Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

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L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

 

ANNO 2022

GLI STATISTI

PRIMA PARTE

 

 

 DI ANTONIO GIANGRANDE

     

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

 

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2022, consequenziale a quello del 2021. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

SANITA’: ROBA NOSTRA. UN’INCHIESTA DA NON FARE. I MARCUCCI.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

 

GLI STATISTI

INDICE PRIMA PARTE

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Mistero Moro.

Le aste dei cimeli giudiziari.

Le Brigate Rosse.

Il retroscena di un delitto. La pista dei servizi segreti domestici. 

Il retroscena di un delitto. La pista della ‘Ndrangheta.

Il retroscena di un delitto. La pista palestinese.

Il retroscena di un delitto. La pista russa.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ricordando Andreotti.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE. (Ho scritto un saggio dedicato)

Ingiustizia. Il caso Mani Pulite spiegato bene.

Gli Amici di Craxi.

I Nemici di Craxi.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA. (Ho scritto un saggio dedicato)

Berlusconi e la Famiglia.

Berlusconi e lo Sport.

Berlusconi e gli amici.

Berlusconi e la politica.

Berlusconi e la Giustizia.

 

INDICE TERZA PARTE

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Nazi-fascismo e Comunismo: Economia pianificata.

Stato, Fascismo e lotte di classe: eran e son comunisti.

Al tempo del Nazismo.

L’Olocausto.

Dio, Patria, Famiglia.

Le Leggi Razziali.

Al tempo del Fascismo.

Margherita Sarfatti: la donna che creò Benito Mussolini.

Dopo il Fascismo.

I Figli di Mussolini.

Le Marocchinate.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Gli Eredi di Mussolini.

Nazista…a chi?

 

 

 

 

GLI STATISTI

PRIMA PARTE

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Il Mistero Moro.

Concetto Vecchio per “la Repubblica” il 28 novembre 2022.

Luigi Zanda, lei è il figlio del capo della polizia negli anni Settanta. «Efisio Zanda. Era nato a Cagliari nel 1914, antifascista, amava la musica e il teatro, buon giocatore di bridge. È stato uno dei miei grandi maestri insieme a Francesco Cossiga e ad Eugenio Scalfari». 

Scalfari?

«L'ho conosciuto nel 1976, subito dopo la nascita di Repubblica . Ero il portavoce di Cossiga e mi chiamò: "Lo sai vero che mi aveva promesso un'intervista? E invece l'ha data a Scardocchia del Corriere della Sera !" Non ne sapevo nulla, provai a difendermi. E Scalfari, alzando sempre più la voce: "Voi siete sardi, ma io sono calabrese". E mise giù».

Lei che cosa fece?

«Andai da Cossiga e lui, sollevando gli occhi dalle carte, disse soltanto: "Luigi, levami questo pensiero"». 

Cioè?

«Voleva dire aggiusta la cosa. Richiamai Scalfari dopo qualche giorno. "Le Monde vuole intervistare Cossiga. Il tuo divieto vale anche per i giornali stranieri?". Si mise a ridere e diventammo molto amici. Ci vedevamo ogni domenica per quella che chiamavamo la cena dei cretini. Scalfari mi ha immerso nella vita». 

Che ricordo ne ha?

«Aveva una memoria strepitosa. Faceva le interviste senza prendere un appunto». 

Con Cossiga invece come andò?

«Lo conobbi nel 1974. Ero segretario della commissione governativa sulla crisi petrolifera, che aveva sede a Palazzo Chigi. Ci vedevamo lì. Io sono di Cagliari, lui di Sassari, ci unì la sarditudine». 

Cossiga era complicato?

«Soffriva di depressione, di sbalzi d'umore, mi ha insegnato a guardare lontano e a cercare visioni larghe».

Lei oggi compie ottant'anni. Pesano?

«Per fortuna non mi pesano. Ho avuto una vita ricchissima». 

Cosa ricorda dell'infanzia a Cagliari?

«Le elementari dalle suore. Se parlavi troppo ti appiccicavano due cerotti incrociati sulla bocca». 

Cosa facevano i suoi?

«Papà era funzionario dello Stato, mamma insegnava filosofia. Sono il primo di cinque figli». 

Famiglia borghese.

«Vivevamo nel rione Castello, in via Canelles. Non c'erano ancora i frigoriferi e mi mandavano a prendere le lastre di ghiaccio per tenere in fresco il cibo. Nel 1950 i miei vollero venire a Roma». 

Perché?

«Per offrire un futuro ai figli. Mio padre lavorava al ministero degli Interni, poi con il presidente del Consiglio Antonio Segni. Trovammo casa ad Ostia, mamma si alzava ogni mattina alle 5 per raggiungere il liceo a Tivoli». 

Perché tiene in casa i quadri di Lenin e della Rivoluzione d'ottobre?

«Mi piacciono le bandiere rosse, ma non sono mai stato comunista. Votavo per il Pri». 

Cosa ricorda dei 55 giorni del sequestro Moro?

«La prima lettera di Moro a Cossiga. Doveva restare segreta, invece le Br la resero pubblica. Lì capii che sarebbe stata dura salvarlo: non volevano trattare». 

Cossiga finì nel mirino per non avere impedito il sequestro.

«Era la sua ossessione. Gli vennero i capelli bianchi, la vitiligine alle mani. Quando entrai nella sua stanza la mattina de rapimento, il 16 marzo 1978, mi disse: "Luigi, sono politicamente morto"». 

Perché sul caso Moro ha sempre sospettato un intervento sovietico?

«C'è un filo che lega l'attentato a Berlinguer a Sofia nel 1973, l'uccisione di Moro e l'attentato al Papa da parte di Ali Agca. Quella del Kgb è una scuola che produce i suoi effetti nefasti anche ora, come vediamo drammaticamente in Ucraina e non solo». 

Le Brigate Rosse furono eterodirette?

«Non ci saprà mai davvero tutta la verità finché non saranno accessibili gli archivi delle grandi potenze: i tasselli che mancano non sono in Italia».

Lei seppe di Gradoli, ma perché pensò al paese e non alla via?

«Fu Umberto Cavina, il segretario di Benigno Zaccagnini a dirmi di Gradoli, un paese sulla Cassia. Presi l'appunto su un suo biglietto da visita che trovai sul suo tavolo e tornato al Viminale informai il capo della polizia». 

I terroristi stavano in via Gradoli. Senza quell'errore Moro poteva essere salvato?

«Non possiamo dirlo. Ma l'informazione riguardava il paese di Gradoli. Per fortuna misi quell'appunto in cassaforte. Conservavo ogni cosa sotto chiave». 

Cosa ha fatto prima di diventare parlamentare del Pd?

«Ho diretto l'Agenzia per il Giubileo, il Consorzio Venezia Nuova che ha progettato il Mose, Lottomatica, le Scuderie del Quirinale, la Quadriennale di Roma, amministratore del Gruppo Espresso e della Rai. Negli anni di Tangentopoli gestivo tanti soldi. Sono fiero di non essere mai stato sfiorato da un'inchiesta».

Qual è la lezione?

«Nelle aziende servono controlli rigidi interni, richiami a rigare dritto». 

Lei è stato un potente?

«No. Non ho mai raccomandato nessuno». 

Non ci credo.

«Ho difeso persone di valore». 

Entra in politica grazie a Francesco Rutelli?

«Mi chiese di candidarmi per la Margherita al Senato. Era il giugno 2003, avevo già 59 anni. Rutelli è stato un grande sindaco di Roma».

Un'elezione senza avversari.

«Erano suppletive. La destra non riuscì a raccogliere le firme per proporre un proprio candidato e così mi trovai a gareggiare da solo». 

Il sogno di ogni politico.

«Eletto col 100 per cento dei voti, ma con solo il sei per cento dei votanti, record negativo. Un gol a porta vuota». 

Chi sono gli altri suoi amici in politica?

«Paolo Gentiloni, Dario Franceschini, Rino Formica, Gianni Cuperlo e Mario Draghi». 

Come valuta la classe dirigente del Paese?

«C'è una regressione. Nel dopoguerra avevamo De Gasperi, Togliatti, Moro, Berlinguer, Mattei, Valletta, Paolo VI, Carli, Menichella, La Malfa. Fenomeni». 

E oggi?

«Siamo passati da un pensiero politico profondo al culto della tattica e delle carriere. In troppi vogliono occupare una poltrona politica come in un'azienda privata. Ho visto scene di disperazione in chi non è stato rieletto: la politica come droga». 

Ma la politica non è sempre stata così?

«Un tempo era anche pensiero, ideali, lotta». 

Il Pd si salverà?

«Solo se saprà definire qual è la sua identità. Avrei eletto un segretario traghettatore fino al congresso». 

Ha rimpianti?

«Per lungo tempo mi è dispiaciuto non avere avuto figli, ora non è più un problema». 

Come festeggerà gli 80 anni?

«Con un viaggio in Italia». 

«Cia, Kgb, Sismi, Sisde, mafia e P2… Che follia la dietrologia su Moro». «Nella Direzione strategica del 1978 avevamo deciso di prendere dei rapporti almeno a livello europeo, smettere di considerarci come un’isola». Il Dubbio il 24 novembre 2022

Un estratto del libro "Brigate Rosse, una storia italiana" di Rossana Rossanda, Mario Moretti, Carla Mosca *** «Dietrologia a parte voi aveste dei contatti internazionali. Quando cominciano?

Con il 1978. Nella Direzione strategica del 1978 avevamo deciso di prendere dei rapporti almeno a livello europeo, smettere di considerarci come un’isola. Non per cercare unificazioni, ognuno avrebbe fatto, se ne era capace, la sua propria rivoluzione – questa non è merce che si esporta. Ma se in Europa non cresceva un movimento simile al nostro, anche noi prima o poi ci saremmo spenti.

Prima del 1978 nessun collegamento?

Nella fase iniziale avevamo avuto alcuni incontri in Italia con compagni della Raf, ma fra la differenza delle posizioni e le esiguità delle nostre forze, non ebbero seguito.

Fummo cercati dopo il sequestro di Moro. Da tutti. La Raf, l’Eta, l’Olp, alcuni compagni francesi. I contatti li stabilimmo a Parigi.

Io. Lo decise l’organizzazione. Mi mossi dall’inverno del 1978 al 1981. Ma fu un compito al quale mi dedicai saltuariamente. Sapevo fin troppo bene qual era il nostro stato reale, grande capacità operativa, ma anche grandi difficoltà politiche. Con i rapporti internazionali non ne avremmo risolto neppure una.

Dove andavi?

Avanti e indietro da Parigi. Mi fermavo non più d’un giorno o due, come se facessi una riunione di un’altra colonna. Prendevo l’aereo la mattina presto a Roma e tornavo con un altro la sera a Milano. Se penso che ero fra i brigatisti più ricercati e passavo quattro volte in un giorno i controlli di frontiera, dev’essere vero che ero matto, come mi dissero una volta i palestinesi.

(…)

Si è parlato di vostri rapporti con l’Est, viaggi a Praga e simili. Anche se nulla è uscito dagli archivi russi e da quelli della Stasi. Che ne sai?

Non ci sono stati rapporti tra noi e l’Est europeo. Sono favole, e politicamente senza senso. Quale interesse poteva avere l’Urss a sostenere una polarità come la nostra? Tutto il loro appoggio andava al Pci. Questa scelta dei paesi comunisti l’avevamo misurata già al momento del sequestro Sossi.

Ma non c’è stato un filo con i bulgari? Il caso Scricciolo?

Non lo conosco con esattezza, ero già in galera. Ne so pochissimo, ma parlando con i compagni mi sono convinto che è una vicenda gonfiata, del tutto secondaria.

Insomma, niente servizi?

Sarebbe bello, eh?, se si potesse metter assieme tutto, Cia, Kgb, Sismi, Sisde, mafia, P2, eccetera per far rientrare tutti gli eventi di questi vent’anni nel grande complotto universale. Anche un movimento come il nostro sarebbe più tranquillizzante se lo si vedesse come manovra di forze oscure, simili a quelle che hanno manovrato le stragi, i servizi. Siamo invece condannati a distinguere le cose se vogliamo capirle e criticarle. La verità è che le Br non sono entrate in contatto con servizi segreti di qualunque tipo e nazionalità, né direttamente né di sponda. Questi sono i fatti e nessuno crede seriamente il contrario. Si può dire di noi di tutto, fuorché che siamo stati qualcosa di poco limpido.

Ma all’inizio non cercò di contattarvi il Mossad?

Ah, sì. Forse fu anche questo a metterci in guardia. Nel 1972 ci aveva fatto pervenire una specie di apprezzamento. Neppure gli rispondemmo per le rime, tanto era assurdo. Guardate, per farla breve, il solo rapporto politico reale che avemmo fu con l’Olp. I compagni palestinesi ci interessavano perché facevano un discorso simile al nostro.

Con quale parte dell’Olp?

L’Olp che ho conosciuto aveva diverse anime. Contattammo una parte di tendenza comunista, che guardava molto all’Europa. Per loro era importante che nei paesi dell’area mediterranea si creasse una forte opposizione, armata se possibile, per indebolire la morsa dell’imperialismo americano in Medio Oriente. Ci dissero: «Non vi chiediamo di fare delle operazioni per noi, è molto più significativo che siate voi a rafforzarvi».

Ma qualcosa per loro faceste, la famosa spedizione del "Papago"?

Escluse operazioni in comune, ci premeva offrirgli almeno una solidarietà. Gli demmo un piccolo appoggio per i documenti falsi, ci mettemmo ovviamente a disposizione per qualsiasi appoggio politico del quale avessero bisogno. L’Italia è un crocevia obbligato per qualsiasi cosa transiti dal Medio Oriente verso il Centronord, ed essi ci chiesero di trovar loro un deposito di armi da tenere come riserva, destinate ai movimenti di resistenza o di liberazione nazionale. In particolare quella volta sarebbero servite all’Ira, che le avrebbe richieste in un secondo tempo. Con l’Ira i contatti furono tenuti dai palestinesi, noi ci limitammo a metterci a disposizione.

E andaste a prendere le armi?

Sì. Via mare. L’Italia sembra proprio un molo sul Mediterraneo. Tanto perché non sembrasse che stavamo facendo un’opera di mera solidarietà – tipo, noi vi teniamo le armi e voi combattete – un piccolo quantitativo di armi era destinato a noi, degli Stern molto vecchi, dei mitra dismessi dalla polizia britannica che però funzionavano perfettamente. Ma si trattava d’uno scambio simbolico, a noi servivano armi piccole, quelle della guerriglia e non avevamo, come vi ho detto, alcuna difficoltà a procurarcele. Quel che ci interessava era il rapporto politico, di fraternità, fare qualcosa per l’Olp.

Quando è stato?

Nell’estate del ’ 79 e coincise, casualmente, con la necessità di stringere un rapporto con delle formazioni combattenti in Sardegna. La barca la trovò un compagno di Ancona, medico psichiatra in un ospedale, era uno skipper molto esperto nella vela. Con lui ci imbarcammo sul "Papago" Riccardo Dura, genovese, marittimo di mestiere che aveva navigato per mezzo mondo, e che sarebbe stato ucciso in via Fracchia, un compagno di Venezia del quale si supponeva avesse dimestichezza col mare e io, che col mare me la cavo sempre.».

Chi si mosse di più? Tramite la famosa Hyperion?

No, questa è una delle invenzioni che servono a dar corpo al fantasma del "grande vecchio". Con Simioni avevamo chiuso fin dal Cpm, non lo vedemmo più e apprendemmo dai giornali che era finito a Parigi. Avevamo in Francia dei compagni espatriati alcuni anni prima, che erano in grado di collegarci con tutti i movimenti rivoluzionari d’una certa consistenza. A Parigi c’erano più o meno tutti, e si arrivava attraverso canali riservati, ma non segretissimi. Avevamo un credito che ci consentiva di incontrare chi volevamo.

Dal Corriere della Sera il 10 novembre 2022.

«Non c'è alcun dubbio che Moro potesse essere salvato. C'è stata una volontà politica che ha prevalso, una confluenza di interessi nazionali e internazionali che hanno portato di fatto a scegliere l'opzione "Moro morto". Si è preferito non cercare davvero la sua prigione: è documentato». 

Così Fabrizio Gifuni in un'intervista al settimanale Oggi (in edicola a partire da oggi) a pochi giorni dalla messa in onda su Rai 1 della serie di Marco Bellocchio Esterno Notte (su Rai 1 in prima serata il 14, 15 e 17 novembre). 

L'attore interpreta Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana, rapito a Roma il 16 marzo 1978 e ucciso dalle Brigate Rosse, dopo 55 giorni di prigionia. Nell'intervista Fabrizio Gifuni ragiona sulla figura di Moro e sulla responsabilità del mondo politico, del suo partito, la Dc, e di Giulio Andreotti. L'attore parla anche delle ombre che restano sul caso Moro. 

«Mancano alcuni tasselli e gli unici che potrebbero riempirli sono le persone ancora viventi coinvolte nella vicenda. C'è stato un accordo, che semplifica e falsifica questa storia, tra alcuni uomini dello Stato di allora e le Br, su quale sarebbe stata la verità da trasmettere ai posteri». In copertina l'attrice Valeria Solarino che interpreta Lucia Bosè nella serie ("Bosé") sulla vita del figlio Miguel in onda su Paramount+.

DAGOREPORT il 14 novembre 2022.

“Moro vivo… Moro morto… Ma a chi sarebbe convenuto un Moro vivo?”, si domanda oggi su Dagospia Marco Giusti recensendo “Esterno notte” di Marco Bellocchio, miniserie in sei puntate su Rai Uno dedicata al rapimento Moro. 

E si risponde: “Non certo alla DC e a Andreotti, né al PCI di Berlinguer, né ai servizi americani, che attraverso Cossiga conducono la loro strategia. Mentre Craxi è per trattare, intuendo che è quello che gli americani non vogliono. Certo che sarebbe convenuto alle BR. Che con Moro vivo magari non sarebbero state decapitate come accadrà neanche due anni dopo”.

Ben detto, Marco: “con Moro vivo magari non sarebbero state decapitate come accadrà neanche due anni dopo”. Da qui si deve partire per riaprire la botola dell’assassinio di Aldo Moro.  

Per anni ho frequentato Francesco Cossiga, che intervenne frequentemente su Dagospia allorché non solo i giornali ma perfino le agenzie di stampa decisero che era un “pazzo con piccone” e non andava più pubblicato. 

E ciò che ho imparato dal Gattosardo è che la politica non si esaurisce nella semplice lettura degli interessi nazionali. E’ geopolitica perché occorre mettere sempre in gioco il posto dell'Italia in Europa e nel mondo.

Il mistero della non trattativa e della morte di Aldo Moro sta tutto lì: geopolitica. 

Il Bel Paese nell’anno 1978 non era un'oasi; non viveva in dorato isolamento; l’Italia aveva perso la seconda guerra mondiale, il patto di Yalta aveva sancito una separazione netta tra le zone di competenza di Occidente e Oriente, e a Berlino per saldare lo stato della Guerra Fredda l’Unione Sovietica tirò su un minaccioso muro. I governi delle nazioni sconfitte, Italia e Germania, non potevano illudersi di essere paesi sovrani senza pagare un prezzo salato. Le basi Nato erano a Ghedi, Aviano, Bagnoli, Sigonella, etc..

L’orribile rapimento di Moro vide il duello tra chi era favorevole a una trattativa con le Brigate Rosse (socialisti e molti democristiani) e chi si opponeva (comunisti di Berlinguer e il nascente partito di “Repubblica” con in testa Scalfari).  

Fino al ’78 l’unico terrorismo era incarnato dal fronte palestinese di Arafat che in Italia godeva politicamente, ma anche economicamente, del supporto di Craxi e Andreotti. Cosa che irritava profondamente Washington (con l’assassinio di un cittadino statunitense ebreo sulla nave da crociera Achille Lauro e il conseguente fattaccio di Sigonella con il duro scontro tra Craxi e Reagan, il rapporto con gli Stati Uniti si trasformò in piena ostilità).

Veniamo al punto dolente. Sul anti-terrorismo all’italiana l’intelligence americana aveva idee dure e contrarie: non si colpisce una cellula delle Brigate Rosse ma si deve estirpare tutta la rete terroristica. 

Intervenire in via Gradoli – dove erano asserragliati i brigatisti Moretti e Balzarani, come suggerito dal ‘’medium’’ di Prodi – avrebbe innescato secondo i cervelli dell’FBI una reazione funesta: quella di fortificare le altre cellule, infiammando ancor di più il terrorismo (le vittime delle Br, dal 1974 al 2003, sono state 84).  

Occorreva dunque sacrificare la vita di Aldo Moro per non abbandonare l'Italia alla mercé delle Brigate Rosse. 

All’epoca ministro degli Interni, Cossiga ricevette a Roma, volati da Washington, gli emissari dell’Fbi, tra cui il funzionario del Dipartimento di Stato Steve Pieczenik, sperimentato gestore di crisi internazionali nonché negoziatore di ostaggi, che imposero al governo italiano la "strategia della fermezza" e quindi presero in mano la gestione dell’operazione Moro che si concluse con la decapitazione delle Brigate Rosse due anni dopo. 

(Il mitologico Pieczenik, vice sottosegretario di Henry Kissinger, Cyrus Vance, James Baker negli anni più delicati della Guerra Fredda, quando - ancora giovanissimo - ricopriva in giro per il mondo incarichi in stile "sono il signor Wolf, risolvo problemi", divenne il super-consulente americano che si vedeva costantemente al fianco di Francesco Cossiga, nei fatidici 55 giorni del rapimento Moro. Lo stesso Pieczenik, riporta "The Telegraph" dell'11 marzo 2008 ("L'inviato Usa ammette il ruolo nell'uccisione di Aldo Moro"), dichiarò che era necessario "sacrificare" Moro per la "stabilità" dell'Italia). 

Il Gattosardo era dunque a conoscenza di tutto e, posto di fronte alla Ragion di Stato, dovette piegare la testa e lasciare al suo terribile destino il suo compagno di partito e maestro politico. 

Annamaria Cossiga, in una struggente intervista sul “Corriere” del 2020, ha raccontato il dramma del padre: ‘’il suo dolore era visibilmente somatizzato: i capelli gli diventarono bianchi, la pelle macchiata dalla vitiligine. Si sentiva responsabile di quella morte. E sì, capitava che di notte si svegliasse dicendo: “L’ho ucciso io”.

Esterno Notte: la serie evento sui tragici giorni del rapimento di Aldo Moro. Francesco Canino su Panorama il 14 Novembre 2022

 Lunedì 14, martedì 15 e giovedì 17 novembre su Rai 1 il progetto in sei puntate del regista Marco Bellocchio, con Fabrizio Gifuni, Esterno Notte: la serie evento sui tragici giorni del rapimento di Aldo Moro. Margherita Buy e Toni Servillo, che racconta una delle più drammatiche pagine della storia. E la famiglia Moro critica il progetto Roma 1978. L’anno tra i più drammatici e ingombranti per la storia del nostro Paese, tra violenze di piazza, gambizzazioni, scontri a fuoco, attentati. Il 1978 è soprattutto l’anno del rapimento e dell’omicidio del presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, da parte delle Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra: sta per insediarsi, per la prima volta in un paese occidentale, un governo sostenuto dal Partito Comunista (guidato da Enrico Berlinguer), in una storica alleanza con la Democrazia Cristiana, e Moro è il principale fautore di questo accordo. Proprio nel giorno dell’insediamento del Governo, il 16 marzo 1978, sulla strada che lo porta in Parlamento, Moro e gli uomini della sua scorta cadono in un agguato in via Fani a Roma. Ed è un inedito racconto dei tragici giorni del suo rapimento Esterno Notte, la serie evento di Rai1 diretta da Marco Bellocchio, che sperimenta per la prima volta la serialità e lo fa indagando la molteplicità dei punti di vista dei personaggi che di quella tragedia furono protagonisti e vittime. Il risultato è un prodotto straordinario, di grande impatto emotivo (e non solo), complice anche un super cast: oltre a Fabrizio Gifuni (nei panni di Moro), ci sono anche Margherita Buy (in quelli della moglie Eleonora Chiavarelli), Toni Servillo (Papa Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Daniela Marra (Adriana Faranda). Ecco tutto quello che c'è da sapere sulla serie in tre puntate in onda lunedì 14, martedì 17 e giovedì 17 novembre. Esterno Notte, la serie evento sul rapimento di Aldo Moro È la mattina del 16 marzo 1978 quando il presidente della Dc viene rapito e l’intera scorta sterminata: è un attacco diretto al cuore dello Stato e la sua prigionia durerà cinquantacinque giorni, scanditi dalle lettere di Moro e dai comunicati dei brigatisti. Cinquantacinque giorni di speranza, paura, trattative, fallimenti, buone e cattive azioni, al termine dei quali il suo cadavere verrà abbandonato in un’automobile in via Caetani, esattamente a metà strada tra la sede della Democrazia Cristiana e quella del Partito Comunista Italiano. «Esterno Notte perché stavolta i protagonisti sono gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro: la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati. Protagonisti celebri, sempre in tv e sui giornali, ma anche sconosciuti», spiega il regista Marco Bellocchio, che ha voluto raccontare l'esterno di quei cinquantacinque giorni italiani stando fuori dalla prigione tranne che alla fine, all’epilogo tragico.

Così a parlare, a raccontarsi, a tacere sono quelle persone che «durante il sequestro, per cercare di salvarlo, per far finta di salvarlo, boicottando apertamente o segretamente ogni trattativa, fino al tragico grottesco delle sedute spiritiche e dei viaggi all’estero per consultare sensitivi che potessero dare delle informazioni utili sulla prigione». Il risultato è una serie in tre puntate che Le Monde ha definito «un'opera di una profondità e di un'ampiezza mozzafiato». A scriverla, oltre a Bellocchio, sono stati gli sceneggiatori Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino. La famiglia Moro contro la serie di Rai1 «O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». È uno sfogo duro e netto quello di Maria Fida Moro, la primogenita di Moro, convinta che la narrazione televisiva non possa rispecchiare la verità storica. L'ex senatrice già si era espressa a nome della famiglia contro il progetto durante le riprese e poi l'uscita nelle sale e alla vigilia della messa in onda su Rai1 rincara la dose: «Non pretendo che gli altri - che non hanno provato - capiscano, ma a dispetto dell'esperienza seguito a sperarci». Poi la stoccata finale, sempre affidata all'agenzia Agi: «È già vergognoso infischiarsene del dolore altrui ed è doppiamente vile usarlo per fare affari. Nel 1963 papà conclude così un discorso credo a Firenze: 'Lasciamo dunque che i morti seppelliscano i morti, noi siamo diversi, noi vogliamo essere diversi dagli stanchi e rari sostenitori di un mondo ormai superato'».

Aldo Moro, Presidente della DC, il primo partito d’Italia, è stato liberato dalla Brigate Rosse, l’organizzazione terroristica di estrema sinistra che l’aveva rapito, ed ora scruta con occhi inclementi i suoi compagni di partito, riuniti al capezzale del suo letto di ospedale: Giulio Andreotti, Francesco Cossiga e il segretario di partito Benigno Zaccagnini. In realtà Aldo Moro non è stato ancora rapito e sta invece lavorando per far nascere il primo governo di unità della storia repubblicana con l’appoggio esterno del PCI. Da un lato contiene i malumori espressi dai rappresentanti delle correnti del suo partito, dall’altro si adopera per ottenere la garanzia del voto di fiducia da parte del segretario del PCI Enrico Berlinguer. Il “compromesso storico” di cui Moro è primo promotore, però, suscita malumori ovunque: nei corridoi di Montecitorio, in piazza tra gli studenti universitari e in Vaticano, dove Papa Paolo VI esprime al Presidente della DC tutte le sue perplessità. Intanto Adriana Faranda, Bruno Seghetti e Raffaele Fiori, alcuni membri della “colonna romana” delle BR, rapiscono Moro il 16 marzo, giorno stesso della fiducia al IV governo Andreotti, dopo aver ucciso in via Fani i cinque uomini della sua scorta. Francesco Cossiga, neo ministro dell’Interno, presiede il Consiglio di guerra convocato in seguito al rapimento anche se i sensi di colpa per quanto accaduto sembrano sopraffarlo. Domenico Spinella, capo della Digos, vorrebbe coinvolgere i responsabili della sicurezza del PCI nelle indagini, dal momento che hanno uomini proprio in quegli ambienti che più fiancheggiano l’operato delle BR, ma i colonnelli del Consiglio si oppongono al loro coinvolgimento. Nel frattempo la brigatista Adriana Faranda viene riconosciuta da più testimoni come colei che avrebbe acquistato le finte divise da aviatore servite al commando di brigatisti per appostarsi senza dare nell’occhio. Nei controlli a tappeto che seguono gli agenti di Polizia arrivano fino al covo di via Gradoli dove si nascondono i brigatisti Mario Moretti e Barbara Balzerani, ma quando nessuno gli apre, invece che sfondare la porta desistono. Intanto la richiesta di Aldo Moro di avviare una trattativa segreta con le BR fatta pervenire privatamente a Cossiga viene vanificata dalla pubblicazione della lettera. Un consulente americano specializzato in rapimenti di ostaggi suggerisce al ministro dell’Interno di discreditare Moro così da rendere sue eventuali confessioni inattendibili e al contempo di fingere di aprire una trattativa con le BR per poi forzarli a una resa incondizionata. Quando il 15 aprile 1978 le Brigate Rosse condannano a morte Moro, lo esorta a sondare le reazioni dell’opinione pubblica nell’eventualità della sua morte: Cossiga fa pubblicare un falso comunicato delle BR in cui annunciano l’uccisione di Moro e l’occultamento del suo cadavere nel lago della Duchessa, in Abruzzo.

Il rapimento Moro con gli occhi di vittime e protagonisti. Redazione Spettacoli su La Gazzetta del Mezzogiorno il 14 Novembre 2022

Il racconto dei tragici giorni del rapimento di Aldo Moro, visti attraverso i molteplici punti di vista dei personaggi che di quella tragedia furono protagonisti e vittime: lo propone «Esterno Notte» di Marco Bellocchio che oggi, domani e giovedì in prima serata su Rai 1, torna su quelle drammatiche pagine della nostra storia con un nuovo originale sguardo. «Ho voluto stavolta farne una serie - dice il regista - per raccontare l’Esterno di quei 55 giorni italiani stando però fuori dalla prigione tranne che alla fine, all’epilogo tragico. “Esterno notte” perché stavolta i protagonisti sono gli uomini e le donne che agirono fuori della prigione, coinvolti a vario titolo nel sequestro: la famiglia, i politici, i preti, il Papa, i professori, i maghi, le forze dell’ordine, i servizi segreti, i brigatisti in libertà e in galera, persino i mafiosi, gli infiltrati». Nel cast, Fabrizio Gifuni nel ruolo di Aldo Moro, Margherita Buy (Eleonora), Toni Servillo (Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci), Daniela Marra (Adriana Faranda).

Esaltato dalla stampa internazionale al Festival di Cannes, accolto con dieci minuti di applausi, «Esterno Notte» è stato definito «un dramma shakespeariano in sei atti» da Le Monde, «una grande serie che è anche grande cinema, senza dubbio uno degli eventi della nuova stagione» da Le Nouvel Observateur; mentre del regista, Liberation ha scritto: «Bellocchio trasforma il piombo in oro rivisitando un trauma nazionale grazie a una serie magistrale e feroce che somiglia soprattutto a un film fiume». «Esterno Notte» scritto da Marco Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi, Davide Serino, e diretto da Marco Bellocchio, è una serie Rai prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment, in collaborazione con Rai Fiction e coproduzione con Arte France.

La miniserie di Bellocchio. Esterno notte, perché senza il contesto politico l’uccisione di Moro è pura metafisica. David Romoli su Il Riformista il 18 Novembre 2022

È stupefacente come quasi tutte le innumerevoli ricostruzioni del delitto Moro astraggano dal contesto politico ed economico, nazionale e internazionale: limite a cui non sfugge del tutto neppure Esterno Notte di Bellocchio, che pure è uno dei tentativi più seri di ricostruire complessivamente quei 55 giorni. Il sequestro e l’uccisione del presidente della Dc appaiono come sospesi nel vuoto, oppure spiegati con una ricostruzione d’ordinanza, infondata e fiabesca: quella secondo cui il delitto mirava a impedire l’arrivo al governo del Pci berlingueriano. Manca sempre la percezione della drammaticità della situazione, il riflesso di una crisi che era la più grave nella storia della Repubblica anche prima della strage di via Fani e indipendentemente dalla tragedia dei 55 giorni. Eppure senza tener conto di quel contesto diventa impossibile spiegare le scelte che portarono al tragico epilogo della vicenda, se non affidandosi appunto a versioni da spy-story dozzinale.

