anello che porta attraverso un tortuoso incastro di società allo studio legale di Miami coinvolto nella trattativa per una maxi commessa da 4 miliardi di euro per navi, aerei e sottomarini  da fornire alle forze armate colombiane. 

Con alcune persone a lui vicine l'ex premier aveva spiegato che a proporre lo studio legale di Robert Allen come mediatore era stato un suo amico, Giancarlo Mazzotta, politico pugliese imputato in diversi processi con accuse gravi come l'estorsione aggravata dal metodo mafioso.Ma Mazzotta aveva scaricato la responsabilità della scelta dello studio sui broker Emanuele Caruso e Francesco Amato. Sarebbero stati loro a indicare dove far transitare gli oltre 80 milioni di provvigioni che D'Alema aveva previsto dovessero arrivare da due aziende partecipate dallo Stato, Leonardo e Fincantieri. 

Ma qualcosa non tornava in queste versioni, anche perché nell'audio pubblicato in esclusiva dalla Verità e in cui D'Alema conversava amabilmente con un ex sanguinario comandante dei paramilitari di estrema destra colombiani, si sentiva la voce dell'ex leader del Pds perorare un incarico allo studio Allen da parte degli interlocutori sudamericani, il che avrebbe garantito: «È molto importante che la parte colombiana sia rappresentata da una società legale, di avvocati. Dev'essere uno studio legale. Per due ragioni. Innanzitutto il contratto tra Robert Allen e la parte colombiana sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati Uniti d'America. Perché Robert Allen è una società americana. La legge americana protegge l'attività legale, il rapporto tra il legale e il suo cliente, con il segreto».

Dunque, era già molto chiaro che la scelta dello studio fosse sponsorizzata da D'Alema. Nell'inchiesta a puntate che abbiamo pubblicato nei giorni scorsi era anche evidenziato il ruolo di Umberto Claudio Bonavita, l'avvocato dello studio Allen con cui il gruppo Leonardo stava preparando il contratto di consulenza per la vendita di 24 M-346, caccia d'addestramento destinati alla Colombia. 

Avevamo anche sottolineato come i broker Caruso e Amato avessero avuto come interlocutore dell'affare anche il commercialista bolognese Gherardo Gardo, descritto dai broker come stretto collaboratore di D'Alema. In una mail del 3 dicembre, poi, lo stesso Bonavita aveva chiesto di includere in una conference call via Signal, Zoom o Whatsapp, anche «il nostro collega italiano Gherardo Gardo».

I due si erano recati il 14 dicembre a Cartagena de Indias, amata residenza di Gabriel Garcia Marquez, per una visita allo stabilimento della Cotecmar (la Fincantieri colombiana) per un incontro con l'ammiraglio Rafael Callamand. Insieme con loro ci sarebbe stato anche il responsabile per l'America Latina di Fincantieri, Stelio Antonio Vaccarezza. 

Ma adesso ecco la nostra nuova pista. Basta seguire il filo rosso che parte dalla società, tutta italiana, che commercializza il vino di Baffino e che porta fino a Miami, al 1.441 di Brickell Avenue, suite 1.400, ovvero dentro la sede dello studio Allen. La Silk road wines, amministrata da D'Alema senior e con sede a Orvieto, è stata fondata nell'aprile 2019. Tra i soci ci sono i due figli dell'ex premier, Francesco e Giulia, che all'inizio insieme con il padre controllavano il 50 per cento delle quote.

L'altra metà è di proprietà di tre familiari di Riccardo Cotarella, l'enologo dei vip, l'uomo che ha trasformato l'ex primo ministro in un appassionato vignaiolo. Ma nel giugno 2019 i D'Alema sembrano aver perso il controllo dell'azienda trasferendo il 15 per cento del pacchetto azionario in mano all'ex ministro degli Esteri a un fondo lussemburghese, l'Amana investment glass fund, di cui parleremo tra poco.

Nei documenti della Camera di commercio risulta un valore della produzione per il 2020 di 83.000 euro, con un utile di 31.000. La Silk, come detto, distribuisce i vini della società agricola La Madeleine, di cui sono azionisti i due figli di D'Alema, la moglie Linda Giuva, che è anche amministratrice, e, di nuovo, il fondo Amana, entrato nella partita nel 2018. 

Secondo la documentazione consultata dalla Verità, il «beneficial owner» del fondo è Massimo Tortorella, romano, classe 1970, presidente del Consulcesi group, attivo nel settore della formazione e della consulenza legale destinata ai medici, che ha una filiale proprio a Miami, la Consulcesi Llc (in liquidazione), ubicata sempre su Brickell Avenue, ma al 1.200.

 Il sito internet Bisprofiles.com ci informa che è controllata da Tortorella e da una società con sede allo stesso indirizzo, la Pondarosa holdings Llc. Concentriamoci un attimo su quest' ultima: tra i manager della Pondarosa c'è il commercialista Gardo, il professionista dell'affare delle armi. Scopriamo così che uno degli intermediari del tentato business con la Colombia è collegato direttamente a un socio della famiglia D'Alema. Ma le coincidenze non sono finite. 

Il «registered agent» (una specie di domicilio legale) della Pondarosa è la Wey Llc, che nelle slide di presentazione del 2016 indica, con tanto il foto, Gardo come amministratore delegato e Umberto Bonavita in veste di presidente.La Pondarosa controlla anche un'altra società, inattiva dal 2021, la Product form Llc, sempre con sede al 1.200 di Brickell Avenue, che, possedeva il pacchetto di maggioranza del fondo lussemburghese Amana.

La Falcon limited di Tortorella ha acquistato il 100 per cento delle quote del fondo, compreso il 60 della Product, ma non c'entrerebbe nulla con quest' ultima.Quel che risulta chiaro, comunque, è che l'uomo scelto da Massimo D'Alema come socio delle due aziende di famiglia si avvale degli stessi professionisti operativi a Miami che avrebbero dovuto gestire gli 80 milioni di provvigioni dell'affare delle armi.

Chi li ha consigliati a chi? Dopo questa nostra inchiesta, ieri sera, abbiamo cercato in tutti i modi di metterci in contatto con Tortorella, dopo averci provato inutilmente con Bonavita e Gardo. Tortorella ci ha ricontattato e ci ha risposto con grande trasparenza, svelando tutto l'arcano. «Ho conosciuto D'Alema nel ristorante sotto casa mia in Fulham road. Il locale si chiama Gola e l'ex premier aveva organizzato una degustazione dei suoi vini. È nata subito una simpatia e quella stessa sera è venuto nella mia casa stupenda vicino allo stadio del Chelsea. Eravamo pure mezzi brilli.

I vini mi sono piaciuti moltissimo e per questo ho deciso di diventare socio. Mi disse che la quota valeva 2-3 milioni, non ricordo esattamente quanto, e per questo, trattandosi di un politico (ride, ndr) ho deciso di far fare una perizia a Gardo, che fa il fiscalista negli Stati uniti e in Italia. Lo avevo conosciuto nel 2013 a Miami e a lui avevo affidato la mia società americana per entrare nel mercato americano della formazione. Poi Gherardo si è proposto di fare la perizia. L'ex premier mi aveva detto: "Vale questo". Ho pensato: "Sì amore mio, tu dici che vale così, ma fammi controllare se è vero, sei un ex primo ministro, il vino è buono, ma fammi vedere"».

Quindi già nel 2018 D'Alema conosce Gardo e i due entrano in confidenza: «Insieme non li ho mai incontrati, perché io vivevo già a Londra e Gherardo è andato nella tenuta di D'Alema per fare la perizia senza di me. Da là si conoscono, là hanno creato i rapporti. So che comunque sono entrati in simpatia perché me lo ha detto proprio Gherardo, anche se non so che consulenze gli abbia dato D'Alema».

Da quando non vede Gardo? «Da circa due anni, anche perché è spesso negli Stati uniti. L'ultima volta, comunque, l'ho sentito circa un mese fa. Stava in America, ma non mi ha parlato dell'affare delle armi che mi ha pure innervosito». E Bonavita? «Non l'ho mai visto né conosciuto, non so chi sia. Probabilmente è il riferimento americano di Gardo».I destini di Tortorella e dell'ex premier si incrociano non solo nelle aziende collegate al vino, ma anche nella onlus Sanità di frontiera, di cui D'Alema è presidente e Tortorella, secondo il sito Internet della no profit, «ideatore». 

Sanità di frontiera, particolarmente sensibile al tema dell'immigrazione, vanta anche «il sostegno della Santa Sede attraverso l'Obolo di San Pietro grazie all'intervento diretto di Sua Santità papa Francesco». Stando a un verbale dell'inchiesta vaticana sul cardinale Angelo Becciu, a far ottenere il sostegno sarebbe stato Giuseppe Maria Milanese, presidente di Confcooperative Sanità. Rispondendo a una domanda dell'aggiunto Alessandro Diddi, Milanese ha infatti affermato: «Consulcesi è una società di Massimo Tortorella che io stesso ho introdotto in Sds (Segreteria di Stato, ndr) attraverso il progetto Sanità di frontiera». 

La Onlus, che ha la sede in piazza Farnese allo stesso indirizzo della fondazione Italianieuropei di D'Alema, vanta partner di prim' ordine, come Banca Intesa, Poste italiane, la Regione Lazio, Banca ifis, la Fondazione Snam e quella di Tim. Tra i sostenitori anche la Open society foundation del discusso miliardario George Soros. Tortorella è fierissimo del suo progetto: «Mi dedico alle persone che hanno bisogno, alla charity, ho aperto una scuola in Eritrea. Quando c'è stato il Covid ho comprato le mascherine e le ho distribuite».

A capo dell'advisory board c'è anche Gianni Letta, già braccio destro di Silvio Berlusconi: «La mia è un'organizzazione bipartisan, ma nonostante i grandi nomi dei politici e dei partner i soldi li ho sempre messi quasi tutti io. Mi aspettavo facessero di più. Il sostegno del Vaticano? Ho scritto personalmente una lettera al Santo Padre». Che, siamo certi, non avrà gradito la notizia della trattativa portata avanti dal presidente della Onlus per vendere armi alla Colombia.

"Riceveremo tutti 80 milioni di euro". La telefonata che inguaia D'Alema. Francesca Galici il 22 Marzo 2022 su Il Giornale.

In onda a Quarta Repubblica la telefonata intrcorsa tra Massimo D'Alema ed Edgar Fierro sulla compravendita di armamenti tra Italia e Colombia.

Il caso della compravendita di armi sull'asse Italia-Colombia si arricchisce ogni giorno di nuovi dettagli, soprattutto per quanto riguarda il ruolo di Massimo D'Alema. I contorni della vicenda non sono molto chiari, soprattutto non lo sono in relazione al ruolo dell'ex presidente del Consiglio in questa vicenda. La trattativa che si stava conducendo tra Italia e sud America, che vede come protagonisti anche Fincantieri e Leonardo, prevedeva una vendita di armamenti al governo della Colombia da parte dell'Italia per complessivi 4 miliardi di euro. A occuparsi di questa vicenda in tv è anche Nicola Porro, che nell'ultima puntata di Quarta Repubblica ha mandato in onda una telefonata intercorsa lo scorso 10 febbraio 2022 tra Massimo D'Alema ed Edgar Fierro, conosciuto in Colombia come ex sanguinario paramilitare colombiano, oggi libero, per trattare la vendita.

È importante specificare che Massimo D'Alema in tutta questa storia non ha nessun ruolo ufficiale, perché l'Italia non prevede nessuna figura di mediazione nella compravendita di armi tra governi. E questa è l'unica forma di commercio di questo tipo permesso nel nostro Paese. Ciò significa che nessun soggetto esterno agli apparati governativi può operare in questi scenari e, quindi, ambire a una percentuale economica sulla buona riuscita dello scambio. Tuttavia, l'audio mandato in onda da Quarta Repubblica, quello registrato durante una telefonata tra Edgar Fierro e Massimo D'Alema, lascerebbe intendere un'altra verità.

La trattativa che vedeva impegnato D'Alema sembra fosse ormai avanzata, anche se poi è saltato tutto poco prima della chiusura definitiva dell'affare. "Noi stiamo lavorando perché? Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro. Quindi si può fare un investimento, però non appena noi avremo questi contratti divideremo tutto, sarà diviso tutto. Questo non è un problema", dice Massimo D'Alema nella telefonata mostrata da Quarta Repubblica.

Il quotidiano Libero riporta che, sin dal 15 settembre 2021, la divisione commerciale di Leonardo, di cui il nostro ministero dell'Economia possiede circa il 30%, scriveva a Massimo D'Alema e nei saluti finali si congedava dall'ex premier con una formula particolare: "A presto e a risentirla anche sugli M-346". Gli M-346 sono una classe di aerei da caccia che anche il governo colombiano avrebbe voluto acquistare dal nostro Paese.

La commissione di 80 milioni di euro a cui fa riferimento Massima D'Alema sarebbe passata attraverso uno studio legale americano, il Robert Allen law di Miami, specializzato nel commercio di yacht e jet privati, non sottomarini e aerei da guerra. "È molto importante che la parte colombiana sia rappresentata da una società legale di avvocati. Dev'essere uno studio legale. Perché questo? Per due ragioni. Innanzitutto il contratto tra Robert Allen e la parte colombiana sarà sottoposto al controllo delle autorità degli Stati Uniti d'America, perché Robert Allen è una società americana. La legge americana protegge l'attività legale, il rapporto tra il legale e il suo cliente con il segreto", spiega ancora Massimo D'Alema nella telefonata.

Poi aggiunge: "Vorrei precisare che le autorità americane e gli Stati Uniti hanno un'attenzione particolare a tutte le attività economiche che riguardano i rapporti con la Colombia, perché la Colombia è un Paese, diciamo, sotto attenzione per quanto riguarda il narcotraffico e il riciclaggio di denaro". La figura dello studio Allen di Miami è centrale in questa vicenda. Nell'unica intervista rilasciata da Massimo D'Alema in merito a questa vicenda, concessa al quotidiano la Repubblica, l'ex premier ha dichiarato di non conoscere lo studio Allen, che è stato scelto dai colombiani. Ma in un servizio mandato in onda da Quarta Repubblica, uno dei due mediatori pugliesi coinvolti nella vicenda, riferisce che quello studio "viene individuato, proposto dal presidente D'Alema, con il placet di tutto il gruppo".

“Massimo D'Alema fuori legge”. L'ira di Hoara Borselli a Quarta Repubblica: chiaro interesse personale. su Il Tempo il 22 marzo 2022.

La vicenda del tentativo di commercio di armi con la Colombia e il ruolo di Massimo D’Alema è affrontata nel corso della puntata del 21 marzo di Quarta Repubblica, talk show del lunedì di Rete4 sotto la conduzione di Nicola Porro. A parlare è Hoara Borselli, che critica duramente l’ex presidente del Consiglio per il comportamento tenuto nella vicenda svelata negli scorsi giorni: “Non ignoriamo che quando si parla di commercio di armi, e di questo stiamo parlando, si devono interfacciare i due governi. D’Alema ha detto che ha fatto soltanto da tramite e da link, ma da quanto si evince dalle intercettazioni non sembra che lui faccia soltanto questo ruolo di tramite. Sembra che sia coinvolto in prima persona a far sì che questo affare possa andare in porto. Lo stesso D’Alema chiedeva che si concludesse in fretta, perché c’è un’intercettazione in cui dice ‘dobbiamo anche sbrigarci, perché potrebbe cambiare la situazione politica in Colombia’. Perché c’è questa premura a concludere? È fuori legge, c’è una legge che dice che non è possibile chiudere un’intermediazione dove c’è una compravendita di armi. Sentendo queste intercettazioni si capisce che - conclude la Borselli - è chiaro che c’è un interesse personale”.

Armi dall’Italia alla Colombia, D’Alema coinvolto in un’indagine della procura di Napoli. Fulvio Bufi e Virginia Piccolillo su Il Corriere della Sera il 23 Marzo 2022.

Accertamenti dopo l’esposto su un broker pugliese. Nel caso coinvolto anche l’ex premier D’Alema. 

Il caso Colombia arriva in Procura. Dopo l’esposto presentato a Napoli su un broker pugliese la Procura avvia accertamenti sull’intermediazione per la vendita alla Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e Leonardo che ha visto all’opera, come facilitatore l’ex presidente del Consiglio, Massimo D’Alema. Le verifiche partono dalla denuncia dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo (Apm), organizzazione che facilita i rapporti tra gli Stati, che ha sede a Napoli, contro Emanuele Caruso e altri soggetti da identificare che avrebbero cercato di accreditarsi come intermediari per la vendita delle armi, presso le istituzioni colombiane e il nostro governo, utilizzando documenti falsi. Carte che vantavano rapporti in realtà inesistenti con l’organizzazione. I documenti erano apparsi sul quotidiano La Verità. Si faceva cenno a una riunione per lanciare una partnership con una fantomatica «unione di cooperazione di Paesi sudamericani» e a progetti cui avrebbero dovuto partecipare, secondo quanto riportato dal quotidiano, un certo don Antonio (soprannome di Edgar Ignacio Fierro Florez) e Tolemaida ( Oscar Josè Ospino Pacheco accusato di omicidio). Falso per l’Apm che ha subito denunciato Caruso, che assieme a un altro sedicente broker Francesco Amato, promuove progetti per l’organizzazione Cooperation America Latina. Nell’esposto si precisa che l’Apm nulla ha a che fare con Caruso, o con intermediazioni di armi da guerra. Anzi promuove azioni di diplomazia parlamentare, volte a iniziative di pace e sicurezza. I reati adombrati sono falso, truffa e sostituzione di persona per la contraffazione della firma del segretario generale Apm, l’ambasciatore Sergio Piazzi, e per l’intestazione del documento che contiene il simbolo già sostituito da 10 anni e il nome del presidente di 10 anni fa. Inoltre nell’esposto è specificato che l’Apm non ha mai autorizzato la costituzione di una polizia del Mediterraneo, organizzazione alla quale si fa riferimento nei documenti presentati dal broker, né ha mai avuto con Caruso e gli altri contatti di alcun genere. Ora però sarà la Procura a stabilire su quale ipotesi indagare. Ma gli accertamenti non potranno che gettare uno sguardo più ampio su questa vicenda che sta suscitando clamore ed è già oggetto di interrogazioni parlamentari. Emerso il 28 gennaio sul sito Sassate.it (con un articolo dal titolo: «Difesa Leonardo Fincantieri ecco la passione della terza età di D’Alema») il caso è stato rilanciato da La Verità che ha ipotizzato una trattativa andata avanti in modo parallelo, rispetto a quella lineare tra governi, tra D’alema rappresentato dallo studio Robert Allen di Miami, un gruppo colombiano ed esponenti delle aziende finché lo ha scoperto il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè che avrebbe fatto saltare tutto. In un audio rubato nel corso della trattativa si sente la voce di D’Alema rassicurare l’interlocutore colombiano: «E stupido creare problemi. Siamo convinti che riceveremo 80 milioni, questa è la posta in gioco». L’ex premier ha assicurato: «Non avrei guadagnato un euro anche se fosse andata bene». Ma se l’indagine si estenderà a quei colloqui, il fascicolo dovrà essere trasmesso a Roma per competenza.

Giacomo Amadori Francois De Tonquedec per "la Verità" il 23 marzo 2022.

Per trovare nuovi indizi sull'affare degli armamenti che Leonardo e Fincantieri avrebbero dovuto vendere in Colombia, con l'intermediazione non ufficiale di Massimo D'Alema, bisogna seguire le tracce di Gherardo Gardo, cinquantenne ragioniere di Cento (Ferrara). Come abbiamo raccontato il suo nome è l'anello che collega l'ex premier all'avvocato Umberto Bonavita dello studio Robert Allen Law, l'ufficio di Miami a cui le aziende partecipate dallo Stato avrebbero dovuto pagare oltre 80 milioni di provvigioni in caso di vendita alle forze armate colombiane di 24 caccia M-346, due fregate e due sommergibili, un pacchetto del valore complessivo di 4 miliardi. 

Gardo aveva curato la perizia per una compravendita di quote di una società della famiglia dell'ex ministro degli Esteri e da allora, era il 2018, secondo un socio dello stesso D'Alema, i due sarebbero entrati in sintonia. Nel pieno delle trattative, avvenute a Bogotà, nel gennaio del 2022, Gardo, presente nella capitale sudamericana, gestisce gli arrivi dei manager di Fincantieri e Leonardo.

Tanto che Dario Marfé, «senior vice president commercial &customer services» gli invia all'indirizzo della società statunitense Wey llc, di cui il ragioniere è manager, il suo documento e quello di Carlo Bassani, «vicepresident commercial & customer services Latin America». «Caro Gherardo, come d'accordo, ti invio in allegato copia dei passaporti mio e del collega parteciperà con me alla riunione in Colombia» si legge nel messaggio. Marfé il 9 febbraio scrive a Gardo per chiedere un parere sul fatto che a una call tenuta il giorno prima «non abbia partecipato nessuno dell'Aeronautica militare della Colombia, ma bensì solo rappresentati della Marina».

Per questo propone di potersi sentire nei giorni successivi «per fare il punto della situazione dell'iniziativa e definire/condividere i prossimi passi». Gardo prova a tranquillizzarlo e assicura che sarà loro «cura approfondire tale argomento e capire le intenzioni a livello istituzionale» per poi «concordare i prossimi passi e definire tutte le formalità a oggi ancora sospese». 

Grazie a D'Alema i broker italiani e lo studio Allen sono riusciti a portare a casa un memorandum of understanding per la vendita delle fregate e dei sommergibili prodotti da Fincantieri e firmato a Bogotà il 27 gennaio 2022 da Giuseppe Giordo, general manager della divisione militare, e Achille Fulfaro, vicepresidente vendite e direttore commerciale. Un documento controfirmato, sembra, da due ammiragli in pensione. Ed eccoci alle sorprese. In vista del Mou, il 25 gennaio, Fincantieri, aveva predisposto una missiva, con due allegati, direttamente con l'avvocato Bonavita e non con lo studio Allen.

Si tratta di una «lettera di autorizzazione» a spendere il nome di Fincantieri per l'organizzazione di «uno o più incontri» con l'esercito colombiano e con la Contemar shipyard, la Fincantieri del Paese sudamericano, con scadenza prevista per il 31 marzo di quest' anno. È previsto che nei meeting la «Fincantieri potrà presentare i propri prodotti e capacità e discutere del proprio coinvolgimento in possibili futuri programmi navali dell'Armada de la República de Colombia».

Il permesso viene concesso personalmente al legale e lo stesso deve mantenere riservato il tutto per dieci anni. Non è prevista nessuna remunerazione, ma è probabile che questa dovesse essere determinata in un altro accordo. Lo studio Allen sarebbe eventualmente entrato in partita in una fase successiva, come si legge in un altro passaggio: «Fincantieri si impegna comunque a considerare la nomina della Robert Allen Law [] di cui Umberto Claudio Bonavita è il presidente, come supporto locale in Colombia in relazione a specifiche opportunità di business per Fincantieri in Colombia, a condizioni da discutere e concordare». 

Sia il pdf della lettera che quelli dei due allegati, relativi al conflitto di interessi, risultano creati il 26 gennaio, tra le 00.36 e le 00.37, dallo stesso autore. Indovinate di chi si tratta? È proprio Gherardo Gardo, socio di Bonavita nella Wey llc (sono cofondatori) società specializzata in consulenza per la compravendita di yacht. Non sappiamo se il ragioniere di Cento, che ha lasciato le sue impronte digitali sui documenti, li abbia proprio scritti o se, invece, li abbia solo trasformati in pdf o modificati in qualche altro modo.

Interessantissimo anche il «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite» predisposto da Leonardo, un accordo di consulenza che avrebbe dovuto legare azienda alla Robert Allen Law. In teoria uno studio legale non potrebbe adempiere all'oggetto del contratto che prevede lo svolgimento di attività commerciali e un'abilitazione da broker, ma probabilmente ci sarà stato qualche escamotage per aggirare l'ostacolo. Il documento elettronico è indirizzato all'attenzione di Bonavita e salvato, il 25 gennaio alle 23.03, da Serena Paesani, dipendente dell'azienda.

Il contratto è firmato dal direttore generale della divisione velivoli Marco Zoff, figlio dell'ex portiere della nazionale Dino. Nel file si legge: «Il presente accordo entrerà in vigore a partire dal 26 gennaio 2022 a condizione che l'accettazione da parte del promotore di tutti i termini e le condizioni qui presenti sia notificata alla società». Molto stringenti le condizioni riguardanti la riservatezza, che all'articolo 9 viene così vincolata: «Il promotore (lo studio Robert Allen Law, ndr) non utilizzerà il nome della società, né pubblicizzerà il suo rapporto con la società, il presente accordo e il suo contenuto, se non con il cliente per le finalità specifiche del presente accordo, senza il preventivo consenso scritto della società».

Dunque nulla di quanto stabilito poteva essere rivelato all'ex segretario del Pds, ai mediatori italiani Francesco Amato ed Emanuele Caruso o ai paramilitari colombiani, interlocutori nel business. Tutti soggetti che non potevano in nessun modo sostituirsi allo studio Allen senza l'autorizzazione dell'azienda. Infatti l'articolo 10 prevedeva: «Il promotore non può cedere il presente accordo, trasferire o cedere alcuno dei suoi diritti, né subappaltare o delegare in altro modo alcuno dei suoi obblighi ai sensi del presente accordo [] senza la preventiva approvazione e autorizzazione scritta della società».

Eppure il contratto, che aveva come scadenza il 23 gennaio 2023, conferma che quanto detto da D'Alema nella conference call del 10 febbraio con l'ex comandante delle Auc Edgar Ignacio Fierro rispetto ai compensi era più che fondato: «Success fee» del 2% per l'acquisizione di almeno 6 M-346 e per un importo superiore a 350 milioni di euro. Ma ecco la notizia più clamorosa: il contratto prevedeva che ci fosse una contropartita economica anche «nel caso in cui il contratto non soddisfacesse la condizione sopra descritta». 

In tal caso il corrispettivo non sarebbe stato corrisposto, ma «la società, a pieno e definitivo corrispettivo delle attività e dei servizi resi» avrebbe versato «al promotore una somma forfettaria discrezionale a compensazione della ricerca di marketing effettuata [] e al rimborso delle spese sostenute». Una cifra che non veniva specificata in nessun modo. Esattamente come aveva spiegato D'Alema nell'ormai celebre videochiamata: «Noi abbiamo chiesto che i contratti prevedano, oltre al "success fee" anche un compenso come "retailer", come rimborso spese, diciamo. Su questa seconda parte non abbiamo ancora ottenuto una definizione quantitativa, però sarà parte anche questo del contratto, o forse si farà un piccolo contratto ulteriore, diciamo».

Il pagamento della «success fee», se dovuta, sarebbe stato effettuato entro 90 giorni giorni lavorativi mediante bonifico bancario sul conto corrente bancario del promotore nel territorio in cui ha la sede legale. Dunque la quota degli 80 milioni di provvigioni ipotizzate da D'Alema sarebbe interamente finita in una banca americana. E agli altri soggetti coinvolti? Nulla, almeno stando al contratto, che impegna lo studio Allen a dichiarare di non aver «offerto, pagato, promesso di pagare o autorizzato al pagamento di qualsiasi denaro o dono, o offerto, promesso o autorizzato a dare qualsiasi cosa di valore [] o altro vantaggio» a una serie di figure.

Tra cui: «Qualsiasi funzionario o funzionario del cliente, qualsiasi partito politico o suo funzionario o qualsiasi candidato a una carica politica o qualsiasi funzionario pubblico o chiunque eserciti una funzione pubblica o qualsiasi attività di interesse pubblico, incluso, ma non limitato, a governo o funzionari o ufficiali delle forze armate». Dunque qualcosa non torna nel discorso di D'Alema che, dopo aver specificato che Bonavita e Gardo (appellato come «avvocato»), pur essendo andati in Colombia, non avevano ancora incassato neanche un euro, aveva dichiarato: «Non appena noi avremo questi contratti, noi divideremo tutto, sarà diviso tutto, questo non è un problema».

L'ex premier faceva promesse che sembrano andare contro le condizioni del contratto che era stata predisposto da Leonardo. Ricapitolando, in questo accordo capestro per l'azienda italiana e solo apparentemente pieno di lacci e lacciuoli, era previsto che il «promotore» venisse pagato anche in caso di insuccesso.

Leonardo doveva erogare un importo a sua discrezione per compensare la Robert Allen Law di un ipotetico report di marketing da loro preparato e per rimborsarli delle spese sostenute per le altre attività. Ai sensi del contratto la Robert Allen aveva comunque diritto al compenso anche in caso di rescissione dell'accordo da parte di Leonardo. Una formula che sarebbe interessante sapere se venga utilizzata dalla società di piazza Montegrappa anche in casi in cui non compaia come sponsor D'Alema. 

Infine le somme avrebbero dovuto essere pagate sul conto di Miami della Robert Allen Law che, secondo il contratto, doveva aver già fornito gli estremi del rapporto finanziario. Gli accordi, però, non sono mai stati sottoscritti e formalizzati e tra il 28 febbraio e l'1 marzo 2022 il sito Sassate e La Verità (che ha scovato l'audio di D'Alema) hanno scoperchiato l'affare, mandando a monte l'incredibile operazione che avrebbe dovuto garantire ai D'Alema boys oltre 80 milioni.

Fulvio Bufi e Virginia Piccolillo per il “Corriere della Sera” il 23 marzo 2022.

Il caso Colombia arriva in Procura. Dopo l'esposto presentato a Napoli su un broker pugliese la Procura avvia accertamenti sull'intermediazione per la vendita alla Colombia di navi, sommergibili e aerei militari prodotti da Fincantieri e Leonardo che ha visto all'opera, come facilitatore l'ex presidente del Consiglio, Massimo D'Alema. Le verifiche partono dalla denuncia dell'Assemblea parlamentare del Mediterraneo (Apm), organizzazione che facilita i rapporti tra gli Stati, che ha sede a Napoli, contro Emanuele Caruso e altri soggetti da identificare che avrebbero cercato di accreditarsi come intermediari per la vendita delle armi, presso le istituzioni colombiane e il nostro governo, utilizzando documenti falsi.

Carte che vantavano rapporti in realtà inesistenti con l'organizzazione. I documenti erano apparsi sul quotidiano La Verità . Si faceva cenno a una riunione per lanciare una partnership con una fantomatica «unione di cooperazione di Paesi sudamericani» e a progetti cui avrebbero dovuto partecipare, secondo quanto riportato dal quotidiano, un certo don Antonio (soprannome di Edgar Ignacio Fierro Florez) e Tolemaida ( Oscar Josè Ospino Pacheco accusato di omicidio). 

Falso per l'Apm che ha subito denunciato Caruso, che assieme a un altro sedicente broker Francesco Amato, promuove progetti per l'organizzazione Cooperation America Latina. Nell'esposto si precisa che l'Apm nulla ha a che fare con Caruso, o con intermediazioni di armi da guerra. Anzi promuove azioni di diplomazia parlamentare, volte a iniziative di pace e sicurezza.

I reati adombrati sono falso, truffa e sostituzione di persona per la contraffazione della firma del segretario generale Apm, l'ambasciatore Sergio Piazzi, e per l'intestazione del documento che contiene il simbolo già sostituito da 10 anni e il nome del presidente di 10 anni fa. Inoltre nell'esposto è specificato che l'Apm non ha mai autorizzato la costituzione di una polizia del Mediterraneo, organizzazione alla quale si fa riferimento nei documenti presentati dal broker, né ha mai avuto con Caruso e gli altri contatti di alcun genere.

Ora però sarà la Procura a stabilire su quale ipotesi indagare. Ma gli accertamenti non potranno che gettare uno sguardo più ampio su questa vicenda che sta suscitando clamore ed è già oggetto di interrogazioni parlamentari. 

Emerso il 28 gennaio sul sito Sassate.it (con un articolo dal titolo: «Difesa Leonardo Fincantieri ecco la passione della terza età di D'Alema») il caso è stato rilanciato da La Verità che ha ipotizzato una trattativa andata avanti in modo parallelo, rispetto a quella lineare tra governi, tra D'Alema rappresentato dallo studio Robert Allen di Miami, un gruppo colombiano ed esponenti delle aziende finché lo ha scoperto il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè che avrebbe fatto saltare tutto. In un audio rubato nel corso della trattativa si sente la voce di D'Alema rassicurare l'interlocutore colombiano: «E stupido creare problemi.

Siamo convinti che riceveremo 80 milioni, questa è la posta in gioco». L'ex premier ha assicurato: «Non avrei guadagnato un euro anche se fosse andata bene». Ma se l'indagine si estenderà a quei colloqui, il fascicolo dovrà essere trasmesso a Roma per competenza.

Armi alla Colombia. Magistratura in campo. D'Alema ora trema. Luca Fazzo il 24 Marzo 2022 su Il Giornale.

La Procura di Napoli indaga sull'operazione che doveva fruttare all'ex premier 80 milioni.  

Il granello di sabbia che fa saltare il meccanismo, nell'intrigo internazionale che ha al centro Massimo D'Alema e i suoi affari in Colombia per conto di Leonardo e Fincantieri, potrebbe essere alla fine un dettaglio quasi irrilevante: un passaggio in cui uno dei compari di avventura e affari dell'ex segretario dei Ds si accreditava facendo il nome dell'Associazione parlamentare del Mediterraneo, un benemerito organismo internazionale che di tutto si occupa tranne che di traffici d'armi. Vistasi tirata in causa, il 6 marzo Apm aveva presentato denuncia per una sfilza di reati alla Procura di Napoli, la città dove ha la sua sede. Ieri il Corriere della sera rivela che la magistratura del capoluogo campano ha aperto ufficialmente una inchiesta. Truffa, sostituzione di persona, falso: reati, come si vede, un po' collaterali rispetto al cuore del business. Ma il fascicolo rischia di diventare il contenitore dove i pm potranno scavare in profondità su tutti gli aspetti della operazione che doveva portare alla squadra di D'Alema una mega-cresta da ottanta milioni.

Finora la sconcertante vicenda, venuta alla luce solo per il brusco stop imposto dal sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, era riuscita a evitare i radar della magistratura grazie a due dettagli. Il primo: Leonardo è di fatto un colosso di Stato ma è tecnicamente un'azienda privata, i suoi manager non sono pubblici ufficiali e quindi non possono essere incriminati per traffico di influenze. Il secondo: nei numerosi documenti venuti alla luce finora, non c'è traccia di tangenti promesse a esponenti del governo o delle forze armate colombiane, che avrebbero giustificato una indagine per corruzione internazionale. Così lo scandalo di un ex presidente del Consiglio che si trasforma in piazzista di armi per conto di una azienda pubblica era rimasto finora in una sorta di limbo giudiziario.

Ora invece le acque si smuovono, e chissà fin dove arriveranno. Chiari i reati su cui indaga per ora la Procura di Napoli, nessuna conferma ufficiale su eventuali iscrizioni nel registro degli indagati: anche se nella denuncia di Apm almeno un nome si fa ed è quello di Emanuele Caruso, ex consigliere Pd in un paesino pugliese, ovvero uno dei due faccendieri che coinvolge D'Alema nella sfortunata missione colombiana. È lui a fabbricare i falsi documenti di Apm che usa per accreditarsi. Se Caruso finisse nel mirino della Procura di Napoli, difficilmente potrebbe cavarsela senza raccontare la genesi della trattativa con il governo di Bogotà. E soprattutto quali mandati avesse ricevuto D'Alema dall'interno di Leonardo.

Che qualcuno dall'interno della ex Finmeccanica abbia affidato l'incarico a «Baffino» e alla sua squadra è, peraltro, ormai pacifico. La versione di Leonardo, secondo la quale allo studio a Miami dell'avvocato Robert Allen (braccio operativo di D'Alema in questo e altri affari) sarebbe stato inviato solo un «no disclosure agreement», un patto esplorativo riservato, non seguito da intese operative, è stata smentita l'altra sera da Quarta Repubblica, la trasmissione di Nicola Porro che ha squadernato la fotocopia di un sales promotion support and agreement, un pieno mandato di mediazione inviato dalla divisione aerea di Leonardo a Umberto Bonavita, presidente dello studio Robert Allen. La prova provata che Leonardo mentiva.

AFFARI E IMBARAZZI. Leonardo ha un socio scomodo: l’azienda controllata dal colosso russo di armi. NELLO TROCCHIA su Il Domani il 19 marzo 2022

«Le attività di Leonardo in Russia sono ferme, i dipendenti sono tutti rientrati e le attività riguardavano solo il mercato elicotteristico civile », dice l’ufficio stampa di Leonardo. 

Nel giugno 2016 Matteo Renzi, allora presidente del Consiglio, e il leader russo Vladimir Putin firmano a San Pietroburgo gli accordi bilaterali che sanciscono nuovi patti di cooperazione tra le aziende italiane e quelle russe.

Leonardo-Finmeccanica firma con le russe Rosneft e Russian Helicopters uno degli accordi.

Russian Helicopters fabbrica elicotteri civili e militari e fa parte di Rostec, azienda che produce armamenti.  

NELLO TROCCHIA. È inviato di Domani, autore dello scoop sul carcere di Santa Maria Capua Vetere. Ha firmato inchieste e copertine per “il Fatto Quotidiano” e “l’Espresso”. Ha lavorato in tv realizzando inchieste e reportage per Rai 2 (Nemo) e La7 (Piazzapulita). Ha scritto qualche libro, tra gli altri, Federalismo Criminale (2009); La Peste (con Tommaso Sodano, 2010); Casamonica (2019) dal quale ha tratto un documentario per Nove e Il coraggio delle cicatrici (con Maria Luisa Iavarone). Ha ricevuto il premio Paolo Borsellino, il premio Articolo21 per la libertà di informazione, il premio Giancarlo Siani. È un giornalista perché, da ragazzo, vide un documentario su Giancarlo Siani, cronista campano ucciso dalla camorra, e decise di fare questo mestiere. Ha due amori, la famiglia e il Napoli.

Da iene.mediaset.it il 24 marzo 2022.  

Con Antonino Monteleone e Marco Occhipinti ecco la risposta dell'ex premier Massimo D'Alema sulla pubblicazione da parte del quotidiano La Verità di quanto si sarebbe detto al telefono con Edgar Ignacio Fierro, pregiudicato colombiano condannato per più omicidi, su una vendita di armi alla Colombia e un presunto affare per i mediatori da 80 milioni di euro. Ecco anche la versione del capo della comunicazione di Leonardo, coinvolta in una operazione che poi è saltata

Dagospia il 24 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo: La presente per sottoporre alla Sua cortese attenzione e a quella della redazione della trasmissione de “le Iene” formale diffida dal pubblicare in toto o parzialmente stralci della telefonata intercorsa fra il sottoscritto e il giornalista Antonino Monteleone avvenuta nella giornata di ieri intorno alle 14.

La telefonata è stata presentata dal giornalista Antonino Monteleone come richiesta di confronto sul caso seguito dallo stesso per interpretare al meglio le informazioni in suo possesso, senza alcun riferimento alla registrazione della stessa.

L’interlocuzione fra colleghi risponde ad un codice deontologico condiviso in cui la stessa - per definizione e salvo una dichiarazione esplicita – avviene off the record con lo scopo di poter aiutare il lavoro di informazione e di analisi. Al termine della stessa è stata inviata – anche in questo caso di prassi – una posizione ufficiale della società. 

Per ulteriore sicurezza ho esplicitato al giornalista Antonino Monteleone che la nostra conversazione non poteva essere riportata se non nella parte della dichiarazione ufficiale mandata per iscritto via messaggio.

A quel punto il giornalista – a precisa richiesta – si è trincerato dietro una pretesa libertà di aver registrato la telefonata senza preavviso e di poterla usare in piena libertà. Ritengo che tale comportamento viola gravemente il codice deontologico giornalistico e mina nelle fondamenta il sano rapporto fra giornalisti e uffici stampa in cui nell’off the record si possono dare dei dettagli utili a ricostruire al meglio gli eventi, evitando che si incorra in una informazione parzialmente lacunosa o imprecisa. 

Tale comportamento se messo in atto dal giornalista e dalla trasmissione stessa sarà oggetto di un ulteriore segnalazione all’Ordine dei Giornalisti, al fine di ripristinare nell’alveo della corretta informazione deontologica il lavoro giornalistico, nel rispetto delle regole in essere.

Confermo inoltre che nel caso di una richiesta esplicita, non mi sarei sottratto a rilasciare una dichiarazione ufficiale ad uso del programma. Di seguito ricordo la posizione ufficiale dell’azienda che potrà essere utilizzata. 

“Gentile redazione, l’azienda, nel far presente che è in corso da tempo una campagna commerciale avente a riferimento il cliente Colombia, conferma di non aver finalizzato alcun incarico a nessuno dei soggetti menzionati nell’ambito della vicenda in oggetto, a differenza di come ipotizzato da alcuni organi di stampa. “

Ufficio Stampa Leonardo” In attesa di un Suo cortese riscontro, porgo i miei più cordiali saluti Stefano Amoroso

LA RISPOSTA DI ANTONINO MONTELEONE. Caro Dago, Per completezza di informazione ci tengo a segnalarTi  che Stefano Amoroso dice un paio di cose che ritengo piuttosto distanti dal vero e spiego il perché. L’ho chiamato, qualificandomi compiutamente, non per avere fumosi retroscena o suggerimenti. L'ho chiamato con la richiesta esplicita di avere risposte puntuali a domande precise. Ha replicato che c’era un comunicato stampa che mi ha inviato via whatsapp almeno tre volte.

Era identico a quello inviato ad altre redazioni.

Gli dico che se quelle erano delle risposte voleva dire che erano sbagliate le domande o che non le aveva capite. Quindi ho cominciato a fare il mio mestiere: domandare a chi per titolo, funzioni e lauto compenso è titolato a rispondere. L’altra affermazione da smentire è la seguente: «Nel caso di una richiesta esplicita (di intervista nda), non mi sarei sottratto a rilasciare una dichiarazione ufficiale ad uso del programma». 

Ciò non corrisponde affatto al vero, anzi sono stato schernito quando ho insistito per incontrare qualcuno, diverso da lui, altrettanto titolato a esprimere il parere della società.

Né lui si è reso disponibile a farlo in prima persona. Un capo della comunicazione che non comunica fa un po’ sorridere.

Ha sempre ritenuto, ragionevolmente, che la telefonata fosse registrata (in un passaggio non in onda dice «siccome non so se mi stai registrando, di più non posso dire!»), quando poi lo ha chiesto esplicitamente l'ho confermato senza alcuna esitazione. Dice che intende rivolgersi all’Ordine dei Giornalisti o al Giudice. Nelle sedi che Amoroso deciderà di adire, depositeremo quello che sarà necessario per dimostrare il nostro buon diritto a riportare le sue dichiarazioni. 

Cordialmente dott. Antonino Monteleone

François de Tonquédec per “la Verità” il 24 marzo 2022.  

 Dopo un lungo silenzio mediatico Massimo D'Alema ha finalmente detto la sua in tv sulla vicenda della trattativa per vendere navi, sommergibili e aerei alla Colombia con la mediazione di un'improbabile squadretta di consulenti. L'ex primo ministro ha mostrato quanto sia in difficoltà in questo momento durante un'intervista rilasciata alle Iene.

L'inviato Antonino Monteleone inizialmente era stato respinto con perdite, ma poi è riuscito a raccogliere lo sfogo dell'ex segretario del Pds che, tra una parolaccia e l'altra, ha praticato un'incredibile arrampicata sugli specchi per negare il peso della registrazione, svelata dalla Verità, della sua videochiamata con l'ex paramilitare delle Auc Edgar Ignacio Fierro Florez. «Il problema è che tutta questa campagna muove da un materiale inquinato, perché se uno intercetta illegalmente tra l'altro perché non è un'intercettazione della magistratura» ha detto l'ex primo ministro, senza spiegare che le registrazioni tra presenti non sono illegali.

Poi ha aggiunto: «Questa roba è stata comunque lavorata con tagli e cuci, quindi è un'informazione a mio giudizio falsa». E le sartine saremmo noi della Verità. «L'Italia è il Paese delle polemiche» ha provato ad ammorbidirlo Monteleone, ricevendo questa replica un po' sboccata: «Ma la polemica non c'entra un beato cazzo. Si vogliono danneggiare le imprese italiane che hanno avuto un danno molto grande ma questo a voi non ve ne frega un cazzo».

Insomma il povero D'Alema non parlava di armi con sanguinari ex militari colombiani per incassare 80 milioni di euro da spartire con i suoi soci, ma per il bene del Paese. E per questo vorrebbe essere ringraziato: «Io non ho incontrato il governo della Colombia, non ho fatto trattative con nessuno». Quella con Fierro, che lui riteneva essere un senatore, era una semplice «attività di promozione, non una trattativa». E allora le provvigioni di cui i due parlavano? 

D'Alema continua l'arrampicata: «Eh beh ma è assolutamente normale che in operazioni di questo genere si diano incarichi professionale di assistenza legale promozione commerciale ma non è una trattativa perché il mio interlocutore non è l'acquirente». Quindi nessuna violazione della legge che regola la compravendita delle armi?

L'ex ministro degli Esteri si accende ancora una volta come un fiammifero: «Ma è una cazzata che non sta né in cielo, né in terra, io parlavo con un signore per sostenere il fatto che loro si dessero da fare a favore della proposta italiana, ma è un fatto promozionale. Non è una trattativa». 

In pratica l'ex primo ministro era una specie di ragazzo sandwich, un volantinatore. Intanto ieri, a dargli un ulteriore dispiacere ci ha pensato il suo ormai ex compagno di partito, il ministro della Difesa pd Lorenzo Guerini, che nel rispondere a un'interrogazione di Fratelli d'Italia, ha evidenziato la distanza tra il governo e la trattativa portata avanti dai D'Alema boys, sgomberando «il campo da un equivoco di fondo, rappresentato dall'associazione tra le presunte interlocuzioni avvenute tra le parti e lo strumento del G2G (Government-to-government, ndr)».

Il G2G è una modalità di vendita degli armamenti che affianca quella di mercato e che garantisce all'acquirente garanzie governative sulla gestione del contratto. In questo caso le procedure prevedono «il diretto coinvolgimento delle preposte articolazioni del governo, nell'ambito di un preventivo rapporto istituzionale tra Stati». E niente di tutto questo è accaduto. Tanto che il ministro ha ribadito: «Nessun aspetto della vicenda in questione è pertanto riconducibile all'utilizzo dello strumento del G2G tra il governo italiano e il governo della Colombia». 

Quanto alle interlocuzioni istituzionali tra l'ambasciatrice colombiana a Roma e il sottosegretario Giorgio Mulè, per Guerini non rientravano nelle procedure G2G, ma erano «configurabili come normali rapporti tra Paesi» e «nulla hanno avuto a che fare con eventuali collaborazioni tra aziende e società mediatrici, consulenti o professionisti esterni». L'ennesimo schiaffo a D'Alema. Infine il ministro ha riconosciuto il merito dei nostri scoop, definendo la vicenda «una questione oggetto di giusta attenzione mediatica e di inchieste giornalistiche».

Dagospia il 24 marzo 2022. Riceviamo e pubblichiamo da Stefano Amoroso, capo comunicazione di Leonardo: La presente per sottoporre alla Sua cortese attenzione e a quella della redazione della trasmissione de “le Iene” formale diffida dal pubblicare in toto o parzialmente stralci della telefonata intercorsa fra il sottoscritto e il giornalista Antonino Monteleone avvenuta nella giornata di ieri intorno alle 14.

La telefonata è stata presentata dal giornalista Antonino Monteleone come richiesta di confronto sul caso seguito dallo stesso per interpretare al meglio le informazioni in suo possesso, senza alcun riferimento alla registrazione della stessa. 

L’interlocuzione fra colleghi risponde ad un codice deontologico condiviso in cui la stessa - per definizione e salvo una dichiarazione esplicita – avviene off the record con lo scopo di poter aiutare il lavoro di informazione e di analisi. Al termine della stessa è stata inviata – anche in questo caso di prassi – una posizione ufficiale della società.

Per ulteriore sicurezza ho esplicitato al giornalista Antonino Monteleone che la nostra conversazione non poteva essere riportata se non nella parte della dichiarazione ufficiale mandata per iscritto via messaggio. 

A quel punto il giornalista – a precisa richiesta – si è trincerato dietro una pretesa libertà di aver registrato la telefonata senza preavviso e di poterla usare in piena libertà. Ritengo che tale comportamento viola gravemente il codice deontologico giornalistico e mina nelle fondamenta il sano rapporto fra giornalisti e uffici stampa in cui nell’off the record si possono dare dei dettagli utili a ricostruire al meglio gli eventi, evitando che si incorra in una informazione parzialmente lacunosa o imprecisa. 

Tale comportamento se messo in atto dal giornalista e dalla trasmissione stessa sarà oggetto di un ulteriore segnalazione all’Ordine dei Giornalisti, al fine di ripristinare nell’alveo della corretta informazione deontologica il lavoro giornalistico, nel rispetto delle regole in essere. 

Confermo inoltre che nel caso di una richiesta esplicita, non mi sarei sottratto a rilasciare una dichiarazione ufficiale ad uso del programma.

Di seguito ricordo la posizione ufficiale dell’azienda che potrà essere utilizzata: “Gentile redazione, l’azienda, nel far presente che è in corso da tempo una campagna commerciale avente a riferimento il cliente Colombia, conferma di non aver finalizzato alcun incarico a nessuno dei soggetti menzionati nell’ambito della vicenda in oggetto, a differenza di come ipotizzato da alcuni organi di stampa. “Ufficio Stampa Leonardo”. In attesa di un Suo cortese riscontro, porgo i miei più cordiali saluti Stefano Amoroso

D’Alema: «Il mio comportamento è stato trasparente. Ho peccato di mancanza di cautela».  Tommaso Labate su Il Corriere della Sera il 25 marzo 2022.

Presidente D’Alema, su Emanuele Caruso e Francesco Amato, con cui lei aveva parlato nell’ambito dei per una possibile fornitura italiana di armi e non solo. «Sì ma non c’entra nulla con la storia della Colombia. L’Assemblea del Mediterraneo ha denunciato questi due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà perché avrebbero dichiarato di essere suoi membri senza esserlo».

Teme di essere indagato? «E perché? Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente. Sono anzi tra quelli che hanno più interesse a fare chiarezza su tutti i punti oscuri di questa storia, come la registrazione illegale…».

Della sua conversazione con Edgar Fierro, ex paramilitare condannato a 40 anni e poi graziato. «Non ho controllato il curriculum del mio interlocutore. Mi hanno detto che era un senatore».

Se avesse saputo chi era, gli avrebbe parlato? «Direi di no».

Non pensa sia stata quantomeno una leggerezza non aver controllato neanche su Internet? «Lo è stata. Non c’è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente».

Com’è finito dentro questa storia? «Si è presentato da me un imprenditore salentino che conoscevo da anni, Giancarlo Mazzotta. Mi dice che conosce due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà che potevano dare una mano a promuovere attività italiane in Colombia».

Forniture militari? «Anche, perché c’era stato un provvedimento del loro Parlamento in questo senso. Ma non solo, pure a interventi su energia e infrastrutture».

Perché Mazzotta viene da lei? «Faccio questo lavoro».

Il lobbista? «No. Faccio consulenza e assistenza a imprese italiane per investimenti all’estero, che a volte prevede l’avere rapporti con i governi. Scusi, che cosa vuol dire lobbista?».

Più o meno questo. Consulenza, assistenza… «Questo tipo di attività viene svolta nel mondo da numerosi ex esponenti politici che di solito vengono ringraziati, non fucilati alle spalle».

Come Schroeder, Renzi... «Renzi è attualmente senatore, io non sono parlamentare dal 2013. Schroeder lavora per una società russa, io per aziende del mio Paese. Non è la stessa cosa».

Il caso Colombia

Lei collabora con Ernst&Young? «Sì. Ma Ernst&Young qui non c’entra nulla».

Quando le prospettano queste opportunità, che fa? «Informo i vertici di Leonardo e Fincantieri. Le società italiane hanno poi ricevuto inviti ufficiali e fatto incontri istituzionali».

Era una mediazione? «Ho solo messo in contatto i soggetti e sono rimasto a casa. Chi è andato in Colomba ha svolto un’attività di promozione. E, una volta che la Colombia avesse deciso di procedere agli acquisti, magari si sarebbe trovato in una posizione più vantaggiosa».

Accordi di questo tipo non li fanno i governi? C’era bisogno di una trattativa doppia, onerosa? «Le ripeto che non c’è stata alcuna trattativa, né doppia né singola! Siccome vengono tutti descritti come miei emissari, le ricordo che i due protagonisti erano consiglieri del ministero degli Esteri della Colombia; e che Mazzotta non è stato “mandato” lì da me ma invitato dal ministero di cui sopra. Io l’ho solo sollecitato a informare l’ambasciatore italiano per un’ovvia ragione di trasparenza».

E il governo italiano era all’oscuro? «Normalmente gli ambasciatori informano i governi. E quando l’ambasciatrice della Colombia mi disse che la faccenda era seguita dal sottosegretario Mulè, su mia preghiera Mazzotta si recò a informarlo. E mi riportò che lui gli aveva detto “andate avanti”. Non ho ragione di dubitare di questa versione».

Lei parla al telefono di 80 milioni di provvigione. A chi sarebbero andati? «Io ho fatto una stima sommaria di quello che poteva valere — in termini di consulenza, promozione commerciale e assistenza legale — una massa di investimenti come quella di cui si parlava. Parliamo di un lavoro che può durare otto anni, non il tempo di una firma. Quindi penso che una parte sarebbe andata a Robert Allen Law, che avevo segnalato per l’assistenza legale e di promozione; mentre i colombiani sollecitavano una partnership loro, com’era giusto che fosse».

Perché Robert Allen Law? «È una società prestigiosa, con legami in America Latina, aveva già collaborato con Fincantieri».

Ha un contratto con loro? «No. Li conosco, ho collaborato con loro come con altre società americane».

Che cosa ci avrebbe guadagnato da questa storia? «La mia società avrebbe avuto dei vantaggi nel campo dell’energia, delle infrastrutture, in rapporto alle aziende private con cui collaboro. Con le aziende pubbliche, come ho detto, non ho contratti».

Con quali aziende private? «Se permette, le lascerei fuori».

Maurizio Belpietro per “La Verità” il 27 marzo 2022.

Ma quanto è tenero Massimo D'Alema quando chiede, a Tommaso Labate, che lo intervista per il Corriere della Sera, che cosa voglia dire lobbista? 

Ora, immaginate un uomo che nella sua vita può vantare un passato da segretario della Federazione giovanile comunista, direttore dell'Unità, segretario dei Democratici di sinistra, presidente della commissione bicamerale per le riforme, presidente del Consiglio, ministro degli Esteri, presidente del Copasir, cioè del comitato che vigila sui servizi segreti, e pure da vicepresidente dell'Internazionale socialista, che è costretto a chiedere a un cronista parlamentare, seppur qualificato come Labate, che cosa voglia dire lobbista.

Glielo spieghiamo noi. Basta aprire il dizionario Garzanti per scoprire che il lobbista è colui che fa parte di una lobby, ovvero di qualcuno che appartiene, citiamo senza aggiungere una virgola, a un «gruppo di interesse che, esercitando pressioni anche illecite su uomini politici, ottiene provvedimenti a proprio favore».

Ecco, noi dopo aver letto l'intervista al quotidiano di via Solferino, siamo certi che l'ex premier, oggi consulente per aziende che non vuole nemmeno nominare per non metterle nei guai, non abbia esercitato alcuna pressione illecita su uomini politici. Come ammette lui stesso nel colloquio con Labate, è stato semplicemente ingenuo.

Sì è fidato di persone che si erano presentate come immacolate, senza guardare il loro curriculum e senza neppure dare un occhio a internet, dove pure avrebbe potuto scoprire che i figuri a cui si accompagnava per «aiutare le aziende italiane» non erano così titolati come sembravano. 

Sì, ha scambiato un ex paramilitare, condannato a 40 anni di carcere e poi graziato, per un senatore, ma che cosa volete che sia? Sì è fidato di un imprenditore salentino, che conosceva da anni e di cui avrebbe dovuto sapere i trascorsi non proprio intonsi, raccomandandolo all'ambasciatore in Colombia per alcune forniture militari?

Beh, ma quello gli aveva detto di essere già in ottimi rapporti con due consiglieri del ministero degli Esteri e lui ha pensato bene di aggiungere alle conoscenze del conoscente anche il nostro rappresentante a Bogotà. Teme di essere indagato? E perché? risponde il candido D'Alema: «Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente». 

Anzi, quasi quasi da quel che dice si capisce che si ritiene una vittima. Non è stata una leggerezza fidarsi di certi personaggi, senza controllare chi realmente fossero? Sì, forse il suo è stato un peccato di ingenuità. «In questa vicenda c'è stata una mancanza di cautela».

Ma se lui è stato poco accorto, le aziende che intendeva aiutare, ovviamente per puro spirito solidaristico nei confronti del Made in Italy, «hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente». 

E gli 80 milioni di provvigione di cui parla al telefono? «Ho fatto una stima sommaria di quello che poteva valere - in termini di consulenza, promozione commerciale e assistenza legale - una massa di investimenti come quella di cui si parlava». Insomma, niente di concreto, solo una valutazione generica, da uomo che conosce il mondo, la politica e gli affari, sebbene scambi ex paramilitari per senatori.

Di certo gli 80 milioni non erano una richiesta. E come mai intendeva affidarsi a uno studio legale di Miami?

Semplice conoscenza e stima nei confronti di una società con cui ha già lavorato in passato. E lei che cosa ci avrebbe guadagnato in questa storia? chiede ancora Labate. Niente soldi, per favore. Solo eterna riconoscenza.

«Vantaggi nel campo dell'energia, delle infrastrutture, in rapporto alle società private con cui collaboro». Un do tu des da cui sarebbero state escluse le aziende pubbliche. Ma Fincantieri e Leonardo, le due società che con l'interessamento di D'Alema e la fattiva collaborazione di mediatori poco raccomandabili, non sono pubbliche?

Sì, ma il povero D'Alema, impegnato in un'arrampicata sugli specchi per giustificare il suo ruolo in una trattativa che preferisce chiamare promozione, dimentica questi dettagli. Alla fine, dopo l'impegnativa scalata, alla domanda se, conoscendo con chi aveva a che fare, si sarebbe infilato in questo pasticcio, l'inesperto Massimino, l'uomo che al telefono cercava di convincere i suoi interlocutori che il BU-SI-NESS (lo disse scandendo bene le parole e le S) valeva 80 milioni da dividersi equamente, risponde: «Non direi».

Luca Fazzo per “il Giornale” il 25 marzo 2022. 

«D'Alema ha smesso con la politica. Fa un altro mestiere. Io ho interessi diversi». Arrivato al ventesimo giorno dello scandalo che lo ha investito per i traffici d'armi con la Colombia, a Massimo D'Alema tocca la rasoiata da parte di uno dei suoi successori alla guida del Pds, diventato nel frattempo il Partito democratico. 

É Pierluigi Bersani, in una lunga dichiarazione a Tpi in cui ragiona sulla ipotesi di un rientro nel Pd, a rendere esplicito in modo in cui molti, dentro al principale partito della sinistra, vivono il nuovo corso del vecchio leader. Fine della politica, testa agli affari. A rendere imbarazzante quanto sta emergendo nelle trattative avviate da D'Alema per piazzare navi e aerei di Fincantieri e Leonardo al governo colombiano, aggirando la trattativa ufficiale già aperta tra i due paesi, è anche il livello non elevatissimo dei mediatori, in buona parte pugliesi, di cui l'ex premier si circonda.

Al punto che l'ipotesi che tutto vada ridotto a una sorta di millanteria non viene esclusa dagli inquirenti della Procura di Napoli, che hanno aperto per primi un fascicolo sul D'Alema-gate. Fascicolo che però potrebbe venire presto spostato per competenza territoriale alla procura di Roma. Il diretto interessato, nel frattempo, da visibili segnali di nervosismo. L'altro giorno, inseguito dalle telecamere delle Iene, «Baffino» non ha risposto alle domande. Ma poi ha accettato, per la seconda volta da quando è iniziato il caso (la prima era stata con una intervista a Repubblica dai toni decisamente più pacati) di rispondere alle domande del programma di Italia 1.

E si è lasciato andare al turpiloquio, come spesso gli accade quando è nervoso. «La polemica non c'entra un beato cazzo, si vogliono danneggiare le imprese italiane che hanno avuto un danno molto grande ma di questo a voi non ve ne frega un cazzo». In realtà a danneggiare Leonardo, la ex Fincantieri, potrebbe essere proprio quanto sta emergendo sul mandato informale che qualcuno, dall'interno dell'azienda, ha conferito all'ex presidente del Consiglio per trattare con le autorità colombiane.

D'Alema nelle sue dichiarazioni alle Iene ha provato a negare che una trattativa sia mai esistita, «è una cazzata che non sta nè in cielo nè in terra, io parlavo con un signore per sostenere il fatto che si dessero da fare a favore della proposta italiana ma è un fatto promozionale, non una trattativa». Peccato che per questo «fatto promozionale» D'Alema puntasse a incassare ottanta milioni di euro, calcolati in percentuale secca del due per cento sull'importo della trattativa.

E che nomi di esponenti di secondo piano delle autorità colombiane compaiano nelle intercettazioni pubblicate nelle settimane scorse dalla Verità. Ma se D'Alema dà vistosi segni di nervosismo, non molto più serena è la situazione all'interno di Leonardo. L'audit interno, affidato a un coriaceo ex ufficiale della Guardia di finanza di nome Massimo Di Capua, sta andando in profondità per accertare chi nell'azienda, in palese violazione delle procedure, ha deciso di accogliere la autocandidatura di D'Alema come brasseur con le autorità di Bogotà. Una candidatura che se fosse venuta da chiunque altro sarebbe stata probabilmente rispedita al mittente, e che invece è stata accettata, fino al punto di inviare una lettera di incarico allo studio legale di Miami dietro al quale si muoveva proprio «Baffino».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 25 marzo 2022. 

«Quando mi chiamano dall'Italia ho il terrore che sia La Verità». L'ambasciatore a Bogotà Gherardo Amaduzzi, dopo aver risposto al telefonino, sembra commentare con una persona al suo fianco È La Verità ambasciatore (attimi di silenzio) «Beeene, come sta?». 

Piccolo flashback. L'1 marzo abbiamo pubblicato l'audio in cui Massimo D'Alema discuteva della compravendita di armamenti del valore di 4 miliardi, un affare in cui era coinvolta un'improbabile squadretta di intermediari capitanata da Giancarlo Mazzotta, politico di Forza Italia attualmente sottoposto a tre processi per reati gravissimi come l'estorsione aggravata dal metodo mafioso, l'istigazione alla corruzione e illeciti fiscali. L'ex premier ha sempre dichiarato di aver solo cercato di «sostenere le imprese italiane all'estero».

In questo caso gratis. Ma adesso emerge in maniera clamorosa come abbia provato a utilizzare i canali istituzionali per mandare avanti la trattativa parallela a quella tra governi per la vendita di 2 sommergibili, 2 fregate e 24 caccia da addestramento prodotti da Fincantieri e Leonardo. Un negoziato apparentemente seguito dall'ex leader del Pds con l'ausilio di due professionisti a lui riconducibili (l'avvocato italo-americano Umberto Bonavita e il ragioniere Gherardo Gardo), di Mazzotta e di due broker pugliesi con addentellati tra gli ex paramilitari colombiani. Niente di ufficiale però.

Se non il nome dello studio Robert Allen Law di Miami da cui sarebbero dovuti passare 80 milioni di euro di provvigioni. Quelli di cui parla D'Alema nel file audio. Oggi, grazie alle dichiarazioni di Amaduzzi, scopriamo che l'ex primo ministro introdusse nella sede diplomatica di Bogotà proprio l'imputato Mazzotta, atterrato nella terra dell'Eldorado con l'obiettivo di rappresentare Leonardo e Fincantieri. L'incontro si è svolto il 25 gennaio e subito dopo Amaduzzi, interdetto, ha avvertito il direttore delle relazioni internazionali di Leonardo, Sem Fabrizi. Non sappiamo poi se quest' ultimo abbia informato i suoi vertici. Infatti Fabrizi non ha voluto rispondere alle nostre domande.

Ma riprendiamo con Amaduzzi. Cosa dice di questa vicenda ambasciatore?

«Io non le posso dire assolutamente nulla». 

A noi risulta che lei si sia comportato in modo corretto e istituzionale

«Sono qui da tre anni e ovviamente seguiamo Leonardo in quanto è una realtà imprenditoriale importante con anche buone prospettive di sviluppo nel Paese». 

In Colombia aveva già un altro broker

«A fine 2021 qui c'è stata la ExpoDefensa. Ovviamente c'era Leonardo con un suo stand e sono andato a trovarli [] fa parte del mestiere del diplomatico quello di tenere». 

A me hanno detto che lei rimase un po' stupito quando venne a bussare da lei Mazzotta

«Uhmmm, non mi sta citando, né intervistando».

Ma noi queste cose le abbiamo già scoperte da altre fonti, le stiamo solo chiedendo conferma

«Lei può immaginare la persona che mi ha anticipato la venuta di questo signore a Bogotà persona che io non avevo mai incontrato». 

Sappiamo che a telefonarle è stato D'Alema, l'ex primo ministro

«Eh, che fai? Dice: "Puoi ricevere". Ok. Lei sa anche la data dell'incontro e la mia immediata reazione aggiungo che, avendo io tratto una tale cattiva impressione, dopo averlo accompagnato fuori, ho chiuso la porta e mi sono attaccato al telefono con i vertici istituzionali di Leonardo preposti a curare i rapporti internazionali».

Fabrizi e Augusto Rubei?

«No, solo Fabrizi. Con Rubei parlai mesi fa, ma non di questo caso specifico. Ho informato Fabrizi e poi non ho saputo più nulla sino a un mese dopo quando sono incominciati a uscire gli articoli». 

È rimasto stupito?

«Allibito. Sinceramente io, con tutta la buona volontà, poi con la telefonata dell'ex presidente del Consiglio, ex ministro degli Esteri e quant' altro, quello che è emerso dopo, al momento in cui lo ho incontrato il 25 gennaio questo signore, per me era pura fantascienza». 

Le hanno fatto incontrare un pluri imputato

«È emerso dopo, lì per lì non è che l'ho ricevuto e basta io a questo signore ho detto: "Io mi occupo istituzionalmente sempre di Leonardo; lei chi è? Cosa rappresenta?"». 

Che cosa voleva dall'ambasciata?

«Non si capisce, perché io ho messo subito le mani avanti, perché Leonardo ha il problema di avere troppa gente che gira con i bigliettini con il simbolo rosso e ne ho visti tanti ed è un problema che ho sollevato varie volte con l'azienda, anche quando sono venuti per ExpoDefensa. C'è una certa confusione, troppe persone si occupano non solo della Colombia, ma immagino in generale, per cui con Mazzotta ho parlato del clima, del contesto del Paese»

Il politico pugliese inseguiva una sponsorizzazione con il governo colombiano?

«No, nulla di specifico, però, siccome l'ho messo a posto subito, dicendo che un mese prima c'era stata una delegazione di venti persone di Leonardo a ExpoDefensa, gli ho chiesto: "Lei chi rappresenta?". È rimasto molto sul vago, senza dire nulla di specifico. Gli ho parlato io del mercato degli armamenti che è falsato anche per le donazioni continue da parte del governo americano» 

Si è definito rappresentante di Leonardo?

«Rappresentante di Leonardo e di Fincantieri. Dopo di che gli ho detto: "A proposito di Fincantieri sono tre anni che sono qua e non ho mai sentito volare mosca, in Leonardo ho rapporti istituzionali con chi di dovere, costanti, ma lei chi è?" ho ridomandato».

Quanto è durato l'incontro?

«Boh, mezz' ora tra l'altro ho un testimone se dovesse servire» 

I due broker sono venuti da lei?

«Mai visti» 

E l'avvocato Bonavita e il ragionier Gardo?

«Mai mai mai» 

Mazzotta era da solo o con qualcuno?

«Da solissimo» 

Lei ha scritto a Fabrizi?

«Per la precisione gli ho telefonato. Ma non so che seguiti sono stati dati. Quando ho messo giù il telefono non ne ho più saputo nulla fino a quando sono incominciate a uscire le cose sul giornale. Non ho idea di che cosa abbia fatto Leonardo al suo interno» 

Il pluri imputato Mazzotta si è presentato come rappresentante di Leonardo e Fincantieri?

«Sì rappresentante tra virgolette e infatti la mia prima domanda è stata sul suo ruolo» 

E lui che cosa ha replicato?

«Cose evasive, cioè non ha risposto». 

Come ha introdotto il discorso su Fincantieri e Leonardo?

«Beh, le ha menzionate lui sostenendo che cercava di rappresentare gli interessi di queste aziende. Dopo di che non mi ha detto nulla, [] nulla di concreto». 

D'Alema quando l'ha chiamata?

«Se non ricordo male il 19 gennaio». 

Con che scusa le ha annunciato la visita di Mazzotta?

«Mi ha detto: "Adesso mi occupo di promuovere gli interessi delle aziende italiane all'estero". Primo: non avevo motivo di immaginare quello che poi è successo. Secondo: io sono istituzionale, mi chiama l'ex presidente del Consiglio ed ex ministro degli Esteri» 

Quando D'Alema le ha comunicato di rappresentare le aziende italiane all'estero le ha fatto anche i nomi di Leonardo e Fincantieri?

«Sì, ha fatto riferimento alle due aziende, è chiaro. Non rappresentante il "sostenere", no? "gli interessi", una cosa così, non mi ricordo il termine esatto, ma non rappresentante»

Le ha detto che lo faceva per qualche società?

«No, nessun dettaglio di questo tipo si è limitato a "viene un mio amico", capito?» 

Tutti e due hanno fatto i nomi di entrambe le aziende?

«Questo mi sembra di sì (breve interruzione) sì, sììì. Altrimenti non lo avrei ricevuto». 

Di scritto non le hanno lasciato nulla?

«Nulla» 

Ambasciatore sembra di capire che le abbiano teso una specie di imboscata

«Al presidente non tanto a me» 

A quale presidente mi scusi?

«Al presidente D'Alema»

Ma è lui che ha tirato in mezzo lei a questa storia.

«Sì, però, la cosa si riduce a un colloquio di meno di mezz' ora di cui ho immediatamente informato Leonardo. Quello che succede dopo era inimmaginabile per me, veramente un film di bassa categoria». 

Nessuno le ha detto che stavano facendo un lavoro di intermediazione per un affare da 4 miliardi?

«Ma no questo Mazzotta non è molto articolato»

Le viene in mente altro?

«No, perché non c'è altro abbia la cortesia, ho solo risposto a una chiamata dall'Italia non sono mai stato informato di nulla in nessuna fase» 

Da lider Maximo a "incauto", la fragile difesa di D'Alema. Pasquale Napolitano il 27 Marzo 2022 su Il Giornale.

L'ex presidente ds, mediatore in una vendita di armi: non sapevo di parlare con un condannato a 40 anni.  

Alla veneranda età di 72 anni Massimo D'Alema si riscopre ingenuo. Sorpresa. La storia della trattativa per la vendita di armi alla Colombia (sommergibili, navi e aerei prodotti dalle aziende italiane Leonardo e Fincantieri e destinate alla Colombia) rivela un lato inedito, sconosciuto, quasi fanciullesco, del lider maximo: l'ingenuità. Anche un freddo leader politico, capace di guidare prima il partito erede della tradizione comunista e poi l'Italia da Palazzo Chigi, scivola sulla buccia dell'ingenuità. I giornali lo dipingono ingiustamente come un faccendiere spregiudicato, un lobbista affamato, che tratta una fornitura di armi dall'Italia alla Colombia, che potrebbe fruttare (per i mediatori) una provvigione di 80 milioni di euro. Nulla di più falso. È un racconto distante dalla verità. Nulla di più infamante.

D'Alema, l'ultimo moicano della stagione comunista, in questa trattativa ci è finito per un eccesso di leggerezza. Ha peccato di superficialità. Chiede perdono. Capita a tutti. Capita agli sprovveduti. Figuriamoci se non possa capitare anche a un ex presidente del Consiglio (D'Alema). A chi (D'Alema) ha guidato il comitato parlamentare di controllo sui Servizi segreti (Copasir). A un ex ministro degli Esteri (D'Alema). Capita, eccome, a chi (D'Alema) per anni si è costruito la fama di politico scaltro e astuto. Sì, proprio D'Alema, il miglior erede del cinismo togliattiano, ha commesso un errore di ingenuità. I suoi detrattori non crederanno mai al peccato di ingenuità. E continueranno il martellamento. Ma D'Alema non ha dubbi: è andata proprio così. Una semplice leggerezza. In una lunga intervista concessa a Tommaso Labate per il Corriere della Sera - l'ex presidente del Consiglio ammette il passo falso. Gli accusatori vorrebbero inchiodarlo su un punto: la conversione avuta con Edgar Fierro, ex paramilitare condannato a 40 anni per omicidi vari, per discutere della compravendita di armi. Il lider maximo scende dalle nuvole. Che ne poteva sapere del passato criminale del suo interlocutore? La spiegazione è semplice. Quanto banale. D'Alema non ha avuto il tempo di controllare (nemmeno su internet dove c'è materiale in abbondanza) il curriculum del suo interlocutore: «Non ho controllato il curriculum del mio interlocutore. Mi hanno detto che era un senatore. Non c'è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente».

Ecco, puntuale, arriva la difesa che smonta la narrazione infamante: la mancanza di cautela. Potrebbe capitare a tutti gli ex presidenti del Consiglio confondere un ex terrorista del calibro di Cesare Battisti con il senatore Vito Crimi. È capitato anche a D'Alema. Non c'è nulla di male. Perché crocifiggerlo? Il leader "accusato" dei più famosi complotti politici della storia italiana, dalla caduta di Prodi alla congiura contro Renzi, è stato semplicemente uno sprovveduto. D'Alema dopo settimane di accuse, si difende: «Non ho fatto nulla di illecito o poco trasparente. Sono anzi tra quelli che hanno più interesse a fare chiarezza su tutti i punti oscuri di questa storia, come la registrazione illegale». L'ex leader dei Ds spiega come è finito dentro la trattativa: «Si è presentato da me un imprenditore salentino che conoscevo da anni, Giancarlo Mazzotta. Mi dice che conosce due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà che potevano dare una mano a promuovere attività italiane in Colombia». Forniture militari? «Anche». Ora liberato il campo dall'accusa (contro D'Alema) di essere uno spregiudicato faccendiere, c'è la Procura di Napoli che indaga. D'Alema non è indagato. Ci mancherebbe: la superficialità non è punita dal codice penale.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 26 marzo 2022. 

Come abbiamo rivelato ieri l'ex ministro degli Esteri Massimo D'Alema il 19 gennaio 2022 contattò l'ambasciatore italiano a Bogotà, invitandolo a dare udienza all'«amico» plurimputato Giancarlo Mazzotta, impegnato nel «rappresentare», apparentemente senza alcun mandato, Leonardo e Fincantieri in un affare da 4 miliardi di euro con 80 milioni di possibili provvigioni. 

Ma l'ex rappresentante politico delle feluche italiche non ha bussato solo alla porta di Amaduzzi per portare avanti la sua trattativa parallela per gli armamenti da esportare in Colombia.

E ha tentato la via della diplomazia per tagliare fuori come interlocutore dell'affare il governo italiano.

Per esempio, come vedremo, ha cercato di portare dalla sua parte Gloria Isabel Ramirez Rios, ambasciatrice colombiana in Italia. 

Il 10 febbraio l'ex primo ministro confida al paramilitare pentito Edgar Ignacio Fierro Florez: «Anche lei si sta occupando di questo problema. E lei sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori».

Una visione opposta a quella di D'Alema. Che il 9 febbraio aveva provato a contattare l'ambasciatrice, senza fortuna, per cercare una sponda.

Il giorno successivo aveva provato a convincere Fierro, che considerava in grado di incidere sul governo colombiano: «Questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale» aveva sostenuto. 

Cioè saltando il ministro della Difesa. L'11 febbraio, finalmente, la diplomatica aveva incontrato l'ex premier per affrontare la questione.

Nei giorni scorsi il sottosegretario Giorgio Mulè aveva ricostruito quell'incontro con noi: «A metà febbraio l'ambasciatrice della Colombia mi informa della visita ricevuta da D'Alema nella veste di rappresentante di Leonardo». 

Dunque, anche con la diplomatica, l'ex premier aveva speso il nome dell'azienda italiana. Una versione che la Ramirez Rios non ha mai smentito.

Dopo l'incontro dell'11 febbraio D'Alema invia il suo uomo di fiducia, il plurimputato Mazzotta, nell'ufficio di Mulé, per fargli sapere di essere pronto a un incontro pure con lui. Ottanta milioni di euro possono rendere meno indigesto qualche rospo da ingoiare. In sintesi l'ex ministro degli Esteri ha ritenuto, in considerazione del suo curriculum, di spendere le sue doti di mediatore con le feluche, prima in Colombia e poi a Roma, e persino con Mulè al solo scopo di non essere escluso dalla trattativa per gli armamenti.

Il motivo lo aveva spiegato sempre a Fierro: «Perché tutto questo negoziato deve passare tra di noi, attraverso un solo canale. Quindi, dobbiamo dare il senso che noi abbiamo rapporti, non soltanto con i militari e i funzionari, ma anche con il governo». 

Nella telefonata intercontinentale D'Alema scopre gli assi che si era giocato con l'ambasciatrice: «Io le ho spiegato che, diciamo, da una parte è lo Stato colombiano, è il governo, che compra, ma in Italia non è il governo che vende. 

Sono due società quotate, non è il governo, quindi non ci può essere un contratto tra due governi». Quindi niente governo-governo (g2g), una procedura che lo avrebbe tagliato fuori dall'affare.

A questo punto D'Alema definisce la questione «delicata». Con questa giustificazione: «Noi rischiamo di avere delle interferenze in questo negoziato che non è utile che ci siano. Noi abbiamo interesse che il negoziato passi dalle società italiane, attraverso Robert Allen e dall'altra parte le autorità colombiane, senza interferenze». 

Insomma la diplomazia parallela dell'ex segretario del Pds puntava a escludere il governo dalla contrattazione. Ma se D'Alema si è sparato le sue cartucce da ex ministro, le persone che sono state da lui contattate hanno avvertito i loro superiori di quell'incauta intromissione? 

L'ambasciatore Amaduzzi ha rivelato di aver allertato Leonardo e ha aggiunto che «non ci sono state reazioni ufficiali». Poi ha provato a indovinare quali fossero le nostre fonti: «Io penso di sapere benissimo con chi lei ha parlato [.] intendo al ministero degli Esteri». E perché Amaduzzi sospettava che avessimo tratto la notizia dentro alla Farnesina?

Forse aveva comunicato anche al suo dicastero di riferimento, oltre che al collega ambasciatore Sem Fabrizi, direttore delle relazioni internazionali di Leonardo, la notizia della chiamata dell'ex capo del Copasir? 

Ma ieri dalla segreteria della Direzione generale per la diplomazia pubblica e culturale ci hanno inviato questa risposta: «L'ambasciatore Amaduzzi non ha informato la Farnesina né della telefonata del 19 gennaio con il presidente D'Alema, né dell'incontro del 25 gennaio con Giancarlo Mazzotta.

Da quanto risulta alla Farnesina, ha avuto unicamente un contatto telefonico con Leonardo, il 25 gennaio stesso, al termine dell'incontro con Mazzotta». 

Ma a proposito di mancate comunicazioni, anche il ministro plenipotenziario Fabrizi, pur avvertito da Amaduzzi, non avrebbe fiatato con nessuno. Neppure quando ha pranzato con Mulè, con l'ambasciatrice colombiana e rispettivi staff il 2 febbraio scorso: «I nuovi particolari di questa storia che somiglia sempre più a un'operetta li apprendo da La Verità», dichiara sconsolato l'uomo che con il suo intervento ha mandato gambe all'aria la trattativa di D'Alema & C..

E, a domanda del nostro giornale, aggiunge: «Non so che cosa si siano detti l'ambasciatore Amaduzzi e Sem Fabrizi, direttore delle relazioni Internazionali di Leonardo. 

Di sicuro, quando il 2 febbraio ci troviamo a Roma a una colazione di lavoro con Fabrizi e l'ambasciatrice di Colombia in Italia per pianificare le azioni da intraprendere con il governo colombiano non accenna a nulla». 

Vuol dire che Fabrizi non le disse alcunché a proposito di questa iniziativa di Mazzotta o comunque di quanto gli avrebbe riferito l'ambasciatore Amaduzzi dopo l'incontro del 25 gennaio a Bogotà? «Nulla di nulla. Glielo ripeto: nessun dirigente di Leonardo mi riferì mai di questa trattativa parallela. Fui io a metà febbraio a chiederne conto al direttore generale di Leonardo (Luca Valerio Cioffi, ndr) dopo il colloquio di D'Alema con l'ambasciatrice colombiana a Roma».

In quel momento Mulè e l'ambasciatrice non avevano nemmeno il sentore della trattativa in corso portata avanti dai D'Alema boys, ma stavano preparando una call con il viceministro colombiano alla Difesa per favorire la buona riuscita di una vendita di caccia M-346 all'aviazione del Paese sudamericano. Un dialogo g2g (quello che Baffino voleva affossare) per portare a casa un importante appalto per un'azienda strategica per l'Italia.

Emergono intanto nuove indiscrezioni sui motivi che avrebbero portato all'aborto dell'accordo tra Leonardo e la società Robert Allen Law (una partnership statunitense), lo studio legale individuato dagli uomini di D'Alema per l'incasso delle provvigioni. Dopo la firma del «non disclosure agreement», un accordo di riservatezza, sono iniziati tutti gli accertamenti per verificare che il fornitore avesse le caratteristiche idonee per firmare un «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite».

La valutazione è andata avanti di pari passo alla stesura della bozza di accordo per le provvigioni che si è arenata sulle clausole di pagamento. I primi contrasti sono nati sulle condizioni di pagamento delle fee: i mediatori avrebbero incassato le provvigioni solo di fronte a una commessa non inferiore ai 350 milioni di euro. 

Diversità di vedute anche sul saldo a 90 giorni e l'importo del forfait garantito anche in caso di mancato superamento del cap da 350 milioni. La cifra proposta era di 400.000 euro, considerati dai broker insufficienti. 

Per questo, anche se l'ufficio legale aveva già approntato il contratto il 25 gennaio, non è stato possibile firmarlo prima degli scoop della Verità sulla vicenda che hanno mandato in fumo l'accordo. Insomma per gli americani l'accordo avrebbe avuto clausole troppo restrittive.

Ma torniamo da dove siamo partiti. Alla Farnesina. Per giorni abbiamo provato a sapere se, come prevede la legge, i negoziati con le forze armate colombiane da parte di Leonardo e Fincantieri fossero stati ufficializzati con la comunicazione delle trattative da parte delle aziende all'Unità per le autorizzazioni dei materiali di armamento (Uama), che si trova presso il ministero degli Esteri. 

La risposta che abbiamo ricevuto è stata molto fumosa: «La legge 185/1990 prevede che le aziende comunichino l'inizio delle trattative per la vendita di materiale d'armamento senza indicare con precisione il momento in cui debbono farlo. La Uama richiede comunque che ciò avvenga prima dell'eventuale firma del contratto». 

Quindi è possibile avvertire la Uama dell'avvio di una concertazione quando praticamente è già conclusa? Dall'Unità ci hanno inviato un elenco con le comunicazioni di inizio trattative con la Colombia tra il 2017 e il 2020. Di quelle del 2021, però, non c'è traccia. In tutto sono state autorizzate 13 operazioni per la vendita di armi leggere, munizioni e apparecchiature elettroniche per un valore di 1,1 milioni.

Ma nessuno pare abbia avvertito il ministero che Leonardo e Fincantieri avevano messo in campo, più o meno ufficialmente, i D'Alema boys per tentare di portare a casa 4 miliardi di euro di contratti.

Giacomo Amadori e François de Tonquédec per “La Verità” il 27 marzo 2022.

C'è un nuovo interessante filone nei rapporti tra lo studio Robert Allen Law, e in particolare il presidente dell'omonima partnership Umberto Bonavita, e i broker pugliesi coinvolti sull'asse Lecce-Miami-Bogotà nella trattativa per la cessione di armamenti per 4 miliardi di euro alla Colombia, negoziato che ha visto protagonista anche l'ex premier Massimo D'Alema. 

Bisogna partire da Francesco Amato, l'italiano che vive in Spagna e che ha aperto i canali con il Paese sudamericano grazie ai suoi contatti con i grandi latifondisti dello Stato dell'Eldorado: «Compravo avocados per un colosso europeo nel settore della grande distribuzione» ci ha detto. 

Da lì ha iniziato a sedersi a tavola con chi contava e anche con qualche paramilitare. Ecco spiegato il discorso delle armi. Successivamente grazie a D'Alema conosce Bonavita. Il quale a gennaio prova a proporgli un nuovo business, legato alla pandemia: «Si trattava di mascherine, respiratori, guanti, proposti con la mediazione di Allen. Prodotti cinesi che sarebbero stati offerti anche al governo italiano. Mi dissero che erano scorte avanzate di una partita venduta in Europa. Poi quei dispositivi sono stati segnalati a me per proporli in Colombia». 

La trattativa in Italia

Nei giorni successivi, dopo un giro di telefonate, Amato ci ha riferito: «Mi hanno confermato che c'è stato in una trattativa in Italia». Secondo il broker Allen avrebbe proposto anche dei respiratori. Quando abbiamo chiesto ulteriori dettagli, le comunicazioni con Amato si sono diradate e infine è sparito del tutto. Ma non prima di averci inviato un paio di chat e le foto di alcuni dei prodotti che avrebbe dovuto smerciare in Colombia per conto della Robert Allen Law pa. 

Dunque, quasi a seguire le orme di Mario Benotti, il giornalista diventato mediatore della maxi commessa da 800 milioni di mascherine acquistate per 1,2 miliardi di euro dall'allora commissario per l'emergenza Domenico Arcuri, anche la squadretta di intermediari che cercava di vendere alla Colombia navi e aerei prodotti in Italia, era pronto a entrare nel business legato all'emergenza Covid. 

La conferma si trova in una chat tra Bonavita e Amato. Su Whatsapp l'avvocato propone test antigenici per il coronavirus da fare a casa, con tanto di foto. I tamponi si chiamano Flowflex e il prezzo indicato nella chat è 6,8 dollari l'uno per 500.000 pezzi, con uno sconticino in caso di acquisto triplicato, che avrebbe portato il prezzo a 6,3 dollari.

Nei messaggi viene proposto anche un diverso tipo di tampone, lo Zekmed, ma è con i FlowFlex che la trattativa sembra aver raggiunto un livello più avanzato. La Verità ha infatti avuto modo di visionare l'offerta di una società americana, la Aeg medical supply Llc, relativa a test rapidi per uso casalingo, disponibili, secondo il documento, in grandi quantità, fino a 5 milioni di pezzi alla settimana.

Il preventivo Il 17 gennaio, nel pieno delle attività per l'affaire Colombia, il Ceo della Aeg, Michael Zarkovacki, invia un preventivo su carta intestata che riporta anche il logo della Pointward con sede a Minneapolis, indirizzato proprio ad Amato, ma spedito presso l'ufficio di Bonavita. 

I tamponi sono descritti come «autorizzati Eua (per uso di emergenza, quindi con una certificazione non definitiva, ndr)» dalla Fda, l'ente governativo che si occupa della regolamentazione dei prodotti alimentari e farmaceutici negli Stati uniti. I test, fabbricati dalla Acon, che commercializza con il brand FlowFlex, sono venduti anche nel nostro Paese, ma con l'indispensabile marcatura Ce assente sulle confezioni destinate al mercato nordamericano.

Negli Usa vengono offerti online da importanti catene della grande distribuzione come Target, a 7,99 dollari, poco più dei 5.96 dollari proposti all'ingrosso dalla Pointward, lo stesso prezzo che a un certo punto era spuntato nella trattativa via Whatsapp. Non proprio un affare, visto che si parla di acquisti all'ingrosso. 

Il pagamento avrebbe dovuto essere «depositato» prima della consegna «presso l'avvocato transazionale, Robert Allen Law tramite il signor Umberto Bonavita». Forse i tamponi erano un business parallelo rispetto a quello delle fregate e degli aerei italiani, visto che nel paragrafo dedicato ai termini di consegna, oltre agli aeroporti statunitensi, veniva citato solo il Paese dell'America latina: «In caso di spedizione in Colombia o altro mercato internazionale, destinazione da fornire» si leggeva.

Sul sito che riepiloga gli acquisti della struttura commissariale non c'è nessuna evidenza di acquisti di tamponi provenienti da Oltreoceano. Ma a differenza di quanto avvenuto nella prima fase dell'emergenza, affidata alla Protezione civile, la gestione degli approvvigionamenti da parte della struttura commissariale non ha mai brillato per trasparenza.

Il caso dei ventilatori

Gli uomini del dipartimento allora guidato da Angelo Borrelli pubblicavano infatti tutta la documentazione dei singoli acquisti, dai preventivi al contratto definitivo. E proprio tra quelle carte, circa un anno fa, avevamo scoperto il carteggio che dimostrava che a interessarsi a una partita di ventilatori polmonari cinesi era stato D'Alema. 

La società cinese Silk Road Global Information limited aveva, infatti, venduto al governo italiano 140 ventilatori polmonari per terapia intensiva poi risultati «non conformi ai requisiti di sicurezza previsti dalla normativa vigente». 

La Global information è controllata interamente dalla Silk road cities alliance il cui cda è presieduto proprio D'Alema, che fa parte anche del comitato direttivo insieme con numerosi ex politici cinesi e l'ex primo ministro ucraino Viktor Yushchenko. In una mail il fornitore scriveva: «Ho appena ricevuto informazioni dall'onorevole Massimo D'Alema che il vostro governo acquisterà tutti i ventilatori nella lista che ho allegato a questa e-mail []». 

Con l'arrivo di Arcuri la musica è cambiata e sul sito dedicato agli acquisti sono scomparsi i contratti con tutte le caratteristiche della merce acquistata, compresa la marca. Il nuovo commissario, il generale Francesco Paolo Figliulo, che ha acquistato test Covid per 77,3 milioni di euro, ha lasciato la situazione invariata.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per "La Verità" il 27 marzo 2022.  

La lunga marcia verso la Verità di Massimo D'Alema prosegue. Dopo il nostro scoop dell'1 marzo quando abbiamo pubblicato l'audio della trattativa dell'ex premier con l'ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani delle Auc, Edgar Fierro, Baffino ha dato versioni sempre diverse sulla vicenda. 

In particolare è clamorosa la differenza tra quanto affermato in un'intervista alla Repubblica del 3 marzo rispetto a ciò che ha detto al Corriere della sera ieri.

La discrepanza più eclatante riguarda il ruolo dello studio americano Robert Allen Law, quello con cui Leonardo stava firmando un «contratto di supporto e assistenza per la promozione delle vendite». A inizio marzo D'Alema aveva dichiarato: «Ho parlato con il direttore commerciale di Leonardo. E ho detto a questi signori colombiani che era necessario trovare una società seria per iniziare la discussione.

Loro hanno scelto questo studio legale americano, un business law molto attivo in America Latina». Dello studio aveva parlato, sempre alla Repubblica, il 10 marzo, anche un collaboratore di D'Alema, Giancarlo Mazzotta. 

Quando il giornalista chiede chi abbia fatto il nome dello studio, l'intervistato è lapidario nell'escludere che sia stato D'Alema: «Lo fanno loro (i "colombiani", ndr). E io tra l'altro conoscevo questo studio».

Nei giorni successivi La Verità scopre il collegamento tra lo studio, attraverso l'avvocato Umberto Bonavita e il ragionier Gherardo Gardo, e un socio di D'Alema, l'imprenditore Massimo Tortorella. Ma a far scricchiolare la versione dell'ex premier ci aveva già pensato l'audio pubblicato sul sito del nostro giornale in cui il politico pugliese insisteva sull'importanza per i colombiani di rivolgersi allo studio americano.

D'Alema sul punto ieri ha fatto un'inversione a «U»: «Penso che una parte (delle provvigioni, ndr) sarebbe andata a Robert Allen Law, che avevo segnalato per l'assistenza legale e di promozione; mentre i colombiani sollecitavano una partnership loro, com' era giusto che fosse». In pratica conferma il dialogo contenuto nel file, in cui è chiaro il tentativo di D'Alema di convincere Fierro e i suoi a scegliere i professionisti di Miami.

L'intervistatore allora domanda: «Perché Robert Allen Law?». Risposta: «È una società prestigiosa, con legami in America Latina, aveva già collaborato con Fincantieri». Ieri dall'azienda triestina non ci hanno confermato questa precedente collaborazione. 

L'ex segretario del Pds non specifica in quale occasione e nega di avere un contratto con la squadra di legali: «Li conosco, ho collaborato con loro come con altre società americane». Fuochino insomma. 

Ci è voluto quasi un mese di lavoro ai fianchi, ma alla fine D'Alema sta rendendo la sua versione sempre più compatibile con la nostra. 

Il possibile guadagno

Ma lui che cosa doveva guadagnarci? Nell'audio non usa giri di parole: «Siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». Nelle interviste ammette di «aiutare le società italiane all'estero», ma rimarca che in questo caso non avrebbe «visto neanche un euro». E allora perché parla di 80 milioni? Semplice: «Dovevo convincere un interlocutore riluttante [] a fare una scelta nell'interesse dell'Italia e non della mia persona».

Anche se «far conseguire un risultato a Leonardo e Fincantieri [] accresce la credibilità di chi fa lavoro di consulenza». Ma non definitelo lobbista, potrebbe offendersi: «Scusi, che cosa vuol dire lobbista?» ha chiesto infastidito ieri, pur ammettendo di assistere «le imprese italiane per investimenti all'estero», magari attraverso i «rapporti con i governi».

Poi, rendendosi conto che nessuno avrebbe creduto alla favoletta dello statista al servizio gratuito del Paese, parlando del caso colombiano, ha concesso: «La mia società avrebbe avuto dei vantaggi nel campo dell'energia, delle infrastrutture, in rapporto alle aziende private con cui collaboro». 

Ricapitolando: parlava di 80 milioni per vincere le resistenze del socio in affari, ma non ha rapporti di lavoro con aziende pubbliche, con cui, sembra di capire, collabora «sotto copertura». Anche perché all'ambasciatore italiano i nomi di Fincantieri e di Leonardo, di cui promuoveva «gli interessi», li avrebbe fatti eccome.

Alla Repubblica aveva detto di essere stato «contattato da personalità politiche colombiane, con incarichi istituzionali» che gli avrebbero riferito che il Parlamento colombiano aveva stanziato molti fondi per ammodernare le forze armate. E lui? Avrebbe «informato subito Leonardo e Fincantieri, che sono importanti clienti di Ernst&Young». 

Un mese dopo la storia è cambiata radicalmente. Intanto perché Ernst&Young, di cui dirige l'advisory board, «qui non c'entra nulla». Qualche capataz londinese gli ha chiesto di non citarli più? Chissà.

La retromarcia

La retromarcia prosegue: a coinvolgerlo non sarebbero state personalità politiche d'Oltreoceano, ma un meno esotico ex sindaco pugliese, il solito Mazzotta («un imprenditore salentino che conoscevo da anni») che gli dice di conoscere «due consiglieri del ministero degli Esteri di Bogotà che potevano dare una mano a promuovere attività italiane in Colombia». 

Nelle varie interviste D'Alema insiste sul ruolo della Cancelleria di Bogotà. Peccato che i documenti con il simbolo del ministero degli Esteri del Paese sudamericano siano stati approntati da Emanuele Caruso, uno dei due «consiglieri», oggi sospettato di taroccare documenti con timbri e loghi falsi. Un filone su cui stanno indagando la Procura di Napoli e la Digos. 

E D'Alema chi informa dell'opportunità prospettata da Mazzotta dentro Fincantieri e Leonardo? A inizio marzo l'ex europarlamentare cita solo il direttore commerciale di Leonardo (c'è traccia di questo rapporto nelle mail pubblicate dalla Verità), mentre ieri ha coinvolto direttamente «i vertici di Leonardo e Fincantieri». Anche questo è un link di cui avevamo già informato i nostri lettori. I canali diplomatici E gli interventi presso le ambasciate? Pure quelli passaggi istituzionali.

Con La Repubblica cita solo l'ambasciatrice colombiana in Italia, forse perché citata nell'audio. Nell'intervista di ieri, invece, chiama in causa anche Gherardo Amaduzzi che come abbiamo svelato venerdì era stato contattato da D'Alema il 19 gennaio. In quella telefonata l'ex primo ministro aveva annunciato una visita di Mazzotta. 

Oggi l'ex capo del governo dà una diversa lettura di quella chiamata: «Mazzotta non è stato "mandato" lì da me, ma invitato dal ministero (della Difesa colombiano, ndr) di cui sopra. Io l'ho solo sollecitato a informare l'ambasciatore italiano per un'ovvia ragione di trasparenza». 

In realtà nessun rappresentante ufficiale del ministero si è mai materializzato durante le trattative, né ha cercato i D'Alema boys. E se il governo italiano era all'oscuro di questa trattativa parallela, l'ex segretario del Pds sembra imputarlo al diplomatico: «Normalmente gli ambasciatori informano i governi» taglia corto. 

L'ex guerrigliero

Nei giorni scorsi l'ex ministro degli Esteri aveva anche rivendicato di aver riattivato «canali istituzionali che si erano interrotti» e di non essersi servito per la sua trattativa parallela di «faccendieri o cose opache». Peccato che abbia conversato amabilmente con due broker dal curriculum poco chiaro accusati oggi di falso e con l'ex paramilitare di estrema destra Fierro, condannato a 40 anni di galera. 

Noi avevamo scritto il 9 marzo che l'ex premier, con il suo inner circle, aveva «ammesso di aver commesso un grave errore ad affidarsi a personaggi su cui non aveva fatto fare nessun tipo di controllo». Venti giorni dopo anche i lettori degli altri giornali hanno ricevuto la notizia e cioè che l'ex premier considera il non aver controllato il curriculum del suo interlocutore «una leggerezza».

Tanto da concludere: «Non c'è dubbio che in questa vicenda ho peccato di mancanza di cautela. Le imprese italiane, invece, hanno agito in modo assolutamente corretto e prudente». Il broker Francesco Amato di fronte a questa dichiarazione scuote la testa: «Avevo spiegato a D'Alema e Mazzotta chi fosse Fierro e l'ex premier, sorridendo, mi aveva risposto: "Sinistra e destra che si uniscono"». 

Gli altri business

D'Alema ha ammesso di essersi occupato in Colombia, come svelato dalla Verità, oltre che di armi, anche di altri temi come «l'energia e le infrastrutture», tra cui un progetto per il fotovoltaico, da gestire attraverso un fondo, Alleans renewables capital limited con sede a Londra. Alleans è presieduto da un italiano, Roberto Scognamiglio, quarantanovenne laureato in ingegneria aeronautica.

Il fondo nel gennaio scorso, ha proposto a un'azienda con sede a Medellin, la Ayc solutions, una partnership da 13,2 milioni, per un progetto fotovoltaico da 110 Mwp denominato «Las Marias». Dalle carte che abbiamo visionato risulta che la holding di cui fa parte il fondo è legato da una joint venture industriale con la China national machineries imp. & exp. Co., che fa parte del gruppo Genertec, una società statale cinese.

D'Alema, nelle interviste, ha pure parlato più volte della sua società di consulenza. Visti i bilanci e soprattutto gli utili, Baffino ha buoni motivi per essere soddisfatto. Fondata a gennaio del 2019, la D&M advisor Srl, controllata al 100% dall'ex segretario del Pds ha la sede legale a Roma nello studio di Domizia Sorrentino, moglie dell'ex ministro Pd della Cultura Massimo Bray, e ha già messo a bilancio discrete entrate. Nel primo anno di attività, la società ha fatturato 172.425 euro, con un piccolo utile di 27.594. Ma nel 2020, anno a cui si riferisce l'ultimo bilancio disponibile, le entrate della D&M, nonostante la scelta, rivendicata pubblicamente, di non lavorare per aziende pubbliche, sono letteralmente esplose, passando a 426.816 euro, con un utile di 202.333. D'Alema, come detto, attendeva ulteriori «vantaggi» dalla trattativa colombiana. Che, purtroppo per lui, è saltata.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 28 marzo 2022. 

Nel Colombia-gate adesso spunta anche il cabernet-gate. Stiamo parlando della tenuta agricola che si estende per sette ettari tra Narni e Otricoli (Terni), la Madeleine della famiglia di Massimo D'Alema, che nella società agisce, fin dal 2010, come procuratore dei figli, «con ogni più ampia e necessaria facoltà».

La settimana scorsa l'imprenditore romano Massimo Tortorella, socio dell'ex premier nella produzione di vino, ci aveva raccontato di aver conosciuto nel 2017 a Miami il ragionier Gherardo Gardo, uno dei protagonisti della trattativa per la vendita delle armi in Sud America. E a lui si era affidato, poiché una sua società americana, la Consulcesi Llc, non aveva ingranato e andava messa in liquidazione.  

Nello stesso periodo Tortorella aveva conosciuto D'Alema in un ristorante londinese e in poco tempo avevano deciso di diventare soci: «Il vino era buono e me lo ha fatto pagare.Chiesi a questo Gherardo una perizia e da lì nasce il rapporto tra D'Alema e Gardo. Evidentemente sono entrati in grande simpatia e amicizia». Quando abbiamo chiesto a Tortorella quanto abbia investito, lui ci ha risposto un po' vago: «Mi sembra che l'operazione fosse intorno ai due milioni, tra i due e i tre milioni di euro». Dagli atti, però, emergono cifre molto più modeste.

Nel luglio del 2018 un amico della famiglia D'Alema, Francesco Nittis, che deteneva il 30% delle quote, esce dalla compagine societaria in cambio di 30.000 euro. Il capitale scende così da 5.000 a 3.500 euro. 

Il 13 dicembre 2018, nello studio del notaio Salvatore Mariconda, professionista di fiducia di D'Alema, la lussemburghese Amana investment management, società riconducibile a Tortorella, rappresentata dal direttore Giulio Prevosti, residente a Lugano, realizza un aumento di capitale, che passa da 3.500 a 3.888 euro. I 388 euro in più (pari al 10 per cento delle azioni) costano a Tortorella un «sovrapprezzo» di 100.000 euro. Il 30% delle azioni a luglio valeva 30.000 euro, a dicembre il 10 costa 100.000. 

Il 13 febbraio 2019 la Amana investment management cede la propria partecipazione alla Amana investment glass fund. Nell'aprile del 2019 la Madeleine decide di «dotarsi di nuovi mezzi finanziari» e per questo il valore nominale del capitale sociale torna a 5.000 euro e per quel nuovo 20% di aumento il fondo Amana versa mezzo milione. 

Quindi Tortorella, alla fine, sembra aver sborsato «solo» 600.000 euro per il 30% dell'azienda anziché 2-3 milioni. Peccato che per la stessa quota i D'Alema avessero pagato venti volte di meno: 30.000 euro. 

Nei giorni scorsi Tortorella non ha voluto più riprendere il discorso, spiegandoci di essere concentrato «in cose più utili» (gli aiuti all'Ucraina). Ha solo specificato di aver «investito molto meno» di quanto ci avesse detto inizialmente. Ma non ha aggiunto altro.

Gli abbiamo domandato anche lumi su un'inchiesta che lo aveva coinvolto come indagato per omessa dichiarazione di 70 milioni di euro di ricavi e di 11,5 milioni di euro di Iva da parte di tre associazioni culturali riconducibili alla sua società Consulcesi. La Procura di Roma aveva ordinato il sequestro di 26,5 milioni di euro.

«Non sono più indagato. Ho fatto un accordo e ho pagato 20 milioni di euro» ci ha spiegato l'imprenditore. Ma torniamo agli atti. Il 15 aprile 2019 viene costituita dalla famiglia D'Alema e dai figli dell'enologo Riccardo Cotarella la Silk road (un marchio che piace molto a D'Alema) wines e, già a giugno, l'ex premier cede sempre a Tortorella la sua quota del 15% al prezzo del valore nominale, ovvero 1.500 euro. 

Questa volta all'accordo non presenzia Prevosti in rappresentanza dell'Amana glass fund, ma viene incaricato come «procuratore speciale» direttamente Gardo «affinché abbia ad acquistare dal signore Massimo D'Alema [] la quota di partecipazione dal medesimo detenuta nella società Silk road wine». 

Un documento che conferma la conoscenza di Gardo con D'Alema. Una conferma alle parole dei broker del Colombia-gate che hanno inserito il ragioniere tra i protagonisti della trattativa per vendere armamenti in Sud America. Per questo abbiamo deciso di andare a fare qualche domanda in Emilia, dove il professionista vive e lavora.

Siamo partiti dal suo luogo di nascita, Pieve di Cento, che per i suoi 2 chilometri di portici è detta la piccola Bologna. In piazza Andrea Costa gli anziani bevono all'enoteca di Tiziano e parlano anche dell'affare delle armi di D'Alema. Il «compagno» D'Alema. 

Nessuno difende il vecchio segretario del Pds. Al massimo c'è chi afferma che i politici sono tutti uguali oppure chi ricorda le imprese di Silvio Berlusconi. Un ex consigliere comunale del Pd, Valter, rivendica di aver sempre votato «il meno peggio» e preferisce segnalare al cronista i quadri della gloria locale, il Guercino.

Tiziano, il proprietario del bar, ricorda di aver frequentato le scuole medie con il coetaneo Gherardo. Qualche volta Gardo va ancora da lui a cenare, nelle sere d'estate, con la moglie Cristina. Anche Sauro ha fatto le scuole con il futuro ragioniere, ma non ha ricordi vividi. Forse una gita ad Aosta. L'uomo dei misteri da ragazzo era piuttosto chiuso e timido. Un cliente ci informa che Gherardo recentemente avrebbe fatto un sondaggio per l'acquisto di un terreno edificabile pronto per una speculazione immobiliare. Nient' altro. In zona i Gardo sono quasi degli sconosciuti. «Non è un cognome di qui» ripetono a pappagallo sulla piazza.

«Forse il papà era un bancario» azzarda uno. Noi a un certo punto lo incrociamo il ragionier Gianpaolo, 76 anni, con la moglie Giorgia Lazzari, questa volta un cognome autoctono. Entrambi rivendicano di essere nati a Pieve e dintorni. «Se mio figlio non vi parla avrà le sue ragioni. La trattativa delle armi? Gherardo è andato a Bogotà? Lo avrà fatto per lavoro, ma io non mi occupo assolutamente delle sue cose». 

Ci inoltriamo nella campagna di Castello d'Argile e prendiamo un sentiero sterrato con qualche villetta mescolata a cascine. In fondo c'è una grande casa bianca, stile moderno con tettoia verde.

Sarà stata costruita negli anni Ottanta. Sbirciando nel cortile si vedono l'auto del ragioniere, un'Audi Q5, e un'utilitaria di proprietà della suocera, Silvana. Suoniamo. È l'ora di pranzo. Ci risponde proprio Gherardo. 

Non è a Miami o in un'altra parte del mondo. È qui nella Bassa. Ci presentiamo: «No grazie» è la risposta. Come se fossimo Testimoni di Geova o venditori di aspirapolvere porta a porta. Allora attraversiamo il ponte vecchio che separa la provincia di Bologna da quella di Ferrara e arriviamo a Cento. 

A due passi dalla Rocca, la fortificazione medioevale, c'è via del Guercino. Sulla facciata di una palazzina di due piani color giallo Parma c'è una targa con scritto: «Studio commerciale tributario Rag. G. Gardo, commercialista». L'ufficio si trova al piano terra, di fianco a una profumeria e a un'agenzia di viaggi. Niente di lussuoso, perfetto per non dare nell'occhio. Il giovedì, giorno di mercato, per entrare bisogna aggirare un banco di frutta e verdura piazzato proprio all'ingresso: «Fava super» a 3,5 euro, «cimata extra» a 2,5, bietola a 0,8. Entriamo.

Le due cassette della posta hanno ancora gli aloni degli adesivi delle ditte che avevano domicilio fiscale da Gardo. A quell'indirizzo restano sette società e il nome della quarantottenne «Dott.ssa C. Alberghini», dipendente da quasi vent' anni dello studio e consorte del ragioniere. La donna possiede due piccoli appartamenti e un garage nel piano seminterrato dell'edificio. Ci accoglie (si fa per dire) così: «Mio marito? Non è intenzionato a rilasciare dichiarazioni, quindi le chiediamo di non tornare». Avremmo voluto fare tante domande, ma non è stato possibile.

Di Gardo sappiamo che il suo reddito ufficiale, nonostante lo studio da ragioniere di campagna, oscilla tra i 200 e 300.000 euro annui. Ha intestati i 5 vani dell'ufficio di via Guercino e un posto auto, ma non la casa dove vive. Molto esperto di fiscalità anglosassone, dal 1999 ha rapporti con società del Regno unito ed è stato, per esempio, rappresentante legale dell'Historical houses foundation trust. 

A Miami ha fondato con l'avvocato Umberto Bonavita (pure lui coinvolto nel Colombia-gate) la Wey Lcc, di cui è amministratore, società specializzata in compravendita di yacht. Sul sito dello studio è specificata l'attività di consulenza societaria e fiscale negli Usa, in particolare a Miami e New York. Tra i commenti favorevoli ce n'è uno di Bonavita. Il 24 febbraio scorso, alla vigilia dell'inizio della guerra in Ucraina, il ragioniere ha aperto nel suo studio la Kib holding Srl, ancora inattiva e nata per fare acquisizioni. Presidente e azionista unica è Karina Boguslavskaya, trentunenne cittadina russa residente nell'esclusivo quartiere di Kensington a Londra. Consiglieri di amministrazione lo stesso Gardo e Massimo Bonori, ingegnere bolognese con importanti interessi in Russia. A Gardo-land, Bogotà e Miami, Londra e Mosca non sono mete turistiche, ma piazze per affari. Magari con la copertura di un banco di verdure.

L'altra Colombia di D'Alema: affari anche sull'energia. Lodovica Bulian il 29 Marzo 2022 su Il Giornale.

La frase: "L'intermediario di Leonardo è un problema, lo risolveremo". Il progetto milionario nel fotovoltaico.

Emergono altri dettagli dell'affare colombiano in cui Massimo D'Alema è stato registrato a sua insaputa mentre parlava al telefono con un interlocutore di Bogotà di come vendere navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo alla Colombia. L'ex premier non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle partecipate dallo Stato. Del resto Leonardo per vendere aerei M-346 in Colombia aveva già un intermediario ufficiale, la società colombiana Aviatek di Luis Zapata. E questo sarebbe stato visto come un problema da risolvere agli occhi D'Alema che invece, stando alle sue stesse parole, avrebbe avuto interesse a che il negoziato passasse dallo studio Robert Allen di Miami. È lui stesso a scriverlo ai suoi interlocutori con cui stava lavorando all'affare via chat: «Abbiamo un problema con la società colombiana che ha un contratto con Leonardo, ma lo risolveremo». Sembra riferirsi proprio ad Aviatek. E il problema si stava davvero risolvendo, visto che Leonardo è arrivata a scrivere una bozza di contratto con lo studio Allen, anche se mai perfezionata, nonostante la presenza di un altro intermediario ufficiale.

Ma non c'è solo la trattativa per vendere alla Colombia navi e aerei militari delle aziende partecipate. D'Alema si sarebbe dato da fare per concludere un'altra operazione nel Paese sudamericano, questa volta nel campo dell'energia rinnovabile, per conto di una società d'investimento di cui D'Alema, almeno stando ai messaggi inviati ai suoi interlocutori, si è presentato come «Advisor». Del resto era stato lo stesso ex premier a dichiarare pochi giorni fa in un'intervista al Corriere, alla domanda su cosa ci avrebbe guadagnato da questa storia, che «la mia società avrebbe avuto dei vantaggi nel campo dell'energia, delle infrastrutture, in rapporto alle aziende private con cui collaboro». D'Alema, contestualmente alla possibile vendita di navi e aerei avrebbe lavorato con gli stessi mediatori in Colombia su un progetto parallelo: Las Marias. Un fondo con sede a Londra, Alliance renewables capital limited, di cui D'Alema si presenta da solo come advisor, doveva investire nell'acquisto di quote di una società, la Ayc solutions, con sede a Medellin, per 13,2 milioni, nell'ambito di un progetto fotovoltaico. Ancora una volta l'interlocuzione passa attraverso i pugliesi del business Fincantieri e Leonardo e dal potente Edgar Ignacio Fierro, l'ex paramilitare delle Auc ora riabitato da un «perdono pubblico» con cui D'Alema discuteva dei prodotti delle partecipate. Lo stesso Fierro compare in copia in una mail nelle fasi iniziali del negoziato su Las Marias, in cui avrebbe favorito i contatti. Il 16 dicembre D'Alema scrive: «Sto aspettando la copia del contratto per l'acquisto di energia per Las Marias». Due giorni dopo: «Non hanno mandato la copia, se arriva chiudiamo l'operazione». Ancora il 19 dicembre D'Alema sollecita: «Io posso inviate un impegno di no disclosure, se è necessario Lo faccio firmare al Ceo di Alliance Renewables e lo firmo anche io come Advisor». Ancora: «Se ci saranno risposte positive c'è sicuramente interesse all'acquisto. Non appena la verifica sarà completata, faranno un'offerta». E in effetti l'offerta non vincolante, firmata dal direttore del fondo Roberto Scognamiglio, arriva il 27 gennaio. Anche questo affare però poi si blocca.

Guido Paglia per sassate.it il 29 marzo 2022.

Non ci saranno reati, ma irregolarità nelle procedure evidentemente sì. E se in Leonardo non succede niente, a dimostrazione che il management ha soltanto obbedito alle disposizioni dell’AD Profumo, in Fincantieri il “pugno di ferro” di Bono ha fatto la prima vittima “eccellente”: dopo i provvedimenti cautelativi, Giuseppe Giordo è stato sospeso dall’incarico e la responsabilità della Divisione Navi Militari è stata assunta direttamente dall’AD.

Massimo D’Alema potrà continuare a nascondersi dietro le interviste “in ginocchio”, approfittando delle amnesie di giornalisti compiacenti, ma ormai lo scandalo è esploso e non può farci niente. La speranza di riuscire a nascondere la polvere sotto il tappeto, si è dissolta e prima o poi dovrà ammettere che alla base del Colombiagate non ci può essere solo la sua mancanza di cautela.  

D’altra parte, la coraggiosa e implacabile inchiesta a puntate de La Verità, sforna ogni giorno particolari sempre più inquietanti e in una nazione normale i comportamenti del Lider Maximo, Profumo e Giordo avrebbero già provocato la nascita di una Commissione Parlamentare d’inchiesta. Senza aspettare gli audit e le indagini interne di Leonardo e Fincantieri.

C’è ora molta attesa per vedere come influirà questo “giubilamento” di Giordo sul futuro del rinnovo dei vertici di Fincantieri. Perché intanto l’azionista Cdp -su richiesta del MEF- ha deciso di rinviare ogni decisione sulle liste al 14 Aprile.

A chi toccherà la “Malapasqua”?

Le frizioni di D'Alema coi suoi sulla trattativa per le armi. Lodovica Bulian il 31 Marzo 2022 su Il Giornale.

"Basta inutili litigi, lavoriamo insieme per l'obiettivo". L'ira dell'ex premier alle "Iene": intercettato illegalmente.

Ci sono stati anche momenti di tensione tra i mediatori dell'affare colombiano che coinvolge Massimo D'Alema. L'ex premier però via sms richiamava tutti all'ordine: «Vorrei che si lavorasse tutti insieme per l'obiettivo». Del resto l'affare da 4 miliardi - stando alle offerte preliminari - per la vendita di aerei e navi militari di Leonardo e Fincantieri alla Colombia valeva 80 milioni di euro di premio. Ovvero il 2 per cento del business, stando alle parole dello stesso D'Alema, registrato - o come sostiene lui alle Iene, «intercettato», illegalmente - mentre parlava con l'ex paramilitare colombiano Edgar Fierro. Condizioni contrattuali considerate «straordinarie» dall'ex premier, perché «normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, in questo caso no».

Prima che l'affare saltasse con la fuga di notizie, D'Alema assicurava al suo «team» che i contratti di Leonardo e Fincantieri allo studio legale di Miami Robert Allen Law - indicato da lui come soggetto da cui far passare l'operazione - erano in dirittura d'arrivo. Ma il lavoro sul business era in corso da mesi, gli altri mediatori si lamentavano per le spese già sostenute di tasca propria, e a volte c'erano tensioni di vario genere tra il team. Il 31 gennaio, dopo alcune frizioni, D'Alema scrive: «Vorrei che si smettesse di fare inutili litigi e che si lavorasse tutti insieme per l'obiettivo. Ci possono essere risultati molto importanti». In particolare Francesco Amato, uno dei due consulenti pugliesi che avevano proposto l'affare a D'Alema per le sue conoscenze con i vertici delle aziende, aveva confronti aspri con l'ex premier, che lo descriveva come «un giovane che fa confusione». Intervistato dalle Iene, Amato sostiene di aver sborsato 88mila euro per l'operazione poi saltata. Ma lascia intendere altro: «Io sono andato sei volte in Colombia. Però c'è tutto un lavoro dietro, fatto con persone in Colombia per muovere la cosa. Per vedere di muovere l'affare, di aprire le porte». Avete dovuto - gli chiedono - come si dice, oliare i meccanismi? «Chiamateli come volete - dice - Però è un lavoro che si è fatto».

E le partecipate? Da quando è scoppiato il caso, Fincantieri e Leonardo negano di aver affidato incarichi ai soggetti di questa storia. Ed è così, sebbene si sia arrivati a un passo dall'affidarli prima che andasse tutto all'aria. Fincantieri si era spinta a firmare una dichiarazione di intenti preliminare con la Colombia, supervisionata dall'avvocato dello studio Allen segnalato da D'Alema. Ora ha sospeso le deleghe a Giuseppe Giordo, il direttore della divisone Navi Militari che interloquiva con l'ex premier. Il 12 dicembre però un altro manager di Fincantieri - e non era presente Giordo - era a Cartagena per un'interlocuzione preliminare sull'affare, accompagnato da Bonavita. Amato riferiva a D'Alema: «L'uomo di Fincantieri è con i nostri in Colombia per informazioni riservate sul piano di sicurezza e sui concorrenti (altre società interessate a fornire navi, ndr)». E lui: «Lo so».

Quanto a Leonardo, aveva addirittura scritto una bozza di contratto per lo studio Allen. E sono diversi i messaggi in cui l'ex premier tira in ballo l'ad Alessandro Profumo nella trattativa. Per esempio nelle call che si stavano organizzando con i rappresentanti dello Stato colombiano. D'Alema si raccomandava così in chat: «Naturalmente il diritto a parlare è limitato a me, Profumo e Giordo. Gli altri ascoltano».

Salta il dg di Fincantieri per le armi alla Colombia del «caso D’Alema». di Andrea Ducci ed Enrico Marro su Il Corriere della Sera il 29 Marzo 2022.

Giuseppe Giordo sollevato dagli incarichi operativi. A pesare sul suo destino il coinvolgimento che avrebbe dovuto portare a un contratto da 4 miliardi.

Per ora Giuseppe Giordo è stato sollevato da ogni incarico operativo. A pesare sul destino del direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri è il suo coinvolgimento nell’operazione che avrebbe dovuto portare alla sigla di un contratto da 4 miliardi di euro per la vendita di aerei e navi prodotte, oltre che da Fincantieri, anche da Leonardo, alla Colombia. Una partita con in veste di negoziatore l'ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema che, tuttavia, si è svolta attraverso un canale parallelo a quello ufficiale tra il governo italiano e quello di Bogotá. Tant’è che, una volta emerso il ruolo di D’Alema, la trattativa è saltata e la procura di Napoli ha aperto un’inchiesta. Ma a cercare di fare luce è anche un audit interno attivato dalla stessa Fincantieri, un’indagine sull’operato di Giordo arrivata alla prime risultanze, che, evidentemente, hanno suggerito a Giuseppe Bono, amministratore delegato del gruppo cantieristico, di sospendere il direttore generale coinvolto nell’affaire Colombia.

Una mossa che assume rilevanza, anche perché nelle prossime settimane il governo dovrà procedere al rinnovo del vertice di Fincantieri e tra i possibili candidati per l’incarico di amministratore delegato figurava proprio il nome di Giordo. Un’ipotesi ormai tramontata. In pista, invece, resta l’opzione che Bono ottenga una riconferma come amministratore delegato o, eventualmente, come presidente di Fincantieri, sebbene ne sia alla guida dal 2002. Tra le possibilità anche la nomina del direttore generale, Fabio Gallia, al posto di Bono. In ogni caso la trattativa per la vendita di armi alla Colombia e il ruolo di intermediario di D’Alema tra il governo di Bogotá, interessato all’acquisto di aerei, corvette e sommergibili, e le aziende pubbliche Fincantieri e Leonardo, pone degli interrogativi sui vertici delle società.

Il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulè (Forza Italia) ha raccontato di essere stato informato del ruolo dell’ex premier dall’ambasciatrice colombiana a Roma e di aver chiesto chiarimenti a Leonardo. D’Alema ha replicato dicendo che, venuto a conoscenza da politici colombiani dell’interesse di Bogotá per le armi italiane, si è limitato a informare le due aziende. In Fincantieri aveva contattato proprio Giordo. Ma in un incontro con emissari del governo colombiano, il cui audio è stato diffuso dai media, D’Alema parla di una possibile provvigione da 80 milioni se l’affare fosse andato in porto. «Dovevo convincere un interlocutore riluttante», si è giustificato l’ex premier, «nell’interesse dell’Italia e non della mia persona».

In Parlamento sono state presentate interrogazioni al governo per chiarire i contorni della vicenda da Lega, Forza Italia, Leu, Italia viva e da Fratelli d’Italia. Una settimana fa ha risposto alla Camera il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, annunciando che Leonardo e Fincantieri avevano avviato «indagini interne per chiarire le questioni aperte, i cui risultati saranno oggetto di approfondimento e valutazione degli organi societari e delle istituzioni». E ieri è caduta la prima testa, anche se i due audit non sono ancora conclusi. «Il governo aspetta gli audit e poi il ministero dell’Economia, che vigila sui due gruppi, valuterà il da farsi», dice Mulè. Il 5 aprile, intanto, il numero uno di Leonardo, Alessandro Profumo, è atteso in audizione alla commissione Difesa del Senato.

Giacomo Amadori per la Verità il 30 marzo 2022.

Nella trattativa svolta in Colombia per la vendita di armamenti da parte del gruppo di lavoro collegato a Massimo D'Alema sono state aperte delle porte attraverso il pagamento di denaro? Sulla vicenda aleggia lo spettro della corruzione internazionale, oltre ad altre possibili ipotesi di reato, come il riciclaggio, l'autoriciclaggio ed eventuali reati fiscali. 

In un documento, avente come oggetto «stato attività Repubblica di Colombia Fincantieri-Leonardo report 2021» risalente 7 gennaio 2022, redatto su carta intestata del ministero degli Esteri colombiano e della Unión de Cooperación para América Latina (loghi verosimilmente manipolati), i due broker italiani, Emanuele Caruso e Francesco Amato, che si presentano come «consiglieri del ministero degli Affari Esteri» colombiano, spediscono un resoconto a D'Alema: «Si è provveduto all'individuazione dei membri della Commissione parlamentare per gli acquisti in materia militare. 

La Commissione è composta da 8 membri - senatori provenienti da diverse aree politiche. In Cartagena de India è stato effettuato un incontro con i membri individuati a cui, il gruppo di lavoro di supporto all'operazione costituito, ha evidenziato la qualità dei prodotti e la valenza politica dell'operazione che potrebbe maturare una delocalizzazione delle attività italiane di produzione con annessi benefici in termini di ricaduta occupazionale, in Colombia».

Sul sito del Senato della Colombia non c'è traccia di una commissione monocamerale composta da otto senatori. I due si preoccupano della presenza di un broker che agisce ufficialmente in Colombia per conto di Leonardo: «Effettuate una serie di riunioni con le autorità di Colombia, abbiamo suggerito di procedere con maggiore rapidità con Fincantieri, considerando che Leonardo è già presente in Sudamerica e ha nominato una società colombiana come proprio rappresentante in loco, ma non ha svolto attività di rilievo». Un ostacolo che cercano di aggirare: «Per quanto riguarda Leonardo, consapevoli della criticità derivata dalla presenza di un mandatario in territorio colombiano, si sta lavorando per un incontro conoscitivo teso alla formalizzazione dell'offerta consegnata al ministero della Difesa di Colombia».

La società è la Aviatek dell'imprenditore Luis Zapata, che aveva spuntato nell'aprile del 2021 un contratto di promozione per la vendita di 5 M-346 del 4% (D'Alema e i suoi si erano accordati per il 2), ma con un tetto massimo di dieci milioni di euro, mentre l'ex premier contava di non avere questo limite e parlava di 80 milioni di euro di provvigioni sui 4 miliardi previsti per la vendita. Stando al documento dei broker i due avrebbero assistito alle «concertazioni» che hanno portato alla nomina del «responsabile dell'ufficio approvvigionamenti militari dell'esercito», «una persona con cui collaboriamo stabilmente» 

Una frase che riporta alla conference call tra D'Alema e l'ex comandante dei gruppi paramilitari colombiani delle Auc, Edgar Fierro. Che aveva detto all'ex leader del Pds: «Qui in Colombia stiamo gestendo con un generale della Repubblica che ha il potere di decidere di cosa ha bisogno l'Aeronautica colombiana». E sembrava che potesse agire indipendentemente dal Senato.

Fierro aveva aggiunto: «Il generale è dentro alla nostra squadra. Può aiutarci ad accelerare il processo di acquisto dei prodotti offerti da Leonardo». Probabilmente si riferiva alla nomina citata nel documento dai due broker. E di fronte ai timori di D'Alema per le imminenti elezioni legislative e un possibile cambio di maggioranza e di governo, Fierro lo aveva tranquillizzato: «Il ministro della Difesa se ne andrà tra due o tre mesi, ma ci sono ancora due funzionari che fanno parte della nostra squadra, che possono gestire tutto ciò di cui abbiamo bisogno e tutto ciò per cui ci siamo impegnati con Leonardo».

Il broker Amato si è lamentato con noi di aver versato di tasca propria per la sua attività di promozione, per voli aerei e soggiorni tra la Spagna e Colombia circa 80.000 euro, ma ha negato mazzette. Quando gli abbiamo chiesto di rivelarci il nome del generale s' è chiuso a riccio, spiegandoci che non vuole perdere il contatto: «Il generale è ancora attivo. L'incarico gli è stato affidato recentemente. Non ha commesso illegalità. Ha fatto solo dei piaceri. Se un appuntamento normalmente si ottiene in sei mesi, se interviene il generale me lo danno dopo due settimane. Ma ribadisco, questa non è corruzione, ma un favore. Per questo il suo nome è l'unica cosa che mi piacerebbe rimanesse riservata. Ha cercato solo di agevolare le aziende italiane». 

Sarebbe stato lui a consentire alla squadretta di portare i manager di Fincantieri a un incontro con l'ammiraglio Rafael Callamand a Cartagena dentro ai cantieri di Cotemar il 14 dicembre scorso. Avrebbe facilitato un incontro avvenuto il 27 gennaio al ministero della Difesa di Bogotà per il manager di Leonardo Carlo Bassani e l'avvocato Umberto Bonavita. Ieri Striscia la Notizia ha pubblicato due messaggi inediti di D'Alema con Amato dello scorso novembre. Il broker scrive: «Abbiamo email pronte di Uruguay e Paraguay per Leonardo e Fincantieri.

Che facciamo le mandiamo a Umberto e apriamo la strada pure li ???». D'Alema risponde: «A Umberto. Certamente». 

Poi aggiunge un messaggio già pubblicato dalla Verità: «Tutti gli inviti e le manifestazioni di interesse dovrebbero andare allo studio americano, cioè a Umberto, quando abbiamo le carte in mano negoziamo con le aziende (Leonardo e Fincantieri).

È assolutamente necessario evitare che gli inviti vadano direttamente alle aziende». Uruguay e Paraguay avevano deciso di ammodernare i propri armamenti esattamente come la Colombia e avevano annunciato importanti investimenti. Amato aveva iniziato a sondare il terreno. Ma la pratica era alle battute iniziali. Ecco che cosa ci ha detto il broker: «Ho parlato due volte con D'Alema di questa cosa. Stavo aspettando una comunicazione di Bonavita che non mi ha mai detto niente. Io ho riferito a D'Alema che c'era l'opportunità di aprire delle trattative in Uruguay e Paraguay. Gli ho detto: «Dì a Bonavita che se Fincantieri e Leonardo vogliono aprire anche questo mercato devono presentare le lettere di presentazione. Così dico a Umberto dove mandarle. Risposta: "Gliene parlerò", ma non mi hanno fatto più sapere niente». Al contrario della trattativa colombiana le altre si sarebbero, però, fermate alle battute iniziali.

Da “il Giornale” il 30 marzo 2022.  

Per quelli di Liberi e Uguali, costola sinistra del centrosinistra che ha accolto molti profughi del Pd, la spesa militare attuale dell'Italia basta e avanza: «In una situazione che mette la popolazione a rischio di dover affrontare di nuovo una crisi molto pesante spiegano quelli di Leu -, le risorse devono essere concentrate sulle emergenze economica, sociale ed energetica, non adoperate per le armi». 

La sinistra pensa al popolo, non certo alle armi. Oddio, qualcuno sì. Prendete Massimo D'Alema, ex candidato (non eletto) come senatore di Leu, appunto.

In Colombia, si è dato un gran daffare per piazzare un grosso ordinativo di armi, roba da 80 milioni di euro. La armi in Ucraina non vanno bene, in Colombia invece sì.

Giacomo Amadori per “la Verità”  l'1 aprile 2022.

Massimo D'Alema sta provando a buttarla in caciara e mercoledì ha cercato di distogliere l'attenzione dei media dalla trattativa sugli armamenti da vendere in Colombia, spostandola sulle fonti del nostro scoop. Purtroppo c'è chi gli ha dato corda andando alla ricerca di misteri che non esistono. In principio ci ha provato Piero Sansonetti a Quarta Repubblica, ma mercoledì ci si sono messe pure Le Iene, che, come hanno dimostrato con il caso Valter Tozzi, a volte vanno a caccia di inesistenti spy story. 

E così l'ex premier, in tv, ha approfittato del clima favorevole per alzare cortine fumogene: «Alla base di tutto questo affare c'è un'intercettazione illegale di una conversazione privata. In più è stata tagliata e ricucita, quindi è un'informazione a mio giudizio falsa» ha sentenziato. Nel video, l'inviato Antonino Monteleone commenta: «L'ex premier è fermamente convinto che la sua telefonata sia stata intercettata illegalmente e che non sia stata divulgata per caso».

D'Alema solletica il giornalista: «Questa è un'operazione professionale, parliamoci chiaro, non è una cosa così, da dilettanti di passaggio, diciamo». Anche i broker Emanuele Caruso e Francesco Amato giocano al gatto con il topo con il malcapitato cronista e gli fanno immaginare chissà che. 

Da parte sua D'Alema insiste, diffamando il nostro giornale: «Questa è una cosa che è stata costruita, confezionata, gli altri giornali non l'hanno cagata. L'hanno considerato com'era, diciamo una merda e l'hanno buttata via. Un solo giornale ha pubblicato La Verità perché evidentemente più avvezza alla monnezza diciamo». 

Poi l'ex premier in evidente difficoltà lancia uno sconclusionato attacco al nostro direttore: «Belpietro ha scritto che è stata registrata da uno dei partecipanti era una conversazione tra due persone, non è che c'era una folla di partecipanti. Quindi questa affermazione è palesemente falsa». 

L'ex premier, in versione Jacques Clouseau, esclude che il file audio con la sua voce possa avercelo inviato il suo interlocutore, l'esimio Edgar Fierro, già condannato a 40 anni di galera per i delitti commessi quando era un comandante dei gruppi paramilitari colombiani di estrema destra: «[] C'ha l'indirizzo della Verità? Ma non diciamo sciocchezze Fierro, ma che ne sa, questa è una cosa italica, diciamo, voi fate i giornalisti, non fatevi raccontare favole».

Monteleone obietta poco convinto: «Intercettare una conversazione privata su una piattaforma è molto sofisticata come attività. Non è una cosa che si fa». E D'Alema lo stuzzica: «E appunto, lo so, sarebbe interessante capire proprio perché fatevi delle domande. È il vostro mestiere». 

Dopo aver ascoltato questo sproloquio, perplessi ci domandiamo quali sarebbero i giornali che avendo un tale scoop nel cassetto si sarebbero dati il buco da soli, per poi essere costretti a venire a rimorchio del nostro giornale. Questi cronisti, sempre che esistano, e tendiamo a escluderlo, andrebbero candidati al Pulitzer. quel che non torna Il servizio delle Iene ci costringe, però, a smentire ogni strumentale ricostruzione da parte di chi è in palese difficoltà e cerca di sviare l'attenzione da sé approfittando dell'ingenuità o della complicità di questo o quel giornalista (basti ricordare un paio di interviste anche quelle da Pulitzer).

Partiamo dall'inizio: il 28 febbraio 2022 abbiamo letto con sorpresa sul sito Sassate.it un articolo che svelava il nuovo presunto mestiere dell'ex premier, quello di «facilitatore» di business nel settore militare in America Latina, anche se non veniva esclusa «l'ipotesi di trovarsi di fronte a retroscena da cui potrebbe spuntare il millantato credito». 

A quel punto abbiamo deciso di approfondire la notizia e dopo qualche ricerca abbiamo ottenuto le prime conferme e siamo riusciti ad avere nome e contatto telefonico di Francesco Amato, uno dei due broker che stavano dando assistenza all'ex presidente del Consiglio. Il trentottenne pugliese, dopo un iniziale stupore e una certa diffidenza, ha accettato di raccontarci la sua versione.

Riteneva di essere stato scavalcato nell'affare da D'Alema, dal momento che da alcuni giorni non aveva più notizie della trattativa con Leonardo e Fincantieri. Inoltre aveva avuto una discussione con D'Alema dopo la mancata call con il ministro della Difesa colombiano a cui era stati invitati anche l'ad di Leonardo Alessandro Profumo e il manager di Fincantieri Giuseppe Giordo. 

Con Amato abbiamo sondato anche «l'ipotesi del millantato credito», facendolo accendere come un fiammifero: «[] Non sto parlando dei soldi io devo capire l'umiliazione che ho sofferto e adesso in più che mi stai dicendo (inc) un lavoro di otto mesi fatto da parte mia non di Robert Allen, né del presidente, né della madre che mi pariò Francesco Amato ha fatto un cazzo di lavoro viaggi a spese sue».

A quel punto gli abbiamo domandato quante volte avesse incontrato il presidente e allora Amato ha alzato le cateratte: «Tre volte e ti dico di più c'è una riunione tra il presidente e un'istituzione pubblica colombiana la riunione sta registrata dove il presidente spiega tutto per filo e per segno le partecipate, gli accordi con le partecipate come sarà il modus operandi e tutto quanto quindi che non mi dicano che non c'entra un cazzo perché so io a chi cazzo mando la registrazione». 

Colpiti da questo sfogo improvviso, arrivato dopo quasi un'ora di chiacchierata (tutta registrata), capiamo di essere a un passo da uno scoop e azzardiamo: «Dovresti mandarla a me». Amato tentenna: «Prima vediamo come finiamo io sto parlando perché sto dalla parte della ragione». 

Insistiamo per qualche minuto, spieghiamo che non abbiamo mai creduto al millantato credito e che siamo interessati a questo audio. Lui, capendo di essere preso sul serio, ci offre i dettagli: «(D'Alema, ndr) parlava in italiano, aveva il traduttore e ce l'ho dove spiega 50 per cento a me 50 per cento a te, si muoveranno così, faranno colà, io non voglio fare casini io te lo posso mandare ma non voglio fare casino». Poi, dopo aver scambiato ancora qualche battuta, decide che quell'audio potrebbe servire a una ricostruzione fedele di quanto accaduto: «Mi hanno preso per il culo, io te lo posso mandare l'audio». E dopo poco, via Whatsapp, ce lo invia.

La genesi della registrazione, nella ricostruzione di Amato, è molto lineare. E per questo ci ha spedito gli screenshot dei messaggi di Fierro propedeutici alla conversazione avuta con D'Alema l'11 febbraio. 

I protagonisti del dialogo sono l'ex paramilitare e una presunta «segretaria/interprete» dell'ex leader del Pds che possiede un telefonino con numero spagnolo che ieri ha squillato a vuoto tutto il pomeriggio. Il 10 febbraio, nel primo pomeriggio, Fierro scrive: «Abbiamo inviato i documenti ufficiali della presidenza. Può confermare se sono arrivati? Inoltre, confermo la partecipazione all'incontro previsto per domani e chiedo di informarmi su chi parteciperà. Grazie».

Risposta: «Confermo che il presidente ha ricevuto la mail. Preciso che la teleconferenza avrà luogo solo tra lei e il presidente Massimo D'Alema. Sarò presente solo io per tradurre la conversazione tra il Presidente e vostra Grazia». 

Fierro replica: «Da questa parte saremo presenti io e il signor Francesco Amato, poiché è la persona che, a mio nome, ha svolto tutto il lavoro istituzionale e privato con i miei contatti e che ha mantenuto le interlocuzioni per l'intera operazione, se questo non crea inconvenienti».

Inizialmente sembra che da parte di D'Alema non ci siano obiezioni: «Va bene nessun problema, molte grazie» conclude l'interprete. Che il mattino successivo manda questo nuovo messaggio: «Salve, scusi ho avuto un contrattempo e sarò sostituita da un altro collaboratore del presidente. Il presidente mi ha chiesto se fosse possibile che all'incontro di oggi non ci fosse nessuno presente, solo lei. Grazie».

L'ex comandante ribatte: «Per favore chieda al presidente qual è il motivo per cui il signor Francesco Amato non sarà presente alla riunione, per me è importante che possa partecipare poiché è stato l'interlocutore in tutto ciò che è accaduto durante il procedimento, oltre a godere di grande fiducia e approvazione da parte di tutti». Lo stesso pomeriggio Fierro scrive ad Amato: «Mi stanno già chiamando». Il broker risponde: «Ok. Se del caso mi aggiungi». 

Alla fine del colloquio, durato 65 minuti, l'ex paramilitare pone la domanda cruciale: «Infine, Presidente, vorrei chiederle, con tutto il rispetto, se lei ha avuto un problema con il signor Francesco Amato []». 

L'ex premier svicola: «[] È un simpatico giovane, a volte fa un po' di confusione, come succede alle persone più giovani». Dopo circa un'ora e mezza dall'ultimo messaggio ad Amato e precisamente alle 17 e 12 dell'11 febbraio Fierro invia l'audio del colloquio della durata di 1 ora e 5 minuti all'amico broker, un file Mp3 pesante 94,2 megabyte. Lo stesso che abbiamo ricevuto noi il 28 febbraio. Quindi sembra proprio che a registrare sia stato uno dei tre partecipanti alla videochiamata. Se così fosse, e non abbiamo motivo di dubitarne, ci troveremmo di fronte a un'«intercettazione» perfettamente legale.

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 2 aprile 2022.  

Spunta anche un ex agente speciale della Dea l'agenzia federale antidroga degli Stati Uniti - nell'intreccio di personaggi dell'affare colombiano, quello in cui Massimo D'Alema si dava da fare per la vendita di navi e aerei militari delle partecipate Fincantieri e Leonardo. Per arrivarci però bisogna partire dalle relazioni di un uomo chiave dell'operazione: Umberto Bonavita, l'avvocato dello studio legale Robert Allen Law di Miami, studio segnalato da D'Alema per gestire il business colombiano.

Nei piani dell'ex premier, era proprio da questo studio americano che sarebbero dovuti passare i contratti di Leonardo e Fincantieri e le relative mediazioni dei consulenti, il 2 per cento di un business da 4 miliardi: «Tutti i compensi che Robert Allen riceverà da Fincantieri e Leonardo saranno suddivisi al 50 per cento con la parte colombiana», diceva D'Alema nell'audio registrato a sua insaputa.

Bonavita infatti è stato in prima linea nella gestione dell'operazione colombiana.

E, come già emerso, non è esattamente uno sconosciuto per l'entourage di D'Alema. Anzi, l'avvocato dello studio Allen studio che l'ex premier inizialmente aveva addirittura negato di aver segnalato - è vicinissimo a un altro uomo di fiducia di D'Alema, il commercialista bolognese Gherardo Gardo, che in questo potenziale affare lavorava fianco a fianco con l'ex premier e interloquiva direttamente con un dirigente di Leonardo.

Del resto Gardo e Bonavita si conoscono da tempo, tanto che hanno fondato insieme una società di consulenza con sede a Miami, la Wey Llc che ha il suo domicilio fiscale proprio nello studio Allen. È in questo intreccio e soprattutto nelle relazioni dell'avvocato Bonavita dello studio di Miami che spunta l'ex agente della Dea: è John Costanzo, padre della moglie di Bonavita, Danielle Bonavita. Insomma, il suocero. Costanzo, che sul web viene definito un «agente speciale» dell'agenzia antidroga di Miami, è anche presidente della Ebco International, una «società internazionale di investigazione specializzata nella raccolta di informazioni per le aziende».

Compare anche nel board di un'altra società, la Costa Group International Llc, che ha sede ancora nello studio Allen e di cui risulta agente di riferimento proprio Bonavita. Ma gli affari di Costanzo sembrano allungarsi anche in Italia. 

Sul suo profilo LinkedIn si dichiara anche vice presidente esecutivo dell'italiana Austech srl, società che, secondo la descrizione che ne fa l'agente speciale sul suo profilo, collaborerebbe anche col ministero dell'Interno italiano: «È una joint venture italo-americana con sede a Roma, con rappresentanza a Miami, che fornisce soluzioni di sicurezza a enti pubblici e privati, tra cui il Ministero dell'Interno italiano, le autorità portuali e i servizi di intelligence in Italia e altri nazioni europee».

Sul sito della società, che ha sede nel cuore di Roma, compare tra la squadra manageriale proprio il curriculum di Costanzo: «Agente speciale per la Us Drug enforcement administration, ha culminato la sua carriera alla Dea di Miami, come responsabile della divisione che dirige le attività di 300 agenti speciali e personale di supporto». Secondo un articolo dell'AP del marzo 2020, l'uomo sarebbe anche stato coinvolto in un'indagine interna alla Dea sulla presunta divulgazione di informazioni sensibili ad alcuni avvocati di uomini sospettati di traffico di droga in Colombia. Per questo, in quell'occasione, secondo quanto riportato dall'Ap, gli sarebbe stato perquisito il telefono.

Il Colombia-gate si allarga. D'Alema nel mirino dei pm. Lodovica Bulian l'1 Giugno 2022 su Il Giornale.

Uno degli indagati parla, i pm di Napoli indagano sulle provvigioni per la mediazione.

Sarebbe più ampio di quanto emerso nelle prime battute dell'inchiesta, il faro acceso dalla Procura di Napoli sul Colombia gate. Cioè sull'affare, poi saltato, nel quale Massimo D'Alema - non indagato - si sarebbe adoperato per la vendita di armamenti di Leonardo e Fincantieri al governo di Bogotà. Un business da 4 miliardi di euro, 80 milioni sarebbero stati il prezzo delle mediazioni, almeno stando alle parole dello stesso ex premier, registrato tre mesi fa a sua insaputa mentre parlava con un mediatore colombiano.

Ieri nella sede della polizia postale di Napoli sono iniziate le fasi preliminari dell'incidente probatorio sul sequestro di telefonini e dispositivi disposto a carico dei pugliesi Emanuele Caruso e Francesco Amato, indagati per sostituzione di persona e truffa, e a carico di Giancarlo Mazzotta e suo figlio Paride, non indagati. Erano stati i primi due a fiutare il business colombiano, grazie ai contatti di Amato, e a portarlo all'attenzione di D'Alema per il tramite di Giancarlo Mazzotta, un ex sindaco pugliese che aveva il contatto con l'ex premier.

I pm contestano a Caruso e ad Amato la sostituzione di persona perché al fine di «accreditarsi» più facilmente in ambiti istituzionali avrebbero «attribuito falsamente il patrocinio dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo (organizzazione con sede a Napoli ndr)», all'associazione della Camera mediterranea per l'industria, di cui si qualificavano come «segretario generale e responsabile per l'America Latina».

Ieri nell'ambito dell'avvio dell'incidente probatorio - assente Amato, irreperibile anche alla perquisizione perché all'estero - Caruso, che ha sempre ribadito la correttezza del patrocinio, ha voluto rilasciare dichiarazioni spontanee ai magistrati e ha consegnato loro una memoria. Da un lato la difesa dal presunto falso, dall'altro anche una dettagliata ricostruzione della vicenda, dalla sua genesi fino ai soggetti che ne hanno preso parte, compresi i rapporti di D'Alema con Fincantieri e Leonardo. Dettagli sono stati forniti anche sul ruolo di uno studio legale americano che era stato segnalato da D'Alema.

Insomma, l'indagine - partita da un esposto di Gennaro Migliore e dell'Ambasciatore Sergio Piazzi in qualità di presidente e di segretario generale dell'Assemblea del Mediterraneo sul patrocinio a Caruso - potrebbe essere più ampia delle contestazioni di truffa ai due pugliesi Amato e Caruso.

Particolare attenzione, tra le dichiarazioni di Causo, sarebbe stata prestata dai pm alle percentuali dei contratti di mediazione - mai perfezionati - che D'Alema avrebbe voluto strappare a Leonardo e Fincantieri. Gli 80 milioni di provvigione infatti sarebbero stati il 2% di un business da 4 miliardi. Condizioni «straordinarie», aveva rivendicato lo stesso D'Alema nella telefonata registrata: «Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno un tetto, un cap, in questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale del 2% dell'ammontare del business». L'ex premier, che non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle partecipate, e aveva indicato nello studio legale Robert Allen di Miami il soggetto attraverso cui far passare le mediazioni: «Tutti i compensi che Allen riceverà da Fincantieri e Leonardo saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana». La bozza di contratto che Leonardo era arrivata a scrivere per Allen, seppur mai perfezionata, prevedeva proprio il 2% del business senza tetto. I pm potrebbero volerne saperne di più.

Camilla Conti per “la Verità” l'8 giugno 2022.

Il Colombia-gate potrebbe avere fatto la sua prima vittima dentro Leonardo, dopo che in Fincantieri il dossier aveva causato l'allontanamento dell'ex direttore generale Navi militari Giuseppe Giordo, ma forse anche dell'ad Giuseppe Bono. In una mail inviata lunedì scorso ai dirigenti di Leonardo, l'ad Alessandro Profumo, ha infatti informato i colleghi che «in virtù di una recente richiesta ricevuta dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale relativa a nuove prospettive professionali per Sem Fabrizi, abbiamo condiviso di favorire il suo rientro presso il ministero, concludendo anticipatamente il suo rapporto lavorativo» con il gruppo.

In attesa di nuove comunicazioni organizzative «che seguiranno a breve», l'ad ha poi ringraziato Sem «per il lavoro svolto» e gli ha formulato «i migliori auguri per gli incarichi futuri». Al netto delle liturgie istituzionali, c'è chi ha visto nell'uscita di Fabrizi una sorta di promoveatur ut amoveatur. 

Il motivo? Facciamo un passo indietro. Il capo delle relazioni istituzionali Sem Fabrizi è il diplomatico che nel gennaio scorso sarebbe stato avvertito dall'ambasciatore a Bogotà Gherardo Amaduzzi della strana attività di mediatore di Massimo D'Alema. L'ex ministro degli Esteri il 19 gennaio 2022 contattò Amaduzzi, invitandolo a dare udienza all'«amico» pluri imputato Giancarlo Mazzotta, impegnato nel «rappresentare», apparentemente senza alcun mandato, Leonardo e Fincantieri in un affare da 4 miliardi di euro con 80 milioni di possibili provvigioni.

Ma l'ex rappresentante politico delle feluche italiche non ha bussato solo alla porta di Amaduzzi per portare avanti la sua trattativa parallela per gli armamenti da esportare in Colombia. E ha tentato la via della diplomazia per tagliare fuori come interlocutore dell'affare il governo italiano. Grazie alle dichiarazioni di Amaduzzi, La Verità ha scoperto che l'ex primo ministro introdusse nella sede diplomatica di Bogotà proprio l'imputato Mazzotta, atterrato nella terra dell'Eldorado con l'obiettivo di rappresentare Leonardo e Fincantieri. L'incontro si è svolto il 25 gennaio e subito dopo Amaduzzi, interdetto, ha avvertito Fabrizi. Ma quest' ultimo non avrebbe fiatato con nessuno.

Neppure quando ha pranzato con il sottosegretario Giorgio Mulè, l'ambasciatrice colombiana e i rispettivi staff il 2 febbraio scorso: «Non so che cosa si siano detti l'ambasciatore Amaduzzi e Sem Fabrizi, direttore delle relazioni Internazionali di Leonardo. Di sicuro, quando il 2 febbraio ci troviamo a Roma a una colazione di lavoro con Fabrizi e l'ambasciatrice di Colombia in Italia per pianificare le azioni da intraprendere con il governo colombiano non accenna a nulla», aveva detto Mulè al nostro giornale a fine marzo. «Nessun dirigente di Leonardo mi riferì mai di questa trattativa parallela. Fui io a metà febbraio a chiederne conto al direttore generale di Leonardo dopo il colloquio di D'Alema con l'ambasciatrice colombiana a Roma», ci aveva risposto.

I vertici del colosso della Difesa partecipato dallo Stato, hanno intanto consegnato alla Procura di Napoli - che ha aperto un fascicolo dopo alcuni articoli della Verità - e alla Digos, a cui sono state delegate le indagini, l'audit interno di Leonardo che era stato inviato anche al ministero dell'Economia, socio di maggioranza dell'azienda (una copia sarebbe arrivata anche al ministero della Difesa). 

Le conclusioni sono state già in parte anticipate da questo giornale: all'esito dell'indagine promossa dal presidente Luciano Carta sono stati mossi rilievi all'ufficio commerciale dell'azienda che nell'ottobre dello scorso anno inviò una brochure con prezzario degli aerei da addestramento M-346 a D'Alema, che, però, non aveva nessun titolo per ricevere quel materiale di interesse anche militare.

Ma nel documento sarebbe biasimato anche il comportamento di Fabrizi. Che ora non viene licenziato ma richiamato alla Farnesina, dopo solo un anno in Leonardo, «per nuove prospettive professionali». Meno soft la soluzione individuata in Fincantieri, altra azienda coinvolta nell'affaire colombiano, dove, come detto, Bono non è stato confermato e Giordo è stato licenziato. 

Nel frattempo, nella banca dati della Camera di commercio è stato depositato in questi giorni il bilancio della DL & M Advisor, la srl fondata nel 2019 e controllata al 100% da D'Alema che si occupa soprattutto di consulenza strategica. Ebbene, la società ha archiviato il 2021 con 581.697 euro di utile, quasi il triplo dei profitti registrati nel 2020 (202.333 euro). 

A crescere è stato anche il valore della produzione balzato dai 426.816 euro del 2020 a 1.031.589 euro del 2021. I conti dell'anno scorso sono stati approvati dall'assemblea riunita nel pomeriggio del 30 aprile scorso presso la sede romana della società, in via delle Milizie. Con il presidente e amministratore unico, D'Alema, che ha deciso di destinare a riserva l'intero utile frutto delle consulenze - recita l'oggetto sociale dell'srl - «nell'ambito dei processi di internalizzazione dei mercati africani, asiatici, Far East, Middle East e Balcani per la ricerca e l'attrazione di investimenti di aziende private verso detti mercati». 

DAGO FLASH! l'8 giugno 2022.  - C’ERA UN PAPOCCHIO E SERVIVA UN CAPRONE ESPIATORIO PER IL “COLOMBIA-GATE” E LA TENTATA INTERMEDIAZIONE DI D’ALEMA & FRIENDS PER LA VENDITA AI COLOMBIANI DI FORNITURE DI ARMI. GLI “ADDETTI AI LIVORI” COSÌ LEGGONO IL SILURAMENTO DI SEM FABRIZI DAL RUOLO DI CONSIGLIERE DIPLOMATICO E DIRETTORE DELLE RELAZIONI INTERNAZIONALI DI LEONARDO - FABRIZI, CHE TORNERÀ ALLA FARNESINA, SCONTA UNA RESPONSABILITÀ NON TOTALMENTE SUA. NON ERA FORSE LA DIREZIONE COMMERCIALE A DOVER INFORMARE L’AZIENDA DEL RUOLO DI D’ALEMA?

Striscia la Notizia, "quell'inchiesta su D'Alema...": armi e soldi sporchi, ora è tutto chiaro.  Libero Quotidiano il 10 giugno 2022.

La 34esima stagione di Striscia la Notizia sta volgendo al termine. Sabato 11 giugno andrà in onda l’ultima puntata prima della pausa estiva. È quindi tempo di bilanci per Antonio Ricci: “Dopo le speranze nella scienza sembra che ora prevalga l’inscienza”. Come avviene da oltre 30 anni, il tg satirico di Canale 5 rivendica di aver assolto ancora una volta alla sua missione, ovvero quella di svelare truffe e manipolazioni attraverso inchieste, ma anche satira e parodie.

Giancarlo Scheri, direttore di Canale 5, ci ha tenuto a lodare Striscia e il suo fondatore: “Quando nell’orario di punta della programmazione televisiva, sei giorni su sette, da settembre a giugno, da ben 34 stagioni, un programma diverte e tiene pure sveglie le coscienze si può parlare di record senza timore di sentire. Solo Antonio Ricci può riuscire in un simile intento. Un intellettuale prestato alla tv, dove propone le sue impareggiabili idee da lontano 1979 e Striscia dal 1988. Numeri da capogiro, che regalano all’ammiraglia Mediaset un prodotto unico e ineguagliabile”. 

Tra i tanti servizi e inchieste che hanno fatto scalpore nel corso di questa stagione, l’affaire D’Alema-Colombia è stato particolarmente interessante. Pinuccio si è occupato del tentativo di vendita di armi alla Colombia con D’Alema come presunto intermediario: un affare da 4 miliardi con una commissione di 80 milioni di euro per i mediatori. Striscia ha svelato nel corso dei servizi documenti clamorosi sull’operazione con protagonisti Fincantieri, Leonardo e il governo colombiano, con tramite l’ex premier.

L'affare D'Alema in Parlamento. "Per lui mediazioni senza tetto". Lodovica Bulian l'1 Aprile 2022 su Il Giornale.

Gasparri interroga. Il manager Giordo fatto fuori via Dagospia.

Massimo D'Alema avrebbe strappato nell'affare colombiano, poi saltato, condizioni più vantaggiose di quelle di altri partner commerciali di Leonardo. È quanto emerge da un'interrogazione parlamentare a firma Maurizio Gasparri, che contiene alcuni termini contrattuali di Aviatek, la società con cui Leonardo avrebbe già un contratto per la vendita di aerei M-346 alla Colombia firmato nell'aprile 2021, cioè da prima che l'ex premier si inserisse nel business poi andato in fumo.

Quando D'Alema grazie alle sue conoscenze dirette interessa Leonardo, l'azienda, come avevamo dato conto nei giorni scorsi, aveva - oltre che un canale già aperto a livello istituzionale col ministero della Difesa italiano - anche un contratto di promozione commerciale con la colombiana Aviatek di Zapata. Società che lo stesso D'Alema in chat con gli altri consulenti definiva un «problema che risolveremo». Come fosse un ostacolo da superare. Del resto D'Alema non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare aerei e navi militari per conto delle partecipate dallo Stato, e aveva indicato nello studio legale Robert Allen Law di Miami il soggetto attraverso cui far passare l'operazione e le mediazioni. Nei suoi piani Leonardo e Fincantieri avrebbero dovuto firmare un contratto con Allen, e poi questo ne avrebbe firmato a sua volta uno con i mediatori colombiani: «Tutti i compensi che Allen riceverà da Fincantieri e Leonardo saranno suddivisi al 50% con la parte colombiana». E rassicurava: «Divideremo tutto». In ballo c'erano 80 milioni di euro di mediazioni, il 2% di un business da 4 miliardi. Ed erano condizioni «straordinarie», rivendicava D'Alema nell'audio registrato a sua insaputa: «Normalmente i contratti di promozione commerciale hanno in tetto, un cap, in questo caso no. In questo caso è un contratto commerciale del 2% dell'ammontare del business». E infatti, la bozza di contratto che Leonardo era arrivata a scrivere per Allen, poi non perfezionata, prevedeva proprio quello di cui parlava D'Alema: il 2%, senza tetto. Aviatek invece avrebbe avuto condizioni meno vantaggiose, secondo l'interrogazione di Fi, che parla di un accordo tra Aviatek e Leonardo per la vendita di cinque aerei M-346 con un premio del «4% del venduto e con un cap, un tetto massimo di 10 milioni di euro». Proprio il tetto che invece D'Alema rivendicava non ci sarebbe stato nel contratto per Allen. Non solo. Quello con Aviatek non prevederebbe alcun rimborso spese. Un altro punto che invece stava a cuore a D'Alema: «Noi abbiamo chiesto che i contratti prevedano anche un compenso come rimborso spese. Non abbiamo ancora ottenuto una definizione quantitativa ma farà parte anche questa del contratto o forse si farà un piccolo contratto ulteriore».

Intanto il primo a saltare sull'affare colombiano, senza che nemmeno fosse finito l'audit interno, è stato Giuseppe Giordo, direttore generale Navi Militari di Fincantieri. La società partecipata dallo Stato e quotata in borsa, ha sospeso le deleghe operative al manager - che era in corsa per diventare amministratore delegato - senza una comunicazione ufficiale e dunque senza una comunicazione al mercato. La decisone è trapelata via Dagospia, sito che per primo ha pubblicato l'indiscrezione. E questo nonostante la Divisione militare guidata da Giordo rappresenti il 35% del fatturato del Gruppo. A Giordo è arrivata una lettera di sospensione generica che citava indiscrezioni di stampa. Non c'è stata però un'audizione da parte degli organismi competenti. Una procedura quantomeno anomala per un'azienda strategica quotata in borsa.

Giacomo Amadori e François De Tonquédec per “La Verità” il 4 aprile 2022.

Massimo D'Alema in queste ore sta cercando di convincere i media che la vicenda della trattativa per la vendita di armamenti in Colombia sia il dito, mentre la Luna sarebbe il complotto ordito da chissà quali forze oscure ai suoi danni. In effetti in questa storia qualche passaggio poco chiaro c'è, che però più che da una spy story sembra uscito da un B-movie. 

Per capirlo basta rileggere le dichiarazioni che uno dei due broker, a cui lo stesso ex premier si era affidato per l'affare da 4 miliardi, ci ha rilasciato. 

Stiamo parlando del quarantaduenne salentino Emanuele Caruso, il quale, a suo dire, avrebbe fatto parte di una fantomatica «Difesa avanzata», una sorta di braccio operativo dei nostri 007. Ci aveva detto: «Io provengo dall'ambiente dell'area riservata italiana».

Bum! A quel punto avevamo domandato se fosse alle dipendenze dei nostri servizi e lui ci aveva spiegato: «Non lo sono più perché io per varie vicissitudini, quando Costantino viene posto a riposo, io passo come esterno alla difesa avanzata interna». Quasi uno scioglilingua. Quindi domandiamo: Costantino chi? «L'ex comandante della Brigata Folgore che poi fu vice direttore Aise». 

In realtà Pietro Costantino non è mai stato vicedirettore dell'Aise, il nostro controspionaggio, ma capo reparto per circa 2 anni. Il racconto era proseguito: «Io a un certo punto vengo messo a fare le analisi alla Difesa avanzata questa sorta di lista italiana all'interno, all'Aisi». Altra informazione a cui non abbiamo trovato riscontro.

A questo punto il discorso di Caruso si è fatto un po' più circostanziato: «Io facevo praticamente il collaboratore Aise mediante la struttura Stam (società che si occupa di sicurezza, ndr), con il diploma al Criss (Consortium for research on intelligence and security services) con Elisabetta Trenta (ex ministro della Difesa, ndr), perché Enzo Scotti faceva il sottosegretario agli Interni (in realtà agli Esteri, ndr) e aveva lanciato questo progetto era un progetto pubblico-privato. Vado in Marocco inviato da loro».

Le smentite Ieri Scotti non ci ha risposto, mentre la Trenta è stata netta nell'escludere di aver mai conosciuto Caruso, di cui ha prima visionato un video in Rete. Il broker ha anche affermato di aver avuto problemi a causa della «faccenda con la Sudgestaid, la questione libica, che seguivo personalmente». 

Qui la vicenda si fa ancora più interessante. Sudgestaid è una società consortile italiana, senza scopo di lucro, a controllo pubblico, che si occupa di progetti di sviluppo in Italia e nel mondo. Nel 2012 la Sudgestaid, di cui la Trenta era presidente, ingaggiò per una pericolosa missione in Libia (recupero di missili terra-aria e addestramento di ex miliziani) la Stam di Gianpiero Spinelli, il contractor noto alle cronache per aver arruolato, «legalmente» come ha stabilito una sentenza, Umberto Cupertino e Maurizio Agliana, rapiti in Iraq nel 2004 insieme con Fabrizio Quattrocchi. 

Con noi l'ex paracadutista non si nasconde e ammette di aver conosciuto Caruso. Ma dà alla storia tutt' altro taglio. 

La versione di Spinelli «L'ho conosciuto tanti anni fa, saranno più di 10. Se ha collaborato con me? È una parola grossa l'ho conosciuto perché facevo delle consulenze per un'azienda e mi pare che anche lui facesse la stessa cosa, ma è stata una conoscenza, come dire (ride, ndr) anche perché io non faccio il broker, faccio altro nella vita [] mi occupo di sicurezza a un certo livello». 

E come si chiamava questa azienda? «Sma Spa (Spinelli ce la descrive come un general contractor, ndr), una società pugliese molto grande. Caruso l'ho conosciuto lì, ci saremo visti due o tre volte, come capita all'interno di una grande azienda. Io avevo un'attività di partnership con Sma, non con lui, non so neanche di cosa si occupasse, forse di sinergie».

Non è venuto in Libia con lei? «Sono andato in Libia con un contratto che il ministero degli Affari esteri italiano aveva affidato a un'altra azienda italiana in cui all'epoca c'era anche l'ex ministra Trenta. Le persone che sono venute con me sono la stessa Trenta, un suo collaboratore e due della sicurezza. I nostri sono registrati all'ambasciata di Tripoli. È facile verificare chi ci fosse e lui non c'era. Anche perché in Libia si muore. Lì porto chi deve garantirmi di poter tornare a casa. Noi siamo ex paracadutisti, io ho fatto 5 anni di America Latina, la Libia, sono stato in Israele. 

Figuriamoci se mi porto dietro un broker per fare sicurezza, al massimo posso scortarlo. Di che stiamo parlando?». Caruso ha conosciuto il generale Costantino? «Forse si sono visti in questa azienda, ma escludo che Pietro abbia avuto a che fare con lui. Il generale alla Sma sarà venuto una o due volte, ma non ha mai avuto un contratto». Per Spinelli le dichiarazioni di Caruso sono delle «cazzate»: «Lui non è mai stato un nostro collaboratore in Stam (la società inglese di Spinelli, ndr), non è mai stato in Aise. Mai.

Anche se noi non siamo dell'Aise, per il lavoro che facciamo, di battitori liberi, in quel mondo conosciamo tutti. Non ha mai fatto parte del consorzio Criss, non ha mai fatto parte di Sudgestaid, non è mai stato con noi in nessuna missione, la nostra conoscenza è legata solo a quell'azienda». 

Giochi di spie Ma a margine del Colombia-gate, emerge un'altra piccola piccola spy story che vede coinvolto un familiare di uno dei mediatori, l'avvocato di Miami Umberto Bonavita, dello studio Robert Allen Law, segnalato da D'Alema per la gestione ufficiale dell'affare. La moglie di Bonavita, Danielle, è infatti la figlia di John Costanzo, formalmente agente della Dea, l'antidroga statunitense.

Una carriera lunga a livello internazionale, macchiata due anni fa da un contrattempo giudiziario, mentre era già fuori servizio. Secondo notizie riportate a inizio 2020 dai media statunitensi Costanzo risulterebbe coinvolto in un'inchiesta sulla presunta divulgazione di informazioni sensibili ad alcuni avvocati di sospetti narcos in affari con la Colombia. A mettere nei guai l'italo americano sarebbe stato un suo ex collega anche lui in pensione dal 2018, di cui su Internet viene citato solo il cognome, Recio. A Costanzo sarebbe stato controllato il contenuto del cellulare. 

il curriculum Il suocero di Bonavita risulta aver prestato servizio nel nostro paese per anni, dove ha evidentemente messo radici. Costanzo infatti è socio, attraverso la Ebco di Miami (di cui Bonavita risulta «agent») della Austech Srl, attiva nel settore dei sistemi di sicurezza, con sede a Roma a pochi passi da viale Trastevere. Costanzo non ricopre più cariche societarie da circa un decennio, ma sul sito aziendale nella pagina del «management team» si descrive come un ex «agente speciale» dell'antidroga americana. 

Un ruolo che, però, secondo alcune informative del Ros depositate nell'inchiesta sulla strage di piazza Fontana sarebbe stato una mezza copertura. Nella sentenza/ordinanza del giudice istruttore Guido Salvini, una delle figure coinvolte nell'indagine «risultava in contatto, in Italia, con John Costanzo» definito «agente speciale della Dea americana», ma anche, grazie «a tale copertura», «funzionario della Cia in Italia». 

Secondo un'annotazione del Reparto eversione Ros «le attività investigative avevano effettivamente fatto notare alcune anomalie comportamentali del Costanzo suscettibili di essere sfruttate come copertura per attività di intelligence». I presunti contatti di Bonavita in Colombia sono riconducibili ai contatti del suocero con istituzioni o ex fonti del suocero? Il collega di Caruso, Francesco Amato, lo esclude totalmente: «Bonavita a Bogotá non conosceva nessuno». 

(ANSA il 6 aprile 2022) - "Ci riteniamo insoddisfatti delle risposte che Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo Spa, ha riservato alle domande, chiare e circostanziate, che gli abbiamo posto stamattina durante la sua audizione in commissione Difesa.

Se sul ruolo dello studio legale Robert Allen Law e di Aviatec, sales promoters a vario titolo dell'affare, Profumo ha risposto in maniera scolastica, è sul ruolo di Massimo D'Alema, sul suo raggio di azione e sui relativi limiti, che nessuna risposta è stata fornita ai commissari. Perché si coinvolse l'ex premier nell'affare, avendo già due realtà incaricate di seguire la vicenda?

Come fu individuato lo studio legale di Miami? Domande lecite, che la Lega non pone per una volontà persecutoria, ma perché convinta che il Parlamento sia l'unico luogo deputato a fornire risposte chiare ai cittadini. La Lega vuole la verità, continuerà a cercarla e non si fermerà davvero davanti a chi fa la figura dello smemorato, rendendo un pessimo servizio alla verità ed alla democrazia". Così i senatori della Lega in commissione Difesa a Palazzo Madama dopo l'audizione di Alessandro Profumo sul "caso Colombia" oggi in Senato.

Dal ruolo di D'Alema ai contratti miliardari: i buchi neri di Profumo. Lodovica Bulian il 7 Aprile 2022 su Il Giornale.

L'ad di Leonardo al Senato resta evasivo. "Gli affari in Colombia? Un'opportunità". 

«Sono certo che emergerà la totale correttezza dei nostri comportamenti». L'amministratore delegato di Leonardo Alessandro Profumo parla per la prima volta del caso Colombia. In commissione Difesa al Senato prova a dare conto del perché Massimo D'Alema trattasse la vendita di aerei militari M-346 della società partecipata dallo Stato. Prova, appunto. Perché l'audizione flash lascia aperti quasi tutti gli interrogativi di questa storia. A partire dal perché D'Alema, se non aveva «alcun mandato formale o informale», come ha ammesso lo stesso Profumo, si dava da fare per vendere aerei di Leonardo, oltre che le navi di Fincantieri. Due affari da 4 miliardi, 80 milioni il premio delle mediazioni.

L'ex premier, «in relazione alla sua storia istituzionale ha prospettato a Leonardo le opportunità - ha detto Profumo - ma ha fin da subito ha chiarito che sarebbe rimasto del tutto estraneo alle future eventuali attività di intermediazione nei nostri confronti. E solo sulla base di questa assunzione l'azienda ha avviato le previste attività di verifica delle fattibilità di queste opportunità». Eppure D'Alema, registrato a sua insaputa in una telefonata con un colombiano, mostrava un forte interesse rispetto al possibile premio: «Noi stiamo lavorando perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». E rivendicava di aver ottenuto «condizioni straordinarie» per l'intermediazione, «il 2% del business senza un tetto». Senza cioè una soglia massima che di solito c'è in questo tipo di contratti. Aveva anche indicato il soggetto a cui Leonardo avrebbe dovuto affidare la promozione commerciale, lo studio legale Robert Allen Law di Miami: «Tutti i compensi che Allen riceverà... saranno suddivisi al 50 per cento con la parte colombiana ... divideremo tutto». E in effetti Leonardo era arrivata a un passo da formalizzare quel contratto con Allen, proprio alle condizioni di cui parlava D'Alema, 2% senza tetto. Per Profumo quelle condizioni erano compatibili con il prestigio dell'affare: «Quel mercato per noi rappresentava un'opportunità assolutamente nuova, ha un valore oggettivo che va opportunamente valutato e remunerato».

L'ad spiega anche perché non si è passati dalla società Aviatek, che era già partner di Leonardo per la vendita degli M-346 alla Colombia a condizioni meno vantaggiose rispetto a quelle di Allen, a partire da un tetto massimo di 10 milioni: «Era un'opportunità di un livello» inferiore, dice. Cioè meno aerei da vendere. In ogni caso tutto è stato valutato »dalla direzione commerciale Leonardo senza il coinvolgimento dell'ad», dunque il suo. Profumo prende le distanze dai passaggi operativi della vicenda, ma ammette di aver partecipato alla nota video call che doveva tenersi con D'Alema e con il ministro della Difesa colombiano che poi non si è presentato: «Ero però nel mio ufficio non in quello del presidente». Quanto allo studio Allen, «abbiamo effettuato una valutazione a cui io sono estraneo. È stata avviata un'interlocuzione per verificare tutti gli elementi, ma non siamo arrivati a sottoscrizione contratto». Del resto il caso mediatico era ormai scoppiato. Non solo. Profumo precisa che non c'era un canale istituzionale per l'affare, il cosiddetto «governo-governo». Eppure Leonardo aveva coinvolto da tempo il ministero della Difesa. Per l'azzurro Maurizio Gasparri «le risposte sono state fumose ed evasive, tutte le circostanze rese note in modo incontrovertibile sulla stampa non hanno ricevuto i chiarimenti necessari. I balbettii odierni ci convincono sempre più sulla necessità di andare fino in fondo».

Chiara Rossi per startmag.it il 6 aprile 2022.

Per Leonardo la trattativa con la Colombia non rappresentava un accordo G2G. “La procedura è stata avviata nel 2019, in tempi ampiamente antecedenti queste vicende, ed eravamo ancora nella fase in cui si cerca di capire come trasformare una potenziale opportunità in una realtà”. 

Lo ha detto Alessandro Profumo, amministratore delegato di Leonardo, durante la sua audizione di questa mattina al Senato sull’export dei materiali di difesa. 

In particolare, al centro dell’audizione la posizione di Leonardo riguardo il Colombiagate. Ovvero il caso che vede protagonista l’ex premier Massimo D’Alema in qualità di mediatore nella vendita da 4 miliardi di euro di mezzi militari alla Colombia da parte di Fincantieri e Leonardo, con 80 milioni di euro di possibili provvigioni per i mediatori.

Sulla questione, si attendono i risultati degli audit interni avviati dalle due aziende partecipate dal ministero dell’Economia. Come ha annunciato il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, in Aula alla Camera rispondendo a un’interrogazione Fdi nel corso del question time il 23 marzo. “I risultati saranno oggetto di approfondimento e valutazione dagli organi societari e dalla istituzioni preposte” aveva fatto sapere il ministro.

Intanto oggi, sul caso, la Commissione Difesa del Senato ha ascoltato il numero uno di Leonardo e la prossima settimana sarà ascoltato l’ad di Fincantieri Giuseppe Bono. 

Alla fine, i senatori della Lega hanno diramato una nota in cui si dicono “insoddisfatti” dalle risposte di Profumo. 

Tutti i dettagli sull’audizione dell’ad di Leonardo, Alessandro Profumo, al Senato.

“Lo voglio sottolineare in maniera forte, D’Alema non aveva nessun mandato, formale o informale, a trattare per conto di Leonardo”. Lo ha detto l’ad di Profumo presso la Commissione Difesa del Senato rispondendo a una domanda sulla vicenda riguardante l’intermediazione per la vendita alla Colombia di armi. 

Nel caso specifico, “il presidente D’Alema, anche in relazione alla sua storia istituzionale, ha prospettato a Leonardo che queste opportunità possono essere maggiormente concreti ma fin da subito ha chiarito che sarebbe rimasto del tutto estraneo alle future attività di intermediazione. Sulla base di questa soluzione l’azienda ha avviato le attività di verifica della fattibilità di queste ulteriori opportunità” ha evidenziato l’ad di Leonardo.

“Siamo molto attenti alla compliance di quanto facciamo tant’è che siamo leader globale per trasparenza leader internazionale e globale per la sostenibilità del Dow Jones. Sono certo che anche nel caso del quale si parla in questi giorni verrà vista la totale correttezza dei nostri comportamenti”, ha sottolineato Alessandro Profumo.

Nel caso delle trattative con la Colombia che ha coinvolto l’ex premier Massimo D’Alema, “non siamo arrivati alla richiesta del contratto”, ha rimarcato Profumo. 

Inoltre, il numero uno di Leonardo ha chiarito che “sul tema delle soglie, delle percentuali”, legato alle trattative per le commesse, possono variare anche in base a elementi come le opportunità di entrare nei nuovi mercati. E sarebbe il caso dell’eventuale vendita di ‘caccia leggeri’ M346 in Colombia.

“Si tratta di ‘success fee’ – spiega Profumo – che vengono pagate esclusivamente quando il contratto si è concluso ed è stato erogato il pagamento, quando la società ha incassato”. E “nel caso specifico non è stato sottoscritto alcun contratto quindi non si è verificata la condizione necessaria”.

Infine, “ci tengo a sottolineare che laddove dovessimo riuscire, perché l’ipotesi non è tramontata, ad entrare nel mercato della Colombia, entreremmo per la prima volta nel mercato sudamericano con una versione light attack battendo il competitore coreano, che è il più grosso competitore che noi abbiamo nella versione ligh attack in particolare in America Latina”. 

“Un competitore coreano che ricordo commercializzato da Lockheed Martin, che come noto è un competitore particolarmente forte. Da qua anche l’interesse per noi del mercato colombiano”, ha evidenziato l’ad di Leonardo. 

Dunque “non è tramontata” l’ipotesi di una vendita di aerei M-346 Fighter Attack alla Colombia, versione ‘light combat’ dell’aereo addestratore avanzato M-346 di Leonardo.

“Per noi la strategicità d’ingresso in quel mercato — ha rilevato per ultimo Profumo — sarebbe estremamente rilevante. Vedremo come proseguirà questa potenziale opportunità”.

“Ci riteniamo insoddisfatti” delle risposte di Alessandro Profumo. Così i senatori della Lega in commissione Difesa a Palazzo Madama dopo l’audizione di Alessandro Profumo sul “caso Colombia” oggi in Senato.

“Se sul ruolo dello studio legale Robert Allen Law — proseguono i senatori leghisti — e di Aviatec, sales promoters a vario titolo dell’affare, Profumo ha risposto in maniera scolastica, è sul ruolo di Massimo D’Alema, sul suo raggio di azione e sui relativi limiti, che nessuna risposta è stata fornita ai commissari. Perché si coinvolse l’ex premier nell’affare, avendo già due realtà incaricate di seguire la vicenda? Come fu individuato lo studio legale di Miami? Domande lecite, che la Lega non pone per una volontà persecutoria, ma perché convinta che il Parlamento sia l’unico luogo deputato a fornire risposte chiare ai cittadini”.

Pertanto, concludono i senatori “La Lega vuole la verità, continuerà a cercarla e non si fermerà davvero davanti a chi fa la figura dello smemorato, rendendo un pessimo servizio alla verità ed alla democrazia”.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 6 aprile 2022.

Nella trattativa per la vendita delle armi in Colombia portata avanti dai D'Alema boys gli accordi con Fincantieri erano in uno stadio molto avanzato. A confermarlo non c'è solo il Memorandum of understanding mostrato in esclusiva da questo giornale e firmato il 27 gennaio a Bogotà dal direttore generale della Divisione navi militari Giuseppe Giordo. Infatti esiste un documento inedito ancora più significativo veicolato da Fincantieri tramite l'ex sindaco pugliese Giancarlo Mazzotta, uno dei soggetti vicini all'ex premier più attivo nella vicenda nonostante i tre processi in cui si trova alla sbarra.

Si tratta della road map che avrebbe dovuto portare alla firma del contratto per 1 o 2 fregate e 2 sommergibili entro il 31 marzo. Con la garanzia della copertura finanziaria da parte dello Stato italiano, attraverso la Sace (acronimo di Servizi assicurativi del commercio estero), la società controllata al cento per cento da Cassa depositi e prestiti che garantisce i rischi di insolvenza delle imprese, trasferendoli sui conti del ministero dell'Economia, dove è istituito il Fondo Sace. 

Ma come si è arrivati alla road map? Il 17 novembre il cinquantenne italo-americano Umberto Bonavita, avvocato d'affari segnalato da D'Alema come interlocutore di Fincantieri nella trattativa, invia una prima proposta di Fincantieri di collaborazione come partner strategico con il governo colombiano attraverso una brochure dei cantieri italiani con tanto di listino prezzi. «In allegato troverete una descrizione generale di Fincantieri e dei suoi prodotti, compresi sottomarini e navi» avvertiva Bonavita, il quale evidenziava anche come l'allegato contenesse «opzioni di finanziamento».

E infatti nel depliant si leggeva che Fincantieri può «contribuire a fornire finanziamenti molto competitivi al governo» proprio tramite Sace. Quindi, attraverso uno scambio di mail, viene organizzato un primo incontro con i cantieri navali colombiani Cotecmar per il 14 dicembre, a cui partecipano anche il responsabile per l'America Latina di Fincantieri Stelio Antonio Vaccarezza e il ragioniere di fiducia di D'Alema, Gherardo Gardo, presentato da Bonavita come «un rappresentante di Fincantieri».

Dopo l'incontro con l'ammiraglio Rafael Leonardo Callamand, vicepresidente operazioni e tecnologia di Cotecmar, l'avvocato di Miami scrive un'altra mail significativa: «A seguito della riunione tenutasi il 14 dicembre 2021 a Cartagena e dei successivi sviluppi emersi dopo l'incontro, confermo che un alto dirigente di Fincantieri Spa ha dato la propria disponibilità a partecipare a un incontro a Bogotá il 26 gennaio 2022 presso il Ministero della Difesa (o altra istituzione indicata)».

Quell'alto dirigente è con ogni probabilità Giordo. La mail prosegue, riportando il presunto «punto di vista di Fincantieri»: «Lo scopo dell'incontro sarebbe quello di definire meglio il perimetro del progetto» per il quale l'azienda «ha già presentato una descrizione generale» e anche quello di «fornire ulteriori dettagli e opzioni sulla possibilità di fornire finanziamenti per l'acquisto delle navi militari». E così a Bogotà, a fine gennaio, atterrano Giordo, il direttore commerciale Achille Fulfaro, Vaccarezza e Aurora Buzzo, project e negotiation manager.

I quattro soggiornano all'hotel Sofitel, così come Mazzotta, i figli Paride (consigliere regionale pugliese) ed Hermes, Gardo e Bonavita. Nelle stesse ore a Bogotà c'è anche un rappresentante di Leonardo, Carlo Bassani, il quale, sembra su espressa richiesta di D'Alema, non incrocerà mai i colleghi di Fincantieri.

I rappresentanti del colosso triestino, il 27 gennaio, vengono accompagnati dalla famiglia Mazzotta al gran completo e da Gardo (Bonavita li raggiungerà più tardi, essendo in giro con Bassani) in un circolo della Marina militare a discutere del progetto e alla fine dell'incontro viene stilato un Memorandum of understanding molto frettoloso (per esempio Cotecmar è chiamata Cotemar) firmato da due capitani di fregata, German Monroy Ramirez e Francisco Joya Prieto, incaricati di spiegare agli ospiti italiani la strada da seguire per concludere l'affare. I due ufficiali nel documento sono indicati come delegati della seconda commissione del Senato.

In realtà i due militari, a quanto risulta alla Verità, in quel momento non rappresentavano nessuna istituzione colombiana, ma erano lì come advisor indipendenti e, probabilmente, come possibili consulenti di Fincantieri. 

Ma i D'Alema boys e i manager italiani non devono aver badato a queste sottigliezze, sebbene non sia irrilevante conoscere l'esatto ruolo di chi si ha davanti quando si firma un accordo. 

La sera del Mou, a fine lavoro, Mazzotta, nel ristorante del Sofitel, si concede una foto di gruppo con i broker italiani Emanuele Caruso e Francesco Amato, i due capitani, due ex paramilitari chiacchierati, Edgar Fierro e José Ospino Pacheco, e Jaime Arturo Fonseca, candidato alla presidenza per il partito repubblicano patrioti della Colombia (conservatore, trumpiano e filo-Usa).

A tavola con loro non ci sono i manager di Fincantieri e neppure Bonavita e Gardo, che fanno da ciceroni ai dirigenti italiani. Il giorno dopo, tramite Mazzotta, sarebbe stata inviata da Fincantieri una sorta di road map per la rapida conclusione dell'accordo che in qualche modo tradisce i primi sospetti degli italiani. 

La road map Infatti viene chiesto di interloquire con soggetti con mail istituzionali e si chiede di conoscere la catena decisionale, tutte informazioni da trasmettere «direttamente a Giordo». Viene richiesta una comunicazione di «carattere ufficiale» su «carta intestata, firmata da un referente istituzionale di alto livello» e che «deve fare riferimento all'accordo siglato ieri, 27 gennaio 2022». Il tutto perché «la formalizzazione dell'accordo sarà un ulteriore punto di forza per velocizzare/comprimere i tempi delle procedure (come precisato dal dottor Giordo e dal dottor Fulfaro all'incontro di ieri)».

A questo punto vengono elencati «gli obiettivi realistici per Fincantieri» che lasciano intendere come fosse vicina la conclusione della trattativa: «Chiusura formale della convenzione entro il 31 marzo 2022» e «approvazione finanziamento (inizio maggio)». Nel documento viene specificato che la «reale possibilità di rispettare queste scadenze dipenderà dalle procedure formali e dai tempi richiesti per l'approvazione istituzionale in Colombia (procedure formali in Parlamento)». 

Per questo da Fincantieri chiedono di precisare i passi istituzionali da compiere e i tempi di approvazione, essendo questa informazione molto importante per consentire all'azienda, «che e partecipata al 70% dal governo italiano», di rispettare la «normativa anticorruzione imposta dal governo italiano». Viene anche puntualizzato che sia Fincantieri che Leonardo, per non violare la normativa sulla trasparenza, «devono fornire evidenza dei contatti instaurati» ovvero delle «persone conosciute» e dei «documenti firmati», anche perché la chiusura degli accordi andrà annunciata ai mercati.

A fronte del rispetto di queste condizioni Fincantieri promette di fornire «la lettera di preautorizzazione rilasciata da Sace a favore del governo della Colombia quale soggetto finanziabile (circa 10 giorni)» e di preparare «un'offerta più dettagliata come concordato durante la presentazione (tempo indicativo di 2/3 settimane)». In conclusione «Fincantieri e in grado di rispettare le scadenze del 31/03/2022 (firma del contratto) e l'inizio del finanziamento di maggio 2022 purché il governo colombiano riesca a seguire tutti i tempi dell'iter».

Sembra proprio che la trattativa fosse alle battute finali, almeno a volere credere a questo documento. E in effetti il 3 febbraio la Sace risponde a Fincantieri, esplicitando di «non vedere l'ora di collaborare a questa transazione». Il documento è a doppia firma: Daniela Cataudella, managing director, e Cristina Morelli, a capo della export finance. L'oggetto del documento è proprio la potenziale fornitura di fregate e sottomarini alla Marina colombiana. Le due manager nella loro comunicazione, indicata come «privata e confidenziale», confermano che l'acquirente può «finanziare parzialmente la fornitura tramite un credito all'esportazione coperto da Sace, con il ministero delle Finanze colombiano che agisce come mutuario o garante dell'operazione».

Giacomo Amadori e Fabio Amendolara per la Verità il 10 aprile 2022.

Uno dei broker della trattativa per la vendita di armamenti alla Colombia, avvenuta con la supervisione di Massimo D'Alema, coinvolge ora altri due ex ministri nei suoi racconti di business legati alla sicurezza. Per la precisione, Emanuele Caruso fa i nomi di Elisabetta Trenta e Vincenzo Scotti. E anche in questo caso mostra documenti interessanti. 

Questa volta, però, lo scenario non è quello sudamericano, bensì quello frantumato dell'Africa post Gheddafi. Occorre fare prima un rapido riassunto delle puntate precedenti: con noi Caruso aveva detto di aver fatto «il collaboratore Aise mediante la struttura Stam» ovvero la società di sicurezza di Gianpiero Spinelli, ex paracadutista della Folgore ed esperto di aree di crisi. 