La crisi che si snodò nel triennio 1976-79 e il cui esito fu deciso in larga parte dalla tragedia di Moro aveva tre aspetti diversi. Politicamente era conseguenza di una tornata elettorale, quella del 1976, dalla quale non erano emersi vincitori e vinti e che pertanto rendeva il Paese ingovernabile. Nelle democrazie, situazioni del genere sono sempre delicatissime. In Italia, recentemente, la stessa cosa si è verificata sia nel 2013 che nel 2018. Però azzardare paragoni tra la situazione attuale e quella di metà anni ‘70 sarebbe assurdo. Nei decenni della guerra fredda e della contrapposizione tra i due blocchi, l’assenza di un vincitore lasciava aperta come soluzione solo l’intesa fragile ed effimera tra partiti che ancora si guardavano reciprocamente come espressioni del blocco avversario, dunque come “belligeranti”. Il problema numero uno per i leader politici, sia alla vigilia che nei giorni del sequestro, era come uscire dallo stallo risolvendolo in una direzione o in quella opposta: con la vittoria del Pci, che certo avrebbe cercato di governare con la Dc ma in posizione di forza, o con quella della Dc. La paura che nuove elezioni anticipate registrassero quel sorpasso del Pci sulla Dc che era stato temutissimo alla vigilia del voto del 1976 condizionò le scelte del governo e della Dc in quella crisi politica di prima grandezza che fu il sequestro Moro.

La crisi era anche internazionale. Insediatasi alla Casa Bianca poco più di un anno prima, alla guida di un Paese smarrito dopo Watergate e dopo il disastro del Vietnam, l’amministrazione Carter adottava una dottrina opposta a quelle dell’amministrazione Nixon-Kissinger: la “non ingerenza”. Formula tanto suggestiva quanto indefinita. Nella guerra fredda una vera “non ingerenza” era impossibile. Si trattava quindi, più realisticamente, di dosare l’inevitabile ingerenza. Per gli Usa di Carter l’ipotesi di un governo italiano comunista o anche solo con la partecipazione dei comunisti era inaccettabile, nonostante le parziali rassicurazioni dell’ambasciatore in Italia Gardner. Anche un governo votato anche dai comunisti pur senza che ne farne parte era per la Casa Bianca un boccone quasi indigeribile. Infine la durissima crisi economica e sociale imponeva misure che avrebbero colpito soprattutto le fasce più povere e la classe operaia ma la forza dei sindacati, ancora immensa, rendeva impossibile procedere su quella strada senza il loro assenso. Per ottenere il quale il sostegno del Pci era imprescindibile.

La strage di via Fani piombò su questo rebus già quasi irresolubile. Il Pci non poteva che impugnare il vessillo della fermezza, perché aveva fondato la propria immagine vincente proprio sul presentarsi come il solo partito davvero dotato di senso dello Stato, serio e rigido al punto di chiedere sacrifici alla propria stessa base sociale in nome dell’interesse nazionale. Berlinguer avrebbe scelto la fermezza comunque ma a maggior ragione dopo che i sindacati avevano chiarito al premier Andreotti, il giorno stesso del sequestro, che dopo l’uccisione di cinque lavoratori in divisa non avrebbero accettato uno scambio per liberare il leader politico sequestrato. La Dc non poteva trattare perché in caso contrario il Pci avrebbe certamente provocato la crisi ed elezioni anticipate che, presentandosi come solo vero difensore della fermezza in difesa dello Stato, avrebbe probabilmente vinto.

Quella della fermezza fu una scelta politica, non etica o di principio. Fu dettata da una disposizione del quadro politico mai prima tanto delicata e dalla consapevolezza che dall’esito della vicenda di Moro sarebbe dipeso quello dello stallo creatosi nel 1976. Così come fu un calcolo politico che spinse il segretario del Psi Craxi a prendere posizione contro la fermezza per incunearsi in quell’accordo tra Dc e Pci che lo tagliava fuori ma che sapeva essere in realtà fragile. In una prima fase, la fermezza, cioè il sacrificio dell’ostaggio, rinsaldò quell’asse e suonò come una vittoria del Pci, principale alfiere di quella linea rigida. La politica di riforme nei mesi successivi all’uccisione di Moro confermò quella sensazione e fu quasi certamente più coraggiosa di quanto non sarebbe stata con il prudentissimo Aldo Moro vivo e al timone. Ma fu vittoria più apparente che reale. Cercando di spiegare le loro motivazioni all’ambasciatore americano sia Andreotti che Moro giustificarono la scelta di fare entrare il Pci nella maggioranza con la necessità di ottenere il semaforo verde dei sindacati per le politiche di rigore. Ma anche, e anzi soprattutto, con la la convinzione che proprio il sostegno a quelle politiche avrebbe fatto perdere al Pci milioni di voti, risolvendo così il pareggio del ‘76 a loro vantaggio. Profezia puntualmente avveratasi con le politiche del 1979.

È probabile che la visione di Moro fosse meno truffaldina e non si limitasse, come per il grosso del suo partito e per Andreotti stesso, a cercare di mettere in trappola il Pci. Moro mirava davvero ad assorbire nel sistema il Pci, disinnescandone le valenze innovative ma proprio per questo legittimandolo quale forza di governo, come aveva fatto con il Psi e come avrebbe proposto di fare, dal carcere del popolo di via Montalcini, persino con le Br. Ma sia le sue parole che il suo modus operandi indicano che si sarebbe dovuto trattare, nella sua visione, di un processo lungo e lento. Del resto, l’uomo era troppo consapevole dei rapporti di forza internazionali per non sapere che gli americani non avrebbero accettato passi ulteriori oltre quello che già avevano subìto molto malvolentieri e con immense resistenze, cioè la maggioranza allargata al Pci.

La fase cruciale che va dal 1976 al 1979 segnò anche l’inizio della fine per la prima Repubblica, perché a declinare fu il bipolarismo Dc-Pci che ne era stato la colonna vertebrale, sostituito da un gioco di potere tutto interno alla maggioranza di centrosinistra, in concreto alla Dc e a Bettino Craxi. Dire come si sarebbe conclusa quella fase di snodo senza le tragedie di via Fani e di via Caetani naturalmente è impossibile. Di fatto però fu la crisi tutta politica dei 55 giorni a deciderne l’esito e a condizionare di conseguenza l’intero percorso del decennio successivo, fino al tracollo della prima Repubblica all’inizio degli anni ‘90. Senza avere presenti la difficoltà e la drammaticità dell’intera fase nella quale intervenne la crisi Moro diventa impossibile mettere a fuoco le scelte politiche dei protagonisti. È una trappola nella quale cade anche Bellocchio e che lo porta a sottovalutare il ruolo invece determinante che ebbe il Pci nei 55 giorni, il vero limite della sua ricostruzione. David Romoli

Su Rai Uno un dramma in sei atti su Aldo Moro. Aldo Grasso / CorriereTv su Il Corriere della Sera il 20 Novembre 2022.

Su Rai Uno un dramma in sei atti su Aldo Moro, autore Marco Bellocchio, la serie di chiama “Esterno Notte” che richiama il film girato tanti anni fa da Bellocchio sempre su Moro, “Esterno Giorno”. Polemiche sulla ricostruzione storica dei fatti, ma il regista interroga le coscienze dei personaggi che vanno letti come se fossero dei fantasmi.

Vittorio Feltri inchioda la sinistra: "I morti che fingono di scordare". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 20 novembre 2022

Bellocchio, un asso del cinema, ha mandato in onda una serie televisiva dedicata alla tragedia di Aldo Moro. Indubbiamente un'opera importante che aiuta i più giovani, nel senso dei quaranta -cinquantenni, a capire cosa accadde in quegli anni tetri, i Settanta, durante i quali il Paese fu travolto dalle Brigate Rosse, un esercito formatosi sulle ceneri del cosiddetto Sessantotto. Anche in questo momento si agita lo spauracchio del fascismo, il peggiore dei mali che ancora oggi, secondo la sinistra, ammorba la vita nazionale. Mi sembra tuttavia chiaro che le camicie nere c'entrano con l'assassinio del presidente della Dc come i famosi cavoli a merenda.

L'autorevole leader politico fu sequestrato da uomini appartenenti al partito comunista armato, e poi abbattuto. Ma la pubblicistica progressista, mentre è ossessionata dal duce e dai suoi tardivi seguaci, tace sui misfatti dei signorini che brandivano, non solo la falce e martello, ma anche la P38.

Neanche una parola di biasimo. Ogni tre minuti i rossi rammentano l'attentato mortale in cui perì Matteotti, ma scordano l'agguato a Moro, durante il quale furono freddati addirittura cinque agenti della sua scorta, ammazzati così, tanto per gradire.

In conclusione: Matteotti, stando alla vulgata degli eredi dei comunisti è considerato un martire, invece Moro sarebbe morto di raffreddore. Questo dettaglio grida vendetta, ma fa anche ridere dato che la stupidità spesso si sposa con la comicità. Il socialista fu eliminato dagli amici di Mussolini oltre un secolo fa, mentre Moro fu sacrificato dai compagni nel 1978, quando io ero già padre di quattro figli e lavoravo al Corriere della Sera. Eppure in questa Italia sbilenca i fascisti sarebbero ancora una minaccia perla nostra debole democrazia, viceversa i comunisti o ex tali continuano ad essere applauditi e perfino votati.

Siamo nel grottesco. Tanto è vero che anche l'opinione pubblica viene influenzata da certe idee balzane, dominano l'ignoranza dei fatti e la smemoratezza. Alcuni giorni orsono i giornali hanno pubblicato la foto del manichino di Giorgia Meloni a testa in giù in una piazza, esattamente come accadde al dittatore nero dopo la fucilazione. Non si trattava di un episodio folkloristico bensì di un auspicio. Questa è la squallida realtà. I pericoli e il cattivo gusto provengono dalla sinistra, e la destra li subisce senza nemmeno il diritto di protestare.

Il morbo ideologico che "salva" le Br. Nel nuovo film di Marco Bellocchio sono tutti colpevoli. Tranne i veri assassini. Claudio Siniscalchi su Il Giornale il 24 Novembre 2022

Leonardo Sciascia nel 1978 decise di pubblicare un velenoso libretto sull'«affaire Moro». Da quel momento l'«affaire» si è trasformato nel più rappresentato fra i tanti misteri - veri, verosimili ma perlopiù immaginari - dell'Italia repubblicana. Cinque processi. Due commissioni parlamentari. Ricostruzioni storiche. Inchieste giornalistiche. Varie pellicole. Un'infinità di versioni dei fatti. La mattanza del 16 marzo 1978, oltre alla successiva prigionia e condanna a morte di Aldo Moro (e tutto quello che ne conseguì, di buono o cattivo) è diventato un «caso». Anzi, a essere precisi, come aveva intuito Sciascia, un «affaire».

L'ultima puntata della mitologia (non della storia) del rapimento e dell'uccisione del politico italiano più rappresentativo è andata in onda con la trasmissione su Raiuno di Esterno notte di Marco Bellocchio. Si tratta di un lungometraggio suddiviso in due parti, uscito dopo la presentazione nel maggio scorso al Festival di Cannes. Gli incassi non sono stati strepitosi (700mila euro complessivi). Al contrario della fanfara critico-mediatica, ricca di sviolinate spesso dai toni elegiaci. Sulle qualità formali del prodotto c'è poco da dire. Bellocchio - classe 1939 - è un regista di notevole mestiere. Anzi, col trascorrere del tempo il suo lavoro è sensibilmente migliorato. A metà carriera era volutamente sprofondato nel vuoto psicoanalitico. Per fortuna ha trovato la forza di tornare a galla. In precedenza, il regista aveva dedicato all'«affaire Moro» il lungometraggio Buongiorno, notte (2003), trovando ispirazione nella ricostruzione degli eventi operata dalla brigatista Anna Laura Braghetti. Ambientazione teatrale, claustrofobica come la prigionia. Opera tutto sommato ben realizzata, storicamente assai vaga. Con una grave caduta di stile, imperdonabile: la seduta nella quale si domanda allo «spirito di Bernardo» di indicare il nascondiglio, e quello c'azzecca: Gradoli! Nel finale viene suggerito il colpevole della morte di Moro: il partito dell'intransigenza, incarnato dai democristiani Giovanni Leone, Giulio Andreotti e Francesco Cossiga.

In Esterno notte la staticità della prigione è abbandonata, sostituita dalla movimentata agitazione dei palazzi della politica. Lo schema di fondo - la lettura storica degli avvenimenti - è che Moro sia stato ucciso per via del «compromesso storico». I democristiani contrari all'accordo si fregano le mani. Non cedendo alla trattativa, preparavano la trappola perfetta. Con una sola esca avrebbero contrastato efficacemente l'avanzata comunista e, al contempo, smantellato la galassia terrorista. Sul piano della ricostruzione storica tutto ciò regge? Nemmeno per sogno. Il «compromesso storico» con la morte di Moro non c'entra nulla. Non infastidiva gli americani. Né i sovietici. L'Italia era un Paese a «sovranità limitata». La «guerra fredda» l'aveva relegata nel blocco atlantico. E lì sarebbe rimasta. Come l'Ungheria e la Cecoslovacchia, sottoposte al controllo sovietico.

Al di là delle tante (troppe) interpretazioni contrastanti, senza dimenticare ovviamente le ombre, almeno su un punto si dovrebbe concordare. Moro venne ucciso dalle Brigate Rosse. Il brigatismo è il frutto avvelenato di quanti, dal 1968 in poi, si sono ritenuti depositari della tradizione marxista-leninista, ergendosi a guardia armata della classe operaia. Il partito di governo, senza ombra di dubbio sottovalutò il pericolo. Fece poco o nulla per contrastarlo sul nascere. Lo stesso errore venne commesso dall'opposizione comunista. Invece in Esterno notte la responsabilità della morte di Moro è imputata alla spregiudicatezza e al cinismo degli uomini politici di punta della Dc. La stessa versione si trova nella serie tv Romanzo criminale. I malavitosi romani riescono a sapere dove si trova il nascondiglio. I servizi segreti per ordini superiori non usano l'informazione. L'accostamento è imbarazzante. Ma Bellocchio fornisce la stessa versione dei fatti.

Bellocchio in gioventù contrasse il morbo ideologico della sinistra sessantottina. Lo riversò, anche in salsa cinese, nella sua opera. L'ha solo messo in soffitta per un po', inseguendo la spirale vorticosa della psiche e della sessualità. In vecchiaia il morbo è riemerso. Il regista, dopo l'eskimo, la giacca cinese, l'abito dello psicanalista spregiudicato, ha indossato i panni borghesi del pedagogo. Però di parte. In Esterno notte ridicolizza la figura di Paolo VI, impegnato a chiudere aiuto a Dio per salvare l'amico fraterno di gioventù (punendosi), e a condurre sottotraccia una «trattativa» con i rapitori, ammucchiando ingenti palate del necessario «sterco del demonio». Ma il vero artefice della «trattativa» per liberare Moro fu Bettino Craxi. Che naturalmente appare di sfuggita, perché Craxi è l'icona del male della sinistra italiana. I democristiani escono distrutti dalla rappresentazione; i comunisti invece sono messi al riparo dalla quasi totale assenza.

Il regista ha dichiarato che non voleva fare un film storico. Purtroppo, il suo è un film storico, e con la storia deve fare i conti. Ed è una storia fasulla. L'Italia monarchica e fascista andò in frantumi l'8 settembre 1943. Quella repubblicana rischiò di disintegrarsi dopo il 16 marzo 1978. Fortunatamente il sistema resse l'onda d'urto. Ma di questa storia, ormai largamente condivisa da quanti hanno cercato di studiare quegli anni senza pregiudizi o paraocchi ideologici, nell'opera di Bellocchio non vi è alcuna traccia. Nei film spesso si trova all'inizio una scritta: «riferimenti a fatti storici e a personaggi realmente esistiti, devono considerarsi puramente causali». Appunto!

Maurizio Caverzan per “La Verità” il 18 novembre 2022.

Tale padre tale figlio, anche Stefano Andreotti conserva una discreta ironia capace di sdrammatizzare le situazioni più scabrose. Nella serie Esterno notte trasmessa in questi giorni da Rai 1 suo padre Giulio è dipinto come l'anima nera della Democrazia cristiana, l'uomo che più perseguì la strategia della «fermezza» e addirittura ostacolò i tentativi di salvare Aldo Moro. 

Eppure, il settantenne terzogenito dell'ex presidente del Consiglio democristiano morto nel 2013, conserva il distacco per sfoderare un particolare illuminante: «Ha presente nella fiction quando, la mattina dell'agguato in Via Fani, si vede Moro leggere La Repubblica?». Sì, certo. 

«Quella mattina il vero titolo di Repubblica era: "Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro". Questo per dire la sciatteria o, peggio, la volontà di distorcere i fatti». 

Mentre il pubblico si è mostrato tiepido, la critica ha curiosamente elogiato l'opera di Marco Bellocchio, a dispetto del fatto che la ricostruzione contenuta nei sei episodi, nonostante la consulenza storica di Miguel Gotor e giudiziaria di Giovanni Bianconi, o forse proprio a causa di queste, sia distante dalla verità. 

Alla fine ha ceduto e ha visto Esterno notte, contrariamente a quanto aveva dichiarato dopo la presentazione al Festival di Cannes.

«Qualcuno mi ha convinto in modo educato a farlo». 

Qual è stata la sua prima reazione?

«Mi è venuta subito in mente l'intervista che mio padre concesse al Giornale nel 2003, subito dopo l'uscita di Buongiorno, notte, il precedente film di Bellocchio. In quell'intervista si rammaricava che la produzione fosse della Rai. 

E si lamentava che ci fossero grandi inesattezze nella ricostruzione degli eventi. In particolare, riguardo alla sua forte pressione su papa Paolo VI affinché nell'appello, che poi fece pubblicamente in Piazza San Pietro, aggiungesse la famosa frase per il rilascio dell'ostaggio "senza condizioni"». 

Anche in questa serie il regista ripropone il biglietto fatto pervenire al Papa prima dell'appello.

«Nel film era su carta intestata della presidenza del Consiglio, nella serie questo dettaglio non è specificato, ma è chiaro che l'estensore è lo stesso. Quando certe circostanze sono accreditate una volta, poi vengono ripetute. 

Anche altri hanno ripetuto l'assoluta falsità che mio padre avrebbe imbeccato Paolo VI. Nei suoi diari c'è la ricostruzione di quei giorni. C'è il memoriale scritto da monsignor Angelo Macchi, segretario particolare del Papa, che veniva quasi tutte le sere a casa nostra per un reciproco aggiornamento. 

Quel memoriale credo non sia mai stato visto da nessuno, eppure racconta bene che il discorso di Montini è nato senza condizionamento alcuno. Fu scritto, riscritto e corretto prima di pronunciare la versione definitiva».

Condivide il pensiero di Maria Fida Moro quando dice che «o si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace»?

«Lo condivido appieno. Credo non sia giusto entrare nella sfera del dolore soprattutto della sua famiglia. Se si vuole parlare di Moro se ne parli come personaggio storico e non si approfitti di altre situazioni per entrare in casa loro in quel modo. Sono passati 45 anni: non ritengo giusta questa insistenza». 

Come dimostra la lettura della lettera nella quale Moro ringrazia le Br per l'avvenuta liberazione che a un certo punto sembrava probabile, Bellocchio sembra abbracciare la tesi di Leonardo Sciascia per il quale alla Dc, al Pci e ai corpi dello Stato faceva comodo che Moro fosse lasciato morire.

«Bellocchio sposa la tesi che non è stato fatto nulla per liberarlo, anzi, si è remato contro. Perciò, si mostra l'episodio in cui il capo della Digos Domenico Spinella dice di non sfondare quello che era un covo dei terroristi. 

Sono ricostruzioni decontestualizzate, che seguono dietrologie contenute in tante pubblicazioni o negli atti di commissioni politiche successive. Magari si poteva anche dare un'occhiata ai Diari degli anni di piombo relativi al periodo 1976-1979 pubblicati già allora. E che di recente abbiamo integrato con altre carte che, all'epoca, mio padre aveva preferito non divulgare. I Diari erano scritti giorno per giorno, mentre i fatti accadevano, non sono ricostruzioni a posteriori. Forse confrontarsi con questo materiale non era nelle corde degli autori della serie tv». 

Miguel Gotor, storico e consulente del regista, dice che la «libertà artistica è un bene supremo».

«Concordo e per fortuna in Italia non è mai mancata. Ma credo che ci sia un'ambiguità: si fa una fiction con l'ambizione di una ricostruzione storica. Se questo è lo scopo ci si dovrebbe basare su dati sicuri effettivamente riscontrati». 

Eppure la critica ufficiale elogia «il rigore di Bellocchio».

«Non so. Non ho ancora visto le ultime due puntate. Se tutto il negativo di quei giorni è ascrivibile alla Democrazia cristiana e ai suoi componenti mentre il Pci di Enrico Berlinguer e gli altri leader allineati sulle stesse posizioni sono sgravati di ogni responsabilità, non mi sembra un gran rigore». 

Anche Eugenio Scalfari e Repubblica erano in prima linea nella scelta della fermezza.

«Esatto. Mi sono annotato un particolare divertente: nella scena del tragitto in auto verso Via Fani si vede Moro leggere Repubblica. Sa qual era il titolo del giornale del 16 marzo 1978? "Antelope Cobbler? Semplicissimo, è Aldo Moro". Questo dice la sciatteria o peggio la mistificazione in atto». 

Suo padre esce come la vera anima nera di quei giorni.

«Che si doveva fare meglio è evidente, ma l'apparato dello Stato e dei suoi corpi mostrò tutta la sua arretratezza. Uno dei passaggi più verosimili della fiction è quando Cossiga dialoga con il consulente statunitense che gli dice che mentre per gli americani dietro le Brigate rosse ci sono solo le Brigate rosse, per gli italiani ci sono sempre altre realtà, altri burattinai. Siamo malati di dietrologia. 

Al di là dei processi subiti negli anni Novanta, il più grande dolore della vita politica di mio padre è stato che qualcuno ha insinuato non solo che non ha fatto nulla, ma addirittura che abbia ostacolato la possibilità di salvare Moro». 

La fermezza era compatibile con percorsi di trattativa ufficiosi?

«Certo. Mio padre si era attivato con varie associazioni umanitarie e anche con Gheddafi, Tito, persino Fidel Castro. Soprattutto c'è stato il tentativo di pagare un riscatto di 10 miliardi di lire, non di 20 come si vede nella fiction.

È tutto scritto nei Diari. Un'altra differenza è che il Vaticano si tira indietro perché ritiene che sia una truffa. In realtà, l'ipotesi del riscatto resse fino all'ultimo ed era concordata con Berlinguer, tramite il suo segretario Tonino Tatò, e Franco Rodano, che era un cattolico nel Pci». 

Eleonora Moro dice a Paolo VI che l'unico a non andarla a trovare è Andreotti.

«Mio padre era presidente del Consiglio, la sentiva spesso telefonicamente. Non si è mai voluto mostrare. Conosceva Moro dalla guerra e anche lei dal tempo della Fuci.

Moro aveva scelto mio padre come capo del governo della "non sfiducia" del 1976 e poi l'aveva nuovamente scelto per quello che giurava quella mattina con l'appoggio esterno del Pci. Che da una parte della famiglia ci sia stato risentimento lo capisco. Il rapporto con Maria Fida invece è sempre stato ottimo anche dopo la tragedia finale». 

In casa parlavate di come comportarvi se al posto di Moro ci fosse stato suo padre?

«In quel periodo lo vedevamo molto poco. Ricordo benissimo che in più di un'occasione, anche alla presenza di monsignor Macchi, ci disse che se fosse accaduto qualcosa a lui dovevamo accettare la stessa linea scelta in quel momento dallo Stato. Mio padre è stato un obiettivo delle Br. 

Alberto Franceschini ha raccontato di averlo pedinato e di averlo urtato una mattina quando scendeva dalla macchina per vedere la reazione della scorta». 

Da Bellocchio al Divo di Paolo Sorrentino che risposta si dà a proposito del fatto che il cinema tratteggia suo padre sempre in una luce negativa?

«Si continua a coprire di fango una persona e il partito cui apparteneva. Non è solo il cinema a descriverlo così. 

Per capire perché questo accade dobbiamo ricordarci di ciò che è accaduto in Italia all'inizio dei Novanta con la demonizzazione di tutti i rappresentanti dei partiti di governo, con l'incredibile eccezione dei perdenti della storia. Eppure, come dice Paolo Cirino Pomicino, gli sconfitti della storia sono proprio quelli che vogliono continuare a scriverla. A modo loro».

Anna Corazza per “La Stampa” il 15 novembre 2022.

La figlia di Aldo Moro, Maria Fida Moro, all'Agi ha rilasciato un durissimo sfogo contro Esterno notte, la serie di Marco Bellocchio da ieri sera su Rai1. «È già vergognoso infischiarsene del dolore altrui ed è doppiamente vile usarlo per fare affari», ha detto. Citando le parole del padre pronunciate nel ‘63 forse a Firenze: «Lasciamo che i morti seppelliscano i morti, noi vogliamo essere diversi, noi vogliamo essere diversi dagli stanchi e rari sostenitori di un mondo oramai superato». 

Abbiamo chiesto allo storico Miguel Gotor, che ha collaborato con Bellocchio e che è uno dei maggiori studiosi di quegli anni terribili della Repubblica, di commentare le parole di Maria Fida. E di contestualizzare la vicenda che più ha segnato l'Italia del dopo guerra.

Maria Fida dice che o siamo personaggi storici e allora si rispetta la storia, o siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace. Che risponde?

«Rispondo con le parole lapidarie con cui la famiglia Moro commentò a caldo l'omicidio del congiunto: "Sulla vita e sulla morte di Aldo Moro giudicherà la storia". Provo un grande rispetto per la sua persona e per il dolore che ha vissuto insieme con il figlio Luca e ho apprezzato i libri che ha scritto sul padre, che abbiamo utilizzato, tra gli altri, come fonte del racconto. Ma certo questa vicenda non è una storia privata».

 quel periodo. Accusa chi strumentalizza il dolore suo e di suo figlio per fare soldi. Ma il caso Moro è strettamente legato alla tragedia della sua famiglia, è possibile raccontare quegli anni censurando gli aspetti privati?

«Un film è per definizione un'opera di finzione o, come si dice ora, di fiction. Credo che la libertà artistica, che naturalmente è anche libertà di invenzione e di creazione, sia il bene supremo da tutelare. Un film che sceglie come argomento di partenza un fatto storico è equiparabile a un romanzo storico, un genere anfibio su cui esiste un dibattito plurisecolare che è incentrato sui rapporti tra verità storica, verosimiglianza e invenzione».

Che importanza ha invece far conoscere la storia di Moro? Bellocchio dice che questa volta non è un film ideologico. E merito della sua collaborazione alla sceneggiatura?

«Vorrei chiarire che non ho collaborato alla sceneggiatura ma sono stato consulente storico del film. È stata una esperienza molto interessante perché mi ha permesso di seguire da vicino il processo creativo di un maestro dell'arte cinematografica come Marco Bellocchio e assistere alle diverse fasi di scrittura di una squadra di sceneggiatori molto bravi. Posso dire che tutto il lavoro è stato improntato al massimo rispetto non solo della figura di Moro, ma di tutti i protagonisti di questa tragedia».

Quanto sarebbe stata diversa la storia politica italiana se Moro non fosse stato rapito e ucciso?

«Non saprei dirlo anche perché è la storia italiana con la sua complessità e stratificazione che ha ucciso Moro. È la storia non è una favola nella quale cambi il finale a piacimento, ha un nucleo necessitante che costituisce il suo fascino proprio perché è anche sempre storia di libertà. Sono le scelte degli uomini che vanno comprese nel contesto in cui scaturiscono. Se la storia è una scienza lo è del contesto e dei rapporti di forza». 

Avete avuto contatti con gli altri figli del presidente?

«Con Agnese e Giovanni Moro ci sono stati scambi di messaggi e un incontro. Consideri che per quanto mi riguarda stiamo parlando di due persone alle quali mi lega un rapporto di stima e di amicizia».

Pensa che i ragazzi di oggi conoscano la storia di quegli anni?

«La storia non si conosce mai abbastanza. Se un film come questo può accendere un interesse di un giovane di oggi nell'approfondire le dinamiche che hanno portato al rapimento e alla morte di Moro leggendo un libro di storia ne sarei contento. Ma non dobbiamo confondere le lingue: un film è un film che va giudicato per ciò che è. E questa serie per la televisione in tre puntate di Bellocchio è un'opera originale e di grande valore che ha il merito di rivolgersi al pubblico in prima serata con un prodotto che obbliga a pensare. Nel panorama attuale non mi pare poco». 

La miniserie che racconta il rapimento Moro. “Esterno notte” è un grande film, lo sguardo di Bellocchio resta unico. Angela Azzaro su Il Riformista il 16 Novembre 2022

Il primo motivo per cui non si può non stare dalla parte di Marco Bellocchio e del suo Esterno notte è che la puntata di lunedì (giovedì è prevista la terza e ultima messa in onda) è stata trasmessa in contemporanea al Grande fratello vip. Da una parte il grande cinema, i grandi attori, dall’altra il nulla assoluto, il vuoto che come un buco nero tutto assorbe lasciando lo spettatore privo di qualsiasi emozione. E nonostante la sfida impari, Bellocchio è riuscito a portare a casa uno share del 18.6% (per un pubblico di 3.307.000 spettatori) mentre il reality di Canale 5 ha totalizzato il 21.9%. Un risultato più che buono per una produzione che porta la Storia in prima serata: non le solite fiction stereotipate e fatte con il bilancino per soddisfare i gusti della famiglia che la sera guarda la tv (un po’ di teen, un po’ di amore, un po’ di suspense). Non è detto che Esterno notte riesca a tenere questi numeri, il primo giorno c’è stato l’effetto evento a fare da traino. Comunque vadano gli ascolti è un film d’autore, è un’opera che può non piacere ma a cui è impossibile non riconoscere la grandiosità dello sguardo, la capacità del regista di entrare nell’animo dei protagonisti, di avere una sua visione per quanto non sempre realistica o puntuale dal punto di vista storico.

Marco Bellocchio aveva già raccontato il rapimento Moro in Buongiorno, notte. Il rapporto con i rapitori, l’abbandono da parte dei suoi “amici” di partito, le sue lettere che diventano sempre più dure contro quella Dc da cui si sentiva tradito. Il regista ritorna sul luogo della Storia e questa volta va a sviscerare tutti gli aspetti. L’inizio è visionario. Moro è stato liberato e si trova in un letto d’ospedale: al suo capezzale accorrono Cossiga, Andreotti e Zaccagnini. Sogno, realtà, finzione? Una scena toccante, perché nella sua assurdità ti fa vedere i “se” e i “ma” della Storia: ti fa capire, emozionando, come poteva essere diverso, come tutto poteva andare in un altro modo. Ti fa vedere la speranza, ti fa toccare con mano la possibilità. L’occhio del regista, nelle prime due parti trasmesse lunedì, usa la cronaca per parlare di un dramma umano che va al di là. Forse per questo un incipit così spiazzante: si parla di Moro, ma non è Moro. Moro è morto, Moro è stato ucciso. I fatti assurgono a una dimensione da tragedia shakespeariana: il dramma sono gli esseri umani alle prese con la Ragion di Stato. Il dramma è il conflitto tra ragione e sentimento, tra politica e vita privata, tra grande Storia e destini personali. In queste fessure, in queste aporie dal punto di vista filologico si insinuano, attraverso il meccanismo di identificazione, le storie personali: chi il giorno del rapimento Moro era a scuola, chi faceva politica, chi lavorava in un giornale. Chi…

Eppure proprio questa mancanza di fedeltà che ha suscitato le reazioni più controverse. Sicuramente quella della famiglia di Moro. Durissimo il commento della figlia Maria Fida: «O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». «Mio figlio ed io viviamo, nascosti in bella vista, col citofono, campanello, e telefono spenti – ha spiegato – ma ogni giorno un’ondata di tsunami ci raggiunge ugualmente. Non pretendo che gli altri – che non hanno provato – capiscano, ma a dispetto dell’esperienza seguito a sperarci». Bellocchio che ha definito Esterno notte meno ideologico del precedente Buongiorno, notte, si è scusato, non pensava di arrecare così tanto, nuovo dolore. Speculare la reazione di chi invece contesta al film di fare una descrizione stereotipata dei rapitori e delle contestazioni di quegli anni. Il nostro collaboratore e amico Frank Cimini ha parlato nel suo profilo facebook di “democratura”, riferendosi alla decisione della Rai di mandare in onda questa serie, proprio ora. “Lo Stato – ha scritto Cimini – con questo film anche dopo tanti anni si autoassolve”. Un messaggio che secondo lui, e molti altri, intende veicolare un messaggio anche rispetto all’oggi, a quello che stiamo vivendo con il nuovo governo.

La critica sulla descrizione tranchant dei rapitori è condivisibile ma non al punto da bocciare il film, il cui cuore pulsante è un altro: entrare nell’animo dei personaggi, creare una tensione che pur partendo da Moro, dalla sua morte, ci arriva ancora oggi. Non un messaggio di destra, ma il solito Bellocchio che affronta temi scomodi – come il suicidio assistito o la Storia – con uno sguardo intimo, che tende a piegare l’ideologia al vissuto. E poi c’è un altro aspetto che di questa miniserie, presentata a Cannes 2022 con successo, non si può trascurare: la bravura degli attori. A partire da un Fabrizio Gifuni in forma straordinaria. È riuscito, senza essere pedissequo o gigionesco, a fare un ritratto incredibile di Moro. La sua ossessione per il lavaggio delle mani, il suo sguardo, la sua scaltrezza. La sua intelligenza politica. Non si racconta una Storia pacificata, ma una Storia ancora oggi conflittuale. La differenza è nell’inquadratura. Nella recitazione. Nel montaggio. Nella fotografia. Nel modo di raccontare l’essere umano, cioè noi. La differenza è il grande cinema.

Angela Azzaro. Vicedirettrice del Riformista, femminista, critica cinematografica

Il sequestro del presidente della Dc. Il rapimento di Moro ha deviato la storia d’Italia: a destra o a sinistra? Piero Sansonetti su Il Riformista il 16 Novembre 2022

La mattina del 16 marzo, alle 9 e due minuti, le Brigate Rosse bloccarono le due auto con le quali Aldo Moro e la sua scorta stavano dirigendosi a Montecitorio. Una Fiat 130 e una Alfetta. Nessuna delle due era blindata. Fu un inferno di fuoco, durò esattamente tre minuti. I cinque uomini della scorta furono sterminati. Moro, illeso, fu trasferito a forza sulla Fiat 128 guidata da Mario Moretti, cioè dal capo delle Br. Poi fu spostato nel bagagliaio di un furgone e portato al covo nel quale restò prigioniero per 55 giorni, in via Montalcini, al Portuense.

Quel giorno fu deviata la storia d’Italia. A Montecitorio era prevista per le dieci la seduta della Camera chiamata a dare la fiducia al nuovo governo. Era un monocolore democristiano, guidato da Giulio Andreotti, che per la prima volta dal 1947 avrebbe ottenuto la fiducia dei comunisti. Il nuovo governo era frutto di un lunghissimo lavoro di mediazione condotto da Enrico Berlinguer e da Aldo Moro. Sul filo di equilibri difficilissimi. All’ultimo momento Moro, insieme ad Andreotti, aveva modificato la lista dei ministri, riducendo il numero dei tecnici orientati a sinistra ed aumentando il numero degli uomini più conservatori della Dc. Berlinguer si era infuriato e minacciava di non votare la fiducia. Alle 9 e 10 minuti la notizia del rapimento irruppe a Montecitorio. Berlinguer riunì la segreteria del partito e fu deciso di chiedere a Pietro Ingrao, che era il presidente della Camera, e a Fanfani, che era il presidente del Senato, di stringere i tempi del dibattito parlamentare e di votare la fiducia in serata. Berlinguer rinunciò a tutte le sue perplessità e diede ordine ai parlamentari di votare la fiducia. All’una di notte il governo era insediato.

E iniziò a muoversi su due binari. Il primo riguardava proprio il rapimento Moro, e Berlinguer, insieme al segretario della Dc, Zaccagnini (allievo e quasi fratello di Moro), e ai suoi vice (Galloni, Granelli, Bodrato e altri) stabilirono la linea della fermezza. Con le Br non si tratta. Craxi si dissociò. Anche nella Dc qualcuno si scostò dalla linea ufficiale. In particolare Fanfani e i suoi. Vinsero Berlinguer e Zaccagnini. La linea della fermezza fu affidata ad Andreotti e Cossiga che la applicarono con molto rigore. Il secondo binario sul quale si mosse il governo fu quello delle riforme. Anche su questo terreno il Pci prese la guida delle operazioni. In pochi mesi furono approvate alcune riforme importantissime. Prima di tutto l’introduzione dell’aborto (col voto contrario della Dc e cioè con l’opposizione del governo) poi la riforma sanitaria, che introduceva il diritto assoluto alla salute gratuita per tutti, poi la riforma psichiatrica, poi una clamorosa riforma degli affitti (di segno praticamente socialista) cioè l’equo canone, infine la riforma dei patti agrari, che riduceva i poteri dei proprietari di terra. Diciamo che si aprì la più grandiosa e feconda stagione riformista della storia della repubblica. Che si svolse sotto il tiro delle Brigate rosse e in pieno scorrere degli anni di piombo.

Una domanda che nessuno mai si è posto è questa: se Moro non fosse stato rapito, e se dunque la guida della maggioranza di unità nazionale fosse toccata a lui, e non a Berlinguer e Andreotti, si sarebbero realizzate le stesse riforme? Moro in realtà, alla guida della Dc – che dalla fine degli anni Cinquanta fino alla sua morte esercitò in alternanza con Amintore Fanfani – fu sempre un conservatore. Il primo periodo riformista del centrosinistra (con la riforma della scuola media e la nazionalizzazione dell’energia elettrica) avvenne sotto la direzione di Fanfani, non di Moro. Moro era grandioso nelle sue doti di mediazione ma anche nella sua capacità di aggirare gli ostacoli e rinviare i problemi. Era un politico-politico, convinto che per governare l’Italia si dovesse muovere poco mantenendo però sempre una grande apertura mentale. È probabile che un governo di unità nazionale guidato da Moro – e quindi coi comunisti e anche i socialisti in gabbia – avrebbe avuto una carica riformista molto ridotta.

Sarebbe interessante studiare anche questo aspetto, mai esplorato della politica e della storia italiana. Il terrorismo svolse – come si diceva allora – una funzione reazionaria, cioè – per reazione – spinse a destra l’Italia; o invece mise in mora la destra, aiutando oggettivamente una politica di riforme? Ci vorrà molto tempo per capirlo. Moro restò per 55 giorni nella prigione delle Br. Inviò centinaia di lettere polemiche verso tutto l’establishment. Si disse che in quel modo destabilizzò la politica italiana. Non è vero. Rafforzò l’asse tra Dc e Pci. Creando quella amalgama che in parte esiste ancora adesso è il nucleo forte del Pd.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Bellocchio e Gifuni: il fantasma di Moro in tv parla dell’Italia di oggi. L’elemento del grottesco e la dimensione del tragico coesistono nell’identità italiana. Straordinaria prova dell'attore che in «Esterno Notte» fa «rivivere» lo statista assassinato dalle Br con eloquio e gestualità misuratissimi ma esplosivi. Oscar Iarussi su La Gazzetta del Mezzogiorno il 16 Novembre 2022.

L’elemento del grottesco e la dimensione del tragico coesistono nell’identità italiana, che Piero Gobetti definì «l’autobiografia di una nazione» identificandola con il fascismo. Ma quella autobiografia si nutre di altri capitoli nel corso del secondo Novecento, fra i quali senz’altro vi sono l’omicidio di Pier Paolo Pasolini nel 1975 e il caso Moro, cioè il rapimento e l’uccisione del presidente della Democrazia cristiana, 16 marzo-9 maggio 1978. Le Brigate rosse perpetrano la strage di via Fani a Roma, in cui perdono la vita i cinque uomini della scorta, e sequestrano Aldo Moro sull’orlo del varo di un nuovo Governo Andreotti, un monocolore democristiano aperto al sostegno parlamentare del Partito comunista italiano. Moro ne era stato l’abile tessitore con l’intento di superare un sistema quasi paralizzato dalle forze contrapposte nella cornice della divisione geopolitica fra il blocco atlantico e l’impero sovietico, ben prima del crollo del Muro di Berlino nel 1989. Una determinazione morotea (sembra un ossimoro, eppure non lo è affatto) ad assorbire e contenere i conflitti che fu invisa a molti in Italia e all’estero, come adesso adombra anche la serie Esterno notte di Marco Bellocchio. Dopo la trionfale accoglienza all’ultimo Festival di Cannes e l’uscita primaverile in sala, la serie sta andando in onda con grande seguito su Raiuno (domani sera la terza e ultima parte).

Al pari di Pasolini, Moro è un fantasma ciclicamente pronto a inquietare e a interrogarci, come conferma un magnifico romanzo di Andrea Pomella, Il dio disarmato, da poco edito per i tipi di Einaudi. Ne è persuaso Fabrizio Gifuni che in teatro ha elaborato la fine di entrambi, il poeta e il politico, quali capri espiatori della nostra storia recente. L’attore nel film tv di Bellocchio fa letteralmente «rivivere» lo statista originario di Maglie (dov’era nato nel 1916), non certo in maniera mimetica nonostante l’impressionante somiglianza, e per certi versi «replicando» la prova in scena di Con il vostro irridente silenzio, una sua drammaturgia del memoriale e delle lettere dalla prigionia di Aldo Moro, diventata anche un libro edito da Feltrinelli. Moro è un leader isolato e incompreso, cui si vuole attribuire uno stato di alterazione o addirittura la pazzia da parte dei suoi colleghi di partito che, come i comunisti, si oppongono a qualsivoglia trattativa con i terroristi (diversa fu la posizione di Bettino Craxi e del Partito socialista). L’amarezza del protagonista e certi suoi sensi di colpa retrospettivi, insomma un autentico senso del tragico, si colgono grazie all’eloquio e alla gestualità misuratissimi eppure esplosivi dell’impareggiabile Gifuni, affiancato fra gli altri da Margherita Buy, ostinata e dolente Eleonora Moro, e da Toni Servillo negli abiti papali di Paolo VI.

Fa testo, per esempio, la confessione di Moro a un sacerdote poche ore prima della morte nel covo romano delle Brigate rosse. Un episodio di fantasia, che del resto è all’opera già nel prologo in cui Bellocchio mostra Moro liberato dai suoi carcerieri e in un letto di ospedale, deciso a dimettersi da ogni carica al cospetto degli amici-nemici Giulio Andreotti, Benigno Zaccagnini e Francesco Cossiga sul cui carattere «bipolare» e tormentatissimo la sceneggiatura è al contempo pietosa e impietosa (lo interpreta Fausto Russo Alesi).

Già nel 2003 Bellocchio aveva offerto una rilettura onirica della vicenda nel film Buongiorno, notte di cui questa serie è figlia. Una vena di irrealtà, struggente, era incarnata allora da Roberto Herlitzka nell’epilogo choc: il prigioniero libero in strada all’alba, sereno e smarrito... Moro come un politico dalla sostanza impolitica e talora quasi lirica (le sue «convergenze parallele» degne di un paradossale ermetismo alla Vittorio Bodini), un potente impotente dalla sostanza scespiriana. «Essere o non essere, questo è il problema: se sia più nobile d’animo sopportare gli oltraggi, i sassi e i dardi dell’iniqua fortuna, o prender l’armi contro un mare di triboli e combattendo disperderli». Amleto c’è sempre, anche nel dubitare straziante di Moro in Esterno notte, che non è cinema d’inchiesta, bensì indagine psicologica lungo il crinale di scelte cruciali che, cambiando la vita di un singolo, incidono sulla storia di tutti. È la cifra sempreverde dell’ottantatreenne Bellocchio, dal lontano esordio di I pugni in tasca a Nel nome del padre, fino a Vincere (il Mussolini «segreto») e Il traditore (il caso Buscetta): svelare le contraddizioni di un organismo sociale o politico è già sottrarsi alla sua tirannia. L’essenza della rivolta è un’assenza, la diserzione dal cinismo della realtà, il tradimento attuato o subito del proprio mondo.

Con la sua lingua tersa e talora lapidaria, pochi giorni prima di essere rapito, Moro ammonisce: «Questo Paese non si salverà, la stagione dei diritti e delle libertà si rivelerà effimera, se in Italia non nascerà un nuovo senso del dovere». Non diremmo sia poi mai nato e tuttora ci fa difetto, mentre prendeva piede il primato del grottesco di pari passo con il declino della politica e delle classi dirigenti. Ricordare Moro è parlare di oggi.

«Esterno notte», il rigore di Marco Bellocchio sul caso Moro. Aldo Grasso su Il Corriere della Sera il 16 Novembre 2022. 

Dopo «Buongiorno notte», girato quasi vent’anni fa, il regista ha sentito il bisogno di tornare su quelle drammatiche pagine della nostra storia per entrare nelle coscienze di alcuni protagonisti

In più di un’occasione la tv italiana si è occupato dal caso Moro: con inchieste, con ricostruzioni storiche, con miniserie («Aldo Moro. Il presidente», regia di Gianluca Maria Tavarelli). Se Marco Bellocchio, dopo aver girato quasi vent’anni fa Buongiorno notte (un film sul rapimento ispirato al libro della brigatista Laura Braghetti), ha sentito il bisogno di tornare su quelle drammatiche pagine della nostra storia non è certo per scoprire la verità (qualcosa di definitivo è stato accertato: i socialisti e parte della Dc erano per la trattativa, il Pci di Berlinguer e il partito di Scalfari per la fermezza) ma per entrare, per quanto possibile, nelle coscienze di alcuni protagonisti. Esterno notte , infatti, è diviso in sei episodi che rappresentano altrettanti punti di vista: da Moro a Cossiga, da Paolo VI ai brigatisti, alla moglie di Moro Eleonora Chiavarelli (Rai1, una serie prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment, con Simone Gattoni per Kavac Film, in collaborazione con Rai Fiction e Arte France).

Una struttura di racconto che è piaciuta molto ai critici presenti al Festival di Cannes: un «dramma shakespeariano in sei atti». Ogni storia nasce dall’intrecciarsi di vari punti di vista, spesso non coincidenti: quello dell’autore, quello dei protagonisti, quelli di altri personaggi ancora. Ogni storia, popolata com’è dei fantasmi del potere (i protagonisti sono tutti fantasmi), non finisce di turbare per la sua complessità e per la sua attualità: una sorta di radiografia post mortem, che rivela pietà e follia insieme. Per questo, Bellocchio ha puntato tutto su una scrittura rigorosa, esasperata ma piena di sensibilità come non gli accadeva da tempo, su una recitazione scarna ma vivida (Fabrizio Gifuni, Margherita Buy, Toni Servillo, Fausto Russo Alesi, per citare alcuni interpreti). Un dramma sulla violenza immobile delle istituzioni contro la violenza in movimento degli eversori.

Un "Esterno notte" molto controverso. Le prime quattro puntate sono state un successo. Ma non mancano le critiche. Pedro Armocida il 17 Novembre 2022 su Il Giornale.

È la (mini)serie del momento. Tutti ne parlano anche perché a ospitare i sei episodi di Esterno notte di Marco Bellocchio su Aldo Moro, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni, è la rete ammiraglia della Rai. Le prime quattro puntate sono andate in onda lunedì e martedì scorso mentre le ultime due si vedranno oggi in prima serata su Rai 1. L'auditel ha registrato dei buoni risultati con 3,6 milioni di spettatori per il primo episodio e 2,9 per il secondo, con un share del 18,6 per cento. Lieve calo martedì con 3 milioni di spettatori e di conseguenza per il quarto con 2,5 milioni e uno share del 15,7 per cento.

«Sono molto contento e incoraggiato dagli ascolti perché dimostrano che c'è ancora un vasto pubblico appassionato alla grande Storia d'Italia», ha commentato il regista che ha compiuto 83 anni lo scorso 9 novembre. Mentre la direttrice di Rai Fiction, Maria Pia Ammirati, si è detta orgogliosa «di offrire alla grande platea generalista una serie che è un esperimento e un laboratorio del racconto seriale sostenuto dalla qualità autoriale di un Maestro». E tra il pubblico, seguendo un po' i social e analizzando i dati Auditel, pare si siano ritrovati anche molti giovani. Al riguardo Ludovica Rampoldi, che ha scritto la serie con lo stesso regista, Stefano Bises e Davide Serino e che all'epoca del sequestro Moro, nel 1978, non era ancora nata, spiega al Giornale un possibile motivo: «I terroristi che raccontiamo erano giovanissimi, quindi c'è una rappresentazione di una gioventù - incendiaria, piena d'odio e disposta a tutto - così diversa da quella di oggi che è forse uno degli aspetti che per un pubblico più giovane può suonare mostruoso, quindi talmente incredibile da volerlo scoprire».

Insomma, il servizio pubblico ha fatto il suo mestiere proponendo una serie di indiscusso valore, presentata lo scorso maggio al festival di Cannes e uscita nella sale, divisa in due appuntamenti da tre episodi ciascuno, con un buon riscontro di pubblico, vista anche la durata, e i favori della critica, non solo italiana: «Bellocchio trasforma il piombo in oro rivisitando un trauma nazionale grazie a una serie magistrale e feroce che somiglia soprattutto a un film fiume in sei atti», ha scritto il francese Libération.

Certo, premendo il tasto della ricostruzione del caso Moro, letto attraverso gli avvenimenti fuori dalla cosiddetta «prigione del popolo» dove le Brigate Rosse avevano rinchiuso il presidente della Dc, vent'anni dopo il film dello stesso Bellocchio Buongiorno, notte, tutto chiuso invece nel covo di via Montalcini a Roma, c'è chi storce il naso. La più autorevole voce dissonante è stata quella della figlia dello statista democristiano, Maria Fida Moro: «O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e ci si lascia in pace». Marco Bellocchio non ha risposto, come non fece a maggio a fronte della stessa posizione, «per non fare polemiche», anche se aveva tenuto a sottolineare di aver «rappresentato la famiglia non solo con il massimo del rispetto ma, direi, dell'affetto e dell'amore».

Sul versante politico si è espresso con severità Marco Taradash (+Europa) che su Twitter ha segnalato come fasulle le prime scene della serie perché portano a pensare che «a progettare rapimento e omicidio di Moro non furono i terroristi comunisti delle BR ma le potenze straniere (vedremo quali) che osteggiavano il compromesso storico». Mentre Mario Adinolfi, sullo stesso social, se la prende con Bellocchio perché «le Br sembrano ferrovieri gucciniani (gli eroi son tutti giovani e belli) e la Dc un covo che voleva la morte di Moro. Le Br erano criminali, la Dc il miglior governo della storia d'Italia». Sarà per questo che anche un ex democristiano come Gianfranco Rotondi ha sentenziato che «alla fine, la visione del film di Bellocchio rimane né con lo Stato, né con le Brigate rosse. Inquietante».

Agli spettatori l'ardua sentenza, anche se è utile segnalare quanto sia limitativo, come sempre, cercare una totale verosimiglianza in un'opera di finzione, pur diretta da un autore che ha le sue idee politiche ben precise e lo ha dimostrato nel ritratto di un Berlinguer un po' meschino.

Giovanni Berruti per lastampa.it il 15 novembre 2022.

«O si decide che siamo personaggi storici, e allora si rispetta la storia, o si decide che siamo personaggi privati e allora ci si lascia in pace». È la primogenita di Aldo Moro, Maria Fida, a sfogarsi contro Esterno Notte, la nuova serie di Marco Bellocchio, da stasera in onda su Rai 1 (le altre due serate il 15 e il 17 novembre). Prodotta da Lorenzo Mieli per The Apartment, società del gruppo Fremantle, e Simone Gattoni per Kavac Film, in collaborazione con Rai Fiction e Arte France, al centro delle tre puntate il racconto dei cinquantacinque giorni del rapimento del Presidente della Dc, visti attraverso i molteplici punti di vista dei personaggi che di quella tragedia furono protagonisti e vittime.

Presentata allo scorso Festival di Cannes in una versione cinematografica in due parti, successivamente uscita nelle sale, protagonista delle tre puntate Fabrizio Gifuni, che torna a interpretare Moro dopo il film di Marco Tullio Giordana, Romanzo di una strage, e il suo spettacolo teatrale, “Con il vostro irridente silenzio”. Nel cast anche Margherita Buy (la moglie, Eleonora), Toni Servillo (Papa Paolo VI), Fausto Russo Alesi (Francesco Cossiga), Gabriel Montesi (Valerio Morucci) e Daniela Marra (Adriana Faranda).

Non è la prima volta che la donna interviene pubblicamente sul progetto, avendolo precedentemente definito, prima in occasione delle riprese e successivamente dell’uscita nei cinema, definendolo «una narrazione che, a suo giudizio, non può rispecchiare la verità storica». «La settimana prima di Natale compirò 76 anni e dopo aver avuto l'infanzia, la giovinezza e l'età adulta rovinate dal malefico caso Moro immaginavo, stupidamente, di poter sedere su una panchina al sole, prendere un tè con delle amiche, leggere un bel libro – ha raccontato all’Agi la figlia di Moro - Ma non è per niente così, avrò avuto sette anni quando un pericolo oscuro e un dolore mostruoso si sono insinuati nella mia vita e non se ne sono più andati».

Un incubo che ancora oggi continua, a sua detta, a perseguitare la famiglia: «Mio figlio ed io viviamo, nascosti in bella vista, col citofono, campanello, e telefono spenti e ogni giorno un'ondata di tsunami ci raggiunge ugualmente. Non pretendo che gli altri, che non hanno provato, capiscano, ma a dispetto dell'esperienza seguito a sperarci», ha aggiunto, citando il figlio Luca, il nipote a cui Aldo Moro si rivolgeva nelle sue lettere scritte nel corso dei 55 giorni di prigionia. «È già vergognoso infischiarsene del dolore altrui ed è doppiamente vile usarlo per fare affari - conclude l'ex senatrice - Nel 1963 papà conclude così un discorso, credo a Firenze: “Lasciamo dunque che i morti seppelliscano i morti, noi siamo diversi, noi vogliamo essere diversi dagli stanchi e rari sostenitori di un mondo ormai superato”».

Nessuna replica da parte della Rai e del regista Bellocchio. L'estate scorsa, quest’ultimo spiegava: «Il film è molto meno ideologico di Buongiorno Notte perché è passato dell'altro tempo. Mi dispiace se c'è chi lo ha interpretato come se ci fosse un accanimento sui ricordi tragici di quegli anni».

In libreria "Una ferita italiana?" di Coen e Boni. Quell’attentato alla Sinagoga che resuscitò l’antisemitismo: le ombre sugli 007 e la nuova inchiesta. David Romoli su Il Riformista il 22 Novembre 2022

Il 9 ottobre di 40 anni fa un commando composto probabilmente da 5 terroristi palestinesi attaccò la Sinagoga di Roma, uccise un bambino di 2 anni, Stefano Gaj Taché, e ferì 37 persone. Uno solo dei terroristi fu individuato, arrestato in Grecia e dopo poco tempo liberato. I documenti rintracciati da Giordana Terracina e pubblicati su questo giornale confermano che l’attentato era del tutto prevedibile e che l’obiettivo era in testa alla lista di quelli segnalati come ad alto rischio. Ciò nonostante non solo non fu presa alcuna misura di sicurezza: il giorno dell’attentato la Sinagoga era completamente priva di protezione, senza neppure la macchina della polizia sempre presente quando, come quel sabato, si svolgevano funzioni religiose e il Tempio era pieno.

La procura di Roma ha riaperto ora l’inchiesta. Convegni e volumi ricordano quella data che fu una frattura e uno spartiacque nella storia della comunità ebraica della Capitale. Oggi verrà presentato a Roma il libro di Massimiliano Boni e Roberto Coen Una ferita italiana? (Salomone Belforte Editore, 2022, pp. 332, euro 30.00, prefazione di Alberto Cavaglion) che contestualizza la vicenda, ricapitola a volo d’uccello la storia della comunità romana, la più antica del mondo, e soprattutto riporta minuziosamente tutte le testimonianze e i ricordi di chi visse in prima persona quella giornata tragica. Proprio le testimonianze rendono il libro la più completa ricostruzione dell’attentato disponibile. Ma perché la Sinagoga, nonostante le informative, nonostante gli attentati compiuti in quelle settimane in altre città europee, fu lasciata priva di protezione? Cossiga ipotizzava una complicità omicida dello Stato italiano che in nome del lodo Moro, il patto segreto tra Stato italiano e organizzazioni palestinesi, consentiva attacchi contro obiettivi anche italiani se legati a Israele. L’ex presidente non era un pazzo né un ingenuo. Conosceva come pochi altri in Italia le dinamiche e le operazioni inconfessabili dei servizi segreti. Le sue denunce non possono essere prese alla leggera ma non costituiscono neppure una certezza.

È del tutto possibile, e per certi versi persino più inquietante, che la sottovalutazione del pericolo, o la scelta di ignorarlo, sia stata conseguenza non di una decisione fredda ma di un clima generale di ostilità nei confronti degli ebrei che, soprattutto a sinistra, toccò nei mesi dell’invasione israeliana del Libano, punte di conclamato antisemitismo mai raggiunte dalla fine della guerra e mai eguagliate in seguito, per quanto tutt’altro che scomparse. La parte più interessante del libro di Boni e Coen è proprio quella in cui ricostruiscono l’oscena temperie di quei mesi. Molte tra le principali penne del giornalismo democratico italiano si lanciarono spensieratamente nell’equiparazione tra Israele e nazismo. Alcuni dei più dotati e salaci disegnatori di satira pubblicarono vignette che non avrebbero sfigurato sull’ignobile Der Sturmer di Julius Streicher, il più volgare e violento tra i periodici nazisti antisemiti, attribuendo all’allora premier israeliano Begin il nasone adunco e le labbra carnose che connotavano “i giudei” nell’immaginario nazista. Per la prima e unica volta comparve in alcuni titoli la parola “ebrei” invece di israeliani. Agli ebrei italiani fu intimato di prendere le distanze da Israele. Come è noto poco prima dell’attentato, nel corso di una manifestazione dei sindacati, un gruppo di manifestanti aveva deposto una bara di fronte alla sede della comunità, vicinissima alla stessa Sinagoga.

Nel clima di esplicito antisemitismo che si era creato, l’eventualità di una “distrazione” delle forze dell’ordine senza bisogno di ordini precisi derivati dalle clausole del lodo Moro è certamente ipotizzabile. Sull’onda dell’invasione del Libano riaffiorarono sicuramente pulsioni antisemite latenti. Altrettanto certamente l’equiparazione tra Israele e Germania nazista ebbe una funzione autoassolutoria in un Paese che aveva varato pochi decenni prima le leggi razziali. La riapertura dell’indagine ha in realtà senso solo nell’ipotesi che la scelta di non proteggere gli ebrei fosse conseguente a un patto segreto stretto dallo Stato italiano. Altrimenti non servirebbe a nulla individuare, dopo quarant’anni, i componenti del commando ancora anonimi e neppure certificare le eventuali responsabilità dell’Olp, ufficialmente estraneo all’attentato attribuito all’ala dissidente di Abu Nidal. Ricostruire il clima in cui maturò la mancata protezione della Sinagoga invece è ancora oggi necessario, perché alcuni dei temi emersi allora, primo fra tutti la denuncia di nazismo rivolta contro le principali vittime del nazismo, non sono mai stati del tutto cancellati e costituiscono anzi ancora oggi la colonna vertebrale dell’antisemitismo di sinistra. David Romoli

La strage alla sinagoga di quaranta anni fa. Per non dimenticare il piccolo Stefano Tachè. La mattina del 9 ottobre 1982 un commando di 5 terroristi palestinesi attaccò la Sinagoga di Roma e aprì il fuoco uccidendo Stefano Tachè, un bambino di soli 2 anni. Guido Salvini su Il Dubbio il 10 ottobre 2022.

Oggi è Il 40 º anniversario di una vittima del terrorismo, un bambino di soli 2 anni, Stefano Tachè, ebreo e cittadino italiano. forse la più piccola vittima del terrorismo in Italia. Ma quasi nessuno lo ricorda. La mattina del 9 ottobre 1982 un commando di 5 terroristi palestinesi attaccò la Sinagoga di Roma gremita di fedeli e di molti bambini perchè era proprio l giorno dedicato alla loro benedizione. Aprì il fuoco con i mitra e lanciando bombe a mano. Stefano fu ucciso e con lui furono feriti i genitori e in modo gravissimo il fratellino Gadi di 4 anni, oltre ad altre decine di persone.

Nessuno degli assassini è stato mai condannato. L’unico di loro individuato è stato condannato in contumacia dal Tribunale di Roma ma era ormai da tempo riparato in Libia.

Sono ugualmente dimenticate, sparite dalla storia della città e del paese, le due stragi all’aeroporto di Fiumicino.

Quella del 17 dicembre 1973 e quella del 27 dicembre 1985 in cui furono complessivamente uccise 47 persone e più di 90 ferite. Una quindicina di passeggeri vi rimasero bruciati vivi, il finanziere Antonio Zara , che aveva coraggiosamente cercato di fermare i dirottatori fu abbattuto e un addetto al trasporto bagagli, Domenico Ippoliti, fu “giustiziato” con un colpo alla testa dei terroristi palestinesi sulla scaletta dell’aereo che era stato nel frattempo dirottato all’aeroporto di Atene. Per queste stragi e le loro vittime non c’è mai alcuna celebrazione, neppure nel giorno del ricordo delle Vittime del terrorismo.

Nel 2014 sono stati desecretati documenti da cui emerge che le autorità italiane sapevano che contro obiettivi ebraici era probabile un attentato ma avevano fatto poco o nulla per evitarlo. Infatti una informativa del Sisde, il Servizio di informazioni dell’epoca, sin dal 18 giugno 1972 aveva più volte avvisato tutte le autorità di Polizia, che, in base alle fonti che aveva raccolto, erano probabili attentati contro obiettivi israeliani o ebraici in Europa. E certamente un luogo simbolico come la Sinagoga di Roma, indicata esplicitamente come obiettivo in alcune informative, era tra i più esposti ad azioni del genere.

Le segnalazioni erano continuate fino ad una settimana prima dell’attacco ma non era accaduto nulla. Quella mattina di sabato 12 ottobre davanti alla Sinagoga non era presente nemmeno una macchina della Polizia. Anche nelle stragi del 1973 e del 1985 avverrà lo stesso. Anche in quel caso il rischio era già stato segnalato da fonti informative parecchi giorni prima ma l’allarme non era bastato a prevenire gli attentati.

Dopo la scoperta degli atti desecretati la Procura di Roma, a seguito di un esposto della comunità ebraica, ha aperto una nuova inchiesta, forse la storia di quella mattina di sangue del 9 ottobre 1982 potrà essere almeno in parte riscritta, anche se questo tentativo è solo la tardiva riparazione di un torto In danno della comunità ebraica di Roma.

L’attentato alla Sinagoga e le due stragi di Fiumicino non sono stati episodi eccezionali ma sono figlie della sudditanza e della logica del cd Lodo Moro, grazie al quale i terroristi palestinesi avevano libertà di transito in Italia e qualora fossero stati sorpresi nel nostro paese con armi ed esplosivi dovevano. come in effetti è avvenuto, essere subito scarcerati In questo modo, in obbedienza ad una ragion di Stato, si evitava anche di disturbare i padroni del petrolio, i paesi del Golfo Persico che sostenevano i palestinesi. L’unico limite richiesto era che non fossero colpiti obiettivi italiani: evidentemente la Sinagoga e gli aerei della compagnia El Al non erano ritenuti tali e farvi strage non era consideraa una violazione degli accordi segreti.