Aveva aggiunto di aver collaborato col Criss (Consortium for research on intelligence and security un consorzio con sede alla Link university di cui facevano parte una ventina di aziende tra cui la Stam e la Sudgestaid (altra creatura della galassia Link), tutte impegnate nel settore della sicurezza e dell'informatica. All'epoca il Criss era presieduto dalla Trenta e aveva avviato un progetto in Libia, con fondi del governo, quando il presidente della Link university Vincenzo Scotti era sottosegretario agli Esteri. 

Caruso ci aveva assicurato anche di essere stato coinvolto nell'operazione libica del Criss e che Spinelli gli avrebbe fatto incontrare l'ex comandante della Folgore e dirigente dell'Aise, il generale Piero Costantino.

Spinelli e la Trenta hanno inizialmente smentito interamente questa ricostruzione. In particolare la partecipazione di Caruso alla missione libica. Allora il broker e il suo avvocato Raffaele Lorenzo ci hanno messo a disposizione delle mail che sembrano smentire, almeno in parte, le smentite e che offrono un quadro molto simile a quello colombiano. In pratica già dieci anni fa il giovane Caruso avrebbe proposto collaborazioni in ambito militare con governi stranieri e in particolare con quelli del Mali e del Senegal alla Stam di Spinelli e alla Sudgestaid di cui la Trenta è stata quadro come programme manager dal 1998 al 2019 e responsabile delle attività di sviluppo. Il progetto affidato alla Stam inizialmente riguardava la ricerca di 20.000 missili terra-aria spariti dagli arsenali di Gheddafi, ma dopo alcune polemiche l'attività di Spinelli & C. era stata circoscritta alla formazione di alcuni miliziani. 

La Trenta lo citava nel suo curriculum, facendo riferimento a un programma «per la riduzione degli armamenti illegali in un quadro di consenso, cooperazione e sviluppo» da svolgere in Libia e finanziato con 523.450 euro dal ministero degli Affari esteri. Ma nello stesso cv specificava che l'operazione era «sospesa». Nel dettaglio veniva spiegato che si trattava del «reintegro di ex combattenti come agenti di sicurezza per le aree archeologiche di Cirene, Sabratha e Lepis Magna».

Per quell'iniziativa la Trenta e Spinelli volarono in Libia con i loro più stretti collaboratori. Nel settembre del 2011 l'ex militare mette a disposizione di Caruso, che si qualifica come project manager Africa della Stam, un indirizzo di posta elettronica: «Ti ringrazio per la tua disponibilità. Ho registrato una mail aziendale su Stam per te in modo che se comunichi con noi o con un cliente puoi tranquillamente usarla». Poi gli domanda che cosa gli serva per il Marocco. Quindi elenca ciò di cui ha bisogno per lavorare in Senegal e negli altri Paesi con cui si aspettava di «chiudere progetti» grazie a Caruso: licenza di porto d'armi, riconoscimento come advisor e consigliere militare e della sicurezza da parte del governo, accompagnamento da parte di un alto ufficiale. 

Spinelli è molto fiducioso: «Inoltre sarebbe opportuno aprire una filiale di Stam in Senegal o nei Paesi che tu riterrai opportuno». Un po' come D'Alema con la Colombia, anche Spinelli, grazie a Caruso, è convinto di riuscire ad aprire canali con alcuni governi africani sul tema della sicurezza. 

spunta la trenta Nel dicembre del 2011 l'ex paracadutista riferisce al broker che il Mali temeva che Al Qaeda potesse appropriarsi dei missili spariti in Libia e far cadere il governo. Per questo gli riferisce, evidentemente contando su presunti contatti di alto livello del broker, che «l'esercito del Mali è stato messo in massima all'allerta» e offre la sua mercanzia: «Potremmo proporre loro addestramento, mentoring e soluzioni tecnologiche per il controllo dei confini. 

Dobbiamo fare una proposta al governo al più presto» ribadisce.

Il 31 marzo 2012, in una mail, viene citata direttamente la Trenta: «Ciao Emanuele» esordisce Spinelli, «riguardo all'interesse del consorzio e in particolar modo a noi e Sudgestaid, come ben sai, non ci sono problemi. 

Sviluppiamo un piano industriale chiaro con delle finalità ben definite da condividere anche con i senegalesi e i maliani, capendo chiaramente quali sono le necessità e su dove operare. [] essendo oggi il consorzio molto impegnato sarebbe importante organizzare il tutto con Elisabetta Trenta (presidente del consorzio) che ti legge in copia». L'ex ministro ha presieduto il Criss dal novembre 2011 al giugno 2013; poi è rimasta nel board fino al gennaio 2016. 

Caruso ci ha spiegato di aver interrotto lui i rapporti con Spinelli per «l'inconcludenza» dell'ex militare che, a suo dire, «non aveva i mezzi per presenziare alle riunioni che venivano fissate in territorio estero». Il broker ha anche specificato di aver incontrato personalmente la Trenta, nonostante le smentite della donna: «Spinelli mi presentò l'ex ministro con cui strutturammo, presso il Link campus di Roma, un percorso con il Criss che lei stessa presiedeva». Quindi evidenzia come, nelle mail che ci ha inviato, «si acclari il supporto tanto del Criss che di Sudgest» alla sua persona.

I missili volatilizzati Non è finita. Ribadisce di essere stato coinvolto anche nel progetto finanziato dal governo per la ricerca dei missili, di cui Spinelli fa cenno con riferimento alla situazione maliana: «In merito alla questione delle operazioni riservate della Libia riferite ai missili trasportabili trafugati, fui interessato personalmente dallo stesso Spinelli e in differenti occasioni e con svariati testimoni, fu speso il nome di uno stimatissimo generale, dirigente Aise, e mi furono date tutte le rassicurazioni che si operasse legalmente e in supporto agli apparati di intelligence. In altre occasioni, con Spinelli abbiamo incontrato personale di apparati di sicurezza provenienti dall'estero per varie collaborazioni nell'ambito della formazione e della sicurezza».

Parla il contractor Spinelli, che la settimana scorsa aveva ammesso solo di aver incontrato un paio di volte Caruso presso la Sma Spa di cui era consulente, offre le sue spiegazioni: «Ho detto il vero. Infatti Caruso non è mai stato un mio collaboratore retribuito. Lo sfido a portare ricevute di pagamenti o contratti di qualsiasi tipo. Non ho rimborsato trasferte, richiesto visti o intestato a lui assicurazioni del rischio. Mi fece delle proposte, così come fanno altre centinaia di persone in Italia e all'estero, e gli diedi un indirizzo mail perché i governi non possono rispondere a mail di piattaforme come Google e Yahoo. 

Anche io le cestino. Non è mai venuto con me da nessuna parte, in particolare in Libia, né io sono mai stato in vita mia in Mali, Senegal e Marocco. Le sue proposte non hanno portato a nulla e dopo pochi mesi ho chiuso ogni rapporto con lui». Facciamo a Spinelli le ultime domande.

Caruso incontrò la Trenta insieme con lei? «Forse a Roma, in un paio di riunioni al Criss, un consorzio che doveva servire a fare business e dove le persone si proponevano per questo, ma anche in quel caso non abbiamo realizzato insieme nulla di concreto». Presentò a Caruso agenti dei servizi segreti? «Non penso proprio. Lui agiva per i fatti suoi come broker». 

È che gli accordi non si conclusero perché lei non aveva fondi per andare in Africa? «La mia è una piccola azienda che non butta via denaro se non per qualcosa di concreto. Non spendo soldi per viaggi se non ho documenti che attestino un interesse reale della controparte. Altrimenti sono vacanze inutili. Non capisco perché Caruso abbia bisogno di menzionare esperienze passate per accreditarsi. Esperienze che non hanno portato a niente anche se io sarei stato contentissimo di chiudere affari in quei Paesi. Gli è andata male anche con la Colombia, ma non mi deve tirare in mezzo, visto che in quella vicenda non c'entro nulla. A essere sincero un po' capisco la sua frustrazione perché chiudere certi tipi di affari è difficilissimo e su 100 proposte ne può andare bene una».

(Adnkronos il 13 aprile 2022) - "Ora mi rimproverano che sto là da troppo tempo...". A dirlo è l'amministratore delegato di Fincantieri, Giuseppe Bono, nel corso di un'audizione in Senato. Una battuta a cui  si lascia andare parlando in particolare dello sviluppo registrato dalla crocieristica arrivata, nel corso degli anni, a una posizione di  leadership sui mercati internazionali: "quando sono arrivato  Fincantieri aveva un solo cliente, ora ha clienti in tutto il mondo",  sottolinea Bono arrivato al timone del gruppo nel 2002. Fincantieri è una delle aziende più importanti e strategiche interessata dalla  tornata di rinnovi dei consigli di amministrazione. 

Sulla decisione di sospendere Giuseppe Giordo, direttore generale della divisione navi militari di Fincantieri, "sono state seguite tutte le prassi aziendali" e "un  audit è ancora in corso", rispondendo a una domanda sulla vicenda delle armi alla Colombia. "Gli avevo chiesto, anche a tutela sua e  dell'azienda, una sospensione che non è avvenuta. Sono quindi state  seguite tutte le prassi aziendali informando il presidente, il comitato di controllo e rischi e lo stesso cda stesso. Qui, siamo nell'ambito dei comportamenti e noi abbiamo nella nostra azienda un  codice etico".

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 13 aprile 2022.

In audizione in Senato sul caso D'Alema-Colombia, l'ad di Fincantieri Giuseppe Bono scarica tutti. Nega di essere stato a conoscenza di quanto facesse il direttore della divisone militare, Giuseppe Giordo - già sospeso dalle deleghe- e parla del canale aperto dall'ex premier con la Colombia come di «millanterie».Ma molte incognite restano, a partire dal perché sia davvero saltato l'affare: «Non è andato avanti perché è stato bloccato tutto e perché è esploso il caso», ha detto. 

Facciamo però un passo indietro.

Prima della fuga di notizie, Massimo D'Alema si stava dando da fare per la vendita di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo alla Colombia. Un affare da 80 milioni di euro di premio per la mediazione. D'Alema però non aveva alcun mandato ufficiale, per questo nei suoi piani i contratti sarebbero dovuti passare attraverso lo studio legale Robert Allen Law di Miami, specializzato nella compravendita non di armamenti ma di yacht. 

A questo studio Fincantieri - così come Leonardo - avrebbe dovuto fare un contratto di promozione commerciale al 2% del business. E le cose stavano andando avanti tanto che Giordo il 27 gennaio era addirittura volato a Bogotà per una presentazione organizzata dal team che lavorava con D'Alema, e dove ha firmato anche un memorandum of understanding.  

«Io fino al giorno prima della partenza per la Colombia non sapevo niente - ha detto - hanno pensato che la potessero gestire da soli». Bono ammette di aver saputo in quel momento della presenza di D'Alema nell'affare: «A me è stato detto che andavano in Colombia per incontrare il ministro della Difesa, e che il contatto lo aveva procurato D'Alema attraverso i suoi precedenti contatti politici istituzionali. È stato ministro degli Esteri, è stato premier, niente di strano voglio dire, tutto aiuta». 

E aggiunge: «Se volete che esprima la mia opinione, era una cosa più millantata da parte di questi signori, e non è la prima volta che qualcuno ci casca». Questi «signori» sarebbero i consulenti di cui si avvaleva D'Alema. E il suo dirigente ci sarebbe «cascato».

Bono dunque sapeva dell'ex premier, ma fa intendere di non essere stato messo al corrente di tutto, altrimenti, «se me l'avessero detto, per l'esperienza delle persone che a volte si propongono di fare cose che sono più millantate che altro...». 

Quanto allo studio Allen l'ad spiega che è stata la compliance (la struttura che verifica la conformità dei contratti alle regole) di Fincantieri a fermare il contratto: «Dalla divisione militare (Giordo ndr) volevano far dare un mandato a questo studio Allen, ma la piattaforma dove vengono indicate le aziende e le società che hanno reputazione e credibilità sul mercato per lo studio Allen non ha dato informazioni. Si sono fermati senza che io intervenissi perché questa era la procedura». 

Insomma lo studio di Miami segnalato da D'Alema non aveva le referenze adeguate. Una consapevolezza che però, da quanto risulta al Giornale, sarebbe emersa già prima della partenza di Giordo per la Colombia. 

Eppure le cose sono andate avanti fino a quando non è scoppiato il caso sui giornali.

Quanto al memorandum firmato da Giordo a Bogotà, Bono spiega: «Quando ho saputo dai giornali che era stato firmato e ho visto che per i colombiani c'erano le firme di due capitani di fregata ho detto vabbè che siamo... ma almeno, dico, il capo della Marina. 

Insomma e che ca***. Allora ho bloccato subito tutto: basta non si va più avanti». Affermazioni che lasciano aperti interrogativi.

Qual è il vero motivo per cui è saltato l'affare? La presenza di D'Alema, - di cui Bono ha ammesso di esserne stato al corrente -, le presunte millanterie, o il caso mediatico?

Giacomo Amadori per “La Verità” il 13 aprile 2022.

Nella vicenda degli armamenti da vendere alla Colombia, Leonardo, che stava provando a piazzare più di 20 caccia M-346 all'aeronautica militare di Bogotà, avrebbe provato a tirare per la divisa anche il generale Luciano Portolano, segretario generale della Difesa e direttore nazionale degli armamenti, cioè il responsabile della politiche per la commercializzazione di materiali militari. 

Lo ha riferito lo stesso alto ufficiale durante l'audizione di ieri di fronte alla commissione Difesa del Senato: «Leonardo ha appreso dell'interesse della autorità colombiane per una piattaforma in grado di sostituire vecchi velivoli A37 in dotazione all'aeronautica colombiana e ha chiesto il supporto istituzionale del Segretariato in due occasioni».

Quindi, l'azienda, da una parte riforniva di brochure Massimo D'Alema e il suo «gruppo di lavoro», fatto di soggetti senza incarichi ufficiali e di ex paramilitari colombiani, dall'altra cercava una sponda ufficiale al ministero. Ma i due canali, scopriamo ora, procedevano parallelamente.

Portolano ha svelato: «In un primo momento, a seguito di una specifica richiesta da parte di Leonardo, e mi riferisco al periodo 22-26 novembre del 2021, una delegazione colombiana guidata dal generale Sanchez, capo della commissione selezionatrice per il Light combat aircraft, ha visitato il 61° stormo dell'aeronautica militare e le strutture della scuola di volo International flight training school di Galatina conducendo attività dimostrative con simulatori di volo e volo reale su velivolo m346 di Leonardo».

Insomma l'Aeronautica sarebbe stata utilizzata per mettere in vetrina i caccia sulla cui vendita D'Alema contava di portare a casa decine di milioni di provvigioni. Ma le nostre fonti aggiungono particolari molto interessanti su quella trasferta: a Galatina il generale colombiano sarebbe stato accompagnato da Giovanni Basile, direttore della joint-venture Leonardo-Cae (Canadian aviation electronics) che si occupa della formazione dei piloti di jet. 

Ma insieme con Basile, dentro all'aeroporto militare, ci rivelano le nostre fonti, sarebbero entrati anche il plurimputato Giancarlo Mazzotta e il discusso broker Emanuele Caruso, i collaboratori pugliesi di D'Alema in questo affare. A che titolo, se la notizia sarà confermata, abbiano potuto prendere parte a una visita ufficiale di una delegazione militare straniera non è chiaro, anche perché nell'area l'ingresso dei civili è severamente controllato.

Comunque è la seconda richiesta di aiuto che Portolano ha giudicato irricevibile: «Successivamente, e siamo al 20 dicembre 2021, Leonardo ha chiesto al Segretariato di valutare l'opportunità di organizzare una visita urgente in Colombia ad alto livello in considerazione che la decisione finale da parte dell'autorità colombiana per la scelta della piattaforma del programma Light combat aircraft sarebbe avvenuta entro la fine di febbraio 2022». 

Anche se Leonardo sperava di concludere l'accordo con le forze armate colombiane in tempi molto rapidi, addirittura entro due mesi, Portolano scelse di non intromettersi, forse sentendo puzza di bruciato: «Al riguardo, il Segretariato ha ritenuto opportuno di non dare seguito a tale richiesta nella consapevolezza che ogni azione intrapresa nell'imminenza della scelta da parte delle autorità colombiane avrebbe potuto interferire con il delicato processo di selezione in corso». Una valutazione che sarebbe stata presa dopo alcune interlocuzioni con l'addetto militare italiano in Colombia.

Quindi Leonardo, oltre ad aver ingaggiato in modo non ufficiale l'ex ministro degli Esteri, contemporaneamente ha prima cercato di coinvolgere Portolano e successivamente il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè. Canali attivati separatamente e senza informare il governo del ruolo di D'Alema, di cui Mulè è venuto solo casualmente a conoscenza.

Situazione altrettanto pasticciata quella descritta dall'amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono, il quale ha dovuto rispondere a domande riguardanti la Colombia e la trattativa, sponsorizzata dallo stesso D'Alema, per la vendita di due fregate e due sommergibili.

L'ad ha sostenuto di essere stato informato del ruolo dell'ex premier poco prima della partenza per Bogotà dei suoi manager, i quali sono andati a fine gennaio a firmare un memorandum of understanding a sua insaputa («L'ho appreso dalla Verità» ha detto), documento che, tra l'altro, non erano autorizzati a siglare: «Mi è stato detto che andavano in Colombia per incontrare il ministro della Difesa e mi hanno riferito che il contatto lo aveva procurato D'Alema attraverso i suoi precedenti contatti politici istituzionali è stato ministro degli Esteri è stato presidente del Consiglio, voglio dire niente di strano tutto aiuta nel Paese». 

Quindi una spintarella dell'ex leader del Pds non era sgradita. Anche se il giudizio sulla sua squadretta non è dei più lusinghieri: «Se volete che esprima una mia opinione era più un millantare da parte di questi signori». In realtà nessun ministro dello Stato sudamericano ha firmato il Mou e questo Bono l'ha considerato anomalo: «Ho visto le firme e per i colombiani ho visto due capitani di fregata. Vabbe' che siamo un Paese però almeno il Capo della Marina, allora ho bloccato subito tutto. Basta, non si va più avanti».

Nella sua audizione Bono ha fatto riferimento solo al viaggio a Bogotà e non a quello del mese precedente dei suoi uomini a Cartagena, di cui il direttore generale della divisione Navi militari Giuseppe Giordo sostiene di averlo informato, facendo anche il nome di D'Alema. 

Bono non ha fatto cenno nemmeno al pranzo del 21 dicembre con l'ex primo ministro e con il lobbista Luigi Bisignani, occasione in cui il politico lo avrebbe informato personalmente di «attività in Sud America». 

Ma a far insospettire Fincantieri sarebbe stato anche il mancato completamento della due diligence sullo studio «segnalato» da D'Alema per l'attività di promozione, il Robert Allen law. Infatti gli addetti ai controlli avrebbero consultato «una piattaforma dove in campo internazionale vengono indicate le aziende, le società che hanno una reputazione che hanno una capacità di essere credibili sul mercato». Ma lo studio non avrebbe dato notizie di sé: «Non abbiamo avuto da parte dello studio Robert Allen nessuna informazione. Quindi da quel momento lì abbiamo detto "niente"».

Quanto ai pregressi rapporti di Fincantieri con D'Alema in Libano, Bono ha scaricato la colpa sul governo giallo-verde, che nel 2019, attraverso l'ambasciata e l'allora sottosegretario leghista Raffaele Volpi, avrebbe «sollecitato» l'azienda a cogliere un'occasione commerciale nel Paese dei cedri. Ha spiegato l'ad: «Allora per tutelarci, non sapevamo nemmeno la legislazione del Paese, le bande, le cose, abbiamo fatto questo contratto con una delle principali aziende del mondo, non con pizza e fichi». Ovvero con Ernst&Young, società che gli avrebbe fatto trovare a Beirut D'Alema. Con noi da Fincantieri confermano: «Noi siamo andati in Libano su sollecitazione del governo in modo ufficiale e il nostro rappresentante incontrò l'ambasciatore e altre istituzioni locali. Ci siamo resi conto che seguire un programma in Libano da soli era di fatto impossibile.

Per questo ci siamo affidati a una primaria società di consulenza che ha una sede lì come E&Y. Che D'Alema conoscesse bene il Libano e fosse consulente di E&Y non è un mistero, né c'è nulla di male. Bono è stato sollecitato a esplorare opportunità in Libano dal governo e non da D'Alema».

Lodovica Bulian per “il Giornale” il 14 aprile 2022.

«Come Parlamento abbiamo svolto un'azione di supplenza, visto che finora non c'è stata alcuna volontà rispondere alle richieste di chiarimenti da parte della stampa. Abbiamo rotto un muro di silenzio. 

Eventuali iniziative giudiziarie le valuterà la magistratura, non è compito nostro, ma volevamo capire come questa vicenda "colombiana-dalemiana" si sia insinuata nelle pieghe di due aziende partecipate dallo Stato che trattano questioni delicatissime come navi e aerei militari», spiega Maurizio Gasparri, l'azzurro che ha chiesto e ottenuto che la commissione Difesa del Senato accendesse un faro sulle procedure di import-export di armi e anche sul coinvolgimento di Massimo D'Alema in una potenziale vendita di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo in Colombia.

Cosa è emerso dalle audizioni sul ruolo avuto dall'ex premier nel caso della Colombia?

«Si sono rafforzati i nostri dubbi sulla trasparenza e sulla qualità di questo ruolo, si è avuta la certezza della capacità di D'Alema di insinuarsi nelle aziende pubbliche, forte della sua storia, del suo percorso, dei suoi rapporti di consuetudine che evidentemente aveva». 

D'Alema si è difeso rivendicando di non essere più un politico ma un privato cittadino, ha solo ammesso di aver forse peccato di leggerezza.

«Dalle audizioni è emerso che D'Alema, come altri, utilizza i ruoli che ha avuto per questa sua attività. Nulla di illegale. Si avvaleva però anche di personaggi inadeguati. E che ci sia stata una consuetudine di D'Alema con queste società è un dato di fatto. 

È vietato? No, ma proprio per i suoi trascorsi quando in questa storia in ambiti internazionali qualcuno lo sentiva parlare di Fincantieri e di Leonardo, può essere stato indotto a pensare che per i ruoli politici e istituzionali che ha avuto avesse anche un mandato ufficiale che in realtà non ha mai avuto».

Le partecipate però hanno interloquito direttamente con D'Alema nella vicenda, come confermato in audizione dagli ad di Leonardo e Fincantieri.

«Sì, e per quanto riguarda l'ad di Leonardo, Profumo, le sue risposte sono state insoddisfacenti. Ha ammesso di aver avuto a che fare con questa improvvida iniziativa facente capo a D'Alema, ed è emerso che in Leonardo ha prevalso il rapporto consuetudinario di conoscenza con D'Alema su un'attenta verifica di cosa stesse succedendo.

Evidentemente Profumo riteneva l'ex premier autorevole e affidabile. Del resto può darsi che lo stesso D'Alema a sua volta si sia affidato a personaggi che si sono rivelati improvvisati. Comunque è chiara un'inadeguatezza di Profumo a svolgere il ruolo che continua a ricoprire, credo che dovrebbe trarne le conseguenze».

Anche Fincantieri era andata molto avanti nell'interlocuzione con l'ex premier.

«Sì, ma l'ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, è stato molto più cauto, ha avviato delle verifiche interne e ha preso provvedimenti per la condotta dei suoi dirigenti.

In ogni caso c'è materia per riflettere e andremo avanti, come parlamentari vigileremo affinché vi sia trasparenza.

Chiederò che si prosegua con i lavori della commissione sentendo le autorità di governo, anche il ministro della Difesa, visto che il sottosegretario Giorgio Mulé che per primo aveva rilevato anomalie nelle procedure, e che ne aveva chiesto conto a Leonardo, non ha ancora ottenuto spiegazioni dall'azienda partecipata dallo Stato. E questo mi sembra molto grave». 

"Troppi dubbi sul ruolo di D'Alema. Si è insinuato in aziende statali". Lodovica Bulian il 14 Aprile 2022 su Il Giornale.

Il senatore di Fi ha ottenuto che il "caso Colombia" arrivasse in Aula.

«Come Parlamento abbiamo svolto un'azione di supplenza, visto che finora non c'è stata alcuna volontà rispondere alle richieste di chiarimenti da parte della stampa. Abbiamo rotto un muro di silenzio. Eventuali iniziative giudiziarie le valuterà la magistratura, non è compito nostro, ma volevamo capire come questa vicenda colombiana-dalemiana si sia insinuata nelle pieghe di due aziende partecipate dallo Stato che trattano questioni delicatissime come navi e aerei militari», spiega Maurizio Gasparri, l'azzurro che ha chiesto e ottenuto che la commissione Difesa del Senato accendesse un faro sulle procedure di import-export di armi e anche sul coinvolgimento di Massimo D'Alema in una potenziale vendita di navi e aerei militari di Fincantieri e Leonardo in Colombia.

Cosa è emerso dalle audizioni sul ruolo avuto dall'ex premier nel caso della Colombia?

«Si sono rafforzati i nostri dubbi sulla trasparenza e sulla qualità di questo ruolo, si è avuta la certezza della capacità di D'Alema di insinuarsi nelle aziende pubbliche, forte della sua storia, del suo percorso, dei suoi rapporti di consuetudine che evidentemente aveva».

D'Alema si è difeso rivendicando di non essere più un politico ma un privato cittadino, ha solo ammesso di aver forse peccato di leggerezza.

«Dalle audizioni è emerso che D'Alema, come altri, utilizza i ruoli che ha avuto per questa sua attività. Nulla di illegale. Si avvaleva però anche di personaggi inadeguati. E che ci sia stata una consuetudine di D'Alema con queste società è un dato di fatto. È vietato? No, ma proprio per i suoi trascorsi quando in questa storia in ambiti internazionali qualcuno lo sentiva parlare di Fincantieri e di Leonardo, può essere stato indotto a pensare che per i ruoli politici e istituzionali che ha avuto avesse anche un mandato ufficiale che in realtà non ha mai avuto».

Le partecipate però hanno interloquito direttamente con D'Alema nella vicenda, come confermato in audizione dagli ad di Leonardo e Fincantieri.

«Sì, e per quanto riguarda l'ad di Leonardo, Profumo, le sue risposte sono state insoddisfacenti. Ha ammesso di aver avuto a che fare con questa improvvida iniziativa facente capo a D'Alema, ed è emerso che in Leonardo ha prevalso il rapporto consuetudinario di conoscenza con D'Alema su un'attenta verifica di cosa stesse succedendo. Evidentemente Profumo riteneva l'ex premier autorevole e affidabile. Del resto può darsi che lo stesso D'Alema a sua volta si sia affidato a personaggi che si sono rivelati improvvisati. Comunque è chiara un'inadeguatezza di Profumo a svolgere il ruolo che continua a ricoprire, credo che dovrebbe trarne le conseguenze».

Anche Fincantieri era andata molto avanti nell'interlocuzione con l'ex premier.

«Sì, ma l'ad di Fincantieri, Giuseppe Bono, è stato molto più cauto, ha avviato delle verifiche interne e ha preso provvedimenti per la condotta dei suoi dirigenti. In ogni caso c'è materia per riflettere e andremo avanti, come parlamentari vigileremo affinché vi sia trasparenza. Chiederò che si prosegua con i lavori della commissione sentendo le autorità di governo, anche il ministro della Difesa, visto che il sottosegretario Giorgio Mulé che per primo aveva rilevato anomalie nelle procedure, e che ne aveva chiesto conto a Leonardo, non ha ancora ottenuto spiegazioni dall'azienda partecipata dallo Stato. E questo mi sembra molto grave».

Da D'Alema a Minniti, quanto è bello per il Pd fare la guerra: il mix tra ideologia e denaro. Gianluca Mazzini su Libero Quotidiano il 19 aprile 2022.

Se si dovesse pensare a un remake del celebre film del 1974 Finché c'è guerra c'è speranza, il casting per gli attori potrebbe essere tenuto all'interno del Pd. Il ruolo dell'attore protagonista, al posto di Alberto Sordi (nelle vesti di un mercante d'armi senza scrupoli per soddisfare le pressanti richieste di denaro di una famiglia ipocrita) potrebbe essere affidato a un dirigente del Pd. La vocazione guerresca del partito erede del Pci è un dato di fatto ma le guerre sostenute non sono per la liberazione del proletariato ma per la Nato. Un'evoluzione iniziata fin dai tempi "miglioristi" di Napolitano e che ha avuto uno dei suoi più noti esponenti in Massimo D'Alema. Tralasciamo l'ultima vicenda che lo vede nelle vesti di "lobbista" per piazzare sottomarini e navi (prodotti da Leonardo) alla Colombia. L'attrazione fatale per le armi della nostra sinistra americanizzata scatta con la guerra alla Serbia del 1999.

L'allora governo D'Alema partecipa all'Operazione chiamata "Allied Force". Per 74 giorni Belgrado è martellata dall'aeronautica Nato che sul nostro territorio disloca un migliaio di velivoli. In azione anche un centinaio di aerei italiani. La guerra si conclude con l'indipendenza del Kosovo e almeno 3000 morti.

Da allora la passione degli esponenti del Pd per guerra e armi non è mai venuta meno. Oggi il Partito di Letta esprime il Ministro della Difesa (Lorenzo Guerini) e nella maggioranza è il più determinato nel sostenere l'opzione militare per l'Ucraina, con il conseguente aumento delle spese militari. Ma qui non sono in gioco solo principi morali, c'è anche un aspetto più pratico. Basta guardare gli attuali assetti dirigenziali della nostra industria bellica. Un comparto strategico con il quale l'Italia ha guadagnato 100 miliardi negli ultimi 30 anni. Qualche esempio. Leader del settore è la Leonardo Finmeccanica: l'amministratore delegato è l'ex banchiere (Unicredit e Paschi di Siena) Alessandro Profumo, area Pd. La collegata Fondazione Leonardo (nata per «rafforzare i legami tra azienda e Paese») ha come presidente l'ex magistrato Luciano Violante, già Pci.

Sempre Leonardo ha creato la Fondazione Med-Or (per sviluppare «il trasferimento di tecnologie nei paesi del Mediterraneo e in Oriente»). Alla guida l'ex ministro degli Interni Marco Minniti, già dalemiano. Il Gruppo Difesa Servizi ha «l'obiettivo di reperire fondi per finanziare attività del ministero della Difesa». Amministratore delegato è Fausto Recchia, ex parlamentare del Pd. Direttore dell'Agenzia Industrie Difesa («ente di diritto pubblico») è Nicola Latorre, ex senatore vicino a D'Alema. Dati alla mano, oggi in Italia è il Pd ad aver abbracciato l'ideologia dei neo-con americani, che al tempo della presidenza George W. Bush teorizzarono le guerre per «esportare la democrazia». Una perfetta miscela di ideologia e business che ha affascinato i dirigenti di via del Nazareno passati in pochi anni da pacifismo e neutralismo al bellicismo più convinto. 

Colombia-gate, sostituito l'ad di Fincantieri Giuseppe Bono: il ruolo di Cassa depositi e prestiti nell'affare. Striscia La Notizia il 21 aprile 2022. 

Prosegue l’inchiesta di Striscia la notizia, che da oltre un mese si occupa  del caso della vendita di armi alla Colombia con presunto intermediario Massimo D’Alema: un affare da 4 miliardi per Leonardo e Fincantieri, con 80 milioni di euro di possibili provvigioni per i mediatori. 

Ieri, a pochi giorni dall’audizione in Commissione Difesa del Senato, è stato sostituito l’amministratore delegato di Fincantieri Giuseppe Bono, dopo 20 anni alla guida dell’azienda a partecipazione statale. Al suo posto, Cassa Depositi e Prestiti - la società, controllata dal Ministero dell'economia e delle finanze, che detiene circa il 70% di Fincantieri - ha indicato come nuovo ad Pierroberto Folgiero. «Vuoi vedere che Cdp si è arrabbiata con Bono e l’hanno sostituito?», si chiede Pinuccio, ricordando che però anche Cdp è coinvolta nell’affare italo-colombiano. Lo stesso D’Alema al telefono aveva garantito agli interlocutori colombiani di aver ottenuto la copertura assicurativa per il piano finanziario, «che prevede il pagamento del 15% da parte della Colombia e il resto viene pagato da un consorzio di banche con la garanzia dello Stato italiano». E sempre Cdp, attraverso la Sace, aveva dato disponibilità a una copertura finanziaria nel caso in cui fosse andato in porto l'affare italo-colombiano. 

All’inviato del Tg satirico non resta che domandarsi: «E Alessandro Profumo, ad di Leonardo, quando lo sostituiscono?».

La resa dell'ultimo boiardo, Bono senza poltrona dopo 59 anni. Massimo Minella per repubblica.it il 21 aprile 2022.  

L’anno prossimo sarebbero stati 60. E invece Giuseppe Bono si dovrà fermare a 59. 59 anni nelle aziende pubbliche, da operaio diciottenne alla Omeca (joint venture fra Finmeccanica e Fiat) alla ventennale guida di Fincantieri. Il suo ultimo tentativo di restare in sella, chiedendo alla politica di difenderlo e di mantenergli il posto di amministratore delegato, è naufragato contro la scelta di discontinuità del governo Draghi.

Esce così di scena un manager settantottenne che da parecchi anni si era conquistato l’appellativo di “ultimo boiardo di Stato”, termine che Bono ha sempre accolto quasi con soddisfazione, condividendone lo spirito. Se infatti i boiardi erano i servitori dello zar, lui è stato tutta la vita un servitore dello Stato.

Lo ha ripetuto anche ieri a Roma ai suoi collaboratori, quando la notizia dei nuovi vertici di Fincantieri è diventata pubblica. «Sono sereno — ha spiegato — per me parlano i risultati». La politica ieri lo ha ringraziato in maniera trasversale, dalla Serracchiani (Pd) a Leu (Fassina), fino alla Lega (Salvini). D’altra parte, per uno che è passato indenne dalla Prima alla Seconda Repubblica, dialogare con i partiti è stata un’esigenza. Dal Psi di Craxi alla Lega di Bossi, a quella di Salvini, dal Pd ai 5 Stelle, non c’è stata forza politica con cui non si sia confrontato. 

Questa volta però non è servito a restare in pista per un altro giro di valzer e ottenere il settimo rinnovo da amministratore delegato. Con l’assemblea di maggio si chiuderà così un lungo capitolo iniziato addirittura nel 1963 quando Giuseppe Bono, “Peppino”, lascia la Calabria e si trasferisce al Nord, a Torino.

È un emigrante che, tentato dalla strada del seminario, con una fede profonda che gli è compagna da tutta la vita, lascia invece gli studi e si mette a lavorare come operaio. Un appartamento diviso con altri, la fabbrica, ma presto anche la ripresa degli studi. Dopo il diploma alle serali, Bono si iscrive a Economia, laureandosi nel 1970. Fino al ’71 resta in Omeca, poi passa in Efim, impiegato, dirigente, direttore. Le offerte dei privati non gli interessano. È il pubblico il suo mondo. L’apice della sua carriera sembra arrivare nel 2000, quando gli affidano Finmeccanica. Ma l’incarico dura due anni e Bono viene sostituito. 

Per lui si apre la porta di Fincantieri, gemella povera di Finmeccanica, che nelle crociere sta dietro al colosso coreano Stx e ai cantieri finlandesi di Turku. Succede però che Finmeccanica restringe il suo perimetro (via l’energia, i trasporti, i sistemi industriali), mentre Fincantieri allarga i mercati, rileva aziende e diversifica le attività. 

Arrivano così l’acquisto di tre cantieri negli Usa, che aprono le porte del mercato della difesa navale americana, la quotazione in Borsa e gli accordi con i francesi, per creare il colosso europeo della difesa. Il manager punta ai cantieri di Saint Nazaire, che Stx aveva rilevato, ma si trova l’ostruzione dello Stato francese e viene stoppato. 

Con la Francia però Bono firma la nascita di Naviris, cantieristica militare, e inizia il dialogo con i tedeschi di ThyssenKrupp. Vita pubblica frenetica, ma nessuna mondanità. Bono non frequenta i salotti, trascorre qualche giorno di vacanza a Tropea e ama soprattutto la sua villetta a schiera di Tagliacozzo, in Abruzzo, dove si ritira con la famiglia e si dedica alle sue passioni, la lettura di libri e giornali e la Juventus, che segue fin da ragazzo.

Sul tavolo di Fincantieri, Bono lascia una strategia di alleanze internazionali e una crescita nei settori diversificati, a cominciare dalle Infrastrutture che hanno portato il gruppo a costruire ponti (come il viadotto nato dopo il crollo del Morandi a Genova), ma anche ospedali e stadi.

Il D'Alema che vende armi imbarazza i pacifisti di Leu. Paolo Bracalini il 23 Aprile 2022 su Il Giornale.

I malumori per la presenza del "mediatore colombiano" al congresso del partito di Speranza.

Congresso in stile Pcus di Articolo Uno, il partitino del ministro lucano Roberto Speranza. In sostanza Speranza sfiderà se stesso, nelle vesti di candidato unico, forte come minimo del 91% dei voti all'interno del partito, la percentuale registrata dalla sua mozione, l'unica al congresso (nei sondaggi invece Art. 1 fatica a superare il 2%). Quindi la domanda su chi sarà il successore dell'attuale leader ha già una risposta.

Il fatto invece politicamente più interessante è che domani alla kermesse degli ex piddini ci sarà anche Massimo D'Alema, che formalmente non ha più alcun ruolo in Articolo Uno (presente in Parlamento sotto la sigla Leu), avendo ormai altre e più prestigiose occupazioni nella vita, dalla produzione di vini di classe in Umbria alle consulenze in affari milionari. Con la sua proverbiale modestia l'ex premier ha fatto però sapere che ci sarà, perché «caldamente invitato» a parlare dai suoi ex compagni di partito. La presenza di D'Alema, dopo la vicenda della maxi-commessa di armi al governo della Colombia in cui si è presentato come mediatore (provocando un terremoto ai vertici di Leonardo e di Fincantieri, dove ha già fatto saltare la testa del direttore generale Giuseppe Giordo) crea però imbarazzi nel partitino di Speranza. Un sentimento che finora è sempre rimasto occultato dietro frasi di circostanza («D'Alema ha chiarito sui giornali questa vicenda. Mi fido della sua versione» si è limitato a dire Arturo Scotto, coordinatore nazionale di Articolo Uno e tesserato Anpi «da quando avevo i calzoni corti»), ma che traspare qui e là, come nelle parole di Pierluigi Bersani in una recente intervista («D'Alema? Ha ripetuto mille volte che ha smesso di fare politica, ora fa un altro mestiere. Io ho interessi diversi...»).

In Articolo 1 vige l'omertà su D'Alema, figura che ha ancora il suo pubblico a quelle latitudini politiche. Però, racconta Il Domani, sotto giuramento di anonimato qualche dirigente tira fuori il malessere per la storia delle armi in Colombia. Sia perché di mezzo c'è appunto la Colombia, un paese retto da un governo considerato reazionario (diverse le interrogazioni parlamentari, proprio da sinistra, sulla morte del cooperante Mario Paciolla in Colombia). Sia perché di mezzo ci sono le armi, mentre il partito di Speranza, Bersani (e D'Alema) è pacifista e contro «il riarmo internazionale», l'invio delle armi all'Ucraina è stato approvato controvoglia giusto per non fare uno sgarbo alla maggioranza di governo di cui Articolo Uno fa parte, il tesoriere-deputato Nico Stumpo ha votato contro l'aumento delle spese militari, e Speranza nella sua mozione unica scrive che la soluzione per uscire dal conflitto non è aiutare la resistenza ucraina ma la diplomazia. Non a caso il coordinatore Scotto ha partecipato alla manifestazione pacifista a Roma (contro Putin ma anche contro le armi agli ucraini), e a Pasqua sui social ha postato questa frase: «Disarmare la mano che uccide il fratello». Scatenando subito i commenti di chi gli ha rinfacciato di aver votato per l'aiuto militare a Kiev insieme al Pd, a differenza di Sinistra Italiana. Per questo l'arrivo di D'Alema, fresco di polemica sulle armi in Colombia, provoca sussulti nel partito di Speranza, ma tutti rigorosamente a bocce cucite. Per l'ex segretario Ds, comunque, è tutta una manipolazione a suoi danni, «non vedo il nesso con il congresso di Art.1: interverrò, come ho sempre fatto. Ho ricevuto un caldo invito a parlare» dice. Nessun imbarazzo, diciamo.

Giacomo Amadori per “La Verità” il 26 aprile 2022.  

Altro che affare sfumato. Con una clamorosa lettera, di cui La Verità è venuta a conoscenza, i vertici delle forze armate colombiane hanno informato l'azienda aerospaziale Leonardo di essere pronti ad acquistare almeno otto M-346, i caccia che Massimo D'Alema e i suoi broker di fiducia avevano provato a vendere a Bogotà nei mesi scorsi, sino all'interruzione della trattativa avvenuta dopo i nostri scoop.

L'aviazione militare nella missiva esclude la presenza di intermediari e fa sapere che intende percorrere affidabili canali ufficiali, da governo a governo. La partita si deciderà in questi giorni, ma, come vedremo, è in una fase molto avanzata. Dunque le bugie dell'ex premier Massimo D'Alema mostrano di avere lo stacco di coscia di un lillipuziano. L'ex primo ministro ci aveva accusato di aver fatto perdere al sistema Paese miliardi di euro svelando la trattativa.

Come se fossimo le quinte colonne di qualche potenza straniera. E come argomento aveva usato l'audio diffuso dal sito della Verità in cui conversava amabilmente con un ex sanguinario paramilitare colombiano. Tema: la vendita di aerei, corvette e sommergibili da parte di Leonardo e Fincantieri alla Colombia. 

Immediatamente l'ex premier aveva denunciato su un quotidiano a lui allineato: «Qualcuno ha reso pubblica la telefonata che aveva registrato in maniera illegittima per danneggiare le società italiane. Non a caso in questi giorni in Colombia sono usciti articoli sulla possibilità di acquistare le navi e gli aerei dalle imprese di altri Paesi, in particolare statunitensi».

Il Nostro, a suo dire, stava lavorando gratis per amor di Patria: «In questa vicenda, ripeto, non ho contratti con nessuno» aveva spiegato. «Per me era già importante far conseguire un risultato a Leonardo e Fincantieri, che hanno un rilevante peso nel sistema economico italiano []. Temo che tutto questo clamore avrà l'unico effetto di far perdere alle imprese italiane una commessa da 5 miliardi». Insomma non era lui che aveva tentato di portare a casa una montagna di soldi vendendo armi («Alla fine tutti noi riceveremo 80 milioni di euro», assicurava nella telefonata), ma eravamo noi che avevamo privato l'Italia di qualche decimo di percentuale di Pil.

Con l'aggravante di aver sporcato il buon nome di chi agiva per il bene del Paese da privato cittadino, non essendo più parlamentare dal 2013. «Questo tipo di attività viene svolta nel mondo da numerosi ex esponenti politici che di solito vengono ringraziati, non fucilati alle spalle», aveva rimarcato.

E noi, ingrati, invece di fargli avere una medaglia, lo avevamo criticato. Solo perché, chiacchierando con un ex militare condannato a 40 anni per diversi crimini di guerra, aveva cercato di scavalcare il «dialogo tra i due governi», avviato ufficialmente da una telefonata tra il sottosegretario alla Difesa, Giorgio Mulé, e l'omologo colombiano.

Nell'audio D'Alema dice: «Dobbiamo evitare che ci siano due canali paralleli», cioè il suo e quello del governo. Per poi aggiungere: «Anche perché l'ambasciatrice di Colombia in Italia, pure lei si sta occupando di questo problema. E sostiene che ci vuole un accordo tra i due governi, senza altri mediatori. Io le ho spiegato che da una parte è lo Stato colombiano, è il governo, che compra, ma in Italia non è il governo che vende. Sono due società quotate, non è il governo, quindi non ci può essere un contratto tra due governi».

In queste ore tale assioma è smentito totalmente dal contenuto della lettera inviata a Leonardo dal maggiore generale Carlos Fernando Silva Rueda, comandante delle operazioni aeree e spaziali dell'esercito colombiano, promosso a dicembre al prestigioso ruolo dal presidente della Repubblica, Iván Duque Márquez.

Quindi, questa volta, a presentarsi come interlocutore delle nostre aziende è uno dei militari più alti in grado delle forze armate di Bogotà e non, come era successo a gennaio con Fincantieri, due oscuri capitani di fregata. Rueda non ha nulla a che spartire neppure con i paramilitari messi in campo dai D'Alema boys. 

Nel documento l'alto ufficiale fa sapere che l'aviazione colombiana (Colaf) prevede di sostituire la sua flotta di jet da attacco leggero e per questo sta valutando «un contratto da governo a governo», proprio quello che D'Alema con i suoi interlocutori escludeva che si potesse fare. Ora, invece, le trattative, seguite direttamente da Mulé, sarebbero a buon punto per la vendita di 8 velivoli, dopo che l'anno scorso Leonardo aveva iniziato a sondare la possibilità di entrare in quel mercato con 5 caccia.

Nella sua lettera Rueda invita Leonardo a presentare la migliore e ultima offerta, in gergo Bafo, per gli M-346. Una proposta che verrà confrontata con quella dei competitor coreani di cui abbiamo parlato nelle scorse settimane. Per il maggiore generale è molto importante che la «final offer proposal» arrivi quanto prima per poter procedere con la fase successiva del programma di acquisti. E anche se la missiva non è da considerarsi vincolante, la Colaf sottolinea di voler discutere tutti gli aspetti del progetto con un team di Leonardo entro fine aprile per ricevere un P&A (prezzo e disponibilità) degli 8 aerei il prima possibile.

A ottobre, attraverso D'Alema, Leonardo aveva già inviato una «main proposal» non ufficiale per 24 aerei. Nel menù i caccia venivano offerti a 32 milioni l'uno, ma il prezzo saliva a quasi 90 considerando costi per equipaggiamento, simulatori, corsi di formazione, manutenzione, opere civili e ammodernamento delle basi aeree. 

Nel documento spedito in Italia, Rueda chiede che il capo delegazione di Leonardo abbia il potere necessario per prendere decisioni che portino alla firma di un eventuale contratto. In sostanza non vuole avere a che fare con alcun mediatore.

La lettera è scritta su carta intestata, con numero di protocollo e i loghi del ministero della Difesa, del Comando generale delle forze militari e della Forza aerea colombiana. Sono indicati anche tre indirizzi mail ufficiali. 

Dunque l'affare questa volta potrebbe andare davvero in porto. E senza D'Alema come facilitatore. Domenica l'ex ministro degli Esteri, durante il congresso romano di Articolo 1, si è ben guardato dal citare la scivolosa trattativa di cui era stato protagonista. E nessuno nell'auditorium sembra gliel'abbia rinfacciata. Anzi il segretario Roberto Speranza ha parlato di «ignobile fango» sparso sul suo mentore.

Quando è salito sul podio per arringare i (pochi) compagni presenti, l'ex primo ministro si è esibito in una lectio magistralis di geopolitica in cui non ha mai affrontato la questione della nuova carriera di aspirante mercante di armi. Ma ha fatto una rivendicazione assai coerente: «Io non ho mai condiviso il riferimento al pacifismo che è una cosa nobile, ma non è la nostra tradizione», quella comunista. 

Certamente non è la sua che è passato alla storia come il primo premier di sinistra bombardiere. E anche se per l'ex leader del Pds è giusto «sostenere» la resistenza ucraina, «pensare che la democrazia superi la sua crisi mettendo l'elmetto è una visione semplicistica che può essere totalmente disastrosa per le forze democratiche della sinistra».

L'elmetto, al massimo lo può indossare Baffino in tempo di pace. Il quale, pur considerandosi un businessman ormai fuori dalla politica, si è preso la briga di indicare al campo largo che verrà della sinistra niente meno che la strada del «nuovo ordine mondiale». Un sistema dove democrazie e autocrazie dovrebbero coesistere senza combattersi. D'Alema ha citato come pilastro di questo nuovo equilibrio planetario la regina di tutte le autocrazie, la Cina, con cui da tempo, percorrendo la via della Seta, ha anche rapporti di affari. Guardando a Pechino, D'Alema probabilmente vuole lasciarsi alle spalle i dispiaceri che gli stanno dando le democrazie, dove, come è successo con il Colombia-gate, le notizie rischiano di finire sui giornali. 

Dagospia il 6 maggio 2022.Chiusa l'inchiesta interna di Leonardo sulla trattativa mediata da D'Alema, finisce nel mirino il manager che ignorò l'allarme della Farnesina. Il governo colombiano alle battute finali per la scelta tra le offerte.  

Giacomo Amadori per “La Verità” il 6 maggio 2022.

Il Colombia-gate, dopo aver influito sul tetris delle nomine di aprile all'interno delle partecipate, potrebbe presto offrire altri colpi di scena in svariati settori: politico, giudiziario e commerciale. Dopo Pasqua è stato completato l'audit interno di Leonardo, le cui conclusioni sono state in parte anticipate da questo giornale. 

All'esito dell'indagine promossa dal presidente Luciano Carta sono stati mossi rilievi all'ufficio commerciale dell'azienda che nell'ottobre dello scorso anno inviò una brochure con prezzario degli aerei da addestramento M-346 a Massimo D'Alema, che, però, non aveva nessun titolo per ricevere quel materiale di interesse anche militare. 

Ma nel documento sarebbe biasimato anche il comportamento del capo delle relazioni istituzionali Sem Fabrizi, il diplomatico che nel gennaio scorso sarebbe stato avvertito dall'ambasciatore a Bogotà Gherardo Amaduzzi della strana attività di mediatore di D'Alema, il quale aveva inviato presso la rappresentanza diplomatica come suo emissario il pluriimputato Mazzotta.

L'audit una decina di giorni fa è stato inviato al ministero dell'Economia, socio di maggioranza dell'azienda, e una copia sarebbe arrivata anche al ministero della Difesa. Ma, secondo alcuni, si tratterebbe di un documento classificato e per questo al momento resta nel cassetto del presidente Carta e di pochi altri manager. 

Ma può la vicenda del Colombia-gate ridursi a una tiratina di orecchi di questo o quel dirigente? La soluzione individuata per Leonardo sarebbe considerata in alcuni settori governativi troppo soft, anche perché in Fincantieri, altra azienda coinvolta nell'affaire, l'ad Giuseppe Bono non è stato confermato e il direttore generale Giuseppe Giordo è stato sospeso.

Ma se la politica sembra essersi lasciata alle spalle il pasticcio della trattativa che D'Alema, grazie ai suoi agganci nelle aziende partecipate, aveva provato a intavolare con il governo colombiano, la Procura di Napoli, che ha aperto un fascicolo dopo alcuni articoli della Verità, starebbe provando a fare chiarezza sui punti più oscuri. L'occasione per iniziare le indagini è stata un'inchiesta di questo giornale su alcuni patrocini concessi dall'Assemblea parlamentare del Mediterraneo e giudicati dal suo segretario generale falsi. 

Queste carte sarebbero state utilizzate dai broker pugliesi ingaggiati da D'Alema per accreditarsi presso le istituzioni colombiane, ma anche presso Leonardo. In particolare tale documentazione sarebbe stata presentata da Emanuele Caruso, il quale avrebbe ottenuto il patrocinio per la Camera EuroMediterranea per l'industria e l'impresa, l'associazione tunisina di cui è segretario generale, direttamente dall'ex presidente dell'Apm Francesco Maria Caruso e dall'ex vicepresidente della Confindustria di Lecce Vito Ruggieri Fazzi.

Ma questi ultimi, con noi, un mese fa, avevano assicurato di aver concesso il patrocinio per una singola manifestazione tenutasi a Lecce. Il broker, però, ci ha mostrato una mail del 5 agosto 2013 con cui un funzionario della Apm, tale Martin Micallef, informava Ruggieri Fazzi («All'epoca vicepresidente della Camera euromediterranea e mio socio in due ditte di Dakar» puntualizza Caruso) che, dando «seguito alla nota del presidente Amoruso», l'Apm aveva «concesso il proprio patrocinio gratuito alla Camera EuroMediterranea per l'Industria e l'Impresa».

Una missiva che si concludeva così: «Le saremo grati se vorrà comunicarci le prossime attività della Camera per poterle iscrivere nel nostro calendario». Da allora, però, Caruso avrebbe fatto di quel patrocinio un uso piuttosto disinvolto. Almeno stando alla denuncia della stessa Apm. Del resto anche la Colombia avrebbe chiesto chiarimenti su un presunto verbale del 2021 dell'Apm utilizzato da Caruso per accreditarsi come consigliere del ministero degli Esteri.

Per la Procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, appena nominato capo della Direzione nazionale antimafia, e per la Digos, a cui sono state delegate le indagini, la verifica dell'autenticità dei documenti non può prescindere da un'analisi più ampia della vicenda e dai doverosi controlli sul variopinto team che, da dietro le quinte, si stava occupando di promuovere l'affare milionario utilizzando canali che definire underground è eufemistico. 

Gli approfondimenti investigativi sono in corso e gli inquirenti sarebbero in attesa di acquisire l'audit di Leonardo.

Nel frattempo siamo alle battute finali della corsa tra Leonardo e i coreani della Kai per aggiudicarsi la commessa per la fornitura di alcuni velivoli da addestramento. A entrambe le aziende la forza aerea colombiana ha chiesto la migliore e ultima offerta, in gergo Bafo, per la fornitura specificando di essere propensa ad andare al momento della definizione del contratto verso un accordo istituzionale governo-governo.

Come ha rivelato La Verità la richiesta è stata inviata all'azienda italiana il 20 aprile dal maggiore generale Carlos Fernando Silva Rueda, comandante delle operazioni aeree e spaziali dell'esercito colombiano. In queste ore, concluso il deposito delle offerte con le specifiche delle singole voci legate anche alla manutenzione, le due proposte sarebbero attentamente soppesate sia dalla forza aerea colombiana che dal ministero della Difesa. Secondo alcuni rumors la decisione sarebbe, in realtà, già stata presa, ma non è chiaro se gli articoli pubblicati dalla stampa specializzata che segnalano una possibile vittoria coreana, siano veri scoop o vadano, invece, letti come un tentativo di spostare l'ago della bilancia verso l'Estremo Oriente.

Infodefensa.com, organo di informazione di settore in lingua spagnola, il 26 aprile ha scritto che «la Colombia ha selezionato il velivolo di tipo Ta/Fa-50 della Korean aerospace industries come futuro velivolo da addestramento avanzato con il quale intende sostituire la sua attuale flotta di velivoli Cessna A-37B, che stanno per essere definitivamente ritirati dal servizio». Un velivolo realizzato in cooperazione con la statunitense Lockheed Martin. Il contratto riguarderebbe 20 velivoli e varrebbe 600 milioni di dollari. Il 4 maggio la Rivista italiana difesa (Rid) si è domandata se la notizia, «trapelata da numerose fonti della Difesa colombiana», fosse vera.

E ha dato questa risposta: «La notizia non è tuttavia confermata, anzi sembrerebbe smentita dalla stessa aviazione colombiana, tanto è vero che il M-346, il candidato di Leonardo sarebbe ancora in corsa». Sempre mercoledì il ministro della Difesa colombiano Diego Molano avrebbe dichiarato che il processo di valutazione sarebbe ancora in corso, anche se secondo un altro sito, Defence news, la trattativa con l'Italia servirebbe a far spuntare alla Colombia il miglior prezzo con la Corea, già partner della marina militare del Paese sudamericano (che ha acquisito da Seul missili antinave e due corvette di seconda mano). Si tratterebbe, dunque, di una gara di facciata.

Mentre scriviamo, tra l'azienda aerospaziale italiana e l'aeronautica di Bogotà, sarebbero in corso frenetiche interlocuzioni e approfondimenti tecnici sull'offerta per evitare il temuto sorpasso. Più di un manager di Leonardo è convinto che nulla sarebbe ancora deciso e che solo nelle prossime ore si saprà chi arriverà per primo al traguardo, al termine di un'estenuante guerra di nervi. Al ministero della Difesa italiano non abbiamo trovato nessuno disponibile a commentare ciò che sta avvenendo in ambito commerciale, anche se viene sottolineato come la scelta della trasparenza abbia rimesso in corsa Leonardo, che, purtroppo, era stata penalizzata dall'opacità della trattativa parallela rivelata dalla Verità.

Fabio Amendolara per laverità.info il 20 maggio 2022.  

Come anticipato nei giorni scorsi dalla Verità la vicenda della trattativa per fornire armi alla Colombia portata avanti da Massimo D'Alema ha avuto ieri una svolta giudiziaria.  Verso l'alba una decina di agenti della Digos di Napoli, su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, si sono presentati a casa dei due broker incaricati di fare da intermediari nel Paese sudamericano, Emanuele Caruso e Francesco Amato.

Ai familiari di Amato, che vive in Spagna, è stato chiesto di informare il giovane pugliese della necessità di mettersi in contatto con la polizia giudiziaria. A Caruso sono stati sequestrati documenti e gli apparati elettronici. 

L'avvocato di quest'ultimo, Raffaelle Lorenzo, dice alla Verità: «Si è trattato di una perquisizione in cui il mio assistito ha offerto la massima collaborazione. Adesso finalmente abbiamo scoperto che è indagato e possiamo difenderci pienamente. Per questo siamo ancora più sereni e dimostreremo nelle sedi opportune l'estraneità ai fatti contestati».

Infatti, l'avvocato Lorenzo aveva già provato a verificare in Procura se il suo assistito fosse sotto indagine. Ma per la doverosa segretezza delle indagini preliminari non aveva avuto conferma dell'iscrizione sul registro degli indagati del suo cliente. Nel decreto di perquisizione i reati contestati, a detta del legale, sono il falso e la sostituzione di persona, un'accusa collegata al fatto che i due si erano presentati come consiglieri del Ministero degli Esteri colombiano e rappresentanti di organizzazioni collegate all'Apro. 

Gli investigatori, infatti, sono alla ricerca di elementi utili a dimostrare che i due «si siano accreditati» presso «istituzioni internazionali», è scritto nel decreto di perquisizione, allo scopo di fare affari. 

Sono inoltre stati perquisiti (pur non essendo iscritti nel registro degli indagati) Giancarlo e Paride Mazzotta. Il primo è l'ex sindaco di Carmiano e collaboratore di D'Alema. Il secondo è suo figlio, consigliere regionale pugliese di Forza Italia. Ieri abbiamo provato a contattare entrambi, ma senza fortuna. I telefoni sono risultati spenti fino a sera.

Entrambi i Mazzotta, nel gennaio scorso, hanno preso parte alla trasferta a Bogotà insieme con i dirigenti di Fincantieri e Leonardo per alcuni incontri finalizzati alla trattativa per la vendita di due fregate, due sommergibili e 24 caccia M-346. 

I briefing sono avvenuti non con figure istituzionali del governo colombiano e delle forze armate, ma con consulenti non accreditati. Il 6 maggio avevamo ricordato che la Procura di Napoli, ha aperto un fascicolo dopo alcuni articoli della Verità e che in quel momento stava provando a fare chiarezza sui punti più oscuri.

L'occasione per iniziare le indagini è stata un filone dell'inchiesta di questo giornale sull'affaire Colombia, relativo ad alcuni patrocini concessi dall'Assemblea parlamentare del Mediterraneo e giudicati dall'ambasciatore Sergio Piazzi, segretario generale dell'organizzazione, falsi. 

Tanto che dopo averli visionati sul nostro giornale l'Apm aveva deciso di presentare denuncia. Sta di fatto che queste carte sarebbero state utilizzate dai broker pugliesi ingaggiati da D'Alema per accreditarsi con le istituzioni colombiane, ma anche presso Leonardo.

In particolare tale documentazione sarebbe stata presentata da Emanuele Caruso, il quale avrebbe ottenuto il patrocinio per la Camera EuroMediterranea per l'industria e l'impresa, l'associazione tunisina di cui è segretario generale, direttamente dall'ex presidente dell'Apm Francesco Maria Caruso e dall'ex vicepresidente della Confindustria di Lecce Vito Ruggieri Fazzi.

Ma questi ultimi, con noi, un mese fa, avevano assicurato di aver concesso il patrocinio per una singola manifestazione tenutasi a Lecce. Il broker, però, ci ha mostrato una mail del 5 agosto 2013 con cui un funzionario della Apm, tale Martin Micallef, informava Ruggieri Fazzi («All'epoca vicepresidente della Camera euromediterranea e mio socio in due ditte di Dakar» puntualizza Caruso) che, dando «seguito alla nota del presidente Amoruso», I'Apm aveva «concesso il proprio patrocinio gratuito alla Camera EuroMediterranea per l'Industria e l'Impresa».

Una missiva che si concludeva così: «Le saremo grati se vorrà comunicarci le prossime attività della Camera per poterle iscrivere nel nostro calendario». Da allora, però, Caruso avrebbe fatto di quel patrocinio un uso piuttosto disinvolto. Almeno stando alla denuncia della stessa Apm. Del resto anche la Colombia avrebbe chiesto chiarimenti su un presunto verbale del 2021 dell'Apm utilizzato da Caruso per accreditarsi come consigliere del ministero degli Esteri.

Per la Procura di Napoli, guidata da Giovanni Melillo, appena nominato capo della Direzione nazionale antimafia, e per la Digos, a cui sono state delegate le indagini, la verifica dell'autenticità dei documenti non può prescindere da un'analisi più ampia della vicenda e dai doverosi controlli sul variopinto team che, da dietro le quinte, si stava occupando di promuovere l'affare milionario utilizzando canali che definire underground è eufemistico. 

Gli inquirenti sarebbero in attesa di acquisire I'audit di Leonardo. È Mazzotta senior a portare da D'Alema i broker: i quattro iniziano a parlare della possibile vendita alle forze armate colombiane, un affare da 4 miliardi di euro.

D'Alema ne parla con l'ad di Leonardo Alessandro Profumo. Non è chiaro se sia stato l'ex sindaco pugliese o l'ex premier, ma qualcuno indica come mediatore da contrattualizzare lo studio Allen di Miami. 

Iniziano le trattative. Il succo è che il nuovo broker verrà pagato se il prezzo supererà i 350 milioni di euro. La provvigione sarebbe stata del 2 per cento. E forse, i mediatori avrebbero incassato pure «un compenso come "retailer"». Inoltre, superato il tetto dei 2 miliardi sarebbe stato previsto un ulteriore lauto premio. 

Vendita armi in Colombia, perquisite le abitazioni di Paride e Giancarlo Mazzotta nel Leccese. In azione gli agenti della Digos della Questura di Napoli. Ma non sono indagati padre e figlio, rispettivamente ex sindaco di Carmiano e consigliere regionale di Forza Italia. Linda Cappello su La Gazzetta del Mezzogiorno il 19 Maggio 2022.

L'ex sindaco di Carmiano, Giancarlo Mazzotta, ed il figlio Paride, consigliere regionale di Forza Italia, hanno ricevuto una perquisizione domiciliare dagli agenti della Digos della Questura di Napoli, nell'ambito dell'inchiesta sulla vendita - poi saltata - di armi e navi da guerra da Fincantieri e Leonardo alla Colombia, operazione in cui sarebbe coinvolto Massimo D'Alema. Padre e figlio non sono indagati. Gli investigatori si sono presentati questa mattina nelle rispettive abitazioni: ricordiamo che Giancarlo Mazzotta sarebbe stato coinvolto nella trattativa in quanto vicino a D'Alema. Gli investigatori erano incaricati di cercare eventuale materiale probatorio su supporti informatici.

«Il mio assistito ha spontaneamente consegnato i telefoni cellulari», precisa l'avvocato Paolo Spalluto. «Non sono indagato - dichiara Mazzotta alla Gazzetta - sono coinvolto come persona informata dei fatti». Domani l’ imprenditore salentino sarà sentito dagli investigatori.

Stando alle indagini, il 43enne Emanuele Caruso di San Pietro in Lama, e il 38enne Francesco Amato di Lequile, si sarebbero spacciati per soggetti legati al governo colombiano per intavolare una trattativa finalizzata alla compravendita di armamenti del valore di oltre quattro miliardi di euro. In una lettera - hanno riportato indiscrezioni giornalistiche - si sarebbero presentati a Fincantieri e Leonardo come consiglieri del Ministero Affari Esteri della Colombia. «Dagli accertamenti della Digos - si legge nel decreto - è emerso che Caruso sarebbe entrato in contatto con l'ex premier Massimo D'Alema mediante Giancarlo Mazzotta, ex sindaco di Carmiano e conoscente del suo socio Amato, e di aver illustrato i loro progetti imprenditoriali al D'Alema, il quale aveva manifestato la propria disponibilità ad avviare un dialogo con le partecipate italiane verso cui vantava importanti relazioni e conoscenze». 

Perquisiti i due broker coinvolti nella tentata mediazione di D’Alema per le armi alla Colombia. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Maggio 2022.  

Su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, la Digos della Questura del capoluogo campano ha perquisito gli uffici ed abitazioni di Amato e Caruso alla ricerca di elementi che possano dimostrare come i due «si siano accreditati» presso «istituzioni internazionali», come riportato nel decreto di perquisizione, allo scopo di fare affari. 

La vendita, sfumata, di navi e aerei militari italiani alla Colombia è finita in tribunale. La procura di Napoli ha iscritto nel registro degli indagati Francesco Amato e Emanuele Caruso,, 38 e 43 anni, i due broker pugliesi ora accusati di sostituzione di persona e truffa. Il fascicolo è stato aperto dalla Procura di Napoli lo scorso 5 marzo, quando il deputato di Italia Viva Gennaro Migliore e l’ambasciatore rispettivamente presidente e segretario generale dell’Assemblea parlamentare del Mediterraneo, un’organizzazione internazionale con sede a Napoli che riunisce delegati di 30 Paesi delle due sponde del “Mare Nostrum”, hanno denunciato l’uso abusivo da parte dei due brokers pugliesi di documenti falsi con contrassegno e logo simili a quelli della Amp. 

I brokers Caruso e Amato si qualificavano rispettivamente come segretario generale responsabile per le relazioni in America Latina di associazioni internazionali come l’Associazione Polizia mediterranea e la Camera mediterranea per l’industria e l’impresa.

Su delega del procuratore aggiunto Vincenzo Piscitelli, la Digos della Questura del capoluogo campano ha perquisito gli uffici ed abitazioni di Amato e Caruso alla ricerca di elementi che possano dimostrare come i due «si siano accreditati» presso «istituzioni internazionali», come riportato nel decreto di perquisizione, allo scopo di fare affari.  Si indaga anche su un’altra circostanza emersa da fonti giornalistiche, vale a dire la lettera di presentazione che sarebbe stata inviata a ottobre 2021 a Fincantieri e Leonardo nella quale i due si presentavano come “consiglieri del ministero Affari Esteri della Colombia”.

«Utilizzo di credenziali false per proporsi come negoziatori nella compravendita di armamenti alle forze armate colombiane del valore di 4 miliardi di euro» con le società pubbliche italiane Fincantieri e Leonardo. Operazione nella quale era coinvolto ed interessato anche l’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema. Le associazioni Associazione Polizia mediterranea e la Camera mediterranea per l’industria e l’impresa, create da Francesco Amato ed Emanuele Caruso, millantavano il patrocinio, mai realmente concesso, della Amp, utilizzandone i simboli in più di un’occasione. 

Per portare a buon fine l’affare, Emanuele Caruso era entrato in contatto, attraverso un conoscente di Francesco Amato, anche con l’ex premier Massimo D’Alema il quale Intervistato da Repubblica, ha raccontato di essersi limitato a mettere in contatto i due con Leonardo e Fincantieri, di averlo fatto gratuitamente, senza aver avuto alcun incarico dalle due aziende italiane e di essersi mosso anche perché entrambe le società sono clienti importanti di Ernst&Young, il network di consulenza di cui l’ex leader politico è presidente dell’advisor board. Purtroppo per D’ Alema le registrazioni audio trasmesse dal programma “Striscia la Notizia” contenenti la sua voce sembrerebbero dire ben altro.

Dopo giorni di polemiche mediatiche, la Procura di Napoli ha deciso di accelerare le indagini e dall’analisi della memoria informatica, gli investigatori confidano di scovare nuove tracce e indizi su questa trattativa miliardaria portata avanti con carte false.

La mediazione di D'Alema per le armi alla Colombia. Perquisiti i due broker. Dario del Porto,  Giuliano Foschini su La Repubblica il 20 Maggio 2022.  

Sotto la lente della Procura di Napoli la trattativa per la vendita di navi e aerei militari: Amato e Caruso indagati per truffa e sostituzione di persona.

«Utilizzo di credenziali false» per proporsi come «negoziatori nella compravendita di armamenti alle forze armate colombiane del valore di 4 miliardi di euro» con Fincantieri e Leonardo. Per il tramite dell’ex presidente del consiglio Massimo D’Alema. La vendita, sfumata, di navi e aerei militari italiani alla Colombia finisce in tribunale. La procura di Napoli ha iscritto nel registro degli indagati Francesco Amato ed Emanuele Caruso, 38 e 43 anni, i due broker pugliesi ora accusati di sostituzione di persona e truffa.

S'allarga il caso D'Alema. Perquisito il fedelissimo per le armi alla Colombia. Lodovica Bulian il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.

Oltre ai due indagati, nel mirino anche l'ex sindaco di Carmiano: avrebbe fatto da tramite.

Scattano i sequestri e le perquisizioni della Procura di Napoli ad alcuni degli uomini che lavoravano all'affare colombiano, poi saltato, nel quale Massimo D'Alema si sarebbe adoperato per la vendita di armamenti di Leonardo e Fincantieri al governo della Colombia. Un business da 4 miliardi di euro, 80 milioni sarebbero stati il prezzo delle mediazioni, almeno stando alle parole dello stesso ex premier, registrato tre mesi fa a sua insaputa mentre parlava con un mediatore colombiano dei possibili risultati del lavoro: «Noi stiamo lavorando perché? - diceva D'Alema - Perché siamo stupidi? No, perché siamo convinti che alla fine riceveremo tutti noi 80 milioni di euro». D'Alema non aveva alcun mandato ufficiale a negoziare per conto delle aziende di Stato che, nonostante le rigide norme interne sugli intermediari, hanno interloquito con l'ex premier e con il suo team per portare avanti l'affare.

Ora su delega della Procura di Napoli, la Digos ha bussato alle porte degli uomini con cui si sarebbe relazionato l'ex premier. Perquisite le abitazioni e sequestrati i telefoni e altri dispositivi dei pugliesi Francesco Amato ed Emanuele Caruso, 38 e 43 anni, indagati per sostituzione di persona e truffa. Di fatto coloro che avevano fiutato l'affare colombiano, grazie ai contatti di uno dei due nel Paese, e lo avevano portato all'attenzione dell'ex premier per il tramite di un ex sindaco, anche lui pugliese, Giancarlo Mazzotta. Sarebbe stato lui a creare il contatto con D'Alema. Anche Mazzotta, con il figlio Paride, è stato raggiunto da un decreto di perquisizione, ma i due non sono indagati. I rapporti però, scrivono i pm, sono chiari: «È emerso che Caruso sarebbe entrato in contatto con D'Alema mediante Mazzotta, ex sindaco di Carmiano e conoscente del socio Amato, e avrebbe illustrato i loro progetti imprenditoriali a D'Alema, il quale aveva manifestato la propria disponibilità ad avviare un dialogo con le partecipate italiane, verso cui vantava importanti relazione e conoscenze». Insomma, per arrivare alle società pubbliche i due avevano chiesto a Mazzotta di intercedere con D'Alema. Mazzotta poi sarebbe stato vicinissimo all'ex premier anche nella gestione della trattativa. Non solo lui, ma anche il figlio, scrivono i magistrati: «Ai negoziati per la vendita di armamenti al governo colombiano avrebbe partecipato anche Paride Mazzotta, figlio di Giancarlo, che tra l'altro ha postato in rete le foto che documentano il soggiorno in Colombia». I magistrati si riferiscono a un soggiorno a Bogotà, in occasione dell'arrivo di alcuni dirigenti di Fincantieri e Leonardo nell'ambito del potenziale affare. I Mazzotta non sono indagati, i pm contestano invece a Caruso e Amato la sostituzione di persona «al fine di accreditarsi» presso «istituzioni internazionali» attraverso organizzazioni quali l'associazione Polizia Mediterranea e la Camera mediterranea per l'industria e l'impresa, di cui Caruso si qualificava «come segretario generale e Amato responsabile per le relazioni in America Latina. Hanno attribuito falsamente a tali enti - scrivono i pm - il patrocinio dell'Assemblea Parlamentare del Mediterraneo (un'organizzazione internazionale con sede a Napoli ndr) al fine di accreditarsi più facilmente e con maggiori credenziali presso soggetti pubblici e privati esteri creando una situazione di sicuro affidamento dell'interlocutore estero. Appare evidente la finalità truffaldina e volta alla ricerca di ingenti profitti». Erano stati il 5 marzo Gennaro Migliore e l'Ambasciatore Sergio Piazzi in qualità di presidente e di segretario generale dell'Assemblea, a presentare un esposto a Napoli. Caruso si è sempre difeso dalle accuse di falso, sostenendo la correttezza dei documenti. Ora il suo avvocato Raffaele Lorenzo ribadisce «massima collaborazione. Siamo ancora più sereni nel poter dimostrare l'estraneità ai fatto contestati».

"D'Alema ebbe un incarico? Da chi? Quella fornitura di armi va chiarita". Luca Fazzo il 5 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il senatore di Fi Gasparri chiede di sentire in Commissione l'ad di Leonardo.  

«La faccenda non finisce qui», dice Maurizio Gasparri, senatore di Forza Italia e membro della commissione Difesa. Che davanti alla incredibile storia della fornitura di mezzi da guerra per quattro miliardi di euro da Fincantieri e Leonardo alla Colombia, dove un mese fa è apparso come mediatore l'ex segretario del Pds Massimo D'Alema, va dritto al nocciolo della questione: «Io voglio capire cosa è diventata in questi anni Leonardo. Se siamo davanti ad una azienda strategica di Stato o a una sezione staccata del Pds o come si chiama adesso del Pd. Perché a volte l'impressione è quella. Non c'è solo l'amministratore delegato Alessandro Profumo che si vantava di partecipare alle primarie del Partito democratico. Ci sono una serie di intrecci, una familiarità con la sinistra italiana in cui a questo punto bisogna vedere chiaro».

E questo, scusi, cosa c'entra con la fornitura alla Colombia?

«C'entra parecchio. Perché voglio capire se e in che modo Massimo D'Alema si è fatto forte di questi intrecci, di questa contiguità, nei suoi rapporti con gli interlocutori colombiani. Vede, D'Alema oggi è un privato cittadino che ha il diritto di scegliersi il suo mestiere. Se nella sua nuova vita mette a frutto i rapporti che ha allacciato e la fama acquisita in Italia e all'estero nella sua carriera politica, è libero di farlo. Gerard Schroeder, che è stato il cancelliere tedesco, oggi lavora per Gazprom: la cosa in Germania fa discutere, ma nessuno può impedire a Schroeder di essere a libro paga dei russi. Lo stesso vale per D'Alema. A condizione che si operi con trasparenza, sia da parte di D'Alema che da parte di Leonardo».

Leonardo dice di non avere mai dato alcun incarico a D'Alema.

«Io cosa abbia fatto esattamente Leonardo ancora non l'ho capito, e non l'ha capito neppure il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, grazie al quale questa vicenda è venuta alla luce. Per questo ho già chiesto alla presidente della commissione Difesa del Senato, Roberta Pinotti, di convocare per una audizione il dottor Profumo, e mercoledì formalizzerò questa richiesta in commissione. E assicuro che non sarà una audizione-vetrina come quelle che sono state fatte in passato».

Leonardo è una azienda strategica per il paese, è normale che si muova sugli scenari internazionali. E lì la concorrenza è spietata.

«Non è assolutamente questo a essere in discussione. Ma qua è successo qualcosa di strano, di cui oltre alle dichiarazioni di Mulè sappiamo solo quanto sta uscendo sui giornali. Non possiamo fare finta di niente. Perché Leonardo ha diritto di fare business ma esistono anche delle regole da rispettare. Chi ha dato incarico a chi, nell'affare colombiano? Tutto è possibile, in giro il mondo è pieno di millantatori, c'è gente che dice di agire per conto di tizio e caio che invece non ne sanno niente. Non credo che possiamo convocare per una audizione D'Alema o i militari colombiani, ma altre audizioni, oltre a quella di Profumo, le possiamo e le dobbiamo fare. Bisogna assolutamente capire chi ha parlato e a nome di chi. Ho sentito a Striscia la notizia l'audio di D'Alema che parla di ottanta milioni in ballo. Possiamo girarci dall'altra parte?»

Ieri, peraltro, la Verità ha rivelato che l'8 febbraio si è tenuta una call cui erano presenti D'Alema, Profumo e il direttore di Fincantieri Giuseppe Giordo, dovevano esserci anche i colombiani ma non si sono presentati. Come fa Leonardo a continuare a dire di non sapere nulla delle manovre di D'Alema?

«Sono risposte che può darci solo Profumo, e per questo credo che la audizione vada disposta con urgenza. Cosa ha fatto e detto D'Alema, quali contatti e aderenze ha vantato? Ci sono stati intrecci impropri? Alessandro Profumo ne sa qualcosa? A questo punto io voglio davvero capire se una azienda strategica è diventata una sezione di partito».

Mattia Feltri per “la Stampa” il 4 marzo 2022.  

La scoperta che Massimo D'Alema si sia industriato da intermediario per una vendita di armi alla Colombia, roba da ottanta milioni di euro, fra studi legali di Miami e faccendieri sudamericani, ha risollecitato la solita, vecchia, bolsa domanda: ma può un ex comunista eccetera? Una domanda da cui D'Alema è perseguitato da decenni. Ma può un ex comunista mettere su a Palazzo Chigi l'unica merchant bank in cui non si parla inglese?

Ma può un ex comunista solcare i mari su Ikarus e altre sfarzose barche a vela? Ma può un ex comunista diventare presidente dell'Advisory Board di Ernst&Young? Ma può un ex comunista puntare alla scalata di Bnl attraverso Unipol, essere affaccendato nei viluppi del Monte dei Paschi, stringere politici sensi con Vincenzo De Bustis e la sua Banca 121, come un Sindona del terzo millennio? Ma può un ex comunista andarsene in giro con scarpe di pelle umana? 

Ma può un ex comunista produrre vino in Umbria e vendersene carrettate a Pechino? Ma può un ex comunista ritrovarsi dentro a incastri fra politica e affari per portare il metano su Ischia? Ma può un ex comunista diventare presidente onorario della Silk Road Global Information, che poi all'alba della pandemia importa in Italia ventilatori tarocchi?

Può un ex comunista offrire consulenze strategiche con la DL&M Advisors? Ma insomma, può un ex comunista essere sempre in mezzo a capitani coraggiosi, trame internazionali, trafficanti, fiumi di quattrini? Ma può? Può, certo che può, soprattutto se è uno avanti come D'Alema, che non è un ex comunista, ma è da molto tempo un modernissimo comunista di stampo cinese.

Lingotto addio. L’inevitabile ritorno di D’Alema nel Pd e il tramonto del riformismo progressista. Mario Lavia su L'Inkiesta il 3 Gennaio 2022. L’ingresso dei pochi esponenti (ed elettori) di Articolo Uno all’interno del Partito democratico segna la fine dell’ambizioso disegno di Walter Veltroni di unire i riformisti dell’area socialista, liberale e cattolica in un soggetto a vocazione maggioritaria.

Massimo D’Alema ha perfettamente ragione, è tempo che Articolo Uno si sciolga nel Partito democratico. Prima di tutto perché il suo partito è stato un fallimento, è rimasta una enclave di ceto politico ex diessino, e davanti alla prospettiva delle elezioni, forse già nella primavera prossima, non avrebbe scampo: di qui la necessità, almeno per alcuni suoi esponenti, di accasarsi nel Pd, e per tutti gli altri (a partire proprio dal lìder Maximo) di ritrovare un ruolo. 

Ma questo in fin dei conti non è poi molto importante: si tratta di vicende umane. È interessante invece l’aspetto politico, e qui sta la ragione di D’Alema. Che differenza c’è tra Bersani e Letta, tra D’Alema e Bettini, tra Speranza e Provenzano? Nessuna. E siccome il Pd di oggi è in sostanza guidato da quel centrosinistra interno che appunto va da Letta a Provenzano, ecco che i reduci di Articolo Uno trovano in quel Nazareno che abbandonarono durante la “malattia” renziana un appartamento certo molto più comodo del seminterrato di venti metri quadrati che è il partitino del ministro della Salute. 

Massimo D’Alema ha dunque ragione, e ora darà il suo modesto colpo di barra allo scafo pilotato da Enrico Letta nella direzione di un partito più tradizionalmente di sinistra, post-diessino (lasceremmo stare espressioni di ben altra portata quali comunista, socialista o socialdemocratico), su una linea più sensibile a Landini-L’Espresso-Gruber che ai riformisti interni, più sensibile a Tomaso Montanari che a Sabino Cassese, con una spruzzata di manettarismo del patriota Travaglio, un vago movimentismo ambientalista, una sorta di populismo democratico buono – le Agorà – e molto professionismo di ex quadri dei Ds, incomparabilmente più efficace e smaliziato di quello degli ex renziani rimasti nel Pd a far la guardia al bidone.

Questi ultimi sono indispettiti dal ritorno nel partito di uno come D’Alema che li ha insultati per anni e che continua a farlo definendo il renzismo una «malattia» (rimembranza leniniana dell’ex segretario del Partito democratico della sinistra), una volgarità a cui ha dovuto per forza rispondere Letta non meno di 24 ore dopo che lo aveva fatto Filippo Sensi, deputato democratico ex portavoce di Renzi e di Paolo Gentiloni. 

Gli ex renziani rimasti nel Pd (“Base riformista”) sostengono che non sarà certo l’ingresso di Speranza e compagni a dettare la linea del Pd. I newcomers sono effettivamente pochi. Ma la questione è un’altra: come mai a D’Alema quello che finora faceva schifo adesso piaciucchia? Non essendo cambiato lui (se non nel senso di un sempre crescente radicalizzazione del suo pensiero), è chiaro che a essere cambiato è il partito di Letta: e che questo spostamento a sinistra – diciamo così per brevità – sia avvenuto all’ombra di un ex democristiano aggiunge al tutto un pizzico di paradosso. 

Vedremo se ci sarà un qualche segno di vitalità degli ex renziani annidati nei ministeri e nei gruppi parlamentari: si sente perfino parlare di congresso. Quello che si può dire fin d’ora è che il vecchio disegno del Lingotto di Walter Veltroni, cioè l’idea di una nuova sintesi delle tre culture riformiste, quella socialista, quella liberal-democratica è quella cattolico democratica, già mai davvero inveratosi, sembra definitivamente saltato per aria. Si torna a casa. Ha vinto Massimo D’Alema, chapeau.

Domenico Di Sanzo per "il Giornale" il 4 gennaio 2021. «È un classico, nella sua storia politica ha fatto spesso questi errori». Claudio Velardi, ora giornalista, saggista, blogger e presidente della Fondazione Ottimisti e Razionali, già capo dello Staff di Massimo D'Alema a Palazzo Chigi dal 1998 al 2000, non pensa che dietro le ultime uscite dell'ex premier su Mario Draghi e Matteo Renzi ci sia chissà quale raffinata strategia.

«Sembra strano che un uomo con la sua esperienza politica commetta queste ingenuità, ma è così», taglia corto uno dei famigerati Lothar (per via della testa rasata) dalemiani degli anni d'oro.

Quindi D'Alema non vuole ottenere nulla?

«Penso di no. Come a volte gli capita l'ha fatta fuori dal seminato, con l'unico risultato che adesso può dare una mano a una sorta di riconciliazione tra Enrico Letta e Matteo Renzi». 

Allora è solo il narcisismo dei leader?

«Sì, si è impiccato a una battuta per piacere a un pubblico che lo stava ascoltando e pendeva dalle sue labbra. Non è la prima volta che eccede e combina guai, facendo dei danni a se stesso».

Sembra di sentire parlare di Renzi.

«Come molti leader, sono entrambi dei narcisi. D'Alema ha fatto quelle uscite per l'altissima considerazione che ha di sé e perché immagina che potrà recuperare grazie alla sua intelligenza politica». 

Però lo stop a Draghi al Colle non suona come un controcanto a Letta, che sembra il meno ostile a questa ipotesi?

«Il fatto è che lui, non volendo, ha dato centralità a Letta, dandogli la possibilità di diventare il regista dell'elezione del prossimo presidente della Repubblica. Letta ha fatto un'uscita politicamente molto intelligente quando ha "ripreso" D'Alema per le frasi sulla "malattia" del renzismo e si è riguadagnato così l'apprezzamento di una componente molto importante del suo partito in vista del Quirinale, quella degli ex renziani. Poi il passaggio di D'Alema su Draghi che si autoeleggerebbe capo dello Stato è un'altra battuta infelice, nessuno può fare una battuta del genere perché è il Parlamento che elegge il presidente della Repubblica. Ma tutto è sempre dovuto al vizio del narcisismo». 

Non è paradossale che si parli del Pd a proposito di Renzi e D'Alema, che sono usciti entrambi da quel partito?

«No, loro due sono sicuramente dei leader importanti, anche se uno è accreditato dai sondaggi intorno al 2% e l'altro ha ottenuto il 3% alle ultime elezioni politiche. Ma parliamo del Pd perché resta il baricentro del sistema. In vista del Quirinale Letta può fare il regista ma deve dialogare con i centristi e con la Lega e Forza Italia, oltre che con Giorgia Meloni. Renzi invece, dopo le brillanti operazioni del Conte 2 e del governo Draghi dovrà accettare un ruolo da comprimario. Nel caso facesse prevalere il suo narcisismo rischierebbe di essere marginale».

Massimo Malpica per "il Giornale" il 3 gennaio 2021. Non è ancora rientrato nel Pd, ma la querida presencia del comandante Max D'Alema già fa sentire i suoi effetti sul partito guidato da Enrico Letta. Il segretario s' era inventato la piattaforma delle «agorà democratiche» proprio per permettere il ritorno al porto d'origine dei transfughi targati Leu e Articolo 1. Un'operazione lasciata passare dal partito, nonostante renziani e centristi dem non avessero troppo gradito, e il rientro della «Ditta» nel Pd era praticamente cosa fatta.

Poi ecco che a Capodanno D'Alema si dedica alla didattica a distanza per spiegare agli allievi del Nazareno di quale grave malattia avevano sofferto, e alla diagnosi di «renzismo», il barchino dei transfughi con D'Alema improvvisatosi timoniere, manco fosse tornato su Ikarus, si è ritrovato insabbiato sulla via del ritorno a casa.

Prima travolto dalle critiche dello stesso Renzi, poi da quelle dell'ala riformista del Pd e infine gelato anche da Letta, irritato per l'uscita sguaiata di Baffino e pronto a difendere pure gli anni a guida renziana del Partito democratico. Una mossa decisa e poco diplomatica, che ha stupito pure - piacevolmente - l'area moderata del partito.

Così quel passo del gambero degli ex compagni verso la casa madre ha subito un'inaspettata battuta d'arresto, confermata dalle dichiarazioni del day after, con il Pd che si stringe intorno al segretario per aver «chiuso» con durezza il caso D'Alema e Articolo Uno che, come ricorda Arturo Scotto, temporeggia e rinvia la questione dello «sbarco» nel Pd alla primavera, quando finiranno le agorà. 

E quando, si spera, le acque saranno tornate calme. Adesso non lo sono ancora. Andrea Marcucci arriva a chiedere un congresso anticipato. E Beppe Fioroni avverte: «Se la logica delle Agorà fosse questa», ovvero un ritorno al passato, «la scommessa di Letta sarebbe inficiata dal revanscismo degli esuli».

Ma il buon D'Alema ha messo in moto un effetto anche nella delicata partita del Quirinale. Proprio mentre si profila un nuovo vertice, dopo quello di Natale, per stoppare le uscite in ordine sparso tra dem, pentastellati e sinistra, e mettere a punto un percorso comune sul dossier Colle tra Letta, Giuseppe Conte e Roberto Speranza, a complicare la quadra arriva la sparata di D'Alema, che ha criticato l'autocandidatura di Draghi bollandolo come mera espressione del «potere della grande finanza internazionale». 

Ma forse il «sabotaggio» dalemiano potrebbe avere come conseguenza un effetto opposto a quello desiderato da Baffino. E il suo astio verso il premier avrebbe in effetti già fatto compattare intorno al nome di Draghi un buon numero di grandi elettori progressisti nell'area centrista.

Tra i riformisti del Pd ora si ironizza sulla capacità di D'Alema di orientare - ma al contrario - le elezioni del capo dello Stato: nel 2006, con la mancata convergenza sulla sua candidatura che portò al Quirinale Giorgio Napolitano; nel 2013, quando Baffino appoggiava Marini, battuto ancora dal secondo mandato di Napolitano; e infine nel 2015, con il supposto tentativo - rivelato da Renzi anni dopo - di chiudere un accordo con il centrodestra sul nome di Giuliano Amato, che finì per innescare l'elezione di Sergio Mattarella.

Ora i sostenitori dell'ipotesi Draghi sperano che l'intervento a gamba tesa di Baffino confermi la tendenza dell'ex premier a sbagliare candidato. Di certo, l'incertezza nel Pd è ancora tanta: un centinaio dei suoi grandi elettori avrebbe cominciato a caldeggiare l'ipotesi, già tra le opzioni di Letta, di traslocare SuperMario da Palazzo Chigi al Quirinale.

Il ritorno dei "Dalemoni". Augusto Minzolini il 4 Gennaio 2022 su Il Giornale. Se c'è uno sport in cui la sinistra eccelle, anzi è imbattibile, è quello di complicarsi la vita. Se c'è uno sport in cui la sinistra eccelle, anzi è imbattibile, è quello di complicarsi la vita. A sentire i bene informati il vertice del Pd, con una mezza complicità di Matteo Renzi, accarezzerebbe un piano per togliersi dal cul de sac sul Quirinale in cui è finito non potendo contare su un candidato competitivo e avendo meno voti del centro-destra in Parlamento. Qualcosa è già uscito sui giornali ma una versione inedita l'avrebbe sentita uno dei fondatori di Fratelli d'Italia finito nell'industria della Difesa niente poco di meno che dalla viva voce di Romano Prodi. L'idea sarebbe quella di spedire Mario Draghi al Quirinale, trasformandolo nei fatti suo malgrado in un candidato della sinistra, e sostituendolo a Palazzo Chigi addirittura con il segretario del Pd, Enrico Letta o con un suo surrogato, espressione dell'area centrista del partito, cioè l'immarcescibile Dario Franceschini. Sarebbe riproposta nei fatti la vecchia maggioranza del governo Conte Due con grillini, Leu, Renzi che pensa di portarsi dietro pure i centristi di Toti, senza la Lega e senza, se qualcuno tra gli azzurri nel frattempo non sarà impazzito, Forza Italia.

Un piano complesso che almeno a prima vista lascia increduli. Poi cominci a pensare e si insinua il sospetto che anche se D'Alema non è tornato nel Pd, probabilmente è tornata la moda dei «dalemoni», cioè di quelle strategie arzigogolate, piene di varianti e sotto-varianti peggio del Covid, che uscivano dalla mente del leader Maximo e che, nella maggior parte dei casi, ottenevano l'effetto opposto a quello desiderato. Una sorta di masochismo subliminale. Un'operazione del genere, ovviamente, considererebbe il partito che sulla carta dovrebbe fornire più truppe, cioè i grillini, carne da macello. Intanto perché si tratta di un piano ad alto rischio: togliere Draghi da Palazzo Chigi per spedirlo sul Colle, significa privare l'attuale equilibrio politico del suo pilastro portante nel pieno della pandemia e con mille ombre che si addensano sulla nostra economia. Un'operazione che può essere paragonata ad un tuffo nel vuoto che porterà nel giro di qualche mese alle elezioni. Prospettiva che i 5stelle considerano letale. Ma neppure nel caso che il governo dell'inedito «dalemone» made Letta-Renzi decolli e si arrivi alle elezioni a scadenza naturale, per Conte e Di Maio sarebbero rose e fiori. Un anno senza Draghi a Palazzo Chigi, con un premier del Pd e tutto il centro-destra all'opposizione, per una forza populista e «trasversale» come i 5stelle equivale consegnarsi all'estinzione elettorale.

Fin qui i grillini, ma anche Renzi farebbe una certa fatica a spiegare la ragione per cui dopo tutto il pandemonio che ha combinato esattamente un anno fa, si sarebbe deciso a tornare, come nel gioco dell'oca, alla casella di partenza di una maggioranza giallorossa più qualche appendice. Magari si inventerebbe qualche «supercazzola» ma in ogni caso farebbe ridere. Infine, ultima considerazione, se dal laboratorio di Enrico Letta, in collaborazione con Renzi, escono davvero fuori dei progetti che somigliano tanto ai «dalemoni» che andavano in voga a cavallo tra il secolo scorso e l'attuale, allora non c'è tanto da scandalizzarsi del ritorno di D'Alema che, a questo punto, ha tutto il diritto di sentirsi a casa sua nel Pd. In fondo il leader Maximo e Renzi, come sostiene Claudio Velardi che conosce entrambi bene, si somigliano, sono entrambi narcisi. Augusto Minzolini

Fallito il tentativo di "laicizzare" la sinistra comunista. Marco Gervasoni il 3 Gennaio 2022 su Il Giornale. D'Alema torna a casa assieme al partito ectoplasma Articolo 1, ma dal Pd non paiono voler sacrificare il vitello grasso. D'Alema torna a casa assieme al partito ectoplasma Articolo 1, ma dal Pd non paiono voler sacrificare il vitello grasso. La risposta piuttosto dura di Letta, che nega il partito sia guarito dalla «malattia» del renzismo, fa trasparire non poca irritazione ed è quella che in psicanalisi verrebbe definita una reazione sintomale, ovvero di ritorno del rimosso. Nonostante le ironie sul pensionato, nel Pd sanno che D'Alema è il migliore dei loro, che molti gli devono tutto (a cominciare dal neo sindaco di Roma) e che ha eliminato più segretari lui di qualsiasi leader di destra. Inoltre Letta teme che un partito storicamente balcanizzato gli esploda nei giorni del voto del Quirinale, magari dopo qualche telefonata di D'Alema. Ma le parole di Letta sono un ritorno del rimosso perché egli sa che D'Alema ha ragione. Che il Pd è regredito ed è tornato un partito post comunista, tassatore e assistenzialista. E che l'ex leader di Articolo 1, grande amico del comunismo cinese e suggeritore di Conte, ha diritto a sentirsene a casa più di tanti altri.

Del resto, non intende Letta allearsi con i 5 stelle? La piattaforma D'Alema è quella più consona. Problemi loro, ma dal nostro punto di vista riteniamo che il rientro di D'Alema sigli la definitiva sconfitta del tentativo renziano di laicizzare la sinistra. E diciamo laicizzare perché il processo va spiegato con le categorie della ecclesiologia più che della scienza politica. Il Partito, la Ditta come la chiama Bersani, può essere liberista o statalista a seconda del momento, può accogliere tutti, democristiani, liberali, persino fascisti, è un Proteo che può prendere ogni forma. L'importante è che mantenga il potere e che le decisioni restino sempre nelle mani di un gruppo dirigente riprodotto per auto cooptazione. Chiunque abbia provato dall'esterno o dall'interno a laicizzare la sinistra italiana, liberandola dalla ipoteca comunista, rendendola competitiva, in grado di andare al potere dopo aver vinto le elezioni, non di tenerlo pur perdendole regolarmente, è finito male. A questo punto, o Renzi si auto esilia (ma non vorremmo dare suggerimenti ai pm) oppure dovrebbe continuare la sua missione di rinnovare la sinistra italiana, dialogando con il berlusconismo. Che un pezzo di sinistra possa entrare nel centrodestra può sembrare strano in ogni Paese, ma non in quello in cui la sinistra è ancora egemonizzata dalla mentalità comunista. In fondo, nel 1994, senza l'apporto dei craxiani, Forza Italia non avrebbe avuto quella forza. E la storia, in forme diverse, potrebbe ripetersi. Marco Gervasoni

Estratto dell’articolo di Filippo Ceccarelli per "la Repubblica" il 3 gennaio 2021. […] Nello specifico vale la pena di menzionare una sorta di legge generale formulata in forma di aforisma da un corsivo di Jena: «Peggio di D'Alema ci sono i dalemiani; peggio dei dalemiani ci sono gli ex dalemiani; peggio degli ex dalemiani c'è solo Orfini». A prescindere da quest' ultimo, il punto impegnativo, semmai, è individuare il cristallo di rocca, il nocciolo duro, il nucleo incandescente che rende D'Alema, appunto, D'Alema. 

Per arrivarci occorre riconoscergli diverse virtù: è intelligente, è colto, ha carisma, esperienza di governo e conosce il mondo; inoltre è coraggioso, trasmette sicurezza ai suoi devoti, ha un modello alto in testa (Palmiro Togliatti) e, una volta conosciuto di persona, risulta anche spiritoso e perfino simpatico. Finché c'erano gli ideali e le culture politiche tutto questo l'aiutava moltissimo. Tramontato quel mondo, ha ottenuto il potere, ma gli si è come rotta la cornice e gli è saltato un contenimento.

Nella politica mediatizzata, un modo carino per intendere una scena pubblica che dal teatrino dei pupi si è estesa alle arene del wrestling, quel processo si è rivelato una prigione e le virtù di cui sopra sono diventate la sua dannazione. […] da anni sembra davvero che D'Alema concepisca la politica e se stesso in una costante trance agonistica. Vuole soprattutto primeggiare.

Ne hanno via via fatto le spese i socialisti craxiani, Occhetto, Prodi, un po' Fassino, Veltroni; nelle pause la smania di sovrastare e dominare si è manifestata con la barca, poi con la gastronomia, da un po' anche con le smanie country e col vino. Numero uno, sempre. Ma siccome non è possibile perché siamo tutti fragili e pieni di magagne, ecco che in lui le normali sconfitte e i naturali avvicendamenti della vita pubblica si risolvono in presunzione, disprezzo, arroganza, forse anche odio, di sicuro ostentando una suscettibilità che nel permanente carnevale spinge una quantità di persone a provocarlo, a dileggiarlo, a stuzzicarlo e a godersi la reazione, che arriva puntuale.

Si può immaginare come abbia vissuto la figura di Renzi, di cui ha detto: «Finché mi sarà dato di esistere, non potrà stare tranquillo». Sennonché qui da noi l'attitudine melodrammatica va a braccetto con la minaccia di querelare chi l'aveva accusato di negligenza rispetto alle deiezioni del gigantesco cane Aiace, 70 kg; e quando degli inviati di chissà quale trasmissione e chissà per quale stupido pretesto gli si sono parati innanzi con un vassoio di tortellini, lui ha messo su la faccia delle grandi occasioni e sbàm, con una manata, tutti i tortellini giù per terra, davanti alle telecamere. Tutto ciò, nell'immaginario, rischia non solo di oscurare, ma di deformare in senso drammaticamente caricaturale una carriera che ormai sfiora il mezzo secolo. Senza che mai si possa dire: non è più lui. E infatti ci mancava, D'Alema.

Il ritratto di un uomo di qualità, intelligenza e cinismo notevoli. Chi è Massimo D’Alema, l’unico che potrebbe dare un’anima al Pd. Paolo Guzzanti su Il Riformista il 4 Gennaio 2022. Il Grande Saladino delle figurine Panini della memoria torna in campo: l’introvabile, il baffuto, sprezzante e scostante, ultimo comunista ma forse anche il primo vero capitalista della grande ditta delle Botteghe Oscure sta assediando il Fort Alamo-Nazzareno per espugnarlo e riprendere il comando delle sue legioni. Poteva peggior incubo capitare a Enrico Letta, che si è trovato costretto addirittura a difendere il suo mortale nemico Matteo Renzi – quello di “stai sereno” – rispondendo a D’Alema che tutto va bene, madama la marchesa, tout va bien, tout va très bien? Come Annibale quando si stufò degli ozi pugliesi, Massimo D’Alema ha deciso di riapparire alle porte di Roma con elefanti, salmerie, bagagli, ideologie.

L’ex segretario per eccellenza non ha proprio detto che espugnerà il fortilizio, ma in quello stile che adora, in quello stile inconfondibile e un po’ comunista, che segue la sua sintassi fredda e orgogliosa, ha soltanto accennato alla eventualità, se non ha la probabilità, che “Articolo uno” chiuda i battenti e li vada a riaprire direttamente nel partito democratico. Sarebbe questa la strategia del genere Proteina Spike, quella specie di fior di fragola che abita sulla coccia del virus Covid e che funge da trapano per bucare le nostre cellule umane e ficcarcisi dentro con armi e bagagli.

È stato un colpo da maestro, quello di D’Alema, lo dimostrano i contraccolpi confusi e furibondi che ha prodotto. Tutti hanno avuto paura e tutti hanno gridato di non avere paura. Il discorso politico di D’Alema è stato semplice: Il vecchio partito comunista, oggi reperibile su Google come partito democratico – dal momento che contiene un buon quarto di democrazia cristiana – ora che è guarito dal suo vero Covid, ovvero dal renzismo, non più malato ma ancora convalescente, merita di uscire dalla sala rianimazione e tornare in prima linea. Prima linea di che, non è chiaro affatto. Resta sospesa nel fumetto, sopra la scena teatrale, la nobile scritta morettiana che chiede: “D’Alema, dicci qualcosa di sinistra”.

Erano in realtà puri sofismi. Oggi nessuno sa più che cosa sia di sinistra o di destra. La destra, come forse è noto anche a D’Alema, ha scoperto che è anche un eccellente affare economico far sparire la povertà dando soldi a chi non ne ha e rimettendo tutti nella condizione di vivere benino, se non bene, per diventare quanto prima possibile dei consumatori. Siamo agli antipodi sia di Paperino che di Carlo Marx. Quindi ingiungere a D’Alema di rispondere su che cosa sia la sinistra sarebbe soltanto un rituale di tipo azteco, cioè lontano da ogni significato moderno. Noi, almeno il direttore di questo giornale, ed io stesso che pure non sono mai stato né comunista né del PD, siamo molto contenti di questo evento. Penso che D’Alema sia una figura eccezionale del panorama politico, per motivi totalmente umani, per non dire antropologici. Io adoro la sua scostanza, i suoi musi, le sue scudisciate, il suo onesto settarismo ma anche la sua lontananza da ogni pauperismo manicheo e non voglio ritirare di nuovo in ballo la barca le scarpe il vino l’aceto i vestiti di buon taglio i baffi curati. Queste semmai sono tutte prove a suo vantaggio. Voglio raccontare brevemente i miei rapporti personali con D’Alema ma soltanto perché sono il mio strumento di lavoro per descrivere l’uomo.

“Occhetto D’Alema e il patto del garage”, retroscena del giorno in cui morì il PCI raccontata da Gianni Cervetti

Un tempo lontanissimo, quando io ero un cronista parlamentare di Repubblica i rapporti erano pessimi, il Massimo D’Alema sprezzante, quando mi incontrava nel transatlantico di Montecitorio, mi guardava senza muovere un pelo dei suoi baffi e quando ero abbastanza vicino mi chiedeva: hai fatto anche oggi il tuo compitino anticomunista? Poi con la svolta nel Pci e la fine della storia che sembrava finita invece ancora continua, non ricordo bene come, diventammo molto cordiali l’uno con l’altro. Lo trovavo nella sua stanza alle Botteghe Oscure regolarmente alle prese sul computer con un solitario di carte di altissimo livello, con cui si stava misurando. E poiché quell’epoca era in voga l’espressione polo progressista contrapposta a quella di polo conservatore, visto che si parlava sempre di un’Italia bipolare, D’Alema mi accoglieva con un sorridente “Come stai, pollo conservatore”. E io rispondevo regolarmente: come stai tu pollo progressista. Sciocchezze come si vede.

Poi accade un fatto: Letizia Moratti, Presidente della Rai, sì convinse di volermi come direttore del tg tre. Un’impresa da far tremare i polsi i quali infatti si spezzarono presto. L’allora direttore generale della Rai mi avvertì che nessuna mia nomina avrebbe avuto valore senza il previsto consenso di Massimo D’Alema. Così lo chiamai, spiegai la strana faccenda di me che dovevo chiedere il permesso a lui per assumere la direzione di Telegiornale del servizio pubblico e lui rispose: “Una tua direzione del tg3 sarebbe accolta dai giornalisti come un atto di maccartismo”. Il Senatore McCarthy, lo dico per i più giovani, fu quello della caccia alle streghe comuniste durante la guerra fredda negli Stati Uniti che portò alla cacciata e messa al bando dei molti intellettuali registi attori e sceneggiatori di Hollywood. Bocciato: non era il caso. Io ero allora un inviato della Stampa e l’ultima mia posizione politica nota era quella di un antico militante del partito socialista. Quindi mi offesi e mi incazzai. E poi da qualche parte scrissi il racconto di questa scena surreale. Il risultato fu che D’Alema mi tolse il saluto. Da allora ha fatto finta di non riconoscermi.

Eppure dovemmo passare due lunghe giornate gomito a gomito nella commissione Mitrokhin, dove l’ex presidente del consiglio ed ex segretario comunista Massimo D’Alema venne a rispondere alle domande della commissione parlamentare che riguardavano le questioni delle spie russe, ma più ancora degli agenti di influenza non solo comunisti, anzi prevalentemente non comunisti nel nostro paese. Fu un colloquio lungo e gelido, tutto agli atti.

Una cosa simile accadde con Sergio Mattarella, che di D’Alema era stato ministro e che per le sue funzioni era tenuto a sapere come si fossero svolti alcuni fatti che riguardavano i nostri servizi segreti. Anche in quel caso mi trovai di fronte a questo signore che oggi sta per lasciare il Quirinale, in un dialogo fatto di domanda risposta precisazioni sotto precisazioni, puntiglioso e per quel che ricordo non granché rivelatore.

Poi ci fu la questione di mia figlia Sabina, di cui D’Alema si dichiarava pubblicamente ammiratore televisivo, la quale volle cimentarsi nel suo secondo personaggio maschile, dopo quello di Claudio Martelli da lei ritratto in una specie di coppia gay con Bettino Craxi in tempi in cui Martelli e Craxi erano politicamente una coppia scoppiata. Per quel che ne so D’Alema fu entusiasta di aiutare Sabina a costruire il suo personaggio, ma quando poi vide in onda il prodotto finito in cui il Massimo-Sabina era destrutturato e riassemblato in una maschera comica dissacrante e dissacrata, si incazzò lui e poi non so come è andata a finire. Due espisodiucci minimi di minima cronaca, ma utili per l’antropologia di Messer D’Alema. Lui odia Renzi che ama Berlusconi che ama D’Alema che disprezza Renzi. Tutto uguale al celebre fumetto tedesco-americano in cui una gatta è pazza d’amore per un topo che la odia essendo innamorato del cane -sceriffo che ama la gatta che ama il topo che la prende a bastonate in fronte.

Così sono testimone come tutti del fatto che Silvio Berlusconi consideri Massimo D’Alema uno dei rari politici in grado di fare politica con intelligenza e con un rispettabile cinismo, e che Matteo Renzi sia per sua stessa ammissione un figlio delle televisioni berlusconiane, e che proprio per questo motivo sia stato spinto da quella parte dell’elettorato del PD che considera Berlusconi come quella specie di carro del carnevale di Rio de Janeiro che hanno messo insieme un po’ di magistrati giornalisti opinionisti e comici di scarsa fantasia, un carro da rottamare perché ora abbiamo visto finalmente un bello spicchio di verità sui famosi processi che hanno scippato un leader all’elettorato italiano. Oggi D’Alema torna di scena, prima o poi entrerà con i suoi più fidi giannizzeri al palazzetto d’inverno del Nazareno e io spero caldamente che si porti presto dietro alcuni dei suoi meglio D’Alema Boys, un gruppo di efficienti intellettuali amministratori e gente di mondo, nel senso buono, che un tempo formavano la sua Corte. Che il Pd oggi non abbia alcuna anima e che la segreteria di Enrico Letta sia ondivaga, flappa, afflitta da complessi di inferiorità con qualche mania di grandezza, benché il segretario parli benissimo italiano francese inglese, è un fatto. Noi non sappiamo se D’Alema ha una formula di sinistra da gettare sul tavolo. Una, se ce la, la tiri fuori.

Ultima tenera minima annotazione. D’Alema fece una guerra in Europa. Gli aerei militari italiani bombardarono una capitale europea per la prima volta dopo la Seconda guerra mondiale. Quella capitale si chiama Belgrado, e quando vado e la vedo ancora sventrata perché i serbi l’hanno voluta lasciare con le ferite in vista, io provo vergogna. Ma D’Alema la guerra la fece E il pilota zoccolone fu abbattuto dalla contraerea e poi restituito con molto rossore. Ma quel che ricordo -non di quella guerra ma di quella successiva, quando D’Alema era ministro degli esteri – è che il nostro trovò affascinante il segretario di Stato americano Condoleeza Rice, prima donna nera a comandare nella storia oltre ad essere una fantastica pianista e un’esperta di lingua russa, e tutti a torto o ragione attribuivano ad Alena un debole per questa donna americana che sfiorava la cotta. Certamente nulla era vero, ma questo tratto umanizzava il feroce saladino.

Paolo Guzzanti. Giornalista e politico è stato vicedirettore de Il Giornale. Membro della Fondazione Italia Usa è stato senatore nella XIV e XV legislatura per Forza Italia e deputato nella XVI per Il Popolo della Libertà. 

Fenomenologia del ritorno di Massimo D’Alema. Vittorio Ferla su Il Riformista il 3 Gennaio 2022. “A volte ritornano” sembra a tutti il titolo cinematografico più ovvio per commentate la retromarcia di D’Alema in direzione del Largo del Nazareno. Banale, forse, ma idoneo. Anche perché nel film del 1991 diretto da Tom McLoughlin e basato su un racconto di Stephen King, tre ceffi riappaiono anni dopo un delitto, nei panni di zombie, per affrontare il fratello della loro vittima. Come si legge nel Morandini, il dizionario dei film, “un Tv movie poco originale, infestato da gratuiti eccessi truculenti”. Anche in questo caso abbiamo degli zombie (ovvero dei personaggi politici spettrali tornati a tormentare gli umani), abbiamo una trama poco originale (quella delle infinite scissioni e ricomposizioni della storia della sinistra) e abbiamo gli eccessi truculenti (di chi accusa l’avversario politico di essere una malattia e strapazza senza pietà il partito di cui dovrebbe tornare a far parte).

Nessuno stupore, suvvia. Gli zombie protagonisti di quel film sono dei malviventi con elevata mania di controllo e dedicano la loro vita, sia la reale che la fantasmatica, a rovinare la vita degli altri. Quasi quanto quel Lider Maximo che ha fatto finta di fondare un partito nuovo per poi divertirsi ad abbatterlo, architetta la scissione dopo averne perso il controllo, infine rientra come sopravvissuto per tornare a torturarlo.

Ricostruzione troppo pop e irriverente, dirà qualcuno. È vero, lo è: cerchiamo di alzare il tiro, allora.

L’occasione la offre lo schema concettuale che D’Alema adotta per giustificare il rientro. La malattia è finita, il partito è guarito. Ohibò. Guarigione contro malattia, però, è la classica antinomia che rivela un’approccio religioso e una concezione “redentiva” della politica. Da una parte, il nemico politico come demone e sommo male. Dall’altra, il sommo bene della propria confessione. Per condurre la sfida contro il diavolo serve un partito-“chiesa” (o, per chi è più terra-terra, una casereccia “ditta”). Solo così può garantirsi la salute delle anime: extra Ecclesiam nulla salus, appunto. D’Alema sta lì per quello: per ricordare la missione salvifica che compete all’oligarchia del partito, ma che quest’ultima sembra avere abbandonato. Di questa casta dotata di funzione sacerdotale e delegata ad adempiere alla missione, di questo ristretto gruppo di chierici incaricato di indicare la retta via e di combattere ed estirpare l’eresia, Massimo D’Alema si considera da sempre il campione. Una sorta di Bernardo Gui (l’inquisitore domenicano interpretato da Murray Abraham ne Il Nome della Rosa) in salsa comunista.

Che cosa c’è di laico, in una prospettiva del genere? Nulla, ovviamente. Che cosa c’è di moderno? Altrettanto: nulla. Che cosa c’è dell’identità della sinistra? Mah, speriamo nulla. A sinistra ancora in tanti, dotati di buon senso e di spirito libertario, cercano di declinare un’identità un po’ diversa. C’è una sinistra che si batte per la tutela dei diritti degli immigrati, per la dignità umana dei carcerati, per i diritti civili e sociali, per le garanzie degli imputati nel processo e – perfino! – per mettere un argine agli abusi di potere della magistratura (vero, direttore Sansonetti?). E poi c’è lui, Massimone nostro, che ha il compito di scacciare dal tempio i mercanti in odore di riformismo. Mon dieu, che spreco di energie.

Ma l’ironia della realtà sembra più intelligente del sarcasmo purificatore del nostro. Articolo 1 chiude i battenti. Il che rivela che quella sinistra che l’ex presidente del consiglio pensava di rappresentare semplicemente non esiste più. O, tutt’al più, è votata dai parenti stretti degli ex-scissionisti. L’annuncio della fusione merita un sorriso: una fusione “atomica”, si potrebbe dire, nel senso delle dimensioni microscopiche di quel partito fallito che dovrebbe nientedimeno creare – con il Pd – la nuova sinistra unita. Mon dieu, che spreco di energie.

Al termine del deludente flirt con Articolo 1, inoltre, l’ironia della realtà trascina Massimo D’Alema (che al Pd riformista non ha mai creduto e che, su quella prospettiva, per anni ha mentito sapendo di mentire) tra le braccia malandate, ma un po’ più salde, di quel Pd, forza popolare, europeista, riformista e di governo, che sostiene addirittura Mario Draghi. L’odiato tecnocrate, la trave nell’occhio dei sacerdoti dell’identità, quel “coso curioso” che potrebbe perfino trasferirsi al Quirinale.

Diciamo una verità: molti, nel Pd, in modo più o meno esplicito, cinguettano con D’Alema, felici di essersi finalmente liberati dell’eretico per eccellenza: Matteo Renzi. Ma diciamo anche un’altra verità: per bilanciare, inibire, rintuzzare o spernacchiare i quattro amici al bar che ritornano nella beneamata ‘ditta’ basta oggi molto ma molto meno di Matteo Renzi. Basta perfino Base Riformista. Che, infatti, non ha mancato, stavolta, di farsi sentire. Insomma: perfino il molle Partito Democratico attuale, dopo aver sentito le parole dello zio Max, non ha potuto evitare di fare l’offeso. La reazione stizzita dei suoi dirigenti sembra non dare per scontata la deriva crepuscolare e novecentesca delle “buone cose di pessimo gusto” che D’Alema, in versione Nonna Speranza di gozzaniana memoria, continua a propinargli. Un flebile segno di vita? Forse sì. Dopo il quale, però, ci auguriamo qualcosina di più tosto. Vittorio Ferla

Antonio Polito per il "Corriere della Sera" il 5 gennaio 2022. Il Gran Maestro, il vero Obi-Wan Kenobi del Partito del Risentimento è naturalmente Massimo D'Alema. La sua ultima uscita è un piccolo capolavoro del genere. Per poter rientrare nel Pd chiarisce subito che ha fatto bene ad uscirne. E non maltratta solo Renzi e i renziani, definiti una «malattia», seguendo uno stile che applica le categorie della psichiatria alla lotta politica e che risale ai bolscevichi. 

Ma aggiunge anche che la malattia si è curata da sola, così da mettere in chiaro che non solo i renziani erano una tabe, ma anche gli anti-renziani rimasti nel Pd erano dei fessi. Tra costoro, ovviamente, include l'attuale segretario del Pd. L'unico che aveva capito tutto era lui. Si deve dunque solo a un destino cinico e baro se il successo elettorale del suo partitino è tale da consigliare di ri-scioglierlo nel Pd.

Un trionfo del risentimento capace perfino di suturare per un istante quello storico tra Letta e Renzi, che si odiano sì fraternamente, ma non quanto tutti e due odiano D'Alema. Intendiamoci: il risentimento non è mai stato qualcosa di estraneo alla politica. Ne è anzi una componente fondamentale. Nella patria della democrazia, gli Stati Uniti, è anzi diventato l'anima di una guerra vigile strisciante chiamata «polarizzazione». Ma forse è per questo che furono inventati i partiti di massa, proprio per metabolizzare il desiderio di rivalsa che inevitabilmente avvelena le personalità in conflitto.

E niente come la storia delle grandi battaglie per il Quirinale sta lì a dimostrare che invece, in quella arena, devi proprio «secolarizzare» gli odii del passato e sublimarti in un'altra dimensione, che è per l'appunto politica. Per esempio: non dev' essere stata cosa da poco per Craxi, alfiere del partito della trattativa durante il caso Moro, eleggere nel 1985 come presidente Francesco Cossiga, che invece della linea della fermezza era stato l'inflessibile esecutore dalla postazione di ministro dell'Interno. E così il Psi votò per l'uomo il cui nome la sinistra parlamentare scriveva sui muri con la K e le SS. 

E il Pci votò per l'ex premier che aveva aperto la porta di Comiso agli euro-missili americani, puntati contro l'Urss. Perché sia Craxi sia Natta capirono che era il male minore. Risultato: 752 voti al primo scrutinio, su 977. Né deve essere stato facile, qualche anno prima, nel 1964, per Pietro Nenni, candidato delle sinistre lanciato in testa alla gara dalla faida democristiana, mettersi da parte a un certo punto e chiedere sia al suo partito che ai comunisti di votare per Giuseppe Saragat, fratello-coltello della scissione socialista, l'uomo che se n'era andato per fondare un partito concorrente, il Psdi, e togliergli i voti.

Eppure Nenni lo fece. Perché per la sinistra era meglio Saragat che Leone (il quale poi si prese la rivincita sette anni dopo). E invece oggi che i partiti non ci sono più, o sono simulacri alquanto vuoti di quelli di un tempo, nessuno appare più in grado di «secolarizzare» il conflitto, e la politica sembra diventata un sequel di «The last duel», un insieme di piccole mischie personali che formano insieme una grande zuffa collettiva, la cui polvere copre ancora ogni previsione possibile sull'elezione del presidente della Repubblica a gennaio. Oggi le ripicche motivano la politica, invece che il contrario.

E si vede a occhio nudo che Giuseppe Conte non vuole Draghi al Quirinale perché in fin dei conti è l'uomo cui ha dovuto cedere Palazzo Chigi, e la «promozione» dell'uno farebbe risultare ancor di più la «bocciatura» dell'altro, finora non riscattata nella nuova veste di capo politico dei Cinquestelle (dove entra in scena il risentimento di Di Maio, a sua volta ex). 

E si vede a occhio nudo che Goffredo Bettini non l'ha ancora digerita quella fine del governo giallo-rosso (o rosa), e vorrebbe tanto aiutare il suo compagno di cordata di allora, anche se aiutare Conte è davvero difficile. Però Bettini, che una storia con i partiti di un tempo ce l'ha avuta, è tra i pochi che sembra ancora capace di «politicizzare» il risentimento. E infatti per quanto lavori anche lui contro Draghi per ragioni non molto diverse da quelle di D'Alema, e cioè «non è uno di noi», «non è un politico», sarebbe anche disposto a lasciar perdere se solo Draghi facesse un atto di sottomissione e di ossequio alla politica dei partiti, ed entrasse nella compagnia da Presidente.

Il risentimento, ovviamente, alligna a sinistra molto meglio che altrove. Vi trova il suo brodo di coltura ideale, perché la sinistra è talmente carica di storia, di ideologie, di correnti, e dunque di duelli, da aver avuto il tempo di sedimentare risentimenti cosmici. Il centrodestra molto meno. In Italia, poi, il centrodestra si identifica fin dalla sua nascita con Berlusconi, si potrebbe dire che «è» Berlusconi. Dunque il risentimento non si può manifestare sotto forma di lotta politica. Potrà venir fuori solo come nuova ed estrema personalizzazione: e cioè sotto forma di un centinaio di franchi tiratori al momento del voto per il Cavaliere.

Francesco Boezi per "il Giornale" il 5 gennaio 2022. «Non ha più il potere di una volta ma, quando parla lui, tutti zitti e mosca». Lui è Massimo D'Alema, che ha appena annunciato l'intenzione di rientrare nel Pd, mentre quelli che tacciono in religioso silenzio sono alcuni tra i parlamentari Dem. La voce arriva dal Nazareno e, più nello specifico, dall'ala zingarettiana: il leader Maximo non ha più la facoltà di fare il bello ed il cattivo tempo ma conserva un certo tasso di potere attrattivo, in specie tra i più giovani. Il che, com' è ovvio di questi tempi, può giocare un ruolo pure in funzione del Quirinale. Il «Dalemone», a questo giro, può significare di nuovo franchi tiratori.

Tra le fila del Pd c'è chi assicura che siano almeno una quarantina i parlamentari disposti ad assecondare l'ennesimo piano cervellotico dell'ex premier: «Dipende dalle opzioni», fanno presente dall'ala centrista dei Dem. «Potrebbero addirittura arrivare a sessanta», incalzano. Certo è che i precedenti non giocano in favore del buon umore del segretario Enrico Letta: se è vero, come ha ricordato Matteo Renzi, che tutti i candidati al Colle passati per la benedizione di D'Alema sono stati «impallinati», è vero pure che ad «impallinare» Romano Prodi nell'aprile del 2013, con l'operazione dei 101, è stato anche, se non soprattutto, l'ex leader Maximo. Circola soprattutto un nome come sponda: quello del vicesegretario Giuseppe Provenzano. «L'ex ministro deve di più ad Orlando, però è noto come i vari staff siano composti da dalemiani. I due si parlano eccome», annota la fonte zingarettiana. La corrente dei giovani non vede l'ora di contarsi tramite il congresso nazionale ed il giro di boa per il Colle può rappresentare una prova generale.

Il senatore Salvatore Margiotta non ci gira troppo attorno e prova a smorzare la questione: «Al Senato pochi - esordisce, riferendosi ai dalemiani - ed eventuali franchi tiratori non sarebbero addebitabili a lui». Infatti la partita si gioca per lo più tra gli eletti della Camera, dove appunto risiedono gli esordienti. Margiotta aggiunge: «Esistono persone che lo stimano ma con nessuno ha o ha avuto un rapporto politico stretto». 

In realtà, la storia dei «miglioristi» del Pd, a partire dal congresso Renzi-Cuperlo, è tutta segnata dal rapporto D'Alema-Orlando. Qualcosa che risulta difficile da destrutturare. Fonti vicine alla Fondazione Italianieuropei, del resto, confermano al Giornale l'esistenza di un dialogo che non si è mai interrotto. È proprio agli uomini vicini al ministro del Lavoro che ci si riferisce quando, quasi sottacendo, dal Pd arrivano a parlare di «coperta corta» attorno a Mario Draghi. 

Se Letta dovesse provare a blindare l'intesa con i riformisti - leggasi pure Base riformista sull'elezione dell'attuale premier al Colle, l'ala sinistra del partito, magari manovrata da D'Alema, potrebbe portare in dote qualche sorpresa. Per essere precisi: tra una quarantina ed una sessantina di sorprese. Anche perché una parte del Pd nicchia: «Non sono interessato a misurare il peso di D'Alema nel Pd - dice il senatore Dario Stefano - quanto semmai a capire se il Pd si sia liberato da quel condizionamento che ha sempre scelto di privilegiare la Ditta piuttosto che un campo largo, progressista e riformista». L'ex premier post-comunista eviterebbe volentieri il trasloco di Mario Draghi, che è un atlantista di ferro.

L'ex segretario dei Ds è invece un filo-cinese. Quale occasione migliore per fare un favore al «Dragone» se non quella di organizzare un «Dalemone» per ridimensionare le velleità quirinalizie dell'attuale Pdc? Un bel combinato disposto, come usano dire i giuristi.

·        Matteo Renzi.

Da open.online il 3 dicembre 2022.

Denunciati dal senatore di Italia Viva Matteo Renzi e da Marco Carrai, ex membro del cda della fondazione Open lo scorso febbraio, i due magistrati di Firenze, Luca Turco e Antonino Nastasi sono stati sollevati da ogni accusa. La procura di Genova ha chiesto ufficialmente l’archiviazione per i due incolpati di aver trasmesso al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Copasir, atti dell’indagine che la Cassazione aveva definito «non trattenibili». E di averlo fatto sotto richiesta del Copasir per «esigenze di sicurezza nazionale».

Turco e Nastasi a quel punto erano stati indagati per abuso d’ufficio al fine di poter procedere con gli accertamenti. Ma la procura di Genova ora chiarisce: «Al Copasir non può essere opposto il segreto d’ufficio o il segreto professionale e bancario». Dunque «il comportamento dei pm toscani è stato corretto». E ancora: «Correttamente è stata ritenuta doverosa la trasmissione degli atti al Copasir per le valutazioni di competenza in punto sicurezza nazionale», spiegano gli aggiunti Francesco Pinto e Vittorio Ranieri Miniati nella loro richiesta di archiviazione, «secondo la legge l’autorità giudiziaria non può non rispondere, al massimo ritardare la risposta motivandolo con ragioni di natura istruttoria».

Quindi per la Procura genovese la trasmissione degli atti denunciata da Renzi e Carrai era dovuta, visto che «non si è trattato di una indebita e intenzionale diffusione all’esterno del materiale sequestrato ma di una comunicazione istituzionale a un organismo parlamentare i cui membri sono tenuti al segreto d’ufficio». Contro l’aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi, Renzi aveva presentato un’altra querela aggiungendo ai due nomi anche quello dell’ex procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, accusandoli di aver acquisito illecitamente le sue chat e il suo estratto conto.

Anche su questo la procura aveva chiesto l’archiviazione con il commento di Matteo Renzi: «Decisione scontata dopo la frettolosa richiesta dei colleghi genovesi». Il gip aveva archiviato perché a suo giudizio i tre magistrati fiorentini non avevano violato né la Costituzione né la legge. Intanto rispondendo in Senato al question time sollecitato proprio da Renzi, il ministro della Giustizia Carlo Nordio poche ore fa ha annunciato l’imminente avvio di un’indagine in procura a Firenze.

Renzi non ci sta sull'archiviazione dei magistrati dell'inchiesta Open. Il leader d'Iv: "Andremo a Genova e ci opporremo". E Gasparri interroga sull'Anm. Francesco Boezi il 4 Dicembre 2022 su Il Giornale.

In gergo si direbbe una chiusura a riccio. La procura di Genova, dopo il question time di Matteo Renzi al ministro della Giustizia Carlo Nordio sul caso Open e le successive argomentazioni del Guardasigilli (ora è previsto un «rigoroso» accertamento di carattere conoscitivo per mezzo dell'Ispettorato generale), ha chiesto l'archiviazione per l'aggiunto Luca Turco e per il sostituto Antonino Nastasi.

I due erano stati denunciati dal leader d'Italia viva e da Marco Carrai per via della trasmissione al Copasir di atti che sarebbero dovuti essere distrutti, secondo la Corte di Cassazione. Il che, oltre alla rilevanza giuridica, ha assunto tratti di centralità politica, per via della condivisione del punto di vista di Renzi da parte di tutto quello che verrebbe da definire «fronte garantista». La vicenda è annotata anche nella nuova edizione de «Il Mostro», l'ultimo libro dell'ex presidente del Consiglio: «Visto che si deve andare di fretta per evitare di lasciare nel limbo il procuratore (la procura di Genova è la stessa del caso di Briatore e dello yacht, ndr.), c'è un giudice a Genova che ritiene che sia giusto che Turco possa ignorare la sentenza della Cassazione e trasmettere un atto al Parlamento pur sapendo che quell'atto è stato acquisito in modo illegittimo e che va distrutto?», si è domandato l'ex premier. Come premesso, la novità è una richiesta di archiviazione per Turco e Nastasi in cui si osserva che «al Copasir non può essere opposto il segreto d'ufficio o il segreto professionale e bancario. Il comportamento dei pm toscani è stato corretto».

Il fondatore di Iv - com'è noto - non è uno che molla il colpo: «La procura genovese - ha detto ieri, nel corso della presentazione della sua opera libraria a Padova - sostiene che se un pm non rispetta una sentenza della Cassazione non c'è modo di sanzionare quel comportamento: noi andremo nuovamente a Genova e ci opporremo», ha tuonato.

Subito dopo la precisazione: «Luca Turco non ha rispettato una sentenza della Cassazione: è giusto o non è giusto che un pm non rispetti le sentenze? Se a un pm arriva una sentenza che non gli piace e non la rispetta o è eversione o è anarchia», ha chiosato Renzi in merito. Qual è, intanto, il clima percepito attorno a questa storia? L'Associazione nazionale magistrati, in funzione degli accertamenti disposti da Nordio sulla procura di Firenze, ha emesso una nota in cui si legge quanto segue: «L'iniziativa ispettiva, ferme le prerogative costituzionali del ministro della Giustizia - continua - , non può e non deve avere alcuna capacità intimidatoria nei confronti dei magistrati, inquirenti e giudicanti che, in rispettoso silenzio, si occupano del procedimento suddetto nell'esclusivo adempimento dei propri doveri di ufficio». Il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri non è rimasto a guardare: «Con una interrogazione - ha annunciato l'azzurro - chiederò al ministro della giustizia Nordio di valutare l'opportunità di un'ispezione nei confronti dei componenti della Giunta Toscana dell'Associazione Nazionale Magistrati che hanno sottoscritto una nota che contesta l'ispezione decisa dallo stesso Nordio su alcuni Magistrati toscani al centro di una ben nota polemica».

La procura di Firenze è balzata alle cronache in queste settimane anche per via della scelta legata al nuovo procuratore. Il nome che viene ventilato da più organi di stampa, tra cui Il Riformista, è quello di Ettore Squillace Greco, che appartiene al correntone di Magistratura democratica.

Estratto dell’articolo di Giacomo Salvini e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 6 dicembre 2022.

Mentre Matteo Renzi continua ad attaccare i magistrati fiorentini sul caso degli atti spediti al Copasir […], e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, invia gli ispettori in quella stessa Procura, si scopre che il leader di Italia Viva nella versione aggiornata del suo libro Il mostro ha riportato un atto che nel momento in cui è stato pubblicato poteva essere segreto. 

Un documento nella disponibilità del Comitato e che non è depositato nell'indagine Open, dove Renzi è imputato per concorso in finanziamento illecito (è in corso l'udienza preliminare). Nel libro, infatti, a pagina XVII, il senatore ha pubblicato la lettera che il pm Luca Turco spedisce l'8 marzo 2022 al Comitato che gli aveva chiesto gli atti dell'inchiesta Open.

Documenti che per il leader di Italia Viva non potevano essere trasmessi perché era già intervenuta una sentenza della Corte di Cassazione che ne ordinava la restituzione agli indagati, ossia all'imprenditore Marco Carrai, che aveva subito il sequestro a novembre 2019. Per questi fatti i pm Luca Turco e Antonino Nastasi sono stati pure denunciati da Renzi e Carrai a Genova, ma la Procura dopo aver iscritto i magistrati per abuso d'ufficio, ne ha chiesto l'archiviazione ritenendo quell'invio lecito.

Nel suo libro dunque, il senatore, dopo aver fatto riferimento alla decisione della Cassazione, scrive: "E cosa fa il pm Turco? Nel marzo del 2022 scrive al Copasir che aveva richiesto gli atti alla procura. E scrive testualmente: 'Rappresento che l'annotazione Gdf 17.2.22 prot. 54737 contiene, tra l'altro, l'esito delle analisi dei reperti informatici sequestrati all'imputato Carrai Marco. Senonché, in data 18.2.22, la Suprema Corte ha annullato tale sequestro, con la conseguenza che le informazioni contenute in tale annotazione sono processualmente inutilizzabili. A fronte di tale annullamento, considerate le finalità istituzionali del Comitato, non condizionato da regole processuali, ritengo comunque doveroso trasmettere anche le sopra indicate annotazioni unitamente alla copia forense del materiale sequestrato al predetto Carrai'".

Come fa Renzi ad avere questo documento? […] se gli atti del Copasir sono segreti, come ha potuto pubblicare Renzi quella lettera? Avrebbe potuto fare un'istanza al Comitato, ma secondo quanto risulta al Fatto quella carta non gli è stata fornita ufficialmente dal Copasir. Inoltre gli atti di Firenze sono a protocollo riservato, mai depositato.

Allora da dove proviene la lettera? Chi gliel'ha data ha commesso il reato di rivelazione di segreto d'ufficio? 

Su un fatto del genere dovrebbe indagare la Procura di Roma, ma non risultano fascicoli aperti. Ma se così dovesse avvenire in futuro - e siamo nel campo delle ipotesi - Renzi potrebbe essere convocato dai pm e come teste dovrebbe rivelare la sua fonte. […] quando il leader di Italia Viva scrive il libro non c'era ancora la richiesta di archiviazione e dunque Renzi non può aver chiesto copia di quegli atti. E così la domanda resta: il senatore poteva avere e pubblicare quel documento segreto?

Marco Lillo per “il Fatto Quotidiano” il 4 dicembre 2022.

Nella scenetta già di per sé poco edificante avvenuta in Senato il primo dicembre scorso tra Renzi e Nordio c'è un retroscena ancora più imbarazzante per le istituzioni. Il ministro della Giustizia come è noto ha deciso di chiedere agli ispettori del Ministero di verificare quello che hanno combinato i pm di Firenze inviando al Comitato parlamentare di controllo dei Servizi Segreti, il Copasir, le carte sequestrate a Marco Carrai, amico dell'ex premier, indagato con lui nell'inchiesta sulla Fondazione Open. 

Di fronte al senatore-imputato-interrogante Renzi, Nordio ha fatto riferimento a una sua conoscenza parziale e non ufficiale di quanto successo a Firenze. Di qui la necessità di fare ricorso all'Ispettorato per chiarire e prendere poi provvedimenti.

Il 1° dicembre in Senato Renzi ricostruiva i fatti a modo suo, citando la decisione della Cassazione di annullare il sequestro e ordinare la restituzione dei documenti e dei contenuti del pc e dei telefonini e si rivolgeva così a Nordio: "Il pm (...) ha scelto di prendere il materiale e di mandarlo al Copasir. La domanda è (...) se lei sia a conoscenza di questo fatto e che provvedimenti intenda prendere nel caso lo ritenga un atto sbagliato". 

Il ministro aveva tutti gli elementi per rispondere in aula.

Il giorno prima, nella serata del 30 novembre, era arrivata ai suoi uffici una mail con posta pec dalla Procura di Firenze, con allegate tra l'altro la richiesta degli atti da parte del Copasir e la risposta del pm Luca Turco, in risposta a una richiesta partita dalla stessa via Arenula.  

In quella nota che dunque Nordio avrebbe dovuto conoscere c'era la spiegazione del perché il pm di Firenze, pur essendo consapevole dell'annullamento del sequestro delle carte di Carrai senza rinvio, con restituzione degli atti e con l'invito esplicito a non trattenerne copia, avesse scelto di inviarli al Copasir per il suo ruolo istituzionale di tutela della sicurezza nazionale.

Vista la delicatezza della questione, gli uffici del ministero hanno certamente redatto per Nordio una nota approfondita che difficilmente può trascurare le motivazioni alla base della scelta così argomentata nella nota stringata scritta da Turco inviando le carte a marzo al Copasir. 

Invece ecco cosa risponde Nordio a Renzi e al Senato il 1° dicembre: "Dico subito che la conoscenza ufficiale di questi atti è parziale e quindi dico anche quello che risulta ufficialmente: che in data 18 febbraio 2022 la Cassazione ha, come esposto in interrogazione, annullato senza rinvio il decreto di perquisizione e di sequestro emesso in data 20 novembre 2019 nei confronti di Marco Carrai disponendo la restituzione all'avente diritto di quanto in sequestro senza trattenimento di copia degli atti. Gli ulteriori fatti che sono stati enunciati nell'interrogazione saranno oggetto di immediato e rigoroso, sottolineo rigoroso, accertamento conoscitivo attraverso l'ispettorato generale". 

In pratica Nordio sembra tracciare una netta divisione tra i fatti che conosce ufficialmente e quelli che invece ha appena ascoltato dalla voce di Renzi. Ma le cose non stanno così. O almeno non dovrebbero stare così, se gli uffici del ministero hanno fatto il loro dovere. Il ministro Nordio avrebbe più correttamente dovuto dare conto ai senatori e ai cittadini del carteggio tra Procura di Firenze e Copasir che spiega il comportamento del pm Turco, definito in aula da Renzi "o eversivo, o anarchico" o addirittura "cialtrone". 

Anche perché quella stessa spiegazione è stata addotta dai pm di Genova per chiedere l'archiviazione - il 2 dicembre, cioè all'indomani del question time - delle accuse penali di Renzi e Carrai al pm Luca Turco. Il quale aveva così risposto alle richieste di informazioni del Copasir l'8 marzo scorso: "Rappresento che l'annotazione gdf 17/2/22 prot. 54737 contiene, tra l'altro, l'esito delle analisi dei reperti informatici sequestrati all'imputato Carrai Marco. 

Sennonché, in data 18/2/22, la Suprema Corte ha annullato tale sequestro, con la conseguenza che le informazioni contenute in tale annotazione sono processualmente inutilizzabili. A fronte di tale annullamento, considerate le finalità istituzionali del Comitato, non condizionato da regole processuali, ritengo comunque doveroso trasmettere anche le sopra indicate annotazioni unitamente alla copia forense del materiale sequestrato al predetto Carrai".

Nordio, invece, ha premesso di non avere conoscenza ufficiale dei fatto raccontati da Renzi e così ha potuto proseguire scandendo parole che sembravano pietre scagliate sulla Procura di Firenze: "Questo dicastero procederà a un'approfondita, e sottolineo approfondita, valutazione di tutti gli elementi acquisiti al fine di assumere le necessarie iniziative. L'indagine conoscitiva avrà assoluta priorità nell'attività ispettiva e le determinazioni che ne deriveranno saranno adottate con la consequenziale rapidità".

Abbiamo chiesto al ministro se gli uffici gli avessero trasmesso anche i contenuti della mail della Procura di Firenze con i documenti allegati e, in questo caso, perché non ne abbia parlato in Senato. Non ci ha risposto. Anche i suoi uffici al Ministero sul punto non rispondono, mentre sull'ispezione in Procura precisano: "Non sono stati inviati gli ispettori: a fronte di denunce, come avviene anche per quelle giornalistiche, il ministro - attraverso l'ispettorato - può chiedere informazioni, per verificare - a tutela di tutti - il rispetto delle regole. Come ha detto il ministro in aula, si tratta di 'accertamenti conoscitivi'". 

La nota del ministero al Fatto vorrebbe essere rassicurante, ma lo è ben poco il riferimento all'articolo 56. Che si apre così: "Per l'esercizio dell'azione disciplinare, per l'organizzazione del funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, nonché per l'esercizio di ogni altra attribuzione riservatagli dalla legge, il ministro esercita la sorveglianza su tutti gli uffici giudiziari e può chiedere ai capi di Corte informazioni sul conto di singoli magistrati".

Giustizia solerte e giustizia inerte. C'è una giustizia che si muove quando un Pm esonda dai suoi poteri e addirittura se ne infischia delle decisioni della Cassazione. Augusto Minzolini su Il Giornale il 2 Dicembre 2022

C'è una giustizia che si muove quando un Pm esonda dai suoi poteri e addirittura se ne infischia delle decisioni della Cassazione. E il fatto che il Guardasigilli in questione abbia anche un passato da Pm, come Carlo Nordio, dimostra che non sono i ruoli che contano ma le persone che li ricoprono. Il ministro della Giustizia ha deciso su richiesta di Matteo Renzi (che ieri ha sollevato l'argomento nel question time al Senato) di vederci chiaro sulla decisione dei Pm di Firenze che hanno condotto l'indagine sulla vicenda «Open» basata sull'accusa di finanziamento illecito ai partiti: i magistrati, infatti, di fronte all'ordine dell'Alta Corte di distruggere il materiale sequestrato a Marco Carrai (grande amico del leader di Italia Viva) senza trattenerne copia perché l'acquisizione non era stata regolare, hanno fatto spallucce e lo hanno inviato ad un organismo parlamentare come il Copasir, cioè il comitato di controllo dei servizi segreti. Una decisione, quella dei pubblici ministeri fiorentini, priva di logica, che è sfociata solo in una dimostrazione di Potere, o meglio in una vera e propria sfida nei confronti non solo della Politica ma anche delle altre gerarchie togate: l'ennesimo messaggio in codice per dire agli altri Palazzi che i Pm possono tutto. Solo che questa volta ai Pm Nordio ha risposto da Pm e mezzo e senza scomporsi ha promosso un'indagine conoscitiva «rigorosa» e «con priorità assoluta» sull'accaduto. Insomma, conoscendo i suoi colleghi il Guardasigilli non si è fatto intimidire e ha risposto per le rime. Con decisione e in tempi rapidi, come si dovrebbe non solo per rispetto della Cassazione ma anche degli imputati.

Sempre ieri, invece, la Cedu, cioè la Corte europea dei diritti dell'uomo, ha dichiarato inammissibili i ricorsi di Silvio Berlusconi e della Fininvest per le vicende delle quote che hanno in Mediolanum. Quote che con una decisione paradossale la Banca d'Italia ha chiesto di sequestrare perché il Cav avrebbe perso i requisiti di onorabilità per la condanna di frode fiscale; richiesta che il Consiglio di Stato avrebbe bocciato senza, però, dare attuazione alla sua decisione. La Cedu se ne è lavata le mani dicendo che la vicenda riguarda tutti, dall'Unione Europea alla Bce, meno che lei per cui i ricorrenti non possono chiamare in causa la responsabilità dello Stato italiano. La Corte europea dei Diritti dell'Uomo, a quanto pare, decide su tutto, sui migranti, sulle Ong, ha dato ragione ad un terrorista come Abu Amar in poche settimane e in due anni è intervenuta in favore di un transessuale georgiano. Ma sulle scelte più delicate si tira indietro vestendo i panni, a seconda del momento, di don Abbondio o dell'Azzeccagarbugli. Ad esempio, il ricorso intentato dal Cav sull'assurda condanna per frode fiscale contro il giudice Esposito pende di fronte alla Corte di Strasburgo dal 2014. Insomma, sui «casi» più controversi la Cedu, che preferisce non essere tirata in mezzo nelle polemiche, usa la carta dell'inerzia. Forse ci sarà un giudice a Berlino ma sicuramente non a Strasburgo. Appunto, per la giustizia non bastano le toghe, contano soprattutto gli uomini che le indossano. E il loro coraggio: ieri i giudici della Consulta, che pure non sono dei cuor di leone, per rispetto e in ossequio al buonsenso, hanno risposto picche dando cinque schiaffoni ai ricorsi dei medici e dei professori «no vax».

Jena per "La Stampa" il 2 dicembre 2022.

Aspettando Renzi, nel governo già c'è un'avanguardia renziana: per esempio il ministro Nordio.

Marco Travaglio per "il Fatto quotidiano" il 2 dicembre 2022.

Tre giorni fa il senatore Renzi non aveva tempo per testimoniare al processo Consip, dove sono imputati il babbo e gli amici: doveva concionare a gettone a Bangkok. Ieri però era in Senato per denunciare il famoso "condono edilizio di Conte" (mai esistito) e duettare sul processo Open, dov' è imputato lui, col "migliore dei ministri": Carlo Nordio. Questi ha ricambiato le moine trasformando se stesso e il Parlamento nel collegio difensivo allargato del senatore.

Nel suo macchiettistico vittimismo alla Calimero, Renzi ce l'ha sempre col pm Luca Turco, che ha osato scoperchiare la cassaforte Open con marchette a pagamento. Dopo averlo denunciato a Genova (archiviato), insultato in libri, talk show e show, fatto trascinare dinanzi alla Consulta, ora pretende che sia punito per un gravissimo illecito: siccome il Copasir ha chiesto gli atti d'indagine - depositati nel processo Open, dunque pubblici e riferiti dai media - contenenti fra l'altro i soldi versati (legittimamente) a Renzi dal regime saudita di Bin Salman per valutare eventuali minacce alla sicurezza nazionale, Turco glieli ha inviati.

Invece, per il giureconsulto rignanese, doveva negarli al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica perché la Cassazione aveva disposto che gli atti sequestrati a Carrai non fossero usati nel processo Open. Infatti il pm nel processo Open non li usa. Ma non si vede perché il Copasir, che non si occupa di reati ma di sicurezza nazionale, non potesse visionarli, tantopiù che li aveva già letti sui giornali.

Se poi il Copasir riteneva di non doverli leggere (ma la Corte ne vieta l'uso processuale, non parlamentare), poteva cestinarli. Se non l'ha fatto è perché poteva leggerli, ergo Turco doveva inviarglieli. Ma poi, se non ha nulla da nascondere, cosa può mai temere Renzi da quel segreto di Pulcinella? Nulla. Però deve buttarla in caciara per celebrare il suo processo sui social, in tv, sui giornali, nei libri e in Senato, dove può fingere che l'imputato non sia lui, ma Turco.Ovunque fuorché in Tribunale, dove gli imputati sono lui e i suoi compari, e il pm è Turco. Così ieri l'imputato Renzi ha chiesto a Nordio "che provvedimenti intenda prendere" contro il pm, che "per noi" (plurale maiestatis, tipo Papa) è reo di "un atto di cialtronaggine, o eversivo, o anarchico".

E il "migliore dei ministri" s' è subito messo sull'attenti, annunciando su due piedi un'ispezione ministeriale alla Procura di Firenze con "priorità assoluta" e poi "determinazioni con consequenziale rapidità". L'imputato ordina e il Guardasigilli esegue: à la carte. Come ai bei tempi di B., che però aveva almeno il pudore di affidare certe basse incombenze ai suoi onorevoli avvocati. Renzi invece fa tutto da solo, essendo un Berlusconi che non ce l'ha fatta.

Da ilfattoquotidiano.it il 2 dicembre 2022.

Matteo Renzi chiama, Carlo Nordio risponde. E ordina un’indagine conoscitiva, che "avrà assoluta priorità", sull’operato dei pm di Firenze titolari dell’inchiesta sulla Open, che vede indagati il leader d’Italia viva ma anche gli ex ministri Luca Lotti e Maria Elena Boschi, l’avvocato Alberto Bianchi (ex presidente della Open) e l’imprenditore Marco Carrai. È un asse annunciato quello tra Renzi e il ministro della Giustizia di Fratelli d’Italia. Un’intesa che trova il suo esordio pubblico in Senato, durante il Question Time.

Il leader d’Italia viva aveva annunciato l’intenzione di sottoporre al ministro una vicenda relativa all’inchiesta che lo vede imputato, in udienza preliminare, con l’accusa di finanziamento illecito ai partiti. "C’è stata una sentenza della corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio un sequestro fatto nei confronti di un cittadino, Marco Carrai, un cittadino è stato indagato, per due volte ha fatto ricorso in Corte di cassazione, che alla terza l’ha annullata senza rinvio, chiedendo che si restituisca materiale sequestrato senza trattenimento di copia degli atti", ha ricordato il senatore di Rignano.

Il riferimento è a una vicenda legata ai vari sequestri operati dai pm nell’ambito dell’indagine sulla fondazione Open, che ha accompagnato la scalata politica di Renzi, dalla segreteria del Pd a Palazzo Chigi. Tra i destinatari dei sequestri, infatti, c’era anche Carrai che ha ingaggiato un vero e proprio braccio di ferro con la procura di Firenze con ben tre ricorsi in Cassazione.

Una vicenda che si era conclusa il 18 febbraio scorso con la terza e ultima decisione della Suprema corte che dichiarava illegittimo il sequestro subito dall’imprenditore amico di Renzi: una sentenza senza rinvio che ordinava ai pm di restituire il materiale sequestrato a Carrai senza trattenerne copia.

Nel frattempo, però, alla procura di Firenze era arrivata richiesta formale del Copasir, che voleva acquisire gli atti. "Il pubblico ministero ha scelto di prendere il materiale e di mandarlo al Copasir", ha accusato Renzi, rivolgendosi poi a Nordio: "Le chiedo se lei sia a conoscenza dei fatti e che provvedimenti intenda prendere nel caso lo ritenga sbagliato. Per noi o è eversivo, o è anarchico oppure è un atto di cialtronaggine. Quest’ultima la escludo sulle altre due aspetto la sua risposta".

Pronta la risposta del guardasigilli: "La conoscenza ufficiale di questi atti è parziale, il 18 febbraio del 2022 la Cassazione ha ordinato il decreto di perquisizione e di sequestro nei confronti di Marco Carrai senza trattenimento di copia degli atti", ha detto Nordio. Che poi ha aggiunto: !"Gli ulteriori fatti che sono stati enunciati nell’interrogazione saranno oggetto di immediato e rigoroso accertamento conoscitivo attraverso l’ispettorato generale.

Successivamente questo dicastero procederà a una approfondita valutazione di tutti gli elementi acquisiti al fine di assumere le necessarie iniziative. L’indagine conoscitiva avrà assoluta priorità nell’attività ispettiva e le determinazioni che ne deriveranno saranno adottate con la consequenziale rapidità".

Quindi in via Arenula diventa prioritario indagare sulle violazioni che Renzi sostiene siano state compiute dai pm che indagano su di lui. E infatti il leader di Italia viva ha controreplicato a Nordio per dirsi "molto soddisfatto della risposta del ministro, non dubitavamo della assoluta rilevanza data dal ministro alla vicenda".

Il leader d’Italia viva, dunque, ha raggiunto il suo obiettivo, rilanciando a Palazzo Madama quella che è l’ultima accusa lanciata nell’ordine alla procura di Firenze. In pratica nell’ottobre del 2021, quando viene chiusa l’indagine su Open, i pm depositano 90mila pagine di atti giudiziari.

Tra questi, come rivelato dal Fatto il 6 novembre del 2021, vi è anche un’informativa della Guardia di finanza del 10 giugno 2020 che contiene anche l’estratto del conto di Renzi. I guadagni di Renzi sono tutti leciti e non sono oggetti dell’indagine. L’informativa delle Fiamme gialle, però, rivela i dettagli dell’attività di speaker del senatore toscano. Da quelle carte si evince come sul conto di Renzi, tra il 2018 e il 2020, siano arrivati pagamenti pure dal "Ministry of Finance Arabia Saudita" per un totale di 43.807 euro. Più altri 39.930 euro dal "Saudi commission For Tourism Arabia Saudita".

Dopo lo scoop del Fatto quotidiano, il Copasir si è interessato alla vicenda e ha chiesto gli atti ai magistrati. Che li hanno inviati nelle settimane successive. E ora subiscono l’ennesimo attacco del leader d’Italia viva. Una contestazione che non è certo nuova quella di Renzi ai pm che lo indagano. Come ha raccontato Il Fatto, infatti, sarebbe stato il renziano Ernesto Magorno a sollevare la vicenda rilanciata oggi dal suo leader.

Nell’aprile scorso il senatore d’Italia viva aveva chiesto al Copasir di verificare se quei documenti potessero essere girati al Comitato parlamentare di controllo sui servizi segreti. Dando ragione a Carrai, infatti, la Suprema corte aveva ordinato alla procura la restituzione del materiale sequestrato senza trattenerne copia. Quindi le carte sequestrate all’amico di Renzi non possono essere usate nel processo Open.

Ma i pm quando le hanno mandate al Copasir? Prima o dopo la sentenza della Cassazione del 18 febbraio? Secondo Renzi dopo. Ma se davvero fosse così si pone a questo punto un dilemma: può una procura nascondere al Copasir documenti che ha comunque acquisito e depositato agli atti di una indagine, prima che la Cassazione ordinasse il dissequestro? Toccherà al ministero di Nordio rispondere a questa domanda.

Marco Lillo per "il Fatto quotidiano" il 6 dicembre 2022.

Oggi dovrebbe essere il grande giorno del caso Consip. Alle 11 di mattina nel Tribunale di Piazzale Clodio Matteo Renzi dovrebbe testimoniare nel processo a Tiziano per traffico di influenze illecite nel quale il padre è imputato insieme a Carlo Russo, Alfredo Romeo e Italo Bocchino. L'udienza sarà una saga familiare. 

A seguire ci sarà l'interrogatorio di Tiziano Renzi. Poi sarà interrogato nella parte dell''antagonista' della saga il maggiore dei Carabinieri Gianpaolo Scafarto che risponde di falso, depistaggio e rivelazione di segreto. Il processo Consip è destinato probabilmente a prescriversi, anche in caso di condanne, dopo la sentenza. Questo spreco di tempo e spese dovrebbe servire almeno ad accertare fatti importanti dal punto di vista politico. 

Per chiarire un po' il quadro bisognerebbe capire prima di tutto i rapporti tra i coimputati Tiziano Renzi, Carlo Russo e Alfredo Romeo nel 2015-2016. Russo era un millantatore che spendeva il nome dell'amico Tiziano? O nell'ipotesi di accusa contro Tiziano Renzi c'è qualcosa di vero? Quali sono le domande che a questo fine i pm, i giudici e gli avvocati dovrebbero porre a Matteo e Tiziano Renzi? 

Un tema importante è la telefonata (pubblicata nel maggio 2017 da chi scrive) del 2 marzo 2017 alle 9 e 46 di Matteo a Tiziano Renzi, intercettata sul cellulare del babbo dai Carabinieri che indagavano sui rapporti tra l'amico di Tiziano Renzi, Carlo Russo, e Alfredo Romeo.

In quella telefonata Matteo chiedeva conto al padre dei suoi rapporti con l'imprenditore campano e in particolare di un incontro del quale aveva letto sui giornali tra Romeo, Tiziano e il suo amico Carlo Russo. 

Il padre negava o diceva di non ricordare. Anche con i pm romani durante l'interrogatorio negò l'incontro. I Carabinieri hanno poi scoperto un incrocio delle celle telefoniche agganciate dai tre telefonini di Tiziano Renzi, Russo e Romeo. A Firenze il 16 luglio del 2015 i tre, secondo i pm, si sono incontrati. Oggi Tiziano Renzi dovrebbe dare conto di quell'incontro negato e delle sue chat con Russo. 

Dopo l'incontro (che secondo i pm almeno c'è stato e che Romeo ora ammette svalutandone il contenuto) con Romeo, Tiziano scriveva a Russo che le sue impressioni erano "buone" e aggiungeva "speriamo che non mi pongano ostacoli". Cosa voleva fare il padre del premier in carica? Chi non doveva porre ostacoli? Sarebbe interessante chiederlo oggi a Renzi Senior. Si dovrebbe chiedere poi a Tiziano conto di quel che scrisse pochi giorni dopo.

Il 20 luglio 2015 Tiziano scrive a Luigi Marroni, amministratore delegato in carica di Consip, nominato dal premier figlio Matteo: "Quando puoi vorrei prendere quel caffé rimasto a mezzo scusa". 

Il 24 luglio 2015, Russo chiede a Tiziano via Telegram "l'uomo colorato lo hai visto?".

Dove il 'Colorato' per i pm è Marroni. Tiziano replica: "Mi deve dire se viene questo fine settimana". L'appuntamento con Marroni aveva a che fare con l'incontro del 16 luglio con Romeo? Questa è la tesi del Gip Gaspare Sturzo che ha rigettato nel 2019 la richiesta di archiviazione presentata dai pm romani inducendo i magistrati poi a fare indagini nuove e a chiedere il giudizio per Tiziano Renzi, Russo, Romeo e Italo Bocchino per il presunto traffico di influenze sulla gara Consip FM4. 

Il 31 luglio 2015 Tiziano insiste a chiedere l'incontro via sms a Marroni. Tiziano gli vuole sponsorizzare Russo proprio in seguito all'incontro con Romeo? Questa è la domanda da porre oggi. 

Anche perché il 7 settembre Russo scrive su Telegram a Tiziano Renzi "ricordati il colorato che a breve si chiude tutto". Cosa si chiudeva a breve? C'entra la gara Consip?

A Tiziano Renzi si potrebbe poi chiedere dell'incontro al bar del quartiere Eur a Roma con il suo amico Carlo Russo e l'amministratore in carica di Consip prima di Marroni: Domenico Casalino.

Quell'incontro è stato scoperto dal Fatto partendo dalle chat (depositate nel fascicolo dei pm) tra Russo e Tiziano Renzi. L'incontro, ammesso (con Il Fatto non con i pm che non gli hanno chiesto nulla su Tiziano Renzi) da Domenico Casalino risale al 22 aprile 2015 alle 15. Casalino era in scadenza. Russo era già andato a trovarlo negli uffici Consip. Casalino, interrogato dai pm nel 2020, ha detto che Russo non gli parlò di Romeo ma di un'altra società.

Dopo un po' Russo gli presenta Tiziano Renzi al bar. Casalino (imputato per il presunto traffico di influenze ma assolto nel giudizio abbreviato) non è stato convocato al processo per chiedergli di quell'incontro con Tiziano e dei suoi numerosi incontri con Russo.

Ed è un peccato perché in una conversazione intercettata Italo Bocchino e Alfredo Romeo sembrano dare per scontato che sia stato Casalino (che nega) a mettere in contatto Russo e il gruppo Romeo. In mancanza di Casalino si potrebbe chiedere dell'incontro al Tiki Bar a Tiziano Renzi oggi.

Comunque dopo l'incontro con Tiziano Renzi al bar dell'Eur, Matteo Renzi sostituisce Casalino alla guida di Consip. Però Tiziano Renzi, subito dopo l'incontro con Alfredo Romeo a luglio 2015, cerca di organizzare l'appuntamento con il nuovo Ad Luigi Marroni. Come si fa a non chiedere oggi a Tiziano Renzi conto dei suoi incontri con due Ad di Consip nel giro di pochi mesi nel 2015? 

La cronologia disegnata dalle informative dei Carabinieri è questa: Tiziano Renzi prima incontra Casalino con Russo. Poi Matteo Renzi nomina Marroni al posto di Casalino. Poi il padre a luglio 2015 incontra Romeo con Russo e pochi giorni dopo comincia a cercare di incontrare il nuovo Ad di Consip Marroni.

Lo incontra dopo l'estate 2015 e gli raccomanda proprio Russo. Finalmente Russo incontra Marroni, con la raccomandazione di Tiziano e, secondo la testimonianza dell'Ad di Consip, ritenuta credibile dai pm, gli fa il nome di una società che partecipa alla gara Consip Fm4. Secondo Marroni non è Romeo, però non ne ricorda il nome. A Matteo Renzi invece oggi qualcuno potrebbe chiedere se suo padre abbia mai ammesso con lui l'incontro con Romeo e cosa gli abbia detto in merito.

La domanda più importante per il senatore è però un'altra: cosa intendeva quando diceva al padre Tiziano al telefono nel marzo 2017: "La verità tu non l'hai detta a Luca in passato, quindi ti prego di iniziare a dirla e non mi far dire altro". Per caso Luca era Luca Lotti?

La domanda è pertinente perché nello stesso processo Lotti è imputato per rivelazione di segreto e favoreggiamento, avrebbe detto all'Ad Luigi Marroni che c'erano le intercettazioni bruciando le indagini su Consip.

Processo Consip, Matteo Renzi in tribunale a Roma. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 6 Dicembre 2022

"Non ho mai pensato di denunciare penalmente nessuno, perché ci sono state dinamiche molto più alte delle persone coinvolte", ha concluso Renzi. "Ritengo uno scandalo che ci sia stata una deposizione di un pm che dice che due ufficiali le avrebbero detto 'arriveremo a Renzi' e poi si sono candidati in uno schieramento opposto". "Io non ho detto nulla perché non sapevo nulla", è stata l'ultima risposta dell' ex premier.

Davanti ai giudici dell’ottava sezione penale del Tribunale di Roma ha preso il via oggi la testimonianza di presidente di Italia Viva Matteo Renzi nel processo Consip . “Quando ho letto su Repubblica che mio padre si era incontrato in una bettola segreta ci rimango un po’ male. Tutto posso immaginare tranne l’idea che potesse fare traffichini. Anche perché mio padre gli unici soldi che ha preso da questa storia sono quelli delle querele per diffamazione che ha vinto… In questa faccenda ho messo in discussione il mio rapporto con mio padre per una vicenda che politicamente per me non esisteva”. Con queste parole Matteo Renzi, ha descritto la personale genesi della faccenda che vede coinvolti nel processo sulla centrale unica degli acquisti per la pubblica amministrazione, Tiziano Renzi, padre di Matteo, e gli imprenditori Alfredo Romeo e Carlo Russo.

Il fatto è noto e la vicenda ha iniziato il 20 dicembre 2016 quando l’ex amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, confessa al pm di Napoli Henry John Woodcock di aver saputo dell’esistenza dell’inchiesta sull’appalto Fm4 da 2,7 miliardi di euro, bandito centrale acquisti della pubblica amministrazione. A rivelare l’esistenza dell’indagine, aveva riferito Marroni, sarebbero stati l’ex ministro dello Sport Luca Lotti, il generale dei Carabinieri Emanuele Saltalamacchia e l’ex presidente di Publiacqua Firenze, Filippo Vannoni. L’ indagine per competenza territoriale era stata trasferita a Roma, dove sul registro degli indagati era stato iscritto anche il nome di Tiziano Renzi, (padre dell’allora premier Matteo) che era stato tirato in ballo da un’intercettazione in cui emergeva che un amico di famiglia, Carlo Russo, affermando di parlare anche a nome di Tiziano Renzi, aveva promesso una raccomandazione presso l’ad Marroni all’imprenditore partenopeo Alfredo Romeo. 

L’audizione dell’ex premier era prevista per il 29 novembre scorso, ma il pm Mario Palazzi in apertura d’udienza aveva comunicato l’assenza del leader di Italia Viva che si trovava all’estero. “Per questo processo sono già stato ascoltato diverse volte, questa è la quarta volta ma è giusto che io sia qui”, ha detto Matteo Renzi prima di entrare in aula. “È un processo che tiene insieme molte vicende diverse. Vedremo cosa deciderà la corte. Voi dite che è un processo prescritto. Ma qui c’è anche un tema che è il diritto al non processo. Adesso con la Cartabia in fase di udienza preliminare il giudice deve valutare eventuali prescrizioni – spiega – Nel caso di specie io nel 2017 e 2018 sono stato colpito dal modo in cui i media hanno scelto di intervenire su dinamiche personali e familiari. La Consip quando ero presidente del Consiglio era l’ultimo dei miei pensieri. Nel merito ho già risposto e oggi sono qui a rispondere ancora. Quanto a mio padre, dopo le assoluzioni dei miei genitori ora c’è un altro atteggiamento” ha continuato Renzi.  “Certo pensare che pezzi dello stato mettevano i sotto controllo le mie abitazioni quando ero premier mi lascia perplesso. La cicatrice del dolore morale ormai c’è ma noi rispettiamo i giudici, a differenza del pm di Firenze che non rispetta la Cassazione“. 

Le conseguenze dell’indagine e dei successivi processi sono numerosi e sono già costati diverse condanne ad alcuni dei protagonisti di questa storia. Ma oggi, 6 dicembre 2022, nel processo principale, il testimone Matteo Renzi ha risposto alle domande del pm Mario Palazzi che chiedeva dei rapporti con i vari protagonisti dell’indagine. la sua domanda è stata: “A prescindere dalla separazione politica con Luca Lotti come sono e come erano i vostri rapporti?” alla quale Renzi ha risposto : “Strettissimi. Avevamo molto più di una semplice relazione tra colleghi. Poi i rapporti, anche personali, si sono raffreddati”. “E con Marroni?”, ha chiesto il pm. Renzi: “Mi è stato presentato al telefono all’inizio degli anni 2000 quando è stato scelto come figura apicale nella sanità toscana. Poi è diventato assessore regionale del presidente Rossi. Io l’ho scelto come capo della struttura Consip, è stata una mia decisione di intesa con il ministero dell’Economia e contro il parere di una schiera di miei collaboratori che volevano una persona più vicina a noi”, ha spiegato Renzi precisando i successivi rapporti: “Non avevo frequenti incontri con Marroni, vedevo di più i dirigenti di Eni. Ma con lui avevo un rapporto buono” . 

E su Carlo Russo ? Ha chiesto il pm Palazzi : “Ho ricostruito che era una persona che si era avvicinata a noi in campagna elettorale e non so se ho avuto incontri diretti, sicuramente non ne ho parlato con mio padre“, ha risposto Matteo Renzi. “Quando ero presidente del consiglio avevo una vita familiare complessa, rarissimamente parlavo di questioni legate alle mie responsabilità, mi ero ritagliato uno spazio per me”. Dopodichè va al dunque: “Io conoscevo Alfredo Romeo, l’idea che lui cerca Russo che cerca mio padre che cerca me…poteva benissimo chiamarmi”.

Matteo Renzi ha quindi illustrato i rapporti con suo padre imputato nel processo : “Come è noto con mio padre ho avuto parecchie discussioni. Quando ho letto su Repubblica che mio padre si era incontrato in una bettola segreta ci rimango un po’ male. Questo è un problema, riguarda una dimensione umana padre e figlio. Dopodiché nel merito mio padre non mi ha mai parlato di tutto ciò. A me questa roba non mi riesce di metterla in fila“, ha aggiunto. “Tutto posso immaginare tranne l’idea che potesse fare traffichini. Anche perché mio padre gli unici soldi che ha preso da questa storia sono quelli delle querele per diffamazione che ha vinto. La dinamica economica dei miei genitori è quella di un figlio che paga il mutuo. In questa faccenda ho messo in discussione il mio rapporto con mio padre per una vicenda che politicamente per me non esisteva“.

“Io non riesco a renderla la dimensione umana, Scafarto (ufficiale del NOE dei Carabinieri n.d.r.) ci chiede scusa ma io le scuse di Scafarto non vi dico dove me le metto“, prosegue Matteo Renzi. “Nel pacchetto di cose che non tornano ci sono due (i carabinieri De Caprio e Scafarto, ndr) che hanno fatto quello che hanno fatto e poi si schierano con partiti rivali al mio“. Continua: “Perché tutta questa roba esce quando sono andato via? Scusate sto esponendo i miei dubbi e non mettendo a disposizione i fatti, ma non li conoscevo“, dice Matteo Renzi. “Se c’era un’indagine che la politica sapeva io la sapevo“, riflette, “io l’idea che Lotti e Marroni vadano li a dire cose…ci sono troppe cose che non tornano in questa vicenda”. 

“Non ho mai pensato di denunciare penalmente nessuno, perché ci sono state dinamiche molto più alte delle persone coinvolte”, ha concluso Renzi. “Ritengo uno scandalo che ci sia stata una deposizione di un pm che dice che due ufficiali le avrebbero detto ‘arriveremo a Renzi’ e poi si sono candidati in uno schieramento opposto“. “Io non ho detto nulla perché non sapevo nulla”, è stata l’ultima risposta dell’ ex premier.

Matteo Renzi nella sua enews oggi ha scritto ” Il segreto di rustichella. Oggi Giuseppe Conte è intervenuto sulla vicenda autogrill in una intervista al quotidiano l’Identità diretto da Tommaso Cerno. E Conte dice che viene a conoscenza  del fatto quando sta finendo l’esperienza del governo. La cosa è interessante. Ma come faceva Conte a sapere dell’incontro all’autogrill con Mancini «verso la fine del suo governo», quando la notizia diventa pubblica a maggio del 2021? A maggio 2021 il premier era già Draghi da tre mesi…strano, no? Conte si confonde oppure mente oppure nasconde qualcosa? La vicenda de «Il Mostro» continua a essere più attuale che mai…” . Redazione CdG 1947

"Oggi mi sento in colpa per non aver creduto a mio padre". Consip, Renzi e i soldi di papà Tiziano: “Zero euro da Romeo, migliaia da Marco Lillo e dal Fatto Quotidiano”. Redazione su Il Riformista il 6 Dicembre 2022

“Mio padre non ha preso un euro da Romeo. Mentre invece ha preso migliaia di euro da Marco Lillo e da Il Fatto Quotidiano“. E’ l’affondo, senza mezzi termini, di Matteo Renzi, senatore e leader di Italia Viva, a margine dell’udienza del processo Consip in programma oggi, 6 dicembre, in tribunale a Roma. Davanti ai giudici dell’ottava sezione penale, c’è stata la testimonianza di Renzi che poi, rispondendo a una domanda del giornalista Marco Lillo, ha fatto riferimento alle condanne per diffamazione ricevute dal Fatto, dal suo direttore Marco Travaglio e anche dallo stesso vicedirettore Lillo che hanno “fruttato” oltre 150mila euro a papà Tiziano.

L’audizione dell’ex premier era prevista per il 29 novembre scorso, ma in apertura d’udienza il pm Mario Palazzi aveva comunicato l’assenza del leader di Italia Viva che si trovava all’estero. Imputati in questo filone di inchiesta Consip, tra gli altri, ci sono Tiziano Renzi, padre di Matteo, gli imprenditori Alfredo Romeo (editore anche de Il Riformista) e Carlo Russo, l’ex parlamentare Italo Bocchino, l’ex ministro Luca Lotti e l’ex generale dei carabinieri Emanuele Saltalamacchia.

Nel corso della sua testimonianza, Renzi ha poi aggiunto: “Oggi mi sento in colpa per non aver creduto a mio padre. In questa vicenda ho fatto il capolavoro di non credere a mio papà mettendo a dura prova il rapporto padre-figlio su una vicenda che politicamente non esiste. La vicenda vera è quella delle mascherine, quelli sono appalti importanti”. L’ex premier ha ricordato che “con mio padre ho avuto qualche discussione. Leggo su un quotidiano che mio padre avrebbe fatto un incontro in una bettola segreta e allora chiamo mio padre e alzo un po’ la voce. Mio padre non me lo vedevo a fare traffichini, e infatti gli unici soldi che ha preso sono quelli delle cause per le diffamazioni”.

LA VICENDA GIUDIZIARIA – Tiziano Renzi è stato rinviato a giudizio per traffico di influenze insieme a Romeo. Secondo la ricostruzione della procura capitolina, l’imprenditore sarebbe stato raccomandato all’amministratore delegato di Consip, Luigi Marroni, il quale però non è indagato e – interrogato dall’oramai ex magistrato Pignatone – ammise di avere ricevuto delle raccomandazioni ma giurò di non averne ricevute per Romeo.

La contestazione è quella relativa alla gara Fm4 da 2,7 miliardi. Tiziano Renzi dovrà dunque rispondere dell’accordo che, secondo gli inquirenti, avrebbe stabilito con l’imprenditore Carlo Russo che, “sfruttando relazioni esistenti con Luigi Marroni, ex Ad di Consip Spa, relazioni ottenute anche per il tramite (..) di Tiziano Renzi”, sarebbe intervenuto per “facilitare la Romeo Gestioni” che intendeva aggiudicarsi un lotto della gara da 2,7 miliardi di euro bandita dalla Consip. Russo, secondo le accuse, avrebbe tra l’altro ottenuto numerose ospitalità negli hotel di proprietà del gruppo Romeo, nonché si faceva promettere denaro in nero per sé e per Tiziano Renzi nonché promettere la stipula di un contratto di consulenza”. Un reato continuato fino all’autunno del 2016 e quindi a rischio prescrizione.

Indagine conoscitiva. Renzi accusa i pm del caso Open e Nordio annuncia ispezione sulla procura di Firenze. Linkiesta l’1 Dicembre 2022

Nel Question Time, il leader di Italia Viva ha chiesto al ministro della Giustizia di fare tutti i dovuti accertamenti. La risposta: ci saranno

È un Matteo Renzi «soddisfatto» quello che esce dal Question Time al Senato in cui ha interrogato il ministro della Giustizia Carlo Nordio. Dopo aver parlato della frana di Ischia durante la mattina, il tema della discussione pomeridiana sarebbe l’inchiesta sulla Fondazione Open, ma il leader di Italia Viva preferisce non entrare direttamente nel merito delle questione. «Anzi, i processi si fanno nelle aule giudiziarie e a maggior ragione lo diciamo pensando che quel processo lì ha avuto già cinque determinazioni della Corte di Cassazione», dice Renzi rivolgendosi a Nordio e all’Aula.

«L’interrogazione è su un punto specifico», chiarisce il leader di Italia Viva. «C’è stata una sentenza della Corte di Cassazione che ha annullato senza rinvio un atto, un sequestro fatto nei confronti di uno degli indagati, che si chiama Marco Carrai. È un cittadino come un altro, che è stato indagato e per due anni ha dovuto pagarsi gli avvocati, poi ha fatto ricorso alla Corte di Cassazione per tre volte. Alla fine la Corte ha scritto al pm Luca Turco, che conosciamo bene ormai, e al tribunale chiedendo che fosse restituito il materiale sequestrato, senza mantenimento di copia sequestrata degli atti». Insomma, l’indicazione è chiara: la Corte chiede di buttare via tutto.

L’azione del pubblico ministero, però, è andata in un’altra direzione. «Ha scelto di prendere il materiale e di mandarlo al Copasir, che si occupa dei servizi segreti. Allora la domanda è se lei, ministro, è a conoscenza di questo caso. Intanto per noi questa cosa configura un atto eversivo, o un atto anarchico, o è un atto di cialtronaggine da parte del magistrato, ma quest’ultima la escludo».

La risposta di Nordio è sintetica, ma per Renzi è soddisfacente, almeno in parte. «Con questo atto di sindacato ispettivo si chiede di sapere se il ministro della Giustizia sia a conoscenza dei fatti appena esposti e se sia necessario prendere iniziative in merito», dice Nordio, ammettendo che «la conoscenza ufficiale di questi atti è parziale: risulta ufficialmente che in data 18 febbraio 2022 la Corte di Cassazione ha, come esposto in interrogazione, annullato senza rinvio l’ordinanza del decreto di perquisizione e di sequestro emesso in data 20 novembre 2019».

Poi il ministro aggiunge il passaggio più importante: «Gli ulteriori fatti che sono stati enunciati nell’interrogazione saranno oggetto di immediato e rigoroso accertamento conoscitivo attraverso l’ispettorato generale. Successivamente questo dicastero procederà a una approfondita valutazione di tutti gli elementi acquisiti al fine di assumere le necessarie indicazioni. L’indagine conoscitiva avrà assoluta priorità nell’attività ispettiva e le indicazioni che ne deriveranno saranno adottate con rapidità».

È per questo passaggio che Renzi si dice soddisfatto: «Sono molto soddisfatto che un ministro di un governo che non appoggiamo lavori con serietà, specialmente dopo aver avuto in quel ruolo un promettente dj», dice il leader di Italia Viva in riferimento ad Alfonso Bonafede. Resta però insoluto il punto più importante: «Per ottenere giustizia delle volte bisogna sostenere tante spese, tanti ricorsi. Ma quante persone possono permettersi di arrivare fino in Cassazione. Per cui chi non ha i soldi per fare ricorso in Cassazione, come fa?».

(ANSA il 22 novembre 2022) - "Per me un direttore dei servizi segreti non diventa presidente della Repubblica in una notte. Se poi vuole andare a pranzo con il ministro degli Esteri faccia pure, ma non sta a lei dire 'Di Maio è stato leale'. Io poi ho trovato fuori luogo che la presidente del Dis sia andata dalla presidente del Consiglio alla Camera. Questa è forma, la sostanza è che la dottoressa Belloni non è andata al Quirinale perché noi abbiamo detto di no". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato.

(askanews il 22 novembre 2022) - "Capisco che abbia un bellissimo ufficio alla Camera, sicuramente più bello di quello a palazzo Chigi ma la riunione coi servizi, la prossima volta falla nella sede di palazzo Chigi e non alla Camera". Lo ha detto Matteo Renzi, leader di Italia viva, in una conferenza stampa al Senato convocata per parlare dell'uscita della ristampa del suo libro "Il mostro".

(ANSA il 22 novembre 2022) - "Le dichiarazioni dell'Anm contro di me ormai sono metodiche e bisogna rispettare il senso del ritmo che hanno i sindacalisti delle toghe. Renzi delegittima magistratura? Chi lo fa? Chi va in udienza o chi non rispetta le decisioni della Cassazione? Ma vi sembra normale? Il pm si chiama Luca Turco. Chi delegittima la magistratura? Chi fa ricorsi o chi molesta sessualmente una collega, mi riferisco a Giuseppe Creazzo". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato.

"Se qualcuno pensasse che di fronte a tutto quello che è successo uno come me si impaurisce o si ferma, ha sbagliato persona. Continuerò ad andare ai processi, continuerò a scrivere con tutti i documenti che provano quello che scrivo. Se pensate di impaurirmi o minacciarmi avete sbagliato obiettivo. Io finisco il tour su 'Il Mostro' e riprendo a fare politica in prima persona". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato.

"Il fatto che il libro "IL mostro" sia in testa alla classifica dei best seller la dice molto lunga sull'editoria italiana, scherzi a parte sono molto contento. Che il processo di mostrificazione ci sia è evidente, Il libro è giudicato in modo diverso, ma nessuno ha smentito i fatti che contiene, questo è significativo". Così il leader di Iv Matteo Renzi in una conferenza stampa in Senato. (ANSA)

(askanews il 22 novembre 2022) - "State sottovalutando il contenuto del libro: questa cosa della Corte di Cassazione è incredibile. Ho presentato una interrogazione al ministro Nordio per chiedere se è legittimo che un pm riceva una sentenza e non la applichi". Lo ha detto Matteo Renzi, leader di Italia viva, in una conferenza stampa al Senato convocata per parlare dell'uscita della ristampa del suo libro "Il mostro".

Parlando delle vicende giudiziarie riassunte nel volume, l'ex premier ha spiegato: "C'è un pm al quale la Corte di Cassazione gli dice per cinque volte che sta sbagliando, la quinta gliel'annulla senza rinvio e gli dice: 'restituisci il telefonino senza trattenere copia'. Vuol dire che quella roba lì non la puoi utilizzare. Cosa fa questo pm? Qualche giorno dopo invia una lettera al presidente del Copasir e ci infila quella roba che doveva distruggere, ma vi sembra normale?".

Iv: Renzi, “Come faceva Conte a sapere di autogrill prima che fosse pubblico?” Redazione L'Identità il 6 Dicembre 2022

Roma, 6 dic. (Adnkronos) – “Il segreto di rustichella. Oggi Giuseppe Conte è intervenuto sulla vicenda autogrill in una intervista al quotidiano l’Identità. E Conte dice che viene a conoscenza del fatto quando sta finendo l’esperienza del governo. La cosa è interessante”. Così Matteo Renzi nella enews.

“Ma come faceva Conte a sapere dell’incontro all’autogrill con Mancini ‘verso la fine del suo governo’, quando la notizia diventa pubblica a maggio del 2021? A maggio 2021 il premier era già Draghi da tre mesi… strano, no? Conte si confonde oppure mente oppure nasconde qualcosa? La vicenda de Il Mostro continua a essere più attuale che mai…”.

Rita Cavallaro su L'Identità il 6 Dicembre 2022

Dopo la bufera scatenata dalle dichiarazioni riportate da L’Identità di oggi sul video Renzi-Mancini all’autogrill, Giuseppe Conte ritratta. E ci manda una nuova dichiarazione, in cui sostiene di aver confuso le date. “Le mie dichiarazioni si spiegano con il fatto che ieri, nel corso della telefonata con L’Identità, non ricordavo con esattezza il periodo in cui andò in onda la puntata di Report sull’incontro tra Renzi e Mancini in autogrill”, spiega l’ex premier. “Ricordavo che l’incontro in questione si era svolto nel periodo natalizio e dunque – nello smentire che io mi sia mai occupato di questa questione con l’intelligence quando ero Presidente del Consiglio – ho semplicemente ipotizzato che la puntata di Report potesse essere andata in onda nel mese di gennaio, quando ero ancora in carica come Presidente del Consiglio”. Una linea difensiva per difendere la difesa del giorno precedente, quando aveva detto: “I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione, anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via”. Eppure il filmato dell’incontro del 23 dicembre 2020 tra il senatore di Italia Viva e Mancini fu trasmesso da Report solo il 3 maggio 2021. Dunque a gennaio-febbraio nessuno sapeva dell’esistenza di quel video. E ancora: “”Ripeto il clima era già di fine della prospettiva di governo. E nessuno dell’intelligence mi ha portato il report né il video e io francamente non l’ho ritenuta neppure una notizia di rilievo per un presidente del Consiglio. Più che altro l’ho seguita negli sviluppi mediatici. Per il profilo istituzionale ho interpretato il ruolo”, ha spiegato, “quindi non sono intervenuto neppure sulla questione del video. Non ho chiesto né report né mi sono stati portati. La notizia è destituita di fondamento. Le dico anche che peraltro sono tutte attività fatte nel mio ruolo istituzionale, sarebbero coperte anche da riservatezza, per cui non potrei neanche dirlo se fosse stato vero il fatto di un report dell’intelligence, ma visto che non è accaduto non ho difficoltà a escludere che sia successo. Però tenga conto che se fosse accaduto sarebbe stato per me motivo di imbarazzo parlarne”. Conte ha infine aggiunto: “Anzi, proprio perché c’era di mezzo Renzi mi sono assolutamente astenuto, eravamo in dirittura finale, proprio per evitare che qualcuno potesse farci una speculazione politica. Quindi la questione è stata completamente gestita dai nuovi responsabili”.

Il caso del video a Palazzo Chigi CONTE: “L’HO VISTO A REPORT” MA SCOPPIA IL GIALLO SULLE DATE. COSA NON TORNA. Rita Cavallaro su L'Identità il 6 Dicembre 2022

Il video dell’autogrill fu consegnato ai vertici dello Stato e sarebbe arrivato anche a Palazzo Chigi tre mesi prima che Report lo mandasse in onda. Più di una fonte conferma che l’allora premier Giuseppe Conte lo avrebbe visto, ma il capo dei pentastellati, interpellato da L’identità, smentisce di aver visionato il filmato che mostra l’incontro a Fiano Romano, il 23 dicembre 2020, tra Matteo Renzi e il capo reparto del Dis Marco Mancini. “I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione, anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via”, dice Giuseppe Conte. E spunta così il giallo nel giallo. Perché quel filmato venne trasmesso dalla trasmissione di RaiTre diretta da Sigfrido Ranucci solo il 3 maggio successivo, quando ormai al governo c’era Mario Draghi e a capo dell’intelligence Franco Gabrielli.

Così si consuma il nuovo capitolo della spy story, sulla quale l’attuale capo del Dis, Elisabetta Belloni, ha posto il segreto di Stato, alimentando su quell’incontro misteri così profondi da essere comparati alla strage di Ustica o al sequestro di Aldo Moro. Macchinazioni machiavelliche che, giorno dopo giorno, delineano una guerra tra spie così forte il cui obiettivo non era quello di colpire il leader di Italia Viva e neppure di creare un problema politico a Giuseppe Conte. L’obiettivo di questa spy story era esclusivamente Mancini, per far saltare la sua imminente nomina a direttore generale del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza. Dopo l’incontro con Renzi, Mancini fu invitato da Gabrielli ad andare in pensione e gli venne addirittura revocata la scorta che lo proteggeva dalla serie di minacce di morte che, negli anni a capo del controspionaggio, aveva avuto. La sua promozione, attesa nel Conte 2, sfumò e bene informati sostengono che la causa fu proprio quel filmato.

Un video girato da una professoressa, una privata cittadina attirata da quell’interlocutore che parlava con Renzi e che, secondo lei, era un individuo losco. Motivo per il quale l’insegnante scattò 13 foto e girò due video, mentre attendeva il padre che era andato in bagno in un autogrill chiuso causa Covid. Per 45 minuti. E poi, nonostante fosse del tutto ignara di chi parlasse con Renzi, pensò bene che la questione potesse essere così rilevante da inviare il materiale prima al Fatto Quotidiano, che non usò il filmato, e poi alla redazione di Report, che il 3 maggio lo trasmise, fornendo alcune anticipazioni nei giorni precedenti. E lo fece inserendo nel servizio tv un ex agente del Sismi in pensione che, oscurato e con la voce contraffatta, identificò Mancini con Renzi, rivelando a tutti il volto dello 007 e mettendo in pericolo l’incolumità dell’agente. E come faceva l’ex Sismi a sapere che Report aveva il video? Perché quel filmato era diventato oggetto di un passaparola tra personaggi dell’intelligence, che avveniva proprio nei giorni in cui il governo era in subbuglio per l’ennesima mossa strategica di Renzi, il quale aveva intenzione di far cadere il secondo esecutivo di Giuseppe Conte per sostituirlo con un governo di larghe intese guidato da Mario Draghi, il quale poi giurò al Quirinale il 13 febbraio 2021.

E proprio in quei giorni il filmato era arrivato a Palazzo Chigi e qualcuno lo avrebbe portato a farlo vedere a Conte. “Se le stanno rappresentando che mi hanno portato questo video per farmelo vedere e dissuadermi dal nominare Mancini non è assolutamente vero”, precisa Conte. “Le cose non stanno proprio così. Adesso non entrerei nel merito su chi volevo o non volevo nominare, perché mi sembra una cosa delicata. Davano per scontato che volessi nominare lui. Non è proprio così”. Eppure fonti interne a Palazzo Chigi registrano almeno quattro incontri di Mancini con il premier e dalla Farnesina ne confermano altri due con Luigi Di Maio. Ci sono più elementi che rafforzerebbero la scelta di quel nome per i vertici dell’intelligence. In quel frangente di fine legislatura erano abbastanza frequenti i movimenti per le nomine ai servizi. E chi avrebbe “armato” la mano della professoressa, avrebbe raggiunto così l’obiettivo di far slittare il cambio ai vertici degli 007. Tanto più se quel filmato fosse stato mostrato a chi doveva fare quella scelta. “Ripeto”, aggiunge Conte, “il clima era già di fine della prospettiva di governo. E nessuno dell’ntelligence mi ha portato il report né il video e io francamente non l’ho ritenuta neppure una notizia di rilievo per un presidente del Consiglio. Più che altro l’ho seguita negli sviluppi mediatici. Per il profilo istituzionale ho interpretato il ruolo”, ha spiegato, “quindi non sono intervenuto neppure sulla questione del video. Non ho chiesto né report né mi sono stati portati. La notizia è destituita di fondamento. Le dico inoltre che peraltro sono tutte attività fatte nel mio ruolo istituzionale, sarebbero coperte anche da riservatezza, per cui non potrei neanche dirlo se fosse stato vero il fatto di un report dell’intelligence, ma visto che non è accaduto non ho difficoltà a escludere che sia successo. Però tenga conto che se fosse accaduto sarebbe stato per me motivo di imbarazzo parlarne”.