Nel 1982, come prima e dopo, i terroristi volevano colpire Israele e i suoi cittadini. Un paese che è stato d’assedio da quando è nato, accerchiato da nemici potenti, l’Iran soprattutto, e decine di volte più numerosi. Eppure è riuscito a sopravvivere e, pur tra molti errori e durezze, è l’unico paese del Medioriente in cui vi sia una democrazia effettiva come in Occidente, una stampa libera, in cui vi sia piena libertà religiosa, che ha dato anche al mondo grandi innovazioni scientifiche, in cui il livello di istruzione per tutti è alto e la cultura e l’arte prosperano. Forse per questo deve scomparire affogando nel mare delle dittature più o meno teocratiche che occupano quella parte del mondo. Giustamente per tutto questo e per la sua collocazione geografica Israele è stato chiamato l’ultimo paese dell’Occidente, perché chi vi abita è un cittadino e non un suddito.

Per molti anni Stefano Tachè non è stato nemmeno inserito nell’elenco delle le vittime del terrorismo nella giornata del 9 maggio a loro dedicata. Alla madre era stato risposto che non era una vittima italiana.

È stato solo il presidente Mattarella a ricordare, nel suo discorso di insediamento, che Stefano non era solo un bambino ebreo ma un cittadino italiano.

Anche noi non dimentichiamolo, era un “nostro” bambino.

Il lavoro di due ricercatori sull'attentato al ghetto. Attentato al ghetto ebraico di Roma, fu solo un colpevole errore? David Romoli su Il Riformista l'11 Ottobre 2022. 

Ci sono voluti 40 anni e il lavoro tenace di due ricercatori, Gabriele Paradisi e Giordana Terracina, per squarciare la cortina di reticenze e omertà intorno all’attentato contro la Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982. Si celebravano lo Shabbat, il Bar Mitzvah di molti giovani ebrei e la fine della festività di Sukkot: la Sinagoga era piena. All’uscita cinque terroristi palestinesi aprirono il fuoco sulla folla. Uccisero un bambino, Stefano Gaj Taché, ferirono 40 persone. Fu il più grave attentato antisemita in Italia dalla fine della guerra.

A 26 anni dall’attacco l’ex presidente della Repubblica Cossiga, in un’intervista al giornale israeliano Yediot Aharonot, aveva mosso un’accusa terribile, fragorosa eppure ignorata da tutti: l’attentato era stato coperto, consentito e permesso dalle autorità italiane per l’accordo in base al quale i palestinesi, in cambio di una piena libertà di movimento anche nei trasporti di armi, si impegnavano a non colpire obiettivi italiani, a meno che collaborassero con il sionismo e con lo Stato di Israele. Una licenza di uccidere gli ebrei, secondo Cossiga. Di nubi su quella mattina tragica e sulle successive indagini ce ne sono e ce ne sono sempre stati molti. Ma l’elemento chiave per valutare il peso delle accuse dell’ex presidente, a conti fatti, è uno solo: quel giorno la Sinagoga era stata lasciata del tutto indifesa per un colpevole errore oppure appositamente? Nel clima di vero e proprio antisemitismo che si era diffuso dopo l’invasione del Libano parlare di attentato impossibile da prevedere sarebbe assurdo.

Appena pochi giorni prima un gruppo di partecipanti a una manifestazione sindacale aveva deposto una bara proprio di fronte alla Sinagoga di Roma. La tensione, la minaccia, il pericolo si avvertivano a pelle. Però neppure questo è sufficiente per autorizzare il sospetto di dolo. Per avvalorare quei dubbi, e di conseguenza il j’accuse di Cossiga, dovevano esserci documenti in grado di dimostrare che lo Stato e le forze dell’ordine erano al corrente della minaccia, che erano stati avvertiti più volte e da fonti affidabili ma scelsero di ignorare l’allarme. Quei documenti Terracina li ha rintracciati e questo giornale li ha pubblicati il 9 dicembre 2021: una serie impressionante di informative e report che, nelle settimane precedenti l’attacco, avvertivano della probabilità di attentati contro obiettivi ebraici in Italia intorno alla festività del Kippur, prima durante o poco dopo, e mettevano in testa alla lista delle sedi a rischio proprio la Sinagoga. È sulla base di questi documenti che la Procura di Roma può e deve muoversi nell’inchiesta sul 9 ottobre 1982 che si è infine decisa a riaprire.

Ma quella sanguinosa mattinata di quarant’anni fa non è un’eccezione. Il vero pericolo, oggi, è di indagare su quei fatti considerandola tale. Sarebbe un ennesimo depistaggio di fatto. L’attacco alla Sinagoga va inquadrato nella cornice complessiva dell’accordo tra Italia e organizzazioni palestinesi noto come lodo Moro e di cui a tutt’oggi, nonostante evidenze e testimonianze, lo Stato italiano nega l’esistenza.

Grazie ai documenti portati alla luce da Terracina, abbiamo ricostruito, il 21 e 22 dicembre 2021, gli intrecci fra le trattative allora in corso per definire il lodo e la strage di Fiumicino del 17 dicembre 1973, che provocò 34 morti e 15 feriti. Una strage a lungo “dimenticata”, mai celebrata, cancellata al punto che sino a pochi anni fa le vittime non comparivano neppure negli elenchi delle vittime di terrorismo in Italia. Quella documentazione dimostra che proprio l’accordo in gestazione spiega l’assenza di prevenzione e controlli che, nonostante anche in quel caso ci fossero stati precisi avvertimenti, permisero l’attacco e la strage.

Sul lodo Moro, proprio grazie alla reticenza e all’omertà dello Stato, ci sono ancora una confusione e molteplici ambiguità intollerabili a decenni di distanza dai fatti. In un articolo documentato della stessa Terracina, pubblicato il 2 giugno di quest’anno, abbiamo ricostruito la genesi del patto tra Italia e Olp in un contesto europeo. Senza dubbio, infatti, all’origine il lodo Moro non è stato una specificità italiana. A partire dalla Germania molti Stati europei avevano stretto accordi che garantivano libertà d’azione e scarcerazioni immediate ai terroristi palestinesi in cambio dell’impegno a non colpire obiettivi di quei Paesi. Si trattava insomma davvero solo di una sorta di scudo, come lo descriveva lo stesso Moro nelle sue lettere dalla “prigione del popolo” di via Montalcini.

Ma l’Italia, a differenza degli altri Paesi europei, non si è fermata qui. L’accordo sempre più stretto con l’Olp è diventato negli anni ‘70 e soprattutto ‘80 una delle leve principali della nostra politica estera ed energetica, uno degli elementi forti sui quali basare la politica “filo-araba” impostata dallo Stato italiano in quei due decenni. Il 22 febbraio scorso abbiamo pubblicato i documenti che provano lo stringersi dei rapporti, anche in termini di finanziamento diretto, tra Italia e organizzazioni palestinesi. Il 14 luglio abbiamo ricostruito, pubblicando alcune carte segrete, una delle vicende più tragiche collegate all’accordo, il dirottamento dell’Achille Lauro nell’ottobre 1985, nel quale fu ucciso a freddo un passeggero ebreo, Leon Klinghoffer. Il dirottamento portò la tensione tra l’Italia, che proteggeva il capo dei dirottatori, e gli Usa, che volevano arrestarlo, a un passo dallo scontro armato a Sigonella, nella notte tra il 10 e l’11 ottobre 1985.

Il dirottamento della “Lauro” non è il solo episodio tragico sul quale proiettano un’ombra ancora densa il lodo Moro e la necessità per lo Stato italiano di difendere quel patto a ogni costo. È così per il rapimento da parte dei palestinesi dei giornalisti italiani Italo Toni e Graziella De Palo, nel settembre del 1980 a Beirut, mai più ritrovati. E in realtà mai cercati, dal momento che i servizi italiani si occuparono soprattutto di depistare e nascondere le responsabilità palestinesi. È così per la seconda strage di Fiumicino, quella che nel 1985 costò la vita ad altre 19 persone. È così, forse, anche per la strage di Bologna, la più grave nella storia repubblicana, per la quale sono stati condannati i terroristi neri dei Nar nonostante ormai innumerevoli indizi, scientemente trascurati, indichino invece una possibile matrice palestinese. Per questo la nuova inchiesta della Procura di Roma si troverà di fronte a un bivio: indagare davvero a tutto campo e senza pastoie oppure, ancora una volta, svicolare e proteggere i segreti del lodo Moro.

David Romoli

L'Italia all'ombra di Enrico Cuccia. Nel saggio All'ombra di Enrico Cuccia - Potere e capitalismo nel Novecento italiano Federico Bini tratteggia un affresco della stagione della Ricostruzione italiana e dei decenni successivi partendo dalla figura del dominus storico di Mediobanca. Andrea Muratore il 27 Settembre 2022 su Il Giornale.

"Ciò che Cuccia vuole, Dio vuole": la frase passata alla storia di Leopoldo Pirelli ben inquadra la figura complessa e profonda di Enrico Cuccia, dominus di Mediobanca nella storica stagione della ricostruzione, padre del "salotto buono" del capitalismo italiano, tra gli strateghi dello sviluppo nazionale. Correttezza, imparzialità, riservatezza: tre le caratteristiche della Mediobanca targata Cuccia che ne prese le redini dal "patriarca" Raffaele Mattioli, ne fu amministratore delegato e direttore generale dal 1949 al 1982 e presidente onorario dal 1988 alla morte, avvenuta nel 2000. Una stagione intesa che ha attraversato cicli politici e industriali, accompagnando tutti i protagonisti del sistema nazionale. Da Enrico Mattei a Raul Gardini, da Gianni Agnelli a Ugo La Malfa, da Guido Carli a Romano Prodi, molti dei volti più importanti dell'Italia della Ricostruzione e dei decenni successivi hanno avuto a vario titolo relazioni con Cuccia.

La profondità di un sistema di rapporti, interessi economici e visione strategica che si è trasmessa fino alla Mediobanca odierna è indagata da Federico Bini nel saggio "All'ombra di Enrico Cuccia - Potere e capitalismo nel Novecento italiano". Bini, collaboratore de IlGiornale.it e attento osservatore della storia e delle dinamiche di potere del sistema-Italia oltre che di quelle relazioni umane che Antoine de Saint-Exupery definiva "unica speranza di gioia", racconta l'Italia di Cuccia non solo parlando delle dinamiche che si aprivano all'ombra dello studio di Via dei Filodrammatici ma anche ricostruendo Mediobanca come perno di una rete di rapporti e relazioni che andavano oltre l'economia. 

Il frutto di queste dinamiche fu la Milano del "quarto capitalismo", che univa l'industriosità lombarda alla capacità di veicolare capitali per la crescita delle imprese e del Paese grazie anche ai rapporti intessuti per tramite della Mediobanca di Cuccia. Milano, ricorda Bini, divenne "il simbolo dell’evoluzione economica del Paese, sia per quanto riguardava celebri nomi, sia lo sviluppo di una forte ma meno conosciuta borghesia industriale (medio-piccola)". Roma aveva la politica dei partiti, altre città le loro famiglie o gruppi imperanti (come la Fiat a Torino e Ferruzzi a Ravenna), Milano una grande dinamicità. E Cuccia vigilava governando alleanze e flussi di capitali. Sia nella "Milano industriale, delle ciminiere e dei fumi sulla città", quella dei Pirelli e dei Falck, sia su quella delle nuove famiglie emergenti della borghesia modernizzatrice. Una Milano in cui il Corriere della Sera della famiglia Crespi iniziò a dare voce crescente all'intellighenzia laica e progressista, mentre Indro Montanelli, uscendo da Via Solferino e fondando Il Giornale, indirizzò il suo interesse primario verso i liberali e i conservatori.

Cuccia fu il padre delle alleanze incrociate che permettevano equilibri gestionali nei maggiori gruppi industriali italiani. Bastogi, Montecatini, Fondiaria e Generali furono negli Anni Cinquanta i primi terreni di applicazione di un sistema di pesi e contrappesi per mezzo di partecipazioni e acquisizioni che, nota Bini, diedero a Mediobanca il "ruolo di banca d’affari (merchant bank) e di una holding delle partecipazioni azionarie", ma anche di salotto buono milanese, riferimento meneghino dell'assetto romano di potere e del "patto della X" che vedeva assegnati ai cattolici la preminenza politica e le banche di raccolta popolari e ai laici una minore rilevanza nelle istituzioni compensata da un dominio nel mondo finanziario delle banche d'affari. Un sistema, si sottolinea nel libro, di cui Cuccia fu attento guardiano soprattutto ai tempi della strumentalizzazione della finanza cattolica da parte di Roberto Calvi e, soprattutto, Michele Sindona.

Lo standing di Mediobanca, ricorda Bini, fu anche decisivo per la proiezione internazionale del Paese. Memore della lezione politica di Alcide De Gasperi sulla natura decisiva delle battaglie internazionali, Cuccia aprì il capitale a partecipazioni e ingressi esterni da parte di attori come Lazard e Lehmann Brothers, che negli Anni Cinquanta ottennero il 10% del capitale del gruppo, mentre la tedesca Berliner Handels-Gesellschaft divenne partner europeo.

Bini definisce il laico Cuccia, allievo del laico, socialista e visionario Mattioli, custode dell'eredità culturale di Piero Sraffa e Antonio Gramsci, interprete ideale della "proficua e straordinaria stagione del liberalismo degasperiano" che mirava alla crescita del Paese "senza mai dimenticare le battaglie sociali in sostegno degli ultimi e dei più bisognosi", preferendo lo sviluppo graduale, moderato e produttore di lavoro e progressi tangibili alle alchimie finanziarie. Anche dopo la quotazione in Borsa nel 1956 questo fu il mantra di Cuccia, uomo che però non mancò mai di ricevere un rispetto considerevole all'estero. Nel suo viaggio statunitense del 1965 il futuro presidente di Mediobanca Antonio Maccanico ebbe modo di apprezzare la considerazione che si aveva a Wall Street di Enrico Cuccia, che allora si teneva in Italia debitamente lontano dai grandi palcoscenici.

L'espansione economia internazionale del Paese fu, in questo contesto, a sua volta promossa dalla stessa Mediobanca, come Bini non manca di ricordare. Eni, Fiat, Olivetti Finmeccanica, Montecatini, Necchi, Pirelli furono solo alcuni dei più noti tra i partner in campo internazionale di Mediobanca che in particolare contribuì, a partire dagli Anni Cinquanta e Sessanta, a promuovere la conquista italiana dei nuovi mercati del continente africano. Come ha scritto il professor Giovanni Farese nel saggio Mediobanca e le relazioni economiche internazionali dell’Italia. Atlantismo, integrazione europea e sviluppo dell’Africa. 1944/1971“ e come Bini puntualmente sottolinea, si indicava in questo caso una rotta di sviluppo dell'immagine (oggi diremmo "brand") del Paese al di là delle vicende tecniche di finanza, mercati, imprese e commercio. Tutto questo con una finanza capace di valorizzare il fattore decisivo dell'economia: l'uomo e le sue relazioni. Coltivate con attenzione nell'Italia della Ricostruzione e dello sviluppo guidato da una Milano sempre più rampante. All'ombra, ovviamente, di Enrico Cuccia.

Dalle Br alla guerra fredda. Storia del decennio più lungo del secolo breve. Il saggio di Miguel Gotor mostra l'eccezionalità dell'Italia nel panorama mondiale di quel periodo. Ma oggi da noi tutti si dicono "atlantisti"...Stenio Solinas il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.  

Generazione Settanta, di Miguel Gotor (Einaudi, pagg. 429, euro 34), ha per sottotitolo Storia del decennio più lungo del secolo breve, definizione felice a patto di non abusarne troppo. Ci sono state proiezioni novecentesche ben oltre il fatidico 1989 in cui cadde il muro di Berlino, e quanto ai cosiddetti Anni di piombo la loro eccezionalità temporale risulta incomprensibile se non si tiene conto dell'unicum rappresentato in Europa dal '68 italiano, una contestazione studentesca che si incrocia con un «autunno caldo» sociale e economico, sindacale e operaio e come una febbrile diarrea si ripete un decennio dopo rovesciata di segno e di senso.

Uno dei pregi del libro di Gotor sta del resto nel considerare quell'«eccezionalità» e, più in generale, l'eccezionalità dell'Italia in quanto tale, all'interno di una cornice internazionale di fatto legata ai blocchi occidentali-orientali scaturiti e sanciti dagli accordi bellici di Yalta, una linea di demarcazione o, se si vuole, di sfere di influenza, la cui possibile messa in discussione era foriera di fibrillazioni non solo continentali.

Per uno di quei curiosi paradossi della storia, l'atlantismo di cui oggi ogni forza politica nazionale si fa fieramente garante, fu proprio il «nemico principale» di quell'Italia progressista e di sinistra che vedeva nella cooptazione al governo del Partito comunista italiano il punto finale di un percorso politico inauguratosi all'incirca quindici anni prima, quando cioè era stata varata la politica dei governi di centrosinistra. E sempre per uno di quei curiosi paradossi della storia, i più «atlantisti» si dimostreranno di fatto le Brigate rosse con il sequestro prima e poi l'assassinio di Aldo Moro, pietra tombale messa su quel tentativo, ovvero sul «compromesso storico».

Poiché Gotor è un convinto sostenitore dell'«italianità» delle Br, e non del loro essere «eterodirette», lettura a suo dire «superficiale e, in fondo, tranquillizzante in quanto autoassolutoria», questo significa, allargando il campo a tutto ciò che concerne «il Partito armato», interrogare «dolorosamente la politica, la cultura e la società civile del nostro Paese». Per dirla in breve, il mito della lotta partigiana, dell'alterità del Pci rispetto alle altre forze politiche, troppo a lungo etichettate soltanto come reazionarie, clerico-fasciste e/o fasciste tout court, dell'alternativa teorica quanto rivoluzionaria rispetto al capitalismo e alla società borghese, gli si rovesciò paradossalmente contro a opera di chi ci aveva creduto.

Va altresì ricordato che fino alla scomparsa dell'Urss il Pci fu, come dire, a libro-paga del Cremlino, il famoso «oro di Mosca», e che il cosiddetto fattore K che ne interdiva l'ingresso nel governo nazionale, non per questo gli impediva un governo politico locale: regioni, provincie, comuni, eccetera. Era insomma di lotta e di governo, di opposizione, ma con forti rendite di potere. Un unicum, anche qui.

Gotor è uno storico che proviene dal mondo della sinistra, per quello che oggi può valere un'indicazione del genere. È stato senatore del Pd, è attualmente assessore alla Cultura del Comune di Roma, il cui sindaco, Roberto Gualtieri, è a sua volta esponente di quel partito. Essere nato nel 1971, lo mette al riparo dai rischi della memorialistica di tipo autobiografico. Non crede, per esempio, alla formula della «strage di Stato», nata all'inizio degli anni Settanta all'interno della sinistra extraparlamentare e che ha avuto, osserva, «un'importante funzione militante e mobilitante». Non ci crede perché «se la strage è di Stato alla fine nessuno è stato». E perché «ha impedito di approfondire gli aspri contrasti sviluppatisi in seno alla magistratura, alla polizia inquirente e persino nei servizi segreti, contrasti che in tanti ancora hanno interesse a rimuovere». Tuttavia, alla domanda di come gli apparati di sicurezza dello Stato, nonostante la loro rete di infiltrati nell'estrema destra «non riuscirono a prevenire le stragi del periodo 1969-1974 e a individuarne i responsabili dopo», risponde che i depistaggi, lungi dall'essere una «deviazione dell'attività dei servizi segreti, costituirono il risultato di un preciso mandato istituzionale», il che francamente e un po' volgarmente se non è zuppa è pan bagnato... Allo stesso modo, nello spiegare «la serie interminabile e capillare di azioni sovversive e armate di opposta matrice ideologica» e per un verso i due colpi di Stato «minacciati o abortiti» di Junio Valerio Borghese, nel 1970, e di Edgardo Sogno, nel 1974, li ascrive genericamente quanto cronologicamente «a quel tempo furioso» della Resistenza i cui i futuri «strateghi della tensione» «avevano poco più di vent'anni, e dunque, alla fine degli anni Sessanta ne avevano una cinquantina ed erano al culmine della loro energia umana e influenza professionale». Ora, se non altro cronologicamente, Borghese è classe 1906, e quindi era sessantaquattrenne e il Sogno golpista era un arzillo sessantenne...

Se si dovesse seguire la logica del cui prodest? si noterebbe che dalle elezioni del maggio 1968 a quelle del 1976, si ebbe un costante arretramento delle forze cosiddette moderate e un costante avanzamento di quelle cosiddette progressiste. All'inizio la Dc ha il 39,9 per cento dei voti e il Pci il 26,9, i socialisti unificati il 14,5, il Pli il 5,8, l'Msi il 4,4. Nel '72 la Dc scende al 38,7, il Pci sale al 27,1, il Psi è da solo al 9,6, il Msi va all'8,7 a danno del Pli. Nel '76 la Dc resta pressoché ferma, al 38,9, il Pci sale al 33,8, il Psi al 10,2, l'Msi scende al 6,1. Nelle amministrative del giugno 1975, inoltre, la Dc retrocede al 35,3 per cento, il Pci arriva al 33,4, il Psi al 12, l'Msi al 6,4. Piemonte, Liguria, Emilia-Romagna, Umbria, Marche e Lazio vedranno il Pci avere la maggioranza relativa... L'impressione è insomma che gli ispiratori occulti della strategia della tensione, miranti o a un golpe militare in salsa greca o a un mantenimento dello status quo centrista non avessero le idee molto chiare su quale fosse la realtà del Paese. Uno degli equivoci di fondo sta probabilmente nel fatto che, praticamente esclusa dal perimetro di governo all'inizio degli anni Sessanta, la destra italiana si era rarefatta rendendo pressoché impossibile un'alternanza a suo favore. L'effimero successo missino del '72 era avvenuto dragando nel proprio campo, sostituendosi in pratica al Partito liberale che ancora nel '63 era al 7 per cento e nel '68, lo abbiamo visto, al 5,8, e comunque assolutamente ostile a ogni tipo di alleanza con il partito di Almirante. Ciò significava che era sempre e comunque la sola Dc a manifestarsi come un Giano bifronte, conservatore o progressista a seconda delle esigenze, e tuttavia ormai troppo sbilanciato su questa seconda faccia perché la prima potesse avere possibilità di successo. A ciò si aggiunge che gli altri giocatori «progressisti» della partita, socialisti e repubblicani, miravano a un più significativo spostamento a sinistra dell'asse politico del Paese. Non a caso sarà il leader repubblicano Ugo La Malfa a parlare di «ineluttabilità del compromesso storico», attirandosi l'ironia sferzante di Indro Montanelli: «C'è un pazzo che ha preso il posto dell'onorevole La Malfa»...

A tutto ciò si aggiunge un brodo di coltura intellettuale e sociale che Gotor illustra molto bene, ovvero «l'area di contiguità con la lotta armata», «il clima di complicità generazionale che indusse molti a far finta di nulla, a essere reticenti o addirittura solidali con chi la predicava». Da qui «omertose solidarietà e rapide sverniciature della memoria» che la dicono lunga anche sull'atmosfera umana e culturale di quel decennio.

Un altro dei pregi del libro di Gotor ricordati all'inizio, sta proprio nel cercare di dipanare il groviglio di interessi internazionali di cui l'Italia si trovò allora al centro: la Cia e i servizi segreti israeliani, il cosiddetto «lodo d'intelligence con l'Olp» per restare fuori dal terrorismo e dallo scontro in atto arabo-israeliano e le ripercussioni che esso provocò, la nostra politica mediterranea nei confronti della Libia e i contrasti con quella francese, le attività spionistiche dell'Urss e dei principali Paesi del blocco orientale, contrari per esempio a una presa del potere per via democratico-parlamentare del Pci berlingueriano strumentalmente revisionista e però a disagio nel suo dover rinnegare la propria matrice ideologica. Come scrive Gotor, ancora nel 1978, nel suo comizio di chiusura alla Festa dell'Unità, l'allora segretario comunista «tenne un discorso in cui affermò che i comunisti non rinnegavano il pensiero di Lenin e di Marx e neppure rinunciavano all'obiettivo di superare il capitalismo», il che mal si conciliava «con lo spirito di un governo di grande coalizione come quello della solidarietà nazionale».

Moro era stato ucciso nel maggio di quello stesso anno e Berlinguer si era improvvisamente reso conto di essere ormai anche lui su un binario morto, alla guida di un treno che aveva perso, come il suo referente oltre cortina, la sua «spinta propulsiva». Ancora un decennio e sarebbe venuto giù tutto.

Viaggio nel dolore (senza tempo) del rapimento Moro. Quanto durano le otto ore che precedono il proprio rapimento? Matteo Sacchi il 25 Settembre 2022 su Il Giornale.

Quanto durano tre minuti? Tre minuti sono eterni sotto una pioggia di piombo, tra gomme che stridono, urla, sussulti, fiotti di sangue, ignari passanti che corrono a perdifiato.

Quanto durano le otto ore che precedono il proprio rapimento? Possono volare come un lampo sotto l'ombra di una sensazione maligna, di un sogno che non si afferra. Possono sembrare lunghe, frantumarsi in tantissimi piccoli episodi a cui solo a posteriori si potrà dare un senso, il peso del fatale e della precognizione. È questa frantumazione e ricomposizione del tempo, che caratterizza il romanzo di Andrea Pomella, Il dio disarmato (Einaudi, pagg. 236, euro 19,50), incentrato su quel buco nero nella storia del nostro Paese che è stato il rapimento di Aldo Moro. E come i buchi neri creano un orizzonte degli eventi, che distorce il continuum dell'universo, così la violenza dei brigatisti in via Fani ha prodotto una singolarità che ha distorto e modificato moltissime vite.

Pomella (che potreste ricordare per L'uomo che trema o per I colpevoli) in questo libro, che non vuole essere ricostruzione storica ma ricostruzione letteraria, racconta lo stesso episodio a ripetizione, con realismo traumatico e seriale, fino a mostrarne le più dolorose sfaccettature. Il risultato è un caleidoscopio del male, uno specchio che proprio in quanto infranto ci restituisce un'immagine mai vista prima di un fatto che chi ha attraversato quegli anni, seppur da bambino come lo scrivente, non potrà mai dimenticare.

Sia chiaro, la ricostruzione fatta da Pomella è sempre molto precisa, anzi, in certi passaggi semplicemente interpola la narrazione con le voci di allora. Che si tratti di articoli di giornale, o della telecronaca concitata e carica d'angoscia di Paolo Frajese, questi frammenti di pura cronaca si incastrano e fanno da collante con quello che la Storia non può ridare: le emozioni dei protagonisti. Quelle Pomella le ricrea con arte sottile, quasi fosse un medium che ridà voce a fantasmi risucchiati dal tempo.

Il risultato è un romanzo che picchia dritto allo stomaco, senza effetti speciali, semplicemente mettendo il lettore di fronte a schegge di vite incrinate. O alla normalità dei luoghi che visitati, ad anni di distanza dai fatti, sembrano non esserne nemmeno più sfiorati. Perché il rischio è anche che la nostra normalità cancelli la memoria di ciò che è stato.

Ed il pregio del libro di Pomella è soprattutto questo: mostrare non la banalità del male ma la normalità del male negli anni Settanta. Del romanzo rimangono soprattutto i piccoli gesti quotidiani, soprattutto di Moro e della sua famiglia, che messi di fianco alla tragedia creano un cortocircuito insolubile. Quello che, in modo meno letterario e più da storico, ha raccontato anche Sergio Luzzatto in Giù in mezzo agli uomini. Vita e morte di Guido Rossa (Einaudi). Il fatto che proprio adesso in questo cortocircuito si torni a scavare da più parti è il segno che, anche per chi da quelle vicende è stato solo lambito, magari vedendole colare da uno schermo televisivo, è rimasta una ferita di forma non decifrabile.

Pavia, morto a 98 anni ex ministro Virginio Rognoni. Esponente della Dc è stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006. Redazione online su La Gazzetta del Mezzogiorno il 20 Settembre 2022

È morto questa notte, nella sua casa di Pavia, Virginio Rognoni, uno dei politici italiani più conosciuti della seconda metà del Novecento. Rognoni, che aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto, si è spento nel sonno. Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo (dal 1978 al 1983) e, successivamente, di ministro della Giustizia e della Difesa. Dopo la fine dell’esperienza della DC, aveva aderito prima al Partito Popolare e poi al Pd. E’ stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006.

 BIOGRAFIA DI VIRGINIO ROGNONI. Da cinquantamila.it la storia raccontata da Giorgio Dell'Arti

• Corsico (Milano) 5 agosto 1924. Politico. Deputato dal 1968 al 1994 (Dc), fu ministro dell’Interno nell’Andreotti IV e V, Cossiga I e II, Forlani, Spadolini, Fanfani V (1978-1983), ministro di Grazia e giustizia nel Craxi II e Fanfani VI (1986-1987), della Difesa nell’Andreotti VI e VII (1991-1992). Dal luglio 2002 al luglio 2006 fu vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. 

• «Ex allievo del collegio Ghislieri di Pavia, Gingio per gli amici, è un esemplare pregiato di quella scuderia del Biancofiore che vinceva tutto nelle corse elettorali e nei Grand Prix elettrizzanti per Palazzo Chigi. Il 26 aprile 1945, a ventuno anni, teneva a Pavia il suo primo comizio ai giovani cattolici della Fuci. Le sue fortune ministeriali sono dipese in buona parte dalla grande forza contrattuale della sinistra di Base (prima “Cronache sociali” di Dossetti poi Marcora, De Mita, Misasi, Andreatta). Per tanti anni è stata questa la sua corrente di riferimento. Cioè fino all’estate del 1990. Quando Gingio, entrato un po’ nel cono d’ombra della sinistra dc, subentra alla Difesa a Mino Martinazzoli nel sesto governo Andreotti. Il Guardasigilli si dimette insieme ad altri tre ministri dc per protesta contro la legge Mammì sull’emittenza televisiva. Una rottura dolorosa. 

“Mi sono iscritto alla Dc non ad una componente”, dichiarò piccato il ribelle nella quiete del suo buon ritiro di Punta Ala. Fece grande rumore una sua battuta maligna (“Bettino è già cotto!”) sul Craxi presidente del Consiglio, strappatagli “a tradimento” nel Transatlantico dal cronista politico dell’Espresso, il bravo Guido Quaranta. Insomma, per dirla con le parole di sua moglie Giancarla Landriscia, donna che affascinava per intelligenza, delicata bellezza e simpatia Sandro Pertini e gli inquilini dei Palazzi romani, la famiglia Rognoni “ha sempre mantenuto il senso delle proporzioni”. 

Con il marito politico e ministro, Lady Giancarla ha diviso la responsabilità di una famiglia numerosa (quattro figli) e gli studi di Giurisprudenza. Lei a Pavia dedita all’istituto di Medicina legale a studiare i diritti alla salute; lui, professore di Istituzioni di diritto processuale, impegnato a Roma a guidare prima il dicastero dell’Interno negli anni di piombo (affronta e risolve il caso del rapimento del gen. Dozier) poi quello della Giustizia» (Fernando Proietti). 

• Uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico, ultimato nel febbraio 2007. Presidente del Collegio dei garanti del Pd «La storia dei cattolici democratici è legata, con i suoi valori, alla comprensione della laicità della politica, al gioco della libertà e al dovere della giustizia. Questa coscienza i cattolici l’hanno trovata nel Pd» [Cds 7/11/2009].

• Visto anche a teatro, a Milano, in uno spettacolo dedicato a Danilo Dolci: il regista Renato Sarti, riproponendo il processo all’intellettuale, gli fece pronunciare l’arringa di Piero Calamandrei sui principi della Costituzione (affidata in altre serate ad altri non-attori).

• Nell’autunno 2007 suscitò polemiche l’assegnazione, senza concorso, di un incarico di professore associato (Storia della lingua neogreca) alla figlia Cristina da parte dell’Università di Palermo. Disse di essere «indignato»: «Si sa bene che ci sono nicchie di privilegi nelle università, ma lei è sempre stata di una moralità radicale».

L'ultimo 'incarico' da vicepresidente del Csm. È morto Virginio Rognoni, storico esponente della DC: fu ministro degli Interni negli anni di piombo. Redazione su Il Riformista il 20 Settembre 2022 

Si è spento nel sonno all’età di 98 anni Virginio Rognoni. Esponenti di primo piano della Democrazia Cristiana, fu uno dei protagonisti della ‘Prima Repubblica’: aveva compiuto 98 anni lo scorso 5 agosto ed è morto questa notte nella sua casa di Pavia.