Conte ha infine aggiunto: “Anzi, proprio perché c’era di mezzo Renzi mi sono assolutamente astenuto per evitare che qualcuno potesse farci una speculazione politica. Eravamo in dirittura finale, Quindi la questione è stata completamente gestita dai nuovi responsabili”. Insomma, l’intrigo è più complicato di quanto appare.

“Sul caso Autogrill troppe bugie Anche da Conte. Ma quale prof? Farò di tutto per sapere la verità”. Rita Cavallaro su L’Identità l’Dicembre 2022

Io posso accettare tutto per il bene di patria, ma non che mi facciano passare da scemo. E non credo alle ricostruzioni di Giuseppe Conte, perché sono contraddittorie e inverosimili”. È lapidario e sul piede di guerra Matteo Renzi, leader di Italia Viva e al centro dello scontro con il capo dei 5S per il video dell’incontro all’autogrill con lo 007 Marco Mancini, dopo l’intervista a L’Identità.

Senator, allora non crede a Conte?

A Conte non credo per ovvi motivi. Ma alla versione di Conte non ci crede nemmeno lui, tanto’è che ha cercato di fare una smentita abbastanza imbarazzata. Si sentiva lo stridio delle unghie sui vetri, nel senso che si stava realmente aggrappando agli specchi. Il punto è molto semplice: io voglio la verità. Basta. Siccome non ho niente da temere dalla verità e hanno fatto una serie di show su quello che è accaduto, sostenendo che vi fossero loschi personaggi e losche trame, io adesso mi fermo soltanto davanti alla verità.

Per questo ha presentato l’esposto per la violazione del segreto di Stato?

Io ho chiesto all’avvocato Luigi Panella di seguire questa vicenda perché lo ritengo uno dei massimi esperti su questi temi. Ci stanno molti elementi che non tornano. Naturalmente abbiamo la massima fiducia nell’autorità giudiziaria e vedremo come andrà. Nelle prossime ore presenteremo una memoria, chiederemo l’accesso agli atti per capire questa professoressa che cosa dice, come, quali atti sono stati fatti. Consideri che abbiamo chiesto che venissero prese le telecamere dell’autogrill e con quelle immagini, se è come dice Sigfrido Ranucci, si vedrà chiaramente. Perché perfino volendo credere alla presunta testimone che ascoltò gli ultimi istanti del mio colloquio con Marco Mancini, e quindi dando un credito all’ultima versione delle quattro che Ranucci ha cambiato, tecnicamente non torna nulla.

Ad esempio cosa?

Che la professoressa sia partita prima di me ma contemporaneamente non torna con l’indicazione della macchina per fare le foto e non torna con il fatto che tutte le persone che erano lì sostengono che non ci fosse un’altra macchina.

Le telecamere le hanno sequestrate?

Non spetta a me saperlo, ma in ogni caso siamo sempre in tempo per fare tutti gli accertamenti. La professoressa, se esiste, come mai si muove in zona rossa?. Il padre, che sta un’ora e mezzo in macchina, che problemi ha? Perché nessuno lo vede uscire per andare in bagno?

Pensa che ci fosse qualcun altro quel giorno all’autogrill?

Io ho una mia idea di quello che è successo. Ma le mie idee contano zero. Qui c’è un magistrato, che noi stimiamo e rispettiamo, che ha tutti gli elementi per fare le proprie valutazioni. Nel frattempo, per aiutare nella valutazione, presenteremo ulteriori materiali, perché se lei guarda le varie versioni di Ranucci cambiano con le stagioni.

L’ultima in cui disconosce l’ex Sismi e dice che avrebbe riconosciuto da solo Mancini.

Anche su questo. Come può essere credibile uno che dice tutto e il contrario di tutto. Perché lo fa? Perché la divulgazione del segreto di Stato è un reato che viene pesantemente punito, quindi perché lui a un certo punto sente il bisogno di difendere quello che dice?

La versione sulla fonte comincia a scricchiolare?

Non sta in piedi neanche con le stecchette. Lo sanno tutti, lo sanno quelli della Rai ma fanno finta di niente, lo sanno quelli di Palazzo Chigi ma fanno finta di niente.

Pensa che per fare chiarezza bisognerebbe togliere il segreto di Stato?

Io credo che il problema non sia neanche quello. Non posso sapere su cosa sono state poste le domande. Però sono convinto che nonostante il segreto di Stato, messo da Elisabetta Belloni, arriveremo alla verità. Perché se davvero c’è questa professoressa sarà interrogata e ci saranno verifiche. Sono convinto che è solo una questione di tempo ma prima del 2037, quando scadrà il segreto dia Stato, noi avremo la verità su questa vicenda.

Dai anche prima del 2037…

Beh, questa è una battuta.

Magari già nella prima metà del 2023, no?

Io credo che il vero elemento di fondo sia quello di avere una verità nell’arco di qualche mese. Spero prima possibile. Però rispettiamo i tempi della Magistratura e da fin d’ora ci dichiariamo disponibili a lavorare e a collaborare in un corretto rapporto tra Istituzioni.

Ma l’obiettivo del personaggio che ha girato il video era lei o Mancini?

Mi tengo le mie opinioni. E qui le opinioni stanno a zero. Quello che è certo è che Conte non è credibile, perché va bene sbagliare il mese. Quello che non ci sta è la sensazione, cioè Conte risponde dicendo che da presidente del Consiglio non si intromette. Ammesso che sia vero o no quello che dice, lui racconta una sensazione che lo colloca chiaramente a Palazzo Chigi. Io sono molto convinto, avendo sentito l’audio, che Conte davvero abbia saputo e visto questo materiale quando era ancora premier.

Beh, quella è la sensazione che abbiamo avuto anche noi in quella telefonata.

Si sta arrampicando sugli specchi e soprattutto sta rischiando di farsi del male da solo.

Cosa cambia se Conte ha visto il video?

A me non interessa, ma è chiaro che se Conte ha visto il video nel gennaio del 2021 l’idea che la professoressa lo mandi a Report è un po’ strana. La professoressa che casualmente, vedendo una trasmissione, collega Mancini è una follia. Però in questa vicenda le sembra normale che Ranucci prima dica che è l’agente del Sismi, poi è lui, le macchine che vanno a sinistra, poi non è vero. E ci sono dei particolari insidiosi. Io non li vedo, credo che siamo di fronte a una vicenda particolarmente contraddittoria. Questione di poco. Quello che è certo è che le dichiarazioni di Conte mi hanno portato a fare un esposto.

Crede che Guerini al Copasir possa dare un contributo alla trasparenza di questa vicenda o può essere un elemento per mettere la verità sotto il tappeto?

Né l’una né l’altra. Guerini non accelera alcun tipo di soluzione e non blocca niente. La vicenda è nelle mani di chi deve fare le indagini. Gli errori della professoressa sono talmente tanti che è macroscopico il fatto che la storia è un’altra. Bisogna non avere fretta, porteremo a casa il risultato.

Lei è stato un po’ il bersaglio di certa Magistratura. Cosa pensa di Carlo Nordio?

Credo che le idee di Nordio siano molto interessanti. Adesso si tratta di passare dalle parole ai fatti. Spero si possa fare.

Cosa le piace di più tra le proposte di riforma?

Qualsiasi cosa possa dire sarà usata contro di lui.

Allora lasciamolo lavorare in pace. E diciamo qualcosa del Pd, no?

Il Pd ormai si commenta da solo. È allergico alle vittorie. Se torna a vincere è un bene, ma mi sembra che sia molto concentrato in discussioni stravaganti. Quando leggo che per il dibattito congressuale si tiene viva la scintilla della rivoluzione d’ottobre dico che siamo in un’altra era.

Invece il governo Meloni?

Sono colpito dalla pochezza di questa legge di bilancio. Mi aspettavo una ripartenza. Stiamo cercando di dare una mano con Carlo Calenda per fare un lavoro serio ma al momento sono solo chiacchiere.

Non farà le manovre strategiche per rovesciare gli esecutivi, per ora.

No, ma l’esecutivo si romperà da solo in vista delle Europee del 2024.

C’è un anno per lavorare.

Vediamo. Non allarghiamoci.

I soldi dei servizi e le ombre sugli 007. Rita Cavallaro su L’Identità l’8 Dicembre 2022

Così come aulicamente è l’amor che move il sole e l’altre stelle, allo stesso modo sono denaro e potere a determinare i peggiori dei complotti. E ci sono proprio i soldi alla base della guerra delle spie che ha portato alla trappola del video dell’autogrill, quell’incontro tra Matteo Renzi e lo 007 Marco Mancini finito nella bufera politica. Un’operazione che non vede come obiettivo il leader di Italia Viva, ma il capo reparto del Dis. Il motivo? Mandare all’aria la nomina di Mancini al vertice dei servizi, perché la spia negli ultimi otto anni aveva gestito i fondi dell’intero comparto della sicurezza nazionale in modo così ineccepibile da ricevere encomi formali dai diversi organi di controllo dello Stato. Insomma, il profilo giusto per arginare qualsiasi irregolarità nell’amministrazione dei fondi del Pnrr. Mancini, nei mesi precedenti all’incontro dell’autogrill, era stato ricevuto dall’allora premier Giuseppe Conte almeno quattro volte a Palazzo Chigi e altre due alla Farnesina dal ministro Luigi Di Maio. La sua nomina a capo del Dis sembrava ormai decisa, ma poi qualcuno, che già da tempo orchestrava il modo per far saltare la promozione dell’agente segreto, intercettò l’appuntamento del 23 dicembre 2020 con Matteo Renzi, l’unico personaggio che avrebbe potuto insinuare il germe del dubbio sulle nomine di Conte, perché in quel momento il governo era in bilico e proprio Renzi stava tessendo la tela che avrebbe portato alla caduta dell’esecutivo giallorosso. Quando Renzi dimenticò l’incontro con lo 007, che avrebbe dovuto avvenire nell’ufficio del senatore nel cuore della Capitale, e diede a Mancini appuntamento all’area di servizio di Fiano Romano in autostrada, l’occasione per ordire il piano arrivò. E in quell’autogrill si piazzò, ben nascosto, il “paparazzo”, che riprese la conversazione con un campo largo non molto coerente con l’obiettivo di un semplice telefonino. Un paparazzo che si dice sia una professoressa, la quale nel racconto cambia versione ben quattro volte e spiega di essersi fermata lì per caso, in un autogrill chiuso per Covid, di aver girato il filmato perché incuriosita dal losco individuo, così definisce Mancini, che parlava con Renzi. Ignara di chi fosse l’interlocutore, l’insegnante ebbe così tanta perspicacia in stile 007 che girò due video e scattò 13 foto, mentre, per 45 minuti, aspettava il padre che era andato in bagno. E che, non paga, inviò il materiale prima al Fatto Quotidiano, che non lo usò, e poi a Report, che lo trasmise il 3 maggio 2021, mandando in onda un’altra fonte, un ex agente del Sismi in pensione che, camuffato e con la voce contraffatta, disse in tv che quell’uomo era Marco Mancini, ex capo del controspionaggio e di cui, fino ad allora, esistevano solo le immagini di quando, nel 2005, riportò dall’Iraq la giornalista Giuliana Sgrena, rapita il 4 febbraio 2005 e liberata 28 giorni dopo nell’operazione che finì con l’uccisione del numero due dei servizi, Nicola Calipari. Ed ecco un nuovo elemento: l’uomo che sarebbe la fonte di Sigfrido Ranucci non era una semplice spia in pensione dal Sismi, ma si scopre ora che, come lo stesso Mancini, era passato all’Aise, dove aveva lavorato gli ultimi anni. Un dettaglio che spiega perché quella fonte fosse così informata su particolari riguardanti l’attività del capo reparto del Dis. E che, in spregio dell’incolumità di Mancini, sotto scorta per le minacce terroristiche, lo identifica in diretta, determinando la bufera sull’agente, invitato ad andare in pensione e al quale venne revocata la scorta. Senza contare che era già sfumata la sua nomina al vertice del Dis che, stando alle nostre fonti autorevoli, era lo scopo di quel filmato. Per raggiungere il quale sarebbe stato necessario che il video arrivasse nel momento giusto a Conte. L’ex premier grillino, nell’intervista uscita su L’Identità martedì scorso, ha negato che l’intelligence gli abbia portato quel file dell’incontro, sul quale è stato apposto il segreto di Stato. Eppure confonde le date, collocando la visione del video, che sostiene di aver visto da Report, tra gennaio e febbraio, negli ultimi giorni del governo, quando nessuno era a conoscenza dell’esistenza della ripresa, visto che la messa in onda avvenne tre mesi dopo. “I servizi non mi hanno fatto vedere nulla, non mi sono impicciato con loro di questa questione, anche perché non ricordo bene quando esplose il caso tramite Report, ma stavo andando via. Il clima era già di fine della prospettiva di governo. E nessuno dell’intelligence mi ha portato il report né il video e io francamente non l’ho ritenuta neppure una notizia di rilievo per un presidente del Consiglio”, sottolinea, mostrando uno stato d’animo sul quale difficilmente ci si piò confondere. Inoltre aveva aggiunto: “Proprio perché c’era di mezzo Renzi mi sono assolutamente astenuto, eravamo in dirittura finale, per evitare che qualcuno potesse farci una speculazione politica”. Dichiarazioni che hanno scatenato la reazione di Renzi: “O Conte si confonde, o mente, e non voglio crederlo, o nasconde qualcosa”. Perché quel filmato girava a Palazzo Chigi già nei momenti caldi della crisi di governo e solo se Conte lo ha davvero visto si spiega la mancata promozione di Mancini, visto che il premier ha nominato alcuni vertici dei servizi prima di lasciare la campanella a Draghi. A infittire il mistero, poi, le ultime rivelazioni di Ranucci, che ora disconosce l’ex Sismi mandato in onda e dice di essere lui la fonte, che lui stesso avrebbe riconosciuto Mancini nel video della professoressa. E Renzi, dopo le parole di Conte e Ranucci, ha presentato un esposto relativo alla violazione del segreto di Stato.

“Quando ero in carica”. Conte smentisce Ranucci e Report, l’ex premier apre una falla sul video di Renzi e Mancini in Autogrill. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 7 Dicembre 2022

L’unica certezza, sull’Autogrill di Report, è che è un mistero. Oggi ancora più fitto. Sull’incontro Mancini-Renzi di Fiano Romano è Giuseppe Conte, intervistato da un quotidiano, a tradire la versione ufficiale così come la conoscevamo. L’ex premier grillino ricorda di essere stato informato di quel video tra fine dicembre 2020 e gennaio ’21. “Quando ero in carica”. Aprendo una falla nella ricostruzione condivisa da Ranucci. Vediamo perché.

La famosa puntata di Report del 3 maggio 2021 proponeva un servizio che annunciava con grande sorpresa di aver ricevuto da una fonte anonima un video girato per caso in Autogrill. «Una insegnante ha filmato l’incontro tra un personaggio conosciuto, Renzi, e uno sconosciuto, che poi si rivelerà essere Mancini». È Giorgio Mottola a dare la versione di Report: «L’incontro è avvenuto il 23 dicembre all’Autogrill. Dopo la puntata di Report del 12 aprile l’insegnante che aveva il video ha inviato una mail alla nostra redazione», aveva ricostruito Mottola. Si scoprirà poi che l’insegnante misteriosa – oggi indagata, tra le proteste di Sigfrido Ranucci e le polemiche dell’Fnsi – aveva offerto sin da subito il video al Fatto Quotidiano.

«Lo avevamo ricevuto noi per primi ma è rimasto perso tra le centinaia di mail che non si riescono a leggere. E a ripensarci mi piange il cuore», ricostruisce con un po’ di patos Peter Gomez. «Non ci rendemmo conto, in quel momento eravamo sotto organico. Lo scoprimmo poi. Quando uscì su Report lo stesso Ranucci, se non sbaglio, disse che lo stesso materiale era stato prima inviato al Fatto. Abbiamo riaperto la casella e trovato quella mail con cui c’erano, mi pare, delle foto». Tornano nella vicenda anche le foto. Quali? Si trattava di fermo immagini, di screenshot mandati per testare l’interesse del destinatario e ingolosirlo? Si vedevano dettagli rimasti fuori dal video di Report?

Rimane che dal 23 al 30 dicembre, per una settimana, il video sarebbe rimasto fermo, sigillato, protetto nelle mani della Professoressa. E proprio l’ultimo dell’anno, come un insperato fuoco d’artificio, eccolo spuntare tra i regali di una lettrice – o almeno, evidentemente estimatrice – del Fatto. Che forse non lo ha fatto avere solo al Fatto. Qualcuno il video potrebbe averlo visto, dato che girava tra una mail e l’altra, tipo messaggio in bottiglia, dal 30 o dal 31 dicembre. Di certo qualcuno potrebbe averlo fatto arrivare a Palazzo Chigi. Dove c’era, fino al 26 gennaio, Giuseppe Conte. Il leader 5 Stelle ieri ha riunito i puntini: «Ero alla fine della mia esperienza di governo, la vicenda riguardava Renzi, io avevo una polemica con lui, scelsi di rimanerne fuori e decisi di non commentare».

Matteo Renzi vuole vederci chiaro. Il video dell’Autogrill era già in mano alle autorità – a Palazzo Chigi, ai servizi segreti – cinque mesi prima della messa in onda di Ranucci? «Conte data questo momento tra dicembre e gennaio. Qualcuno aveva detto a Conte dell’incontro Renzi-Mancini all’Autogrill? L’ex premier si è sbagliato, ha confuso gennaio con maggio? La scansione temporale la puoi sbagliare, ma quando Conte argomenta, ricorda nei dettagli di aver deciso di non intervenire in virtù della sua posizione istituzionale, come può essersi confuso?», lo incalza Renzi. Tutti i deputati e i senatori di Italia Viva ieri hanno preteso una parola inequivoca da Conte, lanciando anche sui social l’hashtag #contechiarisca. In serata il leader grillino ritratta la sua ricostruzione. E sostiene di aver confuso le date. Certo, se si togliesse il segreto di Stato sulla vicenda, tutto sarebbe più chiaro.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Marco Lillo e Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 7 Dicembre 2022.

Fuori dall'aula VIII del Tribunale di Roma, in attesa di essere sentito come testimone al processo Consip, Matteo Renzi risponde alle domande del Fatto. Sulla professoressa che lo ha ripreso all'autogrill di Fiano Romano mentre incontrava l'ex 007 Marco Mancini, Renzi ci affida una mezza promessa: qualora si dovesse confermare che si tratta davvero solo di una professoressa, come accertato dalle indagini dei pm di Roma, "mi riservo successivamente di fare valutazioni" sul rimettere la querela. Vedremo. 

Il senatore però va all'attacco quando gli chiediamo della lettera al Copasir del pm Luca Turco, rimasta a protocollo riservato e mai depositata nell'inchiesta Open, ma pubblicata nel suo libro Il Mostro: "Vi ho già querelato. Non ho rivelato alcun segreto".

Partiamo dalla vicenda Report. L'insegnante che ha ripreso l'incontro all'autogrill è stata inquisita per il 617 septies, reato che punisce chi fa riprese fraudolente. Lei non ha denunciato per questo reato. Se questa signora andasse a giudizio perché le ha fatto un video in un autogrill, sarebbe contento?

Io non ho denunciato per quel tipo di reato e se alla fine del dibattito sull'udienza preliminare restasse davvero solo quella contestazione io mi riservo di fare valutazioni perchè quel tipo di reato lì credo sia procedibile solo a querela di parte. Vi stupirò: se davvero fosse soltanto quello l'argomento io per primo rifletterei. (...) 

Io non credo a questa storia, perchè ci sono quattro versioni diverse ma soprattutto perchè io ero lì quel giorno e quindi so da dove la foto poteva essere fatta. (...) Aggiungo che stamattina una mia collaboratrice è andata in procura a Roma e non le è stato consegnato il fascicolo 415 bis, pur essendo io parte offesa. Vorrei capire perché secondo me il fascicolo come parte offesa si può avere.

In realtà il codice non prevede obblighi per i magistrati di consegnare copia dei fascicoli alle parti offese. Ma torniamo all'insegnante: le ha chiesto di incontrarla...

Ci sarà un incontro immagino in sede di udienza. Ci sono delle cose che non mi tornano e le voglio esporre al gup. Come mai ci sono quattro versioni diverse? Come mai Conte oggi dice che ha gestito il dossier con lo stile istituzionale da Presidente del Consiglio quando non lo era più?

Oppure Conte lo ha ricevuto (il video dell'incontro all'autogrill, ndr) prima alla luce delle dichiarazioni di Conte che magari tra un'ora smentisce? (Renzi fa riferimento all'articolo pubblicato ieri da L'Identità in cui si parla del video finito a Palazzo Chigi prima della puntato di Report. 

Ieri poi dallo staff di Conte hanno precisato che Conte ha avuto contezza del video solo da Report e che "nel rilasciare le dichiarazioni al quotidiano ha erroneamente collocato la trasmissione Report nel periodo in cui era premier, non ricordando il periodo esatto in cui venne trasmessa", ndr).

Se si dimostrasse che la persona che l'ha ripresa fosse davvero solo una professoressa, le chiederebbe scusa per averla portata a giudizio?

Io non ho fatto una denuncia nei confronti di una persona, ho chiesto all'autorità giudiziaria di verificare se vi erano dei reati. Chi chiede alla giustizia di verificare i fatti non ha nulla di cui scusarsi. Se fosse una cittadina che ha ripreso, verificheremo i fatti () Se ci sarà da valutare, intanto chiedo che mi diano gli atti. Poi sono molto tranquillo perchè so come sono andate le cose... 

Il Fatto oggi (ieri Ndr) parla della pubblicazione di una nota del pm di Firenze Luca Turco inviata al Copasir che gli chiedeva gli atti e pubblicata nella versione aggiornata del suo libro. Nota segreta per la Procura di Firenze. Da chi l'ha avuta?

Ho già risposto dicendo che procederò con un'azione civile nei confronti del Fatto. (...) Il titolo "Renzi spiattella un segreto del Copasir" a mio giudizio è foriero di una possibile azione di risarcimento danni. Non ho spiattellato alcun segreto. () Io ho riportato una notizia che era stata lanciata da voi (in realtà Il Fatto non ha mai posseduto nè pubblicato la lettera del pm Turco, ndr) a da altri, vale a dire la possibilità che il pm di Firenze avesse mandato al parlamento le carte come richiesto dal Copasir () 

MATTEO RENZI A REPORT DICE CHE MANCINI DOVEVA PORTARGLI I BABBI - 3 MAGGIO 2021

Queste carte arrivano al Copasir a marzo mentre la sentenza della Cassazione è a febbraio. Il Fatto ad aprile scrive che c'è questo fatto e viene fatto notare da una fonte, che non ha a che fare col Copasir, che c'è una notizia particolare in quell'atto, ossia la firma. 

La carta, che viene fatta in modo a mio giudizio contrario alla legge perchè viene fatta dopo la sentenza della Cassazione e comprende il materiale che la Cassazione ha detto di distruggere, è firmata da uno solo dei pm (...). Il pm Turco ha firmato questa carta senza la firma di Creazzo nè di Nastasi. (...) Quindi io non ho violato alcun segreto del Copasir, non ho violato alcun segreto istruttorio. (...) Un tema di segreto istruttorio, nel caso di specie non si pone, ma ove mai si ponesse sarei entusiasta, perchè in questi ultimi 5/6 anni (...) mi è capitato di vedere carte che riguardavano procedimenti inspiegabilmente pubblicate talvolta anche per esteso sui giornali. 

Se le dovessero chiedere chi le ha dato quella lettera di Turco lei risponderà?

Certo, però me lo deve chiedere un pm.

Estratto dell’articolo di A. Man. per “il Fatto quotidiano” il 7 Dicembre 2022. 

Matteo Renzi per il momento non intende incontrare l'insegnante che vide il suo incontro con l'ex dirigente dei Servizi Matteo Mancini all'autogrill di Fiano Romano e mandò a Report qualche immagine ripresa a distanza, né i suoi legali. 

Nei giorni scorsi, Giulio Vasaturo, avvocato della donna, ha messo a disposizione dei legali dell'ex presidente del Consiglio le generalità della sua assistita, peraltro agli atti delle indagini della Procura di Roma a cui prima o poi potrebbero avere accesso anche i difensori di Renzi. 

Per chiarire ulteriormente la vicenda è disposta a incontrarli e a farsi interrogare da loro, come del resto ha sempre detto di essere pronta a confrontarsi con il senatore che la chiama "sedicente professoressa". 

Vasaturo ha anche convocato Renzi per le sue indagini difensive. Ma per ora non c'è stata risposta, né Renzi era obbligato a rispondere. Come dimostra nel libro Il Mostro (edizioni Piemme) e nelle varie presentazioni preferisce intrattenere misteri e sospetti di chissà quale complotto benché sia accertato dai pm che la donna non ha legami con i Servizi. […]

Renzi, lo 007 e il legale: l'incontro all'autogrill e i nuovi misteri di una «spy story». Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera l8 Dicembre 2022 

 Il caso dell’incontro all’autogrill. L’ex premier sceglie l’avvocato di Mancini

A due anni di distanza, Matteo Renzi rilancia i presunti misteri sulle foto rubate del suo incontro all’autogrill del 23 dicembre 2020 con l’allora dirigente dei Servizi segreti Marco Mancini, e per farlo sceglie l’avvocato Luigi Panella, lo stesso di Mancini. Al quale ha affidato il compito di presentare alla Procura di Roma «una memoria e un ulteriore esposto relativo alla violazione del segreto di Stato e al reale svolgimento dei fatti, in qualità di persona offesa», recita il suo comunicato.

Renzi-Mancini, il video dell'incontro in Autogrill trasmesso da Report

 La Procura ha già chiuso l’indagine ed è pronta a chiedere il processo per la professoressa quarantaquattrenne che fotografò e riprese l’incontro, accusata di «diffusione di riprese fraudolente», facendo capire che per i pm misteri non ce ne sono. A parte il contenuto di quel colloquio. Ma evidentemente l’ex premier, prima ancora di esaminare gli atti dei pm, non si ritiene soddisfatto. Continua a dire che «ci sono troppe cose che non tornano», e il suo nuovo legale chiederà agli inquirenti di esaminare ulteriori «elementi meritevoli di approfondimento».

Interrogatorio negato

Lui alla storia della professoressa che si trova lì per caso (ci resterà circa 40 minuti perché suo padre stava male ed ebbe ripetutamente bisogno del bagno e del bar), vede arrivare prima un signore scortato che aspetta qualcuno e poi Renzi che si mette a chiacchierare con lui, continua a non credere. Ma all’avvocato della donna, Giulio Vasaturo, che gli ha chiesto un interrogatorio nell’ambito di indagini difensive a tutela della sua assistita, Renzi non ha risposto. 

Ora il difensore potrebbe sollecitare la Procura a convocare l’ex premier, come del resto ha fatto in passato Marco Mancini con la direttrice del Dis (l’organismo di coordinamento dei Servizi) Elisabetta Belloni, in un’indagine separata nata dalla sua denuncia contro Report, la trasmissione di Raitre che ha mostrato le immagini dell’incontro. In quel caso a chiamare Belloni è stata la Procura di Ravenna (provincia dove Mancini risiede e Procura guidata fino a due anni fa, dunque prima della puntata di Report, da suo fratello Alessandro), e ad alcune domande la responsabile del Dis ha opposto il segreto di Stato. 

Sul quale Renzi continua a fare ironie e insinuazioni lasciando credere che quel rifiuto possa coprire fatti relativi al suo incontro con l’ex agente segreto, anziché le regole di funzionamento dei Servizi. Nella sua ricostruzione un po’ spionistica e un po’ da commedia della vicenda, l’ex premier irride anche il racconto della professoressa che avrebbe detto di aver visto Renzi e Mancini, al termine del loro incontro, andare uno a destra verso Firenze e l’altro a sinistra verso Roma: «Se uno va a sinistra in autostrada fa un frontale!». In realtà in un’intervista a Report la donna disse: «L’auto di Renzi ha proseguito prendendo l’autostrada in direzione Firenze mentre l’altra ha ripreso in direzione Roma» .

La direzione delle auto

Poi nell’interrogatorio dell’8 novembre alla Procura di Roma ha chiarito: «Ho lasciato l’area di servizio prima che le due vetture “istituzionali” (di Renzi e Mancini, ndr) abbandonassero il parcheggio. Procedevo a bassa velocità e passata la barriera di Roma nord, dopo la diramazione per Firenze, sono stata superata dall’Audi di Renzi che ho riconosciuto perché aveva il lampeggiante e viaggiava a velocità sostenuta. L’altra macchina invece non l’ho più notata, quindi ho dedotto che avesse preso una diversa direzione». L’avvocato della professoressa, oltre a convocare inutilmente Renzi per interrogarlo, ha comunicato all’ex premier e al suo avvocato di essere disposto a far sentire la signora anche da loro, ma pure in questo caso non ha ricevuto risposta. 

Nel frattempo Renzi ha aperto il «mistero Conte», dopo che il leader del Movimento Cinque Stelle ha dichiarato di aver appreso dell’incontro all’autogrill mentre era presidente del Consiglio. Ma Report è andato in onda il 3 maggio 2021, quando a palazzo Chigi c’era già Draghi, quindi chi ha avvertito Conte con quattro mesi di anticipo?

La versione di Conte

 L’interessato s’è corretto sostenendo di aver fatto confusione tra due periodi diversi, e che nessuno gli ha detto niente prima. Ma a Renzi, ovviamente, non basta. Tuttavia l’indagine della Procura di Roma ha escluso qualunque legame, anche di lontane parentele, tra la professoressa e i servizi segreti. 

La donna ha spiegato di aver contattato nell’immediatezza un suo amico giornalista, che nelle foto non riconobbe Mancini, e poi Il Fatto quotidiano, che non le rispose. Ad aprile 2021 vide una puntata di Report che parlava di possibili «complotti» renziani per far cadere il governo Conte 2, e inviò le immagini a loro. «Ci tengo a precisare — ha specificato ai pm — di non aver mai chiesto né percepito alcun compenso economico o di altro genere per il contributo che da semplice cittadina ho volontariamente dato a questa inchiesta giornalistica». 

I pm sono arrivati a identificare la donna con un atto abbastanza invasivo come l’esame dei tabulati dei giornalisti di Report, limitatamente al periodo che ha interessato la realizzazione del servizio. E per ora non ritengono che alla professoressa si possa applicare la non punibilità delle «riprese fraudolente» prevista per «l’esercizio del diritto di cronaca». 

La signora ha specificato di aver scattato 13 foto e due video, per un totale di 52 secondi, «dal posto di guida della mia autovettura, dove peraltro ero ben visibile dall’esterno e non nascosta. Dalla mia postazione vedevo il personale di scorta di entrambi gli uomini (Renzi e Mancini, ndr) che dialogavano tra loro e anche loro erano certamente in grado di vedere me, senza alcuna difficoltà». 

Parole che danno adito a un altro mistero: quattro persone adibite alla sicurezza che non si accorgono di una signora che riprende i personaggi che dovrebbero proteggere. Come resta l’interrogativo sul contenuto del colloquio tra l’ex premier e l’allora funzionario del Dis. All’epoca Renzi disse che fu uno scambio d’auguri con consegna da parte di Mancini di dolci natalizi; di recente ha aggiunto che gli riferì di voler far cadere il governo Conte 2. C’era altro?

DAGONOTA il 22 novembre 2022.

Apporre il segreto di Stato su un’indagine vuol dire semplicemente che tale inchiesta potrebbe mettere in pericolo lo Stato. Un fatto gravissimo. E Renzi non si capacita: per me, riguardo all’intercettazione video all’Autogrill dove ha conversato per oltre mezz’ora con l’agente dei Servizi Marco Mancini, poi trasmessa da “Report”, per me non c’è nulla di così grave da opporre il segreto di Stato, sottolinea Renzi. 

E da abilissimo giocoliere della politica qual è, all’indomani dall’assoluzione dei genitori, il Bullo di Rignano tira l’acqua al suo mulino affermando che si tratta di una “vendetta” contro di lui, perché nel gennaio scorso si oppose alla candidatura di Elisabetta Belloni, la direttrice dei servizi segreti.

Ecco: alla conferenza stampa di oggi al Senato qualcuno gli dica che il Segreto di Stato applicato all’epoca del governo Draghi dal sottosegretario alla sicurezza Franco Gabrielli non riguarda la sua persona bensì lo 007 Mancini, l’unico che ha subito le conseguenze dell’incontro all’Autogrill con la cacciata su due piedi dai Servizi. E se si dovesse fare un processo, come vuole Renzi, si dovrebbe interrogare anche la persona che ha pazientemente girato per 45 minuti il video dell’incontro fuori dall’Autogrill. E potrebbero esserci delle brutte sorprese…

Francesco Grignetti per “La Stampa” il 22 novembre 2022.

Matteo Renzi dice che è una «vendetta» contro di lui, perché nel gennaio scorso si oppose alla candidatura di Elisabetta Belloni, la direttrice dei servizi segreti. È seccatissimo, l'ex premier, perché Belloni nel maggio 2021 ha rifiutato di dire alcunché sul famoso incontro dell'autogrill tra lo 007 Marco Mancini e Renzi stesso. Belloni ha opposto il segreto di Stato alle domande dei magistrati che cercavano di capirne di più. E Mario Draghi ha confermato il segreto.

«Ma che c'entra un segreto di Stato?», s' interroga Renzi, che collega le azioni di Belloni allo stop alle sue ambizioni quirinalizie. «La cosa mi colpisce. Così non si saprà niente per i prossimi 15 anni. ..». Epperò, a difesa di Belloni ora si schiera palazzo Chigi. 

A parte che è notoria la vicinanza con Giorgia Meloni, che spinse per lei alla presidenza della Repubblica, il sottosegretario Alfredo Mantovano «conferma piena fiducia al direttore del Dis, ambasciatrice Elisabetta Belloni, a fronte delle dichiarazioni rese dal senatore Matteo Renzi». 

Mantovano rimarca che il segreto di Stato è stato ufficializzato da Draghi e che il tutto è avvenuto «nel corso di indagini dell'autorità giudiziaria, in relazione alla sola esigenza di tutelare la funzionalità dei Servizi, e per scongiurare il rischio di violarne la necessaria riservatezza».

Il segreto di Stato era stato peraltro comunicato al Copasir. Certo è che il colloquio incriminato avvenne nel dicembre 2020, quando si era all'apice dello scontro tra Renzi e Giuseppe Conte; e l'agente Mancini era in procinto di diventare il vice di Gennaro Vecchione, fedelissimo di Conte. Fu rivelato dalla trasmissione Report il 3 maggio 2021. Tutto avveniva quando Belloni ancora non era entrata in scena, e tantomeno era prevedibile la candidatura per il Quirinale.

(askanews il 23 novembre 2022) - "Sarei ben felice di incontrare il senatore Renzi". La testimone dell'Autogrill, che lo scorso 23 dicembre 2020 aveva scattato alcune foto e fatto riprese col proprio telefonino del senatore Matteo Renzi mentre colloquiava, nel parcheggio dell'Autogrill di Fiano Romano, con altro soggetto, poi individuato nella persona del dirigente - all'epoca - dell'Aisi Marco Mancini - , attraverso il suo legale, l'avvocato Giulio Vasaturo, replica alle dichiarazioni dell'ex premier Matteo Renzi. 

"Nel suo ultimo libro, in alcune interviste e nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri, 22 novembre 2022, - fa sapere il legale - il senatore Matteo Renzi ha reiterato una serie di dubbi ed oggettive insinuazioni, affermando fra l'altro che il Direttore Generale del DIS Elisabetta Belloni avrebbe addirittura opposto il segreto di Stato 'sul rapporto tra la presunta professoressa dell'autogrill e le strutture di Intelligence' (così ne Il Mostro, ed. Piemme, 2022)". 

"La mia ASSISTITA - prosegue Vasaturo - ha già ampiamente chiarito la propria posizione innanzi l'Autorità Giudiziaria, dimostrando in maniera anche documentale e, quindi, incontrovertibile la casualità della sua presenza presso l'autogrill di Fiano Romano e, ovviamente, la sua assoluta estraneità ad apparati di Intelligence; da semplice ed irreprensibile cittadina, nell'assistere a quell'incontro fra l'ex presidente del Consiglio e, con tutta evidenza, un altro esponente della Pubblica Amministrazione, in quanto anch'egli dotato di scorta istituzionale, la stessa ha avuto la curiosità di documentare l'episodio avvenuto in un luogo e con modalità che sono oggettivamente inusuali.

Proprio perché, come mirabilmente ribadito dallo stesso senatore Renzi, ogni persona perbene - continua il legale - 'non deve aver paura di chi esercita funzioni di potere nel nostro Paese' ma deve anzi adoperarsi attivamente per contribuire al controllo democratico dell'operato di chi detiene ruoli pubblici di altissimo rilievo, la mia ASSISTITA ha (ineccepibilmente) ritenuto che la documentazione di quell'incontro in uno spazio pubblico, fra l'ex premier ed altro funzionario pubblico, fosse potenzialmente di interesse pubblico e, quindi, giornalistico".

"La mia ASSISTITA non ha avuto modo di ascoltare nulla del colloquio fra i due, se non i saluti finali scambiati dagli interlocutori mentre si avvicinavano alla sua auto, posizionata praticamente a ridosso delle loro vetture istituzionali; - venendo poco dopo superata a gran velocità solo dall'autovettura del senatore Renzi e non dal mezzo del suo interlocutore, mentre percorreva la corsia autostradale che dal varco di Fiano Romano muove in direzione Firenze, la mia ASSISTITA ha semplicemente dedotto, con ovvia inferenza di buon senso, che l'altro interlocutore dovesse aver intrapreso il percorso opposto verso Roma".

L'avvocato della donna poi tiene a precisare: "in effetti la mia ASSISTITA ha avuto modo di vedere solo l'auto del senatore Renzi mentre percorreva l'autostrada in direzione nord ed ha solo dedotto, con logica stringente, quale fosse la diversa direzione intrapresa dal dottor Mancini". 

"La mia ASSISTITA - ha continuato Vasaturo - non ha alcun motivo di particolare ostilità nei riguardi del senatore Renzi e non ha tratto alcun beneficio, di alcun tipo, da questa vicenda che anzi ha causato e comporta una certa apprensione in questa cittadina, mamma ed insegnante esemplare che ispirato tutta la sua vita al valore della legalità".

 E dopo aver appreso che il senatore Renzi ha manifestato il comprensibile desiderio di conoscere personalmente la "professoressa" a cui più volte ha fatto riferimento in questi mesi, il legale fa sapere di essere da subito disponibile per favorire un colloquio tra la sua assistita e l'ex premier. "La mia assistita sarebbe davvero ben lieta di incontrare il senatore Renzi" conclude l'avvocato Vasaturo.

La strana vicenda Report. Ranucci conosceva notizie secretate, Renzi contro i video dell’autogrill: “Chiederò ai magistrati di aprire un fascicolo”. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 23 Novembre 2022

Magistrati e servizi segreti hanno messo Matteo Renzi nel mirino? “Se non si è intuito, non mi fanno paura”, dice l’ex premier. Nella conferenza stampa indetta dal leader di Italia Viva, di paura non ce n’è, ma la rabbia è palpabile. Troppi segreti, troppi misteri ruotano intorno allo strano caso di quel Report (Rai 3) con cui, era il 23 dicembre 2020, con una dinamica ancora avvolta in un giallo, venivano impallinati lui e l’ex alto dirigente del Dis, Marco Mancini. I misteri in questi giorni, se possibile, si infittiscono. Ci riferiamo alla doppia smentita a Matteo Renzi per quel che aveva rivelato domenica alle 21 e 30 a “Non è l’Arena”, su La7. Le smentite, la loro successione involontaria, paradossalmente confermano la verità di quel che ha riferito Renzi: si chiama eterogenesi dei fini. Facciamo un passo indietro.

L’ex premier aveva anticipato già domenica scorsa da Giletti quanto contenuto nella seconda edizione de “Il Mostro”. La direttrice del Dis, Elisabetta Belloni – ha raccontato il leader di Italia Viva – ha posto il segreto di Stato sull’Autogrill di Fiano Romano, nel cui parcheggio, il 23 dicembre del 2020, il senatore già presidente del Consiglio si incontrò con Marco Mancini, poi pensionato dalla medesima Belloni. Renzi ha paragonato il segreto di Stato su Ustica e quello su Fiano Romano. Per capirci: uno che è stato presidente del Consiglio e senatore della Repubblica non può essere filmato segretamente e poi ritrovarsi su Rai Tre a Report e messo in croce per aver incontrato un dirigente dello Stato.

Nel libro, uscito ieri, Renzi scrive: “La direttrice dei Servizi segreti, Elisabetta Belloni – che non ho voluto alla presidenza della Repubblica – ha deciso nella primavera del 2022, quattro mesi dopo le vicende del Quirinale, di opporre il segreto di Stato durante l’interrogatorio come testimone all’interno di indagini difensive, cui è stata sottoposta a seguito della strana vicenda Report-Autogrill. Vengo a conoscenza dell’opposizione del segreto di Stato in modo rocambolesco e casuale il giorno 25 giugno 2022. Rimango senza parole. Alla luce di questa decisione – a mio avviso enorme – la verità sulle vicende connesse agli eventi dell’Autogrill sarà pubblica solo nel 2037. Ma cosa diamine ci sarà di così importante nei rapporti legati alla vicenda Autogrill da mettere il segreto di Stato fino al 2037?”.

E siamo a lunedì. Ranucci, il conduttore di Report, alle 11,01 del mattino sul suo profilo Facebook: “Non è stato posto alcun segreto di Stato sulla vicenda Autogrill… Semmai è stato Mancini a chiedere di indagare per presunta violazione del segreto di Stato”. Aggiunge: “Quello posto dalla dottoressa Belloni è il segreto sulle risposte alle domande poste da Mancini in merito alle dinamiche interne ai servizi di sicurezza”. Passano tre ore. Alle 14,25 esce la prima agenzia che riferisce la dichiarazione di Mantovano, Autorità delegata sui Servizi di informazione e sicurezza, apparsa sul sito di Palazzo Chigi. “Piena fiducia” alla Belloni la cui “opposizione del segreto di Stato è stata confermata dal Presidente del Consiglio nel giugno 2022”. Essa è avvenuta “nel corso di indagini dell’autorità giudiziaria in relazione alla sola esigenza di tutelare la funzionalità dei Servizi, e per scongiurare il rischio di violarne la necessaria riservatezza”. Insomma: hanno deciso insieme Belloni e Draghi. In coppia. Curiosamente il sottosegretario coinvolge Draghi ma sta attento a non sfiorare il suo predecessore Franco Gabrielli, il quale secondo prassi aveva presentato al presidente del Copasir, come prescrive la legge, adeguata comunicazione del segreto opposto dal Dis. Quel presidente era Adolfo Urso oggi ministro, al quale Gabrielli il 5 settembre, in piena campagna elettorale, si era così riferito: “Con il presidente Urso ormai siamo sullo stato di famiglia l’uno dell’altro” (Fanpage, 6 settembre).

Si noti: il segreto di Stato – dicono entrambi, Ranucci e Mantovano, uno dei quali non risulta ancora ufficialmente portavoce dei servizi – si riferisce al fatto che le domande vertevano “solo” sugli “interna corporis” dei servizi, per ovvie ragioni non divulgabili. Da noi interpellato l’avvocato Luigi Panella, che con Paolo De Miranda difende Marco Mancini, commenta: “Chi ha detto a Ranucci che le nostre domande, peraltro tutte vagliate dall’autorità giudiziaria, vertevano sul funzionamento (la dinamica interna) dei servizi? Io non posso confermare se Ranucci dica o no il vero, in quanto questi atti sono stati segretati dal procuratore. Ma sollevo due questioni. La prima: da chi, quando e a che titolo Ranucci ha ricevuto queste notizie profetiche di quanto avrebbe dichiarato l’Autorità delegata? La seconda: davvero il giurista e giudice Mantovano può credere che io sia così sprovveduto da porre domande irricevibili? Di sicuro posso dire che il segreto di Stato ha bloccato le indagini”. La tempistica dei messaggi di Ranucci e Mantovano ha insospettito anche Renzi. “Siamo davanti a una palese violazione del segreto istruttorio, quando il conduttore Rai prova a dettagliare lo stato dell’arte delle indagini, le richieste di Marco Mancini e dei suo difensori commette il reato di violazione del segreto istruttorio”.

Quante cose sa, Sigfrido Ranucci. Le sa persino prima che siano agli atti. “Siamo in diretta dal Senato, c’è qualche Procuratore della Repubblica in ascolto?”, chiede ironicamente Renzi. “Per violazione del segreto istruttorio si deve procedere d’ufficio, ma se nessuno in Procura ci segue, vuol dire che andrò io a depositare un esposto. Chiederò ai magistrati di aprire un fascicolo su Ranucci”, conclude Renzi. I misteri, in questa storia, sono tanti. E’ stato un continuo guadagnare giorni. Dapprima la direttrice Belloni fu convocata presso l’ufficio romano degli avvocati. Non si presentò. E non presentò alcuna giustificazione. Quindi, richiesta dai magistrati di presentarsi nella loro sede, chiese il rinvio. La terza volta domandò di essere escussa presso la sede del Dis (di solito simile privilegio è riservato al premier in carica). Rifiuto del Procuratore. Infine la massima autorità dei servizi dovette recarsi, senza se e senza ma, in una caserma. Per due volte. “Esce il mio libro e arrivano puntuali gli attacchi dell’Anm. Dicono che io sono responsabile di ‘una pericolosa delegittimazione dell’operato della magistratura’. La magistratura viene delegittimata quando i magistrati che sbagliano non pagano mai. Se cercate chi delegittima la magistratura, signori dell’Anm, guardate in casa vostra. E magari per una volta evitate di attaccarmi. Perché, come forse si è vagamente intuito, non mi fate paura”, ha concluso Matteo Renzi.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Estratto dell’articolo di Daniele Luttazzi per "il Fatto Quotidiano" l’1 Dicembre 2022.

1) I servizi segreti sono un asset strategico del Paese, non uno scudo politico che qualcuno possa usare per rafforzare la propria posizione nella contesa interna (Marco Minniti, ex-ministro dell'Interno ed ex-autorità delegata per la sicurezza della Repubblica, il Foglio, 30 dicembre 2020).

2) Renzi fa riferimento al video girato a Fiano Romano. Ma fino a quel momento durante l'intervista non avevamo menzionato né la foto né il video che ci sono stati mandati. Come faceva Matteo Renzi prima dell'intervista a sapere dell'esistenza della documentazione inviataci riservatamente?

Renzi: "Ah, quindi lei l'ha visto? Eeh, quindi qualcuno le ha dato un video. Interessantissimo. Magari diranno che è un incontro, così, un cittadino, un passante. Sa che alle barzellette non ci crede nessuno, ma sono bellissime. Domandatevi perché avete quel video. Domandatevi soprattutto perché la trasparenza che chiedete agli altri non sempre viene messa in atto".

Però non mi ha detto cosa vi siete detti con Mancini.

"Come le ho detto, dovevo vederlo qui. Mi doveva portare, si figuri, i Babbi, che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni e che io mangio in modo molto vorace. Oppure lei vuol dire che il dottor Mancini è il grande ispiratore della mia battaglia per cambiare l'autorità delegata?"

(Report, 3 maggio 2021).

3) Dell'appuntamento all'autogrill, Renzi ha parlato anche a Torino il 24 novembre durante la presentazione del suo libro. Il senatore ha spiegato che Mancini "fa degli incontri perché è un dirigente di Palazzo Chigi, come tutti i dirigenti dei Servizi. Si può discutere, ma è una cosa legittima, consuetudinaria".

I due dovevano vedersi in Palazzo Giustiniani, al Senato, ma Renzi se ne dimentica e così con le scorte fissano l'incontro all'autogrill. "Sono momenti delicati, c'è la crisi del governo Conte, io sto dicendo in tv, come dico all'agente dei Servizi, che per quello che mi riguarda o Giuseppe Conte cambia o va a casa". Ma perché parla con un dirigente dei Servizi della caduta del governo? Renzi non fornisce maggiori dettagli (Fq, 29 novembre 2022). […]

Quel retroscena di Renzi sulla 007 Belloni. "Oppose il segreto sul caso Report-autogrill". Il leader di Iv: "Resto senza parole. Dunque la verità si saprà solo nel 2037". Pasquale Napolitano il 21 Novembre 2022 su Il Giornale.

«La direttrice dei servizi segreti Elisabetta Belloni ha deciso nella primavera del 2022 di opporre il segreto di Stato fino al 2037 durante l'interrogatorio come testimone all'interno di indagini difensive a cui è stata sottoposta a seguito della strana vicenda Report-Autogrill. Vengo a conoscenza dell'opposizione del segreto di Stato in modo rocambolesco e casuale il 25 giugno scorso. Rimango senza parole. Alla luce di questa decisIone enorme la verità sulle vicende connesse all'autogrill sarà pubblicata solo nel 2037. Ma cosa di diamine di così grosso ci sarà nei rapporti legati alla vicenda dell'autogrill da apporre il segreto di Stato fino al 2037?».

Il racconto di Matteo Renzi è contenuto nella versione aggiornata del libro «Il Mostro» in uscita. Un retroscena anticipato ieri sera durante la trasmissione «Non è l'Arena» di Massimo Giletti.

Un fatto che per essere inquadrato va collegato ad altri due episodi. Il primo avvienbe nel mese di gennaio del 2022: la mancata elezione al Quirinale del capo dei servizi segreti Elisabetta Belloni. Sono i giorni caldi della trattativa per scegliere il successore di Sergio Mattarella. Il centrodestra prova in prima battuta la carta del presidente del Senato Elisabetta Casellati. L'operazione fallisce. A quel punto riprendono le trattative tra Matteo Salvini e Giuseppe Conte. Lega e M5s virano sul nome di Elisabetta Belloni, ex segretario generale della Farnesina, promossa da Mario Draghi a capo dell'intelligence italiana. Sul nome della Belloni convergono anche Enrico Letta e Giorgia Meloni. I numeri ci sono: è quasi fatta. Spunta la «variabile Renzi» che fa saltare i piani di Salvini e Conte.

Il leader di Italia Viva si schiera pubblicamente contro l'ipotesi che il capo dei servizi possa passare direttamente al Quirinale. La posizione è netta: «In una democrazia che funziona il capo dei servizi segreti non diventa capo dello Stato. Questo succede in Paesi anti-democratici. La rispetto ed è una mia amica ma bisogna avere il coraggio di dire che la sua elezione sarebbe sbagliata».

La seconda crea si apre nei Cinque stelle con la posizione dell'allora ministro degli Esteri Luigi di Maio. Morale della favola? Belloni salta. All'indomani tutti i partiti, tranne Fratelli d'Italia, chiedono a Sergio Mattarella il bis. Sintesi: l'uscita di Renzi ha sbarrato la strada verso il Colle al capo del Dis. Il secondo episodio risale al maggio del 2021. La trasmissione di Rai3 Report nella puntata del 17 maggio mostra le immagini di un incontro avvenuto il 23 dicembre 2020 tra il leader di Italia Viva Matteo Renzi e il funzionario dei Servizi segreti Marco Mancini in un autogrill di Fiano Romano. A riprendere con il telefonino un'insegnante ferma in auto. L'incontro avviene nei giorni caldi della crisi del governo Conte 2: Renzi ha deciso di aprire la crisi per mandare a casa il premier grillino. Crisi che poi culminerà con l'arrivo di Mario Draghi alla guida dell'esecutivo. A Report il video sarebbe stato spedito dalla docente. Versione alla quale Renzi non ha mai dato credito, sollevando il sospetto che lui e Mancini fossero pedinati in quei giorni. Perché Renzi e Mancini si videro in quell'autogrill? La versione di Renzi è che fosse un normale scambio di auguri con tanto di dolci natalizi. Il leader di Italia viva presenterà poi una querela contro la trasmissione di Rai. Per il senatore è stata violata la sua libertà e segretezza di corrispondenza e incontri con riprese illegittime. Renzi chiede l'acquisizione delle telecamere dell'autogrill per verificare la presenza o meno dell'insegnante. La querela è stata depositata alla Procura di Firenze. Tre episodi che hanno lo stesso protagonista: Renzi. Verità che forse non si conoscerà fino al 2037.

DAGOREPORT il 24 novembre 2022.

E Matteo Renzi è finito a mangiare la polvere mentre il suo libro "Il Mostro" si sta sgonfiando come un palloncino. Accecato dalla sua vanità e arroganza, ha frignato come un pupo senza latte di "macchinazione ai suoi danni", ipotizzando che la professoressa che riprese l’incontro tra Renzi e lo 007 Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano avesse avuto in precedenza contatti con le strutture dell'intelligence. 

Per far crollare il castello di carte del "perseguitato" di Rignano sull’Arno ("vicende inquietanti e di una gravità inaudita’’) è bastato che venisse allo scoperto la misteriosa donna che ha girato i video, poi messi in onda da "Report" a maggio 2021.

Indagata dalla Procura di Roma per "diffusione di riprese e registrazioni fraudolente", un atto dovuto dopo l’esposto del leader di Italia viva, lo scorso 8 novembre la testimone dell’Autogrill si è presentata all’autorità giudiziaria e ha raccontato nei dettagli e per due volte, la propria versione dei fatti su quanto avvenuto quel 23 dicembre 2020, dando prova dell'assoluta casualità della sua presenza in autogrill e la sua totale estraneità ad apparati di intelligence. 

Certo, sia a Renzi che allo spione Mancini faceva comodo gridare al complotto dei servizi segreti (il primo), di essere stato cacciato dal DIS (il secondo). Invece i due "perseguitati" sono stati semplicemente inchiodati da un’insegnante, bloccata in un autogrill per le esigenze del suo genitore di andare in bagno.

Renzi ronzava di collusione tra servizi e ‘’Report’’ ("Io da cittadino sarei curioso di sapere come una trasmissione televisiva ha potuto avere i famosi filmati ed audio. Anche perché non è la prima volta che accade") ed è stato subito spiaggiato dalla dichiarazione di Giulio Vasaturo, legale della testimone dell’Autogrill, rilasciata ad Askanews: 

"Nel suo ultimo libro, in alcune interviste e nel corso di una conferenza stampa tenutasi ieri, 22 novembre 2022, - fa sapere il legale - il senatore Matteo Renzi ha reiterato una serie di dubbi ed oggettive insinuazioni, affermando fra l'altro che il Direttore Generale del DIS Elisabetta Belloni avrebbe addirittura opposto il segreto di Stato 'sul rapporto tra la presunta professoressa dell'autogrill e le strutture di Intelligence' (così ne Il Mostro, ed. Piemme, 2022)". 

"La mia ASSISTITA - prosegue Vasaturo - ha già ampiamente chiarito la propria posizione innanzi l'Autorità Giudiziaria, dimostrando in maniera anche documentale e, quindi, incontrovertibile la casualità della sua presenza presso l'autogrill di Fiano Romano e, ovviamente, la sua assoluta estraneità ad apparati di Intelligence; da semplice ed irreprensibile cittadina, nell'assistere a quell'incontro fra l'ex presidente del Consiglio e, con tutta evidenza, un altro esponente della Pubblica Amministrazione, in quanto anch'egli dotato di scorta istituzionale, la stessa ha avuto la curiosità di documentare l'episodio avvenuto in un luogo e con modalità che sono oggettivamente inusuali.

Proprio perché, come mirabilmente ribadito dallo stesso senatore Renzi, ogni persona perbene - continua il legale - 'non deve aver paura di chi esercita funzioni di potere nel nostro Paese' ma deve anzi adoperarsi attivamente per contribuire al controllo democratico dell'operato di chi detiene ruoli pubblici di altissimo rilievo, la mia ASSISTITA ha (ineccepibilmente) ritenuto che la documentazione di quell'incontro in uno spazio pubblico, fra l'ex premier ed altro funzionario pubblico, fosse potenzialmente di interesse pubblico e, quindi, giornalistico". 

"La mia ASSISTITA non ha avuto modo di ascoltare nulla del colloquio fra i due, se non i saluti finali scambiati dagli interlocutori mentre si avvicinavano alla sua auto, posizionata praticamente a ridosso delle loro vetture istituzionali; - venendo poco dopo superata a gran velocità solo dall'autovettura del senatore Renzi e non dal mezzo del suo interlocutore, mentre percorreva la corsia autostradale che dal varco di Fiano Romano muove in direzione Firenze, la mia ASSISTITA ha semplicemente dedotto, con ovvia inferenza di buon senso, che l'altro interlocutore dovesse aver intrapreso il percorso opposto verso Roma".

L'avvocato della donna poi tiene a precisare: "in effetti la mia ASSISTITA ha avuto modo di vedere solo l'auto del senatore Renzi mentre percorreva l'autostrada in direzione nord ed ha solo dedotto, con logica stringente, quale fosse la diversa direzione intrapresa dal dottor Mancini". 

"La mia ASSISTITA - ha continuato Vasaturo - non ha alcun motivo di particolare ostilità nei riguardi del senatore Renzi e non ha tratto alcun beneficio, di alcun tipo, da questa vicenda che anzi ha causato e comporta una certa apprensione in questa cittadina, mamma ed insegnante esemplare che ispirato tutta la sua vita al valore della legalità". 

E dopo aver appreso che il senatore Renzi ha manifestato il comprensibile desiderio di conoscere personalmente la "professoressa" a cui più volte ha fatto riferimento in questi mesi, il legale fa sapere di essere da subito disponibile per favorire un colloquio tra la sua assistita e l'ex premier. "La mia assistita sarebbe davvero ben lieta di incontrare il senatore Renzi" conclude l'avvocato Vasaturo. 

A questo punto, in attesa dell’incontro tra il Ribollito toscano e la professoressa (avverrà mai?), possiamo commemorare il fallimento di Renzi (e di Mancini): il loro attacco ad Elisabetta Belloni, capo del Dis, ha fatto cilecca.

Ma l’asineria di Renzi brilla quando parla di una "vendetta" contro di lui, perché nel gennaio scorso si oppose alla candidatura di Elisabetta Belloni, la direttrice dei servizi segreti. Ma il fattaccio dell’Autogrill fu rivelato dalla trasmissione Report il 3 maggio 2021, quando Belloni ancora non era entrata in scena, e tantomeno era prevedibile la candidatura per il Quirinale! 

Il senatore di Rignano deve anche sapere che il capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza, ascoltata come testimone in indagini difensive sollecitate dai legali di Mancini, non ha opposto il segreto di Stato su questioni inerenti il funzionamento dei Servizi per il semplice motivo che il capo del DIS non può farlo: è il governo che può opporre il segreto di Stato, che infatti fu applicato all’epoca da Draghi e dal sottosegretario alla sicurezza Franco Gabrielli.

Lo ha rimarcato il sottosegretario con delega ai servizi Alfredo Mantovano: il segreto di Stato è stato ufficializzato da Draghi e che il tutto è avvenuto "nel corso di indagini dell'autorità giudiziaria, in relazione alla sola esigenza di tutelare la funzionalità dei Servizi, e per scongiurare il rischio di violarne la necessaria riservatezza". 

Amorale della fava: l’Italia ha avuto un presidente del consiglio talmente fanfarone che non conosce le regole dello Stato.

Giovanni Bianconi per il "Corriere della Sera" il 24 novembre 2022. 

Ha scattato 13 fotografie e girato 2 video con il telefonino, la professoressa che incontrò Matteo Renzi all'autogrill di Fiano Romano il 23 dicembre 2020. Non perché lo stesse pedinando o spiando, ma solo perché avendolo visto parlare con un signore scortato e da lei non riconosciuto, lontano da autisti e addetti alla sicurezza, pensò che fosse utile documentare l'incontro. Tanto più in un periodo in cui si paventava la crisi del governo Conte 2, e il senatore stava giocando un ruolo di primo piano nella partita politica. 

La misteriosa signora è stata identificata, ha fornito per due volte la propria versione dei fatti e per le foto e i video trasmessi a maggio 2021 da Report su Raitre è ora indagata dalla Procura di Roma per «diffusione di riprese e registrazioni fraudolente». Un atto dovuto dopo l'esposto del leader di Italia viva e una prima testimonianza nel marzo scorso. Martedì 8 novembre invece è stata riconvocata con la garanzia di un legale al fianco, l'avvocato Giulio Vasaturo, che spiega: «Con massima serenità e disponibilità, la mia assistita ha ampiamente chiarito la propria posizione, dimostrando in maniera anche documentale, quindi incontrovertibile, la casualità della sua presenza all'autogrill, e ovviamente la sua assoluta estraneità ad apparati di intelligence».

Si tratta dunque di un'indagine dove non ci sono ipotesi di spionaggio, diversa da quella nata con la denuncia dell'ex dirigente dei servizi segreti Marco Mancini (l'interlocutore di Renzi in quella piazzola) contro gli autori di Report . È in quel procedimento che il capo del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza Elisabetta Belloni, ascoltata come testimone in indagini difensive sollecitate dai legali di Mancini, avrebbe opposto il segreto di Stato su questioni inerenti il funzionamento dei Servizi. La «regista» dell'autogrill, invece, ha risposto a tutte le domande illustrando i dettagli di quanto avvenuto la mattina di quel 23 dicembre e successivamente.

Il viaggio da Roma (dove vivono i genitori) verso Nord (dove abita lei) insieme alla madre e al padre malato per trascorrere il Natale con loro, cominciò con una sosta dovuta a un malessere del padre e un'altra subito dopo all'area di servizio di Fiano Romano, dove bagni e bar erano arrangiati in alcuni container per i lavori in corso. Quando la donna s' è fermata non c'erano altre auto, ma subito dopo ne è arrivata una con tre uomini in giacca e cravatta; la donna ebbe l'impressione che il signore più anziano fosse una personalità scortata, ma non lo riconobbe.

Mentre aspettava il padre fuori dal bagno vide arrivare una' Audi rosso bordeaux dalla quale scese Matteo Renzi, al quale si avvicinò l'altro signore. I due si salutarono e cominciarono a parlare allontanandosi dalle due macchine, arrivando a una decina di metri da quella della signora. Nel frattempo la donna aveva riaccompagnato il padre in macchina a bere una camomilla presa al bar, perché nel container non c'erano sedie. La sosta durò oltre mezz' ora, aspettando che l'uomo si rimettesse del tutto prima di ripartire.

Nell'attesa la docente - esperta di arte e quindi attenta ai dettagli quasi per deformazione professionale, ha spiegato nell'interrogatorio - ha ripreso Renzi e il suo interlocutore, senza sentire quello che si dicevano; da informata lettrice di giornali aveva però intuito che l'incontro tra un leader politico e un signore scortato nel pieno di una quasi-crisi di governo potesse avere un rilievo di cronaca. 

Lasciando l'autogrill la donna passò vicino alla macchina di Renzi, e dal finestrino abbassato sentì il senatore salutare Mancini: «Tanto per qualsiasi cosa sai dove trovarmi». Imboccata l'autostrada verso Firenze, dopo un po' notò l'Audi del senatore con il lampeggiante blu acceso che sorpassava la sua; non vide più, invece, quella di Mancini, e ipotizzò che avesse preso l'altra direzione, verso Roma.

L'indomani la professoressa inviò a un suo amico giornalista due messaggi vocali e sei delle tredici foto, ma nemmeno lui riconobbe l'uomo che parlava con Renzi. E nei giorni successivi inviò le stesse foto all'indirizzo mail della redazione internet del Fatto quotidiano, da cui non ricevette alcuna risposta. Quattro mesi dopo, ad aprile 2021, le capitò di vedere in tv un servizio di Report su un presunto «complotto» per favorire la caduta del governo Conte 2 e contattò la redazione attraverso la mail indicata sulla pagina facebook del programma.

Da lì la contattarono subito, e così è nata l'intervista a volto coperto alla signora e la trasmissione in tv delle immagini dell'incontro Renzi con Mancini, la cui identità la professoressa dice di avere scoperto solo guardando il servizio di Report. 

Nell'interrogatorio la donna ha consegnato agli inquirenti le mail e i messaggi sulle foto inviate (già acquisite nel precedente interrogatorio), la documentazione medica sulla salute del padre e le fatture del Telepass; ha specificato di non aver chiesto né ricevuto alcun compenso per le foto e i video, e ha ribadito più volte di aver voluto solo dare un contributo «da cittadina» al diritto di cronaca. 

Proprio l'esercizio del diritto di cronaca è una delle circostanze per le quali l'articolo del codice penale per il quale la signora è stata indagata prevede la non punibilità. Ieri l'avvocato Vasaturo ha detto di essere «a disposizione» di Renzi e dei suoi legali per organizzare un incontro tra l'ex premier e la propria assistita, «appreso del comprensibile desiderio del senatore di conoscere personalmente la professoressa».

"Certe vicende inquietanti. Mi fido dei nostri servizi". Intervista al ministro Guido Crosetto. Sul caso Belloni. "Se ha opposto il segreto, è lo Stato ad averle detto di farlo. Perché?". Su Confindustria: "Bonomi fa opposizione un po' a tutti i governi. Gli chiedo: che farebbe?" Francesco Maria Del Vigo il 24 Novembre 2022 su Il Giornale.

Guido Crosetto, cuneese doc, 59 anni, gigante (198 cm) della politica, appena atterrato dalla sua ultima missione risponde al telefono con voce pacata e misurata, ma non risparmia stilettate. Parla di tutto: dal Kosovo all'Ucraina, da Confindustria fino ad arrivare al giallo della foto di Renzi con uno 007 e sulla quale Elisabetta Belloni avrebbe posto il segreto di Stato: «Sarebbe gravissimo se qualche articolazione dello Stato, non necessariamente i servizi, avessero dato alla tv un documento solo per mettere in difficoltà un ex premier. E conoscendo la serietà della dottoressa Belloni, so che se ha opposto il segreto di Stato è perché lo Stato le ha chiesto di farlo».

E poi confessa che lui, anni fa, aveva già previsto tutto: il trionfo di Fratelli d'Italia e la Meloni prima donna premier. Sapeva già tutto, dice lui, ma con qualche piccola imprecisione. 

Ministro, come è andata la missione in Serbia e Kosovo?

«Molto bene, era da tempo che l'Italia non assumeva una iniziativa politica e diplomatica di così grande rilievo in quei Paesi: una visita congiunta di ministro degli Esteri e della Difesa è una cosa che prima non era mai accaduta ed è stata apprezzata moltissimo». 

Crede che il conflitto tra Russia e Ucraina sarà ancora lungo?

«Spero di no, ma nel contempo vedo che le cose non stanno migliorando in modo significativo. È cambiato il modo di combattere la guerra nelle ultime settimane, nel senso che le condizioni del terreno e la stanchezza rendono più difficile lo scontro frontale e quindi è partita questa tattica russa di bombardare le strutture civili, soprattutto quelle energetiche, per rendere impossibile a una parte significativa della popolazione civile di superare l'inverno».

Passiamo alle questioni interne. Ieri Carlo Bonomi ha attaccato pesantemente la manovra definendola «a tempo e priva di visione». Gli industriali si sono messi a fare l'opposizione a un governo di centrodestra?

«Bonomi fa opposizione un po' a tutti i governi».

Quindi, secondo lei, Confindustria è sempre insoddisfatta?

«Ma è normale, nessuno è mai soddisfatto pienamente. È una manovra fatta nel momento peggiore, dal punto di vista dei conti pubblici, economico e sociale, che ci sia mai stato negli ultimi 80 anni e dunque c'è molto meno margine. Ma nonostante questo abbiamo cercato di intervenire nelle aree più colpite, tra le altre cose è stato anche aumentato il contributo alle aziende per affrontare la crisi energetica. Però mi faccia dire una cosa».

Prego...

«Mi interesserebbe sapere da Carlo (Bonomi) quale sarebbe stata la sua manovra, come avrebbe utilizzato le risorse e dove sarebbe intervenuto, visto che ci sono molti dei temi che Confindustria ha posto in questi mesi, compreso un intervento su cuneo fiscale, energia, reddito di cittadinanza. Criticare è abbastanza facile, offrire un'alternativa è molto più complesso, anche perché il Governo deve pensare alla complessità della società e non a una sola categoria».

Cambiamo tema. Matteo Renzi, nel suo ultimo libro e in alcune interviste, ha detto che Elisabetta Belloni, numero uno dei servizi, avrebbe posto il segreto di Stato sulla famosa foto che lo ritraeva in un autogrill con Marco Mancini, allora dirigente dell'Aisi. Le sembra normale?

«Io da cittadino sarei curioso di sapere come una trasmissione televisiva (Report, ndr) ha potuto avere i famosi filmati ed audio. Anche perché non è la prima volta che accade».

E il segreto di Stato?

«Non mi vengono in mente i motivi per cui possa essere stato posto e per cui il filmato di "una professoressa" che passava per caso in un autogrill, mentre tutta Italia era chiusa in casa per il Covid, debba interessare lo Stato. Ma se l'ambasciatrice Belloni lo ha fatto è certamente perché lo Stato le ha detto di farlo: non è una scelta personale. Potrebbe far pensare che siano stati altri a dare alla tv pubblica italiana una notizia per mettere in difficoltà un ex premier. Io non penso sia possibile che venga dai servizi italiani perché conosco la serietà dei vertici e della Belloni in primis. Nutro verso di loro totale fiducia. Ciò detto, ci sono vicende raccontate da Renzi nei suoi libri che sono inquietanti e di una gravità inaudita. Parlo della persecuzione giudiziaria. Invece non hanno avuto alcun effetto. È grave anche il fatto che lui abbia denunciato - senza che nessuno abbia smentito -, che siano state fatte delle costruzioni giudiziarie poi rivelatesi false, contro di lui e la sua famiglia, e non ci sia stata alcuna reazione né politica né della società civile».

Ecco, parliamo di giustizia: questo governo ce la farà a scardinare il «sistema»? Tra l'altro a breve si rinnova il Csm...

«Per cambiare le cose non vedo miglior persona dell'attuale ministro della Giustizia. Ciò detto auspico che i magistrati approfittino del nuovo Csm per far recuperare alla categoria il proprio ruolo originario. La maggioranza di loro sono persone serie che hanno dedicato la vita alla giustizia e spero che riescano a farsi valere contro quella piccola minoranza che ha fatto della toga uno strumento politico».

Le prime cose che ha fatto al Ministero?

«Innanzitutto studiare la situazione e informarmi. Per poter dare prossimamente delle linee di indirizzo chiare. Io ero stato alla Difesa molto tempo fa e l'ho trovata cambiata...».

In meglio o in peggio?

«Mi lasci dire cambiata, come forse è cambiata molta parte della Pa... Un po' come se ci fosse una triste accettazione dell'impossibilità di cambiare, di continuare a competere con un mondo sempre più veloce è difficile. Mentre abbiamo persone straordinarie. Che vanno motivate».

È stato chiarissimo. Cambiamo argomento. Lei è uno dei fondatori di Fdi, il partito come ha vissuto questo grande successo?

«Con il senso del peso della fiducia ricevuta e che ti obbliga a dare il meglio dite stesso. Il nostro scopo è liberare il Paese dalla catene che lo hanno bloccato, ed è un lavoro enorme».

Con gli alleati come va?

«Direi molto bene, c'è una sinergia molto favorevole rispetto ad altri governi di cui ho fatto parte».

Come ci si sente ad essere ministro del primo governo presieduto da una donna?

«A me cambia poco. Ormai ci convivo da anni (ride, ndr). Questo è un punto di arrivo che abbiamo costruito insieme, una cosa che io ho in testa dall'inizio. Sono la persona per cui quello che è accaduto è la cosa più normale del mondo».

Mi spieghi, lei aveva già previsto tutto dieci anni fa?

«Non da 10 anni ma da anni si, ho sbagliato solo la tempistica».

Di quanto?

«Pensavo che quello che ora è accaduto sarebbe avvenuto 5 mesi dopo, a febbraio del 2023».

Ci è andato vicino, ha sbagliato di pochi mesi...

«Pochi mesi, ma molto significativi. Erano i mesi nei quali ci si sarebbe potuti preparare in modo più completo, anche per la formazione degli staff con cui lavorare. Ma siamo partiti lo stesso».

Estratto dell’articolo di Marco Travaglio per “il Fatto quotidiano” il 25 novembre 2022. 

[…] Il ministro della Guerra Crosetto vuole "sapere come Report ha potuto avere i famosi filmati e audio" dell'incontro in autogrill fra Renzi e la spia Mancini. Giusta curiosità, se non si sapesse già tutto, tranne il vero motivo per cui i due si parlarono aumma aumma: una insegnante passava di lì e, vedendolo confabulare con un tizio scortato, lo riprese col cellulare e inviò il video (gli audio se li è inventati Crosetto) al sito del Fatto e a Report.

Da allora Renzi tira in ballo i Servizi, che c'entrano solo perché lui incontrò uno di loro. Ciascuno è libero di riprendere chi gli pare sul suolo pubblico, specie se è per dare una notizia vera. O almeno così si pensava fino a ieri, quando la Procura di Roma ha indagato la prof per "diffusione di riprese fraudolente". È la stessa Procura che riuscì a non indagare Renzi e De Benedetti quando quest' ultimo svelò al suo broker che l'allora premier gli aveva anticipato il decreto Banche, consentendogli di guadagnarci in Borsa 600 mila euro sull'unghia. Quindi sì, gli italiani devono preoccuparsi di essere indagati. Ma non i politici: le persone perbene.

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 25 novembre 2022.

[…] Diffusione di riprese e registrazioni fraudolente è […] il reato che la Procura di Roma contesta all'insegnante, che ora rischia il processo solo per aver visto in un autogrill di Fiano Romano Matteo Renzi con l'ex 007 Marco Mancini, aver fatto un video e averlo inviato a Report. 

L'articolo del codice penale contestato alla donna è il 617 septies, che cita: "Chiunque, al fine di recare danno all'altrui reputazione o immagine, diffonde con qualsiasi mezzo riprese audio o video, compiute fraudolentemente, di incontri privati o registrazioni, pur esse fraudolente, di conversazioni, anche telefoniche o telematiche, svolte in sua presenza o con la sua partecipazione, è punito con la reclusione fino a quattro anni".

Si tratta di una norma entrata in vigore nel 2018 […] Negli anni passati la norma è stata fortemente criticata: colpiva il diritto di cronaca proprio perché rendeva punibile con il carcere (fino a quattro anni) chiunque registrava incontri e conversazioni di nascosto. Polemiche che portarono all'inserimento di un comma che prevedeva casi di non punibilità, ossia quando le registrazioni servivano al diritto di difesa o di cronaca.

Ma non è diritto di cronaca quello di un cittadino che vede e riprende un incontro tra un soggetto pubblico, come di certo lo era Renzi quando nel 2020, da senatore, incontrava Mancini all'autogrill? Per la Procura di Roma evidentemente no, tanto che ieri ha notificato all'insegnante l'atto di chiusura indagini. Vedremo se nei prossimi giorni ci sarà una richiesta di archiviazione o di rinvio a giudizio. Poi la parola passerà al gip […] Il giudice dovrà pronunciarsi […] su un altro aspetto, quello dell'elemento soggettivo, ossia se […] la fonte di Report volesse arrecare un danno alla reputazione di Renzi o di Mancini.

Il procedimento è stato avviato dai magistrati romani dopo una denuncia presentata dallo stesso Renzi […] che metteva in dubbio la veridicità del racconto dell'insegnante […] Su questo la chiusura indagine della Procura di Roma lo smentisce: l'insegnante esiste ed è una cittadina qualunque […]a scapito della tesi del complotto c'è anche un altro elemento: quei video e foto furono inviati anche alla redazione del Fatto che colpevolmente non se ne accorse. […]

Estratto dell’articolo di Ilaria Proietti per “il Fatto quotidiano” il 26 novembre 2022.

“Ma quale complotto. La verità dopo questo gran polverone è che c'è una semplice cittadina, un'insegnante, che ha osato filmare un politico in un luogo pubblico ed è stata per questo indagata per non si sa bene quale reato. 

L'altra certezza è che quel personaggio politico, ossia Matteo Renzi, alla fine non ha mai rivelato cosa si siano detti con l'ex 007 Marco Mancini in quell'incontro in autogrill filmato da quella signora".

Sigfrido Ranucci di Report non si capacita dopo che Matteo Renzi nella nuova versione data alle stampe del suo libro (Il Mostro) è tornato a evocare il complotto ai suoi danni. Mettendo da ultimo sulla graticola l'attuale capo del Dis, Elisabetta Belloni, e tornando ad alludere al ruolo dei Servizi rispetto al materiale che era servito a Report per rivelare quell'incontro in autostrada. 

Intanto quell'insegnante, fonte per un giorno, rischia il processo. "Siamo di fronte a un continuo assedio alle fonti. Così è a rischio la libertà di informazione". 

Renzi evoca complotti. È una narrazione in effetti suggestiva

Sì, certo è più affascinante sostenere di essere braccato dai servizi che ammettere di essere stato pizzicato da un'insegnante mentre si incontrava con Mancini. Ma non mi stupisco. 

Perché?

Perché ha pure lasciato intendere che la Belloni (sempre a sentire Renzi ce l'avrebbe con lui, ndr) si sia trincerata dietro il segreto di Stato per non rivelare la presenza in quell'area di sosta di agenti dei servizi. 

Quando invece semplicemente lo ha opposto alle domande dei legali di Mancini sulle dinamiche interne al Dis, che peraltro non dirigeva lei all'epoca dei fatti dell'autogrill, e che tra l'altro avevano portato al prepensionamento del loro assistito.

A quel tempo, infatti, era segretaria generale alla Farnesina. Poi era spuntata l'ipotesi di eleggerla al Colle, tramontata per mano renziana.

Infatti sono cose totalmente scollegate da un punto di vista anche temporale con la faccenda dell'autogrill. Per questo è strumentale evocare ombre, 007, complotti e segreti. 

Alla fine, l'unico segreto rimane quello che Renzi non ha mi rivelato, a parte il regalo dei babbi di cioccolata: cosa si sono detti con Mancini?

[…] Ma torniamo ai guai della professoressa: ora rischia 4 anni di galera.

Io ho fiducia nella giustizia e non posso nemmeno pensare che per essere stata nostra fonte le sia stato contestato un reato. Anche chi non è iscritto all'albo dei giornalisti può partecipare al diritto di cronaca. 

Però mi vorrei soffermate sugli effetti nocivi di tutto questo: intanto questa signora è costretta a pagarsi le spese legali e per questo io spero che Renzi rifletta su questo.

Però c'è qualcosa addirittura di più nocivo in tutta questa storia.

Sì, certo ed è un effetto micidiale perché è come se si dicesse ai cittadini 'fatevi i fatti vostri'. Come era successo anche altre volte. Cito quanto successo dopo la messa in onda di un servizio sulla Lega e qualcuno che si era sentito danneggiato aveva preteso di acquisire il materiale che era servito per la puntata. 

Cosa che ovviamente avrebbe significato identificare le nostre fonti. Ma che tipo di informazione vogliono quelli che braccano le fonti dei giornalisti? Preferiscono un giornalismo che non fa domande?

Allora diciamola una volta per tutte: c'è chi preferirebbe un'informazione fatta solo dei loro monologhi.

È a rischio il diritto di cronaca?

Direi se si pensa a quello che sta passando la signora del filmato dell'autogrill che è una fonte perfetta: ha dato una informazione a giornalisti accreditati in modo che potessero verificare i contenuti e la portata del materiale che aveva raccolto come abbiamo fatto con un lavoro scrupolosissimo. Ma cosa si può chiedere di più?

Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” il 27 novembre 2022.

Per dare un nome alla donna che aveva inviato a Report le immagini dell'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente dei Servizi, Marco Mancini, la Procura di Roma ha acquisito i tabulati telefonici del conduttore Sigfrido Ranucci e dell'inviato Giorgio Mottola, che aveva lavorato sulla vicenda. […] Ottenuti circa due mesi di tabulati, a cavallo della trasmissione che andò in onda ai primi di maggio 2020, la polizia ha identificato la donna. 

Che peraltro, quando è stata contattata dalla Digos delegata dai pm, non ha affatto negato di aver ripreso a distanza con il telefonino l'incontro […]

Renzi sporse denuncia, ipotizzando che dietro l'insegnante - chiamata a volte "sedicente" - ci fosse qualche apparato dello Stato, magari un pedinamento, tanto da suggerire i reati di cui agli articoli 617 bis e 323 del codice penale, cioè l'installazione abusiva di apparecchi per intercettazioni e l'abuso d'ufficio. 

Non era così e il reato contestato all'insegnante è un altro, il 617 septies, diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. Se i pm non cambieranno idea la citeranno a giudizio: rischia, in teoria, fino a 4 anni; abbastanza per spaventare chiunque voglia dare una notizia a un giornalista. 

[…] L'acquisizione dei tabulati telefonici […] non è vietata dalla legge - come del resto le intercettazioni - anche se viola il principio della segretezza delle fonti senza il quale non esiste informazione libera ma in alcuni casi è stata censurata dalla Cassazione quando ormai però il danno era fatto. Ora infatti i contatti di Mottola e Ranucci, non solo quelli con la fonte in questione, sono noti ai pm e alla polizia e saranno anche a disposizione della persona offesa, ossia Renzi. […]

Giovanni Tizian per editorialedomani.it il 26 novembre 2022.

Per identificare la fonte della notizia dell’incontro tra Matteo Renzi e l’allora dirigente dei servizi segreti, Marco Mancini, la procura di Roma ha acquisito i tabulati telefonici di due giornalisti di Report. In particolare di Sigfrido Ranucci, che conduce il programma e dirige la squadra di cronisti, e dell’autore del servizio, Giorgio Mottola. 

Lo confermano a Domani autorevoli fonti giudiziarie vicine all’inchiesta sull’insegnante, colpevole secondo l’accusa di aver inviato le foto e i video dell’incontro in autogrill tra Renzi e Mancini. La donna è indagata per diffusione e registrazione fraudolente. 

Questo perché da cittadina ha filmato l’incontro tra i due personaggi pubblici nell’area di sosta di Fiano Romano (provincia di Roma) il 23 dicembre 2020. Fonti giudiziarie confermano inoltre che la signora non ha alcun legame con gli apparati di sicurezza, a differenza di quanto ipotizzato dai renziani e dall’ex presidente del consiglio.

 I magistrati, pur riconoscendo che Report ha lavorato con la fonte nella massima trasparenza, sono convinti che un comune cittadino non possa riprendere due persone per strada e poi veicolare le immagini alla stampa. 

Di certo, però, la questione è delicata. Setacciare i tabulati telefonici dei giornalisti vuol dire monitorare i contatti degli ultimi mesi avuti dai cronisti. Vuol dire entrare nella rete di relazioni di un’intera redazione. Ed entrare in possesso di un numero notevole di possibili fonti in rapporto con i cronisti durante quelle settimane. Il che viola la segretezza delle fonti, che sono sacre per ogni giornalista e tutelate peraltro dalla giurisprudenza europea.

E allora perché farlo? «I giornalisti hanno giustamente opposto il segreto professionale e non hanno voluto rivelare le fonti», spiegano dalla procura di Roma, «così i tabulati erano l’unico modo per individuare la persona che aveva recapitato le immagini dell’incontro tra Renzi e Mancini».

Nessun ripensamento, quindi, da parte di chi indaga sull’insegnante dei video. Una vicenda che ricorda in qualche modo quanto accaduto a Trapani nell’indagine sulle Ong: i magistrati avevano ascoltato le telefonate di diversi cronisti impegnati sul fronte migranti e in Libia. In un caso era stata messa sotto intercettazione anche una giornalista seppure mai indagata. A Roma nel caso Renzi-Mancini non ci sono intercettazioni, ma solo l’acquisizione dei tabulati, cioè l’analisi delle telefonate in entrata e in uscita dei giornalisti in un determinato arco temporale. L’effetto, tuttavia, è identico: mettere a rischio l’identità e la sicurezza delle fonti, non solo della donna che ha filmato Renzi, ma di molte altre che in quel periodo erano in contatto con la redazione del programma di Rai 3. Anche perché questi atti ufficiali confluiranno nel fascicolo a disposizione delle parti, anche quindi di chi ha denunciato Report.

Nei giorni scorsi Renzi aveva protestato perché Elisabetta Belloni aveva posto il segreto di Stato sulla vicenda. In realtà il vincolo non è stato messo sull’incontro in autogrill, ma sul funzionamento degli apparati di sicurezza di cui lei era a capo.

«Va decisamente escluso, senza timore di smentita, che qualcuno possa aver opposto il segreto di Stato sul rapporto fra la mia assistita ed i servizi di informazione e sicurezza giacché tale asserito collegamento, ipotizzato esclusivamente dal senatore Matteo Renzi, era ed è del tutto inesistente», è stata la risposta di Giulio Vasaturo, l’avvocato che difende l’insegnante del video inviato a Report.  Il legale dell’insegnante presenterà entro venti giorni una memoria articolata, contestando le ipotesi della procura. Come prima cosa cercherà di spiegare che l’incontro Renzi-Mancini non è un meeting privato, ma pubblico tra due personaggi pubblici in un luogo pubblico.

L’indagine della procura di Roma è nata da una denuncia di Renzi, in cui peraltro il politico ipotizzava tutt’altra fattispecie di reato e non quello contestato ora all’insegnante dalla procura. C’è da dire che non c’è una norma che impedisce alla procura di acquisire i tabulati e indentificare la fonte. I magistrati hanno rispettato la legge, ovviamente. Ma su questo la difesa della donna darà battaglia. Da quanto risulta a Domani chi difende la donna sta pensando a un passo ulteriore: l’ipotesi di porre una questione di legittimità costituzionale dell’atto di visione dei tabulati, ritenuto enorme e sproporzionato.

Il metodo utilizzato dai pm romani solleva parecchie perplessità tra i rappresentanti della stampa. Beppe Giulietti, presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, ha scritto su Twitter: «Chi e perché Chi è perché avrebbe acquisito i tabulati telefonici per controllare fonti di Report? Si tratta di una questione di assoluta rilevanza per il diritto di cronaca». Ora sappiamo come sono andate le cose. E la domanda è sempre la stessa: è lecito scavare tra i contatti dei giornalisti per scovare una fonte? Nessuna legge lo vieta espressamente, ma questo demolisce ogni tutela sulla protezione delle fonti. L’atto dei pm farà discutere e non solo in Italia.

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” il 29 novembre 2022.

Il legale della professoressa indagata per aver ripreso l'incontro tra Matteo Renzi e l'ex 007 Marco Mancini all'autogrill di Fiano Romano e per aver mandato il materiale a Report, potrebbe convocare al più presto il senatore di Italia Viva in indagini difensive. 

Qui potrebbe avvenire anche il confronto con la docente. Il suo avvocato, Giulio Vasaturo, potrebbe chiedere all'ex premier di rivelare nel dettaglio il contenuto della conversazione con Mancini. L'obiettivo è dimostrare che l'incontro del dicembre 2020 aveva rilievo pubblico, e dunque la signora non ha commesso alcun reato nel riprenderlo e nello spedire il video alla trasmissione di Rai3.

Per averlo fatto, a oggi, la professoressa è indagata per diffusione di riprese e registrazioni fraudolente. Le viene contestato il 617 septies del codice penale, articolo che quando fu introdotto venne etichettato come norma anti-Report o anti-Iene. E a quanto pare ha funzionato. 

L'articolo prevede casi di non punibilità anche a tutela del diritto di cronaca. E per la difesa dell'insegnante sarà importante dimostrare come questo diritto sia esteso ai cittadini tutti e non solo ai giornalisti. Nel frattempo nei giorni scorsi in una nota Italia Viva aveva fatto sapere: "L'incontro avverrà quando la difesa di Renzi chiederà l'interrogatorio e il contro esame della sedicente professoressa". […]

Dell'appuntamento all'autogrill, Renzi ne ha parlato anche a Torino il 24 novembre durante la presentazione del suo libro Il mostro, in libreria in edizione aggiornata. Il senatore ha spiegato come Mancini "(...) fa degli incontri perché è un dirigente di Palazzo Chigi, come tutti i dirigenti dei Servizi. Si può discutere, ma è una cosa legittima, consuetudinaria". I due dovevano vedersi in Palazzo Giustiniani, al Senato, ma Renzi se ne dimentica e così con le scorte fissano l'incontro all'autogrill. 

"Sono momenti delicati - ha detto l'ex premier a Torino - c'è la crisi del governo Conte, io sto dicendo in tv, come dico all'agente dei Servizi, che per quello che mi riguarda o Giuseppe Conte cambia o va a casa". Ma perché parla con un dirigente dei Servizi della caduta del governo? Renzi non fornisce maggiori dettagli. Per il senatore il problema sembra essere un altro, ossia la fonte di Report che ancora a Torino apostrofava come professoressa "o sedicente tale". La donna è stata identificata, indagata e nel corso dell'inchiesta sono stati esclusi collegamenti con apparati di intelligence. [...] 

RENZI A "REPORT" IL 3 MAGGIO 2021 Dal profilo Facebook di "Report - Rai3" 

Cosa si sono detti Renzi e Mancini? Renzi ci risponde così: “. Mi doveva portare si figuri, i Babbi che sono un bellissimo wafer romagnolo che il dottor Mancini mi manda tutti gli anni e che io mangio in modo vorace. Oppure lei vuol dire che il dottor Mancini è il grande ispiratore della mia battaglia per cambiare l’autorità delegata?"

Estratto dell’articolo di Alessandro Mantovani per “il Fatto quotidiano” il 29 novembre 2022.

Scriveva la Cassazione sette anni fa: "L'articolo 200 del codice di procedura penale riconosce al giornalista professionista il segreto professionale limitatamente al nominativo delle persone dalle quali ha ricevuto notizie fiduciarie (). Il giudice può ordinare al medesimo giornalista di indicare comunque la fonte laddove tali notizie siano indispensabili per le indagini e sia necessario accertare l'identità della fonte. Tale diritto al segreto, e il limitato ambito in cui lo stesso può venir escluso, non possono che essere anche un limite alla ricerca dei dati identificativi dalla fonte attraverso il mezzo della perquisizione e del sequestro".

Era la sentenza 25617/15 sul caso del giornalista Sergio Rizzo, allora al Corriere della Sera, al quale la Procura di Bari aveva fatto perquisire il pc e sequestrare alcune email per cercare la fonte di un documento. Non si poteva fare, stabilì la Cassazione. Il principio dovrebbe applicarsi anche all'acquisizione dei tabulati telefonici, finalizzata a risalire alla fonte del giornalista, come è accaduto a Sigfrido Ranucci e Giorgio Mottola di Report, i cui tabulati sono stati acquisiti dalla Procura di Roma. […] Con i tabulati è stata identificata l'insegnante che aveva ripreso all'autogrill di Fiano Romano l'incontro tra Matteo Renzi e l'allora dirigente dei Servizi, Marco Mancini.

I legali di Ranucci, non indagato, hanno preso contatto con la Procura, per leggere l'ordinanza con cui il Gip ha consentito l'acquisizione dei suoi tabulati, che in astratto potrebbero impugnare: il conduttore e il collega sono stati sentiti solo come persone informate sui fatti dalla polizia delegata dai pm e alla domanda sull'identità della fonte hanno opposto il segreto, dal quale, secondo l'articolo 200, solo il giudice avrebbe potuto sollevarli, ordinando di rivelare la fonte se indispensabile per le indagini. 

Acquisendo i tabulati, il segreto è stato vanificato, come la Cassazione esclude si possa fare, peraltro all'insaputa degli interessati […] Non si può fare, ma quando arriva la Cassazione a dirlo, il danno (alle fonti e ai giornalisti) è già fatto. Ora l'insegnante rischia un processo per "diffusione e riprese di registrazioni fraudolente", mentre la diffusione in tv da parte di Ranucci e Mottola è ritenuta legittima. Un ginepraio.

Il legale di Renzi nella querela ipotizzava che uomini degli apparati dello Stato avessero ripreso e magari intercettato l'incontro. Non è successo. Però la Cassazione è netta anche se si tratta di individuare una fonte tenuta al segreto, un pubblico ufficiale: lo ha scritto nella sentenza sul caso del nostro Marco Lillo (09989/18) a cui avevano sequestrato telefono e pc alla ricerca delle fonti dell'inchiesta Consip. 

La Corte richiede sempre un bilanciamento tra il diritto al segreto e le esigenze delle indagini. […] Per la Corte europea dei diritti umani, spesso ignorata dai giudici, le attività invasive alla ricerca della fonte dei giornalisti violano l'art. 10 della Convenzione che riconosce "la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee" e ne stabilisce i limiti. […]

Ranucci contro i pm. "Sui miei tabulati violata la legge". Felice Manti su Il Giornale l’1 Dicembre 2022

"Spiati a nostra insaputa dalla Procura, che ha violato la legge".

«Spiati a nostra insaputa dalla Procura, che ha violato la legge». Sigfrido Ranucci l'altra sera a Di Martedì su La7 ha criticato i magistrati che hanno osato indagare sulla trasmissione. Dopo anni a tirare la volata ad alcuni pm, rilanciandone acriticamente persino le ipotesi più strampalate che poi si sono schiantate in Cassazione, si è rotto il giocattolo Report? Pare di sì.

Di cosa si lamenta sulla tv di Urbano Cairo il conduttore della trasmissione d'inchiesta Rai, con Bianca Berlinguer (pare) imbufalita per l'ennesimo favore alla concorrenza? Che i pm abbiano violato la sua privacy e quella del suo collaboratore Giorgio Mottola. Benvenuti nel club dei giornalisti intercettati. Certo, forse Ranucci pensava di avere le guarentigie previste per i parlamentari o semplicemente di essere legibus solutus, sciolto dalle leggi. E invece i pm del filone romano vogliono capire bene l'origine del video da 28 secondi che il 23 dicembre 2020 riprendeva Matteo Renzi e l'ex 007 Marco Mancini all'Autogrill di Fiano Romano, realizzato da un'insegnante che ora rischia quattro anni per quelle immagini rubate e spedite (invano) al Fatto quotidiano - non al Giornale o al Corriere della Sera - e due mesi dopo a Report. «Ha visto un'inchiesta su Renzi e ha pensato di mandare le immagini anche a noi. Il caso vuole che io mi renda conto che il personaggio è Mancini. Poteva essere una polpetta avvelenata ma - insiste - abbiamo appurato che il padre era malato, che medicinali prendesse, abbiamo visto il telepass e verificato che fosse un'insegnante. Ti rivelo un segreto: nella puntata del 14 giugno avevamo chiesto a Renzi di venire in trasmissione con lei, stravolgendo il format per la prima volta in 25 anni». Ma niente. E che cosa fanno invece i pm romani? «Hanno tirato giù legittimamente i tabulati e hanno rintracciato la professoressa, violando il segreto sulla fonte e senza passare da un giudice». Tutto vero. «Noi non siamo indagati - sottolinea il vicedirettore Rai - ma vogliamo tutelare la nostra fonte perché è un cittadino che partecipa a pieno titolo all'esercizio del diritto di cronaca». E qui Ranucci non cita l'indagine della Procura di Ravenna per diffamazione e rivelazione di segreto di Stato, anticipata dal Giornale, dove è stato interrogato assieme a Mottola e alla papessa di Vatileaks 2 Francesca Chaouqui, rea di qualche rivelazione di troppo (poi mandate in onda) proprio a Mottola, né il conduttore Giovanni Floris glielo ricorda. Dovere d'ospitalità, forse. «Così tutte le vostre fonti sono bruciate», dice invece il conduttore di Di Martedì. E Ranucci annuisce, non prima di strizzare l'occhio a Giorgia Meloni («È della Garbatella come me»), per poi tirare per la giacchetta i magistrati: «Documento vero, gestione della fonte trasparente. È cambiato l'atteggiamento delle Procure? Due ex parlamentari hanno veicolato due dossier falsi su di me ma la magistratura non è andata a fondo». Povero Ranucci, scaricato dai pm. Mala tempora currunt.

Dritto e Rovescio, Renzi contro la sinistra: "Radical chic, ipocriti, faisei". Libero Quotidiano il 25 novembre 2022

La nuova bandiera della sinistra ammainata a tempo record. Si parla della parabola di Aboubakar Soumahoro, eletto deputato con gran fracasso tra le fila dell'Alleanza Verdi Sinistra e abbandonato senza nemmeno tentare una difesa dopo che è esploso il caso-coop che riguarda la moglie e la cognata. Un caso che lo ha travolto e lo ha porttato all'autosospensione.

Già, il punto è che nessuno, dei suoi, lo ha difeso. Ma proprio nessuno. E proprio su questo aspetto insiste Matteo Renzi, ospite in studio di Paolo Del Debbio a Dritto e Rovescio, il programma del giovedì sera in onda su Rete 4, la puntata è quella di giovedì 24 novembre.

"C'è un punto che non riguarda lui ma chi lo ha candidato - premette l'ex premier -. E questo punto è un punto su cui si deve parlare liberamente. C'è una certa filosofia di sinistra, la chiamerei radical-chic, che prima ha costruito il personaggio e poi lo ha mollato alla velocità della luce con un'ipocrisia e un atteggiamento farisaico che io reputo squallido", conclude Matteo Renzi picchiando durissimo.

Un punto di vista molto simile a quello espresso da Paolo Mieli a PiazzaPulita, la trasmissione di Corrado Formigli in onda su La7 e che aveva come ospite in studio proprio Soumahoro. Mieli, infatti, ha espresso tutto il suo stupore per il fatto che pubblicamente la sinistra non abbia nemmeno provato a difendere Soumahoro. E ancora, Mieli ha ricordato al deputato come il vero attacco, in un certo senso, non sia quello ricevuto dalla stampa di centrodestra, ma proprio quello di una sinistra che ha scelto di tacere.

La difesa in tv dell'ex sindacalista e l'attacco di Renzi: "Creano e distruggono totem". Processo a Soumahoro (non indagato), sedotto e abbandonato dalla sinistra "radical chic e con la puzza sotto il naso". Ciro Cuozzo su Il Riformista il 25 Novembre 2022 

Da una parte c’è la sinistra che prima crea il personaggio, lo candida, sfruttando la sua popolarità, e poi alla prima occasione dubbia lo scarica, prende le distanze e lo lascia in pasto alla gogna mediatica e social. Dall’altra c’è lui, Aboubakar Soumahoro, neo deputato della Repubblica italiana, che prova a difendersi, a chiarire vicende che riguardano la moglie e la famiglia di quest’ultima in una indagine (sulle cooperative che danno lavoro ai braccianti in provincia di Latina) che non lo vede coinvolto ma i cui rumors sono bastati a Sinistra Italiana ed Europa Verde per allontanare l’ex sindacalista Usb, mostrandosi già pentiti e imbarazzati.

Siamo in Italia dove clamore mediatico e dito puntato contro alla prima occasione buona sono il pane quotidiano. Soumahoro lo sa bene e dopo essersi (speriamo senza pressioni) autosospeso dal gruppo parlamentare di Alleanza Verdi e Sinistra italiana dopo 48 ore (quarantotto!) di confronto con i leader Angelo Bonelli e Nicola Fratoianni, a Piazzapulita sente di scusarsi ancora una volta, perché ormai per tutti è già colpevole. "Mi scuso perché sono stato poco attento, mentre giravo per il Paese, a quello che c’era a casa mia. Io non sono in quella coop, ma approfondirò tutto come deputato della Repubblica" ribadisce il deputato di origini ivoriane, oggi 42enne. "Non sapevo nulla, se fossi stato a conoscenza di una indagine sulle cooperative gestite da mia suocera non mi sarei candidato" aggiunge.

Rispetto ai ritardi nei pagamenti degli stipendi Soumahoro ha ammesso che "doveva scattare da parte mia un ulteriore approfondimento. Essermi limitato a questa situazione non me lo perdono. E’ vero, la mia famiglia gestisce centri di accoglienza, ma quella gestione ha una ventina di anni e la mia attuale compagna l’ho conosciuta nel 2018 quando la coop già esisteva".

A Soumahoro è stato chiesto conto delle immagini con accessori costosi e firmati che la sua compagna, che gestiva una coop assieme alla suocera oggi indagata per malversazione, sfoggiava sui social a fronte di 400mila euro di stipendi non pagati e di circa 200mila distribuiti alla dirigenza della coop e un resort che la sua famiglia avrebbe aperto in Ruanda. "Quelle immagini non mi hanno creato imbarazzo – ha risposto -. Il diritto all’eleganza e alla moda è libertà, la moda non è né bianca né nera. Poi quelle immagini vanno datate. Mia moglie ha la sua vita. Non lavora più nelle coop".

Soumahoro ha poi spiegato, precisando che "tutti gli atti sono trasparenti", che grazie al lavoro della moglie hanno comprato casa accendendo un mutuo trentennale. Agli ex colleghi della Lega Braccianti, poi tornati in Usb, che chiedevano conto di 56.800 euro non rendicontati su un bilancio di 220mila euro, il parlamentare rilancia: "Sono nelle condizioni di poter produrre tutte le prove. I soldi sono stati spesi per l’acquisto di generi alimentari, gel disinfettante, trasporti, e i rimanenti 56.800 sono andati nell’esercizio 2021. Il bilancio è disponibile sul sito della Lega Braccianti. Chi mi accusa oggi è tornato a far della Usb, organizzazione con cui ho un contenzioso, dopo essere passato con me nella Lega Braccianti. Sono tornati indietro perché mi avevano chiesto di destinare loro in forma di stipendio i soldi delle donazioni. Ho rifiutato".

"Ho lottato contro il caporalato, lo possono testimoniare funzionari dello Stato, questori e prefetti. Quando i braccianti furono presi a fucilate sono stato fino alle due di notte col questore" ricorda Soumahoro che precisa poi di non aver mai usato i soldi delle donazioni per finanziare la sua ascesa politica: "Assolutamente no, mai. Anzi, ci ho anche rimesso. A chiedermi di candidarmi sono stati Sinistra Italiana ed Europa Verde. Ma il mio curriculum è la storia di centinaia di braccianti. Non sono un iscritto di Sinistra Italiana, quello che è avvenuto all’interno dei partiti prima del voto io non lo so. Ma non sono certo andato io ad autocandidarmi perché la mia storia non è uno show di Hollywood ma quella che ha dato vita al primo tavolo contro il caporalato". Infine ricorda: "Sono nato per strada. Sono sempre stato nell’angolo. Ma l’essermi mosso dall’angolo non è stato un percorso individuale, è stato collettivo".

La difesa di Renzi: "Sinistra radical chic, costruisce totem e poi li distrugge"

In difesa di Soumahoro il senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva ed ex segretario del Pd. Durissime le sue parole nel corso della trasmissione "Dritto e Rovescio" su Rete 4. "C’è una certa filosofia della sinistra che io chiamo radical chic che prima ha costruito il personaggio e poi l’ha mollato alla velocità della luce con una ipocrisia e un atteggiamento farisaico squallido. È tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso" commenta Renzi a proposito della vicenda di Aboubakar Soumahoro.

"Io sono stato garantista con Berlusconi, Virginia Raggi e con quelli del Pd che non sono stati garantisti con me. Io sono garantista davvero e poi lui non è nemmeno indagato, quindi si aspetta la giustizia non si anticipa la giustizia e non si fa una strumentalizzazione politica"  spiega Renzi prima di ribadire che "l’atteggiamento della sinistra sulle vicende di altri familiari, e io ne so qualcosa, è stato vergognoso".

Con Soumahoro "oggi hanno preso e distrutto quello stesso totem che hanno costruito, è tipico di quella sinistra con la puzza sotto il naso. Io oggi gli do la mia solidarietà ma mi fa ribrezzo chi oggi specula su questa vicenda dopo aver fatto la morale agli altri".

Ciro Cuozzo. Giornalista professionista, nato a Napoli il 28 luglio 1987, ho iniziato a scrivere di sport prima di passare, dal 2015, a occuparmi principalmente di cronaca. Laureato in Scienze della Comunicazione al Suor Orsola Benincasa, ho frequentato la scuola di giornalismo e, nel frattempo, collaborato con diverse testate. Dopo le esperienze a Sky Sport e Mediaset, sono passato a Retenews24 e poi a VocediNapoli.it. Dall'ottobre del 2019 collaboro con la redazione del Riformista.

Caso Open, show di Renzi in aula: «Volete processarmi pure per le interviste?» Tensione alle stelle oggi al tribunale di Firenze: il procuratore Turco punta il dito contro l'ex premier per la sua intervista a La Stampa. Giovanni M. Jacobazzi su Il Dubbio il 25 novembre 2022.

Tensione alle stelle oggi al tribunale di Firenze in occasione dell’udienza preliminare per l’indagine sulla Fondazione Open che vede fra gli imputati, con l’accusa di finanziamento illecito ai partiti, Matteo Renzi, Maria Elena Boschi e Luca Lotti. L’aggiunto Luca Turco, attuale facente funzione della Procura, dopo aver preso la parola si è girato verso Renzi con l’iPad in mano mostrandogli, con fare contrariato forse per essersi sentito chiamato in causa, l’intervista che l’ex premier aveva rilasciato alla Stampa e dove affermava che «un pm ha trattenuto una carta che non poteva trattenere e l’ha mandata in giro in Parlamento». «È inaccettabile, ci sono tanti magistrati scarsi li denuncio», aveva aggiunto Renzi nell’intervista senza però fare nomi.

All’irrituale iniziativa di Turco, Renzi ha immediatamente replicato, alla presenza degli avvocati e degli addetti ai lavori. «E adesso che fa? Mi processa anche per le mie interviste? Le ribadisco che io non mi fido di lei». Frase alla quale Turco avrebbe risposto «e fa bene». «Io ho rispettato la legge – ha continuato Renzi -, lei non ha rispettato la sentenza della Corte di Cassazione». L’accesa discussione è durata quasi dieci minuti davanti agli avvocati e, ovviamente, al giudice. Terminato questo “fuori programma”, Turco ed il sostituto Antonio Nastasi hanno allora chiesto un rinvio di due mesi, accolto dal giudice che ha fissato la prossima udienza il 27 gennaio. «Insomma, prima ti indagano, ti processano sui giornali e poi quando si arriva al processo invece che andare a processo, chiedono il rinvio», sono state le parole di Renzi con i giornalisti all’uscita dall’aula.

«Loro – ha aggiunto Renzi – hanno chiesto il rinvio motivandolo con l’attesa di poter leggere l’ordinanza della Consulta» che questa settimana ha ammesso il conflitto tra i pm fiorentini e il Senato sulle modalità di acquisizione di alcuni messaggi e mail scambiati fra il leader di Italia viva e gli imprenditori Vincenzo Manes e Marco Carrai. «La motivino come vogliono, sono quattro anni che fanno le indagini, potevano pure arrivare a fare il processo. Qui pazientemente si prendono altri due mesi. È stato chiesto se qualcuno fosse contrario e io ho detto che lo ero, però giustamente il giudice ha deciso di ascoltare il pm», ha puntualizzato con una sottile vena polemica Renzi, che ha anche colto l’occasione per togliersi qualche sassolino dalle scarpe: «Da anni c’è un processo in corso che viene fatto sui giornali, quando si arriva in aula dura mezz’ora perchè devono rinviare. Di solito il rinvio lo chiedono gli imputati che hanno paura di essere giudicati, io sono qui che dico di andare avanti, invece il m ha chiesto il rinvio, e il giudice ha deciso di rinviare alla fine di gennaio».

Che i rapporti fra Renzi e i pm fiorentini non siano “idilliaci” non è una novità. L’Associazione nazionale magistrati, proprio a tal proposito, con un comunicato l’altro giorno aveva sottolineato che «l’esercizio dell’inviolabile diritto di difesa dell’imputato, come pure del diritto di critica sugli atti e sui provvedimenti della magistratura, non dovrebbe mai travalicare in offesa alla stessa funzione giudiziaria, la cui immagine di imparzialità e terzietà va costantemente preservata, costituendo patrimonio indispensabile per la stessa vita democratica del Paese». Non è escluso che il Csm voglia a questo punto accelerare, prima del rinnovo del Consiglio, sulla nomina del nuovo procuratore di Firenze. In pole Ettore Squillace Greco, attuale numero uno della Procura di Livorno, esponente di spicco di Magistratura democratica.

Consulta stabilità se la Procura ha violato diritti del leader di IV. Inchiesta Open, assist della Consulta a Renzi: ammissibile il conflitto di poteri tra Senato e magistrati di Firenze. Redazione su Il Riformista il  24 Novembre 2022. 

Importante vittoria per Matteo Renzi nell’ambito del procedimento sulla Fondazione Open, che lo vede indagato assieme a esponenti del cosiddetto "giglio magico" come Maria Elena Boschi, l’ex deputato del Pd Luca Lotti, ma anche all’ex presidente della Fondazione, Alberto Bianchi, e all’imprenditore Marco Carrai, in quanto membri del consiglio direttivo della Fondazione, per finanziamento illecito dei partiti.

Questa mattina la Corte Costituzionale ha dichiarato ammissibile il conflitto tra poteri dello Stato sollevato lo scorso 22 febbraio dal Senato contro i magistrati di Firenze che indagano su Renzi: la stessa Consulta dunque dovrà stabilire se i pm fiorentini del procedimento Open hanno violato i diritti di parlamentare di Matteo Renzi, allegando agli atti dell’inchiesta e-mail e chat di quando lui era già senatore senza chiedere l’autorizzazione preventiva di Palazzo Madama.

Il conflitto ritento ammissibile dai giudici sarà dunque deciso nel merito dalla Corte a seguito dell’udienza pubblica. Una decisione, quella odierna della Consulta, che potrebbe avere riflessi anche sul processo in corso contro Renzi: il gup, sottolinea l’Ansa, potrebbe decidere di sospendere l’udienza preliminare in corso a Firenze.

Il ricorso alla Consulta era stato deliberato il 22 febbraio scorso dall’Aula del Senato con 167 voti, 76 contrari e nessun astenuto, approvando la relazione della Giunta delle immunità. Secondo la relazione approvata a Palazzo Madama, i magistrati fiorentini che indagavano su Open e su Renzi (all’epoca il procuratore capo Giuseppe Creazzo e i sostituti procuratore Luca Turco e Antonino Nastasi) avrebbero dovuto chiedere prima una formale autorizzazione al Senato per l’acquisizione delle chat private e delle mail di Renzi.

Magistrati che hanno chiesto per Renzi e company il rinvio a giudizio. Processo e inchiesta che Renzi ha sempre definito "uno scandalo assoluto". In una delle ultime enews il leader di Italia Viva era tornato proprio sulla questione Open, annunciando che il 25 novembre avrebbe consegnato "l’ennesima denuncia a Genova contro i magistrati fiorentini".

"Ne hanno combinata una talmente grossa che è incredibile come non si voglia procedere nei loro confronti! Nel frattempo chissà che succede all’indagine genovese sui PM del caso David Rossi, uno dei quali – ricordo – è uno dei miei grandi accusatori nel processo. Accusatore sicuro, grande non credo. Nel libro dimostro perché", scriveva il senatore fiorentino.

Estratto dell’articolo di Ilaria Proietti per “il Fatto quotidiano” il 25 novembre 2022. 

Matteo Renzi è su di giri: in attesa della udienza preliminare di oggi a Firenze, nell'ambito del procedimento in cui è accusato di finanziamento illecito ai partiti in relazione al caso di Fondazione Open, racconta che ha già segnato un punto: "La Corte Costituzionale ha giudicato ammissibile il ricorso del Senato sul tema della violazione dell'articolo 68 Costituzione. Nel 2023 arriverà il giudizio di merito, ma intanto il nostro ricorso è ammissibile. Un altro passo verso la verità".

Si riferisce al conflitto di attribuzione sollevato dal Senato contro l'operato dei magistrati di Firenze, che avrebbero sequestrato materiale qualificabile come corrispondenza di parlamentare senza la preventiva autorizzazione della sua Camera di appartenenza. Un ricorso con il quale il leader di Italia Viva spera di portare a casa la ciccia, ossia l'annullamento dei decreti con cui la Procura ne ha disposto l'acquisizione.

Ma è presto per cantare vittoria, perché ieri la Corte Costituzionale in realtà ha solo deciso che il ricorso ha i requisiti formali per essere valutato. Un po' come avvenuto in tanti altri casi che si son conclusi spesso e volentieri con una doccia fredda persino per chi, come Francesco Cossiga era stato presidente della Repubblica: per ottenere la cancellazione di un paio di condanne per calunnia si era rivolto alla Consulta che aveva ammesso il suo ricorso ma poi lo aveva sostanzialmente passato al trita-documenti. […]

Accolto il ricorso del Senato sulla violazione dell’articolo 68 Costituzione. Chat ed estratti conto di Renzi pubblicati, schiaffo della Consulta a Travaglio e ai pm di Firenze: ricorso ammissibile. Paolo Comi su Il Riformista il 25 Novembre 2022

La Corte Costituzionale ieri ha giudicato ammissibile il ricorso del Senato sulla violazione dell’articolo 68 Costituzione nei confronti di Matteo Renzi da parte della Procura di Firenze.

La vicenda riguardava l’inserimento nel fascicolo d’indagine sulla Fondazione Open della messaggistica intercorsa fra l’ex premier e l’imprenditore Vincenzo Manes all’indomani del sequestro del cellulare di quest’ultimo. Nel fascicolo, aperto con l’accusa di finanziamento illecito ai partiti, erano anche finite delle mail fra Renzi e Marco Carrai, oltre a degli estratti conto. La Procura si era ‘difesa’ affermando che la norma parla di corrispondenza e non di WhatsApp o di mail.

“Appare utile rilevare che negli ultimi anni il concetto di ‘corrispondenza’ ha subito un’evoluzione ‘tecnologica’: a quella nel tradizionale formato cartaceo si sono aggiunte forme di corrispondenza di tipo elettronico, quali ad esempio mail, sms, messaggi WhatsApp, ed altro“, aveva affermato all’epoca la senatrice di Forza Italia Fiammetta Modena, relatrice della proposta, poi approvata anche con i voti del Pd, sul conflitto di attribuzione. L’ex senatrice azzurra si era soffermata sulla “segretezza”, il principale criterio distintivo della corrispondenza: per quella cartacea è garantita “dalla chiusura in una busta del testo scritto”, per quella elettronica, “dalla visibilità esclusiva della stessa da parte del destinatario, ad esempio attraverso l’utilizzo del cellulare”. A proposito dei messaggi WhatsApp, “salvo il destinatario, a meno che un terzo non si appropri del suo cellulare, nessuno può visionarli”, così come nessuno può visionare una corrispondenza cartacea destinata a terzi, “a meno che non apra la busta”.

Ed è assimilabile alla corrispondenza anche l’estratto conto inviato dalla banca a Renzi, connotandosi “come corrispondenza intercorsa tra la banca ed il cliente”. La segretezza è ancora più accentuata per le mail intercorse tra Carrai e Renzi: “La mail presuppone infatti un account e l’inserimento della password per leggere la posta, assimilabile in toto all’apertura della busta di una lettera cartacea. Per tutte queste ragioni, non avendo i pm fiorentini chiesto l’autorizzazione al Senato, i sequestri sono “illegittimi”, avendo comportato una lesione delle guarentigie del parlamentare “a prescindere dall’utilizzo o meno di tale mezzo di prova nei confronti di Renzi”.

Secondo alcune sentenze della Cassazione, all’epoca dei fatti subito sbandierate da Marco Travaglio, “i dati informatici acquisiti dalla memoria del telefono – sms, messaggi WhatsApp, messaggi di posta elettronica “scaricati” e/o conservati nella memoria dell’apparecchio – hanno natura di documenti e pertanto l’attività di acquisizione non soggiace né alle regole stabilite per la corrispondenza, né tantomeno alla disciplina delle intercettazioni telefoniche”. In pratica, la corrispondenza del parlamentare tutelata dalla Costituzione sarebbe solo quella con la busta ed il francobollo. La decisione della Consulta è attesa per i primi mesi del prossimo anno. Paolo Comi

Renzi: «Quel magistrato che se ne frega dell’ordine della Cassazione». Nel nuovo libro di Matteo Renzi, la singolare storia delle intercettazioni di Carrai che dovevano essere distrutte ma che finirono in Parlamento... Il Dubbio il 22 novembre 2022.

Anteprima del nuovo aggiornamento del libro di Matteo Renzi: “il mostro”.

*** Nell’ultima decisione ( in merito alla vicenda Open, ndr) la Corte di Cassazione giudica illegittimo il sequestro del telefonino di Marco Carrai e ordina alla procura di Firenze di distruggere ( tecnicamente: non trattenere) il materiale ivi contenuto. La decisione della Suprema Corte è datata 18 febbraio 2022. E cosa fa il pm Turco? Nel marzo del 2022 scrive al Copasir che aveva richiesto gli atti alla procura. E scrive testualmente: «Rappresento che l’annotazione gdf 17/ 2/ 22 prot. 54737 contiene, tra l’altro, l’esito delle analisi dei reperti informatici sequestrati all’imputato Carrai Marco. Sennonché, in data 18/ 2/ 22, la Suprema Corte ha annullato tale sequestro, con la conseguenza che le informazioni contenute in tale annotazione sono processualmente inutilizzabili. A fronte di tale annullamento, considerate le finalità istituzionali del Comitato, non condizionato da regole processuali, ritengo comunque doveroso trasmettere anche le sopra indicate annotazioni unitamente alla copia forense del materiale sequestrato al predetto Carrai. Firmato: Il procuratore della Repubblica, Luca Turco, aggiunto».

Fermi tutti. Qui c’è una sentenza della Corte che dice a un magistrato: quel sequestro non è legittimo.

Non dovevi farlo. Distruggi.

Un sequestro il cui contenuto riempie per tre settimane i giornali, un sequestro che tra l’altro contiene mille informazioni che riempiono i talk show e che non sarebbero mai dovute uscire, una gigantesca violazione della privacy.

E questo magistrato che cosa fa? Non dice: scusate, ho sbagliato, mi cospargo il capo di cenere.

Dice che anche se il sequestro è illegittimo, trattiene il materiale e lo fa ulteriormente girare, inviandolo al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica.

Cioè, noi viviamo in un Paese in cui un inquirente ti prende il telefonino. Lo analizza per mesi. Il materiale esce sulla stampa e tutti si sentono autorizzati a commentare informazioni che sarebbero coperte da segreto istruttorio e da privacy. E fin qui: bene. Anzi, male. Ma da anni in Italia si fa così. Cosa succede però subito dopo?

La Corte di Cassazione smonta l’operato del pm. E il pm anziché eseguire l’ordine della Corte di Cassazione trattiene il materiale e lo gira a un soggetto terzo che peraltro è fuori dalla dinamica processuale. Siamo oltre l’anarchia. Ti prendono il telefonino. Non ne hanno diritto. Lo spulciano e tutto ciò che c’è dentro finisce sui giornali. È tutto illegale. Ma come se non bastasse: arriva la Cassazione, intima al pm di restituire il telefono e distruggere i danni. E che fa il pm? Semplice, se ne frega. E manda tutto il materiale al Parlamento. Amici, questo è semplicemente folle.

Chi ha già letto il libro ricorderà come io abbia scelto di denunciare i magistrati fiorentini. E di come lo abbia detto chiaro e tondo, in faccia: non mi fido di voi. Bene. La denuncia è semplice: io accuso gli inquirenti fiorentini di non aver rispettato alcuni articoli del codice penale e la Legge 140/ 2003. La reazione dei colleghi genovesi è encomiabile: nel giro di qualche gior- no leggono tutte le mie carte e decidono di chiedere l’archiviazione dei pm fiorentini, archiviazione che verrà ufficializzata nel giro di qualche settimana. Io ritengo che la violazione di legge fosse macroscopica, ben più grave dei presunti vizi formali che ci vengono contestati nel maxi processo Open. Ma non posso che rispettare la sentenza di archiviazione perché questo è ciò che deve fare un qualsiasi cittadino, a maggior ragione se rappresentante di un’istituzione, in questo caso il Senato della Repubblica. Quello che non mi torna è una frase del procuratore Pinto, allora facente funzioni di Genova, che, rispondendo a una domanda dei giornalisti circa la straordinaria velocità con cui viene definita l’archiviazione, spiega: «C’è una circolare del csm che dice che i procedimenti sui magistrati debbano avere una rapida e prioritaria definizione per evitare che restino nel limbo. Non è privilegio ma è per evitare che vengano delegittimati. È un dovere imposto da una circolare csm, non è una questione di arroganza».

Allora, riformuliamo il ragionamento. Visto che si deve andare di fretta per evitare di lasciare nel limbo il procuratore, c’è un giudice a Genova che ritiene che sia giusto che Turco possa ignorare la sentenza della Cassazione e trasmettere un atto al Parlamento pur sapendo che quell’atto è stato acquisito in modo illegittimo e che va distrutto? Se trovate un magistrato che dice che questa scelta è regolare, fatemelo sapere.

Se la Cassazione ordina una cosa a un pm e il pm non la esegue per me siamo oltre lo stato di diritto.

Chi è la pm che deve indagare sull’eventuale violazione di Turco? Una collega genovese nota ai più per essere la pm di un’altra scandalosa vicenda, quella dello yacht di Briatore. Yacht sequestrato e venduto un mese prima della sentenza di assoluzione di Briatore. Non solo Briatore aveva ragione e quella pm torto: ma lo stato dovrà pagare i danni a Briatore.

Una pessima pagina per la credibilità del nostro sistema giudiziario. Ed è la stessa PM che oggi ha in mano la decisione sulla vicenda Turco- Copasir.  (Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S. p. A. © ? 2022 Mondadori Libri S. p. A., Milano)

L’Anm replica a Renzi: «Vuole delegittimare i magistrati, ora basta». La Giunta Esecutiva Centrale: «Il senatore torna ad esprimersi sui pubblici ministeri fiorentini che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio». Antonio Alizzi Il Dubbio il 22 novembre 2022.

«Approssimandosi l’udienza del processo Open, il senatore della Repubblica Matteo Renzi torna ad esprimersi sui pubblici ministeri fiorentini che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio e rilascia agli organi di stampa dichiarazioni che si traducono in attacchi diretti alla persona dei singoli magistrati requirenti, ingiustamente additati come autori di condotte “eversive” e “scandalose”, nonché di tesi accusatorie “farneticanti” e “strampalate”». Lo scrive la Giunta Esecutiva Centrale dell’Associazione Nazionale Magistrati.

«Si tratta di dichiarazioni che seguono ad altre, già rese in passato dal sen. Renzi, di analogo contenuto, che possono portare ad una pericolosa delegittimazione dell’operato della magistratura agli occhi dell’opinione pubblica. È quasi superfluo ricordare che l’esercizio dell’inviolabile diritto di difesa dell’imputato, come pure del diritto di critica sugli atti e sui provvedimenti della Magistratura, non dovrebbe mai travalicare in offesa alla stessa funzione giudiziaria, la cui immagine di imparzialità e terzietà va costantemente preservata, costituendo patrimonio indispensabile per la stessa vita democratica del Paese» conclude l’Anm, riferendosi all’anticipazione del Dubbio sull’edizione aggiornata de “Il Mostro” di Matteo Renzi.

L’anticipazione del libro “Il mostro”di Matteo Renzi: “La vera storia del veto di Letta su di me”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 20 Novembre 2022

Un estratto della nuova edizione aggiornata del volume del leader di Italia viva. Il gelo con il segretario del Pd dopo la caduta del governo Draghi: "Se avesse fatto prevalere l'intelligenza politica rispetto al rancore personale oggi commenteremmo un'altra Italia". Il leader di Italia Viva racconta la definitiva lacerazione con Letta nel pieno della scorsa campagna elettorale. Tra retroscena, telefonate di fuoco e sondaggi "sbagliati", ecco come si consumò lo strappo

di Matteo Renzi

Mentre torno verso casa mi chiama Draghi reduce dal Quirinale: “Matteo, voglio ringraziarti di cuore per questi mesi. È stato difficile ma è stato bellissimo. E credimi, anche se avessi seguito il tuo suggerimento non ce l’avremmo fatta comunque. Ormai avevano deciso di votare e la situazione era irrecuperabile”. Ho sempre mantenuto il massimo riserbo sulle comunicazioni con lui. Sia le numerosissime prima della sua indicazione come premier, sia quelle successive nei mesi del governo. Non è mai uscito nulla perché non ero tra quelli che pur di giustificare la propria esistenza si mette a sbandierare le telefonate o gli incontri con Palazzo Chigi. Ma per la prima volta in questa calda serata di luglio mi sembra di sentirlo quantomeno emozionato, se non commosso.

Vado a letto pensando che stia calando il sipario sul governo che avevo tanto voluto e stia arrivando il governo che non avrei mai immaginato. A meno che… C’è solo una possibilità per bloccare la Meloni e i suoi. Fare una coalizione degna di questo nome. Uno dei più intelligenti – e anche dei più divertenti – uomini di cultura italiani mi scrive e mi chiede: fai uno sforzo. Non pubblicizzo il suo nome, ovviamente. Ma devo citare il suo messaggio.

“Permettimi, Matteo, da cittadino ingenuo, di dire la mia. Ti scrivo perché quello che è successo con Draghi mi ha sconvolto. Ma soprattutto mi fanno paura quelli lì: Conte, Salvini, Meloni, Berlusconi. Ecco il mio pensierino ingenuo: dovreste mettere su un’unica coalizione o meglio un unico partito che si chiama Nuovo Centro Sinistra, un nome semplice, serio e concreto. Rinunciare tutti alle vostre sigle, accogliere tutti gli scontenti di chi ha provocato questa crisi. Un grande partito che vuole continuare l’operato di Draghi e che ha paura di quei dilettanti allo sbaraglio. Sarebbe un segnale fortissimo, si rinuncia ai propri partiti, si mette in moto una novità. Una grande novità per salvare l’Italia. Tu passi per antipatico e presuntuoso ma sai essere simpatico e umile. Ed è così che potresti essere il motore di una rivoluzione che continua il bel lavoro che si stava facendo. Fallo. E fallo in pochi giorni. Se sono stato sciocco e ingenuo con questi miei suggerimenti non me ne rammarico perché avevo proprio bisogno di dirtelo. Ti abbraccio.”

Quando arriva un sms si illumina lo schermo di un telefonino. Ma in questo caso mi si illumina il volto. Perché quello che scrive questa personalità del mondo della cultura è esattamente la stessa cosa che penso io. Credo che se la coalizione riformista vuole vincere le elezioni occorre che si faccia tutti un passo indietro. E ci si metta insieme sulla base di un’idea comune del Paese, partendo dal riconoscere che Mario Draghi è più credibile di Giorgia Meloni, che vanno valorizzate le cose che ci uniscono senza ideologismi.

Il mio amico del mondo dello spettacolo – che si dimostra una brillante testa politica, ma questo lo sapevo già – non sa che ho già fatto lo sforzo. Già qualche settimana prima avevo detto infatti a Enrico Letta, sia nei nostri incontri all’Arel sia negli scambi telefonici, che ero pronto a fare un passo indietro. E quando dico un passo indietro glielo spiego bene: se io sono il problema, e capisco che per molti io lo sono – anche alla luce dell’indecorosa campagna di aggressione che trovate narrata in queste pagine – non ho nessuna difficoltà a fare un passo indietro. E non candidarmi proprio.

Concepisco la politica come sogno collettivo in cui la leadership si esercita non mettendo al centro la propria ambizione ma la capacità di raggiungere insieme degli obiettivi. Il leader non è colui che vuole mettersi a sedere prima degli altri, come un certo populismo sembra oggi sostenere, ma è quello che indica la strada e inizia a camminare prima degli altri. Se il Pd di Letta avesse fatto prevalere l’intelligenza politica rispetto al rancore personale oggi commenteremmo un’altra Italia.

Chiedo soltanto che dentro questa alleanza riformista totalmente nuova ci sia spazio per chi rappresenta la storia politica straordinaria di Italia Viva, quel movimento che decolla controvento nel 2019 e che salva l’Italia prima dal Papeete e poi dal Contismo, portando Draghi, altroché “O Conte o morte“.

Sono pronto a fare una conferenza stampa per dire che mi faccio da parte presentando questa scelta come fatto politico, non come veto personale. Conoscevano questa mia determinazione in pochissimi. Alcuni dirigenti di Italia Viva, tutti contrarissimi. E la famiglia Renzi, perché, con mia somma gioia, per la prima volta una decisione politica che mi riguardava era discussa anche a tavola, con Agnese come sempre ma anche con i figli ormai diventati grandi. Figli che peraltro avevano tre opinioni diverse su cosa fare, tre opzioni differenti ma tutte e tre molto intelligenti. E questa condivisione casalinga per me vale più di una vittoria elettorale.

La palla si sposta nel campo di Enrico Letta. Che per qualche ora sparisce. Fa sapere: ci sentiamo e decidiamo su tutto nelle prossime ore. Ovviamente mi aspetto che dica no all’accordo con i Cinque Stelle. Oppure che molli il rapporto con noi e apra a Conte. Siamo incompatibili. Ma con qualcuno Letta dovrà pur allearsi se vuole giocarsela: o con i riformisti o con i populisti.

La risposta di Letta non arriva da una telefonata o in un incontro ma da un pezzo che apre “Repubblica” del 22 luglio. Lo firma Stefano Cappellini. È uno di quei pezzi che non sono vere e proprie interviste ma che contengono la reale rappresentazione di ciò che il politico vuol dire o fare davvero. Nulla di male, è un modus operandi che spesso viene utilizzato da giornalisti di tutti i media e da politici di tutti i colori. Ma quando vedo Cappellini scrivere che Letta vuole tutti tranne Italia Viva lo stupore è pari solo alla voglia di reagire. Ma come: ti ho detto che ci sono, che ti do una mano, che se ti serve non mi ricandido e tu per tutta risposta mi fai leggere dai quotidiani che fai l’alleanza più aperta possibile ma con un solo veto. Il veto a Italia Viva.

Il sondaggio “sbagliato”

La ragione? Abbiamo un sondaggio di Pagnoncelli che ci dice che solo l’1% degli elettori del Pd vuole fare un accordo con te, spiega. Lo stesso sondaggista mi chiamerà qualche giorno dopo per scusarsi e mettermi a conoscenza del suo disagio: quel sondaggio non diceva ciò che le veline del Pd tiravano fuori per giustificare la nostra esclusione. Il giorno dopo l’ufficio stampa del Pd spiega a tutte le altre redazioni che l’articolo di Cappellini, pur in assenza di virgolettati, rispecchia perfettamente il pensiero del segretario Letta.

Io non chiamo Enrico. E non mi faccio vivo. Dico ai miei: calmi. Lasciate fare. Hanno appena firmato il loro suicidio politico. Poi il 23 luglio alle 11.57 Letta mi chiama. Io non sento la sua telefonata su WhatsApp. Ci cerchiamo per un paio di volte. Alla fine ci parliamo nel pomeriggio. La telefonata dura meno di cinque minuti. Io non ho nulla da dirgli. Aspetto che parli lui.

La telefonata di fuoco fra Matteo Renzi ed Enrico Letta

“Ti volevo dire che nessuna decisione è presa e che l’articolo di Cappellini non rappresenta il mio pensiero.” Gli rispondo: “Ma mi prendi in giro?“. Glielo dico come un fiorentino deve dirlo a un pisano, ma sono frasi che non si possono scrivere in un libro. “Hai scelto, Enrico. Ma sappi che stai distruggendo il Pd e soprattutto stai dando il governo per cinque anni alla Meloni. Solo per un fatto di rancore personale.” “No, ma niente è deciso. Ho la base che non ti vuole per gli screzi del passato.” La base che non mi vuole per gli screzi del passato è la stessa base cui chiederete di votare Di Maio, magari a Bibbiano. Ma che cosa stai dicendo? Ma per una volta nella tua vita prenditi una responsabilità. Dì che preferisci perdere le elezioni pur di vendicare l’affronto che ritieni di aver subito nel 2014.”

“Sbagli, non ho niente di personale contro di te.” Mi scappa una risata. Sono in giardino a casa con mia moglie che assiste stupita ma divertita a questo dialogo. “Ti chiamo nei prossimi giorni” mi dice lui. Sì, certo, come no. È l’ultima telefonata con Letta. Immagino che per lui sarà stata una liberazione. “Ho fatto fuori Renzi dal Parlamento” avrà pensato. Vendetta è fatta. Finirà che si è fatto fuori da solo.

Redazione CdG 1947

Le verità nascoste. Otto nuove cose da sapere sulla mostrificazione di Matteo Renzi (e sul suo ritorno). Matteo Renzi su L’Inkiesta il 21 Novembre 2022.

La caduta di Draghi, il rancore di Enrico Letta, il cinismo di Giuseppe Conte, il governo di destra di Giorgia Meloni. Il leader di Italia Viva ha aggiunto altri capitoli al suo ultimo libro, Il Mostro, che finora nessuno ha contestato nel merito

Molti lettori mi hanno scritto di aver apprezzato il riassunto di tutto ciò che Il Mostro contiene. È un riassunto che ho messo alla fine della prima edizione, come quando all’università si facevano le sintesi degli appunti o al liceo si consultavano i bignamini. Per questo aggiornamento, invece, metto il riassunto all’inizio, così da facilitare la lettura.

1. Nessuno ha contestato nel merito questo libro. Chi ha annunciato una querela, come il vicepresidente del csm Ermini, lo ha fatto per esigenze mediatiche, ma poi si è ben guardato dal contestare i fatti qui esposti. Perché quella che ho scritto è semplicemente la verità. Migliaia di copie vendute, zero smentite. Non vi sembra un dato significativo?

2. La direttrice dei Servizi segreti, Elisabetta Belloni, che non ho voluto alla presidenza della Repubblica (come racconto a pagina 165) ha deciso nella primavera del 2022, quattro mesi dopo le vicende del Quirinale, di opporre il segreto di stato durante l’interrogatorio come testimone all’interno di indagini difensive, cui è stata sottoposta a seguito della strana vicenda Report-autogrill. Vengo a conoscenza dell’opposizione del segreto di stato in modo rocambolesco e casuale il giorno 25 giugno 2022. Rimango senza parole. Alla luce di questa decisione – a mio avviso enorme – la verità sulle vicende connesse agli eventi dell’autogrill sarà pubblica solo nel 2037. Ma cosa diamine ci sarà di così importante nei rapporti legati alla vicenda autogrill da mettere il segreto di stato fino al 2037?

3. Il procuratore aggiunto, Luca Turco, ha scelto di non rispettare la sentenza della Corte di Cassazione sul materiale sequestrato a Marco Carrai (ho raccontato la vicenda a pagina 58 e seguenti) e contenente, tra le altre cose, il mio estratto conto bancario e le mie intercettazioni. Ha deciso cioè di mandare in Parlamento – senza avere il diritto di farlo – del materiale acquisito in modo illegittimo e che avrebbe dovuto «restituire all’avente diritto senza trattenimento di copia dei dati». Per me si tratta di una scelta di rara gravità. C’è una sentenza e il primo che non la rispetta è il pubblico ministero? Turco è l’uomo dell’arresto dei miei genitori, dei processi a mezza famiglia, dell’indagine Open. E di molto altro. Possibile che un inquirente possa decidere di non rispettare una decisione della Cassazione? Quei dati sono stati carpiti in modo illegittimo. Viene disposta la loro distruzione. E il procuratore ignora bellamente questo ordine per far girare – ulteriormente – il materiale inviandolo in Parlamento. La procura di Genova non dice una parola, il csm non dice una parola, la ministra Cartabia non dice una parola, il presidente del Copasir Urso non dice una parola. E Turco, nel frattempo, diventa il procuratore facente funzione di capo a Firenze perché il suo collega Creazzo – quello sanzionato per le molestie sessuali e cofirmatario dell’accusa Open – lascia Firenze per diventare sostituto procuratore per i minori a Reggio Calabria. Troveremo prima o poi qualcuno che chieda conto a Turco del mancato rispetto, non dico degli imputati ma delle sentenze della Cassazione? Non vi sembra un film horror o, forse meglio, una storia kafkiana?

4. Il processo Open è ancora nella fase dell’udienza preliminare. Si tratta, come leggete a pagina 11, dello scandaloso processo politico alla politica su cui per cinque volte la Corte di Cassazione è già intervenuta in sede di indagini per annullare gli atti degli inquirenti fiorentini. I sequestri, effettuati con un utilizzo spropositato di uomini e mezzi, vengono annullati perché – statuisce con ordinanza la Suprema Corte – hanno un «carattere esplorativo e sproporzionato». Questa indagine è tutta esplorativa e sproporzionata: in nome di un presunto obbligo di trasparenza non rispettato, un reato che non abbiamo commesso, ma che se anche fosse stato commesso sarebbe comunque “bagatellare”, i pm hanno volutamente esagerato per cercare chissà quale altro reato. E il bello è che non hanno trovato nulla. Voi direte: «Questa è la tesi della difesa». No, è la tesi della Cassazione! Abbiamo presentato solo in sede di udienza preliminare diverse eccezioni e istanze, abbiamo presentato un ricorso in Corte costituzionale, abbiamo sollevato il conflitto di attribuzione. Per un presunto reato formale lo stato italiano sta impiegando contro di me centinaia di migliaia di euro per un’inchiesta che tutti sanno finirà nel nulla, come è ovvio, ma che devono cercare di tirare per le lunghe per non perdere la faccia. E se alla fine di questa vicenda si scoprisse che io non ho violato la legge ma la legge è stata violata da chi ha fatto male le indagini e chi ha pubblicato notizie che non poteva pubblicare? Questo processo sarà destinato a divertire moltissimo gli esperti del settore, credetemi, perché sarà un processo che intendiamo fare in punta di diritto scrivendo ricorsi e istanze, non facendo tweet e post. Nel frattempo – ogni giorno – viene fuori qualcosa di incredibile. Ad esempio due uomini della guardia di finanza, in momenti diversi e in sedi istituzionali, hanno contestato il modus agendi degli inquirenti fiorentini. Un finanziere che chiede di intercettare la sorella del procuratore Turco viene stoppato e trasferito. Le intercettazioni si possono fare sui genitori di Renzi, ma non sulla sorella di Turco? Anzi, in Regione la dottoressa Turco viene promossa. Il capo del nucleo della finanza viene promosso. Il pm in questione viene promosso. Nessuno ha il coraggio di aprire bocca. Tutto molto interessante, no?

5 Il procuratore Antonino Nastasi, altro accusatore di Open, non riesce a spiegare le lacune e le contraddizioni dell’inchiesta sulla morte di David Rossi che, settimana dopo settimana, continuano a venire fuori nel silenzio dei principali media del Paese, con poche – lodevoli – eccezioni. Il pm Nastasi ha condotto le indagini con i suoi colleghi in un modo che nel migliore dei casi è vergognosamente superficiale. A chi usa questo modo di investigare non affiderei nemmeno la supervisione della constatazione amichevole di un incidente, figuriamoci l’inchiesta Open. E poi parlano di merito nella pubblica amministrazione? Nel frattempo sulla vicenda Carrai-Campana Comparini (che trovate a pagina 58) la stessa accusa – che da tre anni spende centinaia di migliaia di euro di soldi pubblici per ipotesi strampalate – ha chiesto l’archiviazione. Non c’è nulla, come era evidente a tutti fin dal primo giorno. E nel frattempo i procedimenti aperti contro i vertici del Monte dei Paschi di Siena per «aver ostacolato la vigilanza di Banca d’Italia» vengono chiusi nell’estate del 2022 con l’assoluzione degli imputati. Un altro grande successo del pm Nastasi, che peraltro in commissione lo aveva ammesso: «Io non capisco molto di banche» confessa. Diciamo che quantomeno gli imputati assolti dopo dieci anni se ne erano accorti subito, ecco.

6. I miei genitori sono stati assolti in appello dall’accusa di aver emesso fatturazioni false. Per tre anni tutta Italia e il sistema mediatico li hanno trattati da colpevoli, criminali, esposti al pubblico ludibrio. Adesso si scopre che erano innocenti e si scopre che l’accusa in primo grado non aveva allegato del materiale che la Corte d’Appello, invece, giudica “rilevanti”. In un procedimento collegato a quello per il quale i miei genitori erano condannati – procedimento sul quale mio padre aveva ottenuto l’ennesima archiviazione – vi erano delle carte molto importanti a favore della difesa. La pm, Von Borries, pm anche di questo secondo procedimento assieme al collega Luca Turco (strano, vero?), non aveva inserito nel fascicolo del primo procedimento il materiale del secondo procedimento che avrebbe scagionato i Renzi. Tre anni di gogna mediatica che ci saremmo risparmiati se la difesa avesse avuto da subito le carte.

7. Le conseguenze dell’aggressione e i danni civili. Dico a tutti che sono felice. E lo sono davvero. Ma avete presente quanto male possa fare questa enorme colata di fango? Dall’ex collega finlandese che ti cancella dal convegno alle banche americane che ti annullano gli incarichi fino all’aggressione mediatica e alla diffamazione reiterata elenco solo alcune delle vicende di questi mesi. Ma avete mai pensato a come sarebbe potuta andare la storia politica di questo Paese se non avessimo assistitito alla mostrificazione di cui qui parliamo?

8. La politica. La caduta di Draghi, il rancore di Enrico Letta, il cinismo di Giuseppe Conte, il governo di destra di Giorgia Meloni, la crisi della democrazia in tutto il mondo: mentre passo le notti a leggere le carte, a firmare denunce, a contattare avvocati, a scrivere ricorsi, il mondo politico va avanti. In tanti mi davano per morto, politicamente parlando. E invece sono tornato in Senato facendo fallire l’operazione di chi voleva buttarmi fuori dalla scena istituzionale. E dire che avevo anche dato la disponibilità a mettermi da parte ove fosse servito a un disegno comune. Ma ciò che ha fatto il Pd nel 2022 va oltre l’incapacità politica per sfociare nel masochismo più perverso. Leggere per credere i capitoli finali di questo aggiornamento.

Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri S.p.A.

Elisa Calessi per “Libero quotidiano” il 19 novembre 2022. 

Più che un sassolino, è un macigno, quello che Matteo Renzi si toglie è lancia. Uno dei tanti che segnano il rapporto tra i due, il leader di Italia Viva e Enrico Letta. Entrambi ex premier, entrambi segretari del Pd. Per sempre segnati da quel febbraio 2014, quando Renzi, segretario del Pd, fece sfiduciare Letta e prese il suo posto a Palazzo Chigi. 

Rapporto fatto di colpi dati e subìti, lealtà e slealtà, vendette e rancori. Perché la politica è anche- soprattutto- questo. È così il leader di Italia Viva nell'edizione aggiornata del suo ultimo libro, Il Mostro, si prende la sua rivincita, raccontando la sua versione dell'ultima rottura con il segretario del Pd: si sarebbe detto disponibile a non candidarsi, a condizione che il Pd facesse l'accordo con Iv per le elezioni politiche. Letta, però, non avrebbe accettato.

Lo anticipa lo stesso Renzi nella sua e-news, spiegando che, nel libro, «si racconta di una proposta choc e generosa che avevo fatto a Enrico Letta prima che la crisi precipitasse». La risposta di Letta, si legge nell'anticipazione del volume diffusa da Renzi, «arriva da un pezzo che apre Repubblica del 22 luglio. Lo firma Stefano Cappellini». Non è una intervista, ma un retroscena, uno di quei pezzi che, però, «contengono la reale rappresentazione di ciò che il politico vuol dire o fare davvero». 

Nell'articolo si legge «che Letta vuole tutti tranne Italia Viva. Lo stupore», commenta Renzi, «è pari solo alla voglia di reagire. Ma come: ti ho detto che ci sono, che ti do una mano, che se ti serve non mi ricandido e tu per tutta risposta mi fai leggere dai quotidiani che fai l'alleanza più aperta possibile ma con un solo veto: il veto a Italia Viva».

La ragione, continua Renzi ripercorrendo il contenuto dell'articolo, sarebbe in un «sondaggio di Nando Pagnoncelli che ci dice che solo l'1% degli elettori del Pd vuole fare un accordo con te». 

Racconta, poi, che lo stesso sondaggista lo ha chiamato qualche giorno dopo «per scusarsi e mettermi a conoscenza del suo disagio: quel sondaggio», continua la versione di Renzi, «non diceva ciò che le veline del Pd tiravano fuori per giustificare la nostra esclusione. Il giorno dopo l'ufficio stampa del Pd spiega a tutte le altre redazioni che l'articolo di Cappellini, pur in assenza di virgolettati, rispecchia il pensiero del segretario Letta. Io non chiamo Enrico. E non mi faccio vivo. Dico ai miei: calmi. Lasciate fare. Hanno appena firmato il loro suicidio politico».

Quindi l'ex premier prosegue: «Poi il 23 luglio alle 11.57 Letta mi chiama. Io non sento la sua telefonata su whatsapp. Ci cerchiamo per un paio di volte. Alla fine ci parliamo nel pomeriggio. La telefonata dura meno di cinque minuti. Io non ho nulla da dirgli. Aspetto che parli lui. "Ti volevo dire che nessuna decisione è presa e che l'articolo di Cappellini non è il mio pensiero". Gli rispondo: "Ma mi prendi in giro?". Glielo dico come un fiorentino deve dirlo a un pisano, ma sono frasi che non si possono scrivere in un libro.

"Hai scelto, Enrico. Ma sappi che stai distruggendo il Pd e soprattutto stai dando il governo per cinque anni alla Meloni. Solo per un fatto di rancore personale". "No, ma niente è deciso. Ho la base che non ti vuole per gli screzi del passato". "La base che non mi vuole per gli screzi del passato è la stessa base cui chiederete di votare Di Maio, magari a Bibbiano. Ma che cosa stai dicendo? Ma per una volta nella tua vita prenditi una responsabilità. Dì che preferisci perdere le elezioni pur di vendicare l'affronto che ritieni di aver subito nel 2014". 

"Sbagli, non ho niente di personale contro di te". Mi scappa una risata. Sono in giardino a casa con mia moglie che assiste stupita ma divertita a questo dialogo. "Ti chiamo nei prossimi giorni" mi dice lui. Sì, certo, come no. È l'ultima telefonata con Letta. Immagino che per lui sarà stata una liberazione. "Ho fatto fuori Renzi dal Parlamento" avrà pensato. Vendetta è fatta. Finirà che si è fatto fuori da solo».

"L'affetto di Berlusconi quando assolsero i miei". Le rivelazioni dell'ex premier Renzi nella nuova edizione del pamphlet "Il Mostro". "Il silenzio del Pd". Matteo Renzi il 20 Novembre 2022 su Il Giornale.

Il 18 ottobre resterà un giorno fondamentale nella vita della mia famiglia. Non è la prima volta che i miei genitori vengono assolti o «archiviati». Era già accaduto in molte altre circostanze. Coppia perfetta fino al compimento dei sessantacinque anni, i miei genitori diventano dei pericolosi aspiranti gaglioffi quando io divento presidente del Consiglio dei ministri. Fino a quel momento tutto ok. Poi partono le indagini. E sono indagini a tappeto: a un certo punto sembra che la sconfitta del crimine in questo Paese passi dall'impellente necessità di indagare ovunque i genitori dell'ex premier.

E così si aprono e si chiudono ipotesi accusatorie da Cuneo a Genova, da Firenze a Roma.

Ancora qualcosa rimane in piedi. E serviranno ancora anni per uscire da tutto. Quando tutto sarà definito con l'ultimo pronunciamento della sentenza della Cassazione, il grande accusatore dei miei genitori, il pm Luca Turco, sarà già a godersi la pensione. Spero solo che i miei stiano ancora bene per vedere quel momento.

Quello che è accaduto il 18 ottobre è però davvero sconvolgente. L'assoluzione dei miei genitori in appello infatti cancella una condanna in primo grado che non stava né in cielo né in terra. In soldoni, i miei erano accusati di avere emesso due fatture false in concorso con un imprenditore con il quale avevano rapporti professionali. Il fatto non costituisce reato, ha sentenziato la Corte d'Appello, oltre tre anni dopo il primo grado di giudizio. Nel frattempo siamo venuti a conoscenza del fatto che la magistrata che rappresentava l'accusa durante il primo processo, Christine Von Borries, aveva aperto un altro fascicolo assieme all'immancabile Luca Turco accusando mio padre di aver compiuto con lo stesso imprenditore coimputato un altro reato, il traffico di influenze illecite. E, nell'indagare sui due, l'accusa aveva raccolto numerose prove, intercettazioni, sequestri che non sarebbero stati messi a disposizione della difesa nel processo sulle fatture false. È molto grave che un magistrato non metta a disposizione della difesa del materiale che potrebbe essere utile a dimostrare l'innocenza. Il codice penale all'articolo 358 esplicitamente sanziona l'omissione di atti di questo genere. La difesa dei miei genitori entrerà in possesso del materiale che sancisce in modo indiscutibile l'innocenza dei miei solo dopo che arriverà l'archiviazione per l'inesistente traffico di influenza. Con il conseguente deposito previsto dalla legge di tutto il materiale raccolto. E perché quel materiale non era stato depositato prima anche nell'altro processo? Non è una domanda retorica: è un punto di rilievo perché, se fosse stato depositato, l'innocenza dei miei sarebbe stata provata tre anni prima. Risparmiando dolore, spese, tensione. Ed evitando di stare sui media per anni con una condanna sul groppone.

Perché c'è il danno morale e c'è anche il danno politico. Quante trasmissioni hanno commentato la condanna dei miei genitori, quanti pensosi editoriali, quanti sorrisi sarcastici in tv, quanti titoli a effetto, quanti inviati dei talk che camminano per le strade di Rignano sull'Arno facendo interviste sui miei genitori evocandone le malefatte con una rilevanza mediatica che non si attribuisce nemmeno a due serial killer? E viceversa, quanto silenzio assordante, trafiletti microscopici, sguardi imbarazzati dopo l'assoluzione. Quello che più mi ha colpito è stato il silenzio di tanti amici del Pd con cui avevo fatto lunghi pezzi di strada assieme. Molti di loro sapevano perfettamente che quella verso i miei genitori era una ingiustizia.

Eppure neanche la notizia dell'assoluzione è stata sufficiente per un gesto umano. Non dico un comunicato stampa o un tweet, per carità, non sia mai che qualcuno possa pensare di essere ancora amico di Matteo Renzi. Ma almeno una telefonata umana, un sms affettuoso, un pensiero gentile. Purtroppo mi spiace dirlo questa catena di solidarietà è arrivata da larga parte della destra ma non dalla sinistra. E io mi domando cosa possa fermare una persona che è stata amica, che ha condiviso i momenti di gioia e di scoramento, che conosce benissimo il dolore che hanno vissuto due settantenni incensurati dal prendere il telefono e fare una chiamata.()Qualche esponente della maggioranza trova il coraggio di dire forti e chiare parole pesanti. Ad esempio Guido Crosetto, attuale ministro della Difesa, scrive: «Qualcuno ha chiesto scusa ai genitori di Matteo Renzi? Qualche giornale ha fatto mea culpa? Qualcuno dei magistrati ha spiegato perché si sono concentrati tanti sforzi e tante risorse economiche verso due cittadini che non erano certamente pericolosi criminali?». E naturalmente c'è Silvio Berlusconi. In molti romanzano sui miei rapporti politici con il Cavaliere. Ricordo spesso che Forza Italia ha votato la fiducia a tanti governi guidati da esponenti provenienti dal Pd a cominciare da Enrico Letta e in qualche caso anche da Paolo Gentiloni. Mai, dico mai, ha votato la fiducia a provvedimenti del mio governo. Ciò che è rimasto costante invece è il tratto umano, affettuoso e sincero, della vicinanza di Berlusconi nei momenti più difficili per me, quando le peripezie giudiziarie toccavano i miei. Perché devo ammetterlo: quando arrivano gli avvisi di garanzia a me, la mia prima reazione è sempre la voglia di reagire all'ingiustizia. Ma quando mettono in mezzo i tuoi genitori ti senti impotente e in qualche modo persino responsabile. Insomma: se avessi fatto un'altra vita, loro non li avrebbero mai toccati. E questo lo ammettono tutti, anche i miei più acerrimi nemici. Nella sera dell'assoluzione la telefonata affettuosa di Berlusconi non mi sorprende, conoscendolo, ma mi rende felice perché arriva in un momento in cui il guazzabuglio di emozioni è più forte che mai.

Pubblicato per Piemme da Mondadori Libri Spa, ©2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano

Dal “Venerdì di Repubblica” il 12 settembre 2022. 

Come abbonata alla Repubblica, la sto sentendo vicina nel pensiero del prossimo probabile per lei voto a Renzi, io sicuro voto Renzi che, da mesi dileggiato dai più, auspicava il terzo polo. Ho votato per la prima volta Pd perché mi piaceva Renzi, il suo coraggio e onestà di intenti.

Ho votato sì al referendum del dicembre 2016, ricordato sulla Stampa da Massimo Recalcati come occasione persa. Renzi aiuterà d'appoggio Calenda e chissà quanti non potranno mitragliarlo! Geniale comportamento. Io da cittadina voglio per il mio futuro certezze sulla scia del governo Draghi. Mariangela 

Risposta di Natalia Aspesi: Qualche caro amico mi ha tolto il saluto per la mia dichiarazione, e quindi la ringrazio perché la sua lettera è tra le pochissime che non si scagliano contro l'ex allora giovane premier. 

La sinistra lo odia per aver abbandonato i principi che adesso anche nel Pd in pratica non esistono più. E lo accusano del massimo delitto, i rapporti con l'Arabia Saudita. Un Paese assassino certo, ma con cui l'Italia, molto più di Renzi, ha un ottimo legame: gli ultimi dati, 2020, dicono che il nostro saldo commerciale è positivo, abbiamo esportato per 3,217 miliardi e anche importato per 2,959, ci operano una cinquantina di aziende comprese le Ferrovie dello Stato, e il nostro lusso, da Armani a Prada, laggiù è venerato.

Noi finanziamo anche eventi culturali come seminari e conferenze tenuti da italiani e eventi musicali, settimane della cucina italiana, mostre fotografiche, arte. Solo Renzi è colpevole?

Stefano Feltri per editorialedomani.it il 9 settembre 2022.

È diventato tutto normale. Lo certificano l’indifferenza e il silenzio che hanno accolto l’inchiesta di Emiliano Fittipaldi e Giovanni Tizian sulle attività di Matteo Renzi che, da senatore in carica e in campagna elettorale, continua a collaborare con il principe saudita Mohammed bin Salman. 

La visita di bin Salman in Grecia, il 26 luglio, era nota, ma la presenza di Renzi no. Il leader di Italia viva, che pure informa spesso i suoi follower di viaggi, incontri ed eventi, non ha ritenuto di darne notizia, segno che lui stesso ci vedeva qualche profilo di criticità.

Ma dopo che Domani ha rivelato, oltre un anno fa, le connessioni saudite, Renzi ha continuato a lavorare come se niente fosse per bin Salman. 

Si muove su un confine sottile: la legge glielo consente, come ha riconosciuto anche il suo compagno di coalizione Carlo Calenda, che disapprova ma in nome del quieto vivere non condanna. Visto che non è illegale, allora va bene così.

In altre fasi della politica italiana era lecito e perfino auspicato che i candidati venissero valutati anche con metri diversi dal casellario giudiziale. 

Non tutti gli indagati sono moralmente indegni di sedere nel parlamento (vedi Marco Cappato con la sua disobbedienza civile) e non tutti gli incensurati o assolti sono meritevoli.

Il problema è sempre quello della prima pietra. Nessuno la scaglia perché sa che gli altri hanno le tasche pieni di sassi con cui rispondere: il Pd candida indagati, ex ministri responsabili dei regali alle autostrade dei Benetton, ha in coalizione Bruno Tabacci che ha rinunciato alle deleghe sull’aerospazio perché la principale azienda dell’aerospazio (Leonardo) aveva appena assunto suo figlio e così via.

Il nuovo che avanza, cioè Giorgia Meloni, certo non osa porre questioni morali: l’indagine che a luglio ha coinvolto l’europarlamentare di Fratelli d’Italia ed ex portavoce di Meloni, Nicola Procaccini, è solo l’ultima di una lista infinita di scandali all’interno del partito che molti italiani voteranno perché “nuovo” e “diverso”. 

Il fatto poi che quel partito sia rappresentato in televisione da un lobbista privo di incarichi di partito, Guido Crosetto, offre altri indizi sulla scarsa sensibilità ai conflitti di interessi. Così come la candidatura dell’eterno Giulio Tremonti, che con il suo studio lavora con Cassa depositi e prestiti e mille altre aziende che saranno influenzate dall’attività del parlamento e dal possibile governo di centrodestra. 

Una volta c’erano i Cinque stelle a gridare “onestà, onestà”, ma ora sono guidati da Giuseppe Conte che, da premier in carica, continuava a incassare parcelle dagli incarichi precedenti e cercava di vincere concorsi universitari. Per non parlare del suo ex socio, Luca Di Donna, indagato per traffico di influenze illecite. 

Nessun reato o scorrettezza da parte di Conte, intendiamoci, ma neppure lui ha interesse a denunciare malcostume e cinismo imprenditoriale come quelli di Renzi.

Sul fronte leghista figuriamoci: i commercialisti del partito di Matteo Salvini condannati per le operazioni sui fondi della Lega, il tesoriere condannato per finanziamento illecito, il leader che si incontra di nascosto con i diplomatici russi, mentre i suoi collaboratori sono al centro di una indagine per la famosa, possibile, tangente, poi sfumata, discussa all’hotel Metropol di Mosca nel 2018. 

Forse per la prima volta dal parlamento pre Mani pulite, ogni questione morale è stata cancellata dalla campagna elettorale, tutti i partiti competono in un’arena dove il cinismo è codificato nelle regole della gara. Nessuno osa più metterle in discussione.

E questo, è lecito pensare, contribuisce a spiegare l’astensionismo che cresce. 

Renzi, dai quiz vinti in tv al crac del referendum. L’ex rottamatore insegue il rilancio. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 18 Agosto 2022.

Matteo Renzi, 47 anni, nato a Firenze, è stato presidente del Consiglio (febbraio 2014-dicembre 2016). Eletto nel centrosinistra, è stato presidente della Provincia di Firenze (2004-2009) e sindaco della città (2009-2014). Segretario Pd (2013- 2017), ha fondato Italia Viva ed è senatore. 

Ah, la paterna mano non darà lo scudo di una candidatura sicura ai tanti che dal Pd lo seguirono sulla nave corsara di Italia viva, né è bastata a proteggere gli amici della prima ora, come Luca Lotti, che lo guardarono salpare. Perché è così che funziona, all’arrembaggio delle elezioni si va in massa ma ognuno è solo, e il momento è arrivato. E Renzi va avanti, pur accusando Enrico Letta di essere rancoroso.

Matteo è nato a Firenze l’11 gennaio 1975, Capricorno. È alto un metro e ottanta per più o meno ottanta chili. Segni particolari: rottamatore. Comincia a 17 anni, sul giornalino scolastico da lui fondato, Il divino mensile . È lì che firma il suo attacco da boy-scout ferito dal tracollo Dc alle elezioni: è ora di mandare a casa Forlani, Gava, Prandini e con loro tutti quelli che si oppongono al rinnovamento, vibra, spedendo in soffitta lo stile felpato della balena bianca. Certo, perde le elezioni scolastiche contro la lista di tal Leonardo Bieber, ma poi è una avanzata che manco Annibale. Così, come un barbaro alle porte, lo vede la parte Pd di discendenza Pci. Bersani per un po’ lo ferma ma poi è travolto, dalla tolda della Leopolda Matteo mette D’Alema nel mirino, e non lo ascolta nemmeno quando il lider Maximo quasi lo implora: ti candidiamo premier, ma lascia stare il partito.

Macché, il partito se lo prende, e dopo poco sfratta anche Enrico Letta da Palazzo Chigi. E giù record, è il più giovane di qua e di là, inanella incarichi e successi. Gli ottanta euro gli valgono il 40 per cento alle Europee. Per le sue relazioni internazionali gli ci vuole un super aereo, cinguetta e poi strappa con Silvio Berlusconi, puntando su Mattarella per la sua prima volta al Quirinale. Illude D’Alema, che mai glielo perdonerà, facendogli balenare la possibilità di diventare Alto rappresentante dell’Unione per gli affari esteri, preferendogli poi Federica Mogherini. Senza dimenticare che, quasi fanciullo, era già stato presidente della Provincia e sindaco di Firenze. Inarrestabile, dal Manzanarre al Reno, e anche autoritario, finché non si uniscono contro di lui tutte le tribù politiche e lo annientano nella Little Big Horn del referendum, preludio del Pd ai minimi termini. Tenta un velleitario rilancio con le elezioni anticipate, ma gli dicono che adesso basta così, tocca a Paolo Gentiloni.

Il motto di Epicuro, vivi nascosto, non gli appartiene. Matteo non è un boyscout, ma il più brillante dei boyscout, meglio di Qui, Quo e Qua giovani Marmotte. Ha appena 19 anni quando partecipa alla Ruota della fortuna, e come da copione ne diventa il campione. Quando deve scegliere una lettera dice A, come Agnese, Mike Bongiorno non perde l’occasione e lui rivela che si tratta della donna che diventerà sua moglie. Lo stesso Mike nazionale gli grida «Buuu, un campione come lei...», quando inciampa su una risposta e perde. Lui torna a casa con 48 milioni e quattrocento mila lire in gettoni d’oro. È profondamente cattolico ma con il denaro ha un rapporto calvinista: il segno della grazia divina è la ricchezza, il benessere generato dal lavoro. Sia che derivi dai suoi incarichi, dai libri che scrive, dai programmi tv che realizza, la casa che compra, dalle conferenze che fa attirandosi polemiche per un agiografico Rinascimento arabo sorvolando sui diritti umani.

Attira simpatie e ironie quando si presenta da Maria De Filippi con il giubbetto di Fonzie. Pensa che sia meglio perdere un amico che una battuta: «Non si trova un cappotto, Franceschini ha già un alibi». Oppure: «Yum, mi compro i popcorn per assistere al duello tra Fioroni e D’Alema su socialisti e popolari in Europa». Quelli che fanno la scissione li bolla come i «bambini che quando perdono se ne vanno portandosi via il pallone», salvo poi portarsene via lui parecchie decine, di palloni, quando fonda Italia viva all’indomani della nascita del governo Cinque stelle-Pd, di cui era stato demiurgo. Tutela come una chioccia-tigre la sua famiglia contro l’invasione della privacy, il rapporto di affetto con il padre Tiziano ha qualche conflittualità, con Matteo che gli chiede di ricordarsi che lui fa il premier e con l’anziano genitore che gli dice che non intende andare in pensione perché lui sta a Palazzo Chigi.

Ma poi eccola la seconda vita politica di Matteo il senatore, alla guida di una goletta corsara che non disdegna la tattica della Quinta colonna, pur senza paragone alcuno con il suo inventore, quel generale Mola che disse che le sue truppe all’interno di Madrid assediata si aggiungevano alle quattro colonne militari del generalissimo Franco. Le truppe di Renzi, in un’evoluzione del concetto si intrufolano negli schieramenti e non sai mai fino a quando ti aiuteranno e quando invece morderanno la mano, naturalmente sempre in nome di un bene superiore. Quando il Pd a guida Zingaretti si dispone tra mille titubanze a varare la maggioranza con i Cinque stelle, a condizione che il premier non fosse lo stesso che aveva governato con Salvini, è il realismo di Matteo a premere perché se questa roba deve nascere, la levatrice deve essere ancora Giuseppe Conte. Che poi affonderà, fino all’epilogo ormai scontato: la nascita del governo di larghe intese. E ancora, la Lega, che gli è grata quando dice che la prima mossa per scegliere il nuovo presidente della Repubblica spetta a Salvini, attirandosi sospetti di intelligenza con il nemico, salvo poi guardarlo annaspare fino alla conferma di Sergio Mattarella.

Infine la caduta di Mario Draghi, con il repentino tuffo nelle elezioni anticipate. Un brivido corre tra gli emicicli della politica: in tanta disgrazia almeno una cosa positiva c’è, stavolta Matteo ce lo leviamo dalle scatole, vogliamo vedere come fa ad arrivare al tre per cento, che sta pure antipatico a tutti. Ma poi, in zona Cesarini, arriva l’accordo con Carlo Calenda. E, come Indro Montanelli scriveva di Amintore Fanfani: Rieccolo!

Estratto dell’articolo di Valeria Pacelli per il “Fatto quotidiano” il 23 luglio 2022.

[…]

Mentre Consip procede, c'è invece un'indagine a Roma che interessa - stavolta da indagato (a differenza del processo contro suo padre) - Matteo Renzi.

È quella su alcuni rapporti contrattuali tra l'ex premier e la Arcobaleno Tre srl (società di cui è amministratore unico il figlio dell'agente dei vip Lucio Presta) e che la procura ritiene "fittizi". I pm sospettano che dietro si nasconda un finanziamento illecito, reato per il quale sono indagati Renzi e Presta. È di questi giorni una novità: i magistrati hanno fissato per il mese di luglio l'interrogatorio di Lucio Presta.

Nel libro “Il Mostro” Renzi diventa Moby Dick per dei PM Achab. Sciltian Gastaldi, Insegnante, giornalista e scrittore, su Il Riformista l'1 Luglio 2022 

“Ho scritto questo libro per chi mi odia, non per chi mi vuole bene.” (p. 185) E’ forse in questa dichiarazione di Matteo Renzi verso la fine di Il Mostro. Inchieste, scandali e dossier. Come provano a distruggerti l’immagine (Piemme, 2022, p. 188, € 17,90) la chiave di uno dei libri più eccentrici e spaventosi che abbia mai letto, scritto da un uomo politico.

Un lungo elenco di fatti, di nomi e cognomi

A che genere appartiene questo volume, infatti? Potremmo dire un memoriale autobiografico di un senatore di Firenze. Ma qui non c’è solo il racconto dal punto di vista dell’autore. Qui c’è un lungo elenco di fatti, di citazioni di atti attribuiti a dei magistrati e dei giornalisti, a oggi non contestati da nessuna delle persone che vengono citate per nome e cognome. Un elenco sobrio che, al termine, fa esclamare anche al più cinico e avvezzo dei recensori “Mamma mia, mamma mia, mamma mia.” Il motivo per cui questo saggio di Matteo Renzi è un libro in vetta alle classifiche dei saggi è che racconta una storia che sembra fantasy. Sembra impossibile. E quindi, è avvincente come un giallo. Una perfetta lettura da ombrellone.

La storia di un’ossessione

Viene fuori la storia di un’ossessione, quella di alcuni magistrati di Firenze – nello specifico i pubblici ministeri Giuseppe Creazzo, Antonino Nastasi soprannominato “nitidamente” e Luca Turco – nei confronti di un membro del Parlamento (e alcuni suoi amici e parenti) contro il quale vengono istruite una serie di indagini che sembrano non rispettare (prima o poi ci sarà un giudice a Genova che deciderà di investigare sulla cosa?) la legge sul segreto bancario, la legge sulla privacy, e la Costituzione. Il tutto propagandato da parte di una serie di talk show (su tutti, Otto e mezzo su La7) e di “giornali” che hanno dato il massimo spazio alle accuse omettendo in modo sistematico le cinque censure della Corte di Cassazione contro i PM accusatori.

Renzi come Moby Dick

Ecco dunque che Renzi diventa come Moby Dick per alcuni PM Achab, e la corrente di Magistratura Democratica prende la fisionomia del vessillo Pequod. Quali sono le colpe di Renzi Matteo? Aver fatto o provato a fare alcune riforme invise alla magistratura e alla Banca d’Italia. Si parte dal tentativo di nomina come ministro Guardasigilli nel governo Renzi del magistrato Nicola Gratteri. Il procuratore anti-ndrangheta della Repubblica di Catanzaro non era (e non è) gradito alle correnti – e soprattutto a Magistratura Democratica – in quanto uomo indipendente e determinato a riformare il CSM e la giustizia italiana in un senso ben preciso: «Gratteri aveva idee rivoluzionarie: avremmo lavorato per il sorteggio al Csm, così da spezzare il meccanismo delle correnti. Avremmo rivoluzionato la responsabilità del magistrato che sbaglia» (p. 34). Si oppone a Gratteri il cosiddetto “sistema” della magistratura, come spiega colui che ne fu uno dei capi in quegli anni, Luca Palamara.

La versione di Palamara: quando il “sistema” si fa eversore

Lo dichiara nell’altro libro scandalo da leggere di questi ultimi due anni, scritto con Alessandro Sallusti: Il sistema. Potere, politica, affari. Storia segreta della magistratura italiana (Rizzoli, 2021, 288pp., €18,05). Lì Palamara chiede retoricamente al suo intervistatore: “Poteva un «Sistema» che aveva combattuto e vinto la guerra con Berlusconi e le sue armate farsi mettere i piedi in testa da Matteo Renzi e da un collega [Nicola Gratteri, nda], molto bravo ma anche molto autonomo, fuori dalle correnti e per di più intenzionato a fare rivoluzioni?” (p. 108 del PDF).

Dunque furono fatte pressioni da molti magistrati potenti (fra gli altri, sembra, anche Giuseppe Pignatone, all’epoca procuratore di Roma e attuale presidente del tribunale del Vaticano) sull’allora Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, affinché Gratteri non facesse parte della compagine del governo Renzi. Palamara chiarisce il punto politico della questione: “[…] Renzi con quella mossa sfida il sistema delle correnti e dei grandi procuratori, che da sempre vengono consultati preventivamente dal premier incaricato o da chi per lui per dare il gradimento a un nuovo ministro della Giustizia. Dopo aver asfaltato, o almeno pensato di aver asfaltato il Pd, Renzi prova a fare altrettanto con la magistratura: qui ora comando io. E no, non funziona così.” (p. 109). Palamara prosegue poi ricordando che Magistratura Democratica aveva come riferimento “il vecchio apparato comunista e post-comunista che lui stava rottamando. Parliamo di gente che al Partito comunista prima e al PD poi la linea la dettava, non la subiva”. (p. 109).

Quel che “il sistema” non consente a Renzi

Se per il “sistema” di quello che Palamara chiama “il massimalismo giustizialista” (p. 110) il tentativo di nominare Gratteri è già lesa maestà, il Rubicone sarà rappresentato dalla riforma che pone un tetto a 240.000€ annui agli stipendi del pubblico impiego (che tocca anche i magistrati, ovviamente) e il contestuale taglio delle ferie dei magistrati, da 45 a 30 giorni feriali annui. Questa riforma è malissimo digerita dalla corporazione, soprattutto rappresentata dalle stizzite parole di Piercamillo Davigo: “Perché il nostro datore di lavoro deve tagliarci le ferie senza consultarci?” (p. 25 del libro di Renzi), cui si potrebbe rispondere “per via della suddivisione dei poteri prevista in Costituzione, che consente all’esecutivo e al legislativo di operare decisioni di questo tipo senza chiedere il permesso del giudiziario”.

Il “cordone sanitario”

Ecco dunque che Renzi-Moby Dick viene arpionato in molti modi diversi: colpendogli la famiglia, con provvedimenti di incarcerazione preventiva dei genitori settantenni che saranno subito cancellati dal Tribunale del riesame. E’ forse una delle componenti del “cordone sanitario” da mettergli attorno, come scrisse il magistrato Nello Rossi sulla rivista di Magistratura Democratica Questione Giustizia?

Poi sostenendo che la fondazione Open fosse in realtà una corrente di partito del PD, cosa che avrebbe comportato l’uso di un modulo differente per poter accettare le donazioni degli italiani che la finanziarono. Renzi sottolinea come la Corte di Cassazione abbia annullato per ben cinque volte le decisioni dei PM di Firenze su questa indagine. “Cinque volte solo nelle indagini preliminari. Ci rendiamo conto?” (p. 17), cosa che fa presupporre che l’inchiesta su Open terminerà, quando terminerà, con un’assoluzione piena dell’imputato.

Il ruolo da grancassa diffamatrice di certa “stampa”

E ancora: il sequestro dei telefonini e dei computer di vari amici di Renzi, poi regolarmente annullati dalla Corte di Cassazione. La pubblicazione sul Fatto Quotidiano, diretta dal diffamatore seriale Marco Travaglio, in spregio alle leggi sul segreto bancario e sulla privacy, dei movimenti bancari del conto corrente privato di Renzi, alla ricerca di una voce di spesa in qualche modo imbarazzante: una prestazione medica pericolosa o di cui vergognarsi, un bonifico in più fatto a un figlio rispetto a un altro, l’acquisto di qualcosa di scabroso: tutte operazioni che, nonostante il fine setaccio, non vengono trovate.

Si arriva alla fine del volume Il Mostro nella consapevolezza che se l’autore si fosse chiamato Mario Rossi e non Matteo Renzi, questo libro sarebbe stato una bomba. L’ultimo capitolo, intitolato “Riassunto” ripropone i 20 fatti eclatanti che nessuno dei citati in questo libro-denuncia ha finora potuto o voluto contestare. Davvero uno scandalo.

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L’inefficienza dell’Ufficio Stampa di Piemme

PS Questa recensione è stata pubblicata solo oggi, a più di un mese dall’uscita del volume, a causa della totale inefficienza dell’Ufficio Stampa delle Edizioni Piemme, gruppo Mondadori. Da giornalista professionista, ho chiesto una copia recensione del volume a partire dall’8 maggio e ho scritto a Francesca Leo, la responsabile per l’Ufficio Stampa dei libri di Renzi per Piemme fino al volume precedente. Ho ricevuto una mail automatica di risposta che invitava a scrivere a Chiara Castellani, alla quale ho spedito la bellezza di nove mail (dall’8 maggio al 7 giugno) chiedendole la cortesia di spedire una copia recensione al mio indirizzo romano. Castellani ha replicato per la prima volta solo il 17 maggio, sostenendo di non essere lei la responsabile del volume di Renzi, ma rifiutandosi di darmi il nominativo della nuova responsabile e soprattutto omettendo (!!!) la spedizione della copia richiesta. Alla fine il libro me lo sono dovuto comprare il giorno 10 giugno per poterlo leggere. Di norma sono gli Uffici stampa a rincorrere i giornalisti per ottenere delle recensioni stampa, non il contrario. Senatore Renzi, doveva immaginarselo che pubblicare per un editore il cui nome si legge come “PM” non poteva essere una grande idea…

Da Renzi nuovo esposto contro i pm di Open: «Atti illegittimi al Copasir». Il leader di Italia viva ha chiesto al procuratore di Genova Francesco Pinto di verificare l’eventuale sussistenza dei reati di abuso d’ufficio, rifiuto d’atti d’ufficio e mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, tutti procedibili d’ufficio. Simona Musco su Il Dubbio l'1 luglio 2022.

Matteo Renzi presenta un nuovo esposto contro i pm fiorentini titolari dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Al centro delle rimostranze del leader di Italia viva c’è l’invio al Copasir, da parte del procuratore aggiunto Luca Turco, di materiale relativo all’indagine e che la Cassazione aveva ordinato espressamente di restituire a Marco Carrai – ex componente del Consiglio direttivo di Open – «senza trattenimento di copia dei dati», in quanto frutto di un sequestro illegittimo. Con il suo esposto, dunque, Renzi ha chiesto al procuratore di Genova Francesco Pinto di verificare l’eventuale sussistenza dei reati di abuso d’ufficio, rifiuto d’atti d’ufficio e mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, tutti procedibili d’ufficio. Ma non solo: l’ex presidente del Consiglio ha anche chiesto di essere sentito, per esporre nel dettaglio i fatti contestati.

«Nel materiale inviato dal dottor Turco al Copasir vi sarebbero anche documenti che riguardano il sottoscritto – ha sottolineato Renzi -, ma che la Corte di Cassazione aveva già deciso di eliminare dal fascicolo con decisione assunta in data 18 febbraio». Nel caso in cui tali documenti fossero stati realmente inviati al Copasir, afferma dunque Renzi, «saremmo davanti ad un fatto gravissimo. L’invio ai membri del Copasir arreca un danno ingiusto al sottoscritto perché in violazione di un preciso ordine della Suprema Corte – veniva fatto circolare materiale illegittimamente acquisito, che doveva essere restituito al proprietario, senza alcuna possibilità di conservazione da parte dell’Ufficio che, anzi, avrebbe dovuto ordinare la distruzione delle copie in suo possesso. Il fatto che questo materiale contenesse informazioni sensibili quali messaggistica, corrispondenza e documenti del sottoscritto era evidente come è palese che, almeno in questo caso, non possa sussistere alcun dubbio sull’elemento psicologico: il Procuratore sapeva che quel materiale andava distrutto, sapeva che riguardava (anche) il sottoscritto, sapeva che avrebbe creato un pregiudizio alla mia persona e alla mia attività politica oltre che alla mia reputazione professionale».

Renzi aveva già presentato un esposto contro l’ex procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Turco e il sostituto Antonino Nastasi contestando l’abuso d’ufficio: secondo il senatore di Rignano sull’Arno, infatti, i magistrati avrebbero aggirato le guarentigie parlamentari (fatto confermato anche dal Senato, che ha sollevato il conflitto di attribuzioni davanti alla Corte costituzionale), sequestrando quattro mail ricevute da Renzi nell’agosto 2019, a lui inviate da Carrai e acquisite senza previa autorizzazione del Senato, una nota della polizia giudiziaria in cui si riferisce del decreto di acquisizione del suo intero estratto conto bancario del periodo 2018- 2020, firmato l’ 11 gennaio 2021, l’acquisizione dei messaggi Whatsapp scambiati con l’imprenditore Vincenzo Ugo Manes in occasione di un viaggio a Washington nella tarda primavera del 2018 e quelli scambiati con Carrai.

Il primo giugno, però, il gip ha archiviato la denuncia: secondo il giudice, le chat intercorse tra Vincenzo Manes e Renzi, nonché quelle tra Marco Carrai e il leader di Italia Viva sono utilizzabili in quanto «non si tratta evidentemente di sequestro di corrispondenza effettuato direttamente nei confronti del senatore Renzi». Ma non solo: secondo il giudice, «non si tratta nemmeno di comunicazioni e di corrispondenza», in quanto «la giurisprudenza ha chiarito che i messaggi di posta elettronica memorizzati nelle cartelle dell’account o nel computer del mittente ovvero del destinatario, costituiscono meri documenti informatici, intesi in senso statico, dunque acquisibili ai sensi dell’art. 234 c. p. p.».

La richiesta di autorizzazione, dunque, non sarebbe stata necessaria e in ogni caso non ci sarebbero elementi per sostenere, secondo il giudice, che i magistrati stessero cercando proprio Renzi acquisendo quei dati. Considerazioni che però non avevano convinto il leader di Italia viva, che in una memoria di oltre 100mila pagine aveva evidenziato come «l’acquisizione “mirata” di corrispondenza e documentazione di parlamentari in violazione delle guarentigie costituzionali è stata ripetuta e reiterata a cominciare dalle parole chiave immesse per la ricerca nei cellulari e, più in generale, nei supporti informatici sequestrati». E «sistematicamente» sono stati immessi «i nomi dei parlamentari ( coinvolti nell’indagine), per una captazione che è tutt’altro che casuale e indiretta» .

Renzi al contrattacco della toga di Firenze. Francesco Boezi l'1 Luglio 2022 su Il Giornale.

L'ex premier: "Il pm Turco non ha distrutto atti che mi riguardavano".

Nell'ambito di quello che insigni giuristi hanno definito un «processo alla politica», arriva una nuova puntata che riguarda proprio il rapporto tra la politica e la magistratura. Il leader di Iv Matteo Renzi ha presentato un esposto al Procuratore di Genova, in merito alla possibilità che almeno una parte del «materiale» inviato dal pm Luca Turco al Copasir contenga, in fin dei conti, gli stessi «documenti» che la Cassazione, con un atto che risale peraltro a febbraio scorso, aveva di fatto già disposto di «estromettere dal fascicolo». Si tratterebbe insomma di materiale che non sarebbe dovuto finire al Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica. Quello che è presieduto dal senatore Adolfo Urso. Se non altro per via di quanto deciso ai tempi dalla Suprema Corte. L'ex presidente del Consiglio ha sottolineato che «lo scorso 8 marzo 2022, il Procuratore aggiunto presso la Repubblica di Firenze, dottor Luca Turco, avrebbe inviato al Copasir materiale d'indagine del procedimento sulla cosiddetta Fondazione Open...». Poi l'accusa, che comunque tiene conto dei condizionali: «Ove questa informazione risultasse corretta, infatti - aggiunge il fondatore d'Iv - saremmo davanti ad un atto gravissimo». Prima ancora di chiedere di essere sentito dalla Procura, l'ex premier elenca una serie di motivazioni: «L'invio ai membri del Copasir arreca un danno ingiusto al sottoscritto perché - in violazione di un preciso ordine della Suprema Corte - veniva fatto circolare materiale illegittimamente acquisito, che doveva essere restituito al proprietario, senza alcuna possibilità di conservazione da parte dell'Ufficio che - incalza Renzi - anzi, avrebbe dovuto ordinare la distruzione delle copie in suo possesso».

Ma non è tutto. Il leader politico, all'interno dell'esposto che è stato inoltrato a Genova, sciorina poi considerazioni ulteriori: «Il Procuratore sapeva che quel materiale andava distrutto, sapeva che riguardava (anche) il sottoscritto, sapeva che avrebbe creato un pregiudizio alla mia persona e alla mia attività politica, oltre che alla mia reputazione professionale». In chiusura, c'è una richiesta specifica: dopo un' elencazione delle fattispecie che potrebbero interessare il caso, Matteo Renzi ha domandato «espressamente» di essere «sentito».

I giudici avevano stabilito di restituirle a Carrai. Caso Renzi, la Cassazione ordina la distruzione delle carte ma i Pm le inviano al Copasir. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 2 Luglio 2022. 

Il Mostro di Matteo Renzi – libro dal record di vendite – potrebbe contare già su una seconda edizione. Il materiale non manca. I capitoli nuovi si sommano con una certa velocità, mentre gli ingranaggi della macchina giudiziaria rimangono lanciati a tutto vapore contro il senatore fiorentino. Costretto adesso a presentare un nuovo esposto contro i pm titolari dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Caso noto, Open è nel mirino da tempo; rintuzzati dalla Cassazione, i pm fiorentini che la indagano starebbero però inanellando qualche errore di troppo.

Renzi vuole rispondere – come ama ripetere – “colpo su colpo”. E ha così inviato una nuova carta bollata per denunciare come il procuratore aggiunto Luca Turco abbia aggirato l’ordinanza della Cassazione inviando al Copasir il materiale relativo all’indagine malgrado la suprema Corte avesse ordinato espressamente di restituirlo al legittimo proprietario, Marco Carrai. L’ex componente del consiglio direttivo di Open, Carrai, aveva infatti ottenuto ragione, vedendosi riconosciuto esplicitamente il dissequestro da eseguirsi “senza trattenimento di copia dei dati”, risultanti appunto da un sequestro illegittimo. Con il suo esposto, dunque, Renzi ha chiesto al procuratore di Genova Francesco Pinto di verificare l’eventuale sussistenza dei reati di abuso d’ufficio, rifiuto di atti d’ ufficio e mancata esecuzione dolosa di un provvedimento del giudice, tutti di procedibilità ufficio. E Renzi non si limita a questo, ma fa presente di avere chiesto di essere sentito per esporre nel dettaglio i fatti contestati.

“Nel materiale inviato dal dottor Turco al Copasir vi sarebbero anche documenti che riguardano il sottoscritto”, ha reso noto Renzi, “ma che la corte di Cassazione aveva già deciso di eliminare dal fascicolo con decisione assunta in data 18 febbraio”. Nel caso in cui tali documenti fossero stati realmente inviati al Copasir, afferma dunque Renzi, “saremmo davanti ad un fatto gravissimo. L’invio ai membri del Copasir arreca un danno ingiusto al sottoscritto perché in violazione di un preciso ordine della suprema corte veniva fatto circolare materiale illegittimamente acquisito, che doveva essere restituito al proprietario, senza alcuna possibilità di conservazione da parte dell’ufficio che, anzi, avrebbe dovuto ordinare la distruzione della copia in suo possesso”. Prosegue l’istanza dell’ex presidente del Consiglio: “Il fatto che questo materiale contenesse informazioni sensibili quali messaggistica, corrispondenza e documenti del sottoscritto era evidente, come è palese che, almeno in questo caso, non possa sussistere alcun dubbio sull’elemento psicologico: il procuratore sapeva che quel materiale andava distrutto, sapeva che riguardava anche il sottoscritto , sapeva che avrebbe creato un pregiudizio alla mia persona e alla mia attività politica oltre che alla mia reputazione professionale”.

Il ricorso segue un atto precedente: Renzi aveva già presentato un esposto contro l’ ex procuratore capo di Firenze, Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Turco e il sostituto Antonino Nastasi contestando l’ abuso d’ ufficio: secondo il leader di Italia Viva, infatti, i magistrati avrebbero aggirato le guarentigie parlamentari. Fatto peraltro confermato anche dal Senato, che ha sollevato il conflitto di attribuzioni davanti alla corte costituzionale. L’aggiramento delle guarentigie si verifica con il sequestro di quattro mail ricevute da Renzi nell’agosto 2019, a lui inviate da Carrai e acquisite senza previa autorizzazione del Senato, una nota della polizia giudiziaria in cui si riferisce del decreto di acquisizione del suo intero estratto conto bancario del periodo 2018-2020 firmato l’11 gennaio 2021, l’acquisizione dei messaggi WhatsApp scambiati con l’imprenditore Vincenzo Ugo Manes in occasione di un viaggio a Washington nella tarda primavera del 2018 e quelli scambiati con Carrai. Il 1 giugno, però, il Gip ha archiviato la denuncia: secondo il giudice, le chat intercorse tra Vincenzo Ugo Manes e Renzi, nonché quelle tra Marco Carrai e il leader di Italia viva sono utilizzabili in quanto “non si tratta evidentemente di sequestro di corrispondenza effettuato direttamente nei confronti del senatore Renzi”.

Insomma, il fatto che si tratti di mail inviate o ricevute dal senatore Renzi è una pura casualità, una coincidenza fortuita, non voluta. Ma non solo: secondo il giudice, non si tratta nemmeno di comunicazioni e di corrispondenza “in quanto la giurisprudenza ha chiarito che i messaggi di posta elettronica memorizzati nelle cartelle dell’account o nel computer del mittente ovvero del destinatario, costituiscono meri documenti informatici, intesi in senso statico, dunque acquisibili ai sensi dell’Art. 234 c.p.p.”. La mail, spiegano i giuristi, non va confusa con la sua traduzione inglese, “posta elettronica”, “corrispondenza”. No, no. Si tratta di documenti statici. La richiesta di autorizzazione – deriva dunque dall’argomento delle toghe coinvolte – non sarebbe stata necessaria in ogni caso. Non ci sarebbero infatti elementi per sostenere, stando all’assunto del giudice, che i magistrati stessero cercando proprio Renzi con quella loro attività di acquisizione dei dati.

Considerazioni che – comprensibilmente – non hanno convinto il leader di Italia Viva, che in una memoria di oltre 100mila pagine aveva evidenziato come “l’acquisizione mirata di corrispondenza e documentazione di parlamentari in violazione delle guarenti legge costituzionale è stata ripetuta reiterata”. Non si tratta d’altronde dell’unica zampata della magistratura alle guarentigie parlamentari. Proprio il Senato, che sembra diventato all’improvviso Terra di nessuno, alla mercé delle scorribande togate, vede anche il senatore dem Stefano Esposito subire un simile trattamento. La vicenda che lo ha riguardato, mettendolo al centro di una innumerevole sequenza di intercettazioni, trae origine da una inchiesta della Procura di Torino. L’indagine a carico dell’imprenditore dello spettacolo Giulio Muttoni ha permesso ai magistrati di mettere sotto la lente – e il microfono – l’attività del senatore Esposito nel pieno del suo mandato parlamentare. Tra il 2015 e il 2018 notte e giorno la sua utenza è stata registrata, con oltre 500 files depositati dalla polizia giudiziaria. Una attività illecita, stando alla giunta per le immunità di Palazzo Madama che adesso, anche su questo incredibile episodio, è determinata ad andare in fondo.

Il Senato ha sollevato il conflitto di attribuzione dinanzi alla Corte costituzionale con 117 voti a favore, 37 contrari e otto astenuti. Votando così una relazione molto dura che investe anche il Csm di una verifica sulle incongruenze di questo caso. Il senatore Giuseppe Cucca, Italia Viva, si è scaldato illustrando la relazione: “Si è manifestata una palese violazione della Costituzione perché il Senatore Esposito è stato sottoposto ad intercettazione dal 2015 al 2018 mentre era ancora Senatore quindi avrebbero dovuto chiedere un’autorizzazione preventiva. Quando è stato chiesto reiteratamente che venisse trasmesso tutto alla Giunta, il giudice prima non ha risposto e poi ha fatto una questione di merito disattendendo le richieste parlamentari”. Sorprendenti le parole del senatore Pietro Grasso, che dalla magistratura proviene e che è solitamente meno severo nel criticare certi eccessi. Stavolta è stato proprio lui, prima in Giunta e poi in aula, a chiedere la trasmissione degli atti al Csm.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Estratto dell’articolo di Daniela Ranieri per “il Fatto quotidiano” il 17 giugno 2022.

[…] Dopo le amministrative, è tornato il mito del Grande Centro Riformista, schizofrenicamente scisso tra i due suoi maggiori (si fa per dire) rappresentanti: Renzi, che da quando si è ritirato dalla politica viene intervistato da tre quotidiani al giorno; e Calenda. […] 

[…] l'ex di Confindustria, Ferrari, Sky, Montezemolo, Monti, già viceministro di Letta e Renzi, poi da questi fatto Rappresentante permanente presso la Ue (con disappunto dei veri diplomatici), dunque creato ministro neoliberista dell'Eccellenza, prende la tessera del Pd, si fa eleggere al Parlamento europeo coi voti del Pd, ma con un simbolo proprio (Siamo europei), e pochi mesi dopo, alla formazione del governo coi 5Stelle, lascia il Pd, cambia nome al suo partito personale (Azione), ma non si dimette da europarlamentare; […] si candida a sindaco di Roma […] perde […] e annuncia che non farà il consigliere comunale, buttando a fiume 220mila voti di romani, salvo poi ripensarci e giurare di restare, salvo poi ri-ripensarci e dimettersi (il suo slogan era: "Roma, sul serio"). 

Rabelais lo avrebbe preso ad archetipo del personaggio garrulo, pasticcione, inaffidabile, fallimentare, cazzaro per sua stessa dichiarazione ("Ho sostenuto per 30 anni le cazzate dei neoliberisti"), […] invece per i nostri giornali è un leader di ragguardevole carisma e autorevolezza […]

[…] come ha dimostrato Youtrend, […] Calenda ha appoggiato candidati arrivati secondi o terzi insieme ad altre liste, o non ha presentato il simbolo, e ha preso lo 0,4% a livello nazionale. […] Passiamo a Renzi: Repubblica lo intervista in qualità di vincitore morale e ago della bilancia, alimentando la sua mitomania elettorale; in realtà s' è presentato col simbolo del suo non-partito in sole 9 città sulle 971 al voto; in altre, ha adottato la solita strategia parassitaria: a Genova ha appoggiato Bucci, candidato di Lega, Fratelli d'Italia e Forza Italia; a Lodi il candidato di centrosinistra; a Rieti quello di centrodestra; in nessun caso è stato determinante. 

Eppure, queste due schiappe della politica sono gli idoli dei giornali, che schifano i 5Stelle e vogliono impedire che il Pd si sposti a sinistra […] Da anni pompano gente "di centro" che nella realtà fisica non esiste (Pisapia - che doveva "federare" il Pd con Renzi - Monti, Passera, Bonino, Gori, Sala, etc.). […]

Ci si guarda bene dal dire la verità: Azione e Iv sono partiti di plastica costruiti sui nomi, ancorché scarsi, dei loro leader; sono scatole vuote, senza radicamento, che alle elezioni si agganciano a questo o a quel cacicco locale senza scrupoli e schizzinosità, tanto possono contare su una campagna elettorale permanente e gratuita. […] 

Renzi contro i magistrati di Firenze, il gip di Genova archivia definitivamente le accuse del senatore. Marco Lignana su La Repubblica il 31 maggio 2022.

Il procedimento aperto da un esposto di Renzi contro i pm fiorentini che hanno indagato sulla Fondazione Open. La replica: "Non mi fermo, presenterò altre denunce"

Anche il giudice per le indagini preliminari, così come la Procura di Genova, ci ha messo ben poco ad archiviare la denuncia di Renzi contro i pm fiorentini che indagano sulla fondazione Open: e così adesso la partita "ligure" aperta dall'ex premier è davvero chiusa

Il gip Claudio Siclari ha sposato in toto quanto motivato dai pm Francesco Pinto e Vittorio Ranieri Miniati: non sono state violate le garanzie costituzionali del senatore di Italia Viva durante l'inchiesta di Firenze, perché chat e messaggi su WhatsApp fra Renzi e imprenditori come Vinvenzo Manes e Marco Carrai sono stati acquisiti non direttamente al senatore, ma ai suoi interlocutori. E in ogni caso per il gip "non si tratta nemmeno di comunicazioni e corrispondenza".

In più, scrive il gip, "va escluso che si trattasse di 'acquisizioni cosiddette mirate' di corrispondenza di parlamentari, posto che nel caso concreto la perquisizione a carico a Manes è stata effettuata nell'anno 2019, epoca in cui Renzi non era statao ancora iscritto nel registro delle persone sottoposte ad indagini".

Nessun abuso di ufficio quindi è stato compiuto dal procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, l'aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi.

Lo stesso Renzi, però, non si arrende: "La decisione del Gip di Genova era scontata dopo la frettolosa richiesta dei colleghi genovesi.

Lette le motivazioni dell'ordinanza, giuridicamente molto deboli e contraddittorie, ripresenteremo la questione a Genova dopo che la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sul conflitto di attribuzione.

E chiederemo conto dell'invio illegittimo al Copasir di atti che la Corte di Cassazione aveva ordinato di distruggere e che i magistrati fiorentini hanno inviato dopo la sentenza della Cassazione. In questo caso è tecnicamente impossibile escludere il dolo dei Pm fiorentini come invece fa oggi il Gip. L'archiviazione genovese di questa denuncia era attesa, nelle prossime settimane vedremo se circa le prossime denunce (in arrivo o già arrivate a Genova) prevarrà il corporativismo tra colleghi o il merito delle denunce"

(ANSA l'1 giugno 2022) - "Intanto, i giudici di Genova hanno "stranamente" dato ragione ai colleghi fiorentini, dicendo che un sms o un Whatsapp o un messaggio di post elettronica non sono comunicazioni o corrispondenza. In realtà, ci sono decine di sentenze in cui la Cassazione chiede di considerare Whatsapp come posta privata. 

Ma, quando il Whatsapp è quello di un parlamentare fiorentino, evidentemente le sentenze si interpretano. Buttandola sul ridere, potrei dire che nel 2022 per i giudici di Genova si definisce comunicazione o corrispondenza solo il piccione viaggiatore, i segnali di fumo e l'alfabeto Morse.

Ma, siccome voglio essere serio, aspetterò la sentenza della Corte Costituzionale e tornerò alla carica con una nuova denuncia. Nel frattempo, denuncerò di nuovo i giudici di Firenze per aver nuovamente fatto circolare il mio estratto conto bancario, inviandolo al Copasir, dopo che la Cassazione aveva chiesto di non trattenerlo. Se pensano di fermarmi, non mi conoscono". Lo scrive il leader di Iv Matteo Renzi nella Enews.

Valeria Pacelli per “il Fatto quotidiano” l'1 giugno 2022.  

"I magistrati di Firenze hanno violato la Costituzione e le leggi, dovranno risponderne a Genova". Aveva pochi dubbi Matteo Renzi nella sua e-news del 4 aprile. A distanza di due mesi, a smentire il leader di Italia Viva è il Gip di Genova, Claudio Siclari, che ha archiviato i tre pm fiorentini.

L'indagine genovese è stata aperta dopo l'esposto di Renzi contro il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e i magistrati Luca Turco e Antonino Nastasi. Sono i tre magistrati che hanno firmato la richiesta di rinvio a giudizio per concorso in finanziamento illecito per l'ex premier e altri nell'ambito dell'indagine sulla Fondazione Open (è in corso l'udienza preliminare). 

 Il senatore li ha denunciati per violazione dell'articolo 68 della Costituzione (sulle guarentigie parlamentari) e abuso d'ufficio, lamentando che erano stati "acquisiti senza autorizzazione a procedere" alcuni messaggi Whatsapp come quelli con l'imprenditore Manes (non indagato) o con Marco Carrai (indagato per finanziamento illecito nell'indagine Open), come pure il suo estratto conto. 

I pm di Genova avevano chiesto l'archiviazione, ma Renzi si era opposto. E ieri il Gip nella sua ordinanza ha smontato molto di quanto sostenuto dall'ex premier in questi mesi. A partire dall'acquisizione delle chat. 

I messaggi. Era il 22 febbraio quando in Senato il leader di Italia Viva sintetizzava l'articolo 68 della Costituzione: "Non può essere acquisito senza il parere di quest' aula del materiale che riguarda la comunicazione, la corrispondenza di parlamentari". Il gip Siclari spiega però che quella agli atti dell'inchiesta Open non è corrispondenza, inoltre non si è trattato di perquisizioni contro un parlamentare. Dunque non era necessaria alcuna autorizzazione della Camera di appartenenza.

Scrive il Gip: "Non si tratta di sequestro di corrispondenza effettuato direttamente nei confronti di Renzi (...) Non si tratta nemmeno di comunicazioni e di corrispondenza, e comunque esse sono state captate in maniera indiretta, in quanto in primo luogo sono state acquisite presso persone che non rivestivano la qualità di parlamentari, e pertanto non era necessaria l'autorizzazione del Senato".

Le chat sono quelle estrapolate dal cellulare di Manes e di Carrai, il quale ha incassato una serie di pareri favorevoli della Cassazione, che ha ordinato la distruzione del materiale sequestrato. 

Ma torniamo a Genova. Il gip Siclari nella sua ordinanza ricorda anche che la giurisprudenza ha chiarito come le email memorizzate "nelle cartelle dell'account o nel computer del mittente, ovvero del destinatario, costituiscono meri documenti informatici, intesi in senso statico", dunque acquisibili senza dover passare dall'autorizzazione del Senato.

I conti. Il gip smentisce Renzi pure sulla questione dell'estratto conto agli atti dell'indagine Open. Giusto il 20 novembre, dal palco della Leopolda, il senatore diceva: "Prendono l'intero conto corrente di quello che peraltro è un parlamentare, per cui se vuoi sequestrare della documentazione hai delle procedure particolari da seguire". 

Non è d'accordo il gip di Genova: "Sul punto - scrive - la giurisprudenza ha precisato che la documentazione bancaria () non rientra nella nozione di corrispondenza, se non risulta (come nel caso concreto) che sia oggetto di spedizione al soggetto interessato". Dunque il suo sequestro non richiede, "ove l'interessato sia un membro del Parlamento, la previa autorizzazione della Camera a cui appartiene".

Infine il Gip precisa: "Anche a voler accedere alla tesi dell'opponente, che nel caso concreto si sia trattato di sequestro di corrispondenza () non è revocabile in dubbio che tale concetto, in riferimento ai messaggi Whatsapp e alle email , è concetto opinabile, tanto che è stato oggetto di sentenze della Cassazione che () ne ha interpretato il significato". Il Gip non è in linea neanche con la Giunta per le autorizzazioni, che ha già sollevato un conflitto di attribuzione (votato pure dal Senato) davanti alla Consulta. E vedremo come finirà. E intanto Renzi annuncia nuovi round: "Vedremo se per le prossime denunce prevarrà il corporativismo tra colleghi o il merito delle denunce".  

Lilli Gruber, il sospetto di Matteo Renzi: "Casualmente con Marco Travaglio..." Libero Quotidiano l'01 giugno 2022

Matteo Renzi si scaglia contro Lilli Gruber. Il leader di Italia Viva lancia alla conduttrice di Otto e Mezzo una frecciata tutt'altro che velata. Al centro il suo ultimo libro, "Il Mostro": "Qualcuno pensa che abbia scritto il falso, dica pubblicamente cosa non gli torna. Sono pronto a un dibattito all'americana con chiunque, da Conte a Meloni, da Letta a Salvini. Ci staranno?". Da qui l'invito al volto di La7: "E naturalmente aspetto l'invito di Lilli Gruber per un confronto sul libro con Travaglio, invito che casualmente non è ancora arrivato".

All'interno del libro l'ex premier torna a parlare dell'indagine sulla Fondazione Open, come di altri casi giudiziario che l'hanno visto protagonista negli ultimi anni. Ma Marco Travaglio cosa c'entra? Facendo un passo indietro, Renzi promette che denuncerà di nuovo i giudici di Firenze "per aver nuovamente fatto circolare il mio estratto conto bancario, inviandolo al Copasir, dopo che la Cassazione aveva chiesto di non trattenerlo". All'epoca, il suo estratto conto fu pubblicato dal Fatto Quotidiano, diretto proprio da Travaglio, manettaro per eccellenza.

"Hanno messo online il mio conto corrente, violando Costituzione e Leggi. Hanno scelto come testimone dell’accusa penale un avversario politico. Hanno captato comunicazioni e intercettazioni con un metodo che è stato contestato persino dalla Cassazione", erano state le parole di Renzi in risposta all'articolo del Fatto. E ad oggi non può che rincarare la dose. 

Salvatore Cannavò per ilfattoquotidiano.it il 18 agosto 2022.

La prima sentenza di una lunga serie di cause per diffamazione intentate da Matteo Renzi contro il direttore di questo giornale, Marco Travaglio, si è risolta a favore di quest’ultimo. Renzi non ci era andato leggero reclamando come risarcimento per essere stato definito in tv un “mitomane”, la somma di 500 mila euro. Il giudice della Seconda sezione civile del Tribunale di Firenze lo scorso 17 agosto ha rigettato la richiesta dando così ragione alla difesa di Travaglio.

Lo scontro tra i due era avvenuto nel corso della trasmissione Otto e Mezzo del 20 febbraio 2020 quando Renzi già manovrava per provocare la caduta del governo Conte (da lui stesso fatto nascere pochi mesi prima). “Tu, oggi, definisci Renzi un mitomane?”, chiedeva Gruber con riferimento al medesimo titolo del Fatto quotidiano. 

E Travaglio: “Si, è una forma di mitomania molesta che, probabilmente, risale a fattori prepolitici che andrebbero studiati da specialisti clinici. Probabilmente vuole farci pagare colpe ataviche, non so se lo prendevano in giro da bambino, non so se vuole farci pagare il fatto che gli italiani non lo hanno capito e lo hanno bocciato più volte, che il mondo non comprende il suo genio. Sta di fatto che lo spettacolo penoso di ieri sera denota, secondo me, una svolta che non può essere nemmeno definita più uno show, è una cosa penosa. Secondo me per l’igiene della politica bisognerebbe cominciare a fare una specie di silenzio stampa, cioè una moratoria nel continuare a mettere il microfono davanti a una persona che chiaramente non è compos sui, non è in sé”.

Renzi si è ritenuto diffamato dall’utilizzo delle parole “mitomane”, dalla definizione del suo comportamento come “penoso” e dall’utilizzo di espressioni come “ mitomania molesta”, “non è compos sui”, “non è in sé”. 

In genere la giurisprudenza opera quello che viene definito il “bilanciamento tra il diritto dell’attore a non esser leso nella sfera del decoro, dell’onore e dell’immagine pubblica ed il diritto del giornalista ad esprimere la propria opinione”.

Al giornalista, in base all’articolo 21 della Costituzione, viene garantito il diritto di critica – al di là della sola esposizione dei fatti, ambito in cui molti esponenti politici vorrebbero circoscrivere l’attività giornalistica – e anche l’utilizzo di un linguaggio “pungente e incisivo” a condizione che sussistano tre elementi di base: “l’interesse del racconto”, la “correttezza formale e sostanziale” dell’esposizione dei fatti e la “corrispondenza tra la narrazione e i fatti realmente accaduti”.

Questi tre canoni valgono anche per la critica che deve attenersi alla formulazione “di un motivato dissenso, senza risolversi in gratuita aggressione distruttiva dell’onore e della reputazione altrui”. 

Secondo il giudice, le frasi espresse da Travaglio, pur graffianti, forti e incisive, sono rimaste all’interno di questi criteri. “Tra le espressioni più forti ed incisive – si legge nella sentenza – non si riscontrano ingiurie, contumelie od epiteti scurrili né affermazioni che aggrediscano in termini universalmente oltraggiosi il patrimonio morale dell’attore”. Si tratta di un attacco politico “non personale” e che quindi va “ricondotto nell’alveo della critica politica”.

Il giudice ammette che la valutazione sulle espressioni più forti è complessa, ma ritiene che “nell’economia dell’intero discorso la “mitomania” è la causa e, quindi, la spiegazione della condotta politica di Renzi: in chiave sarcastica, è presentata come l’unica spiegazione possibile delle condotte descritte”. 

 Si tratta, insomma, di non soffermarsi sul semplice termine ma di inserirlo nel più generale contesto di critica politica. Certo, si legge, quando si fa riferimento a “fattori prepolitici”, “a colpe ataviche” o si fa riferimento a espressioni come “lo prendevano in giro da bambino” si tratta di “spunti che si collocano fuori dal perimetro della critica politica”. Ma, è qui sta il punto decisivo, “le espressioni in esame, pur connotandosi a tratti per un sarcasmo pungente, teso a dileggiare la figura del senatore Renzi, non risultano concretamente idonee a ledere la reputazione e l’onore di quest’ultimo”. Infatti “non hanno alcuna pretesa di veridicità”, Travaglio “non ha detto ciò con l’intento di convincere qualcuno circa il fondamento delle espressioni pronunciate, ma al solo fine di ironizzare sulle condotte e sulla figura di Renzi”. Il registro linguistico, “pur essendo a tratti graffiante e pur colorandosi di sarcasmo, è di fatto innocuo, non avendo – come si è detto – concreta idoneità lesiva rispetto all’onore ed alla reputazione dell’attore.

Renzi puntava con la sua azione giudiziaria a dare risalto al singolo termine e al suo potenziale diffamatorio, ma il Tribunale inserendo quei termini in un contesto complessivo e dando il giusto risalto al contenuto di critica politica ne ha escluso il “potenziale lesivo” respingendo la sua causa. Marco Travaglio è stato difeso dall’avvocato Caterina Malavenda.

Ultimo abuso dei pm. Si possono spiare senza permesso mail e chat di Renzi. Stefano Zurlo il 2 Giugno 2022 su Il Giornale.

Il teorema del gip: non sono corrispondenza. Il leader Iv: "Il piccione viaggiatore è valido?"

La corrispondenza di un parlamentare dovrebbe essere inespugnabile, come un castello dalle mura altissime. Ma quel che è certo, almeno a leggere la Costituzione, non è poi così sicuro nell'interpretazione dei giudici. Per il gip di Genova va bene così: le mail e i whatsapp di Matteo Renzi (nel tondo) sono stati sequestrati senza violare le norme che tutelano i parlamentari. C'è sempre una spiegazione tecnica, una precisazione, un distinguo che rendono plausibile quel che sarebbe vietato; il gip di Genova chiude quindi a razzo il procedimento innescato dalla denuncia di Renzi che si riteneva vittima delle incursioni dei pm di Firenze nell'ambito dell'inchiesta Open.

Niente da fare. Nel giro di sei giorni, sì proprio sei, i pm di Genova hanno completato l'indagine, motivando la celerità con la priorità che dev'essere accordata ai fascicoli riguardanti le toghe, e hanno chiesto l'archiviazione. Ora il giudice dà loro ragione e torto a Renzi che replica facendo sfoggio di sarcasmo: «Oggi i giudici hanno detto che whatsapp non è né comunicazione né conversazione né corrispondenza L'estratto bancario non lo è. Le email non lo sono. Che cosa rimane? Il piccione viaggiatore? I segnali di fumo? Sull'alfabeto morse si può ragionare».

Lo scontro era scoppiato a causa dei cinque sequestri, annullati e sconfessati dalla Cassazione: per Renzi erano state calpestate le sue prerogative di parlamentare e l' articolo 68 della Costituzione che blocca le intercettazioni, «in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e il sequestro delle corrispondenza».

La domanda è: in qualsiasi forma vuol dire sempre, come sembrerebbe logico? No, risponde il gip che spedisce in cantina le lamentele di Renzi, accerchiato dai pm: «Per quanto concerne l'acquisizione dello scambio di corrispondenza via whatsapp del giugno 2018 fra il senatore Renzi e il dottor Vincenzo Manes, lo scambio di corrispondenza via whatsapp, intercorsa fra il 2017 e il 2019, fra il senatore Renzi e il dottor Marco Carrai, lo scambio di corrispondenza via email dell'agosto 2019 fra il senatore Renzi e il dottor Marco Carrai, non si tratta evidentemente di sequestro di corrispondenza effettuato direttamente nei confronti di Renzi».

Insomma, la regola generale vale ma può essere capovolta situazione per situazione. «Nel caso concreto - prosegue l'ordinanza - non si tratta nemmeno di comunicazioni o di corrispondenza, e comunque esse sono state captate in maniera indiretta, in quanto in primo luogo sono state acquisite presso persone che non rivestivano la qualità di parlamentare e pertanto non era necessaria l'autorizzazione del Senato». Non basta: «In secondo luogo si è trattato di perquisizioni e non di intercettazioni».

Dunque, non c'è stato alcun abuso d'ufficio. Anche se parole, frasi e pure l'estratto conto sono finiti sui giornali.

Per Renzi un'inchiesta ammaccata, con cinque sequestri conclusi con altrettanti flop, si è trasformata in una pesca a strascico della sua corrispondenza, sfruttando la sponda dei suoi interlocutori. Ma per i giudici di Genova, tempio delle toghe rosse e vetrina di Magistratura democratica, non è accaduto nulla e non c'è stato alcun vulnus. O, se c'è stato, è solo la conseguenza di comportamenti rimasti sui binari della legge.

Anche la «documentazione bancaria - aggiunge il giudice - non rientra nella nozione di corrispondenza, se non risulta (come nel caso concreto) che sia stata oggetto di spedizione al soggetto interessato».

Io - rilancia Renzi - non ce l'ho con Magistratura democratica, è Magistratura democratica che ce l'ha con me. Se una corrente della magistratura dice che intorno a un avversario politico va stretto un cordone sanitario - come aveva scritto sulla rivista Questione giustizia Nello Rossi, a proposito dei rapporti fra l'ex premier e il principe ereditario saudita Bin Salman - siamo oltre il gioco democratico. Perché i magistrati non stringono cordoni sanitari, ma perseguono reati».

Il gip salva le toghe del caso Open. Ira di Renzi: "Processo politico". Francesco Curridori il 31 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'ira di Matteo Renzi dopo la decisione del gip di Genova di respingere l'opposizione da lui presentata contro i pm di Firenze che indagano sul caso Open.

Il gip del tribunale di Genova archivia l'indagine nei confronti dei pm di Firenze, aperta dopo un esposto presentato da Matteo Renzi riguardo l'inchiesta Open.

Per acquisire le chat del leader di Italia Viva“non era necessaria la preventiva autorizzazione del Senato”, spiega il giudice delle indagini preliminari di Genova, Claudio Siclari nella sua ordinanza di archiviazione che vede coinvolti ’ex procuratore di Firenze (ora a Reggio Calabria) Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi. Secondo il giudice, i pm non hanno violato alcuna legge perché“l’autorizzazione è richiesta solo per la corrispondenza” e le chat di Whatsapp e le mail che Renzi di sarebbe scambiato con Marco Carrai non rientrano in tale categoria. Inoltre, tali comunicazioni “sono state captate in maniera indiretta, in quanto in primo luogo, sono state acquisite presso persone che non rivestivano la qualità di parlamentare e pertanto non era necessaria l’autorizzazione del Senato”. In secondo luogo,“in realtà si è trattato di perquisizioni e non di attività di intercettazione”, spiega il gip di Genova.

La reazione di Renzi non si è fatta attendere. Il leader di Italia Viva, dopo aver ricordato che l'articolo 68 della Costituzione, al comma 3 parla (quello che parla dell'autorizzazione del Parlamento per le intercettazioni) parla di comunicazioni 'in qualsiasi forma', ha aggiunto:“I giudici di Genova dicono che un sms non è né comunicazione né corrispondenza: quindi adesso chiederò se comunicazione o corrispondenza è un piccione viaggiatore, se lo è il codice morse…".

Renzi, poi, sempre nel corso della presentazione del suo libro "Il Mostro" tenutasi a Parma, ha tuonato: "Battute a parte noi continuiamo con il sorriso: quello che sta accadendo sulla vicenda Open è uno scandalo, un processo politico alla politica". Dopo che arriverà la sentenza della Corte Costituzionale, Renzi chiederà conto ai giudici di Genova“anche dell'invio del materiale che la Cassazione ha detto di distruggere”. Secondo l'ex premier “lo Stato deve rispettare la libertà della persona, deve avere delle prove per procedere e non farlo perché ritiene di avere di fronte un avversario politico”. Renzi definisce “uno scandalo” il caso Open dal momento che “non si discute del reato ma di cosa è un partito e cosa non lo è”.

Il leader di Italia Viva, poi, attacca i magistrati per aver chiamato a testimoniare Pier Luigi Bersani e Rosy Bindi, due suoi acerrimi avversari politici. E, poi, ha ribadito la sua posizione:“Solo nei Paesi non democratici si fanno processi alle forme organizzative della politica. Io non ce l'ho con magistratura democratica, è magistratura democratica che ce l'ha con me". Questa corrente della magistratura“dice che intorno a un avversario politico va stretto un cordone sanitario siamo oltre il gioco democratico, perché i magistrati non stringono cordoni sanitari, perseguono reati", attacca Renzi. "Questo é un problema enorme per la giustizia perché se tu magistrato hai bisogno della corrente per fare carriera, se ti arriva Renzi da giudicare è difficile che lo assolva se il direttore della tua rivista scrive che bisogna stringere un cordone sanitario attorno a lui" chiosa Renzi.

Renzi contro i pm di Firenze, il gip archivia. Lui: “Decisione scontata”. Open, respinta l’istanza di opposizione presentata dall'ex premier. Che non si arrende: "Vedremo se per le prossime denunce prevarrà il corporativismo tra colleghi o il merito delle denunce". Il Dubbio il 31 maggio 2022.

Respinta l’istanza di opposizione di Matteo Renzi contro l’archiviazione delle accuse ai magistrati della procura di Firenze che indagavano sulla Fondazione Open. Lo ha deciso il gip Claudio Siclari con l’ordinanza che archivia le accuse ipotizzate verso il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi, «non essendo gli atti di indagini idonei a sostenere l’accusa in giudizio». Il giudice ha stabilito quindi che i magistrati fiorentini non hanno violato né la Costituzione, né la legge, come sostenuto dalla procura di Genova. Il procedimento fu aperto dopo l’esposto di Renzi che accusava i pm di aver acquisito illecitamente sua corrispondenza e il suo estratto conto nell’inchiesta Open.

«Non mi sembrava un caso complicato, né in diritto né nei fatti. Il giudice ha chiaramente detto che è una questione di diritto e non c’era reato», ha commentato all’agenzia LaPresse il procuratore di Genova Francesco Pinto. «La decisione del Gip di Genova era scontata dopo la frettolosa richiesta dei colleghi genovesi. Lette le motivazioni dell’ordinanza, giuridicamente molto deboli e contraddittorie, ripresenteremo la questione a Genova dopo che la Corte Costituzionale si sarà pronunciata sul conflitto di attribuzione», commenta invece il diretto interessato, Matteo Renzi, in una nota stampa. «Chiederemo conto dell’invio illegittimo al Copasir di atti che la Corte di Cassazione aveva ordinato di distruggere e che i magistrati fiorentini hanno inviato dopo la sentenza della Cassazione. In questo caso è tecnicamente impossibile escludere il dolo dei Pm fiorentini come invece fa oggi il Gip. L’archiviazione genovese di questa denuncia era attesa, nelle prossime settimane vedremo se circa le prossime denunce (in arrivo o già arrivate a Genova) prevarrà il corporativismo tra colleghi o il merito delle denunce».

 La decisione del gip. Renzi ‘respinto’ a Genova, il gip archivia le accuse contro i pm di Open: “Sequestri legittimi”. Carmine Di Niro su Il Riformista il 31 Maggio 2022. 

Una bocciatura “scontata”. Il giudice per le indagini preliminari del tribunale di Genova, Claudio Siclari, ha archiviato oggi le accuse rivolte dal leader di Italia Viva Matteo Renzi contro i magistrati fiorentini Giuseppe Creazzo, ex procuratore di Firenze (ora a Reggio Calabria), l’aggiunto Luca Turco e il sostituto Antonino Nastasi.

Un procedimento aperto dopo un esposto presentato dal senatore ed ex premier, che accusava i tre magistrati di acquisito illecitamente la sua corrispondenza e il suo estratto conto durante le indagini dell’inchiesta Open, la fondazione renziana.

Il gip ha sposato in pieni la tesi dei pm Francesco Pinto e Vittorio Ranieri Miniati, che in soli sei giorni avevano esaminato il caso e proposto l’archiviazione delle accuse di Renzi di abuso di ufficio. 

Secondo il giudice per le indagini preliminari infatti “non era era necessaria la preventiva autorizzazione del Senato” per acquisire le chat di Renzi nell’ambito dell’inchiesta Open, in quanto “l’autorizzazione è richiesta solo per la corrispondenza”. Insomma, per il giudice di Genova i colleghi di Firenze non hanno violato né la legge né la Costituzione, perché “si è trattato di perquisizioni e non di attività di intercettazione“.

Secondo il gip infatti per quando riguarda le chat WhatsApp tra Renzi e Vincenzo Manes e con Marco Carrai non si era trattato di “sequestro di corrispondenza” nei confronti del senatore di IV. Innanzitutto perché “non si tratta nemmeno di comunicazioni e di corrispondenza”, e inoltre perché “sono state captate in maniera indiretta, in quanto in primo luogo, sono state acquisite presso persone che non rivestivano la qualità di parlamentare e pertanto non era necessaria l’autorizzazione del Senato”. 

Un risultato come detto “scontato” per Renzi, che infatti ha annunciato la presentazione di una nuova istanza. “Lette le motivazioni dell’ordinanza, giuridicamente molto deboli e contraddittorie, ripresenteremo la questione a Genova dopo che la Corte costituzionale si sarà pronunciata sul conflitto di attribuzione. E chiederemo conto dell’invio illegittimo al Copasir di atti che la Corte di Cassazione aveva ordinato di distruggere e che i magistrati fiorentini hanno inviato dopo la sentenza della Cassazione. In questo caso è tecnicamente impossibile escludere il dolo dei pm fiorentini come invece fa oggi il gip. L’archiviazione genovese di questa denuncia era attesa, nelle prossime settimane vedremo se circa le prossime denunce (in arrivo o già arrivate a Genova) prevarrà il corporativismo tra colleghi o il merito delle denunce”, spiega il leader di Italia Viva in una nota.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia

Il caso dell'ex premier. I giudici vogliono fare fuori Renzi: per fregarsene della Costituzione cambiano persino la traduzione dall’inglese di “mail”. Piero Sansonetti su Il Riformista il 2 Giugno 2022. 

Non è da escludere che nella riformina della scuola che sta preparando il governo Draghi, e che riguarda il reclutamento dei docenti, venga introdotto un emendamento chiesto dall’Anm: le cattedre di lingua inglese andranno assegnate solo a magistrati di provata fede. Quale fede? Beh, questo non è chiaro, però devono essere in grado di dimostrare la loro totale repulsione per la politica e in particolare per le persone elette.

L’idea è nata a Genova. Dove un Gip è stato chiamato a prendere in esame una questione che sembrava già risolta in partenza. Ma che invece è stata ribaltata con un’intelligente escamotage linguistico. Le cose stanno così: il senatore Matteo Renzi protestava perché i Pm di Firenze, guidati dal procuratore Creazzo, avevano frugato nella sua posta sebbene esista un articolo della Costituzione, il 68, che vieta di frugare nella posta dei parlamentari, e di intercettargli il telefono, e di arrestarli, senza prima chiedere il permesso alla camera di appartenenza. Violando la Costituzione i Pm avevano invece sequestrato proprio le e-mail di Renzi.

Restando ai vecchi e obsoleti dizionari inglese italiano non c’era molto da discutere. Mail – dicono all’unanimità quei dizionari – vuol dire posta e quindi la e-mail non è sequestrabile.

Qui arriva il colpo di scena. Il Gip, su richiesta dei Pm, ha stabilito che mail non vuol dire posta ma vuol dire documento e che di conseguenza è sequestrabile. Sembra che il Gip abbia anche ordinato il sequestro di tutti i vecchi dizionari Inglese-italiano (almeno quelli della Liguria) e abbia chiesto a impiegati e cancellieri di correggere a mano, uno ad una, le voci mail con il nuovo significato. Per sostenere l’iniziativa del Gip, l’Anm è intervenuta avanzando quella richiesta della quale abbiamo riferito all’inizio di questo articolo.

Ora io vi chiedo: Quousque tandem Catilina abutere patientia nostra? Che oltretutto poi Catilina era una bravissima persona e non abusava proprio di niente. Questi magistrati invece abusano fino la grottesco del potere che scriteriatamente la politica gli ha concesso. Non ci resta che piangere e sperare nel referendum.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

L'indagine sulla Fondazione Open. I giudici a Renzi: la Costituzione vale solo se usi penna e calamaio…Paolo Comi su Il Riformista il 2 Giugno 2022. 

La ‘corrispondenza’ è solo quella su un foglio di carta dentro una busta con il francobollo e l’indirizzo scritto a penna. La sua segretezza ed inviolabilità, come stabilito dalla Costituzione, vale esclusivamente quando è in essere una attività di “spedizione o comunque avviata dal mittente mediante consegna a terzi per il recapito”. Per questa ragione la corrispondenza effettuata mediante posta elettronica o altre forme di messaggistica digitale, tipo WhatsApp, è semplicemente un banale ‘documento’ che può essere sequestrato senza alcun problema.

Con tale interpretazione ottocentesca degli scambi epistolari, il gip di Genova Claudio Siclari ha archiviato questa settimana la denuncia presentata da Matteo Renzi per il reato di abuso d’ufficio nei confronti dei magistrati della Procura di Firenze. L’allora procuratore Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Luca Turco ed il pm Antonino Nastasi, come si ricorderà, avevano inserito nel fascicolo dell’indagine sulla Fondazione Open dei messaggi WhatsApp che l’ex premier aveva scambiato con un imprenditore e che erano stati acquisiti dopo il sequestro del cellulare di quest’ultimo, insieme anche a delle sue mail e ad alcuni estratti conto. Con un provvedimento di appena 4 pagine, che non può essere nemmeno impugnato, il giudice Siclari ha così confermato la tesi dei colleghi di Firenze che, comunque, da qualche anno è quella prevalente.

Fino a qualche anno fa, infatti, questo genere di comunicazioni erano equiparate alla tradizionale corrispondenza, prima che il cambio di rotta azzerasse le garanzie costituzionali. “I giudici hanno detto che WhatsApp non è comunicazione né conversazione né corrispondenza. L’estratto bancario non lo è. Le email non lo sono. Che cosa rimane? Il piccione viaggiatore? I segnali di fumo? Sull’alfabeto morse si può ragionare…”, è stato il commento a caldo di Renzi. “L’’articolo 68 comma 3 della Costituzione dice che serve l’autorizzazione del Parlamento per sottoporre a intercettazione di conversazione o comunicazioni e sequestro di corrispondenza un parlamentare e specifica ‘in qualsiasi forma’”, ha aggiunto l’ex premier. “Paletto” superato da questa interpretazione estensiva delle toghe. che considera la messaggistica e la posta elettronica memorizzate nei supporti informatici del mittente ovvero del destinatario dei comuni documenti.

L’archiviazione è avvenuta in tempi ultra rapidi, se si considera che la denuncia era stata presentata lo scorso 15 marzo e il 21 successivo il pm aveva già deciso che era tutto in regola. “I giudici di Genova hanno archiviato la mia denuncia contro i giudici di Firenze. In 6 giorni hanno chiesto l’archiviazione dei colleghi fiorentini. 6 giorni perché sono efficienti, non perché sono permeati di cultura corporativa…”.

Le toghe, a differenza dei comuni mortali, beneficiano di una corsia privilegiata. I procedimenti nei loro confronti sono prioritari e passano davanti a tutti gli altri. Lo ha stabilito il Consiglio superiore della magistratura.

L’archiviazione della sua denuncia è stata anche l’occasione per Renzi di tornare sulle toghe di sinistra che lo hanno messo da tempo nel mirino. A Firenze “c’è un procuratore, Luca Turco (toga progressista ndr), che indaga la famiglia Renzi affiancato da un ufficiale della guardia di Finanza, Adriano D’Elia, comandante provinciale del nucleo di polizia tributaria, che per tre anni, dal 2014 al 2017, fa della caccia ai Renzi la sua ragione di vita”, aveva scritto, non smentito, Luca Palamara nel suo ultimo libro. “Io non ce l’ho con Magistratura democratica, è magistratura democratica che ce l’ha con me. Se noi abbiamo una corrente della magistratura che dice che intorno a un avversario politico va stretto un cordone sanitario siamo oltre il gioco democratico, perché i magistrati non stringono cordoni sanitari, perseguono reati”, ricorda Renzi che poi aggiunge: “Questo è un problema enorme per la giustizia perché se tu magistrato hai bisogno della corrente per fare carriera, se ti arriva Renzi da giudicare tu è difficile che lo assolva se il direttore della tua rivista scrive che bisogna stringere un cordone sanitario attorno a lui”. Paolo Comi

Dall’account twitter di Guia Soncini il 31 maggio 2022.  

Abbiamo preso in considerazione l'ipotesi che la notizia non sia che il libro di Renzi è il più venduto in Italia, ma che sia un periodo in cui non si vende talmente niente di niente che si va primi in classifica con settemila copie?

Estratto dell’articolo di repubblica.it il 31 maggio 2022.

Sotto l'ombrellone, tra solari e pareo, "Il Mostro". Il libro di Matteo Renzi, si intitola così, ed è primo in classifica. Le 192 pagine sulla vicenda giudiziaria che ha coinvolto e sconvolto la sua famiglia si candida dunque a best seller dell'estate. […] Diecimila copie, tra edizione cartacea e ebook, nel giro di un paio di settimane. Tanto ha venduto finora "Il Mostro" (edizioni Piemme)dove il leader di Italia Viva racconta la sua verità sul caso Open e prova a smontare le accuse nei suoi confronti da parte delle procura di Firenze attaccando i magistrati che indagano sulla vicenda. […]

Matteo Renzi: il suo libro “Il Mostro” è primo in classifica in Italia. Marco Della Corte il 28/05/2022 su Notizie.it.

L'opera di Matteo Renzi ha scalato le classifiche: la reazione dell'ex premier. 

“Il Mostro” è il nuovo libro di Matteo Renzi edito da edizioni Piemme. L’opera vanta un record non indifferente in quanto a poco tempo dall’uscita nelle librerie risulta essere già prima in classifica in Italia. La reazione da parte dell’ex premier non è tardata ad arrivare.

Tramite un tweet, Renzi ha detto: “Wow, primi! Mai un mio libro era stato in vetta alla classifica generale. Vedere stamani #IlMostro in cima alla top ten di tutti i giornali fa effetto: forse questa storia colpisce più di quanto anche io pensassi. Grazie a tutte e tutti”. 

I commenti al tweet di Matteo Renzi sono stati diversi e spesso anche molto critici.

Un utente afferma duramente: “Non lasciare inascoltata la tua flora intestinale. Vai a c*****”. Un altro invece: “Si ma, signori, guardate chi c’è dietro. Scrivessi ora un libro io farei la figura del Petrarca del tremila. Suvvia” oppure: “Ma è la classifica di Topolino? Chiedo per un amico”. C’è poi chi sostiene Matteo con queste parole di incoraggiamento: “Congratulazioni. Assolutamente unico … Con eleganza e determinazione nell’ affermare le tue idee, nel mostrare i fatti concreti …

Nessun filtro, nessuna omissione… E soprattutto risolutezza e un coraggio eccezionale…”. 

Di cosa parla “Il Mostro”?

Ne “Il mostro. Inchieste, scandali e dossier. Come provano a distruggerti l’immagine” Matteo Renzi racconta tutte le accuse mosse alla sua famiglia dalla Procura di Firenze, replicandole minuziosamente. Il suo fine è dimostrare come la legge non sarebbe uguale per tutti e di come alcuni giornalisti e ambienti della magistratura farebbero in realtà la volontà dei politici. 

Contro il Mostro. La grande manovra per abbattere Renzi e la desolante situazione della giustizia italiana. Mario Lavia su L'Inkiesta il 31 Maggio 2022.

Il libro dell’ex presidente del Consiglio vende bene, nonostante i sondaggi bassi per il suo partito. È merito della storia e dei retroscena che racconta: una vicenda individuale che, per i temi gravi che solleva, riguarda tutti. 

Stavolta il Mostro non viene sbattuto in prima pagina ma al primo posto delle classifiche, il che fa riflettere sul fatto che in piena era antipolitica un libro politico sia il più venduto, e se volete c’è anche da chiedersi come mai l’autore, Matteo Renzi, vada tanto bene in libreria quanto male nei sondaggi.

Il nesso voti-copie vendute d’altronde è ancora tutto da dimostrare e probabilmente non esiste: «I libri non fanno crescere nei sondaggi», ci dice un Renzi comunque molto fiero («Wow!») del successo del suo libro (“Il Mostro”, pagine 192, Piemme), il suo dettagliato j’accuse contro quel pezzo della magistratura che, a suo parere, distorce l’equilibrio dei poteri in un rapporto che definiremmo incestuoso con pezzi della politica e della comunicazione, e che certamente gli ha giocato in questi anni brutti tiri.

«Ma il mio non è un libro sulla giustizia – precisa il leader di Italia viva – ci sono i servizi segreti, i retroscena del Quirinale, Consob e Banca d’Italia, le fake news di Putin, le trivelle», dunque un libro politico a tutto tondo nel quale ogni cosa è illuminata, verrebbe da dire, dalla battaglia di vari mondi contro di lui, il “Mostro”, tante storie diverse eppure accomunate da una reazione di tanti soggetti alla sua leadership, alla sua azione di governo: «Parlo anche di come mi hanno trattato i compagni di partito sulla legge Zan, i media sulle varie inchieste che mi hanno colpito, i social sulle fake news, parlo di tante cose…». E in effetti il libro è strapieno di notizie, di ricostruzioni (quante cose passano sotto il naso di noi giornalisti senza che ce ne accorgiamo!), anche di piccole vendette: si sa che Renzi è uno che non la manda a dire ed è anche per questo che la pletora dei suoi nemici si fa sempre più larga.

A monte del successo di libri come questo c’è sicuramente il tipico “voyeurismo” – così lo ha definito Massimiliano Panarari sulla Stampa – degli italiani che vogliono conoscere il retroscena (traduzione giornalistico-politica del pettegolezzo di costume), il gusto un po’ sadico per le carneficine della verità, la passione per la ricerca dei santuari del Potere, degli altarini della politichetta, insomma l’ansia per la puntata successiva della grande maledizione pasolinana – «io so ma non ho le prove» – appunto nel trovare queste “prove”, nel rispondere alla domanda “chi c’è dietro?”, qui è la molla delle vendite. 

“Dietro” c’è molta gente, dice Renzi. Come avrebbe detto Leonardo Sciascia, il contesto è fondamentale, e dal punto di vista dell’analisi politica non è difficile individuare nell’avvento al potere dei populisti – quelli che demoliranno il Pd di Renzi – lo spartiacque della storia recente che ha scatenato di tutto. Ecco Renzi cosa racconta, tra le mille cose: «Contro lo Sblocca Italia si muove il primo esperimento di fronte populista che vedremo poi all’opera anche sul referendum costituzionale e, in modalità differente, nella campagna elettorale delle politiche del 2018. Salvini che va con la maglia di Putin al Parlamento europeo o che srotola uno striscione con scritto “Renzi a casa” in Piazza Rossa nei giorni del referendum costituzionale non è diverso da Manlio Di Stefano, braccio destro di Di Maio nel Movimento come al governo, che si presenta al congresso del partito di Putin per dire nel 2016 che l’Ucraina è uno stato fantoccio della Nato e giurare che con i grillini al governo non solo si sarebbero interrotte le sanzioni a Mosca, ma addirittura si sarebbe paventata l’ipotesi dell’uscita dell’Italia dall’euro. Lo stesso Di Stefano, peraltro, che in Parlamento definiva la Tap come un’opera di criminali».

È un passaggio-chiave che allude alla maxi-manovra antirenziana nella quale, come si è detto, confluiscono tante trame sottili e meno sottili. Tranelli in cui il protagonista spesso inciampa, altri che restano tesi nel buio della politica. E nel libro Renzi si spinge avanti nella denuncia (insomma, qui si attaccano procure, leader politici, il capo della Russia, non è roba da poco), ed è esattamente in questa discesa nei bassifondi della politica nel suo intreccio con le regole della legge non rispettate che sta la chiave della fortuna del libro: d’altra parte, su un diverso versante, hanno stravenduto anche i libri di Luca Palamara, persona discutibilissima, a riprova di come il focus della giustizia – o meglio: della malagiustizia – sia l’epicentro del dissesto istituzionale di questo Paese, come sanno tutti i cittadini comuni, non solo i presidenti del Consiglio, sballottati nel mondo kafkiano della giustizia italiana.

Sorge qui, incidentalmente, una domanda: ma se è così, perché il tema della giustizia non riesce mai a diventare una questione politica di massa, restando sempre o roba di casta o lamentazione individuale? Lo vediamo in questi giorni che precedono i cinque referendum sulla giustizia, che saranno anche “tecnici” e complicati, ma la cosa grave è non che siano difficili ma che non se parli, come se il tema fosse, alla fine, prerogativa di politici, magistrati e professori – appunto, cosa di caste – e il popolo avesse altri problemi. Dopodiché si legge il libro di Renzi e capisci che si sta parlando non delle peripezie di un leader politico ma delle magagne di un Paese e dei suoi cittadini.

Per lui è tutta adrenalina: «Sì, i libri non portano voti, certo. Ma siamo certi che come area che fa riferimento al mondo di Macron possiamo fare come minimo il 10 per cento. Saremo la sorpresa delle prossime elezioni». Il “Mostro” ci crede, in attesa che il “mondo di Macron” si palesi anche da noi.

Renzi: «Contro di me un mostro giudiziario. Anche i magistrati paghino per gli abusi».  INTERVISTA. Parla l’ex premier: «Mi volevano “morto”: ho fatto fuori Salvini e Conte e sono ancora qua». Davide Varì su Il Dubbio il 27 maggio 2022.

«Inchieste, strane storie di servizi segreti, fake… C’è un grumo mediatico-politico-giudiziario che ha provato a sbarazzarsi di me. Ma io sono ancora qua e prima ho mandato a casa Salvini e poi l’accoppiata Conte-Casalino». È Matteo Renzi, chi altri sennò? E tra una citazione di Vasco e una stilettata agli ex amici (leggi il vicepresidente del Csm David Ermini), il senatore di Rignano spiega che lui non ha alcuna intenzione di farsi da parte. Anzi, per chi non l’avesse capito Renzi vuol rilanciare. A modo suo naturalmente. E così ieri ha postato una foto col sindaco di centrodestra Bucci. Un messaggio al centrosinistra? «No – giura -, noi scegliamo i più bravi. Dove ci sono bravi candidati, noi ci siamo».

Senatore, nel suo ultimo libro, “Il mostro”, parla di un grumo mediatico-giudiziario-correntizio che da anni governa la magistratura e che ha provato ad affondarla. Sono accuse gravissime. Conferma tutto? E perché “il mostro” vorrebbe liberarsi di lei?

Non lo so. Ho provato a rivoluzionare questo Paese, ottenendo significativi risultati anche commettendo io per primo alcuni errori. E tuttavia, nella mia ingenuità, pensavo che bastasse essere onesti per non essere risucchiati nel vortice delle aggressioni mediatiche e giudiziarie. Quelli di Magistratura democratica hanno teorizzato un cordone sanitario. E cordone fu. Ma io sono sempre qui, più vivo e vegeto di prima. Mi davano per morto e ho mandato a casa prima Salvini al Papeete poi l’accoppiata Conte Casalino per Draghi. Siamo in pista.

Dopo Craxi e Berlusconi, sembra lei il nuovo obiettivo di una parte della magistratura. Chi ha interesse a liquidarla per via giudiziaria?

Non ci sono solo processi ma anche strane storie di servizi segreti, Banca d’Italia, trivelle, FakeNews russe, Consob. Tanta gente sarebbe stata felice se io avessi mollato. Ma come capirà chi legge il libro, penso che il fango colpisca loro, non me. Io non mollo. E se serve sono pronto a rilanciare.

Lei è stato molto duro e, ce lo lasci dire a noi del Dubbio, poco garantista col procuratore Creazzo, il magistrato che ha condotto l’indagine contro di lei. Ha ricordato più volte l’accusa di molestie sessuali nei confronti di una collega magistrata, non crede che così si alimenti la spirale giustizialista? Oppure vale la regola a brigante, brigante e mezzo di Pertini?

Pertini ha sempre ragione ma qui il discorso è più complesso. Il punto è se le regole valgono per tutti o se ci sono due pesi e due misure. Se lei domani in redazione tocca il seno a una collega forzandola ad aprire la bocca non le danno due mesi di perdita di anzianità: la licenziano. E per quello che mi riguarda fanno bene. Il procuratore capo invece evidentemente ha una sorta di salvacondotto che io giudico immorale e ben più grave di un (presunto) reato bagatellare e formale su Open. Detto questo, chi legge il libro saprà che su Creazzo ci sono cose ben più pesanti, dal modo con il quale usa la manifestazione di Libera il 21 marzo per attaccare la politica al clamoroso mancato arresto di un padre violento segnalato dai carabinieri del Mugello che viene lasciato in libertà dalla procura e che uccide il figlio di cinque mesi. Fossi il capo della procura che ha scelto di non arrestare quel genitore violento, nonostante la richiesta dei Carabinieri, non dormirei la notte. Altro che arresto degli incensurati coniugi Renzi a soli fini di visibilità o media spianati su Open per anni con cinque sentenze della Cassazione contro.

L’inchiesta su Open sembra l’ultimo assalto del potere giudiziario contro il metodo di finanziamento dei partiti. Sembra quasi che vogliano affamarli. Non sarebbe il caso di tornare al finanziamento pubblico che, è vero, fu abolito da Letta ma su sua richiesta? Forse si è pentito…

No. La legge va bene, noi l’abbiamo rispettata. Sono i pm fiorentini che non hanno rispettato la Costituzione. Quello di Open non è un processo sul finanziamento visto che tutto è tracciato e bonificato fino all’ultimo centesimo ma un processo alla Leopolda considerata un partito politico anche se non lo era. È un processo politico alla politica, lo scandalo del giudice penale che vuole decidere che cosa è politica e cosa no: in una democrazia le forme della politica le decide il parlamento, non un pm.

Come mai voleva un magistrato, Gratteri, come guardasigilli? E chi o cosa l’ha dissuasa? E oggi, al di là di Gratteri, richiamerebbe un magistrato al ministero della Giustizia?

Il problema non è se metti un magistrato a fare il ministro. Ma se prima o poi riusciremo a togliere tutti i magistrati dagli uffici del Guardasigilli. Dicono che vogliono difendere l’indipendenza della magistratura: sono io che voglio difendere l’indipendenza della politica e la separazione del potere tra esecutivo e giudiziario.

Ermini l’ha querelata: contesta che la sua nomina sia frutto di un accordo sul modello Hotel Champagne.

Ermini non mi ha querelato anche perché sa benissimo che ho ragione.

È vero, non l’ha querelata, ha annunciato querela…

Conoscendo la sua proverbiale paura farà un atto formale per poi aspettare il giorno di ritirarlo: appena mi arriva l’atto lo controdenuncio in sede civile. E a quel punto voglio vedere come reagisce. Conosco David da sempre. Senza il sistema Palamara non sarebbe vicepresidente del Csm. E i verbali di Davigo non doveva toccarli. Oppure doveva denunciare. Prenderli per distruggerli è ridicolo.

Voterà i referendum sulla giustizia? Cos’è che non va o che manca nella riforma Cartabia?

Ho firmato il referendum dei radicali e voteró 5 Sì, consapevole che sarà molto difficile raggiungere il quorum, ma da garantista credo che sia una battaglia sacrosanta. La riforma Cartabia è un pannicello caldo: se quella di Bonafede era dannosa, questa è completamente inutile. Non tocca il potere delle correnti, non interviene sulla responsabilità civile dei magistrati. Io sono per la separazione delle carriere: quelle dei bravi giudici, da quelli non bravi. E per dire: chi sbaglia paga, anche se è un magistrato.

Vista la gestione fallimentare delle carceri, il Dubbio sta portando avanti una proposta per traferire il Dap dal ministero della Giustizia alla presidenza del Consiglio dei ministri. Forse è ora di togliere la gestione degli istituti penitenziari dalle mani dei magistrati e darla a manager specializzati, è d’accordo?

Qualunque sia il background, l’elemento principale deve essere la competenza. Il ruolo del capo del Dap è delicatissimo: serve meritocrazia. Altrimenti ci si ritrova con le rivolte nelle carceri, come accadde nella primavera del 2020 con Basentini, scelto da Bonafede per il grande merito di aver avviato un’inchiesta basata sul nulla come Tempa Rossa che avrebbe portato alle dimissioni della Ministra del mio Governo Federica Guidi.

Draghi sarà premier anche dopo il 2023?

Io avrei voluto vedere Draghi al Quirinale, averlo per 7 anni anziché uno sarebbe stata una grande conquista per il Paese. Mario Draghi è un fuoriclasse e può ambire a qualunque ruolo. Dopo di che, io penso sia arrivato il momento che gli italiani, il giorno dopo le elezioni, sappiano chi governerà il Paese per i prossimi 5 anni. Serve una riforma sul modello di quella dei sindaci o la fiducia dei cittadini nella politica calerà sempre di più. Ci ho perso un referendum, vero, ma i fatti hanno dimostrato che quella battaglia era una battaglia giusta.

Ieri ha postato la foto col sindaco di centrodestra di Genova: è un “annuncio politico”, un messaggio al centrosinistra?

A Genova siamo fieri di sostenere Marco Bucci, il sindaco delle infrastrutture contro i no a tutto dei 5 stelle. Non c’è nessun annuncio o retroscena politico: Italia Viva in molti comuni sostiene candidati di centrosinistra, a Genova sta con Bucci, a Verona con Tosi. Scegliamo i più bravi. Dove ci sono bravi candidati, noi ci siamo.

Jena per “La Stampa” il 22 maggio 2022.

Renzi insegna la politica ai leghisti, così magari scendono al 2 per cento.

Maurizio Giannattasio per il “Corriere della Sera” il 22 maggio 2022.  

Di Matteo, ieri alla scuola di formazione politica della Lega ce n'era uno solo.

Renzi. Il padrone di casa, Matteo Salvini, ha confessato alle agenzie di essere all'oscuro dell'invito: «Non lo sapevo. Lo ringrazio. Renzi è stato gentile ad accettare». Una versione che però non combacerebbe con la realtà dei fatti. «L'invito ufficiale me lo ha fatto Siri - ha detto il leader di IV ai suoi - ma è stato Salvini a dirmelo in Senato». 

È un piccolo antefatto, ma serve per inquadrare il gioco di specchi che è andato in scena ieri in casa della Lega dove Renzi, intervistato dal direttore del Tg2, Gennaro Sangiuliano, ha strappato diversi applausi alla platea leghista nonostante quello tra i due Matteo sia un rapporto altalenante. 

Alti e bassi. Distanze come sul reddito di cittadinanza - «L'avete votato voi. Va abolito. Non solo è sbagliato ma è profondamente antieducativo» - sulla riforma del catasto - «Non condivido la vostra battaglia» - , ma anche convergenze come sui referendum sulla giustizia: «Sicuramente, io voto a favore. Che passino o no i referendum, il tema della giustizia non finisce comunque qui».

Attacchi sui «calci di rigore» sbagliati dal Matteo leghista nelle elezioni del presidente della Repubblica, ma anche riconoscimento dell'avversario. «Salvini una volta ha detto "meglio bestia che Renzi". Ce le diamo e continuiamo a combattere, qualche volta insieme, spesso divisi». Punti di contatto? «Il nome di battesimo sulla carta d'identità».

Non si erano ancora conclusi gli applausi della sua entrata in scena che Renzi ha subito messo in campo le sue arti retoriche individuando un nemico comune. «Non sono venuto qui per lisciarvi il pelo - attacca l'ex premier - non sono qui a dirvi che sono un populista come ha fatto Conte. Io non sono un populista».

È proprio il leader dei Cinque Stelle il convitato di pietra di questa lectio renziana. «Nel centrodestra avete qualche tensioncella. Nel centrosinistra se il campo largo è quello con i Cinque Stelle, mi pare che non ci sta nemmeno il Pd. Si stanno accorgendo che Conte è inaffidabile, ci hanno messo un po' ma ci stanno arrivando». A un certo punto gli scappa un «noi di sinistra».

«Noi di sinistra chi?» chiede Sangiuliano: «Sono venuto dalla Lega solo per dire che sono di sinistra. Non potevo certo farlo alla festa di Leu», replica Renzi suscitando le risate della platea. Esattamente come quando parlando di fisco ha citato il codice da inserire nella dichiarazione dei redditi per assegnare il due per mille a Italia Viva: «Non avrei mai immaginato che un giorno sarei venuto qui a chiedere il 2 per mille per IV. È troppo anche per me».

Torna serio. Rivendica quando Bossi gli disse «sei stato l'unico che ha fatto qualcosa per i miei». «I tuoi chi?». «Gli imprenditori del Nord». Attacca ancora una volta Conte sulle armi agli ucraini: «Le armi sono state fondamentali, ora serve un'azione diplomatica. Conte si è scoperto pacifista all'improvviso perché ha letto un sondaggio». Alla fine lancia la sua proposta di riforma elettorale: «Facciamo una legge elettorale come quella del sindaco d'Italia, ci si scontra, poi si va al ballottaggio e chi vince, governa per 5 anni. Su questo mi piacerebbe che ci ritrovassimo». Sipario. Applausi.

Il nuovo libro. Il Mostro di Matteo Renzi si preannuncia una bomba. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 6 Maggio 2022. 

Di questo Mostro sono in tanti ad avere paura. Non è ancora uscito ma c’è chi trema: perché di Matteo Renzi arrabbiato nero c’è da tenersi alla larga. Se possibile. E invece questa volta investe tutti di brutto. Il Mostro di Renzi (“come provano a distruggerti l’immagine”) arriva in libreria il 17 – pubblicato da Piemme –  e si preannuncia come un terremoto. Con tutti i nomi dei politici, dei giornalisti, dei magistrati. Con tutte le circostanze, i misfatti e i segreti su cui qualcuno aveva provato a far calare il sipario.

Chi lo ha potuto sfogliare in anteprima, in queste ore, dice che non risparmierà nessuno, farà nomi e cognomi puntando anche alla vicenda dei servizi segreti di cui Il Riformista si è occupato da vicino. La bomba che sta per abbattersi sui palazzi del potere è di quelle che non passeranno inosservate: Rai, giustizia, populisti e toghe ne usciranno assai male. Ma non possiamo anticipare, purtroppo, neanche una parola di più.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

"Il Mostro" di Matteo Renzi tra politica e giustizia. La presentazione del libro a Firenze: "Pm scandalosi". Christian Campigli su Il Tempo il 19 maggio 2022.

David Ermini? Gli ho mandato un messaggino, ma non mi ha risposto. Peccato”. È un autentico fiume in piena Matteo Renzi, che questo pomeriggio ha presentato a Firenze il suo ultimo libro, “Il Mostro”. Un'occasione ghiotta per parlare del sistema che regola la magistratura e di attualità politica. “Sia chiaro, le correnti sono sempre esistite. Ma è un metodo che non fa rendere al meglio l'universo giudiziario. Tutt'altro. Basti guardare quanto son lenti i processi. Io, nel mio libro, racconto episodi specifici, incontri tra Lotti, Orlando e Speranza. Non getto il sasso e tiro indietro la mano. E sono pronto ad un confronto all'americana con tutti. Chi ha da contestare i fatti che io ho narrato può invitarmi in tv. Ma deve portare documenti che mi smentiscano, sia chiaro”.

Un'inchiesta, quella sulla fondazione Open, giudicata “folle” da un punto di vista formale e sostanziale. “Hanno mandato agenti della guardia di finanza a casa di Carrai in piena notte. Che senso aveva quella perquisizione? Hanno voluto spulciare nel mio conto corrente. Per quale motivo? Perché nessuno chiede ad Antonino Nastasi cosa facesse sul luogo della tragedia dopo la morte di David Rossi?”.

Un incontro, quello fiorentino, al quale hanno partecipato alcune centinaia di persone. “Alla riforma elettorale non ci credo nemmeno se li vedo mettersi d'accordo, la destra è convinta di vincere e la sinistra non ha un'idea. Il proporzionale chiama le preferenze. Te li immagini i grillini con le preferenze? Noi siamo per l'elezione diretta del Presidente del Consiglio, sul modello della legge elettorale che fa eleggere i sindaci. Questa legislatura è partita con una maggioranza euroscettica ed è finita con l'ex presidente della Banca Centrale Europea. Con Letta abbiamo lavorato molto bene sulla candidatura Frattini, assai meno sul nome della Belloni.

Sul Ddl Zan c'è una divisione profonda tra me e lui. Loro sono i veri responsabili della mancata approvazione della legge contro l'omofobia. Il Pd ha sbagliato tutto in quel passaggio. Bene invece il segretario del Partito Democratico, che ha tenuto una giusta e retta posizione filo atlantica”.

Infine una frecciata a Giuseppe Conte. “Vuole uscire dal governo? Deve chiamare Luigi Di Maio e imporgli le dimissioni. È semplice. Perché non lo fa?”

“Il processo di mostrificazione” dell’ex premier. Il Mostro di Matteo Renzi, politica e giustizia nel nuovo libro dell’ex premier. Claudia Fusani su Il Riformista il 18 Maggio 2022. 

S’intitola Il Mostro e probabilmente è il libro più difficile di Matteo Renzi. Racconta in 215 pagine, “con atti e fatti” quello che è “il processo di mostrificazione” dell’ex presidente del Consiglio. Un “processo” iniziato pochi mesi dopo il suo arrivo a palazzo Chigi nel 2015 quando in un paese in crisi e che cerca di ridurre un debito pubblico galoppante, Renzi mette mano alle ferie dei magistrati (riducendole da 45 a 30 giorni) e un tetto agli stipendi.

Un “processo” andato avanti negli anni con inchieste giudiziarie che una dopo l’altra hanno puntato prima agli amici, poi ai deputati amici, poi alla famiglia fino alla sua persona e al suo partito. Di questi processi ne restano in piedi un paio – i più difficili – quelli dove sono coinvolti i genitori (a processo) e quello (Open), nella fase dell’udienza preliminare, dove Matteo Renzi è indagato per finanziamento illecito alla politica. Gli altri sono finiti in nulla. Nel frattempo hanno seminato dolore, incertezza, spese legali, reputazioni e vite distrutte che solo il tempo potrà, forse, restituire.

Il libro più difficile

È il libro più difficile perché è un circonstanziato atto di denuncia dell’amministrazione della giustizia in questo paese. Oltre al dolore personale c’è la rabbia per vedere “come provano a distruggerti l’immagine con inchieste, scandali e dossier”. Ma mai, in nessuna delle oltre duecento pagine, il libro diventa “un catalogo del vittimismo”. O “un’arringa del processo Open”. “Se oggi mi aggrediscono perché vogliono mettermi un cordone sanitario, reagisco – si legge nelle prime pagine – senza rabbia, senza sconti: pubblico documenti, presento denunce, faccio interviste. Faccio interrogazioni parlamentari, esercito il mio ruolo costituzionalmente garantito, scrivo libri e articoli. Faccio una battaglia di civiltà a viso aperto senza fermarmi ai comunicati stampa dell’Associazione nazionale magistrati con il lieve retrogusto della minaccia”.

Perché poi Renzi si leva la divisa dell’avvocato e trova il modo, “tra atti e fatti” di tornare quello che è e resta: il leader iconoclasta e rottamatore, dissacrante e con la battuta spietata. “Per avere gli atti di Open, io che sono indagato, mi hanno detto che dovevo strisciare. Prego? Si strisciare, In che senso… può pagare con carta di credito, fanno 4000 euro grazie”. Per avere 94 mila pagine di atti giudiziari in cui era spiattellata, anche, tutta la sua vita privata. Anche questo forse è un problema di amministrazione della giustizia: che la parte, l’indagato, debba pagare per poter avere su carta le accuse, e quindi leggerle e studiarle. Mai nel libro trova spazio il vittimismo. Anzi. “Sono e resto una persona felice e fortunata. E anche questo forse è parte del problema”.

Il tour e la campagna elettorale

Ieri mattina Renzi ha presentato il libro alla Camera. Soprattutto da ieri sera è iniziato a Roma il tour di presentazioni in tutta Italia che coinciderà con la campagna elettorale per le amministrative (circa 9 milioni di italiani al voti il 12 giugno) e per i referendum. E che andrà avanti anche nell’estate fino all’autunno. Quando saranno più chiari i giochi per le politiche 2023. In questi giorni sono state pubblicate alcune anticipazioni sui quotidiani. Sufficienti per incendiare la prima polemica. lo scontro fratricida con l’ex amico Davide Ermini, attuale vicepresidente del Csm. Nel capitolo de Il Mostro dedicato alla Loggia Ungheria, ai verbali trafugati dalla procura di Milano e consegnati al Csm per mano di Piercamillo Davigo che poi li mostrò anche a Ermini che li avrebbe cestinati, Renzi scrive che Ermini “ha distrutto materiale ufficiale della procura di Milano” eliminando “un corpo di reato”.

Il vicepresidente del Csm ha annunciato querela. E Renzi ha replicato: “Non temo la sua querela. Sono pronto a confronti all’americana. Il vicepresidente del Csm è un pubblico ufficiale che riceve una prova del reato e la distrugge… Ci sono cose che si insegnano al primo anno di serie tv su Netflix. Non si distrugge il corpo del reato, la prova, è semplice”. Ermini, ha continuato, “è un personaggio straordinariamente affascinante conoscendone la proverbiale audacia caratteriale non so chi lo ha spinto a querelarmi, ma io sono pronto a un confronto all’americana in qualunque momento su quello che ho scritto: è vero che è stato eletto con il metodo Palamara, ed è vero che ha ricevuto copie di atti che non doveva ricevere”.

I venti punti de “Il Riassunto”

I capitoli del libro seguono un racconto non temporale ma per argomenti. Il filo logico che lega gli uni agli altri è consequenziale. Non c’è dubbio che sia un libro sulla giustizia: nel capitolo “Il Riassunto” a p.199, Renzi accetta il confronto diretto, all’americana, su venti punti. Comincia con il processo che “pretende di decidere se una manifestazione chiamata Leopolda era organizzata da una fondazione o da una corrente di partito. Per la prima volta nella storia repubblicana l’ufficio del pubblico ministero pretende di definire come si deve organizzare un partito, una corrente, una fondazione. Pretende di disciplinare, cioè, le forme del gioco democratico” . Il processo Open spezza sul nascere la crescita di Italia viva.

“A settembre 2019 partiamo al 5-10%, si dice che arriveremo a doppia cifra e a novembre arriva l’inchiesta Open, uno scandaloso processo politico alla politica”. Arriva, al punto 20, con le gestione poco chiara dei servizi segreti nei governi Conte, come dimostrerebbe la missione “Dalla Russia con Amore”, i viaggi e gli incontri del procuratore generale Barr con i capi delle nostre intelligence, fino a quella foto scattata nell’autogrill mentre incontrava il braccio destro di Vecchione che Conte aveva messo a capo delle agenzia di sicurezza. In mezzo ci sono tutti i processi che dal 2016 ad oggi hanno riguardato famigliari, dal cognato ai genitori, e amici come Marco Carrai; le campagne di diffamazione organizzate sui social dalle due Bestie, quella della Lega e quella dei 5 Stelle; “esponenti delle forze di polizia giudiziaria assunti e poi cacciati dai servizi segreti perché implicati in un’operazione sospettata di depistaggio istituzionale contro di me e contro la mia famiglia. Alcuni di loro oggi fanno politica in giunte di colore politico avverso”.

Riforma inutile

Il problema è che anche il governo Draghi non ha saputo risolvere i problemi della giustizia italiana. La riforma Cartabia, “non è dannosa come quella Bonafede ma è inutile. O diamo una responsabilità vera a chi sbaglia ed eliminiamo l’appartenenza alle correnti per far carriera, oppure il mondo della giustizia non migliorerà mai” ha detto Renzi ieri mattina. Scarso ottimismo anche sui destini dei quesiti referendari: “Voterò a favore ma temo che non si avrà la necessaria attenzione da qui al 12 giugno. Di conseguenza – ha aggiunto – penso che la riforma della giustizia si farà nella prossima legislatura, così come credo che sarà necessario arrivare all’elezione diretta del premier”. Il Mostro è un libro dove la politica è intrecciata alla giustizia e a quello che è successo in questi dieci anni, a cominciare dal populismo giudiziario. “La politica italiana è stata trasformata in un derby tra presunti onesti e ladri, ma dovrebbe rappresentare una sfida tra competenti e incompetenti” è l’incipit del capitolo “L’onestà e la competenza”.

Iv alla partita più difficile

Ma si può immaginare che avrà molti lettori il gustosissimo capitolo “Storia di un’elezione”, la cronistoria piena di retroscena della settimana in cui è stato deciso il nuovo Presidente della Repubblica. “Io ero per Draghi al Quirinale ma i Draghi boys non lo hanno aiutato…Intanto Conte faceva i tweet con Letta ma sottobanco discuteva con Salvini e Salvini diceva di parlare con Berlusconi ma sottobanco parlava con Conte”. Il distico del capitolo è tratto da Virginia Woolf: “Senza fretta, senza scintille, senza dover essere altro che se stessi”. Così Matteo Renzi cercherà di guidare Italia viva nella sfida più difficile: la sopravvivenza parlamentare alle prossime politiche. “È incredibile che il partito massacrato dalle inchieste abbia prima salvato la legislatura dalla deriva Papeete e populista e poi guidato la nascita del governo Draghi.

Non so come Italia viva arriverà alle elezioni del 2023” però “noi da qui al prossimo anno puntiamo a fare il 10 per cento”. Con quale schieramento? “Anche gli altri non hanno ancora deciso. E’ in difficoltà la Lega, più vicina ai Cinque stelle di quanto pensino nel Pd. Ma è tutto in evoluzione e questo è un tempo che mangia in fretta le leadership. Spesso i nostri amici al centro non sono molto propensi a ragionamenti comuni. Ma penso che a settembre il buon senso prevarrà e noi abbiamo uno spazio ben più grande del 5%”. Uno spazio che Renzi cercherà di prendere e rivendicare. Anche con chi da lui ha avuto molto nel recente passato.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Luca Di Carmine per Tag43.it il 18 maggio 2022.

Non sperateci, non c’è modo di fermarlo. Renzi è una forza della natura, comunque la pensiate. Le sue perle sono parte, ormai, del linguaggio comune e nel suo ultimo libro Il Mostro.  Inchieste, scandali e dossier. Come provano a distruggerti l’immagine (ed. Piemme) non ne risparmia una. Una lunga carrellata che, in realtà, diventa una resa dei conti punto per punto, persona per persona, veleno per veleno. Nel suo stile, insomma. 

È di poche ore fa, ad esempio, l’annuncio di querela del vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura David Ermini (ex?) amico storico di Renzi citato nelle sue pagine senza troppi giri di parole: «Egli è diventato vicepresidente del Csm grazie al metodo Palamara e io sono uno di quelli che possono testimoniarlo». 

Apriti Cielo! Replica e controreplica a suon di minacce, con Renzi che tuona: «La storia è talmente ricca di aneddoti che sarà piacevole raccontare in sede civile a cominciare dal numeroso scambio di sms di questi anni», lasciando intendere di aver conservato messaggi, sms, pizzini, biglietti degni dei migliori anni del dossieraggio da Prima Repubblica.  

Finisce così, almeno per il momento, una lunga amicizia cominciata nel 2004 quando entrambi erano giovani impegnati in politica in quel di Firenze. Ma, si sa, in politica e a Firenze le cose non finiscono mai. Se non altro non a suon di carte bollate.

Un memoir in mezzo alla campagna per le Amministrative

Il ‘bomba’ non ci sta ad aspettare in silenzio e di lato che la Storia si compia, o meglio, non senza di lui, non è nel suo carattere. E così, se la campagna elettorale per gli altri partiti è già cominciata (complici le imminenti Amministrative) Renzi tira fuori dal cilindro un memoir in cui, ufficialmente, vuole mettere ‘i puntini sulle i’ su vicende che lo hanno visto e lo vedono coinvolto.  

In realtà sta passando alla conta. La sua immagine è un po’ appannata, di scivoloni in questi anni ne ha presi e qualcosa bisogna pur fare. Sono lontani, infatti, i tempi in cui poteva aspirare a Chigi, e quando alla comunicazione c’era quel geniaccio di Nomfup (alias Filippo Sensi). Nessuno ha dimenticato le sue roboanti dichiarazioni nei migliori salotti televisivi quando diceva «Andare al governo senza voto? Mai!» oppure «Enrico (Letta, ndr) non si fida di me, ma sbaglia: io sono leale». Era il 2014, Enrico ancora se lo ricorda. 

Matteo, in verità, ci ha abituati a giorni ricchi di sorprese, come quando in un tweet (subito rimosso) a proposito del fenomeno migratorio scrisse: «È un dovere morale aiutare gli altri ma a casa propria», degno del miglior Salvini o «Se riesci a vincere il nemico e sconfiggerlo, non hai più un motivo per stare insieme». Forse si riferiva alla distruzione del Pd.  

Come dimenticare le sempre annunciate dimissioni? Le uniche che ha presentato, dopo aver lasciato i Dem, sono quelle delle sue ministre, Bonetti e Bellanova, come un vero coup de théâtre (annunciato da giorni) per far cadere il Conte II.

Sarà per il carattere (a cui ha dedicato anche un capitolo nel suo libro), sarà per il suo modo di fare, fatto sta che il consenso perduto non riesce più a recuperarlo, navigando sempre intorno al 2 per cento.  

Certo, anche le persone che frequenta negli ultimi tempi avranno avuto il loro peso. Gli incontri nelle piazzole dell’autogrill con esponenti dei servizi, le conferenze “rinascimentali” in Stati non proprio democratici, o gli incontri segreti in Costa Smeralda con l’emiro del Qatar quando il Paese discuteva di vaccini, Green Pass e riforma della giustizia. 

Ma lui è così, il ruolo che si è ritagliato è quello del protagonista. Si è convinto di essere stato protagonista anche durante le ultime elezioni del Quirinale quando, a prescindere dal prestigio del Capo dello Stato, hanno perso tutti. Dall’alto del suo 2 per cento ha sentenziato anche su questo. «Dicevo a tutti che per la solidità delle istituzioni la cosa più logica mi sembrava spostare Mario Draghi al Quirinale e rinforzare il profilo politico del governo. Non era un passaggio facile». 

Nessuno sembra averlo ascoltato e lui ha trovato il colpevole, o meglio i colpevoli: «Temo, però, che i suoi collaboratori più stretti – soprattutto Francesco Giavazzi e Antonio Funiciello – abbiano costruito una strategia sbagliata. L’errore dei Draghi’s Boys è stato quello di pensare di arrivare al Quirinale contro la politica».  

Lo stesso Funiciello, ex renziano ed ex altre cose, braccio destro dell’amico storico Luca Lotti e a capo della squadra per il Sì al referendum costituzionale. Funiciello, uomo per tutte le stagioni, che sa muoversi benissimo nei corridoi del potere. Renzi ha preferito, però, farsi un altro nemico. D’altronde, il politologo Giovanni Sartori ci aveva visto lungo: «Renzi? Non lo voterei mai (…) ha solo l’ansia di arrivare al potere. È uno abile, furbo, però disposto a barattare tutto». 

Matteo Renzi e l'inchiesta Open: "I giudici hanno bloccato Italia Viva". Camillo Barone su Il Tempo il 18 maggio 2022

Per Matteo Renzi lo sciopero dei magistrati è stato un «fallimento totale, un’ulteriore dimostrazione che qualcosa nella magistratura non va». Dai microfoni di Radio Leopolda il leader di Italia Viva torna a parlare dei presunti abusi della magistratura nei suoi riguardi, del caso Open che lo ha visto coinvolto insieme ai suoi familiari stretti e del futuro del suo partito. Ma anche del suo breve passato, tanto da arrivare a dire che l’inchiesta Open avrebbe «interrotto il cammino di crescita» di Italia Viva. «Noi partiamo con Italia Viva, siamo accreditati al 5-10%, si dice che arriveremo a doppia cifra e poi arriva l’inchiesta Open, che è uno scandaloso processo politico alla politica», ha detto Renzi, aggiungendo che il processo mediatico «era l’unico obiettivo, perché nel merito non c’è assolutamente niente».

L’ex segretario del Partito democratico è tornato poi a parlare di Open anche presentando il suo ultimo libro “Il Mostro: Inchieste, scandali e dossier. Come provano a distruggerti l’immagine” (piemme editore), non risparmiando le sue accuse a David Ermini: «Il vicepresidente del Csm è un pubblico ufficiale che riceve una prova del reato e la distrugge. Ci sono cose che si insegnano al primo anno di serie tv su Netflix. Non si distrugge il corpo del reato, la prova, è semplice».

Per Renzi il problema da scardinare è quello dell’appartenenza dei magistrati alle correnti politiche. Nessuna riforma della giustizia finora sarebbe all’altezza di questo obiettivo: la riforma Cartabia è «inutile», mentre quella Bonafede sarebbe stata «dannosa». E infatti la sua previsione è che una futura riforma della giustizia verrà approvata dalla prossima legislatura, ma la sua indicazione di voto sui referendum di giugno è di votare a favore, anche se si dice pessimista che «possa avere attenzione».

La riforma della giustizia però non è l’unico obiettivo da perseguire possibilmente con una nuova maggioranza. Tra le altre necessarie modifiche costituzionali Renzi cita anche l’elezione diretta del presidente del Consiglio, una mossa volta a cambiare in modo sostanziale «le regole del gioco, altrimenti si continuerà sempre così». Il numero uno di Italia Viva è fiducioso sul futuro del suo gruppo politico, immagina che si andrà al voto delle elezioni politiche nel maggio 2023. Pensa che per IV ci sia un margine importante per superare la soglia del 4%, ma anche se non dovesse bastare dice che solamente con il 4% «siamo riusciti a bloccare Matteo Salvini al Papeete e lasciato Giuseppe Conte a vivere la nuova fase che l’attende».

Sia a Porta a Porta ospite di Bruno Vespa sia in serata ad una seconda presentazione romana del suo libro Renzi continua ad analizzare lo scenario internazionale, e si definisce «macroniano» e più distante dalle posizioni di Joe Biden sull’Ucraina. Per l’ex premier, Macron starebbe cercando di portare tutti attorno a un tavolo per «fare un nuovo ordine capace di ristabilire anche tutto il resto». Mentre sull’invio di armi garantisce che Italia Viva continuerà a votare in senso favorevole in linea con quanto già votato subito dopo lo scoppio del conflitto. Sulle questioni interne si concentra sulla legge elettorale e giudica tutto ancora troppo «prematuro», ma è certo che non ci sarebbe alcuno spazio per una riforma in senso proporzionale.

Giorgio Napolitano "obbediva ai magistrati: cosa mi disse faccia a faccia". L'ex premier che lo inchioda. Fausto Carioti Libero Quotidiano il 18 maggio 2022

«Avremmo lavorato per il sorteggio al Csm, così da spezzare il meccanismo. Avremmo rivoluzionato la responsabilità del magistrato che sbaglia», scrive il senatore fiorentino nel suo libro Il Mostro. Per questo le correnti, prima tra tutte Md, non volevano che Gratteri diventasse guardasigilli. Ruolo che toccò al piddino Andrea Orlando, evidentemente ritenuto "affidabile" dalla corporazione. È stato Renzi, ieri, durante la presentazione del suo libro, a confermare la versione peggiore, quella che sinora era stata affidata ai retroscena. «Giorgio Napolitano», ha raccontato, «utilizzando le prerogative della Carta costituzionale, mi ha detto che non voleva Gratteri ministro della Giustizia. Punto». Il capo dello Stato non fece altro che tradurre in pratica il veto delle correnti, preoccupate di difendere lo status quo. «Non solo Magistratura democratica, ma anche Unicost», di area centrista, «era assolutamente contraria alla candidatura di Gratteri, perché sarebbe andato lì contro le correnti. Altri non apprezzavano Gratteri per le sue posizioni non proprio garantiste. Ma non c'è ombra di dubbio che Gratteri, in quel momento, fosse un elemento di assoluta rottura del sistema, di vera e propria rottamazione». 

VIETATO SAPERE IL MOTIVO - Nulla Renzi ha detto, però, sulle ragioni del "niet" di Napolitano. Ed è un peccato, perché- ad esempio - sui motivi del veto di Sergio Mattarella alla nomina di Paolo Savona come ministro dell'Economia del primo governo Conte si sa tutto, avendo provveduto lo stesso presidente della repubblica a spiegarli subito (voleva in quel ruolo un personaggio che non fosse «visto come sostenitore di una linea che potrebbe provocare la fuoruscita dell'Italia dall'euro»). Le ragioni che spinsero Napolitano a fare proprie le richieste di Md e delle altre correnti restano invece avvolte nel mistero, e gli italiani non possono giudicare se furono prese nell'interesse del Paese, della sola magistratura o di una parte di essa. «Ho una regola aurea: i colloqui col papa e col presidente della repubblica non si riportano», spiega Renzi per giustificare il suo silenzio sul tema. «I fatti storici comunque sono chiari, Giorgio Napolitano ha detto: "Io Gratteri non lo firmo"». Così nulla è cambiato in questi anni, e lo conferma anche il doppio standard sul tema delle molestie sessuali, che talvolta scandalizzano e talaltra vengono ignorate. «Si fa giustamente polemica per ciò che è accaduto a Rimini», ha detto Renzi riferendosi alla vicenda che ha visto protagonisti alcuni alpini, «ci si indigna, doverosamente, per fenomeni di "cat calling", di molestia verbale, che vanno condannati con decisione, e contemporaneamente si finge di non vedere che un procuratore capo della repubblica», ossia Giuseppe Creazzo, di stanza a Firenze sino a poche settimane fa, «a margine di una riunione dell'Associazione nazionale magistrati, come riporta il verbale del Csm, palpeggia e molestia sessualmente una collega. E la sanzione è una perdita di anzianità di due mesi. Capite che poi il cittadino inizia a pensare che ci sono due pesi e due misure?».

IL NUOVO LIBRO. Per Renzi il poco consenso di Iv è colpa dei magistrati di Firenze. GIULIA MERLO ROMA su Il Domani il 17 maggio 2022

Con la presentazione del suo nuovo libro Il mostro, Matteo Renzi apre di fatto la sua campagna elettorale, con un pronostico: «Si vota a maggio 2023». Il libro - che contiene un attacco alla procura di Firenze per la gestione dei processi a carico di Renzi e della sua famiglia, ma anche il racconto politico degli ultimi mesi – è stato presentato in solitaria alla Camera.

«Non ne lascio più passare mezza, con il sorriso», è stata la conclusione di Renzi, riferendosi alle iniziative dei magistrati sul caso Open ma anche all’annuncio di querela già arrivato dal vicepresidente del Csm, David Ermini.

Gli attacchi più pesanti vengono mossi nei confronti di Giuseppe Creazzo, Luca Turco e Antonino Nastasi, contro cui Renzi ha anche sporto denuncia e si è opposto alla sua archiviazione.

Con la presentazione del suo nuovo libro Il mostro, Matteo Renzi apre di fatto la sua campagna elettorale, con un pronostico: «Si vota a maggio 2023». Il libro - che contiene un attacco alla procura di Firenze per la gestione dei processi a carico di Renzi e della sua famiglia, ma anche il racconto politico degli ultimi mesi – è stato presentato in solitaria alla Camera. Tra battute sul voto al Quirinale e le critiche alle toghe fiorentine, la sintesi politica la fa lo stesso Renzi: «I magistrati hanno interrotto il cammino di crescita di Italia Viva».

«Noi partiamo con Italia Viva, siamo accreditati al 5-10 per cento, si dice che arriveremo a doppia cifra e poi arriva l'inchiesta Open, che è uno scandaloso processo politico alla politica», è il racconto dell’ex premier. Quindi ora è il momento del contrattacco perché «c’è spazio politico» per riconquistare centralità e le aspettative sono alte. «Possiamo arrivare a un 10 per cento», ipotizza l’ex premier, che non rinuncia alla punta di arroganza che lo caratterizza da sempre e che è anche la cifra del suo libro: «Abbiamo dato le carte con il 4, figuriamoci con il 5 per cento e molto di più».

Per questo - nonostante l’ultimo sondaggio commissionato a Swg lo dia al 2,5 per cento - Renzi si è convinto che la mossa vincente è quella di tentare di riprendersi la scena andando all’attacco: contro i magistrati di Firenze, ma anche e soprattutto contro il «populismo» di Giuseppe Conte.

L’ATTACCO AI MAGISTRATI

«Non ne lascio più passare mezza, con il sorriso», è stata la conclusione di Renzi, riferendosi alle iniziative dei magistrati sul caso Open ma anche all’annuncio di querela già arrivato dal vicepresidente del Csm, David Ermini. Il libro, infatti, entra nella ricostruzione giudiziaria degli ultimi processi che lo hanno riguardato e poi ricostruisce le ultime vicende legate alla magistratura, dal caso Palamara alla loggia Ungheria.

Gli attacchi più pesanti vengono mossi nei confronti di Giuseppe Creazzo, Luca Turco e Antonino Nastasi, contro cui Renzi ha anche sporto denuncia e si è opposto alla sua archiviazione. La tesi del libro è: come posso fidarmi dei magistrati che indagano su di me quando loro stessi hanno uno molestato una collega, il secondo arrestato e indagato buona parte della famiglia Renzi, il terzo contaminato la scena del crimine del caso David Rossi. Lo scontro non è nuovo e la tesi è già stata ripetuta in più di un’occasione pubblica, ma ora è stampata «perché si ricordino i fatti», sottolinea in conferenza stampa.

Renzi conferma la commistione tra politica e giustizia nelle nomine, attacca il sistema delle correnti e in particolare il gruppo associativo di Magistratura democratica. Poi conferma la versione di Luca Palamara sul metodo di elezione concertativo con cui è stato scelto anche il vicepresidente del Csm, Ermini: «È stato eletto con il metodo Palamara e ha ricevuto da Davigo copie dei verbali che non doveva ricevere», ribadisce in conferenza stampa. Politicamente, le parole suonano soprattutto come una bocciatura della riforma dell’ordinamento giudiziario attualmente in discussione in commissione Giustizia al Senato, che «non è dannosa ma è inutile.

O eliminiamo l'appartenenza della corrente per fare carriera o la giustizia non cambierà mai». Tradotto: il cammino del testo rischia qualche incidente di percorso proprio a palazzo Madama.

LA POLITICA

Archiviato il motto «il tempo è galantuomo» che usava ripetere fino a qualche mese fa, ora la linea è cambiata. «Rispondo colpo su colpo», promette Renzi quasi in ogni capitolo del libro, sia che si riferisca ai processi, agli attacchi giornalistici come il video di Report sul suo incontro in autogrill con un membro dei servizi segreti oppure alla pubblicazione delle sue lettere personali con il padre o degli estratti conti. Nessuna querela ritirata e molte altre da far partire, è la sintesi.

Nelle 200 pagine di libro il leader di Iv rivendica come suo successo la caduta di Matteo Salvini e la nascita del Conte 1, poi la defenestrazione di Conte e il nuovo governo Draghi («se fossimo stati allineati alle posizioni del Pd di allora, sia nel 2019 che nel 2021, questo Paese avrebbe avuto prima un governo Salvini-Meloni a gestire la pandemia e poi un governo Conte-Casalino a gestire l’invasione russa»). Poi rivanga i successi del suo governo, ormai sempre più lontano nel tempo, snocciolando unioni civili, jobs act, politica energetica con la Tap.

Infine, attacca il populismo grillino e confessa apprezzamento per la carriera politica di Silvio Berlusconi. Il tutto interrotto da chiose sulle sue scelte politiche passate e recenti, in cui Renzi si autoassolve o loda la propria lungimiranza contro tutti quelli che lo vorrebbero descrivere come il mostro del titolo, appunto. Nessuno spazio, invece, per dubbi e autocritiche. Chiuso il libro la sensazione è di deja-vu: Renzi è sempre se stesso come anche i toni e gli argomenti.

Solo il tempo – davanti c’è un anno esatto – dirà se la linea di Renzi pagherà dal punto di vista elettorale: dal libro si intende che la battaglia sulla giustizia è appena cominciata e su questa Renzi intende cercare centralità. Dal silenzio nei confronti del leader del Pd, Enrico Letta (citato per il buon tandem nato durante la partita del Quirinale), invece, è possibile un tentativo di ricucitura, lasciandosi però aperta anche la strada verso Forza Italia.

Questo il campo dove ci sarebbe «lo spazio politico» che i magistrati gli hanno tolto e che lui vuole riprendersi. Gli interlocutori politici, però, mancano: nessun leader ha commentato il libro e anche gli spunti polemici non hanno veramente attecchito. GIULIA MERLO ROMA

"Renzi incompatibile con la democrazia. È giusto criticarlo, no all'autocensura". Felice Manti il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.

L'ideologo della corrente più di sinistra conferma l'avversione all'ex premier: "Mi indigna la sua visita al despota arabo Bin Salman".

«Il comportamento di Renzi è incompatibile con la democrazia». Nello Rossi è un ex magistrato. È il direttore della rivista online di Magistratura democratica Questione Giustizia ed è finito sui giornali perché Matteo Renzi ce l'ha con lui per un'espressione, «cordone sanitario», che sa di censura se non di Tso, un trattamento sanitario obbligatorio. È l'ennesimo capitolo dello scontro tra il leader di Italia viva e i magistrati.

Lei sostiene che l'espressione che ha usato contro il senatore Renzi non sia così grave...

«Da cittadino e da osservatore delle istituzioni sono rimasto dapprima incredulo e poi indignato dalla visita resa, all'inizio del 2021, dal senatore Renzi alla corte del principe saudita Muhammad Bin Salman e dal fatto che per essa avesse ricevuto un compenso. Essere stato presidente del Consiglio comporta oneri anche quando si è cessati dalla carica, essere parlamentari non è compatibile eticamente e politicamente - con l'adulazione dei despoti».

Sarà, ma Renzi la considera la minaccia di una intera corrente...

«No, nessun ostracismo personale, che non sarei comunque in grado di decretare, a dispetto delle suggestioni e delle insinuazioni profuse al riguardo anche nell'ultimo libro del senatore. Solo il legittimo esercizio del diritto di critica verso scelte e comportamenti di un uomo politico».

Lei però è stato comunque uno dei fondatori di Magistratura democratica, una corrente accusata spesso di fare politica

«Il mio è un diritto esercitato liberamente da un giurista senza potere come direttore di una rivista, che non intende accogliere il prepotente invito all'autocensura e l'idea del senatore Renzi che il suo modo di agire in determinate circostanze debba essere esente da ogni valutazione etica o politica».

Ma per Renzi una corrente non può fare politica. E attacca il Sistema disvelato nel libro di Luca Palamara. Le toghe rispondono con lo sciopero flop. Mossa giusta quella dei suoi ex colleghi?

«Lo sciopero è un mezzo estremo da usare con grande cautela. Ma questo sciopero lo capisco. Le attuali valutazioni di professionalità hanno fallito. Ma ci sono alternative più serie della irrealizzabile e ingannevole valutazione statistica degli esiti dei procedimenti: responsabilizzare maggiormente i dirigenti; estendere le valutazioni, oltre gli attuali 28 anni, a tutta la vita professionale dei magistrati; moltiplicare le fonti di valutazione dando il diritto di voto agli avvocati ed ai professori presenti nei Consigli giudiziari».

Lei ha fatto un balzo di carriera repentino, che raramente avviene in magistratura. È stato Procuratore aggiunto a Roma e poi subito dopo Avvocato generale in Cassazione. Merito della sua leadership dentro Magistratura democratica?

«Domanda interessante. Perché dà voce ad un sospetto generato dalla sistematica campagna di denigrazione della magistratura oggi in atto: se hai fatto carriera vuol dire che sei un correntista privo di meriti professionali. In realtà faccio parte di una generazione di magistrati per la quale un grande impegno professionale e un forte impegno associativo sono stati sempre indissolubilmente legati».

È favorevole alla separazione delle carriere o delle funzioni come chiedono i referendum?

«No. Per molte ragioni professionali, processuali, istituzionali che ho esposto mille volte e, da ultimo, al congresso delle Camere penali. Ma stiamo al solo referendum. Se ha letto per intero il quesito referendario e se le è chiaro (per raccapezzarmi io ho avuto bisogno di parecchio studio) avrà notato che i proponenti vogliono tagliare tutti i ponti tra le due funzioni ma non toccano il concorso di accesso, che rimane unico. La scelta iniziale della funzione (fortemente condizionata dalla posizione in graduatoria e dalle contingenti difficoltà ed esigenze dei giovani vincitori di concorso) deciderebbe della intera vita professionale dei neo magistrati. In qualunque altra amministrazione verrebbe considerata una follia. Ma evidentemente il buon funzionamento della giustizia non è una preoccupazione delle ragioni referendarie».

"L'ex toga di Md che mi attacca spia di un sistema da cambiare". Laura Cesaretti il 18 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il leader di Iv replica a Rossi che lo definisce incompatibile con la democrazia: "Così influenza anche i suoi ex colleghi".

Matteo Renzi, il suo libro «Il mostro» racconta un «processo politico alla politica» contro di lei, ancora aperto nonostante le smentite della Cassazione. Come se lo spiega?

«Non me lo spiego. Il libro tocca solo marginalmente Open visto che quello che dobbiamo dire piaccia o non piaccia dobbiamo dirlo in tribunale. Non è mai accaduto che un'indagine arrivi all'udienza preliminare con già cinque sentenze di annullamento della Cassazione. Mai vista una cosa così folle. Ma andiamo avanti, a testa alta. Nel libro però parlo anche di altro: depistaggi, finti scandali, dossier. Chi lo leggerà alla fine dovrà cambiare idea sulla cronaca italiana degli ultimi dieci anni. Perché lì ci sono documenti, fatti, atti, non le mie idee».

Nello Rossi di Magistratura democratica, che tempo fa aveva invocato un «cordone sanitario» contro di lei, dice al Giornale che i suoi comportamenti sono «incompatibili con la democrazia». Come risponde?

«Le frasi di questo ex giudice dicono molto di quello che non funziona nel sistema giudiziario. Dalla rivista di corrente che dirige, attacca per motivi etici e politici un parlamentare, parlando di cordone sanitario. Se io fossi un giovane magistrato che vuol fare carriera e mi trovassi un procedimento su quel senatore, leggendo che cosa pensa il leader di Md, davvero sarei libero di decidere? Bisogna liberare le carriere dei magistrati dall'invadenza delle correnti. E affermare il merito: le sembra possibile che chi ha inquisito Enzo Tortora sia arrivato fino al Csm? Solo in magistratura chi sbaglia non paga mai».

Intanto lo sciopero proclamato da Anm contro riforma Cartabia è stato un flop clamoroso. La magistratura militante è in crisi?

«Sì. E lo vediamo dal grado di fiducia verso i magistrati, mai così basso. Oggi ricordiamo i trent'anni del martirio di Falcone e Borsellino. Ma Falcone fu attaccato dal Csm di allora. La memoria di Borsellino fu oltraggiata da processi farsa e depistaggi cui alcuni pm si sono prestati. Abbiamo bisogno di bravi giudici per avere una buona giustizia: correnti e deresponsabilizzazione stanno distruggendo il sistema».

Tra un mese si vota per i referendum giustizia, che lei ha firmato. Il Pd oggi si schiera in sostanza per il no. Garantismo e sinistra sono ancora concetti lontani?

«Io voterò sì. Purtroppo aver tolto i quesiti principali ha prodotto un oggettivo aumento del disinteresse sui referendum. Ma la vicenda giustizia sarà insieme alle riforme costituzionali il cuore della prossima legislatura. Sogno un accordo bipartisan che cancelli il corporativismo dei magistrati e delle correnti nel nome del merito. E sogno l'elezione diretta del premier sul modello del sindaco d'Italia. Sogni a occhi aperti, oggi. Ma saranno i progetti concreti della prossima legislatura».

Nel libro attacca il vicepresidente del Csm (un tempo renziano doc) Ermini. Ma le critiche a lui sulla gestione dell'organismo non rischiano di ripercuotersi sul presidente del Csm e della Repubblica, ossia Mattarella?

«È un rischio che deriva dal comportamento scriteriato del suo vice, che prima riceve i verbali di Davigo, poi dice a Davigo che ne parlerà al Colle, poi sostiene di averli distrutti. Se i verbali erano irricevibili, Ermini non doveva toccarli. Se li ha presi, non poteva distruggerli. Non importa essere laureati in giurisprudenza, basta aver visto una serie TV americana per capire che non si distrugge la prova di un (presunto) reato. Detto questo suggerisco di lasciare fuori il presidente Mattarella. Naturalmente se Ermini davvero procederà con la querela sarà mia cura informare con dovizia di particolari tutti i membri del Csm sull'attività quantomeno sconsiderata dell'avvocato Ermini. Del resto oggi si erge a paladino della moralizzazione ma fu eletto grazie al metodo Palamara. E questo è il segreto di Pulcinella. Comunque torniamo alle cose serie: de minimis non curat praetor, dicevano i latini. E Ermini, che è stato a lungo vicepretore onorario, sa bene che cosa significa».

Su molti temi chiave, a cominciare dalla guerra e alla collocazione internazionale dell'Italia, riemerge l'asse Conte-Salvini. Esiste nella politica italiana un largo fronte putiniano, dentro la maggioranza? Chi ne fa parte e perché?

«Nel libro scrivo che dall'asse Conte-Salvini non è mai venuto bene, dalla Russia al tentativo di eleggere Belloni. Io però sono più preoccupato del quadro internazionale che di quello interno, anche perché scommetto da tempo sul fatto che Conte non arriverà con tutto il Movimento cinque stelle al 2023, quindi i grillini non mi preoccupano. Noi abbiamo bisogno di continuare nel sostegno dell'Ucraina, anche perseguendo con più determinazione la sfida del dialogo diplomatico. In questo senso il lessico e la postura di Macron è maggiormente condivisibile rispetto a quello dell'amministrazione americana: si sta ovviamente con gli ucraini ma rivendicando all'Europa anche un ruolo politico nella costruzione della pace».

Come valuta ruolo, azione e scelte del governo Draghi in questa crisi internazionale?

«Si sta muovendo bene. Tentare di creare fibrillazioni in Italia utilizzando il dramma ucraino dice molto di come sono messi i grillini: cercano polemiche per ottenere visibilità. Ma poi in realtà hanno una tale paura delle elezioni che il loro è tutto un gioco ipocrita finalizzato al consenso e ai sondaggi. Del resto Conte è stato il premier che ha aumentato la spesa militare più di ogni altro».

Alle prossime amministrative lei è alleato con il centrodestra in diverse realtà. Perché? E alle politiche del 2023 dove starà?

«A Genova stiamo con Marco Bucci, perché è una persona seria, una candidatura civica, il sindaco che ha ricostruito il ponte, l'uomo che vuole far uscire il capoluogo ligure dall'isolamento infrastrutturale cui invece la condannerebbero gli alleati Pd-M5s. Si pensi solo all'ennesimo voltafaccia sulla Gronda. Avrei voluto fare qualcosa insieme anche a Palermo ma per dinamiche interne al centrodestra è saltato tutto e noi non possiamo stare con chi sta governando male la Regione. Quanto al 2023 è talmente lontano che ancora può succedere tutto e il contrario di tutto. Di coalizioni ragioneremo da settembre».

«Se 4mila euro per ricevere le carte vi sembran poche…» Matteo Renzi racconta il suo viaggio da incubo nella giustizia: «Oramai le sentenze della Cassazione valgono meno dei talk show». Ecco un estratto esclusivo del nuovo libro "Il mostro". Il Dubbio il 17 maggio 2022.

Pubblichiamo un estratto esclusivo del nuovo libro di Matteo “Il mostro. Inchieste, scandali e dossier. Come provano a distruggerti l’immagine”, pubblicato per Piemme da Mondadori (Libri S.p.A. ©️ 2022 Mondadori Libri S.p.A., Milano).

«Dopo oltre due anni, finalmente, chiudono le indagini e consegnano le carte. Vado in tribunale e chiedo il file che mi riguarda. Mi rispondono che sono novantaquattromila pagine. Mi domando quanti poveri alberi del pianeta debbono soffrire i danni collaterali di questa indagine. E tuttavia chiedo le carte. Mi dicono: prima lei deve strisciare. Strisciare? Hanno scelto quello sbagliato, penso. Poi mi spiegano: strisciare la carta, la carta di credito. Per sapere tutto ciò che i Pm hanno fatto su di me devo pagare allo stato oltre 4.000 euro perché le carte sono tante. Cioè 4.000 euro per sapere che cosa lo stato ha fatto della mia vita. Vi sembra giusto?

Ho pensato: ma se uno non ha soldi, come fa? Comunque 4.000 euro a me non fanno la differenza, ma per molte famiglie sì. Non mi sembra giusto questo modo di procedere ma decido comunque di rispondere con le armi della giustizia e non con la polemica. Non firmo comunicati stampa, non grido al complotto, non propongo leggi ad personam. Faccio l’imputato, studio le carte, firmo ricorsi. E dimostro in modo inequivocabile – anche con questo libro – che la verità dei fatti è diversa da quella raccontata. Ecco perché non accetto che si dica che io sto attaccando come tutti i politici quelli che indagano su di me. Io sto facendo – per una volta – quello che dovrebbero fare tutte le persone, ma che comprensibilmente non tutti possono permettersi di fare, per varie ragioni: rispondere colpo su colpo alle ingiustizie non permettendo a nessuno di violare la legge. Nemmeno ai magistrati.

Già, perché nella vicenda Open non solo c’è l’invasione di campo sul decidere chi e come può fare politica, non solo c’è da pagare l’obolo per sapere di che cosa ti accusano, non solo c’è una rappresentazione mediatica che ti trasforma in un gangster solo per aver provato a cambiare l’Italia, visto che nei fatti l’unica vera accusa che ti muovono è quella di fare politica, non altro. C’è di più. Nella vicenda Open, per cinque volte, prima del rinvio a giudizio, la Corte di Cassazione annulla le decisioni del Pm. Cinque volte solo nelle indagini preliminari. Ci rendiamo conto? È un record straordinario: se per cinque volte i magistrati della Cassazione – e stiamo parlando di magistrati, dunque non della riunione degli iscritti di Italia Viva – mettono nero su bianco che i metodi, le ragioni, le risultanze dell’indagine Open non sono rispettosi della legge significa che qualcosa non funziona più.

Non ci credete? Le sentenze della Cassazione sul caso Open dovrebbero entrare nei manuali che studiano i giovani per presentarsi al corso per magistrati. La sintesi più efficace è quando l’attività istruttoria del Pm di Firenze viene definita «un inutile sacrificio di diritti». Mai come in questo caso si applica bene una celebre frase di Kafka: «Una gabbia andò in cerca di un uccello». Dunque il Pm, alla ricerca di reati, compie un «inutile sacrificio di diritti». Il Pm sacrifica i diritti, non l’imputato. Ricapitolando. Il giudice penale decide che l’azione politica di Matteo Renzi e dei suoi amici è illegale. Perché? Forse ruba? No. Perché loro dicono di non voler fare una corrente, ma il giudice penale ha deciso che quella è una corrente. C’è una legge che disciplina come funzionano le correnti? No. È una scelta del giudice dire che quella è una corrente. Sulla base della decisione politica del giudice, si apre un’inchiesta che diventa un processo che diventa uno show che per tre anni finisce costantemente sulle prime pagine ed è centrale in quasi tutte le trasmissioni televisive di politica.

Solo nel primo giorno di perquisizioni 197 finanzieri vengono tolti dalla lotta al crimine per sequestrare i telefonini ai miei amici. E i telefonini vengono sequestrati non per prendere i dati dei bonifici, ma per fare la pesca a strascico. Per scoprire se c’è dell’altro. Per tenere sotto pressione chi si vede sequestrati l’album delle foto, le chat private, i dati personali. La Cassazione per cinque volte dà torto ai Pm, ma ormai il danno mediatico e politico è fatto. Perché siamo in un tempo in cui le sentenze della Cassazione valgono meno dei talk show e dei tweet. E parte del mondo del giornalismo ci marcia sopra. Italia Viva parte con il 5% dei sondaggi e nelle prime settimane – appena qualche ora prima che deflagri il caso Open – continua a crescere. Gli analisti individuano nel 10% lo spazio cui il nostro partito può puntare. Da quando esplode la vicenda Open siamo costretti alla difensiva in qualsiasi evento mediatico cui partecipiamo, tutti, anche chi neanche sa dove sia la Leopolda.

Mi hanno massacrato con un rilievo mediatico impressionante su una cosa che non ho fatto io, ma che a mio avviso non è comunque reato, nemmeno formale, e lo hanno fatto per poter demolire l’immagine del bravo ragazzo boy scout e creare l’immagine di un ladro privo di morale. Tanto che da quel momento quando vado in tv – che mi occupi di Covid o di crisi ucraina, di Industria 4.0 o di diritti civili – non c’è una sola volta in cui non mi facciano una domanda sulla vicenda Open».

Caso Davigo, Ermini querela Renzi. La replica: “Eletto col metodo Palamara”. Liana Milella su La Repubblica il 15 maggio 2022.  

Il vicepresidente Csm contro le ricostruzioni nel libro dell’ex premier: “Sulle carte di Amara dice il falso”. Il leader Iv: “So tutto della sua carriera”.

Lo scontro è durissimo. Per giunta alla vigilia di uno sciopero delle toghe che riguarda la legge Cartabia sul Csm. Da una parte Matteo Renzi, dall’altra David Ermini. Il senatore di Rignano contro il vice presidente di palazzo dei Marescialli. Che, quando parla e scrive, lo fa sempre dopo aver ottenuto il via libera dal Quirinale, visto che il suo presidente è Sergio Mattarella.

"Ti denuncio", "Certi aneddoti". È scontro tra Ermini e Renzi. Francesco Curridori il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il vicepresidente del Csm contro l'ex premier che, nel libro Il mostro, lo accusa di aver adottato il metodo Palamara sul caso della loggia Ungheria.  

"Non vedo l'ora di ricevere l'atto di citazione". Matteo Renzi non sembra essere minimamente preoccupato della denuncia che Davide Ermini, vicepresidente del Csm, intende sporgere denuncia nei suoi confronti per quanto scritto su di lui nel libro Il mostro.

"Egli è diventato vicepresidente del Csm grazie al metodo Palamara e io sono uno di quelli che possono testimoniarlo", attacca il leader di Italia Viva che conosce Davide Ermini dal 2004, ossia da quando ricopriva il ruolo di capogruppo della Margherita in Provincia a Firenze. E chi era il presidente di quella provincia in quegli anni? Proprio quel Matteo Renzi che, una volta diventato segretario del Pd, nel 2014 nomina Ermini responsabile giustizia del partito e, quattro anni dopo, lo fa entrare in Parlamento. Insomma, i due inseparabili, ora sono diventati 'fratelli-coltelli'. E Renzi lo rimarca senza remore. "Le cene romane di Ermini, fin dalla scorsa legislatura, sono numerose e tutte verificabili e riscontrabili", scrive il leader di Italia Viva in una nota in cui ricorda la bocciatura di Ermini a candidato sindaco del suo paese natìo, Figline Valdarno. Renzi assicura che la storia del vicepresidente del Csm è talmente "ricca di aneddoti che sarà piacevole raccontare in sede civile a cominciare dai numero scambi di sms di questi anni". E conclude: "Quanto ai verbali ricevuti da Davigo, e inspiegabilmente distrutti, Ermini avrà modo di chiarire in sede giudiziaria il suo operato". Il diretto interessato, dal canto suo, sostiene che tale affermazione sia"temeraria e falsa" dal momento che le carte mostrate da Davigo sono una "copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile" e pertanto "il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all'autorità giudiziaria".

Tutta la querelle nasce da alcuni estratti del libro 'Il mostro' che ha già iniziato a far discutere. A tal proposito, nell'anticipazione de Il Giornale di oggi, Renzi attacca duramente la corrente di Magistratura Democratica, ma chiarisce: "Io non attacco i magistrati. Anzi, difendo i magistrati che lavorano bene, come quelli in prima linea sulle inchieste contro la criminalità, dall'ondata negativa che deriva dai comportamenti sbagliati di alcuni loro colleghi, una minoranza. Ma chiedo che i giudici abbandonino la facile via del corporativismo". E ancora: "La mia battaglia per la meritocrazia diventa un pericolo. Anche perché tutti sanno che finché saranno decisive le appartenenze alle singole correnti, il merito conterà meno".

Il meloniano Edmonio Cirielli, questore della Camera, annuncia l'intenzione di presentare un'interrogazione parlamentare al ministro Marta Cartabia, dopo lo scambio di accuse tra Ermini e Renzi. "È la conferma che, dopo lo scandalo Palamara, il Presidente della Repubblica, come capo del Csm, avrebbe dovuto chiederne lo scioglimento e non accontentarsi di poche dimissioni peraltro non di tutti i coinvolti", dichiara il parlamentare di FdI.

Scontro a sinistra sul Sistema. Ermini (Csm) denuncia Renzi. Stefano Zurlo il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

Querela per il nuovo libro. La replica: "Non vedo l'ora". E i magistrati temono il flop per lo sciopero di oggi.

Il rischio è quello di un flop. O di un mezzo fallimento. Fra dubbi e paure, la magistratura sciopera e l'astensione arriva nelle stesse ore in cui esplode l'ennesimo, sconcertante spettacolo pirotecnico sulla giustizia, tutto in area sinistra. Il vicepresidente del Csm dem David Ermini querela l'ex premier ed ex segretario del Pd Matteo Renzi, uno dei suoi grandi elettori che più volte si è detto pentito di quella scelta. Per Renzi, l'ascesa di Ermini è figlia del metodo Palamara da cui poi avrebbe preso le distanze alla velocità della luce dopo l'esplosione dello scandalo che ha mortificato la corporazione togata; Ermini viene fatto a fette anche nel libro «Il mostro», in uscita domani. Il numero due del Csm non ci sta e annuncia che lui e Renzi si rivedranno in tribunale. «Non vedo l'ora di ricevere l'atto di citazione - controreplica il senatore - . Potrò dunque raccontare tutto ciò che in questi lunghi anni l'avvocato David Ermini ha detto, scritto e fatto. Egli è diventato vicepresidente del Csm grazie al metodo Palamara e io sono uno di quelli che possono testimoniarlo. La sua storia è ricca di aneddoti che sarà piacevole raccontare, a cominciare dai numerosi scambi di sms di questi anni».

E, come se non bastasse, c'è anche il capitolo, comunque sia andata poco edificante, dei verbali dell'avvocato Amara che Davigo avrebbe consegnato a Ermini e lui avrebbe cestinato. Sul punto la difesa di Ermini è tutta tecnica: «Sostenere che io avrei distrutto materiale ufficiale proveniente dalla procura di Milano è affermazione falsa e temeraria, essendo il cartaceo mostratomi da Davigo copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile».

Insomma, la bufera va avanti e dopo aver travolto numerosi consiglieri di Palazzo dei Marescialli ora minaccia la poltrona del vice di Mattarella.

Le toghe però hanno stabilito di andare all'attacco e di schierarsi contro il governo e la maggioranza omnibus che ha faticosamente raggiunto un compromesso sul testo Cartabia. Pagine che peraltro devono ancora essere votate al Senato, ma l'Anm non ha cambiato idea e anzi mercoledì i suoi vertici hanno diffuso un appello, inneggiando ai sacri valori della Costituzione e chiamando a raccolta tutti i colleghi.

La verità è che su 9650 giudici in servizio sono solo 1400 quelli che hanno proclamato l'agitazione. Una percentuale modesta, non superiore al 15 per cento della magistratura italiana. Insomma, il rischio è che molti, a sorpresa ma neanche tanto, decidano di fare di testa loro e si presentino a Palazzo di giustizia per lavorare.

Dopo tutto quello che è successo, sarebbe un disastro d'immagine per l'Anm oggi presieduta da Giuseppe Santalucia. Il Foglio ha addirittura ipotizzato un'adesione non superiore al 50%: dunque un magistrato su due potrebbe disertare la prova di forza. È probabile che le cifre siano più alte, ma comunque non linea con gli scioperi degli anni scorsi, quando l'80-90 per cento dei giudici condivideva le ragioni dell'Anm e rimaneva a casa.

Si vedrà. Certo, sconquassi, delegittimazioni, ricorsi di ogni genere hanno tolto forza e autorevolezza ai giudici tricolori che però insistono sulla linea barricadiera. E puntano il dito, fra l'altro, contro la separazione delle funzioni, che sia chiaro non è quella delle carriere, e ancora di più con il fascicolo delle performance, introdotto da Cartabia.

Per la prima volta, secondo eminenti analisti, i giudici verranno finalmente valutati in concreto, rispetto alle loro decisioni, rinvii a giudizio, sentenze e via elencando. In ogni caso, i tempi della grande guerra alla politica e al mondo berlusconiano appaiono irrimediabilmente lontani.

Le toghe hanno perso appeal e anzi tanti giudicano le innovazioni portate da Cartabia poca cosa rispetto a quel che si dovrebbe fare e che potrebbe passare per la porta stretta dei referendum se il 12 giugno verrà raggiunto il quorum.

L'Anm però ha deciso di non indietreggiare. Con un moto d'orgoglio ma anche con una certa dose di temerarietà. I numeri chiariranno la portata della sfida.

(ANSA il 16 maggio 2022) - "David Ermini ha annunciato di querelarmi per ciò che ho scritto. Non solo confermo tutto, ma rilancio e aggiungerò altre carte e documenti in Tribunale. Se il vicepresidente del Csm pensa di impaurirmi, ha sbagliato persona. Ma, credetemi, la vicenda di Ermini è nulla rispetto a ciò che c'è scritto ne "Il Mostro". Noi andiamo avanti belli gagliardi, a testa alta". Così Matteo Renzi nella sua e-news.

(ANSA il 16 maggio 2022) - "Quello che dovevo dire l'ho detto nel comunicato, io poi veramente non ho altri problemi... Quello che dovevo dire l'ho detto". Lo ha affermato David Ermini, vicepresidente del Csm, rispondendo ai giornalisti che lo interpellavano sullo scontro con Matteo Renzi sulle rivelazioni contenute nel nuovo libro dell'ex premier, 'Il Mostro'. Ermini ha parlato a margine della presentazione di un libro su Vittorio Bachelet ai ragazzi dell'Isis Gobetti-Volta di Bagno a Ripoli (Firenze)

Da “La Verità” il 16 maggio 2022.  

Il libro sarà in vendita da domani, ma ancor prima che Il Mostro arrivi in libreria ecco pronta la prima querela per Matteo Renzi, che ne è l'autore. «Con riferimento alla vicenda degli interrogatori di Piero Amara sulla presunta "loggia Ungheria"», comunica il vicepresidente del Csm, David Ermini, ad agenzie unificate, «sostenere che io avrei distrutto "materiale ufficiale proveniente dalla Procura di Milano" eliminando "il corpo del reato" è affermazione temeraria e falsa, essendo il cartaceo mostratomi dal dottor Piercamillo Davigo, come ho più volte pubblicamente precisato e come il senatore Renzi sa benissimo, copia informale, priva di ufficialità, di origine del tutto incerta e in quanto tale senza valore e irricevibile. Il senatore Matteo Renzi ne risponderà davanti all'autorità giudiziaria».

Il riferimento di Ermini sono gli estratti del libro del leader di Italia viva pubblicati ieri da La Verità: «Tra un mediocre e un cattivo bisognerebbe sempre preferire il cattivo: almeno il cattivo ogni tanto si riposa. David Ermini passerà alla storia come il vicepresidente del Csm che riceve un membro del Csm, uno dei più autorevoli e visibili peraltro, Piercamillo Davigo, e brucia o distrugge il materiale ufficiale, proveniente dalla procura di Milano, che Davigo gli consegna, comprovante l'esistenza di una loggia segreta che avrebbe impattato sulla vita delle istituzioni».

Ermini si dice amareggiato: «Non consentirò mai a nessuno di mettere in discussione la mia lealtà istituzionale che è e sarà sempre libera da condizionamenti», afferma. Renzi non sembra farsi impressionare e replica a stretto giro: «Leggo che il vicepresidente del Csm intende denunciarmi per ciò che ho scritto ne Il Mostro. Non vedo l'ora di ricevere l'atto di citazione.

Potrò dunque raccontare - libero da ogni forma di prudenza istituzionale - tutto ciò che in questi lunghi anni l'avvocato David Ermini ha detto, scritto e fatto. Egli è diventato vicepresidente del Csm grazie al "metodo Palamara" e io sono uno di quelli che possono testimoniarlo.

Le cene romane di Ermini - fin dalla scorsa legislatura - sono numerose e tutte verificabili e riscontrabili. La sua storia da candidato sindaco bocciato a Figline Valdarno, aspirante consigliere provinciale, poi da parlamentare e da candidato vicepresidente del Csm è ricca di aneddoti che sarà piacevole raccontare in sede civile a cominciare dai numerosi scambi di sms di questi anni. Quanto ai verbali ricevuti da Davigo, e inspiegabilmente distrutti, Ermini avrà modo di chiarire in sede giudiziaria il suo operato». Se ne riparla in aula di Tribunale.

"Non sono nemico dei pm. Con Bruti salvai l'Expo". Matteo Renzi il 16 Maggio 2022 su Il Giornale.

Le rivelazioni dell'ex premier: "L'evento non saltò grazie a un caffè con il procuratore di Milano".

Voglio rivolgermi per un istante ai giovani magistrati. A quelli che frequentano la scuola di Castelpulci, struttura che la mia amministrazione provinciale mise a disposizione del ministero della Giustizia ormai quindici anni fa per farne la scuola nazionale dei nuovi giudici. Non pensate che io mi sia comportato come un don Chisciotte desideroso di sfidare i vostri colleghi più anziani. Non ho mai rinunciato a pensare con la mia testa, e questo mi sembra evidente oltre che giusto, ma ho sempre cercato la collaborazione istituzionale. E non solo con i tanti magistrati che lavoravano negli uffici ministeriali (troppi, peraltro: il vero problema della mancanza di indipendenza tra politica e magistratura è questo, la capillare e pervicace presenza di magistrati in tutti gli uffici burocratici). No. Io ho cercato sempre di valorizzare dei magistrati di qualità, sia nelle nomine delle autorità di vigilanza e controllo sia creando con Raffaele Cantone l'AnaC, divenuta ben presto un modello europeo e internazionale e poi colpevolmente ridimensionata dal governo a guida grillina. Ma sempre ho cercato il dialogo istituzionale.

Uno degli episodi sintomatici di questa collaborazione è stata la vicenda Expo di Milano. Quando sono arrivato a Palazzo Chigi la situazione giudiziaria era fluida e complessa e molti appalti stavano saltando. Non svelo un segreto se affermo che l'allora commissario Beppe Sala era pronto a dimettersi e si sfogò in più di una circostanza sia con me sia con il ministro Martina, che avevo delegato a seguire l'evento, non avendo la possibilità concreta di portare avanti l'impegnativa sfida. Oggi tutti a magnificare l'Expo, ma in quelle ore il destino della manifestazione sembrava segnato. Dalla Turchia il governo Erdogan immaginava già di rilanciare l'alternativa Smirne, che era la città sconfitta da Letizia Moratti e da tutti i milanesi per ospitare l'evento. Dopo le difficoltà rappresentatemi da Beppe Sala e Maurizio Martina decisi di confrontarmi con un magistrato di grande intelligenza e sensibilità politica che mi spiegò un concetto semplice: vai a incontrare il procuratore di Milano, Bruti Liberati, già presidente dell'Anm e ora capo della procura meneghina. Spiegagli il problema. Capirà. Tutto perfettamente nella norma, s'intende. Ma questo feci: presi l'aereo, arrivai a Linate e in una saletta riservata incontrai Bruti Liberati, dicendogli: «Caro procuratore, noi vi mettiamo a disposizione tutte le carte, tutte le procedure, tutte le strutture governative. Ma voi dovete aiutarci a fare questa Expo. Perché se salta l'Expo per Milano è una ferita allucinante. Ma se l'Expo si fa, la città svolta e riparte. Mi aiuti a capire come fare, noi vogliamo collaborare». Il ruolo straordinario dell'AnaC di Raffaele Cantone e una norma ad hoc studiata dalla dirigente a Palazzo Chigi, Antonella Manzione, permisero di superare l'impasse. Di evitare la crisi istituzionale. E di gestire in modo unitario e condiviso l'evento. Dunque: io non sono un ideologico nemico dei magistrati. Avevo l'obiettivo di salvare l'Expo a Milano e mai come oggi sono fiero e orgoglioso di avercela fatta. Per raggiungere questo obiettivo avrei fatto di tutto, a maggior ragione prendere semplicemente un caffè col procuratore del capoluogo lombardo. Ma se invece oggi mi aggrediscono perché vogliono mettermi un cordone sanitario, reagisco. Senza rabbia, senza sconti: pubblico documenti, presento denunce, faccio interviste. Faccio interrogazioni parlamentari, esercito il mio ruolo costituzionalmente garantito, scrivo libri e articoli. Faccio una battaglia di civiltà a viso aperto senza fermarmi ai comunicati stampa dell'Associazione nazionale magistrati con il lieve retrogusto della minaccia. Non appanno un bel niente, io.

COSA C’È NE “IL MOSTRO”. Il nuovo libro di Matteo Renzi: «Perché la politica non vuole indagare sulle ruberie Covid?» Il Domani il 14 maggio 2022

Matteo Renzi ha scritto un nuovo libro, per Piemme, intitolato Il mostro – Inchieste, scandali e dossier: come provano a distruggerti l’immagine. È incentrato sulle sue vicende giudiziarie, con pesanti critiche ai magistrati che le hanno condotte. Ne pubblichiamo qui un estratto in cui rilancia alcune delle questioni sollevate dalle inchieste di Domani. 

Matteo Renzi ha scritto un nuovo libro, per Piemme, intitolato Il mostro – Inchieste, scandali e dossier: come provano a distruggerti l’immagine. È incentrato sulle sue vicende giudiziarie, con pesanti critiche ai magistrati che le hanno condotte. Ne pubblichiamo qui un estratto. 

Abbiamo assistito al pagamento di centinaia di milioni di euro in provvigioni per le mascherine, con personaggi improvvisati diventati tutto d’un colpo molto ricchi nel momento di maggiore dolore della comunità nazionale. Abbiamo assistito ad acquisti di materiale non utile come i banchi a rotelle di Azzolina e Arcuri o i ventilatori cinesi malfunzionanti, ma garantiti da Massimo D’Alema.

Abbiamo appurato come strani incontri si tenessero nello studio che era stato del presidente del Consiglio Conte, con l’avvocato amico e collaboratore dell’avvocato Conte, nel palazzo del mentore del professor Conte, dove alcuni legali pretendevano una percentuale sull’eventuale acquisto di mascherine operato dal commissario straordinario nominato da Giuseppe Conte, incontri ai quali ha partecipato un alto dirigente dei Servizi segreti che allora erano sotto la diretta responsabilità di chi? Ma di Conte naturalmente.

E nei primi mesi del 2021, quando i media annunciano l’avvio di un’indagine e Figliuolo prende il posto di Arcuri, l’avvocato amico di Conte – mi riferisco all’avvocato Luca Di Donna – viene ripreso e fotograficamente immortalato, ma non fermato, dagli inquirenti mentre è alle prese con un febbrile lavoro di viaggi avanti e indietro verso i cassonetti della nettezza urbana. Stava forse distruggendo prove? Magari erano solo le pulizie di primavera. 

Ma, al di là di questi particolari, perché i Cinque Stelle non hanno mai voluto accettare la proposta di una commissione di inchiesta sugli acquisti Covid che noi abbiamo lanciato in tutte le sedi e che evidentemente qualcuno non ha interesse a realizzare? Eppure noi l’abbiamo chiesta ovunque, non solo negli atti parlamentari, ma anche nelle trasmissioni televisive.

LA MISSIONE RUSSA

Ancora ad aprile 2022, partecipando a Porta a Porta ho rilanciato questa esigenza di un focus parlamentare sulla vicenda Covid. Si fanno commissioni di inchiesta su fatti anche minimi, non certo di primaria importanza: perché negare la commissione di inchiesta proprio su questo?

Del resto potrebbe essere una ghiotta occasione anche per capire meglio la strana storia dell’accordo tra Conte e Putin che ha portato, nei primi mesi del 2020, una missione dell’esercito russo in Italia. La missione si chiamava “Dalla Russia con amore” e avrebbe dovuto rappresentare un aiuto russo nella gestione della pandemia, ma con molti profili di stranezza. C’erano più militari che dottori e i costi erano a carico dell’Italia; taluni accordi, come quello con l’ospedale Spallanzani di Roma, hanno lasciato diversi interrogativi, alcuni dei quali inquietanti come dimostrano le inchieste di alcuni media.

E mentre sono seduto nello studio di Bruno Vespa vengo sorpreso da una frase secca di Stefano Feltri, direttore di Domani.

Io rilancio sulla necessità di una commissione di inchiesta sul Covid, sugli acquisti di Arcuri e i militari russi di Conte, e il giornalista risponde: «Hanno tutti qualcosa da nascondere, ognuno di quelli che hanno mangiato sul Covid ha un referente politico».

Rispondo piccato: «Eh no, non siamo tutti uguali, noi siamo gli unici a chiedere di sapere che cosa è successo».

Purtroppo Feltri sembra aver ragione perché, con l’eccezione di Italia Viva, pare proprio che questa commissione di inchiesta non la voglia nessuno.

Ecco perché possiamo prendere lezioni da tutti, ma non dai Cinque Stelle. Urlavano «Onestà» e chiedevano trasparenza.

Adesso sussurrano giustificazioni prive di logica e insabbiano ogni richiesta di fare chiarezza sulle stranezze legate agli approvvigionamenti Covid. Perché? Che cos’hanno da temere? Chi ha preso quelle provvigioni? Perché alti dirigenti dell’intelligence partecipavano a riunioni negli studi privati di alcuni avvocati (e chissà quali avvocati...)? 

Vorrei invitarvi a fare un piccolo calcolo. Per la vicenda Open – considerato il più grande scandalo della storia repubblicana da certi politici appoggiati da media compiacenti – si parla di tre milioni di euro, denaro privato regolarmente bonificato a fondazioni riconosciute dalla legge che hanno inserito questi soldi in bilancio. E il presunto reato – molto presunto perché, come abbiamo visto all’inizio del libro e come vedremo alla fine del processo, non sta in piedi – sarebbe quello di una rendicontazione fatta con il modulo della fondazione anziché con il modulo del partito.

Per la vicenda Covid stiamo parlando di appalti di miliardi di euro pubblici (non tre milioni privati trasparenti) che sarebbero andati non si sa bene a chi, non si sa bene per cosa, non si sa bene sulla base di quale procedura decisionale. Eppure i media hanno dedicato a Open, secondo studi di agenzie indipendenti, ventisette volte lo spazio che hanno dedicato alle mascherine e al Covid. Non vi viene da gridare la rabbia e l’indignazione o semplicemente da domandarvi: che cosa c’è sotto?

Nel nuovo libro "Il mostro" Matteo Renzi accusa il pm che lo indagò. Matteo Renzi su Il Tempo il 15 maggio 2022.

Pubblichiamo un estratto del capitolo «Nastasi, quelle strane indagini notturne» dell’ultimo libro di Matteo Renzi «Il Mostro».

Nel momento in cui ricevo l’avviso di garanzia non ho la minima idea di chi sia questo Pm, Antonino Nastasi. Quando un anno dopo me lo trovo davanti nel primo interrogatorio mi sono già fatto un’idea di lui. 

Ho letto il suo curriculum e questo mi basta per dire che il suo stile è poco serio. E non per l’arroganza di arrivare in ritardo, a metà interrogatorio: può capitare a tutti un contrattempo, per carità. L’arroganza è in tutto il resto, dal modo con il quale conduce le indagini autoassegnandosi i fascicoli fino al modo con il quale attacca i parlamentari manifestando sottili forme di minaccia nei loro confronti. Non è la puntualità dunque il problema del dottor Nastasi. Anche perché se al mio interrogatorio egli arriva in ritardo, è in un altro posto, ben più drammatico, che Nastasi arriva fin troppo presto: la sede del Monte dei Paschi di Siena in una tragica notte del 2013.

Riavvolgiamo il nastro. Con un’avvertenza: siamo dentro uno dei più clamorosi scandali della storia repubblicana, sottaciuto e minimizzato da larga parte dell’opinione pubblica e rilanciato con forza da alcuni esponenti del mondo dell’informazione che pure non sono mai stati teneri con me ma cui è giusto pagare un tributo: la trasmissione Mediaset Le Iene, che da sempre cerca di fare luce sul caso con il giornalista Antonino Monteleone, e l’attuale direttore del «Tempo», Davide Vecchi, autore di due libri sul caso David Rossi che andrebbero letti ma che invece vengono ignorati.

Aggiungo che questa vicenda non ha niente a che vedere con lo scandalo politico che consiste nella distruzione sostanziale del Monte dei Paschi di Siena, la più antica banca al mondo, tra la fine del secolo scorso e l’inizio di questo. La mia opinione è che alla fine sia stato il presidente Giuseppe Mussari a divenire per mille ragioni l’unico responsabile, forse il capro espiatorio di una clamorosa serie di errori compiuti dalla classe dirigente nazionale di questo Paese.

Ma le cose non stanno come sembrano. E sarebbe interessante un giorno scrivere la verità sui tanti errori, da Banca 121 ad Antonveneta, del glorioso Monte dei Paschi di Siena, il cui epitaffio potrebbe suonare così: la banca che sfangò la peste e le guerre mondiali, ma non sopravvisse alle cure dei dirigenti dalemiani. Qui però non si parla di questo, di banche o politica o acquisizioni. Qui si parla di sangue e di morte.

Nella serata del 6 marzo 2013 un alto dirigente del Monte dei Paschi di Siena precipita dal quarto piano del palazzo nel quale lavora. Il dirigente si chiama David Rossi, è il capo della comunicazione della banca proprio mentre l’istituto di credito sta attraversando giorni difficilissimi. Si rincorrono notizie su provvedimenti giudiziari in arrivo, c’è tensione palpabile nella meravigliosa ma complicata città toscana, non mancano preoccupazioni sul futuro dei lavoratori, stressati negli ultimi lustri da decisioni politiche e manageriali discutibili. David Rossi muore cadendo dalla finestra. Si suicida, come in molti dicono immediatamente anche facendo riferimento a una lettera di addio, a una email preoccupata inviata all’amministratore delegato in mattinata? Oppure è successo qualcosa di diverso come sostengono alcuni, evidenziando una serie di stranezze sia sulla scena del delitto sia nella ricostruzione della caduta? Ovviamente nessuno di noi conosce la verità. In casi come questi tocca agli investigatori capire che cosa sia successo. Ma l’indagine condotta dai magistrati di Siena è vergognosamente superficiale e piena di errori e omissioni. E ancora oggi quella vicenda non è chiara. Al punto che, a distanza di ben otto anni, la Camera dei deputati deciderà di istituire una commissione di indagine per capire di più su ciò che è accaduto quella notte nei vicoli senesi adiacenti Rocca Salimbeni. Tocca alla Camera dei deputati perché gli inquirenti di Siena hanno sbagliato, solo alcuni giudici di Genova hanno provato a correggere, il Csm si è sostanzialmente disinteressato.

Dice il presidente della commissione d’inchiesta, l’onorevole Zanettin: «Sicuramente ci sono delle lacune gravi nella prima inchiesta ci sono aspetti di superficialità che lasciano perplessi». Lacune e superficialità, come minimo. Volutamente o casualmente, non è dato saperlo. Anche perché nel corso degli anni alcune trasmissioni televisive e alcuni giornali hanno oggettivamente squarciato un velo sui troppi misteri dell’affaire Rossi: colpa degli scandali finanziari? Ci sono state ombre per la partecipazione di alcuni importanti membri della comunità senese a party gay, come sostengono alcuni escort? C’è forse l’ombra di ricatti di vario genere?

Non tocca a me, né ne sarei capace, stabilire ciò che è davvero accaduto nella stanza del povero David Rossi. Aggiungo che, per come vedo io la cosa, ogni ipotesi avanzata da chi non ha titolo per farlo non è che una ulteriore ferita inferta ai familiari, che da anni con dolore e dignità chiedono di arrivare a dire una parola definitiva di verità. Quello che è certo è che le indagini sono condotte in modo sbrigativo. E gli inquirenti mostrano una superficialità, per essere ottimisti, o una incapacità, per essere malevoli, che lascia sbigottiti. Davanti alle domande dei commissari della Camera dei deputati, membri della polizia giudiziaria smentiscono i Pm. I Pm smentiscono se stessi. Spuntano prove tralasciate, testimoni non sentiti, coincidenze imbarazzanti. Tutti dicono tutto e nessuno capisce davvero come siano andate le cose. Antonino Nastasi, il Pm che qualche anno dopo riceve notorietà nazionale firmando il mio avviso di garanzia e si occupa di conoscere la verità sulla fondazione Open, quella notte era lì. Era infatti in forza alla procura di Siena. Era lì e certo non può essere l’unico responsabile di indagini fatte male, sulle quali il Csm non ha ritenuto di dire una parola di chiarimento per anni e su cui la procura di Genova, competente per territorio, ha troppe volte rinunciato a intervenire in modo incisivo. Nastasi era lì quella sera. E io non posso certo attribuire a lui tutte le colpe di una indagine imbarazzante per come viene condotta, con la scaena criminis che viene inquinata dagli stessi investigatori, che secondo i testimoni si siedono dove non debbono sedersi, toccano oggetti che non avrebbero dovuto toccare cancellando le tracce, permettono che si svuotino i cestini dove vi sarebbero tracce di sangue del Rossi. Non importa essere laureati in legge: basta aver visto una serie tv americana per sapere che la scaena criminis non si tocca.

E invece no, la scena viene inquinata innanzitutto dagli investigatori che non rispettano le minime regole del gioco, le minime precauzioni. Nastasi era lì, quella sera. E insieme ai suoi colleghi svolge le prime indagini arrivando subitaneamente alla conclusione che Rossi si è suicidato. E poco importa se le telecamere mostrano un orologio che vola dal quarto piano dopo che Rossi è già caduto e morto. E poco importa se nella ricostruzione di telefonini ed email troppi elementi lasciano dubbi. E poco importa se lo stesso Nastasi si smentisce, prima dicendo ai commissari di ricordare «nitidamente» di non essere mai sceso in strada – particolare che davanti a un cadavere uno dovrebbe pur ricordare, anche solo per umana emozione e dolore – e poi ammettendo invece che l’uomo ritratto nella foto nel vicolo nei pressi della salma è davvero lui, cosa che aveva appena negato con forza. E meno male che lui era sicuro di non essere sceso in strada, lo ricordava «nitidamente».

Il punto però – per la mia vicenda, in questo caso – non sono le indagini fatte male. Ciò è uno scandalo su cui la procura di Genova e il Csm dovrebbero dire parole definitive. Il punto non è nemmeno che Nastasi abbia mentito alla commissione di inchiesta: in tribunale a Firenze ormai lo chiamano tutti sottovoce «Nitidamente». E il punto non è nemmeno la clamorosa contraddizione tra ciò che dice l’ufficiale dei carabinieri Aglieco e ciò che dice il procuratore Nastasi sul telefonino della vittima: entrambi si accorgono che sta chiamando l’onorevole Santanchè, poi divergono le versioni sull’utilizzo del cellulare del defunto.

Il punto è che quella sera Nastasi era lì, entra nella stanza di Rossi, verifica quello che è successo, decide che è un suicidio (e magari, sia chiaro, lo è davvero). Ma il punto è che Nastasi quella sera era lì, ma non doveva stare lì. Già, non doveva. Non ne aveva titolo. Si è intrufolato senza alcun titolo giuridico dentro una vicenda che competeva a un suo collega, il Pm di turno, non a lui. Un Pm non può autoattribuirsi delle indagini. La Costituzione e la legge prevedono che vi sia un giudice naturale costituito per legge. Cosa significa? Che ci sono delle procedure da rispettare per decidere chi deve indagare su un determinato fatto. Nastasi non segue la legge. Nastasi non è il Pm di turno a Siena. Eppure troviamo Nastasi sulla scaena criminis, nel vicolo dove è caduto il povero David Rossi, dentro una indagine condotta con uno stile improvvisato e piena di errori marchiani.

Ma chi ha deciso che lui dovesse essere lì? La legge? No. Lo ha deciso lui stesso. E non ha neanche chiamato il suo capo per farsi autorizzare, ma prima ha proceduto a fare le indagini e poi, solo molte ore dopo, si è visto attribuire il fascicolo. Ma quando va – in serata – a interrogare la vedova, nessuno lo ha autorizzato. Non funziona così, non può funzionare così. Se un Pm fa quello che gli pare, questo porta all’anarchia giudiziaria. Se poi facendo quello che gli pare concorre alla realizzazione di una delle indagini meno rigorose che la cronaca giudiziaria ricordi, siamo davanti a un vero e proprio scandalo nello scandalo. E se è vero che tutti hanno paura di far notare queste cose perché temono la vendetta giudiziaria, io sono una persona libera che dice ad alta voce quello che tutti pensano e che nessuno afferma: la legge vale per tutti, anche per i Pm. Il fatto che Nastasi si sia arrogato il diritto di entrare in quella stanza quando non era lui il Pm di turno è un errore gravissimo. Lo sarebbe stato anche se il caso fosse stato pacificamente risolvibile. Ma a maggior ragione dopo che si svuotano i cestini, si toccano gli oggetti, si inquina la scena del delitto, si verificano incongruenze nel racconto tra polizia giudiziaria e magistrati, si dice il falso sulla presenza nel vicolo e soprattutto dopo che rimane il dubbio su cosa sia successo al povero David Rossi, l’idea che il Pm Antonino Nastasi sia entrato senza titolo sulla scaena criminis è un colpo inferto al corretto funzionamento delle indagini.

Voi direte: magari è stato un caso. Devi capire, penserete, l’emozione di un tragico evento. Eh no, non ci sto. Davanti ai tragici eventi i magistrati devono essere i primi a mantenere la calma e a rispettare le procedure e la legge. Perché se ognuno fa come gli pare non viviamo più in uno stato di diritto. Prendersi un fascicolo senza essere autorizzati è segno di arroganza inaccettabile. La stessa arroganza che porta Nastasi a rispondere a brutto muso ad alcuni parlamentari. All’onorevole Migliorino, dei Cinque Stelle, dopo che questi ne aveva evidenziato la contraddizione sulla presenza nel vicolo che pure Nastasi «ricordando nitidamente» aveva escluso, il Pm dice: «Lei alterato non mi ha visto e le auguro di non vedermi mai alterato». E alla critica di un deputato della Lega, Borghi, risponde: «Questo non glielo consento» permettendo a Borghi di dargli una lezione di diritto parlamentare: «Lei può non rispondere, ma lei non mi consente proprio niente. Lei in questo momento non sta facendo il Pm, io posso dire quello che voglio. Le spiego qualcosa io di diritto parlamentare: io qui sono rappresentante dei cittadini e le chiedo quello che voglio perché è una cosa che la Costituzione mi consente e una volta magari mi consentiva anche di essere libero da delle pressioni che lei e i suoi colleghi tante volte fanno ad altri miei colleghi, perché i Padri costituenti avevano immaginato una separazione tra noi e la giustizia».

E quando finalmente Nastasi si mette a sedere davanti a me, dopo che sto già parlando con i suoi capi, il procuratore capo e il procuratore aggiunto, nel corso dell’interrogatorio previsto dalla legge, io penso di essere fortunato perché sto pagando con le mie tasse un magistrato che al massimo potrà incriminarmi per un presunto reato di finanziamento illecito che non ho compiuto. Ma quello stesso magistrato ha scelto di entrare in una indagine che non gli competeva su un presunto suicidio, ha risposto con indecoroso sgarbo e senza alcun rispetto istituzionale a dei colleghi parlamentari, di altri partiti, che semplicemente gli stavano ponendo dei dubbi.

Il j’accuse di Renzi: "Quelle toghe rosse che si vantano di non essere imparziali. Come nel caso Lucano".

Matteo Renzi il 15 Maggio 2022 su Il Giornale.

Nel suo ultimo libro l’ex premier attacca Md e il pm Sirianni che invocò per lui un "cordone sanitario": "Si è messo al servizio dell’ex sindaco di Riace indagato.  

Io non attacco i magistrati. Anzi, difendo i magistrati che lavorano bene, come quelli in prima linea sulle inchieste contro la criminalità, dall'ondata negativa che deriva dai comportamenti sbagliati di alcuni loro colleghi, una minoranza. Ma chiedo che i giudici abbandonino la facile via del corporativismo. E soprattutto che accettino di sottoporsi a un giudizio di merito. Sei bravo, fai carriera. Non sei bravo, non fai carriera. Non è che se anche commetti molti errori vai avanti lo stesso perché appartieni alla corrente giusta. Non è possibile che il 99,2% dei magistrati riceva un giudizio positivo, come fa spesso notare il presidente delle camere penali, Gian Domenico Caiazza.

Forse si spiega così una parte della demonizzazione che subisco, della mostrificazione che mi riservano. La mia battaglia per la meritocrazia diventa un pericolo. Anche perché tutti sanno che finché saranno decisive le appartenenze alle singole correnti, il merito conterà meno. E le correnti potranno permettersi di tutto, dalle strane sponsorizzazioni ai convegni, come quello organizzato in Abruzzo da Magistratura democratica con la ricca sponsorizzazione di una malmessa Banca popolare di Bari, una banca i cui rapporti con certa parte del Csm, specie sotto la vicepresidenza Legnini, sono passati sotto traccia.

Faccio un esempio e tocco proprio la corrente di Magistratura democratica. Come altre correnti ha una rivista, che si chiama «Questione giustizia». È diretta da uno storico magistrato, ora in pensione, che si chiama Nello Rossi. Qui ci limitiamo a valorizzare il grande contributo dato dal direttore della rivista di Magistratura democratica: egli propone di stringere attorno a me un cordone sanitario.

Ora vi domando: ma vi sembra possibile che il punto di riferimento, chiamiamolo culturale, di una delle correnti storiche della magistratura, Magistratura democratica, possa parlare di un cordone sanitario rispetto alle idee di un ex premier e nessuno avverta il bisogno di rispondergli? «Stringere un cordone sanitario». Ma adesso tutte le volte che sarò giudicato da un giudice di Magistratura democratica potrà venirmi il legittimo sospetto che ci sia un pregiudizio da parte di chi indaga su di me o di chi mi giudica. Perché se il direttore della rivista di una corrente invita i colleghi a stringere un cordone sanitario, con quale serenità posso mettere piede in un'aula di tribunale? Si dirà: ma è solo l'opinione di uno. Eh no. È l'opinione del direttore della rivista della corrente che decide chi fa carriera e chi no. E quella corrente chiede il cordone sanitario. E non c'è un solo esponente delle istituzioni che si alzi e che dica: scusi, signor direttore della rivista della corrente, il suo cordone sanitario lo utilizzi per altre cose, grazie. Non c'è nessun magistrato iscritto a Magistratura democratica - tra cui, sia detto en passant, c'è anche una parte dei miei accusatori - che avverta l'esigenza di ribadire che nel gioco democratico una corrente dei magistrati non può utilizzare questo linguaggio minatorio e offensivo verso un cittadino, per di più senatore, per di più già capo del governo.

Io non ho paura. Non scriverei un libro se avessi paura. Cercherei di minimizzare, di nascondere, di «troncare, sopire, sopire, troncare» come il Conte Zio di manzoniana memoria. Ma penso che questo metodo sia inaccettabile. E siccome hanno tutti paura a dirlo, io lo scrivo. Perché resti agli atti: non è la politica che invade il terreno della magistratura, è una corrente della magistratura che parla di cordone sanitario verso un senatore, per le sue idee. Idee che - sia detto chiaramente - la Costituzione protegge, quali esse siano, come intoccabili dal potere giudiziario. Perché nella separazione dei poteri nessuno può essere chiamato a rispondere per le proprie idee o per i propri voti. Non mi pare che l'articolo 68 della Costituzione preveda una riserva del tipo: «Nessun parlamentare può essere chiamato a rispondere delle proprie idee, a meno che non sia fiorentino, nel qual caso può essere sottoposto a cordone sanitario preventivo a condizione che ciò sia richiesto da un dirigente di Magistratura democratica».

E per capire come funziona la mentalità di certi magistrati - fortunatamente, a mio avviso, una minoranza - è interessante entrare in una strana vicenda calabrese. L'ex sindaco di Riace, Mimmo Lucano, diventa un'icona delle politiche di accoglienza. I suoi metodi, tuttavia, vengono giudicati illegali dalla procura di Locri che lo porta a processo. Non tocca a me qui discutere della condanna di primo grado che Lucano riceve, che pure appare abnorme, anche rispetto alla contestazione. È interessante leggere gli atti di quel processo. Perché quando gli inquirenti mettono sotto controllo l'amministratore pubblico scoprono che uno dei suoi principali sostenitori è un loro collega. Questo magistrato si chiama Emilio Sirianni ed è un dirigente territoriale di Magistratura democratica, noto per certe performance canore terminate col pugno chiuso dal terrazzo di casa e messe su Facebook. E fin qui passi, anche se pensare che il presidente della sezione Lavoro della Corte d'Appello di Catanzaro esprima le sue idee in questo modo mi pare che offra un'immagine di scarsa imparzialità. Vi immaginate la prima volta che gli arriva sul tavolo il ricorso contro il Jobs Act? Ma ciò che fa Sirianni è molto più grave del pugno chiuso nel video dalla terrazza orgogliosamente postato su Facebook. Intercettato, come raccontano Sallusti e Palamara nel loro libro Lobby e logge, viene scoperto a dare consigli a Lucano, insultando colleghi e politici, suggerendo di parlare poco al telefono. E poi ci sono le parole scandalose che nessun organo istituzionale avverte il bisogno di smentire: «Magistratura democratica è nata con una cultura della corporazione, dicendo: noi non siamo giudici imparziali, o meglio noi non siamo indifferenti, noi siamo di parte».

Intendiamoci: io qualche sospetto l'avevo, non è proprio un fulmine a ciel sereno. Ma vi rendete conto dell'incredibile forza di queste parole? Un magistrato italiano, pagato dal contribuente, mentre interviene spiegando a un indagato come difendersi dalle accuse dei suoi colleghi, in taluni casi scrivendogli pezzi della memoria difensiva - non scritta benissimo, a quanto pare, vista la condanna a tredici anni di carcere in primo grado - teorizza che Magistratura democratica abbia una «cultura della corporazione» e si basa sull'assunto che «noi non siamo giudici imparziali».

Ma non vi viene di mettervi le mani nei capelli? Non può esistere che un giudice faccia ciò che ha fatto Sirianni. E se i giudici come Sirianni anziché fare la lotta alla 'ndrangheta fanno la lotta ai nemici di classe e passano le giornate a scrivere le memorie agli imputati amici, questo è un problema per la magistratura italiana.

Chi è che appanna la figura della magistratura? Io perché scrivo un ricorso o il magistrato di Magistratura democratica che dice queste bestialità nel silenzio imbarazzato di tutti?

C'è gente che va a processo per molto meno: il comportamento di Sirianni è stato archiviato. C'è gente che è stata radiata per molto meno: Sirianni non ha ricevuto nessuna sanzione disciplinare dal Csm.

Matteo Renzi: «Casini mi fece sentire il suo discorso per l’elezione al Quirinale». Matteo Renzi su Il Corriere della Sera il 14 maggio 2022.

Pubblichiamo uno stralcio del nuovo libro di Matteo Renzi («Il mostro»), in uscita martedì 

Pubblichiamo un estratto del libro di Matteo Renzi «Il mostro», in uscita martedì per Piemme.

«N ei primi giorni delle votazioni quirinalizie mi ero tenuto prudente. Come sempre in questi casi avevo più candidati. Dicevo a tutti che per la solidità delle istituzioni la cosa più logica mi sembrava spostare Mario Draghi al Quirinale e rinforzare il profilo politico del governo. Non era un passaggio facile. In molti lo temevano. Io pensavo che Draghi per sette anni avrebbe fatto meglio al Paese di un solo anno a Palazzo Chigi.

Certo: la sua corsa aveva alcuni handicap. E ovviamente tra questi figurava la resistenza molto forte di Cinque Stelle, Forza Italia e Lega. Penso, però, che tale ostilità si sarebbe potuta tramutare in appoggio — perlomeno a destra — se solo Draghi avesse scelto di giocarsi le carte in modo diverso. Più che Draghi, direi i suoi più stretti collaboratori. Draghi infatti è sempre stato straordinariamente signorile. Ha sempre dato la sua disponibilità davvero come «un nonno al servizio delle istituzioni». Avrebbe sicuramente fatto bene al Quirinale e sicuramente farà bene a Palazzo Chigi in questo anno. Non ha brigato. E io posso dire di esserne testimone avendo fatto qualche incontro e telefonata con lui fin dagli anni in cui era alla Bce.

Temo, però, che i suoi collaboratori più stretti — soprattutto Francesco Giavazzi e Antonio Funiciello — abbiano costruito una strategia sbagliata. L’errore dei Draghi’s Boys è stato quello di pensare di arrivare al Quirinale contro la politica, come reazione alla difficoltà della politica. Pensavano di essere chiamati al Quirinale come una sorta di naturale soluzione se si fosse continuata a indebolire la componente politica. Io avevo spiegato invece che la strada maestra era l’altra: provare a offrire ai partiti un patto di legislatura, comprensivo dell’accordo di un nuovo governo, magari più marcatamente politico. E su questo anche Salvini aveva — bisogna dare a Cesare quello che è di Cesare — aperto ufficialmente a inizio gennaio. Non tanto Draghi, ma i suoi hanno insistito per caratterizzare il premier come la soluzione da presentare contro l’inconcludenza dei partiti. È la dimostrazione che si può essere bravi professori all’università, ma che il Parlamento è un’altra cosa. In Italia se vai contro ai partiti puoi arrivare ovunque tranne che al Colle: per come è fatto questo sistema istituzionale, con l’assemblea dei grandi elettori, non si diventa presidente della Repubblica contro i partiti. Mi è parso che Draghi lo avesse molto chiaro nei nostri incontri di gennaio tra Città della Pieve e Roma, ma che i suoi due principali collaboratori non lo abbiano capito per niente. Segno evidente che a Palazzo Chigi, oggi, il più politico di tutti è proprio il premier.

Peccato perché questa incapacità di leggere la politica dei tecnici draghiani ha impedito una soluzione che poteva essere difficile da costruire, ma molto utile per il Paese. Chi per qualche ora ha assaporato l’elezione è stato Pier Ferdinando Casini, il decano dei parlamentari, un moderato apprezzato in tutti gli schieramenti. Ma alla fine — questa è la verità — non è stato voluto da Salvini e dalla Lega, nonostante il placet che da Forza Italia al Pd era arrivato in modo più o meno esplicito. Sono testimone del fatto che Casini ha vissuto come sull’ottovolante quelle ore, ma sempre con una tenuta di nervi e un rispetto istituzionale che lo qualificano per quello che è, un galantuomo, e che fanno immaginare che avrebbe servito benissimo il Paese alla presidenza della Repubblica come lo aveva già fatto alla presidenza della Camera.

Quando ho capito che era tutto finito, ho chiamato Casini e gli ho offerto una pizza e una buona bottiglia di champagne a casa mia a Roma, con un nostro comune amico. Doveva essere la cena della condivisione della sconfitta perché io so per esperienza diretta che quando si vince sono tutti lì e quando si perde si è da soli. Così il giovedì sera chiamo Pier e condivido una buona bevuta scherzando e prendendoci un po’ in giro. Mi fa sentire il finale del primo discorso che avrebbe pronunciato a sedute riunite: bellissimo, con una citazione toccante di papa Giovanni Paolo II.

«Bel lavoro, tienilo per il 2029» gli dico scherzando. Lui mi manda a stendere: «Me lo hai già detto sette anni fa». E ovviamente ci ridiamo sopra come fanno due professionisti che sanno che in politica le cose non vanno quasi mai come vorremmo. Verso le 23, ennesimo colpo di scena: telefonata dal quartier generale Lega-Forza Italia, Casini torna in pista. Berlusconi e Salvini sembrano pronti a sostenerlo. La cena della sconfitta finisce lì. Gli dico: «Amico mio, se perdi io ci sono. Ma ora che rischi di vincere, io non servo più». E ci salutiamo allegri. La mattina dopo ennesima doccia fredda: Salvini torna a flirtare con Conte, stavolta sulla Belloni, Casini ripone la citazione di Giovanni Paolo II nel cassetto, l’Italia continua ad aspettare...»

Daniela Preziosi per editorialedomani.it il 27 aprile 2022.

E se un destino burlone ma anche infametto costringesse Matteo Renzi a corteggiare – politicamente parlando, s’intende – proprio l’uomo che nel 2014 aveva defenestrato da palazzo Chigi, quell’“Enrico stai sereno” ridicolizzato, vilipeso e costretto a emigrare in Francia; che però oggi è tornato, è a capo di un partito tutto sommato in salute e che alla fin dei conti costituisce la sua unica zattera di salvataggio, sempre politicamente parlando?

Il leader di Italia viva sta entrando in una stagione primavera-estate turbolenta. Il 10 maggio darà alle stampe il libro Il mostro, che ha annunciato come un atto d’accusa contro i magistrati che hanno indagato lui e la sua famiglia. Sarà un’esplosione pirotecnica, prevede, a cui seguiranno altri botti derivanti dall’approdo in aula del processo Open; a metà luglio dovrebbe essere interrogato lui stesso.

Ma intanto il senatore fiorentino, preso atto che di non essere più o forse di non essere mai stato il “Macron italiano”, deve immaginare cosa farà il suo partito Italia viva da grande. O meglio da piccolo, visto che i sondaggi lo quotano intorno al 2 per cento. 

La sua immagine personale e politica è logorata: dall’amicizia in dollari con bin Salman al ritiro precipitoso dal cda di Delimobil, società di car sharing a Mosca. Ma il vero guaio è che le sue brillanti idee politiche ormai cadono come birilli. Renzi non è riuscito a portare al Colle Pier Ferdinando Casini, su cui aveva scommesso per il suo rilancio e su cui aveva costruito il sogno di nuova forza centrista. Da quel momento niente è andato in buca: l’ipotesi di Italia al centro, con Giovanni Toti e Luigi Brugnaro e Paolo Romani, è saltata.

Ed è saltata proprio a Genova, cioè nella città dove c’erano le condizioni migliori per costruirla alle prossime amministrative, sotto la protezione del presidente della regione, che – benché nato a Viareggio, cresciuto a Marina di Massa e vissuto a Milano dove lavorava come giornalista di Mediaset – in città ha un discreto seguito. Nel capoluogo ligure Renzi sosterrà ugualmente il sindaco delle destre Marco Bucci, l’uscente che si prepara a essere rieletto. Ma i suoi candidati «andranno a rinforzare la lista civica», spiega Raffaella Paita, sua plenipotenziaria in regione. Paita nega l’intenzione di Iv di buttarsi a destra.

In effetti anche quell’idea è stata un flop. Così l’ultima pensata politica Renzi è un’altra. Il giorno dopo la vittoria di Macron in Francia, l’ha raccontata ad alcuni parlamentari di Iv: «Il Pd rifletta. Le elezioni francesi dimostrano che si vince con Macron, e non con Mélenchon o Hidalgo». Questo è il pezzo di ragionamento rivolto a sinistra. Poi c’è l’altro corno, quello rivolto a destra: «Rifletta anche Berlusconi, se insegue Salvini o Meloni sbaglia. Il problema è che in Italia non abbiamo né un Macron né il sistema francese a doppio turno, che impedisce ai populismi di destra e di sinistra di sommarsi. Se nel 2018 si fosse votato con l’Italicum, paradossalmente, non si sarebbero potuti sommare Lega e Cinque stelle».

È andata diversamente, anche e soprattutto grazie alla sua scelta di godersi lo «spettacolo» della nascita della maggioranza gialloverde mangiando popcorn. Ma questa sarebbe un’altra storia. 

Oggi la storia è: Renzi sa che il brillante futuro di Macron italiano gli è dietro le spalle. E questo anche se l’amico e eurodeputato Sandro Gozi ancora ci spera, e ci lavora. «En Marche e Italia viva sono alleati in Renew Europe», il gruppo europeo, «c’è molta cooperazione tra i due movimenti a vari livelli», assicura. «Ho spinto sin dall’inizio per i rapporti tra le due forze politiche e affinché Iv aderisse a Renew. Obiettivo l’aggregazione delle vari forze centrali. Devono superare le loro divisioni. Come Renew vogliamo espanderci nei paesi in cui non siamo abbastanza presenti, a partire da Italia e Polonia».

In Polonia chissà. In Italia questo progetto proprio non parte. Fallita l’alleanza centrista fra Iv e Azione per incompatibilità fra Renzi e Carlo Calenda, fallita quella con i cespugli di centrodestra, stavolta il senatore fiorentino tenta una posta più grande. La proposta formale l’ha consegnata al Giornale: un appello a Enrico Letta e Silvio Berlusconi. 

«Siate macroniani, il voto in Francia deve far riflettere urgentemente i leader italiani». Il primo, secondo Renzi, deve abbandonare l’idea di allearsi «con un personaggio come Giuseppe Conte che solo settantadue ore prima non sapeva scegliere tra Macron e Le Pen e strizza l’occhio al populismo di sinistra di Mélenchon». Il secondo smetta di «continuare a puntare su Salvini e Meloni nella speranza di vincere lezioni».

Una provocazione, una «renzata», a cui il Pd non risponde neanche. E che da Articolo uno bollano come una proposta «della disperazione». Ma se è una provocazione, lo è fino a un certo punto. Renzi dà per scontato che alla fine non si faccia una legge proporzionale e si vada al voto con l’attuale sistema elettorale. E dà per assodato che presto o tardi, ma prima delle elezioni, i Cinque stelle imploderanno e che per salvare il salvabile Giuseppe Conte sarà costretto a portare i suoi al voto da soli.

Su questa convinzione, quello che oggi sembra incredibile per Renzi diventa una possibilità reale. Anche perché Letta, che sull’alleanza con il M5s ha scommesso dall’inizio, ormai è sempre più deluso e spiazzato dagli ondeggiamenti dell’ex premier. Il segretario Pd potrebbe dunque trovarsi costretto ad un matrimonio forzato con Italia viva. Anche se al momento l’eventualità viene data per impensabile fra le forze progressiste, e anzi al congresso di Art.1, lo scorso weekend, Renzi non è neanche stato invitato in quanto non appartenente al «campo largo» di centrosinistra.

Una scelta sgarbata che il senatore non ha neanche commentato. Francamente se ne infischia. Il suo futuro non è dentro il centrosinistra nella sua versione giallorossa, ma in un agglomerato centrista. E se gli va bene, sarà con il Pd di Letta. A cui infatti da dopo la rielezione di Sergio Mattarella non fa che porgere complimenti e affettuosità. 

Ma è un futuro incerto, in cui non crede nessuno, neanche dei suoi. Fra i quali infatti regna l’incertezza di doversi rivolgere a destra o a sinistra, insomma la confusione più assoluta. Ieri il cordoglio per la morte di Assunta Almirante è sfuggito di mano a Ettore Rosato, che si è spinto fino a parlare di «eredità morale e politica» del marito Giorgio, fondatore del Movimento sociale e già direttore della Difesa della razza in epoca fascista. Scatenando ironie e polemiche. «Capisco la necessità di giustificare l’alleanza con la Meloni a Genova, ma anche l’eccesso di zelo ha un limite», lo ha sfottuto o il coordinatore di Articolo uno Arturo Scotto. A alla fine il tweet è stato rettificato. Ma l’idea che Renzi si butti a destra circola nei territori come un veleno.

A Genova, dopo l’appoggio a Bucci, Alessandro Terrile, capogruppo Pd in comune, assicura che la scelta «è stata frutto di decisioni del gruppo dirigente nazionale di Iv» e che «i militanti locali, peraltro pochi, si divideranno». Dei tre consiglieri, due sosterranno il centrosinistra e uno il centrodestra. A Palermo il senatore Davide Faraone si è ritirato dalla corsa a sindaco a favore del candidato Roberto Lagalla, dell’Udc e di Marcello Dell’Utri. A Bologna, Isabella Conti, la sindaca di San Lazzaro che ha partecipato alle primarie contro Matteo Lepore, ha lasciato il partito: «Non c’è chiarezza sui valori nei quali Iv si incardina e si riconosce. Io mi riconosco in quelli del centrosinistra».

Dagospia il 9 febbraio 2022. Dichiarazione dell’ufficio stampa del senatore Matteo Renzi

Nella giornata di oggi è stata fissata l’udienza preliminare per il processo OPEN che si terrà il giorno 4 aprile. 

Si tratta di un atto scontato e ampiamente atteso che arriva ad anni di distanza dai sequestri del novembre 2019 poi giudicati illegittimi dalla Corte di Cassazione. 

Finalmente inizia il processo nelle aule e non solo sui media. E i cittadini potranno adesso rendersi conto di quanto sia fragile la contestazione dell’accusa e di quanto siano scandalosi i metodi utilizzati dalla procura di Firenze. 

È utile ricordare a questo proposito che la richiesta è stata firmata dal Procuratore Creazzo, sanzionato per molestie sessuali dal CSM; dal Procuratore Aggiunto Turco, che volle l’arresto dei genitori di Renzi poi annullato dal Tribunale della Libertà e dal Procuratore Nastasi, accusato da un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte del dirigente MPS David Rossi. 

Questi sono gli accusatori.

Il senatore Renzi nelle scorse settimane aveva chiesto di essere interrogato dopo che i PM avessero risposto alle istanze della difesa.

TalI risposte non sono mai arrivate. 

Per questo nelle prossime settimane la difesa del senatore Renzi si riserva di produrre memorie difensive in vista dell’udienza preliminare anche prima del dibattito parlamentare in Senato sul conflitto di attribuzione che si terrà ragionevolmente nel mese di marzo. 

Nella giornata di oggi intanto il senatore Matteo Renzi ha provveduto a firmare una formale denuncia penale nei confronti dei magistrati Creazzo, Turco, Nastasi. L’atto firmato dal senatore sarà trasmesso alla Procura di Genova, competente sui colleghi fiorentini, per violazione dell’articolo 68 Costituzione, della legge 140/2003 e dell’articolo 323 del codice penale. Renzi ha chiesto di essere ascoltato dai PM genovesi riservandosi di produrre materiale atto a corroborare la denuncia penale contro Creazzo, Turco, Nastasi. Il senatore Renzi ha dichiarato: “io non ho commesso reati, spero che i magistrati fiorentini possano in coscienza dire lo stesso” 

Open, le accuse: a Renzi 549 mila euro «per beni e servizi», alla Fondazione 7 milioni di euro. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 9 febbraio 2022.

È accusato di aver preso tre milioni e mezzo di euro in quattro anni attraverso la Fondazione Open. «Un finanziamento illecito», secondo la procura di Firenze, perché Open era «di fatto di un’articolazione politico organizzativa del Pd» e le somme «servivano a sostenere l’attività politica dei suoi appartenenti». Nel giorno in cui la Procura chiede il suo rinvio a giudizio insieme a Maria Elena Boschi, Luca Lotti, l’avvocato Alberto Bianchi e l’imprenditore Marco Carrai, Matteo Renzi parte all’attacco dei magistrati: «Li denuncio, non mi fido di loro».

«Soldi, beni e servizi»

L’udienza preliminare è fissata per il 4 aprile. In quella sede tutti gli imputati dovranno difendersi per aver «ricevuto contributi in denaro tra il 2014 e il 2018, in violazione della normativa, per sostenere l’attività politica di Renzi, Lotti e Boschi e della corrente renziana del Pd», ma anche «contributi in forma indiretta consistiti in beni e servizi, acquistati dalla Open».

La Fondazione è la cassaforte che ha sostenuto la scalata di Renzi da sindaco di Firenze a presidente del Consiglio. Nell’arco dei suoi sei anni di vita, dal 2012 al giugno 2018, ha raccolto oltre sette milioni di euro. La Procura contesta circa tre milioni e mezzo di contributi ricevuti dal novembre 2014 al giugno 2018, quando la Fondazione venne liquidata. Secondo l’accusa della Procura guidata da Giuseppe Creazzo «la Fondazione agì come articolazione di partito e Renzi come direttore di fatto».

Spese per 549 mila euro

Agli atti dell’inchiesta ci sono le spese sostenute negli anni da Renzi e dai suoi collaboratori, dai cellulari ai biglietti del treno, dai taxi ai ristoranti e agli hotel. Le spese maggiori sono state quelle relative alla kermesse annuale della Leopolda. L’accusa contesta a Renzi di aver usufruito di «beni e servizi» per quasi 549 mila euro. Alcuni contributi sarebbero stati usati da Open anche per finanziare la «Campagna per il sì al Referendum».

Bianchi, assistito dall’avvocato Fabio Pinelli, è invece ritenuto il «collettore» dei finanziamenti arrivati alla Fondazione sfruttando il ruolo politico di Lotti per agevolare le imprese «amiche» con l’approvazione di emendamenti e norme. Per questo i pubblici ministeri hanno deciso di inserire la Camera dei deputati tra le parti lese.

«La corruzione di Toto»

Nella lista di 11 imputati compaiono alcuni imprenditori accusati in concorso con Lotti e Bianchi di corruzione. Uno è Alfonso Toto, legale rappresentante della «Toto costruzioni». Secondo l’accusa Bianchi e Lotti si sono adoperati affinché venissero approvate dal Parlamento norme favorevoli al gruppo abruzzese concessionario autostradale. In cambio Toto avrebbe versato circa 800 mila euro all’avvocato Bianchi.

Nel capo di imputazione è specificato che Lotti, «parlamentare della Camera, sottosegretario alla presidenza del Consiglio, segretario del Cipe, riceveva per sé e per altri le seguenti utilità: 801.600 euro dalla Toto costruzioni all’avvocato Alberto in data 5 agosto 2016 a fronte di una prestazione professionale fittizia, somma versata da Bianchi per 200.838 alla fondazione Open e nella parte di 200 mila euro al “Comitato nazionale per il sì”; la promessa da parte di Toto di corrispondere a Bianchi, a fronte di una prestazione professionale fittizia, del 2% di quanto ricavato da Bianchi dai contenzioni con Anas».

British Tobacco

Vicenda analoga riguarda la British Tobacco. A Lotti è contestata l’accusa di corruzione perché si sarebbe adoperato per far approvare norme in materia di accise sui tabacchi ricevendo in cambio finanziamenti per oltre 250 mila euro e la nomina di un manager gradito nel collegio sindacale.

La tv scientifica

Altri 130 mila euro — frazionati in cinque versamenti — sono arrivati dall’imprenditore Pietro Di Lorenzo. Bianchi è accusato perché «indebitamente si faceva dare i fondi come prezzo della propria mediazione illecita verso Lotti per l’erogazione di finanziamenti pubblici per la realizzazione di una tv scientifica su piattaforma satellitare e digitale, corrisposta alla Open».

Open, Renzi sfida i magistrati in tv: «Chi mi accusa sanzionato per molestie: vi fidereste? Chiederò anche i danni». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 10 febbraio 2022.

L’ex premier verso il processo per l’inchiesta sulla sua fondazione. Il contrattacco al procuratore di Firenze Creazzo: «Dov’è la sua credibilità?». Pronto un nuovo libro: «Racconto i tentati dossieraggi subiti dai Servizi»

«I pm li denuncerò, ma a tempo debito. E poi chiederò loro anche i danni in sede civile», aveva confidato a un amico prima di Natale. Matteo Renzi, consapevole che difficilmente sarebbe riuscito a evitare il processo, aveva preparato la sua mossa da tempo. E così, dopo la fase del Quirinale in cui aveva tenuto un profilo più istituzionale, è tornato a contrattaccare a testa bassa i magistrati fiorentini appena uscita la notizia della richiesta di processarlo per l’inchiesta Open.

La sua strategia di difesa, ancora una volta, è una battaglia mediatica, che però, stavolta, avrà un seguito concreto anche in tribunale, contro le toghe. Prima post a raffica sui social e poi l’intervista da Bruno Vespa. Renzi, davanti alle telecamere di Porta a Porta, prima mette nel mirino il procuratore capo Giuseppe Creazzo, leggendo in tv la sentenza disciplinare con cui il Csm lo ha sanzionato dopo essere stato accusato da una collega, la pm di Palermo Alessia Sinatra, di averla molestata sessualmente nel 2015 in un hotel di Roma dove era in corso un’iniziativa della loro corrente, Unicost: «È tutto negli atti alla Cassazione. Se lo avesse fatto qualcun altro sarebbe stato licenziato — attacca il leader di Italia viva —. Ma dov’è la credibilità di un magistrato che, riconosciuto colpevole, viene sanzionato non con 6 anni di carcere, come prevederebbe la legge, ma con due mesi di anzianità della pensione?». Poi tocca agli altri due co-titolari dell’inchiesta: il pm «Luca Turco, che volle l’arresto dei miei genitori, poi annullato dal tribunale della Libertà» e «Antonino Nastasi, accusato da un ufficiale dei carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte di David Rossi». Lo stesso Nastasi, oggi, verrà sentito dalla commissione parlamentare istituita per fare luce sulla morte del dirigente di Mps.

Secondo la road map di Renzi, il prossimo 4 aprile arriverà il rinvio a giudizio, mentre il giorno dopo «uscirà un libro (edito da Piemme, ndr) in cui scriverò di tutti i tentativi di dossieraggio subiti dai servizi segreti, così se mi succede qualcosa almeno è agli atti».

I legali di Renzi, così come quelli che difendono i principali accusati, sono ben consapevoli che i reati contestati si prescriveranno prima della fine dell’eventuale processo. Ma l’ex premier la parola «prescrizione» dice che non la vuole nemmeno sentire. «Ho ricevuto centinaia di messaggi di solidarietà — racconta ad alcuni parlamentari di Italia viva —, risponderò ai pm colpo su colpo, perché hanno violato la Costituzione, che vieta di intercettare il telefono o la corrispondenza di un parlamentare senza l’autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza. Io non mi fido di questi magistrati. La mia è una querela sacrosanta». E poi: «Alcuni amici mi hanno consigliato di abbassare i toni — riflette ancora —, ma ho risposto: “cosa volete che mi facciano? Che mi arrestino i genitori? Che facciano pubblicare i miei conti correnti al centesimo? Che distruggano il mio consenso politico?” Hanno già fatto tutto, tutto!».

Open, ira dell’Anm per le accuse di Renzi. Lui insiste: basta con il buonismo. Virginia Piccolillo su Il Corriere Della Sera il 10 febbraio 2022.

Il sindacato delle toghe: inaccettabile l’attacco a chi ha chiesto il giudizio per i fondi della Fondazione. 

«Inaccettabile. Quelle di Renzi sono accuse non tollerabili». «Ah sì? Hanno scardinato la mia vita. Faranno un buco nell’acqua». Sereno il rapporto tra i magistrati e Matteo Renzi non è stato mai. Ma ieri sembrava di essere tornati ai tempi dello scontro tra Silvio Berlusconi e l’Associazione nazionale magistrati guidata da Luca Palamara. Con Renzi che, dopo la richiesta di rinvio a giudizio per finanziamento illecito ai partiti per il caso Open, ha attaccato e denunciato i pm di Firenze. E con l’Anm che ha fatto quadrato a tutela dei colleghi «delegittimati».

Mercoledì sera, dopo le richieste dei pm — per lui e altre 10 persone, inclusi Luca Lotti e Maria Elena Boschi — a Porta a Porta, il leader di Italia viva aveva messo in dubbio la credibilità dei magistrati che lo accusano. Ricordando che il procuratore di Firenze, Giuseppe Creazzo, è stato sanzionato dal Csm per molestie e il pm Antonino Nastasi è accusato dall’ex comandante provinciale dei carabinieri di Siena, Pasquale Aglieco, di aver inquinato la scena del crimine del suicidio di David Rossi.

Durissima la replica dell’Anm, guidata da Giuseppe Santalucia. Parole che «travalicano i confini della legittima critica e mirano a delegittimare agli occhi della pubblica opinione i magistrati che si occupano del procedimento a suo carico». I pm, specifica il sindacato delle toghe, «hanno adempiuto il loro dovere», formulando un’accusa che dovrà essere vagliata nel processo. E «non è tollerabile che siano screditati sul piano personale soltanto per aver esercitato il loro ruolo». L’accusa di non essere credibili, poi, non può essere messa in relazione a vicende, «oggetto di accertamenti non definitivi o ancora tutte da verificare, che nulla hanno a che fare con il merito dei fatti contestati».

Ma Renzi non lascia ai magistrati l’ultima parola. Afferra il microfono di Radio Leopolda e ribatte: «La lesione dell’immagine della magistratura non dipende da me ma da quello che fa quel magistrato». E all’Anm risponde: «Intollerabile screditare i pm sul piano personale? La mia vita è stata pubblicata e data in pasto sui giornali. È stata scardinata in violazione del segreto bancario, del segreto istruttorio e nel silenzio dell’Anm». E aggiunge: «Io e la mia famiglia siamo stati trattati come gangster».

Respinge l’accusa dei magistrati che la Fondazione Open si sia comportata come un’articolazione di partito, ricevendo tra il 2012 e il 2018 circa 3,5 milioni, in violazione della legge sul finanziamento ai partiti, spesi almeno in parte, per sostenere l’attività della corrente renziana del Pd. «Una tesi strampalata», tuona. E assicura: «Sono cascati male. Se c’è uno che non si tira indietro sono io. Basta buonismo, ora reagisco». Ma per Rossella Marro, presidente Unicost, è lui a sbagliare: «Non esiste l’immunità parlamentare processuale» dice all’AdnKronos. E avverte: «Questo dimostra quanto sia pericoloso il referendum sulla responsabilità civile diretta dei magistrati».

Diego Messa per lastampa.it il 10 febbraio 2022.

«Il 5 aprile pubblicherò un libro con tutti i tentativi di dossieraggio, per esempio dei servizi, contro di me». Il contrattacco di Matteo Renzi dopo la richiesta di rinvio a giudizio per presunto finanziamento illecito va in scena a Porta a Porta. Ospite di Bruno Vespa, Renzi accusa magistrati, e forze oscure contro di lui. 

I pm che hanno istruito il processo sulla Fondazione Open, in particolare Creazzo e Nastasi, – dice l’ex premier – «non sono credibili. Io sono stato presidente del Consiglio. Io ho il compito istituzionale di difendere chi non può avere una tribuna. Siccome credo che i tre magistrati abbiano violato 3 leggi, ci ho messo la faccia, non ho paura di niente, chiedo che siano processati perché hanno violato la legge». Poi il leader di Iv ha ricordato il procedimento disciplinare del Csm contro Creazzo per abusi sessuali e l'accusa a Nastasi di aver inquinato la scema del crimine della stanza di David Rossi. «Domando alla magistratura italiana: vi sembra normale che l'azione penale sia esercitata da persone con questa credibilità? Se ci sono questi comportamenti è evidente che la gente non crede più alla magistratura».

«Io non faccio come Berlusconi, non dico “tutti i giudici sono comunisti"», attacca Renzi. Ma rivendica con forza la correttezza del suo operato, a fronte delle numerose scorrettezze a suo dire subite. «I soldi sono bonificati e chiari, ma la tesi della Procura, dopo anni di indagine, è che la Leopolda non sia stata organizzata da una fondazione ma da un partito. Io sono assolutamente certo che non c'è nessun reato. Sono tre anni che ci fanno il processo sui giornali, finalmente andiamo in un'aula di tribunale. È un processo politico alla politica».

E ancora: «Credo nella magistratura ma non mi fido di questi magistrati e li denuncio. La legge è uguale per tutti, anche per i magistrati e siccome sono convinto che abbiano violato alcuni articoli di legge, chiedo che siano processati per abuso di ufficio e violazione della norma costituzionale». Poi affonda il colpo: «Tra l'altro il procuratore Creazzo è stato sanzionato dai suoi colleghi del Csm per aver molestato sessualmente una donna. Molestie sessuali è un reato per cui un cittadino normale, come quello che ha toccato il sedere alla giornalista fuori dallo stadio, rischia sei anni di carcere. Invece il dottor Creazzo ha perso due mesi di anzianità. Lei sarebbe tranquillo – ha domandato a Vespa – a farsi giudicare da un magistrato che è stato accusato di questo?». 

Renzi ha poi parlato di politica: «A sinistra devono decidere che cosa sono. Landini sta con Letta e allora Letta va a sinistra. Se fa un ragionamento riformista alla Blair si ragiona. Non sarebbe un campo larghissimo perché i 5S non sono più in campo, sono finiti. Il Pd che gioco vuole giocare? Il Pd ha una tradizione, Veltroni e io guardavamo a un profilo riformista. Letta guarda a questo o a un profilo massimalista? Se Letta fa un ragionamento alla Scholz, o alla Macron non è un campo largo, è il campo riformista ed è casa mia». Secondo Renzi in questo campo riformista ci starebbe anche Giovanni Toti. Sull’ipotesi di nuovo centro, l’ex premier è stato invece molto più cauto: «Non si organizzano i partiti mettendo insieme gruppi dirigenti e facendo una accozzaglia di ambizioni».

Inchiesta Open, chiesto rinvio a giudizio per Renzi, Boschi e Lotti. Il leader di Italia Viva denuncia i magistrati. Il Tempo il 09 febbraio 2022.

"Io non ho commesso reati, spero che i magistrati fiorentini possano in coscienza dire lo stesso". E' questa la prima reazione, affidata a una nota, del leader di Italia Viva Matteo Renzi appena saputo che, nell'ambito dell'inchiesta sulla fondazione Open, la procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per lui e altre dieci persone, tra le quali figurano anche la deputata di Iv Maria Elena Boschi e il deputato del Pd Luca Lotti. L'udienza davanti al giudice per le indagini preliminari del tribunale di Firenze si terrà il prossimo 4 aprile.

Inchiesta Open, chiesto il rinvio a giudizio per Renzi, Boschi e altri nove

I pm che insieme al procuratore Giuseppe Creazzo coordinano l'indagine, il procuratore aggiunto Luca Turco e il sostituto procuratore Antonio Nastasi, hanno chiesto che siano processati anche l'ex presidente della fondazione Open Alberto Bianchi e l'imprenditore Marco Carrai, che insieme a Renzi, Boschi e Lotti formavano il cosiddetto 'Giglio magico', e poi Patrizio Donnini, Alfonso Toto, Riccardo Maestrelli, Carmine Ansalone, Giovanni Caruci, Pietro Di Lorenzo. Agli indagati vengono contestati a vario titolo i reati di finanziamento illecito ai partiti, corruzione, riciclaggio, autoriciclaggio, traffico di influenze. Coinvolte nel procedimento anche quattro società.

"Si tratta di un atto scontato e ampiamente atteso che arriva ad anni di distanza dai sequestri del novembre 2019 poi giudicati illegittimi dalla Corte di Cassazione", commenta ancora lo staff dell'ex premier. Che poi fa sapere che Renzi "ha provveduto a firmare una formale denuncia penale nei confronti dei magistrati Creazzo, Turco, Nastasi" che "l'atto firmato dal senatore sarà trasmesso alla Procura di Genova, competente sui colleghi fiorentini, per violazione dell'articolo 68 Costituzione, della legge 140/2003 e dell'articolo 323 del codice penale", e che "ha chiesto di essere ascoltato dai pm genovesi riservandosi di produrre materiale atto a corroborare la denuncia penale contro Creazzo, Turco, Nastasi".

L'inchiesta su Open, fondazione creata anche per finanziare le convention annuali della Leopolda ideate da Renzi fin dal 2010, venne alla luce nel settembre del 2019, quando la procura fiorentina delegò alla guardia di finanza decine di perquisizioni ai finanziatori della stessa Open in 11 città. All'avvocato Bianchi, che ne era il presidente, era stata sequestrata la lista dei finanziatori, molti dei quali poi risultati estranei all'inchiesta. Oltre alle spese per le convention della Leopolda, Open - considerata 'la cassaforte del renzismo' - raccolse finanziamenti per due campagne per le primarie del Pd (2012 e 2013), la seconda delle quali portò all'elezione a segretario di Matteo Renzi, ed anche per la campagna elettorale per il referendum costituzionale del 2016.

In particolare, agli indagati Bianchi, Carrai, Lotti e Boschi, in quanto membri del consiglio direttivo di Open, e anche a Renzi, è contestato il reato di finanziamento illecito continuato "perché in concorso tra loro, in esecuzione di un medesimo disegno criminoso", scrivono i pm, utilizzavano la fondazione come "articolazione politico-organizzativa del Partito democratico (corrente renziana)", ricevendo "in violazione della normativa contributi di denaro che i finanziatori consegnavano alla fondazione Open", per un totale di circa 3,5 milioni di euro tra il 2014 e il 2018. Nell'avviso di conclusione delle indagini, i pm sostengono che Renzi avrebbe agito come direttore 'di fatto' della stessa fondazione. Per quanto riguarda il filone dell'inchiesta relativo all'ipotesi di reato di corruzione, secondo la procura di Firenze Luca Lotti si sarebbe adoperato affinché in Parlamento venissero approvate disposizioni normative favorevoli al concessionario autostradale Toto Costruzioni spa. Per i pm Lotti, all'epoca dei fatti sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e segretario del Cipe (Comitato interministeriale per la programmazione economica), avrebbe ottenuto in cambio finanziamenti per la fondazione.

"Finalmente inizia il processo nelle aule e non solo sui media", chiosa Renzi. "E i cittadini - aggiunge - potranno adesso rendersi conto di quanto sia fragile la contestazione dell'accusa e di quanto siano scandalosi i metodi utilizzati dalla procura di Firenze".

Fondazione Open: chiesto il rinvio a giudizio per Renzi, Boschi e Lotti. L’ex premier cita Enzo Tortora. Luisa Perri mercoledì 9 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

La procura di Firenze ha chiesto il rinvio a giudizio per le 11 persone indagate nell’inchiesta sulla Fondazione Open: tra di essi figurano il senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva, la deputata di Italia Viva Maria Elena Boschi e il deputato del Pd Luca Lotti. L’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari si terrà il 4 aprile. 

Renzi è imputato per il reato di finanziamento illecito ai partiti assieme all’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione Open, agli imprenditori Marco Carrai e Patrizio Donnini, a Boschi e Lotti. Nel processo sono coinvolte anche quattro società.