Docente alla facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Pavia, è stato un personaggio di primo piano della Dc. Fu ministro dell’Interno negli anni di piombo, entrando al Viminale dopo le dimissioni di Francesco Cossiga a seguito dell’assassinio di Aldo Moro, fu nominato al suo posto e restando in carica dal 1978 al 1983. Successivamente fu ministro della Giustizia nel secondo governo Craxi e nel sesto governo Fanfani (dal 17 aprile 1987 al 29 luglio 1987) e ministro della Difesa nel sesto e settimo governo Andreotti (dal 26 luglio 1990 al 28 giugno 1992).

Da ministro dell’Interno è ricordato per aver affidato il coordinamento della lotta al terrorismo al generale Carlo Alberto Dalla Chiesa e per esser stato promotore assieme al deputato del Pci Pio La Torre della prima legge desinata a colpire i beni gestiti dalla mafia, la legge Rognoni-La Torre.

Dopo la fine dell’esperienza della Democrazia Cristiana, spazzata via da Tangentopoli, ha aderito al Partito Popolare guidato da Mino Martinazzoli.

È stato vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura dal 2002 al 2006, ultima esperienza istituzionale. Dopo l’incarico a Palazzo dei Marescialli, Rognoni aderirà al Partito Democratico.

“Un grande amico e un punto di riferimento”, lo definisce Enrico Letta, che ha commentato su Twitter la scomparsa dell’ex ministro. Rognoni è stato “protagonista sempre in positivo di tante stagioni importanti della vita istituzionale del nostro Paese”, lo ricorda il segretario del Partito Democratico. Nel 2007 Rognoni è stato scelto come uno dei dodici saggi dell’Ulivo chiamati a scrivere il manifesto del Partito democratico.

M. Antonietta Calabrò per justout.it il 21 settembre 2022.

L’ intramontabile “Gingio”, grande vecchio della politica italiana. Non volle rispondere alla Commissione Moro II, dopo la desecretazione degli archivi. Di lui si può ben dire che è stato grande vecchio della politica italiana. Un potere solido, non ostentato, durevole, attraverso decenni e decenni della storia italiana e dei suoi momenti più drammatici. Morto il 20 settembre 2022 quasi centenario, essendo nato nel 1924. Un gran lombardo. Ancora in forma e attivo, sino alla fine. L’ultima apparizione pubblica, nella primavera del 2021 per la celebrazione dei 660 anni della fondazione della “sua” università, quella di Pavia, dove è stato professore.

Virginio Rognoni era ministro dell’Interno, quando il 9 ottobre 1982 un commando palestinese riferibile ad uno dei terroristi più temibili, fondatore del Consiglio rivoluzionario di al Fatah, Abu Nidal, mette a segno un attentato proprio nel centro di Roma. Davanti alla Sinagoga, a pochi passi dal Tevere. Nell’agguato muore un bambino di due anni, Stefano Gaj Talché, cittadino italiano di religione ebraica e altre 37 persone rimangono gravemente ferite.

Il fatto nuovo (riportato per primo da "Il Riformista” un anno fa) è che in base ai documenti ufficiali del Sisde (il servizio segreto per la sicurezza interna, ora AISI) desecretati in questi ultimi anni, un attentato era stato “segnalato” come altamente probabile in ben sedici “alert”, nei quali se ne riteneva possibile l'esecuzione in occasioni delle feste ebraiche. E il 9 ottobre ricorreva appunto "la festa dei bambini”.

Nonostante questo e nonostante le molte richieste della comunità ebraica di incrementare le misure di sicurezza, proprio quel giorno persino la singola camionetta che usualmente stazionava davanti al Tempio maggiore, quella mattina venne rimossa. Perché? Come mai il Viminale non dette seguito alle informative del Sisde? Cosa avrebbe potuto ancora dire Virginio Rognoni al riguardo? Quarant’anni fa ci furono forti polemiche per quella che apparì subito come una grave inefficienza del Ministero dell’Interno. 

Ma i nuovi documenti e molti altri che sono ormai consultabili in base alla legge “Renzi” del 2014, hanno fatto sorgere nell’ultimo anno nuovi e pesanti interrogativi. Quelli che il fratello sopravvissuto della piccola vittima della Sinagoga ha raccolto in un libro che viene pubblicato a quarant'anni da quell'agguato. (Gadiel Taj Tache' "Il Silenzio che urla", settembre 2022) 

Noi oggi, infatti, sappiamo con certezza che, a partire dal 1973, venne sottoscritto un patto tra i nostri servizi segreti e le fazioni terroristiche palestinesi in modo che l’Italia diventasse per esse un terreno di passaggio per il traffico d’armi. Con una sostanziale "non interferenza" italiana, se gli obbiettivi dei palestinesi in Italia fossero stati israeliani, ebrei o americani. 

Come spiegò nel 2008 in una intervista Francesco Cossiga al quotidiano israeliano Yediot Aharonot: “Poiché gli arabi erano in grado di disturbare l’Italia più degli americani, l’Italia si arrese ai primi”. E lo stesso capo dell’OLP Yasser Arafat nei suoi Diari (di cui il settimanale L’Espresso ha fatto un’anticipazione nel 2018), ha annotato, perentorio, in relazione a quegli anni: “L’Italia è una sponda palestinese nel Mediterraneo”.

Il mondo allora era diviso in due e Roma assomigliava a Berlino, a metà tra Est ed Ovest. La prova del patto con i palestinesi è in un telex del febbraio 1978, a noi noto solo dal 2015, quando esso è confluito negli atti a disposizione della Commissione Moro 2, presieduta da Giuseppe Fioroni. In quel cablogramma da Beirut il colonnello Giovannone (preannunciando il rischio di una grossa azione terroristica in Europa) confermava la volontà del Fronte popolare per la liberazione della Palestina (Fplp) di tenere indenne l’Italia. 

In realtà le cose andarono molto diversamente. Perché neppure un mese dopo Aldo Moro venne rapito ad opera delle Brigate Rosse, ma operarono sul campo terroristi tedeschi della Rote Armee Fraktion, gestiti dal servizio segreto della Germania orientale (Stasi), in stretto contatto con i gruppi terroristici palestinesi. E a Berlino Est aveva trovato rifugio sicuro lo stesso George Habbash, leader del Fronte per la liberazione della Palestina, proprio il “firmatario” palestinese del “patto” con l’Italia e il terrorista Wadi Haddad, coinvolto dal colonnello Giovannone nelle trattative per liberare Moro durante i 55 giorni.

Un “patto” la cui esistenza è stata confermata personalmente anche da un protagonista dell’epoca ancora in vita, Abu Sharif, soprannominato da Time magazine “il volto del terrore”, braccio destro di Arafat , nella sua audizione a Palazzo San Macuto del giugno 2017. La documentazione completa relativa a quell’accordo impropriamente denominato "Lodo Moro" (visto che in realtà fu voluto dall’allora presidente del Consiglio Andreotti anche se Andreotti ne ha sempre negato pubblicamente l’esistenza) è ancora tutelato dal segreto di Stato, rinnovato nell’estate del 2020 dal Governo Conte II.

Eppure, già quello che oggi sappiamo in base a decine di migliaia di atti desecretati e consegnati alla Commissione Moro che ha chiuso i suoi lavori nel 2018, e all’Archivio di Stato, è sufficiente per “ristrutturare" il campo della conoscenza della storia degli anni di piombo nel nostro Paese . E degli attentati organizzati in Italia dai palestinesi (compreso quello di Fiumicino del 1985 con 13 morti e 76 feriti). Del resto, l’Italia era diventata dall’inizio degli anni Settanta e fino al 1989, uno dei terreni principali su cui venne messa in atto la Guerra Fredda. E i terroristi palestinesi vi giocarono un forte ruolo.

Rognoni, esponente di lungo corso della sinistra Dc, eletto deputato a partire dal 1968 per sette legislature, nel 1976 divenne vicepresidente della Camera, fino a quando il presidente del Consiglio Giulio Andreotti, nel 1978, lo chiamò a sostituire come ministro dell’Interno, Francesco Cossiga che si era dimesso subito dopo l’assassinio di Moro. “Gingio", per gli amici, rimase al Viminale per 5 anni, fino all’83, mentre si sono succeduti ben cinque governi (Andreotti, Cossiga, Forlani, Spadolini I e II, Fanfani).

Nell’82 ai tempi dell’attentato alla Sinagoga era presidente del Consiglio, Giovanni Spadolini, il primo premier filoatlantico e filoisraeliano, salito a Palazzo Chigi dopo l’esplosione dello scandalo P2. Spadolini fu anche l’unico politico presente ai funerali del bambino. I cinque anni di Rognoni al Viminale risultarono cruciali.

Rognoni era al Viminale il 1 ottobre del 1978 quando fu scoperto dagli uomini del generale Dalla Chiesa il covo brigatista di via Montenevoso, dove (sappiamo oggi) venne ritrovata la copia di documento delicatissimo relativo all’organizzazione della NATO, circostanza di cui Dalla Chiesa informò il Ministero dell’Interno, all’inizio del 1979. Rognoni era al Viminale quando, nella primavera del 1979, si concretizzò una veloce e concordata “consegna” alla polizia dei due br “dissociati” Valerio Morucci e Adriana Faranda che erano riparati in casa di Giuliana Conforto (figlia di Giorgio, “Dario", il più importante agente Kgb in Italia nel Dopoguerra, secondo il "dossier Mitrokhin") , appartamento in cui fu sequestrata una delle due armi che uccisero Moro, la mitraglietta Skorpion.

Rognoni era al Viminale quando Dalla Chiesa, capo dell’antiterrorismo, per oltre un anno si era messo alla ricerca dei documenti originali sull’organizzazione Gladio, scomparsi dalla cassaforte del Ministro della Difesa Ruffini, cui alludevano le copie ritrovate a via Montenevoso. Era al Viminale quando il generale, nel marzo 1980, eseguì il blitz di via Fracchia a Genova, dove venne ucciso Riccardo Dura, capo della colonna genovese e soprattutto, sappiamo oggi, venne recuperata una quantità imponente di documentazione. E tra essa quegli “originali”, che così riuscirono tornare al loro posto a palazzo Baracchini, qualche mese più tardi.

Rognoni era al Viminale quando il 4 maggio del 1982 venne stilato un cartellino segnaletico di Alessio Casimirri (l’unico br presente in via Fani e condannato a sei ergastoli, ma che a tutt’oggi non ha fatto un giorno di carcere, ancor oggi riparato nel Nicaragua governato dai sandinisti) dopo un "probabile" arresto di cui si è avuta traccia solo nel 2015. Rognoni era al Viminale, quando succedette a Rinaldo Ossola, nel 1982, come presidente dell’Associazione di amicizia italo- araba (carica che ha mantenuto per oltre un decennio). Incarico che non deve stupire visto che già dagli Anni Settanta, tra tutti gli esponenti della sinistra dc, “Gingio” era considerato il più filoarabo, sulla scia del suo mentore e maestro Luigi Granelli (che lui accompagnò in delegazione ad una Conferenza al Cairo di cui si ricordano interventi di fuoco di Granelli contro Israele).

Per tutti questi motivi, pochi anni fa i commissari della Commissione Moro II avrebbero voluto ascoltare l’ex responsabile del Viminale. Per sentire da lui cosa potesse rendere noto sulle novità emerse dagli archivi. Si sarebbero recati loro a Milano, in modo da evitare all’anziano politico una faticosa trasferta a Roma. Sono state scambiate mail su mail, ma alla fine Rognoni ha fatto in modo di far cadere la cosa. 

Nel 2018, tuttavia, Rognoni ha trovato tempo e voglia per presentare un libro sui lavori della Commissione, scritta da Wladimiro Satta insieme all’unico parlamentare, Fabio Lavagno, che ha votato contro la Relazione finale dell’organismo parlamentare (approvato all’unanimità anche dall’Aula di Camera e Senato).

Evidentemente non si è trovato d’accordo con la ricostruzione del terrorismo italiano ed internazionale fatta dalla Commissione Moro II e con la sua principale conclusione. E cioè che la ricostruzione “ufficiale” della storia degli anni di piombo (quella nota fino alla recente apertura degli archivi) è stata il frutto di un negoziato tra istituzioni e le Br, per “confezionare” - grazie al cosiddetto Memoriale Morucci - “una verità di compromesso” che non alterasse equilibri internazionali troppo delicati, a cominciare da quelli con l’Est europeo e i palestinesi.

Tra l’estate del 1986 e quella successiva, 1987, un anno fondamentale - questo oggi lo sappiamo con certezza - per la stesura del Memoriale che viene attribuito a Valerio Morucci, Rognoni era Guardasigilli, cioè titolare del Ministero della Giustizia, che ha anche il controllo delle carceri.

“Gingio", sarà nuovamente ministro, nel luglio 1990, l’anno dopo della Caduta del Muro di Belino, con Andreotti presidente del Consiglio (per rimanervi fino al 28 giugno 1992). Nuovo ruolo, questa volta: ministro della Difesa.

Per andare al governo, ruppe con tutta la sinistra dc (i cui esponenti, compreso Sergio Mattarella, non erano d'accordo nell’impegnarsi nella formazione del nuovo esecutivo) e ruppe in modo clamoroso con Granelli che lo accusò pubblicamente di “essere un traditore”. Come responsabile della Difesa gestì (a partire da agosto) insieme al presidente Andreotti, il “disvelamento” della struttura della NATO che era stata creata alla fine della Seconda Guerra Mondiale per rendere operativa la resistenza nel caso di una eventuale invasione sovietica, la struttura Gladio-Stay Behind. 

All’inizio di ottobre (1990), una nuova irruzione nel covo br di Via Montenevoso portò alla luce la parte “mancante" del Memoriale di Moro riguardante la Gladio. Ma secondo l’analisi filologica compiuta sulle varie versioni del Memoriale di Moro (se ne contano almeno quattro) e ai loro rimandi interni, da Francesco Maria Biscione (consulente della Commissione stragi e collaboratore dell’Istituto dell’Enciclopedia italiana) mancherebbero però ancora all’appello il riferimento ai rapporti tra Andreotti e i servizi segreti e alle operazioni dei nostri servizi segreti in Libia.

Quello di ministro della Difesa è stato l’ultimo incarico governativo di Virginio Rognoni (anche se venne eletto dal 2002 al 2006, vicepresidente del Csm). Dopo che tanto tempo è passato dagli attentati e dalle stragi, oltre al Pnrr e alle riforme, il Paese ha bisogno di verità sulla sua Storia: dall’attentato alla Sinagoga al caso Moro. Perché un filo rosso li unisce: un filo rosso che emerge dai documenti ufficiali, non dalle dietrologie. Il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, ne è consapevole e il 2 agosto 2021 (anniversario della strage alla stazione di Bologna del 1980)  ha firmato una direttiva per un’ulteriore desecretazione di documenti.

Un uomo con un così lungo e prestigioso standing istituzionale, come Virginio Rognoni, non ha però sentito il bisogno di aggiungere nulla a quanto ha aveva detto in passato. Adesso porta vis con se' alcuni segreti della storia italiana.

La strage di via Fracchia e le torture: tante ombre sull’ex dc. Chi era Virginio Rognoni, a 98 anni se ne va il successore (più cattivo) di Cossiga. David Romoli su Il Riformista il 21 Settembre 2022 

L’incontro con Virginio Rognoni, allora ministro degli Interni, scomparso ieri a 98 anni, lo racconterà anni dopo Marco Pannella. Erano entrambi a Montecitorio, di fronte al tabaccaio, e il leader radicale avvertì il ministro democristiano che la sera stessa, nel corso di una Tribuna autogestita con Emma Bonino, i radicali avrebbero mostrato in gigantografia le foto delle torture alle quali era stato sottoposto il brigatista rosso Cesare Di Lenardo. Pannella chiese anche all’importante esponente democristiano compianto oggi coralmente se fosse al corrente delle torture. Era il 1982. Lo Stato aveva già vinto la sua battaglia contro il terrorismo ma ancora non lo sapeva o non ne era sicuro. La risposta di Rognoni fu dunque gelida: «Questa è una guerra e il nostro dovere per difendere la legge e lo Stato, è coprire i nostri uomini».

La Tribuna andò regolarmente in onda. Tutti fecero finta di niente: erano moltissimi i bravi democratici che la pensavano come Virginio Rognoni, esponente di spicco della sinistra Dc molto vicino all’ex segretario Benigno Zaccagnini, dunque a Moro. Del resto quel “coprire” era probabilmente un eufemismo. Dopo il rapimento del generale Dozier, il 17 dicembre 1981, le pressioni di Washington sul ministero erano diventate martellanti. Uno dei principali dirigenti di polizia che lavoravano a tempo pieno sul sequestro racconterà trent’anni dopo, nel 2012, che il prefetto capo dell’intelligence del Viminale, prefetto De Francisci, convocò tutti e fu molto chiaro senza bisogno di fare nomi: «Ci dice che l’indagine è delicata, importante. Dobbiamo fare bella figura. Ci dà il via libera a usare le maniere forti. Indica verso l’alto, quindi non preoccupatevi, se restate con la camicia impigliata da qualche parte sarete coperti, faremo quadrato». Le torture non avevano aspettato l’ostaggio americano. La squadretta di torturatori detta “Quelli dell’Ave Maria” e guidata dal professor De Tormentis era attiva già dal 1978. Il sinistro, al funzionario Nicola Ciocia lo aveva dato direttamente il dirigente dell’Ucigos Improta, con in mente la Colonna infame di Manzoni. Che il ministro non fosse al corrente della pratica lo si dovrebbe escludere.

Forse il termine “coprire” è più adatto al comportamento del ministro dopo la strage di via Fracchia, il 28 marzo 1980. Quella notte i carabinieri del generale Dalla Chiesa irruppero nell’appartamento nel quale dormivano 4 brigatisti e li uccisero. Per rispondere al loro fuoco, dissero, ma ai giornalisti che per primi entrarono nell’appartamento fu invece chiaro, come affermerà molti decenni dopo Giorgio Bocca, che erano stati fucilati. I cronisti scelsero di coprire la mattanza e in tutta evidenza lo stesso fece il ministro. Nella leggenda popolare il ministro degli Interni a capo della guerra contro il terrorismo è stato Francesco Cossiga. Non è così. Quando Cossiga si dimise, dopo l’uccisione di Moro il 9 maggio 1978, il terrorismo era all’offensiva, lo Stato aveva subìto la sua più cocente sconfitta. Il compito di risollevare le sorti della battaglia adoperando il pugno di ferro se lo assunse Rognoni, un uomo discreto, gentile, universalmente lodato per la sua signorilità. Un democristiano diverso dalle star dell’epoca, che non mancavano di istrionismo, erano personaggi celebri, vistosi, conosciuti da tutti.

Rognoni no. Non si metteva in mostra. Era riservato, geloso della vita privata: un matrimonio durato 57 anni, fino alla morte della moglie Giancarla Landriscina conosciuta all’università, quattro figli, sei nipoti. A spingerlo ad accettare un incarico considerato allora ad alto rischio, succedendo a Cossiga, era stata proprio lei: «Hai scelto di fare politica: quel che segue lo devi accettare». Tuttavia fu proprio questo compassato signore a dare il via libera alle torture e a una guerra combattuta senza esclusione di colpi e senza pastoie legali. Nei guai il ministro ci finì una volta sola, nel 1980. Il primo grande pentito delle Br, Patrizio Peci, aveva parlato di un leader di Prima linea figlio di un ministro, Carlo Donat-Cattin. Cossiga, allora primo ministro, avvertì il padre, ne venne fuori uno scandalo coi fiocchi, Rognoni finì nel tritacarne ma ne uscì indenne. Lo Stato scelse di coprire, in questo caso non per meriti di guerra. La verità, tanto per cambiare, la raccontò Cossiga molti anni dopo. Disse che il primo reato lo aveva commesso il ministro, mettendo a parte dell’increscioso caso il segretario della Dc Piccoli. Decisero di informare insieme Cossiga. Fu proprio Rognoni, “gigante di coraggio”, a chiedere a Cossiga di informare lui Donat-Cattin, con il quale il titolare del Viminale “non andava d’accordo”.

Rognoni vinse la guerra con il terrorismo e perse quella con Cosa nostra. O forse non la combattè oppure non potè combatterla. Gli allarmi di Piersanti Mattarella e del generale Dalla Chiesa, l’isolamento denunciato da quest’ultimo spedito a Palermo senza alcuna copertura da parte dello Stato rimasero lettera morta. Lo zu Totò chiuse la partita a colpi di kalashnikov. Nell’82 fu però lui a sostenere, firmare e far approvare la legge La Torre, nel frattempo assassinato, contro Cosa nostra. Dopo gli Interni Rognoni passò alla Giustizia, quindi alla Difesa. La tempesta dei primi anni 90, con la fine della Dc sembrava averlo spedito in pensione per sempre nel 1994, dopo 28 anni passati in Parlamento. Invece nel 2002 fu chiamato alla vicepresidenza del Csm, da dove fece muro contro ogni critica rivolta alla magistratura in perfetta consonanza con quella che era la linea del suo partito, La Margherita, e del partito di cui nel 2007 contribuì, con altri 11 saggi, a scrivere il “manifesto”: il Pd. Antifascista negli anni giovanili a Pavia anche se mai partigiano, giurista raffinato e colto, avvocato e docente, Virginio Rognoni è stato senza dubbio un democratico convinto e vicino all’anima più aperta e di sinistra dello scudocrociato. Ma è stato anche l’ultimo nella tradizione democristiana dei ministri degli Interni col pugno durissimo. David Romoli

Lettera di Antonello Piroso a Dagospia il 22 marzo 2022.

Caro Roberto, nell'articolo di Marco Revelli per La Stampa da voi ripreso -a parte l'inesattezza di collocare l'assassinio del giudice Mario Amato a Napoli (no: fu ucciso alla fermata dell'autobus vicino casa, a Roma)- c'è una ricostruzione sulla vicenda Cossiga-Donat Cattin che non tiene conto di quanto raccontato dallo stesso Cossiga nel suo libro "Italiani sono sempre gli altri".

Riassumo per punti:

1) Roberto Sandalo, "pentito" di Prima Linea, raccontò di aver incontrato Carlo Donat-Cattin, padre del terrorista Marco, per informarlo del destino del figlio (espatriato in Francia dopo diversi attentati, tra cui quello che era costato la vita al giudice Emilio Alessandrini); 

2) il Pci di Enrico Berlinguer dedusse -è sempre Cossiga che parla- che se il figlio era scappato, era perchè era stato avvisato dal padre, a sua volta informato dal presidente del Consiglio, cioè dallo stesso Cossiga, in nome della colleganza democristiana (Donat-Cattin era all'epoca vicesegretario del partito e ministro del lavoro);

3) fu promossa una raccolta di firme per la messa in stato d'accusa di Cossiga, ma il Parlamento rigettò la richiesta del Pci; 

4) ma chi aveva davvero messo in circolo la notizia? Cossiga da chi avrebbe saputo che Donat-Cattin junior era uno dei capi di Prima Linea? Dal ministro dell'interno Virginio Rognoni, altro Dc, che lo era andato a trovare con il segretario del partito, Flaminio Piccoli; 

5) Rognoni invita Cossiga a dirglielo lui, a Donat-Cattin, della situazione del figlio, perchè "noi non andiamo d'accordo". Ma, aggiunge Cossiga, a me parve una scusa per non trovarsi coinvolto nella rivelazione di segreti di Stato; 

6) Cossiga avverte Rognoni: guarda che sei già in fallo, e pure grave, perchè un conto è se tu, ministro, avvisavi solo me, presidente del consiglio; ma per il fatto di averne parlato anche con Piccoli, che è comunque un privato cittadino, hai già commesso un reato; 

7) incontrando Cossiga a un successivo vertice per le nomine agli enti previdenziali, sarà Donat-Cattin a chiedere a Cossiga cosa sappia del figlio, e Cossiga gli dice cosa ha appreso delle rivelazioni di Sandalo e di quelle convergenti di Patrizio Peci, catturato dal generale Dalla Chiesa;

8) quando sta per salire in aereo per andare ai funerali del Maresciallo Tito con il cugino Berlinguer, Cossiga viene avvisato dal capo della polizia Coronas che nei confronti di Donat-Cattin jr, fino a quel momento ancora solo "sospettato", erano stati spiccati mandati di cattura; 

9) e qui, commenta Cossiga, "commetto l'ingenuità più grande: metto al corrente Enrico della tragedia in corso, sottovalutando che è pur sempre segretario del Pci", che fa reagire il partito come detto;

10) il bello è che Tonino Tatò, portavoce di Berlinguer, aveva informato Luigi Zanda (sì, proprio lui, ai tempi portavoce di Cossiga) che secondo la segreteria del partito si trattava di una manovra di bassa lega politica. In effetti, il ministro dell'interno-ombra del Pci, Ugo Pecchioli, aveva difeso Cossiga, anche perchè aleggiava il sospetto che Sandalo fosse stato arrestato -non dai carabinieri di Dalla Chiesa- e rimesso in libertà come "agente provocatore", e Giancarlo Pajetta si era distinto con una riflessione che, conclude Cossiga, non ho mai dimenticato: "Io non so cosa Cossiga abbia veramente detto a Donat-Cattin, ma so che ha detto nè più nè meno di quanto avrebbe detto a ciascuno di noi qui dentro se avessimo un figlio nelle stesse condizioni".

Di tutto questo Cossiga, che intrattenne con me un cordialissimo rapporto, mi parlò in occasione della sua collaborazione televisiva con La7, quando -secondo una vulgata interessata- io sarei stato su una sua personale blacklist per aver individuato una sua fantomatica amante quando lavoravo a Panorama (circostanze entrambe false, ma questa è un'altra storia).

Il lavoro di Monica Galfrè. Il figlio terrorista, la storia di Marco Donat-Cattin che scosse la Repubblica. David Romoli su Il Riformista il 5 Maggio 2022. 

Nella notte del 20 giugno 1988 un giovane uomo di 35 anni viene coinvolto di striscio in un tamponamento a catena sull’autostrada Milano-Venezia, all’altezza del casello Verona Sud. C’è un ferito, sua moglie sta provando a fermare le macchine in arrivo. L’uomo la affianca, segnala con lei l’incidente anche se il buio e la velocità delle auto rendono l’impresa rischiosa. Una Thema arriva sparata, li prende in pieno, uccide entrambi sul colpo. La vittima ha un nome noto: è Marco Donat-Cattin, ex militante di Prima linea, ex detenuto politico, considerato un pentito anche se è vero solo a metà. Il padre, Carlo Donat-Cattin, è uno dei principali leader della Dc, più volte ministro, in quel momento vicesegretario del partito.

Intorno a quella parentela e al sospetto che il potente padre, allertato addirittura dal presidente del consiglio Cossiga, avesse brigato per mettere in salvo il figlio era scoppiato nel 1980 uno dei più clamorosi scandali nella storia della Repubblica. Ricostruisce quella tempesta politica, e soprattutto la parabola tragica di Marco, il libro della storica Monica Galfré, edito da Einaudi, Il figlio terrorista. Il caso Donat-Cattin e la tragedia di una generazione: uno dei migliori nella foltissima bibliografia su quell’epoca storica, forse il migliore in assoluto. Per quanto attiene allo scandalo, ricostruito nella prima parte del libro, la vicenda ancora oggi non è accertata nei dettagli. All’origine c’è il brigatista Patrizio Peci, primo tra i grandi pentiti della lotta armata in Italia. Nella sua fluviale deposizione aveva detto di aver saputo da un dirigente di Prima linea, il principale gruppo armato dopo le Br, che tra i dirigenti di quell’organizzazione c’era il figlio di Donat-Cattin. Era il 2 aprile 1980: pochissimi giorni dopo la deposizione di Peci arrivò nelle mani di Cossiga che – secondo la testimonianza del pentito di Pl Roberto Sandalo – si premurò di avvertire l’amico Carlo perché facesse espatriare il figlio terrorista quanto prima.

I verbali degli interrogatori di Peci, depurati però della pagina in cui veniva citato Donat-Cattin, finirono nelle mani del giornalista del Messaggero Fabio Isman, consegnatigli da numero 2 del Sisde Silvano Russomanno: finirono entrambi in galera per violazione del segreto d’ufficio. Ci rimasero per mesi, poi il giornalista fu prosciolto, l’uomo dei servizi condannato. Sandalo, il militante di Pl che aveva parlato a Peci di Marco Donat-Cattin, fu arrestato il 29 aprile. Tra la deposizione di Peci e quell’arresto, Cossiga aveva certamente incontrato il vicesegretario della Dc nel suo studio privato e il potente Carlo aveva immediatamente contattato proprio Sandalo, che sapeva essere amico e compagno di suo figlio, secondo quest’ultimo per rintracciare e avvertire il figlio. “Roby il pazzo”, come lo chiamavano, si pentì subito. Il 3 maggio fece il nome di Marco Donat-Cattin, contro cui quattro giorni dopo fu spiccato un mandato di cattura ma il “comandante Alberto”, come da nome di battaglia, era già oltre confine. Fu arrestato a Parigi mesi dopo, il 20 dicembre. Che fosse stato messo in guardia dal padre o meno, la decisione di espatriare la aveva già presa. Non dipese dall’indiscrezione del presidente del consiglio.

Le deposizioni del pentito di Prima linea non si fermarono lì. Coinvolsero Cossiga, scatenando un uragano politico. Appena due anni prima, con lo stesso Cossiga inflessibile ministro degli Interni, la Dc aveva sacrificato il suo esponente più prestigioso, Aldo Moro, per non trattare con i terroristi. La fermezza era una professione di fede, un dogma, un obbligo morale prima che politico: trasgredire in nome della famiglia o dell’amicizia, degli affetti, sembrava letteralmente inconcepibile.

Sia Donat-Cattin che Cossiga smentirono. Solo 27 anni più tardi il Picconatore avrebbe ammesso e indicato la catena lungo la quale aveva viaggiato l’informazione: dal ministro degli Interni Rognoni al segretario della Dc Piccoli, i quali avevano poi messo al corrente Cossiga, affidando a lui lo sgraditissimo compito di mettere al corrente il più diretto interessato, Donat-Cattin padre.

La faccenda finì di fronte alla Commissione parlamentare per i procedimenti d’accusa, il “Tribunale dei ministri”. Seduta fiume: tesa, molto drammatica e tuttavia dall’esito predeterminato. La Commissione avrebbe dovuto decidere non sull’eventuale colpevolezza del premier ma solo sulla necessità o meno di procedere con ulteriori accertamenti. Discusse invece come se dovesse emettere un verdetto e assolse a furor di maggioranza. Il Pci raccolse le firme necessarie per ripetere il “processo” in luglio, di fronte alle Camere in seduta congiunta. Fu un momento tanto solenne quanto disertato: dopo cinque giorni di dibattito ad aula semivuota Cossiga ne uscì incolume. Donat-Cattin invece rassegnò le dimissioni e uscì di scena ma solo per qualche anno: nell’86 era di nuovo ministro.

Monica Galfrè ricostruisce non solo i passaggi di quella crisi ma soprattutto la temperie che rifletteva e veicolava: il dibattito sui media, gli intrecci tra calcolo politico, propaganda e avvio, per la prima volta, di una riflessione della società italiana su se stessa e sulla bufera che stava attraversando ormai da oltre 10 anni. Quella che emerge è la verità di un Paese che perla prima volta faceva i conti con il terrorismo, cioè con l’emergenza che lo ossessionava più di ogni altra, riconoscendone la natura “interna”, inscritta nella propria storia. Sino a quel momento i terroristi erano stati visti come alieni: gelidi, efficienti, feroci, nemici mortali, sempre e comunque “altro da sé”. Complice l’intreccio familiare reso fragoroso dalla notorietà e dal ruolo dei protagonisti, i terroristi, e con loro un’intera travagliata generazione, cominciavano a essere visti per quello che erano: non solo parte del Paese ma parte delle famiglie. In senso proprio qualche volta, ma in senso più lato sempre.

Anche da questo punto di vista il 1980 è un anno di svolta: il percorso successivo non sarebbe stato lineare, la “soluzione politica” invocata dai terroristi sconfitti sarebbe sempre rimasta una chimera. Però, senza dubbio, una volta sconfitto il terrorismo, l’Italia della prima Repubblica dimostrò una disponibilità alla clemenza e una volontà di superare l’emergenza marcata dalla consapevolezza di avere a che fare con i propri figli. Quei “figli”, Marco Donat-Cattin in qualche modo li rappresenta tutti. Ragazzo ribelle, padre a 17 anni, militante di Lotta continua, poi di Senza tregua e di lì in Prima linea, quando viene denunciato il “comandante Alberto” era già uscito da Pl, deluso da una deriva militarista che stava rendendo quell’organizzazione sempre più simile alle Brigate rosse e dunque sempre più lontana dalla “struttura armata di movimento” delle origini, di ispirazione opposta a quella brigatista. Se la “ritirata strategica” in Francia lo avrebbe condotto ad abbandonare la militanza armata o a puntare su un nuovo gruppo terrorista, come sembrava comunque intenzionato a fare, non è dato sapere. Di certo nel suo percorso individuale si rifletteva una crisi che non era interna solo alle organizzazioni armate. In quel 1980, che col senno di poi sappiamo aver segnato il tramonto del terrorismo e che si sarebbe concluso alla Fiat con la sconfitta di una ribellione operaia durata oltre 10 anni, si consumò anche la fine di una sorta di incanto collettivo, generazionale, degenerato in tragedia.

L’obiettivo di rendere la parabola di Marco Donat-Cattin esemplare è esplicitato da Monica Galfré sin dal sottotitolo del libro. Per farlo, l’autrice procede in senso inverso rispetto a quello usuale: spoglia Marco Donat-Cattin di ogni componente stereotipa, dal “terrorista” al “militante rivoluzionario”, cercando invece di rintracciarne l’individualità: una verità personale condivisa, pur se declinata da ciascuno a modo proprio, da molti altri giovani del suo tempo e del suo Paese. Da storica, l’autrice ha scelto di affidarsi essenzialmente alle deposizioni di Marco, considerandole comunque meno falsate, in virtù dell’immediatezza, dei ricordi e delle ricostruzioni a distanza di decenni.

Sono gli aspetti sempre dimenticati e messi da parte quelli che vengono qui indagati e scandagliati: il rapporto con la morte data e rischiata, molto più complesso di quanto le ricostruzioni storiche non siano in qui riuscite a restituire, centralissimo nella parabola di Marco Donat-Cattin, che uccise personalmente il giudice Emilio Alessandrini e dall’incubo di quella morte data con le proprie mani non si liberò mai; le relazioni sentimentali, che c’erano ed erano essenziali anche per i militanti della lotta armata; soprattutto il rapporto tra comunità e individui, quello più articolato, per molti e contrapposti versi essenziale nello spiegare sia la precipitazione negli inferi di una lotta armata vissuta spesso con disagio e lacerazioni interiori, sia la rottura che portò molti alla dissociazione, al pentimento o alla resa. Donat-Cattin appare come un “pentito a metà”, quasi un dissociato ante litteram: quando iniziò a collaborare, non facendo nomi ma ricostruendo l’intera genesi di Prima linea, la sua articolazione e i delitti compiuti, la dissociazione ancora non esisteva. Quando morì sull’autostrada, era uscito di galera da sei mesi, lavorava nel sociale per il recupero dei tossicodipendenti. La sua tragedia personale è una chiave per capire la storia d’Italia in un momento cruciale come non è ancora stato fatto. David Romoli

La Roma di piombo raccontata dai carabinieri che vinsero le Br. La storia della Sezione Speciale in cinque puntate. Per la prima volta, oltre a terroristi e studiosi, parlano le forze dell'ordine. Alessandro Gnocchi il 21 Settembre 2022 su Il Giornale.

Di recente, Giorgia Meloni ha ricevuto minacce di morte da parte delle Brigate Rosse. I terroristi sono stati sconfitti ma ogni tanto rialzano il capo come accadde con le Nuove Brigate Rosse che uccisero Massimo D'Antona (1999) e Marco Biagi (2002) prima di essere sgominate dalle forze dell'ordine. Non è il caso di sottovalutare i messaggi criminali rivolti alla leader di Fratelli d'Italia. Le organizzazioni estremistiche traggono linfa dal malcontento sociale e dalla convinzione (insensata) di proseguire la Resistenza contro il fascismo. Proprio il fascismo evocato, a sproposito e con l'unico fine di allarmare, dalla propaganda elettorale più ignorante e dagli intellettuali meno seri ma più seriosi. A questo, dobbiamo aggiungere che l'autunno sarà gelido in casa, a causa della carenza di gas, e infuocato in strada, a causa della povertà. Brutti segnali che riportano alla memoria la notte della Repubblica dalla quale, tutto sommato, ci siamo svegliati da poco.

La storia delle Brigate Rosse è stata raccontata spesso (e anche bene) dal punto di vista dei carnefici, dei parenti delle vittime e degli storici. A queste voci possiamo aggiungere ora quelle delle forze dell'ordine impegnate sul campo a contrastare le cellule di terroristi. Per questo motivo, spicca la docu-serie Roma di piombo. Diario di una lotta in onda su Sky Documentaries, realizzata da Ballandi, ideata da Paolo Colangeli, scritta da Michele Cassiani con Egilde Verì e la regia di Francesco Di Giorgio. Sono cinque puntate, tre già andate in onda, comunque disponibili in streaming su Now e on demand.

Sotto la guida del generale Dalla Chiesa, un gruppo di carabinieri forma la Sezione Speciale Anticrimine di Roma, che ha il compito di combattere le organizzazioni sovversive ed eversive, e in particolare le Brigate Rosse. Gli uomini della Sezione neppure sembrano militari: si chiamano con nomi di battaglia, vestono casual, hanno la barba e i capelli lunghi. Insomma, non danno nell'occhio nei luoghi di ritrovo (università, piazzali delle fabbriche, locali) dove plausibilmente i brigatisti trovano le nuove reclute. All'inizio non c'è nulla nonostante i terroristi abbiano già rapito e ucciso Aldo Moro. Non c'è un archivio. Non è possibile incrociare rapidamente i dati con altre sezioni. La Sezione parte da zero. La frustrazione non tarda a presentare il suo conto. Infiltrarsi è impossibile (nessuno ha un passato credibile come rivoluzionario). Le Brigate Rosse agiscono con prudenza e intelligenza. Dice il comandante Domenico Petrillo, nome di battaglia Baffo: «Tantissime volte abbiamo subito le umiliazioni del fallimento, e ci siamo scoperti impotenti davanti agli attentati». Dalla Chiesa però insiste: è la strada giusta. La Sezione inizia a raccogliere e studiare sistematicamente volantini, delibere pubbliche, materiale di propaganda. Dalla mole di carte, esce qualche informazione preziosa sulla struttura dell'organizzazione terroristica. L'8 settembre 1978, a Patrica, viene assassinato il magistrato Fedele Calvosa, insieme alla sua scorta (Giuseppe Pagliei) e al suo autista (Luciano Rossi). Resta a terra anche un criminale, abbattuto dal fuoco amico. In tasca ha le chiavi di un'automobile. È la primissima crepa nell'organizzazione. I carabinieri raccontano come abbiano scovato la vettura (un colpo di genio investigativo) e come l'abbiano sorvegliata, alla stazione ferroviaria di Latina, fino all'arrivo di un altro criminale. Ma la vera voragine si apre dopo l'assassinio, a Genova, del sindacalista Guido Rossa, stimato da tutti e militante del Partito comunista. Un errore strategico clamoroso, che non a caso divide l'organizzazione (la colonna di Roma emette un comunicato per criticare l'azione).

Molti comunisti ortodossi, e il Pci stesso, non sono più disposti a coprire «i compagni che sbagliano». Eloquenti sono le parole degli operai a commento della morte di Rossa: «Aveva ragione lui» (sottinteso: a voler disgiungere la lotta di classe dalla lotta armata). Proprio la collaborazione di un militante del Partito comunista permetterà alla Sezione speciale di «decapitare» la colonna romana (rappresentata, nel documentario, da Francesco Piccioni).

Nel frattempo, però, le Brigate Rosse sono all'apice della forza militare. Il 3 maggio 1979, un commando di una dozzina di terroristi assalta l'edificio in piazza Nicosia a Roma in cui si trovavano gli uffici regionali per il Lazio della Democrazia cristiana. Una prova di forza impressionante. Non solo la posizione è centrale. Ma le vie di fuga sono limitate dal fatto di trovarsi in pratica sul Lungotevere. Le Brigate Rosse volevano danneggiare il palazzo con tre cariche esplosive ma le cose vanno subito storte a causa di una suora in fuga. Ci sarebbe da sorridere se non ne fosse uscito uno scontro a fuoco nel quale persero la vita il maresciallo Antonio Mea e l'appuntato Pierino Ollanu. Pasquale Pandoli, detto Kawasaki, è tra i primi ad arrivare sulla scena del delitto: «C'era sangue dappertutto. E l'odore del sangue non si dimentica. Mai».

'Ndrangheta stragista, tre nuovi verbali sugli attentati degli anni Novanta. Il Quotidiano del Sud il 12 Settembre 2022

I verbali di tre collaboratori di giustizia che hanno riferito delle riunioni avvenute tra Cosa nostra e ‘Ndrangheta prima delle stragi continentali che hanno insanguinato il Paese all’inizio degli anni novanta andranno agli atti del processo «’Ndrangheta stragista» che vede imputati il boss di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli, condannati in primo grado all’ergastolo per l’agguato in cui morirono, il 18 gennaio 1994, i carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo.

Dopo che la Corte d’Assise di Reggio Calabria ha ammesso nel fascicolo del processo il verbale riassuntivo dell’interrogatorio reso dal pentito Annunziato Romeo nel 1996, la notizia dei verbali degli altri tre collaboratori è stata annunciata in aula dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo. In particolare si tratterebbe di tre verbali trasmessi dalla Dda di Catanzaro su richiesta della Dda di Reggio e relativi alle dichiarazioni dei pentiti Gerardo D’Urzo, deceduto nel 2014, Marcello Fondacaro e Girolamo Bruzzese.

I tre – ha spiegato Lombardo in aula – «hanno riferito circostanze direttamente attinenti ai temi di questo processo spiegando nel dettaglio di avere appreso da appartenenti alla cosca Mancuso e di altre famiglie una serie di circostanze riferibili agli incontri effettuati tra Cosa nostra e ‘ndrangheta nel periodo immediatamente antecedente alle stragi continentali».

Nei verbali, che ancora non sono stati depositati, vengono anche citati «i protagonisti politici di quella stagione indicando nomi e circostanze che – ha concluso il procuratore aggiunto Lombardo – a mio modo di vedere meritano la massima attenzione».

Nella prossima udienza, fissata per il 3 ottobre, il magistrato illustrerà il contenuto dei verbali e di un’informativa della Dia di Reggio Calabria. Non lo ha fatto oggi perché proprio sulle dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia la Direzione nazionale antimafia ha convocato una riunione a Roma per il prossimo 15 settembre quando il gruppo “stragi”, composto dai pm di Reggio Calabria, Firenze, Caltanissetta e Palermo, deciderà cosa potrà essere depositato nel fascicolo del processo a Graviano e Filippone.

La donna delle stragi del 1993, la commissione antimafia ritrova due identikit dopo 29 anni. Salvo Palazzolo su La Repubblica il 14 Settembre 2022.

Approvata la relazione finale del gruppo di lavoro che si è occupato dei misteri delle bombe e della trattativa. Il senatore Giarrusso: "Abbiamo elementi di prova per dire che quella sera, in via dei Georgofili, c’erano soggetti esterni a Cosa nostra"

Ventinove anni dopo, sono riemersi un testimone mai ascoltato e l'identikit di una misteriosa donna. Sono riemersi soprattutto tanti misteri attorno alla strage che la notte fra il 26 e il 27 maggio 1993 devastò un'ala degli Uffizi, a Firenze, e uccise cinque persone. "Adesso, abbiamo elementi di prova per dire che quella sera c'erano soggetti esterni a Cosa nostra", dice il senatore Mario Giarrusso, che presiede il comitato sulle stragi mafiose e la trattativa della commissione parlamentare antimafia. 

Stragisti, quando Cosa Nostra dichiarò guerra allo Stato. Dai Graviano a Messina Denaro. Dagli eccidi del 1992 e del 1993 al ricatto che i protagonisti sopravvissuti esercitano sulle istituzioni. Il nuovo libro di Lirio Abbate sulla stagione al tritolo decretata dai boss corleonesi. Francesco La Licata su L'Espresso il 26 aprile 2022

La storia che racconta Lirio Abbate parte da lontano, da una piccola, insignificante strada di un’ex borgata palermitana devastata dal cemento. Ma non si ferma lì, lascia lo spazio angusto di ciò che rimane della Conca d’Oro svenduta ai palazzinari per risalire piano piano al centro di Palermo e all’Isola tutta e, infine, al cuore del potere politico-finanziario del Paese.

Si comincia dall’anonima via Giuseppe Tranchina per raccontare la più brutale aggressione che uno Stato moderno abbia mai subito da un’organizzazione criminale in uno spazio di tempo relativamente (dal punto di vista storico) lungo ma breve per ciò che ha lasciato nella memoria e nella coscienza collettiva degli italiani.

Sono passati trent’anni da quando la mafia stragista ha tentato di colpire il cuore dello Stato, prima con la violenza delle bombe, poi tentando di corrompere la tenuta democratica delle istituzioni preposte all’azione di contrasto al crimine mafioso. Trent’anni di alti e bassi in questa battaglia dei buoni contro i cattivi, una guerra che sembra tutt’altro che conclusa ed ha visto protagoniste assolute alcune menti criminali in parte vinte dal peso della storia, in parte ancora in grado di nuocere. 

Totò Riina, il padrino di Corleone, non c’è più. È morto nel reparto detenuti dell’ospedale di Parma senza aver mai aperto bocca, se non per spargere gli ultimi veleni attraverso le «rivelazioni», la maggior parte false e manipolatrici, affidate al suo «compagno di socialità» durante lunghe passeggiate nel cortile del penitenziario. Resta in piedi il cognato, Leoluca Bagarella, che non ha mai rinnegato il giuramento fatto quando la mafia scoprì il «tradimento» delle forze politiche, secondo lui inadempienti per non essere riuscite a salvare Cosa Nostra dal colpo mortale inferto da Giovanni Falcone col suo maxiprocesso. «Non ci fermeremo - giurò - fino a quando ci sarà un solo corleonese vivo», e in effetti di danno sono riusciti a farne parecchio.

Ma ci sono altri coprotagonisti di questa storia nera, personaggi che del basso profilo mediatico hanno fatto una religione, riuscendo ad esercitare un ruolo primario nella strategia politico-criminale di Cosa Nostra, rimanendo spesso nell’ombra ed emergendo appena solo quando le contingenze lo hanno richiesto e specialmente dopo la cattura di Totò Riina, quando il capo cadde nella trappola dei carabinieri e gioco forza dovettero «assumersi le proprie responsabilità» i giovani leoni: Giuseppe Graviano e Matteo Messina Denaro, due menti diaboliche che non si sono arrese alla sconfitta e continuano a tramare, il primo dal carcere che non gli impedisce di dispiegare forza e intelligenza «politica», l’altro dalla sua non irresistibile latitanza forse frutto di compiacenti amicizie, che, ad una cattura che provocherebbe un pericoloso vuoto di potere mafioso sul territorio, preferiscono un quieto vivere controllato, secondo le vecchie e mai sopite regole della convivenza tra guardie e ladri.

Tutto questo, partendo da via Tranchina, racconta come in un thriller, Lirio Abbate nel suo “romanzo nero”: Stragisti. Da Giuseppe Graviano a Matteo Messina Denaro: uomini e donne delle bombe di mafia (300 pagine, Rizzoli), in uscita il 26 aprile.

Ma perché via Giuseppe Tranchina 22, quartiere San Lorenzo, Palermo? Quella era l’abitazione di un semisconosciuto mafioso, Salvatore Biondino, che guidava l’auto sulla quale viaggiava Totò Riina quando venne arrestato, il 15 gennaio 1993. I carabinieri del Ros, forse storditi dall’eccesso di adrenalina per avere messo le mani sul padrino, non diedero grande importanza all’anonimo autista del capo e non eseguirono neppure un’immediata perquisizione della sua abitazione. Errore grave, perché Biondino non era un signor nessuno, era il capo di uno dei mandamenti più «titolati» di Cosa Nostra, quello di San Lorenzo, appunto. E in casa, quella mattina, aveva riunito il gotha dei padrini di Cosa nostra, appunto gli Stragisti. E non solo, teneva soldi a palate e documenti che avrebbero potuto raccontare molto della Cosa Nostra dell’epoca.

Ma così non andò e non andò bene neppure col covo-villa di Riina che non fu perquisito per tempo, tanto da concedere ad alcuni «pulitori» il tempo di svuotare persino una cassaforte e affidare una corposa documentazione a Matteo Messina Denaro che, dunque, oggi deterrebbe la chiave dei segreti dello zio Totò e dei suoi soldi. Ecco, Abbate si chiede se di inadempienza colposa si trattò oppure di omissione colpevole. Fatto sta che le cose avrebbero potuto prendere una piega diversa, ben più favorevole allo Stato, se la via Tranchina avesse acceso un faro nelle indagini e soprattutto se gli investigatori avessero seguito Totò Riina diretto proprio a casa Bondino per una riunione della cupola convocata per pianificare omicidi e stragi. Pensate che colpo, catturare la cupola al completo, con Bagarella, Messina Denaro, i Graviano e tutto l’altare maggiore. Ma oltre ai boss, cosa c’era nell’abitazione di Biondino? Abbate lo fa dire ad un testimone oculare, oggi pentito importante che, ironia della sorte, si chiama come la stradina di San Lorenzo: Fabio Tranchina, un giovane cresciuto in un ambiente a rischio e ingoiato nel gorgo mafioso anche a causa di un matrimonio sbagliato ma mai sconfessato.

Fabio Tranchina ha fornito alla magistratura un ritratto completo degli stragisti, in particolare della famiglia mafiosa di Palermo che ha raccolto l’eredità lasciata da don Totò: i Graviano di Brancaccio, che rappresentano la mafia col pedigree. Mafia antica, mafia dei giardini e poi mafia moderna che però non dimentica le proprie origini, le regole, il senso dell’onore, la mai sazia sete di vendetta. Capostipite fu Michele, sposato con una donna appartenente ad una famiglia che Cosa nostra la esportò a Milano. Poi i tre figli maschi: Benedetto, Filippo e Giuseppe e la piccola, «a picciridda» Nunzia che comunque la pagnotta se l’è guadagnata pure lei imparando a gestire una montagna di soldi dopo la cattura dei fratelli maschi.

Il ruolo di erede di don Michele, ucciso all’insorgere della seconda guerra di mafia sarebbe dovuto andare a Benedetto, ma, dice Riina in carcere parlando con il «compagno di socialità», era considerato «scimunito». E tra Filippo e Giuseppe, quello più sveglio per Totò era proprio il secondo, capace di conquistarsi il rispetto della truppa con metodi «cristiani», capace di «farsi ubbidire» dando l’impressione di lasciare libertà di scelta. Una mente lucida e sempre in movimento, come si evince dal racconto di come sia riuscito a organizzare la strage di via D’Amelio (il giudice Borsellino e 5 agenti della scorta) e come Cosa Nostra abbia potuto ribattere colpo su colpo all’azione di contrasto dello Stato sempre in ossequio alla linea dura di Riina, idolatrato come un padre («semu tutti figghi di stu cristianu»), che «appariva con le spalle coperte», specialmente dopo l’assassinio dell’ex sindaco Dc di Palermo, Salvo Lima, ritenuto un traditore per non essere riuscito a «sabotare politicamente» il maxiprocesso di Falcone. Ecco, la vendetta: il motore che fa decollare la svolta stragista della mafia ma che, nel privato, muove anche le paranoie personali, come l’ossessione per la mancata punizione di Totuccio Contorno, ritenuto l’assassino di Graviano padre ma sfuggito ad un agguato e poi artefice (in società con Buscetta) della disfatta giudiziaria di Cosa nostra. 

Il romanzo fila veloce, anche perché non cerca conferme giudiziarie. Abbate fa un racconto, sostenuto da episodi inediti e documenti nuovi, che non è destinato alle aule di giustizia, scrive una cronaca mettendo insieme spezzoni di verità disseminate tra migliaia di carte e verbali poco conosciuti al pubblico. Il risultato è impressionante perché spesso sono gli stessi protagonisti a rivelare brandelli di storia, uomini votati all’omertà che invece offrono chiavi di lettura. Il contributo di Tranchina è notevole, ma è lo stesso Graviano che, vinto dal suo delirio manipolatorio, racconta in presa diretta anche quando nega per confermare, come nella migliore tradizione dei mafiosi che inquinano i pozzi. Graviano lancia il sospetto che la cattura (furono presi lui, Filippo, e le rispettive compagne) al ristorante di Milano “Gigi il cacciatore” non fu casuale, insinua che l’episodio possa essere inserito nella ingarbugliatissima storia delle frequentazioni berlusconiane dei Graviano.

E come insinua? Semplicemente definendo la cattura un «arresto singolare e inaspettato», lasciando intendere, così, di aver avuto in passato coperture poi revocate. E Abbate qui svela come e da chi i Graviano sono stati traditi e venduti ai carabinieri nel gennaio 1994. Parla liberamente, Giuseppe. Ma con qualche piccola censura. Per esempio, non parla mai di Marcello Dell’Utri, il suo «paesano», il politico che Gaspare Spatuzza dice di aver avuto citato da Graviano quando lo ha incontrato alcune settimane prima dell’arresto al bar Doney di via Veneto a Roma e che avrebbe consentito al boss di poter dire, dopo quell’incontro, «ci siamo messi il Paese nelle mani». E accredita una verità di comodo, più consona all’etica mafiosa, quando parla della gravidanza della moglie avvenuta mentre era detenuto.

Molti pensavano all’inseminazione artificiale, ma lui dice di avere avuto un contatto fisico con la moglie, fatta entrare clandestinamente in carcere. Stessa operazione sarebbe stata fatta da Filippo, anch’egli divenuto padre da detenuto. I documenti citati nel libro e le fonti raccolte raccontano invece un’altra storia che ha alla base accordi mafiosi. La censura si fa totale quando l’argomento è l’assassinio del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito ucciso per fare ritrattare il padre. L’immaginario ha già attribuito ogni colpa ai Brusca e quindi Graviano cerca di tenersene alla larga. Una lettura istruttiva, il libro di Lirio Abbate, che mette a nudo uomini, meccanismi e regole di una comunità (Cosa Nostra) che non pare arrendersi alla sconfitta. Trent’anni di ricatti mafiosi e strategie criminali, sotto la guida di Graviano e Messina Denaro. L’ultima spiaggia dei Graviano sembra essere quella del tentativo di poter uscire dal carcere a dispetto delle condanne all’ergastolo. Per questo risulta molto seguita, in carcere, la vicenda politica legata alla riforma dell’ergastolo ostativo. E della dissociazione. E per questo Graviano ha già fatto conoscere il proprio pensiero scrivendo al ministro della Giustizia, Marta Cartabia, la cui lettera è stata acquisita dai magistrati. Il manipolatore non demorde e ciò che racconta questo libro non è una fiction.

Montagna Longa: il contabile di Cosa nostra che si salvò dalla strage del Dc8. Il boss Vito Roberto Palazzolo doveva essere sul volo schiantatosi nel ’72 forse per un attentato. All’improvviso cambiò idea e chiese a un dipendente di prendere il suo posto. È l’ennesima ombra sulla tragedia irrisolta di cui si occupa la commissione antimafia. Enrico Bellavia su L'Espresso il 12 settembre 2022

La telefonata arrivò il venerdì mattina molto presto. Era il 5 maggio del 1972, il giorno della strage di Montagna Longa, la strage dimenticata.

Armando era a letto nella sua casa di Terrasini. Aveva tirato tardi la sera prima. Erano giornate convulse di campagna elettorale per le Politiche della domenica e lui, come da tradizione familiare, si dava da fare per sostenere quella galassia che fuori dal Pci ingaggiava battaglie a sinistra e provava a erodere il granitico consenso dei democristiani, gonfi dei voti portati in dote dai mammasantissima.

Ofelia, non aveva cuore di svegliare il figlio. E l’uomo al telefono dovette insistere, era urgente, c’era da pianificare un viaggio imprevisto e Armando avrebbe dovuto darsi una mossa per riuscire a partire in tempo. Di malavoglia, la donna andò in camera del figlio che, frastornato, trascinò i piedi in corridoio e prese la cornetta. La madre lo sentì solo annuire. Quando mise giù, annunciò che doveva andare a Roma con il primo volo utile, consegnare dei documenti importanti e riprendere un aereo per tornare la sera stessa: «Lui non se la sente, ha paura dell’aereo, devo andare io». Ofelia avrebbe ripassato per il resto dei suoi giorni la sequenza di quella mattina. Nessun dubbio, nessun sospetto, allora. Mai e poi mai, lei che era nipote del giornalista e scrittore Girolamo Ragusa Moleti, «ribelle dei ribelli», secondo la definizione di Benedetto Croce, vissuta in una famiglia nutrita a intransigenza e rigore, se ne starebbe stata in silenzio a subire. Per questo il suo cruccio era semmai quello di non aver capito. E il rovello acuiva il dolore della perdita.  

L’uomo al telefono era Vito Roberto Palazzolo, da Terrasini, allora venticinquenne imprenditore e datore di lavoro di Armando. Nello spazio di due lustri si sarebbe guadagnato la fama mondiale di broker del riciclaggio del cartello siciliano della mafia. La vera mente finanziaria della scalata corleonese al vertice dell’organizzazione, il custode dei segreti di un’ascesa che i killer pianificavano versando fiumi di sangue sulle strade e lui plasmava con la forza dei numeri: miliardi e conti cifrati, tutto passava dalle sue mani di contabile tanto scrupoloso quanto interessato a ritagliarsi una fetta cospicua di quelle fortune.

In un mondo di pastori e contadini arricchiti, il cui orizzonte estero coincideva con le rotte d’approdo degli emigranti, Vito Roberto Palazzolo giocava con la geografia del denaro. Pronto a spostarsi lì dove era possibile appostarlo senza troppe complicazioni. Dall’Europa all’Africa all’Estremo Oriente, proprio come un vero uomo d’affari. Brillante spigliato e ricchissimo. Inseguito dalla nomea di imprendibile, abile a giocare a scacchi con i giudici a qualsiasi latitudine, prontissimo alla fuga e disinvolto nell’aprirsi vie d’uscita dove altri avrebbero visto solo strade sbarrate. 

Poco dopo l’alba del 5 maggio 1972, quella sua telefonata spalancò una di quelle porte girevoli che per qualcuno sono la salvezza e per altri la condanna. E Armando che prese il posto di Vito Roberto Palazzolo in quel viaggio da Roma fu consegnato nel suo ultimo giorno a un destino forse non proprio casuale. Quella stessa sera a pochi minuti dall’atterraggio, l’aereo che avrebbe dovuto riportarlo a casa tagliò in fiamme l’abitato di fronte al golfo e finì su Montagna Longa, depositando su quel crinale, tra Carini e Cinisi, il suo carico di morte: 115 vittime, il primo e più grave disastro dell’aviazione civile italiana, superato in numero di morti solo dalla sciagura di Linate. Il più rimosso tra i capitoli oscuri della nostra storia recente. Concentrato di interrogativi che si inseguono da allora in una danza macabra contro la verità. 

Incidente, secondo la sbrigativa versione ufficiale consacrata in una sentenza da liberi tutti nel 1984. Casualità: forse guasto, forse errore umano, soluzione pilatesca e indimostrata, comunque funzionale a smontare gli argomenti dei detrattori di uno scalo fortemente voluto in un sito inadeguato e a fugare altre ombre sinistre in un Paese che preferisce spedire i fatti nel confino delle supposizioni.

Strage deliberata nel quadro della strategia della tensione, sostengono in molti, di fronte a una magistratura riottosa a fare piena luce e a una mole di elementi che concludono verso la tesi dell’attentato. Ci riprova la commissione antimafia sul finire di questa legislatura, come raccontato da L’Espresso (numero 33 del 21 agosto).  E lo fa riprendendo in mano la ricostruzione del vicequestore Giuseppe Peri che già cinque anni dopo, nel 1977, accreditò la pista dell’attentato dimostrativo di matrice mafiosa e neofascista: una bomba a bordo che doveva scoppiare ad aereo già atterrato e vuoto e che un ritardo trasformò in una carneficina, a quel punto impopolare da rivendicare. 

Un rapporto insabbiato all’epoca e l’autore emarginato fino alla pensione. 

Eppure alla tesi dell’attentato è giunta anche una perizia commissionata dai familiari delle vittime di Montagna Longa. L’ingegnere Rosario Ardito Marretta, a distanza di anni, nel 2017, ha confermato l’intuizione di Peri e collocato in una bocchetta dell’ala destra l’ordigno, concludendo per la bomba a bordo forse attivata da un radiocomando. La relazione di Marretta, snobbata dalla magistratura catanese che ha «cestinato» l’ennesima richiesta di riapertura delle indagini e ora pubblicata in lingua inglese, è già stata acquisita dalla commissione che si avvale della consulenza del magistrato di Milano Guido Salvini, tra i massimi esperti di terrorismo nero. L’audizione di Marretta dovrebbe essere il passo successivo.

Anche secondo Alberto Stefano Volo, neofascista e controverso testimone della stagione in cui esponenti di primo piano dell’eversione nera, a partire da Pierluigi Concutelli fecero base in Sicilia a ridosso dell’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella (6 gennaio 1980), Montagna Longa fu una strage. Raccontò di averne avuto un vago sentore quando era in preparazione e di aver consigliato a una sua amica hostess destinata a quel volo di cambiare turno. Non fu prodigo di elementi ma quelli che offriva ascrivevano la strage agli stessi ambienti indicati da Peri. 

Probabile che la voce dell’attentato in preparazione fosse arrivata anche ad altre orecchie, in quell’area di interessi convergenti frequentata da neofascisti e mafiosi, lì dove bombe e delitti erano strumenti per far politica, mezzi per dosare attraverso l’arma della paura, una certa idea di Paese funzionale agli affari in corso.  

Armando Pappalardo aveva 26 anni. Anche lui era cresciuto a Terrasini, a due passi dall’aeroporto, ed era il secondo di quattro fratelli. Il padre lo aveva perso 12 anni prima, morto in un incidente stradale. Aveva continuato gli studi di geometra, poi si era iscritto a Matematica. La laurea era ormai alle porte ma intanto gli era toccato pure togliersi dai piedi l’impiccio della naia, nonostante commi e leggine gli riservassero una parziale esenzione. Aveva una fidanzatina con la quale flirtava da qualche mese. E un impiego, ottenuto mettendo a frutto il diploma.

Kartibubbo, a Campobello di Mazara, era a quel tempo poco più di un progetto avanzato, un cantiere per la costruzione di uno di quei cubi scagliati a sfregiare la costa in nome della pretesa vocazione turistica della Sicilia e per placare le smanie imprenditrici di una mafia gonfia di soldi che aveva fame di cemento e brama di aree edificabili.

Armando lavorava per la società costruttrice, una nebulosa di sigle, anche straniere, dietro le quali, ma sarebbe stato scoperto parecchio tempo dopo, c’era Cosa nostra.

E proprio con uno dei suoi pezzi più pregiati: Vito Roberto Palazzolo, basi in mezzo mondo e collegamenti al massimo livello, uomo di fiducia per gli investimenti personali di boss come Totò Riina e Bernardo Provenzano.

Custode della cassaforte quando Mafia spa aveva il monopolio della droga sulla rotta Europa-America.

Quarant’anni e una montagna di fascicoli processuali dopo, Vito Roberto Palazzolo, scarcerato nel 2019, ha praticamente finito di scontare una condanna a 9 anni per mafia. In primo grado a infliggergliela era stato il tribunale di cui faceva parte Vittorio Alcamo, figlio di Ignazio, il magistrato che aveva spedito al soggiorno obbligato la moglie di Riina, Ninetta Bagarella, morto su quello stesso volo di Montagna Longa.

La sentenza per mafia è la ragione che ha riportato in Italia Palazzolo dalla Thailandia dopo una precipitosa fuga da Città del Capo in direzione Hong Kong. Il Sudafrica lo ha protetto e coccolato garantendogli libertà e opportunità ma su tutte una sfacciata impunità, costruita mettendo a libro paga anche i più blasonati investigatori che dovevano perseguirlo, ma poi anche lì la rete di protezione si è sfaldata e il mafiomanager aveva preferito eclissarsi.