Due gli episodi di corruzione per l’esercizio della funzione che vengono contestati entrambi a Lotti, ex membro del cda della Fondazione e membro del governo tra il 2014 e il 2017, prima come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e poi come ministro dello Sport, periodo in cui, secondo le accuse della Procura, si sarebbe adoperato per disposizioni normative favorevoli a due società che aveva finanziato Open, la Toto Costruzioni e la British American Tobacco. Tra le accuse anche un episodio di presunto autoriciclaggio e traffico d’influenze illecite.

L’inchiesta della procura fiorentina, guidata da Giuseppe Creazzo, è stata condotta dal procuratore aggiunto Luca Turco e il pubblico ministero Antonino Nastasi.

Renzi cita la frase di Enzo Tortora

“Io non ho commesso reati, spero che i magistrati fiorentini possano in coscienza dire lo stesso”. Questo il commento a caldo di Renzi, sulla falsariga della celeberrima frase di Enzo Tortora rivolta ai magistrati durante il processo che lo vide poi assolto.

L’ufficio stampa di Renzi al contrattacco

“Finalmente inizia il processo nelle aule e non solo sui media. E i cittadini potranno adesso rendersi conto di quanto sia fragile la contestazione dell’accusa e di quanto siano scandalosi i metodi utilizzati dalla procura di Firenze – fa sapere l’ufficio stampa di Renzi – È utile ricordare a questo proposito che la richiesta è stata firmata dal Procuratore Creazzo, sanzionato per molestie sessuali dal CSM; dal Procuratore Aggiunto Turco, che volle l’arresto dei genitori di Renzi poi annullato dal Tribunale della Libertà e dal Procuratore Nastasi, accusato da un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte del dirigente MPS David Rossi. Questi sono gli accusatori”.

“Il senatore Renzi nelle scorse settimane aveva chiesto di essere interrogato dopo che i pm avessero risposto alle istanze della difesa. TalI risposte non sono mai arrivate. Per questo nelle prossime settimane la difesa del senatore Renzi si riserva di produrre memorie difensive in vista dell’udienza preliminare anche prima del dibattito parlamentare in Senato sul conflitto di attribuzione che si terrà ragionevolmente nel mese di marzo”, aggiunge ancora l’Ufficio stampa di Renzi.

L’inchiesta sulla Fondazione Open è nata tre anni fa

Tra i mesi di settembre e novembre di tre anni fa i militari della Guardia di Finanza, su ordini dei pm Luca Turco e Antonino Nastasi, fecero eseguire decine di perquisizioni nei confronti dei soggetti privati che avevano effettuato rilevanti donazioni alla Fondazione Open, di cui è stato presidente l’avvocato Alberto Bianchi. E proprio Bianchi è stato il primo ad essere indagato per traffico di influenze illecite tra il 2016 e il 2018 e per reati in violazione della legge sul finanziamentO dei partiti politici. Durante le perquisizioni furono sequestrati anche i bilanci della Fondazione e la lista dei finanziatori. Ingente materiale, compresi pc e telefonini, fu sequestrato anche a taluni dei donatori, perquisiti in diverse città: Milano, Torino, Roma, Napoli, Parma, Bari, La Spezia, Pistoia, Alessandria e Modena. Contro i decreti di sequestro sono stati presentati ricorsi in Cassazione e poi anche al Tribunale del Riesame.

Bianchi è considerato uno degli uomini più vicini all’ex premier, uno dei membri della cerchia del cosiddetto ‘giglio magico’, come i deputati Maria Elena Boschi e Luca Lotti e l’imprenditore Marco Carrai, tutti presenti nel consiglio della Fondazione Open.

Inchiesta Open, Renzi denuncia i tre pm che lo hanno incriminato: «Risponderò colpo su colpo». Redazione mercoledì 9 Febbraio 2022 su Il Secolo d'Italia.

Tu mi incrimini, e io ti denuncio. Si potrebbe sintetizzare così la decisione di Matteo Renzi di denunciare alla Procura di Genova (competente ad indagare i magistrati fiorentini) i tre pm che hanno chiesto il suo rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta Open. Il leader di Italia Viva risponde di finanziamento illecito e traffico d’influenza illecita. Un’inchiesta, quella Open, che Renzi non esita a bollare come «scandalosa». Lo aveva già detto nel corso della kermesse della Leopolda di qualche mese fa, lo ha ripetuto oggi in un messaggio vocale rivolto agli iscritti di Iv. «Come ampiamente atteso e scontato – ha premesso -, vanno avanti. Noi risponderemo colpo su colpo, con il sorriso di chi non cerca polemica, non crede in quei magistrati ma nella giustizia. E di chi ha l’assoluta certezza di non aver commesso alcun reato». 

Lo rende noto l’ufficio stampa di Italia Viva

In quello stesso video, l’annuncio della denuncia poi formalizzato in una nota ufficiale diffusa dal suo ufficio stampa. «Nella giornata di oggi – vi si legge – il senatore Renzi ha provveduto a firmare una formale denuncia penale nei confronti dei magistrati Creazzo, Turco, Nastasi. L’atto firmato dal senatore sarà trasmesso alla Procura di Genova, competente sui colleghi fiorentini, per violazione dell’articolo 68 Costituzione, della legge 140/2003 e dell’articolo 323 del codice penale. Renzi ha chiesto di essere ascoltato dai pm genovesi riservandosi di produrre materiale atto a corroborare la denuncia penale contro Creazzo, Turco, Nastasi».

A Renzi la solidarietà di Calenda

La denuncia di Renzi configura dunque l’abuso d’ufficio (art. 323 cp) da parte dei pm nell’osservanza delle guarentigie parlamentari (art. 68 Costituzione) nel processo penale (L.140/2003). L’ex-premier sostiene infatti che i magistrati non avrebbero potuto allegare al fascicolo dell’inchiesta il contenuto di intercettazioni captate sulla sua utenza quando era già senatore. Un gesto forte e con ben pochi precedenti nel pur tormentato rapporto tra ordine giudiziario e potere politico. Nel frattempo, Renzi incassa la «solidarietà» espressagli via Twitter da Carlo Calenda. «Ne abbiamo viste troppe di inchieste su politici finite nel nulla – scrive il leader di Azione – per non sentire il dovere di ribadire che un rinvio a giudizio non è una condanna. Anzi che molto spesso si conclude con l’assoluzione degli imputati che nel mentre hanno avuto la vita rovinata».

Open, Renzi: “Io processato da un pm sanzionato per molestie”. Il leader di Iv contro il procuratore di Firenze Creazzo che ha chiesto il rinvio a giudizio per il caso Open. Parte la denuncia nei confronti dei magistrati fiorentini. Il Dubbio il 9 febbraio 2022.

«Si tratta di un atto scontato e ampiamente atteso che arriva ad anni di distanza dai sequestri del novembre 2019 poi giudicati illegittimi dalla Corte di Cassazione». Così l’Ufficio stampa di Matteo Renzi commenta la richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Firenze nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Tra gli 11 indagati per i quali è richiesto il processo figurano, oltre al leader di Italia Viva, la deputata di Iv Maria Elena Boschi e il deputato del Pd Luca Lotti. L’udienza davanti al giudice per le indagini preliminari si terrà il 4 aprile.

«Finalmente inizia il processo nelle aule e non solo sui media. E i cittadini potranno adesso rendersi conto di quanto sia fragile la contestazione dell’accusa e di quanto siano scandalosi i metodi utilizzati dalla procura di Firenze», prosegue la nota. Il concetto è quello più volte ribadito da Renzi e già espresso dal palco della Leopolda: quello in atto è un «processo politico alla politica», contrassegnato da procedure illecite. A partire dall’«indebita» acquisizione della sua corrispondenza, in violazione dell’articolo 68 della Costituzione, e quindi delle guarentigie parlamentari. Secondo i pm, Renzi avrebbe utilizzato la Fondazione  per finanziare il suo partito, raccogliendo soldi da privati per eventi legati alla propria attività. La tesi, dunque, è che Open agisse come articolazione di partito, e che quindi dovesse rispettare obblighi più stringenti nella raccolta e gestione delle donazioni.  Tesi però smontata dalla difesa, che da parte sua evidenza i «grossolani» errori dell’accusa.

Ma il vero j’accuse di Renzi ai pm si trova più avanti, nella nota diramata dall’ufficio stampa. «È utile ricordare – si legge – che la richiesta è stata firmata dal Procuratore Creazzo, sanzionato per molestie sessuali dal CSM; dal Procuratore Aggiunto Turco, che volle l’arresto dei genitori di Renzi poi annullato dal Tribunale della Libertà e dal Procuratore Nastasi, accusato da un ufficiale dell’Arma dei Carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell’ambito della morte del dirigente MPS David Rossi. Questi sono gli accusatori». Il riferimento è al procedimento disciplinare davanti a carico di Creazzo per le presunte molestie alla pm antimafia di Palermo Alessia Sinatra. Procedimento che si era concluso a dicembre con la perdita di due mesi di anzianità, e in seguito al quale, a fine gennaio, il procuratore ha ritirato la richiesta di prepensionamento.

«Il senatore Renzi nelle scorse settimane aveva chiesto di essere interrogato dopo che i PM avessero risposto alle istanze della difesa. Tali risposte non sono mai arrivate. Per questo nelle prossime settimane la difesa del senatore Renzi si riserva di produrre memorie difensive in vista dell’udienza preliminare anche prima del dibattito parlamentare in Senato sul conflitto di attribuzione che si terrà ragionevolmente nel mese di marzo», aggiunge ancora l’Ufficio stampa di Renzi. Quindi l’affondo finale: «Nella giornata di oggi intanto il senatore Matteo Renzi ha provveduto a firmare una formale denuncia penale nei confronti dei magistrati Creazzo, Turco, Nastasi. L’atto firmato dal senatore sarà trasmesso alla Procura di Genova, competente sui colleghi fiorentini, per violazione dell’articolo 68 Costituzione, della legge 140/2003 e dell’articolo 323 del codice penale. Renzi ha chiesto di essere ascoltato dai PM genovesi riservandosi di produrre materiale atto a corroborare la denuncia penale contro Creazzo, Turco, Nastasi». Il tutto sigillato dal refrain lanciato da Renzi dalla Leopolda: «Io non ho commesso reati, spero che i magistrati fiorentini possano in coscienza dire lo stesso».

OPEN: ANM, RENZI DELEGITTIMA I PM , È INACCETTABILE.

(ANSA il 10 febbraio 2022) - "Le parole del senatore della Repubblica Matteo Renzi, pronunciate non appena ha appreso della richiesta di rinvio a giudizio per la vicenda Open, travalicano i confini della legittima critica e mirano a delegittimare agli occhi della pubblica opinione i magistrati che si occupano del procedimento a suo carico". Lo sostiene la giunta l'Anm, che in una nota parla di "inaccettabili comportamenti"

OPEN: ANM, PM OFFESI AVER FATTO LORO DOVERE, INTOLLERABILE

(ANSA il 10 febbraio 2022) - I pm che hanno chiesto il processo nei confronti di Matteo Renzi "hanno adempiuto il loro dovere, hanno formulato una ipotesi di accusa che dovrà essere vagliata, nel rispetto delle garanzie della difesa, entro il processo, e non è tollerabile che siano screditati sul piano personale soltanto per aver esercitato il loro ruolo".Lo afferma la giunta dell'Associazione nazionale magistrati.

I pm "sono stati tacciati di non aver la necessaria credibilità personale in ragione di vicende, peraltro oggetto di accertamenti non definitivi o ancora tutte da verificare, che nulla hanno a che fare con il merito dei fatti che gli sono contestati", fa notare la giunta. E "questi inaccettabili comportamenti, specie quando tenuti da chi riveste importanti incarichi istituzionali, offendono i singoli magistrati e la funzione giudiziaria nel suo complesso, concorrendo ad appannarne ingiustamente l'immagine di assoluta imparzialità, indispensabile alla vita democratica del Paese".

OPEN: RENZI, MIA VITA SCARDINATA E ANM IN SILENZIO

(ANSA il 10 febbraio 2022)  "La mia vita è stata scardinata con un dolore personale e familiare che non auguro al peggiore nemico e l'Anm è stata sempre in silenzio". Così il leader di Iv, Matteo Renzi ai microfoni di Radio Leopolda replica all'Anm. "L'appannamento della funzione del magistrato non dipende da quello che dice Renzi ma da quello che fa un magistrato. Se fa un atto sessuale il Csm ti dà due mesi in meno di anzianità, se lo fa un cittadino si prende anni di galera". 

OPEN: RENZI, I GIUDICI SONO CASCATI MALE, BASTA BUONISMO

(ANSA il 10 febbraio 2022) - "Sono cascati male, se c'è uno che non si tira indietro sono io. Basta buonismo, ora reagisco". Così il leader di Iv, Matteo Renzi ai microfoni di Radio Leopolda.

RENZI, HO SCALATO PD NON GRAZIE AI SOLDI, MA GRAZIE AL CONSENSO

(ANSA il 10 febbraio 2022) - "Bersani ha preso i soldi di Riva per fare la campagna elettorale, faccia mea culpa. Io i soldi li ho portati". Così il leader di Iv, Matteo Renzi ai microfoni di Radio Leopolda. "Io all'epoca di Open il partito lo avevo già scalato da un anno. Il partito l'ho scalato non perchè avevo i soldi, ma perchè avevo il consenso, perchè avevano perso le elezioni". 

OPEN: RENZI, NON IO MA CASSAZIONE CONTRO QUEI GIUDICI

(ANSA il 10 febbraio 2022) - "E' il primo processo in cui si va in aula dopo quattro pronunciamenti della Cassazione. Non è stato Renzi ma la Cassazione a criticare i giudici". Così il leader di Iv, Matteo Renzi ai microfoni di Radio Leopolda.

OPEN: RENZI, PER PM FIRENZE LA MIA FAMIGLIA È DI GANGSTER

(ANSA il 10 febbraio 2022) - "A Conte e a Grillo, i Pm di Milano e Roma non hanno tolto i cellulari, hanno utilizzato uno stile diverso da quelli di Firenze. Uno di loro si occupa a tempo pieno della famiglia Renzi: prima che diventassi premier eravamo una famiglia rispettabile, ora sembriamo un'associazione di gangster". Così il leader di Iv, Matteo Renzi ai microfoni di Radio Leopolda.

LA MOSSA STUDIATA DA TEMPO PER SFIDARE GLI INQUIRENTI: «CHIEDERÒ ANCHE I DANNI» LA CONTROMOSSA DEL CAPO DI IV. Claudio Bozza per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2022.  

«I pm li denuncerò, ma a tempo debito. E poi chiederò loro anche i danni in sede civile», aveva confidato a un amico prima di Natale. Matteo Renzi, consapevole che difficilmente sarebbe riuscito a evitare il processo, aveva preparato la sua mossa da tempo. E così, dopo la fase del Quirinale in cui aveva tenuto un profilo più istituzionale, è tornato a contrattaccare a testa bassa i magistrati fiorentini appena uscita la notizia della richiesta di processarlo per l'inchiesta Open.

La sua strategia di difesa, ancora una volta, è una battaglia mediatica, che però, stavolta, avrà un seguito concreto anche in tribunale, contro le toghe. Prima post a raffica sui social e poi l'intervista da Bruno Vespa. Renzi, davanti alle telecamere di Porta a Porta , prima mette nel mirino il procuratore capo Giuseppe Creazzo, leggendo in tv la sentenza disciplinare con cui il Csm lo ha sanzionato dopo essere stato accusato da una collega, la pm di Palermo Alessia Sinatra, di averla molestata sessualmente nel 2015 in un hotel di Roma dove era in corso un'iniziativa della loro corrente, Unicost: «È tutto negli atti alla Cassazione. Se lo avesse fatto qualcun altro sarebbe stato licenziato - attacca il leader di Italia viva -. Ma dov' è la credibilità di un magistrato che, riconosciuto colpevole, viene sanzionato non con 6 anni di carcere, come prevederebbe la legge, ma con due mesi di anzianità della pensione?». 

Poi tocca agli altri due co-titolari dell'inchiesta: il pm «Luca Turco, che volle l'arresto dei miei genitori, poi annullato dal tribunale della Libertà» e «Antonino Nastasi, accusato da un ufficiale dei carabinieri di aver inquinato la scena criminis nell'ambito della morte di David Rossi». Lo stesso Nastasi, oggi, verrà sentito dalla commissione parlamentare istituita per fare luce sulla morte del dirigente di Mps.

Secondo la road map di Renzi, il prossimo 4 aprile arriverà il rinvio a giudizio, mentre il giorno dopo «uscirà un libro (edito da Piemme, ndr ) in cui scriverò di tutti i tentativi di dossieraggio subiti dai servizi segreti, così se mi succede qualcosa almeno è agli atti». I legali di Renzi, così come quelli che difendono i principali accusati, sono ben consapevoli che i reati contestati si prescriveranno prima della fine dell'eventuale processo. Ma l'ex premier la parola «prescrizione» dice che non la vuole nemmeno sentire. 

«Ho ricevuto centinaia di messaggi di solidarietà - racconta ad alcuni parlamentari di Italia viva -, risponderò ai pm colpo su colpo, perché hanno violato la Costituzione, che vieta di intercettare il telefono o la corrispondenza di un parlamentare senza l'autorizzazione preventiva della Camera di appartenenza. Io non mi fido di questi magistrati. La mia è una querela sacrosanta». 

E poi: «Alcuni amici mi hanno consigliato di abbassare i toni - riflette ancora -, ma ho risposto: "cosa volete che mi facciano? Che mi arrestino i genitori? Che facciano pubblicare i miei conti correnti al centesimo? Che distruggano il mio consenso politico"? Hanno già fatto tutto, tutto!».

Dall'Anm ai giustizialisti. Renzi finisce nella morsa per aver denunciato i pm. Stefano Zurlo l'11 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Le toghe: "Inaccettabile". Il "Fatto" lo insulta. L'ex premier li sfida: "Con me cascano male".

Lui insiste: «Con me i giudici sono cascati male. Se c'è uno che non si tira indietro sono io». Il giorno dopo la richiesta di rinvio a giudizio per finanziamento illecito, Matteo Renzi rincara la dose ai microfoni di Radio Leopolda e attacca ancora la procura di Firenze: «La mia vita è stata scardinata con un dolore personale e familiare che non auguro al peggior nemico».

E ancora: «L'appannamento della funzione del magistrato non dipende da quello che dice Renzi ma da quello che fa il magistrato».

Insomma, l'ex premier non arretra ma il sistema, per metà giudiziario e per il resto mediatico, contrattacca. La giunta dell'Associazione nazionale magistrati in una nota parla di «comportamenti inaccettabili» e intanto sulla prima pagina del Fatto Quotidiano Renzi diventa il «mini Berlusconi».

Sequenze già viste nella querelle fra il Cavaliere e i pm di rito ambrosiano. Una sfida sul filo della legge, qualcosa che ripropone appunto gli scontri del passato. Ma qui, anche se sembra impossibile, si va oltre. Appena scopre che i pm di Firenze vogliono portarlo a processo per finanziamento illecito, insieme a Maria Elena Boschi e Luca Lotti, per i contributi alla fondazione Open, Renzi annuncia di voler denunciare i pm di Firenze alla procura di Genova e chiede di essere sentito a Palazzo di giustizia. «Non è tollerabile - replica l'Anm - che i pm siano screditati soltanto per aver esercitato il loro ruolo. Le parole del senatore Matteo Renzi travalicano i confini della legittima critica e mirano a delegittimare agli occhi dell'opinione pubblica i magistrati che si occupano del procedimento a suo carico».

Ma Renzi va dritto per la sua strada e mette nel mirino i pm di Open. La prima sciabolata è per il procuratore di Firenze Giuseppe Creazzo, accusato di molestie dalla collega Alessia Sinatra: «Se fa un atto sessuale il Csm ti dà due mesi in meno di anzianità, se lo fa un cittadino si prende anni di galera». Anche se, va detto, lei aveva taciuto in sede penale.

«A Conte e Grillo - va avanti il leader di Italia Viva - i pm di Milano e Roma non hanno tolto i cellulari, hanno usato uno stile diverso da quello dei pm di Firenze. Uno di loro - afferma riferendosi a Luca Turco - si occupa a tempo pieno della famiglia Renzi.

«Prima che diventassi premier eravamo una famiglia rispettabile, ora sembriamo un'associazione di gangster». Manca nell'invettiva il terzo pm di Open, Antonino Nastasi, ma Renzi ha più volte speso parole pesanti nei suoi confronti, ricordando quel ha scoperto la Commissione parlamentare quando Nastasi, allora a Siena, entrò nella stanza del manager Mps David Rossi, appena precipitato da una finestra di Rocca Salimbeni.

Dall'altra parte, è Rossella Marro, presidente di Unicost, a replicare alle stoccate dell'ex sindaco di Firenze: «Il senatore Renzi ha reagito denunciando penalmente i pubblici ministeri. Questa evenienza dimostra quanto sia pericoloso il quesito referendario che intende introdurre la responsabilità civile diretta dei magistrati, che sarebbero esposti verosimilmente a continue pressioni».

Così, l'autodifesa sconfina e sembra mettere in discussione le settecentomila firme raccolte dalla Lega e dai Radicali. Renzi intanto assesta un'ultima bacchettata a Pierluigi Bersani con cui è in polemica ormai da molto tempo: «Ha preso soldi dai Riva per fare campagna elettorale. Ora faccia mea culpa». Stefano Zurlo

Accuse a Grillo, siluro a Conte: due colpi che travolgono il patto fra toghe e politica. Da Tangentopoli in poi in tanti hanno teorizzato il primato del controllo giudiziario sui partiti. Ma le indagini su Grillo e le vicende di Conte potrebbero aver chiuso un’epoca. Paolo Delgado su Il Dubbio il 10 febbraio 2022.

Ancora pochi giorni e sarà il giorno della trentesima candelina. Il 17 febbraio 1992 finì in manette Mario Chiesa, socialista, presidente del Pio Albergo Trivulzio. Fu colto in flagrante mentre intascava 7 milioni di lire, metà della tangente pattuita, il 10 per cento di un appalto da 140 milioni. I giornali diedero alla notizia un certo risalto. Comparve su molte prime pagine mai però in apertura. Non era la prima volta che un’indagine sfiorava o toccava il Psi di Bettino Craxi, ma se nessuno s’immaginava uno tsunami epocale molti profetizzavano guai per la Milano da bere dell’ex sindaco socialista Paolo Pillitteri. Craxi cercò di minimizzare: «Mi trovo un mariuolo che getta un’ombra su tutta l’immagine di un partito».

Il “mariuolo” si sentì abbandonato, vuotò il sacco, il sasso diventò frana, travolse la prima Repubblica, spazzò via un’intera classe politica, passò come lava ribollente su partiti che si credevano intoccabili, rivelò anche la fragilità di un edificio le cui fondamenta erano marcite senza che gli abitanti dei piani alti ne avessero il minimo sentore. La catastrofe fu accolta dai più, a partire all’intero apparato dei media, con entusiasmo, speranza, spesso partecipazione attiva. Sulle rovine del palazzo crollato si andava a costruire un nuovo edificio: moderno, trasparente, dinamico, efficiente. Poco più di un anno dopo quell’arresto, il referendum sulla legge elettorale caricatosi di valenze molto più vaste del suo già fondamentale merito, diede il colpo di grazia alla prima Repubblica.

Le cose, si sa, non sono andate proprio come auspicato. Soprattutto tra i politici e i giornalisti le battute sulle meraviglie di quella Repubblica già dipinta come sentina di corruzione sono da un bel pezzo luogo comune, pane quotidiano, ovvietà condivise. I giudizi caustici sul presente e sul passato prossimo sembrano dire che la nuova magione si è rivelata peggiore di quella travolta dalla tempesta di tangentopoli. Però non è così e il problema è diverso. Su quelle rovine non è stato costruito nessun nuovo Palazzo: piuttosto tendopoli e casette prefabbricate destinate a resistere giusto un paio di stagioni. La domanda è dunque perché in una trentina d’anni la politica è rimasta in mezzo al guado, senza mai ricostruire davvero ma limitandosi a soluzioni provvisorie.

Una delle ragioni principali, pur se certamente non l’unica, è nel vizio originario costituito da un terremoto politico quasi senza precedenti provocato in ampia misura da un’inchiesta giudiziaria. Forse, anzi probabilmente, la prima Repubblica era destinata a concludere comunque la propria esperienza. L’avanzata che sembrava irrefrenabile della Lega a nord, il referendum che avrebbe comunque sferrato un colpo fatale a quel sistema erano segnali chiari in quella direzione. Di fatto però fu un’azione giudiziaria a mettere traumaticamente fine alla prima Repubblica e da allora la politica non ha mai smesso di essere considerata, e di considerarsi, una specie di sorvegliata speciale, paralizzata dall’ipoteca del controllo della magistratura.

È possibile che quella lunga fase si avvii al tramonto e da questo punto di vista la parabola del M5S è molto eloquente. Nel Movimento erano confluite disordinatamente varie spinte ma il terreno unificante era stato proprio il primato del controllo giudiziario sulla politica e la riduzione della politica a questione di legalità e onestà. Sin dall’approdo in Parlamento, «la scatoletta di tonno», sono stati evidenti sia il feticismo dei regolamenti che i guasti che questo induceva. La vicenda della leadership di Conte revocata dalla magistratura, come se la politica si potesse ridurre a una lite di condominio, segna il fallimento di quella visione perché porta alle estreme conseguenze uno smarrimento del Movimento nel labirinto costituito dai suoi stessi feticci, coincidenti però con la fede illimitata del primato del potere giudiziario su tutti gli altri.

L’indagine su Grillo da un lato, la scelta dei 5S di chiudere gli occhi sulla valanga di truffe pur di difendere il Superbonus dall’altro, segnano probabilmente la fine di un’epoca. Non solo per quanto riguarda i 5S ma per l’intera visione della politica della quale i 5S sono stati massima e più esplicita espressione e che ha contribuito più di qualsiasi altro elemento a tenere il Paese immobile per tre decenni.

Come può essere chiamata questa azione? Persecuzione. La prepotenza della magistratura: in due giorni impallinati Renzi e Conte. Piero Sansonetti su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

Non è che noi abbiamo l’ossessione della magistratura, e perciò ogni giorno finiamo col parlare della magistratura, e lamentarci per la sua invadenza. È che l’invadenza della magistratura ha superato ogni possibile limite di ragionevolezza. Prendete gli ultimi due giorni. Cosa è successo in politica negli ultimi due giorni? Solo due cose. Che lunedì la magistratura ha impallinato l’ex premier Conte – eliminandolo dalla scena – e mercoledì ha impallinato l’ex ex premier Renzi – che però è un po’ più difficile da eliminare-.

Non li ha impallinati perché essi abbiano commesso qualche reato o qualche infamia, ma semplicemente perché alla magistratura non sono piaciute alcune iniziative politiche realizzate dai due ex premier. Non è piaciuto il modo nel quale i 5 Stelle hanno modificato il proprio statuto e hanno eletto Conte loro capo, e non è piaciuta la Fondazione messa in piedi da Matteo Renzi, e anzi hanno stabilito che questa fondazione non era una fondazione ma era un partito politico del quale Renzi era il capo e quindi era finanziata illegalmente. Perché illegalmente? Perché alcune leggi molto strampalate, approvate da geniali partiti suicidi (praticamente tutti), hanno recentemente stabilito che i partiti non devono né essere finanziati dallo Stato né dai privati, cioè devono morire. Qualunque associazione di qualsivoglia genere può essere finanziata sia dai privati che dallo Stato, ma i partiti no, probabilmente perché sono considerati pericolosi. E quindi chi viene beccato a farsi finanziare o a finanziare un partito, zac scatta l’incriminazione. Spiego meglio.

La magistratura ha stabilito che tocca a lei (a lei magistratura, dico) decidere come si fanno gli statuti dei partiti, e non agli iscritti ai partiti. E che spetta sempre a lei stabilire chi è un partito e chi no. Se per esempio io fondo una società di pasticceri con lo scopo di far pressione per detassare le uova, e poi mi faccio finanziare dagli allevatori di polli, e un magistrato decide che il mio non è un libero sindacato o qualcosa del genere, ma è il partito dei pollari, zacchete mi incriminano e mi sequestrano i soldi, le uova e i bignè. Forse anche i polli. La storia di oggi, quella di Firenze, è clamorosa. Credo che nessuna persona ragionevole possa ignorare che si tratta non di una iniziativa giudiziaria ma di una autentica persecuzione contro Matteo Renzi e i suoi. Le indagini, oltretutto, sono state realizzate in spregio delle leggi. Cioè violando le leggi e i diritti dell’indagato. Possiamo anche dire che in tutta questa vicenda un reato c’è, ed è quello commesso dai sostituti procuratori che hanno deciso di provare a eliminare Renzi dalla scena politica. Con l’avallo del loro Procuratore, che peraltro non si capisce bene neppure perché sia ancora Procuratore di Firenze, visto che il Csm ha accertato che si è reso responsabile di un reato piuttosto grave, anche se non perseguibile penalmente perché non denunciato entro un anno dalla vittima (che però lo ha confermato).

Vedete bene che non è una ossessione, la nostra. È solo il timore che l’Italia, giorno dopo giorni, scivoli in un catino dove vigono le regole di una società autoritaria, una sorta di repubblica giudiziaria dove tutti i poteri democratici sono sottomessi a una piccola oligarchia composta da un certo numero di Procuratori, e sostituti e Gip, riuniti in correnti, o forse anche il Logge segrete, e ai quali è riconosciuto il potere assoluto sulla vita dei sudditi, cioè quella forma di potere che in Europa era stato cancellato ai tempi del passaggio alle monarchie costituzionali e dell’avanzare timido dell’illuminismo. La vicenda Renzi mi pare limpida. Non c’è molto da spiegare. Il copione è sempre lo stesso: quello della persecuzione politica che si realizza anche grazie al sostegno legislativo fornito dalla stessa politica la quale – per ragioni in parte spiegabili, e riconducibili fondamentalmente alla vigliaccheria, e in parte inspiegabili – lo ha fatto sempre in modo sereno e ossequioso.

L’esempio più chiaro e conosciuto del meccanismo della persecuzione è quello che dura da quasi trent’anni nei confronti di Berlusconi. Ma ce ne sono tanti altri. Butto lì un po’ di nomi alla rinfusa: Bassolino, Mannino, Mancino, Lombardo, Penati, Del Turco, il generale Mori, Nunzia De Girolamo, Federica Guidi… E se vogliamo andare indietro negli anni, c’è un nome più pesante di tutti, perché è quello di uno statista socialista che fu perseguitato per colpire le idee che incarnava: appunto l’essere statista e l’essere socialista. Forse non c’è bisogno che io scriva il nome, però lo scrivo: Craxi. Anche perché penso che soprattutto noi di sinistra, anche i più garantisti tra noi, siamo un po’ in debito con Craxi, quantomeno per non averlo difeso abbastanza e per aver assistito piuttosto indifferenti all’accanimento col quale fu portato alla morte. È stato uno dei capitoli più vergognosi della politica italiana.

Dicevo di Renzi, occhei, tutto prevedibile. Ma Conte? Come è potuto succedere che la magistratura abbia deciso di eliminare dalla scena politica il capo del movimento, anzi del partito, che è stato la clava e la baionetta e il cannone e la mitragliatrice che hanno sostenuto, chiesto, ottenuto e difeso la sua avanzata (l’avanzata della magistratura, dico)? Ecco, questo è quasi inspiegabile. Ha lasciato tutti attoniti. E vero che con ogni probabilità Conte sarebbe comunque sparito dalla ribalta senza bisogno della magistratura, per inconsistenza politica evidente e ormai a tutti nota. Però colpisce il fatto che dei magistrati abbiano voluto mettere la firma sull’atto di scomparsa. Il povero Travaglio è rimasto senza parole. L’altro giorno sulla “7”, con Lilli Gruber, balbettava a braccia conserte. Diceva: “ma guardate che se si vota altre cento volte Conte sarà sempre rieletto, e invece del 92 per cento prenderà il 99”.

Travaglio era fiero del successo del suo protetto: il 92 per cento! Dunque amatissimo, amatissimo davvero? Non diceva niente Travaglio su come era fatta la scheda per votare Conte. Sulla scheda c’era solo il suo nome. C’era scritto: volete voi Conte come vostro capo? Poi c’era un Si o un No da metterci la croce. Diciamo pure che un sistema di voto come questo non ha precedenti. Però resta il fatto che ogni partito ha il diritto di scegliersi il sistema di voto che vuole. Almeno, era così prima che fosse instaurata la repubblica giudiziaria. Anzi no. C’è un precedente: le elezioni politiche del 1938. Allora sulla scheda c’era un elenco di nomi, ed erano i nomi da mandare al Parlamento. Una lista unica. Non si poteva scegliere Chiedeva la scheda: Vi va bene questa lista Si o No? Vinsero i Sì col 99,85%. Pazzesco. Un risultato fantastico, migliore, addirittura, di quello di Conte…

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Francesco Boezi per “il Giornale” il 10 febbraio 2022.

«Sparatoria» è la parola che Luca Palamara, nell'ultimo libro scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti, usa per definire la rappresaglia contro Matteo Renzi. 

L'anno focale è il 2017. L'arco temporale individuato arriva ai nostri tempi. 

In «Lobby&Logge», edito da Rizzoli, c'è un passaggio in cui l'ex presidente dell'Anm risponde ad una domanda di Sallusti sull'incontro all'autogrill di Fiano Romano, ossia sul faccia a faccia tra l'ex premier e l'ex 007 Marco Mancini. 

Palamara non crede alla narrativa di Report: la versione per cui l'appuntamento sarebbe stato filmato «per caso» non è ritenuta plausibile. 

Anzi, per l'ex Anm si può dire «che una parte del mondo istituzionale legato ai servizi voleva far fuori Matteo Renzi». Il che può riguardare non solo il taglio dato da certi media ma il narrato conflitto nella sua totalità. 

Il motivo dell'offensiva contro il renzismo è considerato politico: «...la sopravvivenza dell'ultima cellula del comunismo europeo, che Renzi voleva, e in parte era riuscito, a rottamare».

La «ditta» contro la novità: è questa la chiave di lettura. Ne viene fuori un capitolo in cui, mediante il classico botta e risposta, vengono ripercorse le tappe di una battaglia sui livelli apicali dello Stato. 

Renzi avrebbe preferito Michele Adinolfi come vertice della Guardia di Finanza ma il generale viene «bruciato» a ridosso del possibile incarico. Come?

Per via di «un'operazione perfetta coordinata tra magistrati e giornalisti amici», dice Palamara. Il Fatto Quotidiano pubblica una telefonata Renzi-Adinolfi. 

Sono chiacchiere - quelle tra i due ma riguardano anche Enrico Letta, che era il premier. E tanto basta. Il contenuto emerge annota l'ex Anm - perché «i collaboratori di Woodcock Gianpaolo Scafarto e Sergio De Caprio (cioè Capitano Ultimo, ndr)... aggiunsero a pagina 470 del fascicolo la telefonata tra Adinolfi e Renzi». 

L'inchiesta è la Cpl-Concordia. La stessa con cui, per chi ha scritto il libro, la telefonata Renzi-Adinolfi nulla avrebbe a che fare. 

Non è finita: arriva la «sparatoria» per cui tre renziani vengono «azzoppati» dalla «procura di Napoli» e dal «duo Scafarto-De Caprio».

Si legge di Luca Lotti, del comandante generale dei Carabinieri Del Sette e di quello della Toscana Saltalamacchia. 

Poi l'ex magistrato immortala un «colpo di grazia» al renzismo: «...una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe dei Carabinieri al cuore dei servizi segreti». Trattasi, fa presente Palamara, di «nemici di Renzi». L'ex capo dell'Anm prosegue sostenendo che, «secondo i renziani», esiste pure un «regista»: Palamara fa il nome dell'ex ministro dell'Interno Marco Minniti.

Infine si passa ai giorni nostri, con l'apertura del «fronte fiorentino». Due filoni: quello sui genitori di Renzi e l'inchiesta Open. Quella per cui, ieri, è stato chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, dell'ex premier, della Boschi e di Carrai.

Il J'accuse dell'ex magistrato. L’accusa di Palamara: “La caccia a Renzi iniziò quando diventò premier”. Paolo Comi su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

La caccia a Matteo Renzi ed al Giglio magico inizia quando il Rottamatore nel 2014 diventa presidente del Consiglio. Da quell’anno inizieranno ad addensarsi le nubi sulla testa dell’ex segretario dei dem. A dirlo è Luca Palamara nel libro intervista Lobby e Logge scritto con il direttore di Libero Alessandro Sallusti. Una caccia giudiziaria che si svolge sull’asse Firenze-Roma. A Firenze «c’è un procuratore, Luca Turco, che indaga la famiglia Renzi affiancato da un ufficiale della guardia di Finanza, Adriano D’Elia, comandante provinciale del nucleo di polizia tributaria, che per tre anni, dal 2014 al 2017, fa della caccia ai Renzi la sua ragione di vita», esordisce Palamara che racconta cosa avvenne durante una cena a tre nella Capitale.

«Eravamo presenti io, Lotti (Luca) e il comandante generale della finanza Giorgio Toschi. Discutiamo di tante cose, a un certo punto la discussione cade sull’accanimento di D’Elia nei confronti della famiglia Renzi. I toni si alterano, capisco che è meglio, vista la mia posizione di magistrato, defilarmi con una scusa. Però faccio in tempo a sentire Toschi dire a Lotti: “Non l’ho messo io, l’ha fatto Capolupo (Saverio, predecessore di Toschi al comando delle fiamme gialle, ndr)”. Come dire, non è colpa mia». Sallusti, allora, domanda: «Be’, un generale potrebbe anche spostare un colonnello». «In teoria – risponde Palamara -, le strade lungo le quali corre il potere non sono sempre le più semplici. Soprattutto in quegli anni nei quali a farla da padrone non sono state certo la trasparenza, la lealtà e, in alcuni casi, neppure la legge». Se la partita fiorentina è ancora tutta da giocare, quella romana, al Csm, si è al momento chiusa con la vittoria di Renzi.

«Prendiamo il caso di Banca Etruria. Come risulta dalle chat, lei prese le difese del pm di Arezzo, Roberto Rossi, quello che ha indagato sulla vicenda nonostante fosse sospettato di essere compromesso con la famiglia Boschi – il padre della ministra Maria Elena era il vicepresidente di quella banca – e quindi con Renzi per via di una consulenza avuta con il governo», chiede Sallusti. «Quella consulenza esisteva, ma era antecedente a Renzi, gli era stata conferita dal premier Letta. Non solo. La consulenza, gratuita, cessò nel 2015 mentre il fallimento della banca è del febbraio 2016, e il padre della ministra verrà regolarmente iscritto nel registro degli indagati», puntualizza Palamara che in quegli anni era componente del Consiglio superiore della magistratura. «Resta il fatto che lei, intercettato, parlando con il suo collega Paolo Auriemma (procuratore di Viterbo, ndr) dice: “Se non fosse per Rossi sarei ottimista, crea solo casini, con quella audizione indebolisce Renzi”, commentando l’intervento di Rossi alla commissione parlamentare su Banca Etruria presieduta da Pier Ferdinando Casini».

«È vero. Rossi non è un politico e più volte è caduto nei trabocchetti della guerra che in quell’anno era in corso contro Renzi. Si mirava a Rossi, ma in realtà si puntava a Renzi e Boschi. In prima battuta Rossi, nonostante un duro ostracismo di alcuni componenti della prima commissione (competente sulle incompatibilità delle toghe, ndr) presieduta da Renato Balduzzi (già ministro della Salute nel governo Monti, che non è mai riuscito ad arginare lo stillicidio di notizie sulla vicenda), si salva e nel luglio del 2016 il Csm archivia la pratica per incompatibilità istituita contro di lui. La vendetta si consuma però tre anni dopo, quando il Csm non lo riconferma procuratore di Arezzo», ricorda Palamara, sottolineando che contro Rossi «si scatena la furia giustizialista, e molto ideologica, di Davigo e della corrente grillina (Autonomia&indipendenza, ndr), in quel momento molto forte al Csm e in politica, e che aveva il ministro Bonafede come sponda politica».

Che cosa era successo? Secondo Davigo, Rossi aveva compromesso «il requisito dell’indipendenza da impropri condizionamenti», almeno «sotto il profilo dell’immagine», avendo mantenuto un incarico di consulenza presso Palazzo Chigi, sotto i governi Letta e Renzi, anche dopo aver aperto l’indagine su Banca Etruria del cui consiglio di amministrazione faceva parte il padre dell’allora ministro Maria Elena Boschi. A nulla erano valse le spiegazioni di Rossi che, in una memoria mai tenuta in considerazione, aveva definito «clamoroso e sconcertante travisamento dei fatti» ciò che gli veniva contestato, ricordando di aver terminato l’incarico a Palazzo Chigi il 31 dicembre 2015, prima dunque del fallimento della banca che è datato 11 febbraio 2016.

Non c’era stata alcuna “contemporaneità”. Alla contestazione di essersi “auto assegnato” il fascicolo, Rossi aveva risposto che il primo fascicolo, quello sull’ostacolo alla vigilanza e che non riguardava Boschi padre, gli era pervenuto in base ad un meccanismo di routine, come magistrato dell’area economica. E il non aver chiesto inizialmente l’insolvenza di Banca Etruria, altra accusa, fu perché la Banca d’Italia all’epoca stava ancora tentando il salvataggio dell’istituto di credito dal fallimento con l’amministrazione straordinaria. Nonostante le prove, Rossi non venne creduto, venendo rimosso dall’incarico dalla sera alla mattina. Per ristabilire la verità dovrà intervenire il Consiglio di Stato al quale Rossi aveva presentato ricorso contro la defenestrazione. Nel frattempo Davigo sarà già andato in pensione. Paolo Comi

Palamara: “così il sistema colpì il generale Adinolfi per far fuori Matteo Renzi”. Redazione CdG 1947 l'11 Febbraio 2022

L’operazione per far fuori il generale Adinolfi nasce nella Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock ed i Carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, ora in pensione, meglio noto come capitano "Ultimo", stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia

Nel libro intervista “Lobby e Logge” scritto da Alessandro Sallusti e Luca Palamara, si legge che Matteo Renzi arrivato a Roma dalla sua Firenze, inizialmente come segretario nazionale del Pd ed in seguito come Presidente del Consiglio dei Ministri,  “la prima cosa che capisce è che per governare, in generale ma in questo Paese in particolare, devi controllare o quantomeno avere persone di fiducia nei gangli del Sistema, per pararti dai colpi bassi. Così funziona”. “Gli obiettivi sono carabinieri, guardia di finanza, servizi e magistratura”, continua Palamara. Per l’ Arma dei Carabinieri Renzi ha le idee chiare e sistema subito la questione piazzando due fedelissimi: per comandante generale sceglie Tullio Del Sette ed in Toscana, “si blinda” con la nomina del generale Emanuele Saltalamacchia, “una sua vecchia conoscenza di quando era sindaco di Firenze”. 

Per la Guardia di finanza una organizzazione strategica “perché rispetto alle altre forze di polizia è diventata protagonista di importanti e delicate indagini, soprattutto con alcuni suoi reparti speciali, ad esempio il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata, meglio conosciuto come Gico” il discorso è più delicato e complicato. In quel momento storico il comandante generale è il generale Saverio Capolupo, ritenuto “uomo potente e di grandi relazioni”. Il suo incarico scade nel 2016 e potrebbe essere prorogato da Renzi che però commette “un errore fatale” piazzando al vertice delle fiamme gialle il generale Giorgio Toschi, una vecchia conoscenza grazie ai suoi trascorsi al comando della Finanza in Toscana, preferendolo al generale  Luciano Carta che verrà parcheggiato ai servizi segreti in “uno stato d’animo, diciamo così, non proprio riconoscente nei confronti del premier”. 

L’operazione per far fuori il generale Adinolfi nasce nella Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock ed i Carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, ora in pensione, meglio noto come capitano “Ultimo”, stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Gli imputati, tra cui il sindaco dell’ isola Giosi Ferrandino che resterà in carcere a Poggioreale per tre settimane infernali, giusto per rinfrescare la memoria al lettore, verranno poi tutti assolti. Fra gli intercettati in questa maxi inchiesta finita in un buco nell’ acqua compare anche il generale Adinolfi che chiama Renzi il giorno del suo quarantesimo compleanno. La conversazione è amichevole e i due si lasciano andare a giudizi molto pesanti sull’allora premier Enrico Letta, definito senza tanti giri di parole un “incapace”.

Un racconto che trova conferma nell’esposto-bomba che l’ex Comandante in seconda della Guardia di Finanza, Michele Adinolfi, il 4 luglio 2017 fece pervenire alla Prima commissione del Csm. La stessa commissione dinnanzi alla quale nel successivo mese di settembre il procuratore capo di Modena Lucia Musti ha riferito che il colonnello “Ultimo”, ed il maggiore Scafarto gli avrebbero parlato della prospettiva di “arrivare a Renzi” proprio attraverso l’inchiesta sulla Cpl. 

Una telefonata deflagrante per i rapporti certamente non idilliaci fra Matteo Renzi ed Enrico Letta, che nonostante non abbia alcuna attinenza minimamente con le indagini in corso, viene trascritta sul brogliaccio dai Carabinieri del Noe, per poi restare in un cassetto per un anno. Nel 2015 guarda caso il giornale delle procure, cioè il Fatto Quotidiano provvede a pubblicarla integralmente ed il generale Adinolfi di fatto eliminato dai giochi del potere. “Era il segnale: il vecchio Sistema aveva dichiarato guerra a Renzi”, spiega Palamara.

Due anni dopo nel 2017 parte un vero e proprio regolamento di conti all’interno dell’ Arma dei Carabinieri, “sempre per mano della procura di Napoli e del duo Scafarto-De Caprio”, e questa volta ad essere “bruciati” sono proprio i generali Del Sette e Saltamacchia, accusati di rivelazione atti d’ufficio nell’ambito di uno dei filoni dell’indagine Consip. Il generale Del Sette verrà persino condannato dal Tribunale di Roma. Dal 1814, anno di fondazione dell’Arma dei Carabinieri, non era mai accaduto, che il numero uno subisse tale onta. 

 “Ma nel 2017 Renzi non è più premier”, ricorda Alessandro Sallusti. E Palamara spiega “Già lascia nel dicembre del 2016, ma è ancora potente perché ha il controllo dei gruppi parlamentari del Pd. È vero, ha sbagliato e ha perso il referendum da lui indetto sulla riforma costituzionale, però lo ha perso raccogliendo una montagna di voti. Insomma, fa ancora paura alla vecchia nomenclatura Pd che non vede l’ora, come disse Bersani, di riprendere in mano la ditta”.

Palamara aggiunge che per sferrare il “colpo di grazia” a Renzi, “una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe al cuore dei servizi segreti, all’Aise, l’agenzia degli 007 impegnata sugli affari esteri”. Un trasferimento improvviso che suscita grandi perplessità nel cerchio magico renziano che non riesce a comprendere le ragioni di questi spostamenti.

“Secondo i renziani è Marco Minniti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, uomo che arriva dalla linea Pci-Pds-Pd, cioè legato alla vecchia nomenclatura. Minniti è nel governo Renzi ma legato a quella parte della sinistra a lui ostile” continua Palamara che ricorda che “I renziani mi dicevano: Minniti si era impegnato a rafforzare l’Aisi (il servizio segreto interno n.d.r.) , per catturare Matteo Messina Denaro, proponendo il nome di De Caprio, ma anziché mandarlo a dare la caccia a uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo lo dirotta all’ Aise per farci fuori”.

L’operazione contro il generale. La rivelazione di Palamara: così il sistema colpì Adinolfi per far fuori Matteo Renzi. Paolo Comi su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Arrivato a Roma, inizialmente come segretario del Pd e poi come premier, Matteo Renzi “la prima cosa che capisce è che per governare, in generale ma in questo Paese in particolare, devi controllare o quantomeno avere persone di fiducia nei gangli del Sistema, per pararti dai colpi bassi. Così funziona”. Lo racconta Luca Palamara nel libro intervista Lobby e Logge scritto con Alessandro Sallusti.

Se per un verso il Sistema scatena subito la caccia nei suoi confronti (come raccontato nella puntata di ieri), dall’altro il Rottamatore non rimane inerte e cerca di prendere le giuste contromisure. “Gli obiettivi sono carabinieri, guardia di finanza, servizi e magistratura”, prosegue Palamara. Per i carabinieri Renzi ha le idee chiare e chiude subito la pratica con due fedelissimi: per comandante generale sceglie Tullio Del Sette e per casa sua, in Toscana, “si blinda” con la nomina del generale Emanuele Saltalamacchia, “una sua vecchia conoscenza di quando era sindaco di Firenze”.

Discorso più complesso per la guardia di finanza, una organizzazione strategica “perché rispetto alle altre forze di polizia è diventata protagonista di importanti e delicate indagini, soprattutto con alcuni suoi reparti speciali, ad esempio il Gruppo investigativo sulla criminalità organizzata, meglio conosciuto come Gico”.

In quel momento il numero uno delle fiamme gialle è il generale Saverio Capolupo, “uomo potente e di grandi relazioni”. Il suo incarico scade nel 2016 e potrebbe essere prorogato da Renzi. Il Rottamatore, però, commette “un errore fatale” e insedia al vertice delle fiamme gialle Giorgio Toschi, preferendolo a Luciano Carta che verrà parcheggiato ai servizi in “uno stato d’animo, diciamo così, non proprio riconoscente nei confronti del premier”. Renzi, prosegue Palamara, “avrebbe voluto come comandante della finanza un suo caro amico, il generale Michele Adinolfi, ma il vecchio sistema si mette di traverso e brucia il generale con una operazione perfetta coordinata tra magistrati e giornalisti”.

L’operazione per far fuori Adinolfi nasce dalla Procura di Napoli dove il pm Henry John Woodcock e i carabinieri del Noe del capitano Giampaolo Scafarto e del colonnello Sergio De Caprio, alias capitano Ultimo, stanno conducendo l’inchiesta “Cpl Concordia” su alcune tangenti per la metanizzazione dell’isola d’Ischia. Gli imputati, tra cui il sindaco Giosi Ferrandino che trascorrerà oltre venti giorni a Poggioreale, per la cronaca, saranno poi tutti assolti. Fra gli intercettati in questa maxi inchiesta finita in un flop c’è anche Adinolfi. Il generale chiama Renzi il giorno del suo quarantesimo compleanno. La conversazione è amichevole e i due si lasciano andare a giudizi molto pesanti sull’allora premier Enrico Letta, definito senza mezzi termini “incapace”.

La telefonata è esplosiva per i rapporti già non idilliaci fra Renzi e Letta e, anche se non attiene minimamente le indagini, viene trascritta dai Cc del Noe per poi essere lasciata in un cassetto per un anno. Nel 2015 il Fatto Quotidiano si incaricherà di pubblicarla integralmente e Adinolfi verrà bruciato. “Era il segnale: il vecchio sistema aveva dichiarato guerra a Renzi”, precisa Palamara. Nel 2017 parte un regolamento di conti all’interno dell’Arma, “sempre per mano della procura di Napoli e del duo Scafarto-De Caprio”, e ad essere azzoppati sono proprio Del Sette e Saltamacchia, accusati di rivelazione atti d’ufficio nell’ambito di uno dei filoni dell’indagine Consip. Del Sette, in particolare, verrà pure condannato dal tribunale di Roma. Mai era accaduto, dal 1814, anno di fondazione dell’Arma, che il numero uno dell’Arma subisse tale onta.

“Ma nel 2017 Renzi non è più premier”, afferma Sallusti. “Già – risponde – lascia nel dicembre del 2016, ma è ancora potente perché ha il controllo dei gruppi parlamentari del Pd. È vero, ha sbagliato e ha perso il referendum da lui indetto sulla riforma costituzionale, però lo ha perso raccogliendo una montagna di voti. Insomma, fa ancora paura alla vecchia nomenclatura Pd che non vede l’ora, come disse Bersani, di riprendere in mano la ditta”. Per dare il “colpo di grazia” a Renzi, aggiunge Palamara “una manina sposta De Caprio e il suo gruppo dal Noe al cuore dei servizi segreti, all’Aise, l’agenzia degli 007 impegnata sugli affari esteri”. Questo improvviso trasferimento suscita grandi perplessità nell’entourage renziano che non riesce a comprendere perché stiano avvenendo tali spostamenti.

“Secondo i renziani – prosegue Palamara – è Marco Minniti, all’epoca sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, uomo che arriva dalla linea Pci-Pds-Pd, cioè legato alla vecchia nomenclatura. Minniti è nel governo Renzi ma legato a quella parte della sinistra a lui ostile”. “I renziani – ricorda Palamara – mi dicevano: Minniti si era impegnato a rafforzare l’Aisi per catturare Matteo Messina Denaro, proponendo il nome di De Caprio, ma anziché mandarlo a dare la caccia a uno dei latitanti più pericolosi e ricercati al mondo lo dirotta all’Aise per farci fuori”. Meglio di House of Card. Paolo Comi

Giuseppe Salvaggiulo per "la Stampa" l'11 febbraio 2022.

Cena tra magistrati, qualche anno fa. Clima conviviale. Un commensale si rivolge a Giuseppe Creazzo, da non molto nominato procuratore di Firenze. «Allora, Peppe, come si sta a Firenze?». «Dopo tanti anni in Calabria, è stato come passare da Beirut a New York». E invece. Nemmeno tanti anni dopo, la placida Procura fiorentina è un bunker libanese. «Siamo isolati, infamati come persone e delegittimati come ufficio - ha detto ieri Creazzo ai colleghi - .Protagonisti nostro malgrado per attacchi che si commentano da soli». «I miei accusatori non sono credibili», proclama Renzi. 

Creazzo additato in tv come «molestatore sessuale» con tanto di dettagli («Tanto non siamo in fascia protetta») su «palpeggiamenti». Turco, memoria storica della Procura di Firenze, svillaneggiato in quanto «toga rossa, protagonista di inchieste finite nel nulla, specializzato in Renzologia e sul cui operato pongono seri dubbi numerosi servitori dello Stato che lavorano con lui».

Nastasi, ultimo arrivato nel bunker, gettato nel fango senese per il sospetto «di aver inquinato la scena del delitto nel caso David Rossi». Non si può dire che i tre pm siano star mediatiche. «Zero tituli» negli archivi di giornali e tv. «Al lavoro in silenzio, senza cadere in provocazioni né rispondere. Ora è il tempo della sobrietà e dell'umiltà», sospira Creazzo ai suoi pm. 

Ma questa botta s'è sentita più di ogni altra, appena lenita dal comunicato dell'Anm e delle manifestazioni di solidarietà, perfino della Casa del Popolo di mantignano. Il Csm ha registrato la polemica, senza iniziative. Firenze è una capitale magnificente e autocompiaciuta, dove gli ultimi due procuratori sono finiti, all'indomani del pensionamento, a collaborare con il sindaco. Creazzo è un calabrese minuto, ostinato ed ermetico. A Reggio era leader della corrente centrista Unicost.

In Procura era uditore del giovane Palamara, fresco vincitore di concorso, con cui poi milita nell'Anm negli anni del berlusconismo. Creazzo arriva a Firenze nel giugno 2014, a renzismo imperante. Benché non fosse il candidato preferito, non dispiaceva. «È un moderato», dicevano nel Pd. Ma negli anni successivi, quando le inchieste si incuneano nel Giglio Magico, il clima cambia. 

«Togliercelo dai coglioni» diventa l'imperativo categorico. Espresso impudicamente, a Firenze, persino al cospetto di alti funzionari pubblici. E in privato, all'hotel Champagne, quando è Luigi Spina, allora consigliere del Csm (anch' egli calabrese e di Unicost) a rassicurare Lotti: «Te lo dobbiamo togliere dai coglioni il prima possibile». Era di maggio, 2019. Creazzo si era messo in testa di diventare procuratore di Roma. Ma aveva fatto male i conti.

Nemmeno la sua corrente lo appoggiava. Nel frattempo, dopo i petali imprenditoriali, le inchieste avevano toccato quelli familiari e politici del Giglio. Fino ai clamorosi e improvvidi arresti domiciliari dei genitori di Renzi («Due settantenni incensurati!») per bancarotta fraudolenta di cooperative. Arresti trasformati nella più blanda interdizione dal tribunale dei Riesame. «Annullati perché forzati e sproporzionati», esulta Renzi, glissando sulla conferma dei gravi indizi di colpevolezza. 

Per «liberare Firenze - dice Palamara all'hotel Champagne parlando di Creazzo - bisogna mettergli paura con quell'altra storia». La storia è un esposto firmato da un altro pm fiorentino, Paolo Barlucchi, e mandato per competenza a Genova. Il dossier adombra conflitti di interesse e corruzione di Creazzo e Turco in un'inchiesta sulla sanità. Lo stesso Renzi se ne interessa. Creazzo viene intercettato anche se non indagato.

L'inchiesta sarà archiviata un anno dopo. Mentre Barlucchi, a sua volta, è finito sotto processo disciplinare con l'accusa, tra le altre, di aver «ricattato» Creazzo. Ma dalle chat di Palamara spunta un'altra, e scabrosa, vecchia storia. Quando la Procura generale della Cassazione le chiede perché in una chat chiamava Creazzo «il porco di Firenze», la pm palermitana Alessia Sinatra racconta di essere stata molestata diversi anni prima, nel corridoio di un hotel romano in zona Prati dove si svolgeva un convegno. 

Entrambi finiscono sotto processo disciplinare (quello penale è impossibile, per assenza della denuncia). Le accuse a Creazzo sono condensate nel foglio che Renzi ha sventolato a "Porta a Porta", una foto dell'atto di incolpazione depositato al Csm. La pm Sinatra è ancora sotto processo disciplinare. Dalla mediatizzazione della sua vicenda prende le distanze, manifestando «la più completa estraneità ai commenti su procedimenti in corso».

A metà dicembre Creazzo è stato condannato dalla sezione disciplinare, seguirà ricorso in Cassazione. La sanzione, due mesi di perdita di anzianità, è obiettivamente irrisoria. Ma sufficiente a sopire ogni ambizione di carriera. Sfumata Roma, sfumata Catanzaro, sfumata la Procura nazionale antimafia sia pure come sostituto semplice, Creazzo chiuderà la carriera da soldato semplice in Calabria.

Il caso Open. L’Anm avverte Renzi: vietato toccare un Pm! Redazione su Il Riformista l'11 Febbraio 2022 

Qual è il punto di forza dei magistrati? Che se uno di loro viene criticato, scatta a sua difesa il partito dei Pm. Il principio è chiarissimo: i magistrati possono fare quello che pare a loro e non possono essere criticati. tantomeno denunciati, come ha fatto Matteo Renzi nei confronti dei Pm di Firenze che avevano commesso alcuni abusi nelle indagini sulla fondazione Open. Capito? Se qualche Pm ti mette in mezzo e ti muove accuse fantasiose e chiede che tu sia rinviato a giudizio, tu te ne devi stare zitto e buono fino, eventualmente, all’assoluzione (circa l’80 per cento degli indiziati viene poi assolto). Una specie di legge sulla presunzione di colpa.

Così ieri la giunta dell’Anm (cioè il comitato centrale del partito dei Pm) ha diffuso un comunicato di condanna nei confronti di Matteo Renzi. Intitolato “l’ingiusto attacco del senatore Renzi ai pubblici ministeri fiorentini della vicenda Open”. C’è scritto nel comunicato: “Le parole del senatore della Repubblica Matteo Renzi, pronunciate non appena ha appreso della richiesta di rinvio a giudizio per la vicenda Open, travalicano i confini della legittima critica e mirano a delegittimare agli occhi della pubblica opinione i magistrati che si occupano del procedimento a suo carico. “I pubblici ministeri che hanno chiesto il processo nei suoi confronti sono stati tacciati di non aver la necessaria credibilità personale in ragione di vicende, peraltro oggetto di accertamenti non definitivi o ancora tutte da verificare, che nulla hanno a che fare con il merito dei fatti che gli sono contestati.

Hanno adempiuto il loro dovere, hanno formulato una ipotesi di accusa che dovrà essere vagliata, nel rispetto delle garanzie della difesa, entro il processo, e non è tollerabile che siano screditati sul piano personale soltanto per aver esercitato il loro ruolo. “Questi inaccettabili comportamenti, specie quando tenuti da chi riveste importanti incarichi istituzionali, offendono i singoli magistrati e la funzione giudiziaria nel suo complesso, concorrendo ad appannarne ingiustamente l’immagine di assoluta imparzialità, indispensabile alla vita democratica del Paese. 

Renzi erede di Berlusconi: ora la magistratura ha il suo nuovo nemico. Filippo Ceccarelli su La Repubblica l'11 febbraio 2022.

Con il suo attacco ai giudici il leader di Italia viva ha preso il posto del presidente di Forza Italia. Il passaggio delle consegne è compiuto e nella vita pubblica italiana lo scontro tra giustizia e politica è destinato a durare attraverso il più naturale avvicendamento. 

Dai meandri degli ormai sterminati archivi visivi diversi anni orsono uscì fuori un filmato in cui un giovanissimo Renzi, sul palcoscenico del teatrino dell'oratorio di Rignano, faceva l'imitazione di Berlusconi. Quando in uno studio televisivo glielo fecero rivedere, il Cavaliere commentò: "Bello e divertente", aggiungendo, sia pure in modo tortuoso, che molto quel ragazzo aveva imparato da lui.

L’accanimento della casta dei pm e del suo house organ. Perché Renzi è perseguitato dai magistrati: dall’inchiesta di Genova fino a Open. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 17 Novembre 2021. 

Tutto cominciò con quel “Brr che paura” alle proteste del sindacato dei magistrati che lamentavano il taglio delle ferie. Erano i primi di settembre del 2014 e “Porta a porta” inaugurava la nuova stagione con la presenza prestigiosa, sulla poltrona bianca dello studio di Bruno Vespa, del Presidente del Consiglio. Era premier da soli sette mesi, Matteo Renzi, e aveva la baldanza di chi ancora non aveva assaggiato antipasto primo secondo dolce frutta e caffè della tavola imbandita dal Partito Mediatico Giudiziario. Aveva infatti con molta nonchalance in quella serata ancora estiva buttato lì il suo “L’Anm è insorta? Brr che paura! Noi andremo avanti”. Sulla responsabilità civile delle toghe: “Se sbagliano devono pagare”. Sulle ferie: “Vi sembra normale che un tribunale sia chiuso dal primo agosto al 15 settembre? Per aprirlo devi scassinare una banca…”.

Non sapeva ancora il baldo presidente del consiglio che quei sassolini che lui tirava con disinvoltura verso la Casta più potente mai comparsa all’orizzonte della politica, quel partito dei pubblici ministeri in grado di tenere per la collottola i partiti e il mondo economico e finanziario, sarebbero presto diventati slavina. Che sarebbe precipitata su di lui, la sua famiglia, i suoi amici e collaboratori. Già la primavera del 2014 – lui aveva giurato davanti al presidente Napolitano nel febbraio – non era stata del tutto indolore. Di fronte all’esposto di un usciere del Comune di Firenze che si era esercitato in modo seriale a prendere di mira l’ex sindaco della città, la Procura si era ben guardata dall’archiviare quelle che apparivano visibilmente le fissazioni di un dipendente scontento, e aveva aperto indagini. Con un “fascicolo esplorativo”. Che non vorrebbe dire niente, se non fosse stato accompagnato da fanfara mediatica e un po’ guardona, per vedere se l’affitto di quell’appartamento del centro di Firenze fosse stato pagato da Matteo Renzi o dal suo amico Marco Carrai, presidente dell’aeroporto della città e anche della Fondazione Open. Una bolla di sapone, quell’inchiesta, e siamo ancora solo agli aperitivi. Ma si affacciava già il Movimento cinque stelle che, del tutto isolato, cercava di coinvolgere in quella bufala il consiglio comunale di Firenze, mentre Beppe Grillo già twittava intimando a Renzi di rispondere alle sue domande, anche se non erano tredici come quelle di Conte.

L’antipasto arriva pochi giorni dopo la famosa partecipazione di Renzi a Porta a porta. Non ha ancora finito di dire “Brr che paura” che i giornali sono inondati da una notizia che arriva da Genova. Un fatto tecnico, la richiesta di proroga delle indagini da parte di un pm, che torna utile però per far uscire la notizia: Tiziano Renzi, padre del Presidente del consiglio, è indagato nel capoluogo ligure per bancarotta. Da qui in avanti la slavina mediatico- giudiziaria non si ferma più. E ha poca importanza il fatto che quell’inchiesta di Genova finirà in niente, con la procura che dovrà chiedere per ben due volte l’archiviazione prima che la gip si decida. Stessa sorte – la notizia è recentissima – avrà un’altra indagine condotta dalla procura di Cuneo, questa volta nei confronti della madre di Renzi, Laura Bovoli, processata in seguito al fallimento di una società di pubblicità e diffusione di volantini nel cuneese, e assolta perché “il fatto non sussiste” nel luglio di quest’anno, dopo lunghe indagini.

Ma Genova e Cuneo non sono in provincia di Firenze. Perché è nel palazzo di giustizia di quella città che si concentrano tutti i piatti forti di quella tavola imbastita dal Partito Mediatico Giudiziario. Quasi che quel “Brr” fosse stato un vento gelido che soffiava solo da quelle parti. Nel febbraio 2019 i genitori di Matteo Renzi vengono posti agli arresti domiciliari. La richiesta, ottenuta dal gip, è del procuratore aggiunto di Firenze Luca Turco. Un nome che ritornerà, insieme a quello del capo dell’ufficio Creazzo, perché il leader di Italia Viva anche di recente li accuserà di essere “ossessionati” dalla sua persona. Anche perché, solo diciotto giorni dopo i due genitori saranno scarcerati dal tribunale del riesame. Il che di solito significa che non c’era nessun bisogno di quelle manette, pur se solo metaforiche. Ma si sa che gli arresti fanno notizia. È comunque un dato di fatto che tutte le inchieste sull’attività passata dei genitori di Renzi nascevano dalla procura di Genova, che aveva indagato ad ampio spettro su tutte le attività della coppia, poi smistando agli uffici di altre città sulla base delle diverse competenze territoriali. Ed è un altro dato di fatto che, mentre le altre procure hanno archiviato, solo a Firenze i due coniugi sono ancora processati per bancarotta per il fallimento di tre cooperative e già condannati in primo grado a un anno e nove mesi per false fatturazioni.

E ancora a Firenze si apre il fascicolo più assurdo, anche se “a modello 44”, cioè contro ignoti. Ignoti nell’intestazione del faldone, ma non sui giornali. Anzi, in particolare, sull’house organ delle procure. È la famosa storia della telefonata tra Matteo Renzi e il generale della Guardia di finanza Michele Adinolfi, indagato in un’inchiesta del procuratore di Napoli John Woodcock, in cui la sua posizione sarà poi archiviata, avvenuta nel 2014 e pubblicata dal Fatto quotidiano un anno dopo. Quella in cui Renzi definiva il premier Enrico Letta un “incapace” e ne preannunciava le forzate dimissioni. Ma quanta confidenza tra i due, deve aver pensato, dopo aver letto il quotidiano, il denunciatore seriale di Palazzo Vecchio. E giù un esposto. Fatto sta che la procura di Firenze indaga, un po’ per le intercettazioni pubblicate un po’ per l’esposto, per vedere se per caso il generale Adinolfi, quando era il comandante interregionale di Emilia e Toscana, non avesse imboscato qualche malefatta del suo “amico” per favorirlo. Altra fuffa, ma intanto la grancassa mediatica è sempre pronta.

Sulla vicenda Consip, il cui coinvolgimento giudiziario di Tiziano Renzi è transitato prima sulla via mediatica che su quella giudiziaria, ha già scritto tutto il direttore Piero Sansonetti. Possiamo solo ricordare come, uscita dall’inchiesta l’ unica imputazione di qualche rilievo, cioè la turbativa d’asta, nel rinvio a giudizio è rimasto impigliato solo il reato più evanescente del codice, il traffico d’influenze. Cioè quello che non si nega a nessuno, anche se lo si presume destinato a sciogliersi come neve al sole. Ed ecco l’ inchiesta “Open”. Quella iniziata il 26 novembre 2019 con un blitz di perquisizioni e sequestri nel miglior sistema delle procure antimafia. Quella che consta di 92.000 pagine. Quella cui partecipa attivamente il giornale di Travaglio, con cinque sei articoli ogni giorno e la pubblicazione di atti riservati e anche “sensibili” come gli estratti di conto corrente. Quella in cui la procura di Firenze ha notificato la chiusura delle indagini, che prelude alla richiesta di rinvio a giudizio per 11 persone e 4 società, e un giudice avrà il compito, strettamente politico, di decidere se la fondazione che organizzava le Leopolde fosse o no una sorta di braccio armato del Pd.

Proprio quella, oggi rischia di essere la buccia di banana della Procura di Firenze. Per capirlo basta rileggere quel che ha già scritto la cassazione quando ha denunciato un certo sistema dell’organo dell’accusa: quello di setacciare migliaia di documenti per vedere se c’è qualche reato. E’ il sistema che in dottrina viene chiamato del “tipo d’autore”: prima individuo la persona da indagare, poi cerco il reato che eventualmente ha commesso. Trovato uno come Matteo Renzi, per esempio. Magari con tutta la famiglia, quella affettiva e quella politica. Poi vediamo che cosa hanno fatto. Ma intanto sbattiamoli per qualche anno sui giornali.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

La denuncia ai pm di Firenze. Inchiesta Open, perché i giudici hanno rinviato a giudizio Renzi e i fedelissimi. Claudia Fusani su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

La prima reazione è “finalmente”. La seconda è una denuncia alla procura di Genova contro i pm fiorentini che lo stanno indagando da oltre due anni e nel fare questo avrebbero violato la Costituzione e commesso qualche abuso.

Finalmente dopo due anni e mezzo sarà un’aula di tribunale e un giudice a pronunciarsi su una vicenda che al momento è stata più politica che giudiziaria. Non si può dimenticare infatti che la Guardia di Finanza svegliò all’alba decine e decine di persone in ben undici città italiane neppure un mese dopo la scissione decisa da Renzi per dare vita ad Italia viva. Era settembre 2019. Non esiste la prova scientifica ma è chiaro che quell’inchiesta con tutto il fragore che ne seguì azzoppò sul nascere la nuova creatura politica renziana.

Comunque dopo 27 mesi di indagini e aver rigirato come calzini i conti correnti di politici – tra le undici richieste di rinvio a giudizio oltre a Renzi ci sono i deputati Lotti e Boschi – professionisti e privati, il 4 aprile inizia l’udienza preliminare. La procura di Firenze, l’aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi, hanno chiesto il rinvio a giudizio per Matteo Renzi e altre dieci persone. Tra gli indagati per cui è stato chiesto il processo ci sono anche Maria Elena Boschi, Luca Lotti, l’ex presidente di Open Alberto Bianchi e l’imprenditore Marco Carrai. Al centro dell’inchiesta ci sono presunte irregolarità nei finanziamenti a Open, la fondazione che tra il 2012 e il 2018 ha sostenuto le iniziative politiche dell’ex premier che fino al 2018 è stato anche segretario del Pd e fino a fine 2016, per tre anni, presidente del Consiglio.

I reati contestati, a vario titolo, sono finanziamento illecito ai partiti, traffico di influenze, corruzione, emissione di fatture per operazioni inesistenti e autoriciclaggio. Renzi, ritenuto dagli inquirenti il direttore di fatto della ex fondazione Open, è accusato di finanziamento illecito ai partiti in concorso con l’ex presidente di Open, avvocato Alberto Bianchi, e i componenti del cda, Marco Carrai, Luca Lotti, Maria Elena Boschi e l’imprenditore Patrizio Donnini. Lotti, Bianchi, Donnini e il costruttore Alfonso Toto dovranno difendersi anche dall’accusa di corruzione “impropria”: Lotti avrebbe ricevuto “utilità” (soldi) da Toto in cambio di un emendamento che però era un atto lecito, che, spiegano i legali, “avrebbe dovuto o potuto fare”. La procura di Firenze ha indagato su Open perché convinta che la Fondazione fosse l’articolazione della corrente renziana usata dal Pd, di cui Renzi era il segretario, “per fare arrivare soldi alle casse del partito in modo non rispettoso dei canali propri della legge sul finanziamento dei partiti”. Non solo: la Procura considera Open la “cassaforte renziana” che agevolò, grazie alle donazioni di amici ed estimatori, la scalata all’interno del Pd dell’allora sindaco di Firenze che ogni anno a novembre organizzava la convention della Leopolda.

Una tesi supportata anche da alcune illustri testimonianze, ad esempio l’ex segretario Bersani, che davanti ai pm fiorentini spiegò che “Renzi voleva scalare il partito anche grazie alla raccolta fondi”. Il dettaglio è che Renzi divenne segretario con milioni di voti ai gazebo delle primarie. Tutta questa storia ha prodotto fin dall’inizio e poi nel tempo una serie di nodi che devono andare a soluzione, in un modo o nell’altro, insieme all’eventuale processo. C’è il nodo giudiziario, un vero e proprio processo mediatico che ha in parte segato le gambe all’avventura di Italia viva e che comunque dovrà essere giudicato e risolto nelle sedi opportune, un’aula di giustizia davanti ai giudici. “Finalmente inizia il processo nelle aule e non solo sui media” ha commentato Renzi tramite una nota diffusa dal suo ufficio stampa.

C’è il nodo politico: può la magistratura, al netto delle ipotesi di accusa che però andrebbero verificate in un congruo lasso di tempo che non sono certo 27 mesi, condizionare la scelta politica di una comunità di persone? Questo nodo politico, a cui nessuna indagine potrà dare risposta o soddisfazione, ne produce un altro di tipo culturale: che democrazia è quella dove la magistratura, uno dei poteri dello stato, riesce ad incidere così pesantemente nel libero esercizio delle scelte individuali? È la stessa domanda che dobbiamo porre, pur in un contesto completamente diverso, rispetto al giudice di Napoli che ha nei fatti congelato Giuseppe Conte capo politico dei 5 Stelle. Come che sia, la richiesta di rinvio a giudizio ha prodotto un altro passo, questa volta penale, da parte dell’indagato Renzi. Ieri infatti il senatore ha a sua volta presentato denuncia alla procura di Genova competente sui magistrati toscani.

Renzi alza il dito a sua volta ipotizzando abusi vari, uno per tutti l’ingresso nella memoria del suo cellulare (e non solo il suo) per poi arrivare a tracciare il conto corrente bancario e tutto il resto che ne deriva. È come se attraverso l’inchiesta Open la Guardia di Finanza possa tuttora dopo anni osservare dal buco della serratura la vita di Matteo Renzi. Che per l’appunto però è un senatore, come Boschi e Lotti sono deputati, e per avere accesso ai loro supporti elettronici con o senza trojan i magistrati avrebbero dovuto chiedere l’autorizzazione alla Camera di competenza. Su questo aspetto della vicenda, Renzi ha coinvolto la Giunta per le autorizzazioni del Senato che ha ravvisato i profili di incostituzionalità nell’agire dei magistrati e ha deciso di sollevare il conflitto di attribuzione presso la Corte costituzionale. L’aula di palazzo Madama voterà nel mese di marzo, poco prima dell’avvio dell’udienza preliminare.

“I cittadini potranno adesso rendersi conto di quanto sia fragile la contestazione dell’accusa e di quanto siano scandalosi i metodi utilizzati dalla procura di Firenze” si legge nella nota dell’ufficio stampa del senatore Renzi.

Ieri intanto il leader di Iv ha firmato una formale denuncia penale nei confronti dei magistrati Creazzo, Turco, Nastasi per “violazione dell’articolo 68 Costituzione, della legge 140/2003 e dell’articolo 323 del codice penale (abuso di ufficio, ndr)”. “Io non ho commesso reati – ha chiosato Renzi – spero che i magistrati fiorentini possano in coscienza dire lo stesso”.

L’inchiesta Open è da sempre stata una faccenda anche politica. E nelle reazioni politiche di queste ore si misura anche un perimetro di potenziali alleanze su un tema delicato e divisivo come lo sono garantismo e giustizialismo che vanno ben oltre la destra e la sinistra. Non sfugge quindi che le prime reazioni di solidarietà sono arrivate da Coraggio Italia e da Azione potenziali azionisti del nuove fronte progressista che qualcuno vuole banalizzare nella definizione Centro. “Al leader di Italia Viva si può imputare un solo capo d’accusa: ama la politica e ama farla. Siccome non si può dire, allora si preferisce mascherare il tutto chiedendo il processo per lui, Maria Elena Boschi e Luca Lotti con l’accusa di finanziamento illecito” ha argomentato Osvaldo Napoli, ex fedelissimo di Berlusconi poi transitato in Coraggio Italia che aggiunge: “È semplicemente folle immaginare che un Tribunale possa decapitare un partito o, sulla base di accuse da provare, impedirne l’attività politica”.

Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione è convinto che l’inchiesta “finirà nel nulla perché non sta in piedi” e chiede che “venga subito approvata la proposta di legge per valutare, ai fini della progressione in carriera dei vari pm, i flop delle loro inchieste”. Persino Carlo Calenda, che per quanto debba molto politicamente a Renzi ultimamente non gli risparmia frecciate forse perché competono sulla stessa area di elettorato progressista e riformatore, dà solidarietà al suo ex Presidente del Consiglio. “Solidarietà” scrive su twitter il leader di Azione, “troppe inchieste sui politici finiscono nel nulla”. Giovanni Toti, fondatore di Coraggio Italia, va oltre la solidarietà. “Sono certo che ogni accusa sarà chiarita e che tutto questo non fermerà il lavoro di Renzi per il Paese”.

E poi Forza Italia, con Antonio Tajani: “Garantisti con tutti, Renzi innocente fino a sentenza definitiva”. E ci mancherebbe altro. Stupisce, o forse no, l’indifferenza del Pd. Si fa sentire solo il senatore Marcucci che augura “a tutti gli indagati del caso Open di dimostrare la loro innocenza. Il processo ci dirà quanto quell’inchiesta sia fondata”. Silenzio dal Nazareno. Da Fratelli d’Italia e dalla Lega. La solidarietà non è una bandiera. Il garantismo sì. E il garantismo può essere un valore primario di una nuova formazione politica.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Inchiesta Fondazione Open, Renzi: “I pm non sono credibili ma non faccio come Berlusconi”. Riccardo Castrichini il 10/02/2022 su Notizie.it.

Renzi a Porta a porta commenta l'inchiesta sulla Fondazione Open. Si dichiara fiducioso nella magistratura, ma accusa i magistrati di abuso d'ufficio.

Come noto i pm di Firenze hanno chiesto rinvio a giudizio per Matteo Renzi ed altri dieci indagati per l‘inchiesta sulla fondazione Open. Tra gli altri ci sono i parlamentari Maria Elena Boschi e Luca Lotti, oltre che il noto imprenditore Marco Carrai.

I reati che vengono contestati sono quelli di finanziamento illecito ai partiti, traffico di influenze, corruzione, autoriciclaggio ed emissione di fatture per operazioni inesistenti.

Inchiesta sulla Fondazione Open, le parole di Renzi

Il leader di Italia Viva ha commentato le sue vicende giudiziarie nella puntata di Porta a porta andata in ondata mercoledì 10 febbraio, dichiarandosi pronto a dimostrare la propria estraneità alle accuse.

“Il 5 aprile, il giorno dopo il rinvio a giudizio su Open, uscirà un libro in cui scrivo tutto, così se mi succede qualcosa è tutto agli atti – ha detto – Tiro fuori tutti i tentativi di dossieraggi, di attacchi, di inchieste che hanno riguardato me, roba di servizi segreti. Scrivo tutto, tutto”. 

Renzi sull’inchiesta della Fondazione Open

“I soldi sono bonificati e chiari – ha aggiunto il senatore – ma la tesi della Procura, dopo anni di indagine, è che la Leopolda non sia stata organizzata da una fondazione ma da un partito.

Io sono assolutamente certo che non c’è nessun reato. Sono tre anni che ci fanno il processo sui giornali, finalmente andiamo in un’aula di tribunale. È un processo politico alla politica“.

Renzi ha poi precisato di credere nel potere della magistratura, ma di non fidarsi dei magistrati di Firenze, motivo per il quale ha deciso di denunciarli in quanto dal suo punto di vista avrebbero “violato alcuni articoli di legge”.

“Chiedo che siano processati per abuso di ufficio e violazione della norma costituzionale“, ha aggiunto precisando che sarebbe stato violato l’articolo 68 della Costituzione sulle prerogative dei parlamentari e la legge 140/2003. Renzi attacca poi il procuratore Creazzo, “sanzionato dai suoi colleghi del Csm per aver molestato sessualmente una donna”, e ricorda le vicende di Nastasi accusato di aver inquinato la scena del crimine nella stanza di David Rossi. “Vi sembra normale che l’azione penale sia esercitata da persone con questa credibilità? – chiede Renzi – Se ci sono questi comportamenti è evidente che la gente non crede più alla magistratura”. 

Inchiesta Fondazione Open: il punto di Renzi

Il senatore di Italia Viva ha messo poi a paragone la propria vicenda giudiziaria con quelle che hanno riguardato altri leader politici, sottolineandone le differenze. “Nelle inchieste su Grillo e Casaleggio, ma anche con Giuseppe Conte per una vicenda precedente all’assunzione del ruolo di primo ministro, i magistrati sono stati molto seri – ha detto Renzi – Non hanno perquisito ma hanno chiesto le carte, non hanno preso i telefonini, ma hanno chiesto i documenti. Io ho citato gli articoli di legge che ritengo i magistrati abbiano violato – ha precisato – non faccio come Berlusconi ‘i magistrati sono tutti comunisti'”.

Giustizia e paradossi. Renzi, Berlusconi, Salvini e Craxi: quando bisogna difendersi “dai” processi e non “nei” processi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 12 Febbraio 2022 

I protagonisti del processo Open sono quattro. I loro nomi sono questi: Giuseppe Creazzo, (Procuratore ), Antonio Nastasi (Procuratore aggiunto), Matteo Renzi (senatore ed ex premier), Luca Turco (sostituto procuratore). La posizione dei primi tre è chiarissima. Il procuratore e il suo vice hanno commesso reati, il senatore non ne ha commessi. La domanda che assilla un po’ tutti è: ma il sostituto Turco è anche lui colpevole o è innocente?

Chiariamo meglio.

Il Csm ha accertato che il procuratore Creazzo ha commesso atti di molestia sessuale (che nel codice penale equivalgono a violenza sessuale) e lo ha punito con una piccola multa. Il reato non è più perseguibile penalmente perché la vittima non lo ha denunciato entro un anno. Però ha confermato che la violenza c’è stata e il Csm ha ratificato. E uno. Il Procuratore aggiunto invece è stato interrogato ieri in Commissione parlamentare, sulla vicenda del suicidio o omicidio di David Rossi del Monte dei Paschi. Gli hanno chiesto se quel pomeriggio era stato sulla strada dove giaceva il corpo di Rossi. Ha negato. Il parlamentare dei 5 Stelle Migliorino ha insistito: “cerchi di ricordare…”. No, no, no, ha insistito a sua volta il Procuratore aggiunto. “Non ci sono andato”.

Allora Migliorino gli ha fatto vedere una fotografia dove c’era un signore proprio lì nella strada, vicino al corpo, e gli ha chiesto: “lo riconosce questo signore?”. Era proprio lui. Il procuratore aggiunto è diventato rosso rosso e poi ha balbettato: “può darsi, che vuole, io non mi ricordo neppure come ero vestito la settimana scorsa…” Già. Succede. Mi piacerebbe sapere come si comporta lui con un imputato che vistosamente mente e poi si giustifica dicendo che la sua memoria è debole… Comunque: e due. Stavolta, a occhio e croce, il reato potrebbe essere quello di falsa testimonianza. O magari di intralcio alla giustizia, chissà.

Poi c’è il senatore Renzi. Ha creato una fondazione, l’ha finanziata con donazioni spontanee dichiarate. Niente in nero. E siccome è legittimo finanziare una fondazione, è evidentemente innocente. È sul quarto uomo che c’è il mistero. Il dottor Turco. Lui dice di essere innocente, come Renzi, ma Renzi dice che anche lui è colpevole e lo ha denunciato. Colpevole di avere commesso degli illeciti durante le indagini, che in ogni caso, se fosse un reato, certo sarebbe un reato minore rispetto a quelli commessi dai suoi due colleghi. Deciderà il tribunale di Genova, chiamato a giudicare se Turco sia dalla parte dei colpevoli o degli innocenti. Però questa vicenda, abbastanza paradossale, ne richiama alla mente molte altre. Quelle di Berlusconi, soprattutto, ma non solo.

Per esempio quelle di Salvini o, tornando indietro nel tempo, di Craxi. Tutte queste storie ci dicono che quel luogo comune che spesso sentiamo ripetere (“bisogna difendersi nel processo e non dal processo), come quasi tutti i luoghi comuni è una fesseria. Il processo a Renzi, cioè il caso Open, essendo il più recente, credo che lo conosciate un po’ tutti. Non lo accusano di avere rubato ma di avere fondato di nascosto un partito mentre in realtà era un dirigente di un altro partito. Cioè i magistrati dicono che la Fondazione Open era un partito, anche se senza sedi, senza iscritti, senza congressi, senza simbolo, senza candidati alle elezioni comunali, regionali, provinciali, nazionali, senza un segretario, senza federazioni, senza sezioni… Scusi – chiede un passante – ma come può essere un partito? Loro non rispondono. Sono giovani, forse non sanno bene neppure cosa sia un partito politico. Però vogliono Renzi. Alla sbarra. Lo braccano. Sono sicuri che riusciranno a portare a casa la sua pelle.

Ora, dico, a parte il paradosso di essere indagati da un magistrato che ha molestato una donna (anzi una sua collega) e da un altro che ha reso falsa testimonianza dinanzi al Parlamento (non deve essere una bella sensazione da parte di un imputato sapere che il livello dei suoi inquisitori è questo) il problema vero è che per Renzi è stato chiesto il rinvio a giudizio in totale assenza di reato. E questa è una brutta storia. Del resto proprio Mattarella ha detto recentemente, nel suo discorso di insediamento, che la magistratura ha perso credibilità e che gli imputati non si sentono più sicuri. Ha ragione da vendere, mi pare, il caso Open è la prova provata che Mattarella aveva ragione. Come si può, francamente, avere fiducia in questi magistrati?

Poi c’è il caso Salvini, quello del processo per sequestro di persona. Voi magari sapete quanto male io pensi di Salvini, e quanto dissenta dalla sua politica di respingimento dei profughi: ma cosa diavolo c’entra l’accusa penale e addirittura il sequestro di persona? Voi direte: vabbé ma è stato il Senato a dare l’autorizzazione a processare Salvini, con il voto persino di Renzi. Obiezione giustissima. Il guaio è proprio questo: che i politici si difendono quando li mettono in mezzo a loro, e invece fanno il sorriso e l’inchino ai magistrati quando questi mettono sotto processo i loro avversari. Per questo i magistrati sono molto potenti e i politici no. Avete visto come ha reagito l’Anm all’attacco di Renzi alla Procura di Firenze? Facendo muro, come un sol uomo. Ha avvertito Renzi che la corporazione è tutta schierata coi suoi tre magistrati, sia con l’innocente che coi due colpevoli…

Vogliamo parlare di Berlusconi? Novanta processi dei quali 89 finiti con l’assoluzione e uno con una condanna – il famoso processo sull’evasione fiscale – molto scombiccherata e che con ogni probabilità verrà presto cancellata dalla Corte europea. Voi pensate che un signore che viene processato per novanta volte senza ricevere condanne sia sfortunato o perseguitato? Poi c’è Craxi. Un pezzo della magistratura, 30 anni fa, decise che andava annientato perché era lui l’ultimo baluardo dell’autonomia della politica. Era l’ostacolo all’instaurazione della repubblica giudiziaria. Era un socialista, un democratico, un liberale. Tutte parole da cancellare. Lo massacrarono, anche perché nessuno lo difese. Fu costretto a fuggire in Tunisia. Stava male. Gli negarono persino il diritto a venire a curarsi in Italia, lo lasciarono morire, solo, in un ospedale scalcinato. Che orrore.

Vogliamo invece parlare degli sconosciuti? L’ottanta per cento delle persone che ricevono l’avviso di reato alla fine saranno assolte, ma dopo essere state massacrate, economicamente, moralmente, professionalmente. La pena viene eseguita senza condanna, ed è durissima. La pena si chiama processo. E allora? Se vogliamo ristabilire lo Stato di diritto bisogna difendersi dai processi. Non nei processi: dai processi. Impedire che le Procure massacrino miglia di persone, fuori da ogni principio del diritto e senza condanna. Non è giusto lasciare ai giudici il potere di fare di noi ciò che vogliono. Renzi e Berlusconi si difendono dal processo? Beh, se lo fanno bisogna applaudirli. E seguirne l’esempio se si può. In attesa che i tempi cambino e torni la Giustizia. Chissà quanto dovremo aspettare. La riforma del Csm proposta ieri non fa ben sperare.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Caro Caselli, l’accostamento tra Renzi e le Br è un po’ eccessivo. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, il riferimento di Caselli agli anni di piombo e ai terroristi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Francesco Damato su Il Dubbio il 12 febbraio 2022.

Con tanto ritardo rispetto alle aspettative da cogliermi di sorpresa, ve lo giuro, i politici che resistono, reagiscono e quant’altro alle iniziative giudiziarie che li investono, di solito mentre sono più esposti sul loro terreno professionale, diciamo così, sono stati paragonati addirittura a quei terroristi che contestavano allo Stato borghese, capitalistico e altre scemenze simili il diritto di processarli. E qualcuno ammazzava anche per strada che si ostinava a fare il suo mestiere. O minacciava di morte i giudici popolari, anch’essi borghesi, capitalisti e scemenze simili, selezionati con incolpevole sorteggio.

Sentite che cosa ha appena sostenuto sulla Stampa non un Camillo Davigo particolarmente polemico in qualcuno dei salotti televisivi più o meno di casa ma un magistrato molto più accorto di lui nell’uso delle parole, iperboli e simili come Gian Carlo Caselli: «In Italia dai primi anni Novanta del secolo scorso si riscontra una pessima anomalia: l’ostilità verso la giurisdizione, il rifiuto del processo e la sua gestione come momento di scontro da parte di inquisiti “celebri”; una sorta di impropria edizione del cosiddetto processo di “rottura”, utilizzato però da uomini dello Stato, anziché, come negli anni di piombo, da sue antitesi».

Con quel riferimento esplicito agli “anni di piombo” non credo di avere esagerato nel vedere tra le righe e le parole di Caselli una certa affinità, ripeto, fra i terroristi che rifiutavano i processi e i politici che dagli anni Novanta in poi – o gli inquisiti “celebri”, come li chiama l’ex capo di celebri Procure italiane – contestano i magistrati che si occupano di loro e le iniziative che assumono nell’esercizio delle proprie funzioni. E mi perdonerà il buon Caselli, col quale ho avuto già altre occasioni di polemiche, se mi permetto di dissentire ancora una volta da lui. Pur volendolo definire quanto meno paradossale, questo riferimento agli anni di piombo e ai terroristi mi sembra francamente eccessivo, a dir poco. Qui si spara solo – se si spara- con parole e carte bollate, come ha appena fatto Matteo Renzi contestando i magistrati che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio, insieme col cosiddetto “cerchio magico” degli anni altrettanto magici della sua fulminante carriera politica, per finanziamento illegale dei partiti e tutti gli altri reati che di solito – dai tempi lontani di “Mani pulite”- si porta appresso una simile imputazione.

Sono il primo a riconoscere, per carità, che Renzi fa poco, anzi assai poco, per risultare simpatico, persino a uno come me che votò con molta convinzione nel 2016 la “sua” riforma costituzionale, anche dopo che lui l’aveva imprudentemente personalizzata a tal punto da farne un plebiscito su di lui perdendolo. Ma vederlo direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, a ragione o a torto, come uno di quelli che dietro le sbarre gridavano contro la Corte di turno che doveva giudicarli, mi fa mettere le mani fra i capelli che fortunatamente mi sono rimasti.

Matteo, ascolta: porta le bozze in procura, non si sa mai…Il senatore Renzi annuncia l’uscita di un suo prossimo libro, “in cui scriverò di tutti i tentativi di dossieraggio subiti dai servizi segreti, così se mi succede qualcosa almeno è agli atti”. Valter Vecellio su Il Dubbio il 13 febbraio 2022.

Nessuna intenzione di infilarmi nel ginepraio delle polemiche tra il leader di Italia Viva Matteo Renzi, la procura della Repubblica di Firenze e l’Associazione Nazionale dei Magistrati. Però, una riflessione, un “dubbio”, se si vuole… Il senatore Renzi annuncia l’uscita di un suo prossimo libro, “in cui scriverò di tutti i tentativi di dossieraggio subiti dai servizi segreti, così se mi succede qualcosa almeno è agli atti”.

Nulla da eccepire su Renzi scrittore (sul conferenziere qualcosa sì, ma non qui e ora); ma Renzi è anche senatore (ancora): forse non rientra nei suoi doveri civici anche – almeno – il portare copia delle bozze della sua opera alla magistratura? Consegnarne copia al presidente del Consiglio, che per quel che riguarda i Servizi ha qualche responsabilità istituzionale.

Consegnarne copia anche al Comitato Parlamentare di Vigilanza e Controllo sui servizi stessi.

Avvalersi delle sue prerogative e diritti, tra i quali c’è quello di presentare interrogazioni e interpellanze… Sono tutte cose che mi trovassi io nella sua condizione, farei senza attendere troppo indugio: anche queste “così, se mi succede qualcosa, almeno è agli atti…”.

Ma posso solo parlare per me, cresciuto e allevato alla scuola radicale di Marco Pannella: che, come esorta il poeta, toglieva le serrature dalle porte, toglieva anche le porte dai cardini.

Renzi, naturalmente, faccia come crede.

Però, sempre in questo gioco di ruoli: se fossi capo della procura di Roma una telefonata al senatore Renzi l’avrei già fatta, per chiedere, con rispetto s’intende: “Scusi, senatore, ha niente da dirmi? Non si sa mai, succedesse qualcosa…”.

Antonella Mollica e Fiorenza Sarzanini per corriere.it il 14 febbraio 2022.

«Marco Carrai è un uomo falso», «Bianchi Bonifazi e Boschi sono una banda bassotti che hanno davvero lucrato senza ritegno dalla posizione di accoliti tuoi»: è il giudizio di Tiziano Renzi in una lettera scritta nel 2017 al figlio Matteo, due settimane dopo le sue dimissioni da presidente del Consiglio. 

La missiva è stata allegata agli atti dell’inchiesta Open. 

I rapporti tra padre e figlio sono diventati tesi dopo le indagini che hanno riguardato le società del padre e questa tensione trova conferma nella lettera scritta e acquisita proprio nel corso delle indagini sulle aziende gestite dallo stesso Tiziano Renzi e dalla moglie Laura Bovoli.

La difesa si era opposta al deposito, ma i giudici hanno ritenuto di acquisirla. Scrive Tiziano Renzi: «È dal tempo della provincia che non sono stato messo in condizione di fare un ragionamento completo con te. In questi anni ho avuto la netta percezione anzi la certezza di essere considerato un ostacolo e comunque un fastidio. Come sai gli unici colloqui erano conditi di rimproveri di sfiducie preventive. 

Non ti scrivo certo per lamentarmi, anzi oggi provo tenerezza per te che malgrado le tue capacità e i tuoi doni vivi la fine di un’epoca. Voglio solo per tua informazione rendicontarti le mie azioni con completezza di motivazioni per comodità parlo di nomi».

E a questo punto cita le persone più vicine a Matteo Renzi: «Carrai coerentemente non si deve mai più far vedere da me. Uomo falso che mi dice che Del Fante suo amico non fa niente di niente e che mi dice che l’egiziano è pronto ad ascoltarlo e non solo non fa niente per post ma non mi difende contro un attacco oggettivamente non supportato da ragioni professionali. 

A fronte dell’ectoplasma e della banda bassotti (Bianchi Bonifazi Boschi) io sono stato quello che è passato per ladro prendendolo nel c.... Fa male sentirti dire che non dovevo comprare il capannone riguardo al tuo auspicio che io vada in pensione devo con forza affermare che in pensione dopo una vita vissuta all’avventura mi ci manda il buon Dio, non te.

Non solo perché mi sento ancora attivo mentalmente, ma anche perché l’azienda che ha contribuito a sostenere di volta in volta chi, fra i figli, aveva bisogno, non può smettere di farlo. Ho vissuto l’ultimo anno con terrore. Non è servito a niente non posso andare avanti così».

(ANSA il 14 febbraio 2022) - "In questi anni ho avuto la netta percezione, la certezza, di essere considerato un ostacolo e comunque un fastidio. Come sai gli unici colloqui erano conditi di rimproveri".

Lo si legge in un testo sequestrato nell'ottobre 2019 dalla guardia di finanza in un pc di Tiziano Renzi finito agli atti del processo per bancarotta in corso a Firenze che vede tra gli imputati i genitori dell'ex premier. Secondo un'istanza della difesa di Tiziano Renzi con cui chiedeva di considerare lo scritto non utilizzabile, respinta dal Tribunale, è "una missiva del signor Tiziano Renzi al figlio senatore". Il testo risalirebbe del marzo 2017. 

"Riguardo al tuo auspicio che vada in pensione - si legge ancora nella lettera sequestrata - devo con forza affermare che in pensione mi ci manda il buon Dio non te". "Questa vicenda - affermerebbe ancora Tiziano Renzi, ritenuto l'autore della missiva - mi ha tolto la capacità di relazione. Tutti quello che hanno avuto rapporti con me sono stati attenzionati solo per questo fatto". "Sono - aggiunge - come il re Mida della m.., concimo tutti, stanno interrogando tutti".

Matteo e Tiziano Renzi, “Edipo a Rignano”: quando la corsa al potere tribalizza la famiglia. Filippo Ceccarelli su La Repubblica il 14 febbraio 2022.

La lettera o pseudo-lettera del padre, allora indagato, al figlio da poco sconfitto e disarcionato dal governo, è un documento tragico perché, a differenza di tantissimi altri, reca il crisma e un po' anche il dannatissimo stigma della verità. 

Già le famiglie sono un caos. All'interno di esse i rapporti tra padre e figlio possono degenerare in un coacervo di rancori e sensi di colpa. Se poi a tutto ciò si aggiungono le ambizioni, il potere, gli affari, il clima malsano della provincia e i processi di tribalizzazione in atto nel sistema politico, beh, le famiglie diventano il luogo della tragedia, come i classici greci insegnano, e come i leader di partito non possono permettersi di ammettere.

In pasto ai media la lettera di babbo Renzi al figlio. Luca Fazzo il 15 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Pubblico lo scritto con cui Tiziano spara a zero: "Attento alla banda Bassotti, tra cui Boschi". Cinque giorni fa Matteo Renzi aveva annunciato la decisione di denunciare i pm di Firenze che indagano su di lui e sui finanziamenti alla fondazione Open per gli abusi che avrebbero commesso. E ieri al leader di Italia Viva tocca scoprire che i dolori per lui dal fronte giudiziario non sono finiti, e vanno a colpirlo sul delicato terreno degli affetti familiari. La Procura di Firenze, che Renzi ha accusato di essere guidata da un capo sotto procedimento per molestie sessuali, chiede e ottiene di depositare agli atti del processo al padre del politico toscano un documento scottante. È la lettera in cui Tiziano Renzi si sfoga in più direzioni: contro i magistrati, contro gli ex alleati del figlio, e anche - con amarezza - contro lo stesso Matteo: «In questi anni ho avuto la netta percezione, la certezza, di essere considerato un ostacolo e comunque un fastidio. Come sai gli unici colloqui erano conditi di rimproveri». E ancora: «Riguardo al tuo auspicio che vada in pensione devo con forza affermare che in pensione mi ci manda il buon Dio non te».

I difensori di Renzi senior si sono opposti al deposito della lettera agli atti del processo per bancarotta in corso davanti al tribunale di Firenze, sostenendo sia la sua irrilevanza sia la sua inammissibilità, trattandosi della corrispondenza privata di un parlamentare. Ma la Procura ha replicato che il documento sequestrato era una sorta di minuta, un file di Word trovato sul computer di babbo Renzi, e pertanto non coperto da nessuna immunità. Il tribunale ha accolto la richiesta dei pm. E lo scontro già aspro tra l'ex premier e la magistratura si arricchisce così di un nuovo capitolo: per i difensori di Tiziano Renzi, siamo davanti all'«ennesimo schiaffo alla civiltà giuridica, alla vita delle persone e alla privacy di una famiglia colpita da una pervicace campagna mediatica senza precedenti».

Nel documento - «apparso improvvisamente dopo cinque anni», sottolineano i legali - il padre di Renzi maltratta diversi amici ed ex amici del figlio: «Carrai non si deve mai più far vedere da me, uomo falso», si legge; si parla di «una banda Bassotti Bianchi, Bonifazi e Boschi» che «hanno lucrato senza ritegno dalla posizione di accoliti tuoi e io sono stato quello che è passato per ladro». «Ora tu hai l'immunità - si legge ancora - non esiste più il rischio che tramite me arrivino a te. Spero che inizi una nuova stagione di lotta per i valori che hanno animato la nostra vita».

E infine un dramma comune a molti inquisiti, i guai riservati dagli inquirenti a chi aveva la sola colpa di conoscere l'indagato: «Questa vicenda mi ha tolto la capacità di relazione. Tutti quello che hanno avuto rapporti con me sono stati attenzionati solo per questo fatto (...) Sono come il re Mida della m.., concimo tutti, stanno interrogando tutti».

Fino a ieri sera, da Matteo Renzi non arrivano reazioni dirette. Ma sulla decisione della Procura fiorentina fioccano critiche da molti. Tra i più espliciti quello di Claudio Velardi, spin doctor assai vicino a Renzi: «Schifo. Schifo. Schifo. Dell'orrore giudiziario italiano è complice chiunque non si batta in Parlamento e nel Paese per una radicale riforma della giustizia».

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus. 

Spunta la "lettera" di Tiziano Renzi a Matteo. I legali: "Schiaffo dai pm". Francesco Boezi il 14 Febbraio 2022 su Il Giornale.

Emerge una lettera che Tiziano Renzi avrebbe inoltrato al figlio nel 2017. Dalla "banda bassotti" al pensionamento anticipato: gli argomenti presenti nella missiva.

I contenuti di una lettera che Tiziano Renzi ha indirizzato al figlio stanno balzando in queste ore sulle cronache. E nel testo, che però risalire a cinque anni fa, vengono espressi giudizi anche su alcuni uomini considerati vicini a Matteo Renzi.

Stando alle notizie di agenzia, si apprende che la missiva risale al 2017 e che il genitore dell'ex premier l'ha stilata soffermandosi pure su quello che ai tempi veniva definito "cerchio magico".

"In questi anni ho avuto la netta percezione, la certezza, di essere considerato un ostacolo e comunque un fastidio. Come sai gli unici colloqui erano conditi di rimproveri", ha premesso Tiziano Renzi. Vale la pena sottolineare come il documento in questione sarebbe stato sequestrato nel 2019 dalla Guardia di Finanza. Il testo, inoltre, fa parte degli atti del processo per bancarotta in svolgimento a Firenze. Lo stesso processo in cui il padre dell'ex premier risulta essere imputato.

Poi, come ripercorso dall'Ansa, il padre di Renzi si concentra su chi gli avrebbe domandato una sorta di pensionamento anticipato, ossia proprio il figlio: "Riguardo al tuo auspicio che vada in pensione - prosegue - devo con forza affermare che in pensione mi ci manda il buon Dio non te". E ancora: "Questa vicenda - continuerebbe Tiziano Renzi - mi ha tolto la capacità di relazione. Tutti quello che hanno avuto rapporti con me sono stati attenzionati solo per questo fatto". "Sono - aggiunge - come il re Mida della m.., concimo tutti, stanno interrogando tutti".

Di seguito la parte più "politica" della missiva: "Ora tu hai l'immunità, non esiste più il rischio che tramite me arrivino a te. Spero che inizi una nuova stagione di lotta per i valori che hanno animato la nostra vita". E ancora: "Carrai non si deve mai più far vedere da me, uomo falso". Poi Tiziano Renzi farebbe altri nomi: Bianchi, Bonifazi e Boschi verrebbero definiti "banda bassotti". Nella lettera di Tiziano Renzi, poi, si legge quanto segue: "...hanno lucrato senza ritegno dalla posizione di accoliti tuoi e io sono stato quello che è passato per ladro".

Bisogna infine rimarcare come la difesa avesse domandato che questo testo - dice sempre l'Ansa - venisse escluso dalle prove del procedimento. Sempre la difesa di Tiziano Renzi ha voluto commentare la pubblicazione a mezzo stampa: "Un uomo in difficoltà, che 'vive nel terrore da un annò, provato, indagato e perquisito, si sfoga in un file di insulti al figlio e agli amici più cari del figlio. Questo documento compare improvvisamente oggi a distanza di cinque anni dal momento in cui viene redatto ed è privo di qualsiasi valore penale. Ma viene ugualmente fatto circolare per tentare di alimentare sui media un processo che stenta in tribunale", hanno scritto i legali, come ripercorso dall'Adnkronos.

In seguito, la nota dei legali passa investe il "modus operandi" degli "inquirenti fiorentini" ma anche il fatto che Matteo Renzi, alla luce di quanto pubblicato, non abbia - come gli avvocati affermano fosse già dimostrato - coadiuvato il padre nelle sue attività: "L'ennesima conferma di un modus operandi degli inquirenti fiorentini che si commenta da solo - scrivono - e che in assenza di violazioni del codice penale si concentra sulle difficoltà di rapporto tra padre e figlio. Nel merito - proseguono - l'ennesima dimostrazione del fatto che Matteo Renzi non ha mai agevolato suo padre nelle sue attività professionali. Nel metodo l'ennesimo schiaffo alla civiltà giuridica, alla vita delle persone e alla privacy di una famiglia colpita da una pervicace campagna mediatica senza precedenti".

Francesco Boezi. Sono nato a Roma, dove vivo, il 30 ottobre del 1989, ma sono cresciuto ad Alatri, in Ciociaria. A ilGiornale.it dal gennaio del 2017,  seguo la politica dai "palazzi", ma sono anche l'animatore della rubrica domenicale sul Vaticano: "Fumata bianca". Per InsideOver mi occupo delle competizioni elettorali estere e la vita dei partiti fuori dall'Italia. Per la collana "Fuori dal Coro" de IlGiornale ho scritto due pamphlet: "Benedetti populisti" e "Ratzinger, il rivoluzionario incompreso". Per la casa editrice La Vela, invece, ho pubblicato un libro - interviste intitolato "Ratzinger, la rivoluzione interrotta", che è stato finalista al premio Voltaire. Nel 2020, per le edizioni Gondolin, ho pubblicato "Fenomeno Meloni, viaggio nella Generazione Atreju". 

Tiziano Renzi, la lettera contro la Boschi? Alessandro Sallusti: "Conservata 4 anni. Il sistema-giustizia è marcio". Alessandro Sallusti su Libero Quotidiano il 15 febbraio 2022

Oggi la Corte Costituzionale si riunisce per decidere l'ammissibilità dei quesiti referendari su giustizia, eutanasia e legalizzazioni delle droghe leggere. Tre temi sui quali la politica e quindi il Parlamento negli anni non hanno saputo o voluto esprimersi creando così un vuoto legislativo che ha permesso scorribande di ogni genere e un caos indescrivibile. Risultato: l'eutanasia è vietata ma di fatto praticata per sentenza o libero arbitrio dei medici, lo spinello è vietato ma anche no, il sistema giustizia continua a comportarsi come un corpo non indipendente quale deve essere bensì estraneo a qualsiasi regola e controllo. In queste ore, risulta, le pressioni dei magistrati sui colleghi della Corte Costituzionale per impedire che la rivoluzione bloccata in parlamento avvenga dal basso è forte. E questo nonostante ogni giorno accadano fatti che renderebbero urgente un giro di vite. 

È di ieri, per esempio, la notizia dell'esistenza di una email scritta da Tiziano Renzi al figlio Matteo nel 2017, estratta dal suo computer e allegata all'inchiesta sulla gestione delle società di famiglia portata avanti dalla procura di Firenze con cui l'ex premier ha ingaggiato un duro braccio di ferro. Nella email babbo Renzi esprime giudizi molto duri nei confronti del cerchio magico del figlio, dalla Boschi a Lotti e a Carrai. Nulla quindi che abbia a che fare con l'inchiesta, tantomeno nulla di penalmente rilevante, roba insomma che non avrebbe dovuto essere per nessun motivo acquisita e allegata ad atti giudiziari. E invece i solerti magistrati di Firenze, nel 2018, l'hanno fatta loro, ben conservata per quattro anni e ora data in pasto all'opinione pubblica, guarda caso nel momento in cui Renzi ha scatenato una campagna contro di loro.

Ecco, questo è il classico esempio di uso personale e politico della giustizia, in altri termini parliamo di un pizzino spedito per fare più male possibile, fuori dalle aule giudiziarie, a un imputato e alla sua famiglia, che peraltro fino a prova contraria e fino a giudizio finale sono cittadini innocenti. Se la Corte Costituzionale, ma non voglio neppure pensarlo, dovesse bocciare i referendum sulla giustizia si farebbe complice di un sistema marcio, violento e ricattatore. In altre parole di un sistema che in talune circostanze prende i connotati di quello mafioso.

Giustizia e manganellate. Vendetta della magistratura contro Renzi, pubblicata lettera privata al padre. Piero Sansonetti su Il Riformista il 15 Febbraio 2022. 

È scattata subito la vendetta. Matteo Renzi aveva denunciato i magistrati che ne hanno chiesto il rinvio a giudizio per la paradossale vicenda di Open (una fondazione finanziata legittimamente dai privati, e perciò inspiegabilmente messa sotto accusa da un paio di Pm malmessi dal punto di vista della credibilità personale). La magistratura a distanza di pochi giorni gli ha fatto capire chi ha il coltello dalla parte del manico. Nel corso del processo ai suoi genitori per bancarotta, i Pm hanno depositato e resa pubblica (e segnalata ai giornali) una lettera privata di alcuni anni fa di suo padre, molto personale a piuttosto intima, nella quale Tiziano Renzi parlava male degli principali amici personali e politici di Matteo.

La lettera non ha nessunissimo interesse processuale, non c’è neppure l’accenno di un riferimento a eventuali reati, è molto intensa, piena di dolore per la difficoltà dei rapporti tra padre e figlio, e sicuramente appartiene totalmente e assolutamente e esclusivamente alla famiglia Renzi. Non c’entra niente di niente di niente con la giustizia. Però la magistratura ha poteri immensi sulle nostre vite. Del tutto estranei alle indagini, alla ricerca dei reati o alle inchieste sui reati. I magistrati possono entrare nella nostra vita privata e scardinarla, ed esercitare una inaudita violenza, col sorriso sulle labbra, senza neanche chiedere scusa e nessuno può impedirglielo. Raramente giungono al punto di usare i padri contro i figli e viceversa. Per il semplice gusto di punirli e dileggiarli. Talvolta però arrivano anche a questo punto. Lo stile – per fortuna parecchio meno sanguinoso – è quello di Pol Pot.

Magari ormai pochi sanno chi era Pol Pot. Era il dittatore della Cambogia, che dopo aver sconfitto gli americani (in realtà dopo aver approfittato della vittoria militare dei vicini vietnamiti) instaurò negli anni 70 un regime di terrore con mezzi atroci. Pol Pot chiedeva anche ai figli di tradire i genitori e di denunciarli e di scagliarsi contro di loro. E parte delle sue capacità di controllo della società cambogiana si fondava proprio su questo sistema di intrusione e scasso delle vite familiari. Durò molti anni questo regime feroce e infernale. Appoggiato dalla Cina di Deng. Alla fine intervenne l’esercito vietnamita per stroncarlo. Per fortuna. Il paragone forse è un po’ esagerato. È solo di metodo. Oltretutto i magistrati fiorentini non sono riusciti ad estorcere nessuna dichiarazione di papà Renzi contro suo figlio. Si sono vendicati di questo insuccesso mettendo alla portata di tutti la visione di materiale privatissimo.

Interverrà qualcuno per stigmatizzare e fermare questa pratica, che certamente provoca un po’ di vergogna nella parte sana, che esiste, della magistratura (e che, immagino, non farebbe mai cose simili)? Probabilmente non interverrà nessuno. La politica non può, perché in questi anni si è spogliata di ogni potere democratico di controllo sulla casta dei magistrati. E si è sottomessa a loro. Potrebbe intervenire il Consiglio superiore della magistratura, ma da molti anni il Consiglio superiore è alla mercé del partito dei Pm, e il partito dei Pm non molla mai i suoi (né tantomeno i giudici che li assecondano). I Renzi dovranno difendersi con le loro forze. Da soli. E anche Boschi, Bonifazi, Bianchi, Carrai. Oltretutto, di norma, la stampa sta dalla parte dei magistrati. Silenziosa e obbediente. Mai delle vittime.

Scrive Tiziano nella sua lettera: «Marco Carrai è un uomo falso. Bianchi, Bonifazi e Boschi sono una banda bassotti che hanno davvero lucrato senza ritegno della posizione di accoliti tuoi… È dal tempo della provincia che non sono stato messo in condizione di fare un ragionamento completo con te. In questi anni ho avuto la netta percezione anzi la certezza di essere considerato un ostacolo e comunque un fastidio. Come sai gli unici colloqui erano conditi di rimproveri di sfiducie preventive. Non ti scrivo certo per lamentarmi, anzi oggi provo tenerezza per te che malgrado le tue capacità e i tuoi doni vivi la fine di un’epoca». Il riferimento è alla sconfitta nel referendum. La lettera prosegue con parole di protesta e di lamentela e di dolore del padre nei confronti del figlio, e assume anche toni molto duri. Non c’è nessuna ragione per riportarla su queste pagine. Non è necessario fare sempre proprio tutto quello che i magistrati vogliono che tu, giornalista, faccia.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Marco Lignana per repubblica.it il 18 febbraio 2022.

E’ arrivato questa mattina negli uffici della cancelleria della procura di Genova la denuncia esposto del leader di Italia Viva contro  tre magistrati della procura di Firenze: il procuratore capo Giuseppe Creazzo, l’aggiunto Luca Turco e il pm Antonino Nastasi. 

SI tratta di un atto atteso anche perché pubblicamente annunciato dallo stesso Renzi negli scorsi giorni. 

Il fascicolo - proveniente dal Senato - è stato preso in carico dal procuratore capo facente funzioni Francesco Pinto e dall’aggiunto Vittorio Ranieri Miniati. 

Con la denuncia sono arrivati anche numerosi allegati.

La procura di Genova è competente territorialmente per indagini riguardanti o che comunque coinvolgano magistrati della Toscana. 

Renzi, sotto indagine a Firenze per l’inchiesta sulla Fondazione Open ha aperto da tempo le ostilità contro i pm del capoluogo toscano sia su aspetti giuridici che personali. 

Secondo Renzi nell’inchiesta Open i magistrati non avrebbero mai potuto acquisire suoi messaggi whatsapp e email agli atti dell’indagine. Sarebbero stati violati l’articolo 68 della Costituzione, per il quale "i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati (.,.)"; la legge 140 del 2003 legata all’attuazione di quell’articolo (per i processi nei confronti delle alte cariche dello Stato); e l’articolo 323 del codice penale che punisce l’abuso d’ufficio.

Quanto a Creazzo, Renzi ne fa una questione morale. Il magistrato è stato sanzionato dal Csm con un decurtazione dell’anzianità e quindi dello stipendio per le molestie di natura sessuale nei confronti di una collega.

Nei confronti di Nastasi, Renzi ha sollevato dubbi sulla professionalità del magistrato dopo le rivelazioni emerse sulle prime fasi delle indagini sulla morte di David Rossi, all’epoca capo delle relazioni esterne del Monte dei Paschi, nel 2013. Secondo le dichiarazioni di un carabiniere Nastasi durante il sopralluogo avrebbe toccato oggetti presenti nell’ufficio di Rossi e risposto al telefono, comportamenti, secondo Renzi, che denotano negligenza. 

Cassazione: illegittimi i sequestri a Carrai per l’inchiesta sulla Fondazione Open. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Febbraio 2022

La Cassazione ha criticato e dissentito per la quinta volta sull'operato della procura di Firenze. "Il Supremo Collegio chiude la questione una volta per tutte. La Fondazione Open ha sempre operato lecitamente"

Per la terza volta la Cassazione ha annullato i sequestri subiti dall’imprenditore Marco Carrai nel corso dell’inchiesta sulla Fondazione Open. Carrai aveva infatti presentato ricorso contro l’ordinanza del tribunale del riesame che aveva riconosciuto come legittimi i sequestri, così avallando l’impostazione della Procura riguardo l’attribuzione di articolazione di partito alla Fondazione. Ancora una volta la Cassazione, ha di nuovo annullato il provvedimento, ma in questo caso senza rinvio. 

“Con questa sentenza – ha commentato l’ avvocato Massimo Dinoia difensore di Carrai, – il collegio ha chiuso una volta per tutte la questione ed ha statuito che non sussiste neppure l’ipotesi astratta del delitto di illecito finanziamento di partito e che la Fondazione Open ha sempre operato lecitamente per il raggiungimento dei suoi scopi statutari. Resta francamente incomprensibile la scelta processuale della procura di Firenze: soltanto dopo che era stata celebrata davanti alla Cassazione l’udienza di discussione e dopo che quest’ultima aveva rinviato al solo scopo di rendere nota la sua decisione, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio degli imputati, senza attendere di conoscere la deliberazione della corte”  e conclude “Adesso sia la Procura sia il giudice dell’udienza preliminare dovranno prendere atto del responso decisivo e definitivo della Corte e trarne le dovute conseguenze“. 

Lo scorso 9 febbraio la Procura di Firenze aveva chiesto il rinvio a giudizio per tutti e 11 gli indagati dell’inchiesta sulla macchina da eventi che organizzava a Firenze la Leopolda, che secondo le accuse avrebbe raccolto fondi “in violazione delle normative” sul finanziamento ai partiti. La richiesta dei pm fiorentini è carico di Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Alberto Bianchi e Marco Carrai. Insieme a loro è stato chiesto il processo anche gli imprenditori Patrizio Donnini, Riccardo Maestrelli, Pietro Di Lorenzo, Alfonso Toto e due manager della British American Tobacco, Giovanni Carucci e Carmine Gianluca Ansalone. Oltre al finanziamento illecito i pm hanno ipotizzano anche due episodi di corruzione, a carico tra gli altri di Lotti e Bianchi, ed il traffico di influenze illecite. 

Il leader di Italia viva, Matteo Renzi scrive su Facebook: “Caso Open. Oggi ha parlato la Cassazione. E per la quinta volta ha criticato l’azione della procura di Firenze. È stato giudicato illegittimo  il sequestro fatto al mio amico fraterno Marco Carrai. Chi ha subito le conseguenze di sequestri illegittimi – pubblicati in modo illegittimo – sa che niente potrà risarcire le lacrime e il dolore di questi mesi. Ma oggi c’è un messaggio di speranza per i più giovani: quando parla la giustizia, tace il giustizialismo. Oggi vincono le persone che credono nella giustizia. E non si arrendono, non mollano mai“. Redazione CdG 1947

Illegittimi i sequestri a Carrai. Altro colpo all'inchiesta Open. Massimo Malpica il 20 Febbraio 2022 su Il Giornale.

La Cassazione smonta il teorema della Procura di Firenze. Renzi: "Parla la giustizia, tace il giustizialismo".  

La giustizia a orologeria, una volta tanto, ha un tempismo che sorride a Matteo Renzi. Il leader di Iv ha appena annunciato il suo intervento in aula, martedì prossimo a Palazzo Madama, sul conflitto di attribuzione sul caso Open, proposto a dicembre scorso dalla Giunta per le immunità del Senato. Ed ecco che a fortificare il suo teorema contro i pm fiorentini Luca Turco e Antonino Nastasi (che dieci giorni fa hanno chiesto per quell'indagine il suo rinvio a giudizio per finanziamento illecito ai partiti, e quello tra gli altri di Marco Carrai, Maria Elena Boschi, Luca Lotti e Alberto Bianchi: deciderà il gup fiorentino Sara Farini il prossimo 4 aprile), arriva la decisione della Cassazione. Decisione che ancora una volta sgonfia l'indagine, annullando la terza e ultima ordinanza del Riesame di Firenze e il decreto di perquisizione e sequestro contro Carrai della procura del capoluogo toscano. Per la terza volta, insomma, la Cassazione annulla la decisione del Riesame su quel decreto di perquisizione, ma la decisione di ieri è definitiva, in quanto senza rinvio.

A renderlo noto è il legale dell'imprenditore amico di Matteo Renzi, Massimo Dinoia. Per l'avvocato, la decisione della Cassazione smonta dunque l'inchiesta sulla fondazione Open, che per la Procura era niente altro che un'articolazione del Pd renziano, definitivamente. Perché chiude «una volta per tutte, la questione», stabilendo che «non sussiste neppure l'ipotesi astratta (il fumus, come dicono quelli che parlano bene) del delitto di illecito finanziamento di partito e che la Fondazione Open ha sempre operato lecitamente per il raggiungimento dei suoi scopi statutari». Inevitabile, per il legale, interrogarsi sulla decisione della procura di chiedere il rinvio a giudizio di Carrai, Renzi e degli altri indagati, ma alla luce di quanto deciso ieri dalla Suprema corte, insiste Dinoia, «tutti, sia la procura sia il Giudice dell'udienza preliminare, dovranno prendere atto del responso decisivo e definitivo della Corte Suprema e trarne le dovute conseguenze». La sentenza della Cassazione, tra l'altro, ordina alla procura toscana di restituire il materiale sequestrato a Carrai nel corso della perquisizione. Che, dunque, non poteva essere usato dalla procura. E tantomeno finire pubblicato sui giornali, come è capitato a tanto del materiale agli atti del fascicolo d'indagine, dalle chat tra Carrai e altri esponenti del Giglio magico fino ai conti correnti dello stesso leader di Italia Viva, con i dettagli dei suoi movimenti avere, che pure non erano nemmeno marginalmente oggetto dell'indagine fiorentina.

La notizia, come prevedibile, viene commentata positivamente da Renzi, che su Facebook pubblica una sua foto con Carrai e racconta come la Cassazione abbia «per la quinta volta ha criticato l'azione della procura di Firenze», giudicando «illegittimo il sequestro fatto al mio amico fraterno Marco Carrai». «Chi ha subito le conseguenze di sequestri illegittimi - pubblicati in modo illegittimo - sa che niente potrà risarcire le lacrime e il dolore di questi mesi», insiste il leader di Italia Viva, che conclude: «Quando parla la giustizia, tace il giustizialismo. Oggi vincono le persone che credono nella giustizia. E non si arrendono, non mollano mai». Massimo Malpica

La Corte Suprema ha annullato l’ordinanza nell’ambito dell’inchiesta sulla fondazione Open. La Cassazione annulla il sequestro su Marco Carrai, aspettiamo il tribunale del Fatto. Aldo Torchiaro su Il Riformista il 19 Febbraio 2022.

Si diradano le nebbie sulla Fondazione Open. Con fatica, passo passo. O meglio, colpo su colpo – come scandisce ultimamente Matteo Renzi – si stanno rimettendo i puntini sulle i. La Corte Suprema ha oggi annullato la terza ed ultima ordinanza del Tribunale del riesame di Firenze ed il decreto di perquisizione e sequestro emesso nel lontano 2019 dalla locale Procura nei confronti di Marco Carrai nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open.

La Cassazione ha altresì ordinato alla Procura di Firenze – con effetto immediato – la restituzione a Marco Carrai di quanto gli era stata a suo tempo sequestrato, vietandole di trattenere copia dei dati. Nello specifico gli erano stati presi un pc e un telefono, dai quali gli investigatori non sembrano aver trovato elementi interessanti. Amico personale di Matteo Renzi, Carrai era membro del Cda della Fondazione Open. Cosa grave, secondo gli inquirenti che lo hanno indagato. Ma non abbastanza da fare strame dello stato di diritto, secondo la suprema corte di Cassazione.

Con questa sentenza il supremo collegio ha chiuso, una volta per tutte, la questione. Compiendo un passo in più, ha statuito che non sussiste neppure l’ipotesi astratta: non esiste il fumus del delitto di illecito finanziamento di partito e che la Fondazione Open ha sempre operato lecitamente per il raggiungimento dei suoi scopi statutari.

Desta più di qualche perplessità la scelta processuale della Procura di Firenze: “soltanto dopo che era stata celebrata davanti alla Cassazione l’udienza di discussione e dopo che quest’ultima aveva rinviato al solo scopo di rendere nota la sua decisione, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio degli imputati, senza attendere di conoscere la deliberazione della Corte”, dichiara l’avvocato di Carrai, Massimo Dinoia.

Matteo Renzi celebra con un post su Facebook: “Ha parlato la Cassazione. E per la quinta volta ha criticato l’azione della procura di Firenze. Chi ha subito le conseguenze di sequestri illegittimi – pubblicati in modo illegittimo – sa che niente potrà risarcire le lacrime e il dolore di questi mesi. Ma oggi c’è un messaggio di speranza per i più giovani: quando parla la giustizia, tace il giustizialismo. Oggi vincono le persone che credono nella giustizia. E non si arrendono, non mollano mai”.

Adesso tutti – sia la Procura sia il giudice dell’udienza preliminare – dovranno prendere atto del responso definitivo della Corte Suprema e trarne, si parva licet, le dovute conseguenze. Chissà se lo stesso farà il tribunale del Fatto, che solitamente motiva le sue sentenze con una raffica di sospetti coloriti da sagaci giochi di parole, tra i quali giova oggi ricordare, a firma del giudice Marco Travaglio, “Passo Carrai”. Chissà se anche quella sentenza verrà riformata.

Aldo Torchiaro. Ph.D. in Dottrine politiche, ha iniziato a scrivere per il Riformista nel 2003. Scrive di attualità e politica con interviste e inchieste.

Paolo Ferrari per “Libero Quotidiano” il 20 febbraio 2022.

La Fondazione Open non era un'articolazione del Pd. La Cassazione ha messo ieri la parola fine sull'indagine della Procura di Firenze che vede imputati per finanziamento illecito ai partiti, oltre a Matteo Renzi, diversi esponenti di punta del Giglio magico: Luca Lotti, Maria Elena Boschi, Marco Carrai. 

I giudici della sesta sezione penale di piazza Cavour, in particolare, hanno annullato per la terza volta l'ordinanza del tribunale del Riesame di Firenze che rigettava il ricorso contro i sequestri subiti da Carrai, ordinandone la restituzione con divieto di trattenere copia dei dati. 

Nello specifico erano stati sequestrati un pc ed un telefonino. L'avvocato Massimo Di Noia, uno dei difensori di Carrai, ha sottolineato che questa pronuncia chiude «una volta per tutte la questione: non sussiste neppure l'ipotesi astratta del delitto di illecito finanziamento di partito e la Fondazione Open ha sempre operato lecitamente per il raggiungimento dei suoi scopi statutari».

Per l'avvocato, poi, «resta incomprensibile la scelta processuale della procura di Firenze: soltanto dopo che era stata celebrata davanti alla Cassazione l'udienza di discussione e dopo che quest' ultima aveva rinviato al solo scopo di rendere nota la sua decisione, la Procura ha chiesto il rinvio a giudizio degli imputati, senza attendere di conoscere la deliberazione della Corte».

Per i magistrati fiorentini, invece, «l'attività svolta in concreto dalla Fondazione Open, lo scopo effettivamente perseguito, la raccolta fondi il rapporto con il raggruppamento renziano del Pd, il finanziamento delle iniziative politiche di Matteo Renzi e di altri parlamentari» avevano indotto «a ritenere che essa abbia agito come articolazione di partito e non abbia mai avuto una diversa operatività».

E Carrai, sempre secondo i pm, aveva «svolto un ruolo di primaria importanza nel reperimento dei finanziatori della Fondazione». 

Nata nel 2012 e chiusa nell'aprile 2018 quando iniziarono le indagini condotte dalla guardia di finanza diretta dall'aggiunto Luca Turco e dal pm Antonio Nastasi, Open in sei anni aveva raccolto diversi milioni di euro per finanziare diverse iniziative, tra cui anche la Leopolda.

Renzi aveva sempre respinto le accuse dei pm, affermando che la «Leopolda non era la manifestazione di una corrente o di una parte del Pd, ma un luogo di libertà, senza bandiere e con tutti i finanziamenti previsti dalla legge sulle fondazioni».

«Quando il giudice penale vuole decidere le forme della politica», aveva aggiunto l'ex premier, «siamo davanti a uno sconfinamento pericoloso per la separazione dei poteri». Archiviata l'accusa di finanziamento illecito ai partiti, restano in piedi quelle di corruzione e traffico d'influenze. Reati che, però, non vengono contestati a Renzi. 

L'udienza preliminare è fissata per il prossimo 4 aprile. «Oggivincono le persone che credono nella giustizia», il commento alla decisione della Cassazione di Renzi in un post corredato di una foro che lo ritrae con Carrai «amico fraterno».

DiMartedì, Di Battista fuori controllo: "I politici? Deretani flaccidi che la magistratura ha perseguitato troppo poco". Libero Quotidiano il 16 febbraio 2022

Alessandro Di Battista a ruota libera. Ospite di Giovanni Floris a DiMartedì, l'ex grillino commenta l'attualità e, in particolare, gli scandali legati alla magistratura. Nella puntata di martedì 15 febbraio, Dibba premette di essere dalla parte di Piercamillo Davigo: "In 5 anni da parlamentare non ho mai ascoltato dibattiti interessati a far funzionare la giustizia, erano interessati a salvare i colletti bianchi, che in Italia in carcere non ci vanno. Ha ragione Berlusconi, parte della magistratura è politicizzata: non perché perseguita i politici, ma perché in Italia li ha perseguitati troppo poco". 

E ancora, questa volta in chiaro riferimento ai partiti: "Tutti governano per farsi vedere e mettere deretani, spesso, flaccidi su poltrone governative all'insegna del diamo agli italiani ma gli italiani dicono che i loro conti corrente sono prosciugati rispetto a un anno fa". Tornando all'attualità nel salotto di La7 si discute della lettera sequestrata nell'ottobre 2019 dalla Guardia di Finanza in un pc di Tiziano Renzi e finita agli atti del processo per bancarotta in corso a Firenze che vede tra gli imputati i genitori dell'ex premier. 

Qui Renzi senior scriveva al figlio Matteo, in una sorta di sfogo personale finito alla gogna. Nonostante molti, da parti diverse, prendano le difese del leader di Italia Viva, Di Battista si dice con i magistrati. Questi, a suo dire, "non depositano quella lettera per farci sapere i rapporti con il figlio, ma per dimostrare una sua condotta illegale".

Sabino Cassese per il “Corriere della Sera” il 15 febbraio 2022.

In un magistrale saggio del 1956, uno dei maestri del diritto civile italiano, Pietro Rescigno, osservava che i partiti, «pur vivendo ai confini del diritto privato, non vogliono lasciare gli schemi del diritto privato» e perciò la richiesta dei partiti «si traduce in un'esaltazione del diritto privato come ultima garanzia di libertà». 

A più di sessant' anni, la persistente forza del diritto privato dei partiti è dimostrata dalle vicende giudiziarie che coinvolgono il Movimento Cinque Stelle e il Partito democratico, il primo dinanzi al Tribunale di Napoli, VII sezione civile, il secondo dinanzi alla Procura della Repubblica di Firenze e alla Corte di Cassazione, VI sezione penale. I giudici napoletani hanno stabilito che una modifica statutaria dell'associazione chiamata M5S, che escludeva dal voto gli iscritti degli ultimi sei mesi, poteva essere introdotta solo con regolamento adottato dal comitato di garanzia, su proposta del comitato direttivo.

Hanno quindi accolto, a norma del codice civile, la richiesta di alcuni iscritti, sospendendo in via cautelare una deliberazione dell'agosto scorso, perché violava la norma statutaria allora vigente, e di conseguenza hanno sospeso la nomina del presidente. Insomma, i giudici hanno deciso che i partiti, essendo associazioni regolate dal diritto civile, debbono rispettare, nell'interesse dei propri iscritti, le norme che essi stessi si sono date e che sono scritte nei loro statuti. 

Pare che, dopo la decisione del Tribunale di Napoli del 3 febbraio scorso, si sia scoperta l'esistenza di un regolamento del 2018 che avrebbe consentito l'esclusione dei nuovi iscritti dal voto. Ma la scoperta è un'ulteriore prova della anomia del M5S. La vicenda fiorentina ha caratteristiche diverse, perché riguarda i presupposti civilistici su cui si innesta una norma penalistica.

La Procura della Repubblica di Firenze ha ritenuto che il divieto di finanziamento ai partiti o a loro articolazioni politico-organizzative, regolato da leggi del 1974, 1981, 2013 e 2019, si possa applicare anche a fondazioni non previste dallo statuto dei partiti, né istituite o controllate dai partiti (su questa base, l'1 febbraio scorso ha chiesto il rinvio a giudizio, tra gli altri, di persone allora esponenti del Partito democratico e della fondazione Open).

La Corte di Cassazione, invece, in particolare con la sentenza del 15 settembre 2020 della VI sezione penale, ha stabilito che bisogna partire dall'esame dello statuto del partito e dei suoi regolamenti, per decidere se la fondazione è uno strumento nelle mani di un partito e accertare se ha una propria individualità e operatività o è un mero tramite di finanziamento del partito.

Da queste due vicende possono trarsi numerosi insegnamenti. Primo: i partiti sono un ponte tra popolo e Stato, sono il veicolo della rappresentanza politica. Sono, dunque, uno strumento essenziale della democrazia. Sarebbe stato opportuno che, come proposto fin dai tempi della Assemblea costituente, fossero disciplinati da apposite norme, ovviamente rispettose della loro natura associativa, come fu disposto per i sindacati (i quali peraltro hanno aggirato la norma costituzionale). 

In assenza di disposizioni «ad hoc» (quelle del 2012 contengono solo una rudimentale regolazione che consente di accedere al finanziamento pubblico indiretto), debbono rispettare la sottile trama del codice civile sulle associazioni e, principalmente, i propri statuti e i propri regolamenti (i partiti non possono darsi norme e poi non rispettarle).

È, quindi, sbagliato affermare che il codice civile non può regolare i partiti, perché nella vita associativa non può esistere uno spazio vuoto di regole giuridiche. Secondo: se i partiti sono regolati dal codice civile, vi deve essere una autorità che ne faccia rispettare le disposizioni, su richiesta degli iscritti, e questa autorità è il giudice. È quindi sbagliato lamentare una interferenza dei giudici nella vita dei partiti ed affermare che non sono i giudici che possono decidere chi dirige un partito.

Terzo: se i partiti sono associazioni che appartengono alla società civile, sottoposte all'imperio del codice civile, gli stessi giudici ne debbono rispettare le regole, non possono ritenere due soggetti, una fondazione e una associazione, l'uno articolazione dell'altro, senza che questo legame trovi un fondamento nello statuto di ambedue i soggetti o in un rapporto di partecipazione o di controllo. Il 29 gennaio scorso, su questo giornale, un editoriale del suo direttore Luciano Fontana, era intitolato «le macerie dei partiti».

Esprimeva una giusta preoccupazione sulla loro condotta in occasione della elezione presidenziale e sulla loro incapacità di dare una guida al Paese e di indicare una prospettiva ai suoi cittadini. Aggiungo che i partiti, nel corso della storia repubblicana, sono andati perdendo iscritti, tanto da essersi ora ridotti al lumicino, se comparati a quello che erano nei primi anni di democrazia. 

 Inoltre, perdono progressivamente votanti, non riescono a formulare una offerta politica che attragga consensi, hanno una vita interna ricca di tensioni ma priva di dibattiti politici, sono prigionieri di una grave contraddizione, quella di essere lo strumento della democrazia, ma di non essere essi stessi democratici al loro interno. Uno dei nostri maggiori costituzionalisti, Vezio Crisafulli, si chiedeva, nel 1967, se dietro la partitocrazia si celassero i primi germi di un processo di involuzione e di decadenza dei partiti. Più di mezzo secolo dopo, dobbiamo riconoscere la sagacia di quella osservazione.

Il Gip dovà pronunciarsi. Renzi, affondo contro i magistrati di Open denunciati a Genova: “Macroscopica violazione della Costituzione”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 25 Maggio 2022. 

Uscendo dal tribunale di Genova, Matteo Renzi si mostra più combattivo che mai e deciso a portare avanti la sua battaglia sul caso Open. Il leader di Italia Viva si è presentato oggi davanti al giudice per le indagini preliminari che dovrà decidere sulla richiesta di archiviazione dell’indagine nei confronti del procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo e dei pm Luca Turco e Antonino Nastasi.

I tre sono i magistrati che hanno condotto l’indagine su Open e che sono stati denunciati da Renzi per abuso d’ufficio. La storia è nota: secondo l’ex presidente del Consiglio Creazzo, Turco e Nastasi avrebbero violato la Costituzione allegando agli atti chat tra il fondatore e leader di Italia Viva e un imprenditore, Vincenzo Manes (non indagato), senza passare per l’autorizzazione del Senato, dove Renzi è stato eletto.

“Noi vogliamo giustizia giusta e non giustizialismo perché è quello che questo Paese si merita”, spiega Renzi uscendo dal tribunale al termine dell’udienza col Gip. Per il leader di IV infatti “se c’è una macroscopica violazione della legge è giusto che si indaghi. La nostra denuncia è stata ascoltata dal giudice al contrario dei pm che in sei giorni hanno chiesto l’archiviazione”.

Il riferimento è alla decisione del procuratore capo Francesco Pinto, aveva invece archiviato in soli sei giorni l’indagine nata dopo la denuncia di Renzi, ritenendo che i suoi colleghi toscani nel corso della loro inchiesta non avessero commesso alcun abuso d’ufficio.

“Io – ha aggiunto Renzi – mi sono limitato ad un intervento di un minuto per dire che sono senatore della Repubblica, sono stato presidente del Consiglio, non faccio niente contro i magistrati. Ci sono state quasi due ore di discussione, gli avvocati dei magistrati indagati hanno potuto dire la loro. Il giudice si è riservato – ha concluso il leader di Italia Viva – quindi ci farà sapere”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Inchieste illegittime. Nelle democrazie i giudici non decidono cos’è un partito e cosa no, dice Renzi. Matteo Renzi su L'Inkiesta il 22 febbraio 2022.

Davanti alla Giunta per le Immunità parlamentari, il presidente di Italia Viva ha spiegato che i «pubblici ministeri fiorentini hanno deciso di imbastire un’indagine per definire le forme della politica». E che lo hanno fatto senza rispettare le regole, come dimostrano le cinque sentenze della Corte di Cassazione che hanno annullato i provvedimenti richiesti dalla Procura.

Pubblichiamo il discorso integrale di Matteo Renzi pronunciato davanti alla Giunta per le Immunità sul conflitto di attribuzione contro i pm fiorentini per il caso della Fondazione Open che lo vede indagato per finanziamento illecito. 

Signor Presidente del Senato, membri del Governo,

desidero innanzitutto ringraziare i componenti la Giunta, il suo Presidente e l’onorevole relatrice per il lavoro che hanno svolto e che – come veniva ricordato dalla collega Modena – ha portato anche alla mia audizione.

Il 22 febbraio del 2022 è un giorno palindromo: i numeri possono essere letti in entrambe le direzioni, ma il concetto non cambia. La realtà, tuttavia, non è palindroma: non è che leggendo all’incontrario le situazioni, dando una versione opposta alle cose, arriva lo stesso risultato; anzi.

Chi oggi, in quest’Aula e altrove, dice che siamo in presenza del tentativo di un senatore di allontanarsi dal suo processo mente sapendo di mentire.

Quello che la Giunta – come testé ribadito dalla relatrice – propone all’Assemblea è un conflitto di attribuzione che nulla ha a che vedere con la posizione personale dell’imputato. Non cambia alcunché nel processo che mi riguarda. Perché allora siamo qui? Siamo qui perché su questo tema si gioca una battaglia di civiltà giuridica e di dignità della politica.

Oggi non parliamo di me; parliamo di noi, di voi. Qui non parliamo di Leopolda; parliamo del Senato della Repubblica, del Parlamento della Repubblica. Qui non parliamo di fondazione, parliamo di Costituzione.

La domanda alla quale voi, onorevoli colleghi, quest’oggi dovete dare una risposta è se in questo Paese l’articolo 68 della Costituzione, del quale si discute una possibile novella, è ancora in vigore o non vale più. Quantomeno non vale per i pm fiorentini. Per la credibilità delle istituzioni questo è un giorno nel quale bisogna leggere le cose nella giusta direzione e non al contrario.

Perché si parte da Open, allora? – vi domanderete.

Perché si parte dalle carte illegittimamente acquisite dalla procura fiorentina? Illegittimamente non perché lo dice la difesa di un imputato; non perché lo dice un partito politico; non perché lo dice la relatrice di un provvedimento; non perché lo dice il Presidente della Giunta, ma perché lo dice la Corte di Cassazione.

E lo dice con cinque sentenze. Cinque! Un inedito: cinque sentenze della Corte di Cassazione che hanno annullato i provvedimenti richiesti dalla Procura di Firenze, soltanto nella fase preliminare. Cinque su cinque. La Corte di Cassazione, in queste cinque sentenze, dice che sono stati illegittimamente acquisiti documenti, che dunque non andavano acquisiti.

Vedete, onorevoli colleghi, questo semplifica la nostra discussione. Che i pubblici ministeri di Firenze non abbiano rispettato le regole è un tema pacifico. Non è oggetto di discussione tra di noi. Lo ha statuito la Corte di Cassazione per cinque volte.

Allora cosa stiamo facendo? Un attacco della politica alla magistratura? Si vergogni chi lo pensa. Si vergogni chi pensa che qui stiamo attaccando la magistratura.

Noi stiamo rispettando la magistratura al punto da citare la Corte di Cassazione. Noi stiamo chiedendo che la politica faccia i conti con la realtà, senza alcun attacco alla magistratura, anche perché, a chi dice che ci si difende nel processo, mi permetta, signor Presidente, di richiamare un dato di fatto.

La Cassazione in questo processo ha definito i sequestri effettuati, non sequestri utili a provare un quadro indiziario, ma «un inutile sacrificio di diritti», che arriva a esercitare «una non consentita funzione esplorativa». Chi, come noi, ha una cultura giuridica meno vasta, la chiama pesca a strascico. Si mandano 197 finanzieri, che si tolgono dalla strada e dal lavorare contro le vere truffe le vere invasioni, a prendere i telefonini di persone non indagate. Si compie l’inutile sacrificio di diritti e si prova la funzione esplorativa non consentita.

Ma che questa vicenda abbia un richiamo e una rilevanza politica, grazie alla volontà di tutti i Gruppi, è già stato oggetto di discussione in quest’Aula nel dicembre del 2019. Allora io ho detto, e lo ripeto oggi, che i pubblici ministeri fiorentini hanno deciso di imbastire, non già un’indagine per finanziamento illecito, per ricostruire il denaro che sarebbe stato illegittimamente preso da una fondazione o dall’articolazione di partito, ma per definire le forme della politica.

Attenzione! Questo è un passaggio molto importante. In questa vicenda i denari sono trasparenti, sono tutti lì, tutti bonificati. Non bisogna andare a ricostruire del flusso di denaro, magari con un’attenta azione investigativa, per cui si va a cercare dove erano quei denari. No, perché in questa vicenda i denari sono bonificati, trasparenti, sotto il controllo delle autorità di vigilanza, a cominciare da Banca d’Italia.

L’indagine qui non è sui soldi. Non è un indagine sulla ricostruzione del finanziamento di denaro e del flusso di denaro. L’indagine qui è su che cos’è un partito e cosa non è. L’indagine non vuole mettere in discussione i denari, della cui tracciabilità nessuno dubita. Sono tutti bonificati, anche prima che la legge imponesse per tutti il bonifico bancario.

Diciamo a chi ci segue da casa che, con la legge del 2014, tutti i denari destinati ai partiti politici devono essere bonificati. Quindi, sono tutti tracciati; non c’è più un problema di trasparenza. Si può discutere delle opportunità, ma tutto è tracciato. No: l’indagine parte dall’assunzione del fatto che il giudice penale desidera stabilire che cos’è una corrente di partito, come si deve organizzare, quali modalità concrete di organizzazione della politica si possano fare oppure no. E pensa di poterlo fare il giudice penale.

Signora Presidente, richiamo l’attenzione dei colleghi. Questo passaggio può sembrare banale, ma è decisivo perché laddove il giudice penale interviene nelle dinamiche organizzative della politica viene meno il concetto di separazione dei poteri e la libertà del Parlamento di definire le modalità democratiche della politica.

Ci rendiamo conto di cosa stiamo parlando, o no? Parliamo di questo.

Il finanziamento illecito alla politica ha scritto la storia di questo Paese degli ultimi trent’anni e si è aperta una discussione – credo opportuna – su quanto è accaduto.

Tuttavia in questo caso non è come in passato, quando i pubblici ministeri si facevano spiegare dai segretari amministrativi, cioè i tesorieri, il flusso di denaro. Qui siamo in un momento nel quale i pubblici ministeri si determinano come nuovi segretari organizzativi dei partiti, forse perché i partiti non sono più messi bene come prima.

Lasciatemi dire che, di fronte a questo, il Costituente ha fatto fatica nella definizione dell’articolo 49 della Costituzione. I lavori dell’Assemblea costituente andrebbero riletti. L’articolo 49 della Costituzione è stato oggetto di grande discussione e dibattito e la legge attuativa è sempre stata molto difficile. Il «concorrere con metodo democratico» alla vita del Paese è un tema sul quale chi ha studiato giurisprudenza sa che si sono scritti tomi e tomi.

L’idea che tutto questo dibattito culturale, sociologico e politico che attiene alle forme della democrazia liberale possa portare nel 2022 a un giudice penale che decide che cosa è la corrente di un partito e cosa non lo è dovrebbe far scattare un campanello d’allarme. Onorevoli colleghi, nelle democrazie occidentali non è il giudice penale che decide che cosa è partito e cosa no.

Pensate – ironia della sorte – che questo è un processo nel quale l’accusa porta a testimoniare dei colleghi, in alcuni casi anche amici, che facevano parte del partito al quale io appartenevo. Quindi, l’accusa è fatta di testimonianze di politici e la difesa di sentenze della Cassazione. Giudichino i signori senatori chi è che sta portando la politica dentro la magistratura.

Noi ci difendiamo con le sentenze della Cassazione e siamo cresciuti nell’università di quella città, da cui parte l’indagine, che aveva Piero Calamandrei come punto di riferimento. Ricordiamo la frase «Quando la politica entra dalla porta del tempio, la giustizia fugge impaurita dalla finestra per tornarsene al cielo»: lo diceva Piero Calamandrei e credo che sia quanto mai vero in questo momento.

Il punto del contendere non è neanche il metodo di lavoro di quella procura, di cui non parlerò: l’ho già stigmatizzato in altre sedi e non riguarda il dibattito parlamentare. Penso che valga per tutti il principio per cui la legge è uguale per tutti davvero. Ci può essere una violazione della legge da parte di un magistrato, un senatore o un semplice cittadino: queste tre violazioni debbono essere perseguite allo stesso modo.

Nelle aule di tribunale si legge che «La legge è uguale per tutti»: non per tutti tranne qualche pubblico ministero d’assalto.

Il punto è che se un cittadino che se lo può permettere, per motivi politici anzitutto, decide di denunciare coloro i quali, a suo dire, non stanno rispettando la legge, egli non sta compiendo un atto eversivo, ma sta richiamando al rispetto della legge anche i custodi della legge. Infatti, in questo Paese l’impunità non è consentita a nessuno: non è consentita ai parlamentari – vivaddio – ma nemmeno ai magistrati. E se c’è un’ipotesi di abuso d’ufficio o di non rispetto della legge, richiamare l’attenzione degli altri colleghi magistrati di un’altra procura o un altro tribunale e verificare cosa è accaduto è un fatto di civiltà.

No, noi non stiamo compiendo atti eversivi, né richiamiamo qui ciò che è accaduto a livello personale. Io lo voglio dire ai colleghi che non voteranno la proposta della senatrice Modena e della Giunta delle elezioni e delle immunità parlamentari: il punto del contendere non è nemmeno il fatto che con quel metodo di sequestro invasivo, violento, illegittimo, utilizzato dai pubblici ministeri di Firenze, la mia vita privata, personale, familiare, con tutto ciò che questo comporta – perché la politica è importante, ma la vita lo è di più, signori senatori – questa vita è stata messa in pasto a una clamorosa campagna non soltanto di stampa.

Vi auguro soltanto che non accada a voi ciò che è accaduto a me. Ve lo auguro dal profondo del cuore. Ve lo auguro con il cuore in mano. Posso augurarmi che a voi non accada e non vi venga riservato un trattamento che non soltanto a me è stato riservato. Dal conto corrente privato fino a una lettera che ricevi da tuo padre con considerazioni di natura personale, quella sfera lì è una sfera davanti alla quale se c’è un reato, si persegue, ma se è una sfera di intimità familiare non è consentito a nessuno violentare la vita delle altrui persone pensando che questo sia giusto.

E allora qual è il punto in discussione? Io non voglio fare un dibattito qui su questi trenta anni né sugli ultimi trenta mesi. Se vogliamo fare un dibattito vero, facciamolo anche nei prossimi mesi. Non ha riguardato soltanto la politica e la magistratura il dibattito di questa guerra dei trent’anni che si avvia, speriamo, ad una pace di Vestfalia, che ancora non vediamo. Quella guerra dei trent’anni è una guerra che ha visto sicuramente la magistratura e la politica fare una battaglia dura, ma chi è intellettualmente onesto sa perfettamente che a questa analisi collettiva e catartica che il Paese deve fare, manca un terzo protagonista, che non è soltanto il magistrato o il politico.

Chi vuole bene a questo Paese, chi è intellettualmente onesto sa che ad una riflessione collettiva non può non partecipare anche il mondo dell’informazione e della stampa. Il mondo della libera comunicazione che noi difendiamo fino in fondo, ma che è parzialmente corresponsabile insieme a noi di quello che è accaduto.

Quando infatti le veline di una procura valgono più delle sentenze di una Cassazione perché qualcuno fa il pool di giornalisti che di fatto diventa la gazzetta delle procure, questo tema riguarda anche il mondo dell’informazione che noi difendiamo perché è un guardiano della libertà costituzionale. Noi siamo pronti a tutto pur di difendere la libertà di informazione.

Questa libertà dell’informazione non può vederci però silenziosi di fronte a quello che è accaduto in molti casi. Guardate, la velina della procura vale più della sentenza della Cassazione sui social, nel mondo del populismo, là dove si gioca con gli acchiappa click, ma dove si va a fare una riflessione sul futuro del Paese non è pensabile che notizie prive di rilievo penale vengano pubblicate in prima pagina e trafiletti siano destinati e dedicati a ciò che cambia la vita dei processi con le sentenze della Cassazione.

Non sempre ciò che è virale è vero e se la stampa cede il proprio ruolo di guardiano democratico, noi abbiamo un problema perché il populismo vince non soltanto per debolezza della politica o per responsabilità della magistratura, ma anche per la mancanza di responsabilità da parte della stampa.

Oggi il punto di cui discutiamo è uno ed è semplice. La collega Modena ha ricordato l’articolo 68 della Costituzione. Il Costituente, con capacità di veggenza interessante e significativa, scrive che senza autorizzazione della Camera di appartenenza, è proibito, in qualsiasi forma, acquisire conversazioni o comunicazioni e addirittura arriva a vietare il sequestro di corrispondenza. Questo dice l’articolo 68.

Di fronte a questo, la sintesi è molto semplice; non può essere acquisito senza il parere di questa Aula del materiale che riguarda la comunicazione e la corrispondenza di parlamentari. Perché? È un privilegio, come sostengono i populisti? No, è il frutto di una garanzia che cerca di separare, dopo decenni di cultura giuridica, il potere legislativo da quello esecutivo e da quello giudiziario.

È uno dei capisaldi della democrazia liberale. Sulla spinta dell’indignazione popolare, negli anni Novanta l’articolo 68 è stato riformulato e quella riformulazione oggi impedisce di fare quello che è stato fatto a me e che domani può essere fatto a voi. A me non possono fare altro: hanno già preso dalla corrispondenza del conto corrente, fino alle comunicazioni con gli amici, fino ai telefonini dei finanziatori.

A maggior ragione la nuova formulazione non può essere artamente disattesa ad alcuni. Infatti, a differenza di tanti altri pm che io vorrei ringraziare, perché ce ne sono tanti che rispettano la Costituzione di questo Paese e a cui va la nostra gratitudine, alcuni hanno deciso di attribuirsi anche la funzione di padri costituenti. In questo caso, quindi, abbiamo dei pubblici ministeri che si ritengono depositari di una imprecisata verità fattuale; si ritengono sostituti del potere politico nell’organizzazione delle forme della politica; si ritengono gli ispiratori di articoli, commenti e veline, perché casualmente i dati e le comunicazioni passano nei giorni più importanti, ma addirittura si ritengono padri e madri costituenti, pronti a disattendere il principio e il dettato costituzionale.

Sicuramente tutto ciò è stato possibile anche per colpa della politica. Noi dobbiamo fare la nostra parte di autocritica e di responsabilità. Se la politica fa il suo mestiere, questo non è consentito; se la politica diventa pavida, paurosa, incerta, tentennante, malferma, accade quello che abbiamo visto anche in questi giorni.

Oggi è il 22 febbraio e non è soltanto un giorno palindromo. Per chi viene dall’esperienza educativa scout è la festa mondiale degli scout, la Giornata del pensiero; per chi è cresciuto con l’esperienza del movimento della Rosa bianca, un grande momento di formazione dell’identità europea e un terribile momento con dei giovani ragazzi uccisi dai nazisti il 22 febbraio del 1943, soprattutto i fratelli Scholl, il 22 febbraio è sempre stato speciale.

Il 22 febbraio, però, è anche il giorno nel quale otto anni fa ho prestato giuramento nelle mani del presidente Napolitano come Presidente del Consiglio. Io ho provato a cambiare la Costituzione e non ci sono riuscito, ma l’articolo 138 prevede come si cambia la Costituzione e finché non è cambiata, la Costituzione va rispettata. Chi oggi viola scientemente le prerogative dei parlamentari non sta creando un problema a un singolo parlamentare (che si farà il suo processo a prescindere), ma crea una ferita al Parlamento nella sua interezza.

Quando ho fatto la promessa scout, quando ho giurato sulla Costituzione, quando sono cresciuto con i ragazzi della Rosa bianca come modello, io ho promesso a me stesso che non avrei mai rinunciato a una battaglia per paura. Ho promesso a me stesso che non avrei mai evitato di fare una battaglia di coraggio anche quando gli altri non la fanno. A me questa battaglia non conviene, perché nel momento in cui il processo si mette con cinque sentenze della Corte di cassazione a proprio favore, il primo consiglio che degli avvocati difensori è di star buono da una parte, di fermarsi e lasciare che gli atti parlino per sé.

Questa però è una battaglia che io faccio a testa alta e a viso aperto non per me, ma per la dignità di un’istituzione che in questi anni è stata troppo spesso messa in secondo piano per paura e per pavidità della politica. Io non scappo dal processo: chiedo di essere in condizioni di sollevare conflitto di attribuzione non perché penso che questo possa aiutare il processo nel quale sono impegnato.

Non vi sto chiedendo di respingere un’autorizzazione a procedere. Io non fuggo dalle aule del tribunale; ci vado a testa alta in tribunale, udienza per udienza, a dire perché siamo di fronte a uno scandalo. Tuttavia dico ad alta voce che se qualcuno vuole invadere il terreno della politica, contribuendo a far vincere il populismo che svilisce l’impegno pubblico, a far passare il messaggio che chi fa politica ruba, a dire che sono tutti uguali, io mi alzo in piedi in quest’Aula e dico di no; non mi converrà, ma sono orgoglioso di onorare quella promessa che ho fatto combattendo.

Dico questo perché rubare è reato, l’abuso d’ufficio è reato, non rispettare la Costituzione è reato, violare il segreto istruttorio è reato, diffamare è reato, ma fare politica non è reato e se non capiamo che c’è una differenza abissale tra chi sta cercando di combattere questo e chi scappa dal processo, significa che il giustizialismo è già entrato dentro di noi.

Signora Presidente, ho finito. Pensate alla vita che facciamo tutti noi: riuniamo migliaia di persone, organizziamo iniziative, proviamo a cambiare le cose (talvolta ci riusciamo, talvolta non ci riusciamo), le stesse cose che cerchiamo di fare tutti, a destra come a sinistra. Nel nostro agire rispondiamo (responsabilità) a una chiamata, a una vocazione laica; e questa vocazione laica è l’idea che l’impegno verso gli altri sia una delle cose più belle e più grandi che la vita politica ci possa dare. Se pezzi delle istituzioni, i magistrati, immaginano di fare un processo non sui soldi e sui finanziamenti, ma sul fatto che uno faccia politica e sulle modalità con le quali fa politica, si sta facendo venire meno l’idea stessa dell’impegno collettivo. E allora, a viso aperto, se c’è da denunciare un PM che non rispetta la legge, io lo denuncio.

Se c’è da lottare contro corrente, io lotto. Se c’è da dire che la politica è una cosa seria, io lo faccio, lo faccio a viso aperto, perché penso che, prima del consenso personale, venga la Costituzione, e lo faccio perché so che è una battaglia che vale soprattutto per i ragazzi più giovani. In questi ultimi trent’anni forse, in alcuni momenti, abbiamo perso l’attimo, abbiamo perso l’occasione, è mancato chi si alzasse in questa Aula (ci sono stati dei casi, ma non sufficienti) e dicesse: “difendo la politica”.

Signora Presidente, io otto anni fa ho giurato come Premier. Oggi dico, qui: continuo a difendere l’idea che la politica non faccia schifo, l’idea che la politica sia un valore, l’idea che la politica sia una cosa diversa dal populismo. Lo faccio contro i populisti politici, ma lo faccio anche e soprattutto contro coloro i quali violano le regole della Costituzione, perché pensano di fare paura a chi invece paura non ha e gioca la carta del coraggio, in nome e per conto della dignità della politica.

Da ansa.it il 22 febbraio 2022.

L'Aula di palazzo Madama approva, con 167 voti favorevoli, 76 contrari e nessun astenuto la relazione della Giunta delle immunità sul caso Open che vede coinvolto il leader di Italia Viva Matteo Renzi, indagato per finanziamento illecito. 

In sostanza viene sollevato un conflitto di attribuzione alla Corte Costituzionale contro i magistrati di Firenze che avrebbero inserito nel fascicolo dell'inchiesta, chat e mail di quando Renzi era già senatore, dunque, secondo la relazione votata, avrebbero dovuto chiedere prima una formale autorizzazione al Senato.

"Chi dice che siamo in presenza del tentativo di un senatore di allontanarsi dal processo mente sapendo di mentire. Questo non ha niente a che vedere con la posizione dell'imputato, non cambia niente nel processo che mi riguarda. Siamo qua perché su questo tema si combatte una battaglia di civiltà giuridica e di dignità della politica. Qua parliamo di Costituzione".

Lo ha detto il leader di Iv, Matteo Renzi, intervenendo al Senato sul conflitto di attribuzione contro i magistrati fiorentini per il caso della Fondazione Open. "Le carte sono illegittimamente acquisite, lo dice la Corte di Cassazione".

"Che i pm non abbiano seguito le regole lo ha stabilito la Cassazione, con cinque decisioni. Si vergogni chi pensa che qua stiamo attaccando la magistratura, noi la rispettiamo. Noi chiediamo che la politica faccia i conti con la realtà, senza alcun attacco alla magistratura" ha detto il leader di Iv. 

"Non è consentito a nessuno violentare la vita delle persone pensando che questo sia giusto". Lo ha detto il leader di Iv, Matteo Renzi, intervenendo al Senato sul conflitto di attribuzione contro i magistrati fiorentini per il caso della Fondazione Open e parlando della lettera "intima" di suo padre Tiziano. M5s e Pd divisi dal voto: il Pd ha votato sì al conflitto di attribuzione, M5s contro

L'ok di Lega, Forza Italia, Fratelli d'Italia e Pd. Caso Open, grillini e Leu se ne fregano della Costituzione. Claudia Fusani su Il Riformista il 23 Febbraio 2022. 

Un voto a valanga, come non se ne ha memoria, quando il Parlamento ha dovuto dirimere uno dei tanti scontri tra politica e magistratura. Il fatto che questo accada a pochi giorni dal trentennale di Mani Pulite è solo una coincidenza. Piena però di suggestivi significati.

L’inchiesta Open finirà davanti alla Corte Costituzionale. Ce la manda l’aula del Senato che ieri ha votato a larga maggioranza (167 voti a favore; 76 contrari, nessun astenuto) il documento già approvato in Giunta per le autorizzazioni che chiede alla Consulta di valutare se la procura di Firenze, indagando sulla Fondazione Open, ha violato le guarentigie del senatore Renzi previste dall’articolo 68 della Carta e dalla relativa legge attuativa.

Ovverosia se è legittimo o meno aver letto e intercettato telefoni, pc e ogni altro supporto elettronico del senatore Renzi, tanto da averci riempito migliaia di pagine di informative della Guardia di finanza. Non tramite acquisizione diretta ma attraverso altri indagati in contatto con l’ex premier. In pratica, per farla breve, anche se Renzi è indagato nell’inchiesta Open per finanziamento illecito, per acquisire la sua corrispondenza (digitale o cartaceo) si sarebbe dovuto esprimere il Senato. Cosa che non è accaduta. Il processo va avanti, il 4 aprile inizia l’udienza preliminare ma non c’è dubbio che il coinvolgimento della Consulta e le cinque diverse sentenze della Cassazione (l’ultima tre giorni fa è senza rinvio e chiude per sempre la storia) che hanno definito “illegittimi” la perquisizione e i sequestri dei telefonini di Marco Carrai (imprenditore amico d’infanzia di Renzi, anche lui indagato ndr), sono destinati a pesare sull’esito dell’udienza preliminare e, nel caso ci si arrivasse, sul processo stesso.

Ma quello che è andato in scena ieri al Senato, in un’aula pure distratta e preoccupata per i venti di guerra in arrivo dall’Ucraina, è molto più di un caso politico-giudiziario. Ieri il Senato ha cercato di riprendere in mano il filo di un discorso che è andato perduto ed è stato logorato negli ultimi trent’anni: il rapporto tra politica e magistratura; il finanziamento pubblico ai partiti; il ruolo delle Fondazioni in politica. Una giornata con due chiavi di lettura: una più tecnica e giudiziaria; una del tutto politica. La parte tecnica-giudiziaria è tutta sul tavolo. “Qui e oggi non parliamo di me, dell’inchiesta Open, delle indagini, di due anni di fatti privati sbattuti in prima pagina – ha detto Renzi parlando in aula per venti minuti – ma parliamo di noi, parliamo di questo Senato, del diritto di fare politica nelle forme consentite. Un diritto che non può in alcun modo essere nella disponibilità della magistratura”. Guai, ha avvertito, se qualcuno ipotizza che “io cerchi di sfuggire il processo: credo talmente nel ruolo della magistratura che sono qui oggi per chiedere che venga fatta chiarezza sollevando un conflitto di attribuzioni davanti alla Consulta e lo faccio portando con me ben cinque sentenze della Cassazione”.

Fare politica “non è reato” è stato il grido di rabbia e dolore dell’ex premier Renzi. “Rubare, diffamare, acquisire in modo illecito i documenti è reato. Io qui oggi difendo la politica e l’idea che sia una cosa diversa dal populismo”. È stato l’ex Presidente del Senato, ed ex magistrato, Piero Grasso a mettere in fila i motivi tecnici di un conflitto “infondato”. Su questa strada però lo hanno seguito i senatori di Leu e i 5 Stelle. Tutto il resto dell’aula ha votato a favore della relazione della senatrice Fiammetta Modena (Fi) che con fare certosino e senza clamore ha scritto e motivato la memoria che ora sarà affidata ai legali per portarla alla Consulta. In quei 167 voti a favore e negli oltre cento senatori assenti, si possono leggere movimenti, messaggi e posizionamenti. Nel centrosinistra, soprattutto. Il Pd si era astenuto in Giunta convincendo i 5 Stelle che era cosa buona e giusta. Tanto poi ci sarebbe stata l’aula. Un’astensione motivata, all’epoca – era dicembre – dal fatto che non era stato possibile acquisire ulteriori documenti dalla procura di Firenze.

Acquisizione a cui Renzi e Italia viva si erano opposti perché era il principio del dettato costituzionale da difendere e non l’inchiesta in sé. Due questioni che il senatore fiorentino non ha mai inteso confondere. La decisione di votare a favore della relazione, e quindi del conflitto di attribuzioni, è maturata nei giorni del Quirinale. Quando Letta ha ritrovato in Renzi un alleato mentre perdeva pezzi – e affidabilità – Giuseppe Conte che pure doveva essere la colonna portante della coalizione. Nelle ultime due settimane due fatti hanno spostato ulteriormente l’ago della bilancia in favore di Renzi: la pubblicazione della lettera di Tiziano a Matteo, chiaramente lo sfogo privato di un padre col figlio, che ha sdegnato persino i più grandi detrattori del leader di Italia viva; la quinta sentenza consecutiva della Cassazione che ha smontato il presupposto dell’inchiesta Open (la fondazione era la legittima articolazione del Pd e non di una corrente renziana). A questo punto Letta si deve essere interrogato seriamente su cosa gli conveniva fare. Un pezzo dei suoi senatori non lo avrebbero seguito nell’accanimento contro l’ex segretario. Il gruppo Senato avrebbe potuto rischiare la spaccatura, circa la metà una decina su 39 si sarebbero schierati in difesa del leader di Italia viva. “Soprattutto dopo che ieri ci ha detto che non ci candida… come vedi noi due non abbiano gli occhi di tigre che invece lui va cercando per il suo candidato perfetto, quello che vuole vincere e non sopravvivere. Neppure a Draghi, sia chiaro” sottolineavano ieri due senatori dem in una pausa alla buvette.

Avvertito chiaramente il pericolo di spaccare tutto – è forte il malcontento tra i gruppi dopo la direzione di lunedì – Letta ha pensato che convenisse cambiare schema. E lo ha fatto. Si è preso la capogruppo Malpezzi, la responsabile Giustizia Rossomando e ha spiegato ad entrambe quale fosse la nuova linea. Che il senatore dem Dario Parrini ha così proposto in aula: “Noi non stiamo attaccando la magistratura e sottoporre il conflitto alla Corte non è mancanza di rispetto né un modo per intralciare le indagini. Anzi, quello che stiamo facendo è un atto di chiarezza che non è mai stato fatto in questi trent’anni”. Il gruppo Pd Senato, quello che si era già schierato con Zingaretti, e poi subito con Letta e non ha mai digerito Renzi né Italia viva, ieri ha dovuto cambiare copione. Un boccone amaro inatteso e non facile da buttare giù. Gli otto senatori assenti nei banchi del Pd probabilmente non l’hanno voluto fare. Ma la svolta dem va cercata anche altrove. Sarebbe stato rischioso per Letta regalare i voti di Matteo Renzi al centrodestra che non ha mai fatto mistero di voler cavalcare il caso per gonfiare le vele al diffuso senso di sfiducia verso le toghe e allargare il consenso per una radicale riforma della magistratura. “Sia chiaro che noi oggi non votiamo a favore del senatore Renzi” ha detto in dichiarazioni di voto Alberto Balboni di Fratelli d’Italia. “Votiamo in difesa della dignità del parlamentare, della democrazia e delle istituzioni”.

Soprattutto, Letta deve aver pensato alle politiche del 2023, al “campo largo” da Renzi a Leu passando per Calenda e Conte. E in chiave maggioritaria – se non sarà cambiata la legge elettorale – è meglio ricucire ora con Italia viva. Che va tenuta a bada anche per le possibili anzi probabili iniziative centriste. Così hanno alla fine trovato ascolto, non facile, i ragionamenti portati avanti in queste settimane da alcuni senatori dem, Margiotta, Marcucci, Stefano. Nella riunione di gruppo ieri prima dell’aula la proposta di “assoluzione” di cui era latore Andrea Marcucci non ha trovato alcuna opposizione interna, neanche da parte di Anna Rossomando, che pure in Giunta per le elezioni, sul caso Open e sul conflitto di attribuzione con la Procura di Firenze, si era astenuta. D’altra parte l’ultima agevolazione alla proposta di Marcucci era arrivata proprio dal M5S, che annunciava il suo voto contrario. “Se fossero stati abili, ci avrebbero chiesto di proseguire insieme con l’astensione” ammette un senatore dem, “il loro voto contrario invece è stato il definitivo sciogliete le righe”.

Il segretario del Pd, con il Rosatellum, è davvero convinto di giocarsela nelle urne, e di poter organizzare il proprio trasferimento a Palazzo Chigi. Da questo punto di vista, ogni voto può essere utile, anche quelli di Renzi e di Calenda, che alla fine (verso ottobre) potrebbero essere molto più interessati, di quanto non siano oggi, all’offerta last minute del campo largo. La scelta del sistema elettorale determinerà le alleanze. Sulle amministrative per ora non ci sono molte novità. Ieri Letta ha deciso di tenersi aperte tutte le porte. Mentre il centrodestra dà segnali di ricomposizione. I centristi oggi presentano “Italia al centro”. I 5 Stelle non sanno bene come presentare le liste per le amministrative. E Conte lancia le liste civiche “In Movimento 2050”.

Claudia Fusani. Giornalista originaria di Firenze laureata in letteratura italiana con 110 e lode. Vent'anni a Repubblica, nove a L'Unità.

Il Sì del Senato al conflitto di attribuzione. I Pm del caso Open inchiodati: sono fuorilegge le intercettazioni a Renzi. Piero Sansonetti su Il Riformista il 23 Febbraio 2022.  

Il Senato, a larghissima maggioranza, ha dato ragione a Matteo Renzi nella sua disputa con i Pm fiorentini. Loro – i Pm – volevano usare le mail del senatore Renzi e i suoi messaggi sul telefono nell’inchiesta Open. Il Senato ha sollevato il conflitto di attribuzione che ora dovrà essere risolto dalla Corte Costituzionale. Si tratta di stabilire se i Pm possano o no frugare nella corrispondenza e nelle mail di un parlamentare. L’articolo 68 della Costituzione dice di no in modo assolutamente esplicito.

Probabilmente però molti magistrati non hanno mai letto quell’articolo, oppure non conoscono bene la lingua italiana e non l’hanno capito. E quindi ritengono di poter sequestrare la corrispondenza di un parlamentare e anche di distribuirla ai giornalisti perché la pubblichino e spargano fango. Anche il senatore Pietro Grasso, che non a caso è stato magistrato, è di questa opinione, oppure, forse, ritiene che la Costituzione valga zero. Per evitare equivoci, qui trascriviamo pari pari l’articolo 68 della Costituzione, così ogni lettore potrà giudicare se è il caso persino di discutere di una cosa così evidente: “Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza. Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza”.

Avete letto? Avete letto anche voi le parole: “Sequestro di corrispondenza?”. Vabbé, esistono settori della magistratura che ritengono di essere molto al di sopra di queste cose. Per fortuna ieri il Parlamento è stato unanime (tranne naturalmente i 5 Stelle, al solito agli ordini delle Procure, e Leu che per amor di Conte ha stracciato gran parte delle sue tradizioni e della sua cultura socialista). Renzi ha tenuto un discorso sferzante, ha chiesto il rispetto della legge. Ha criticato in modo aspro i giornalisti velinari (la maggior parte dei giornalisti che si sono occupati del caso Open).

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Il caso Open e la Costituzione. Grasso e le false tesi sulle intercettazioni a Renzi: ecco perché sbaglia. Salvatore Curreri su Il Riformista il 3 Marzo 2022. 

Secondo l’art. 68, comma 3, della Costituzione per sottoporre il parlamentare “ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza” il giudice deve essere autorizzato dalla camera di appartenenza. Ciò nonostante, anzi piccandosi di opporre “questioni giuridiche” a dibattitti e decisioni “sempre e solo guidati dalla convenienza politica”, il sen. Grasso ha sostenuto in Aula (22 febbraio) la legittimità dell’operato della Procura di Firenze.

A suo dire, infatti, essa non era tenuta a chiedere la preventiva autorizzazione del Senato per sequestrare la corrispondenza tramite mail e messaggi WhatsApp tra il sen. Renzi ed un terzo (Carrai), estraendoli dal cellulare di quest’ultimo. Ciò essenzialmente per tre motivi: 1) per consolidata giurisprudenza della Cassazione i messaggi via mail, sms o WhatsApp, una volta ricevuti dai destinatari perdono d’attualità, trasformandosi da corrispondenza in semplici documenti, per il cui sequestro non occorre alcuna autorizzazione parlamentare, tanto più quando, come nel caso specifico, diretto contro un soggetto terzo; 2) diversamente, sostenere la necessità della preventiva autorizzazione parlamentare significherebbe paradossalmente richiedere al magistrato di essere un veggente in grado di prevedere la presenza di comunicazioni di e con un parlamentare nel dispositivo elettronico che egli vorrebbe sequestrare ad un terzo; 3) infine, il diniego dell’autorizzazione al sequestro di tali comunicazioni comporterebbe la loro inutilizzabilità processuale anche nei confronti del terzo, il quale godrebbe indirettamente di tale “scudo”, per cui “basterebbe che in un telefono sequestrato a un mafioso vi fosse un messaggio inviato a un parlamentare per determinarne la inutilizzabilità anche nei confronti del mafioso”. Tre argomenti puntuali che meritano altrettante puntuali confutazioni.

In primo luogo, già su queste colonne lo scorso 24 febbraio Giovanni Guzzetta ha evidenziato come, per giurisprudenza altrettanto autorevole della Cassazione civile e della Corte europea dei diritti dell’uomo, la tutela costituzionale della inviolabilità della libertà e della segretezza “della corrispondenza e di ogni altra forma di comunicazione” – che solo l’autorità giudiziaria può limitare “per atto motivato” e “con le garanzie stabilite dalla legge” (art. 15 Cost.), non si esaurisce nel momento in cui il messaggio viene ricevuto ma si protrae fintantoché mittente e destinatario lo considerano attuale, impegnandosi reciprocamente al vincolo della segretezza (al limite fino alla morte quando le loro comunicazioni potrebbero acquisire valore storico, artistico o letterario, come nel caso delle corrispondenze epistolari). Degradare la comunicazione a mero documento perché non più in fieri ma conclusa significa allora limitare significativamente la suddetta tutela costituzionale, con la conseguenza, ad esempio, che l’autorità di pubblica sicurezza potrebbe sequestrare i messaggi via mail, sms o WhatsApp invocando ragioni di necessità ed urgenza che invece l’art. 15 Cost., a differenza dei precedenti due articoli sulla libertà personale e di domicilio, espressamente non prevede per la libertà di comunicazione.

Ma c’è di più, molto di più. Qui si tratta della corrispondenza di e con un parlamentare, per il cui sequestro, come detto, l’art. 68.3 Cost. richiede l’autorizzazione della Camera di appartenenza. Non si tratta di un privilegio del singolo parlamentare in quanto tale (la cui libertà di comunicazione è già protetta come detto dall’art. 15 Cost.) ma di una prerogativa “strumentale (…) alla salvaguardia delle funzioni parlamentari” di modo che intercettazioni o sequestri di corrispondenza non siano “indebitamente finalizzat[i] ad incidere sullo svolgimento del mandato elettivo, divenendo fonte di condizionamenti e pressioni sulla libera esplicazione dell’attività” (Corte cost. 390/2007). Se questa è la ratio di tale prerogativa, limitarla alle comunicazioni solo in corso di svolgimento e non già concluse, significa darne una interpretazione così restrittiva da vanificarla di fatto. Non l’ha fatto, ovviamente, la Corte costituzionale la quale, nella stessa sentenza sopra citata, ha espressamente chiarito che il sequestro di corrispondenza del parlamentare può avere ad oggetto anche “documenti a carattere comunicativo”. Documenti, dunque, che riportano il contenuto della comunicazione, che continua ad essere costituzionalmente protetta anche dopo la sua conclusione.

Del resto è lo stesso principio che, mutatis mutandis, ha portato la Corte costituzionale ad accogliere il conflitto di attribuzioni sollevato dal Presidente Napolitano contro la Procura di Palermo che ne aveva casualmente ascoltato le comunicazioni intercettando l’ex sen. Mancino. In quel caso, infatti, il giudizio non dipese dall’attualità o dal tipo della comunicazione, cioè dall’intercettazione della comunicazione presidenziale mentre si stava svolgendo, ma dalla necessità di tutelare, indipendentemente dal mezzo impiegato, l’interesse costituzionalmente protetto di consentire “l’efficace svolgimento delle funzioni di equilibrio e raccordo tipiche del ruolo del Presidente della Repubblica nel sistema costituzionale italiano” (Corte cost. 1/2013). Di fronte ad argomenti così chiari e di tale peso costituzionale, voi credete che la Corte costituzionale avrebbe preso una decisione diversa se Mancino, anziché telefonare al presidente Napolitano, gli avesse mandato un sms o una mail, sposando la tesi del sen. Grasso secondo cui in quel caso si era in presenza di documenti e non di forme di comunicazione degne di eguale tutela costituzionale? Suvvia…

Peraltro, seguendo la tesi dell’ex pm e Presidente del Senato, sarebbe molto facile per i pubblici ministeri eludere l’obbligo costituzionale di autorizzazione preventiva per acquisire agli atti la corrispondenza del parlamentare: anziché intercettarne le comunicazioni del parlamentare nel momento in cui si svolgono, basterebbe attenderne la conclusione e poi sequestrare il device in cui è vi è traccia del suo contenuto.

Anche le altre due argomentazioni del sen. Grasso sono confutabili, sempre alla luce della giurisprudenza costituzionale. L’obbligo di autorizzazione non implica alcuna capacità divinatoria del pubblico ministero, né alcuna impunità del terzo che abbia comunicato con un parlamentare. Molto semplicemente: se il pubblico ministero vorrà utilizzare contro un parlamentare le sue conversazioni occasionalmente trovate nel device sequestrato ad un terzo, dovrà chiedere successivamente la relativa autorizzazione alla camera di appartenenza.

Se invece vorrà utilizzarle contro il terzo, lo potrà sempre fare perché, come chiarito dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza n. 390/2007, tale materiale probatorio è sempre e comunque utilizzabile, indipendentemente dall’esito della richiesta di autorizzazione; altrimenti si avrebbe una “irragionevole disparità di trattamento fra gli indagati, a seconda che tra i loro «interlocutori occasionali» vi sia stato o meno un membro del Parlamento”. È vero che tale ipotesi è oggi prevista solo per le intercettazioni c.d. indirette (art. 6 l. 140/2003), cioè a quelle nei confronti di soggetti terzi cui il parlamentare partecipa casualmente, ma, per rime obbligate, essa si può agevolmente estendere anche alle comunicazioni altrettanto indirette (art. 4), fermo restando che, come sostenuto dal sen. Grasso, tale legge andrebbe espressamente modificata in tal senso.

È questa l’unica considerazione condivisibile nel contesto di argomentazioni che suscitano preoccupazione non solo e non tanto per le asserite motivazioni giuridiche addotte a sostegno di una pur rispettabile posizione politica, quanto soprattutto per la loro mancanza di prospettiva costituzionale che tragga ispirazione dell’esigenza di tutelare il libero svolgimento del mandato parlamentare, anche attraverso quella sua dimensione ormai essenziale che è la comunicazione in via non più cartacea ma digitale. Salvatore Curreri

Come don Ferrante e donna Prassede che nei Promessi Sposi negano la peste...Intercettazioni vietate su Renzi e Travaglio che nega la Costituzione: “I manicomi non andavano aboliti per i giornalisti”. Redazione su Il Riformista il 24 Febbraio 2022. 

Piero Sansonetti, direttore de Il Riformista, commenta in merito ai sequestri di messaggi e mail ai danni di Matteo Renzi.

Torniamo sul caso Renzi, e intendo la discussione che c’è stata in parlamento alla fine della quale è stato spiegato ai magistrati di Firenze che non possono utilizzare le intercettazioni, i sequestri di messaggi e email che hanno fatto a danno di Renzi perché è parlamentare. C’è l’articolo 68 della Costituzione che proibisce queste iniziative. Le hanno fatte lo stesso i magistrati e pm fiorentini, immagino sapendo che stavano commettendo una cosa illegale perché se non conoscono nemmeno la Costituzione come hanno fatto a laurearsi?

Se la conoscevano hanno violato la legge consapevolmente. Infatti Renzi li ha denunciati. Dibattito in parlamento, si è votato e tutti i partiti unanimemente d’accordo sul non poterlo utilizzare. Tutti i partiti tranne due: M5s e Leu. Per i Leu ha parlato addirittura Pietro Grasso, ex magistrato, ex capo dell’antimafia. Pure lui forse non la conosce benissimo o non gli interessa la Costituzione.

Ho letto Marco Travaglio che nell’editoriale di oggi spiega che Grasso è l’unico che ha capito. Secondo il direttore del Fatto Quotidiano la Costituzione non dice che è proibito sequestrare la posta ai parlamentari. Allora vi leggo l’articolo 68. Dice che è i parlamentari non possono essere perseguiti per la loro opinione, dice che non possono essere arrestati se non con l’autorizzazione della camera di appartenenza, ‘analoga autorizzazione – dice il secondo comma dell’art. 68 che io leggo testualmente – è richiesta per sottoporre i membri del parlamento ad intercettazioni in qualsiasi forma: di conversazioni, o comunicazioni, o a sequestro di corrispondenza’.

Non mi sembra che ci sia molto da discutere. Stiamo parlando di email e Whastapp. Non sono forme di comunicazione? Sarà conversazione, sarà comunicazione, sarà corrispondenza? Mi ricorda un po’ i Promessi Sposi dove c’erano Don Ferrante e Donna Prassede che non credevano alla peste perché dicevano che le cose esistenti o sono sostanza o sono accidente. E loro sostenevano che la peste non è sostanza perché non si vede e non è accidente perché non avviene, quindi non esiste. Poi se la presero e morirono.

Qui mi sembra lo stesso ragionamento. Queste non sono né sostanza né accidente perché non sono posta perché non c’è francobollo, non sono telefonate perché non c’è la voce. Quindi non esistono e i pm possono fare quello che vogliono. È evidente che la discussione non dovrebbe esserci, però c’è. Perché nel giornalismo italiano si può scrivere quello che vuole.

Nel 1978, da giovane giornalista parlamentare, con passione partecipai al varo della Legge 80 voluta da un grande intellettuale e un grande psichiatra che si chiamava Franco Basaglia che aboliva i manicomi. Io, come tanti altri, abbiamo festeggiato perché era una legge importantissima. Ora mi è venuto il dubbio che bisognava fare una postilla. Si, aboliamoli, ma non per i giornalisti.

Cosa dice l’articolo 68 della Costituzione:

I membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell’esercizio delle loro funzioni.

Senza autorizzazione della Camera alla quale appartiene, nessun membro del Parlamento può essere sottoposto a perquisizione personale o domiciliare, né può essere arrestato o altrimenti privato della libertà personale, o mantenuto in detenzione, salvo che in esecuzione di una sentenza irrevocabile di condanna, ovvero se sia colto nell’atto di commettere un delitto per il quale è previsto l’arresto obbligatorio in flagranza.

Analoga autorizzazione è richiesta per sottoporre i membri del Parlamento ad intercettazioni, in qualsiasi forma, di conversazioni o comunicazioni e a sequestro di corrispondenza.

(ANSA il 24 febbraio 2022) - "Il procuratore capo di Firenze che lascia la procura dopo tutto quello che è successo, e prima del processo, dopo che è stato sanzionato per molestie e da me denunciato è la dimostrazione che qualcosa, in quella procura, evidentemente non funziona". 

Lo ha detto Matteo Renzi a Radio Leopolda parlando del procuratore Giuseppe Creazzo, che lascia la guida della procura di Firenze e va a fare il sostituto procuratore alla procura per i minorenni di Reggio Calabria.

"E' un evento più unico che raro che un procuratore capo se ne vada qualche mese prima - ha aggiunto Renzi - Evidentemente quando denuncio che nella realtà fiorentina qualcosa non funziona non sono il solo a pensarla così e il gesto di oggi va in questa direzione. La mia denuncia va avanti, e resta il mio giudizio di disvalore etico di ciò che lui ha fatto sulle molestie sessuali". Creazzo è il procuratore che ha chiesto il rinvio a giudizio per Renzi nell'ambito della vicenda Open.

(ANSA il 25 febbraio 2022) - La procura di Genova ha iscritto nel registro degli indagati e, contestualmente, ha chiesto l'archiviazione dei pubblici ministeri di Firenze titolari dell'inchiesta Open, denunciati dal leader di Iv Matteo Renzi dopo la richiesta di rinvio a giudizio a carico suo e di altri 10 per presunte irregolarità nei finanziamenti della Fondazione.

Il mea culpa di Renzi sul Sistema delle toghe. "L'ho sottovalutato". Luca Fazzo l'1 Marzo 2022 su Il Giornale.

Il leader Iv all'attacco: "Dalle correnti nessun passo indietro". L'affondo contro Ermini (Csm).

Dice Matteo Renzi: «Palamara l'hanno fatto fuori perché conosceva troppo bene regole che vigevano ai suoi tempi e che vigono tuttora. Non pensate che il sistema delle correnti abbia fatto un passo indietro, che lo abbia fatto il sistema corporativo della magistratura».