In passato ha schivato un’accusa di droga e il coinvolgimento in due omicidi di mafia. Ha dosato mezze ammissioni inevitabili, provando sempre a scrollarsi di dosso l’accusa di essere la longa manus economica della mafia, l’ha buttata in politica, provando ad allontanare i sospetti dall’imprenditore che gli avrebbe fatto da prestanome per Kartibubbo, tirando in ballo semmai amministratori corrotti per le autorizzazioni. Il villaggio, acquisito definitivamente dallo Stato, è oggi un esempio di gestione fruttuosa dei beni confiscati, soprattutto di fronte allo scandalo della lobby delle amministrazioni giudiziarie che hanno mandato in rovina aziende sventolando la bandiera di una legalità posticcia.

La storia di Vito Roberto Palazzolo che in Sudafrica ha costruito un impero, in gran parte ora in mano ai figli, ha molte zone d’ombra che ne hanno accresciuto la fama e la reputazione di potente. La paura di volare che il 5 maggio del 1972 lo spinse a chiedere ad Armando Pappalardo di sostituirlo deve averla superata. E di quel miracoloso scambio che gli ha risparmiato la vita non ha mai parlato. Chissà se tra le molte informazioni che costituiscono il suo capitale c’è qualcosa su quella telefonata. La commissione antimafia, se davvero ha intenzione di andare a fondo su quella strage dimenticata, potrebbe intanto chiedergli di rinfrescarsi la memoria.  

MISTERI ITALIANI. Montagna Longa: l’Antimafia apre il dossier sulla strage aerea di 50 anni fa. Acquisita la relazione dell’esperto che per Montagna Longa accredita la tesi dell’attentato. Il sospetto di una bomba neofascista alla vigilia delle politiche del maggio 1972. Al caso lavora anche il giudice Guido Salvini. Le connessioni tra i “neri” e Cosa nostra ignorate dai magistrati. Enrico Bellavia su L'Espresso il 22 agosto 2022

Cinquant’anni e un unico rovello. Che la verità ufficiale fosse solo un frettoloso colpo di spugna per cancellare la memoria di una strage. Come spesso accade nel Paese che lascia infiniti conti aperti con la memoria, sono i dettagli a fare la differenza. Crepe nel muro che si vorrebbe granitico a difesa del non detto. E che con la caparbia tenacia di pochi e isolati resistenti, al contrario, si sbreccia, si incrina e potrebbe anche crollare, se solo si avesse la forza di fare i conti con il passato.

Montagna Longa, la strage senza nome in attesa di giustizia. Furono centoquindici le vittime nel disastro aereo di quel 5 maggio 1972. “Fu una bomba”, giura un esperto. E un libro rilancia la tesi del dossier Peri rimasto nei cassetti per 50 anni. Enrico Bellavia su L'Espresso il 7 febbraio 2022

Rimane lì, nel fondo buio dei misteri italiani. Nascosta nell’anfratto più oscuro della caverna nella quale volteggiano i fantasmi della Repubblica. La resa della giustizia che nelle tenebre l’ha ricacciata ha un termine inaccettabile per chi la verità l’aspetta da mezzo secolo: «Cestinare». Così, due anni fa la magistratura di Catania, la stessa che all’inizio di questa storia aveva celebrato un inutile processo senza colpevoli, ha dato l’ultimo colpo di spugna su una piaga che rimane aperta per 98 orfani e 50 vedove di quella tragedia.

Montagna Longa, il primo e più grave disastro aereo dell’aviazione civile italiana, prima di Linate. Centoquindici vittime, 108 passeggeri e 7 donne e uomini di equipaggio, sulla cresta di una montagna di 935 metri a cinque miglia dall’aeroporto di Punta Raisi, Cinisi, Palermo.

Tra poco saranno cinquant’anni da quel 5 maggio 1972. Venerdì, ore 22,24,  il Dc 8 Antonio Pigafetta dell’Alitalia, anno di costruzione 1961, sigla I Diwb, volo AZ 112, in avvicinamento dopo un’ora e più di viaggio da Roma, manca l’atterraggio e rovescia un carico di vite innocenti sul crinale delle rocce che guardano l’abitato di Carini. Come nel più abusato dei copioni italiani, convenne a tutti attribuire la responsabilità ai piloti. L’errore umano, nient’affatto certo ma solo «verosimile», recita la sentenza del 1984, era il comodo tappeto sotto al quale nascondere, dubbi, interrogativi, sospetti. E così, anche dopo cinquant’anni, Montagna Longa rimane una strage, innominabile però come tale. Contro ogni evidenza logica e le tante, troppe, incongruenze, confinate da indagini carenti o inesistenti, nell’indistinto delle congetture.

Eppure, non sono ipotesi quelle dell’ingegnere Rosario Ardito Marretta, docente di Aerodinamica e dinamica dei fluidi dell’università di Palermo che nel 2017 dimostrò, elementi scientifici alla mano, che l’aereo era caduto per una bomba. «A bordo del velivolo durante il volo AZ 112 si è attuata una detonazione, esplodente prima e deflagrante dopo, che ha causato un’avaria irreversibile all’impiantistica di governo del velivolo causandone il collasso operativo e il conseguente disastro», scrisse. 

Neanche allora, quando la corposa relazione di Marretta, ingaggiato dall’associazione dei familiari delle vittime, arrivò sulla scrivania della procura di Catania insieme con un’istanza che sollecitava nuove indagini, il pm si mise al lavoro. Anzi, giudicando che sarebbe stato difficile capire chi avesse messo la bomba a distanza di così tanti anni, non formulò neppure un’ipotesi di reato e rinunciò ad accertare se davvero di un ordigno si era trattato. Strano modo di procedere. Come dire: se non puoi trovare tutta la verità, evita di cercare ciò che puoi. Di illuminare con un fascio di luce anche solo un angolo di quell’antro.

Se a Pavia avessero fatto così, adesso penseremmo ancora che Enrico Mattei, il patron dell’Eni, non morì in un attentato ma fu vittima di incidente.

Nonostante tutto, sottotraccia, il rovello di quel che è stato cammina nella coscienza, spesso sorda, di un Paese per il resto indifferente. Così, proprio sulla strage dimenticata si è riaccesa l’attenzione. Merito di due pubblicazioni. Una è la relazione di Marretta, ora comparsa sotto forma del dossier scientifico sotto il titolo “Unconventional aeronautical investigatory methods. The Case of Alitalia Flight AZ 112” per Cambridge Scholars Publishing. L’altra è un libro che ripercorre la storia del decennio in grado di ipotecare ancora il futuro italiano. “Settanta” è il romanzo verità, «un lavoro di restauro della memoria», che Fabrizio Berruti, giornalista e autore televisivo, ha appena pubblicato per Round Robin. I Settanta sono gli anni del fango e dell’intreccio. Delle trame mafiose e del terrorismo nero. Dell’impasto che teneva attaccati i due poteri criminali al cemento delle mefitiche misture dell’Ufficio affari riservati del Viminale, quello di Federico Umberto D’Amato, il manovratore della tensione, l’architetto del terrore, utile a stabilizzare il Paese, consolidarne il baricentro centrista e scongiurare pericolose derive a sinistra.

E in quegli intrighi, Berruti si addentra, ricostruendo la vita, il lavoro e il destino di Giuseppe Peri, il vicequestore che consumò carriera e esistenza con un rapporto, anche questo dimenticato come il suo autore, ultimato nel 1977 e ripubblicato in fondo al volume.

La prima edizione la si doveva all’Istituto Gramsci con il volume “Anni difficili”, curato nel 2001 da Leone Zingales e Renato Azzinnari, mentre intorno alla strage, accanto alle ricostruzioni giornalistiche, poche, ci sono anche il romanzo “Sogni d’acqua” di Eduardo Rebulla, (Sellerio, 2009) e “L’ultimo volo per Punta Raisi”, di Francesco Terracina (Stampa Alternativa, 2012).

Come già aveva scritto l’agenzia internazionale di stampa Reuters all’indomani dello schianto, Peri, che aveva cominciato a indagare sul sequestro di Luigi Corleo, suocero dell’esattore siciliano Nino Salvo, accreditò l’ipotesi della bomba a bordo dell’aereo, piazzata dai terroristi neri in combutta con Cia e servizi: Stefano Delle Chiaie, er Caccola, che nel romanzo di Berruti diventa lo Scrondo e Pierluigi Concutelli, l’assassino del giudice Vittorio Occorsio, che in “Settanta” è il Comandante. Poi c’è Alberto. Che è Alberto Stefano Volo, controverso neofascista, che rivelò di essere stato preventivamente avvertito dai camerati della bomba e di aver salvato un’hostess con la quale aveva una relazione. Il nome di Volo, il preside nero, era ben noto al giudice Giovanni Falcone che da lui ricevette alcuni degli elementi che lo convinsero ad accreditare la pista nera per l’omicidio del presidente della Regione Piersanti Mattarella, (6 gennaio 1980), il fratello del capo dello Stato. Il giudice Falcone coltivava Volo come fonte, senza mai assegnargli il bollo di attendibilità, e, prima di essere ucciso nel 1992, lavorava all’articolazione siciliana di Gladio, la struttura paramilitare anticomunista, eterodiretta dagli americani che fa capolino insieme alla mafia dietro la lunga stagione di sangue in Sicilia.

Se questo è il contesto in cui la strage di Montagna Longa si colloca, sul filo degli anni sono mille gli indizi trascurati. La magistratura portò a giudizio soltanto il direttore dell’aeroporto e alcuni tecnici dell’aviazione civile, accusati di non aver sostituito con un faro elettrico a terra il radiofaro di riferimento che giorni prima era stato trasferito. Una premessa funzionale alla teoria dell’errore umano, risolta con l’assoluzione di tutti in Cassazione. E così la sentenza liquidò anche le legittime invettive sulla sicurezza di un aeroporto collocato in un posto sconsigliabile, Cinisi, eppure utilissimo per i traffici delle famiglie criminali con addentellati nei palazzi del potere romano che regnavano incontrastate nel golfo di Castellammare. Punta Raisi era già l’hub della droga a fiumi che dalle raffinerie tra Palermo e Trapani prendeva il volo per gli States facendo ricchi i vaccari alla Tano Badalamenti che da un giorno all’altro si ritrovarono imprenditori.

Che Montagna Longa non fosse stato un incidente lo avevano ben chiaro i testimoni che avevano visto volare quell’aereo avvolto da bagliori che erano fiamme, prima di sparire dietro la montagna. Lo suggerivano i corpi dei passeggeri senza scarpe. Lo palesavano i reperti, come quella borsa che sembrava divelta da una forza che l’aveva squadernata dall’interno. Lo avrebbe potuto dire quel che restava dei corpi, se si avesse avuto voglia di interrogarli per rintracciare tracce di esplosivo. Lo avrebbe raccontato una investigazione attenta sul perché il nastro della scatola nera fosse strappato nel punto in cui avrebbe dovuto raccontare quel che era accaduto. E invece non fu fatto nulla. La commissione ministeriale, voluta dall’allora ministro dei Trasporti Oscar Luigi Scalfaro, fu nominata con decreto il 12 giugno ’72 e il 27 dello stesso mese aveva già concluso i propri lavori. Il generale Francesco Lino che la presiedeva, tuttavia, si lasciò uno spiraglio scrivendo di «una situazione particolare determinatasi all’interno della cabina di pilotaggio per l’intervento di persone estranee oppure di una avaria che possa avere distolto per quasi due primi l’equipaggio». Anche le perplessità dell’Anpac, l’associazione dei piloti civili, furono liquidate. Il curriculum esemplare del comandante Roberto Bartoli e quelli del vice Bruno Dini e del tecnico motorista, anche lui brevettato, Gioacchino Di Fiore, insozzati dall’infittirsi di calunnie sulla loro inadeguatezza.

L’ingegnere Marretta, al contrario, ha una spiegazione per ciascuno di quegli elementi.

L’ultima comunicazione di Bartoli riporta indietro l’orologio di 273 secondi prima delle 22,24, quando l’aereo lascia i 5mila piedi e annuncia la virata, che lo porterà di fronte alla testa della pista 25.

«Palermo AZ 112 è sulla vostra verticale e lascia 5.000 e riporterà sottovento, virando a destra, per la 25 sinistra». Queste le sue parole alla radio. Poi il buio.

La bomba, a bassa intensità, «grande quanto un pacchetto di sigarette», era collocata verosimilmente vicino al bocchettone di rifornimento dell’ala destra. Lo scoppio destabilizzò l’aereo, costrinse il comandante a una disperata «manovra a semicardiode tridimensionale in discesa», scaricando il carburante che già fuoriusciva per lo scoppio, e tentare comunque l’atterraggio. Da qui le fiamme, i passeggeri scalzi e il perché solo metà del moncone più integro, quello di coda, è bruciato.

La manovra non riuscì. Ma, d’altra parte, sostiene Marretta, se l’aereo si fosse schiantato con tutto il proprio carico di cherosene sul crinale della montagna, avrebbe ridotto in cenere ogni cosa, lasciando tracce persistenti, di «vetrificazione silicea», del nulla che il calore impone alla terra. «Un effetto Napalm».

E la scatola nera? Non racconta nulla perché era stata manomessa ad arte. Sembrava funzionare e invece era inceppata. E le spie non segnalavano anomalie. Perché se si fosse rotta accidentalmente, allora il guasto sarebbe stato rilevato e avrebbe imposto il fermo dell’aereo. 

La bomba, secondo il vicequestore Peri, era un attentato dimostrativo. Doveva scoppiare ad aereo fermo. Il ritardo con cui viaggiava, sosteneva il poliziotto, causò invece l’esplosione in volo.

Ma perché una bomba? Il 5 maggio del 1972 era l’ultimo giorno di campagna elettorale per le elezioni politiche. Abbastanza perché i mestatori che avrebbero punteggiato ogni snodo democratico con il tritolo, si mettessero all’opera. Siamo a un anno esatto dalla morte del procuratore di Palermo Pietro Scaglione (5 maggio 1971) e a un anno e mezzo dal golpe Borghese (notte tra il 7 e l’8 dicembre del 1970).

Su quell’aereo tornavano per votare molti siciliani che vivevano fuori per lavoro.

C’era il medico del bandito Giuliano, Letterio Maggiore, il regista Franco Indovina che con Francesco Rosi lavorava sulla fine di Mattei, Lidia Mondì Gagliardi, prima passeggera del volo inaugurale dell’aeroporto di Punta Raisi, nel 1960, il figlio dell’allenatore della Juventus Cestmir Vicpaleck che morirà proprio il 5 maggio di trent’anni dopo. E c’era Ignazio Alcamo, consigliere di corte d’Appello e presidente della sezione misure di prevenzione che pochi giorni prima aveva inflitto il soggiorno obbligato a Ninetta Bagarella, sorella di Leoluca e moglie di Totò Riina. Proprio per la presenza di Alcamo, le indagini finirono a Catania. C’era anche Angela Fais, la giornalista de L’Ora e Paese Sera che sulle trame nere aveva a lungo lavorato raccogliendo gli sforzi di un collega, Giovanni Spampinato, corrispondente de L’Ora da Ragusa, poi ucciso proprio da un camerata il 27 ottobre dello stesso anno.

Se Montagna Longa agita ancora le coscienze di qualcuno nel sonno dei pm che da Palermo, a Caltanissetta e fino a Catania, hanno alzato bandiera bianca, lo si deve alla tenacia di Maria Eleonora Fais, la sorella di Angela. Fu lei a incaponirsi per rintracciare il rapporto Peri, incredibilmente mai preso in considerazione dai giudici di Montagna Longa. Lo chiese a Paolo Borsellino, allora procuratore di Marsala che rintracciò il numero di protocollo nel 1991. L’originale lo tirò fuori nel 1997 Antonio Silvio Sciuto, che sedeva nella stessa poltrona del magistrato ucciso in via D’Amelio nel 1992. Con il rapporto in mano e il racconto aggiornato di Volo, Maria Eleonora Fais, combattente orgogliosamente comunista, amica del segretario regionale del Pci Pio La Torre, chiese l’apertura di nuove indagini. A distanza di anni, con l’associazione che continua il suo impegno dopo la sua morte avvenuta nel 2016, rintracciò anche un video originale con le immagini della tragedia, un filmato che racconta molto delle conclusioni cui è poi giunto Marretta. E a Catania arrivò anche l’istanza del fratello di una delle vittime, Antonio Borzì, la cui figlia Erminia insieme allo storico Giuseppe Casarrubea e all’avvocato Ernesto Pino, in una foto rintracciò segni che sembravano di proiettile di grosso calibro in un’ala dell’aereo. Ipotizzavano che fossero partiti durante un’esercitazione aerea avvenuta quella notte: uno scenario simile a quello della strage di Ustica.

L’associazione dei familiari di Montagna Longa, con Ilde Scaglione e Ninni Valvo, orfani della strage, ha insistito ancora, forte della consulenza di Marretta e, prima ancora, della perizia medico legale di Livio Milone, dicendosi disposta alla riesumazione dei corpi. Ha tentato anche la carta della richiesta di avocazione dell’inchiesta alla procura generale sostenuta dall’avvocato Giovanni Di Benedetto, ma è stata rimbalzata ancora. Perché Montagna Longa da quella caverna dei misteri non deve uscire.

Di nuovo contro il terrorismo, nasce il mito degli uomini del generale. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI, su Il Domani il 10 settembre 2022

Sono invisibili. Si spostano su auto con targhe false, affittano appartamenti sotto falsa identità, lavorano in società con nomi falsi. Nasce il mito degli «uomini di dalla Chiesa». Colpiscono all’improvviso, irrompono nei covi brigatisti, arrestano, interrogano, strappano confessioni. C’è una parte dell’Italia che applaude e un’altra parte che grida contro l’«attentato alla Costituzione».

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.

Neanche un mese dopo, il 16 marzo, rapiscono il presidente della Dc Aldo Moro.

È un altro momento decisivo per l’Italia. I comunisti stanno per entrare nella maggioranza di governo, Moro è l’artefice della svolta politica, qualcuno vuole fermare il cambiamento con il più simbolico dei messaggi. Cinquantacinque giorni di dramma e di sospetti e poi il presidente è ritrovato cadavere nel bagagliaio di una Renault, nel centro di Roma, quasi a metà strada fra le sedi del Pci e della Dc. Sono le Brigate Rosse che ritornano.

Torna anche Carlo Alberto dalla Chiesa. A fine della primavera del 1978 viene ricostituito il suo Nucleo Speciale Antiterrorismo. L’incarico gli arriva da Giulio Andreotti.

Ha carta bianca. Deve rispondere solo al capo del governo e al ministro degli Interni Virginio Rognoni. Sceglie 150 uomini, i migliori.

Si rivolge a loro così: Da oggi nessuno di voi ha più un nome, una famiglia, una casa. Da adesso dovete considerarvi in clandestinità. Io sono il vostro unico punto di riferimento. Io vi darò una casa, io vi ordinerò dove andare e cosa fare. Il Paese è terrorizzato dai brigatisti. Da oggi saranno loro che devono cominciare ad avere paura di noi e dello Stato.

Sono invisibili. Si spostano su auto con targhe false, affittano appartamenti sotto falsa identità, lavorano in società con nomi falsi. Nasce il mito degli «uomini di dalla Chiesa». Colpiscono all’improvviso, irrompono nei covi brigatisti, arrestano, interrogano, strappano confessioni. C’è una parte dell’Italia che applaude e un’altra parte che grida contro l’«attentato alla Costituzione». La sfida di Carlo Alberto dalla Chiesa al terrorismo è all’ultimo sangue.

Serve lo Stato ma sono in molti a ritenerlo fuori dalle regole dello Stato. Gli chiedono un intervento «straordinario» per salvare le istituzioni ma poi gli danno del fascista. Il temperamento non lo aiuta. Al contrario alimenta diffidenze, invidie, risentimenti. Nell’Arma, nonostante migliaia di carabinieri lo considerino un «eroe», è tenuto alla larga quasi fosse un corpo estraneo. Diffidano di lui e delle sue milizie «private».

Lo Stato lo usa e lo scarica. Lo richiama un’altra volta e poi se ne sbarazza. E non è ancora finita.

Dopo il sequestro e l’uccisione di Aldo Moro, continua la «guerra».

Uccidono altri giudici, giornalisti, poliziotti, sindacalisti, operai che denunciano i terroristi in fabbrica.

I carabinieri di dalla Chiesa smembrano le «colonne» delle Br una per una. Arrestano Patrizio Peci – che poi si pentirà – e irrompono in via Fracchia, a Genova, dove trovano un deposito di armi e documenti. Nello scontro a fuoco, muoiono quattro brigatisti. Vittorie su vittorie che però si trascinano dietro sempre misteri, dubbi su quelli che ormai vengono riconosciuti come «eccessi».

Il generale è travolto da un ciclone.

A Genova scopre una trentina di fiancheggiatori – fra loro c’è anche un famoso docente di Lettere Antiche – ma la magistratura smonta la sua indagine. Il generale fa scalpore al 166° Anniversario dell’Arma con un discorso sull’«ingiustizia che assolve».

Non lo difende lo Stato che lo manda a combattere. E lo attaccano dall’altra parte. Lui è in mezzo, fedele alle istituzioni di un’Italia felpata, prudente, volubile.

Dentro si sente ancora il giovane capitano sceso in Sicilia trent’anni prima a combattere i mafiosi di Corleone. Con lo stesso sentimento, lo stesso ardore di quando dava la caccia agli assassini di Placido Rizzotto.

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Sospetti e ombre sul caso Moro, i dossier e i misteri di un covo. DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI su Il Domani l'11 settembre 2022

I magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli. Trovano gli elenchi della loggia P2. Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso»...

Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982. È soprattutto un’operazione speciale nei covi brigatisti a segnare la storia degli anni del terrorismo e forse la stessa sorte di Carlo Alberto dalla Chiesa. È la scoperta di un nascondiglio, quello di via Monte Nevoso, a Milano. 

Aldo Moro è stato ucciso da sei mesi quando un capitano dell’Antiterrorismo viene a sapere che il brigatista Lauro Azzolini è rifugiato lì, in via Monte Nevoso. Il 1° ottobre del 1978 i carabinieri lo fermano, nel covo c’è anche la nuova compagna di Curcio, Nadia Mantovani. Nell’appartamento trovano le lettere di Aldo Moro scritte durante la prigionia brigatista.

È il «memoriale» del presidente della Dc rapito dalle Br. Il generale consegna le carte al capo del governo, Giulio Andreotti, dal quale dipende direttamente per decreto. Tutte? Le consegna tutte?

È questo il sospetto che comincia a circolare in Italia: dalla Chiesa ha tenuto per sé alcune lettere, come arma di ricatto contro Andreotti e altri uomini politici italiani.

Allusioni che si rincorrono per anni, che raccontano di un dalla Chiesa intento a trafficare con i dossier, custodire segreti per uso estorsivo, a minacciare il tempio del potere italiano con le carte di Moro.

Qualcuno – il giornalista Mino Pecorelli – dice anche che i «memoriali» sono più di uno e che la vita del generale è in pericolo. Ma è Pecorelli che nel marzo 1979 muore ammazzato.

Che cosa è realmente avvenuto in via Monte Nevoso? Chi spande veleni intorno al cadavere di Aldo Moro?

Carlo Alberto dalla Chiesa, probabilmente, è a conoscenza di retroscena indicibili sul «caso Moro». I misteri del covo di via Monte Nevoso serviranno a qualcuno come movente o come alibi per liberarsi in futuro del generale.

Nel 1980 è a Milano, comandante della Divisione Pastrengo.

Gli «anni di piombo» stanno per finire. I brigatisti sono isolati nel Paese, la repressione è durissima, il generale ha quasi concluso il suo compito.

È sempre a Milano quando, all’inizio dell’anno successivo, i magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone ordinano una perquisizione a Castiglion Fibocchi, a Villa Wanda, nella residenza di Licio Gelli. 

Nella lista il nome di Carlo Alberto dalla Chiesa non c’è. C’è invece la sua domanda d’iscrizione che è rimasta lì, in «sospeso».

Dopo aver ceduto agli inviti di Franco Picchiotti, il suo ex vicecomandante, dalla Chiesa qualche mese dopo ha chiesto di non voler più entrare nella loggia. Ma la notizia del suo coinvolgimento nella P2 filtra subito, anche se non è nell’elenco, confuso con tutti gli altri.

Il generale è disperato. Lui in mezzo a quella teppa. Golpisti. Ladri di Stato. Amici dei mafiosi. È fuori di sé, si vergogna.

Convocato come testimone dai giudici milanesi racconta dell’incontro con Picchiotti del 1976, della sua curiosità verso quella loggia fin dai primi anni dell’Antiterrorismo – quando ha incrociato alcuni «neri» in contatto con la P2 –, del suo pentimento per essersi piegato alle pressioni dell’ex vicecomandante. Tutti i documenti sulla P2 vengono pubblicati il 7 maggio 1981.

Lo scandalo è enorme. Ricominciano gli attacchi contro dalla Chiesa anche se lui nella lista non compare.

I più duri arrivano ancora una volta dall’interno dell’Arma.

È il Comandante Generale, Umberto Cappuzzo, uno di quelli che non l’ha mai sopportato, a invitarlo «a farsi da parte».

Il governo fa quadrato intorno al generale. Alcuni uomini politici lo stimano, uno di loro è Bettino Craxi. Ma i suoi superiori si accaniscono, cercano di convincere il ministro della Difesa Lelio Lagorio e quello dell’Interno Virginio Rognoni. Vogliono cacciarlo dall’Arma. Non ci riescono. Alla fine del 1981 ne diventa vicecomandante. Come suo padre Romano nel 1955

DAL LIBRO "UOMINI SOLI" DI ATTILIO BOLZONI

Gianni Riotta per “la Repubblica” l'8 settembre 2022.

È ancora oggi possibile, fra premi letterari e festival del cinema, in Parlamento, nei giornali, centri studi e università, imbattersi in sussiegosi signori o distinte docenti che, impegnati al cellulare, non vi lasciano immaginare di esser stati, da giovani, killer, terroristi, complici di rapine, rapimenti, torture e stragi negli anni di piombo in Italia. Questa radicale amnesia, frutto delle intese fra leader politici del tempo, servizi segreti, interni e internazionali, militanti sbandati di destra e sinistra angoscia il formidabile saggio dello storico Miguel Gotor Generazione Settanta, Storia del decennio più lungo del secolo breve 1966-1982, Einaudi.

Nato nel 1971, alba della stagione che esamina, Gotor, già senatore e oggi assessore alla Cultura a Roma, è noto per i libri sul rapimento di Aldo Moro, che dimostrano come quella tragedia, a sua volta cancellata dalla coscienza nazionale per non scandalizzare i partner delle Brigate Rosse nell’establishment, abbia avvelenato il paese. 

Generazione Settanta evoca altri fantasmi, lo scrittore alla moda indicato nel commando BR alla strage di Via Fani 1978, l’attore Volontè in barca con il latitante Scalzone, capo di Potere Operaio, “la fonte Como” infiltrata in Lotta Continua che una lettera anonima thriller, dall’Accademia dei Lincei, dirà a Gotor, nel 2021, di cercare a Napoli, l’ambigua rivendicazione dell’assassinio di Calabresi sulla rivista Quaderni Piacentini, con lo pseudonimo “Marcello Manconi”.

In un episodio, degno di un film del maestro noir Francesco Rosi, «l’8 agosto 1974 nell’inceneritore di Fiumicino, per ordine del ministro della Difesa Andreotti e alla presenza del generale Maletti (capo dei servizi segreti Sid, poi latitante in Sud Africa, ndr), bruciarono fino a tarda sera circa 128000 dossier raccolti dal Sid nei vent’anni precedenti: i fascicoli del generale De Lorenzo riguardanti uomini politici, prelati, imprenditori, avvocati, intellettuali e sindacalisti (le cosiddette «schedature del Sifar»), ma anche i documenti più imbarazzanti relativi al golpe Borghese. Un gran rogo purificatore («c’erano tutte le cosiddette malefatte del Sid. La nostra fu un’opera di depurazione. E di autotutela», ammise Maletti) che segnò — simbolicamente nella sua feroce praticità — uno spartiacque tra un prima e un dopo, e l’inizio di un’altra storia».

L’Italia è allora un paese contraddittorio, capace di passare dalle rovine della guerra nel 1945 alla Dolce Vita di Fellini 1960, con il boom economico. Ma il benessere è fragile, nel 1951 appena 140.000 studenti arrivavano all’Università, riserva delle famiglie bene, e se nel 1967 erano saliti a ben 3.400.000, i laureati aumentarono solo di 9000 unità, con le matricole disperse da baroni intrattabili e dal bisogno di lavorare. 

La rabbia della “gioventù assurda”, come l’aveva definita nel 1960 lo studioso Paul Goodman, accomuna gli studenti in assemblea a Roma, Torino, Trento, Pisa, Palermo ai coetanei di Berkeley e Sorbona, in una protesta libertaria che guarda al filosofo Marcuse e al sociologo Wright Mills. Ma «tutte le promesse e tutte le speranze per un mondo d’amore», come cantavano Gianni Morandi e Joan Baez, avvizziscono quando membri di Potere Operaio di Piperno, sotto la spinta di Morucci e Fioroni, e di Lotta Continua di Sofri e De Luca confluiscono nel terrorismo con le BR di Curcio e Prima Linea di Segio.

La deriva tra l’Italia che sognava riforme e diritti civili e la nazione vassalla della Guerra Fredda che sprofonda nella paura data dal 12 dicembre 1969, giorno della strage di Milano coordinata fra neofascisti e intelligence, italiana e no.

Quello stesso giorno, ricorda amaro Gotor, il Senato aveva approvato, in prima lettura, lo Statuto dei Lavoratori, frutto delle lotte sindacali che finalmente assicurava agli operai garanzie in fabbrica. 

Da lì il saggio segue, sgomento, il tentativo fallito del leader Dc Aldo Moro e del segretario comunista Enrico Berlinguer, affiancati dal repubblicano Ugo La Malfa, di un compromesso per sbloccare la nostra democrazia, con il Pci, finanziato dall’Urss e ostinato nel votare contro gli accordi valutari europei SME e sulla sicurezza, a non poter guidare un governo Nato.

La sorte di Moro, trucidato dalle BR con Cia, Kgb, Mossad, servizi francesi e arabi in regia, e la fine di Berlinguer nel 1984, dopo un attentato subito nel 1973 da parte dei sovietici in Bulgaria, accomunano i due politici in un’aura da martiri che rischia di offuscarne il vero valore storico. Gotor precisa: se per Moro il “compromesso” era tattico, fino a che il Pci non fosse diventato democratico, per poi passare a un’alternanza di tipo occidentale, per Berlinguer era storico, cattolici e comunisti uniti.

Stragi fasciste, odio Br, lobby massoniche P2, servizi impedirono quel percorso, fino ai massacri di Brescia e Italicus, 1974, Bologna e Ustica 1980. L’autore sembra scettico, invece, sul socialista Bettino Craxi, giudicandolo forse dagli esiti degli anni Novanta, mentre nel periodo esaminato il segretario Psi, dalla trattativa su Moro alla svolta del partito, svolse un ruolo autonomo, cui forse il Pci avrebbe dovuto offrire diversa attenzione. 

Le due Italie, quella del progresso e quella della violenza, si affrontano irriducibili, con il commissario Calabresi, con il magistrato Alessandrini, con il giornalista Tobagi, con l’avvocato Ambrosoli, l’operaio Rossa e tanti altri a cadere per la Repubblica, mentre Gianni Agnelli e Luciano Lama varano accordi storici sulla scala mobile pur di allentare la tensione, imprenditori geniali tengono su l’economia con l’export, il diritto di famiglia, il divorzio, l’aborto, il voto a 18 anni, artisti come Eco e Calvino cambiano il paese.