Sberle dal «Sistema» ne hanno prese entrambi. Che adesso due come Luca Palamara e Matteo Renzi - diversi per storia e cultura - si trovino dalla stessa parte della barricata diventa quasi naturale. E ieri l'ex pubblico ministero e l'ex presidente del Consiglio si ritrovano insieme a parlare del libro che Palamara ha scritto con Alessandro Sallusti, «Lobby&Logge», sequel del saggio che ha scoperchiato a centinaia di migliaia di italiani il disastro del Sistema giustizia. Una coppia di saggi che racconta, insieme a molto altro, la profondità dell'intreccio perverso tra giustizia e politica, e soprattutto tra magistrati e partiti: un intreccio di cui Renzi è stato a lungo partecipe, salvo pentirsene amaramente. «Tutto quello che Palamara scrive su di me - dice il leader di Italia Viva - è vero. Son colpevole di avere sottovalutato la presenza del deep State, il dark web delle istituzioni. Non è frequente che io faccia autocritica. Stavolta dico che ho profondamente sbagliato».

Dall'epoca in cui insieme, nei rispettivi ruoli, Palamara e Renzi decidevano i vertici del Csm molta acqua è passata. L'immagine pubblica della magistratura, uscita malconcia dal boom del primo libro, è stata definitivamente devastata dalla storia dei verbali dello pseudopentito Piero Amara sulla loggia Ungheria, approdati nelle mani di Piercamillo Davigo e da lui distribuiti in più direzioni, compreso il vicepresidente del Csm David Ermini. «Io - dice Renzi - non credo che quella fosse una loggia. Ma un paese in cui un vicepresidente del Csm brucia i documenti segreti che gli vengono da un membro del Csm è un paese che non funziona. Se l'avessi fatto io mi avrebbero arrestato». Renzi va oltre. E apre una finestra su uno scenario istituzionale inquietante calato in pieno nella faccenda della loggia Ungheria. «Negli stessi giorni in cui Davigo fa vedere i verbali al grillino Nicola Morra io stavo presentando una mozione di sfiducia al ministro della giustizia Bonafede, dopo che con la scusa del Covid erano stati liberati centinaia di mafiosi. Il presidente del consiglio Conte mi disse: non farlo, Bonafede non si tocca. Adesso scopro che grazie a Davigo i grillini sapevano che c'erano i verbali sulla loggia Ungheria, e che dentro c'era il nome di Giuseppe Conte. Che salva dalla mia mozione il ministro grillino della giustizia». L'ombra del ricatto, insomma.

Sallusti per avere attaccato un giudice ha rischiato la galera, Palamara è stato radiato dalla magistratura, Renzi tra una settimana verrà quasi sicuramente rinviato a giudizio per reati che giura di non avere commesso: «E intanto - dice - il direttore della rivista di Magistratura democratica scrive che intorno a me va stretto un cordone sanitario. Vi sembra normale?». Ma per tirare le somme, alla fine, Renzi torna sulla diagnosi di uno che ci aveva visto giusto decenni fa: «Diceva Giulio Andreotti: il problema è che nelle aule di giustizia la scritta la legge è uguale per tutti la vedono gli imputati, ma non la vedono i giudici».

La sfida della Procura di Genova. Archiviazione flash per la denuncia di Renzi e querela per critiche: la giustizia a due velocità per i magistrati. Piero Sansonetti su Il Riformista il 26 Febbraio 2022. 

Ieri mi è arrivato un avviso di querela da parte di un magistrato. Dico meglio: di un magistrato famoso. Lui sostiene che ho raccontato certe cose dei suoi processi senza sufficiente rispetto. Il giorno prima mi ero beccato un avvertimento feroce dell’Anm (l’associazione magistrati) la quale ritiene intollerabile che un giornalista si permetta di criticare un magistrato calabrese (anche in questo caso molto famoso) perché – dice – così si delegittima la magistratura. Criticate chi volete – sostiene l’Anm – il Presidente della repubblica, un segretario di partito, il papa e tutti i cardinali o Dio in persona, e passi. Ma un magistrato no, perché così lo delegittimate.

Di una sola cosa sono certo: che la querela del magistrato che mi è arrivata ieri (come un’altra trentina di querele di magistrati che ho in carniere), produrrà un rinvio a giudizio, anche se dovesse risultare ( e risulterà) assolutamente pretestuosa e infondata. Diciamo un semplice atto di intimidazione. In ogni caso passeranno diversi mesi prima che ciò avvenga. Invece è successo che il leader di Italia Viva, Matteo Renzi, ha denunciato tre magistrati che gli hanno sequestrato illegittimamente la posta, violando l’articolo 68 della Costituzione che vieta categoricamente questi atti di sopraffazione nei confronti di un parlamentare, e i Pm di Genova, che erano stati incaricati di impostare l’azione penale, ieri hanno rilasciato un comunicato e hanno scritto che “dopo attenta verifica” chiedono l’archiviazione del procedimento avviato da Renzi.

Capite? Hanno scritto così: “dopo attenta verifica”. Ora dovete sapere che mediamente dal momento della denuncia al momento della richiesta di rinvio a giudizio o di archiviazione passano circa sei mesi. Talvolta, col sistema delle proroghe, molti di più. I Pm di Genova invece hanno risolto la questione in poco più di una settimana. Non solo, ma la hanno risolta a 48 ore esatte dal voto solenne del Parlamento che aveva confermato che nei confronti di Matteo Renzi era stato commesso un abuso. Se questo gesto fosse solo una sfida e uno schiaffo in faccia a Matteo Renzi non sarebbe una gran novità. Molto spesso le procure, e spessissimo i sostituti procuratori, spiegano al popolo che loro dei politici se ne infischiano, che possono trattarli come vogliono, trascinarli nel fango, qualcuno anche in prigione, senza bisogno di pezze d’appoggio. È loro facoltà. Loro la chiamano così: “sacra indipendenza della magistratura”. Indipendenza che vuol dire? Vuol dire potere superiore, incontrollato, discrezionale e insindacabile. Così la interpretano i Pm.

Ma stavolta la sfida della procura di Genova non è solo a Matteo Renzi. È alla Costituzione e al Parlamento. Dicevamo che due giorni fa il Parlamento ha preso a maggioranza larghissima, destra e sinistra (col voto contrario solo del partito dei Pm, cioè dei 5 Stelle) la decisione di sollevare il conflitto di competenze davanti alla Corte Costituzionale e di chiedere che la corrispondenza sequestrata illegalmente a Renzi, e distribuita con generosità ai giornali, non sia utilizzabile. Il parlamento non ha fatto altro che pretendere l’applicazione dell’articolo 68 della Costituzione, che è chiarissimo e non lascia nessun dubbio.

I Pm di Genova hanno voluto dichiarare formalmente che a loro la Costituzione non li riguarda. Sono superiori. Sono protetti dall’indipendenza. Non hanno l’obbligo di restare dentro le norme democratiche e dello stato di diritto. Qui noi, un’altra volta, sommessamente, poniamo la stessa domanda al Presidente della Repubblica: non sarà il caso di intervenire? È in atto da diversi anni un atteggiamento sovversivo da parte di un settore non piccolo e molto potente della magistratura inquirente. Non sembra, a tutte le persone ragionevoli, che sia ora di fermare queste robuste frange, perché altrimenti la democrazia se ne va a quel paese?

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

"Smentiti magistrati di Firenze". Renzi ora tuona sul caso Open. Francesco Boezi i 30 Marzo 2022 su Il Giornale.

Pubblicate le motivazioni dei dissequestri disposti dalla Cassazione. Per Renzi, è la quinta smentita della Suprema Corte ai magistrati fiorentini.

La Corte di Cassazione si è pronunciata di nuovo sul caso della Fondazione Open, intervenendo sotto il profilo giuridico sulla liceità di alcuni sequestri che sono stati operati nel corso dell'indagine. E Matteo Renzi, poco fa, ha avuto modo di ribadire come la Corte abbia, in buona sostanza, smentito il Tribunale di Firenze. Come viene riportato dall'Ansa, in questi casi si può parlare di "censura" da parte della Cassazione.

Nello specifico, la parte contestata, per così dire, è quella secondo cui Open sarebbe"non una fondazione politica bensì una fondazione di partito e dunque un'articolazione politico-organizzativa del Partito democratico e, segnatamente, della corrente renziana, in quanto ha operato in una posizione di strumentalità alla realizzazione del suo progetto politico". Le motivazioni vertono sul fatto che, per la Cassazione, il Tribunale del riesame di Firenze "nel qualificare la Fondazione Open non si è uniformato ai principi di diritto affermati nelle precedenti sentenze e non ha considerato la disciplina dettata per le fondazioni".

Insomma, Open non sarebbe stata trattata come una fondazione in sede giuridica. Il che potrebbe fare il paio con una delle argomentazioni dell'ex presidente del Consiglio che ha spesso affermato che, con questa vicenda inchiestistica, si volesse definire cos'è un partito e cosa non lo è. Il leader d'Italia Viva ha commentato la novità a mezzo Twitter: "Per la quinta volta la Cassazione smentisce i magistrati di Firenze. L'inchiesta Open si sta rivelando uno scandalo ogni giorno più grande. Il tempo è galantuomo, certo, ma quanta pazienza ci vuole".

Nel corso di questi mesi, l'ex premier ha già avuto modo di elencare casi in cui la Cassazione avrebbe smentito chi ha indagato sul caso Open. Il responso della Suprema Corte arriva in relazione alla disposizione del dissequestro di alcuni oggetti di proprietà di Marco Carrai che erano appunto stati sottoposti a sequestro. Ma è chiaro che, al di là della singola circostanza, la pubblicazione di queste motivazioni potrebbero vertere sull'architrave del caso in sé. L'annullamento dei sequestri era già stato annunciato.

La Cassazione ha anche citato un articolo di legge che "espressamente riconosce e consente che le fondazioni di partito possano raccogliere fondi, erogare somme a titolo di liberalità e contribuire al finanziamenti di iniziative". Ettore Rosato, presidente d'Iv, ha voluto dire la sua sulla pubblicazione delle motivazioni dei dissequestri: "Noi siamo i primi ad aver fiducia nella giustizia ed essere stati oggetto di un palese abuso è stato doloroso e difficile da spiegare. Oggi lo spiega la Cassazione nelle motivazioni dell'ordinanza con cui ha annullato i provvedimenti di quei magistrati che, continuo a pensarlo, non erano guidati dall'interesse della giustizia nel loro lavoro".

La Cassazione stronca il Riesame: «Open non è un partito». Esulta Renzi. Le motivazioni del dissequestro nei confronti di Carrai, componente del consiglio direttivo della Fondazione. Il difensore: «Non poteva che andare così, avevamo ragione da vendere». Simona Musco su Il Dubbio il 31 marzo 2022.

Qualificare la fondazione Open come un’articolazione politica è stato un errore. A dirlo i giudici della Cassazione che lo scorso 18 febbraio hanno annullato senza rinvio l’ordinanza del tribunale del Riesame di Firenze e il decreto di perquisizione e sequestro emesso dalla procura il 20 novembre 2019 nei confronti di Marco Carrai, nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open.

Una decisione che arriva a pochi giorni dall’udienza preliminare del processo sulle presunte irregolarità nei finanziamenti – che vede tra gli indagati, oltre a Carrai, anche il senatore Matteo Renzi, la deputata Maria Elena Boschi, il deputato Pd Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi – e che assesta un colpo pazzesco alle accuse mosse dalla procura di Firenze, già “indebolita” dal voto al Senato, che ha stabilito la violazione dell’articolo 68 della Costituzione per via del sequestro «illegittimo» di mail, messaggi e perfino dell’estratto conto, ovvero senza previa richiesta di autorizzazione a Palazzo Madama.

Sul punto, ora, dovrà pronunciarsi la Corte costituzionale, davanti alla quale è stato sollevato il conflitto di attribuzioni. Ma nel frattempo i giudici mettono in chiaro una cosa: «Il tribunale del Riesame di Firenze, nel qualificare la Fondazione Open», della quale Carrai era componente del consiglio direttivo, «quale “articolazione politico- organizzativa del Partito democratico” in ragione della funzione servente dalla stessa svolta in favore della corrente renziana», non ha «rispettato» i principi già affermati in precedenza dalla Cassazione, e, soprattutto, non ha «considerato compiutamente la disciplina dettata per le fondazioni politiche» dal dl 149/ 2013, «vigente all’epoca dei fatti», senza precisare «sotto quale profilo la concreta attività della Fondazione abbia esorbitato «l’ordinaria attività di una fondazione politica» e l’ambito dell’agire lecito» sancito dalle norme. Norme che riconoscono e consentono la raccolta di fondi da parte delle fondazioni e finanziamenti di iniziative in favore di partiti, movimenti politici o loro articolazioni interne, parlamentari o consiglieri regionali, «in misura superiore al 10% dei propri proventi di esercizio dell’anno precedente».

Il Riesame avrebbe dovuto dunque verificare se l’attività di Open fosse andata oltre l’ambito fisiologico della fondazione politica così come descritta dalla legge e solo successivamente «verificare se l’eventuale presenza di una attività distonica rispetto al modello legale consentisse di considerare la stessa quale “articolazione politico- organizzativa del Partito democratico (corrente renziana)”». Questa verifica, insomma, non ci sarebbe stata. Ciononostante, secondo i giudici del Riesame gli scopi statutari della Fondazione sarebbero stati «in qualche modo sviliti», in quanto l’unica vera attività sarebbe stata quella di finanziamento e supporto alle iniziative «concepite dalle personalità politiche di riferimento», anziché mettere in campo «autonome iniziative di natura politico- culturale».

Per la Cassazione, però, «la distinzione tra perseguimento di uno scopo politico e di un scopo partitico nell’attività della fondazione politica» si rivela «concettualmente esile» e sarebbe stata affermata dal Riesame «sulla base di argomenti che non rinvengono fondamento nella disciplina di legge». Ma non solo: il Riesame, pur affermando «la sussistenza del fumus del delitto valorizzando il dato probatorio del finanziamento percepito dalla Fondazione Open», non ne ha dimostrato «il carattere illecito», richiamando inoltre finanziamenti di privati o degli stessi parlamentari alla fondazione politica, «che, tuttavia, sono espressamente leciti».

Fondazione Open, parla l’avvocato di Marco Carrai

«La decisione della Cassazione non poteva che essere questa, perché avevamo ragione da vendere – ha dichiarato al Dubbio Massimo Dinoia, difensore di Carrai -. Open è una fondazione politica e sarebbe bastato andare a controllare la legge del 2013 per sapere come stanno le cose. Le fondazioni politiche hanno come propri membri personalità politiche di nomina politica e devono perseguire interessi politici. La seconda caratteristica è che devono (non possono), dare al partito di appartenenza o alla corrente che dir si voglia più del 10% di quanto hanno versato l’anno prima. Se versano tutto ciò che hanno in cassa si può dire che abbiano fatto il proprio dovere, se, invece, versano meno del 10% allora non si tratta più di fondazione politica. Insomma: non si tratta di una Spa neutra. E non sussiste neppure l’ipotesi astratta del delitto di illecito finanziamento di partito: la Fondazione Open ha sempre operato lecitamente per il raggiungimento dei suoi scopi statutari».

Renzi: "Uno scandalo ogni giorno più grande". Open non è una fondazione politica, la Cassazione bacchetta i magistrati: “Non ci sono tracce di finanziamenti illeciti”. Redazione su Il Riformista il 30 Marzo 2022.

“Per la quinta volta la Cassazione smentisce i magistrati di Firenze. L’inchiesta Open si sta rivelando uno scandalo ogni giorno più grande. Il tempo è galantuomo, certo, ma quanta pazienza ci vuole”. Commenta così Matteo Renzi, leader di Italia viva, le motivazioni che hanno portato lo scorso 18 febbraio i giudici della Cassazione ad annullare per la terza volta, e senza rinvio, il sequestro probatorio di documenti e supporti informatici disposto nel 2019 a Firenze nei confronti di Marco Carrai nell’ambito dell’indagine sulla Fondazione Open per il reato di finanziamento illecito dei partiti.

Il collegio della Sesta sezione penale bacchetta il tribunale del Riesame di Firenze perché “nel qualificare la Fondazione Open come articolazione politica del Partito Democratico (corrente renziana) non ha tenuto conto delle precedenti pronunce della Cassazione sullo stesso caso e della disciplina sulle fondazione politiche. La questione infatti era stata già esaminata nel settembre 2020 e nel maggio 2021, annullando in entrambe le circostanze le ordinanze del Riesame che non ha “rispettato i principi già affermati dalle sentenze” emesse dalla stessa Cassazione e non ha considerato “compiutamente la disciplina dettata per le fondazioni politiche” nella normativa vigente all’epoca dei fatti.

“Il riesame avrebbe dovuto verificare se l’attivita’ di Open avesse esorbitato o meno dall’ambito fisiologico della Fondazione politica”.

La Cassazione annulla il sequestro su Marco Carrai, aspettiamo il tribunale del Fatto

In sostanza i giudici del Riesame hanno ignorato che l’articolo 5 del dl 149 del 2015, ricorda la Suprema Corte, “espressamente riconosce e consente che le fondazioni di partito possano raccogliere fondi, erogare somme a titolo di liberalità e contribuire al finanziamenti di iniziative” e non hanno dimostrato il carattere illecito del finanziamento. Quindi “il Riesame avrebbe dovuto verificare se l’attività di Open avesse esorbitato o meno dall’ambito fisiologico della Fondazione politica” rinvenendo solo il ‘fumus’ del delitto. 

Emblematico questo passaggio: ”Il Tribunale del Riesame ha inoltre ritenuto che gli scopi statutari della Fondazione OPEN fossero stati ‘in qualche modo sviliti’ in quanto la stessa si sarebbe limitata unicamente a finanziare e a supportare ‘le iniziative concepite dalle personalità politiche di riferimento’ in luogo di ‘autonome iniziative di natura politico-culturale. Ritiene tuttavia il Collegio – conclude la Cassazione- che la distinzione tra perseguimento di uno scopo politico e di un scopo partitico nell’attività della fondazione politica si riveli concettualmente esile e che la stessa sia stata affermata dal Riesame sulla base di argomenti che non rinvengono fondamento nella disciplina di legge”.

Lo scorso febbraio i giudici avevano ordinato la restituzione a Carrai, assistito dall’avvocato Massimo Di Noia, di quanto gli era stato sequestrato. Il deposito delle motivazioni arriva a pochi giorni dall’udienza preliminare fissata per il 4 aprile, dove il gup di Firenze dovrà decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open su presunte irregolarità nei finanziamenti. Tra gli indagati, oltre a Carrai, ci sono il senatore Mattero Renzi, la deputata Maria Elena Boschi, il deputato Pd Luca Lotti e l’avvocato Alberto Bianchi.

“La Cassazione demolisce l’inchiesta Open, fa cadere definitivamente il presupposto alla base dell’indagine, ovvero che la Fondazione fosse in realtà un partito, e dichiara illegittimi i sequestri. I tg Rai, che dedicarono titoli e aperture al caso, oggi daranno lo stesso spazio?”. Lo scrive su twitter il deputato di Italia Viva e segretario della commissione di Vigilanza Rai, Michele Anzaldi.

Il presidente di Italia Viva Ettore Rosato commenta: “Non farà notizia. Nessuno di quelli che ci hanno fatto le prime pagine dei giornali e hanno riempito i programmi tv per giorni ne darà notizia in modo adeguato; hanno almeno la scusa di una tragedia più seria: la guerra. Non fa nulla, però non posso non ricordare gli effetti politici di quelle decine di perquisizioni, di sequestri, di interrogatori che sul caso #Open hanno costruito il tentativo di demolizione di un partito che era appena nato. Ricordo che chi finanziava ha smesso di farlo, impaurito. Chi esprimeva fiducia nei sondaggi per noi ha smesso di farlo, dubbioso.

Ricordo la fatica di spiegare e la sofferenza umana e familiare di chi è stato infangato sui giornali. Perché anche se hai ragione, anche se è evidente l’enormità e la sproporzione della misura mai usata prima o dopo per una cosa simile, anche se è evidente il clamore mediatico voluto solo per motivazioni politiche, per farci male, spiegarlo era difficile. Noi siamo i primi ad aver fiducia nella giustizia ed essere stati oggetto di un palese abuso è stato doloroso e difficile da spiegare. Oggi lo spiega la Cassazione nelle motivazioni dell’ordinanza con cui ha annullato i provvedimenti di quei magistrati che, continuo a pensarlo, non erano guidati dall’interesse della giustizia nel loro lavoro”.

Renzi, Fondazione Open: “I Pm Firenze siano processati per aver violato le leggi”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 4 Aprile 2022.

Lo ha detto il leader di Italia Viva Matteo Renzi parlando con i giornalisti a Firenze questa mattina al termine della prima udienza preliminare davanti al giudice del Tribunale dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura del capoluogo toscano nell'ambito dell'inchiesta sulla Fondazione Open,

“Sono stato presidente del Consiglio e quindi rispetto le istituzioni e per questo sono intervenuto all’udienza. Per anni saremo qua in questo processo su cui già la Corte di Cassazione ha detto tutto quello che andava detto. Con molta tranquillità andiamo avanti, con il sorriso. Vogliamo giustizia e la otterremo, come abbiamo fatto chiedendo di aprire un procedimento contro i pm di Firenze alla Procura di Genova. Dunque a testa alta e massima tranquillità e soprattutto la richiesta che i magistrati di Firenze siano processati per aver violato le leggi “.

Lo ha detto il leader di Italia Viva Matteo Renzi parlando con i giornalisti a Firenze questa mattina al termine della prima udienza preliminare davanti al giudice del Tribunale dopo la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura del capoluogo toscano nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open, che dal 2012 al 2018 ha finanziato le attività politiche dell’ex premier. 

“Noi chiediamo che i magistrati di Firenze siano processati – ha spiegato Renzi – non per le molestie sessuali del procuratore capo Giuseppe Creazzo, quello è un problema che riguarda loro e il Csm; non per quello che ha fatto il dottor Antonino Nastasi a Siena, che è uno scandalo assoluto ma che non riguarda questo processo; noi chiediamo che siano processati per aver violato la Costituzione e le leggi. Noi chiediamo giustizia“. 

Tra gli undici imputati compare Renzi, che appena ricevuta la notifica della richiesta di rinvio a giudizio aveva firmato una denuncia, sulla quale è stata già formulata richiesta di archiviazione alla velocità della luce, nei confronti dei pm per presunta violazione delle prerogative dei parlamentari e abuso d’ufficio. Imputati tra gli altri anche i parlamentari Maria Elena Boschi e Luca Lotti, l’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione Open, e l’imprenditore Marco Carrai che è uno dei personaggi “chiave” del processo, nel senso che la Suprema Corte, per tre volte, ha infatti annullato in via definitiva i sequestri disposti nei confronti dell’imprenditore disposti dai pm fiorentini, e le decisioni della Cassazione assunte nei suoi confronti, potrebbero essere decisive sia per gli eventuali rinvii a giudizio che per il dibattimento.

La richiesta di rinvio a giudizio riguarda anche gli imprenditori Alfonso Toto, Riccardo Maestrelli, Piero Di Lorenzo e Patrizio Donnini, oltre a Giovanni Carucci e Carmine Gianluca Ansalone entrambi dirigenti della multinazionale British American Tobacco, . L’indagine ruota proprio attorno alla natura di articolazione di partito di Open, sempre contestata dalla difese. Ipotizzati anche alcuni episodi di corruzione a carico tra gli altri di Lotti e Bianchi. 

Redazione CdG 1947

Open, Renzi: «È uno scandalo, processate i pm di Firenze». Al via oggi l’udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura per 15 indagati. Renzi presente in aula: «La Cassazione ha spiegato con chiarezza per cinque volte che l’operato dei magistrati di Firenze ha infranto le regole». Il Dubbio il 4 aprile 2022.

È iniziata questa mattina al Tribunale di Firenze, davanti al giudice Sara Farini, l’udienza preliminare per la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dalla Procura per 15 indagati, di cui 4 sono società, nell’ambito dell’inchiesta sulla Fondazione Open su presunte irregolarità nei finanziamenti: tra di essi figurano il senatore Matteo Renzi, leader di Italia Viva, la deputata Maria Elena Boschi, capogruppo Iv alla Camera, e il deputato del Pd Luca Lotti.

Tra gli indagati era presente in aula solo Renzi, il quale, al termine dell’udienza ha definito «questo processo uno scandalo assoluto». Il giudice Farini con gli avvocati difensori e i pubblici ministeri Luca Turco e Antonino Nastasi, titolari dell’inchiesta avviata nel 2019, hanno fissato il calendario delle prossime udienze. Il 10 giugno si discuterà sulla competenza del Tribunale fiorentino e l’inutilizzabilità degli atti che verrà sollevata dai difensori. Il 15 luglio inizieranno gli interrogatori degli imputati. Dopo la pausa estiva, l’udienza riprenderà il 19 settembre con l’inizio della discussione del merito. Tuttavia le fasi dell’udienza preliminare potrebbero essere sospese in attesa della decisione della Corte costituzionale sul conflitto di attribuzione sollevato dal Senato in merito ad alcuni messaggi e mail sequestrati a Carrai in cui conversa con Renzi. Nell’udienza di oggi non sono costituite parti civili né la Camera dei deputati né l’Agenzia delle Entrate indicate come persone offese nella richiesta di rinvio a giudizio.

Renzi: «I pm di Firenze siano processati»

«Chiediamo che i magistrati di Firenze siano processati non per le molestie sessuali del procuratore capo Giuseppe Creazzo, perché questo problema riguarda loro e il Csm, non per ciò che ha fatto il dottor Nastasi a Siena» nell’inchiesta sulla morte di David Rossi, «che è uno scandalo assoluto ma non riguarda questo processo. No, noi chiediamo che siano processati per aver violato la Costituzione e la legge, noi chiediamo giustizia», commenta Renzi parlando con i giornalisti all’uscita del tribunale, con riferimento all’esposto presentato a Genova contro i pm fiorentini. «A me interessa dire e ribadire che la verità su Open l’ha scritta chiara la Cassazione in cinque sentenze e che ci sarà solo bisogno di tempo perché si rassegnino anche i pm fiorentini. Ma interessa soprattutto dire e ribadire che i magistrati di Firenze hanno violato la Costituzione e le leggi e dovranno risponderne a Genova, dove quest’oggi invierò ulteriore documentazione», ribadisce il senatore di Iv nella sua enews.

«Secondo la Corte di Cassazione il processo Open si dimostra per quello che è, cioè uno scandalo assoluto. La Cassazione – non le difese degli indagati – ha spiegato con chiarezza per cinque volte che l’operato dei magistrati di Firenze ha infranto le regole», incalza l’ex premier. «Ho visto i pm di Firenze violare la Costituzione, violare la legge – aggiunge -. Mi auguro che non abbiano violato la Cassazione inviando il materiale su Carrai al Copasir, perché sarebbe l’ennesimo sfregio alle istituzioni e al diritto. Andiamo avanti con il sorriso. Vogliamo giustizia e la otterremo chiedendo di aprire un procedimento nei confronti dei pm. Quindi, avanti a testa alta».

L’inchiesta

Renzi è imputato per il reato di finanziamento illecito ai partiti assieme all’avvocato Alberto Bianchi, ex presidente della Fondazione Open, agli imprenditori Marco Carrai e Patrizio Donnini, a Boschi e Lotti. La Fondazione, gestita dal cosiddetto “giglio magico” dell’ex presidente del Consiglio, è stata attiva tra il 2012 e il 2018 per sostenere finanziariamente l’ascesa e l’attività politica di Matteo Renzi, prima come sindaco di Firenze e poi come segretario del Pd, organizzando tra l’altro le convention della Leopolda. D

ue gli episodi di corruzione per l’esercizio della funzione che vengono contestati entrambi a Lotti, ex membro del cda della Fondazione e membro del governo tra il 2014 e il 2017, prima come sottosegretario alla Presidenza del Consiglio e poi come ministro dello Sport, periodo in cui, secondo le accuse della Procura, si sarebbe adoperato per promuovere l’approvazione di disposizioni normative favorevoli a due società che avevano finanziato Open, la Toto Costruzioni Generali e la British American Tobacco Italia. Lo stesso reato di corruzione attribuito a Lotti è contestato anche a Bianchi e Donnini, considerato collaboratore diretto della Fondazione (è ritenuto responsabile anche di autoriciclaggio in aziende operanti nel settore del turismo e in acquisti immobiliari).

A Bianchi, Carrai, Lotti e Boschi, in quanto componenti del consiglio direttivo di Open, e a Renzi (che i pm qualificano come «direttore» della Fondazione) è contestato il reato di finanziamento illecito continuato «perché in concorso tra loro» avrebbero utilizzato la Fondazione come «articolazione politico-organizzativa del Partito democratico (corrente renziana)», ricevendo «in violazione della normativa» sul finanziamento pubblico ai partiti contributi in denaro per un totale quantificato dalla procura in 3.567.562 euro provenienti dalle donazioni private dei finanziatori: 257mila per il 2014, 332.500 per il 2015, 1.420.988 per il 2016, 805.010 per il 2017 e 752.064 per il 2018. Talune delle somme versate alla Fondazione sarebbero state utilizzate, inoltre, sempre secondo l’accusa, per fornire a Renzi, Lotti e Boschi «beni e servizi» di cui avrebbero fruito personalmente.

Renzi all’attacco su Open, affondo contro i magistrati di Firenze: “Pm hanno violato la legge, Cassazione ha già sbriciolato le accuse”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 4 Aprile 2022. 

Con una mossa a sorpresa Matteo Renzi questa mattina ha deciso di partecipare alla prima udienza del processo Open, l’inchiesta che lo vede indagato per l’uso della fondazione come ‘cassaforte’ del suo movimento politico, dato che per la Procura di Firenze Open era un’articolazione di partito in cui sarebbero passati 3,5 milioni di euro in violazione delle norme sul finanziamento ai partiti.

Per Renzi è stato chiesto il rinvio a giudizio, così come per gli altri indagati: la deputata Maria Elena Boschi, capogruppo Iv alla Camera, il deputato del Pd Luca Lotti, l’ex presidente della fondazione Open Alberto Bianchi e l’imprenditore Marco Carrai, che insieme a Renzi, Boschi e Lotti formavano il cosiddetto ‘Giglio magico’

Ma il leader di Italia Viva all’uscita dal Tribunale non le manda a dire e attacca a testa bassa la Procura di Firenze. I magistrati, va ricordato, sono già stati ‘smentiti’ dalla Cassazione, che ha annullato in via definitiva i sequestri di documenti e pc dell’imprenditore Marco Carrai, amico di Renzi e finanziatore della fondazione.

Anche Renzi ha ricordato, uscendo dall’aula di Tribunale, che “secondo la la Corte di Cassazione il processo Open si dimostra per quello che è, cioé uno scandalo assoluto. La Cassazione, non le difese, ha spiegato con chiarezza per cinque volte che l’operato dei magistrati di Firenze ha infranto le regole”. “Nonostante questo siamo qua“, ha aggiunto Renzi, “per anni saremo in questo processo”.

Quanto alla sua presenza in aula, Renzi ha spiegato di voler esserci anche alle prossime udienze “compatibilmente con il calendario laddove sarà possibile. Sarò qui a dire con molta franchezza che noi stiamo rispettando la legge“. “I magistrati di Firenze” invece “non hanno rispettato né la Costituzione né la legge né le sentenze della Corte di Cassazione. Questa vicenda tra qualche anno sarà nei manuali di cronaca giudiziaria come uno scandalo assoluto“, è l’accusa di Renzi.  “In questo processo c’è un collegio di ottimi avvocati al lavoro, agevolati dal fatto che la Corte di Cassazione è stata la prima a sbriciolare l’impianto accusatorio della Procura di Firenze“, ha ricordato l’ex premier.

Renzi che ai cronisti ha spiegato di voler attendere “con molta tranquillità” l’esito del processo, “perché crediamo nella giustizia, crediamo nei giudici“. Il leader di IV ha però ricordato come il Senato ad ampia maggioranza abbia detto che “i magistrati di Firenze hanno violato la Costituzione. Lo ha detto il Senato, non l’ho detto io. Ora tocca alla Corte Costituzionale decidere se i magistrati hanno violato la Costituzione o no“. “Ciò che è avvenuto sta agli atti, cioé che si siano prese delle intercettazioni, delle comunicazioni, della corrispondenza che poteva essere presa usando una procedura prevista della Costituzione – ha aggiunto l’ex premier – Non è che un giudice di Firenze non può utilizzare un mio sms, lo può fare, però ha un metodo, ha una procedura da rispettare che è chiedere l’autorizzazione, lo può chiedere e se lo avesse chiesto io avrei votato a favore“.

Parlando della sua presenza in Aula in questa fase inziale del procedimento, Renzi quindi ‘sfida’ i magistrati della procura di Firenze: “Se magistrati che devono giudicare gli altri non rispettano la Costituzione, io sono qui per dirglielo in faccia“. Anche perché, sottolinea il numero uno IV, nella corrispondenza agli atti “non c’è niente che mi preoccupi, si parla di come si arriva alla festa dell’ultimo dell’anno, di come si apre il cancello e che io ho paura del cane di Carrai. Non sono argomenti penalmente rilevanti. Ma se questa corrispondenza deve essere presa, va presa in presenza di un parlamentare. E’ stabilito dalla Costituzione, non da me o da voi“.

Il senatore e leader di Italia Viva ha colto l’occasione anche per annunciare l’uscita prossimamente di un nuovo libro, “di circa 200 pagine, che si chiamerà ‘Il Mostro‘ e uscirà il 10 maggio”. “Vi troverete alcune valutazioni. Penso che chi leggerà quel libro dal giorno dopo avrà una valutazione diversa su quello che è successo in questi anni in Italia non solo a Firenze”, è lo ‘spoiler’ di Renzi.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Giuseppe Salvaggiulo per “La Stampa” il 5 aprile 2022.

Presentandosi «per rispetto istituzionale», unico degli 11 imputati, alla prima udienza preliminare del processo sulla fondazione Open, Matteo Renzi prosegue nella sua strategia diversamente difensiva: mediatizzazione della vicenda come «scandalo assoluto» in chiave persecutoria, sineddoche di una giustizia malata da riformare a colpi di maglio; incessante contrattacco a colpi di denunce per screditare non tanto l'accusa, quanto gli accusatori. 

L'udienza, quaranta minuti scarsi, è servita solo per stabilire il calendario. Si va inevitabilmente per le lunghe. Anche per attendere la decisione della Corte Costituzionale sul conflitto tra poteri sollevato dal Senato su sollecitazione di Renzi.

La tesi è che la Procura di Firenze abbia «violato la Costituzione e le leggi» sequestrando alcuni messaggi mail e WhattsApp, a suo dire coperti dalle guarentigie parlamentari. I pm obiettano che, trattandosi di documenti e non di comunicazioni in corso, la previa autorizzazione del Senato non fosse necessaria. Nell'attesa, Renzi li ha denunciati per abuso d'ufficio. 

La Procura di Genova ha archiviato, definendo «lecite» le indagini ed «esclusa ogni ipotesi di reato», perché la questione attiene all'utilizzabilità delle prove e va decisa nel processo, non altrove. Ma Renzi non si arrende e annuncia l'invio a Genova di «ulteriore documentazione».

«Laddove possibile sarò presente alle udienze», dice Renzi. E pare più una minaccia che una promessa, tanto da far storcere il naso ai suoi stessi avvocati, visto che «col sorriso» uscendo dall'aula, non perde occasione per ricordare «le molestie sessuali del dottor Creazzo (condanna disciplinare appellata in Cassazione, ndr) che oggi non si è fatto vedere in aula». 

Il che, notoriamente, è in linea con la prassi per cui in aula non va il procuratore, ma i pm titolari dell'inchiesta. E cioè Turco e Nastasi. Al quale Renzi rammenta invece «le contraddizioni senesi sulla morte di David Rossi», peraltro in gran parte evaporate.

Lo show (al contrario, Lotti e Boschi perseverano nel basso profilo) fa passare in secondo piano l'argomento più forte degli imputati: la recente sentenza della Cassazione che smonta la tesi della Procura sulla configurabilità del reato di finanziamento illecito (3,6 milioni di euro in cinque anni) a una fondazione politica come Open, in quanto ritenuta «articolazione di fatto della corrente renziana del Pd». 

Sentenza resa incidentalmente sulla legittimità del sequestro del computer di Marco Carrai, fedelissimo e coimputato di Renzi: dunque non vincolante per il giudice di merito, ma certamente pesante quanto al principio. Il jolly che gli avvocati Federico Bagattini e Giandomenico Caiazza caleranno per invocare il proscioglimento immediato. Se ne parlerà il 10 giugno. Quando sarà già in libreria la nuova fatica letteraria di Renzi. "Il Mostro", un titolo che è tutto un programma.

Luca Serranò per la Repubblica il 9 aprile 2022.

Un canale di comunicazione con pezzi del governo e della politica su argomenti strategici per l'azienda. Questo, secondo l'iniziale ipotesi d'accusa, sarebbe stato lo scopo delle donazioni (50 mila euro) fatte dal costruttore Michele Pizzarotti alla Fondazione Open, la macchina da eventi che organizzava la Leopolda al centro di una inchiesta della procura fiorentina approdata nei giorni scorsi all'udienza preliminare.

Proprio durante l'udienza preliminare i pm Luca Turco e Antonino Nastasi hanno depositato nuove informative della Guardia di finanza dedicate ai rapporti tra il costruttore e uomini di peso del Giglio magico come l'avvocato Alberto Bianchi, l'imprenditore Marco Carrai e l'ex sottosegretario Luca Lotti. Dalle carte si scopre che nel gennaio scorso Pizzarotti e Lotti erano stati iscritti sul registro degli indagati: gli accertamenti, però, non avrebbero dato riscontri, tanto che sul caso è stata poi chiesta l'archiviazione.

Per gli inquirenti, i rapporti tra i due "fronti" restano esemplari dei meccanismi che governavano la Fondazione, "paravento" sempre secondo le accuse di un canale di finanziamento verso la corrente renziana del Pd (oltre all'ex premier sono imputati tra gli altri Bianchi, Carrai, Lotti, e Maria Elena Boschi). 

La famiglia Pizzarotti, si legge nelle informative, scelse di non comparire come finanziatrice per motivi di riservatezza: "Era intenzionata a erogare il contributo tramite la holding di famiglia Mipien spa, invece, al fine di evitare che sul sito della Fondazione fosse pubblicato il nome della società, Michele Pizzarotti procedeva come persona fisica così da poter optare per non pubblicare il proprio nominativo tra i finanziatori". Le somme sarebbero state versate con tre bonifici tra marzo e ottobre 2014. Dallo stesso marzo 2014, per almeno un anno, il costruttore si sarebbe attivato "per ottenere l'interessamento diretto di Matteo Renzi e di Luca Lotti, in quel momento livello apicale della Presidenza del Consiglio dei Ministri".

In particolare, scrivevano ancora i finanzieri, "l'evoluzione del rapporto presumibilmente avrebbe aumentato le possibilità di coltivare gli interessi della società (...) se da un lato finanziava la Fondazione e avviava interlocuzioni con gli esponenti e con le figure politiche di riferimento della stessa, dall'altro "agganciava" la sfera imprenditoriale di Carrai e la sfera professionale dell'avvocato Bianchi". Tutto "nella prospettiva di intervenire su iter legislativi, amministrativi, autorizzativi afferenti ad iniziative infrastrutturali" di Interesse. Una dozzina le opere considerate strategiche, quasi tutte da "sbloccare, tra cui la "tratta alta velocità Milano-Verona", la "Circumvesuviana -territorio di Pompei" e la "Linea D Metropolitana Roma", oltre a "Iniziative in Romania" e "in Algeria".

Nelle carte viene infine sottolineato un altro presunto intreccio con ambienti del Giglio magico, l'investimento da 100 mila euro fatto nell'agosto del 2014 da Pizzarotti in Wadi Ventures Sca, società lussemburghese specializzata in "servizi di consulenza finanziaria a imprese che intendono operare in Israele", in cui compariva anche Carrai. Lo stesso Carrai, nel marzo del 2016, si lamenta con Renzi di alcune ricostruzioni di stampa che segnalavano rapporti particolarmente stretti tra lui e lo stesso Pizzarotti proprio col tramite della Wadi. 

Sono i giorni in cui l'imprenditore viene dato in pole position per la nomina al vertice dell'unità di cyber security di Palazzo Chigi: "Matteo se non ci sono controindicazioni io querelo il Fatto, mi sto cominciando a rompere un po' le palle, anzi me le sono già rotte del tutto - lo sfogo via Whatsapp - lo non sono mai andato in Lussemburgo. Non sono socio nella società dove è socio Pizzarotti che ho visto una volta in vita mia (...) Ora basta veramente. Non mi importa un c. di fare il capo della cvber security. Mi importa invece finirla con questo limbo di indecisione. Devo tutelare le mie aziende che ho costruito con sudore alzandomi la mattina alle 5 e correndo come un matto e dando lavoro a 90 ragazzi". Lavorando sulle informative della Guardia di finanza, però, i magistrati fiorentini non hanno alla fine rilevato reati contestabili, tanto da chiedere l'archiviazione per questo filone d'inchiesta.

Marco Grasso per il Fatto Quotidiano l'11 aprile 2022.  

Fine ottobre 2013. Alla vigilia della quarta edizione della Leopolda in un ristorante fiorentino si tiene una cena fra alcuni grandi finanziatori della Fondazione Open e Matteo Renzi. 

Da un lato siedono gli imprenditori Vito Pertosa (Mermec Spa, attiva nell'hi-tech), Luigi Scordamaglia (del colosso delle carni Cremonini), Guido Ghisolfi (industriale della chimica scomparso nel 2015, in rappresentanza anche di Beniamino Gavio) e il finanziere Davide Serra. Dall'altro i facilitatori dell'incontro, Marco Carrai e l'avvocato Alberto Bianchi. Quest' ultimo ha grandi aspettative: "Il target è 100k" (100mila euro) a partecipante, scrive il 16 maggio. 

È LA SERA DEL 22 OTTOBRE. In quel contesto, secondo la Guardia di Finanza, viene siglata un'intesa battezzata dallo stesso Bianchi "Il patto dell'Ora d'aria", dal nome del locale: un incontro segnalato dalla Guardia di Finanza che non porterà tuttavia ad alcuna contestazione di reati. L'informativa segue le tracce delle donazioni di Pertosa e di un successivo emendamento governativo, di cui avrebbero potuto beneficiare le sue società. 

"Matteo assicura almeno tre incontri l'anno con noi e voi - scrive Bianchi ai donatori - riservando qualche ora a un brainstorming o a specifici argomenti e ciò a prescindere dai contatti personali che ciascuno di voi avrà (...) Marco e io siamo il terminale delle vostre comunicazioni a Matteo ogni volta che non fosse possibile interloquire direttamente, siamo sempre a vostra disposizione". Pertosa versa a Open 100mila euro, in quattro tranche, fra il 2013 e il 2014.

Nel successivo biennio i suoi rapporti con il Giglio Magico decollano. È tra gli speaker della Leopolda. Incontra più volte Renzi, diventato presidente del Consiglio. Nel 2016 è tra i partecipanti a un altro pranzo di grandi contributori, all'Harry's Bar di Firenze, a cui sono presenti anche Maria Elena Boschi e Luca Lotti. 

Nel 2019 la Finanza perquisisce Pertosa e gli trova un "appunto manoscritto", "relativo a un emendamento della legge di stabilità del 2016". Il pizzino contiene alcuni suggerimenti di modifica della legge, di cui viene auspicata la "cancellazione dell'ultimo periodo". In ballo ci sono le "autorizzazioni di spesa del comparto aerospaziale, settore che rientra nella sfera di operatività delle società di Pertosa": 19 milioni di fondi pubblici nel 2016, 50 nel 2017 e 30 nel 2018. 

L'imprenditore vorrebbe far eliminare il riferimento "al regolamento Ue sugli aiuti di Stato", sulla base del fatto che "nelle due cordate selezionate sono presenti aziende straniere". Il biglietto contiene anche un'indicazione precisa dei dirigenti del Mef che seguono la partita, Carmine di Nuzzo e Ilaria Carboni". L'emendamento viene approvato con le modifiche.

NELLE NUOVE CARTE depositate dalla Procura di Firenze nell'ambito dell'inchiesta sul presunto finanziamento illecito di Open emerge anche l'intensa attività di lobbying portata avanti dalla società di costruzione Pizzarotti. Al centro degli accertamenti una donazione da 50mila euro ricevuta da Open nel 2014, spiegata così da Michele Pizzarotti: "Da un giovane uomo del 1975 a un giovane uomo della stessa (speriamo buona) annata per provare a cambiare in meglio questo Paese".

Pizzarotti vorrebbe soprattutto nuova linfa ai cantieri. Dopo il contributo arrivano anche proposte concrete: una lista di una decina di opere pubbliche da "sbloccare", dall'alta velocità alla metro di Roma, in cui Pizzarotti ha spesso interessi. "L'azione maggiormente concludente - annotano gli inquirenti - concerne la Brebemi" e alcuni "atti fondamentali" con cui viene il governo interviene sulla "sostenibilità finanziaria" del consorzio sull'orlo del crac, partecipato in un periodo dalla Pizzarotti. 

La Finanza ha acquisito dall'impresa la bozza di un emendamento sull'autostrada Cispadana, depositato poi in fase di conversione dello Sblocca Italia nel 2014. I pm Luca Turco e Antonino Nastasi avevano indagato per corruzione Michele Pizzarotti e Luca Lotti, nei confronti dei quali hanno chiesto l'archiviazione l'8 marzo del 2022.

Dalle carte emergono anche incontri con l'ex ministro Maurizio Lupi e un appunto in cui "si desume che Michele Pizzarotti si sarebbe 'presentato a Giuseppe Conte' a una cena con 60 persone", e " gli avrebbe parlato delle attività della società nella Brescia-Verona e nella Torino-Lione".

RENZI CONDANNATO A RISARCIRE 69.000 EURO DA CORTE CONTI PER ASSUNZIONI IRREGOLARI IN COMUNE. Ezzelino da Montepulico su firenzepost.it venerdì 04 Marzo 2022

Il leader di Italia Viva Matteo Renzi è stato condannato dalla sezione Toscana della Corte dei conti a risarcire un danno erariale di 69.000 euro per fatti relativi a quando ricopriva l’incarico di sindaco di Firenze. Con Renzi condannate altre due persone, che all’epoca dei fatti contestati erano dirigenti di Palazzo Vecchio, una a risarcire un danno erariale di 34.000 euro, l’altra di 313.000 euro. Le condotte contestate sono relative alla nomina di due collaboratori dello staff dell’allora primo cittadino. Per l’accusa i due collaboratori sarebbero stati assunti nel 2009 con contratto a tempo determinato nonostante non avessero i requisiti necessari previsti dalle normative, tra cui quello di aver conseguito la laurea.

Renzi e le consulenze in Arabia Saudita: versati sul conto bonifici per un milione e 100 mila euro. Fiorenza Sarzanini su Il Corriere della Sera il 6 febbraio 2022.  

Incarico per la nascita di una città green negli Emirati. Verifica su 3 società. La segnalazione dell'Antiriciclaggio. Già chiesta l'archiviazione per il caso Abu Dhabi. La causale del bonifico in accredito registrato in data 13 gennaio 2021 è «Girofondi» 

Per le consulenze svolte in Arabia Saudita Matteo Renzi ha percepito un milione e 100 mila euro. Soldi che gli sono stati bonificati da alcune società arabe attraverso diversi accrediti. A rivelarlo è una segnalazione di operazione sospetta trasmessa dall’Unità antiriciclaggio di Bankitalia alla Guardia di finanza. 

Per la prima volta si ha dunque conferma dei rapporti anche economici tra il leader di Italia viva e il principe ereditario saudita Mohamed Bin Salman che tante polemiche hanno già suscitato nelle scorse settimane. Oltre mezzo milione di euro è stato versato infatti per il suo impegno per la creazione di una città green in Arabia. 

Il documento è stato trasmesso alla Procura di Firenze che già indagava sul ruolo del senatore riguardo a soldi percepiti per conferenze tenute ad Abu Dhabi. I pubblici ministeri hanno ritenuto infondata l’ipotesi di false fatturazioni e hanno chiesto l’archiviazione dell’indagine nei confronti di Renzi, ora valuteranno se approfondire questa nuova segnalazione dell’Antiriciclaggio per accertare se le fatture emesse da Renzi corrispondano ai fondi erogati. Finora si è infatti parlato di 80 mila euro e si dovrà analizzare la natura degli altri versamenti.

La segnalazione

Scrivono gli analisti dell’Uif: «Sul rapporto di conto corrente intestato a Matteo Renzi, aperto in data 5 novembre 2021, si rileva la seguente operatività: in data 13 dicembre 2021, un bonifico in accredito di un milione e 100 mila euro dal cliente stesso con causale “girofondi”. Il signor Matteo Renzi, censito in anagrafe come politico con un reddito annuo netto superiore a 75 mila euro, ricopre la carica di senatore. Relativamente a quanto rilevato, il cliente ha dichiarato al nostro consulente finanziario di riferimento che l’origine dei fondi sarebbe riferibile a delle prestazioni fornite, in qualità di consulente, all’Arabia Saudita, finalizzate a sostenere la nascita di una città Green, a scopo turistico, negli Emirati Arabi». 

I bonifici dall'estero

Sono tre le società che hanno versato soldi a Renzi, così come ricostruito dagli analisti dell’Uif. Nel documento di segnalazione sospetta sono annotati anche i vari bonifici e viene allegato l’estratto conto della banca. I funzionari dell’Antiriciclaggio sottolineano: «Dal documento si evincono bonifici ripetitivi in accredito di 8.333 dalla Mataio International Public, un bonifico di 570 mila euro dalla Royal Commission For Alula e un bonifico di 66.090 da Founder Future Inv Initiative Est. Si allegano le tre fatture emesse dal cliente a favore degli ordinanti dei bonifici». 

«Bin Salman, un amico»

Nei mesi scorsi, quando era esplosa la polemica sul ruolo di conferenziere all’estero, si era parlato di un contratto da 80 mila euro l’anno e Renzi aveva parlato di «rapporti regolari» negando che ci fossero problemi rispetto alla sua carica di senatore.

«Non c’è alcun conflitto d’interesse. L’unico interesse in conflitto è di qualcuno che vorrebbe io smettessi di parlare dell’Italia. L’attività parlamentare è compatibile con quella di uno che va a fare iniziative all’estero, su questi temi è tutto perfettamente in regola e legittimo». E ancora, le dichiarazioni sui suoi rapporti con il principe ereditario Mohammad Bin Salman, accusato di aver ordinato la cattura e l’omicidio del giornalista dissidente Jamal Khashoggi: «È un mio amico, lo conosco da anni. E non c’è nessuna certezza che sia il mandante dell’omicidio, sul quale peraltro c’è una condanna piena, evidente». 

Il rilancio di Alula

Nell’aprile dello scorso anno Renzi aveva confermato di aver firmato un intervento «per promuovere gli interventi di rilancio dell’antica città araba di Alula, patrimonio Unesco» e di essere entrato «nel board della Commissione reale per Alula, presieduta direttamente dal principe Bin Salman» e la notizia era stata rilanciata da Arab News. Mai però era stata rivelata la cifra percepita e soprattutto l’esistenza di un incarico retribuito con un compenso fisso e periodico. 

Il caso Abu Dhabi

La Procura di Firenze ha aperto un’indagine per tre fatture emesse nel 2019 per conferenze svolte ad Abu Dhabi, con il sospetto che fossero false. Agli inizi di dicembre la Guardia di finanza ha però depositato un’informativa e ha dimostrato che Renzi «ha effettivamente svolto le prestazioni professionali». La Procura ha dunque chiesto l’archiviazione dell’inchiesta ritenendo che i pagamenti si inseriscano «nell’ambito di una più generale attività professionale svolta dal predetto».

Da firenze.repubblica.it il 26 aprile 2022.

Ha rischiato di subire uno stop il processo di appello per l'emissione di fatture false che vede imputati Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell'ex premier Matteo Renzi, insieme all'imprenditore Luigi Dagostino. Il procedimento, iniziato questa mattina, ha rischiato di essere rinviato perché, come precisato dalla corte, non è stato possibile trovare il fascicolo con gli atti del processo. Poi però si è deciso di andare avanti lo stesso.

"La corte dà atto che il fascicolo del dibattimento non è disponibile, non essendo stato reperito in cancelleria", ha detto in apertura di corte la presidente di corte, che ha minimizzato l'accaduto: "Non lo definirei un problema tecnico, la definirei una circostanza irrituale. Qualcuno l'avrà spostato". Si è successivamente deciso di proseguire il processo perché la corte ha precisato di avere comunque la copia di tutti gli atti processuali. 

Tra le richieste avanzate dai difensori, l'esame degli imputati e l'acquisizione di documenti volti a dimostrare l'autenticità delle operazioni indicate nelle fatture contestate come false dall'accusa.

Il processo d'appello a Tiziano Renzi e Laura Bovoli è relativo all'inchiesta su due presunte fatture emesse da loro società. Entrambi si sono presentati in aula per l'udienza in programma stamani. Loro ci sono, il fascicolo processuale no: sparito. 

In primo grado i coniugi Renzi erano stati condannati dal tribunale fiorentino a un anno e nove mesi di reclusione, due anni la pena per il loro co-imputato, l'imprenditore pugliese Luigi Dagostino, 'rè degli outlet, anche lui presente in aula.

Il procedimento riguarda il pagamento di fatture emesse da società' dei Renzi nel 2015 - una da 20.000 euro dalla società Party, un'altra da 140.000 euro più Iva dalla Eventi 6 - per consulenze ad aziende riferibili a Dagostino. 

Le consulenze riguardavano studi per un'attività di ristorazione e per potenziare il flusso di turisti, in particolare orientali, verso l'outlet The Mall nel Valdarno. Ma per l'accusa si trattò di pagamenti per operazioni inesistenti e le fatture, pertanto, sarebbero false. I coniugi Renzi sono imputati della loro emissione, Dagostino dell'utilizzo. 

Alla fine dell'udienza di oggi, 26 aprile, il procuratore generale Filippo Di Benedetto ha chiesto la conferma delle condanne di primo grado. Il processo è stato rinviato al 7 luglio prossimo per gli interventi della parte civile e dei difensori.

Sara Menafra per open.online il 27 aprile 2022.  

Non ha cambiato linea, Luigi Marroni ex amministratore delegato di Consip, l’azienda unica degli appalti pubblici dalle cui vicende è nata l’inchiesta penale nei confronti di Luca Lotti per violazione del segreto istruttorio e di Tiziano Renzi per traffico di influenze.

Nel corso del processo che si sta svolgendo a Roma, interrogato dal pm Mario Palazzi, Marroni – fin dal principio il grande accusatore dell’indagine – ha ribadito le dichiarazioni che aveva fatto durante gli interrogatori, prima a Napoli e quindi a Roma. Condendole di alcuni particolari, soprattutto per quanto riguarda l’ex ministro Luca Lotti, renziano di ferro all’epoca dei fatti.

Le richieste di Tiziano Renzi

A proposito del padre dell’ex presidente del Consiglio, Marroni ha spiegato soprattutto che il suo ruolo fu determinante nell’accreditare un giovane imprenditore toscano, Carlo Russo, poi divenuto una figura centrale dell’inchiesta ora a processo. 

Siamo nel 2016 e Matteo Renzi è ancora presidente del consiglio. Marroni, un passato da assessore alla Sanità in Toscana, è l’uomo più potente della grande centrale degli appalti pubblici, Consip appunto. Nel settembre 2016 nel suo ufficio si fa vivo un giovane imprenditore, Carlo Russo: «La mia segretaria disse che l’aveva accreditato Lotti e che per questo aveva il mio cellulare. Lotti non me lo disse mai direttamente, però». 

Dopo i primi incontri, piuttosto “generici”, Marroni incontra Tiziano Renzi e le cose cambiano: «Tiziano mi disse di ricevere questo imprenditore e che era un bravo ragazzo. Io gli dissi di sì, non ricordavo di averlo già visto». 

Quando Russo si presenta nuovamente però, il tono è molto diverso: «Mi disse che dovevo mettermi a disposizione delle richieste sue e di Denis Verdini. E che se non avessi fatto quello che mi chiedevano rischiavo di perdere il ruolo che avevo ottenuto grazie al fatto che Matteo Renzi era premier. Ero abbastanza frustrato perché mi sentivo messo sotto pressione dall’ultimo arrivato».

Le minacce, aggiunge Marroni, si rivelarono realistiche: «Non ho dato seguito alle richieste che mi hanno fatto e a giugno 2017 sono stato fatto fuori da tutto. Dopo l’addio a Consip ho avuto difficoltà a lavorare, mi hanno fatto terra bruciata». 

La rivelazione dell’indagine

Il clima nei suoi confronti, aggiunge Marroni, era già cominciato a cambiare nell’estate del 2016. «Luca Lotti mi disse che c’era un’inchiesta che riguardava i rapporti tra Consip e l’imprenditore Alfredo Romeo e che la seguiva la procura di Napoli», ma , aggiunge, «notizie analoghe mi erano già arrivate anche da altre fonti».

Il primo a dirgli dell’esistenza di una inchiesta sarebbe stato Filippo Vannoni, ex presidente di Publiacqua Firenze e manager a lui vicino. Poi il generale della Guardia di finanza Emanuele Saltalamacchia, imputato nel processo. Ad agosto, sarebbe stata la volta della chiacchierata con Luca Lotti: «Lo incontrai il 3 agosto 2016. Alla fine della riunione, mentre ci spostavamo verso palazzo Chigi attraversando la galleria Alberto Sordi, mi disse di stare attento e agitò il telefonino», ha raccontato Marroni.

Ulteriore conferma sarebbe arrivata dal presidente di Consip, Luigi Ferrara: “Mi confermò la cosa e mi disse che aveva ricevuto conferma anche dal generale Tullio Del Sette (Del Sette è stato già condannato a 10 mesi per questi fatti ndr)”. I rapporti con Alfredo Romeo, dice comunque Marroni, erano stati sempre solo formali: «Lo incontrai e mi invitò ad un convegno presieduto dall’allora capo di Anac, Raffaele Cantone, ma preferii non andare. Per averlo escluso dalle gare Consip mi ha fatto causa per un miliardo di euro».

Le “tensioni” con Lotti

È forse a proposito di Luca Lotti che Marroni è particolarmente esplicito. «Quando ho spiegato ai pm delle informazioni che mi aveva dato circa le indagini in corso, so che ha risposto che ero animato da malanimo nei suoi confronti. Eppure, fino al giorno prima della decisione di farmi fuori da Consip nessuno ha mai avuto nulla da ridire sul mio comportamento».

A gennaio 2016, ad esempio, Lotti sarebbe stato molto esplicito nel raccomandargli di «essere gentile» con Denis Verdini «che ci tiene su il governo». Quindi, a stretto giro gli avrebbe chiesto di incontrare un altro imprenditore e di favorire un’azienda toscana: «Cosa che non feci. Assunsi invece un ex deputato del Pdl che mi aveva segnalato, si rivelò utile perché poteva entrare e uscire dal parlamento a piacimento».

Dopo la notizia degli interrogatori fatti, ormai nel 2017, il clima nei suoi confronti cambiò ancora: «Non mi hanno mai detto che dovevo dimettermi. Forse il più esplicito è stato Denis Verdini. Mi disse: “Luigi se attenui forse possiamo gestire la cosa” ma alla mia domanda di spiegarsi meglio fu molto generico». Dopo la nuova convocazione in procura, del giugno 2017, nel corso della quale Marroni ribadisce le accuse sia su Tiziano Renzi sia su Luca Lotti, il cda di Consip si dimette in blocco, costringendolo alle dimissioni.

Valentina Marotta per corrierefiorentino.corriere.it il 18 ottobre 2022.

Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono stati assolti nel processo di appello riguardante l’emissione di fatture false. I coniugi, genitori di Matteo Renzi leader di Italia Viva ed ex presidente del Consiglio, sono stati assolti perché “il fatto non costituisce reato”. Pena ridotta per l’imprenditore Luigi Dagostino, “il re degli outlet”, che è stato condannato a 9 mesi per truffa. 

Il processo era relativo a due e fatture risalenti al 2015, una per un importo di 20mila euro e l’altra di 140mila euro, relative a studi di fattibilità che Tramor - società di gestione dell’outlet The Mall di Reggello (Firenze) di cui all’epoca era amministratore delegato Luigi Dagostino - aveva incaricato le società Party ed Eventi 6, facenti capo ai genitori dell’ex segretario del Pd. 

In primo grado Tiziano Renzi e Laura Bovoli erano stati condannati a un anno e nove mesi, mentre a Dagostino era stata inflitta una pena di due anni, la procura generale aveva chiesto la conferma delle condanne. 

Laura Bovoli in aula

Per quasi quindici minuti Laura Bovoli ha rilasciato dichiarazioni spontanee nell’aula 30 del palazzo di giustizia di Firenze: «Non ho mai fatto fatture false. Ho fiducia nella legge. Credo che la legge sia uguale per tutti, anche per chi si chiama Renzi. Mio marito è esperto nel settore commerciale ma non capisce nulla in amministrazione. Mi assumo completamente la responsabilità della fattura da 20 mila euro fatta da Party per un lavoro ben preciso che avrebbe dovuto svilupparsi: attirare i clienti verso quei negozi poco frequentati nell’outlet the mall. 

Un progetto mai andato fino in fondo perché, grazie al fango gettato dalla stampa sono stata costretta a chiudere l’azienda. Mio figlio, allora a Palazzo Chigi, mi ha detto di chiudere l’azienda. E cosi feci. Ma dopo 30 anni di lavoro potevo rovinarmi per 20 mila euro?» 

Tiziano Renzi: «Il marito di un magistrato chiese una raccomandazione»

«Due anni fa sono stato condannato a 22 mesi di carcere» ma «non ho mai chiesto nulla a mio figlio Matteo», anzi «mi ha riferito che anni fa il marito di una magistrata si era rivolto a lui per una raccomandazione». Tiziano Renzi lo ha detto in un suo excursus in cui ha ribadito più volte la sua innocenza e l’estraneità alle accuse e anche di non aver chiesto favori al figlio Matteo Renzi.

«Mentre noi eravamo impegnati nel processo, ho scoperto che la procura di Firenze aveva un’indagine parallela nella quale ero accusato di traffico di influenze. Questo presunto reato fu archiviato nell’aprile 2022, due anni dopo la condanna di cui stiamo discutendo in appello, sarebbe stato commesso ancora una volta con Dagostino. 

Lo avrei aiutato commettendo il reato di traffico di influenze e ciò avrebbe giustificato il pagamento della fattura oggetto dell’odierno processo. Fattura che sarebbe falsa perché emessa per coprire un’altra prestazione, quella teoricamente illecita oggetto del traffico di influenze» che però è, appunto, reato archiviato. 

Da repubblica.it il 18 ottobre 2022.

"Non ho mai chiesto nomine e incarichi a mio figlio, da questo punto di vista non ho mai lavorato col pubblico. Voglio affermare quello che mi ha detto Matteo a distanza di anni, che il marito della pm (che ha svolto l'inchiesta, ndr) aveva chiesto a lui e ai suoi collaboratori con insistenza una nomina". Lo ha detto Tiziano Renzi, padre dell'ex premier, al processo d'appello per fatture false in cui è imputato insieme alla moglie Laura Bovoli e all'imprenditore Luigi Dagostino. All'uscita del tribunale, Tiziano ha rincarato la dose: "Mio figlio ha le prove di questa affermazione, potete chiederlo a lui".

Prima che Renzi e la moglie Laura Bovoli rendessero dichiarazioni spontanee, le difese avevano chiesto la rinnovazione del dibattimento, per sentire testimoni di un procedimento parallelo (conclusosi con l'archiviazione) per traffico illecito di d'influenze. 

Quegli atti, che sono stati parzialmente acquisiti, comprendenti anche alcuni verbali dell'ex parlamentare Luca Lotti, smentirrebbero, per la difesa dei Renzi, l'ipotesi che le false fatture fossero destinate a creare un rapporto tra Dagostino e la politica tramite appunto Renzi senior. 

Il tribunale ha accolto in parte l'istanza: senza disporre una riapertura del dibattimento, ha dato l'ok all'acquisizione di alcune carte di quel fascicolo.

"La legge è uguale per tutti, anche per chi si chiama Renzi. Non ho mai fatto fatture false in vita mia", ha detto Laura Bovoli, madre del leader di Italia Viva, nelle sue dichiarazioni spontanee. "Mio marito Tiziano è esperto nel settore commerciale ma non capisce nulla in amministrazione. 

Mi assumo completamente la responsabilità della fattura da 20 mila euro fatta da Party srl per un lavoro ben preciso che avrebbe dovuto svilupparsi, cioè attirare i clienti verso i negozi poco frequentati nell'outlet The Mall. Progetto mai andato fino in fondo perché, grazie al fango gettato dalla stampa, sono stata costretta a chiudere l'azienda. Mio figlio, allora a Palazzo Chigi, mi disse di chiudere l'azienda. E così feci. Ma dopo 30 anni di lavoro - ha concluso -potevo rovinarmi per 20 mila euro?".

Assolti i genitori di Matteo Renzi dalle accuse di false fatturazioni. L’ex premier: “Dopo anni di lotte sono felice per loro”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 19 Ottobre 2022. 

La Corte, ha accolto la ricostruzione delle difese dei coniugi Renzi, ha largamente riformato la sentenza di primo grado, con la quale ai due coniugi ("Il fatto non costituisce reato") era stata inflitta una pena di 1 anno e 9 mesi e a Dagostino di 2 anni. Matteo Renzi: «Ha perso il giustizialismo»

La Corte di appello di Firenze ha assolto Laura Bovoli e Tiziano Renzi, genitori dell’ex premier Matteo Renzi, sotto processo a Firenze per due presunte fatture false insieme con l’imprenditore Luigi Dagostino che è stato invece condannato invece a 9 mesi : il fatto non costituisce reato. La Corte, ha accolto la ricostruzione delle difese dei coniugi Renzi, ha largamente riformato la sentenza di primo grado, con la quale ai due coniugi era stata inflitta una pena di 1 anno e 9 mesi e a Dagostino di 2 anni. Al termine, il commento del papà di Matteo Renzi e della mamma che ha pianto quando l’avvocato le ha comunicato il verdetto: “Siamo soddisfatti, contenti per l’assoluzione: finalmente la giustizia è arrivata”. 

La vicenda è iniziata nel 2015 allorquando l’imprenditore Luigi Dagostino era amministratore delegato della Tramor, la società di gestione dell’outlet “The Mall” di Leccio di Reggello (Firenze). L’imprenditore, assistito dall’avvocato Alessandro Traversi, aveva incaricato le società Party ed Eventi 6 entrambe di proprietà dei Renzi, di realizzare degli studi di fattibilità per lavori all’outlet. Due le fatture contestate, una da 20mila e l’altra da 140mila euro più Iva, pagate nel luglio 2015 alla società Party srl (quella da 20mila euro) e alla Eventi 6 srl (quella da 140mila euro) .

Tiziano Renzi rendendo dichiarazioni spontanee durante l’udienza, nell’aula 30 del palazzo di giustizia di Firenze, ha proferito critiche velenose nei confronti della pm titolare delle indagini, chiamandone in causa il marito (da cui risulta peraltro da tempo separata). “Non ho mai chiesto nomine e incarichi a mio figlio, da questo punto di vista non ho mai lavorato col pubblico. Voglio affermare quello che mi ha detto Matteo a distanza di anni, che il marito della pm (che ha svolto l’inchiesta, ndr) aveva chiesto a lui e ai suoi collaboratori con insistenza una nomina“. Aggiungendo all’uscita del tribunale: “Mio figlio ha le prove di questa affermazione, potete chiederlo a lui”.

Prima dell’assoluzione, per quasi quindici minuti la mamma di Matteo Renzi, la signora Laura Bovoli ha rilasciato anche lei dichiarazioni spontanee : “Non ho mai fatto fatture false. Ho fiducia nella legge. Credo che la legge sia uguale per tutti, anche per chi si chiama Renzi. Mio marito è esperto nel settore commerciale ma non capisce nulla in amministrazione. Mi assumo completamente la responsabilità della fattura da 20 mila euro fatta da Party per un lavoro ben preciso che avrebbe dovuto svilupparsi: attirare i clienti verso quei negozi poco frequentati nell’outlet the Mall. Un progetto mai andato fino in fondo perché, grazie al fango gettato dalla stampa sono stata costretta a chiudere l’azienda. Mio figlio, allora a Palazzo Chigi, mi ha detto di chiudere l’azienda. E cosi feci. Ma dopo 30 anni di lavoro potevo rovinarmi per 20 mila euro?»

“Due anni fa sono stato condannato a 22 mesi di carcere – ha sottolineato ancora Tiziano Renzi durante il processo d’appello – Sono riuscito a capire le ragioni della condanna soltanto da quello che è successo dopo. Mentre noi eravamo impegnati nel processo, ho scoperto che la procura di Firenze aveva un’indagine parallela nella quale ero accusato di traffico di influenze. Questo presunto reato fu archiviato nell’aprile 2022, due anni dopo la condanna di cui stiamo discutendo in appello, sarebbe stato commesso ancora una volta con Dagostino. Lo avrei aiutato commettendo il reato di traffico di influenze e ciò avrebbe giustificato il pagamento della fattura oggetto dell’odierno processo. Fattura che sarebbe falsa perché emessa per coprire un’altra prestazione, quella teoricamente illecita oggetto del traffico di influenze” che però è, appunto, reato archiviato. 

“La giustizia è lenta ma arriva. È arrivata”. Così l’avvocato Federico Bagattini, uno dei difensori di Laura Bovoli e Tiziano Renzi, ha commentato l’assoluzione con formula piena dei loro assistiti da parte della Corte d’appello di Firenze. “Dopo tre anni di serrato lavoro ce l’abbiamo fatta a dimostrare l’innocenza dei nostri assistiti. Siamo contenti – ha continuato il legale – perché siamo riusciti a dimostrare che le fatture erano state effettivamente emesse e che non si trattava quindi di fatture false. La Corte ha riconosciuto la verità delle fatture e ha assolto da ogni capo di accusa“. Redazione CdG 1947

Fatture vere, accuse false. Tiziano Renzi e Laura Bovoli sono stati assolti in appello, non hanno commesso reati. L'Inkiesta il 18 Ottobre 2022.

Il Tribunale di Firenze ha smentito la tesi del procuratore generale Filippo Di Benedetto che aveva chiesto la conferma delle condanne del primo grado nei confronti dei genitori dell’ex presidente del Consiglio Matteo Renzi. E, invece, il fatto non costituisce reato

Il fatto non costituisce reato. Con questa motivazione il Tribunale di Firenze ha assolto  Tiziano Renzi e la moglie Laura Bovoli, i genitori dell’ex Presidente del Consiglio Matteo Renzi, nel processo di appello sulle presunte fatture false emesse dalla loro società. Viene così smentita la richiesta del procuratore generale Filippo Di Benedetto che aveva chiesto la conferma delle condanne di primo grado (1 anno e 9 mesi di reclusione). 

Il processo riguardava due fatture del 2015 (una da 20mila euro, l’altra da 140 mila euro) emesse dalla società “Party” ed “Eventi 6” dei genitori dell’ex presidente del Consiglio alla Tramor, azienda che gestiva l’outlet The Mall di Reggello (Firenze). Per questo motivo, i due genitori di Matteo Renzi erano stati arrestati. 

Il clamore mediatico dell’inchiesta giudiziaria, evidentemente basata sul nulla, ha influenzato la politica italiana e ha manipolato il dibattito pubblico del nostro paese per anni, come ha raccontato Renzi nel libro Il Mostro. 

La famiglia Renzi ha pagato personalmente e politicamente un prezzo ingiusto e intollerabile, i magistrati che hanno impostato le indagini finite nel nulla no.  

Assolti Tiziano Renzi e Laura Bovoli, l’ex premier: «Ha perso il giustizialismo». Per la Corte di appello di Firenze il fatto non costituisce reato. I genitori dell'ex premier erano imputati per la presunta emissione di fatture false. Simona Musco il 18 ottobre 2022 su Il Dubbio.  

Il fatto non costituisce reato. La Corte d’Appello di Firenze ha assolto Tiziano Renzi e Laura Bovoli, genitori dell’ex premier Matteo Renzi, a processo insieme all’imprenditore Luigi Dagostino – gestore dell’outlet The Mall di Reggello – per l’emissione di false fatture.

Un processo sempre usato contro il leader di Italia Viva come una clava, oggi spezzata dalla decisione dei giudici. Dagostino, soprannominato “il re degli outlet”, è stato assolto dall’accusa di false fatture, ma a suo carico resta la condanna per truffa (reato di cui non erano accusati invece i coniugi Renzi), calcolata in nove mesi.

Un’assoluzione che arriva «dopo anni di lotta e dolore», ha commentato il senatore di Rignano sull’Arno pubblicando una foto d’infanzia. «Sono felice per loro e per tutti noi – ha aggiunto -. Non auguro a nessuno di vivere ciò che hanno dovuto vivere i miei, non si meritavano tanto odio. Ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo».

Assolti i genitori di Renzi, le tappe della vicenda giudiziaria

In primo grado, tre anni fa, Renzi e Bovoli erano stati condannati dal Tribunale di Firenze a un anno e nove mesi di reclusione, mentre Dagostino era stato condannato a due anni. Il processo verteva su due presunte fatture false emesse dalla Party srl (da 20mila euro più Iva) e dalla Eventi 6 srl (140mila euro più Iva), società imprenditoriali gestite dai coniugi Renzi.La truffa aggravata sarebbe stata commessa da Dagostino perché avrebbe pagato i coniugi di Rignano sull’Arno (Firenze) per lavori inesistenti.

Secondo l’accusa la fattura da 140mila euro per progetti di fattibilità su aree ricreative e per la ristorazione all’outlet del lusso “The Mall” di Reggello (Firenze) sarebbe stata emessa per consulenze pagate ma non realizzate, mentre l’altra fattura da 20mila euro risultava emessa dalla Party srl (unica fattura emessa nel 2015), società fondata da Tiziano Renzi (con il 40% della quote) e dalla Nikila Invest, srl amministrata da Ilaria Niccolai (60%), compagna dell’imprenditore Luigi Dagostino.

«Sono molto soddisfatto, prima che professionalmente umanamente – ha commentato al Dubbio l’avvocato Filippo Bagattini, difensore dei coniugi Renzi -. Oggi sia Tiziano Renzi sia Laura Bovoli hanno reso dichiarazioni piene di commozione, perché hanno consegnato alla Corte la loro sensazione che fosse in gioco la loro vita professionale e la loro dignità umana, che è stata travolta e macchiata dalla condanna di primo grado». Durante l’udienza, infatti, Renzi ha voluto prendere la parola, per smentire di aver mai chiesto al figlio favori e piaceri.

«Io non ho mai chiesto nulla a mio figlio Matteo in materia di incarichi e nomine politiche. Anzi, è stato Matteo a riferirmi che anni fa il marito di una magistrata si era rivolto a lui per la nomina di un’istituzione politica», ha detto in aula. «La legge è uguale per tutti, anche per chi si chiama Renzi. Non ho mai fatto fatture false in vita mia – ha aggiunto Bovoli -. Mio marito Tiziano è esperto nel settore commerciale ma non capisce nulla in amministrazione – ha aggiunto -. Mi assumo completamente la responsabilità della fattura da 20 mila euro fatta da Party srl per un lavoro ben preciso che avrebbe dovuto svilupparsi, cioè attirare i clienti verso i negozi poco frequentati nell’outlet The Mall. Progetto mai andato fino in fondo perché, grazie al fango gettato dalla stampa, sono stata costretta a chiudere l’azienda. Mio figlio, allora a Palazzo Chigi, mi disse di chiudere l’azienda. E così feci. Ma dopo 30 anni di lavoro potevo rovinarmi per 20 mila euro?».La procura generale aveva chiesto la conferma delle condanne in primo grado, ma la Corte ha smentito l’esistenza di alcun reato.

«Il processo è un processo di parti, ognuno svolge il proprio ruolo, dovendosi presumere che ciascuno lo faccia in totale buonafede e correttezza – ha aggiunto Bagattini -. Credo che possa essere stato non irrilevante il contributo che questa mattina (ieri, ndr) la Corte ha ritenuto di dover accettare da parte della difesa, cioè l’acquisizione di tutta una serie di documenti che vengono da quel procedimento, per così dire, “parallelo” istruito in costanza del processo di primo grado per verificare un’ipotesi di traffico di influenze da parte del dottor Renzi. Quel procedimento si è concluso con una sonora archiviazione e quindi con la smentita che in qualche modo quelle fatture potessero andare a compensare altri inconfessabili piaceri».

La formula assolutoria, dunque, cancella totalmente le convinzioni maturate con il primo grado di giudizio, quando, secondo i giudici, «per quanto emerso dall’istruttoria dibattimentale, risulta sussistere un compendio probatorio preciso ed univoco che consente di affermare, senza incertezze, la ricorrenza di tutti gli elementi costitutivi dei reati contestati ai tre imputati». Una contorsione? No, normali dinamiche processuali, sottolinea Bagattini. «Se il legislatore ha dovuto immaginare la formula dell’oltre ragionevole dubbio vuol dire che nella giustizia umana c’è sempre un margine d’errore – aggiunge -. Le impugnazioni servono proprio a questo e forse questa è una lezione che può essere rivolta a tutti coloro che spesso immaginano il processo penale senza l’appello. La giustizia umana è di per sé fallibile, se togliamo pure le impugnazioni vuol dire far entrare nel patrimonio definitivo delle persone gli errori giudiziari».

Ma quanto ha pesato il ruolo di Matteo Renzi nelle vicende che riguardano i suoi genitori? «C’è chi pensa che c’entri – conclude il legale -, io faccio l’avvocato e quindi devo essere preservato da questo tipo di considerazioni. Il giorno in cui acquisissi la certezza che queste cose succedono farei molto meglio a non alzarmi dal letto e smettere di fare l’avvocato».

Renzi, la gravissima accusa del padre (censurata da quasi tutti i media). Filippo Facci su Libero Quotidiano il 21 ottobre 2022

Ci annoiamo da soli a ripetere la solita nenia tipo «se fosse successo a sinistra»: anche perché Matteo Renzi peraltro sarebbe di sinistra, ma forse non è la sinistra giusta. Comunque: la notizia di partenza è quella dell'assoluzione in Appello dei coniugi Renzi- padre e madre di Matteo- per una complicata questione di cui ora non ci frega niente, e la domanda di arrivo è che cosa sarebbe successo (a sinistra, oppure nei soliti ambienti forcaioli) se fosse stato un altro, e non Tiziano Renzi, a dire questo in aula a margine dell'assoluzione: «Voglio affermare quello che mi ha detto Matteo a distanza di anni: che il marito della pm aveva chiesto, a lui e ai suoi collaboratori, con insistenza, una nomina». Poi, fuori dal tribunale, ha pure aggiunto: «Mio figlio ha le prove di questa affermazione, potete chiederlo a lui».

ATTACCO FRONTALE

Ecco che cosa è successo: niente. Il Corriere della Sera ha confinato la notizia a pagina 19, Repubblica in nessuna pagina nazionale (ma soltanto nell'inserto fiorentino) mentre il solito Fatto Quotidiano l'ha ficcata a pagina 14 (su 20) anche se perlomeno ha citato la questione nel titolo, così: «In udienza i veleni sulla pm». Veleni. Con la conseguente definizione di «attacco a gamba tesa» contro la pm (quella con nome da fumetto, Christine Von Borries) e questo a margine di una «strategia di attacco frontale alla magistratura imboccata da Matteo Renzi nel libro "Il mostro"». Nel quale libro in effetti, con riferimento proprio alla procura fiorentina, si leggeva di un procedimento disciplinare per presunte molestie sessuali, di alcune inchieste "flop" del procuratore reggente Luca Turco e di varie incongruenze del pm Antonino Nastasi (emerse durante le audizioni della Commissione parlamentare d'inchiesta) sul sopralluogo giudiziario avvenuto dopo la morte del manager Mps David Rossi. Sono cose scritte in un libro (di successo), ma dovremmo catalogarle come "veleni", al pari di quanto appunto Tiziano Renzi ha rivelato l'altro ieri sull'ex marito della pm Von Borries: roba che non interessa a nessuno, prendiamo atto. Non alla procura di Firenze (che non ha commentato) e non ai giornali, che hanno affogato nel piombo una notizia rilasciata in stile dispaccio Ansa. Vediamola sul lato tecnico. Tiziano Renzi- neppure se avesse saputo prima dell'eventuale incarico rifiutato al consorte della pm - non avrebbe potuto chiedere la ricusazione della Von Borries, perché è lei, il magistrato, ad avere facoltà di astenersi per ragioni di convenienza. La ricusazione si può richiedere solo nei confronti di un giudice. In primo grado, se anche la pm avesse posto il problema, avrebbero comunque deciso il procuratore capo o il procuratore generale. Ora, in Appello, avrebbero eventualmente deciso il procuratore generale presso la stessa Corte o il procuratore generale della Cassazione. Ma noi, di tutto questo, non abbiamo notizia: e nel caso parrebbe strano se non l'avessero comunicata: si è quindi autorizzati a pensare che nessuno si sia semplicemente posto il problema. Gli imputati erano i genitori del politico che aveva negato un incarico a tuo marito, ma non è un problema. 

IL PRECEDENTE

La giurisprudenza, però, la pensa diversamente. Una sentenza delle Sezioni Unite della Cassazione (n. 21853) spiega proprio questo: che, se c'è un conflitto di questo tipo, il pm deve astenersi senza tante storie: e, nel caso in specie, il pm che non lo fece fu sanzionato dalla stessa Cassazione. Naturalmente non esiste un caso uguale a un altro (soprattutto quando c'entra Matteo Renzi) o forse sì, esistono dei casi che paiono tutti simili tra loro: quelli di cui non si parla, non si indaga, non si scrive.

Antigiustizialismo e politica. Renzi garantista con i genitori, ora lo sia anche con Berlusconi. Tiziana Maiolo su Il Riformista il 20 Ottobre 2022 

Chissà se Matteo Renzi, quando alla notizia dell’assoluzione dei genitori ha detto “non auguro a nessuno di vivere ciò che hanno dovuto vivere i miei, non meritavano tanto odio”, ha parlato solo con i sentimenti del figlio o anche con la consapevolezza del politico esperto, quale lui è. Perché la sua affermazione “ha vinto la giustizia, ha perso il giustizialismo” è un programma politico. E indubbiamente il partito di cui oggi l’ex Presidente del consiglio è leader, Italia Viva, è forse l’unico, insieme a Forza Italia, ad avere le idee chiare sui principi che regolano il processo penale e sulla loro applicazione, troppe volte disattesa.

Che cosa fa la differenza tra il grido di un figlio che lamenta le sofferenze ingiuste inferte ai propri genitori e un programma politico sulla giustizia che prenda spunto dal fatto di cronaca che ti tocca da vicino, che incide sulla carne viva dei tuoi familiari, ma poi si allarga al mondo intero? La capacità di fare tue quelle ferite anche quando riguardano altri. Se sei un leader politico, la generosità di mettere il proprio corpo nel cilicio del circo mediatico-giudiziario quando questo colpisce l’avversario. O comunque l’altro da sé. Silvio Berlusconi, per esempio. A questo, Renzi non è ancora arrivato. Ma ha scritto un bellissimo libro, che si chiama Il Mostro, il che, per quelli meno giovani di lui, fa persino venire in mente Pietro Valpreda, accusato ingiustamente di essere l’autore della strage di Piazza Fontana.

Anche Berlusconi, insieme a Marcello Dell’Utri, è indagato per strage, per stragi mafiose addirittura, proprio dalla stessa Procura di Firenze che tanta attenzione sta continuando a dedicare al leader di Italia Viva. E il procuratore aggiunto Luca Turco, citato e stra-citato nel libro, è lo stesso che cerca di stringere il cappio dell’accusa per strage intorno al collo del presidente di Forza Italia. Matteo Renzi sa bene che ci sono almeno due modi di fare una cronaca. Facciamo un esempio. Una persona sta male, viene chiamata un’ambulanza, che arriva dopo venti minuti. Prima cronaca: l’ambulanza ha impiegato “ben” 20 minuti ad arrivare. La seconda: nonostante il traffico, in soli venti minuti la persona che stava male ha avuto assistenza. Le cronache sono state impietose nei confronti di Tiziano Renzi e Laura Bovoli, due perfetti sconosciuti finché quel bambino che avevano messo al mondo, diventato adulto, non arrivò, giovanissimo, a occupare lo scranno di Palazzo Chigi. E lo hanno pagato caro.

Come prima di loro tanti altri, dalle capriole di Mani Pulite in avanti. Capriole in costante violazione delle regole e delle procedure. Capriole del circo mediatico con i suoi saltimbanchi. Le cronache hanno presentato i genitori di Renzi al mondo dell’informazione e della politica come due truffatori che emettevano fatture false. È la vicenda giudiziaria per cui due giorni fa sono stati assolti dalla Corte d’appello di Firenze perché “il fatto non costituisce reato”. Ma sono passati sette anni da quel 2015 in cui la bomba giudiziaria fu fatta esplodere mentre Matteo Renzi era Presidente del consiglio. E benché ieri la notizia sia stata data su molte prime pagine, si capisce bene che, con tutto il rispetto possibile per il peso del leader di un piccolo partito, qualunque notizia giudiziaria, positiva o negativa, che riguardi la sua persona o la sua famiglia, oggi non può somigliare in nessun modo a una bomba, semmai a un piccolo petardo.

Matteo Renzi ha fatto benissimo a scrivere quel libro. Perché ha spiegato ai suoi sostenitori e anche, si spera, agli altri, il secondo modo in cui si può scrivere una storia. Prendiamo a esempio il ruolo del numero due della Procura di Firenze e leggiamo insieme un brano del libero. “Luca Turco inizia a occuparsi della famiglia Renzi solo dopo esser stato nominato procuratore aggiunto di Firenze dal Csm, in quota Magistratura democratica, sulla base di una votazione unitaria il cui regista è, ovviamente, Luca Palamara. Tutte le nomine di quei mesi si fanno solo con il consenso di Palamara”. Stiamo parlando di quello che era al momento il magistrato più potente d’Italia, quello cui telefonavano tutti coloro che ambivano a una promozione di carriera.

Poi seguivano incontri, cene e complotti di quelli che negli ambienti politici finiscono spesso con informazioni di garanzia. Tra magistrati non succede, perché raramente vengono perseguiti dai colleghi, a meno che non si tratti di Palamara, estratto dal cesto come unica mela marcia. Secondo la teoria di Renzi, il dottor Turco avrebbe aspettato di diventare procuratore aggiunto prima di muoversi nei confronti della sua famiglia. Così come il procuratore capo di Firenze Giuseppe Creazzo non si sarebbe scatenato se non dopo aver capito dall’atteggiamento di Palamara, ma anche degli uomini politici di sinistra legati a Renzi, cioè Luca Lotti e Cosimo Ferri, che non sarebbe diventato il numero uno degli inquirenti di Roma.

È da quel momento, si racconta nel libro, che colui che si era sempre mostrato “molto rispettoso, quasi ossequioso” nei confronti del presidente del consiglio, rompe gli indugi e chiede l’arresto di Tiziano Renzi e Laura Bovoli. Certo, il pm chiede e un giudice concede. Ma subito dopo il tribunale del riesame ha scarcerato i genitori dai domiciliari non ravvisando nessuna esigenza cautelare nell’inchiesta. Piccola vendetta, quindi?

Matteo Renzi, ovvero due modi di raccontare le storie. Con meriti e omissioni. Dimenticando nella memoria quel “game over” lanciato a cacciare Berlusconi dal Senato nel 2013, così come l’offerta al procuratore Nicola Gratteri del ruolo di ministro di giustizia. Senza la capacità di immedesimazione in quei cittadini calabresi, come per esempio l’avvocato Giancarlo Pittelli, da lui trattati proprio come altri pubblici ministeri hanno trattato i suoi genitori. Magari nel prossimo libro?

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

·        Maria Elena Boschi.

Estratto dell’intervista di Giovanni Terzi a Maria Elena Boschi per “Libero quotidiano” l'1 maggio 2022.  

[…] Maria Elena Boschi, da donna impegnata in politica, ha mai subìto pressioni, mobbing o stalking?

«Sì, purtroppo come a tante altre donne mi è capitato di essere vittima di stalking e in alcuni casi ho dovuto denunciare. Queste persone furono poi condannate. Non possiamo chiamarlo "stalking" ma da qualche giornalista ho subito una attenzione quasi persecutoria».

A chi si riferisce?

«Travaglio, per esempio, mi ha sempre dedicato attenzioni secondo me eccessive». 

Perché Travaglio?

«Un giorno feci fare una ricerca sulla mia presenza sul suo giornale...». 

E cosa ne scaturì?

«Che avevo più citazioni di Obama ...». 

Solo questo?

«Tornando seria le dico che ogni vignetta in cui venni rappresentata sul giornale Il Fatto» ero in modo discinto e mezza nuda. Così come nello spettacolo che fece in teatro l'attrice che doveva fare me era super svampita e provocante Insomma diciamo che non fu mai particolarmente gradevole”. […]

Il complesso giudiziario-mediatico. Le colpe dei figli e lo stantio odore di progetto eversivo (finalmente sventato). Christian Rocca su L'Inkiesta il 16 Giugno 2022.

A Renzi e Boschi hanno arrestato e martoriato i genitori, la cui unica responsabilità è sempre stata, ben prima delle assoluzioni, quella di aver concepito i due politici toscani che si erano messi in testa di cambiare il paese. La rappresaglia è stata una fetida campagna reazionaria che ha generato il bipopulismo italiano.

A Matteo Renzi hanno arrestato mamma e papà e a Maria Elena Boschi hanno martoriato il padre per sette anni. Nessuno dei genitori in questione ha fatto niente di male, tranne che aver concepito e cresciuto due ragazzi toscani che si erano messi in testa di cambiare l’Italia partendo da due paesini di provincia.

Non c’è mai stato bisogno di leggere i capi di imputazione, e adesso nemmeno le sentenze di assoluzione, per capire che si trattava di accuse-spazzatura prodotte dalla più fetida delle campagne reazionarie degli ultimi trent’anni. 

Questo breve riassunto di un ribaldo tentativo riformatore e di una conseguente rappresaglia reazionaria è già sufficiente a diagnosticare la catastrofe civile e morale del dibattito politico italiano di questi anni, ma in realtà a rimanerci sotto non sono stati soltanto i parenti di primo grado di Renzi e di Boschi. Il complesso giudiziario-mediatico ha mascariato infatti anche amici, compagni e finanziatori dei due e, una per tutti, anche la ministra in carica Federica Guidi, costretta a dimettersi, infangando le esistenze pubbliche e private di malcapitati che non erano soltanto innocenti ma anche estranei ai fatti contestati.

La feroce rappresaglia reazionaria che ha abbattuto il tentativo riformatore dei renziani ha corrotto anche il processo democratico nazionale e ha aperto la strada al più spaventoso bipopulismo antioccidentale, antidemocratico e antieuropeo che è arrivato fino al governo con l’obiettivo preciso di mutilare il Parlamento, di superare la democrazia rappresentativa, di sfaldare l’Unione europea, di indebolire la Nato, di consegnarsi a Putin e di scimmiottare quel Cialtrone in Chief che poi ha degnamente concluso il suo tragico mandato alla Casa Bianca assaltando il parlamento di Washington, tentando un colpo di stato e lasciando cinque morti sul campo e una ferita alla democrazia americana non ancora cicatrizzata.

La tortura mediatica nei confronti dei genitori di Renzi e di Boschi è stato il momento più osceno di una temperie eversiva e populista che, sopraggiunto il Covid e la necessità di ripristinare la normalità filo-europea per salvarci dall’epidemia e dalla crisi economica, ci avrebbe lasciati a terra stecchiti se proprio Matteo Renzi per ben due volte, prima facendo fesso Salvini al Papeete e poi mettendosi nel taschino Conte, non avesse fatto cadere con le armi della politica i due governi più scombinati e anti italiani della nostra storia recente per aprire, infine, la strada all’arrivo di Mario Draghi. 

(ANSA il 15 giugno 2022) - Tutti assolti, perché il fatto non sussiste, i 14 imputati del processo sul filone consulenze d'oro alla ex Banca Etruria. La sentenza è stata pronunciata dal giudice di Arezzo Ada Grignani. 

Al tribunale il pm Angela Masiello aveva chiesto il massimo della pena (1 anno) per Pierluigi Boschi, padre dell'ex ministro Maria Elena ed ex vicepresidente di Etruria, e per altri tre dirigenti cioè Luciano Nataloni, Claudia Bugno e Luigi Nannipieri. Per gli altri imputati erano state chieste condanne da 8 a 10 mesi. Ma il verdetto è di assoluzione con formula piena.

Gli imputati erano accusati di bancarotta colposa per una serie di consulenze commissionate dalla ex Banca Etruria per studiare l'ipotesi di fusione con un altro istituto di credito, che fu individuato nella Banca Popolare di Vicenza, ma poi l'operazione non andò in porto. 

Secondo l'accusa anche le consulenze aggravarono i conti di Banca Etruria e ne scaturì un filone complementare a quello 'generale' per bancarotta fraudolenta dedicato al crac dell'istituto di credito aretino. Il procuratore Roberto Rossi, che coordina il pool investigativo della procura di Arezzo su Banca Etruria, ha dichiarato dopo la lettura della sentenza: "Aspettiamo le motivazioni poi valuteremo se fare ricorso in appello".

Oltre alla richiesta di pena per 1 anno per Boschi senior, Luciano Nataloni, Claudia Bugno e Luigi Nannipieri, il pm aveva chiesto anche condanne di 8 mesi per Daniele Cabiati, Carlo Catanossi, Emanuele Cuccaro (ex vicepresidente) sui quali pendeva un capo di imputazione; di 9 mesi per Alessandro Benocci, Claudia Bonollo, Anna Nocentini Lapini, Giovanni Grazzini, Alessandro Liberatori e Ilaria Tosti (per loro due capi di imputazione); di 10 mesi per Claudio Salini (per tre capi di imputazione).

(ANSA il 15 giugno 2022) - "Oggi ho pianto. Avevo giurato a me stessa che non avrei mai pianto per Banca Etruria. Oggi l'ho fatto. E non ho paura di ammetterlo in pubblico. Ho pianto come una bambina, in ufficio, alla Camera. Ho pianto perché mio padre è stato assolto dall'ultima accusa che gli veniva mossa su Banca Etruria. 

Con oggi si chiude un calvario lungo sette anni. E si chiude nell'unico modo possibile: con la certezza che mio padre era innocente". Lo scrive in un post su Facebook Maria Elena Boschi, presidente dei deputati di Italia Viva, commentando l'assoluzione del padre Pier Luigi. "La verità giudiziaria non cambia niente per me: ho sempre saputo che mio padre è stato attaccato sui media e non solo per colpire altri.

Ma oggi la verità giudiziaria stabilisce ciò che io ho sempre saputo nel mio cuore: mio padre è innocente. E ora - aggiunge - lo sanno tutti, non solo la sua famiglia. Lo sa il popolo italiano, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Lo sanno le Istituzioni di questo Paese che io ho servito con dignità e onore. 

Lo sanno gli avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto. Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda. Lo sanno gli odiatori che mi hanno insultato spesso con violenza verbale e frasi sessiste nel silenzio complice e imbarazzato di tanti".

"Questa vicenda - sottolinea - ha segnato la mia vita e la mia carriera molto più di quanto uno possa pensare: ma le lacrime di oggi sono lacrime di gioia e di speranza. Perché nessuno debba subire quello che ha subito la mia famiglia. Combatterò per una giustizia giusta. E ringrazio quei tanti magistrati che in ogni angolo del Paese fanno prevalere il diritto sull'ingiustizia. Grazie a chi mi è stato vicino. Ti voglio bene babbo".

(ANSA il 15 giugno 2022) - "E' stato riconosciuto quello in cui abbiamo sempre creduto. Spero che questo sia l'ultimo procedimento a carico di Pierluigi Boschi. Il fatto di portare quel nome ha pesato sul mio assistito ma per fortuna c'è un lieto fine". Lo ha detto Gildo Ursini, difensore dell'ex vicepresidente di Banca Etruria Pierluigi Boschi, padre dell'ex ministro Maria Elena, commentando la sentenza di assoluzione per tutti i 14 imputati accusati di bancarotta per il filone consulenze d'oro nel crac di Banca Etruria.

Secondo l'avvocato Alessandro Traversi, difensore di cinque componenti dell'ex cda di BancaEtruria, "la sentenza dimostra come gli imputati, nell'ambito del loro lavoro, abbiano fatto solo quanto richiesto. 

Il giudice ha riconosciuto che il dissesto non è stato determinato dalle consulenze d'oro ma da altre scelte gestionali risalenti nel tempo, che è stato dimostrato nel processo che i consulenti hanno applicato tariffe inferiori a quelle di mercato, che i nostri assistiti hanno cercato di salvare la situazione seguendo le indicazioni date da Banca d'Italia, che suggeriva di trovare un altro istituto 'di adeguato standing' con cui attivare una fusione". 

Per l'avvocato Giovanna Corrias Lucent , difensore di Claudio Salini, "giustizia è stata fatta, del resto gli amministratori di Banca Etruria avevano seguito indicazioni precettive della Banca d'Italia, che aveva monitorato il processo di aggregazione, considerato come unica soluzione alla crisi dell'istituto".

La sentenza e le reazioni. Tutti assolti per le ‘consulenze d’oro’ di Banca Etruria, tra i 14 imputati anche papà Boschi: “Finisce calvario lungo 7 anni”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 15 Giugno 2022. 

Le indagini sulle cosiddette “consulenze d’oro” di Banca Etruria finiscono in un flop. Il tribunale di Arezzo ha assolto perché “il fatto non sussiste” i 14 imputati a processo per questo filone di indagini sul crac dell’istituto di credito, fallito nel 2015 dopo la messa in risoluzione con il decreto salvabanche.

Ad emettere la sentenza oggi, dopo una breve camera di consiglio, è stato il giudice Ada Grignani. Alla sbarra c’era tra gli altri anche Pier Luigi Boschi, all’epoca dei fatti vicepresidente di Banca Etruria, padre della capogruppo di Italia Viva alla Camera Maria Elena Boschi, che 7 anni fa venne travolto dalla polemiche e da campagne di stampa proprio per il ruolo del padre nel fallimento della banca.

La procura aveva chiesto per il reato di bancarotta semplice condanne dagli otto mesi a un anno nei confronti degli ex consiglieri del cda ed ex dirigenti dell’istituto di credito aretino. Il tribunale invece ha assolto tutti, con il procuratore capo Roberto Rossi che ha annunciato l’intenzione di proporre appello contro la decisione.

Per Boschi il sostituto procuratore Angela Masiello durante la requisitoria aveva chiesto la condanna a 12 mesi, così come perLuciano Nataloni, Claudia Bugno e Luigi Nannipieri. Per le altre posizioni erano stati chiesti otto mesi per Daniele Cabiati, Carlo Catanossi, Emanuele Cuccaro; nove mesi per Alessandro Benocci, Claudia Bonollo, Anna Nocentini Lapini, Giovanni Grazzini, Alessandro Liberatori e Ilaria Tosti; dieci mesi per Claudio Salini.

Le accuse smontate

Nel mirino della procura aretina erano finite le “consulenze d’oro” pagate dalla banca per avviare il processo di fusione tra Etruria e Banca Popolare di Vicenza, operazione che poi non si concretizzò. Per verificare le prospettive di una fusione, i vertici di Banca Etruria secondo quanto appurato dalle indagini affidarono incarichi per circa 4 milioni e mezzo di euro, in un arco temporale compreso tra il giugno e l’ottobre 2014, a grandi società, come Medio banca, o conosciuti studi legali di Roma, Milano e Torino.

Stando all’accusa quella dei vertici dell’istituto di credito fu una condotta imprudente, con i vertici della banca che non avrebbero vigilato sulla redazione di quelle consulenze, ritenute dagli inquirenti in gran parte “inutili” e “ripetitive”.

Accuse respinte dai legali degli imputati, che hanno sempre sostenuto che che non ci furono “operazioni imprudenti, piuttosto un’azione doverosa rispetto a quanto chiesto da Banca d’Italia“, e per questo i vertici di Banca Etruria si erano mossi affidando ai migliori advisor d’Italia le consulenze.

La reazione dei Boschi

Ovviamente soddisfatto Pier Luigi Boschi, come spiega all’AdnKronos il suo legale, l’avvocato romano Gildo Ursini: “Il mio assistito ha sempre creduto nella giustizia nella convinzione di non aver fatto mai nulla di male ed ha dovuto subire comunque questa prova“.

Con questa assoluzione, Boschi “ha chiuso tutte le pendenze legate alle vicende di Banca Etrutia“, ha precisato Ursini. L’avvocato ha comunicato telefonicamente a Boschi l’assoluzione. “Si è sentito naturalmente sollevato da questa sentenza“.

Ma le parole più dure sono quelle di Maria Elena Boschi, che sui social ha ricordato il travaglio subito in questi anni dalla sua famiglia, sottolineando come ha accolto con un piano la notizia dell’assoluzione del padre. “Avevo giurato a me stessa che non avrei mai pianto per Banca Etruria. Oggi l’ho fatto. E non ho paura di ammetterlo in pubblico. Ho pianto come una bambina, in ufficio, alla Camera – scrive la capogruppo di IV – Ho pianto perché mio padre è stato assolto dall’ultima accusa che gli veniva mossa su Banca Etruria. Con oggi si chiude un calvario lungo sette anni. E si chiude nell’unico modo possibile: con la certezza che mio padre era innocente. La verità giudiziaria non cambia niente per me: ho sempre saputo che mio padre è stato attaccato sui media e non solo per colpire altri. Ma oggi la verità giudiziaria stabilisce ciò che io ho sempre saputo nel mio cuore: mio padre è innocente. E ora lo sanno tutti, non solo la sua famiglia”. 

“Lo sa il popolo italiano, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Lo sanno le Istituzioni di questo Paese che io ho servito con dignità e onore. Lo sanno gli avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto. Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda. Lo sanno gli odiatori che mi hanno insultato spesso con violenza verbale e frasi sessiste nel silenzio complice e imbarazzato di tanti – aggiunge Boschi -. Questa vicenda ha segnato la mia vita e la mia carriera molto più di quanto uno possa pensare: ma le lacrime di oggi sono lacrime di gioia e di speranza. Perché nessuno debba subire quello che ha subito la mia famiglia. Combatterò per una giustizia giusta. E ringrazio quei tanti magistrati che in ogni angolo del Paese fanno prevalere il diritto sull’ingiustizia. Grazie a chi mi è stato vicino. Ti voglio bene babbo”, conclude Boschi.

“Oggi molti avversari politici, ospiti dei talk, odiatori dovrebbero mettersi in fila e dire una cosa sola: scusa. Non lo faranno. Ma quello che è sempre più chiaro è che i mostri non eravamo noi. Un abbraccio a tutta la famiglia Boschi“, scrive invece su Facebook il leader di Italia Viva Matteo Renzi l’assoluzione del padre di Maria Elena Boschi.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Boschi: «Gogne, sessismo e fango contro di noi. Di Maio si scusi». Intervista a Maria Elena Boschi: «Contro me e mio padre il peggio. All’esterno volevo far vedere che tutto era sotto controllo. Ma la rabbia, lo stress, il dolore ti consumano».  Valentina Stella su Il Dubbio il 16 giugno 2022.

È il giorno del riscatto per l’onorevole Maria Elena Boschi, avvocato e Presidente dei Deputati di Italia Viva. Per anni televisioni e giornali hanno condannato, prima che la giustizia facesse il suo corso, suo padre Pier Luigi. Nell’attesa la vicenda ha segnato profondamente la sua vita e la sua carriera. Ma ieri finalmente suo padre è stato assolto “perché il fatto non sussiste”. Era finito a processo insieme ad altri 14 imputati, assolti pure loro, per il crac di Banca Etruria nell’ambito del filone di indagine sulle cosiddette consulenze d’oro. L’esito processuale le permette di liberarsi di tanto dolore e di sfogarsi lucidamente: «Hanno cercato di distruggermi la vita personale e la carriera: oggi hanno perso». E va all’attacco di Di Maio e di Travaglio.

Quanta sofferenza c’era dietro quel pianto che ha fatto dopo aver saputo dell’assoluzione di suo padre?

Tanta. Inutile girarci intorno: ci sono stata male, ci siamo stati male. All’esterno volevo far vedere che tutto era sotto controllo. Ma la rabbia, lo stress, il dolore ti consumano. Però c’è anche la gioia, da avvocato e da politica, nel vedere la giustizia affermarsi sul giustizialismo becero di tanti, in primis i grillini, che mi hanno letteralmente massacrato. Hanno cercato di distruggermi la vita personale e la carriera: oggi hanno perso. Le lacrime sono liberatorie. Credo che il Movimento Cinque stelle dovrebbe fare una profonda riflessione su come ha esasperato il rapporto tra politica e giustizia. Il fatto che la loro scomparsa politica sia imminente non dovrebbe impedire loro una severa autocritica.

A proposito di questo, Lei nel suo lungo post ha fatto riferimento anche agli «avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto». Attende le scuse da qualcuno?

Le vorrei da tutti. Non me le sta facendo nessuno. Se dovessi dire un nome direi Luigi di Maio. Ultimamente si è scusato con tutti, da Mattarella all’ex sindaco di Lodi Uggetti. Non so se ricorda cosa ha detto e cosa ha fatto dire di me. Ma forse ha rimosso per liberarsi un peso dalla coscienza.

Finisce un calvario giudiziario durato anni. Secondo lei da cosa è dipeso? Fisiologico che si possa essere accusati e poi assolti o come ha detto l’avvocato di suo padre: «Il fatto di portare quel nome ha pesato sul mio assistito ma per fortuna c’è un lieto fine»?

Mio padre ha avuto degli ottimi legali, tra cui Gildo Ursini, che ringrazio di cuore da collega prima che da cittadina. Ma ha avuto anche degli ottimi magistrati. I giudici bravi sono la maggioranza in questo Paese. Ciò che dovrebbe far riflettere è come il sistema dell’informazione abbia seguito la barbarie social e l’ignoranza grillina (e non solo grillina) nei talk, nei commenti, nel dibattito pubblico. Gli scandali bancari erano altrove, da Vicenza a Siena: l’attacco ad Arezzo serviva per creare un diversivo e per massacrare una delle figure più riconoscibili del renzismo.

Oltre ad un calvario giudiziario termina anche quello mediatico. Lei ha scritto che ora tutti sanno che suo padre è innocente. «Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda». Cosa le ha fatto più male in tutti questi anni?

La violenza verbale, le minacce, gli insulti, le allusioni, il sessismo. E purtroppo non tutti i media si sono comportati in modo intellettualmente onesto. Anche qui mi piacerebbe che l’ordine dei giornalisti facesse una verifica se non un’autocritica: essere i controllori del potere è giusto e doveroso. Essere gli alfieri a reti unificate di un giustizialismo interessato no. Ma io sono ancora qui, forte e fortunata. E felice per i miei genitori che non vedo l’ora di abbracciare.

Il suo collega di partito Anzaldi ha detto «ora la Rai, che negli anni scorsi ha dedicato aperture dei telegiornali, puntate di talk show, approfondimenti e interviste a questa vicenda, ha il dovere di dare all’assoluzione almeno lo stesso risalto». Vale anche per il Fatto Quotidiano?

Non lo farà la Rai. Meno che mai il Fatto Quotidiano. Mi fa sorridere la motivazione dell’assoluzione: il fatto non sussiste. Ma Il Fatto Quotidiano invece continua a sussistere, acciaccato dai risarcimenti danni certo ma sempre ricolmo di odio ad personam. In un Paese civile qualcuno dovrebbe chiedere conto ai vostri colleghi di ciò che è stato scritto. È mai possibile che chi ha ricevuto plurime condanne per diffamazione continui a pontificare in televisione come opinionista tutte le sere? Eppure sembra che questa cosa non sia importante ma incide molto sulla qualità della nostra democrazia.

Matteo Renzi ha scritto commentando l’assoluzione: «I mostri non eravamo noi». Chi sono allora i veri mostri?

Chi ha sfruttato il giustizialismo contro la giustizia. Ho letto il libro di Renzi e ho fatto un esercizio: ho tolto il suo nome, cercando di fingere di non essere parte di quella storia. Da avvocato mi sono indignata e preoccupata. Siamo stati dipinti come mostri ma non eravamo noi, i mostri. E certo non lo è mai stato mio padre.

«Combatterò per una giustizia giusta», ha scritto. Dopo il fallimento dei referendum, da dove si riparte?

Dal Parlamento. Ma anche da quei sette milioni di italiani – non pochi, mi creda – che hanno sfidato il caldo per dire Sì alla giustizia giusta. Dobbiamo dare una casa a questo popolo garantista. Dobbiamo farlo presto.

Lei ieri ha aperto a Carlo Calenda: la giustizia potrebbe essere un punto di incontro solido per il centro riformista?

Speriamo. Calenda un giorno apre, un giorno chiude, un giorno mette veti, un giorno rilancia. Quest’area politica è molto più grande di Calenda, di Renzi, di tutti noi: è uno spazio politico che c’è. Non costruirlo oggi sarebbe il più grande regalo ai sovranisti e ai populisti. Noi abbiamo mandato a casa Salvini nel 2019 e Conte nel 2021, pagando un prezzo personale altissimo. Non vogliamo restituire a quei due centralità politica solo per piccole ambizioni personali. Auspico che Calenda lo capisca. E comunque non c’è solo Calenda, fortunatamente.

Sessismo e manette. Come Travaglio e gli altri hanno infamato Boschi. Il caso Etruria è stata la madre di tutte le gogne mediatiche. E dopo le assoluzioni non sono arrivate neanche le scuse. Valentina Stella su Il Dubbio il 17 giugno 2022.

Come si costruisce una gogna politica e mediatica? È molto semplice, si tratta del combinato disposto di vari elementi, tutti letali se non si ha una spessa corazza: titoloni urlati di giornali, vignette sessiste, martellamento social per aizzare i propri hater, il tutto condito da un quantitativo non indifferente di disinformazione.

È quanto è accaduto in questi ultimi anni a Maria Elena Boschi, Presidente dei deputati di Italia Viva, e alla sua famiglia. Nell’intervista in cui ha commentato l’assoluzione di suo padre Pier Luigi, per il crac di Banca Etruria nell’ambito del filone di indagine sulle cosiddette consulenze d’oro, ci ha raccontato proprio di aver subìto «la violenza verbale, le minacce, gli insulti, le allusioni, il sessismo». E ha puntato il dito contro gli avversari politici, in primis il Movimento Cinque Stelle, e contro il suo house organ, ossia il Fatto Quotidiano. Ma cosa davvero hanno scritto e detto?

Rievochiamo qualche ricordo. Luigi Di Maio maggio 2017: «Maria Elena Boschi se ne deve andare assieme al renzismo che ha infettato le istituzioni democratiche di questo Paese». Ottobre 2017: « Quando fanno lo show mediatico su Visco e Banca d’Italia per fare vedere che vogliono tutelare i risparmiatori si devono ricordare che quando hanno governato non solo hanno favorito le banche, ma in 20 minuti hanno fatto un decreto per salvare la banca della Boschi e mandare sul lastrico migliaia di risparmiatori». Sempre lui lo stesso anno ma a dicembre: Boschi «si deve dimettere: sarebbe il minimo sindacale. Qui però deve andare a casa una intera classe politica, quella della seconda Repubblica che voleva cambiare il Paese ma ha tradito gli italiani. È una classe politica che sulle banche ha lucrato e fatto affari mandando sul lastrico centinaia di migliaia di persone».

Alessandro Di Battista nel 2015, nella sua dichiarazione di voto sulla mozione di sfiducia: «Ministro Boschi: le porto l’indignazione di un popolo intero. Lei è venuta qui e ci ha fatto un bel discorso pieno anche di pietismo e compassione, raccontandoci anche del passato di alcuni componenti della sua famiglia, non abbiamo visto né da parte sua né da parte del PD lo stesso pietismo e compassione verso migliaia di cittadini truffati dal decreto salvabanche»; poi nel 2017: «La Boschi può dimettersi, non dimettersi, può inchiodarsi ancor di più alla poltrona. Può fare tutto insomma ma politicamente è morta, ad uccidere la sua credibilità sono state le sue stesse menzogne, la sua arroganza, i suoi puerili tentativi di sviare l’attenzione parlando di sessismo nel momento in cui erano palesi i suoi comportamenti indecenti!». E ancora nel 2018 durante la campagna elettorale: «Stasera, per il mio ultimo comizio, sarò a Laterina, nella terra della Boschi. Speravo di trovarla ma l’hanno vestita da Heidi e ora sarà in qualche malga a fare ciao alle caprette, dopo aver fatto ‘ciaone’ ai risparmiatori di Banca Etruria». Beppe Grillo, il primo gennaio 2016 pubblicò sul suo blog un pezzo dal titolo «Person of the Year 2015: Pier Luigi Boschi» e lo iniziò così: «Il papà della Boschi è l’uomo dell’anno. È riuscito là dove hanno fallito Arsenio Lupin e Luciano Lutring, il solista del mitra. Al posto delle armi ha usato le micidiali obbligazioni subordinate».

Potremmo continuare ma lo spazio ci limita e dobbiamo passare dalla gogna politica a quella mediatica, che ha trovato una delle massime espressioni sul Fatto Quotidiano, a partire dalle vignette di Mannelli e Vauro per finire agli editoriali al veleno di Marco Travaglio. Il direttore non ci è andato mai leggero con la Boschi. Ricordate questo famoso tweet: «Il primo modo di dire del 2021 è “avere la faccia come la Boschi”. Sempreché la faccia ampiamente rielaborata che domina le 87 interviste rilasciate nell’ultimo mese appartenga davvero alla deputata renziana che nel 2016 annunciò solennemente il ritiro dalla politica in caso di sconfitta al referendum». Ma è tragicomico quanto scrisse ad agosto 2020: «Ogni tanto, ciclicamente, Maria Etruria Boschi comunica a un pubblico sempre più esiguo e disinteressato che suo padre è stato assolto da tutto. Poi frigna perché nessuno chiede scusa. L’ha ridetto l’altroieri dopo l’archiviazione del babbo Pier Luigi in uno dei vari filoni d’indagine aperti dalla Procura di Arezzo sul crac di Banca Etruria, di cui il genitore fu consigliere d’amministrazione e vicepresidente. Intanto il babbo martire resta imputato per bancarotta, rinviato a giudizio il 29 dicembre con altri 13 ex dirigenti per le consulenze milionarie concesse per trovare un partner a Etruria».

E ora che è stato assolto nuovamente, cosa dice Travaglio? Ah giusto nulla, infatti ieri Il Fatto ha dedicato solo un trafiletto a pagina 14 all’assoluzione del padre della Boschi. Pensate cosa sarebbe accaduto se fosse stato condannato! E poi i soliti ‘Ma mi faccia il piacere’ nel 2018: «Etruria, per Boschi senior il pm chiede l’archiviazione: ‘Non ingannò i risparmiatori’ (Repubblica). Furono i risparmiatori ad ingannare lui». Nel 2017 Travaglio terminò così un articolo: «Se Boschi&Renzi non l’hanno presente, conosceranno almeno il giuramento prestato sulla Costituzione al Quirinale: “Giuro di essere fedele alla Repubblica, di osservare lealmente la costituzione e le leggi e di esercitare le mie funzioni nell’interesse esclusivo della Nazione”. Non di Etruria, degli orafi aretini e del sederino del babbo». Che stile!

Le lacrime dell'ex ministra andavano asciugate prima. Papà Boschi innocente, dalle “consulenze d’oro” a l’ennesimo suicidio giudiziario: Grillini e Travaglio chiederete scusa? Tiziana Maiolo su Il Riformista il 16 Giugno 2022.

“Il fatto non sussiste”. Ci risiamo, vien da dire. Un altro processo che non avrebbe dovuto neanche iniziare. Dopo Eni, dopo Mps, è la volta di Banca Etruria, con quattordici imputati assolti nel filone che, nella propaganda moralistica in salsa grillina, veniva chiamato processo delle “consulenze d’oro”. Non dovremmo neanche dirlo, perché il fatto è stato usato in chiave scandalistica ai tempi dell’inchiesta, ma tra gli imputati oggi assolti c’è pure Pierluigi Boschi, il padre di Maria Elena. La quale affida il suo pianto di gioia a Facebook, ma di cui ricordiamo la voce rotta mentre in Parlamento, da ministra del governo Renzi, fu chiamata in una schifosa gogna istituzionale, a giustificare quella parentela e a render conto di comportamenti del tutto legittimi. Nel frattempo suo padre è già stato assolto dall’accusa più grave, la bancarotta fraudolenta. Ma restava ancora aperto il filone d’inchiesta che si è appena concluso.

Bancarotta colposa, era l’imputazione elevata ai quattordici ieri assolti, dal pool coordinato dal procuratore capo Roberto Rossi. Il quale, come di consueto fanno i rappresentanti dell’accusa quando perdono un processo, sta già pensando a ricorrere in appello. Del resto la legge lo consente nell’anomalia tutta italiana, e a maggior ragione dopo che la Corte Costituzionale ha bocciato la “riforma Pecorella” che rendeva definitiva la sentenza assolutoria di primo grado. Naturalmente il pudore impone che prima si leggano le motivazioni con cui la giudice di Arezzo Ada Grignani ha respinto le richieste di condanna della Procura e stabilito che in tutti questi anni, a partire dal 2015, sono state svolte attività investigative inutili e costose, potremmo dire “d’oro”, parafrasando il titolo dato all’inchiesta. Le parole dell’avvocato Luca Fanfani, difensore di uno degli imputati, il vicedirettore generale dell’Istituto, Emanuele Ceccaro, spazzano via ogni ambiguità nella ricostruzione dei fatti, per come è andata. È andata così: “…nel momento in cui Banca d’Italia nel dicembre 2013 impone a Banca Etruria di trovare altro istituto con cui fondersi, la obbliga, va da sé, ad accollarsi ingenti spese per advisor legali finanziari e industriali, esattamente le spese contestate dalla procura. Una conclusione ovvia per un processo largamente inutile”.

Liscio come l’olio, direbbero i nostri nonni. Ma siamo nel 2022, e, pur se abbiamo perso i referendum sulla giustizia, ci stiamo finalmente liberando di quella cappa moralistica dell’ “uno vale uno” che è partita, prima ancora che nei comizi di Beppe Grillo, negli uffici di certe Procure. Come non prendere di mira, quindi, quelle consulenze che erano state affidate da Banca Etruria a una serie di advisor, nel momento in cui Banca d’Italia aveva imposto la fusione con un istituto di elevato standing, che venne individuato con la Banca Popolare di Vicenza? Un’operazione fallimentare e che non andrà in porto, purtroppo. Ma gli antichi ci hanno insegnato che il lavoro va retribuito e le professionalità valorizzate. Fuori dal mondo dove “uno vale uno”, cioè probabilmente tutti quanti valgono poco, naturalmente. Quindi gli incarichi affidati, tra giugno e ottobre 2014, a grandi società come Mediobanca, oltre che a studi legali di Milano Roma e Torino considerati i più competenti nel settore, costarono circa quattro milioni di euro. Una cifra consistente? Certo. Tanto quanto ingente e delicato immaginiamo sia stato l’impegno dei professionisti che si dedicarono a quegli incarichi.

La procura di Arezzo l’ha pensata diversamente. I vertici di Banca Etruria avrebbero tenuto un comportamento imprudente e non avrebbero vigilato a sufficienza sui contenuti delle consulenze, ritenute in gran parte “inutili” e “ripetitive”. Qui entriamo nel regno dell’assurdo, in quel filone ormai palese a tutti di quanto pericoloso, anche per la democrazia, sia questo eccesso di giurisdizione che ha avuto, nell’arco di trent’anni, la Procura di Milano come capofila e guida. E le cui ultime inchieste, i grandi scandali, mattoncino dopo mattoncino, sono state demolite dai giudici e dai tribunali. Con il paradosso del caso dell’ultimo procuratore emblema del “rito ambrosiano”, Francesco Greco, una volta sospettato di inerzia, nel caso della Loggia Ungheria, ma poi di una sorta di “accanimento assolutorio”, in polemica con la procura generale sul nuovo corso di Mps, quello voluto dal Presidente del consiglio Matteo Renzi. Ma al contempo accusato di un vero accanimento rispetto ai vertici di Eni. Quel che colpisce è che mai nessuno abbia riconosciuto al capo della Procura più conosciuta d’Italia quella mitica “cultura della giurisdizione” continuamente invocata dai vertici del sindacato dei magistrati, nonché alcuni prestigiosi ex procuratori, nell’argomentare la propria contrarietà alla separazione delle carriere. Persino delle funzioni.

La celebrazione di tanti processi inutili, che vengono liquidati da un’ora di camera di consiglio, tanto sono semplici le conclusioni che rispecchiano qualcosa di palese fin da subito, è proprio la conferma della debole “cultura della giurisdizione” dei pubblici ministeri. Soprattutto quelli che avviano indagini clamorose che coinvolgono personaggi politici o del mondo economico, finanziario e bancario. È successo ieri agli ex dirigenti di Banca Etruria, è la storia che ha coinvolto per due anni il Presidente della Regione Lombardia Attilio Fontana, e capiterà ancora. A meno che. Reggerà, ci domandiamo, quella parte della riforma della ministra Cartabia che impone la ragionevole previsione di condanna come presupposto di ogni richiesta e poi rinvio a giudizio? È una bella scommessa. Anche perché difficilmente la forma delle regole processuali, che deve essere necessariamente fredda come un cubetto di ghiaccio, trova poi riscontro nella concretezza di ogni caso quotidiano.

Avranno quindi la forza di resistere al clamore mediatico i magistrati che saranno chiamati ad applicare quella norma? E i politici? Nei casi della vita, specialmente i più spinosi, come quello che ha investito non certo di striscio ma direttamente e in modo impetuoso Maria Elena Boschi, spesso si finisce per dimenticare magari anche quel che si è appena approvato in commissione, alla Camera o al Senato. Si dimenticano i codici e anche il garantismo. Non è strano che nella giornata di ieri, proprio mentre al Senato sono in discussione le norme di riforma del processo penale proposte dalla ministra Cartabia, le agenzie di stampa sfornassero le solidarietà nei confronti dell’ex ministra Boschi che portavano le firme solo dei suoi amici? Lasciamo perdere il capo del Movimento cinque stelle Marco Travaglio che, alla notizia delle assoluzioni supponiamo stia organizzando l’ennesimo suicidio di massa della redazione del Fatto quotidiano.

Ma è mai possibile che, dopo quanto ha sofferto in questi sette anni e dopo che ha avuto il coraggio di dichiarare il proprio pianto, al fianco di Maria Elena Boschi troviamo solo Renzi, Marcucci, Nardella e pochi altri, cioè i suoi amici? Dovrebbero esserci 625 deputati. Se è vero, come noi pochi (ma buoni) pensiamo, che il vento del garantismo comincia a spirare, vogliamo deciderci a batterci per i diritti degli altri, compresi, anzi prima di tutto, quelli che detestiamo politicamente? Aspettiamo quindi la fila di quelli che chiedono scusa, guidata da Luigi Di Maio (l’unico coraggioso finora), ma anche da quelli della sinistra che “le riforme si fanno in Parlamento, non con i referendum”. Quante volte sentiremo Enrico Letta dire che un certo processo non si doveva neanche cominciare? Magari nei confronti di Silvio Berlusconi o Matteo Salvini. O anche, con la gogna, contro Maria Elena Boschi. Perché in ogni caso le lacrime dovevate asciugargliele prima, cari compagnucci.

Tiziana Maiolo. Politica e giornalista italiana è stata deputato della Repubblica Italiana nella XI, XII e XIII legislatura.

Gogna Boschi ma adesso talk e haters non diranno nulla dopo violenza e frasi sessiste. Maria Elena Boschi su Il Riformista il 16 Giugno 2022.  

Oggi ho pianto. Avevo giurato a me stessa che non avrei mai pianto per Banca Etruria. Oggi l’ho fatto. E non ho paura di ammetterlo in pubblico. Ho pianto come una bambina, in ufficio, alla Camera. Ho pianto perché mio padre è stato assolto dall’ultima accusa che gli veniva mossa su Banca Etruria. Con oggi si chiude un calvario lungo sette anni. E si chiude nell’unico modo possibile: con la certezza che mio padre era innocente. La verità giudiziaria non cambia niente per me: ho sempre saputo che mio padre è stato attaccato sui media e non solo per colpire altri. Ma oggi la verità giudiziaria stabilisce ciò che io ho sempre saputo nel mio cuore: mio padre è innocente. E ora lo sanno tutti, non solo la sua famiglia.

Lo sa il popolo italiano, nel cui nome la sentenza è stata pronunciata. Lo sanno le Istituzioni di questo Paese che io ho servito con dignità e onore. Lo sanno gli avversari politici che mi hanno chiesto le dimissioni per reati che mio padre non aveva fatto. Lo sanno i talk che hanno fatto intere trasmissioni contro di me e di noi e che non dedicheranno spazio a questa vicenda. Lo sanno gli odiatori che mi hanno insultato spesso con violenza verbale e frasi sessiste nel silenzio complice e imbarazzato di tanti.

Questa vicenda ha segnato la mia vita e la mia carriera molto più di quanto uno possa pensare: ma le lacrime di oggi sono lacrime di gioia e di speranza. Perché nessuno debba subire quello che ha subito la mia famiglia. Combatterò per una giustizia giusta. E ringrazio quei tanti magistrati che in ogni angolo del Paese fanno prevalere il diritto sull’ingiustizia. Grazie a chi mi è stato vicino. Ti voglio bene babbo. Maria Elena Boschi

·        Matteo Richetti.

(ANSA il 19 settembre 2022) "Un'operazione politica, ordita per danneggiare me come candidato, e soprattutto la lista Azione-Italia Viva-Calenda a pochi giorni dal voto". Così Matteo Richetti, presidente di Azione, commenta il servizio di Fanpage su sue presunte molestie ai danni di una donna negli uffici del Senato. In un lungo comunicato stampa scrive che la giornalista, autrice dell'inchiesta, "ha contattato Azione per la prima volta lo scorso aprile" dopo aver ricevuto alcuni dossier, ma "sorprendentemente, la vicenda è stata tirata fuori solo una settimana prima delle elezioni".

"Gli articoli di Fanpage - prosegue - hanno omesso qualsiasi riferimento ai procedimenti penali per stalking e diffamazione avviati da altre persone negli anni passati nei confronti della mia accusatrice, uno dei quali sfociato in una condanna a 4 anni". 

Richetti accusa la testata "di nascondere all'opinione pubblica elementi di valutazione essenziali per fornire una versione unilaterale e faziosa della storia". Il senatore evidenzia poi "l'assenza di qualsiasi verifica" su messaggi "falsamente attribuiti" alla sua persona. In conclusione, annuncia di aver già dato mandato ai suoi legali "di agire in sede civile, penale e disciplinare nei confronti di fanpage e di tutti i soggetti coinvolti in questa vicenda".

Da fanpage.it il 16 settembre 2022.

La storia che raccontiamo è quella di una vittima che si è rivolta a noi per denunciare un abuso sessuale da parte di un senatore della Repubblica, candidato alle prossime elezioni e ai piani alti di uno dei principali partiti di questa campagna elettorale. Quella che leggerete è la versione dei fatti dal punto di vista della vittima, che non ha sporto denuncia alle autorità. Dopo mesi di indagini, siamo entrati in possesso di documenti, tra cui chat, audio e mail che coinciderebbero con il suo racconto e per questo riteniamo opportuno raccontarlo. 

Dentro i palazzi delle istituzioni, lungo i corridoi labirintici del potere, si allunga un'ombra. Tutti lo sanno, ma nessuno ne parla, o quasi. Perché basta una voce – che ne nasconde altre – per rendere tutto più chiaro: è il me too della politica. 

Un senatore piuttosto noto e una giovane donna diventano i protagonisti di una storia che si consuma a qualche metro da Palazzo Madama. Una storia che doveva essere l’inizio di un rapporto professionale, ma che in breve si è trasformata in sopraffazione e paura. Una storia che in fretta è diventata una violenza.

Novembre 2021. Ambra – nome di fantasia – decide di avvicinarsi alla politica. Non è così estranea a quel mondo, ma ha sempre mantenuto le distanze. Stavolta, però, sceglie di darsi un’opportunità e si avvicina a un partito che le sembra diverso dagli altri. Dentro c’è un uomo, considerato avvenente, che i palazzi del potere li bazzica da anni e che oggi riveste il ruolo di senatore della Repubblica italiana, per un partito di cui si sente parlare tutti i giorni. 

Dopo un primo scambio, lui sembra interessato al profilo professionale di lei: conosce diverse lingue, è ferrata in politica estera. Un curriculum apprezzato dal senatore che la invita a un primo incontro presso la sede del partito. Non distante dal Senato, il parlamentare accoglie l’aspirante politica, che, esaltata dal momento, non si sofferma troppo su quello che le succede intorno. Non può, però, non notare che una delle assistenti si avvicina all’ufficio e, sorridente, ricorda al senatore che la porta della stanza sarebbe dovuta restare aperta durante l’incontro.

Già nel primo incontro, però, c’è altro che non quadra: “Sai, se vuoi stare accanto a me nel partito, dovrai cambiare il tuo modo di vestire, il tuo modo di porti, di camminare”. Le richieste del senatore stonano con il contesto: “Sarai nell’occhio del ciclone, perché io sono uno molto chiacchierato”, le dice. 

“Non passarmi così vicino, sono pur sempre un maschietto”, continua. Ambra inizia a sentirsi a disagio, ma pensa che forse è quello il prezzo da pagare per continuare a stare in quell’ambiente: qualche battuta fuori luogo non ferma la sua voglia di riuscire a portare a casa quell’incarico. I due si lasciano con la promessa di lui: “C’è spazio per te, rivediamoci”. “Io ho creduto che a loro mancasse qualcuno che conoscesse le lingue e avesse competenza in materia estera. È comunque un partito che punta molto sulle donne e sui giovani, ne fanno dei cavalli di battaglia. Ho pensato che avesse visto in me una figura vincente”, ci dice Ambra.

Una volta lasciato l’ufficio, però, Ambra inizia a ricevere messaggi dal senatore. Messaggi ambigui, con riferimenti sessuali espliciti. Alla sua compostezza, lui risponde con allusioni travestite di ironia. Nelle chiamate continue che le fa – anche dall’aula – le chiede dei suoi ex, di cancellare alcune foto dal web, si fa sempre più presente e pressante. Lei, intanto, cerca sempre di spostare l’argomento, gli chiede quando può iniziare a fare attivismo, gli parla dei suoi progetti, che, però, si schiantano contro intenzioni ben diverse. 

Alla fine il senatore le dà un altro appuntamento, alle ore 15 di martedì 16 novembre, nel suo ufficio, quello istituzionale, nell’edificio che guarda Palazzo Madama e in cui l’onorevole svolge le sue mansioni di parlamentare. Ma non stavolta, perché è qui che si consuma velocemente la storia che Ambra denuncia. Il senatore la invita a sedersi su un divanetto, prende il telefono e chiama uno dei vertici del partito: “Ho qui la persona che ti sostituirà”, dice, e dopo averla riempita di complimenti, riattacca. È in quel momento che Ambra capisce il ricatto: “Ho fatto quello che volevi, adesso tocca a te”, le dice.

Senza nemmeno darle il tempo di metabolizzare, il senatore la bacia. Quello che succede dopo è un’inesorabile discesa verso la violenza. Quando lei trova la forza di staccarsi, si allontana da lui e va verso la finestra, ma lui la raggiunge e le mette le mani sotto la gonna. Fino a toccarle le parti intime. 

Ambra non ci sta, toglie le mani del senatore da sotto la sua gonna e va via. È entrata in quell’ufficio con l’ambizione politica e ne esce vittima del potere. 

Ancora una volta è lui a cercarla, con chiamate e messaggi che cadono nel silenzio. Passano un paio di giorni e Ambra riceve una chiamata da un altro numero. Risponde: non è lui, ma la sua amante. I minuti che seguono sono pieni di insulti: “Sei una puttana, stai lontana da lui, non ti permetterò di prendere il mio posto”. 

Le telefonate di lui intanto continuano, chiama piangendo e chiedendo un incontro. “Non riesco a chiudere occhio senza di te”, le scrive, “Dobbiamo essere felici insieme”. Lei gli risponde una volta sola: “Perché mi hai messo le mani addosso dentro al Senato?” e lui: “Perché sei bellissima”. A quel punto lei minaccia di denunciarlo se dovesse continuare a cercarla. E lui: “Sì, certo, denunci un senatore con l’immunità. Stai perdendo l’uomo e l’occasione della tua vita”. 

E ancora: “Ma smettila a fare la perfettina, se non volevi che ci provavo non ti mettevi la gonna, che era un chiaro segnale, ti mettevi i pantaloni e facevi la frigida. Con questi movimenti femministi del cazzo vi siete tutte montate la testa”. 

Lei non risponde, lui sparisce davvero. Qualche settimana dopo, su una testata online viene pubblicato un articolo in cui si parla di un senatore che molesta le sue assistenti. Una di loro parla, denuncia quello che le è successo. Parla anche di altre vittime, tutte terrorizzate all’idea di venire allo scoperto. Quello che si legge corrisponde a quello che è successo a Ambra, che ci racconta di essere stata contattata da una delle assistenti del parlamentare: “Ho una persona che dovresti sentire, anche lei ha subito quello che hai subito tu. Parlaci, denunciate insieme”. Ambra parla con questa ragazza: lei singhiozza al telefono mentre racconta la molestia subita nel 2018, quando il partito il senatore era già quello che è oggi. “Mi ha rovinato la vita”. Quando la chiama è da poco diventata madre e non vuole esporsi, si chiude a riccio al solo pensiero di dover ripercorrere pubblicamente quello che ha vissuto e cercato di dimenticare.

I mesi di ricerche dietro quest’intervista hanno evidenziato come nessuno voglia mettere in pericolo il fortino che il senatore ha costruito attorno a sé. Eppure non mancano i messaggi che lo schiacciano sotto una colpa precisa: quella di abusare del suo potere per esercitare una forma di controllo sulle sue assistenti come rivelano alcuni messaggi di cui siamo entrati in possesso. 

La voce inizia a girare. Ambra viene contattata anche da un giornalista di una testata nazionale, che le chiede conto di quelle voci. Non se la sente di parlare e respinge l'intervista, ma, dopo il confronto con l’altra vittima, inizia a pensare di denunciare il senatore. È passato da poco Natale, quando una mattina sente bussare violentemente alla porta. Guarda dallo spioncino e sul pianerottolo un grumo blu di poliziotti. Apre spaventata, pensa al peggio, mentre i poliziotti entrano e si presentano: è l’anticrimine, hanno il mandato per una perquisizione a casa e personale.

La denuncia è quella di diffamazione e stalking e a farla è il senatore. Non ci crede, Ambra. “Non abbiamo niente in mano, l’ha fatto per darti una lezione”, ammette il capo ispettore, che sostiene che chi denuncia non era stato in grado di portare delle prove concrete: i messaggi offensivi sui social di cui veniva accusata Ambra erano stati cancellati, non c’era traccia di quel reato. “Mi hanno rivoltato casa, ero veramente in lacrime, disperata, arrabbiata. Non riuscivo a capire, perché io ero già vittima”. 

Ambra vuole vederci chiaro e va al commissariato di zona. Il vice ispettore le conferma l’anomalia dell’episodio e spiega: “I politici alzano il telefono e fanno quello che vogliono. Chi c’ha il potere si sente autorizzato a fare dall’alto del suo piedistallo”. La conferma arriva da un audio registrato proprio da Ambra in un secondo incontro con il vice ispettore. Secondo la ricostruzione, un vice capo della Polizia avrebbe ceduto alle pressioni del politico per velocizzare l’iter della denuncia e arrivare alla perquisizione in tempi brevissimi. 

Quello che succede dopo, però, getta Ambra nello sconforto: durante il colloquio con il poliziotto a cui si era rivolta per chiedere aiuto, i commenti del pubblico ufficiale sono inopportuni: “Perché sei andata con la gonna a quell’appuntamento?”, come se l’abbigliamento fosse il lasciapassare per la molestia. Ma il peggio arriva quando, dopo l’incontro, il vice ispettore le invia una mail, le dice di tranquillizzarsi e aggiunge una postilla: “Comunque sei uno spettacolo”. 

Di fronte all’ennesimo episodio di sessismo, maschilismo e abuso di potere, Ambra decide di rivolgersi a un superiore del capo ispettore, a cui gira la mail del suo sottoposto. In quel momento a Ambra viene promesso che saranno presi provvedimenti. E di questa cosa informerà tramite mail i vertici massimi della polizia di Stato. 

Ma ad oggi non è successo nulla. 

Siamo riusciti a ricostruire la rete fittissima di donne che da un punto all’altro dello stivale sono cadute ai piedi del senatore. A volte, ricoprono anche ruoli di una certa importanza nel partito, si fidano di lui e sperano che possa rappresentare il punto di partenza per una carriera nel mondo della politica. 

Il parlamentare si circonda di persone fedelissime. Scandagliando i social del senatore, dei suoi collaboratori e di altre persone a lui vicine, individuiamo la dipendente del partito che aveva chiamato Ambra per esortarla a denunciare. Ambra la riconosce in una foto di gruppo e, incrociando i dati raccolti, risaliamo a lei. La contattiamo, tentenna, ma poi ci dà appuntamento in una centralissima piazza di Roma. Finalmente una crepa nel muro di omertà. 

Quando stiamo per arrivare, però, ci chiama: “Scusa, non posso, ho un altro appuntamento”. Tra la prima e la seconda chiamata passa un’ora: il tempo giusto, forse, per pensare a una carriera messa a rischio da quella conversazione. La chiamiamo più volte, cercando di convincerla dell’importanza di quell’incontro, ma non cede. Il giorno dopo riceviamo una chiamata: è l'ufficio stampa del partito. Lei ha scelto di difendere il senatore, alzandoci così il muro dell'ufficio stampa. 

Non sarà l’unica che rintracceremo, ma dalle ragazze che crescono all’ombra del senatore la risposta sarà sempre la stessa: silenzio. 

Fedeli e silenziose mentre lui continua ad alimentare la sua immagine di uomo tutto famiglia e partito. Ambra, nonostante la paura, ha deciso di farsi avanti, nella speranza che le altre vittime si riconoscano nella sua storia e denuncino: “Quello che ha fatto con me l’ha fatto anche con altre ragazze, io spero che si facciano avanti”. Intanto Ambra continua a ricevere messaggi di minaccia da anonimi: l'ultimo le è stato inviato su Instagram da un uomo che, dopo una verifica, ritroviamo tra gli amici del senatore. 

Ambra andrà, nonostante la denuncia che ha subito, non si arrende all’idea che quell’uomo abbia usato il suo potere istituzionale prima per molestarla e poi per intimorirla.

Abbiamo chiamato il commissariato: il capo ispettore è ancora lì, come anche il senatore, che nel pieno della campagna elettorale sorride sereno ai suoi sostenitori, convinto che la verità non verrà mai a galla. “I cittadini stanno votando una persona pagata profumatamente da loro che fa andare una ragazza nel suo ufficio del Senato e la molesta” – chiosa Ambra.

Dagospia il 16 settembre 2022. NOTA DI "AZIONE"

Da un anno il Senatore Richetti ha denunciato alla magistratura e alla polizia postale attività di stalking e minacce riconducibili a una donna già nota alle forze dell’ordine. Attraverso messaggi contraffatti, finti account social e telefonate, la persona in questione sta molestando da mesi il Senatore e la sua famiglia. Tutto il materiale è in mano alla magistratura.

Il fatto che un sito di informazione, a dieci giorni dalle elezioni, riporti anonimamente accuse tanto gravi senza avere il coraggio di fare il nome del Senatore, ma pubblicando foto parziali che lo rendono riconoscibile, rappresenta uno nuovo livello di bassezza della stampa italiana. 

Il Senatore che in questa vicenda è parte lesa, non essendo mai stato neanche denunciato dalla donna in questione, procederà legalmente per difendere la sua onorabilità in tutte le sedi. 

Da video.repubblica.it il 17 settembre 2022.

"Una vicenda tutta inventata, che mi taglia la carne addosso e di fronte alla quale mi sento impotente. Ma andiamo avanti a testa alta". Così, Matteo Richetti, senatore di Azione e candidato per il partito di Carlo Calenda alle prossime elezioni politiche del 25 settembre, si è sfogato, stamani a Parma nel corso di un'iniziativa elettorale, respingendo l’accusa di molestie sessuali. 

 Il sito di informazione Fanpage, ieri, ha pubblicato l’accusa anonima di una donna contro il politico modenese, che avrebbe abusato della vittima a Palazzo Madama. La donna non avrebbe presentato alcun esposto, mentre Richetti l’ha denunciata per stalking alla fine del 2021 e la procura di Roma ha aperto un’indagine in merito. 

"Non abbiamo proprio la benevolenza dell'informazione  - ha spiegato dal palco, a Parma, Richetti - a volte c'è un racconto distorto e ne sto vivendo uno che mi sta tagliando la carne addosso. Ma andiamo avanti a testa alta". Richetti ha poi ringraziato Calenda per averlo difeso con forza. "La mia reputazione è stata infangata da un'intervista anonima negli ultimi giorni della campagna elettorale - ha poi twittato Richetti - sono cose che non accadono in un Paese civile. Ora basta"

Marina de Ghantuz Cubbe per roma.repubblica.it il 17 settembre 2022.

L'ombra delle molestie sulle donne su Palazzo Madama. In particolare su Matteo Richetti, senatore ricandidato alle prossime elezioni da Azione. Il racconto della presunta vittima è stato raccolto da Fanpage. A sostegno ci sono anche una serie di messaggi con riferimenti sessuali e dal tono maschilista. 

Intanto, però, Carlo Calenda difende il suo compagno di partito: "Da un anno il senatore Richetti ha denunciato alla magistratura e alla polizia postale attività di stalking e minacce riconducibili a una donna già nota alle forze dell'ordine. Attraverso messaggi contraffatti, finti account social e telefonate, la persona in questione sta molestando da mesi il senatore e la sua famiglia. Tutto il materiale è in mano alla magistratura".

Come detto, Fanpage ripercorre la storia pubblicando chat e screenshot. “Perché mi hai messo le mani addosso dentro al Senato?”, si legge in uno degli sms. L'episodio che precede questo messaggio suona agghiacciante: l'uomo ha infatti toccato le parti intime della donna, racconta lei. “Perché sei bellissima”, la risposta del senatore. La donna minaccia di denunciarlo e lui reagisce così: “Sì, certo, denunci un senatore con l’immunità. Stai perdendo l’uomo e l’occasione della tua vita”. 

La donna, prima che l'incubo iniziasse, voleva semplicemente lavorare in politica e quando riesce ad avere un colloquio con il senatore rimane subito perplessa. Ammiccamenti, battute sul suo aspetto fisico. Si accorge anche di un altro inquietante fatto: la segretaria del senatore ha insistito per lasciare la porta aperta durante il colloquio ma l'uomo le ha ordinato di chiuderla e di andarsene. Sempre dal racconto della donna emerge infatti che non sarebbe l'unica a subire quel tipo di molestie.

Dopo il primo colloquio iniziano una serie di messaggi e chiamate invadenti, fuori luogo. Poi il secondo appuntamento in Senato: lui le garantisce un posto di lavoro, ma vuole il suo corpo in cambio. La bacia, lei si scansa, lui si avvicina di nuovo e le tocca le parti intime. Quando la donna si allontana inizia lo scambio di messaggi già citato che continua con la donna che dà al senatore dello "schifoso". Lui ribatte: “Ma smettila a fare la perfettina, se non volevi che ci provavo non ti mettevi la gonna, che era un chiaro segnale, ti mettevi i pantaloni e facevi la frigida. Con questi movimenti femministi del cazzo vi siete tutte montate la testa”. 

Se questi non bastassero, ci sono altri elementi inquietanti nella vicenda: uno su tutti il fatto che a qualche settimana di distanza dall'accaduto, interrotti tutti i contatti, la donna riceve una perquisizione da parte della polizia in casa propria. A fare la denuncia è il senatore. Gli agenti la rassicurano. “Non abbiamo niente in mano, l’ha fatto per darti una lezione”, ammette il capo ispettore. Il racconto della donna prosegue: si reca al commissariato di zona qui, da una parte viene edotta sul fatto che "i politici fanno come vogliono", dall'altra le viene chiesto come mai indossasse la gonna. Non solo: riceve poi una mail dalla posta elettronica della polizia di Stato con scritto: "Comunque sei uno spettacolo".

Anche per questo episodio la donna non ha denunciato alle forze dell'ordine le molestie subite. Né ha trovato al suo fianco altre vittime dello stesso senatore: racconta di aver parlato con un'assistente del parlamentare che, in lacrime, le ha confessato di essere vittima anche lei. 

L'intera versione, come detto, non torna a Calenda: "Il fatto che un sito di informazione, a dieci giorni dalle elezioni, riporti anonimamente accuse tanto gravi senza avere il coraggio di fare il nome del senatore, ma pubblicando foto parziali che lo rendono riconoscibile, rappresenta uno nuovo livello di bassezza della stampa italiana. Il senatore che in questa vicenda è parte lesa, non essendo mai stato neanche denunciato dalla donna in questione, procederà legalmente per difendere la sua onorabilità in tutte le sedi".

Ecco, nel dettaglio, la versione di Richetti. Il senatore di Azione definisce, attraverso i legali, "altamente lesiva della sua reputazione". Un caso a dir poco controverso (su cui la procura ha aperto un fascicolo) che tratta di asserite molestie sessuali denunciate a Fanpage da una donna che, a suo dire, avrebbe ricevuto avance di vario genere da un parlamentare. 

Tutto ha inizio il 29 novembre 2021, riporta l'AdnKronos, quando Richetti si reca alla polizia postale di Roma per presentare una denuncia contro ignoti. Il senatore racconta alla polizia che sul suo profilo Facebook, quattro giorni prima, sotto una foto che lo ritrae insieme a ragazzi del suo staff, compare un commento durissimo dove Richetti viene apostrofato con frasi ingiuriose (fra le altre "omm 'e merda, te devono arrestà") e viene anche tirata in ballo una militante di Azione definita "schiava sessuale". Il tono del post è violento, ed è lo steso utilizzato dalla medesima utente il 28 novembre in un commento postato addirittura sul profilo della figlia di Richetti.

La situazione degenera perché la misteriosa signora non si fa scrupolo di attaccare tutta la famiglia del senatore con frasi obiettivamente non riportabili. Sempre il 28 novembre lo staff di Azione segnala un commento ingiurioso della stessa utente, che si firma con nome falso. Anche qui frasi sconnesse, gravi accuse, e insulti alla collaboratrice citata nei precedenti commenti. Persino il fratello della militante, secondo quanto Richetti racconta alla polizia, il 27 novembre viene preso di mira con post altrettanto violenti. Ma non finisce qui.

Ed è sempre Richetti a denunciare un sms ricevuto sul suo telefono il 19 novembre 2021 nel quale una asserita donna accusa Richetti di nefandezze di ogni genere. Anche qui frasi irriportabili accanto a espressioni tipo "sei uno schifoso" oppure "tu sei malato di testa" e via discorrendo. Richetti alla polizia allega lo screenshot con numero di telefono del lunghissimo messaggio ricevuto, oltre alle fotografie dei commenti postati sui social. A quel punto la polizia avrebbe oscurato per ben due volte i profili fake da cui sarebbero partiti i commenti. Sembrerebbe esserci stata anche una perquisizione, che non avrebbe però portato a identificare la misteriosa donna.

Silvia Bignami e Andrea Ossino per repubblica.it il 18 Settembre 2022.

"Tutto falso. Tutto inventato. Mi stanno tagliando la carne di dosso". Matteo Richetti non si nasconde. Anzi mette il suo nome e la sua faccia sulle accuse della donna che, coperta da anonimato, ha raccontato in una lunga intervista a Fanpage.it di aver subito molestie da un senatore, senza farne il nome. "La vittima sono io", dice lui presentandosi insieme a Carlo Calenda al tour del Terzo Polo in Emilia-Romagna: "C'è una persona che sta perseguitando me e la mia famiglia, scrivendomi e dandomi del pedofilo, da un anno. Io l'ho denunciata". Per questo annuncia querela civile e penale al giornale che ha scritto della vicenda, pur senza fare il suo nome. 

Questa donna, Richetti la conosce appena. Arrivato a Bologna all'Opificio Golinelli dove gli si avvicinano con pacche sulla spalla e cauti "come stai" gli attivisti, lui spiega: "L'avrò vista due volte. Una al partito, mi pare, e un'altra volta è venuta nell'ufficio del Senato. Voleva collaborare con noi, ma è stata accompagnata alla porta. La mia assistente di allora può confermare. Poi sono cominciati ad arrivare i messaggi sui sociale sul telefono". Una "persecuzione" che non ha risparmiato neppure le figlie.

Calenda, accanto a lui, evoca dal mattino la giustizia ad orologeria: "C'è stato un timing molto preciso nell'uscita di questa vicenda. Questo è un attacco politico". Il leader di Azione se la prende con la stampa, che ha rilanciato accuse anonime a un giornale, mai denunciate alle forze dell'ordine. Ignorando invece le denunce per stalking che lo stesso Richetti ha fatto alla polizia postale. "Ne ho fatte tre perché ci sono state diverse integrazioni" dice il senatore. 

Dalle ricostruzioni ne risultano però per ora due. Una è quella del 29 novembre 2021. In quella occasione il senatore spiega di aver ricevuto insulti via social in cui veniva accusato di pedofilia. Non solo. Dieci giorni prima Richetti aveva anche ricevuto un sms "lunghissimo": "Mi baci, mi tocchi e poi continui a tenerti accanto questa pazza", scriveva l'interlocutrice minacciandolo di rivelare frequentazioni "aberranti", parlando di prove, messaggi e anche note vocali compromettenti che l'onorevole avrebbe inviato. Su questa denuncia la procura di Roma ha confermato ieri che è stato aperto un fascicolo per stalking.

Ma Richetti è tornato negli uffici postali anche martedì scorso. Appena scoccate le 21.30 del 13 settembre, dopo aver saputo che Fanpage stava preparando un servizio su presunte molestie. "Da alcuni mesi sono a conoscenza di un dossier diffamatorio a mio carico", denuncia agli agenti Richetti, spiegando che dalla scorsa primavera alcune sue collaboratrici erano state contattate da una giornalista che invitava "a rivelare eventuali approcci sentimentali subiti" e di essere stato informato che sulla testata Fanpage.it sarebbe stato pubblicato un articolo in cui venivano evidenziati dei messaggi "che disconosco - dice il senatore di Azione - in quanto da me né prodotti e né inviati e, quindi, desumo totalmente artefatti".

Si tratta degli screenshot diffusi dall'accusatrice per comprovare le sue accuse. Ritenendo di essere vittima di una diffamazione, a pochi giorni dal voto, il politico aveva deciso quindi denunciare la faccenda, facendo presente che la procura di Roma stava già indagando sui fatti denunciati a novembre. Calenda rincara: "Abbiamo detto al giornale che si stavano prestando a una cosa priva di fondamento, su cui la procura stava indagando. Ma sono andati avanti, quindi presumo ci sia dietro un disegno". 

Tutto mentre Pina Picierno, Pd, getta benzina sul fuoco, con l'hashtag #metoo. "È la macchina del fango" dicono militanti a candidati di Azione a Bologna, mentre Richetti abbraccia la figlia, che poi resta seduta a gambe incrociate ai suoi piedi durante il comizio di Calenda. "Di fronte a queste cose ci si sente impotenti - sospira Richetti - sui social mi dicono di vergognarmi, ma io ho denunciato, ho querelato. Che altro devo fare per difendermi?".

Caso Richetti, quando Lodovica Mairé Rogati disse: "Io lavoro per la redazione di un giornale". Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 20 settembre 2022.  

L'attrice, 42 anni, ex modella e presidente di un'associazione contro la violenza sulle donne "Io non ci sto" sostiene di aver subito le molestie del senatore e a dimostrazione esibisce una serie di Sms ricattatori e a sfondo sessuale. "Creati ad arte", fanno sapere dall'entourage del politico

Non esiste, ad oggi, una verità sul caso del senatore di Azione Matteo Richetti. Il parlamentare messo sotto accusa da un'inchiesta di Fanpage si dichiara innocente. Avrebbe abusato di una donna nel suo ufficio vicino a palazzo Madama il 16 novembre del 2021. "Non ho fatto nulla" dice il politico.

La grande accusatrice - mai nominata dal giornale che le garantisce l'anonimato - sostiene il contrario e a dimostrazione della sua tesi esibisce una serie di messaggi.

Da adnkronos.com il 17 Settembre 2022. 

Botta e risposta via Twitter tra Pina Picierno e Carlo Calenda sulla vicenda che vede coinvolto il senatore di Azione Matteo Richetti. "Oggi @carlocalenda si è svegliato e ha diffuso la querela che #Richetti ha presentato alla donna che lo accusa di molestie definendola 'una squilibrata'. Un atteggiamento riprovevole e patriarcale che punta a vittimizzare la donna e ad assolvere il presunto molestatore #metoo", scrive la vice presidente del Parlamento europeo, del Pd.

A stretto giro arriva la replica del leader di Azione, sempre via social: "No Pina, io ho difeso una persona perbene attaccata con un’intervista anonima. Una persona che da un anno è vittima di stalking che ha denunciato mentre non è stato denunciato. E tu stai semplicemente strumentalizzando tutto ciò non per difendere le donne, ma per prendere voti".

La verità di Lodovica Mairé Rogati: "Con Richetti telefonate anche di un'ora. Ho video di altri politici". Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 21 Settembre 2022. 

La 42enne affronta il caso del senatore, le accuse di abusi sessuali e la perquisizione subita per il reato di stalking, l'inchiesta giornalistica, una condanna ormai prescritta e i rapporti di amicizia che la legherebbero ad altri parlamentari

"Ho dei video con altri politici che adesso mi stanno attaccando. Pensano che se una è carina, allora può essere trattata come se fosse una velina".

Lodovica Mairè Rogati, attrice e presidente di un'associazione contro la violenza sulle donne ("Io non ci sto") è un fiume in piena. In un'ora e dieci minuti di conversazione telefonica fornisce

Giuseppe Scarpa per roma.repubblica.it il 21 settembre 2022.

"Ho dei video con altri politici che adesso mi stanno attaccando. Pensano che se una è carina, allora può essere trattata come se fosse una velina". 

Lodovica Mairè Rogati, attrice e presidente di un'associazione contro la violenza sulle donne ("Io non ci sto") è un fiume in piena. In un'ora e dieci minuti di conversazione telefonica fornisce la sua versione dei fatti. Parla di tutto: delle accuse di abusi sessuali rivolte al senatore Matteo Richetti, della perquisizione subita per il reato di stalking, della condanna per calunnia ormai prescritta. 

Prima di cominciare, Rogati precisa: "Ho la fedina penale pulita". Conferma di essere stata condannata a quattro anni in primo grado per calunnia (per i giudici aveva accusato di violenza sessuale, sapendoli innocenti, il suo ex e un amico) ma sostiene di non aver proseguito nella battaglia giudiziaria perché era giovane e voleva chiudere quel capitolo della sua vita. 

Dice la sua anche sulla vicenda raccontata ieri da Repubblica. La titolare di un centro estetico ha denunciato di essere stata minacciata dall'attrice che aveva preteso uno sconto e non l'aveva ottenuto: "Fino ad ora non ho ricevuto nessuna denuncia. Il compagno della proprietaria, che ha testimoniato contro di me, in quel momento non era neanche presente. Adesso pubblicherò un video che chiarirà tutto di quella vicenda. È stato detto che io sono andata via dal negozio minacciando. Ma il filmato che ho registrato mi mostra mentre me ne vado via senza sbattere la porta e augurando "buona giornata" a tutti. Comunque, sono stata io a denunciare la signora a marzo". 

Dettagli di un'altra storia rispetto a quella per cui Rogati è finita sotto i riflettori. Si torna, quindi, al caso Richetti. L'artista ripete di non essere la donna al centro delle ricostruzioni di Fanpage. Ma allo stesso tempo non nega di aver incontrato il senatore di Azione. 

Ci aiuti a chiarire subito un punto. È lei la donna che accusa Matteo Richetti su Fanpage?

"No, io non ho fatto accuse su Fanpage. Comunque, non chiamerei la ragazza presunta vittima, ma vittima. È una mia opinione". 

Ma lei nel novembre dell'anno scorso incontrò Richetti o no?

"Sì, ma chi l'ha detto che quel giorno incontrò solo me?" 

E come si comportò il senatore?

"Ma secondo lei io rispondo a questa domanda? Secondo lei si è comportato bene o male?".

Chi non era in quella stanza certo non può rispondere. Ma lei ha avuto una relazione con Richetti?

"Aridaje". 

Che rapporto ha avuto con Richetti?

"Lo dirò, non adesso". 

Ci metta nelle condizioni di raccontarlo.

"Io sono stata messa in mezzo e adesso bisogna minare la mia credibilità. Io ho delle registrazioni, ho dei video con altri politici. Io oggi mi sento scaricata da molti politici che si devono vergognare per quello che stanno facendo".

Ci dice i nomi?

"Non li dico" 

Ma perché registra i colloqui con i politici?

"Sono abbastanza intelligente da capire che non mi devo fidare di nessuno. Spero che qualche giornalista adesso faccia il suo dovere". 

A cosa si riferisce?

"Spero che qualche cronista chiami Richetti e gli chieda spiegazioni. Lui sostiene di non aver avuto alcun contatto con me. Ha detto che mi ha accompagnata alla porta, quando in realtà siamo usciti assieme. Abbiamo preso l'ascensore e siamo andati al bar Sant'Eustachio. Poi siamo stati in piazza insieme. Alla fine io sono andata via e lui è entrato al Senato. Ma non è tutto".

Prego.

"Quando dai tabulati emergerà la conversazione con lui ed altre varie chiacchierate, lunghe anche più di un'ora, come le giustificherà il senatore? Cosa dirà? Che è stato più di un'ora al telefono con la sua stalker? A questo punto, quando verrà eletto, saranno dolori. Come potrà negare di essere stato al telefono un'ora con quella che lui definisce una che la perseguita?". 

Ma qual era il tenore delle chiamate?

"Si parlava di tante cose. In modo molto amicale. Io mi chiedo però come sia possibile che ci sia stata una denuncia di Richetti contro ignoti presentata il 29 novembre 2021 per una serie di post offensivi sui social e dopo appena una settimana la sottoscritta subisca una perquisizione. Le indagini hanno bisogno di più tempo, non si può arrivare ad individuare una persona così rapidamente. Inoltre, l'esito di quella perquisizione è stato negativo tant'è che quell'indagine va verso l'archiviazione. Sa perché le forze dell'ordine sono arrivate a bussare a casa mia? Semplicemente perché in fase di denuncia Richetti ha fatto il mio nome senza però metterlo per iscritto. Questo è stato un abuso".

Denuncerà per diffamazione Richetti?

"Certo".

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 20 settembre 2022.

Non esiste, ad oggi, una verità sul caso del senatore di Azione Matteo Richetti. Il parlamentare messo sotto accusa da un'inchiesta di Fanpage si dichiara innocente.

Avrebbe abusato di una donna nel suo ufficio vicino a palazzo Madama il 16 novembre del 2021. «Non ho fatto nulla» dice il politico. La grande accusatrice - mai nominata dal giornale che le garantisce l'anonimato - sostiene il contrario e a dimostrazione della sua tesi esibisce una serie di messaggi. Sms ricattatori e a sfondo sessuale «mai scritti da Richetti e creati ad arte», fanno sapere dall'entourage del senatore.

La donna in questione, si è appreso ieri, si chiama Lodovica Mairé Rogati, 42 anni, attrice, ex modella e presidente di un'associazione contro la violenza sulle donne "Io non ci sto".

Ma chi è Rogati? E cosa si sa del suo passato? Di certo non è la prima volta che il suo nome compare nelle carte dei tribunali romani.

Repubblica è in possesso degli atti di indagine relativa a un'altra vicenda in cui è protagonista la donna. L'artista avrebbe minacciato il 15 febbraio 2022 la titolare di un centro estetico a Roma Nord, Esthetique Med Lab, colpevole di non averle fatto lo sconto: «Vi state mettendo contro i poteri forti, io faccio parte di una redazione che fa inchieste sui pagamenti in nero», ha detto Rogati secondo quanto riferito dal personale del centro ai carabinieri. Rogati in quel caso non avrebbe specificato se il quotidiano in questione fosse Fanpage.

Ad ogni modo capire se l'attrice abbia ragione o meno, nel caso Richetti, è un compito complesso poiché in questo momento non c'è un'inchiesta giudiziaria che possa fare luce sugli abusi. La donna (lo ha ribadito lei stessa ieri) non ha infatti presentato nessun esposto. Esistono, viceversa, tutta una serie di inchieste, processi e sentenze, nel suo passato e anche nel suo presente, che non giocano a suo favore. Ne minano la sua credibilità e non possono essere ignorate.

Risale a una decina di anni fa un'accusa di violenza sessuale di Rogati nei confronti di un suo ex e un amico che si è rivelata essere una menzogna, tanto che l'attrice ha incassato nel 2016 una condanna per calunnia, poi prescritta in appello, a quattro anni. Per i giudici di primo grado avrebbe puntato il dito contro due persone sapendo che erano innocenti e accusandole di uno dei peggiori reati. Ovvero lo stupro. L'attrice è inoltre imputata per minacce nei confronti di un medico che avrebbe ricattato. L'ultimo caso è quello di marzo, con il titolare e i dipendenti di un centro estetico che accusano la donna di averli minacciati.

Questo è ciò che ha raccontato agli investigatori un testimone, il compagno della proprietaria dell'attività, lo scorso aprile: «Ho sentito la voce di una donna (Rogati, ndr) che chiedeva di ottenere uno sconto sul prezzo, voleva pagare di meno perché secondo lei il conto non era congruo al trattamento effettuato.

La dipendente che la stava seguendo si è spostata nel corridoio e ha chiamato la mia compagna per chiederle come comportarsi. Quando la cliente e la dipendente sono andate verso la cassa, Rogati continuava a ripetere che il prezzo non era giusto, che le aveva rovinato gli occhi perché non le aveva fatto indossare gli occhialini e che lei aveva filmato tutto. A questo punto la donna ha iniziato ad alzare il tono della voce, urlava e diceva: "Vi state mettendo contro i poteri forti, io faccio parte di una redazione che fa inchieste sui pagamenti in nero". Quando è uscita ha sbattuto la porta del negozio e ha detto che avrebbe mandato la Guardia di finanza». 

Non è finita. «Quel giorno stesso Rogati e la mia compagna si sono sentite al telefono - ha spiegato l'uomo ai carabinieri - ed io ho assistito alla chiamata. La donna pretendeva un rimborso sostenendo di essere stata truffata, diceva che stava registrando la conversazione davanti alla sua equipe giornalistica e che l'avrebbe rovinata. Per questo motivo io e la mia compagna ci siamo recati subito al commissariato Ponte Milvio dove ci hanno consigliato di attendere qualche giorno prima di sporgere una denuncia riferendo che era un persona a loro conosciuta». 

Sono precedenti che allungano ombre pesanti sull'attrice che accusa il senatore Richetti di averla molestata, ma non chiariscono il punto centrale. Cosa è successo davvero nell'ufficio del senatore? È mai avvenuta la scena denunciata su Fanpage dalla donna? O le sue accuse sono un'operazione di «killeraggio politico » come sostiene Richetti? Domande alle quali nessuno ha ancora dato una risposta definitiva. La verità potrebbe stare anche nel mezzo.

Lodovica Mairè Rogati stalker condominiale: "Ti sparo in bocca, a te e tua figlia". Le minacce dell'attrice ai vicini di casa. Giuseppe Scarpa su La Repubblica il 22 Settembre 2022.  

L'attrice, al centro del caso Richetti, andrà a processo il prossimo ottobre per i messaggi minatori inviati a sette condomini del suo palazzo

"Te sparo in bocca a te a tu figlia". Lodovica Mairè Rogati ha seminato il terrore tra i vicini di casa e di quartiere a Roma Nord. Si tratta dell'attrice 42enne, presidente di un'associazione contro la violenza sulle donne, "Io non ci sto". Rogati è finita al centro del caso Richetti, il senatore di Azione accusato di abusi sessuali in un'inchiesta giornalistica da parte di Fanpage.

Giuseppe Scarpa per “la Repubblica” il 23 settembre 2022.  

In molti l'hanno incontrata, hanno cenato, pranzato, preso un caffè con lei. Persone che contano: parlamentari, alti funzionari pubblici, uomini degli apparati. Ma chi è realmente la donna che adesso minaccia di far saltare il banco della politica alla vigilia delle elezioni? Ogni giorno che passa il caso dell'attrice Lodovica Mairè Rogati si arricchisce di nuovi nomi e particolari. È un sentiero stretto quello percorso dall'artista. Le sue conoscenze le permettono di attraversare i palazzi del potere romano.

Le porte si aprono, perché lei sa come bussare, come entrare. Ma all'ambizione non sembra coincidere un traguardo da raggiungere. Un orizzonte definito sembra non esserci. Nel grande gioco del potere, senza una bussola si finisce con lo smarrirsi, farsi del male e farlo agli altri. Ed ecco che il progetto nobile del "Me too" viene brandito come un'arma e agitato per colpire alla cieca. 

Nessuno oggi è in grado di dire quale sia l'obiettivo dell'attrice, fondatrice e presidente di un'associazione contro la violenza sulle donne "Io non ci sto". La 42enne così è finita al centro delle cronache per il "caso Richetti", il senatore di Azione accusato di abusi sessuali in un'inchiesta giornalistica targata Fanpage . La grande accusatrice, Rogati appunto, non appare mai. A lei è stato accordato, dal quotidiano online, l'anonimato. Ma l'entourage del parlamentare individua in lei la gola profonda.

Da lunedì, quando il quotidiano Domani ne ha svelato l'identità, un giorno dopo l'altro sono spuntati i nomi delle persone che l'hanno conosciuta e frequentata: Matteo Richetti prima di tutto. Poi è stata la volta del sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulé, del numero due dell'Aisi, i servizi interni, Carlo De Donno, e infine di Francesco Messina, Direttore centrale anticrimine.

Tutti loro, almeno una volta, hanno avuto un incontro (al ristorante, al bar o in ufficio) con l'attrice. Difficile dirle di no, una bellezza fuori dal comune, una preparazione notevole. Una persona brillante: laurea da 110 e lode in Scienze della comunicazione, un master in giornalismo, un altro in relazioni internazionali. Cinque lingue parlate fluentemente, inglese, spagnolo, francese, swahili e shona. E infine abile, molto abile nell'utilizzo di computer e smartphone.

Così a Rogati le porte si aprono. La 42enne è alla ricerca costante di nuovi contatti negli ambienti che contano. Invia i curricula ai capi di gabinetto dei ministeri. Cerca di accreditarsi. Qualcuno la conosce, altri passano la mano. Ma esiste poi il rovescio della medaglia. La zona d'ombra. Una ragazza che conta una decina di indagini della procura in cui perlopiù figura indagata o imputata per minacce.

Intanto però chi entra nel gioco con lei ne rimane stregato. Appare come un'abile pokerista, brillante nelle prime mosse, confusa nel pieno della partita fino a perdersi e cercare di trascinare gli altri giocatori nella disfatta. Il punto è che se si va troppo avanti è difficile alzarsi dal tavolo senza conseguenze. 

De Donno, che per quattro volte l'ha incontrata, ha dovuto chiarire con la scala gerarchica dei servizi. Incontri personali, fuori dall'ambito lavorativo. Nessun ricatto e nessun favore. Quattro cene in tutto. A presentare Rogati al numero due dell'Aisi era stato un avvocato di peso dello studio legale Kpmg. In una cena tra De Donno e Mulé si era presentata a maggio anche Rogati, desiderosa di incontrare il sottosegretario alla Difesa. Diversità di vedute sull'Ucraina con il politico di Fi non avevano fatto scoccare la scintilla.

Tre incontri, invece, l'attrice li ha avuti con Messina, superpoliziotto al vertice del Dac. La prima quando gli è stata presentata dal titolare del ristorante "Clemente alla Maddalena" nel cuore di Roma. Si era accreditata come giornalista. Non voleva però notizie.

Lo ha capito Messina in una successiva uscita con Rogati in cui la 42enne chiedeva consigli su come liberarsi di uno stalker. Risposta: rivolgersi al Questore per chiedere l'ammonimento. C'è da chiedersi se l'ultima mossa di Rogati («Ho i video di molti politici, se parlo crolla tutto») sia l'ultima mossa da baro di chi non sa più come alzarsi perché la partita è finita.

 Ecco le carte giudiziarie che chiudono il caso Richetti: era Lodovica Rogati la donna di Fanpage. L'attrice che ha accusato il senatore di Azione di abusi ha negato di essere la fonte del sito, ma le carte dei pm la smentiscono. Sua l'utenza da cui parte un sms di minacce. Dodpo lo scoop scriveva a un parlamentare: «Ora nessuno darà più un soldo a quegli stronzi di Azione». EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 24 Settembre 2022.

Ora c’è la certezza: è proprio l’attrice Lodovica Rogati, già condannata a quattro anni per calunnia e stalking in primo grado (prescritta, ha pagato oltre 50mila euro le due persone che aveva accusato di essere stupratori e trafficanti di droga) la donna che ha detto a Fanpage di essere stata violentata dal senatore.

I documenti giudiziari specificano pure che il lungo messaggio intimidatorio arrivato al cellulare di Richetti che ha fatto scattare la denuncia del senatore proviene da un telefono intestato proprio a Rogati.

La donna quest’anno è finita a processo per minacce e diffamazione contro un dirigente sanitario diffamato gravemente anche sui siti dell’ospedale dove l’uomo lavora 

EMILIANO FITTIPALDI. Nato nel 1974, è vicedirettore di Domani. Giornalista investigativo, ha lavorato all'Espresso firmando inchieste su politica, economia e criminalità. Per Feltrinelli ha scritto "Avarizia" e "Lussuria" sulla corruzione in Vaticano e altri saggi sul potere.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 24 settembre 2022.

Le carte giudiziarie dello scandalo politico che ha travolto gli ultimi giorni della campagna elettorale, partite dalle accuse di molestie sessuali rivolte dalla testata Fanpage a un senatore, chiudono almeno per ora il caso di Matteo Richetti. 

Il presidente di Azione è stato indicato da una donna come colui che, il 16 novembre del 2021, ha abusato di lei negli uffici del Senato. E come il politico che – insieme ad apparati dello stato che hanno ordinato una perquisizione in tempi record – avrebbe ordito «un atto di natura intimidatoria nei confronti della persona che voleva denunciare una molestia», come ha scritto il direttore di Fanpage Francesco Cancellato.

Analizzando il fascicolo della magistrata della procura di Roma Alessia Natale si definiscono i pochi dettagli rimasti oscuri dopo gli articoli di Domani questo giornale, che hanno tentato negli ultimi giorni di fare chiarezza sull’andamento dei fatti e sui profili dei protagonisti della vicenda. 

Innanzitutto, è proprio l’attrice Lodovica Rogati, già condannata a quattro anni per calunnia e stalking in primo grado (prescritta, ha pagato oltre 50mila euro le due persone che aveva accusato di essere stupratori e trafficanti di droga) la donna che ha detto a Fanpage di essere stata violentata dal senatore. Un’evidenza che lei ha ufficialmente negato anche a Domani ma smentita dalle carte processuali.

Non solo: i documenti giudiziari specificano pure che il lungo messaggio intimidatorio arrivato al cellulare di Richetti che ha fatto scattare la denuncia del senatore proviene da un telefono intestato proprio a Rogati. Il verbale di perquisizione del 14 gennaio 2022 dice che il controllo ha dato «esito negativo» - come ha ripetuto il direttore di Fanpace Cancellato in tv – soltanto perché la polizia postale non ha trovato in casa della donna alcun dispositivo, nemmeno il cellulare. Come mai? 

Lo spiega la stessa Rogati a verbale il giorno dei controlli: «Il mio iPhone è stato già sequestrato dai carabinieri durante un’altra attività di perquisizione eseguita presso la mia abitazione avvenuta qualche settimana fa. Era per un caso di malasanità in relazione alla scomparsa di mia madre».

In pratica, già nel verbale della polizia postale Rogati (la cui notifica è stata pubblicata da Fanpage, e anche se in parte è stata oscurata è identica a quella del fascicolo sull’attrice indagata per stalking e diffamazione contro Richetti) ammette era già indagata in merito a un’altra vicenda giudiziaria. Un caso che riguarda un dirigente sanitario che l’ha denunciata come Richetti, ma qualche tempo prima. 

Secondo l’inchiesta sul «me too della politica» di Fanpage, la donna, dopo la violenza sessuale, avrebbe pure subito una sorta di intimidazione, mentre un «vicecapo della polizia avrebbe ceduto alle pressioni del politico per velocizzare l’iter della denuncia e arrivare alla perquisizione in tempi brevissimi». Accuse gravi: lo stato avrebbe perseguitato la vittima (che per Fanpage non è presunta, ma certa) d’accordo con il potente molestatore.

Le carte giudiziarie sembrano raccontare altro. Innanzitutto, il codice di procedura penale prevede che non è la polizia ad ordinare le perquisizioni ai sospetti, ma la procura della Repubblica. Dopo la denuncia di Richetti del 29 novembre 2021, la pm Natale (sostituto procuratore specializzata proprio nei reati sulla violenza sulle donne, quelli contro la libertà sessuale, i minori e le persone vulnerabili) firma il decreto di sequestro a Rogati il 7 dicembre. 

Lo fa per due motivi. Il primo è che il cellulare da cui è partito il 19 novembre, tre giorni dopo l’incontro tra il senatore e l’attrice in Senato, un messaggio di ingiurie e minacce contro Richetti è intestato proprio a Lodovica Rogati.

Un lunghissimo sms che non fa mai riferimento alle presunte molestie che sarebbero avvenute solo tre giorni prima, ma dove si legge, tra l’altro: «Ascoltami bene testa di cazzo, tu vivi nella melma...la cattiveria nella vita ritorna sempre ricordatelo. Se non mi chiedi scusa in ginocchio e continui a mentire a quella ritardata io ti spacco il culo! Mi avevi lì davanti ad accoglierti con tutto l’amore e la pazienza del mondo... e ci hai pisciato sopra... invece di ascoltare i miei consigli che ti stavo dando martedì (il 16 novembre 2021 era martedì in effetti, ndr) dove con delicatezza ed educazione cercavo di farti capire che il problema non sono gli altri ma il tuo comportamento... io sono un personaggio pubblico, mi conoscono tutti e non gliene frega un cazzo a nessuno se sono figa!».

Il messaggio si conclude con un presunto sms di un’altra persona che darebbe solidarietà sulla vicenda proprio a una certa «Lodo». L’altra ragione per cui la pm che combatte i femminicidi (e poi la gip Maria Mosetti che ha dovuto confermare la decisione) ordinano la perquisizione è che Rogati sulle banche dati di polizia risultava già censita – si legge sempre nel fascicolo – «per numerosi reati, tra i quali diffamazione, minaccia, atti persecutori, violenza e minaccia ai pubblici ufficiali, interruzione di pubblici, servizi, sostituzione di persona, procurato allarme, insolvenza fraudolenta, lesioni personali, simulazione di reato», oltre  precedenti segnalati dal questore di Roma nel 2011 per «lesioni personali e diffamazione».

È per questo motivo che la pm, visto «che sussistono gravi indizi in ordine ai reati contestati», decide di firmare il decreto. Ai sospetti della magistrata va aggiunto come la segreteria della fidanzata di Richetti, che lavora ad Azione, aveva ricevuto, sempre il 19 novembre, una chiamata dal numero intestato a Rogati, «dove una voce femminile chiedeva informazioni sul suo conto, asserendo di essere una familiare di nome Federica». 

Domani aveva già scoperto che l’accusatrice di Richetti aveva precedenti gravi per aver provato a distruggere con bugie infamanti l’ex ragazzo e un’altra persona, accusandoli di stupro. Questi precedenti erano facilmente individuabili su fonti aperte, come testate online e archivi di agenzie di stampa.

Ora si scopre pure che la donna quest’anno è finita a processo per minacce e diffamazione contro un dirigente sanitario difeso dall’avvocato Roberto Savino, che ha subito secondo l’accusa una vera e propria persecuzione da parte della ragazza, che è riuscita a diffamarlo gravemente anche sui siti dell’ospedale dove l’uomo lavora. Fatti che hanno portato all’uomo, dice Savino, «enormi problemi in famiglie e pure con l’Ordine dei medici. La ragazza ha un profilo seriale». 

Fanpage non ha dato conto dei precedenti e della seconda perquisizione in poche settimane subita dalla donna da diverse forze di polizia e diversi pm. L’articolo e la video-inchiesta durata mesi si basa essenzialmente sulla testimonianza di Rogati e su alcuni messaggi auto-accusatori che Richetti ritiene «del tutto artefatti» e che Rogati non ha voluto mostrare a Domani (nega ancora di essere la testimone di Fanpage e giura che durante l’incontro col senatore «nessuno è saltato addosso a nessuno»)

Non li aveva mostrati neppure alla trasmissione Le Iene, che quindi aveva deciso di non approfondire la sua storia. La perquisizione subita lo scorso gennaio è comunque cruciale. Rogati ammette che il numero è intestato a lei (nel contratto con Tim aveva indicato un indirizzo di Roma inesistente) aggiungendo però che lo stesso «è prevalentemente utilizzato dai suoi colleghi per motivi di lavoro». Quando Domani ha chiamato l’utenza, ha risposto un domestico straniero che ha detto «di non sapere nulla di nulla».

Inoltre, nel verbale finale la ragazza mette nero su bianco l’accusa al senatore Richetti, la stessa che poi ripeterà a Fanpage qualche mese dopo: «Ho conosciuto Richetti ad ottobre del 2021 quando voleva che entrassi dentro il suo partito Azione... per circa un mese mi ha corteggiato insistentemente con chiamate e soprattutto con messaggi... al mio continuo rifiuto, il senatore diventata sempre più molesto. Soltanto per chiudere la conoscenza, l’ho incontrato per l’ultima volta presso il suo ufficio di Palazzo Cenci il 16 novembre. 

Durante questo incontro Richetti ha tentato un approccio sessuale nei mei confronti baciandomi e mettendomi le mani addosso, a quel punto scioccata sono andata via... Poi in una telefonata Richetti, piangendo, mi ha supplicata di non raccontare a nessuno quello che lui aveva fatto in Senato. Sono in possesso della documentazione che dimostra tutto quello che ho dichiarato. Non ho ancora sporto denuncia in quanto proprio in questi giorni dovrò recarmi dal mio legale a trascrivere la querela». Che, però, non è mai stata fatta.

Ma come mai la pm Natale ha chiesto lo scorso maggio l’archiviazione delle accuse di Richetti, se il cellulare da cui sono partite le minacce è quello di Lodovica Rogati? Perché i messaggi pesantissimi su Facebook e articoli anonimi su alcuni siti non hanno ancora un’origine certa, visto che Meta e Twitter hanno chiesto alla procura che indagava che fosse fatta una rogatoria internazionale. «L’unico elemento che collega Rogati alla vicenda è dunque l’intestazione della scheda telefonica da cui è partito il lungo messaggio WhatsApp inviato a Richetti il 19 novembre», scrive Natale.

«Non potendosi escludere l’uso promiscuo dell’utenza da parte di terzi, si deve ritenere equivoco l’elemento di prova e non idoneo a sostenere l’accusa in giudizio». Più che accanirsi contro la ragazza come ipotizza Fanpage, dunque, sembra che il magistrato decida, al contrario, di evitarle l’ennesimo processo perché la prova è debole. Anche se non viene formulata alcuna ipotesi su chi altri avrebbe avrebbe potuto mandare a Richetti quel messaggio usando l’utenza di Rogati.

Possibile adesso che la donna, che prima di Fanpage ha incontrato autori Mediaset e parlamentari di Forza Italia a cui ha parlato delle presunte abusi, sia stata davvero usata da qualcuno per colpire Richetti e Azione a pochi giorni dalle elezioni politiche?

Secondo il leader di Azione Carlo Calenda, la macchinazione è sicura, ma prove ancora non ce ne sono. È certo però che alcuni politici hanno accompagnato la ragazza davanti a giornalisti tv, ma forse solo perché credevano nella sua storia e volevano che qualche giornalista la verificasse. 

Domani però ha letto alcune comunicazioni tra Rogati e politici di destra (chiedono l’anonimato, ma sono pronti a confermare tutto in caso di smentita) nelle quali l’attrice condivide l’inchiesta di Fanpage e poi chiede interessata «che cosa faranno» Calenda e Matteo Renzi «dopo questo casino». 

Pretende dagli interlocutori, che ben conoscevano le vecchie accuse, di non fare il suo nome ma di diffondere quello di Richetti, sennò «lo avrei già fatto» quando tutti quei «coglioni mi dicevano di andare alla polizia e rilasciare interviste...a Mediaset non capiscono mai un cazzo». 

Infine suggerisce che quando usciranno altre cose contro Richetti di Azione «il partito avrà chiuso, perché nessuno dei suoi finanziatori, tre in particolare, non daranno più un soldo a quegli stronzi». 

Se Richetti fosse stato realmente calunniato come altre vittime di Lodovica Rogati, la storia diventerebbe un caso di studio su come accuse pesanti quali sono quelle di molestie, se non verificate con attenzione, possano creare danni giganteschi agli stessi movimenti che si battono contro la cultura patriarcale e gli abusi sessuali commessi da uomini in posizione di potere.  Una piaga sociale e di genere che in Italia contribuisce a  migliaia di violenze e centinaia di femminicidi ogni anno.

Dopo le inchieste con cui Domani dava conto del profilo criminale dell’accusatrice di Richetti e provava a verificare l’attendibilità dei due protagonisti della vicenda, i giornalisti di Fanpage hanno attaccato il nostro giornale per «aver scandagliato la vita privata» di una presunta vittima (mai scritto un rigo che esulasse da vicende giudiziarie pubbliche), e per aver fatto il nome della Rogati «su indicazione dei legali di Azione (falso, era negli atti processuali), «di mettere in dubbio la credibilità di una presunta vittima di molestie» (il lavoro del giornalista d’inchiesta è anche quello di verificare l’attendibilità di testimoni, soprattutto quando aprono enormi scandali politici, altrimenti siamo al linciaggio e alla barbarie).

Inoltre, non avremmo mai «appurato il legame tra la denuncia di Richetti e questa donna», e quindi non avremmo dovuto farne il nome (falso, tutto parte dal cellulare da cui è partito il messaggio con le minacce al senatore, intestato proprio alla loro fonte Lodovica Rogati). 

Fanpage, che ha pubblicato un’inchiesta basata su una denuncia anonima contro un altro anonimo, conclude che Domani avrebbe inferto «violenza a mezzo stampa a una persona che fino a prova contraria ha alle spalle un’assoluzione e una per prescrizione», senza ricordare che Rogati ha pagato le parti civili che sono poi uscite dal processo, e soprattutto senza elencare la dozzina di precedenti che ricalcano il caso Richetti.

Non si può comunque escludere che Lodovica Rogati sia stata comunque abusata, nonostante le sue bugie passate e la specializzazione nell’aprire profili social che appaiono e scompaiono, nel diffamare e inventare stupri. Non sappiamo se abbia manipolato i presunti messaggi autoaccusatori attribuiti a Matteo Richetti pubblicati da Fanpage, oppure se questi siano veri. 

Fossero autentici, la storia si capovolgerebbe un’altra volta e la calunniatrice Rogati si trasformerebbe di nuovo nella vittima di un politico molestatore. Nella sua lunga carriera processuale, sarebbe la prima volta. Serve però una perizia tecnica della magistratura. Fino ad allora, la storia finisce qui.

LA STORIA DI AMBRA E LA VERSIONE DI CALENDA. Caso molestie, tutto quello che non torna nella vicenda Fanpage-Richetti. GAIA ZINI su Il Domani il 17 settembre 2022

Molte cose sono ancora da chiarire nel caso di Matteo Richetti, presidente e senatore di Azione, candidato alle elezioni del 25 settembre. Un’inchiesta di Fanpage, parla di un senatore anonimo accusato di molestie da una donna anonima.

Carlo Calenda, leader di Azione, ha scelto di esplicitare chi fosse: Matteo Richetti, che però, secondo la difesa di Azione, non ha fatto nulla di male ma anzi è la vittima, visto che già aveva presentato una denuncia per stalking.

Fanpage racconta di aver raccolto più testimonianze di molestie e comportamenti inopportuni da parte di Richetti. Sempre opera della macchinazione di Ambra che ha coinvolto dei complici per diffamare il senatore?

Molte cose sono ancora da chiarire nel caso di Matteo Richetti, presidente e senatore di Azione, candidato alle elezioni del 25 settembre.

Dopo l’inchiesta di Fanpage, che parlava di un senatore anonimo accusato di molestie da una donna anonima, Carlo Calenda, leader di Azione, ha scelto di esplicitare chi fosse: Matteo Richetti, che però, secondo la difesa di Azione, non ha fatto nulla di male ma anzi è la vittima, visto che già aveva presentato una denuncia per stalking.

Calenda ha poi divulgato anche la denuncia per stalking presentata da Richetti a fine 2021. Una delle tante scelte singolari di questa vicenda, perché la denuncia è piena di dettagli personali, nomi di persone di Azione e così via.

La denuncia, divulgata da Calenda, non chiarisce però tutti i punti oscuri della vicenda, nonostante Azione cerchi di usarla per chiudere la questione. 

LE DATE NON TORNANO

Vediamo perché, seguendo le date di questa storia. Fanpage racconta la storia di una certa Ambra, la donna che non rivela il nome, che nel novembre 2021 inizia a interagire con il senatore Richetti con la prospettiva di avere un incarico di collaborazione.

Dopo le iniziali ambiguità e approcci inappropriati, racconta Ambra, si compierebbe una vera molestia nel pomeriggio del 16 novembre del 2021: «Senza nemmeno darle il tempo di metabolizzare, il senatore la bacia. Quello che succede dopo è un’inesorabile discesa verso la violenza. Quando lei trova la forza di staccarsi, si allontana da lui e va verso la finestra, ma lui la raggiunge e le mette le mani sotto la gonna. Fino a toccarle le parti intime», scrive Fanpage.

Nei giorni successivi vengono indicati due fatti rilevanti, sempre da Fanpage. Ambra continua a ricevere chiamate e messaggi, poi passano un paio di giorni e Ambra riceve una chiamata da un altro numero. Risponde: non è lui, ma la sua amante. I minuti che seguono sono pieni di insulti: «Sei una puttana, stai lontana da lui, non ti permetterò di prendere il mio posto».

Tutto questo accade quindi, presumibilmente, tra il 16 e il 24 novembre, stando alla periodizzazione di Fanpage. Difficilmente questo può essere connesso alla denuncia per stalking presentata da Richetti e diffusa da Calenda. Non solo perché la denuncia è del 29 novembre 2021 (quale stalking dura una manciata di giorni?) ma anche perché la denuncia sembra raccontare tutta un’altra storia.

Ci sono dei messaggi anonimi su Facebook da utenti fake, scritti tra il 27 e il 28 novembre, con insulti a Richetti, alla sua famiglia e a persone a lui vicine.

È lo stesso Richetti, nella denuncia, a metterli in relazione a un altro messaggio, lunghissimo, che ha ricevuto da una persona che non viene identificata: quel messaggio è del 19 novembre 2021.

IL MESSAGGIO

A differenza di Calenda noi non lo divulghiamo per intero, ma a leggerlo si trova lo sfogo di una donna delusa perché Richetti ha scelto non lei ma un’altra sua collaboratrice, militante di Azione, le cui iniziali sono F.S. (ma nella denuncia è chiaramente indicata).

L’autrice del messaggio del 19 novembre, nel suo lungo testo, non fa cenno a molestie, ma racconta una tormentata relazione con promesse non mantenute da parte di Richetti, insulti vari al senatore e a F.S., due persone delle quali l’autrice sembra conoscere molti dettagli della vita privata. Inoltre, l’autrice non identificata sembra essere addentro alle dinamiche del partito da tempo, conosce i collaboratori di Richetti (sa perfino che ha scritto due libri negli anni passati).

Come è possibile che la donna del messaggio sia l’Ambra di Fanpage, come peraltro assicurano fonti di Azione? In una manciata di giorni avrebbe conosciuto Richetti, sarebbe stata molestata, avrebbe capito tutto delle interazioni del senatore con la moglie, la famiglia, altre donne, i colleghi, il partito e tutto il resto?

QUANTE AMBRA CI SONO?

Le date rendono assolutamente impossibile che la persona che Richetti ha indicato come presunta autrice di messaggi ingiuriosi sui social sia la stessa che a Fanpage ha raccontato di essere stata molestata il 16 di novembre 2021. Sempre se la molestia c’è stata e si è verificata in quella data.

Anche Fanpage, però, crea una sovrapposizione tra le due figure.

Fanpage racconta che dopo aver subito le molestie, Ambra entra anche in contatto con altre donne che avrebbero avuto esperienze simili e poi, mentre inizia a pensare di denunciare, riceve una visita della polizia:

«È passato da poco Natale, quando una mattina sente bussare violentemente alla porta. Guarda dallo spioncino e sul pianerottolo un grumo blu di poliziotti. Apre spaventata, pensa al peggio, mentre i poliziotti entrano e si presentano: è l’anticrimine, hanno il mandato per una perquisizione a casa e personale».

Come è possibile?

IPOTESI 1: LA CALUNNIATRICE

Si possono solo fare delle ipotesi che diano un senso a queste date. Prima ipotesi: ha ragione Richetti, la donna del messaggio e Ambra sono la stessa persona, questa Ambra è una mitomane che non solo si è completamente inventata una relazione con Richetti, con tutti i tormenti che il lungo messaggio (pieno di dettagli) rivela, ma ha anche raccontato molestie mai avvenute prima a Dagospia, che esce con un articolo sempre anonimo a dicembre 2021, e poi a Fanpage, cui fornisce dettagli completamente fasulli a cominciare dalla data della molestia.

Così le date tornerebbero: c’è una persona disturbata che calunnia Richetti da mesi e mesi, Fanpage è rimasta vittima delle sue manovre cui ha dato credito.

Epperò c’è più di un aspetto che non torna in questa ricostruzione. La donna, Ambra, si sarebbe macchiata di reati molto gravi, come creare finte conversazioni Facebook e WhatsApp, calunniare Richetti, fingersi altre persone e insultare sui social. Come può pensare di farla franca?

Inoltre, Fanpage racconta di aver raccolto più testimonianze di molestie e comportamenti inopportuni da parte di Richetti. Sempre opera della macchinazione di Ambra che ha coinvolto dei complici per diffamare il senatore?

Tutto è possibile, ma lascia comunque un punto inspiegabile anche in questa versione dei fatti: perché Richetti presenta una denuncia per stalking senza elementi? Una manciata di messaggi anonimi sui social e uno di una amante delusa sono stalking? Qualunque personaggio pubblico riceve cose simili, mentre pochi sperimentano quella che sarebbe una raffinata manipolazione nella quale sono cadute anche due testate giornalistiche, cioè prima Dagospia e poi Fanpage.

Se poi c’è stata davvero la perquisizione raccontata da Fanpage, si aprirebbero altre questioni: tutte le volte che una persona segnala cose simili si muove la polizia e va a casa del presunto stalker? O solo se a denunciare è un senatore?

IPOTESI 2: L’INSABBIAMENTO

Il secondo scenario è quello in cui tutto questo anonimato ha creato una gran confusione tra chi è chi. Forse le persone che hanno parlato con Dagospia e con Fanpage sono diverse, non c’è una sola Ambra, magari alcuni fatti si sono sovrapposti e persone diverse sono diventate la stessa nella narrazione giornalistica.

Non possiamo saperlo, anche perché non c’è alcuna denuncia depositata da parte delle possibili vittime che imponga alle forze dell’ordine di approfondire.

Se l’Ambra di Fanpage e l’autrice del messaggio contenuto nella denuncia per stalking sono due persone diverse e se la possibile molestia si è consumata davvero il 16 novembre 2021, allora Azione sta cercando di coprire il senatore Richetti evitando che si approfondiscano le sue responsabilità.

Il 14 dicembre 2021, Dagospia, senza fare nomi, scriveva: «Il leader del partito - prosegue una delle nostre fonti - sa tutto ma finge di non sapere. È terrorizzato che la storia venga fuori. Ha anche discusso con il senatore per questa vicenda ma ha preferito mettere la testa sotto la sabbia…».

COME USCIRNE?

C’è un primo modo per cominciare a capire se tutta questa vicenda è soltanto una montatura, un modo per screditare Richetti per ragioni ignote oppure è il crollo di un muro di omertà.

La persona o le persone che hanno fornito a Fanpage messaggi e conversazioni attribuite a Richetti (“se non volevi che ci provavo non ti mettevi la gonna” e cose simili) dovrebbero depositarle in una denuncia, in modo che la polizia postale possa verificarne la veridicità.

Più complesso ricostruire le eventuali molestie, ma se i messaggi fossero effettivamente del senatore allora sostenere la teoria del grande complotto diventerebbe impossibile. GAIA ZINI

La lezione del caso Richetti, prendere sul serio le denunce di molestie senza semplificare. STEFANO FELTRI, direttore, su Il Domani il 19 settembre 2022

Non abbiamo elementi per formulare giudizi sugli atteggiamenti di Richetti in generale, ma la vicenda specifica raccontata da Fanpage è molto diversa da come è stata presentata.

Le date non sono coerenti con gli elementi che abbiamo raccolto e la donna ha precedenti per aver montato storie calunniose simili.

Prendere sul serio la questione degli abusi di potere significa anche maneggiarla con rispetto per tutte le persone coinvolte e con la delicatezza che merita, altrimenti si finisce per rendere più difficile la denuncia delle molestie vere e la punizione dei predatori.

LA PERQUISIZIONE E LA RICHIESTA DI ARCHIVIAZIONE DEI PM. Richetti e la storia dell’attrice già condannata per calunnia. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 19 settembre 2022

Dagli atti della procura di Roma risulta che i pm nel 2021, dopo la denuncia del senatore, hanno indagato Lodovica Rogati.

Secondo i legali del politico è lei che in forma anonima ha detto a Fanpage di essere stata abusata da Richetti.

La donna è già finita in tribunale per stalking e diffamazione. Nel 2016 fu condannata a 4 anni, poi il reato fu prescritto.

Caso Richetti, la versione di Lodovica Mairè Rogati: «Se parlo io crolla tutto». EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 21 settembre 2022

Lodovica Mairè Rogati chiama in mattinata. Ha appena letto il secondo articolo che Domani le ha dedicato sui suoi rapporti con i politici. È la donna dello scandalo che ha travolto il senatore Matteo Richetti, perquisita dalle forze dell’ordine lo scorso gennaio dopo una denuncia per diffamazione da parte del politico.

Richetti qualche giorno fa è stato accusato da una testimone anonima che ha parlato con la testata Fanpage (per i legali di Richetti sarebbe proprio Rogati, che non ha smentito) di essere un abusatore sessuale.

«Dei suoi articoli parleremo nelle sedi opportune. Anche di quelle del cronista di Repubblica, che fa il ratto a piazzale Clodio. Ora sono costretta a scrivere un altro comunicato sui miei social, perché quello di ieri in cui ho smentito tutto, soprattutto di aver fatto denunce contro Richetti, non l’ha ripreso nessun giornale»

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 21 settembre 2022.

Lodovica Mairè Rogati chiama in mattinata. Ha appena letto il secondo articolo che Domani le ha dedicato sui suoi rapporti con i politici. È la donna dello scandalo che ha travolto il senatore Matteo Richetti, perquisita dalle forze dell’ordine lo scorso gennaio dopo una denuncia per diffamazione da parte del politico. Richetti qualche giorno fa è stato accusato da una testimone anonima che ha parlato con la testata Fanpage (per i legali di Richetti sarebbe proprio Rogati, che non ha smentito) di essere un abusatore sessuale. 

«Dei suoi articoli parleremo nelle sedi opportune. Anche di quelle del cronista di Repubblica, che fa il ratto a piazzale Clodio. Ora sono costretta a scrivere un altro comunicato sui miei social, perché quello di ieri in cui ho smentito tutto, soprattutto di aver fatto denunce contro Richetti, non l’ha ripreso nessun giornale» 

Veramente lo abbiamo messo in forma integrale…

Sì, ma ci dovevate fare il titolo. La gente legge solo quelli. Invece avete titolato che ho incontrato parlamentari di Forza Italia e i giornalisti delle Iene. Comunque, l’onorevole Giorgio Mulè, che ha detto falsamente che io gli avrei chiesto aiuto per la mia associazione contro la violenza sulle donne, le ha detto chi era la terza persona che era con noi all’incontro? Gli ha detto con chi l’ho incontrato? No? Lei non ha neanche idea di chi e di che cosa stiamo parlando. La cosa è molto seria, e non abbiamo neanche parlato per un secondo della mia associazione non profit “Io non ci sto”. Mulè le ha mentito, perché si è trovato con le spalle al muro.

E quale sarebbe la verità?

Nessuno ha idea davvero di quale sia. Ma la verità è veramente molto grave. Io devo parlare prima o poi, ma non tanto per me, perché io ho le spalle larghe. È per la mia famiglia. Perché se adesso svelo di che cosa abbiamo parlato a quella cena con Mulè, qui saltano le elezioni. 

In che senso?

Attenzione, viviamo nell’era dove si filma tutto, si registra tutto, se si cancellano le chat si recupera tutto, anche quando c’è il politico di turno che fa l’auto-eliminazione. Perché poi arriva Lodovica, si sveglia una mattina, fa recuperare tutto quello che ha, e poi sono cazzi...il risarcimento che io richiederò sarà milionario, nei confronti di tutti. Io non sono una di quelle femministe che va in giro con le tette per aria e le scritte sul petto.

Io sono stata corteggiata con proposte di denaro incredibili per parlare in tv della mia vecchia assoluzione, e non l’ho fatto. Adesso invece lo farò. Mi ha già contattato Mediaset. Se parlo crolla tutto: non importa chi vince o perde le elezioni, si torna a elezioni a Natale. Tutte le persone coinvolte in questa storia la pagheranno cara. 

Mi vuole raccontare la sua versione sulla vicenda che la vede coinvolta con Matteo Richetti?

Innanzitutto le dico che è gravissimo che Calenda e il senatore ripetano da giorni che le forze dell’ordine hanno dato informazioni a terzi su una libera cittadina. I pm avrebbero violato il segreto d’ufficio: è un reato. Fanpage non c’entra nulla con me, ma Calenda non poteva certo dare il numero della magistrata che ha chiesto la mia archiviazione alla loro redazione. Non si fa così. Se qualcuno ha dato informazioni su di me a qualche parlamentare, sia la polizia di stato, sia la postale, il commissariato, o chiunque sia, ne risponderanno tutti in tribunale.

Il suo nome spunta in alcuni atti giudiziari pubblici, come un decreto di archiviazione, dove lei risulta essere stata indagata dopo una denuncia di Richetti. A parte questo, è lei ad aver accusato il senatore a Fanpage?

Io non c’entro assolutamente nulla nella vicenda in cui sono coinvolta. E poi Fanpage non ha mai fatto il mio nome. Che l’abbia fatto sottobanco, ma non credo proprio...Poi questa cosa che Richetti è riconoscibile dalla foto, mi sono andato a rivedere il video: non c’è nessuna foto. Gli screenshot dei messaggi? Ma è una foto sbiadita dove non si vede assolutamente nulla! Lei lo ha riconosciuto Richetti scusi? 

I social lo hanno riconosciuto subito. Lui dice che è per questo che si è autodenunciato.

È una bugia. È lui che l’ha detto per primo il suo nome. Ma poi, se lo sapeva davvero mezza Roma che poteva essere lui quello del servizio di Fanpage, lei scusi non si pone una domanda? Come mai lo sapeva mezza Roma che poteva essere lui il molestatore? Ne abbiamo centinaia di senatori no? È uscito il suo nome sui social solo perché la Rogati ha passato l’ultimo anno della mia vita a parlare di lui alle redazioni? Suvvia.

Senta, la donna che parla nel servizio di Fanpage dice che è stata perquisita dopo un incontro avvenuto a novembre. Esattamente come accaduto a lei. A noi risulta, da fonti autorevoli della polizia, che ci sarebbe stata una sola perquisizione dopo la denuncia di Richetti. Solo a lei. Mentono?

Io starei molto attento a ripetere che non ci sono state altre perquisizioni al riguardo. Non prendete per oro colato tutto quello che esce dallo sbirro di turno o dall’amichetto di partito. La polizia sta mentendo, su tante cose! Innanzitutto non è detto che ci sia stata una sola perquisizione. Io non so nulla, chiariamo, non è un mio servizio quello di Fanpage, e non voglio saperne nulla. Però le ricordo che la perquisizione che mi hanno fatto non ha portato a nulla. Come hanno fatto ad arrivare a me? Secondo me Richetti i messaggi si li è auto scritti per denunciarmi, ma certo!. 

E perché lo avrebbe fatto?

Scusi ma se io litigo con lei, e ci sono delle cose delicate che non voglio che escano fuori, io mi paro! Lo chieda a Richetti, che è un uomo che non serve a nessuno, che cosa di grave era successo tra me e lui...Ora io lo denuncio per calunnia, non l’ho ancora fatto perché è stato un vortice in questi giorni, e non ho avuto il tempo. 

Ma lei quando è stata perquisita?

Sono stata perquisita subito dopo la denuncia di Richetti. È Richetti ad aver fatto il mio nome alle forze dell’ordine, l’ha detto anche Calenda ieri in un’intervista vergognosa. Tra l’altro una denuncia per stalking che parte dopo due messaggini su Facebook, che non ha visto nessuno. Quell’ipotetico lungo messaggio con gli insulti contro di lui, che comunque io disconosco, non l’ha visto nessuno. E come mai con i tempi lunghi della giustizia che abbiamo in questo paese si riescono a fare indagini lampo, che portano a una perquisizione dopo la denuncia anonima di un senatore?.

Ma perché Richetti avrebbe fatto il suo nome se lei non c’entra nulla con la vicenda come sostiene? Almeno lo conosce il senatore?

Certo che lo conosco! Lui si è contraddetto mille volte sui nostri rapporti. Prima ha detto che mi ha visto una volta, poi due...Se ho avuto una storia con lui? Guardi, il mio telefono bolle, e quindi adesso... Le dico solo che io so bene perché lui ha fatto quella denuncia. Ma non vedete che lui non l’ha presa di petto questa storia e fa parlare solo Calenda? Tranne fare il Napoleone di terza fila con quei dieci cani e gatti che lo applaudono ai convegni di quel partitino, sta zitto. Ma perché non va in tv spiegando bene tutto quanto accaduto al posto di Calenda? Carlo, ma levati dal cazzo, queste non sono cose di partito, riguardano le persone. 

È possibile che abbiate avuto una storia consenziente finita male, e che poi lei si è vendicata e lui l’ha denunciata? Lui nega qualsiasi storia.

Quella della storia consensuale lo dice lei. Io ho un compagno da un sacco di anni, poi. Certo potrei essere una che tradisce. Ma poi chiami Richetti scusi, e le chieda di darle quel messaggio dove io lo stalkerizzerei. E già che c’è gli chieda pure se ha mai mandato delle note vocali a delle persone. E se ha mai scritto a qualche donna che si era innamorato e aveva perso la testa per me. Gli chieda: “Senatore, lei alla Rogati le ha mai scritto sul numero di cellulare personale che era impazzito per lei e che voleva stare con lei?”.

Lui lo nega. Ma se anche fosse, che c’entrano questi eventuali messaggi con molestie da codice penale? Lei ha detto sia alle Iene sia a un parlamentare pronto a confermarlo che era stata molestata dal politico.

Falso, ne risponderanno tutti. Con le Iene c’è stato un incontro in cui abbiamo parlato di cose in generale. Comunque dica al senatore che qualunque proprietario di una utenza telefonica può chiedere i tabulati e conoscere i suoi numeri in uscita e in entrata. Faccia un controllo: siamo sicuri che non ci siano chiamate durate anche più di due ore tra di noi? Era il periodo ottobre-novembre dell’anno scorso. 

Come la donna di Fanpage, anche lei ha incontrato il senatore nel suo ufficio a novembre?

Sì, io l’ho incontrato nell’ufficio nei pressi del Senato, è vero. Qualcuno dice ad Azione che io ci ho provato con lui e sono stata io a essere messa alla porta da lui? Veramente è un fatto che siamo usciti dalla loro sede insieme, tranquilli, e poi siamo stati a chiacchierare in piazza.

Ci ha visto un sacco di gente, di politici. In seguito l’ho accompagnato al Senato e poi sono andata via. E poi, le posso dire una cosa? Non voglio fare la mitomane, ma vogliamo far passare davvero la storia che se una ragazza entra in un ufficio di un senatore, e lei ci prova, tipo accavalla le gambe o prova a baciarlo, ci sarebbe davvero un senatore che la scansa, “oddio no”, la manda via e l’accompagna alla porta? Non esageriamo...Dico al mondo dei maschietti, cercate di essere ragionevoli: io non sono Giselle, ma siate pazienti anche voi… 

Non generalizzerei.

Comunque le assicuro che nessuno è saltato addosso a nessuno, nessuno si è spaventato, nessuno è stato accompagnato alla porta, glielo garantisco.

Ma se c’è stato un rapporto consensuale, perché non dirlo visto i sospetti gravissimi sulla vicenda che ha in parte inquinato la campagna elettorale a pochi giorni dal voto?

Io non parlo dei miei fatti privati, vengo da un altro tipo di famiglia. Aldo Moro era il padrino di mia sorella, venne rapito dopo pochi giorni dal suo battesimo. Io conosco le lingue, non sono la biondina che va a fare la cretina, sono 15 anni che mi inseguono per fare reality, capisco che piace il gioco dell’attricetta con il politico, ma io sono di un altro livello.

Mai pensato. Ma alla fine della sua ricostruzione mi sembra mi sta dicendo che lei non è stata abusata da Richetti?

Ma ci sono tante altre ragazze, volete capirlo! Magari qualcuno le ha messe in contatto tra di loro, magari all’interno del partito qualcuno si è confidato. Voi non avete creduto a questa poveretta. Ma fosse l’ultima cosa che faccio, la carriera di Richetti e Calenda si concluderà, glielo dico io. 

Io non escludo affatto che siano altre ragazze potenzialmente abusate. Ma ora l’unico modo per verificare chi tra la testimone di Fanpage e Richetti dice la verità è quella di fare una perizia sui messaggi, non crede?

Non sono cose che riguardano me, ma Fanpage nel caso, o la loro testimone. Ci saranno dei motivi evidentemente. Ma perché stiamo ancora qui a sindacare nel 2022 il perché una ragazza non vuole fare una denuncia ufficiale così grave in un paese dove il caso Brizzi evidenzia come le donne vengono trattate in maniera indecente? Io vengo dal cinema, e non mi faccia parlare perché si aprirebbe un vaso di pandora, e non si rende conto a che livelli. Vogliamo poi parlare del caso Cucchi? In questo caso specifico una cosa è certa: secondo quei messaggi c’è stato un potente senatore della Repubblica che ha intimidito e minacciato una ragazza. Ma intanto, visto che lei è una firma estremamente autorevole, perché non consiglia a Calenda e ai suoi uomini di mettersi una museruola e non dire il falso contro di me?

Lei però è stata anche a processo per calunnia e stalking. Ha accusato il suo ex e un amico di averla violentata, e ha aggiunto che erano trafficanti internazionali di cocaina. Ha preso 4 anni in appello, poi per sua fortuna è andato in prescrizione. Se era innocente, perché ha pagato 50mila euro alle sue presunte vittime?

Io non ho “dovuto” pagare niente. Ho voluto pagare perché ero ancora molto giovane (aveva 36 anni, ndr) e mio padre voleva che andassi avanti con la mia vita senza strascichi. Mi ero accorta che non stavo ottenendo giustizia in quel processo. Ma in teoria volevo andare avanti, anche perché in passato sono stata condannata in primo grado nella vicenda del tennista a cui avrei mandato dei dvd per vendicarmi, ma poi sono stata assolta in appello perché il fatto non sussiste. Sì, ho pagato 50mila euro, forse anche di più. E quindi? Gli avrò pagato le vacanze a quei due. Ma fosse stato oggi non avrei mollato nemmeno di un centimetro. Altrimenti a che servono secondo grado e la Cassazione? Io ho la fedina penale pulita, sia chiaro. C’è un pregiudizio vergognoso su di me. 

Come finirà questa storia secondo lei?

Ma secondo lei davvero non ci sono altre ragazze? Secondo voi dopo un pezzo del genere (Fanpage) non aveva un seguito? 

Forse gli audio registrati dalla testimone al commissariato di polizia?

«Oooohhh Gesù di Dio, le si è aperto uno squarcio nella ragione. Ma quelli adesso giustamente stanno fermi. E per ora chi l’ha preso in quel posto sono io. Ora, se la Rogati non sa nulla dell’articolo di Fanpage, non è chiaro come fa a sapere che era previsto un secondo pezzo, quali documenti avrebbe la testata a disposizione, e conoscere i motivi per cui “quelli ora stanno fermi”.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 20 settembre 2022.

Lodovica Rogati, la donna perquisita dalla polizia lo scorso gennaio dopo la denuncia di Matteo Richetti (e che il senatore identifica come colei che ha denunciato a Fanpage in forma anonima presunte molestie sessuali da lui compiute), è al centro dello scandalo politico della settimana che precede le elezioni. 

Dopo l’articolo di Domani che ha dato conto della perquisizione alla donna (indagata, sarà archiviata), del fatto che secondo la polizia è stata lei l’unico soggetto controllato dopo la denuncia del leader di Azione (la donna a volto coperto nel video fa riferimento proprio a una perquisizione), e di una serie di precedenti giudiziari per calunnia e stalking della stessa Rogati, ieri sera ha scritto un comunicato.

In cui non nega di aver parlato con Fanpage come sospettano Richetti e i suoi legali, ma sostiene di «non aver mai depositato denuncia-querela nei confronti del senatore», fatto mai scritto da Domani. «Peraltro su questa vicenda dichiaro di essere totalmente estranea ad ogni fatto che sia stato del tutto impropriamente – quanto in modo non veritiero – riferito alla mia persona».

Anche Fanpage ha attaccato duramente questo giornale, non smentendo nulla della ricostruzione dei fatti (anzi avvalorandola in gran parte), spiegando che non violeranno l’anonimato della loro fonte. Mentre Richetti ha dichiarato che «gli articoli di Fanpage hanno omesso qualsiasi riferimento ai precedenti penali per stalking e diffamazione avviati da altre persone nei confronti della mia accusatrice, uno dei quali sfociato in una condanna a quattro anni». 

E ha aggiunto che non solo i messaggi «falsamente attribuiti a me» siano stati considerati autentici dal sito, ma che lo stesso avrebbe condotto «un operazione politica, ordita per danneggiare me come candidato e soprattutto la lista Azione di Carlo Calenda a pochi giorni dal voto».

Le accuse gravi che spesso i politici fanno contro la stampa andrebbero dimostrate in fretta. Come quelle di Fanpage al «senatore molestatore» indicato come colpevole di violenza, ma subito riconosciuto in rete dove ha iniziato subito a circolare il nome di Richetti. 

Adesso l’unico modo per provare a capire chi tra il politico e la donna sentita da Fanpage dica la verità è quella di verificare attraverso una perizia tecnica i messaggi sui device, considerati dalla testata online la prova regina della colpevolezza del politico.

Come già specificato, i precedenti giudiziari di qualsiasi presunta vittima, come la condanna in primo grado di Rogati che ora si dice del tutto estranea nonostante sia stata indagata per mesi su denuncia di Richetti, non impediscono che una ex calunniatrice sia stata davvero abusata. 

Contemporaneamente, non può essere ignorato che il processo più pesante che ha coinvolto la modella è finito in prescrizione che non vuol dire assoluzione, e che la ragazza ha dovuto versare 50mila euro al suo ex fidanzato e a un amico che si erano costituiti parte civile perché accusati falsamente di averla stuprata e di essere trafficanti internazionali di droga.

L’accertamento della verità, dunque, sarà faccenda dei magistrati. Nel frattempo, Domani ha scoperto come l’attrice - come dice curiosamente anche la donna intervistata da Fanpage - abbia da sempre una passione per la politica. Tendenza Forza Italia. Non solo. È vero che la Rogati negli scorsi mesi non ha mai denunciato il senatore alla procura, ma sappiamo che ha preferito incontrare e contattare autori e giornalisti delle trasmissioni di punta di Rai e Mediaset Report e Le Iene. Entrambe le redazioni, come vedremo, non hanno dato seguito alla denuncia contro Richetti.

Inoltre alcuni deputati di partiti non certo vicini ad Azione hanno spiegato a Domani che hanno avuto rapporti recenti con la Rogati. Il forzista Giorgio Mulè – che qualcuno ipotizza a torto di averla portata a Mediaset – per esempio spiega di averla incontrata di recente per l’associazione contro la violenza sulle donne “Io non ci sto”. «È vero, la conosco, devo averla vista una volta al ristorante tipo a giugno-luglio. Ma non mi ha parlato di Richetti. Ci siamo visti perché lei era andata in Ucraina con una sua associazione a dare una mano ai rifugiati, e mi aveva contattato in quanto sottosegretario alla Difesa».

Chiediamo all’esponente di Forza Italia se Rogati abbia parlato di politica. «Guardi, un amico comune mi chiese se la potevamo incontrare. Non solo per l’Ucraina. Mi raccontò della sua associazione contro la violenza delle donne, se potevo dare un sostegno politico e far conoscere il progetto in giro, memore del fatto che il papà era stato candidato da noi in passato. 

Le ho detto brevemente che c’erano le elezioni, e che ne avremmo riparlato con calma. Fui forse poco carino e non mi scrisse mai più. Mi diceva che aveva degli ottimi rapporti internazionali, e che poteva dare lustro a chi sposava la sua causa. Aveva detto che conosceva bene Fedele Confalonieri. Ma io non verificai. Le Iene? Non l’ho portata io da loro».

Anche un altro parlamentare, che per ora preferisce rimanere anonimo, ma in caso di smentita è pronto a metterci la faccia, ammette di aver avuto alcuni colloqui recenti con Rogati. Proprio su presunte molestie contro di lei di Richetti. La donna si presentò anche a lui come amica di Confalonieri, «poi mi parlò diffusamente delle molestie avute dal senatore. Ho trovato il suo racconto sconnesso. Quando ho letto il pezzo di Fanpage qualche giorno fa ho pensato fosse Lodovica». A detta del politico, la donna gli disse che un’eventuale pubblicazione delle sue denunce contro Richetti «avrebbero creato problemi ad Azione». E riferisce che Rogati «mi ha chiesto esplicitamente di spargere la voce che l’accusato fosse Richetti».

Lei, tramite il comunicato, sembra smentire seccamente ogni coinvolgimento. Ma alcuni documenti verificati da Domani confermano in effetti che la Rogati fosse davvero interessata – una volta uscita l’inchiesta di Fanpage – non solo che Richetti pagasse le sue colpe davanti all’opinione pubblica («la deve pagare»; «lo devono far ritirare dalla corsa elettorale»; «so che è il primo di altri, proseguirà in tv anche dopo le elezioni»; «ma non sono stata io, una delle altre», dice la donna), ma pure agli effetti politici negativi su Azione, Carlo Calenda e l’alleato Matteo Renzi.

L’interesse per la politica dell’attrice forse è legato al fatto che sia la figlia di Elio Rogati, giornalista e scrittore che nel 1994 è stato candidato da Forza Italia alle elezioni europee. Benestante, difensori di grido come lo studio Coppi, la quarantaduenne ha avuto qualche mese fa anche un incontro con la redazione delle Iene di Mediaset. «Qualche tempo fa si è presentata come un’amica di Confalonieri - ci spiega uno degli autori - Non abbiamo nemmeno valutato il suo materiale su Richetti, in questi casi siamo molto esigenti. Ci ha fatto vedere alcuni messaggini, ma non tutta la presunta conversazione avuta con il senatore. Quindi abbiamo desistito».

Una storia simile è stata proposta anche a Report. A Domani risulta che – quando la notizia di una lettera anonima per presunte molestie contro il conduttore Sigfrido Ranucci era già circolata sulla stampa – una donna ha chiesto più volte di parlare con il conduttore. La persona si presentava però di volta in volta con identità diverse. Le telefonate proponevano uno scambio: se Report avesse pubblicato del materiale scottante su Richetti, lei avrebbero dato a Ranucci la prova che dietro gli attacchi contro di lui c’era una macchinazione ordinata da un presunto superpoliziotto che voleva incastrarlo con chat fasulle.

Dopo le conversazioni, la donna ha scritto una mail, ipotizzando ancora di far fare un’inchiesta televisiva sulle possibili violenze sessuali del numero due di Azione. La redazione della testata però non si fida, e se ne libera consigliandole di andare a denunciare le molestie in procura. 

Possibile che la donna sia sempre Rogati? Impossibile dirlo con certezza, ma una fonte interna alla Rai spiega che lo stesso numero di cellulare usato da una delle identità che ha chiamato Report aveva già chiamato nel 2019, contattando un loro giornalista per denunciare un caso di malasanità: «Era della Rogati».

Matteo Richetti, scoppia il caso molestie sessuali: "Io vittima di stalking, ho denunciato". Il Tempo il 17 settembre 2022

Una donna lo accusa di molestie sessuali e il suo partito lo difende: "Ha denunciato tutto un anno fa". È il caso del senatore di Azione Matteo Richetti, ricandidato alle prossime elezioni. Il parlamentare è finito nell'occhio del ciclone dopo l'intervista di una donna, la presunta vittima, rilasciata a Fanpage.it. I legali di Richetti hanno replicato alle accuse spiegando che la donna era già stata denunciata un anno fa per stalking e minacce. L'AdnKronos che ha potuto leggere gli atti della vicenda giudiziaria ricostruisce l'intera storia del senatore di Azione che - attraverso i suoi avvocati - ha definito "altamente lesiva della sua reputazione". Tutto comincia il 29 novembre 2021 quando Richetti si reca alla polizia postale di Roma per presentare una denuncia contro ignoti.

Il senatore racconta che sul suo profilo Facebook, quattro giorni prima, sotto una foto che lo ritrae insieme a ragazzi del suo staff, compare un commento durissimo dove Richetti viene apostrofato con frasi ingiuriose (fra le altre "omm 'e merda, te devono arrestà") e viene anche tirata in ballo una militante di Azione definita "schiava sessuale". Il tono del post è violento, ed è lo steso utilizzato dalla medesima utente il 28 novembre in un commento postato addirittura sul profilo della figlia di Richetti. Sempre a quanto risulta all'Adnkronos, la situazione degenera perché la misteriosa signora non si fa scrupolo di attaccare tutta la famiglia del senatore con frasi obiettivamente non riportabili. Sempre il 28 novembre lo staff di Azione segnala un commento ingiurioso della stessa utente, che si firma con nome falso. Anche qui frasi sconnesse, gravi accuse, e insulti alla collaboratrice citata nei precedenti commenti. Persino il fratello della militante, secondo quanto Richetti racconta alla polizia, il 27 novembre viene preso di mira con post altrettanto violenti. Ma non finisce qui.

È sempre Richetti a denunciare un sms ricevuto sul suo telefono il 19 novembre 2021 nel quale una asserita donna accusa Richetti di nefandezze di ogni genere. Anche qui frasi irriportabili accanto a espressioni tipo "sei uno schifoso" oppure "tu sei malato di testa" e via discorrendo. Richetti - a quanto risulta all'Adnkronos - alla polizia allega lo screenshot con numero di telefono del lunghissimo messaggio ricevuto, oltre alle fotografie dei commenti postati sui social. Stando a quanto risulta all'Adnkronos, la polizia avrebbe oscurato per ben due volte i profili fake da cui sarebbero partiti i commenti. Sembrerebbe esserci stata anche una perquisizione, che non avrebbe però portato a identificare la misteriosa donna.

Nelle ultime ore i social sono ritornati prepotentemente sulla scena perché è lì che si è scatenata la caccia al presunto parlamentare molestatore dopo un articolo di Fanpage. In una intervista rilasciata alla testata on line una donna anonima racconta di essere stata molestata da un "importante" senatore, senza fare nomi.

Ci pensa Azione, partito nel quale Richetti milita ed è candidato, a rendere pubblica la cosa con un comunicato diffuso in serata: "Da un anno - si legge nella nota - il senatore Richetti ha denunciato alla magistratura e alla polizia postale attività di stalking e minacce riconducibili a una donna già nota alle forze dell'ordine. Attraverso messaggi contraffatti, finti account social e telefonate, la persona in questione sta molestando da mesi il senatore e la sua famiglia. Tutto il materiale è in mano alla magistratura".

E ancora: "Il fatto che un sito di informazione, a dieci giorni dalle elezioni, riporti anonimamente accuse tanto gravi senza avere il coraggio di fare il nome del senatore, ma pubblicando foto parziali che lo rendono riconoscibile, rappresenta uno nuovo livello di bassezza della stampa italiana. Il senatore che in questa vicenda è parte lesa, non essendo mai stato neanche denunciato dalla donna in questione, procederà legalmente per difendere la sua onorabilità in tutte le sedi".

MULÈ: «L’HO VISTA, MI CHIESE SOLO DI AIUTARE LA SUA ASSOCIAZIONE. SUO PADRE ERA DI FORZA ITALIA». Così Rogati denunciò Richetti a politici di destra e a Mediaset. EMILIANO FITTIPALDI su Il Domani il 20 settembre 2022

La donna del caso delle presunte molestie del senatore dice di «essere estranea alla vicenda». Ma ha incontrato un deputato e Le Iene attaccando il politico: «La deve pagare. Lo devono far ritirare».

È vero che la Rogati negli scorsi mesi non ha mai denunciato il senatore alla procura, ma sappiamo che ha preferito incontrare e contattare autori e giornalisti delle trasmissioni di punta di Rai e Mediaset Report e Le Iene. Entrambe le redazioni, come vedremo, non hanno dato seguito alla denuncia contro Richetti.

Inoltre alcuni deputati di partiti non certo vicini ad Azione hanno spiegato a Domani che hanno avuto rapporti recenti con la Rogati.

Emiliano Fittipaldi per editorialedomani.it il 19 settembre 2022.  

La donna indagata meno di un anno fa dalla procura di Roma, dopo una denuncia di Matteo Richetti contro ignoti per presunto stalking e diffamazione, è un’attrice e sceneggiatrice. Il suo nome è Lodovica “Mairè” Rogati, è presidentessa di un’associazione contro la violenza sulle donne, e nel 2016 è stata condannata in primo grado per calunnia e stalking a 4 anni di carcere per accuse false contro il suo ex compagno, accusato di averla stuprata. 

Ora, secondo il senatore di Azione e il suo avvocato, la Rogati sarebbe la stessa persona che – con il viso nascosto e la voce camuffata dai giornalisti di Fanpage che hanno raccolto la sua testimonianza – lo ha accusato di commettere gravi abusi sessuali e violenze private nel suo ufficio vicino a palazzo Madama.

La storia è complessa e delicata, e Domani cerca con questo articolo – attraverso documenti inediti e testimonianze incrociate – di raccontare nuovi aspetti della vicenda, che potrà essere chiarita definitivamente solo dalla magistratura. Che dovrà probabilmente sentire le due versioni e capire (facendo probabilmente una perizia tecnica sui device) se i messaggi che secondo Fanpage inchioderebbero sono veri oppure falsi come sostiene il senatore.

Partiamo da quello che è finora noto. Il nome del senatore Richetti è da tre giorni al primo posto sugli argomenti dibattuti su Twitter e gli altri social. A causa di un’inchiesta «durata mesi» del sito di informazione napoletano, che ha raccolto la denuncia di una donna in forma anonima che accusa (anche in un video) un «senatore della Repubblica» di aver abusato di lei il 16 novembre del 2021 nel suo ufficio vicino a Palazzo Madama. 

Fanpage non fa mai il nome di Richetti, ma l’ex renziano che ha fondato Azione insieme a Carlo Calenda decide di “autodenunciarsi” a poche ore dalla pubblicazione del pezzo: «Il senatore di cui tutti parlano sono io. Ma non ho fatto nulla». Una mossa decisa, pare, per due motivi. Innanzitutto, era il segreto di Pulcinella, visto che stato contattato qualche giorno prima da una giornalista del sito che l’aveva avvisato che stava per uscire un pezzo sui suoi presunti abusi.

In secundis, il suo nome era cominciato a circolare tra i palazzi e su alcuni profili Twitter, che lo indicavano senza se e senza ma come il senatore molestatore. «Era necessario bloccare subito le speculazioni e difendersi da una diffamazione così grave», spiegano dal partito.

Le accuse della presunta vittima e di Fanpage (che chiarisce fin dal sommario del titolo come «decine di messaggi confermano la versione dei fatti raccontata dalla donna») sono in effetti pesantissime: “Ambra”, nome inventato dal sito, spiega infatti che con il senatore avrebbe avuto due incontri. Già nel primo, Richetti avrebbe ammesso come lei, che desiderava entrare nel mondo della politica, se avesse cominciato a lavorare con lui sarebbe stata «nell’occhio del ciclone, perché io sono molto chiacchierato». 

Il secondo randez vous nel suo ufficio è quello cruciale: secondo la ragazza il senatore prima l’avrebbe baciata, per poi «mettere le mani sotto la gonna, fino alle parti intime». Uscita sconvolta dall’ufficio, l’uomo avrebbe continuato la violenza privata attraverso messaggi espliciti alla donna. In parte pubblicati da Fanpage, che li ha acquisiti da lei: «Non posso ignorare l’amore che provo per te, un colpo di fulmine che aspettavo da tutta una vita», si legge. «Ho reazioni fisiche incontrollabili: dovrai domarle», «Sei la donna più bella che abbia mai visto in tutta la mia vita...meritiamo di essere felici insieme!», aggiungono altri.

Quando lei minaccia di denunciarlo, il politico scriverebbe: «Sì certo, denunci un senatore con immunità...stai perdendo l’uomo e l’occasione della tua vita. Non ci vuole un matematico per sapere a chi crederanno tra i due». Infine l’ultimo, che per gli amici di Richetti sarebbe fin troppo telefonato, dice: «Se non volevi che ci provavo non ti mettevi la gonna che era un chiaro segnale...Ti mettevi i pantaloni e facevi la frigida. Con questi movimenti femministi del cazzo vi siete tutte montate la testa».

Andiamo avanti. Dopo circa due mesi dal presunto abuso, la ragazza – che non ha finora denunciato il senatore, ma non è detto che non lo faccia in futuro - subisce una perquisizione da parte della polizia. E allora che scopre che è stato proprio Richetti a chiedere l’intervento dei magistrati. Non è finita: la testimone accusa pure di aver subito attenzioni indesiderate dalla polizia. 

A Fanpage prima dichiara che «un vicecapo della polizia avrebbe ceduto alle pressioni del politico per velocizzare l’iter della denuncia e arrivare alla perquisizione in tempi brevissimi» (secondo il sito esiste un audio che proverebbe quanto dice la fonte “Ambra”). 

E poi descrive come sarebbe stata umiliata nuovamente da un vice ispettore: il dirigente della polizia le avrebbe infatti manderebbe una mail (anche questa pubblicata dal giornale online) nella quale invita la donna a tranquillizzarsi, per poi aggiungere: «Comunque, sei uno spettacolo». L’inchiesta si conclude con la notizia che sarebbero molte le ragazze abusate dal senatore, che non hanno però avuto il coraggio di parlare.

Richetti, si sa, ha subito negato la ricostruzione. Il politico ammette di aver incontrato una donna che voleva lavorare per Azione, ma il suo avvocato Fabio Lattanzi spiega a chi vi scrive che sarebbe stata allontanata rapidamente da Richetti dalla stanza pochi minuti dopo l’ingresso nel suo ufficio, senza che il senatore avesse «commesso alcun abuso». 

Il legale aggiunge che il 29 novembre, dopo che nei giorni immediatamente precedenti erano arrivati una serie di messaggi minacciosi e anonimi sul suo cellulare e sui social della sua compagna, il senatore aveva fatto una prima denuncia contro anonimi alla procura di Roma. 

Una seconda denuncia contro ignoti viene depositata il 13 settembre. Domani l’ha letta: il senatore di Sassuolo spiega alla polizia di essere «a conoscenza di un dossier diffamatorio a mio carico recapitato a numerose testate giornalistiche tra cui “Il Fatto Quotidiano” e “Le Iene”». 

E nella stessa dice che una giornalista di Fanpage invitava da mesi «le mie collaboratrici a rivelare eventuali approcci sentimentali subiti, dichiarando di agire nell’interesse e a tutela delle donne. Nella giornata odierna la stessa mi chiamava e mi anticipava la pubblicazione di un’inchiesta a mio carico afferente una serie di episodi di molestie nei confronti di alcune donne. La giornalista mi leggeva anche contenuti di messaggi in suo possesso a me attribuiti che disconosco in quanto da me né prodotti e né inviati, e quindi desumo totalmente artefatti.

Il mio avvocato ha contattato il direttore di Fanpage (Francesco Cancellato, ndr) per informarlo dell’accaduto. Il mio legale nell’occasione ha rappresentato che per fatti analoghi a quelli asseritamente contenuti nella citata telefonata ho sporto denuncia, ed è incardinato un procedimento penale presso la procura di Roma a seguito della mia denuncia per diffamazione». Avvertimenti che non hanno sortito effetto, visto che Fanpage ha pubblicato comunque, con l’accortezza di evitare di mettere il nome della donna (per proteggere la fonte) e del senatore.

Ora, dal sito non hanno voluto fare il nome della testimone, ma spiegano di essere certi della veridicità dei messaggi che ne comproverebbero il racconto. Domani, però, ha ottenuto da fonti giudiziarie un documento firmato dalla pm Alessia Natali, nel quale si evidenzia che esiste in procura a Roma un procedimento giudiziario contro l’attrice Lodovica Rogati, classe 1980, aperto nel 2021.

L’atto segnala che la persona offesa è proprio Richetti. Il documento è una richiesta di archiviazione dei reati: evidentemente il magistrato e la polizia postale che hanno indagato non hanno trovato elementi che colleghino la donna ai messaggi sui social e sulla sua utenza telefonica di cui si è lamentato Richetti nella prima denuncia. Per la cronaca, telefonando al numero da cui è partito un lungo messaggio pieno di improperi e minacce per una presunta relazione interrotta dal politico, risponde oggi un ignaro straniero, che dice di essere un badante di un anziano e di non conoscere nulla della faccenda. 

Sappiamo per certo che Richetti non si è opposto alla richiesta di archiviazione, ma non se il gip l’ha già accolta. Ma chi è la Rogati? E perché Richetti e i suoi avvocati sono certi che sia la stessa donna che ha parlato con Fanpage?

Andiamo con ordine. La donna che è stata indagata a Roma dopo la prima denuncia anonima di Richetti si definisce nel suo sito personale «attrice, sceneggiatrice, documentarista, autrice e conduttrice televisiva italo-britannica, attivista per i diritti degli animali». I fan di Massimo Boldi la potrebbero ricordare come co-protagonista, nel 2007, di “Matrimonio alle Bahamas», ma l’artista ha girato anche puntate de “Il Commissario Manara” e “Il giovane Montalbano” sulla Rai.

Soprattutto, la Rogati nel 2012 ha fondato l’associazione “Io non ci sto”, contro la violenza sulle donne, della quale è presidentessa. Nel sito, in una sorta di auto-intervista, la donna spiega che ha deciso di creare l’iniziativa in quanto lei stessa è stata «vittima di una terribile esperienza: ho sentito il bisogno di entrare in contatto con altre donne che come me avevano subito violenza. Volevo rendermi disponibile ad aiutarle anche solo ascoltando le loro storie. La quantità di donne che mi ha contattata è stata davvero impressionante sin dal primo giorno che l’ho presentata in televisione attraverso il TG5». 

Quello che non scrive l’attrice nel sito di “Io non ci sto” sono i suoi precedenti con la giustizia. A leggere i lanci dell’Ansa del 2010 facilmente reperibili da fonti aperte, quell’anno è iniziato il processo contro di lei partito da una denuncia di Giorgio Galimberti, suo ex compagno e campione di tennis negli anni zero.

Secondo l’accusa dei magistrati del tribunale di Rimini, la donna non aveva gradito la fine della relazione, e aveva spedito alla nuova fiamma dell’uomo un dvd con immagini hard di lei con il tennista, risalenti ai tempi in cui erano ancora una coppia. Anche la Rogati aveva denunciato per stalking Galimberti, ma la sua denuncia era stata subito archiviata. 

Il giudice di pace condannò in primo grado l’attrice a 600 euro di multa e a un risarcimento di 7mila euro, ma nel 2016 in appello la Rogati vince: il tribunale la assolve perché «il fatto non sussiste».

Le cose le vanno assai peggio in un altro processo. Nel 2013 la ragazza viene di nuovo infatti rinviata a giudizio dalla procura di Roma con l’accusa di calunnia e stalking: la Rogati aveva accusato l’ex fidanzato e un altro uomo di averla stuprata brutalmente in un garage di casa sua. Non solo: ascoltata dalla pm Francesca Passaniti, aveva aggiunto che i due erano anche trafficanti internazionali di droga. La donna aveva pure detto ai giudici di aver visto cinque involucri di plastica trasparente con dentro una sostanza «tipo cocaina». Tutte balle, secondo i giudici che la mandano dietro le sbarre per calunnia.

Non solo: l’attrice indagata per il caso Richetti viene accusata anche di stalking, per aver perseguitato l’ex fidanzato e la sua compagna con telefonate e sms di minacce. Quattro giorni prima dello stupro inventato, secondo l’ex la Rogati lo aveva telefonato dicendogli: «Io ti rovino la vita, non mi sfidare perché non hai nemmeno idea di quello che sono capace di fare». Una frase agli atti del processo, e citata in lanci di agenzie di stampa. 

Nel 2016 il pm in primo grado chiese dunque ben sei anni di carcere, e i giudici condannarono la presidente dell’associazione contro la violenza sulle donne a 4 anni. Il processo si è poi prescritto in appello, ma gli avvocati della donna oggi quarantaduenne confermano a Domani che la ragazza ha pagato circa 50mila euro alle parti civili, cioè i due uomini ingiustamente accusati che poi sono usciti dal processo. «La strumentalizzazione di un fatto così grave come quello di violenza sessuale è un fatto riprovevole» commentò Irma Conti, legale dei diffamati «E gli accertamenti e le verifiche svolte dopo la presentazione delle denunce sono a tutela di tutte le donne: bene che si proceda per calunnia quando non c’è nulla di quanto dichiarato».

È un fatto che la Rogati sia stata iscritta nuovamente nel registro degli indagati dopo la denuncia di Richetti. Possibile però che non sia lei ma un’altra ragazza l’accusatrice anonima di Fanpage? Le date e le circostanze dei due incontri citate dalla testimone e dallo stessa difesa di Richetti tornano. 

In più, la donna intervistata parla di una perquisizione subita dopo il randez vous del 16 novembre (quello delle presunti abusi). Fanpage in una nota del direttore ha ipotizzato che le persone perquisite possano essere diverse, mentre a Domani una fonte autorevole della polizia spiega che «in merito alla denuncia di Richetti è stata fatta solo un’attività. A casa della signora Rogati». La cui posizione da indagata, ricordiamo, sta per concludersi o si è già conclusa, visto la richiesta di archiviazione firmata lo scorso maggio.

Fanpage protegge giustamente l’identità della sua fonte, e gli avvocati di Lodovica Rogati si rifiutano di darci i suoi contatti (il sito dell’associazione non ha sede né numeri telefonici) per porle qualche domanda. Dunque in via teorica è ancora possibile affermare che per una serie di coincidenze (che il legale di Richetti ritiene «altamente improbabili») la donna anonima non sia l’attrice. Una circostanza che però può essere vera solo se qualcuno dei protagonisti (polizia compresa) ha mentito a chi vi scrive. 

Detto questo, la verità definitiva sulla vicenda resta difficile da verificare. I precedenti giudiziari della donna non impediscono di escludere che questa volta abbia raccontato fatti autentici. In casi gravi come la violenza sulle donne non è corretto indicare come «squilibrata» o «bugiarda» una persona, anche se si sa che ha sbagliato in passato.

L’unico modo per accertare chi ha ragione è verificare che i messaggi di Richetti non siano artefatti, ma genuini. Il senatore ha querelato Fanpage in sede civile e penale, mentre un’altra denuncia per diffamazione è stata depositata il 13 settembre: forse in tempi brevi la procura riuscirà a sciogliere l’arcano. Per Calenda è invece tutto già molto chiaro: «Quello che è successo è una delle pagine più vergognose del giornalismo italiano degli ultimi anni». 

Tornando alla Rogati sul suo sito risponde così, in una vecchia intervista, a chi sostiene che le donne abusate dovrebbero denunciare subito per essere considerate credibili: «In questo paese se vai a denunciare una molestia alle forze dell’ordine vieni rimandata a casa. Se non ha un video o qualunque altro supporto moderno che avvalori la tua tesi e hai solo la tua parola non vieni creduta. Questa è la verità». 

Stavolta la donna che accusa il presunto molestatore un’ arma però ce l’ha, visto che afferma di avere i messaggi auto accusatori del violentatore: risultassero veri, il senatore rischia un processo e la fine della sua carriera politica (insieme a Calenda, che lo ha difeso a spada tratta). Al contrario, la vicenda potrebbe travolgere chi ha accusato ingiustamente un politico di gravi nefandezze avvelenando la campagna elettorale.

Elezioni 2022. “Richetti querela il sito Fanpage ed il suo direttore responsabile”. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 18 Settembre 2022. 

Le giustificazioni che vengono utilizzate da un certo giornalismo, che tutto è fuorchè informazione da spacciare come la verità assoluta, sono le seguenti: lui è un uomo, un politico quindi il caso è chiaro. Ma sul versante opposto, lei ha solo parlato nascondendo la sua identità, lui invece ha denunciato tutto un anno fa quindi dal punto di vista legale al momento ha ragione.

Il senatore e presidente di Azione Matteo Richetti ha dato mandato ai propri legali per procedere in sede civile nei confronti di Fanpage, del direttore responsabile e degli altri soggetti responsabili per gli articoli e i video diffamatori nei suoi confronti pubblicati in questi giorni. In tal modo sarà possibile accertare la palese falsità delle accuse mosse nei suoi confronti e dei messaggi telefonici pubblicati dalla testata, senza neppure verificarli”. Richetti, aggiunge l’ufficio stampa di Azione, procederà “in sede penale” oltre che civile. 

Il sito di informazione Fanpage ha pubblicato l’accusa anonima di una donna contro il politico modenese, che avrebbe abusato della vittima a Palazzo Madama. E lo fa firmando l’articolo con uno pseudonimo. La donna non avrebbe presentato alcun esposto, mentre la denuncia per stalking di Richetti risale al 29 novembre 2021  e la Procura di Roma ha aperto un’indagine in merito, disponendo anche una perquisizione. La Polizia Postale è già al lavoro per accertare la veridicità dei messaggi pubblicati dal sito.”Non abbiamo proprio la benevolenza dell’informazione  – ha spiegato dal palco Richetti – a volte c’è un racconto distorto e ne sto vivendo uno che mi sta tagliando la carne addosso. Ma andiamo avanti a testa alta” aggiungendo “La mia reputazione è stata infangata da un’intervista anonima negli ultimi giorni della campagna elettorale – ha aggiunto Richetti – sono cose che non accadono in un Paese civile. Ora basta“.

La vicenda che ha coinvolto il senatore Richetti  dimostra ancora una volta quanto il giornalismo italiano sia lontano anni luce da una gestione civile, deontologica ed etica di vicende di questo genere, che dovrebbero essere prima verificate ed approfondite prima di rovinare la reputazione di una persona uomo o donna che sia. Al momento ci sono due storie con due versioni differente a confronto in merito alle quali l’unica certezza è che non esiste ancora nulla di certo.  

“Una vicenda tutta inventata, che mi taglia la carne addosso e di fronte alla quale mi sento impotente”. si è sfogato stamani a Parma Matteo Richetti, senatore di Azione e candidato per il partito di Carlo Calenda alle prossime elezioni politiche del 25 settembre, nel corso di un’iniziativa elettorale, respingendo con fermezza l’accusa di molestie sessuali.

Richetti non perchè sia un senatore, ma sopratutto in quanto “persona” ha diritto costituzionalmente ad essere considerato innocente finché a quando i fatti non verranno accertati chiariti dalle istituzioni competenti, cioè dalla polizia e la magistratura. Nello stesso modo anche la donna che ha raccontato le presunte molestie, nascondendosi dietro il solito anonimato in cui sguazza certa cattiva informazione, ha anche lei al momento il diritto di non essere definita “nota alle forze dell’ordine” da chi si difende dalle accuse che lei muove.

Le giustificazioni che vengono utilizzate da un certo giornalismo, che tutto è fuorchè informazione da spacciare come la verità assoluta, sono le seguenti: lui è un uomo, un politico quindi il caso è chiaro. Ma sul versante opposto, lei ha solo parlato nascondendo la sua identità, lui invece ha denunciato tutto un anno fa quindi dal punto di vista legale al momento ha ragione. 

Va detto anche che i tribunali italiani sono pieni di querele e controquerele, di invenzioni e tentativi di estorsione economica, e quindi se bastasse un’intervista “coperta” o diffondere una denuncia per dimostrare di essere dalla parte della ragione è chiaro che almeno il 50 per cento degli interessati lo farebbe pur avendo torto. Così come chi sostiene che siccome la donna non ha denunciato dunque sta mentendo.

L’aver presentato o meno denuncia può aver peso sull’iter penale di una vicenda ma in realtà nella concretezza e verità dei fatti in questa fase non prova nulla, specie in casi simili. Ci sono passato anche io dalla macchina del fango di un certo giornalismo “schierato” con la tessera sindacale che voleva farmi passare per “stalker” solo per aver mandato 3 messaggi via whatsapp invitando la controparte a trovarsi un buon avvocato. Consiglio…che non è stato accolto considerata la scelta effettuata. Ed infatti in tutta la fase preliminare e cautelare la verità è stata dalla mia parte

Quindi al momento sarebbe bene tacere senza assolvere o condannare nessuno, aspettare il corso delle indagini, e successivamente valutare le prove fornite all’ Autorità Giudiziaria. Non si chiama fare il tifo o parteggiare per qualcuno, bensì è solo una forma di garantismo previsto dalla nostra Costituzione. Non siamo contro nessuno o a favore di qualcuno, siamo solo e soltanto dalla parte della Legge e della nostra Costituzione a difesa della dignità di tutti e tutte.

Richetti, l’ombra delle molestie. Una donna lo accusa. Azione: «Lui vittima di stalking, ha denunciato». Claudio Bozza su Il Corriere della Sera il 16 Settembre 2022.

La presunta vittima è stata intervistata da Fanpage.it. I legali hanno replicato che la donna era stata denunciata un anno fa per stalking e minacce. 

Lei, «Ambra», nome di fantasia, aspirante funzionaria di partito, accusa «un senatore» di molestie sessuali, ma spiega che non riesce a trovare la forza di denunciare. Lui, il senatore accusato e fino a oggi ufficialmente senza nome, ha invece un profilo piuttosto noto: Matteo Richetti, presidente di Azione ricandidato in Emilia-Romagna alle elezioni del 25 settembre e braccio destro di Carlo Calenda. E lo stesso Richetti aveva già provveduto, diversi mesi fa, a denunciare per molestie e stalking la ragazza. Così, pochi giorni dopo lo scorso Natale la polizia postale aveva bussato alla porta della giovane, la cui abitazione è stata perquisita da cima a fondo. La vicenda di cui si parla (e di cui radio Parlamento chiacchiera da tempo) emerge a pochi giorni dal voto.

A renderla nota è un’inchiesta di Fanpage.it, che ha ricostruito i passaggi della presunta violenza sessuale intervistando «Ambra» e pubblicando una serie di screenshot con i messaggi scabrosi che le sarebbero stati inviati dal «senatore». Una lunga nota firmata da Azione fa luce sui passaggi del caso: «Da un anno il senatore Richetti ha denunciato alla magistratura e alla polizia postale attività di stalking e minacce riconducibili a una donna già nota alle forze dell’ordine. Attraverso messaggi contraffatti, finti account social e telefonate, la persona in questione sta molestando da mesi il senatore e la sua famiglia. Tutto il materiale è in mano alla magistratura».

Nel lungo articolo di ricostruzione, Fanpage.it non esplicita mai il nome di Richetti, ma spiega di aver rintracciato altre donne che avrebbero denunciato fatti analoghi, ipotizzando un «me too della politica». La versione fornita dai legali di Richetti, è diametralmente opposta: «Abbiamo presentato molteplici denunce contro ignoti, perché il senatore Richetti è da mesi vittima di accuse destituite di ogni fondamento, specialmente via social network e non solo da una donna che numerose volte lo ha atteso sotto casa».

Nella ricostruzione di Fanpage.it si riporta il racconto di «Ambra»: un primo incontro a due passi da Palazzo Madama per un possibile impiego nella struttura del partito. Poi un altro faccia a faccia, durante il quale si sarebbe consumata la violenza. A corredo della ricostruzione sono stati pubblicati anche messaggi attribuiti al senatore, e sulla cui veridicità e provenienza sta indagando la procura di Roma. «Denunci un senatore con l’immunità? A chi crederanno?» è uno degli screenshot finiti online.

La ragazza, però, non ha mai sporto denuncia: «Perché?», si chiedono nell’entourage del senatore. Una vendetta innescata a pochi giorni dal voto oppure davvero un caso di abusi? Questo lo appureranno i pm che stanno indagando per stalking e diffamazione su più filoni. La replica del partito guidato da Carlo Calenda prosegue così: «Il fatto che un sito di informazione, a dieci giorni dalle elezioni, riporti anonimamente accuse tanto gravi senza avere il coraggio di fare il nome del senatore, ma pubblicando foto parziali che lo rendono riconoscibile, rappresenta uno nuovo livello di bassezza della stampa italiana». E poi: «Richetti, che in questa vicenda è parte lesa, non essendo mai stato neanche denunciato dalla donna in questione, procederà legalmente per difendere la sua onorabilità in tutte le sedi».

Accuse di molestie in Senato. Richetti querela: "Io vittima". La denuncia di una donna: "Abusata nel suo ufficio". Il centrista: "Solo calunnie". E si muove pure Calenda. Pasquale Napolitano il 18 Settembre 2022 su Il Giornale. 

Il «Richetti-gate» scalda il rush finale della campagna elettorale e scatena la resa dei conti tra Carlo Calenda e gli ex alleati del Pd. Il senatore di Azione Matteo Richetti annuncia la querela contro il sito Fanpage che venerdì ha pubblicato il racconto di una donna, la cui identità è ancora coperta, che ha denunciato di aver subito avances sessuali dal politico, «nel suo ufficio istituzionale». Richetti nega le accuse e porta il sito in Tribunale: «Ho dato mandato ai miei legali di procedere in sede civile nei confronti di Fanpage, del direttore responsabile e degli altri soggetti responsabili per gli articoli e i video diffamatori pubblicati in questi giorni. In tal modo sarà possibile accertare la palese falsità delle accuse mosse nei miei confronti e dei messaggi telefonici pubblicati dalla testata, senza neppure verificarli», annuncia una nota dell'ufficio stampa di Azione. La vittima nell'intervista ha mostrato anche alcuni messaggi scambiati con il senatore. Per Richetti si tratta di messaggi contraffatti: «Hanno costruito messaggi falsi e li hanno attribuiti a me. Hanno mandato un video anonimo che racconta cose mai accadute. Io ho denunciato, chi mi calunnia no. Sono mesi che accade questo è ora esce ogni tipo di falsità e io devo fare chiarezza? Più di così».

Intanto si muove la Procura di Roma che indaga sul caso. Il fascicolo è stato aperto a fine 2021. Quando il senatore si è recato dai magistrati per sporgere denuncia per stalking. Il parlamentare avrebbe raccontato ai giudici di essere stato preso di mira da una donna che lo accusava di molestie sessuali in Senato senza però avere presentato alcun esposto. Una storia torbida. Già un anno fa su alcuni siti sono apparse notizie circa la presunta relazione del senatore con una sua collaboratrice napoletana. Articoli pieni di insulti e frasi volgari che ad oggi non sono stati rimossi. Richetti si sfoga: «Quello che sto vivendo mi sta tagliando la carne addosso. Io mi sono trovato un servizio in cui una persona, anonimamente, diceva di aver subito molestie e ha supportato quella cosa portando uno scambio di messaggi che è stato costruito in maniera artefatta. Io non li ho mai pensati, ideati e inviati. Non è la versione di Richetti ma è riscontrabile in un minuto. Abbiamo mandato a tutti i giornalisti l'atto di denuncia di 12 mesi fa che reca i messaggi che questa signora ha mandato al senatore Richetti da cui si capisce che siamo di fronte a una persona che non sta bene e che tutto era tranne che molestata. Quello che è successo è una delle pagine più vergognose del giornalismo italiano degli ultimi anni, che pure di pagine vergognose ne ha molte».

Il caso offre però l'occasione al Pd di regolare i conti: «Una cosa è certa, non denunciare non vuol dire non aver subito molestia o violenza. Basta guardare i dati Istat: 8 donne su 10 non denunciano le violenze subite. Questo Calenda non può non saperlo», commenta Laura Boldrini su Twitter. Mentre l'europarlamentare dem Pina Picierno rilancia: «Carlo Calenda si è svegliato e ha diffuso la querela che Richetti ha presentato alla donna che lo accusa di molestie definendola una squilibrata. Un atteggiamento riprovevole e patriarcale che punta a vittimizzare la donna e ad assolvere il presunto molestatore». Il leader di Azione sbrocca: «Pina Picierno strumentalizza la vicenda che riguarda Matteo Richetti per prendere voti». Accuse e veleni tra ex alleati.

Il caso del senatore. Molestie, questione troppo seria per il giornalismo italiano. Angela Azzaro su Il Riformista il 23 Settembre 2022 

Più si legge sulla vicenda che vede coinvolto un senatore della Repubblica, più la questione – serissima – delle molestie e del potere che si esercita passa in secondo piano. Ciò che prevale non è tanto l’appurare i fatti, ma dare in pasto ai lettori, condita con pruderie e voyeurismo, una storia che avrebbe meritato ben altro rispetto. Sia che le accuse siano vere, sia che le accuse siano false prima di dare il risalto mediatico che in questo caso è stato dato andrebbero vagliate meglio, proprio nel rispetto di tutte le parti in causa. Garantismo? No, buon giornalismo.

Dal Metoo siamo state poste davanti a questo crinale: le sacrosante denunce da una parte, la strada della giustizia dall’altra e in mezzo la narrazione di giornali e tv. Lo abbiamo chiamato processo mediatico. Purtroppo questa logica, se all’inizio è riuscita a scalfire il muro di omertà, via via ha preso la piega della giustizia sommaria, dei processi di piazza e soprattutto delle speculazioni tese, non a denunciare un modello di società, ma a vendere e a fare audience. Le storie che abbiamo letto negli anni, persa la cornice dei diritti che le dovrebbe inquadrare, diventano macchine del fango che poi spesso si ritorcono contro le donne. Certo, non si deve tacere. È compito del mondo dell’informazione raccontare, approfondire, fare giornalismo d’inchiesta. Ma della vicenda di cui abbiamo letto in questi giorni sui giornali non convince prima di tutto il modo e i tempi in cui è stata resa nota. Se proponi il servizio pochi giorni prima delle elezioni diventa molto difficile che non si sollevi la questione di essere un attacco politico, per screditare le persone e i partiti coinvolti.  E questo non fa il gioco di chi denuncia, ma semmai la rende meno credibile, meno autorevole.

Poi i fatti. Quelli che andrebbero trattati, sempre, con grande cura e attenzione perché nessuno dovrebbe usare il proprio mestiere per stimolare risposte di pancia, per aizzare la piazza, per chiedere di scagliare la prima pietra. Questo è vero per tanti ambiti della cronaca e della politica. Ma più che mai lo è per un tema così importante, in un Paese dove il numero di femminicidi è sempre altissimo. Dovremmo avere una cura maggiore. Dovremmo sapere che il cambiamento necessario passa in primo luogo dalla capacità che la politica, l’informazione, la cultura hanno nel costruire un discorso pubblico che non faccia nessuna concessione al voyeurismo e alla giustizia sommaria.

Tante intellettuali da anni ci avvertono di questi rischi e continuano a battersi contro le molestie. La scrittrice canadese Margaret Atwood (sta uscendo la quinta stagione della serie il Racconto dell’ancella tratta dal suo romanzo) lo ha detto molto bene: attente a non fare concessioni alla caccia alle streghe perché le streghe siamo e restiamo sempre noi. Lea Melandri, fin dall’esplodere del Metoo, ci aveva avvisate: si tratta di un fenomeno che tende a spettacolizzare il tema delle molestie e della violenza sulle donne. Rispetto al dibattito del passato, l’attenzione mediatica è scemata, ma quando se ne parla si cade sempre nelle stesse trappole e negli stessi stereotipi. Eppure bisogna continuare a denunciare, parlare, chiedere che la politica metta questo tema al centro della propria riflessione e delle proprie proposte. Non lo fa, purtroppo. Ma la strada della spettacolarizzazione, del guardare dal buco della serratura, non genera cambiamento. Non produce consapevolezza. Scrive solo una nuova brutta pagina di giornalismo.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Richetti e Paul Haggis: quando la vittima è l'uomo. Annarita Digiorgio il 24 Settembre 2022 su Il Giornale. Anche gli uomini possono essere vittime di violenza, ma gli stereotipi non lo contemplano.  

Il panpenalismo ha fatto si che negli ultimi anni nel nostro Paese venissero introdotti nuovi reati e decine di aggravanti sulla scia della cronaca, degli allarmi sociali, e dei fenomeni mediatici.

Mai però, dagli stessi, si ricava una lezione quando vengono smontati.

Il caso Richetti che ha occupato buona parte del dibattito politico nell’ultima settimana di campagna elettorale, se non fossimo stati a una settimana dalle elezioni (ma forse a maggior ragione perché lo siamo) avrebbe potuto divenire occasione di dibattito pubblico sulle violenze subite dagli uomini, i processi mediatici, l’assurdità del codice rosso firmato dal guardasigilli Bonafede, e la facilità con cui si condannano gli innocenti, che tali restano fino al terzo grado, anche se sono maschi e se il reato di cui sono accusati è stupro.

Che in questo caso il protagonista fosse un candidato alle elezioni, e che lo scandalo sia scoppiato a pochi giorni dal voto, aggrava solo una circostanza che meriterebbe di essere analizzata anche se capitasse, come capita, a un qualunque cittadino di questo Paese.

Poiché il processo penale non si celebra sulle statistiche, e le persone, come i fatti, non sono mai uno uguale all’altro. Come non esistono pene esemplari, e condanne un tanto al chilo.

Di uomini vittime di violenza, stalking, abusi, ricatti, da parte delle donne, anche nelle mura domestiche, ce ne sono tantissimi. Ma denunciano ancora meno delle donne perchè, alle difficoltà comuni con il genere femminile, si aggiunge lo stigma della vergogna che subisce il “maschio alfa” che diventa vittima di una donna.

Ma non volendo cadere nel cliché inverso, ed eludendo dal trasformarlo in fenomeno sociale, il punto resta che anche fosse un solo uomo vittima di violenza femminile, merita le stesse garanzie mediatiche, sociali, e penali di una donna.

La mancanza di informazione sul tema rende solo l’eventuale caso di specie meno riconoscibile, e i protagonisti meno degni di giusta valutazione.

Non è un caso che alla luce dello scoop sul caso Richetti, le più risonanti voci di politici (del Pd) e intellettuali (Michela Murgia) si siano scagliate immediatamente a difesa della donna, presunta vittima ma certa accusatrice, rispolverando il concetto della difficoltà delle donne nel denunciare le violenze, e per tanto meritevoli di difesa mediatica e politica a prescindere. A questo si è innegabilmente aggiunta l’occasione di colpire un avversario politico.

Ma quel concetto, giusto e corretto per centinaia di casi, non valeva in questo. Dove la vittima, come emerso da ulteriori dettagli, è proprio Richetti, cioè l’uomo.

Il precedente dell'ultima estate

Eppure c’era un caso simile, in questi giorni alle cronache, che almeno avrebbe potuto far esitare un attimo prima di lanciarsi in difesa della donna, in quanto tale.

Il regista canadese Paul Haggis lo scorso luglio è stato arrestato in Italia mentre dirigeva un festival a Ostuni, perché una donna dopo aver trascorso tre giorni con lui, lo ha accusato di stupro.

Difronte alla denuncia della donna il giudice delle indagini preliminari di Brindisi ha messo agli arresti Paul Haggis per “l’assoluta incapacità di controllare i propri istinti e di desistere dai propri propositi in un contegno di prevaricazione e dominanza”. Nel frattempo la notizia ha fatto il giro del mondo e il regista è diventato un mostro. Regione Puglia che organizzava il festival gli ha chiesto di non partecipare agli eventi.

Due settimane dopo però gli arresti sono stati revocati perche le indagini hanno mostrato “l’assenza di contegni violenti costrittivi da parte dell’indagato al fine di consumare gli atti sessuali. Le modalità di incontro tra indagato e persona offesa la spontanea permanenza della donna presso la residenza dell’indagato anche successivamente agli abusi, i momenti di convivialità tra loro durante le giornate o l’ordinaria messaggistica dei propri impegni/spostamenti, le modalità di commiato adottate dalla persona offesa - si legge nell’ordinanza- sono espressione di una complessità di interazioni tra le parti che, anche laddove meritevole di approfondimento, allo stato affievolisce il giudizio negativo della personalità di Haggis quale soggetto incline a esercitare violenza, fisica o psichica, in danno di terzi”.

Non contenta la procura di Brindisi ha fatto appello contro la scarcerazione, ma il riesame di Lecce ha confermato la caduta delle accuse: “le notevoli incongruenze e le contraddizioni evidenziate nell'analisi della versione della denunciante gettino pesanti ombre sulla sua attendibilità compromettendo notevolmente il requisito della gravità indiziaria. Ci sarebbero numerose incongruenze idonee a sollevare il dubbio sulla veridicità delle rappresentazioni della denunciante". Vengono riportate le trascrizioni di alcune conversazioni tra la presunta vittima e il regista nei quali si evince chiaramente "un corteggiamento che la donna rivolge al regista al fine di incontrarlo e passare alcuni giorni in sua compagnia, probabilmente per instaurare una relazione personale, più che professionale, tanto che decide di condividere la medesima camera e, dunque, lo stesso letto". Di questa donna, si sottolinea ancora, si evince "la personalità volitiva e determinata che mal si concilia con la descrizione della vittima quale donna debole e soggiogata dalla personalità dell'indagato".

Insomma tra Paul Haggis e la donna che lo accusava di stupro, la vittima era lui.

Ma neppure questo caso, risolto proprio durante i giorni del Richetti gate, ha fatto pensare immediatamente che la vittima potesse essere l’uomo. L’unico è stato Calenda, per evidenti ragioni di opportunità politica e conoscenza dei fatti.

Ma se come abbiamo detto il profilo pubblico della persona coinvolta oggettivamente rischiava di condizionare l’esito elettorale (e infatti Azione ha querelato Fanpage per lesione d’immagine), un episodio simile può accadere a chiunque lontano dalle telecamere e dalle elezioni. Magari senza neppure la controffensiva mediatica a difesa.

Mentre sarebbe utile per chiunque imparassimo tutti a giudicare le persone scevri dagli slogan che allontano dalla verità e dagli stereotipi che macchiettizzano i fenomeni sociali.

Anche un uomo può essere vittima di una donna.

Per qualcuno la parità passa anche da qui.

Matteo Richetti, sexy-scandalo? Massacrato dalle donne Pd: l'accusa più infamante. Salvatore Dama su Libero Quotidiano il 18 settembre 2022

L'affare di Matteo Richetti si ingrossa. Nel senso che stavolta parla lui. Dopo essere stato indirettamente chiamato in causa da un'inchiesta di Fanpage. Che ha pubblicato l'intervista di una anonima (presunta) molestata, vittima di un senatore polipone.

Sarebbe lui. Ma il presidente di Azione nega, si indigna e rilancia. Diffonde la querela presentata contro la donna misteriosa ascoltata dal sito di informazione. Che a sua volta, invece, ha puntato il dito contro Richetti, sputtanandolo pubblicamente (niente nomi, solo allusioni), ma senza presentare denuncia. Il caso diventa tema di campagna elettorale. Con le donne del Partito democratico che attaccano il partito di Carlo Calenda. Lo accusano di patriarcato. Ripescano lo schema con cui furono crocifissi gli Alpini: molestia è anche se non si presenta denuncia.

Il centrodestra non cavalca l'onda. Eppure Forza Italia avrebbe tutto il vantaggio di bersagliare il suo competitor diretto al centro. Perché? Pare che la donna in questione sia personaggio conosciuto anche in ambienti berlusconiani. Dove era andata a bussare, spiegando la sua passione irrefrenabile per la politica, prima di rivolgersi a un senatore di cui è nota la debolezza per il fattore F.

FINTI ACCOUNT

Richetti non avrebbe tenuto a freno il suo istinto. Analoga attitudine posta in essere anche da un vice ispettore di polizia, non indifferente al feromone della donna. E questa è la versione di lei. Affidata a un giornalista, però, non alle autorità di pubblica sicurezza. Cosa che invece ha fatto il senatore azionista. Il quale ripercorre, con l'Adnkronos, tutte le tappe della vicenda. È il 28 novembre 2021 quando Matteo si presenta alla polizia postale. Non è "il rattuso", ma la vittima. Presenta denuncia contro ignoti per dei post e dei commenti diffamatori. Tipo: "Omm 'e merda, te devono arrestà", "Sei uno schifoso", "Tu sei malato di testa". Seguono altre frasi ingiuriose sui profili del senatore, di sua figlia, del suo staff. Pare che l'attività in questione sia attribuibile proprio ad Ambra (nome di fantasia).

"Da un anno", si legge in una nota del partito,"il senatore Richetti ha denunciato alla magistratura e alla polizia postale attività di stalking e minacce riconducibili a una donna già nota alle forze dell'ordine. Attraverso messaggi contraffatti, finti account social e telefonate, la persona in questione sta molestando da mesi il senatore e la sua famiglia. Tutto il materiale è in mano alla magistratura". Ma Azione se la prende anche con Fanpage. Che, a detta di Calenda, ha tirato fuori il dossierino dal cassetto quando manca poco più di una settimana alle elezioni. Curioso che il leader centrista abbia taciuto quando analogo trattamento era stato riservato ad altri (per esempio, Fratelli d'Italia).

CALENDA FURIOSO

«Una donna. Senza nome? Senza denuncia? Ma vi rendete conto che neppure nella Romania di Ceausescu a dieci giorni dal voto si operava cosi?». Carlo lo scrive su Twitter, aggiungendo: «Nessuno ha denunciato Richetti o aperto un'indagine su di lui. È Matteo che ha denunciato. Quindi non c'è alcun grado di giudizio. La magistratura sta lavorando così come la polizia postale. In nessun paese al mondo si raccolgono denunce anonime e si ignorano atti legali formali. Però questa è l'Italia. E a questa roba siamo avvezzi. Amen», conclude Calenda. Fanpage replica: «Non abbiamo mai nominato il senatore oggetto della nostra inchiesta. Non capisco il perché delle accuse di Richetti», dice il direttore Francesco Cancellato. Sul senatore ex Pd e sul suo leader si scatena l'ira funesta delle Me Too democratiche. «Come sempre i presunti molestatori sono persone per bene e le presunte vittime sono pazze squilibrate. Carlo, vergognati!», lo scrive su Twitter la vice presidente del Parlamento europeo Pina Picierno. «Una cosa è certa», fa eco Laura Boldrini, deputata del Pd, «non denunciare non vuol dire non aver subito molestia o violenza. Basta guardare i dati Istat: 8 donne su 10 non denunciano le violenze subite. Questo Calenda non può non saperlo!».

Quelle accuse anonime a Richetti di molestie sessuali date in pasto ai lettori. Un giornale online pubblica racconto di una donna senza identità che sostiene di aver subito molestie sessuali da parte del senatore che l'aveva denunciata per stalking. Il Dubbio il 17 settembre 2022.

Un giornale online pubblica racconto di una donna senza identità che sostiene di aver subito molestie sessuali da parte del senatore. Non ci sono nomi, se non quello di fantasia attribuito alla presunta vittima, Ambra, né denunce contro il politico, ma screenshot di messaggi recapitati dal parlamentare in questione.

Passano poche ore e sui social network il presunto aggressore viene ripetutamente indicato come Matteo Richetti, presidente di Azione, il partito di Carlo Calenda. Ed è proprio il leader del Terzo Polo a decidere di rompere il silenzio per primo, scrivendo che «da un anno il senatore Richetti ha denunciato alla magistratura e alla polizia postale attività di stalking e minacce riconducibili a una donna già nota alle forze dell’ordine. Attraverso messaggi contraffatti, finti account social e telefonate, la persona in questione sta molestando da mesi il senatore e la sua famiglia. Tutto il materiale è in mano alla magistratura». Poi tocca allo stesso Richetti a parlare di «messaggi contraffatti» e a specificare la sua posizione, nota alle autorità: parte lesa.

Per Azione, quella subita da Richetti è una vera e propria gogna mediatica, su cui prova a far luce l’AdnKronos che ha avuto modo di visionare gli atti depositati dal senatore di Azione. Tutto ha inizio il 29 novembre 2021 quando, secondo la ricostruzione dell’agenzia stampa, Richetti si reca alla polizia postale di Roma per presentare una denuncia contro ignoti. Il senatore racconta alla polizia che sul suo profilo Facebook, quattro giorni prima, sotto una foto che lo ritrae insieme a ragazzi del suo staff, compare un commento durissimo dove Richetti viene apostrofato con frasi ingiuriose (fra le altre «omm ’e merda, te devono arrestà») e viene anche tirata in ballo una militante di Azione definita «schiava sessuale». Il tono del post è violento, ed è lo steso utilizzato dalla medesima utente il 28 novembre in un commento postato addirittura sul profilo della figlia di Richetti. Sempre a quanto risulta all’Adnkronos, la situazione degenera perché la donna inizia ad attaccare tutta la famiglia del senatore con frasi obiettivamente non riportabili. Sempre il 28 novembre lo staff di Azione segnala un commento ingiurioso della stessa utente, che si firma con nome falso. Anche qui frasi sconnesse, gravi accuse, e insulti alla collaboratrice citata nei precedenti commenti. Persino il fratello della militante, secondo quanto Richetti racconta alla polizia, il 27 novembre viene preso di mira con post altrettanto violenti. Ma non finisce qui. È sempre Richetti a denunciare un sms ricevuto sul suo telefono il 19 novembre 2021 nel quale una asserita donna accusa Richetti di nefandezze di ogni genere. Il senatore, secondo quanto riporta sempre l’AdnKronos, alla polizia allega lo screenshot con numero di telefono del lunghissimo messaggio ricevuto, oltre alle fotografie dei commenti postati sui social. La polizia avrebbe oscurato per ben due volte i profili fake da cui sarebbero partiti i commenti. Sembrerebbe esserci stata anche una perquisizione, che non avrebbe però portato a identificare la misteriosa donna.

Poi la pubblicazione dell’accusa anonima da parte di Fanpage che manda su tutte le furie il partito di Calenda per le modalità e le tempistiche : «Il fatto che un sito di informazione, a dieci giorni dalle elezioni, riporti anonimamente accuse tanto gravi senza avere il coraggio di fare il nome del senatore, ma pubblicando foto parziali che lo rendono riconoscibile, rappresenta uno nuovo livello di bassezza della stampa italiana. Il senatore che in questa vicenda è parte lesa, non essendo mai stato neanche denunciato dalla donna in questione, procederà legalmente per difendere la sua onorabilità in tutte le sedi». E Calenda sentenzia: «Una donna. Senza nome? Senza denuncia? Ma vi rendete conto che neppure nella Romania di Ceausescu a dieci giorni dal voto si operava così?».

Giacomo Amadori per “la Verità” il 22 settembre 2022.

Non è chiaro se sia stata mandata da qualcuno a inquinare la campagna elettorale. Quel che è certo è che giornali e siti la stanno cavalcando al galoppo. Stiamo parlando di Lodovica Mairé Rogati, ex attrice e attivista, che sostiene di avere frequentato il senatore Matteo Richetti e che a riprova di questo cita presunte lunghe telefonate e testimonianze. Il politico sospetta, invece, che la donna sia la stessa che, sotto anonimato e senza fare esplicitamente il suo nome, lo avrebbe accusato sul sito Fanpage di violenza sessuale. 

La sedicente vittima ha, però, negato di essere lei l'autrice di tali attacchi. Richetti e Carlo Calenda hanno parlato di campagna diffamatoria. La credibilità della Rogati sarebbe minata da alcuni precedenti penali, avendo, per esempio, la stessa accusato di stupro due uomini poi giudicati innocenti. Per questo venne condannata a 4 anni di reclusione, con successivo proscioglimento causa prescrizione.

Nel gennaio scorso la Procura di Roma l'ha perquisita nell'ambito del procedimento innescato dalla denuncia di Richetti per poi chiedere l'archiviazione del fascicolo. La Rogati, a sua volta, assicura di aver inoltrato diverse denunce. Ma uno dei suoi vecchi legali ha preferito evitare di farci da filtro con la donna giudicandola «in questo momento poco attendibile». 

In un'intervista al Domani la signora ha parlato di una cena a cui ha partecipato anche il sottosegretario Giorgio Mulé e un terzo misterioso soggetto. «Mulé ha detto con chi l'ho incontrato? [] Se parlo crolla tutto, non importa chi vince o perde le elezioni, si torna a elezioni a Natale» aveva minacciato la Rogati. Salvo fare una pronta retromarcia ieri con questo comunicato: «Riguardo la frase "Se parlo crolla tutto" mi sono evidentemente espressa male.

Non era riferita alla cena con l'onorevole Mulé che ho incontrato solo quella volta e dove abbiamo parlato della mia esperienza in Ucraina durante il conflitto». 

Esattamente quello che Mulé aveva già ricostruito e che lei aveva smentito nell'intervista al Domani («Non abbiamo parlato neanche per un secondo della mia associazione»). Un dietrofront che getta ancora più ombre sull'attendibilità di una donna che, pur essendo ritenuta poco credibile persino da uno dei suoi legali, ottiene ampio spazio sui giornali. Un po' come successe con Patrizia D'Addario, un'altra bionda quarantenne lanciata sul palcoscenico politico dai media. Lodovica, come fece Patrizia, esterna a ruota libera e i cronisti sbobinano senza effettuare alcuna verifica.

Per la cronaca la terza persona presente alla cena citata dalla Rogati è il vicedirettore dell'Aisi, Carlo De Donno, assurto al prestigioso incarico grazie alle ultime nomine del secondo governo Conte. Con Mulé sono vecchi amici, dai tempi in cui il deputato era un cronista d'assalto. Quella sera la Rogati si sarebbe unita alla cena, come detto, per parlare della sua attività di volontariato. «Era andata con la sua associazione in Ucraina a dare una mano ai rifugiati e mi aveva contattato in quanto sottosegretario alla Difesa», aveva già dichiarato il politico ai giornali.

Quindi la donna avrebbe riferito al sottosegretario il suo punto di vista sulla guerra e la sua visione geopolitica, critica con l'Occidente e piuttosto indulgente con Vladimir Putin. Un posizionamento che Mulé non avrebbe gradito, come i toni un po' sopra le righe della signora. Tra i due ci sarebbe stato anche un piccolo battibecco. «Fui forse poco carino e non mi scrisse più» ha ammesso il deputato che non avrebbe avuto contatti con la signora né prima, né dopo quell'unico incontro. La Rogati avrebbe avuto rapporti unicamente con il dirigente dell'Aisi. 

La frequentazione non avrebbe nulla a che vedere con l'attività lavorativa dell'uomo. Non ci risulta che la donna sia mai stata utilizzata dai servizi come fonte o altro. L'agenzia informazioni e sicurezza interna non sarebbe mai stata coinvolta, neppure marginalmente, in questioni riguardanti l'ex attrice. De Donno l'ha incontrata a titolo personale, così come ha incontrato Mulé, frequentazioni private che, però, a meno che non emerga altro, non confliggerebbero con il suo ruolo. Le elezioni non verranno annullate, ma, forse, qualcuno sta provando a inquinarle usando questo personaggio in cerca di autore di nome Lodovica.

Totalitarismo extra-giudiziario. L’affaire Richetti non è un caso di presunte molestie, ma di dossieraggio a fin di bene. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.

Nel tribunale parallelo dell’internet, le accuse al politico, maschio e di potere, diventano credibili (nonostante siano strampalate) proprio per il genere e il ruolo del presunto colpevole

Accettare di discutere del “caso Richetti” come di un episodio scabroso, sospeso del limbo di un futuribile e solo ipotetico accertamento giudiziario, significa di fatto accettare la legittimità della giurisdizione parallela del tribunale dell’Internet.

Di più, significa accettare che qualcuno, anzi chiunque possa essere rapito a mezzo stampa da un’Anonima Sequestri di ricattatori politicamente corretti e costretto a pagare il riscatto della resa e il pegno dell’obbedienza, in cambio della salvezza di quel che resta della vita privata, dopo la distruzione della reputazione pubblica. «Non sei un molestatore? Ma almeno ammetti di essere un porco?».

Soprattutto, accettare di parlare di questo caso con la bocca a culo di gallina dei progressisti doc – «La verità la decidono i giudici, però sono accuse gravi, Richetti deve fare chiarezza e non attaccare la donna che l’accusa» – significa accettare che il dossieraggio finto-femministico, che l’informazione dovrebbe denunciare, non propalare, sia qualcosa di diverso dal vecchio dossieraggio sessuale risciacquato nell’acqua santa dell’indignazione woke, di cui occorre dire che è una paranoia molesta, ma anche una straordinaria rendita mediatica per gli utilizzatori finali – i media, chi se no? – dell’eccitazione voyeuristica e del moralismo pecoreccio.

Per questo, di fronte a un boccone così succulento, come quello cucinato da Fanpage, smerciato sui menu di molta stampa e consegnato all’opinione volubile di amici e nemici, l’unica cosa politicamente e deontologicamente decente è di alzarsi da tavola e lasciare a ingozzarsi del fiero pasto i campioni del cannibalismo mediatico. E dire che quella sbobba è immangiabile e i suoi appetenti sono tossici. Non si tratta di fare gli schifiltosi, ma proprio di non volere e non volersi avvelenare. Non si tratta di non parlarne – infatti ne parlo – ma di parlarne per quello che è, cioè veleno.

Per chiunque faccia il mestiere o abbia l’hobby di scrivere delle cose della politica e del potere, domandarsi, fosse pure in interiore homine, se la storia raccontata sia vera oppure no, pur mancando un qualunque elemento in grado di distinguerla da un esercizio di political fiction, è un errore professionale, oltre che una colpa morale. Già rassegnarsi a percorrere il labirinto delle ombre disegnato dalla denuncia di una vittima senza volto a un carnefice senza nome (ma ovviamente riconoscibilissimo) è cadere nell’abisso della giustizia prêt-à-porter, con codici processuali e sostanziali alternativi a quelli che in uno stato di diritto, con una informazione responsabile, possono credibilmente inchiodare un molestatore o una calunniatrice alla responsabilità dell’abuso o della menzogna.

In un’Italia, in cui è ormai normale sostenere che la presunta innocenza di un accusato, di fronte a un’accusa non ancora dimostrata in giudizio, sia inversamente proporzionale alla gravità del reato e che l’onore della prova sia, per così dire, “a requisiti ridotti” quando c’è da mettere a posto un mafioso, un assassino o un molestatore, i reati sessuali provocano in modo particolare rigurgiti inquisitori. Non si può andare troppo per il sottile e l’accusato, soprattutto, deve stare al posto suo. Infatti, anche in questo caso, il fatto che Richetti abbia protestato la propria innocenza e accusato l’accusatrice di mendacio ha comportato un’ulteriore accusa di intimidazione e protervia maschilista nei suoi confronti. Come si permette di accusare chi l’accusa di un reato così orribile!

Però, anche questo fenomeno, cioè questa relativizzazione del principio di non colpevolezza è a valle del cedimento alla logica del delitto d’autore, per cui un uomo, a maggior ragione un uomo di potere, è sempre un potenziale molestatore o stupratore, come uno zingaro è sempre un potenziale ladro. Si può discutere, insomma, se e quanto la sua “potenza” diventi “atto”, ma non che rappresenti la sua più profonda e insidiosa identità. Così il politicamente corretto straborda nel razzismo e in quella sorta di totalitarismo penale extra-giudiziario del dossieraggio scandalistico a fin di bene, pedagogico e ovviamente dalla parte delle donne e contro il maschilismo cisgender.

Quindi la libera stampa non ha il diritto di indagare e raccontare vicende “sporche” per trarne la morale o per far luce sui delitti nascosti nelle oscure trame del potere? Sì, ma ne ha il diritto solo nella misura in cui ne porta anche la responsabilità, che è quella di tirare il sasso senza nascondere la mano, di far luce sulle vicende oscure, non di ingombrare tutto il cielo della politica con la coltre del sospetto, non di compravendere confessioni ricattatorie e avvertimenti a mezzo stampa, come quelli che l’accusatrice di Richetti – e da quel che dice, di mezza politica italiana – ha iniziato a lanciare da varie testate nazionali, che non sono né meglio né peggio di Fanpage e giocano al medesimo gioco magari pure convinte, oltre che di fare numeri importanti, di fare l’unico giornalismo possibile in questi tempi grami.

Mondo Gabibbo. Il senatore, la tizia-senza-nome e i tre giorni del condor che ci possiamo permettere. Guia Soncini su L'Inkiesta il 19 Settembre 2022

Che abbia ragione Richetti o la sconosciuta che lo accusa di molestie, quello che è certo è che abitiamo un tempo in cui la combinazione di esibizionismo e infantilismo rende verosimile anche ciò che appare del tutto implausibile

Questo è un articolo sui tre giorni del condor, ove per «condor» s’intende l’uccello che gli uomini non sanno evidentemente tenersi nelle mutande, e – data questa caratteristica intrinseca fornita loro dai gameti (assieme all’interesse per le partite di calcio e all’incapacità di distinguere il malva dal pervinca) – il fatto che a quel punto sia molto difficile giudicare un’accusa di molestie a meno che non si ragioni per slogan.

Se si ragiona per slogan è tutto più semplice: le donne non mentono mai (si vede che io sono un uomo), credete alle vittime, e altre amenità. Se si prova a ragionare è in genere impossibile sapere come sia andata (è quel che rende i reati sessuali così complicati da giudicare: è molto raro che ci siano prove inoppugnabili in un senso o nell’altro). Però si può osservare il contorno, che come spesso accade è assai più affascinante del resto.

Riassunto minimo della vicenda per chi, beato lui, vivesse nella capanna di Unabomber e non avesse passato il finesettimana a ricevere (e inviare) centinaia di messaggi sulla vicenda Matteo Richetti vs Tizia di cui non sappiamo il nome.

Giovedì sera Fanpage pubblica l’articolo apparentemente più insensato della storia del giornalismo (ma è lunedì e siamo ancora qui a parlarne, quindi avevano ragione loro). Una tizia di cui non si fa il nome accusa un senatore di cui non si fa il nome d’averla molestata, minacciata, e altre amenità. A corredo ci sono presunti messaggi del senatore: il nome e la foto profilo vengono cancellati dalle foto dei messaggi, ma non abbastanza accuratamente da non far ricevere a tutti noi, nella mattinata di venerdì, decine di messaggi che dicono «Pare sia Richetti». Questo nonostante nella prima versione dell’articolo, poi corretto, si dica che nel 2018 il molestatore recidivo era già nello stesso partito in cui è ora (Azione, che nel 2018 non esisteva).

Poi sui messaggi fotografati nell’articolo ci torniamo, ora passiamo a sabato mattina. Quando Carlo Calenda invia un po’ a chiunque la denuncia che Richetti ha presentato nel dicembre 2021 contro un’ignota. La denuncia, da lui inviata a chi si occupa d’informazione sembrandogli discolpante di Richetti, è un capolavoro di commedia all’italiana che immediatamente attira assai più l’attenzione degli sceneggiatori che dei cronisti.

Sono cinque pagine, tre delle quali consistono nella trascrizione d’un messaggio WhatsApp lungo come un romanzo breve, inviato a Richetti da una che egli dichiara di non sapere chi sia. La signora sembra però sapere benissimo chi è Richetti. Tra i momenti letterariamente migliori del messaggio, quello in cui definisce l’amante (presunta, se garantismo dev’essere) di Richetti «nana» e «mongoloide», e quelli in cui scrive «Amore», sempre e solo maiuscolo. C’è anche il passaggio in cui questa figura a metà tra Adèle Hugo e una bollitrice di conigli dice di sé «io sono un personaggio pubblico, mi conoscono tutti»; purtroppo ciò non rappresenta un indizio, nell’universo in cui siamo tutti famosi per quindici like.

Il direttore di Fanpage pubblica un secondo articolo (questa volta firmato da lui; il primo era firmato dal «team Backstair», giacché senso del ridicolo l’è morto) in cui si costerna s’indigna s’impegna, dice che Calenda ha pubblicato dati sensibili, che non è affatto detto che la tizia (anonima) della denuncia fatta da Richetti sia la stessa tizia (anonima) che hanno intervistato loro, ma non risponde alla domanda che tutti ci stiamo a quel punto facendo da due giorni: Fanpage ha verificato che i messaggi fotografati siano in effetti partiti dal telefono di Richetti? (Due anni fa Ben Smith scrisse sul New York Times un articolo pieno di dubbi sui riscontri e le verifiche fatti da Ronan Farrow, smanioso di scoop, nei suoi pezzi sul MeToo. Ma Ronan Farrow scrive sul New Yorker, e Fanpage è testata d’onore).

Il direttore non risponde alla domanda principale anche perché la curiosa posizione di Fanpage è: ma noi mica abbiamo detto sia Richetti. Curiosa fino a un certo punto, cioè il punto in cui Richetti annuncia una querela contro Fanpage, che a quel punto può replicare: sei tu che ti sei riconosciuto, mica noi che ti abbiamo accusato. (Se il New York Times e il New Yorker avessero pubblicato degli articoli in cui scansavano le querele omettendo il nome di Harvey Weinstein, non sarebbe mai esistito il MeToo).

Tutto il mondo è Gabibbo – le presunte vittime che invece di andare in commissariato vanno dalle testate scandalistiche, i politici che si twittano l’un l’altro «vergognati» – e quindi la domenica la passiamo a osservare lo spettacolo d’arte varia.

La Murgia che usa il solito trucco retorico delle donne che per forza non denunciano perché guarda come le aggrediscono poi (ove accusata di qualcosa che ritiene infondato, sono ragionevolmente certa che Michela Murgia se ne starebbe zitta e buona per non inficiare il diritto del querelante al monopolio delle versioni dei fatti).

Calenda che, nel ruolo di Vito Corleone, twitta teste di cavallo: «Conserviamo quanto hanno scritto non solo i giornali ma anche scrittrici e militanti di partito. A futura memoria di un Paese dove il giornalismo ha perso ogni etica».

Richetti che corregge il tiro e dice che sì, in effetti la tizia l’ha incontrata e sa chi è, e ha presentato ulteriori denunce per precisarlo. Quindi quella che gli scriveva cinquecento righe di recriminazioni sulla loro grande storia d’amore non aveva trovato il suo numero per caso: chi l’avrebbe mai detto.

Osserviamo lo spettacolo d’arte varia al centro della scena, che ci distrae da quel contorno che mi sembra invece molto più importante, se vogliamo capire non chi abbia torto e chi ragione nello specifico caso, ma come funzioni il tempo che abitiamo.

Gli screenshot nel pezzo di Fanpage sono di uno che scriverebbe, a una tizia che avrebbe molestato, che tanto lei non può denunciarlo perché lui ha l’immunità. Non distraetevi col dito del «non è tecnicamente vero»: guardate la luna del «ma chi è il coglione che lascerebbe una prova scritta del genere, nell’era dello screenshot e dell’inoltro?». La risposta è: chiunque.

La ragione per cui la prima reazione di tutti alla lettura di quell’articolo è stata «vabbè, ma allora è scemo» è che quell’incontinenza lì è perfettamente plausibile, nell’epoca in cui uomini politici si sono giocati carriere per aver mandato in giro foto del proprio uccello. È probabilmente anche la ragione per cui Fanpage ha preso per veri quei messaggi: che abitiamo l’epoca che unisce l’immanenza del non sapersi tenere l’uccello nei pantaloni a quella del non capire che non devi lasciare prove in giro.

S’instagrammano i rapinatori, cosa vuoi che abbiano discrezione quelli che non se lo tengono nelle mutande. Non esiste più l’inverosimiglianza. Nel 1992 Jeremy Irons incontrava per dieci secondi Juliette Binoche ed era immediatamente pronto a ferire a morte il figlio, con cui lei era fidanzata, e lasciare la moglie, perché scoparsela diveniva da subito la sua unica ossessione. Noi guardavamo “Il danno” sullo schermo del cinema e pensavamo: sì, vabbè, ma chi ci crede, sei un parlamentare cinquantenne, mica un dodicenne privo di lobi frontali.

Trent’anni dopo, leggiamo che un senatore italiano telefonerebbe a una tizia vista mezza volta singhiozzando «Non riesco a chiudere occhio senza di te, dobbiamo essere felici insieme», indistinguibile da un diciottenne senza inibizioni e raziocinio, e pensiamo che sì, magari verrà fuori che non è vero ma, nella tragica combinazione di esibizionismo e infantilismo che ci caratterizza, mica è inverosimile.

Il Grande Romanzo Italiano. Vi prego, date il premio Strega alla coppia Fittipaldi-Rogati. Guia Soncini su L'Inkiesta il 22 Settembre 2022.

Verso la fine di una campagna elettorale noiosetta è arrivato, inaspettato, il capolavoro. L’intervista su Domani della Mata Hari della Camilluccia tocca e supera i confini della letteratura e ci regala un momento di monomaniacalità condivisa che ci mancava da anni

Ci sono periodi in cui si vive (dovrei dire «si soffre», ma sarebbe insincero) di monomaniacalità condivisa. Sanremo. I mondiali di calcio. Quelle cose che devi proprio essere il tipo che mi-si-nota-di-più per piccarti di non seguirle.

Vorrei quindi farvi un elenco non esaustivo dei periodi di monomaniacalità condivisa della mia vita di lettrice, quelli in cui la mattina prestissimo compulsavo i giornali per leggere cosa scrivessero dell’ossessione stagionale, e per il resto del giorno con chiunque parlassi sapevo che aveva letto le stesse cose e stava seguendo gli stessi avvenimenti. I momenti in cui si congedava la cronaca, ed entrava la letteratura.

La settimana in cui morì Diana Spencer, e tutti gli editoriali erano dolenti, e L’Unità titolava «Scusaci, principessa», e tutti si contrivano sull’averla uccisa noi (ma noi chi? Ah, noi lettori di tabloid che le davamo da vivere), e poi arrivò Arbasino e scrisse che «la solita casalinga di buon senso continuerà a osservare noiosamente che chi si imbarca in una carriera regale – o monacale, o parlamentare, o didattica, o infermieristica, o camionistica – sa benissimo che cavoli si dovrà sobbarcare», e mancavano ancora ventiquattr’ore al funerale e improvvisamente capimmo la settimana di scemenza collettiva che avevamo attraversato.

La settimana in cui morì John Kennedy jr, e i giornali italiani proprio non riuscivano a capire chi fosse la sorella di lui e chi quella di lei, chi morta e chi viva, si confondevano tra le caroline, sbagliavano le vocali, e a Capri («Dov’eri quando finì il Novecento?» «A Capri per il weekend») in piazzetta ero l’unica italiana che arrivava all’edicola presto, tra americani che si facevano tradurre i giornali dai camerieri (abbiamo vissuto un tempo senza la Cnn sul telefono, e i camerieri saranno stati pure fluent ma ti facevano pagare un cappuccino diecimila lire).

L’estate in cui ogni mattina trovavo trascrizioni di «stamo a fa’ i froci col culo degli altri» e altre meraviglie per cui sembrava fosse tornata la stagione dell’oro del grande cinema italiano, e per fortuna ero in un albergo per ricchi dove se pretendevo i giornali all’alba non mi facevano pernacchie così quando arrivavano i primi sms che commentavano le intercettazioni di Stefano Ricucci ero preparata (abbiamo vissuto stagioni senza le foto degli articoli su WhatsApp, noi sì che siamo temprati dalle privazioni).

L’estate di Avetrana, quella che ci fece apparire le nostre famiglie tutto sommato normali e affettuose, quella che ci fece capire che quale grande omologazione, i brutti esistono ancora, i brutti e poveri, i fisiognomicamente proletari, quelli che ti pare non possano che essere cattivi; e quindi quella ragazzina potrebbero averla ammazzata tutti. L’estate seguita da un autunno a dire però hai visto la cugina com’è dimagrita, un po’ di galera farebbe bene anche a noi: oggi ci darebbero il 41 bis per body shaming.

L’autunno del MeToo, quando ogni mattina si correva sul sito del New York Times per scoprire se quel giorno avevano messo in mezzo un altro cretino che faceva l’elicottero con l’uccello davanti a tizie lì per lì allibite e che poi invece di raccontarlo ridendo alle amiche l’avrebbero raccontato contrite a un’intervistatrice; o se invece era il giorno in cui disseppellivano l’ultima molestia perpetrata da Harvey Weinstein: a un certo punto mancava praticamente solo la testimonianza postuma di Lauren Bacall.

L’estate in cui due turisti americani, non si capisce come e perché, ammazzano un carabiniere a Trastevere, e niente ma proprio niente in quella storia torna, ma ogni mattina ci sono nuove foto sempre più inimmaginabili fuori da un film di Fincher di questi ragazzetti che fanno i gradassi sui social, perché nel frattempo sono arrivati i social, e il lavoro dei giornali è diventato perlopiù recuperare dalle nostre bacheche i nostri esibizionismi scellerati.

E poi questa fine estate qui, quella della Rogati, o chiunque sia la tizia che secondo Fanpage sarebbe stata molestata da un senatore. Al cui proposito, ricevo da Striscia la notizia e integralmente trascrivo: «Gentile Guia Soncini, abbiamo letto la sua rubrica L’avvelenata del 19 settembre sulla questione Richetti/Fanpage. Tutto il mondo è Gabibbo, tranne il Gabibbo: la storia delle presunte molestie che coinvolge il senatore Richetti era stata proposta al Gabibbo mesi fa, ma dopo essersi consultato con il Tapiro d’oro, aveva deciso di non dare visibilità televisiva al caso. Siamo affranti per gli sviluppi della vicenda, perché pensavamo che con il Gabibbo si fosse toccato il fondo». 

E poi questa fine estate qui, quella di Fittipaldi. Emiliano, ascoltami. Ti devo fare le mie scuse. Io non sapevo tu potessi diventare la mia brama del mattino. Io ti avevo sottovalutato. Io, fino a Lodovica Mairè Rogati, non sapevo che la Sharon Stone delle sciroccate fosse un personaggio che la letteratura italiana – dagli osservatori superficiali scambiata per cronaca, dagli osservatori paranoici scambiata per complotto politico – potesse produrre.

Diceva sempre Arbasino, in un altro articolo micidiale su Diana Spencer, che «in queste faccende, la psicologia delle masse è attentissima anche per istinto animale», ed è il battito animale che all’alba degli ultimi tre giorni ha fatto comparire sul mio telefono commenti agli articoli di Fittipaldi o richieste di foto degli stessi. Un amico a New York mette la sveglia apposta, credo, oppure mi chiede «ti prego mandami l’intervista» prima di andare a dormire, non so, fatto sta che tra le sette e le otto pretende la sua dose di letteratura fittipaldica.

Da quando voialtri a Domani (un giornale che nessuno di noi si era mai filato; certo, c’era Walter Siti, ma lo leggevamo con calma al pomeriggio: aveva a che fare con la riflessione intellettuale più che con l’istinto animale), da quando, dicevo, avete deciso di bullizzare quei poverini di Fanpage, da quando ogni giorno tu (posso darti del tu?), Emiliano, scrivi dieci cartelle che sono diventate il saluto al sole di tutti quelli che conosco, il risveglio è una meraviglia.

Ieri, poi. Ieri tutto si è azzerato. «Rossella O’Hara non era bella, ma gli uomini se ne accorgevano raramente allorché soggiogati dal suo fascino come i gemelli Tarleton». «Chiamatemi Ismaele». «È verità universalmente riconosciuta che uno scapolo facoltoso debba sentire il bisogno di prendere moglie». «Le città di notte contengono uomini che piangono nel sonno, poi dicono niente, non è niente». Tutti gli incipit della storia della letteratura come la conoscevamo fin qui, spazzati via da «Lodovica Mairè Rogati chiama in mattinata».

Ieri, la Mata Hari della Camilluccia parlava. Diceva cose meravigliose, completamente prive di lobi frontali (signora Rogati, è un’iperbole, non mi metta nella lista delle sue querele: ho capito in questi giorni che se le ritirasse tutte i tribunali italiani smetterebbero d’essere intasati). Se una ci prova il senatore mica si tira indietro. E secondo lei la Rogati [in terza persona, nota di Soncini; più volte, sempre nota di Soncini]. Aldo Moro era il padrino di battesimo di mia sorella. Federico Fellini mi ha vomitato sul tappeto.

I blog che si trovano in giro per l’internet, quelli in cui qualche cronista oggettivo che sicuramente non è la Rogati stessa scrive cronache della vita della Rogati in cui ella viene definita come minimo «la bellissima» e si racconta che gli uomini tentano il suicidio per lei, quei blog sono niente in confronto a un’intervista in cui Lodovica Rogati nel ruolo di Lodovica Rogati parla con aggettivi altrettanto alati di una tizia che chiama «la Rogati».

Credevamo che la letteratura fosse morta, credevamo che la campagna elettorale fosse noiosissima, poi è arrivato il capolavoro. Se al prossimo Strega non premiate come coautori del Grande Romanzo Italiano coloro che hanno creato la nostra monomaniacalità di fine estate (e inizio autunno: vi prego, mica vorrete farla finire) 2022, non so proprio cosa organizziate dei premi letterari a fare. Già me li vedo: Lodovica fa il discorso, Emiliano ingolla il liquore. La letteratura è viva, viva la letteratura.

·        Monica Cirinnà.

Estratto dell’articolo di Valeria Di Corrado per “il Messaggero” il 5 agosto 2022.  

Era stato il giallo dell'estate 2021 e ora, a distanza di un anno esatto, torna a far parlare di sé il tesoro nascosto nella cuccia del cane della coppia di politici dem, Esterino Montino e Monica Cirinnà. La senatrice del Pd, infatti, batte cassa e reclama i 24mila euro in contanti che erano stati ritrovati nella sua proprietà: la CapalBiofattoria, un'azienda agricola e vitivinicola immersa nella Maremma toscana […]

Di fronte al polverone mediatico […], i coniugi avevano preso letteralmente le distanze, precisando che la cuccia era lontana dalla loro casa e che forse quelle 48 banconote, da 500 euro l'una, erano state occultate lì da spacciatori nordafricani. Ipotesi scartata fin dall'inizio dagli inquirenti […]. I sospetti erano ricaduti (senza però trovare conferma) anche sul fratello della senatrice, Claudio Cirinnà, che frequentava la tenuta e che il 7 luglio 2020 era stato arrestato per usura. Lo scorso febbraio, la Corte d'appello di Roma ha ridotto la pena a 3 anni, facendo cadere l'accusa di autoriciclaggio, e ha assolto il figlio Riccardo (nipote della Cirinnà).

[…] Dopo aver interpellato anche la Banca d'Italia per cercare di capire attraverso quali mani fossero passati quei contanti, lo scorso 28 marzo il sostituto procuratore di Grosseto Giampaolo Melchionna è stato costretto a chiedere l'archiviazione dell'indagine per riciclaggio (contro ignoti), non essendo riuscito a dimostrare la provenienza illecita dei 24mila euro. 

Ma, inaspettatamente, il 4 maggio la senatrice del Pd si è fatta avanti e, tramite l'avvocato Giovanni Gori, ha chiesto al gip di «disporre la restituzione» della somma in suo favore, opponendosi alla confisca chiesta dal pm. […] dato che la senatrice è legale rappresentante di CapalBiofattoria, secondo il suo legale, spetterebbero a lei. In vista dell'udienza dello scorso 6 giugno, la senatrice ha reiterato la richiesta del denaro, specificando (questa volta) di volerlo devolvere all'associazione antiviolenza Olymbia De Gouges.

Secondo il giudice delle indagini preliminari di Grosseto, però, «la richiesta di restituzione della Cirinnà non può essere accolta, poiché opera in questo caso la disciplina delle cose ritrovate». Peraltro […] anche se si fosse trattato del ritrovamento di un tesoro, «esso spetta solo per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore: in questo caso, a Fabio Montino e all'operaio Fabio Rosati, per la quota di un quarto ciascuno». […] Intanto le banconote contese restano sotto sequestro. Ora sta alla senatrice decidere se fare causa al figlio di suo marito e al suo operaio. Già dopo il ritrovamento delle banconote, avevano fatto discutere le sue dichiarazioni a caldo nei confronti della sua cameriera, «strapagata e messa in regola con tutti i contributi Inps», che «ci ha lasciati da un momento all'altro, dicendo: Me ne vado perché mi annoio a stare da sola col cane». […]

Monica Cirinnà e i soldi nella cuccia del cane: no del giudice a quei 24 mila euro. Lei smentisce la richiesta. Il Tempo il 05 agosto 2022

Un nuovo sviluppo inaspettato. Riesplode la polemica, scoppiata la scorsa estate, sui 24 mila euro trovati nella cuccia del cane nella villa di Capalbio del sindaco di Fiumicino Esterino Montino e della senatrice del Partito Democratico Monica Cirinnà. Secondo "Il Messaggero", Monica Cirinnà avrebbe reclamato la somma di denaro trovata nella cuccia, opponendosi così alla confisca chiesta dal pm. La richiesta è stata respinta però dal giudice e le banconote restano dunque sotto sequestro. Nel frattempo è arrivata la smentita della diretta interessata: "si tratta di notizie non vere, inesatte, incomplete e distorte. La verità è agli atti" dichiara la senatrice dem.   

Secondo l'articolo pubblicato oggi dal Messaggero invece la Cirinnà avrebbe chiesto la restituzione della somma di denaro provocando una disputa legale. "Ai sensi dell’articolo 932 del codice civile il “tesoro”, inteso come qualunque cosa mobile di pregio di cui nessuno può provare d’essere proprietario, appartiene – si legge nell’istanza della Cirinnà – al proprietario del fondo in cui si trova. La senatrice ha reiterato la richiesta il 6 giugno, specificando che avrebbe devoluto i 24 mila euro all’associazione antiviolenza 'Olymbia De Gouges'. Secondo il giudice delle indagini preliminari di Grosseto, però, la richiesta di restituzione della Cirinnà non può essere accolta, poiché opera in questo caso la disciplina delle cose ritrovate. Come spiega il giudice nel provvedimento del 20 giugno scorso, anche se si fosse trattato del ritrovamento di un tesoro, 'esso spetta solo per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore: in questo caso, a Fabio Montino e all’operaio Fabio Rosati, per la quota di un quarto ciascuno'". 

Ma la senatrice non ci sta e replica: "Vedo con rammarico che alcuni giornali tornano, con gravi imprecisioni, su fatti dei quali sono stata vittima un anno fa. Domani Il Messaggero pubblicherà una mia lettera, ma intanto ci tengo a smentire notizie non vere. Da quasi un anno spiego a chiunque che la cuccia dove sono stati ritrovati dei soldi in contanti era in disuso da anni era ai margini della nostra proprietà, in un luogo aperto al pubblico transito, non visibile dalla nostra abitazione e a ridosso della 

 strada provinciale". E si difende: "Ho da subito avvisato i carabinieri e ho semplicemente comunicato attraverso il mio avvocato al giudice, come prevede la legge, cosa avrei fatto nel caso in cui i denari mi fossero  consegnati. Non restituiti, perché, appunto non sono miei. Ho detto chiaramente che quei soldi sarebbero andati in beneficenza. Io e la mia famiglia non siamo mai stati coinvolti nell'indagine che ha riguardato quei soldi. Indagine, ribadisco, archiviata. Purtroppo, la circolazione di notizie non vere, inesatte, incomplete e distorte sta generando un'ondata di reazioni violente nei confronti della mia persona e della mia famiglia che infangano il mio lavoro e il mio impegno politico"  conclude Cirinnà.  

Nuova commedia all’italiana. Dio ci conservi Monica Cirinnà, intrattenitrice in chief di questa estate da sbadigli. Guia Soncini su L'Inkiesta il 6 Agosto 2022

È arrivata la seconda puntata della saga della senatrice più vanziniana d’Italia, che avrebbe richiesto al gip i soldi trovati nella cuccia del cane, ma la legge impone di dividerli con il figlio del marito e, ottima sceneggiatura, anche con un operaio 

Dio o chi per lui ci conservi Monica Cirinnà, che ogni agosto si spende per intrattenerci e per fare da sola tutto ciò che una volta sarebbero serviti Age, Scarpelli, Sonego, e pure Risi e Monicelli per fare. Dio o chi per lui ci conservi la finta bionda che lo scorso agosto trovò i soldi nella cuccia del cane.

Riassunto della commedia all’italiana precedente. Lo scorso agosto, nella cuccia del cane di casa Cirinnà/Montino vengono trovati ventiquattromila euro. Non si sa di chi siano, Monica ed Esterino negano non solo che siano loro ma anche di sapere che fossero lì, giacché la proprietà è molto ampia e loro non si avventurano mai nel codice postale della cuccia del cane.

Filippo Ceccarelli ipotizza che i soldi debbano essere considerati proprietà del cane (si chiama Orso: il dio della sceneggiatura è nei dettagli), e forse anche la senatrice Cirinnà se ne convince. Fatto sta che, nell’estate 2022, per adempiere al suo dovere d’intrattenitrice della nazione, dovere vieppiù doveroso durante la campagna elettorale più noiosa della storia della repubblica, ella chiede che i soldi sequestrati le vengano consegnati.

I soldi, ricordiamo, erano quarantotto banconote da 500 euro l’una, legate con elastici, che erano volate per aria quando la ruspa aveva abbattuto la cuccia. Una scena di film di Tarantino o dei Coen, se proprio diamo per deceduta la commedia all’italiana.

La senatrice più vanziniana d’Italia aveva prontamente dato la colpa agli spacciatori nordafricani, i quali però pare lavorino con tagli più piccoli. Insomma, non si sapeva di chi fossero ’sti soldi (si era sospettato di parenti dei coniugi Cirinnà, ma anche quei sospetti erano caduti).

Finché, il 4 maggio, intuendo che l’estate sarà stata lunga e noiosa, la senatrice scrive al gip. È vero, ha detto che i soldi non erano suoi, ma erano sulla sua proprietà, e comunque lei li vuole dare in beneficenza, a un’associazione antiviolenza di Grosseto (il deposito di Paperone in forma di cuccia di cane si trovava nella proprietà maremmana della senatrice).

Noi, nel frattempo, siamo ignari di questa seconda puntata della saga ma molto affezionati alla prima. L’Italia ha ormai così pochi grandi intrattenitori che è grata a quelli che si applicano. Giusto giovedì, Emma Fattorini, vicepresidente di Azione, ha pubblicato sulla sua pagina Facebook la pagina d’uno stenditoio coi panni appesi. L’ha fatto per rendersi immedesimabile presso quell’elettorato che fa vacanze da sguattera del Guatemala (cit. che spero coglierete) e, non avendo in villeggiatura personale di servizio, finisce per sgobbare più che d’inverno?

Forse. Ma soprattutto l’ha fatto per apporre alla foto questa didascalia: «L’eroismo di stendere i panni a 37 gradi… senza aiuti… come era quella storia “senza la cameriera e pure strapagata”». Il riferimento è all’inarrivabile intervista con cui l’estate scorsa la senatrice Cirinnà aveva spiegato la vicenda della cuccia del cane, approfittandone per lamentarsi dell’ingratitudine della cameriera strapagata che si era appena licenziata perché si annoiava.

Nei commenti sulla bacheca della Fattorini, qualcuno scriveva «ma ti manca il cane da portare a spasso»; la Fattorini rispondeva «ma no, quello è scappato con i soldi che ha trovato nella cuccia». Chissà se a quel punto la Fattorini già sapeva della richiesta della Cirinnà al gip, chissà se aveva informazioni e per questo le era venuta la battuta, o se è solo che la vita è sceneggiatrice.

Fatto sta che il giorno dopo, ieri, il Messaggero racconta della richiesta della Cirinnà. E del gip che, tenendo alla commedia all’italiana persino più della senatrice, l’ha respinta dicendo che «opera in questo caso la disciplina delle cose ritrovate». E che, se anche si fosse invece trattato di un tesoro di cui è indimostrabile la proprietà come argomentato dalla senatrice, «esso spetta solo per metà al proprietario del fondo e per metà al ritrovatore». I lavori di demolizione della cuccia erano coordinati da uno dei figli di primo letto di Esterino Montino, marito della Cirinnà. Che sceneggiatura, la faida familiare tra Monica che vuole i ventiquattromila euro e Fabio Montino che sfida la matrigna perché la legge dice che una parte spetta a lui.

Ma la sceneggiatura si arricchisce: a Montino jr. ne spetterebbero – dei ventiquattromila – un quarto, giacché con lui c’era un operaio, al quale pure andrebbe un quarto, cioè seimila euro. L’operaio in udienza avrebbe, secondo il Messaggero, detto le eloquenti parole «certo, qualche cosetta…» (se la sceneggiatura la date da revisionare a me, l’operaio ve lo faccio marito della sguattera che s’è licenziata – o di quella che l’avrà nel frattempo rimpiazzata: mica la povera Cirinnà starà passando la seconda estate a stirare?).

Dio o chi per lui ci conservi Monica Cirinnà, che in una campagna elettorale da, come dicono a Roma, morire di pizzichi (in italiano: annoiarsi tantissimo), con litigi del tipo «tu avevi detto che eri più alleato con me e invece sei più alleato con quegli altri», «non posso stare con te perché hai l’agenda Smythson e non quella Draghi», eccetera, per fortuna c’è la Cirinnà, che va in tribunale a litigarsi quattro spicci col figliastro e un operaio. La cui classe va in paradiso, ma non prima d’essere passata dal purgatorio di Monica Cirinnà che non è disposta a cedere i seimila euro che spetterebbero alla manovalanza, probabilmente strapagata quanto e più della servitù, e chissà se dietro emissione di fattura o – dettaglio ottimo per raccattare i voti di destra – in nero.

·        Nicola Fratoianni.

Nicola Fratoianni, contro il capitale e il «nemico comune»: la vita da equilibrista del leader rosso. Roberto Gressi su Il Corriere della Sera il 23 Agosto 2022

Fratoianni non vuole finire nel girone dei rinnegati della sinistra-sinistra. Con Bonelli, i dissapori sono accantonati. Per un miraggio: il 3% 

Il problema è la teoria della relatività ristretta, con la realtà che è semplicemente e assolutamente diversa a seconda del punto di vista dell’osservatore. E allora non c’è dubbio che la lettura più lineare sia quella che dice che Enrico Letta si è alleato con uno che non ha votato e mai voterebbe il governo di Mario Draghi, che si è espresso contro l’invio di armi all’Ucraina né mai sosterrebbe l’aumento delle spese militari o le missioni in Libia, mentre chiede meno orario e pari salario e una tassa per i ricchi con cui finanziare il welfare. Ma saliteci voi sul palco della Fratellanza Operaia di Sesto Fiorentino e provate a convincerli che si può stare con il Pd, completamente in linea con l’Europa e l’alleanza atlantica, senza perdere l’onore. Perché lo si fa solo per il dovere di fermare il rigurgito neofascista, per difendere la Costituzione, eterno baluardo contro la restaurazione, e non per portare a casa uno stipendio da parlamentare, e che comunque un pezzo almeno lo girate alla causa. Perché sarà pur vero che è passato quasi mezzo secolo da quando Enrico Berlinguer disse che si sentiva più sicuro sotto l’ombrello della Nato, ma i comunisti «così», come diceva Mario Brega mostrando non uno ma tutti e due i pugni chiusi in un film di Carlo Verdone, non ci hanno mai creduto. Hanno sempre pensato che fosse un trucco per fregare i borghesi e quando Enrico, quello di allora, sarebbe comparso in tv, Benigni docet, dicendo: compagni… pronti… via! La rivoluzione avrebbe rotto gli argini aprendo la strada al sol dell’avvenire.

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Ecco quello che sta passando Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana, che nel suo ruolo basta un avverbio fuori posto, una foto casuale passando davanti al circolo del tennis, un forse si potrebbe, e ci si trova in un attimo nel girone dei rinnegati, servi del capitale.

Nasce a Pisa il 4 ottobre del 1972, sotto il segno della bilancia. Famiglia molisana, originaria di Ururi, babbo Aldo, mamma Anna, entrambi insegnanti, ora in pensione. Diploma al liceo scientifico Filippo Buonarroti, laurea in filosofia con una tesi sull’antropologo francese Louis Dumont che gli vale la lode. Vive a Foligno, è ateo e si è sposato in Comune nel 2019 con Elisabetta Piccolotti, ex portavoce nazionale dei Giovani comunisti, celebrante Nichi Vendola. Ha un figlio che si chiama Adriano. Ottimo giocatore di ping pong, da ragazzo anche a livello nazionale, e ancora meglio, pare, come cuoco di pesce.

Nel 2004 pesca il jolly. Si era fatto le ossa nel movimento no global e Fausto Bertinotti lo spedisce armi e bagagli, poco più che trentenne, a fare il segretario regionale in Puglia. A Bari ci arriva a bordo di una Volvo station wagon scassata e di seconda mano, trova casa nella città vecchia e, mentre semina senza clamore cuori infranti, partecipa all’avventura che porterà Nichi Vendola a battere, contro pronostico, il predestinato Raffaele Fitto nella corsa per guidare la regione Puglia. Tra lo sconcerto e il fastidio di funzionari, uscieri e vigilanti sale le scale che lo portano allo studio del presidente in sandali e bermuda, dove lo attende Nichi, perennemente in giacca e cravatta, anche con quaranta gradi all’ombra.

Marcia trionfale, quei due non li fermano neanche con la penicillina, fino a che nel 2008 accade l’impensabile. Se ne vanno a Chianciano terme per vincere il congresso di Rifondazione a mani basse e invece nella notte la mozione di Paolo Ferrero li supera al fotofinish per un’incollatura. Cose che succedono, si dirà, ma nelle complesse vicende della sinistra-sinistra, Nicola Fratoianni, che è sempre stato un funzionario di partito, si ritrova quasi senza lavoro. Fino a che, nel 2010, l’amico Nichi lo nomina assessore alle Politiche giovanili. Non senza polemiche e malumori, perché succede a Guglielmo Minervini, che quell’assessorato lo aveva inventato e fatto prosperare. Nel nuovo ruolo Nicola infila i bermuda nell’armadio e i sandali nella scarpiera e si compra una giacca e la cravatta, e visto che c’è, passa dal concessionario e torna con una Triumph Bonneville fiammante.

Adesso Nicola Fratoianni e Angelo Bonelli, di Europa verde, fanno un po’ i Marco e Mirko della politica italiana, i gemelli terribili scaturiti dalla penna di Gianni Rodari. Ma ci fu un tempo, neanche tanto lontano e, per certi versi, ancora pendente, in cui sono stati durissimi e fierissimi avversari.

La vicenda dell’Ilva di Taranto, con i suoi strascichi processuali, li ha visti su barricate contrapposte, con il leader verde, costituitosi parte civile, che chiedeva per il leader rosso condanne e obblighi di risarcimento. Su Bonelli piovevano strali che lo bollavano come uno sciacallo alla ricerca di consenso elettorale mentre c’erano posti di lavoro da difendere. Lui accusava Vendola e l’amico Nicola di aver intessuto rapporti non limpidi con i vertici dell’acciaieria, alle spalle dell’ambiente e della salute dei pugliesi. Ora non è tutto dimenticato, ma di sicuro tutto accantonato, perché fa premio sui vecchi dissapori la sfida del 25 settembre, dove c’è un nemico comune. Che certo è Giorgia Meloni, in predicato di diventare premier, ma vuoi mettere con la soddisfazione di bacchettare Carlo Calenda? Bonelli: «È un bimbo capriccioso e va educato, se sei viziato cresci male». Fratoianni: «L’agenda Draghi non esiste, povero Calenda, deve correre in cartoleria a comprarne un’altra».

E via così, sperando nella fatina del tre per cento.

·        Gianni Vattimo.

Massimiliano Peggio per “la Stampa” il 3 giugno 2022. 

«Che cosa diciamo?» Il professor Vattimo rivolge la domanda al suo fedele factotum, Simone Caminada, con un filo di voce, alzando appena la testa. Nella sua casa museo, in via Po, s' improvvisa una conferenza stampa per parlare delle traversie giudiziarie, delle perizie discordanti, delle accuse al suo collaboratore-compagno che tengono banco in tribunale, dei soldi spariti dai conti correnti. Invenzioni? Esagerazioni dei giudici? Allora professore si fida del suo collaboratore? «Sì, abbastanza». 

Storia di una fulgida mente in declino. Gianni Vattimo, adesso, ha 86 anni. I fatti vivisezionati a più riprese da giudici e periti risalgono ad alcuni anni fa. Per la Cassazione civile, come sentenziato l'altro ieri, il professore è in grado di disporre dei sui beni liberamente e non ha bisogno di un'amministrazione di sostegno. Per la procura no, sarebbe manipolabile, incapace di badare ai propri beni.

Si sente manipolato dal Simone? «No, mi fido di lui» risponde, interrompendo il suo silenzio, che sembra quasi un torpore. Il suo giovane assistente è sotto processo e si difende. Elettrizzato dalla sentenza della Cassazione, si lancia una lunga filippica contro la giustizia penale, che lo vede come un impostore. 

«Altre persone hanno fatto del male a Gianni, e sono sparite. Quelle stesse persone che adesso testimoniano contro di me». Caminada è istrionico, a tratti affabulatore, buon eloquio. Già in aula, la sua deposizione da imputato, era stata definita uno show. Vattimo ascolta la conferenza stampa improvvisata, annuisce, risponde a monosillabi alle domande. Osservandolo, i ricordi sgorgano crudeli, nell'immaginarlo ancora il professore che ammaliava schiere di studenti, che intervistava Fidel Castro, che firmava arguti articoli per la Stampa, scandagliando il pensiero del Novecento in inesorabile declino.

Oggi appare così fragile su una sedia a rotelle, le sue mani sottili, consumate dalla malattia. A tratti gli occhi scrutano gli interlocutori. Mentre il suo vulcanico assistente, in bretelle nere e camicia bianca, se la prende con la Finanza, con i magistrati, racconta di parassiti che hanno attinto al patrimonio del professore fingendo amicizia, amore. Lui no, Gianni è la sua famiglia, e chi lo accusa di averlo circonvenuto si sbaglia di grosso. «Gianni ha la delega sul mio conto ed io sul suo. Siamo una cosa sola. 

Siamo una famiglia». E spiega la sua verità. «Gianni deambula poco e male, ma ha la capacità di telefonare a chiunque. E' lucido. Gli voglio bene. Sono rimasto qui nonostante tutto quello che è successo». Poi snocciola cifre, depositi bancari. «Mi sono sempre occupato delle spese, di pagare gli stipendi della badanti. Ho amministrato la casa. Anche se il concetto suona enorme, non amministro un'azienda, faccio quello che fanno tutte le persone in una famiglia». 

Va bene, ma come la mettiamo con il testamento e tutto il patrimonio del professore, che è stato anche parlamentare? «Sì, formalmente l'atto dice che sono proprietario dei quadri e della biblioteca, ma tutti questi beni sono vincolati e dovranno essere donati a università ed enti». La realtà che circonda oggi il professore, così come emerge all'apparenza, tra verità sfuggenti e dispute giudiziarie, non ha nulla di filosofico. E stride con i ricordi di quella casa, osservando il libro-reliquia di Pareyson su Fichte, la foto con Umberto Eco, i premi raccolti per le lezioni sull'ermeneutica.

Processo Vattimo, la difesa dell’assistente Caminada: «Ma quali soldi, volevo solo proteggerlo». Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera l'11 Maggio 2022.

È accusato di aver approfittato delle condizioni di fragilità del filosofo: «Ho sempre agito per il bene di Gianni, sono stati altri a prendergli tutto». Lo «show» in aula, che fa esclamare al pm: «Sembra di essere a teatro».

Per nulla fiaccato da quasi cinque ore di esame in aula, Simone Caminada, completo impeccabile come sempre, gemelli ai polsini della camicia e cappello di paglia bianco, si stira nel cortile del palazzo di giustizia, girandosi verso i cronisti: «Ho voglia di dire la verità, di fronte a tutte le falsità che stanno venendo fuori in questo processo». E la sua verità, da accusato di aver approfittato delle condizioni di fragilità di Gianni Vattimo, l’aveva detta poco prima: «Altro che volere il suo patrimonio, non volevo che morisse», si era sfogato. E ancora: «Io ho sempre agito per il bene di Gianni, sono stati altri a prendergli tutto, ma noi siamo ancora qua, nonostante tutto quello che è successo».

Da assistente, con compiti «un po’ da segretario», ora come prima al fianco del filosofo ed ex europarlamentare, che era comparso in aula a metà mattina, accompagnato su una sedia a rotelle.

È stata un’udienza estenuante, quasi più per l’eloquio dell’imputato che per i tempi, tanto che, più volte, il giudice Federica Gallone l’ha ripreso: «Parli senza fare giri di parole o divagazioni». Seguiranno altri richiami, a volume alto, anche alla mamma dell’imputato, tra il pubblico: avrebbe perso la pazienza pure un monaco tibetano.

La tesi accusatoria emerge chiara dalla lettura (e dall’interpretazione che la Procura ne dà) di alcune intercettazioni, tra Caminada e la madre, citate dal pubblico ministero Giulia Rizzo: «Arrivo a 45 anni con 4-5 mila euro al mese», diceva l’uomo, facendo riferimento all’eventualità di un’unione civile con il filosofo.

«Solo una boutade», s’è difeso, per poi correggersi: «Era lo sdegno nervoso di quei giorni che mi portò a dire cattiverie». Dopodiché, la madre, sempre nella telefonata, pareva essere stata esplicita, parlando dell’eventuale eredità di «un quarto della casa», alla quale era preferibile prendere i soldi: «Meglio i contanti».

Per Caminada, accusato di circonvenzione di incapace, furono invece altri ad approfittarsi del professore emerito: gente che si sarebbe portata via «6-700 mila euro in 53 mesi».

Il tutto in un racconto zeppo di incisi e aneddoti tra smorfie e gesti, in un mix surreale: «Sembra di essere a teatro», esclama a un certo punto il pm Dionigi Tibone. Finale in linea, con il difensore, l’avvocato Corrada Giammarinaro, rivolta al giudice: «Qui stanno venendo fuori fatti inquietanti».

Franco Debenedetti: «Per Gianni Vattimo questo processo è motivo di grande sofferenza». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

L’imprenditore ed ex senatore, fratello di Carlo, testimone nel procedimento in cui è imputato di circonvenzione di incapace Simone Caminada, assistente e compagno del filosofo

«Durante il periodo dell’amministrazione di sostegno ho ricevuto più volte richieste di denaro da Vattimo. Lui è un amico vero, non ho dubbi che quei diecimila euro mi verranno restituiti». A parlare è Franco Debenedetti, 87 anni, uno degli amici storici del filosofo torinese. L’imprenditore ed ex senatore, fratello di Carlo De Benedetti, ha testimoniato in Tribunale a Torino nel processo in cui è imputato Simone Caminada, assistente e compagno di Vattimo: il trentottenne di origini brasiliane è accusato di circonvenzione d’incapace. Secondo i pm Dionigi Tibone e Giulia Rizzo, il giovane avrebbe sfruttato la situazione di «fragilità psichica del filosofo» e «mediante un’attività costante di pressione morale consistita nell’approfittare della sua generosità è riuscito ad accedere a tutta una serie di benefici economici»: dal farsi intestare polizze assicurative fino alla nomina di erede universale.

L’ex senatore ha spiegato che formalmente a chiedere i prestiti era stato Caminada. «Ma è la stessa cosa», ha spiegato al giudice. «Me li chiedeva perché doveva andare al supermercato a fare la spesa. Per un filosofo come Vattimo è motivo di grande sofferenza la situazione che sta vivendo. Sono addolorato per lui, l’ho visto depresso», ha aggiunto. Debenedetti ha poi spiegato che un tempo lui e Vattimo si frequentavano molto di più: «Andavamo in vacanza insieme e trascorrevamo in compagnia i fine settimana, poi mi sono trasferito a Milano e gli appuntamenti si sono diradati. Ma non ho mai avuto alcun problema a incontrare Vattimo, Caminada non si è mai frapposto». Debenedetti ha anche confermato la prodigalità del filosofo: «La sua è una generosità singolare, non si è mai lamentato che qualcuno gli avesse chiesto troppo. Ammetto che in passato gli ho suggerito di affidare l’amministrazione dei suoi soldi a uno studio esterno».

Tra i testimoni sfilati in aula anche il filosofo padre Giovanni Ferretti, 89 anni: «Conosco Vattimo dagli anni Sessanta. Nell’ultimo periodo ci siamo incontrati spesso, c’è un rapporto spirituale. È sempre stato lucido, non si è mai lamentato di Caminada e lui non ha mai intralciato i nostri colloqui».

Simona Lorenzetti per corriere.it il 19 febbraio 2022.

«Sono fatti miei», replica Gianni Vattimo al pm Giulia Rizzo. È questa la risposta che più di altre racchiude il pensiero genuino del filosofo, ma anche la difficoltà a chiarire le dinamiche del rapporto con Simone Caminada. Vattimo è comparso in aula per testimoniare nel processo in cui l’assistente e compagno è accusato di circonvenzione d’incapace. Secondo la Procura, il trentottenne brasiliano avrebbe sfruttato la situazione di «fragilità psichica del filosofo» e «mediante un’attività costante di pressione morale consistita nell’approfittare della sua generosità è riuscito ad accedere a tutta una serie di benefici economici»: dal farsi intestare polizze assicurative fino alla nomina di erede universale.

Vattimo arriva in Tribunale in sedia a rotelle. È un’immagine inedita, che mette a nudo la debolezza fisica di un uomo stanco e malato. Parla con un filo di voce. Risponde con lucidità, ma lo scorrere dei pensieri non sempre è lineare. Non nasconde l’affetto che prova per quel ragazzo che siede sul banco degli imputati e che da oltre dieci anni è al suo fianco: «Sì, ho modificato la polizza assicurativa per destinare a lui il 70 per cento, del resto ha gli avvocati da pagare».

Il docente ripercorre i rapporti con i tanti amici che hanno attraversato la sua vita e che oggi non frequenta più. Emergono la generosità e l’altruismo: «Mi sono goduto la vita fino a quando non ho avuto qualche problema di salute. E ho aiutato a star bene le persone che mi stavano attorno». Ma non è la sua magnanimità sotto accusa, piuttosto le presunte «pressioni morali» di Caminada che avrebbe deciso di mettere un freno alle elargizioni di denaro: «Evidentemente Simone ha ritenuto che stavo spendendo più di quanto potessi permettermi». Vattimo riferisce di aver sempre concordato con il proprio assistente la gestione del patrimonio, fino alla necessità di sbloccare 70 mila euro di investimenti: «Non avevamo più liquidità e c’erano dei conti da pagare».

Ma a indispettire l’accademico sono le domande sui presunti dissidi tra lui e Caminada: «Litigi normali di due persone che vivono insieme. Come ci sono tra marito e moglie». Ma il pm Rizzo insiste e pur usando la delicatezza e il rispetto che si deve a uomo di 85 anni, considerato tra le menti più brillanti del ‘900, non può fare a meno di fargli notare che in alcune intercettazioni telefoniche si rivolge agli amici per chiedere aiuto: «Simone si prende troppo spazio», «Devi difendermi da lui», «Caminada vuole andarsene perché non faccio quello che vuole».

Ma a incuriosire il magistrato è il fatto che Vattimo chiedeva ai propri interlocutori di non parlare di questi «dissidi» in Procura. «Perché non dovevano essere raccontati?», domanda il pm. «Sono fatti miei», chiosa il docente.

Ferruccio Pinotti per corriere.it il 6 giugno 2022.

La parola è flebile e impercettibile, il corpo abbandonato su una sedia a rotelle, lo sguardo è quello basso e mesto di chi si è arreso alla difficile condizione dell’anziano intellettuale che sente la propria decadenza e che non ha più voglia di combattere. È questa la condizione del professor Gianni Vattimo, 86 anni, esimio filosofo torinese, reduce da una «vittoria» in Cassazione contro chi — la Procura di Torino, impegnata in un processo per circonvenzione di incapace contro il suo giovane compagno di colore Simone Caminada — voleva costringerlo alla amministrazione di sostegno.

Vattimo, l’inventore di una corrente laica come il «pensiero debole» — caratterizzata dalla critica a numerosi presupposti fondanti della filosofia classica nel più ampio contesto del relativismo — è parso in questi ultimi tempi riavvicinarsi al cristianesimo: in un momento critico come questo, fatto di guerre, di nazionalismi e “pensieri forti”, accetta di parlare a ruota libera di vari temi pubblici e privati con il Corriere, a margine della sentenza. E le sue parole a sorpresa, vertono sulla figura di Papa Francesco. 

L’amicizia con il Pontefice, la guerra, la “Fratelli Tutti”

«Il mio giudizio su Papa Francesco? È molto positivo, così come è molto positiva la valutazione della sua enciclica 

Fratelli Tutti, alla quale sto dedicando il mio prossimo libro, “Fratelli Tutti?”, edito da Castelvecchi e in uscita a settembre, spero. Si tratta di un lavoro fatto insieme alla Georgetown University, con la Civiltà Cattolica di Roma e con il caro amico collega Antonio Cecere, in cui si parla anche del Documento di Abu Dhabi sulla Fratellanza Umana del 2019 firmato da Francesco con un grande Imam oltre che di Fratelli Tutti, perché offrono a credenti e non credenti strumenti di riflessione e discernimento», esordisce Vattimo con un filo di voce.

«Seppure l’origine dell’Enciclica è necessariamente la fede cristiana, essa apre a una riflessione a tutto campo sui problemi del nostro tempo. Un cristianesimo critico non solo nei confronti della politica, dell’economia, della comunicazione, dell’ambiente, ma anche nei confronti di se stesso. Un cristianesimo capace di interrogarsi e di porre domande più che offrire risposte preconfezionate e, proprio per questo, capace di chiamare ciascun essere umano a prendere posizione in modo consapevole. Quindi ammiro Francesco, anche se sulla guerra in Ucraina mi piacerebbe vedere un suo intervento più incisivo».

Le sintonie di Francesco con il «pensiero debole»

Vattimo, allievo del filosofo cattolico Luigi Pareyson, vede delle sintonie forti tra il magistero di Francesco e il suo «pensiero debole» che si è sempre opposto agli assolutismi, filosofici e non. «Il Pontefice secondo me è debolista per natura perché riflette in maniera aperta sui grandi temi come la migrazione, l’omosessualità, le periferie, ponendo e ponendosi domande senza però dare, diciamo, la Verità con la V maiuscola. Bisogna accogliere in modo consapevole e responsabile l’invito di Papa Francesco a confortarsi sui tanti temi del nostro tempo con lo scopo di stimolare riflessioni costruttive».

Un rapporto personale forte

Vattimo rivela che tra lui e Francesco esiste un rapporto personale forte. «La mia conoscenza con il Pontefice — che è mio coetaneo, anche lui è del 1936 — risale a quasi dieci anni fa, al 2013, quando era ancora Cardinale. Le rivelo un fatto inedito: nel 2013 dovevo incontrare il Cardinale ad un convegno in Argentina, ma accadde che lui fu in quei giorni chiamato in conclave ed eletto Papa. Quindi lui volava verso Roma per divenire Papa mentre io volavo in Argentina. Una volta nominato Pontefice mi fece arrivare un bel messaggio simpatico, da un amico comune: “Chiedo scusa al professor Vattimo per non aver potuto essere alla conferenza, ma mi han fatto Papa”. Poi ci siamo visti successivamente, in varie udienze private. E il nostro dialogo continua. Tra l’altro, oltre a “Fratelli Tutti?” c’è con il mio assistente Simone Caminada un nuovo libro in programmazione sulla Chiesa dopo Francesco, che inevitabilmente non sarà più la stessa».

La mancanza di un figlio

Vattimo ha vissuto una vita intensa, fatta di tanti rapporti. Rifiuta le etichette e le categorizzazioni facili: «Pensi che da giovane dovevo sposarmi con Gianna Recchi, appartenente alla ricchissima dinastia dei costruttori torinesi, poi divenuta moglie di Gabetti, ma consegna al Corriere una confessione personale: «Mi manca molto un figlio biologico, questo sì lo ammetto. Ora sarebbe grande e potrebbe essermi vicino. Ma con Simone io mi sento come se avessi un vero figlio e comunque lui mi è sempre stato vicino ed è premuroso e attento ad ogni cosa per il mio bene. A me questo basta». La mestizia nel suo sguardo sembra dire che la verità è più complessa, ma va bene così.

Pantaleo Romano per mowmag.com l'8 giugno 2022.

Sono circa le 12 di un afoso lunedì mentre salgo le scale di un palazzo seicentesco nel cuore di Torino. 

Al terzo piano mi aspetta uno dei più grandi intellettuali italiani, un filosofo che ha lasciato il segno nella sua disciplina con il concetto postmodernista di “Pensiero debole”, un pensatore che per anni ha passato la vita tra università, impegno politico e conferenze internazionali (l’ultima tenuta nel febbraio 2022 alla veneranda età di 86 anni). Una vita che gli ha dato tanto, una vita impegnativa, ma anche “divertente” come mi dirà sorridendo durante l’intervista. Entro nell’appartamento e sono circondato da quadri, opere d’arte e librerie che avvolgono ogni stanza. 

Ad accogliermi in casa Simone Caminada, da circa dieci anni assistente personale del docente. Un parquet leggermente scricchiolante mi porta nel soggiorno dove seduto in una poltrona mi aspetta il professor Gianni Vattimo. Appoggiati su un tavolino accanto a lui ci sono i principali quotidiani italiani, sgualciti e ormai abbandonati dopo la lettura. Mi saluta amabilmente con un sorriso, stringendomi delicatamente la mano. Simone gli passa un foglio con le domande che ho preparato ed il professore s’immerge nella lettura. Lo avevamo già incontrato lo scorso anno (come nel video-reportage realizzato da Gianmarco Aimi che vedete qui sopra), ma ora qualcosa è cambiato. 

Perché non sono stati semplici gli ultimi anni in casa Vattimo. Dal 2018 infatti la procura di Torino ha cercato di dimostrare l’incapacità del professore di prendere decisioni autonome. Un procedimento che, come scrive La Nation, ha preoccupato finanche Papa Francesco, amico di lunga data del professor Vattimo ben prima di essere nominato pontefice. È così che di punto in bianco lo studioso vede assegnarsi un amministratore di sostegno che avrà il compito di gestire i suoi soldi (il quale spenderà circa 10 mila euro in più nel biennio 2018-2020 rispetto alla gestione di Caminada). L’ipotesi è che Simone voglia circuire Vattimo per arricchirsi. Il processo che vede coinvolto Caminada non si è ancora concluso mentre la parola fine è stata posta sulla vicenda che ha riguardato lo studioso.

Il 27 maggio è infatti arrivata dalla Cassazione la sentenza che ritiene inammissibile l’appello della procura. Una sentenza che pesa, giacché, oltre a considerare il professore “persona lucida e correttamente orientata, […] capace di controllare la gestione del proprio patrimonio” ha rigettato completamente l’appello della procura, aggiungendo che “deve essere escluso il ricorso all’istituto (dell’amministrazione di sostegno, ndr) nei confronti di chi si trovi nella piena capacità di autodeterminarsi […] in quanto simile utilizzo implicherebbe un’ingiustificata limitazione della capacità di agire della persona”. 

Insomma, una lezione di diritto da parte dei membri della Cassazione ai ricorrenti della procura. Si tratta di una sentenza che potrebbe essere importante anche per il processo di Caminada, visto che a questo punto sembra difficile parlare di circonvenzione d’incapace.

Al massimo si potrebbe parlare di “circonvenzione di capace” come scrisse ironicamente anni fa Marco Travaglio in un suo editoriale. La vicenda, comunque, non impensierisce il professore. Ormai definitivamente libero dall’amministratore di sostegno, Vattimo vuole mettersi alle spalle le questioni giudiziarie e magari tornare a fare conferenze come un tempo. “Purtroppo logisticamente, vista anche l’età del professore, è più difficile che in passato, ma in futuro vedremo” dice Caminada. Dopo pochi minuti Vattimo alza lo sguardo dal foglio sgualcito e con un cenno del capo mi fa capire che è pronto per rispondere alle mie domande. 

Professor Vattimo, innanzitutto come sta dopo la sentenza della Cassazione che la libera definitivamente dall’amministratore di sostegno?

In questi anni mi sono sentito molto limitato, molto debole. Devo dire però che ormai, dopo 4 anni, era diventata un’abitudine, una cosa che passa quasi in secondo piano e che dopo l’iniziale difficoltà tutto sommato non ne ho sofferto molto.

Come l’ha fatta sentire, dopo una vita intera dedicata al pensiero e al ragionamento filosofico, essere considerato non capace di scegliere autonomamente della propria vita?

A dir la verità è una vicenda che non mi ha ferito più di tanto. Come ho detto la prima richiesta di amministrazione è stata più dura da accettare e a quella ho reagito molto negativamente. Poi francamente non è me n’è importato niente di quello che voleva da me il procuratore Giulia Rizzo, sinceramente non ho mai sentito questo provvedimento come qualcosa che riguardasse me direttamente. 

Lei è stato sempre un gran viaggiatore, ora che la sentenza definitiva è arrivata le piacerebbe tornare a fare viaggi fuori dall’Italia?

Si molto! Direi che quella sarebbe la cosa che mi piacerebbe fare di più. Ormai sono in una condizione che rende più difficili i grandi viaggi di un tempo; mi dispiaccio un po’ se penso a tutte le possibilità che avevo di incontrare persone, vedere posti diversi. Nel frattempo però le cose si sono ridimensionate e non ho più l’esigenza di muovermi come un tempo. 

Da ormai 10 anni nella sua vita è presente Simone Caminada, assistente che la segue non solo nei viaggi ma anche e soprattutto nell’amministrazione della quotidianità. Come descriverebbe il vostro rapporto?

Beh direi che Simone per me è fondamentale nella vita quotidiana. Senza di lui penso che sarei diverso. In qualche modo mi tiene saldo alla realtà. 

Le sta accanto, la consiglia a volte?

Mah, mi consiglia più o meno, più che altro ormai ci capiamo a prima vista e c’intendiamo subito. 

Il processo penale che pende a carico di Caminada potrebbe avere una svolta positiva dopo la sentenza della Cassazione che la libera dall’amministratore di sostegno. È preoccupato per l’esito del processo che vede coinvolto il suo assistente?

Preoccupato non credo proprio. Pare talmente assurdo l’insieme che è difficile che si arrivi ad una condanna. È vero che il procedimento è strano ma non lo sento come un fatto grave, mi sembra più una di quelle cose che passano e che non hanno a che fare con la nostra vita.

Dopo una vita frenetica ora si gode la tranquillità del suo appartamento Torinese. Guardandosi indietro cosa pensa della sua storia e della sua carriera?

Penso di aver avuto un passato molto più divertente e interessante di quanto non immaginassi. Sono piuttosto grato di quello che mi è successo perché tutto ha seguito un percorso ed è andato bene. Da ragazzo immaginavo la carriera accademica ma non l’impegno politico. Non credo di essere cambiato dai tempi in cui ero ragazzo, è come se tutto avesse seguito una logica… Da ragazzo ricordo di non aver mai voluto essere diverso da com’ero, questo è molto strano a ben pensarci, però è andata così. 

I giovani vivono spesso l’incertezza del futuro. Ai suoi tempi c’era lo stesso tipo di interrogativo?

Credo che fosse abbastanza simile ad ora. Se penso a com’era la lotta per il futuro direi che l’attenzione per questo tema non è cambiata. Rimane difficile però paragonare quella che era la visione del futuro in quegli anni con la visione che si ha del futuro adesso. 

Sono due punti di vista che si confondono. Quello che è cambiato è sicuramente la realtà delle classi sociali. In passato c’era un nesso più stretto tra quello che un ragazzo era e quello che stava diventando. C’era molta più sensibilità riguardo l’appartenenza ad una classe sociale, il riconoscersi con i compagni. 

Lei è uno dei più grandi studiosi di Friedrich Nietzsche ed in questi tempi si parla molto di un’espansione del nichilismo, chiamato anche come “ospite inquietante” dal Professor Umberto Galimberti e prima ancora da Martin Heidegger. Ritiene che sia così?

Sento molto la mancanza di una direttiva che sostituisca quella che io avevo un tempo. Si sente molto più “nichilismo” nella società e la saturazione che esso ha raggiunto è più negativa che positiva. Inoltre oramai i valori rimasti sono davvero pochi. C’è un generale atteggiamento nichilistico nella società che si sente nettamente. Ciò che è difficile è comprendere dove porterà. Dal mio punto di vista siamo ancora nella fase esperienziale della caduta dei valori, quello che verrà dopo non si può immaginarlo. 

Si è definito un “comunista cristiano” che in quanto tale ha sempre rifiutato la violenza dello stalinismo in favore di una dialettica della tolleranza. Come vive la guerra tra Russia ed Ucraina alla luce del suo pensiero politico? Ritiene che supportare militarmente l’esercito Ucraino sia la scelta giusta?

Penso che valutare questa guerra sia difficile perché non si capisce dove si va a finire. A che punto siamo? Che succede? È come se ci fosse un continuo ribaltamento per il quale fare previsione sugli esiti futuri risulta molto complesso.

Non credo che si arrivi ad una guerra mondiale. Sono troppo prudenti per usare l’atomica. In questi casi si arriva sempre ad un certo punto e poi si frena. Per quanto riguarda l’Ucraina sono favorevole a rispettare la Costituzione, che nell’articolo 11 vieta l’utilizzo della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali, ma fino che punto? Quando? Perché? Fornire armi all’Ucraina o no?… francamente su questo sono un po’ incerto. 

La sua vita ha attraversato quasi tutto il ‘900, un secolo complesso che ci ha portato in questa “modernità liquida”. Quali pensa siano i cambiamenti più importanti che ha vissuto?

Credo senza dubbio che la caduta del muro di Berlino sia uno dei momenti, forse il momento decisivo del ‘900. Abbiamo assistito ad una trasformazione radicale di paradigmi e istituzioni che hanno accompagnato la caduta del muro. Stiamo ancora vivendo gli effetti di quell’accadimento. La nascita di internet anche ha comportato un cambiamento radicale, tuttavia credo che la caduta del muro abbia avuto un impatto più profondo nella società, un cambiamento totale dei paradigmi che vigevano all’epoca. 

Parliamo del panorama politico italiano. Come crede che arriveranno i partiti politici alle prossime elezioni?

Secondo me molto male, nel senso che avremo sempre meno democrazia e sempre più “ordinaria amministrazione”, perché in realtà è questo che sta avvenendo: “ordinaria amministrazione”. Non sono molto fiducioso per gli anni a seguire. Anche con il PNRR credo che saranno fatte delle scelte di “ordinaria amministrazione” dove tutto resterà a livello di piccoli provvedimenti aggiustativi e niente più, senza un progetto politico solido alla base. Certo poi si vedrà… 

Lei in passato ha militato nel Partito Comunista, ora il partito è rinato con Marco Rizzo. Cosa ne pensa di questo progetto? Ha le sue simpatie?

Sì certo, ha le mie simpatie. Non so fino a che punto mi identificherei con il loro pensiero però sicuramente è un progetto che mi interessa e mi riguarda in qualche modo. Sa, bisogna considerare anche le dimensioni di questo partito, tuttavia le idee che hanno sono interessanti ed infondo si tratta di un partito positivamente diverso da quello che si aspettava. Insomma come progetto non sembra tanto da buttare ecco.

C’è un messaggio che vorrebbe lasciare alle nuove generazioni e a quelle future?

Probabilmente gli consiglierei di ascoltare molto. “Ascoltare chi?" Lei mi chiederà. Ascoltare l’evento, l’accadimento… Ascoltare più che dire, ascoltare più che parlare. 

Le faccio una ultima domanda sul suo amico Umberto Eco. Cosa le manca di più di lui?

Lui è quello che mi manca di più. Mi mancano, non solo le cose che ho imparato da lui, ma anche le cose che non ho imparato. È come sentire la mancanza di qualcuno che avrebbe ancora qualcosa da dire. Come se la mancanza superasse le cose che ha fatto e detto, come se ci fosse qualcosa in più che mi manca di Eco, un qualcosa che non riesco a dire, che mi sfugge. Forse è la sua amicizia, vai a sapere…

·        Fausto Bertinotti.

Ripensare la politica a partire dalle macerie. La Nato va sciolta perché ha perso la sua ragione di esistenza: costruiamo l’Europa della pace neutrale e solidale. Fausto Bertinotti su Il Riformista il 30 Marzo 2022.

C’è la necessità-possibilità di un’alternativa politica al pensiero così quasi unanimemente presente e in ogni caso dominante nelle istituzioni e nei partiti anche in Italia. La necessità è certamente tale per coloro che pensano alla pace come al fondamento della politica per un largo schieramento di forze e persino come levatrice della ricostruzione, in questa parte del mondo, di una soggettività critica forte, di ciò che un tempo, in Italia e in Europa, era rappresentata dalla sinistra.

Oggi, il Papa è solo nel cielo della politica, invece questo cielo dovrebbe essere pieno di protagonisti della costruzione di un mondo nuovo, nel quale sia bandita la guerra e la conquista della pace sia promotrice di una radicale trasformazione del modello sociale nel quale siamo imprigionati fino a rischiare la catastrofe. L’esposizione dell’umanità e del Pianeta al rischio della sua autodistruzione è oggi alla portata della guerra atomica come della crisi devastante generata dal rapporto tra questo tipo di sviluppo e la natura. Ma c’è anche in profondità la questione che Marx ed Engels avevano già annunciato come connessa alle sorti generali del capitalismo e della lotta di classe. Secondo gli autori del Manifesto, «una lotta che finì sempre o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la rovina comune delle classi in lotta». Il tema della pace non è destinato al campo dei sogni. Si impone invece come decisivo, in primo luogo, qui ed ora, sul terreno dei movimenti, della partecipazione, della costruzione del popolo della pace.

Dei movimenti, esso ha tutte le caratteristiche, a partire da quello di essere sempre carsico. Ora, piuttosto che abbandonarsi alla contemplazione di cosa esso è stato nei suoi punti più alti, sia nell’elaborazione del pensiero politico che della partecipazione di massa (i cento milioni che hanno riempito le piazze del mondo contro la guerra all’inizio del millennio), è bene applicarsi ai sottili fili d’erba che faticosamente rinascono e alla loro possibile propagazione, malgrado il tanto diserbante irrorato dalla politica corrente. Quando rinasce la marcia della pace a Perugia e ad Assisi, rinasce con essa una speranza. Su queste pratiche di speranza contro la guerra, ovunque si manifestino, dovrebbe poggiare la costruzione di un pensiero politico adeguato, alternativo a quello che sembra configurarsi come pensiero unico, quello che sta costituendosi a partire dalla risposta data dal concerto degli Stati atlantici, all’orribile guerra di invasione dell’Ucraina da parte della Russia di Putin. Un’altra classica, lontana, previsione sembra così inverarsi in questa nuova drammatica emergenza. «Il pensiero dominante è il pensiero della classe dominante».

Il pensiero sostenuto da un sofisticato e pervasivo sistema di comunicazione è però elementare, privo di qualsiasi complessità, anche se, ovviamente, come sempre, non privo di pezze d’appoggio nella realtà. In esso, la guerra di Putin diventa Putin stesso e il suo regime tout court diventa il nemico. L’opposizione guerreggiata e la resistenza del popolo dello Stato ucraino viene sostenuta e assorbita nell’Occidente trasfiguratosi nell’alleanza atlantica. La reazione di quest’ultima alla guerra è costituita da una ritorsione crescente per indebolire e fermare il nemico, facendo ricorso a tutti i mezzi a disposizione, politici, giuridici, economici, sino all’invio delle armi agli ucraini, sulle spalle dei quali è lasciata la possibilità della trattativa, semmai con una cauta chiamata in causa di un terzo come mediatore. In questa logica, tutti i mezzi di dissuasione sono usabili in un’escalation che sembra affidare allo scontro armato il suo esito, piuttosto che all’iniziativa politica e alla grande diplomazia. L’unico limite militare assunto è quello di non valicare la linea di ciò che presumibilmente condurrebbe alla terza – e per tutti distruttiva – guerra mondiale. A questo, si aggiunge il limite economico per autoprotezione, quello di non adottare misure di ritorsione che pregiudicherebbero anche le proprie economie.

Il pensiero unico è prigioniero dell’ipocrita “se vuoi la pace, prepara la guerra”. Esso si separa, senza dichiararlo e finanche a volte dicendo di volersi rifare ad esso, allo spirito del secondo dopoguerra, quando però invece della creazione delle Nazioni Unite e delle costituzioni democratiche, vengono adesso, dai governi europei, sepolte quelle, insieme alla temperie culturale e politica che le aveva generate. Come ieri, la moneta, così oggi, l’armamento dovrebbe co-determinare la nuova Europa. Difficile dire “peggio mi sento, eppure”. Anche senza metterci il carico dei corredi intellettualmente impresentabili, ma che spesso accompagnano il nucleo portante del pensiero unico, questo basterebbe a rendere evidente la necessità di una idea alternativa dell’Europa, nel mondo, per chi pensi che anche al suo interno vadano affermate le idee per una lotta senza quartiere alla diseguaglianza, nella costruzione di una nuova società ispirata a un ecologismo integrale. Tra quelle idee non necessarie al pensiero unico, ma non incompatibili con esso, tanto che spesso lo accompagnano, basti ricordare sia la tesi di un Putin figlio dell’Urss, che quella di lui come di un nuovo Hitler, come quella che lo vorrebbe eliminato fisicamente e soprattutto dalla più pericolosa e inquinante, la tesi dello scontro tra la democrazia occidentale, da un lato, e l’autocrazia, dall’altro, configurando così uno scontro di civiltà, in realtà inesistente.

Quest’ultima tesi avrebbe il pregio per le classi dirigenti di cancellare in un solo colpo la crisi dell’Europa e dell’Occidente e le cause profonde, strutturali e politiche che le hanno generate, a partire dalla globalizzazione capitalistica, con le conseguenti crisi sociali e democratiche. L’alternativa, dunque, dovrebbe partire proprio da qui, dalla storica necessità di costruire un’altra Europa, portatrice nel mondo di un modello sociale, democratico ed economico originale e promettente per tutto il mondo intero e, in specie, per i suoi sud. Il suo farsi ponte tra Nord e Sud, tra Est ed Ovest, la indurrebbe a riscoprire una traccia andata perduta della sua storia, quella di una neutralità attiva dell’Europa. La traccia l’aveva già segnata la sinistra italiana nel suo momento di massimo consenso popolare, in tutte le sue componenti comunista, socialista, cattolica e in politica, e l’aveva lasciata col suo impegno per la pace e la lotta per il disarmo atomico.

Chi pensa che tutto ciò fosse una copertura degli interessi dell’Unione sovietica è costretto anche a cancellare che uno degli uomini della sinistra più autonomi, non solo dell’Unione sovietica, ma anche del Partito comunista italiano, tanto da aver coniato la definizione di “a-comunista”, Riccardo Lombardi, è stato il presidente di quei partigiani della pace. Quella politica esprimeva una cultura profonda che potrebbe riemergere in una nuova vita. Ieri, fuori dai blocchi, oggi fuori da una contesa economica e statuale che ci porterebbe dentro la globalizzazione e il dominio dei mercati e la sua crisi, che ci condurrebbe ancor più minacciosamente nell’instabilità, nell’incertezza e nella privazione di futuro per le sue genti. Sulla guerra a pezzi e ora sulla guerra scatenata da Putin, e sulla replica miope dell’Occidente, si vorrebbe ricostruire, dentro l’Europa, la Frontiera, con un nuovo muro, senza la grande politica. Ma l’Europa dovrebbe invece al contrario costituirsi per spezzare le frontiere, per attraversarle, per proporsi come un polo del dialogo, come costruttrice di pace. Un’Europa neutrale, forte del suo essere disarmata e invece produttrice di sue proprie e originali forze organizzate per l’interposizione nei conflitti, per il soccorso in mare e in terra di chi cerca una terra da calpestare come condivisa e un tetto sotto cui vivere, in una comunità aperta e accogliente. Pensiamo all’opposizione tra le armi e la cultura delle traduzioni.

Le prime sono del mondo cupo e minaccioso di oggi; le seconde sono la premessa di un rapporto creativo tra diversi, tra diverse persone, tra diverse comunità, tra diverse società, tra diverse culture e religioni, tra diverse organizzazioni sociali, fatte di diversi rapporti di potere tra le classi, come tra i cittadini, annunciando così anche un diverso rapporto tra gli Stati. L’Europa politica che si liberi dai lacci e dai lacciuoli che oggi la imprigionano e che la rendano un nano politico, lontano dai suoi popoli e separata da tante parti del mondo, un’Europa che non dovrebbe temere il mare aperto. È questa l’Europa di cui ci sarebbe bisogno. Un vecchio e geniale sindacalista tanti anni fa ci invitava a lasciare sempre le consolidate sponde con un appello a provarci. Ci diceva che per imparare a nuotare, bisognava buttarsi in acqua. L’appello varrebbe a maggior ragione per quell’impresa politica che volesse prefigurare un futuro diverso dell’esistente. Vale, in particolare oggi, quando tutto sembra precluso fuori dal drammatico disordine esistente, vale per la rinascita della politica di cui abbiamo bisogno. Non si dovrebbe allora avere paura delle discontinuità, né di proporsi obiettivi apparentemente irrealistici, come quello del disarmo universale e del dissolvimento delle alleanze militari, come quello dello scioglimento della Nato.

La Nato già ieri aveva perso la sua ragione di esistenza, con la fine del mondo diviso in due blocchi contrapposti. Lasciarla reinventarsi ora, sulla ripresa dello spirito di belligeranza e sull’aumento delle spese permanenti dei Paesi europei, e restarci dentro acriticamente, non avrebbe alcun senso per un’Europa che volesse scegliere come fondamento della sua ricollocazione internazionale la pace e il dialogo tra i popoli. Se essa si rivolgesse al Mediterraneo potrebbe già trarre, dentro la sua vicenda storica lunga e tormentata, il filo dell’incontro del dialogo tra religioni, culture, esperienze, lingue e vissuti, sulle sponde diverse di uno stesso mare, quello che chiamiamo “il mare nostro”. Un’Europa diversa, larga, “dall’Atlantico agli Urali”, e promettente, si collocherebbe così nel nuovo mondo da costruire in pace e con la pace, a cominciare dalla sua stessa vita interna.

Fausto Bertinotti. Politico e sindacalista italiano è stato Presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008. Segretario del Partito della Rifondazione Comunista è stato deputato della Repubblica Italiana per quattro legislature ed eurodeputato per due.

Fausto Bertinotti. Giulia Cazzaniga per “La Verità” il 4 aprile 2022.

«Sa che nei giorni scorsi ho fatto una cosa molto interessante? Sono stato a Napoli, alla Whirlpool (la "r" è inconfondibile, ndr), a incontrare donne e uomini meravigliosi di tante aziende in crisi che continuano ad avere grande capacità di resistenza e di iniziativa, nonostante siano stati completamente abbandonati dalla politica». 

La conversazione con Fausto Bertinotti si apre così, ché se al segretario del Partito della rifondazione comunista dal 1994 al 2006 chiedi quale sia la sua lettura di quel che sta accadendo in Ucraina, ti spiegherà che dietro al fatto che il Belpaese abbia oggi il record dei precari dal 1977, in fondo, c'è la medesima storia di un fallimento. 

Quaranta giorni dall'inizio della guerra. Come si è potuti arrivare fin qui?

«Il quadro generale è quello di una globalizzazione capitalistica che ha visto falsificate le premesse e le promesse: l'idea, cioè, di una unificazione del mondo per la via del mercato dopo il crollo dei regimi dell'Est. Il mondo è ora incerto e instabile. Ha ragione il Papa: siamo a una terza guerra mondiale combattuta a pezzi. La guerra in Ucraina? C'è un colpevole, ma non ci sono innocenti».

Su chi sia il colpevole in pochi coltivano il dubbio. Perché dice non ci sono innocenti?

«La molla scatenante della guerra parla anch' essa della crisi della politica. Perché riemergono nella crisi fantasmi di un passato. C'è una logica di una potenza basata sul nazionalismo, una Patria bandita come arma contro le altre patrie, il ritorno al passato. E questo mette in luce l'altro fallimento, di quello che pomposamente si chiama Occidente, dell'area atlantica: gli Usa sono stati protagonisti della globalizzazione, che ha aperto alla crisi della democrazia». 

Non è forse invece questa una guerra in favore della democrazia?

«Non mi pare difficile osservare che anche l'Europa è da anni dentro una tendenza di regimi di governo tecnici-oligarchici. È un rinsecchimento della democrazia, che si misura - come si diceva una volta - dalla gente che vota con i piedi, nel senso che non va a votare.

Quasi metà degli elettori italiani disertano le urne. E il voto mi sembra essere il punto decisivo di una democrazia, no?».

E la globalizzazione che cosa c'entra?

«Ci tengo all'aggettivazione: globalizzazione capitalistica. Sull'economia si è compiuta la ristrutturazione della politica e delle sue istituzioni. La politica, cioè, è diventata governabilità. Che in sintesi significa essere interni sia alla logica di mercato sia della coalizione economico-militare. 

L'Europa si sta oggi rivelando per quello che è: nascondersi dentro l'alleanza atlantica non è niente altro che una manifestazione evidente del suo nanismo politico. Mentre ci sarebbe bisogno del suo patriottismo, ma non indotto. L'unico grande protagonista sulla scena è Francesco». 

Lo stima tanto che viene da chiederle se si sia convertito.

«Non vado a messa, non sono credente. Ho sempre guardato con grande interesse, però - come chiunque si sia occupato di vita sociale e politica così a lungo -, all'esperienza del cattolicesimo che è imprescindibile, ovviamente, in Italia. Faccio parte di una generazione di militanti del movimento operaio che ancora ricordano quando Giovanni XXIII aprì la Chiesa al mondo con il Concilio».

Insomma è la figura del Papa che da sempre la affascina.

«Beh, non mi faccia fare una classifica dei pontefici. Papa Francesco indubbiamente è oggi una delle rarissime voci autorevoli di pace nel mondo. E le sue encicliche parlano di una valorizzazione umana che è una critica all'economia esistente: non siamo obbligati, dice esplicitamente, a subire la dittatura del profitto. Ora le cito una frase di Bergoglio che mi è rimasta impressa e che le so dire quasi testualmente». 

Prego.

«Ha detto che una società in cui c'è un contadino senza terra, un lavoratore senza dignità nel lavoro, donne e uomini senza un tetto sotto al quale abitare, è una società inaccettabile. E occorre lottare per cambiarla». 

Invasione di campo?

«No, la pastorale di un grande Pontefice. È il messaggio cristiano. Affascinante».

Resta ancora comunista, Bertinotti, vero?

«Certo». 

E della Cina di oggi che dice?

«Le rispondo ricordando che una sinistra eretica a cui ho appartenuto quando l'Unione Sovietica era al massimo delle sue forze la definiva con il termine "socialismo reale" per distinguersi da essa. Vale oggi, si figuri allora. Che cos' è la Cina se non economia di mercato anch' essa?». 

Non è utopia lottare oggi contro il mercato?

«Sì, se rimaniamo dentro il quadro istituzionale. Non se ci affidiamo ai movimenti. Lei è giovane, ma forse si ricorderà che all'inizio del millennio il Forum sociale di Porto Alegre, in Brasile, diede luce al movimento altromondista, dal quale nacque quello per la pace, contro la guerra in Iraq. Fu capace di schierare in un solo giorno 100 milioni di persone nelle piazze del mondo, si rende conto?». 

Oggi non si vedono piazze piene.

«Ne avremmo tanto bisogno. Guardi che il sistema di accumulazione capitalistica è molto esposto alla crisi. La crisi sociale è drammatica. Io credo che mai ci sia stata nel dopoguerra italiano una situazione in cui il lavoro è a tal punto ridotto a ventre molle della società». 

Possibile fermare con le piazze un'escalation militare di tale portata?

«Il problema è che oltre ai danni incomparabili della morte di migliaia di persone, anche le comunicazioni di massa sembrano essersi costruite come fossero in guerra. C'è un arruolamento ideologico, politico, culturale».

Su tutti i media?

«La televisione in particolare, che sembrava essere stata messa in crisi dai social network, in questo conflitto sta riacquistando potenza. E penetra attraverso un'inflazione di informazioni e con una sistematica ripetizione di argomenti. Chi fa comunicazione ha preso il posto dei partiti, ormai inerti e portati dal vento soltanto al governo, che li calamita». 

Dice che è tanto difficile essere critici, oggi?

«Un vecchio amico dalla lunga storia politica mi faceva notare quanto sia curioso che se deve dire la sua deve fare prima la premessa che Putin è colpevole. Una volta indossata questa sorta di corazza difensiva (ride) gli è concesso di parlare. Io la penso molto diversamente dal pensiero corrente». 

Riassumendo?

«A: non c'è una guerra giusta. B: non si prepara la pace con la guerra. C: la politica utilizza un codice imparato in tempo di Covid: imita il linguaggio degli esperti e si perde. Non che non si possa parlare di armi, ma è questione di priorità. Se la deterrenza sono le armi, usiamo la stessa logica di chi ha scatenato la guerra». 

Come se ne esce, invece?

 «Con la primazìa della politica di pace». 

Cioè?

 «Trattativa, trattativa, trattativa». 

Mario Draghi ha chiesto il cessate il fuoco a Putin. Qualche giorno prima ha detto che Putin non vuole la pace. Non è per questo che la Ue sta finanziando la guerra?

«Attribuire al nemico il rifiuto di trattare significa far diventare il conflitto un conflitto di civiltà, tra democrazia e autocrazia. Negare una volontà del nemico impedisce la risoluzione di pace. Israeliani e palestinesi, benché attaccati e con territori occupati, si disposero alla trattativa. Ci riuscirono. Tanto che ad Arafat, Peres e Rabin fu assegnato il Nobel per la pace. Poi l'accordo fallì, certo, ma per altre ragioni».

Abbiamo approvato l'aumento delle spese militari con voto di fiducia.

«La guerra è la sostituzione della politica, non certo la sua prosecuzione. Perché è sopraffare, vincere, distruggere. Il compromesso invece, quando si tratta di Stati, è un termine nobilissimo. Il problema è poi anche far sì che la guerra non possa tornare. E per questo ci vuole un'Europa davvero autonoma dalla Nato». 

Dotata di un suo esercito?

«No, al contrario, fondata su un'idea nuova: un'autorevolezza basata sul canone della cooperazione». 

L'ha stupita la sinistra con l'elmetto?

«La sinistra istituzionale è diventata liberale - mi sembra molto difficile da contestare - e, ora, organicamente atlantica. Si è dissolta sulla governabilità. 

L'impianto politico che giustificò la sinistra, e cioè la critica al mercato, è stato totalmente dismesso. La cosa è aggravata dal fatto che la tradizione pacifista e neutralista ha tutte le sue origini alla sinistra italiana. Socialista, comunista, e pure cattolica. Non ha eredi, però, nell'arco costituzionale di oggi. Per questo le dico che è stato un dispiacere, ma non una sorpresa».

·        Laura Boldrini.

L'errore della Boldrini. Figuraccia Boldrini: attacca Meloni ma fraintende il suo discorso. Matteo Milanesi su Nicolaporro.it. il 26 Ottobre 2022

La paladina dei diritti ed il numero uno dell’Accademia della Crusca ha toppato. Ancora una volta. Dopo la polemica relativa alla scelta della premier Meloni di utilizzare la formula “il presidente”, e non l’articolo femminile, è arrivata la volta del partito Fratelli d’Italia. Secondo l’ex presidente della Camera, infatti, il movimento fondato dalla nuova presidente del Consiglio sarebbe discriminatorio, proprio perché non includerebbe nel nome le “Sorelle d’Italia”. E, a questo punto, diciamo noi: perché non ammettere anche la comunità Lgbt, di cui Laura si è scordata?

Scontro Meloni-Boldrini

Ma non finisce qui. Oggi, durante il voto di fiducia alla Camera, è arrivata una duplice steccata. Da una parte, Meloni ha ripreso ironicamente l’attacco di Laura Boldrini, secondo cui, con la dicitura “ministero della Sovranità Alimentare“, si andrebbe a vietare l’importazione di qualsiasi cibo straniero nel nostro Paese (la rappresentante del Pd ha utilizzato come esempio l’ananas). Dall’altra, però, la vera figuraccia arriva nel pomeriggio di ieri, quando l’ex terza carica dello Stato ha twittato il seguente post: “Il discorso di Meloni è stato a base di retorica nazionalista, polemico, vago su economia e lavoro, carente sull’immigrazione, autoreferenziale. Ha detto “non disturbare chi vuole fare“. In democrazia chi governa è sempre al vaglio dell’opposizione. Stia certa: disturberemo”.

La figuraccia

Boldrini ha alluso ad un presunto attacco di Giorgia Meloni all’opposizione, traducendo la frase come un monito alla sinistra, che non avrebbe dovuto mettere i bastoni tra le ruote al lavoro svolto da FdI, Lega e Forza Italia, a Palazzo Chigi. Eppure, la frase della premier riguardava tutt’altro tema. Il presidente del Consiglio – da notare l’articolo maschile – stava parlando del rapporto tra imprenditori e Stato, con l’intenzione di salvare il mondo dei produttori privati dalla burocrazia, dall’iper-tassazione (che tanto piace a sinistra), dalle migliaia di norme che imbrigliano le imprese. Insomma, ancora una volta, Boldrini ha preso un’altra strada, e ha collezionato l’ennesimo svarione, fraintendimento, errore.

Non è un caso che gli utenti della piattaforma Twitter glielo abbiano fatto notare: “Ma perché hai capito che il non disturbare era riferito all’opposizione? Ha detto non disturberemo chi vuole fare, rivolto alle imprese. Che c’entra l’opposizione?”; “Non disturbare a chi vuole fare era riferito agli imprenditori che sono imbrigliati in migliaia di norme, spesso in contraddizione tra loro. Il suo taglia e cuci è veramente infimo e – quello sì – retorico”. Ma la risposta di Laura non arriva, come neanche le scuse per aver frainteso la frase della premier.

Pochi giorni fa, inoltre, Boldrini è stata anche contestata da una giovane femminista romana, proprio sul tema caro all’ex presidente della Camera: i diritti delle donne. In un acceso confronto, ripreso dalle telecamere, la studentessa ha abiurato la rappresentanza della Boldrini al sit-in sull’aborto, colpevole di aver “tradito i giovani” attraverso “stage non pagati, lavoro sfruttato, alternanza scuola-lavoro o progetti in azienda”. Le mazzate, almeno in queste ultime settimane, arrivano da tutte le parti: da destra a sinistra, dalla frangia radical alle femministe più convinte. Non il periodo migliore per Laura. Matteo Milanesi, 26 ottobre 2022

L’incredibile accusa della Boldrini: “Il partito della Meloni doveva chiamarsi Sorelle d’Italia”. Marta Lima su Il Secolo d'Italia il 24 Ottobre 2022.

Nelle ore in cui infuria la polemica delle femministe di sinistra contro Giorgia Meloni, che non si piega al linguaggio di genere imponendo a tutti di chiamarla “il presidente” e non “la presidente”, scende in campo con una delle sue inimitabili sciocchezze l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, che si spinge oltre ogni immaginazione, sostenendo che il partito del nuovo premier è maschilista e dovrebbe chiamarsi “sorelle d’Italia” e non solo “Fratelli”.

La Boldrini oltre ogni limite: critica la Meloni per il nome del suo partito

Ieri anche l’Accademia della Crusca si era espressa in maniera categorica: la Meloni può farsi chiamare come vuole, come aveva spiegato il presidente Claudio Marazzini all’Adnkronos, secondo cui non si può interpretare il maschile non marcato come un errore di grammatica: “Chi preferisce le forme tradizionali maschili ha diritto di farlo”.

Nonostante tutto, Laura Boldrini, oggi, sulla sua pagina Twitter, ha scritto cose deliranti: “La prima donna premier si fa chiamare il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare anche nella lingua il suo primato. La Treccani dice che i ruolo vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FdI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?”.

L’ironia di Fratelli d’Italia e della rete

L’unico commento politico, al momento, è quello del deputato di FdI Andrea Del Mastro, glaciale: “La psicopolizia del linguaggio”.

In rete, invece, sulla stessa pagina della Boldrini, si va di sfottò e di rabbia: “Io voto a sinistra, mannaggia a me, ma quando leggo queste stronzate non mi stupisco che al governo ci si la destra”.

“Per la legge io sono il ‘medico veterinario responsabile di…’ e a me, da donna, va benissimo Per inciso ‘la veterinaria”‘ invece è il nome scelto da diverse farmacie che vendono esclusivamente farmaci veterinari”.

“Anche per l’inno nazionale è troppo. Che dice il treccani (o la treccana) sul primato di Mameli?”.

“Non è che ora riesce fuori la roba della Matria al posto della Patria, vero?”.

“Avanti così con queste cazzate facciamoli arrivare al 50% dai che la strada è giusta”.

Da liberoquotidiano.it il 24 Ottobre 2022.

Anche Alessandro Di Battista si scaglia contro Laura Boldrini. Lo scivolone della deputata del Partito democratico sul presidente del Consiglio Giorgia Meloni scatena l'ex Cinque Stelle. È lui, con un tweet, a ridicolizzare la paladina delle donne. "Sono queste potenti prese di posizione - cinguetta - che ci spiegano perché il primo premier donna è di FdI e non del Pd (ed io la Meloni non la voterei mai nella vita). Se questa sarà l’opposizione senza sconti annunciata da 'occhi di tigre' Letta prepariamoci al ventennio meloniano". 

D'altronde la Boldrini ha promesso battaglia, o come piace a loro "resistenza", all'articolo maschile scelto dalla neo premier. "La prima donna premier - ha scritto su Twitter - si fa chiamare al maschile, il presidente. Cosa le impedisce di rivendicare nella lingua il suo primato? La Treccani dice che i ruoli vanno declinati. Affermare il femminile è troppo per la leader di FDI, partito che già nel nome dimentica le Sorelle?". 

Ma in queste ore Dibba non è stato l'unico a far notare alla dem di aver commesso una tragicomica gaffe. Prima di lui sulla questione è intervenuto il presidente Claudio Marazzini.

"Io non credo che qualcuno possa cercare di 'imporre' complessivamente ai giornalisti italiani la propria preferenza linguistica - ha detto il presidente dell'Accademia della Crusca - In presenza di un'oscillazione tra il maschile e il femminile, determinata da posizioni ideologiche, penso che ognuno possa e debba mantenere la propria piena libertà di espressione, optando di volta in volta per il maschile o per il femminile, in base alle proprie ragioni". Da qui la lezione alla Boldrini: "Il presidente Meloni? Nulla di strano, è corretto". E se lo dice la Crusca, c'è da crederci.

Il Bestiario, la Rosichina. La Rosichina è un essere leggendario che si nutre di parole arcobaleno. Giovanni Zola il 26 Ottobre 2022 su Il Giornale.

La Rosichina è un essere leggendario che si nutre di parole arcobaleno.

Per inquadrare la natura della Rosichina basta pensare alla doppia personalità del fenomenale personaggio di Gollum. La Rosichina è divisa. Da una parte c’è il Gollum buono, che poi non è buono, in difesa di tutte le donne in tutto e per tutto. Dall’altra c’è il Gollum cattivo, che è proprio cattivo, per cui è vero che le donne sono uguali, ma alcune sono meno uguali, soprattutto se le tolgono la poltrona da sotto il sedere quando pensava di rimanere seduta comoda comoda.

Facendo un passo indietro, la Rosichina è citata da Freud come un caso emblematico nel suo “Interpretazioni dei sogni”. Il padre della psicanalisi ci ricorda infatti che se sogniamo una Rosichina che ci rapisce e tenta di divorarci il cuore significa che nel nostro inconscio temiamo che una Rosichina ci rapisca e tenti di divorarci il cuore o che più probabilmente non abbiamo digerito la peperonata.

Il problema della Rosichina è che mancando di argomenti validi per fare una critica sensata, attinge dalla propria ideologia i luoghi comuni che più le appartengono. Così si attacca alle parole. Le parole diventano valori, i valori diventano parole. Così la scelta tra chiamarsi “la presidente”, “il presidente” o “la presidenta” diventa importante come ottenere la pace del mondo o trovare la soluzione definitiva ai peli superflui.

Ma ben altre battaglie sulle parole mitigano il livore della Rosichina. Ad esempio non sopporta il concetto di “sovranità alimentare” come se non godesse anche lei delle unicità culinarie del nostro Paese, preferendo ad esse il latte di scarafaggio che fa tanto globalismo ed è utile solo se si ha bisogno di rimettere la peperonata di cui sopra.

Altra parola che non piace alla Rosichina è “famiglia”. Termine odioso per l’essere mitologico perché definisce l’uomo che lavora e la donna che stira, mentre la donna e l’uomo dovrebbero, secondo la Rosichina, andare a lavorare entrambi coi vestiti stropicciati o stirare entrambi senza lavorare e patendo la fame. Ma la Rosichina non si pone il problema perché lei ha una immigrata che le stira le camicie arcobaleno.

La Rosichina in fondo in fondo, ma molto in fondo, fa tenerezza perché, ideologicamente convinta della giustezza delle sue battaglie nominali, non si rende conto di non rispondere ai problemi reali. Per questo è destinata, a questa stregua, a non governare per i prossimi vent’anni e soprattutto a continuare a non digerire la peperonata.

Aldo Cazzullo per il corriere.it il 10 aprile 2022.

«Tutto è cominciato con il lockdown. Anche io cantavo l’inno sui balconi, uscivo a parlare con i vicini. Così ho conosciuto Laura Licci, osteopata. La prima persona della catena di coloro che mi hanno salvato la vita». 

In che modo, Laura Boldrini?

«Da un anno avevo dolore alla gamba destra. Pensavo a un’infiammazione del nervo sciatico. E avevo troppi impegni per fare accertamenti, oltre alla tendenza tipica delle donne a trascurarsi. Laura mi convince a farmi vedere. Il medico consiglia una risonanza magnetica». 

Com’è andata?

«Ricevo un sms da Gianfranco Gualdi, un professore che conosco: “Ho appena visto il suo esame, mi può chiamare?”. Penso che voglia salutarmi. E non capisco che quel messaggio mi cambierà la vita. Vado a ritirare il referto senza sospettare nulla. E lui mi avverte che probabilmente ho una lesione tumorale al femore: un condrosarcoma. Devo fare la Tac, la Pet, la Total body...». 

E lei?

«Non avevo mai concepito l’idea di poter avere un tumore, nonostante la familiarità. Mia mamma ne è morta. La mattina l’ho accompagnata fino all’ascensore per la camera operatoria, ed è stata l’ultima volta che le ho potuto parlare: è andato tutto male, è finita in rianimazione, è rimasta attaccata alle macchine per due settimane, ha esalato lì l’ultimo respiro. Poi mia sorella...». 

Cos’è successo a sua sorella?

«Lucia se ne è andata a 46 anni. Era molto religiosa, ha deciso di lasciare che avvenisse la volontà di Dio. Una dimensione punitiva della fede, che ho contestato sino alla fine; ma mia sorella non ha ceduto di un millimetro. Ha rifiutato anche le cure palliative».

Eppure lei...

«Ho sempre pensato che questo non mi riguardasse. E non riuscivo a prendere atto della realtà. Forse è un errore, pensavo, non sono i miei esami; o forse l’errore lo sta facendo il medico. Invece tutte le analisi hanno confermato che era davvero un tumore». 

A quel punto?

«Ho cominciato a cercare informazioni online; e a pensare a quel che poteva succedermi. Restare zoppa. Perdere la gamba. Rimanere inchiodata in un letto. Un paradosso, dopo una vita sempre improntata al movimento, le missioni in zone di guerra... Ora avevo mille ipotesi davanti a me. E mi facevano tutte orrore».

Perché ha deciso di rendere pubblica la notizia?

«Perché ho capito quanto pesano i vecchi retaggi sul tumore, che non è considerato una malattia come le altre, da cui si può guarire; è ancora un tabù, un errore di fabbricazione, una macchia indelebile. Ma la malattia è una condizione della vita. Non avevo nulla di cui vergognarmi. E ho pensato che fosse giusto parlarne, per tre motivi».

Quali?

«Contribuire a scardinare il pregiudizio che dà tanto disagio alle persone. Condividere la condizione con chi l’ha vissuta, anche per incoraggiare altri a non stare in silenzio: il silenzio isola, il silenzio deprime. Trasformare la battaglia contro la malattia in una battaglia di civiltà». 

Lei vive sola.

«Ma decido di dirlo innanzitutto ai miei fratelli, Ugo, Andrea, Enrico. E a mia figlia Anastasia, che ha 29 anni e da dieci vive in Inghilterra. Vorrebbe partire subito, ma sarebbe inutile: c’è il Covid, in ospedale non la lascerebbero entrare».

Lei è amata ma anche odiata, in particolare sui social. Come hanno reagito?

«Ho ripensato al direttore della Gazzetta di Lucca, che aveva sollecitato i lettori a pregare perché prima o poi mi venisse un male incurabile, “meglio prima che poi”. Sarà stato contento. Questa aberrazione, per cui si sentono autorizzati ad augurarti la morte per mettere a tacere la tua voce, la trovo abbastanza disgustosa. Eppure è successa una cosa strana». 

Quale?

«Dopo che Meloni e Salvini hanno solidarizzato con me, anche i loro follower, tranne qualche eccezione, mi hanno trattata con rispetto. La discussione ha cambiato registro, si è fatta meno feroce, meno degradata. Questo dimostra che l’esempio del leader è determinante. In passato alcuni leader hanno tentato di aizzare i propri militanti contro l’avversaria, augurandole qualsiasi cosa, usando sessismo e misoginia come strumenti politici: generalizzazioni indegne che mai dovrebbero esistere in democrazia».

Nel suo bel libro «Meglio di ieri», lei racconta il mese trascorso in ospedale, in piena pandemia.

«Anche solo essere ricoverati è difficile. Ho appuntamento al Rizzoli di Bologna il 9 aprile 2021. Faccio il tampone e devo aspettare l’esito. L’Emilia Romagna è zona rossa. Ho fame ed è tutto chiuso. Vado in un supermercato a prendere un panino con la mortadella. Per fortuna è una bella giornata, mi siedo a mangiare su un gradino in piazza Santo Stefano. Il tampone è negativo (in questi giorni invece ho avuto il Covid, ma in confronto a quel che ho passato...) e la sera entro in ospedale. Tutti i pazienti sono soli, e per comunicare hanno solo il telefonino». 

Lei ha avuto tre diversi vicini di stanza. 

«La prima era una donna che passava tutto il tempo gridando al cellulare in viva voce. Un po’ fastidiosa. Ma quando si è trovata da sola con me, è scoppiata a piangere. Eravamo in un reparto riservato a malattie difficili, avevamo tutti paura».

Anche lei?

«Certo. Bastava poco per avere danni irreparabili: il taglio di un nervo che genera la paralisi, l’ischemia dell’arto che può portare all’amputazione, la trombosi come quella che poi in effetti ho avuto...». 

Ha pregato?

«Sì. Io ho avuto una formazione molto cattolica. Mio padre era legato a un cattolicesimo tradizionalista. Ho preso le distanze da tante cose sue, incluso quel modo di concepire la religione. Ma l’esperienza di entrare in sala operatoria ti mette a contatto con le tue fragilità, le tue ansie; e nonostante la razionalità di cui disponi, a un certo punto ti ritrovi a pregare. Sì, in quel frangente è uscito anche questo rivolgermi a Dio come all’aspirazione ultima della salvezza». 

L’intervento è riuscito.

«Grazie ad Alessandro Gasbarrini: un eroe. Uno capace di operare per quindici ore di seguito. La mia operazione non è durata tanto, ma è stata complicata: il professore ha tolto 25 centimetri di femore, ha inserito una protesi di titanio da 45 centimetri, che pesa un chilo in più ed è incastonata da un lato in quel che resta del femore, dall’altro nel bacino...». 

Poi la terapia intensiva.

«Dove perdi la nozione del tempo. Quando ho sentito mia figlia al telefono, la tensione si è sciolta, e finalmente ho pianto». 

Al ritorno in camera, ha trovato un uomo.

«Lo sento parlare da dietro il lenzuolo che ci separa. A un certo punto inizia a vantarsi che è in camera con una donna: “Sì, è vero, sta qui accanto, è stata operata da poco e non si può muovere. Vorrà dire che questa notte dovrò fare tutto io... Ahaha”. Sono furiosa, ma come si permette di fare battute sessiste in una circostanza come questa?». 

Per fortuna poi le hanno messo vicina una ragazza.

«Alice aveva appena diciannove anni, ed era già davanti alla prova della vita. Timida, dolce, sempre timorosa di disturbare le infermiere...». 

Com’erano le infermiere?

«Meravigliose. Come le dottoresse, i medici, i fisioterapisti. E per cortesia nessuno dica che lo erano con me; lo erano con tutti. Non ho avuto alcun privilegio. Sia al Rizzoli, sia al Gemelli dove ho passato due settimane per la riabilitazione, ho trovato una professionalità e un’umanità straordinarie. Gente che arriva alle 7 del mattino va via alle 10 di sera. E deve affrontare casi come quello del bambino calabrese di nemmeno un anno, che aveva un tumore nella gambetta. Era in braccio a sua madre. Ripenso spesso alla disperazione di quella donna». 

Lei come sta ora?

«Meglio. Ho una cicatrice di 35 centimetri che da metà coscia prosegue fino all’anca, poi piega verso destra... Camminare non è più un piacere come prima, ma con un rialzo sotto l’altra gamba, la sinistra, riesco a farlo. Quando sono tornata a Montecitorio mi hanno applaudita anche gli avversari: mi ha fatto piacere. Voglio battermi per i malati, per chi vive uno stigma che perdura dopo la guarigione, e non riesce ad accedere al credito, a fare un mutuo, a chiedere una polizza sulla vita, ad adottare un bambino. Al Senato c’è una proposta di legge della mia omonima Paola Boldrini sul diritto all’oblio: dopo dieci anni, quando non sei più a rischio, la tua malattia non deve più essere menzionata».

A un certo punto però lei ha rimproverato pure il medico che l’ha salvata.

«Ma no... Semplicemente Gasbarrini entrava nel reparto dicendo “buongiorno a tutti”. Siccome eravamo in maggioranza donne, gli ho chiesto di dire “buongiorno a tutte e a tutti”. Ha sorriso, e da allora fa sempre così».

·        Stefano Bonaccini.

La corsa dem. Chi è Stefano Bonaccini, il favorito per la guida del Pd: il governatore dell’Emilia Romagna candidato alla segreteria. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Novembre 2022.

Stefano Bonaccini dopo almeno un paio di mesi di voci, chiacchiericcio, articoli e sondaggi, e dopo altrettanti mesi almeno di voci pressanti sulla successione al vertice del Partito Democratico, ha sciolto la riserva. L’attuale Presidente dell’Emilia Romagna ha comunicato che correrà alle primarie che si terranno il 19 febbraio 2023 per scegliere il successore del segretario Enrico Letta alla guida dei dem. “Mi sono preso il tempo per riflettere, chiedendomi se io posso essere utile”, ha detto Bonaccini dando il suo annuncio a Campogalliano, in provincia di Modena, dov’è nato e dove abita.

Bonaccini ha 55 anni e una lunghissima esperienza come amministratore locale. Il primo incarico da assessore nel 1990: alle Politiche Giovanili, alla Cultura, allo Sport e al Tempo libero proprio a Campogalliano, suo comune natale. È stato segretario provinciale della Sinistra giovanile e nel 1955 segretario della sezione comunale modenese del Partito Democratico della Sinistra (PDS). Dal 1999 al 2006 è diventato assessore al comune di Modena con delega ai Lavori pubblici e al Patrimonio culturale della città.

Alla nascita del Partito Democratico, nel 2007, è stato eletto prima segretario provinciale a Modena e poi consigliere comunale sempre a Modena nel 2009. Dal 2010 è diventato segretario regionale del partito in Emilia Romagna. Alle primarie del 2012 ha sostenuto Pier Luigi Bersani, opposto a Matteo Renzi. L’anno dopo è diventato responsabile della campagna delle primarie dello stesso Renzi e responsabile degli Enti locali nella segreteria Nazionale.

Bonaccini ha vinto le elezioni regionali nel 2014. Si è speso molto sul tema dell’autonomia e politica della Regione e ha rivendicato in più occasioni i risultati in termini di disoccupazione, scesa sotto il cinque per cento durante il suo mandato. Dal 2019 è al suo secondo mandato: ha vinto di nuovo le elezioni, di nuovo presidente, sostenuto dalla coalizione di centrosinistra. Da tempo ormai, da anni si può dire il suo nome circola tra media e osservatori come quello del principale candidato a guidare il partito.

Non è mai stato deputato, senatore o europarlamentare. Non appartiene neanche ad alcuna corrente interna ai dem e infatti più che dalle correnti potrebbe ottenere appoggio dagli amministratori locali. Bonaccini ha inoltre mantenuto buoni rapporti con l’ex segretario ed ex Presidente del Consiglio, oggi leader di Italia Viva, Renzi. Ha assicurato annunciando la sua candidatura che completerà il suo mandato alla Regione.

Sua vice in Emilia Romagna è Elly Schlein, stella in ascesa della sinistra italiana secondo il Guardian, che potrebbe candidarsi anche lei ma ancora non ha sciolto la riserva. Al momento in corsa per la guida del Pd c’è di sicuro Paola De Micheli mentre Dario Nardella e Matteo Ricci non hanno ancora ufficializzato la candidatura. Bonaccini da sempre rivendica da tempo che il Pd dovrebbe ricostruire una linea politica autonoma. Oggi ha però rilasciato dichiarazioni in un altro senso, con lo sguardo rivolto al di fuori del partito. “Io vorrei che Terzo polo e M5s dicessero all’Italia cosa vogliono fare dei voti che hanno raccolto. Tenerli in una cassaforte da soli per dire che hanno ragione loro, e però vincono gli altri, o provare a discutere nel merito seriamente di ciò che serve al Paese e cercare di costruire il nuovo centrosinistra”, ha detto Bonaccini in collegamento con L’Aria che tira su La7.

I sondaggi sulle primarie Pd

Secondo un sondaggio realizzato da Euromedia Research e diffuso a fine settembre da Porta a Porta sulla prossima guida del Pd, Bonaccini risulta essere primo per gradimento degli italiani, al 16,9%, davanti proprio a Elly Schlein al 12%. A seguire l’ex ministro Francesco Boccia al 6,4%, l’ex ministra Paola De Micheli al 4,7%, il sindaco di Firenze Dario Nardella al 3,1%, i sottosegretari Irene Tinagli al 2,1% e Peppe Provenzano all’1,6%, il sindaco di Pesaro Matteo Ricci all’1,4%. A dominare è tuttavia la platea degli indecisi e astenuti: il 47,7% ha infatti dichiarato di non avere un’opinione in merito. Secondo la stessa indagine, per gli elettori dem però la più apprezzata sarebbe proprio Schlein, al 26,1%, davanti a Bonaccini al 22,9%. A seguire De Micheli al 5,7%, Boccia al 4,6%, Tinagli al 2,1%, Provenzano all’1,4%, Nardella all’1%, Ricci allo 0,5%. L’1,3% indica altri nomi mentre la quota di chi non ha un’opinione scende al 34,5%.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

·        Walter Veltroni.

Dagospia il 15 agosto 2022. Estratto dal libro “Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini) di Alessandro Haber

(…) Mi trovavo sul set di Flirt con Monica Vitti e Jean Luc Bideau, un attore svizzero simpatico ed eccentrico che mi insegnò il poker menteur, un gioco di carte molto riflessivo basato sul bluff. Tutti i giorni nell’ora di pausa giocavo con la Vitti e il suo compagno, Roberto Russo, con Jean Luc e la costumista Nicoletta Ercoli. Durante una mano tutti gli sguardi erano rivolti verso di me: “Haber sbrigati”, mi dicevano. C’era un po’ di tensione, ragionavo su quale carta calare, ma ero nel pieno di un dubbio amletico, bluffare o non bluffare. 

All’improvviso mi scappò un colpo di tosse che mi fece scappare uno sputo arcobaleno, giallo rosso verdone, che mi si piazzò al centro della camicia bianca. L’espressione di disgusto da parte di tutti era inequivocabile, ma non era ancora finita.

Ero sull’orlo del precipizio, non sapevo cosa fare, non avevo un fazzoletto, non potevo chiedere aiuto a nessuno, l’imbarazzo cominciava a divorarmi, poi all’improvviso mi venne una idea geniale e blasfema, una di quelle cose per cui avrei forse meritato di essere ricoverato in un ospedale psichiatrico: Raccolsi lo sputo con la mano e lo riportai lì da dove era arrivato. Fu come far esplodere un petardo. Monica e Nicoletta si alzarono inorridite, Bideau cadde a terra dalle risate: “Haber, tu es un génie”. Un pezzo di cinema che non vedrete mai su nessuno schermo…

cinematografaro romano, fra Rai Radio3 dell'amico Marino Sinibaldi, la Casa delle Letterature dell'amica Maria Ida Gaeta, il festival del cinema di Roma dell'amico Goffredo Bettini, il MAXXI dell'amica Giovanna Melandri, lo Strega che vinto più volte per interposta persona - dal ghost writer Ugo Riccarelli al suo front man Sandro Veronesi - e poi l'arcipelago dei teatri impegnati degli amici militanti dove presentare i suoi libri e i film. È il côté intellectuel coltivato tutta la vita per la costruzione del consenso (il suo) cementato da un inscalfibile amichettismo, Fulvio Abbate dixit, che voleva cambiare intellettualmente il Paese e finiva invece chez Veltroni con serate Chipster, Coca-Coca e Nutella, tutti a guardare il festival di Sanremo. Il nazional popolare prima del sovranismo populista. Veltroni: un uomo così inclusivo da essere insopportabile ma anche adorabile.

Cose che Walter Veltroni adora: la moglie Flavia Prisco (si sono conosciuto quando lei aveva 15 anni e lui 18, testimone di nozze Francesco De Gregori, per dire la vita d'autore dell'amico Walter).

Le figurine, e a volte le figuracce.

Scrivere libri. Far trasformare i suoi libri in film. Girare film. Leggere le recensioni amiche dei suoi film. Presiedere il Campiello.

Andare da Fabio Fazio, che è il veltronismo pop in salsa tv.

Cose che Walter Veltroni non sopporta: Massimo D'Alema, soprattutto i baffi, che gli taglierebbe con un decespugliatore di fabbricazione sovietica. L'Unione sovietica. E anche il comunismo. Essere rappresentato come un bruco. Il giudizio tranchant di Francesco Cossiga: «Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla». Il verbo «rottamare» («Mi fa schifoooooo!!!»). E il veltronismo, che neppure lui ha mai capito cosa sia.

Veltroni, veltronismo, Uolterismo, «veltrusconismo». Lo scrittore Giacomo Papi una volta raccontò che nel 1984 il manager Fininvest Maurizio Carlotto segnalò a Berlusconi un giovanissimo quadro di Botteghe Oscure: «Guarda, Silvio, che questo qui è uno sveglio con cui si può parlare e che di televisione ne sa: potrebbe essere la nostra sponda nel Pci». Risposta del Cavaliere: «Veltroni ha i peggiori cromosomi che ci siano in Italia: quelli del Pci e quelli della Rai».

Una porta sempre aperta in Rai, una mai chiusa sulla politica, Walter - vivere vintage - Veltroni è, al netto della leggenda paciosa, un buonista senza bontà, un altruista dell'individualismo, permaloso, invidioso, vendicativo.

Come dice uno che li conosce bene: «Se vai a cena con D'Alema, ti diverti anche se ti tratta come un suddito. L'altro, invece, è la strega cattiva delle favole. Non sa mangiare né bere, e t' annoia a morte».

Per fortuna c'è sempre una seconda via. Quella di Veltroni, che ha talmente chiuso con la politica da sognare segretamente il Quirinale, è quella da cui era partito. Il magico mondo dello storytelling, normalizzando l'eccezionale e trascendendo la normalità. Cuore rosso e cronaca nera, da giornalista-scrittore-regista predilige le storie strappalacrime, fra il costume e un suo personalissimo «Come eravamo», l'Heysel e il caso Orlandi, Alfredino Rampi e il Mundial, Giorgio Ambrosoli e Eros Ramazzotti, Carmen Consoli e i bambini di Kiev, non c'è differenza. Manipolatore narrativo della memoria italiana, scrive sempre, di tutto. Un articolo per il Corriere della sera, poi un pezzo per la Gazzetta dello sport, l'intervista per Sette, poi c'è da finire il libro per Solferino e la sera è In onda su La7. Tanto antiberlusconismo per finire a casa Cairo. Che in effetti è solo la versione veltroniana del Cavaliere.

Ma sì. Come direbbe lui - un boomer del '55 - «Ci sta».

cinematografaro romano, fra Rai Radio3 dell'amico Marino Sinibaldi, la Casa delle Letterature dell'amica Maria Ida Gaeta, il festival del cinema di Roma dell'amico Goffredo Bettini, il MAXXI dell'amica Giovanna Melandri, lo Strega che vinto più volte per interposta persona - dal ghost writer Ugo Riccarelli al suo front man Sandro Veronesi - e poi l'arcipelago dei teatri impegnati degli amici militanti dove presentare i suoi libri e i film. È il côté intellectuel coltivato tutta la vita per la costruzione del consenso (il suo) cementato da un inscalfibile amichettismo, Fulvio Abbate dixit, che voleva cambiare intellettualmente il Paese e finiva invece chez Veltroni con serate Chipster, Coca-Coca e Nutella, tutti a guardare il festival di Sanremo. Il nazional popolare prima del sovranismo populista. Veltroni: un uomo così inclusivo da essere insopportabile ma anche adorabile.

Cose che Walter Veltroni adora: la moglie Flavia Prisco (si sono conosciuto quando lei aveva 15 anni e lui 18, testimone di nozze Francesco De Gregori, per dire la vita d'autore dell'amico Walter).

Le figurine, e a volte le figuracce.

Scrivere libri. Far trasformare i suoi libri in film. Girare film. Leggere le recensioni amiche dei suoi film. Presiedere il Campiello.

Andare da Fabio Fazio, che è il veltronismo pop in salsa tv.

Cose che Walter Veltroni non sopporta: Massimo D'Alema, soprattutto i baffi, che gli taglierebbe con un decespugliatore di fabbricazione sovietica. L'Unione sovietica. E anche il comunismo. Essere rappresentato come un bruco. Il giudizio tranchant di Francesco Cossiga: «Veltroni è un perfetto doroteo: parla molto, e bene, senza dire nulla». Il verbo «rottamare» («Mi fa schifoooooo!!!»). E il veltronismo, che neppure lui ha mai capito cosa sia.

Veltroni, veltronismo, Uolterismo, «veltrusconismo». Lo scrittore Giacomo Papi una volta raccontò che nel 1984 il manager Fininvest Maurizio Carlotto segnalò a Berlusconi un giovanissimo quadro di Botteghe Oscure: «Guarda, Silvio, che questo qui è uno sveglio con cui si può parlare e che di televisione ne sa: potrebbe essere la nostra sponda nel Pci». Risposta del Cavaliere: «Veltroni ha i peggiori cromosomi che ci siano in Italia: quelli del Pci e quelli della Rai».

Una porta sempre aperta in Rai, una mai chiusa sulla politica, Walter - vivere vintage - Veltroni è, al netto della leggenda paciosa, un buonista senza bontà, un altruista dell'individualismo, permaloso, invidioso, vendicativo.

Come dice uno che li conosce bene: «Se vai a cena con D'Alema, ti diverti anche se ti tratta come un suddito. L'altro, invece, è la strega cattiva delle favole. Non sa mangiare né bere, e t' annoia a morte».

Per fortuna c'è sempre una seconda via. Quella di Veltroni, che ha talmente chiuso con la politica da sognare segretamente il Quirinale, è quella da cui era partito. Il magico mondo dello storytelling, normalizzando l'eccezionale e trascendendo la normalità. Cuore rosso e cronaca nera, da giornalista-scrittore-regista predilige le storie strappalacrime, fra il costume e un suo personalissimo «Come eravamo», l'Heysel e il caso Orlandi, Alfredino Rampi e il Mundial, Giorgio Ambrosoli e Eros Ramazzotti, Carmen Consoli e i bambini di Kiev, non c'è differenza. Manipolatore narrativo della memoria italiana, scrive sempre, di tutto. Un articolo per il Corriere della sera, poi un pezzo per la Gazzetta dello sport, l'intervista per Sette, poi c'è da finire il libro per Solferino e la sera è In onda su La7. Tanto antiberlusconismo per finire a casa Cairo. Che in effetti è solo la versione veltroniana del Cavaliere.

Ma sì. Come direbbe lui - un boomer del '55 - «Ci sta». 

·        Vincenzo De Luca.

L'analisi. De Luca e la carica delle 101 espressioni dettate dalla “fame bulimica” di nemici. Viviana Lanza su Il Riformista il 24 Giugno 2022 

«Collega Ciarambino, io sono uomo di pace e perfino d’amore e non sono la carogna che mi descrivono!». E ancora: «Sono la carogna di sempre!». Parole di Vincenzo De Luca. La prima frase risale al 29 gennaio 2016, estrapolata dall’intervento di replica tenuto in Consiglio regionale sulla discussione della mozione di sfiducia. La seconda cinque anni più tardi, il 20 settembre 2021, estratta dal discorso tenuto a Salerno durante l’inaugurazione di piazza Libertà. Cosa emerge? Mancanza di coerenza, opportunismo.

Ma i cittadini, purtroppo, dimenticano in fretta. Fanno pochi raffronti, si interrogano poco. Sovente quello che un politico dice arriva meno del «come» lo dice. Del linguaggio forte, De Luca, ha fatto la sua bandiera. Esternazioni che sono arrivate al limite del caricaturale. Il pretesto per un’analisi lo offre Domenico Giordano, spin doctor e consulente di comunicazione politica, nel suo «Sono un uomo di pace e perfino d’amore – piccolo ma essenziale dizionario del deluchismo», edito da Graus. Già, il «deluchismo» esiste e parte proprio dalle parole, uno strumento che viene usato in maniera mirata. Per l’autore il «deluchismo» identifica quella forma di gestione del potere che sconfina in un «autoritarismo pop», contrassegnato da un vocabolario «incarognito e mai convenzionale», che utilizza il registro dell’iperbole e del sarcasmo per guadagnare l’attenzione del pubblico, deresponsabilizzandosi dalle possibili conseguenze di una violenza verbale e presentandosi come l’unico rottamatore della casta politica, «più dei vari Renzi, Berlusconi e del carrozzone pentastellato che ha vanamente provato ad aprire le scatolette di tonno della politica italiana», scrive Giordano analizzando 101 singolari espressioni del governatore, da «babbarie» alle «zeppole al coronavirus», passando per «fratacchione», il «lanciafiamme», «Wandaosiri».

Un rottamatore, un demolitore ma «scordarello», De Luca, uno dei politici di professione più longevi del proscenio nazionale. «Chi non è con me, è contro di me» è una famosa frase tratta dal Vangelo secondo Luca. Ma anche secondo De Luca. Nel suo ironico pamphlet, Giordano parla di una capacità innata di ricerca e costruzione degli avversari secondo quella costante immarcescibile del funzionamento della politica che è la coppia «amico-nemico». E dunque, quando lo ostenta, il suo è un buonismo di facciata necessario, politicamente parlando, per conservare sempre vivo quel fronte ampio di avversari occasionali o di lungo corso che rappresentano ciò che Peppino De Filippo o Nino Taranto sono stati per Totò: una spalla ideale, come si legge nella prefazione.

Un esempio su tutti è un’uscita del maggio 2018 sull’allora sindaco de Magistris: «Gliel’ho detto ieri, nell’ultima dichiarazione, il fatto che non tiene soldi è diventato un titolo di merito, ma tu sei una chiavica! Queste sono cose da pazzi». «De Luca si inscrive nella categoria di politici contemporanei che sono tutt’uno con la loro comunicazione», scrive Giordano. Fonde nell’alto forno della comunicazione la forma e la sostanza del proprio agire politico e lo abbiamo sperimentato durante i ventiquattro mesi di emergenza pandemica. Sin dai primissimi giorni, infatti, l’emergenza sanitaria e le continue incertezze generate sulle misure da adottare, hanno creato le condizioni di una tempesta perfetta che Vincenzo De Luca ha sfruttato a piene mani. Negli ultimi due anni «lo sceriffo» non ha avuto più bisogno di piazzare lungo il sentiero le tagliole per catturare i nemici, il Covid gli ha portato in dote una messe così copiosa di avversari con i quali incrociare i guantoni da avere l’imbarazzo della scelta.

Ha enfatizzato il ruolo di padre premuroso e severo, quello di custode del futuro della comunità contro gli incapaci e gli inetti, l’uomo del fare e delle regole chiare contro le chiacchiere. «In altre parole, – scrive nella prefazione Massimiliano Panarari – si potrebbe dire che la pandemia è stata per Vincenzo De Luca ciò che fu la prima crociata per Goffredo di Buglione, l’occasione irripetibile per segnare in modo indelebile il suo nome nella storia», «ha da solo combattuto gli infedeli della mascherina e dei divieti di uscire in strada». Poi la pandemia è finita e con essa lo stato di emergenza sanitaria nazionale. Ed è arrivato il tempo di rigenerarsi nuovamente e fare i conti con la sua fame bulimica di nemici, di vittime consapevoli o del tutto ignare delle colpe che vengono loro addossate, da inserire nel tritacarne della sua narrazione del fare adesso, subito e a prescindere.

Viviana Lanza. Napoletana, laureata in Economia e con un master in Marketing e Comunicazione, è giornalista professionista dal 2007. Per Il Riformista si occupa di giustizia ed economia. Esperta di cronaca nera e giudiziaria ha lavorato nella redazione del quotidiano Cronache di Napoli per poi collaborare con testate nazionali (Il Mattino, Il Sole 24 Ore) e agenzie di stampa (TMNews, Askanews).

·        Le Sardine.

Il Bestiario, il Pescivendolo. Giovanni Zola il 20 Settembre 2022 su Il Giornale.

Il Pescivendolo è un leggendario animale con il corpo da sardina e la testa da sardina, ma non necessariamente della stessa sardina.

Il Pescivendolo è un leggendario animale con il corpo da sardina e la testa da sardina, ma non necessariamente della stessa sardina.

Alcuni studiosi ritengono che Il Pescivendolo venga citato dal filosofo Nietzsche nella sua celebre definizione di Superuomo come il nuovo tipo umano che si pone “al di là del bene e del male” e che di conseguenza non rispetta la fila in posta pur avendo ritirato il numerino all’apposita macchinetta automatica.

Il Pescivendolo è uno degli inventori del Movimento delle Sardine che si muovono come fossero un banco di pesci seguendo la luce della lampara che li porta dove vuole e li fa abboccare facilmente. In definitiva le sardine sono un gruppo di persone che amano stringersi “vicini, vicini”, pur avendo a disposizione grandi piazze, per protestare tenacemente con chi non la pensa come loro, anche se le sardine stesse non sanno esattamente come la pensano. Ciò che accomuna le sardine del Pescivendolo è la capacità di saper colorare su dei grandi cartoncini dei pesci colorati con i gessetti, non senza la difficoltà di trovare tra loro qualcuno con partita iva per poter fare fattura dal cartolaio.

Il Pescivendolo ha un sorriso smagliante che lo rende simpatico e affascinante stampato sul viso in maniera permanente, tanto che inizialmente alcuni scienziati pensarono erroneamente che si trattasse di una paresi. Inoltre egli afferma di non appartenere a nessuna ideologia, sebbene soffra terribilmente nel sapere che un treno arrivi in orario come accadeva circa un secolo addietro.

Il Pescivendolo non viene dal nulla, egli ha un lungo curriculum maturato negli anni che lo rende credibile ai più. In particolare, cosa di cui va molto fiero, egli ha conseguito il titolo di allenatore di frisbee. Cosa che gli torna molto utile con le femmine della sua specie quando una conversazione va scemando.

Il Pescivendolo ha un motto che ripete per mettere in difficoltà l’avversario e insieme auto motivarsi. E’ un aforisma breve e conciso degno di Oscar Wilde, carico di significato che arriva subito al dunque e che riproponiamo perché i giovani ne possano trovare insegnamento: "Ma lei (…) se un bambino autistico quando gli passa un pallone da basket, questo ritrae le mani, come riesce a passarle la palla e fare in modo che questo la raccolga con quelle mani che non sa usare?" La frase, ripetuta come un mantra, torna anche utile come lassativo.

Luigi Mascheroni per “il Giornale” il 14 novembre 2022. 

Sardine. Specie pelagica che vive in acque aperte, senza contatto con il fondo, e neppure con la realtà. Si riuniscono in banchi con individui di specie simili, come acciughe, diessini, pesci partigiani, pagliaccio e arcobaleno. 

Le sardine in scatola richiamano l'immagine di stare strette dentro una piazza sudata, da cui il detto: «Il pesce puzza dalla testa». Pesci migranti e migratori, vanno, vengono, ritornano. Rieccolo, Mattia Santori. È tornato. «Bella vez, come stai?». Il capo-sardino il giorno dei morti - «Cerchietto o scherzetto?» - è passato dal movimentismo al partitismo: «Mi sono iscritto al congresso Pd» ha detto a Enrico Letta. E ha aggiunto che porterà le sardine. Di Maio, si suppone, l'apriscatole. Tonno, sardine, aureola («Santo subito!»), wanderlust dall'Emilia al Sudamerica «Guarda: c'è Guevara, e c'è anche Santori!» bazza, tortelli e friggione bolognese.

Bolognese del quartiere Saragozza, quello delle Longhena, la scuola green sui colli di Casaglia, gli orti verticali, gli aperitivi ecocompatibili e i condomini solidali, 35 anni, segno zodiacale Granchio (da cui l'espressione «Mattia hai preso un altro...»), ascendente acciuga, studi superiori all'Istituto Alberghiero balanzone, spuma di mortadella e Romano Prodi - Università Alma Mater e padre pensionato, laurea in Economia con una tesina su «Il fantasma della Tav spaventa le grandi opere italiane», ambientalismo chic e bourgeois-bulgnaïs, Mattia Santori è padre fondatore, e figlio di una politica minore, del movimento delle Sardine.

Quello che nella campagna elettorale per le elezioni in Emilia Romagna del 2019 fermò l'onda lunga salviniana-sovranista. Flashmob, anti-populismo al ragù, conquista della Regione e poi ecco la nuova vita del sardinista-sandinista. Ospite in tutte le tv, talk show e stracciamento di maroni, rivoluzione e ribalta nazionale: Mattia Santori è eletto in Consiglio comunale a Bologna in quota Pd, lo stesso partito che aveva definito «tossico» e «malato». 

Da attivista precario a politico politicante. Curriculum di Mattia Santori, puer ludens vincente in un'arena politica troppo anziana. Poche competenze, tanto ego, dose elevata di opportunismo (ma ha anche una bella càrtola dài), riccioloni svagati, smoked salmon socialist, molto social - con più hater che follower - una collaborazione con Autostrade per l'Italia come esattore, organizzatore di nascondini elettorali per bambini, un'imbarazzante pagina Facebook ultra-agiografica (e fotone con la braga sudata da bici), Happy hour e tanto anti-salvinismo.

A sinistra per molto meno ti trovano un posto da deputato. «Bona lè, regaz!».

Ora, è vero. Possiamo anche archiviare il fenomeno Sardine, ormai arrivato alla coda della cometa, e tenerci Santori così com' è. 

Ma per capire dove va certa Sinistra è utile sapere da dove arriva il compagno Mattia, detto il Bambaz, da Mandela col cerchietto a ideologo di Elly Schlein, il suo alter ego maschile. Perché Mattia Santori non è solo un inaspettato player della comunicazione pop, fiuto per il marketing e ultimo copywriter della post-politica, uno che quando si ricomporranno i corpi sociali dell'opposizione sarà preso a modello. No: Mattia Santori è un predestinato.

Piaceva allora moltissimo e piace ancora oggi agli ultracinquantenni, i baby boomer, le dade e le professoresse âgée, i capi caseggiati e i tesserati dell'Anpi, quelli che nei giorni gloriosi di lotta e di antileghismo ti bloccavano col braccio per la strada e ti dicevano: «Bisogna presidiare il modello!», «Bisogna votare!», e per giustificare il loro infervoramento per Mattia ti spiegavano: «Lo sai, però, che fin dai 14 anni ha deciso di fare tutto di testa sua?». 

Ed erano davvero felici. Mattia, chiamandoli a fermare Matteo, li ha fatti tornare giovani, li ha illusi che potevano ancora cambiare il mondo, Jack Frusciante è uscito dal gruppo e il Sessantotto rientra in piazza, il freddo, le fiaccole, Bella ciao, l'assemblearismo, l'afflato, che belle le sardine, Com' è profondo il mare... Perché solo una città come Bologna, la roccaforte del Benessere, Due Torri e un reddito medio fra i più alti d'Italia, Bologna la Grassa, una specie di villaggio Valtur di Asterix e Obelix - di qua dal vallo della Ztl i sardiniani, di là i barbari lumbard - poteva generare Mattia Santori, il Messia ittico dei pesci pelagi. Mattia, prima di tutto, è di buonissima famiglia, non è uno di quei ragazzi che vedi alla sera fare il rider, al pomeriggio dare ripetizioni, sempre di corsa e martellati dal recupero crediti.

Mattia non è come noi. Lui è il figlio prediletto di una città in cui i genitori si vestono da Erasmus, è il giovanilismo ostentato della generazione boomers che ha cantato Bob Dylan e studiato il desiderio mimetico di René Girard, gli eterni movimentisti contro la sinistra ufficiale... Mattia non è un nato dal popolo, è il rampollo della Ztl, di chi chiama i figli Desdemona e Rodolfo, Sneackers rosse e l'Osteria del Sole, dentro la piazzaforte dell'antifa, là dove si fa colazione a cappuccini col latte di soia, scremato (e focaccina vegàn). E Mattia Santori diventò il loro guru e paraguru.

 Che poi, il problema non è farsi il selfone coi Benetton delle Autostrade o col fotografo al prosecchino Olivero Toscani. E non è il viaggio di lusso con Bonaccini a Dubai anche se «La prémma vólta as pardanna, la secanda as bastanna» -. E non è neanche il dire «Noi non andremo mai a Rete 4!» e poi pubblicare con l'Einaudi di Berlusconi. No, il problema sono le proposte. È su quelle che si misura la politica. Tipo: uno stadio del frisbee. A Bologna.

Una cosa fantasmagorica, puro situazionismo, da Re Nudo anni Settanta, una visione che non avrebbe avuto neanche un fattone del rave party di Modena; ma - essendo lo stadio del frisbee la più necessaria delle esigenze superflue - un residente della Ztl, sì.

Oppure: sanare i debiti cittadini tassando chi possiede due auto, una sorta di patrimoniale applicata all'occupazione del suolo pubblico, «perché non sopporto di vivere in un Comune in cui le macchine parcheggiate occupano 1.680.000 metri quadri», e infatti tu vivi in centro e non ce l'hai quel problema lì. 

O ancora: la cannabis in casa, un'ideona tirata fuori proprio mentre, nella guerra di bande e di identità frammentate che scuote il Pd, la Sinistra cerca di darsi una facciata temperata. Ottima l'immagine dell'appartamento studentesco e dei gggiovani che si fanno le porre, perché Bologna è una città libbbbera... La rivoluzione di Mattia Santorre di Santa Rosa. Che almeno quello là si sacrificò per l'indipendenza della Grecia.

Vita da sardina. Il giorno della sardina. Gli amici della sardina. Il mondo Lgbtq, gli Anpi-boys, i Papa-boys («Sardine, moltiplicatevi»), tutta La7, la Mannoia, Erri De Luca, Paola Turci, Maria De Filippi di Amici, Vauro, Monti e Gad Lerner. Mancano Carola Rackete, Mimmo Lucano e Marco Cappato. Sócc'mel!

Tempo fa Carlo Calenda, attaccato da Mattia Santori, nuovo Guardiano della Purezza ideologica della Sinistra, consigliò a Letta di assestare «una bella pedata nelle chiappe alle Sardine». Ha sbagliato. Se vuole che il Pd stia fuori dai giochi per i prossimi vent' anni deve semmai sperare che si affidi proprio a Mattia Santori. Uno simpatico ma innocuo, col vizio dell'adultescenza, vestito un po' al buio e che sì, gramscianamente, «È importante la lettura, ma conta di più l'esperienza diretta». Uno al quale sia detto sine ira ac studio - gli avrebbe fatto bene un campo Hobbit.

Francesco Giubilei per “il Giornale” l'11 luglio 2022.

Ai sostenitori della legalizzazione delle droghe tutto è concesso, anche affermare come se nulla fosse non solo di fare uso di sostanze stupefacenti ma anche di coltivare in casa piantine di cannabis nonostante sia illegale. Un comportamento particolarmente grave se realizzato da chi ricopre un ruolo istituzionale come la sardina Mattia Santori, consigliere comunale a Bologna con delega al turismo e alle politiche giovanili. 

Sebbene Santori non sia nuovo a uscite infelici, cadute di stile, interventi insensati, questa volta ha superato il limite. Intervenendo agli «Stati generali sulla cannabis» a Milano, la sardina ha affermato: «Mi faccio le canne da quando ho 18 anni, poi un giorno mia sorella rientrata da Amsterdam mi ha portato dei semi, un regalo goliardico, li ho piantati ed è andata male. Ho comprato l'occorrente e solo al terzo tentativo sono cresciuti. Insomma non solo la consumo, ma la autoproduco per uso personale».

Quest' anno Santori ha dichiarato di aver coltivato tre piantine che hanno fruttato 60 grammi d'erba nonostante sia consapevole dei rischi: «Al momento l'auto coltivazione è equiparata allo spaccio per cui io rischio sino a sei anni di carcere: è assurdo». Per giustificarsi ha citato le sentenze della Cassazione che «hanno già indicato ai tribunali di considerare poche piantine come uso personale». 

In realtà, come spiega Valter Giovannini, ex procuratore aggiunto di Bologna, le cose non stanno proprio così: «Consiglierei a chiunque voglia intraprendere azioni analoghe, di leggere meglio le sentenze della Cassazione. Se c'è attrezzatura idonea e lampade forse la coltivazione non è da considerarsi rudimentale e quindi penalmente irrilevante, e questo al di là dell'uso personale dichiarato. In ogni caso la valutazione spetta sempre al magistrato penale all'esito dei dovuti accertamenti».

Non pago, Santori ha poi sostenuto un ragionamento confusionario probabilmente concepito dopo aver consumato una delle sue «canne ogni tre giorni». Secondo la sardina il suo è «un comportamento virtuoso» poiché «il mercato della cannabis alimenta la criminalità organizzata. Io non voglio che il mio consumo ricreativo vada ad arricchire un criminale». 

Da qui il suo invito al Parlamento a legiferare: «Se il Parlamento fa spallucce io non sto zitto. Crea dipendenza? È provato scientificamente che non è così» quali siano questi studi scientifici non ci è dato sapere.

Le dichiarazioni di Santori, che qualche settimana fa era balzato agli onori delle cronache per la sua partecipazione alla presentazione del libro «Mamma, mi faccio le canne», hanno suscitato scalpore al punto che il consigliere comunale di Bologna della Lega Matteo Di Benedetto ha affermato: «A questo punto non ci resta che avvisare Polizia di Stato, Carabinieri e Guardia di Finanza» mentre il deputato bolognese di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami ha chiesto un intervento del sindaco Lepore: «le parole di Santori confermano tutta la sua inadeguatezza e ci auguriamo che il sindaco di Bologna abbia la decenza di prendere le distanze e di ritirargli la delega».

Nella vicenda, oltre al piano legale, c'è una questione di forma: chi svolge un ruolo istituzionale, a qualsiasi livello, dovrebbe dare il buon esempio contrastando le dipendenze, mentre l'intervento della sardina è solo l'ultimo in ordine di tempo per normalizzare il consumo di droghe e, non a caso, proprio in questi giorni, arriva in Parlamento la discussione sulla legalizzazione della cannabis.

ANSA – "Sono perché la legge sia rispettata anche quando la si vuole cambiare". Così il sindaco di Bologna Matteo Lepore, Pd, rompe il silenzio sulle dichiarazioni di Mattia Santori, consigliere comunale con delega al Turismo e alle Politiche giovanili, sempre quota dem, sulla sua coltivazione 'casalinga' di cannabis. 

"Mattia finora ha lavorato bene - dice Lepore - Spero che non voglia sprecare tutto". Su un'eventuale sfiducia a Santori, per ora Lepore frena: "È un consigliere comunale con delega, quindi sta esercitando il suo diritto di esprimere le sue opinioni".

Pierfrancesco Carcassi per il “Corriere della Sera” il 12 luglio 2022.

Mattia Santori non ha mai fatto mistero del suo rapporto con la cannabis. Ma mai prima d'ora si era esposto in modo così esplicito. Venerdì scorso il bolognese leader delle Sardine, a margine degli «Stati generali della cannabis» a Milano, ha rivelato di avere a casa «tre piantine» e di «fumare cannabis da quando aveva 18 anni». 

Ne è scaturito un polverone - nei giorni in cui il disegno di legge sulla cannabis è in discussione in Parlamento - finito con un esposto in Procura da parte del deputato di Fratelli d'Italia Galeazzo Bignami. Ma a sconfessare Santori, consigliere comunale a Bologna, è stato anche il sindaco Matteo Lepore: «Sono perché la legge sia rispettata anche quando la si vuole cambiare», ha ammonito. «Mattia finora ha lavorato bene. Spero che non voglia sprecare tutto», ha proseguito senza tuttavia aggiungere nulla su un'eventuale richiesta di dimissioni.

Santori, le sue dichiarazioni hanno scatenato un polverone. Sono arrivati attacchi da destra ma anche dal centrosinistra: il suo sindaco l'ha bacchettata e il consigliere regionale del Pd Giuseppe Paruolo ha definito le sue parole indifendibili. Su Facebook lei ha poi scritto, alla fine di una lunga giornata, che è consapevole del dover rispettare la legge. 

«Su questo ha ragione il sindaco: le leggi si rispettano anche quando sono sbagliate.

Ma il Pd spesso si incarta su questi temi. Stanno sostenendo il ddl Magi in Parlamento e, quindi, in quella sede stanno dicendo che Santori non dovrebbe essere penalizzato: c'è un dibattito nel partito che non si è mai svolto. A Milano agli Stati generali della cannabis c'erano 23 esponenti del Pd ». 

Alcuni vogliono denunciarla e chiedono di toglierle le deleghe

«Denunciando me denunciano un sistema ingiusto. Sarò ben contento se il mio gesto servirà a smascherare questa ipocrisia. Porterò la mia storia giudiziaria sul tavolo dei decisori politici mentre si discute il disegno di legge in Parlamento. Non capisco però la relazione tra la qualità del lavoro di un delegato e la sua vita privata. Non dico alla gente "fate come me", dico "guardate, vengono criminalizzate le persone sbagliate".

Invece, vogliono far passare che non è credibile come amministratore chi consuma cannabis, ma è antiscientifico». 

Non aveva mai parlato in modo così esplicito.

«I tempi sono maturi perché la politica si esponga senza fare il gioco del dire: "Mi batto per battaglie di altri". Agli Stati generali della cannabis c'era Daniele Nahum del Pd che si è fumato una canna davanti a Palazzo Marino (sede del Comune di Milano, ndr ), c'era Gaia Romani (l'assessora più giovane della giunta Sala, ndr ) che ha già fatto coming-out in questo senso. Sta a noi ribaltare questo puritanesimo e porci allo stesso livello di chi rappresentiamo». 

La sua prima canna?

«Alla fine delle superiori, a 18 anni circa. Fumavo quelle degli altri. Ho iniziato a coltivare per gioco e poi invece mi ha permesso di non comprare più sul mercato nero: piuttosto non fumavo. È la dimostrazione che non è dipendenza». 

E ora ha raccolto le infiorescenze di tre piante.

«È la mia prima coltivazione indoor (in casa, ndr ), prima lo facevo outdoor (all'aperto): ho raccolto 60 grammi, pochi ma vanno bene per il mio fabbisogno. Comprando il necessario per coltivare ho dato 460 euro a un imprenditore che paga le tasse e ho tolto 600 euro al mercato nero: lo giudico un comportamento virtuoso». 

Lei ha parlato di politiche di intervento sul consumo problematico. Che cos' è il consumo problematico di cannabis secondo lei?

«Vale l'esempio dell'alcol. Chi beve vino in misura moderata è responsabile; chi va al discount alle 7 di mattina a comprare alcol come "benzina" è problematico. Allo stesso modo, chi si fa la cannetta ogni tanto per rilassarsi è nella norma, chi fuma tutto il giorno è problematico. Perché non togliere risorse al mercato nero per darle allo Stato, ai Comuni, alle Regioni per intervenire nel secondo caso?». 

Ieri ha festeggiato il suo compleanno, non mi dica che non ha fumato nemmeno una canna.

«Dopo quindici telefonate un po' di relax me lo sono concesso (ride, ndr )».

Le canne al vento della Sardina. Francesco Maria Del Vigo il 10 Giugno 2022 su Il Giornale.

Francamente il dubbio ci era già venuto. Ma, nell'era del politicamente corretto mozzalingue, ci eravamo preventivamente censurati. Però, dai, uno che si mette a dormire in salotto con una tenda da campeggio sotto una foto di Berlinguer qualche sospetto lo fa venire, no? E vogliamo parlare di quando in consiglio comunale a Bologna, con la voce rotta dall'emozione, aveva informato l'assemblea felsinea della tragica scomparsa di due oche azzannate a morte da due cani? E, a pensarci bene, anche il nome «6 mila sardine», può essere palesemente ispirato al menu di una nottata di fame chimica.

Bene, ora, Mattia Santori, l'uomo che ha fondato un movimento per silenziare la campagna elettorale del centrodestra - unico caso nelle democrazie occidentali - che ha tentato, senza riuscirci, di sfondare nel Pd e che alla fine si è accontentato di uno strapuntino, ha deciso di calare la maschera: «Mamma mi faccio le canne». Che anche se è il titolo di un libro, sembra una confessione. Non sua, per carità, anche se spiegherebbe molte cose e non sarebbe una notizia stupefacente. Il volume, scritto da Antonella Soldo, dei Radicali, è stato presentato ieri al parco della Montagnola, nel capoluogo emiliano, insieme ad un entusiasta Santori. D'altronde, la sardina riccioluta, è da sempre un convinto antiproibizionista, nel 2021 aveva addirittura intrapreso un «cannabis tour» per portare in giro per l'Italia il verbo della legalizzazione.

«Nel libro si raccontano storie vere di come spesso il tabù e lo stigma sociale della cannabis produca più danni che benefici, soprattutto tra i giovani. Un motivo in più per rifiutare il silenzio e il negazionismo a priori, un motivo in più per riprendere un dialogo che in Italia non è mai iniziato», spiega convintissimo il consigliere comunale.

Adesso la carriera politica di Santori raggiunge l'acme, con il tentativo di far parlare figli e genitori di temi brucianti come la marijuana. Non esattamente la priorità di Bologna e tantomeno del Paese. Roba che nel maggio del 69 sarebbe sembrata già fuori stagione di almeno un anno. Figuriamoci nel 2022, ma si sa che a sinistra hanno un certo sapore vintage per la politica. Noi restiamo in attesa che il nostro eroe ci regali altre emozionanti avventure da Bologna, non sappiamo se lui nel frattempo si stia arrotolando una canna, ma sappiamo per certo che si è totalmente fumato il movimento delle sardine, quello che la sinistra, per lunghi mesi, aveva glorificato come la nuova e luminosa avanguardia giovanile del Paese e che ora è svanito nel nulla. Evidentemente non è l'unico a fumare

Mattia Santori, delle Sardine, e il discorso per denunciare «l’assalto di due cani a due oche». Franco Stefanoni su Il Corriere della Sera il 6 Aprile 2022.

Nell’aula consiliare di Bologna, Mattia Santori, leader delle Sardine, parla di «fatto increscioso». Sui social ironie e polemiche. 

Un accorato e commovente discorso nell’aula consiliare del Comune di Bologna — «a nome del gruppo pd, e di tutta la maggioranza» — per denunciare l’assalto a due oche da parte di due cani. 

Ha sollevato qualche critica l’intervento in aula della sardina Mattia Santori, eletto in consiglio con il Pd, dopo il «fatto increscioso» avvenuto a Monzuno, comune nei dintorni di Bologna, ai danni della famiglia Celli, proprietaria delle oche. 

«Desidero esprimere vicinanza al consigliere Celli e a tutta la sua famiglia per il fatto increscioso avvenuto lo scorso giovedì quando nei pressi di Monzuno due cani sfuggiti al loro padrone si sono avventati sulle oche che la famiglia Celli tiene nel giardino della propria abitazione, un fatto che il proprio consigliere ha raccontato sulla sua pagina Facebook, senza nascondere il dolore per la perdita dei due animali che facevano parte della sua famiglia rispettivamente da 14 e 4 anni».

Davide Celli, figlio dell’entomologo Giorgio, è anche consigliere comunale dei Verdi: e la solidarietà pubblica di Santori per il collega ha compreso un giudizio più ampio sulla disavventura accaduta. 

«In questi casi la colpa non è del cane ma del padrone che non rispetta una responsabilità che ha volontariamente deciso di assumersi», ha detto il leader delle Sardine, «o degli allevatori che immettono sul mercato una quantità di razze molossoidi». 

Sui social Santori è stato bacchettato per la scarsa rilevanza del caso nei giorni in cui tra l’altro in Italia e nel mondo si dibatte per trovare soluzioni di fronte alla tragica guerra in corso tra Russia e Ucraina. 

Santori non è nuovo comunque a rilanciare in consiglio temi legati agli animali. Tuttavia, parlando delle oche assalite dai cani, ha specificato: «È difficile per chi, come me, non ha animali domestici, capire il rapporto che si sviluppa giorno per giorno fra una persona e un cane, ad esempio, figuriamoci fra un uomo e pennuti scontrosi e chiassosi. Ma ho avuto modo di vedere la casetta che Davide ha costruito per proteggere le sue oche dalle faine, di percepire la costanza di chi, per oltre un decennio, ha iniziato la sua giornata aprendo un cancelletto, e l'ha chiusa richiudendolo, di chi ha sviluppato ricordi, immagini e aneddoti familiari insieme a una coppia di pennuti. Nonostante la sofferenza che lo ha travolto, mi ha colpito come Davide sia riuscito a dare una lezione di etologia anche in questo caso... Non entro nei dettagli: primo perché non sarei credibile, e secondo perché spero che sia lo stesso Celli, una volta ritrovata la serenità, a guidarci in un percorso necessario a far sì che la sottovalutazione della gestione di un cane non si traduca a danni ad animali, bambini o persone adulte».

Paperopoli. Nell’epoca in cui vale tutto, un’oca vale un uomo e anche una sardina. Guia Soncini su L'Inkiesta il 7 aprile 2022.

Il surreale intervento al Consiglio comunale di Bologna di Mattia Santori, già nuovo Che Guevara, per ricordare la morte di due oche uccise da un cane è diventato virale perché siamo diventati una società così imbecille da parlare degli animali come se fossero umani.

Ci sono molte angolazioni possibili da cui prendere il video che ieri ha rallegrato le nostre altrimenti meste giornate lavorative, il video in cui il Che Guevara italiano (così lo chiamò Stanley Tucci sulla Cnn, spero non ve ne siate dimenticati) ha espresso solidarietà a un altro consigliere comunale per un «fatto increscioso».

Una è: ah, ma tu pensa, Mattia Santori è ancora vivo. Ti ricordi quando le Sardine sembravano il futuro della sinistra, e ora Ciro Cirillo sembra più recente e attuale. Ma certo, è in consiglio comunale a Bologna, come dimenticarlo, è quello che voleva lo stadio del frisbee.

Un’altra è: una volta la musica a Bologna produceva concerti di Guccini in piazza Maggiore, e ora produce concerti della Rappresentante di lista, la politica locale produceva Stefano Bonaga e ora produce Mattia Santori, e questo è tutto ciò che ho da dire del declino delle élite.

Un’altra ancora è: quando i giornali scrivono che qualcosa «è diventato virale», intendono che è la cosa più imbecille che si sia mai vista, o che è la più meritoria? E il fatto che sia impossibile distinguere è forse uno dei grandi problemi del presente?

E, soprattutto, può un’insensibile come me parlare d’una simile tragedia? Proverò a partire dai freddi fatti, sebbene non gelidamente raccontati dai protagonisti.

Sabato scorso Davide Celli, consigliere comunale cinquantacinquenne (ne avesse venticinque saremmo più indulgenti), posta sulla propria pagina Facebook la foto del cadavere d’un’oca, con questa didascalia: «Riposa in pace vecchia mia, il tuo uovo si schiuse davanti agli occhi incantati miei e di mio padre che era accanto all’incubatrice in quel momento, volevamo tanto sapere se Lorentz avesse ragione in merito all’imprinting…. e mio figlio, piccolino, te lo ricordi?… per quanti lunghi anni lo abbiamo accompagnato alla Fermata del bus? Che piovesse o nevicasse, ce ne andavamo via tutti e tre insieme in fila indiana, all’inizio non avevi ancora le penne bianche e sembravi un piumino giallo buono solo per spolverare la tv. Spero che mi perdonerai per non essere riuscito ad arrivare in tempo per salvarti. Ce l’ho fatta, per 14 anni, questa volta, no. Ciao per sempre mia inseparabile amica, ci rivediamo di là, e salutami tanto mio padre». Puntini, maiuscole, nome sbagliato di Konrad Lorenz come nell’originale.

Non voglio sapere perché il padre di Celli avesse l’uovo d’un’oca in un’incubatrice, non voglio sapere se Vasco Rossi abbia già opzionato quel «ciao per sempre», non voglio dire la mia su una società così imbecille da parlare degli animali come fossero umani (andate ad accusarmi di specismo un po’ più in là, qui ho un articolo da finire). Non voglio neanche infierire su Santori che poi su Facebook spiegherà che da una parte c’è lui empatico e dall’altra noialtri mostri, «perseguitatori» (credo intendesse «persecutori»).

Una persona che stimo tempo fa mi ha detto che a lei dell’Ucraina interessano più che altro i cani e i gatti portati in salvo, e io ho capito che eravamo al fondo della sanità mentale e avevamo cominciato a scavare – per gli intelligenti, pensa per quelli medi. 

Quello di sabato è, sulla pagina di Celli, l’ottavo status in tre giorni a proposito di queste oche uccise dai cani. Siamo nel tempo che ha abolito le gerarchie emotive, uno vale uno che sia uno sterminio di guerra o un ecosistema in cui gli animali più aggressivi si accaniscono su quelli più deboli. Uno che ti guarda le tette vale come uno che ti stupra minacciandoti di morte, e quindi figuriamoci se un adulto che in campagna vede morire un’oca non può reagire scrivendo pubblicamente questo: «Le mie oche sono state uccise. I cani sono tornati. Ci rivediamo a data da destinare. La mia, partecipazione a qualsiasi iniziativa politica, o meno, è sospesa a data da destinare» (sintassi come nell’originale). 

Tuttavia la ridicolaggine sarebbe rimasta circoscritta se non fosse stato per Mattia Santori, un uomo che fa sembrare Carlo Freccero un frate trappista. Santori va in consiglio comunale ed esprime solidarietà per questo «fatto increscioso». Per le oche morte.

«Senza nascondere il dolore per i due animali che facevano parte della famiglia rispettivamente da quattordici e quattro anni». Santo’: so’ oche. Non facevano parte di nessuna famiglia, erano oche. Diamogli atto dell’essere (pensa te) il più lucido in questo lutto che si addice alle oche: persino Santori ha dei dubbi, ma pensa sia perché non è abbastanza sensibile. Si scusa perché non ha animali (che è quasi peggio che essere maschio bianco cis) ed è quindi per lui difficile capire il rapporto «tra un uomo e due oche scontrose e chiassose». Di nuovo – non avrei mai creduto di dirlo ma – Santori, lei in questa circostanza è quello sano di mente: non c’è nessun rapporto da capire, so’ oche.

Poi ovviamente parte per la tangente del delirio poetico, ci pitta questo traumatizzato tizio che per dieci anni ha aperto ogni mattina il cancelletto e la sera l’ha richiuso (è un po’ tipo: gli è morta la moglie per cui ogni mattina metteva su la caffettiera), «ha sviluppato ricordi, immagini, e aneddoti familiari insieme a una coppia di pennuti» (ma dove siamo, in un cartone della Disney?).

La sardina conclude dicendo che è un problema di molossoidi (cioè: di cani grossi e aggressivi) che vengono trascurati dagli umani e finisce che (incredibile, tu pensa a volte la natura) aggrediscono le creature più indifese; ma che non sarà lui a parlarcene giacché spera sia lo stesso Celli «non appena avrà ritrovato la serenità e la passione, a guidarci in un percorso necessario».

Il percorso necessario, temo, non è quello in cui si smette di far finta che sia sano di mente far convivere umani e animali, e farli entrare in bar e ristoranti, per esempio. L’emergenza mi par di capire sia se sbranano un’oca, non se salivano sui tortellini che sto per comprare in un pastificio. Mi pare tutto perfettamente in linea con la gestione d’una città che si adopera per far cantare in piazza quelli che «con il culo ciao ciao», invece che per gestire la raccolta della spazzatura, un settore la cui inefficienza nel quale la rende temibile rivale di quell’altra città, quella della monnezza, delle grattachecche, e delle oche in Campidoglio.

Tommaso Biancuzzi, ecco chi è il nuovo Mattia Santori della sinistra. Francesco Curridori il 12 Febbraio 2022 su Il Giornale. 

Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi, è l'astro nascente della sinistra, un ragazzo che mediaticamente sta rubando la scena al leader delle Sardine.

Per ogni stagione politica, la sinistra trova il suo eroe. Se il governo giolloverde ha visto la nascita del fenomeno delle sardine con Mattia Santori capo-popolo, quello di Mario Draghi deve vedersela con Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi.

È lui il giovane della provincia di Padova che si è fatto paladino della battaglia contro gli scritti alla prova di maturità. "Vogliamo un elaborato scritto da presentare oralmente, preparato coi docenti, interdisciplinare e che vada oltre i programmi", ha detto a Repubblica il leader del sindacato dei ragazzi delle superiori che raccoglie 10mila iscritti. E così, dopo aver criticato il governo per l'eccessivo uso della Dad, ora gli studenti si lamentano perché non possono avere “la pappa” preparata insieme ai docenti. D'altronde l'obiettivo dichiarato di Biancuzzi è quello di “liberarci del fardello di una scuola gentiliana".

Ovviamente il novello Santori è un antifascista doc che il 17 ottobre scorso ha partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Cgil dopo l'assalto di Forza Nuova.“Era importante esserci. Noi c'eravamo. Studentз e antifascistз, sempre”, ha scritto nel suo profilo Facebook. Ovviamente, in ogni suo post, non manca mai la schwa, neutra, non-binaria e inclusiva. Insomma, Biancuzzi sembra avere tutte le caratteristiche del prototipo dell'attivista amante del politicamente corretto, assiduo frequentatore delle manifestazioni pro Lgbt. Il Ddl Zan, però, è solo un lontano ricordo, mentre l'esame è alle porte. Il principale avversario è il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, reo di “raccontarci che va tutto bene, che è tutto tornato alla normalità e che ci siamo lasciatз la pandemia alle spalle”. Ma non solo. “Tommy”, come viene chiamato il nuovo barricadero della sinistra, sta spopolando, con interviste e articoli, su tutti i giornali “amici”: da Left a L'Espresso, da Repubblica al Manifesto.

Il giovane rivoluzionario rosso, partito dal Veneto leghista, in queste ultime settimane si è mobiliato anche contro l'alternanza scuola-lavoro, ribatezzata Pcto e, all'inizio di dicembre, ha partecipato anche a un evento del Pd. “Più di 40 interventi tra associazioni, amministratori, parti sociali, cittadine e cittadini. Dobbiamo raccogliere l’invito di Andrea Riccardi ad aprire un processo per sviluppare la politica dove hanno vinto i partiti della rabbia e della paura”, ha scritto Biancuzzi, orgoglioso di aver preso parte a TorBellaMonaca all’Agorà democratica sul tema delle periferie. Chissà se anche lui, come Mattia Santori, nutre il desiderio nascosto di intraprendere la carriera politica.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano ‘Pubblico’ diretto da Luca Telese. Dal 2014 collaboro con ilgiornale.it, testata per la quale ho prodotto numerosi reportage di cronaca dalla Capitale, articoli di politica interna e rumors provenienti direttamente dalle stanze del “Palazzo”.

Da ilgiornale.it il 12 febbraio 2022.

Per ogni stagione politica, la sinistra trova il suo eroe. Se il governo gialloverde ha visto la nascita del fenomeno delle sardine con Mattia Santori capo-popolo, quello di Mario Draghi deve vedersela con Tommaso Biancuzzi, coordinatore della Rete degli Studenti medi. 

È lui il giovane della provincia di Padova che si è fatto paladino della battaglia contro gli scritti alla prova di maturità. «Vogliamo un elaborato scritto da presentare oralmente, preparato coi docenti, interdisciplinare e che vada oltre i programmi», ha detto a Repubblica il leader del sindacato dei ragazzi delle superiori che raccoglie 10mila iscritti. E così, dopo aver criticato il governo per l'eccessivo uso della Dad, ora gli studenti si lamentano perché non possono avere “la pappa” preparata insieme ai docenti. D'altronde l'obiettivo dichiarato di Biancuzzi è quello di «liberarci del fardello di una scuola gentiliana».

Ovviamente il novello Santori è un antifascista doc che il 17 ottobre scorso ha partecipato alla manifestazione di solidarietà alla Cgil dopo l'assalto di Forza Nuova. «Era importante esserci. Noi c'eravamo. Student? e antifascist?, sempre» ha scritto nel suo profilo Facebook. Ovviamente, in ogni suo post, non manca mai la schwa, neutra, non-binaria e inclusiva. Insomma, Biancuzzi sembra avere tutte le caratteristiche del prototipo dell'attivista amante del politicamente corretto, assiduo frequentatore delle manifestazioni pro Lgbt. 

Il Ddl Zan, però, è solo un lontano ricordo, mentre l'esame è alle porte. Il principale avversario è il ministro dell'Istruzione Patrizio Bianchi, reo di «raccontarci che va tutto bene, che è tutto tornato alla normalità e che ci siamo lasciat? la pandemia alle spalle». Ma non solo. “Tommy”, come viene chiamato il nuovo barricadero della sinistra, sta spopolando, con interviste e articoli, su tutti i giornali “amici”: da Left a L'Espresso, da Repubblica al Manifesto.

Il giovane rivoluzionario rosso, partito dal Veneto leghista, in queste ultime settimane si è mobiliato anche contro l'alternanza scuola-lavoro, ribatezzata Pcto e, all'inizio di dicembre, ha partecipato anche a un evento del Pd. «Più di 40 interventi tra associazioni, amministratori, parti sociali, cittadine e cittadini. Dobbiamo raccogliere l’invito di Andrea Riccardi ad aprire un processo per sviluppare la politica dove hanno vinto i partiti della rabbia e della paura», ha scritto Biancuzzi, orgoglioso di aver preso parte a TorBellaMonaca all’Agorà democratica sul tema delle periferie. Chissà se anche lui, come Mattia Santori, nutre il desiderio nascosto di intraprendere la carriera politica.

·        I Radicali.

Grazia Sambruna per mowmag.com il 12 novembre 2022.

Non ci si crede. A prescindere dal fatto che trascorrere un venerdì sera su Rai 3 sia già scelta discutibile di per sé, farlo ci ha dato occasione di assistere a un vero e proprio scempio. Venerdì 11 novembre 2022, il terzo canale del Servizio Pubblico ha infatti trasmesso Romanzo Radicale, il docu-film sulla vita di Marco Pannella diretto da Mimmo Calopresti.  

Difficilissimo renderne conto senza imprecare. Si tratta di un progetto, disponibile su RaiPlay quando volete ma ve lo sconsigliamo, totalmente irrispettoso e realizzato con l'intenzione di ferire se non altro il buongusto. 

L'eroica esistenza del Giacinto nazionale viene raccontata tramite testimonianze di chi gli è stato vicino (Emma Bonino e Vasco Rossi, in primis) ma soprattutto da inserti fiction a la Un Posto al Sole in cui possiamo ammirare un tizio (Andrea Bosca) in pannelliano cosplay che si trova a recitare scene imbarazzanti: su tutte (ma approfondiremo) le grandi tavolate in cui zie e parenti preoccupate gli ripetono: "Dai Marco, magna un po' che te vedo secco secco". Manco fosse Boris 4, da Vita di Gesù a Vita di Marco è un attimo. Un attimo che grida vendetta. E per questo siamo qui.  

Con una maestria in trucco e parrucco che forse nemmeno Ruggero De Ceglie dei Soliti Idioti (ma lì, almeno, era per ridere), Pannella ci viene presentato come un uomo innamorato dei propri ideali, ferventissimo. E così era. Peccato che la narrazione scelga, chissà per quale motivo, di non avvalersi di filmati di repertorio in cui avremmo potuto vedere Giacinto in azione, no: la sapiente sceneggiatura brutalizza con la cazzuola gli interventi degli ospiti e il pochissimo materiale di repertorio scelto (a casaccio) con pantomime in cui è tutto recitato. Per giunta, male. 

Esempio pratico: uno degli intervistati dice che, inizialmente, i Radicali erano un gruppetto di dieci persone e, non essendo nemmeno lontanamente un partito, non riuscivano a trovare spazio in tv o sui giornali. Bene, allora a Pannella viene l'idea di tappezzare Roma di manifesti anticlericali, a favore del divorzio e così via. Ottimo. Invece no.  

Perché è qui che la mente dello sceneggiatore vacilla, dubita. Il pubblico comprenderà questo "high concept"? La risposta è no. E quindi via di scenetta in cui un giovane Bosca-Pannella insieme ad alcuni amici attacca cartelli in giro per la capitale, mentre un buonuomo gli si avvicina per scroccargli una sigaretta e dirgli: "Eh, ma io da mia moje un me voglio divorzià". Segue spiegone inspirational del finto Giacinto sempre più Osho di scena ridicola in scena ridicola. Perché? Stacco ed eccoci davanti a un Pannella mattiniero che si ingozza di brioche al bar. Insomma, pure lui teneva fame alle volte.

Si raggiunge, anzi, si travalica l'assurdo quando vengono riproposte sue accese ospitate televisive (chissà come, l'episodio in cui diede dell'erba ad Alda D'Eusanio in diretta tv su Rai 1 non è stato inserito). Una finta conduttrice di fronte a un finto pubblico bersaglia il finto Pannella di domande inquisitorie e lui lascia lo studio dicendo qualche cosa sull'amore universale.  

Come fosse un life coach qualunque, le citazioni "migliori" vengono anche riportate in sovraimpressione, con faccetta di Giacinto sorridente tipo timbro garanzia-qualità banana Chiquita. Ed è qui che l'imbarazzo si fa Mike Tyson.  

Intendiamo: non si può non sottolineare la scelleratezza di chi ha optato per tale barbara scelta narrativa. Come mai? Per esempio perché chiunque abbia ideato questa mostruosità aveva l'originale di quello (come di tantissimi altri) momenti televisivi pannelliani davanti al muso. Ma deve aver deciso che non sarebbero serviti in ottica docu-film. Ok. 

La Rai possiede un repertorio sterminato, a portata di mano e totalmente gratuito, a proprio uso e consumo. Il Servizio Pubblico ha ovviamente seguito, giorno dopo giorno, la battaglia per il referendum sul divorzio, come quella per il diritto all'aborto ma guai a toccare l'archivio per raccontare questi fatti.  

No, meglio mimarli, renderli soap. Perché? Perché dagli archivi si attinge solo per le meravigliose performance canore di Mina a Fantastico '73: della storia d'Italia, delle persone che quella storia l'hanno pur fatta, chissenefrega? Techetechetè.

Poi la generalista si lamenta perché il pubblico sceglie di migrare verso le piattaforme streaming. E chiamalo scemo. Viviamo in un mondo in cui la Rai non si è dimostrata in grado, pur avendone a disposizione, gratuitamente, tutti i mezzi possibili, di raccontare uno dei più grandi e controversi personaggi della storia italiana.  

Figuriamoci cosa potrà mai fare quando c'è da inventarsi una narrazione da zero. Siamo arrabbiati, molto. In compenso, sulla neonata Paramount + è disponibile la serie su Miguel Bosè (noiosetta, a dire il vero) in cui tra la prima e la seconda puntata possiamo vedere il giovane Giacinto intrattenere una focosa storia di letto col protagonista. Ovviamente, la sessualità di Pannella non è nemmeno lontanamente presa in esame da Mamma Rai. 

Mamma Rai che pur alle volte, perfino in questo straziante Romanzo Radicale, ci prende. Uno degli intervistati, per esempio, quando finalmente lo fanno parlare, racconta come da bambino la madre gli avesse imposto di togliere il saluto al vicino di casa, ingegnere, perché era "un separato".  

Il divorzio a quei tempi era ben lungi dall'essere legale in Italia, ma la gente, ovvio, si mollava comunque. E, quando capitava, questo era il percepito del quartiere. Proprio in tale percepito, Marco Pannella ha intravisto un margine d'azione. Riuscendo, negli anni, a realizzare l'impossibile. 

E questo è il rispetto che gli si porta oggi? A prescindere dalle controversie sui digiuni, su Cicciolina in Parlamento, sulle uscite provocatorie e choc di cui si è sempre reso protagonista, Pannella e la Bonino sono le persone a cui dobbiamo due diritti civili fondamentali per un Paese che voglia quantomeno considerarsi libero: divorzio e aborto. 

Altro che il tetto del contante a 5 mila euro, per cortesia. Oltre alle campagne di sensibilizzazione sulle condizioni di vita nelle carceri italiane, al dibattito sulla legalizzazione delle droghe leggere e via discorrendo. Gli dobbiamo tantissimo. Chiudiamo, ci scuserete, con un aneddoto personale: quando Marco Pannella compariva in tv, i miei genitori cambiavano tempestivamente canale. La Rai, anno del Signore 2022, perfino post mortem, fa lo stesso. Se questo è Servizio Pubblico

Morto Gianfranco Spadaccia, leader radicale. Il Corriere della Sera il 25 settembre 2022.  

«Se ne va un giornalista sagace, politico capace di visioni sempre rivolte al futuro e persona straordinaria anche per il modo gentile e intelligente di interfacciarsi con gli altri. La sua morte è una grande perdita per me e il Paese tutto. Ciao Gianfranco»: così la leader di +Europa Emma Bonino ha ricordato Gianfranco Spadaccia, giornalista, ex parlamentare, segretario del Partito radicale negli anni Settanta e Ottanta. Spadaccia aveva 87 anni, nato a Roma era laureato in Giurisprudenza e dopo l’impegno in politica si era dedicato al giornalismo con incarico di caporedattore all’Agi.

In lungo messaggio sui social, Emma Bonino ha scritto: «Gianfranco è stato per me come un fratello più grande e credo sia stato così per molti altri radicali. Da Adelaide Aglietta a Francesco Rutelli a Roberto Giachetti. Di lui mi colpì subito il raffinato modo di pensare, mai scontato. E subito, soprattutto grazie a lui, capii cosa fosse la disobbedienza civile e il metodo non violento per portare avanti quella e molte altre battaglie».

Poi racconta le sfide affrontate anche con Pannella: «Siamo stati, con Marco e tanti altri, tra gli artefici di quella promozione e conquista dei diritti civili in Italia. Dal divorzio, all’obiezione di coscienza, dalla riforma del diritto di famiglia alla depenalizzazione del reato di consumo di stupefacenti, fino al suo arresto come segretario del Partito radicale, insieme a quelli di Adele Faccio e mio, che spianò la strada alla depenalizzazione del reato di aborto e alla legge 194».

Quegli arresti servirono ad aprire il dibattito sull’aborto clandestino e dopo la campagna radicale si arrivò alla legge per regolamentare del 1978, sull’interruzione volontaria di gravidanza. Tra le sue battaglie anche quella condotta con Adelaide Aglietta quella del digiuno con cui ottenne l’aumento dell’organico e la riforma del corpo degli agenti di custodia.

Aveva 87 anni. È morto Gianfranco Spadaccia, addio al leader dei Radicali maestro e protagonista di battaglie per i diritti civili. Antonio Lamorte su Il Riformista il 25 Settembre 2022 

È morto Gianfranco Spadaccia. Giornalista, ex parlamentare e più volte segretario del Partito Radicale, protagonista di battaglie dei diritti civili, infine membro della direzione dell’associazione Luca Coscioni, aveva 87 anni. A dare la notizia della scomparsa la stessa Radio Radicale, con un post sui suoi canali social. A ricordarlo in queste ore di elezioni politiche tutti gli esponenti del mondo radicale e liberale, che con Spadaccia avevano condiviso ideali e lotte politiche. Il Riformista aveva spesso ospitato negli scorsi anni riflessioni e opinioni del leader radicale sulle sue pagine.

Spadaccia era nato a Roma il 28 febbraio del 1935. Si era laureato in Giurisprudenza e aveva cominciato a lavorare all’Agenzia Giornalistica Italiana collaborando contemporaneamente con diverse riviste. Dopo la militanza nel Partito Socialista Democratico Italiano aveva partecipato alla fondazione del Partito Radicale. Fu segretario del partito nel 1967, nel 1968 e dal 1974 al 1976. Venne arrestato, come altri esponenti del partito, nell’ambito della campagna politica che portò alla depenalizzazione dell’aborto.

Di altre lotte legate ai diritti civili si occupò anche nei decenni successivi. Da deputato e senatore. Si ricordano la battaglia per la riforma carceraria e quella contro la pena di morte. Sostenne inoltre l’istituzione di una Corte di Giustizia Internazionale che si occupasse di crimini contro l’umanità. Spadaccia è stato anche membro della direzione dell’associazione Luca Coscioni, che si occupa da molti anni di libertà civili e diritti umani. Dal 2019 aveva aderito al partito +Europa. 

“Gianfranco Spadaccia, simbolo della storia del Partito Radicale e del riformismo italiano, ci ha lasciati. Voglio ricordarlo con questa foto, a un tavolino radicale: si vede anche Ada Rossi, la vedova del grande Ernesto, venuta a firmare per i referendum. Con Gianfranco ci siamo tenuti per la mano, assieme alla sua amata moglie Marina, nella casa di Monteverde, in segno di fraternità, nelle ultime ore della sua vita. La sua è un’eredità di libertà, battaglie, e responsabilità“, ha scritto Francesco Rutelli sulla sua pagina Facebook.

“Di lui mi colpì subito il raffinato modo di pensare, mai scontato. E subito, soprattutto grazie a lui, capii cosa fosse la disobbedienza civile e il metodo non violento per portare avanti quella e molte altre battaglie. Siamo stati, con Marco e tanti altri, tra gli artefici di quella promozione e conquista dei diritti civili in Italia. Dal divorzio, all’obiezione di coscienza, dalla riforma del diritto di famiglia alla depenalizzazione del reato di consumo di stupefacenti, fino al suo arresto come segretario del Partito Radicale, insieme a quelli di Adele Faccio e mio, che spianò la strada alla depenalizzazione del reato di aborto e alla legge 194. Ha speso la sua vita nell’impegno politico, fino ad essere, più di recente, il primo Presidente di +Europa, che ha contribuito a fondare e far crescere. Se ne va un giornalista sagace, politico capace di visioni sempre rivolte al futuro e persona straordinaria anche per il modo gentile e intelligente di interfacciarsi con gli altri. La sua morte è una grande perdita per me e il Paese tutto. Ciao Gianfranco”, il ricordo di Emma Bonino.

“Per molti di noi Gianfranco Spadaccia è stato un maestro e un grande esempio, una persona di grande umiltà e di enorme generosità. E’ grazie ai maestri come Gianfranco che si continua ad apprendere e comprendere per tutta la vita. Caro Gianfranco, la tua tenacia, la tua intelligenza politica e la tua capacità di profonda comprensione umana ci spingeranno a lottare ancora per la democrazia e lo stato di diritto per cui hai lottato per una vita intera. Grazie Gianfranco”, ha scritto su facebook il deputato e presidente di +Europa Riccardo Magi.

“Questa mattina ho votato nel mio seggio milanese di Piazzale Turr. Dedico questo mio voto a Gianfranco Spadaccia che ci ha lasciati oggi a 87 anni, una vita da radicale che lo ha poi portato ad essere tra i fondatori e primo presidente di +Europa. Porterò di lui un ricordo profondo, la sua passione a la sua intelligenza erano speciali, come la sua lettura tutta politica dell’Italia di ieri, di oggi e di domani”, ha scritto sui suoi canali social il segretario di +Europa Benedetto Della Vedova.

L’ultimo articolo di Spadaccia era comparso su Il Riformista lo scorso giugno, in occasione della cerimonia di inaugurazione a Teramo di una statua in onore di Marco Pannella. “Per comprendere la grandezza politica di Pannella e della sua politica radicale, sarà sufficiente ricordare che non ha mai, in tutta la sua vita, avuto posizioni di potere e che nonostante ciò è indubitabile il contributo che – scriveva – con la rivoluzione dei diritti civili, ha dato al profondo cambiamento culturale e politico del paese, conquistato andando sempre contro corrente e sapendo coniugare, grazie alla scelta della nonviolenza, l’intransigenza delle proprie idee e dei propri obiettivi politici allo spirito di apertura e alla capacità di dialogo nei confronti degli altri, anche dei propri avversari. E grazie a queste qualità e capacità che nel giro di poco più di un decennio si è riusciti ad ottenere in Italia il divorzio, l’obiezione di coscienza, la riforma del diritto di famiglia, la parità di diritti fra uomo e donna, la legalizzazione dell’aborto, la riforma psichiatrica e l’abolizione dei manicomi, la riforma dell’ordinamento e dei codici militari, riforme che nei decenni precedenti erano state impedite e bloccate”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

L'addio al protagonista del Partito Radicale. È morto Gianfranco Spadaccia, l’altro ‘pezzo’ di Pannella. Lorenzo Strik Lievers su Il Riformista il 27 Settembre 2022 

Se in Italia con gli anni Settanta ha potuto aprirsi una stagione di affermazione dei diritti civili, molto lo si deve a Gianfranco Spadaccia, scomparso a Roma a 87 anni, uno dei massimi protagonisti della storia del Partito Radicale. Militante, al liceo, per gli ideali del socialismo democratico, all’università, Spadaccia divenne presto un dirigente dell’Unione goliardica italiana, l’organizzazione degli studenti laici, e quindi insieme ad altri di loro, fra cui già allora Marco Pannella, contribuì a fondare nel 1955 il Partito Radicale, guidato allora da personalità come Mario Pannunzio, Leo Valiani, Ernesto Rossi. Cominciò lì un sodalizio destinato a durare tutta la vita.

Fece parte del gruppo di giovani che, alla fine degli anni Cinquanta formarono la corrente della sinistra radicale: insieme a Pannella e a lui, Angiolo Bandinelli, Mauro Mellini, i fratelli Rendi, Massimo Teodori, Franco Roccella e alcuni altri. Volevano che il Partito Radicale si facesse fautore non del centro-sinistra ma di un’alternativa laica e di sinistra alla Democrazia Cristiana. Fu quel gruppo che, dissoltosi di fatto il PR nel 1962, ne raccolse il nome e il simbolo. Di quel minuscolo partito – poche decine di persone per diversi anni – Spadaccia, diventato nel frattempo giornalista, fu da subito uno dei principali animatori. Nel 1967, al congresso di ricostituzione, ne fu eletto segretario. Da allora, per decenni, fu accanto a Pannella il maggiore dirigente di quella piccola forza politica che seppe lanciare battaglie come quelle per il divorzio, per l’aborto, per l’obiezione di coscienza, per la riforma del diritto di famiglia, creando di volta in volta su ognuna schieramenti capaci di portarle alla vittoria. E che, insieme, introduceva nella lotta politica metodi e valori della disobbedienza civile e della nonviolenza. Ne fu un esempio fra i più significativi e di vaste conseguenze il gesto di Spadaccia che nel 1975 si assunse, in quanto segretario del partito, la responsabilità politica e giuridica degli aborti praticati dal gruppo di Adele Faccio in pubblica disobbedienza alla legge che lo vietava. Fu arrestato, e il clamore della notizia diede avvio al moto di opinione che portò ad abolire il divieto di aborto.

Fu con la segreteria di Spadaccia che per la prima volta, nel 1976, i radicali riuscirono a eleggere una pattuglia di parlamentari. Lui entrò poi in parlamento nel 1979, in Senato, nel 1983 alla Camera e di nuovo in Senato nel 1987. Ricostruire la biografia di Spadaccia vorrebbe dire scrivere la storia del Partito Radicale: quel che di recente ha fatto lo stesso Spadaccia con la sua ultima fatica, il libro Il Partito Radicale. Sessant’anni di lotte fra memoria e storia, Sellerio, che è appunto insieme storia e autobiografia. Non è possibile ripercorrere qui quella lunga vicenda. Ma almeno va ricordato un carattere essenziale della sua presenza: il ruolo, che lui seppe assumere come nessun altro, di maestro e formatore dei giovani e meno giovani che via via si avvicinavano al partito. Fu lui, fra gli altri, ad accogliere e, si può dire, a “educare” e a far crescere come dirigenti anche le stesse Emma Bonino e Adelaide Aglietta; ma fu così anche per tanti e tanti altri.

Per parte mia non posso non ricordare con riconoscenza profonda il modo in cui Gianfranco mi introdusse, mi guidò, mi sostenne nell’apprendere il difficile mestiere del parlamentare, quando ebbi la ventura di trovarmi accanto a lui al Senato nella legislatura iniziata nel 1987. (“Mestiere” che Spadaccia sapeva praticare come pochi, acquistandosi in Senato un prestigio straordinario. Ben ricordo: quando prendeva la parola lui, che pure era il presidente di un piccolo gruppo di quattro senatori, in aula non volava una mosca, come quando a parlare erano i leader maggiori; e di lui e con lui parlavano con attenzione e rispetto i parlamentari e ministri di maggior prestigio intellettuale e politico, come Andreatta ed Amato. Ma più ampiamente, in tanta parte egli seppe assumere il ruolo di “educatore” e in questo senso di guida e di coordinatore un po’ di tutto il partito, anche quando non ne era lui il segretario, accanto alla leadership politica di Pannella.

Di Pannella, così, fu lungo i decenni il principale collaboratore: tale che, credo si possa ben dirlo, senza di lui Pannella non avrebbe potuto condurre il partito e le sue battaglie come seppe fare. Ma questo ruolo Spadaccia lo seppe sempre esercitare a partire dalla forza e dalla consapevolezza della sua autonomia intellettuale e morale. Autonomia della quale è stata testimonianza eloquente il modo in cui ha saputo rimanere sempre, in modo direi straordinario, fedele alla storia che era la sua. Entrò in contrasto su alcuni temi con Pannella all’inizio degli anni Novanta: invece di scegliere, come tanti altri, di prendere strade diverse, decise di ritirarsi dall’attività politica. Più d’una volta, com’era naturale con un protagonista del suo livello, gli furono offerte, da altri, possibilità di rientro in politica in posizioni di prestigio. Ma le fece sempre cadere. A chi, come anche io ho fatto qualche volta, lo spingeva a ritrovare un suo ruolo, rispondeva: “Ho fatto tutta la vita politica con Pannella, ora la farei contro di lui: non posso e non voglio”.

Quando poi le ragioni di dissenso sono state superate, ha scelto di rientrare, da militante, tra i radicali senza mai cercare ruoli di direzione. E infine, da radicale, per difendere e sviluppare le ragioni e le speranze di una vita di radicale, ha dato mano a creare l’esperienza di Più Europa insieme a Emma Bonino, diventandone il primo presidente. A lui, un addio grato e commosso, con la consapevolezza triste di rimanere più soli.

Lorenzo Strik Lievers

Dal partito alla diaspora. Gli straordinari anni di storia radicale vissuti e raccontati da Gianfranco Spadaccia. Carmelo Palma su L'Inkiesta il 27 Settembre 2022.

Il giornalista e politico romano scomparso domenica a 87 anni ha legato la sua vita a quella del Partito Radicale, partecipando in prima linea alle battaglie politiche più importanti. Poco prima di morire ha descritto le conquiste e le sconfitte di quella stagione in un libro

È morto domenica scorsa a 87 anni Gianfranco Spadaccia, una delle figure più rappresentative e riconosciute della storia radicale e una delle politicamente più longeve. Era uno degli ultimi sopravvissuti di quel gruppo di giovani della sinistra liberale che, nel 1955, animò il primo Partito Radicale e pochi anni dopo, tra il 1962-63, raccolse il testimone della generazione dei Mario Pannunzio, Nicolò Carandini, Bruno Villabruna e Leopoldo Piccardi, inaugurando una spregiudicata, ma non subalterna, strategia di apertura al Partito Comunista italiano, anticipata nel 1959 da un famoso articolo di Marco Pannella su Paese Sera e guardata con diffidenza da molti radicali, di venti o trent’anni più vecchi, di cultura repubblicana e azionista.

Da allora Spadaccia è stato uno dei protagonisti o antagonisti di tutte le scelte ed evoluzioni compiute dal soggetto radicale, che lo ha sempre visto visibilmente al centro o, più discretamente, dall’esterno contro le scelte politiche pannelliane. 

Negli anni ’60, iniziò la sua attività giornalistica all’Astrolabio, settimanale fondato da Ernesto Rossi e Ferruccio Parri dopo la rottura con il Mondo di Pannunzio, con cui i due avevano interrotto le relazioni dopo una, anzi forse la prima delle tante sanguinose rotture che costelleranno la futura storia radicale: il caso Piccardi. 

Da giornalista Spadaccia svolse anche l’apprendistato alla militanza politica, quando con Agenzia Radicale partecipò alle inchieste di denuncia dei condizionamenti dell’Eni di Eugenio Cefis sull’informazione e sulla politica italiana e dello sfruttamento dei fondi per la pubblica assistenza da parte dell’ONMI (Opera Nazionale Maternità e Infanzia), ente di origine fascista trasformato in un opaco centro di potere dalle correnti andreottiane e fanfaniane della Democrazia Cristiana. 

In seguito Spadaccia animò le campagne anticlericali e anti-concordatarie e organizzò, sotto la regia di Mauro Mellini, il loro sbocco politico-parlamentare nell’iniziativa della Lega Italiana per il Divorzio, che consentì di aprire una breccia concreta nei rapporti con il PCI (aderì alla LID l’ex presidente della Costituente Umberto Terracini), ma soprattutto a stringere, attraverso Loris Fortuna, un patto politico con il Partito Socialista italiano, che l’ascesa alla segreteria di Bettino Craxi nel 1976 non interruppe, ma rafforzò, fino alla rottura fragorosa tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, quando Pannella e il leader socialista si trovano sui due lati opposti della barricata referendaria.

Da segretario radicale, Spadaccia nel 1975 fu arrestato con Adele Faccio ed Emma Bonino per le disobbedienze civili del CISA – Centro d’iniziativa sulla sterilizzazione e l’aborto – che praticava alla luce del sole aborti illegali per denunciare lo scandalo dell’aborto clandestino. Di lì in poi per tre Legislature – dal 1979 al 1990 – è stato parlamentare radicale, nell’VIII e nella X al Senato e nella IX alla Camera. 

Alla fine degli anni ’80 arrivò la svolta transnazionale di Pannella che, a differenza di altri due compagni della prima ora, Massimo Teodori e Mauro Mellini, Spadaccia non avversò e non ritenne uno spariglio tattico o un divertissement spettacolare, che un altro dei radicali più scettici, Enzo Tortora, paragonò sarcasticamente al Cacao Meravigliao. 

Nell’immediato e anche in seguito, retrospettivamente, non sminuì mai quella proiezione transnazionale e federalista che, poco prima del crollo del Muro di Berlino, Pannella presentava come un’urgenza profetica e molti radicali subivano invece come un escamotage per liquidare l’organizzazione politica nazionale, trascinandola in una sfida contro i mulini a vento come, secondo i suoi critici, Pannella aveva fatto già una volta, all’inizio degli anni ’80, con la battaglia sullo sterminio per fame, dopo il successo alle politiche del 1979, per ridimensionare le ambizioni e l’autonomia politica della sua folta rappresentanza parlamentare. Spadaccia guardò però senza indulgenza ai risultati di questa esperienza, al suo carattere oggettivamente velleitario e organizzativamente approssimativo, privo di un vero ancoraggio internazionale e troppo simile a un sogno da esportazione.

Su altre vicende interne – una questione di dimissioni e subentri in Parlamento, in cui vide ingiustamente sacrificato Angiolo Bandinelli a beneficio di Domenico Modugno – Spadaccia maturò invece un vero distacco dall’organizzazione radicale e da Pannella e tornò, a 55 anni, al suo mestiere di giornalista all’AGI, da cui continuò a seguire le vicende del PR in modo partecipe, ma esterno e spesso esplicitamente critico. 

Così fu durante la fase “berlusconiana” degli anni ’90, in cui non fece mistero di preferire di votare per i partiti della sinistra piuttosto che per la Lista Pannella; visse quel periodo, se non come un tradimento, come una dissipazione del patrimonio di cultura liberal-socialista che fin dalle origini il Partito Radicale si era incaricato di serbare e di rinnovare, non di superare a beneficio di un paradigma classicamente liberal-liberista. Molto più tardi, nel 2016, alla morte di Pannella, per normalizzare e ricondurre a canoni consueti i suoi eccessi “amerikani”, dirà che il leader radicale, che all’inizio degli anni ’80 sdoganò in Italia con Antonio Martino il pensiero di Milton Friedman, nella famosa polemica tra Croce ed Einaudi sulla inscindibilità tra liberalismo politico ed economico propugnata dal secondo, si sarebbe certamente schierato dalla parte del primo, a sostegno della tesi del carattere strumentale e non morale della libertà economica. Giudizio discutibile, quantomeno.

Spadaccia tornò all’impegno militante radicale a metà degli anni 2000, non a caso a ridosso della esperienza della Rosa nel Pugno (il formale ritorno a sinistra dei radicali, nella coalizione prodiana) e con le iniziative dell’Associazione Luca Coscioni, che lo ha visto per oltre un quindicennio assiduo dirigente politico impegnato a decifrare le complicate relazioni tra scienza e libertà, tra sapere e potere, tra diritto alla conoscenza e autonomia personale, che, su un altro versante, occuparono anche gli ultimi anni dell’impegno politico di Marco Pannella.

Dopo la rottura di Pannella con Emma Bonino, qualche tempo prima della sua morte – un prodromo della conflagrazione della galassia radicale che vede oggi non solo una divisione tra radical-pannelliani e radical-boniniani, ma uno spezzettamento e una polverizzazione tutt’altro che decifrabile dall’esterno e sempre meno sopportabile anche dall’interno – Spadaccia si schierò generosamente dalla parte di quest’ultima, seguendola (o forse, più realisticamente, guidandola) nell’esperienza di +Europa, di cui fu il primo presidente e in cui fino a un anno fa – con un mestiere consumato e uno spirito agonistico inusitato per un ultra ottantacinquenne – continuò a battagliare in assemblee e riunioni con la stessa perentorietà che quarant’anni prima ne aveva fatto un protagonista temuto e rispettato dei Congressi radicali: «Silenzio, parla Spadaccia…».

In un libro pubblicato un anno fa “Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia”, a cui aveva lavorato duramente in una corsa contro il tempo, temendo una morte imminente, Spadaccia tira le fila di un sessantennio di attività politica radicale, restituendo a essa quel carattere plurale che difficilmente le viene riconosciuto.

Qualche giorno fa, Adriano Sofri nel congedarsi da Spadaccia su Il Foglio lo ha paragonato a una sorta di Noè della storia radicale, impegnato a metterla in salvo con i suoi protagonisti, senza farsi carico, scampato il diluvio, «della diaspora universale dopo lo sbarco. Per un po’ ci hai provato, poi ti sei rassegnato, andasse ciascuno per la sua strada».

La lettura degli scontri e dei dissidi radicali come di una prova di immaturità degli epigoni rispetto alla saggezza e alla virtù dei loro padri o “salvatori” però poco si attaglia alla vicenda di un partito che ha replicato, sin dall’inizio, lo stesso schema di divisioni e disconoscimenti, di incomunicabilità e di irriconoscibilità in primo luogo tra i principali protagonisti della sua storia. 

Anche in questo caso, ha poco senso domandarsi quanto questo risponda a debolezze e incapacità soggettive, visto che il fenomeno non ha riguardato solo seconde e terze linee avvezze al fanatismo gregario – basti pensare all’ultima rottura tra Pannella e Bonino e alla prima tra Rossi e Pannunzio – ed è piuttosto stato una costante del modo di funzionare di questo partito formalmente libertario, privo di un corredo disciplinare di obblighi e doveri per iscritti e dirigenti – da cui la metafora del pullman su cui si sale a da cui si scende quando si vuole, purchè si paghi il biglietto per il tragitto percorso – ma abituato a convivere con maledizioni e anatemi, con rotture definitive e incomponibili. Non – si badi – con inquisizioni ed espulsioni formali, ma con disconoscimenti ed esclusioni sostanziali. 

La ragione è forse proprio nel modo di essere e di funzionare del corpo politico radicale, che ha sempre cercato e trovato solo un’unità di azione e attorno all’azione, e alla partecipazione a essa ha misurato le vicinanze e le lontananze, le lealtà e i disallineamenti. Non nella condivisione di un patrimonio culturale e ideologico, ma in una lotta, rispetto alla quale ogni renitenza appare, se non come una diserzione e un tradimento, come una dissociazione, un ingombro o un cascame inutilmente parassitario. 

Si tratta – azzardo un giudizio – di un meccanismo esclusivo e escludente che lo stesso Spadaccia – anche lui totus politcus, alla pari di Pannella e molti dei suoi compagni di strada – deve avere sperimentato, imposto e anche subìto come una bussola necessaria e che oggi ha smesso di funzionare all’interno, polverizzando la compagine radicale, perché ha anche smesso di funzionare all’esterno e di determinare in modo oggettivo l’agenda politica del Paese.

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La camera ardente di Gianfranco Spadaccia sarà allestita martedì 27 settembre dalle 10 alle 18 al Senato, Palazzo Madama, Sala Caduti di Nassirya e sarà aperta al pubblico.

Gli uomini devono indossare giacca e cravatta.

Da roma.repubblica.it il 29 settembre 2022.

È morto a 31 anni Francesco Spadaccia, giornalista, avvocato e nipote di Gianfranco Spadaccia, l'ex segretario del Partito Radicale scomparso domenica scorsa e fratello di Giorgio Spadaccia, il padre del giovane morto 5 anni fa. 

Francesco Spadaccia ha accusato un malessere martedì scorso a Roma. Si trovava in Senato a Palazzo Madama dove, nella Sala Caduti di Nassirya, era stata allestita la camera ardente dello zio. È stato portato via in barella e ricoverato, stamattina l'annuncio della morte.

La tragedia del nipote del leader radicale. Malore dopo la camera ardente dello zio Gianfranco: Francesco Spadaccia muore a 31 anni. Redazione su Il Riformista il 29 Settembre 2022 

Francesco Spadaccia aveva sofferto un malore in seguito alla camera dello zio Gianfranco, il leader del Partito Radicale morto domenica a 87 anni. Lui era figlio di Giorgio, fratello di Gianfranco, anche lui attivo, impegnato in politica, era avvocato. È morto questa mattina, a soli 31 anni, una notizia che ha sconvolto chi lo conosceva e la comunità dei radicali.

Francesco Spadaccia era socio della Federazione Italia dei diritti Umani, organizzazione che “promuove l’attuazione del Settimo Principio dell’Atto Finale di Helnsinki: ‘Rispetto dei Diritti Umani e delle Libertà Fondamentali’. A dare la notizia la pagina social della FIDU e Radio Radicale “È venuto a mancare questa notte, a soli 31 anni, il nostro socio ed il nostro amico Francesco Spadaccia. Il suo impegno ed il suo ricordo ci accompagneranno per sempre“, si legge sul post della Federazione sui social.

Il padre Giorgio era morto cinque anni fa. Martedì scorso il 31enne aveva sofferto il malore dopo aver passato gran parte della giornata presso la camera ardente dello zio, allestita presso la Sala Caduti di Nassirya al Senato. Era stato necessario il ricovero presso l’ospedale Santo Spirito ma le condizioni del giovane non sembravano così gravi. La situazione è evidentemente peggiorata fino alla tragica notizia della morte, avvenuta la notte scorsa.

I Radicali hanno ricordato il 31enne condividendo una fotografia di lui bambino, seduto vicino allo zio Gianfranco: “Abbiamo appreso poche ore fa la terribile notizia della morte del giovane Francesco Spadaccia, radicale, figlio del radicale storico Giorgio Spadaccia e nipote di Gianfranco Spadaccia che ci ha lasciato solo pochi giorni fa. Una tragica e tremenda fatalità che ci ha lasciati sgomenti e ci unisce al dolore di chi, come noi, gli ha voluto bene e ha condiviso momenti di militanza”.

A ricordare Francesco Spadaccia in un post sui social l’ex senatore Marco Perduca: “Putroppo è morto Francesco Spadaccia, nipote di Gianfranco. Si era sentito male martedì mentre era alla camera ardente dello zio. Negli anni era apparso e scomparso in varie associazioni radicali indipendentemente dalla presenza di Gianfranco del padre Giorgio che ci aveva lasciati cinque anni fa. Oltre alla politica, sulla quale concordavamo ampiamente anche se c’aveva sempre qualcosa che non gli andava a genio, ci separava il tifo calcistico: lui laziale io romanista d’adozione. Ciao caro Francesco mi è dispiaciuto non fare due chiacchiere l’altra mattina in Senato”.

I funerali si terranno sabato alle 15 presso la chiesa di S. Pancrazio a Roma.

A Teramo una statua al leader radicale. La grandezza di Marco Pannella, senza potere ha cambiato l’Italia. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista il 31 Maggio 2022. 

Al Sindaco di Teramo in occasione della dedica di una strada della città al nome e alla memoria di Marco Pannella, abruzzese e teramano.

Signor sindaco, signori assessori e consiglieri, cittadini di Teramo,

mi è costato molto non essere presente alla cerimonia che ha onorato la memoria e la vita di Marco Pannella, il quale, pur essendo vissuto quasi sempre a Roma è sempre stato orgoglioso delle sue origini abruzzesi e del legame personale e familiare con la vostra città. Vi prego di scusare i miei 87 anni e le mie condizioni di salute per questa mia assenza altrimenti ingiustificabile. Per oltre sessanta anni Marco è stato infatti non soltanto un compagno fraterno e un amico, ma è stato anche il leader indiscusso della forza politica, il partito radicale, di cui ho fatto parte divenendone per alcuni periodi e per alcune legislature segretario politico, presidente e parlamentare.

Per comprendere la grandezza politica di Pannella e della sua politica radicale, sarà sufficiente ricordare che non ha mai, in tutta la sua vita, avuto posizioni di potere e che nonostante ciò è indubitabile il contributo che, con la rivoluzione dei diritti civili, ha dato al profondo cambiamento culturale e politico del paese, conquistato andando sempre contro corrente e sapendo coniugare, grazie alla scelta della nonviolenza, l’intransigenza delle proprie idee e dei propri obiettivi politici allo spirito di apertura e alla capacità di dialogo nei confronti degli altri, anche dei propri avversari. E grazie a queste qualità e capacità che nel giro di poco più di un decennio si è riusciti ad ottenere in Italia il divorzio, l’obiezione di coscienza, la riforma del diritto di famiglia, la parità di diritti fra uomo e donna, la legalizzazione dell’aborto, la riforma psichiatrica e l’abolizione dei manicomi, la riforma dell’ordinamento e dei codici militari, riforme che nei decenni precedenti erano state impedite e bloccate.

I suoi meriti non si fermano a questo. Perché Pannella ha saputo anticipare le globalizzazione e ha intuito che un fenomeno per molti versi inarrestabile doveva essere guidato e governato e, per farlo, ha indicato la strada a lungo tentata di un impegno europeo, occidentale e delle Nazioni Unite contro la fame nel mondo. Per il suo spirito religioso e per la scelta gandhiana della nonviolenza, ma anche per non essersi ritratto dal dialogo con la Chiesa, è stato da qualcuno trattato alla stregua di un guru se non addirittura di uno sciamano per meglio oscurarne le qualità di leader politico riformatore.

Per gli stessi motivi si è detto che a causa del suo carisma il partito radicale sarebbe stato un partito carismatico ma, come ha chiarito Weber, un tale partito richiede la presenza di due requisiti – il fideismo e la subalternità – che sono del tutto assenti nella storia e nella prassi radicale, un partito caratterizzato da un profondo spirito libertario e da una intenso confronto democratico, scandito dal ritmo dei congressi annuali. Un partito che ha avuto una classe dirigente di rilievo, protagonista in prima persona delle lotte radicali e che proprio per questo, invece di soggiacere alla volontà di un solo leader, ha prodotto – anche per impulso di Pannella, molti leader delle sue lotte politiche: da Mellini a Fortuna, da Faccio a Bonino, da Adelaide Aglietta a Enzo Tortora fino a Luca Coscioni e Piergiorgio Welby.

Consentitemi infine di ricordare, che dopo aver inutilmente attaccato e combattuto i vizi degenerativi della partitocrazia, Pannella ha per tempo, insieme a Mario Segni e Bartolo Ciccardini, avvertito i rischi di crisi dell’ordinamento repubblicano e ha tentato il dialogo con tutti per tentare di convincerli alla necessità di una autoriforma dei partiti e della riforma dell’ordinamento politico repubblicano. Lo ha fatto con i comunisti di Occhetto, con i democristiani di Martinazzoli e Andreatta, senza ritrarsi quando è stato il loro turno di fronte a Berlusconi e Bossi. Lo ha fatto ricorrendo alle armi del referendum e al tentativo di riforma delle leggi elettorali. Sappiamo come è andata anche se alcune di quelle riforme nei Comuni e nelle Regioni hanno retto alla prova del tempo. Sul piano del governo e delle istituzioni nazionali questo non è avvenuto. E di questa sconfitta paghiamo ancora le conseguenze. Gianfranco Spadaccia

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” l'11 aprile 2022.  

Un sodalizio durato per tutta la vita quello tra Marco Pannella e Mirella Parachini.

«Avevo diciannove anni quando incontrai per la prima volta Marco», racconta Mirella «lui ne aveva venticinque più di me ma era davvero immenso».

Mirella fa fatica a trovare le parole giuste per rappresentare, in modo corretto, quello che era Pannella quando entrò nella sua vita. 

Il loro è stato un grande amore durato, anche se naturalmente trasformato nel tempo, fino all'ultimo giorno della vita di Marco, quel 19 maggio di quasi sei anni fa in cui salutò questo mondo che gli aveva donato tanta felicità.

«Marco è sempre stato un uomo entusiasta della vita, la amava e la affrontava con perenne felicità anche nei suoi momenti più difficili, più faticosi».

Mirella, c'è una frase che Pannella disse nel congedarsi dal Dalai Lama in uno dei loro ultimi incontri «a subito, non a presto». 

Che significato ha quella frase?

«È un'espressione tipica pannelliana ed è la traduzione dal francese à tout suite.

In realtà sta a significare che le persone che si amano e che sono entrate in empatia non si lasciano mai».

Come vi siete conosciuti?

«Ci siamo incontrati negli anni settanta all'interno del partito Radicale al quale mi ero avvicinata da giovane studentessa di medicina. Marco, in quegli anni, faceva il corrispondente a Parigi per Il Giorno ed io ero mossa, come molti del resto in quel periodo, da una spinta antimilitarista, pacifista e gandhiana». 

Mirella, come mai gandhiana?

«Per una vocazione familiare. Mia nonna materna, che era era belga, non finì le elementari ma divenuta vegetariana approfondì da subito la dottrina indiana. Sempre per vocazione familiare mio fratello portò in casa la sua battaglia per l'obiezione di coscienza allora portata avanti da Pietro Pinna del movimento non violento di Perugia. Insomma sin da ragazza passavamo ore ed ore a confrontarci sui temi della non violenza e, seguendo mio fratello, entrai nella sede del Partito radicale». 

Che ricordo hai di quel periodo storico?

«Un ricordo intenso. Durante il Giubileo del 1972 decidemmo di manifestare a San Pietro a favore degli obiettori di coscienza incarcerati vestiti da galeotti e spinti da una forte idealità di libertà. La scelta del Giubileo Mirella Parachini è la donna, compagna, che è rimasta legata al leader Radicale Marco Pannella per quarant' anni. Mirella aveva diciannove anni quando incontrò Marco all'interno della sede del Partito e tra loro nacque subito una profonda intesa fatta di battaglie condivise, di visioni e di amore. 

Nata a Bruxelles da madre belga e padre italiano, Mirella Parachini, è un medico specialista in Ostetricia e Ginecologia, ed attualmente lavora presso l'Ospedale San Filippo Neri di Roma dal 1992. Ha cominciato subito dopo la laurea ad occuparsi di aborto e contraccezione e all'indomani dell'approvazione della legge 194 ha contribuito all'iniziale applicazione di avvenne perché in quel preciso momento c'era una grande attenzione mediatica.

In quel periodo storico eravamo straordinariamente movimentisti. Un esempio su tutti quando Marco andò in Spagna, con lo sciopero della sete, per fare rilasciare Pepe Beunza, obiettore di coscienza, finito in carcere oppure quando facevamo le marce antimilitariste da Trieste ad Aviano accompagnati dagli spettacoli di Dario Fo».

Dalle battaglie insieme alla vostra storia d'amore. 

Quando questa ebbe inizio?

«Durante una di queste manifestazioni feci conoscenza di un amico fraterno di Marco, Jean-Yves Radenac con cui iniziai a parlare in modo personale e confidenziale . Da quel momento iniziò la mia storia d'amore con Pannella». 

Come era vista la vostra relazione data la vostra differenza d'età?

«Con grande naturalezza perché non c'era pubblicamente una ostentazione della nostra relazione in eventi mondani. Sono sempre stata considerata la "compagna storica di Marco" che tutto faceva con me ma senza esibirmi. Ricordo un momento molto bello dove andammo insieme. Era la premiazione nel 1995 del premio Strega che fu dato a Maria Teresa Di Lascia, militante radicale, per il suo romanzo Passaggio in ombra pubblicato da Feltrinelli postumo. Quella fu una delle rare occasioni che vide me e Marco insieme in un evento pubblico e non politico». 

Ed i tuoi genitori come presero la vostra storia d'amore?

«Mio padre era un liberale e inizialmente mi disse che non doveva proseguire. Dopo poco tempo entrò nel meraviglioso mondo di Pannella e accettò tutto. Marco aveva una straordinaria dote quella della spontaneità e verità: in lui non c'era discrepanza tra la sua vita personale e politica così che la lettura della nostra relazione andava ben oltre il fatto generazionale». 

E invece com' era il tuo rapporto con i genitori di Pannella?

«La mamma di Marco aveva un debole per me, forse perché vedeva una persona in grado di sedare le inquietudini del figlio». 

Come sono stati i vostri quarant' anni di vita insieme?

«Il nostro rapporto, si è sempre fondato sulla verità e sincerità. Con gli anni si è trasformato mantenendo sempre un filo rosso di profondità che ci unisce anche adesso che fisicamente non c'è più. Inizialmente per me era una vera e propria vertigine. 

Marco è sempre stato una personalità di grande fascinazione: alto, imponente e con un eloquio straordinario. Io ero insieme e ascoltavo discorsi con persone come Sartre, Sciascia e Simone de Beauvoir; era come se vivessi in un meraviglioso incantesimo. Io studiavo medicina alla Cattolica a Roma ed avevo una storia d'amore con l'uomo che si batteva per la legge sull'aborto. Ecco mi sentivo un po' dissociata almeno fino a quando non mi laureai e, così facendo, potei dare seguito alle mie battaglie che sfociarono nella legge del 22 maggio 1978, la numero 194 "Norme per la tutela sociale della maternità e sull'interruzione volontaria della gravidanza". 

All'indomani dell'approvazione della legge 194 ho contribuito all'iniziale applicazione di questa in vari ospedali nell'ambito della collaborazione con l'AIED (Associazione Demografica Educazione Italiana), nei cui consultori ho lavorato per 20 anni, fino al 2000. Ho svolto il servizio di ginecologia anche presso il Consultorio familiare pubblico di Terracina, finché non mi trasferii a Roma». 

Pannella venne anche arrestato perché si accese uno spinello. Cosa successe in quella occasione ?

«Era una mattina di luglio del 1975 all'interno della battaglia per la disobbedienza civile quando Marco fece questo gesto di fronte al capo della sezione narcotici "questo è uno spinello di marijuana" disse Marco "ed invito il rappresentante della legge ad arrestarmi"».

Sai una cosa?

«No, Mirella, dimmi».

«Marco non ha mai fumato una canna. Era un tabagista convinto ed in quella occasione in maniera teatrale fece il gesto di accendersi uno spinello al contrario». 

Pannella e la politica.  Con chi si trovava bene Pannella?

«Sicuramente il suo pensiero era più affine ai socialisti che ai comunisti. Ebbe un intenso rapporto, anche se di duro confronto, con Bettino Craxi al quale consigliò di rientrare in Italia e non vivere in esilio. Inoltre tra i socialisti ebbe un buon rapporto con Claudio Martelli ed anche con Giuliano Amato. Riferimenti storici furono per lui Salvemini, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi ed anche parte del cattolicesimo liberale». 

Ma Pannella non era anti-religioso?

«Mai stato. Marco era anti sistema e quindi anche anti-clericale. Ma sulla religione ci sono stati momenti altissimi di confronto come per esempio quello con Monsignor Paglia poco prima di morire».

Ci sono stati momenti difficili con Marco?

«Quelli relativi agli scioperi della fame e della sete. Ho davvero temuto che potesse accadere qualcosa di brutto e facevo fatica a tenere botta con tranquillità. Matteo (Matteo Angioli storico assistente parlamentare di Pannella per quindici anni, ndr) riusciva a viverli con più calma ed era più controllato». 

Come sono stati gli ultimi giorni di vita vicino a Pannella?

«Di dolore perché lui soffriva molto, ma anche di grande gioia perché quando si riprendeva aveva degli slanci straordinari».

Me ne racconti uno?

«Nella casa storica di Roma, una mansarda, ho il ricordo preciso di lui che, un giorno, parla dalla finestra del senso della vita con i gabbiani. Un vero e proprio testamento spirituale».

Perché non vi siete mai sposati?

«Bella domanda... Quante volte l'abbiamo detto e poi mai fatto. Forse perché è semplicemente stato giusto così».

Ti manca Marco?

Sta in silenzio Mirella prima di rispondere. «No perché ho un approccio senechiano alla mancanza. Il mio rapporto con Marco è così profondo che godo per ciò che ho avuto non per ciò che mi manca adesso».

Conoscere per deliberare. La censura ai Radicali non è finita con Pannella. Valter Vecellio su Il Riformista il 13 Febbraio 2022.  

C’è una frase chiave, nel lungo e dettagliato articolo dell’amico Andrea Pugiotto (“Giustizia, cannabis, eutanasia, può nascere un’Italia 2.0”, “Il Riformista 9 febbraio): «Conoscere serve a deliberare». Le stesse parole che si possono trovare nelle prime pagine di un libro straordinario, Le prediche inutili di un grande politico, economista e presidente della Repubblica, il liberale Luigi Einaudi. Proprio Conoscere per deliberare è il titolo del capitolo primo di quel libro: «…Dico solo: non sappiamo nulla e alle nostre deliberazioni manca il fondamento primo: conoscere. Giova deliberare senza conoscere?…».

Le Prediche inutili Einaudi le pubblica a dispense, dalla fine del 1955, le riunisce in volume nel 1959. Moniti che non hanno perso attualità, e in particolare quello sul diritto alla conoscenza. Ancora: «…gli uomini liberali e quelli socialisti (o radicali, o progressisti)… vogliono medesimamente che l’uomo sia libero di pensare, di parlare, di credere senza alcuna limitazione, sono parimenti persuasi che la verità si conquista discutendola…». Se ne può ricavare che chi non coltiva questa aspirazione, alla conoscenza, alla verità conquistata con discussione e confronto, non è propriamente liberale (o socialista, o radicale, o progressista). Soprattutto si ricava che una democrazia si fonda su due pilastri, senza i quali affonda: la certezza del diritto; e il diritto alla conoscenza. L’uno nutre l’altro; l’uno presuppone l’altro. L’uno muore, se manca l’altro. Per tornare all’amico Pugiotto, al suo auspicio: c’è il serio rischio che la nascita dell’auspicabile “Italia 2.0” si traduca in aborto: che invece di una nascita si debba certificare un decesso.

Quello attuale è un mondo con una pluralità di fonti informative come mai in passato è accaduto di averne. Una Babele in cui non è facile orizzontarsi; e finché si tratta di un privato, gli va pure riconosciuto il diritto, entro determinate “cornici”, di fornire l’informazione che crede. Discorso diverso per il cosiddetto “servizio pubblico”: ha evidentemente maggiori doveri, rispetto ai “privati”. I numerosi dirigenti dell’ente radio-televisivo pubblico: la presidente Marinella Soldi; l’amministratore delegato Carlo Fuortes; i consiglieri di amministrazione Simona Agnes, Francesca Bria, Igor De Biasio, Alessandro Di Majo, Riccardo Laganà; ma anche tutti gli altri dirigenti, quelli che “lavorano” e “governano” quell’immensa macchina informativa/culturale: Diego Antonelli, Gaetano Barresi, Maria Berlinguer, Alessandro Casarin, Stefano Coletta, Antonio Di Bella, Franco Di Mare, Monica Maggioni, Andrea Montanari, Mario Orfeo, Sigfrido Ranucci, Gennaro Sangiuliano, Roberto Sergio, Andrea Vianello… Non c’è dubbio che sappiano bene di essere alla guida di un qualcosa che si chiama “servizio pubblico”. Il discorso a loro è rivolto. Peter Hacks, nel suo Il mugnaio di Potsdam: una commedia borghese fa dire al suo protagonista: «Ci sarà pure un giudice a Berlino!»; un giudice che riconosce il suo diritto, contro l’abuso dell’imperatore.

I radicali-mugnai quel giudice lo hanno trovato a Strasburgo. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Cedu) certifica, nero su bianco, che la lista Marco Pannella è vittima di quello che, senza tema di smentita, si può definire un “connotato antidemocratico”. Lo fa con due sentenze. Una, più particolare, relativa alla soppressione delle tribune politiche: l’Italia è condannata per mancanza di ricorso effettivo. L’altra, più generale, condanna l’Italia per violazione del diritto della Lista Pannella a poter comunicare le proprie proposte e analisi attraverso i media. Già questo solo giustificherebbe momenti di riflessione, dibattito, confronto: non è solo la “mania” esasperata di un singolo (Marco Pannella), o di un manipolo di sodali (il Partito Radicale), che denunciano e lamentano da anni censure, discriminazioni, violazioni deontologiche. Ora lo dice anche la Cedu; a questo punto converrebbe davvero fermarsi un momento e pensarci sopra: vedi mai che Pannella (quand’era vivo), e oggi Maurizio Turco, Marco Beltrandi e gli altri radicali, abbiano ragione; che il loro dire, le loro denunce un fondamento? Un dubbio, almeno, lo si dovrebbe coltivare.

Dicono: «evidente che la censura, nel corso dei decenni ha colpito innanzitutto Pannella. Censura che non è terminata con la sua scomparsa, ma si è aggravata nei confronti del Partito Radicale. Questa sentenza è la prova provata di un regime che trova la sua forza usando a proprio piacimento e convenienza il manganello dell’informazione, in continuità con il regime precedente, si sono solo affinate le tecniche». Dovrebbero saperne qualcosa, nei vari piani del palazzone di viale Mazzini. Copia di quella sentenza dovrebbe esser stata loro recapitata. Non saranno gli attuali “inquilini” i responsabili delle censure condannate dalla Cedu, loro non c’erano ancora. Ma quelle censure, quelle discriminazioni, pervicacemente durano, si perpetuano. Per quelle di oggi, sì, una loro responsabilità c’è.

Quello che è accaduto in passato costituisce un danno che per quanto sia stato sanzionato anche economicamente, non è certo sanabile. Come quantificare il danno a una campagna politica per la mancata informazione? Come risarcire il mancato conseguimento di un obiettivo perché la pubblica opinione non è stata messa nelle condizioni di conoscere, ed einaudianamente, poter deliberare?

La condanna risale al 31 agosto 2021. È stata emessa all’unanimità. Cos’è cambiato, da allora? La vicenda si riferisce alla mancata partecipazione di esponenti radicali nel periodo 1 aprile – 3 giugno 2010 (“Lento pede”, più di dieci anni fa!), ai programmi Porta a Porta (Rai Uno), Annozero (Rai Due) e Ballarò (Rai Tre): all’epoca, i più importanti programmi di approfondimento politico del palinsesto della Rai. Un po’ di storia, a questo punto fa bene: tutto nasce da un esposto presentato all’Agcom dalla Lista Pannella, per il mancato rispetto degli obblighi in materia di pluralismo informativo da parte delle emittenti televisive Rai. L’Agcom archivia non rilevando alcuna specifica sottopresenza della Lista Pannella rispetto ad altre forze politiche che, al pari di quest’ultima (secondo l’autorità di vigilanza), erano prive di rappresentanza parlamentare.

Segue impugnativa dinanzi al Tar Lazio: che accoglie il ricorso, e ordina all’autorità di vigilanza di rivalutare l’esposto; in particolare si deve tenere conto che: a) la Lista Pannella è un “soggetto politico”, dunque non paragonabile ad altre forze politiche non rappresentate in Parlamento (alcune delle quali hanno comunque partecipato ai citati programmi di approfondimento); b) occorre motivare in ordine alle ragioni che inducono l’Agcom, nonostante una numerosi precedenti di segno opposto, a non considerare le trasmissioni oggetto di denuncia come suscettibili di “autonoma considerazione” sotto il profilo del rispetto delle norme in materia di pluralismo informativo. Pervicace, l’Agcom, con una nuova delibera conferma l’archiviazione.

Nuovo ricorso al Tar Lazio, per ottenere la nullità della nuova delibera dell’Agcom; il Tar accoglie il ricorso, e dichiara nullità la nuova delibera; concede all’Agcom trenta giorni di tempo. A distanza di tre anni dall’esposto, l’Agcom – rilevato che «il programma Annozero è cessato e che, stante la riconosciuta autonoma considerazione dei tre programmi de quo, non può essere disposta la partecipazione degli esponenti ad altro programma analogo» – ordina alla Rai di invitare l’associazione ricorrente ai programmi Porta a porta e Ballaró entro il termine di conclusione annuale del ciclo (2013) di ciascun programma. La Rai si limita ad assicurare la partecipazione dell’on. Rita Bernardini, nel solo programma Porta a Porta; non si dà, quindi completa esecuzione alla delibera, l’Agcom omette di attivarsi per garantire l’ottemperanza della sentenza del Tar. A questo punto, interviene la Cedu. Stabilisce che l’Agcom ha disatteso il suo costante orientamento; segue la condanna della Rai. Valter Vecellio

Scompare all'età di 95 anni. Chi era Angiolo Bandinelli, poeta tra i fondatori del Partito Radicale. Gianfranco Spadaccia su Il Riformista l'8 Febbraio 2022. 

Con Angiolo Bandinelli scompare all’età di 95 anni un militante e dirigente radicale di lungo corso, del ristretto gruppo che – con Marco Pannella – contribuì nei primi anni sessanta a rifondare il Partito Radicale facendone l’indiscusso protagonista, nei due successivi decenni, della rivoluzione laica. culturale e politica, dei diritti civili. Fra i compagni e gli amici di quel gruppo, Angiolo per me è stato quello con il quale il coinvolgimento nelle rispettive vite è stato, da parte di entrambi, più forte e significativo portandoci a condividere i momenti felici come quelli tragici che accompagnano ogni esistenza. Con Marina siamo stati dolorosamente partecipi prima del suo lutto per la morte del figlio Luca, poi, più avanti nel tempo, per la perdita della moglie Heather.

La lunga malattia mi aveva preparato alla sua morte ma il momento del distacco è sempre molto doloroso. L’ultima volta che l’ho visto è stato per consegnargli una copia del mio libro dedicato a sessanta anni di lotte radicali, delle quali è stato uno dei protagonisti. Fu molto contento che fossi riuscito a portarlo a compimento, vincendo le mie insicurezze e la mia pigrizia e che avessi trovato un editore importante come Sellerio per la sua pubblicazione e distribuzione. Fra i tanti episodi che abbiamo condiviso, mi piace qui ricordarne due: il primo, un giorno del 1968, in cui ci recammo a garantire con i nostri modesti stipendi di allora, lui di insegnante, io di giornalista alle prime armi, il contratto di affitto della nostra nuova sede di Via di Torre Argentina 18; il secondo, qualche anno prima, nel 1962, quando andammo a impaginare in tipografia una rivistina – oggi si direbbe una news letter – “Sinistra Radicale”, che prendeva il nome dalla corrente che avevamo costituito nel primo Partito Radicale, il cui nome veniva sempre affiancato al prestigioso settimanale Il Mondo diretto da Mario Pannunzio a cui Angiolo collaborava.

In essa pubblicavamo la mozione con cui proponevamo ai partiti laici e alla maggioranza del nostro partito di perseguire una politica di alternativa laica alla DC, basata sui diritti civili con al centro la battaglia per l’introduzione del divorzio in Italia. La Voce Repubblicana, un giornale amico (ci siamo considerati a lungo lamalfiani), stroncò la nostra proposta con un corsivo irridente, in cui eravamo considerati degli irrealisti e dei visionari. Invece vedevamo bene se otto anni dopo il divorzio divenne legge dello stato e dodici anni dopo fu confermato nel referendum dal 60% degli italiani proprio grazie a una unità laica di cui anche i repubblicani facevano parte. La secolarizzazione del paese e il suo ammodernamento, la sua laicità e per molti versi la sua liberalizzazione avvennero su impulso di un piccolo partito, estraneo a qualsiasi posizione di potere e combattuto non solo dalle forze politiche di governo ma anche da quelle di opposizione e che, per affittare la propria sede, aveva bisogno della garanzia dello stipendio di due suoi militanti.

Angiolo non è stato solo un militante, è stato anche più volte tesoriere, segretario e parlamentare radicale. E fu in particolare il segretario che, per la prima volta, nel 1971/72. riuscì a superare la soglia dei 1000 iscritti (oltre 1300). È stato protagonista delle lotte per la fame nel mondo, della successiva trasformazione, con il simbolo di Gandhi, del partito in transnazionale e transpartito, dei tentativi di riformare lo Stato democratico riconquistando condizioni di legalità e al contempo di stabilità e governabilità democratica. Ma sarebbe fargli un torto ridurre la sua personalità e la sua cultura alla sola dimensione della politica. Io l’ho conosciuto prima che come militante radicale e della sinistra radicale, come autorevole collaboratore del Mondo di Pannunzio.

È stato un letterato, un saggista, un traduttore ed è stato un poeta, un vero poeta: la sua traduzione de La landa desolata di Eliot è contemporaneamente una ottima traduzione e una complessa e riuscita impresa poetica. A volte ho avuto addirittura l’impressione che la passione e l’impegno politico ne abbiano limitato le qualità letterarie e impedito il successo che avrebbe meritato. Fino all’ultimo, anche quando non era più in grado di uscire di casa, continuava a farmi recapitare i suoi piccoli libri di ricordi e di poesie. Il suo grande desiderio, perseguito con amorevole costanza è stato, anche di recente, quello di assicurare una giusta collocazione presso i musei di arte moderna e contemporanea alle opere del padre Aldo, noto illustratore e pittore della “Scuola romana”, nei confronti del quale Angiolo ha sempre avuto una ammirazione che andava oltre l’amore filiale. Grazie Angiolo per quanto ci hai dato e un abbraccio ad Aldo e a Cristina che fino all’ultimo ti sono stati vicini. Gianfranco Spadaccia

Il filosofo e il leader radicale. Spes contra spem, da Capitini a Pannella. Enzo Musolino su Il Riformista il 4 Febbraio 2022. 

Aldo Capitini è filosofo ricco di suggestioni teoretiche, e di questo fu senz’altro consapevole Marco Pannella che proprio dal lessico capitiniano trasse la prassi Nonviolenta del metodo “radicale”. In un connubio indissolubile tra Azione Nonviolenta, impegno civile, e riflessione mai paga delle acquisizioni ideologiche, Il Male, la Morte e l’Ingiustizia diventano, progressivamente, l’obiettivo polemico e irriducibile di questa Prassi Mistica, la ragione di vita di questo pensatore tanto “cattolico”, cioè universale, quanto eterodosso. E ciò è evidente nel continuo travaso di responsabilità, di dibattito e di confronto che porterà Aldo Capitini, nel corso degli anni, ad approfondire il suo Liberalsocialismo (quello teorizzato insieme a Guido Calogero nel Manifesto del 1940) fino a giungere all’Omnicrazia, al Potere di Tutti, alla suggestione di una democrazia davvero sociale.

Quelli che seguono sono i testi “religiosi” della peculiare filosofia politica di Aldo Capitini: Elementi di un’esperienza religiosa del 1937, Religione Aperta del 1955, La Compresenza dei morti e dei viventi del 1966. E da tutti emerge il culto della laicità intesa come fede in altro rispetto al clericalismo di potere. Si realizza così, nella battaglia per il mutamento sociale nel senso della partecipazione popolare, quella dualizzazione dell’immanenza che fa emergere come costitutiva dell’autentico umano la frattura feconda tra essere e dover essere, quella coazione al salto, al meglio, non garantita da una Trascendenza tradotta da una sola Chiesa.

Uno sprone che è servito a Marco Pannella per arricchire lo storicismo crociano, per liberarlo dall’istinto conservativo, generando così l’intuizione di Spes contra Spem. Utilizzando, quindi, il testo paolino (Lettera ai Romani, 4,18) per farsi carnalmente – attraverso il corpo resistente opposto al potere – Speranza viva, Soggetto, contro ogni “cosa” meramente “sperata” e oggettivizzata nel sogno e nella rassegnazione. In tale contesto, anche l’idea capitiniana dei Centri di Orientamento Sociale come alternativi alla partitocrazia, la stessa mancata adesione di Capitini al Partito d’Azione, inteso come declinazione moderata – frenata – del lavoro politico necessario per giungere al “massimo di socialismo e, insieme, al massimo di libertà”, ha senz’altro influito sulla pratica transpartitica di Marco Pannella e dei radicali. Transpartito che, appunto, rigetta come impropria e illiberale la riserva identitaria nella “casa sicura” dei congiurati, spingendo oltre – fino a “rompere” la forma dell’Istituzione tipica del Palazzo – per giungere alla contaminazione feconda tra diversi.

Non si tratta, quindi, di ipostatizzare la Terza Via in un Partito preciso ma di fecondare la contrapposizione epocale Destra/Sinistra, arricchendola di senso e sollecitando la scelta di campo responsabile, una dialettica “radicale” mai radicalista. In questo, la prassi Capitiniana del riconoscimento nel Tu-Tutti – anche come declinazione nuova e feconda del teismo e, quindi, della personalità di Dio diffusa nei volti di chiunque – diviene la pratica della Compresenza, di un’unità e comunanza che trascende spazio, tempo, destino e morte. Il Prossimo, il derelitto, il carcerato, il dimezzato, l’escluso, il drogato, l’emarginato, il ghettizzato, il cattivo, financo il “mafioso” – insieme a tutti i viventi e ai morti – concorrono alla generazione continua dei “valori”, all’aggiunta – storica ed eterna assieme – che si arricchisce di ogni nuova nascita al mondo, che determina nella vita, nella battaglia, nell’errore, nella verità e nella conversione ciò che conta, ciò che dura e che resiste.

L’uomo non può essere inchiodato per sempre al “fatto”, perché – ben oltre la dittatura dell’accaduto – è sempre capace dell’atto nuovo, dell’atto che rimedia e che salva, della promessa e del perdono. Ecco perché, a me pare, Nessuno tocchi Caino agisce ancora oggi sotto l’egida di questa “Compresenza” (va ricordata la campagna di adesione che nel 2021 ha rigenerato – nell’afflato politico della militanza – la vita e la morte di Aldo Moro, di Leonardo Sciascia, di Mariateresa Di Lascia e, appunto, di marco Pannella), perché l’ultima violenza da sconfiggere è proprio il destino apparentemente “naturale” di morte, anche della morte instillata dal Leviatano per carcere e galera.

La violenza di un limite che si rappresenta come invincibile e che, invece, ci dice Aldo Capitini, non è definitiva, non è davvero confine per l’uomo che ha solo da scegliere l’opzione Nonviolenta, per giungere alla consapevolezza che, morta la violenza, vivrà davvero persino la morte: «[…] Quando dirai una parola, sarai infinitamente in essa, anche umile; vivrai così la vita del verme, del nido, del sospiro, del silenzio. E la morte vivrai, se davanti ad essa non ci sarà nulla in te che si distacchi dalla sua presenza […]» (Capitini, Atti della presenza aperta). Enzo Musolino

Follie, conquiste, sconfitte. Spadaccia racconta 50 anni di battaglie radicali da dentro. Andrea Pugiotto su Il Riformista il 24 Dicembre 2021. Bisogna leggerle fino in fondo le 758 pagine che Gianfranco Spadaccia dedica alla parabola politica del partito con la Rosa nel Pugno (Il Partito Radicale. Sessanta anni di lotte tra memoria e storia, Sellerio, 2021). Una lettura, peraltro, di agevole fruizione: perché la penna è quella del giornalista che conosce il mestiere e sa mettere in ordine i fatti, anteponendo la cronaca al commento. Così, attraverso l’acribiosa ricostruzione della «lunga marcia dei radicali» (Stefano Folli, Robinson, 18 dicembre), ciò che scorre sulle pagine è anche il racconto di un’«altra Italia possibile» (Marcello Sorgi, La Stampa, 10 novembre) e delle ragioni che l’hanno resa impossibile.

Quella di Spadaccia, però, è anche la penna del protagonista che «attraverso il filtro della memoria» offre al lettore chiavi interpretative (originali, spesso critiche, mai agiografiche) di una vicenda politica quasi integralmente sovrapponibile alla propria vita. È il valore aggiunto del libro, altrimenti solo storiografico. Quanto al ruolo dell’Autore valgono, alla lettera, le riflessioni sulla condizione del “vice” svolte da un compagno di strada dei radicali (Adriano Sofri, Reagì Mauro Rostagno sorridendo, Sellerio 2014, 22-23): tanto Pannella è stato indiscutibilmente il leader radicale, quanto Spadaccia ha coltivato «l’aspirazione a non primeggiare». Sempre presente e spesso in ruoli di responsabilità, ha preferito per sé un secondo posto che non è sinonimo di mediazione perché Spadaccia, da radicale, «non è uomo da vie di mezzo». La sua è stata una «predilezione per la medaglia d’argento», nella consapevolezza che «essere il primo riduce drammaticamente la libertà» alla quale, invece, Spadaccia non ha mai inteso rinunciare, fino a interrompere il cammino comune con un partito che pure aveva contribuito a fondare nel lontano 1955.

Si può dire con un ossimoro: nella storia radicale, la sua è stata una centralità laterale, condizione condivisa con altri dirigenti storici della Rosa nel Pugno, dei quali il volume restituisce vividamente le opere e i giorni. Così come, dalle sue pagine, emerge a tratti un Marco Pannella che non ti aspetti, la cui vita ha conosciuto tornanti difficili, rivelatori della «fragilità che si poteva nascondere dietro tanta apparente forza e sicurezza». Il solo modo per rispettare un libro è usarlo. In questo caso, suggerisco di farlo con quelle pagine che aiutano a comprendere molte intuizioni radicali, da riscoprire e reinterpretare perché di permanente attualità. In ciò il volume di Spadaccia è come una preziosa cassetta degli attrezzi da cui estrarre strumenti per il rinnovamento della politica, ora come allora.

Vale, innanzitutto, per la forma che il Partito Radicale sceglie di darsi fin dal 1966, attraverso uno statuto concepito come «carta teorica di organizzazione». Ispirato all’esperienza politico-universitaria dell’U.N.U.R.I. e del Labour britannico, traduce in regole interne una concezione democratica, libertaria e partecipativa dell’associazionismo politico totalmente sconosciuta in Italia, ponendo l’accento sulla sua natura federativa, sull’autofinanziamento, sulla pubblicità dei bilanci, sull’autonomia delle proprie articolazioni (regionali, di scopo, parlamentari). Un partito a cui chiunque può aderire e dal quale nessuno può essere espulso, che per questo non conosce probiviri né delegati perché sono gli iscritti, attraverso la loro partecipazione diretta e volontaria, ad eleggere in congresso i suoi organi esecutivi: segretario, tesoriere, consiglio federativo.

Abissale è la distanza dalle regole e dalle prassi degli attuali partiti. Il confronto politico interno e le relative deliberazioni vincolanti per gli organi statutari sono assunte dal congresso, annuale e convocato a data fissa. È possibile la doppia tessera, perché l’adesione richiesta è su specifiche battaglie di scopo, non per appartenenza ideologica. È garantita l’autonomia del gruppo parlamentare, in attuazione dell’art. 67 della Costituzione che vieta il vincolo di mandato e nel rispetto di un’altrettanto costituzionale divisione di ruoli: agli eletti le scelte circa la politica di governo, al partito le scelte relative alla politica nazionale. Si trattava di una forma-partito alternativa ai due modelli a lungo dominanti: il centralismo democratico del PCI; l’articolazione della DC in correnti tra loro in competizione per il controllo del partito. Un’organizzazione statutaria testardamente proposta alle forze laiche come all’intera sinistra, politica e sindacale. Inutilmente.

Questo «disordinare il partito nella prassi, negli strumenti e negli statuti» – come recitava la mozione congressuale del 1976 – era strumentale a un’altra novità: fare politica attraverso single-issues su cui acquisire consenso trasversale, affidate a realtà associative federate al partito. Da qui la costellazione di acronimi, ad indicare i soggetti radicali impegnati nelle battaglie di scopo spesso imposte all’agenda politica e parlamentare: la lotta per il divorzio (LID), per la liberazione delle donne (MLD), per l’obiezione di coscienza alla leva (LOC), per l’abrogazione del Concordato (LIAC), per la legalizzazione dell’aborto (CISA), per la liberazione omosessuale (FUORI), per l’antiproibizionismo sulle droghe (CORA), per la Costituente democratica (ARCOD), per la libertà linguistica attraverso l’esperanto (ERA), contro la pena di morte nel mondo (NTC), per la promozione dei diritti umani e della democrazia attraverso la giustizia internazionale (NPWJ), per la libertà di ricerca scientifica e per le scelte di fine vita (ALC).

Obiettivi diversi, strategia comune: rompere il silenzio e la solitudine di condizioni soggettive fuorilegge, condannate per questo all’illegalità e alla clandestinità; farle affiorare rendendole visibili; restituirle infine al diritto. Nessun afflato testimoniale: anche i nomi che le hanno incarnate (Cicciomessere, Pezzana, Conciani, Tortora, Coscioni, Welby, tra gli altri), hanno sempre inteso condurre battaglie politiche. Nessun atteggiamento extraparlamentare: semmai la caparbia volontà – attraverso l’iniziativa politica, il dialogo, la nonviolenza – di ottenere leggi, anche quando non si è rappresentati in Parlamento. Partito di minoranza ma non d’èlite, attraverso questo fare politica i radicali hanno dimostrato «la capacità espansiva di estendere nuovi diritti di cittadinanza a soggetti, ceti, classi sociali che ne erano esclusi».

Anche le battaglie radicali non coronate da successo restano, comunque, gravide di intuizioni che il libro di Spadaccia aiuta a riscoprire. Vale per l’obiettivo, fallito, di trasformare il Partito Radicale in una forza politica transnazionale e transpartitica, in grado di presentare «allo stesso giorno, alla stessa ora, nella stessa forma e con gli stessi contenuti, analoghi testi legislativi nel maggior numero di Parlamenti» (come recitava la mozione del congresso di Budapest del 1989). È una vocazione presente ciclicamente nella storia radicale. Già nel 1960, la Sinistra Radicale propone una «Norimberga per l’Algeria», anticipatrice delle successive campagne per l’istituzione di forme di giustizia penale internazionale. Dal 1980 e per quasi sette anni – ricorda Spadaccia – la lotta contro la fame nel mondo rappresenterà «una priorità assoluta dei nostri programmi, delle nostre attività, delle nostre stesse vite, quasi un’ossessione». Radicale è il referendum consultivo per conferire al Parlamento europeo poteri costituenti, poi votato nel 1989. E ancora: le iniziative per la promozione dell’Organizzazione Mondiale delle Democrazie, per l’ingresso di Israele nell’UE, per gli Stati Uniti d’Europa.

Il progetto ambizioso «di dar vita non a una organizzazione inter-nazionale ma a un partito trans-nazionale», concepito al Congresso di Bologna del 1988, non ha mai visto realmente la luce: nonostante il nuovo simbolo ghandiano, i consigli generali itineranti nelle capitali, le sedi di partito aperte nel mondo, il proselitismo nei paesi ex-sovietici che si affacciavano alla democrazia, lo status di ONG presso le Nazioni Unite (che farà del Partito Radicale la tribuna internazionale di minoranze oppresse e popoli non rappresentati), i caduti sul campo (Antonio Russo, Andrea Tamburi). Nell’analisi di Spadaccia, è stato uno sforzo militante generoso ma intermittente, non condiviso da tutti nella comunità radicale, insostenibile per i costi economici, privo di «una elaborazione teorica adeguata alle difficoltà che si sarebbero dovute affrontare e alle ambizioni che si volevano perseguire». Il colpo di grazia arriverà con l’esclusione dai Parlamenti europeo e italiano, che priverà i radicali di sedi politiche necessarie per incidere sui processi internazionali. Incapace di rientrare nella propria legalità statutaria, dal 2003 il PRNTT «non ha più avuto un segretario e neppure, di conseguenza, una propria vita democratica, associativa e militante».

Eppure, da questa sconfitta sono nati successi di rilievo. L’affermazione di un principio di ingerenza umanitaria che, in nome dell’universalità dei diritti umani, rompe il tabù della sovranità degli Stati nazionali, a Sarajevo come nei paesi affamati dell’Africa. L’aver anticipato la globalizzazione che, per essere governata, esige «istituzioni, poteri democratici, diritto positivo e leggi sovranazionali». Lo Statuto di Roma che istituisce la Corte penale internazionale permanente per i crimini di guerra e contro l’umanità. La politica dell’ONU per la moratoria della pena capitale, in vista della sua abolizione universale. Il riconoscimento, ancora in fieri, del diritto alla conoscenza quale nuovo diritto umano fondamentale.

Quella radicale, insomma, è stata una «politica visionaria», intesa come «capacità di comprendere con anticipo la direzione di sviluppo dei processi storici». Vale anche per le iniziative del Partito Radicale nello scacchiere italiano, ripercorse nel libro fino alle elezioni politiche del 2013. Sono tante tessere che, ricomposte, disegnano un’«alternativa radicale» tenacemente perseguita nelle diverse fasi politiche: contro il clericalismo e lo statalismo democristiani, per «l’unità laica delle forze» (contrapposta alla subalterna «unità delle forze laiche»), contro l’asfissia politica del compromesso storico, per una trasformazione delle istituzioni e del sistema politico in senso anglosassone (a partire dalla regola elettorale, specchio di come la democrazia si organizza), fino all’assunzione della illegalità costituzionale come la vera «peste italiana».

Per Spadaccia, resta valida e attuale l’analisi radicale della storia repubblicana italiana come «processo di degenerazione partitocratica delle istituzioni» verso una democrazia illiberale, approdo ora accelerato da tutti gli “ismi” del presente: giustizialismo, sovranismo, nazionalismo, populismo. A tale deriva occorre contrapporre, appunto, una radicale alternativa: quella di una democrazia possibile, «fondata sulla libertà di associazione e di partecipazione, sulla libertà di informazione e conoscenza, sulla libertà delle persone, soprattutto sul rispetto del diritto e della legge come forma suprema di legittimità delle istituzioni».

Chi raccoglierà il testimone? Spadaccia è scettico verso ciò che resta del partito della Rosa nel Pugno. Una sfiducia non dettata da ragioni personali («Non sono fra coloro che dopo una rottura cancella con facilità anche i legami e gli affetti del passato») ma da motivi politici. Un unico Partito Radicale non esiste più. La sua galassia è implosa allo spegnersi del suo sole. I suoi soggetti, dapprima separati in casa e poi divorziati con reciproco addebito, producono ancora lotta politica per grandi obiettivi: carcere e giustizia, diritti dei migranti e antiproibizionismo, libertà di ricerca e scelte di fine vita. Ma oramai, diversamente dal passato, fuori da «una strategia e da una visione generale di riforma delle istituzioni democratiche». Game over, dunque?

La prospettiva e l’intenzione di sciogliersi è sempre stato un orizzonte per un partito che si chiami radicale. Spadaccia lo testimonia: «Volevamo essere non i conservatori di noi stessi ma i protagonisti insieme ad altri di un nuovo, più vasto movimento, partito o schieramento»: socialista, liberale, laico, federalista europeo, ambientalista, libertario. Ed è probabile che Marco Pannella desiderasse, post mortem, che di sé «non restasse nulla ad eccezione della sua voce» tuttora diffusa da Radio Radicale (come scrive Massimo Teodori, Il Sole 24 Ore, 28 novembre).

Può darsi. La biodegradabilità dell’organizzazione politica radicale è tra le cose possibili, perché «l’eredità di Pannella è il suo pensiero. Il resto è volar di stracci» (così Angelo Bandinelli, in apertura del volume). Purché un simile disarmo unilaterale non travolga, però, quel «saper dichiarare e agire per gli altri senza diventare “altri”» che è sempre stata «la generosità della politica radicale» così ben raccontata da questo libro. Andrea Pugiotto

«Bernardini è pregiudicata». La Fondazione Pannella la esclude dal Cda. Condannata, come Pannella, per le sue disobbedienze, secondo una prassi amministrativa non rivestirebbe i requisiti di onorabilità per ricoprire il ruolo. Maria Brucale su Il Dubbio il 5 maggio 2022.

L’Uno agosto 2020, Maurizio Turco, Presidente della Lista Marco Pannella, nel richiamare i sostenitori del Partito Radicale a dare sostegno economico per la sperata costituzione della Fondazione Pannella, così scriveva: «Crediamo che sia un atto dovuto a quei pochi e spesso ignoti che hanno animato le grandi lotte per le riforme in questo paese e sul pianeta, per costruire una ipotesi di vita e di società più libera. Ma è anche un atto voluto nei confronti di coloro che verranno perché conoscano cosa sono stati e cos’hanno fatto Marco Pannella e il Partito Radicale. Su una cosa, credo, siamo tutti d’accordo: del pensiero, delle idee, delle proposte, della visione di Marco Pannella c’è sempre più bisogno e urgente necessità’.

Sì, su questo siamo tutti d’accordo. La Fondazione Pannella ha il senso della storia e della memoria di quei compagni, di quelle battaglie.

Dall’obiezione di coscienza all’aborto, al divorzio, all’eutanasia legale, all’uguaglianza di genere, alla cannabis terapeutica. Dalla visione di un cambiamento sociale necessario, all’inverarsi di un’utopia attraverso la disobbedienza civile, il disvelamento delle ipocrisie di sistema, violando norme, anche penali, figlie di un’etica non accettata o non più accettata, afflittiva, castrante. Disobbedire per essere, a proprio rischio, strumento di trasformazione dell’esistente, portando davanti ai giudici azioni ancora valutabili come criminose per rendere vistosa, struggente, l’iniquità delle previsioni normative, ponendo sé stessi nella condizione di indagati, di imputati, di condannati, affrontando l’alea dei processi, accettando la possibilità della privazione della propria libertà, per forzare con la nonviolenza le leggi a trasformarsi, a recepire un’evoluzione che già è, per la dignità delle persone tutte, per le libertà di ognuno. Una storia gloriosa che continua grazie a persone come Rita Bernardini, già deputata, oggi Presidente di Nessuno Tocchi Caino, sempre accanto a Marco Pannella nelle disobbedienze, nell’affermazione, con la lotta nonviolenta, di un concetto di Giustizia che non si ferma mai davanti a quello di legalità, sensibile al tempo, destinato a sfibrarsi, a logorarsi, a mutare, a disperdersi.

Oggi la Fondazione Pannella voluta dai membri della Lista Pannella, Maurizio Turco, Rita Bernardini e Aurelio Candido, è pronta per nascere, per essere riconosciuta come soggetto giuridico ma c’è un problema. La Prefettura di Roma non ama i disobbedienti e, in fondo, nemmeno le regole codificate. Aderendo a una prassi amministrativa, ritiene che Rita Bernardini, condannata, come Pannella, per le sue disobbedienze per la legalizzazione della cannabis, non rivesta i requisiti di onorabilità per far parte del Cda di una fondazione.

Incredibile, vien da pensare. Certo gli altri membri del Cda difenderanno con ogni fibra l’essenza del pensiero radicale. Apriranno confronti serrati, chiameranno a raccolta i compagni, ragioneranno su come contestare quel provvedimento balordo, alzeranno la voce a protezione di un passato che non può essere tradito nel supino genuflettersi al volere prefettizio, valuteranno quali iniziative legali o azioni giudiziarie intraprendere, faranno fronte comune di protesta e faranno scudo attorno a Rita, la designeranno Presidente ad honorem della Fondazione, perché escluderla dal Cda non sarebbe soltanto disconoscere il suo impegno di una vita, il suo essere carnalmente espressione di quegli ideali ma rinnegarli, sconfessarli, ripudiarli. Invece no.

A fronte del veto di prima istanza della Prefettura consistito in un: si ritiene che Rita Bernardini non rivesta i caratteri necessari di onorabilità, si chiede a Rita di dimettersi, di fare un passo indietro per amore della Fondazione. Ma è una scelta che Rita non può operare, non può e non deve perché la disobbedienza è sostanza di azione radicale, ne rappresenta il potere dialogico, il portato storico, la pregnanza ideologica. Le libertà di cui godiamo e quelle che aspiriamo a vedere riconosciute sono figlie di quelle disobbedienze. Lasciare la Fondazione per volere prefettizio, espressione di quella potestà amministrativa assai spesso prossima all’arbitrio, contestata da sempre con vigore dal Partito Radicale con la pretesa di norme leggibili, decisioni motivate e controllabili, che il cittadino possa governare, non subire, sarebbe rendere quella Fondazione non il tempio di un sentimento vitale, continuo e appassionato ma soltanto un museo delle cere, dove custodire un passato glorioso, qualcosa che è stato ma non è più. Il Cda della Fondazione delibera, allora, la decadenza di Rita Bernardini dal suo ruolo e ne dispone la sostituzione con Sergio Ravelli.

Incredibile, davvero. La Fondazione Pannella caccia i disobbedienti.

Proprio Marco Pannella, con le sue numerose condanne, medaglie al valore nella conquista delle nostre libertà, ne sarebbe stato estromesso, escluso come ciò che la disobbedienza civile rappresenta: il respiro lungo di una vocazione politica che apre le porte dei diritti ai più vulnerabili, ai più disagiati, agli ultimi, che non vede mai qualcuno come diverso ma ognuno come unico, che accoglie, che costruisce, che spera. (AVVOCATO DEL DIRETTIVO DI NESSUNO TOCCHI CAINO)

Il caso della radicale. Chi è Rita Bernardini, l’erede di Marco Pannella che lotta per i nostri diritti. Maria Brucale su Il Riformista il 3 Maggio 2022. 

«Coltivare e detenere cannabis con la specifica finalità di erogarla a soggetti che abbiano diritto di assumerla a scopo terapeutico non può in alcun modo interferire con il mercato della droga e con la circolazione di quest’ultima a scopo ricreativo (con tutte le implicazioni criminogene che esso implica), né può minare la sicurezza e l’ordine pubblico o mettere in pericolo le nuove generazioni, perché, al contrario, questo tipo di condotta si inserisce, semmai, nell’ambito della concreta attuazione del diritto alla salute ex art. 32 Cost, diritto fortemente compromesso dal fatto che il SSN distribuisce la sostanza ai malati sotto forma di farmaci di vario tipo (per esempio il Bedrocan) ma a condizioni economiche proibitive». Così conclude la Seconda Sezione della Corte d’Appello di Firenze nel ribadire l’assoluzione espressa già nei confronti della disobbediente Rita Bernardini, difesa dall’avvocato Giuseppe Rossodivita, dal Tribunale di Siena.

Tra le righe della motivazione sembra di scorgere, nemmeno troppo nascosto, il plauso per l’operato di chi combatte una battaglia politica con la disobbedienza civile conquistando diritti di rango costituzionale non adeguatamente tutelati dall’ordinamento. Il principio di offensività in concreto della condotta della persona sottoposta a giudizio deve guidare il giudice del merito al quale è affidato il compito di accertare se l’agire oggetto di valutazione possa essere inalveato nell’ambito del penalmente rilevante incarnando i tratti di pericolosità per il sociale che danno senso e scopo alle fattispecie punitive. L’accusa formulata dai capi di imputazione è cessione di cannabis per la sola Rita Bernardini e di coltivazione finalizzata alla cessione a terzi anche per due coimputati che solo a menzionarli si spezzano le corde della commozione e della memoria: Marco Pannella e Laura Arconti. Una storia d’amore Radicale, d’amore e di disobbedienza, nel segno di una concezione della legalità che non è mai supina accettazione di ogni regola imposta ma ricerca indefessa, coraggiosa, doverosa e convinta dello Stato di Diritto e della Giustizia giusta.

Da Marco Pannella a Rita Bernardini corre un filo di continuità di ideazione e di azione: transitare tutto e tutti nello Stato di Diritto attraverso i segni sulla propria carne degli scioperi della fame per con-vincere; attraverso la violazione consapevole e pubblicizzata di norme disancorate dalla realtà, dal buon senso, dal sentire comune, da fondamenti giuridici sorretti da una tensione ideale di ampio respiro, ispirati ai diritti inalienabili della persona, alla centralità dell’uomo nel sistema costituzionale, alla tutela di tutte le diversità, di ogni vulnerabilità, della libertà piena di ciascuno di fare e di essere ove non confligga con le libertà degli altri. Dall’obiezione di coscienza all’aborto, alla rimozione delle barriere architettoniche a tutela dei diritti delle persone portatrici di handicap, al divorzio, all’eutanasia legale, al pluralismo dell’informazione declinazione del motto radicale “conoscere per deliberare”, alle battaglie di uguaglianza di genere, alla cannabis terapeutica. Storie d’amore per i diritti e per le libertà, di utopie perseguite disegnandone il cammino e rendendole possibili, un passo alla volta, attraverso la lenta e inesorabile affermazione della loro esistenza, della loro accettazione e del riconoscimento sociale, della loro affermazione naturale, della condivisione.

Questa l’azione politica del Partito Radicale di Marco Pannella condotta oggi come allora da Rita Bernardini e da luminosi interpreti fuori e dentro il Partito Radicale. Si pensi a Marco Cappato e a Mina Welby con l’Associazione Luca Coscioni, assolti da processi in cui rischiavano fino a 12 anni di pena detentiva per inseguire il diritto di ognuno di scegliere di morire ove la condizione del vivere sia ormai uno stillicidio di sofferenza e non offra più alcuna speranza, alcuna prospettiva; di salutare con dolcezza la vita e i propri affetti a protezione di un sentire intimo ed esclusivo che appartiene ad ogni persona quale entità unica. La disobbedienza come dovere imposto da un credo politico, dalla coscienza sociale, dalla convinzione di poter essere, a proprio rischio, strumento di trasformazione dell’esistente, commettendo condotte illegali ma giuste, portando davanti ai giudici azioni ancora valutabili come criminose per rendere palese, tangibile, l’iniquità delle previsioni normative, ponendo sé stessi nella condizione di indagati, di imputati, di condannati, affrontando l’alea dei processi, accettando la possibilità della privazione della propria libertà, per forzare con la nonviolenza le leggi a trasformarsi, a recepire un’evoluzione che già è, per la dignità delle persone tutte, per le libertà di ognuno.

Chi vive oggi ha raccolto libertà e diritti conquistati da persone come loro, dai disobbedienti, dai trasgressori, dai sognatori, da chi persegue l’utopia e la invera.

Come Marco Pannella, Rita continua a disobbedire, ad essere processata, a chiedere di essere arrestata quando ritiene che la Procura le riservi un trattamento di favore per smorzare la forza della sua voce, ad incarnare il cambiamento, ad essere Speranza. Tornano in mente le parole della prefazione di Marco Pannella al libro “Underground a Pugno chiuso” di Andrea Valcarenghi riconosciuto da molti come un autentico manifesto del pensiero Radicale: “Brucare o fumare erba non m’interessa per la semplice ragione che lo faccio da sempre. Ho un’autostrada di nicotina e di catrame dentro che lo prova, sulla quale viaggia veloce quanto di autodistruzione, di evasione, di colpevolizzazione e di piacere consunto e solitario la mia morte esige e ottiene. Mi par logico, certo, fumare altra erba meno nociva, se piace, e rifiutare di pagarla meno cara, sul mercato, in famiglia e società, in carcere. Mi è facile, quindi, impegnarmi senza riserve per disarmare boia e carnefici di Stato, tenutari di quel casino che chiamano “l’Ordine”, i quali per vivere e sentirsi vivi hanno bisogno di comandare, proteggere, obbedire, torturare, arrestare, assolvere o ammazzare, e tentano l’impossibile operazione di trasferire i loro demoni interiori (di impotenti, di repressi, di frustrati) nel corpo di chi ritengono diverso da loro e che, qualche volta (per fortuna!), lo è davvero”. “Quando te ne vai – diceva Marco nelle sue ultime ore – bisogna solo poi vedere quanti sono coloro che fanno della tua mancanza nella morte, una tua presenza nella vita”. Rita lo fa, ogni giorno. Regala le sue parole ai sordi, “con un canestro di parole nuove a calpestare nuove aiuole”. Maria Brucale

Il caso. Fondazione Pannella, scaricata Rita Bernardini: follia! Giuseppe Di Federico su Il Riformista il 13 Maggio 2022. 

Di recente si è costituita la fondazione Marco Pannella. Per me, vecchio radicale, è cosa molto bella. Purtroppo ciò che è avvenuto nella composizione del consiglio di amministrazione di quella fondazione è davvero meno bello. Nell’atto costitutivo della fondazione il consiglio di amministrazione era formato da tre persone: Maurizio Turco, segretario del partito radicale, Rita Bernardini e Aurelio Candido. Il prefetto di Roma ha fatto sapere che l’On. Rita Bernardini non poteva far parte dei quel consiglio perché gravata da una condanna penale a due mesi e 25 giorni (con la condizionale) per aver ceduto gratuitamente hascisc in Piazza San Carlo in una manifestazione pubblica con Marco Pannella e il gruppo dirigente radicale.

Un dichiarato atto di disobbedienza civile non violenta. La decisione della prefettura non era motivata con riferimento ad una specifica previsione di legge ma su un orientamento in materia della prefettura stessa (come lo stesso Prefetto ha spiegato alla Bernardini). Gli altri due componenti del CDA per varie ragioni hanno recepito senza fare obiezioni la richiesta del Prefetto. Hanno quindi estromesso l’On. Bernardini dal consiglio di amministrazione della fondazione Pannella e nominato un altro soggetto al suo posto. La vicenda è al contempo surreale e incomprensibile. Surreale perché anche Pannella era stato condannato per lo stesso reato della Bernardini e quindi, se ancora vivo, non potrebbe neppure Lui far parte della fondazione che porta il suo nome.

Incomprensibile se si considera che la decisione di espellere la Bernardini è stata assunta, senza opporre alcuna resistenza al volere prefettizio, col voto del segretario del Partito radicale in evidente contrasto con lo stesso DNA del partito radicale che tra i sui assunti di base ha anche quello della disobbedienza civile pacifica che implica anche la prospettiva di accettare condanne penali in nome del proprio impegno politico (per altro, nel caso della Bernardini, una condanna di soli due mesi e 25 giorni senza detenzione). Per questa ragione l’anno prossimo non rinnoverò la tessera del partito radicale che detengo da oltre 30 anni, sempre che l’assurda ingiustizia non venga sanata. Devolverò il mio contributo a organizzazioni radicali i cui responsabili hanno una maggiore caratura radicale e cioè quella presieduta da Rita Bernardini (Nessuno tocchi caino) e quella di Marco Cappato (Associazione Luca Coscioni).

Due postille.

La prima. Di recente l’On. Bernardini ha subito un nuovo processo per un analogo reato per cui era stata condannata anni fa. Questa volta non solo è stata assolta, ma nella sentenza il giudice ha anche lodato il suo impegno civile. Il lettore non si meravigli. Sono fenomeni alquanto frequenti che certamente non contribuiscono a conferire autorevolezza alla funzione giudiziaria.

La seconda. Già in passato l’On. Bernardini era stata esclusa da una nomina a causa della stessa condanna indicata dal prefetto di Roma. È avvenuto quando il suo nome era stato proposto come garante delle carceri della regione Abruzzo. Nessuno più competente e impegnata di lei per la protezione dei diritti dei detenuti (prolungati e ripetuti sono stati i suoi digiuni, anche insieme a Pannella, per migliorare le loro disastrose condizioni di vita). In quel caso ad opporsi non fu il Prefetto di Roma ma la componete grillina del Consiglio regionale. Davvero una strana accoppiata. Giuseppe Di Federico

·        Quelli …Che Guevara.  

Da ansa.it l'11 marzo 2022.  

Mario Terán, il sergente boliviano passato alla storia per aver sparato i colpi d'arma da fuoco che uccisero Ernesto 'Che' Guevara nel pomeriggio del 9 ottobre 1967, è morto all'età di 80 anni dopo una lunga malattia. 

Lo hanno annunciato i suoi parenti. 

"Era umanamente finito - ha detto l'ex generale Gary Prado, che comandava il plotone che catturò El 'Che' vivo nella giungla del sudest della Bolivia dopo nove mesi di azioni di guerriglia - e lo abbiamo accompagnato nelle sue ultime ore. Avevamo un buon rapporto. Era un sottufficiale responsabile che ha eseguito un ordine dall'alto, e dopo ha sempre vissuto con un profilo basso".

Giustificandone l'operato, l'ex alto ufficiale ha ribadito in dichiarazioni alla radio boliviana Compañera che "ha semplicemente fatto il suo dovere di sottufficiale dell'esercito". Prado è uno dei pochi sopravvissuti dell'epoca degli scontri con la guerriglia, durata pochi mesi, ma capace di segnare la storia della Bolivia e di tutto il subcontinente che ha elevato Guevara al rango di mito Guevara, un argentino di nascita che combatté nella rivoluzione cubana.

 Terán è deceduto in una zona orientale della provincia di Santa Cruz, dove ha lasciato moglie e due figli. Anni fa, il militare aveva raccontato alla stampa i momenti vissuti prima degli spari. "È stato il momento peggiore della mia vita - disse - e ho visto 'Che' grande, molto grande, enorme. I suoi occhi brillavano luminosi. Sentivo che mi sovrastava quando mi fissava - ha ricordato - e mi dava le vertigini. Ho pensato che con un rapido movimento lui avrebbe potuto togliermi la pistola. 'Stai calmo, mi disse, e mira bene! Stai per uccidere un uomo!'. Io feci un passo indietro - ha concluso - fino alla soglia della porta. Chiusi gli occhi e sparai".

Bolivia: morto Mario Terán, il soldato che sparò a Ernesto Che Guevara. Alberto Flores D'Arcais su La Repubblica l'11 marzo 2022.

Aveva 80 anni. "È stato il momento peggiore della mia vita", avrebbe poi raccontato. "Mi disse: calmati e mira bene, stai per uccidere un uomo". 

Una mattinata di sole dell’autunno 1967, in una povera scuola di La Higuera, piccolo villaggio sulle montagne della Bolivia, al sergente Mario Terán Salazar venne affidato il compito che gli avrebbe cambiato la vita. Di fronte a lui - fatto prigioniero dai ranger boliviani del capitano Gary Prado Salmón - c’era un uomo ferito, di cui conosceva solo l’immagine: Ernesto "Che" Guevara.

Alfredo Spalla per il Messaggero il 12 marzo 2022.

Se n'è andato nello stesso giorno in cui 70 anni fa, a Cuba, iniziava la fine della democrazia. Era il 10 marzo del 1952 quando Fulgencio Bapstista mise in atto un colpo di stato che, sette anni dopo, avrebbe condotto fino alla rivoluzione cubana del Che e di Fidel, a tanti anni di castrismo e alla situazione attuale con la presidenza di Miguel Díaz-Canel. Una casualità, certo. 

Come fu una casualità quella che portò il sergente boliviano Mario Terán Salazar a trovarsi di fronte al rivoluzionario più famoso della storia con il compito di ucciderlo. Non è dato sapere se avvenne per obbligo, con Terán costretto a dar seguito a un ordine dei superiori, oppure se avvenne per eccesso di zelo, con il sergente a spuntarla fra i tanti altri volontari che si erano proposti per fucilare Che Guevara.

Eppure avvenne e cambiò il corso della storia di Cuba e dell'America Latina, fermando definitivamente il progetto di una rivoluzione che potesse superare i confini degli Stati. 

GLI ULTIMI GIORNI Il militare è morto in una clinica di Santa Cruz dopo aver trascorso alcune settimane in terapia intensiva. Aveva 80 anni ed era malato da tempo. «È morto per un cancro alla prostata», ha confermato il figlio Mario all'agenzia Afp. Gli ultimi tempi non sono stati felici. «Era senza speranza, lo abbiamo accompagnato nelle sue ultime ore. Avevamo un buon rapporto. Era un ufficiale responsabile che ha solo eseguito un ordine superiore, ma ha vissuto con un profilo basso», ha detto Gary Prado, l'uomo al comando della spedizione che negli anni sessanta si mise sulle tracce del Che nel sud-est della Bolivia fino a catturarlo con il sostegno degli agenti della Cia.

L'ex militare boliviano ha lasciato cinque figli e una vita che aveva provato a condurre in maniera riservata, scansando gli interrogativi dei media, per allontanarsi il più possibile dal ricordo dell'esecuzione avvenuta nell'ottobre del 1967, arrivando perfino a negare che fosse stato lui l'autore. 

Il Che era arrivato nel Paese l'anno prima e puntava, dopo la cosiddetta guerriglia di Ñancahuazú, a proseguire verso l'Argentina. Pochi mesi dopo, però, l'8 ottobre del 1967 il rivoluzionario argentino fu ferito, catturato e portato nella scuola di La Higuera. Il giorno dopo Teràn sparò all'argentino, e il suo corpo fu poi trasferito a Vallegrande e immortalato nelle famose fotografie.

VERSIONI DIVERSE Sul momento della morte, quello che anni dopo ha reso famigerato il soldato boliviano, e anche sull'atteggiamento del Che, esistono però versioni contrastanti perfino fra i militari incaricati dell'operazione. Nel suo libro in cui racconta gli avvenimenti, Prado sostiene che tutto accadde senza troppi romanzi, con un ordine arrivato dal presidente e dagli alti comandi militari. I volontari erano perfino sette. 

«Tu vai lì (dal Che) e tu là (da Willy, l'altro guerrigliero catturato, ndr). Entrarono e fecero fuoco. Tutto è avvenuto molto rapidamente. Da quello che Teràn mi ha raccontato, il Che morì al primo colpo. Nessun discorso, nessun addio, niente». 

Una versione molto diversa rispetto al ricordo raccontato dall'esecutore dello sparo. «È stato il momento peggiore della mia vita, ho visto il Che grande, molto grande, enorme. I suoi occhi brillavano luminosi. Sentivo che mi sovrastava quando mi fissava e mi dava le vertigini. Ho pensato che con un rapido movimento avrebbe potuto togliermi la pistola. Stai calmo - mi disse - e mira bene! Stai per uccidere un uomo!. Io feci un passo indietro fino alla soglia della porta. Chiusi gli occhi e sparai».

Quarant'anni dopo lo sguardo di Teràn è tornato a intrecciarsi con quello di Cuba. Nel 2007, infatti, il killer del Che è stato operato gratuitamente alla vista da una equipe di medici cubani presenti in Bolivia. «A quattro decenni di distanza da quando Mario Terán ha cercato di distruggere un sogno e un'idea, Che Guevara è tornato per vincere un'altra battaglia. Adesso un anziano può apprezzare di nuovo i colori del cielo e del bosco, godersi i sorrisi dei suoi nipoti e vedere le partite di calcio», scriveva Granma, l'organo ufficiale del partito comunista a Cuba.

Ai tempi non tutti, però, hanno gradito la notizia: «Evidentemente si è presentato qui senza dire che era l'assassino del Che», ha osservato indignata la direttrice della struttura oculistica, che era stata inaugurata dall'ex presidente boliviano Evo Morales, ammiratore di Cuba e che negli anni ha negato l'amnistia a Prado per altre vicende. 

Mario Terán Salazar, morto il soldato boliviano che giustiziò Che Guevara. Sara Gandolfi su Il Corriere della Sera l'11 marzo 2022.

Il 9 ottobre 1967 il militare boliviano, che all’epoca aveva 24 anni, fu scelto per eseguire l’esecuzione del leader rivoluzionario argentino. 

Mario Terán Salazar, il militare boliviano che uccise il guerrigliero argentino-cubano Ernesto ‘”Che” Guevara il 9 ottobre 1967, è morto giovedì 10 marzo, all’età di 80 anni a Santa Cruz de la Sierra, nella Bolivia orientale. «Era malato», ha detto al quotidiano locale El Deber il generale in pensione Gary Prado Salmon , che 54 anni fa guidò l’operazione nella giungla boliviana. «Mario era un uomo coraggioso, preoccupato perché avrebbe voluto rimanere anonimo, lui aveva semplicemente ottemperato agli ordini che venivano dall’alto». Ovvero, dall’allora presidente boliviano René Barrientos, feroce anticomunista. 

Un soldato, anzi un sergente obbediente, morto in un ospedale militare. Costretto a uscire nell’ombra dopo che la sua foto comparve sulla rivista Paris Match, nel 1967. Disse subito che gli era stato ordinato di giustiziare il Che una volta catturato. E da quel momento la sua vita cambiò per sempre. L’operazione, d’altra parte, non sarebbe stata possibile senza l’appoggio di due agenti cubano-americani della Cia.

Ernesto Guevara era già un veterano della guerra. Dopo aver completato gli studi di medicina e aver viaggiato in lungo e in largo per l’America latina, si era arruolato con i “barbudos” di Fidel Castro, trionfando con loro all’Avana nel 1959. Fallito il tentativo di diffondere il fuoco della rivoluzione armata in Congo, scomparve per un lungo periodo prima di lanciarsi nell’avventura in Bolivia, nel 1966, in nome dell’internazionalismo ribelle. L’obbiettivo finale era scendere fino alla “sua” Argentina, partendo con una piccola avanguardia di uomini armati che avrebbero scatenato l’insurrezione. Non andò bene.

La base operativa di Ñancahuazu fu scoperta dagli inviati militari statunitensi. E iniziò l’assedio. Il Che, in ritirata, divise la guerriglia. Il cubano Joaquín guidava la retroguardia, un gruppo che fu decimato. A trentanove anni, Guevara si ritrovò a capo di un pugno di guerriglieri sopravvissuti a combattimenti, fame e malattie. Ferito in combattimento, venne catturato e portato in una scuola abbandonata nella città di La Higuera. Lì trascorse la sua ultima notte. L’agente della Cia Felix Rodríguez, di origine cubana, scattò l’ultima foto del Che viv o.

Il giorno dopo, Guevara venne crivellato da una raffica di colpi. Una vera e propria esecuzione, nel racconto che fece dopo lo stesso Terán: «Fu il momento peggiore della mia vita. In quel momento vidi il Che grande, enorme. I suoi occhi brillavano luminosi. – disse ai giornalisti -. Mi fissava e a me girava la testa. Pensai che con un rapido movimento avrebbe potuto prendermi l’arma. Invece, il Che mi disse “Stai calm e mira bene, ucciderai un uomo”. E così ho fatto un passo indietro, verso la soglia della porta, ho chiuso gli occhi e ho sparato».

Il corpo inerte del Che, gli occhi grandi mai chiusi da alcun segno di pietà, fu poi deposto in una vasca ed esposto come un trofeo nel vicino paese di Vallegrande. L’immagine di quel cadavere, immortalato da Marc Hutten, fotografo dell’agenzia France Press è diventata nel tempo un’icona. I militari seppellirono il Che in una fossa comune, amputandogli prima le mani per confermare la sua identità. Soltanto nel 1997, le sue spoglie furono trasferite a Cuba e dall’ottobre di quell’anno sono ospitate nel mausoleo di Santa Clara, nel cuore dell’isola, dove il Che combatté le battaglie più aspre contro l’esercito del dittatore Fulgencio Batista, alla fine del 1958. Terán, invece, ha continuato la sua vita militare e dopo trent’anni di servizio è andato in pensione, inseguendo sempre l’anonimato. Fino al punto di negare di essere stato lui l’assassino del Che, affermando che il “boia” era un soldato suo omonimo.

·        I Marxisti d’oltreoceano.

I cubani "schiavi" sulle navi da crociera. Sequestrati l'80% del salario e il passaporto. Paolo Manzo il 27 Gennaio 2022 su Il Giornale.

La dittatura cubana usa manodopera schiava, grazie alla collaborazione di alcuni giganti del mondo delle crociere internazionali.

La dittatura cubana usa manodopera schiava, grazie alla collaborazione di alcuni giganti del mondo delle crociere internazionali, tra cui spicca il nome della MSC, azienda leader mondiale del settore, con sede a Ginevra. La denuncia, presentata ieri a Bruxelles dall'ong Prisoners Defenders insieme a diversi eurodeputati del gruppo Renew Europe, fa scalpore. «Secondo le testimonianze raccolte da molti marittimi cubani che hanno lavorato anche in Italia - si legge nel rapporto - MSC Malta Seafarers Company Limited li contratta attraverso un agente cubano, la società Selecmar».

Nel contratto, di cui Prisoners Difender ha ottenuto copie che ha depositato presso la Corte Penale Internazionale con relativa denuncia, un'appendice indica che «la Selecmar trattiene l'80% del loro salario». Sulle sue navi «MSC sequestra i passaporti dei marittimi cubani non solo durante il viaggio, ma anche nei paesi dove le navi fanno scalo, per evitare che scappino». Secondo i dichiaranti, la MSC verrebbe multata di «10.000 dollari per ogni cubano che scappa», e per questo, denuncia Prisoners Defenders «i dipendenti di MSC Crociere sono diventati un'estensione della repressione del regime cubano». Restrizioni come queste, e il sequestro dei passaporti, non accadono al personale di altre nazionalità, solo ai marittimi dell'Avana. «Abbiamo molte prove. Abbiamo documenti che descrivono in dettaglio le terribili condizioni dei lavoratori cubani all'estero» spiega a Il Giornale Javier Larrondo, il presidente dell'ong che ha fatto la denuncia. «Ad esempio c'è la confisca delle loro proprietà e il divieto di tornare a Cuba per 8 anni, tenendo lontani questi lavoratori dalle loro famiglie se abbandonano il lavoro sulla nave o non fanno ritorno a Cuba alla fine del contratto. Abbiamo anche la legislazione cubana che lo conferma. E abbiamo certificati di lavoro della Selecmar che affitta lavoratori cubani come forza umana per crociere di lusso e trattiene l'80% del salario dei lavoratori. E abbiamo anche i certificati del Ministero dell'Interno cubano che provano queste accuse. Tutto è stato confermato da centinaia di denunce». Pure i cubani con visti Schengen validi ricevono i loro passaporti solo quando le autorità di immigrazione dei paesi europei salgono sulla nave e li controllano, ma poi - prima di lasciare la nave - i documenti vengono confiscati di nuovo e fanno scalo nei porti europei solo con una carta d'identificazione della MSC, mentre il loro passaporto viene conservato sulla nave da crociera «per motivi di sicurezza». La Croazia è stato l'unico paese Ue che si è rifiutato di farli scendere dalla nave senza passaporto, non l'Italia. «Poiché sembra che MSC sia consapevole che questa ritenzione provocherebbe una diserzione massiccia, dà ai marittimi dell'Avana 641 dollari in più fuori contratto, che Cuba non controlla. E così lo stipendio totale degli sfruttati marittimi cubani arriva a 727 dollari al mese in media», conclude il rapporto. Una miseria da lavoro schiavo. Paolo Manzo

Salvador Allende, il marxista incompreso. Pietro Emanueli su Inside Over il 26 gennaio 2022.  

Le grandi mobilitazioni popolari del 2019 e del 2020, e la gara per la presidenza del 2021, sono la prova che il Cile non ha mai del tutto superato il trauma del pinochetismo. Diviso in opposti estremismi, e lacerato dalla polarizzazione economica, il Cile è la fotografia dell’America Latina: ricco eppure povero, assetato di giustizia ma trasudante corruzione, credente perciò anticlericale.

Il Cile di oggi è una nazione in cerca di riscatto, che sta ancora facendo i conti con il proprio passato, e che nel novembre 2021 ha voluto affidare il proprio destino ad un giovane idealista: Gabriel Boric. Una scelta comprensibile, sebbene rischiosa, di cui il pubblico estero ha colto la profondità un mese dopo, il 20 dicembre, vedendo una foto di Boric intento ad osservare con ammirazione il busto del defunto Salvador Allende. Una figura, quella di Allende, di cui è necessario scrivere, raccontare, pena l’impossibilità di capire il Cile e quella voglia di sinistra, rivoluzione e cambiamento che periodicamente investe l’America Latina. 

Allende il giovane

Salvadore Guillermo Allende nasce in quel di Santiago del Cile il 26 giugno 1908. Figlio di una famiglia appartenente alla classe medio-alta, composta da aristocratici e massoni, Allende avrebbe manifestato una forte passione per l’attivismo politico e le cause sociali sin dalla giovinezza.

Ricettore di un’educazione libera e liberale, e ciononostante rigida, Allende avrebbe vissuto un’adolescenza di studio, sport e servizio militare. Da giovane, poco più che adolescente, la conoscenza di Juan de Marchi, un anarchico italiano reinventatosi calzolaio a Valparaiso, lo avrebbe plasmato in maniera profonda, giocando un ruolo-chiave nella sua formazione politico-ideologica.

Al compimento dei diciotto anni, nel 1926, si sarebbe iscritto all’Università del Cile di Santago per studiare medicina. Una scelta fatta un po’ per convincimento – era un seguace della medicina sociale di Max Westenhofer – e un po’ per accontentare la famiglia. La voglia di fare attivismo, però, lo avrebbe perseguitato: nel 1926 l’elezione a presidente del Centro studentesco, nel 1929, l’assunzione della vicepresidenza della Federazione degli studenti, nel 1930 la rappresentanza degli studenti della facoltà di medicina.

Inviso ai professori e ai dirigenti, perché più impegnato a dibattere che a studiare, Allende avrebbe pagato a caro prezzo l’attivismo a favore dei compagni: espulsione. Ripresi gli studi, anche per una questione di onorabilità – la nomea della famiglia, l’appartenenza alla Grande loggia del Cile –, si sarebbe infine laureato nel 1931.

La permanenza nei corridoi degli ospedali in qualità di anatomopatologo, ad ogni modo, lo avrebbe convinto definitivamente a dedicarsi alla politica. Perché anche qui, infatti, sarebbe finito col passare più tempo nell’unione sindacale dei dottori che nei laboratori. La decisione di abbandonare i panni del medico per vestire quelli del politico sarebbe giunta nel 1933, anno in cui, insieme all’amico Marmaduque Grove, co-fondò la sezione valpairisiana del Partito Socialista, alla cui causa avrebbe dedicato l’intera esistenza.

La lunga corsa verso la presidenza

Il carisma naturale e l’attitudine leaderistica, dimostrati sin dai tempi dell’università, avrebbero trasformato Allende nella stella polare del Partito Socialista. Il 1938 sarebbe stato l’anno della ribalta: dopo aver contribuito in maniera determinante alla vittoria alle presidenziali di Pedro Aguirre Cerda del Fronte Popolare – l’alleanza tra radicali, socialisti e comunisti –, in quanto elaboratore della campagna di comunicazione e scrittore del programma elettorale, fu messo a capo del ministero della Sanità.

La presidenza Aguirre Cerda non sarebbe durata a lungo, causa le tensioni con le forze armate, la sedizione filonazista e il pessimo stato di salute del presidente, ma Allende avrebbe valorizzato il tempo a disposizione gettando le basi per l’edificazione del primo stato sociale cileno. Prima di andarsene, invero, avrebbe aumentato le pensioni alle vedove, introdotto la mensa gratuita nelle scuole e aumentato i diritti degli operai.

Nel 1941, alla morte per tubercolosi di Aguirre Cerda, Allende avrebbe mantenuto la casacca ma cambiato ruolo: senatore. Un ruolo ricoperto per un decennio, fino a quando nel 1952, infine, avrebbe deciso di tentare l’azzardo: concorrere per la presidenza. Non una, ma ben quattro volte: nel 1952, nel 1958, nel 1964 e nel 1970.

A partire dal 1964, causa la crescente popolarità di Allende tra i cileni e complice il contesto internazionale – la rivoluzione cubana, la Guerra fredda, l’espansione del comunismo in Latinoamerica –, le presidenziali sarebbero entrate nel mirino degli Stati Uniti. Perché la Casa Bianca non poteva permettersi una seconda Cuba, meno che mai una rivoluzione democratica, legittimata dal basso: Allende andava fermato.

Quasi sei milioni di dollari furono investiti dalla Central Intelligence Agency fra il 1962 e il 1964 nel sabotaggio della corsa presidenziale di Allende. Denaro in parte andato al democristiano Eduardo Frei Montalva e in parte andato a giornali, radio e chiunque si impegnasse a fare propaganda contro il socialista.

Sei anni dopo, nonostante un investimento in operazioni psicologiche di simile entità, la Cia non sarebbe riuscita a fermare la corsa di Allende. Il socialista era troppo popolare, come dimostrato dai numeri – dal 5,45% del 1952 al 36,2% del 1970 –, mentre il fronte filoamericano era spaccato in più poli e, non meno importante, percepito come distante, elitario e classista dalla società. Il 4 settembre 1970, con quel 36,2% di voti, Allende fece la storia: primo marxista dichiarato a venire eletto democraticamente in America Latina.

Allende, ad ogni modo, non avrebbe mai assaporato il gusto dolce della vittoria. Ad un mese dalle elezioni, nel pieno delle trattative tra Unità Popolare – la coalizione vittoriosa – e Democrazia Cristiana – il secondo classificato –, il presidente avrebbe assistito alla morte violenta di uno dei suoi più grandi (e importanti) sostenitori: il comandante in capo delle forze armate René Schneider. Un presagio di ciò che avrebbe dovuto affrontare: gli Stati Uniti e le loro quinte colonne in loco non avrebbero mai consentito che l’utopica “Via cilena al socialismo” venisse trasposta in realtà.

Allende il martire

La morte violenta di Schneider avrebbe incoraggiato opposizione e forze armate a stare dalla parte di Allende, sebbene non per molto, permettendogli di implementare una parte di quell’utopica Via cilena al socialismo. Quella libertà (limitata) di manovra permise al presidente di operare una parziale rinazionalizzazzione dei settori strategici, dall’estrazione mineraria alla finanza, passando per telecomunicazioni e industria, proiettando il Cile verso la sovranità economica ma privando le corporazioni nordamericane di profitti miliardari e posizioni monopolistiche di lunga data.

Come se non bastasse, in concomitanza con l’espansione a macchia d’olio dello Stato imprenditore-investitore, Allende cercò di dare impulso ad un nuovo corso politico nelle Americhe Latine: ristabilimento delle relazioni diplomatiche con Cuba, aumento dell’interscambio intraregionale, rottura del tabù del commercio con il blocco sovietico.

Dopo un anno di relativa calma, sostanzialmente dovuta al fatto che l’omicidio Schneider aveva costretto le quinte colonne americane ad un oblìo tattico, il Cile sarebbe entrato in un circolo vizioso a carica degenerativa crescente a partire dal 1972 e per tutto il 1973. E nulla avrebbe potuto Allende per contrastare la messa in atto del progetto Fubelt, il piano mefistofelico architettato dal più abile degli strateghi dell’epoca, Henry Kissinger, per soddisfare il volere di Richard Nixon, che voleva “far gridare l’economia cilena”.

In principio fu lo sciopero degli autotrasportatori dell’ottobre 1972, a seguito del quale l’economia non si sarebbe più ripresa del tutto. Poi, di lì a breve, seguirono il cosiddetto “embargo invisibile” a livello internazionale – causa della drastica riduzione dell’import-export con l’Occidente –, gli attacchi speculativi contro la valuta cilena, il sabotaggio delle istituzioni finanziarie internazionali, le occupazioni di fabbriche e terreni e gli attentati contro le infrastrutture strategiche da parte di Patria e Libertà – un gruppo terroristico di estrema destra finanziato dalla Cia –, sullo sfondo degli scontri di piazza settimanali e della martellante campagna antigovernativa del mondo dell’informazione.

Entro la fine del 1972, causa la guerra coperta multidimensionale lanciata dagli Stati Uniti, il Cile sarebbe stato ad un passo dalla guerra civile: inflazione al 150%, capitale preda di una guerra molecolare tra opposti estremismi, settore esportativo liquefatto, crescendo di terrorismo e violenze politiche.

L’ultimo fedelissimo di Allende, il generale Carlos Prats, che il 29 giugno 1973 aveva impedito ad un ramo ribelle delle forze armate di consumare un colpo di stato, fu eliminato in maniera morbida, cioè a mezzo di una campagna persecutoria che lo avrebbe condotto alla pazzia e quindi a rassegnare le dimissioni dopo un incidente con dei civili lo aveva visto coinvolto. Allende avrebbe accettato le dimissioni dell’amico e generale a malincuore, scegliendo quale suo successore a capo delle forze armate Augusto Pinochet. Il resto è storia.

Allende ieri e oggi

Allende continua ad essere una delle figure più divisive della Latinoamerica: per alcuni un rivoluzionario che ha pagato con la vita per le sue idee, per altri un agente dell’Unione Sovietica che avrebbe inevitabilmente trascinato il Cile verso la dittatura. Interpretazioni diverse, che contemplino una descrizione meno ideologica del personaggio, non sono né accettate né consentite.

Scrivere e parlare di Allende è ancora oggi difficile, come hanno dimostrato le presidenziali cilene del 2021, ma decifrarlo antropologicamente, inquadrarlo storicamente, è tutt’altro che impossibile. Perché Allende, il marxista incompreso, non è stato altro che uno dei tanti figli legittimi della Latinoamerica profonda: antiamericana, bolivarista, populista, rivoluzionaria, terzomondista.

Allende come Lazaro Cardenas: un tata, cioè un padre, più che un caudillo; da qui il diniego all’utilizzo della forza sui concittadini che avrebbe potuto evitare la guerra civile. Allende come Juan Domingo Peron: un pensatore alla ricerca di una terza posizione più che un radicale inamovibile; da qui la decisione di aderire al Movimento dei non allineati. Allende come Getulio Vargas: un populista perché orientato verso il popolo. Allende come Simon Bolivar: latino prima che cileno; da qui il sogno di creare un’unione panamericana che sostituisse l’Organizzazione degli Stati Americani a guida statunitense.

Non si può capire l’America Latina contemporanea senza scrivere di Allende, e non si può capire quest’ultimo senza conoscere l’America Latina, che di populisti votati alla ribellione contro l’imperialismo e la povertà ne produce a cadenza regolare, per ogni epoca e generazione. E di tutti i populisti concepiti dal Novecento ad oggi, che sono stati tanti, Allende è stato sicuramente uno dei più influenti nel lungo termine. Perché sono state le sue proposte di unità regionale ad aver plasmato il Mercosur. Perché a lui si ispirò Hugo Chavez all’atto di creare l’ALBA. E perché al suo legato ha attinto, nel 2021, il giovane Gabriel Boric.