Le legioni della violenza però, in tacito accordo con frange cattoliche, incluso l’ex presidente Cossiga, perseguono l’amnesia modello inceneritore, con Sofri e Curcio, reduci dagli anni di prigione, a predicare che «La verità dei fatti… non sia la verità» perché «Ci sono tante storie di questo Paese che vengono taciute, che non potranno essere chiarite per una sorta di sortilegio, come piazza Fontana, come Calabresi, che sono andate in un certo modo e che, per ventura della vita, nessuno può dire come sono veramente andate... C’è stata una sorta di complicità tra noi e i poteri che impedisce a noi e ai poteri di dire come è veramente andata». Se milioni di figli e nipoti non crederanno dunque alla Repubblica dei padri, al voto del 25 settembre, lo dovremo ancora a questa occhiuta omertà che Miguel Gotor, con passione etica, combatte.

L’archetipo dei misteri d’Italia: il caso Moro secondo Marcello Altamura. Gianluca Zanella l'8 Agosto 2022 su Il Giornale.  

L’Italia rappresenta senza dubbio un caso particolare, se messo al confronto quanto meno con i Paesi dell’Unione europea, ma probabilmente sarebbe in grado di giocarsela anche in un campionato mondiale, se ne esistesse uno dedicato ai misteri irrisolti. Senza andare a scavare troppo nel passato, pensiamo a stragi come quella di Portella della Ginestra, alle bombe di Piazza Fontana e della stazione di Bologna; pensiamo a omicidi come quello del giornalista Mino Pecorelli o del carabiniere Antonio Varisco; a disastri come quello di Ustica o a casi di cronaca nera come quello del Mostro di Firenze. Possiamo dirlo senza timore di smentita: l’Italia il mistero ce l’ha nel sangue. Esiste un lato oscuro insito nel nostro tessuto sociale, politico, nel nostro essere parte di una nazione che spesso, troppo spesso, ha difficoltà a fare i conti con se stessa. Ma se volessimo trovare l’archetipo di tutti i cold case nostrani, il crocevia che ha segnato un prima e un dopo nella nostra storia repubblicana, questo è certamente il caso Moro.

La vicenda che ha visto tragico protagonista lo statista democristiano Aldo Moro, dall’eccidio della sua scorta in via Mario Fani, a Roma, la mattina del 16 marzo 1978, fino al ritrovamento del suo corpo senza vita nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, sempre Roma, il 9 maggio dello stesso anno, dopo 55 giorni di rapimento, non ha un epigono se non forse l’omicidio di John Fitzgerald Kennedy negli Usa. Nella vicenda Moro ci sono tutti gli ingredienti della spy story: terrorismo italiano e internazionale, killer misteriosi, servizi segreti più o meno deviati, consulenti ministeriali tra luci e ombre, massoneria, Vaticano, infiltrati, criminalità organizzata e chi più ne ha, più ne metta.

Insomma, la vicenda di quello che probabilmente sarebbe diventato il presidente della Repubblica e si è invece trasformato in un martire attira su di sé da quasi 45 anni la curiosità di chi non si accontenta della verità ufficiale, che vuole attribuire la responsabilità di tutto alle Brigate rosse (per loro stessa ammissione, peraltro). Tanti i giornalisti che hanno cercato di addentrarsi in un terreno ancora oggi scivoloso. Alcuni sono irrimediabilmente inciampati e si sono persi in uno dei tanti rivoli che non portano a nulla, girando su se stessi, vittime di una particolare sindrome che può colpire solamente il giornalista che ossessivamente si metta in testa di trovare una verità univoca e granitica; altri sono riusciti a tenersi in equilibrio, avendo compreso che in questa vicenda – come nella vita in generale – non esiste il bianco o il nero. Le sfumature sono infinite.

Tra quei giornalisti che non sono rimasti inghiottiti nel labirinto degli specchi del caso Moro c’è Marcello Altamura, napoletano, che da anni dedica il suo scrupoloso lavoro d’inchiesta alla ricerca non tanto di una verità definitiva, ma di quei pezzi del puzzle che possono consentire di osservare, a distanza di tanto tempo, un quadro finalmente sensato. Autore di due importanti libri d’inchiesta – La borsa di Moro e Il professore dei misteri – e al lavoro su un terzo libro che promette di far discutere, Altamura ha sempre avuto una particolare propensione per i misteri d’Italia: “La mia è forse l’ultima generazione che si sia occupata attivamente di politica, che abbia letto i giornali con continuità. E dico questo non per dare addosso ai giovani ma per sottolineare che erano tempi diversi. L’interesse per il lato oscuro della Repubblica nasce proprio dal desiderio di comprendere la realtà che mi circondava, spiegarmi l’evoluzione di quella società in cui mi apprestavo a calarmi. Dopo tanti anni posso dire che non c’è futuro se non si conosce il passato”.

Negli anni, Altamura ha affinato la sua tecnica giornalistica, distinguendosi non solo per il rigore con cui tratta gli argomenti cui si approccia, ma anche per l’intuito che lo porta a esplorare terreni particolarmente impervi. Gli abbiamo chiesto di spiegarci il suo metodo: “Anzitutto, bisogna studiare le carte, cioè gli atti giudiziari. Questo è un lavoro essenziale ma assai complesso. Prendiamo il caso Moro: non bisogna limitarsi a scandagliare gli atti dei relativi processi (e parliamo di milioni di pagine, trattandosi di ben cinque procedimenti) ma esaminare anche altri atti di procedimenti collegati. Ci sono poi gli atti delle commissioni d’inchiesta, che per quanto riguarda il caso Moro sono tre, due dedicate più la commissione Stragi. Inoltre è fondamentale consultare la stampa dell’epoca attraverso le collezioni dei quotidiani e dei settimanali, che all’epoca disponevano di buonissime fonti informative nelle forze dell’ordine e nella magistratura. Poi c’è il lavoro diretto con le interviste, con le fonti e con i testimoni, diretti e indiretti, che sono l’asse portante di una buona inchiesta”.

Tornando al caso Moro, ci siamo chiesti per quale motivo ancora oggi eserciti un fascino (certamente oscuro) su tante persone. Altamura ci ha dato il suo punto di vista: “È una vicenda chiave per capire anche il presente del nostro Paese. Un caso complesso, che a distanza di quasi 45 anni ha ancora troppi angoli oscuri, una vicenda che si presta a più piani di lettura, tutti logici ma nessuno, sinora, risolutivo. Da giornalista d’inchiesta, questo ha esercitato un fascino irresistibile su di me ma non mi sarei ‘specializzato’ in questa branca se non avessi scoperto, andando avanti in tanti anni di ricerca, gli innumerevoli ‘buchi’ nelle indagini giudiziarie, le molteplici contraddizioni nei processi, le centinaia di testimonianze preziosissime ignorate. In sintesi, posso dire che il caso Moro per me è una perenne sfida, una ‘palestra’ lavorativa costante”.

Restando sul tema, abbiamo chiesto ad Altamura di raccontarci un aneddoto particolarmente significativo occorsogli durante il suo lavoro d’inchiesta: “Tra i miei contatti nelle forze dell’ordine che all’epoca si erano occupate del caso, conobbi un poliziotto della scientifica che aveva partecipato ai rilievi fotografici in via Fani dopo la strage del 16 marzo 1978. Mi raccontò che conviveva da troppi anni con un peso e, dopo aver acquisito la sua fiducia, mi raccontò che, dopo la strage, durante i rilievi, non aveva fotografato una borsa appoggiata sul sedile accanto a quello dove sedeva il presidente Moro nella sua Fiat 130, e che un giovane capitano dei carabinieri, in seguito, l’aveva portata via. Di quella borsa, che scoprii essere la più importante delle cinque che lo statista aveva con sé quella mattina, quella da cui non si separava mai e che conteneva documenti importanti, non se n’era saputo più nulla. Quella testimonianza, oltre ad essere uno scoop giornalistico che alcuni anni dopo la pubblicazione del mio primo libro su via Fani, La borsa di Moro, persino il Tg1 riprese, mi colpì profondamente da un punto di vista umano”.

Ma non solo la borsa scomparsa. Marcello Altamura ha concentrato i suoi sforzi di ricerca in particolare su un personaggio decisamente misterioso, ufficialmente mai coinvolto nel caso Moro: Giovanni Senzani. Il libro Il professore dei misteri è infatti un unicum nel panorama dei lavori d’inchiesta sul caso Moro. Un lavoro che ha innescato una serie di conseguenze: “La soddisfazione più grande che ho avuto dal mio lavoro – ci racconta Altamura – è stata quando, nel marzo del 2021 la procura di Roma, che sta indagando ancora sull’omicidio Moro, prelevò, insieme ad altri Dna di ex brigatisti, anche quello del professor Giovanni Senzani, ex leader delle Br, cui nel 2019 ho dedicato l’unico libro attualmente esistente. La scelta della procura di Roma ha confermato la validità del mio lavoro, definito da Miguel Gotor, storico tra i maggiori esperti del caso Moro, ‘la prova definitiva della partecipazione di Giovanni Senzani’ alla vicenda dello statista. Un riconoscimento ancor più significativo se si considera che, da un punto di vista giudiziario, il professor Senzani è stato dichiarato estraneo dal punto di vista giudiziario al caso Moro”.

La domanda a questo punto viene spontanea: arriveremo mai a capire davvero cosa sia accaduto nel corso di quei 55 giorni che hanno segnato irrimediabilmente la storia d’Italia? “È una risposta difficile, forse impossibile, da dare. Di sicuro gli anni che passano non aiutano: i testimoni diretti muoiono o invecchiano, gli inquirenti che si sono avvicendati spesso sono digiuni di conoscenze. Un assurdo gioco dell’oca dove si riparte troppe volte dal via. Per fortuna, però, c’è il giornalismo d’inchiesta, che supporta il lavoro della magistratura. E che può contribuire ad accendere una luce sui troppi angoli ancora oscuri”.

 "L'abbiamo bendato e portato nella prigione del popolo": così il prete confessò Moro. Il brigatista pentito Michele Galati ha raccontato al giudice Guido Salvini come nella primavera del 1978 le Br portarono un prete per l'ultima confessione del leader dc. Marcello Altamura il 10 Agosto 2022 su Il Giornale.

Un sacerdote entrò nella ‘prigione del popolo’ per incontrare e confessare Aldo Moro durante i 55 giorni in cui fu prigioniero nel 1978 delle Brigate Rosse. Lo rivela il brigatista pentito Michele Galati durante una conversazione registrata con il giudice milanese Guido Salvini, che dopo aver indagato sulle stragi di Piazza Fontana e di Piazza Loggia, ha ricoperto l’incarico di consulente della Commissione parlamentare dedicata al rapimento e all’omicidio dello statista, organismo che ha cessato i suoi lavori nel 2018.

Nella conversazione col magistrato, che IlGiornale.it è in grado di svelare per la prima volta, Galati parlando della trattativa imbastita dal Vaticano per liberare Moro, indica in Don Antonello Mennini, nel 1978 viceparroco della chiesa di Santa Lucia a Roma, il sacerdote che incontrò lo statista

Galati – ... se lei vuole... Non lo dirò mai in Commissione... (Ride), però a lei glielo dico. Il prete è entrato, no?

Dott. Salvini – Mennini?

Galati – Eh sì.

Dott. Salvini – Anch’io son convinto che... Mennini...

Galati – No, no, no, io lo so di sicuro che lui è entrato, ha fatto la... la Comunione. So anche come è entrato.

Il brigatista, infatti, racconta anche le modalità dell’incontro: il sacerdote viene prelevato a Roma, bendato in maniera da non vedere né il percorso fatto né l’ubicazione della ‘prigione del popolo’. Una dinamica molto simile a quella rappresentata nel film Il caso Moro di Giuseppe Ferrara. Galati, inoltre, aggiunge un particolare rilevante: il religioso entrò nella ‘prigione del popolo’ attraverso un garage.

Galati – ... in quel periodo lì, era il 16 marzo... aprile... insomma, siamo lì. È entrato con solo... con gli occhiali scuri e... e i cerotti, sugli occhi. Cioè, l’hanno preso...

Dott. Salvini – Ah!

Galati – ... l’hanno messo...

Dott. Salvini – Cioè, non sapeva lui in che casa andava?

Galati – No. L’hanno preso da una parte a Roma, l’hanno messo... gli hanno messo i cerotti e gli occhialoni scuri, grossi, grossi. Però da fuori non vedevi che...sì, c’era ‘sto... ‘sto... ‘sto...

Dott. Salvini – Che era cieco.

Galati – (…) sono entrati dal garage la cosa, però anche se lo vedevano era un prete. Perché sennò non c’era altro...

Dott. Salvini – Ma...

Galati – Che lui lì, è stato lì... un quarto d’ora, dieci minuti, e poi, sempre con la stessa trafila, l’han portato via.

Galati, scomparso nel marzo 2019, svela a Salvini anche la fonte della sua informazione: “Me l’ha detto Valerio”, cioè Valerio Morucci, leader delle BR condannato per la partecipazione al sequestro Moro. Nel prosieguo della conversazione, Galati conferma che il sacerdote confessò lo statista, cosciente che la sua sorte era segnata

Dott. Salvini – E ha fatto la Co... eh... l’ultima...

Galati – Mh...

Dott. Salvini – No, una Comunione, senza...

Galati – No, non ha fatto la Comunione. L’ha confessato.

Dott. Salvini – Ah.

Galati – Non... non è vero che... gli ha dato i Sacramenti.

Dott. Salvini – Perché poteva ancora salvarsi.

Nella conversazione inedita, il brigatista pentito aggiunge un altro tassello importante: la visita del religioso nella prigione del popolo era un’operazione ‘segreta’, nel senso che i vertici delle BR, soprattutto il Comitato Esecutivo nazionale, non ne erano a conoscenza. Un altro particolare che spinge Galati a precisare che non avrebbe mai fatto questa rivelazione in sede ufficiale

Galati – L’ha confessato perché lui voleva confessarsi, e... No, no, non chiedeva i Sacramenti. Hanno fatto una cosa che non lo sapeva neanche l’esecutivo.

Dott. Salvini – Una cosa privata.

Galati – Questo glielo dico a lei, e dopo questo...

Dott. Salvini – Sì, sì, e basta. Non lo dirà in... in aula, certo.

L’indiscrezione che Moro avesse incontrato un prete e che quest’ultimo lo avesse anche confessato, circolava da anni. Se ne diceva convinto, per esempio, l’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, ministro degli Interni durante la prigionia di Moro, che nel 2008 indicò proprio in Don Antonello Mennini il sacerdote che aveva confessato il presidente della DC: “Raggiunse Aldo Moro nel covo delle Brigate Rosse e noi invece non lo scoprimmo. Avevamo messo sotto controllo telefonico e sotto pedinamento tutta la famiglia e tutti i collaboratori. Ci scappò Don Mennini”. Quest’ultimo, già Nunzio Apostolico della Santa Sede in Bulgaria, Gran Bretagna e Russia, ha però sempre seccamente smentito questa circostanza. “Purtroppo non ho avuto la possibilità di confessare Aldo Moro nei 55 giorni del sequestro - disse Don Mennini in audizione davanti alla Commissione Moro nel 2015 - nella coscienza dei miei doveri sacerdotali ne sarei stato molto contento. Di un’eventuale confessione non avrei potuto dire nulla, né sui contenuti né sulle circostanze temporali e logistiche, ma non avrei difficoltà alcuna ad ammettere di essere andato nel covo delle Br. È che non ci sono mai stato”.

Ma chi era Michele Galati? E quanto sono attendibili le sue dichiarazioni? Veronese, classe 1952, Galati è stato condannato per gli omicidi del direttore del Petrolchimico di Porto Marghera, Sergio Gori e del commissario della Digos di Venezia, Alfredo Albanese, compiuti nel 1980. Nel 1982 la scelta di collaborare con i magistrati diventando, assieme a Patrizio Peci, uno dei primi pentiti delle Brigate Rosse, di cui è stato esponente apicale della colonna veneta.

Le sue rivelazioni, dettate all’allora giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni e ai carabinieri dell’Anticrimine di Padova, struttura legata al generale Dalla Chiesa, portano all’arresto di circa quaranta tra militanti e fiancheggiatori dell’organizzazione ma soprattutto squarciano per la prima volta il velo su due degli elementi più controversi della storia delle Brigate Rosse: il cosiddetto Superclan, il gruppo fondato da Corrado Simioni che si iscrisse dalle BR nei primi anni ’70, e soprattutto Hyperion, la scuola di lingua con sede principale a Parigi sospettata di essere una centrale del terrorismo internazionale ‘gestita’ dai servizi segreti di mezzo mondo. Non solo: Galati è stato il primo a parlare dello scambio di armi, avvenuto nel 1979 e gestito direttamente dal leader brigatista Mario Moretti, avvenuto tra le BR e l’OLP, l’organizzazione per la liberazione della Palestina.

Nei suoi innumerevoli verbali, Galati regala spesso rivelazioni importanti che sono state sistematicamente sottovalutate o addirittura ignorate. È il caso di un verbale ‘dimenticato’ dei primi anni ’80, in cui il brigatista veneto fornisce informazioni preziose sulla dinamica della strage di via Fani. Informazioni preziose ma, incredibilmente, sottovalutate o addirittura ignorate. Il 22 marzo 1983, davanti al giudice istruttore Rosario Priore, racconta di aver partecipato nel novembre del 1979 a una riunione organizzativa per una rapina all’Ospedale Civile di Venezia. Erano presenti, racconta Galati, ‘pezzi da 90’ delle BR come Mario Moretti e Nadia Ponti ma anche Livio Baistrocchi e Francesco Piccioni.

A proposito delle difficoltà che sarebbero potute sorgere nell’azione, con le quattro guardie giurate dell’ospedale che avrebbero potuto aprire il fuoco, Moretti si rivolse ad alcuni compagni, tra i quali Baistrocchi, dicendo: “Anche a via Fani uno ci era scappato ma quelli di riserva lo hanno steso”. Il riferimento è all’agente Raffaele Iozzino, che scese facendo fuoco dall’Alfetta di scorta di Moro, prima di essere falciato dal fuoco brigatista. Ma che cosa voleva dire Moretti quando parlava di membri “di riserva” del commando? E quei soggetti, evidentemente sino ad oggi non identificati, erano organici alle BR? O erano elementi esterni? E sono proprio “quelli di riserva” i due che un testimone della strage, l’ingegner Alessandro Marini, vede far fuoco sull’agente Raffaele Iozzino, uscito dall’Alfetta della scorta di Moro?

Michele Galati non ha partecipato all’azione di via Fani ma, per i suoi trascorsi e i suoi rapporti di vecchia data con figure di vertice dell’organizzazione, sapeva molte cose anche sull’azione del 16 marzo 1978. Particolari inediti come quello citato nella conversazione tra il brigatista pentito e il giudice Salvini, che IlGiornale.it può presentare in anteprima. Parlando della logistica dell’azione, il brigatista veneto accenna ad un covo “di appoggio”, sinora mai emerso, vicino via Fani. Un covo che sarebbe dovuto servire in caso di mancata riuscita del blitz

Galati – Secondo me invece c’era un covo alternativo, io lo so che c’era, in caso andasse male... eh... il trasporto da via Fani, però non mi risulta che fosse alla Balduina.

Dott. Salvini – Noi l’abbiamo individuato in quella zona lì. Lì vicino a via Fani, 300...

Galati – Sì, sì, lo so.

Dott. Salvini – ... 400 metri.

Galati – No, conosco la zona, è... ma più è vicino, meno è... probabile. No, ce n’era un altro, che era tenuto da...

Dott. Salvini – Cos’era, il negozio?

Galati – No, era una casa di... di un’altra... ragazza. Io ho fa... eh, mi viene in mente e glielo spiego (…) Eh... era una delle amanti di Mario.

Dott. Salvini – Le amanti di Mario.

Galati – Eh, Mario ce ne aveva parecchie, eh?, non... non si faceva scrupoli. Ehm... non me la ricordo più qual era, forse la Caterina... Non me lo ricordo. Ehm... era previsto che se tra via Fani e coso ci fosse stato qualche casino verso... via Montalcini, c’era un ricovero, una roba del genere, però temporaneo (…)

Secondo Galati, dunque, le BR avevano una casa ‘sicura’ che faceva capo a una donna vicina a Mario Moretti. Un altro dei punti oscuri di una vicenda che, dopo quasi 45 anni, riserva ancora molte sorprese.

Angelo Carotenuto Per il Venerdì- la Repubblica l'8 agosto 2022.

L’estate del 1982 passa per essere stata la più felice nelle vite di chi all'epoca aveva dai sedici anni in su. Gran parte del merito fu di un calciatore, un centravanti esile e ossuto, con un nome banale, Paolo Rossi. Reinventò la sua storia personale nel giro di sette giorni, segnò sei gol in tre partite contro Brasile, Polonia e Germania. Riscattò due anni di squalifica, portò la Nazionale a vincere il Mundial, riscrisse le cronache di un Paese. Fino al mese scorso le rievocazioni erano ovunque, tutte certe di ricordare un'Italia quarant' anni fa più pura e innocente, più candida, migliore. Diamine, erano più belle pure le canzoni: non ve la ricordate, forse, Celeste Nostalgia? 

Solo che la nostalgia è celeste spesso per abuso. Mentre le pagine dei quotidiani raccontavano giorno per giorno la Caporetto del giornalismo sportivo, incapace di decifrare il misterioso valore di quella squadra, altri misteri si affollavano, più cupi, oggi rimossi. 

Ce ne ricorda uno. Il sequestro Dozier - Un'operazione perfetta, docuserie in quattro puntate disponibile su Sky, prodotta da Dazzle, scritta da Davide Azzolini, Fulvio Bufi e Massimiliano Virgilio, diretta da Nicolangelo Gelormini. È la storia del rapimento da parte delle Br del generale americano, vicecomandante delle forze Nato nel Sud Europa, della sua liberazione nel gennaio 1982 e delle vicende giudiziarie successive: le accuse a un pezzo di Stato per i metodi violenti e le tecniche di tortura usate da chi condusse gli interrogatori dopo il blitz.

Mentre nelle nostre case si gridava gol, i magistrati di Padova scoperchiavano un universo parallelo in cui c'era un'altra squadra, quella dell'Ave Maria, guidata da un professor De Tormentiis, alias di un funzionario la cui identità sarà svelata molti anni dopo; c'erano un Vendicatore della Notte e brigatisti con bruciature sui genitali, sottoposti al waterboarding e false fucilazioni. «Il tema del lavoro» racconta Azzolini, «è dove si debba collocare la linea di confine tra quello che è lecito e quel che non si può fare nell'interesse della collettività. Fin dove può spingersi uno Stato? Chi se ne assume le responsabilità?». 

La serie va oltre la vicenda stessa del generale Dozier. «Pensavo che non sarei sopravvissuto», dice lui nell'intervista. Pensava di finire come Aldo Moro, assassinato quattro anni prima, al termine dei 55 giorni di prigionia che seguirono la strage della scorta in via Fani. Moro è un'ombra in questa storia, come nell'estate '82.

Al processo in corso, la vedova Eleonora fece la prima apparizione pubblica per una deposizione, nel giorno in cui Sandro Pertini aveva ospiti al Quirinale i campioni del mondo. Li aveva riaccompagnati in Italia a bordo del suo aereo, giocando a scopone con Zoff, Causio e il c.t. Bearzot. Eravamo distratti dalla Coppa del mondo, mentre Eleonora Moro «invecchiata ma sorretta da una grande, grandissima, dignità» (l'Unità), confermò che il capo della scorta aveva trasmesso ai superiori la segnalazione con la targa di un'auto che li seguiva da tempo. Disse che gli agenti non erano addestrati, per questo avevano i mitra nel portabagagli, e dell'offerta di una macchina blindata da parte di Andreotti lei non sapeva niente, ne aveva letto sui giornali. Accennò in modo amaro che le era parso «esemplare del carattere e del modo di fare di Andreotti. Molte volte i magistrati sono venuti a chiederci cose. Noi rispondevamo. Loro non verbalizzavano». Le diedero delle lettere inedite. Ne fu stupita. Aggiunse che scorrerle sarebbe stato «superiore alla mia resistenza nervosa». Non guardò mai verso le gabbie dove erano prigionieri gli assassini di suo marito.

Pallone e politica. Di altri brigatisti si occupavano le cronache in quelle stesse settimane. Nel pomeriggio di Italia-Brasile, il 5 luglio, mentre si giocava il primo tempo della partita, il capo del governo Giovanni Spadolini era stato alla Camera per un'audizione drammatica e prudente al tempo stesso. 

Nelle sue scarse ammissioni, aveva confermato che per liberare l'assessore regionale campano Ciro Cirillo dal sequestro dei terroristi, un pezzo dello Stato attraverso il Sismi e il Sisde era sceso a patti con la camorra napoletana di Raffaele Cutolo. Che ne parlasse mentre in città avevano ripreso a sparare, tre omicidi in un giorno, rendeva tutto più sordido. Il Pci uscì dall'aula furibondo, per «lo sdegno e l'inammissibile copertura di uno scandaloso affare di rapporti omertosi». Quattro giorni prima, Spadolini era volato a Barcellona per stare un po' con i ragazzi della Nazionale.

Si vantava in quel mese di portare fortuna.

Se li avessimo ammazzati Così, la serie su Dozier pone a chi vuole sentirsela porre la domanda se non ci sia stato un doppio registro: da un lato la liberazione a ogni costo del generale della Nato, con una taglia di due miliardi di lire, e l'indicibile trattativa con la malavita per un assessore locale; dall'altro la linea della fermezza per il presidente della Dc. A parità di sequestratori e di protagonisti in campo, la differenza nell'epilogo sta nel sequestrato. 

Giuseppe Gargani, sottosegretario alla Giustizia dell'epoca, si domanda nel documentario come sarebbe stata la scena politica, se Moro fosse tornato, con quella nuova consapevolezza maturata durante la prigionia. Danilo Amore, caposquadra dei Nocs, sulle violenze di Stato dice: «Nella mentalità di un poliziotto, accetti l'idea della morte, non di essere arrestato, e poi con quelle motivazioni, per azioni commesse in nome di un bene superiore». Durante i giorni drammatici di Moro, l'interesse dello Stato trascurò una serie di indizi, comprese le segnalazioni di sedicenti medium.

Durante i giorni di Dozier, dicono i Nocs per smarcarsi dall'accusa delle torture, «se li avessimo ammazzati tutti, nessuno ci avrebbe detto nulla». 

L'Italia dell'estate '82 è quella che col mistero flirta appena può. Roberto Calvi, banchiere dell'Ambrosiano, sparisce e viene trovato cadavere sotto un ponte del Tamigi, mentre la sua segretaria muore dopo aver lasciato un biglietto. Lo sfondo è quello della loggia P2 di Licio Gelli. Ancora tredici mesi e troveremo il Gran Maestro evaso dal carcere di Ginevra. L'Italia dell'estate '82 è quella che vede 400 mila persone in piazza per scioperare contro la decisione della Confindustria di abolire i patti sulla scala mobile. Quando il governo ipotizza di estendere il provvedimento alle aziende statali, il pentapartito vacilla. Lo salva la tripletta di Pablito al Brasile.

Il vertice per aprire la crisi slitta con i festeggiamenti post partita. Francesco De Gregori ha appena fatto uscire un nuovo disco dal titolo apocalittico: Titanic. Dove tra i molti incubi, Nino non deve aver paura di sbagliare un calcio di rigore. 

È quasi un'estate da Garage Olimpo, il film di Marco Bechis sui metodi della dittatura argentina, che impastò torture e misteri alla gioia del Mundial anno 1978. «Per il nostro lavoro» spiega Azzolini, «avevamo un'idea chiara di racconto, con l'incognita ovviamente di quali sarebbero state le risposte dei protagonisti della vicenda, su entrambi i fronti. Anche a distanza di 40 anni, non era scontato che avrebbero accettato di parlare di vicende che, per tanti e per ragioni diverse, era meglio lasciare nei cassetti».

Sfila un pezzo di Stato che ammette il ricorso alla violenza e ammicca alla sua legittimità, in un Paese nel quale tuttora non riesce a passare una legge che preveda la presenza di un numero identificativo sulle divise e sui caschi degli agenti. 

Quaranta estati più tardi, la Nazionale di calcio non andrà ai Mondiali, il Paese non ha un governo, la ferocia delle Br è stata sconfitta democraticamente, l'Italia ha dovuto affrontare dolori chiamati Cucchi, Rasman, Aldrovandi, Bolzaneto. «Sto bene» disse Dozier in italiano dopo la liberazione. Il punto è capire come sta l'Italia. Ma dite la verità: quanto eravamo felici.

Moro fu ucciso (solo) dalle Br, complottisti e terrapiattisti vari si rassegnino…Sul Fatto di Travaglio una ricostruzione del tutto fantasiosa del sequestro e omicidio Moro nella quale convergono servizi, complotti e fantasie varie. Andrea Colombo su Il Dubbio il 12 luglio 2022.

Una trentina d’anni fa, quando alcuni grandi processi di terrorismo erano ancora in corso, era un luogo comune ripetuto spesso che non si potesse lasciare alle sentenze il compito di scrivere la storia politica degli anni ’70. Dopo oltre tre decenni, con di mezzo tonnellate di pagine adeguate più alla spy-story di serie c che non alla ricostruzione storica, bisogna ammettere che quel luogo comune era fondamentalmente sbagliato. Gli atti giudiziari hanno i loro limiti ben chiari: le condizioni di costrizione nelle quali si svolsero gli interrogatori e le deposizioni, la naturale tendenza ad alleggerire la propria posizione da parte dei testimoni, pentiti o dissociati o anche irriducibili che fossero, l’ottica dei giudici che scrivevano le motivazioni delle sentenze, diversa da quella degli storici. Tuttavia, a paragone dell’alluvione di deliri in libertà che hanno poi confuso le acque sino a rendere impossibile distinguere l’acqua dal fango, quei verbali e quegli atti di tribunale aiutano a conoscere la verità degli anni ’70 molto più della immensa mole di volumi non inutili ma dannosi sfornata dai cacciatori di misteri.Va da sé che ciò è vero soprattutto per il delitto Moro.

Sarà prima o poi opportuno approfondire come e perché il sequestro, la detenzione e l’assassinio del presidente della Dc abbiano scatenato fantasie, liberato fantasmi, evocato ombre irreali puntualmente considerate più credibili della realtà nonostante la loro palese infondatezza. In un articolo comparso domenica sul Fatto quotidiano Stefania Limiti scrive come se nulla fosse che l’intera vicenda, «sparatoria, fuga in auto verso via Montalcini, l’angusta prigione, lo sparo nel garage e così via» sono solo «una finzione elaborata in una operazione dei servizi segreti, sponsorizzata da Francesco Cossiga e Oscar Luigi Scalfaro». La prova sarebbe nelle conclusioni a cui è arrivata l’ultima delle tante commissioni parlamentari d’inchiesta sul caso Moro, presieduta da Giuseppe Fioroni. Le quali per la verità non si scostano dalla “caciara” sollevata in questi anni senza alcun elemento probatorio solido a sostegno della solita logica, quella del “mi sa tanto” elevato a prova. E’ in realtà possibile che la verità giudiziaria sui 55 giorni sia incompleta, che qualche brigatista o fiancheggiatore sia sfuggito alle indagini, che il trasporto di Moro subito dopo il sequestro sia avvenuto in un garage e non all’aperto.

Ma la verità storica è invece fissata e chiara. Se gli oscuri burattinai immaginati dagli eredi di Ian Fleming avessero voluto Moro morto lo avrebbero fatto uccidere subito. Se i servizi segreti di qualche turpe potenza mondiale avessero manovrato le Br avrebbero anche fornito agli attentatori almeno armi moderne, invece di mitra arrugginiti che si incepparono tutti tranne uno in piena sparatoria. Se Giulio Andreotti avesse voluto l’esecuzione di Moro non avrebbe partecipato attivamente alla raccolta di 20 mld da offrire come riscatto, come invece fece al coperto del pontefice. Se il capo delle Br e plenipotenziario di fatto Mario Moretti avesse lavorato nell’ombra per conto di qualche burattinaio avrebbe eseguito la sentenza dopo la condanna, invece di rimandarla per 10 giorni e passa con tutti i rischi evidenti che ciò comportava. Non avrebbe fatto la lunghissima e pericolosissima telefonata del 29 aprile, che rappresentò il momento di massimo rischio per i brigatisti essendo molto elevata la possibilità di essere individuati e catturati o uccisi rimanendo tanto a lungo al telefono su una linea certamente sorvegliata. Se Mario Moretti non fosse chi dice di essere, inoltre, non sarebbe l’unico brigatista coinvolto nel sequestro ancora in carcere. L’idea di un complotto al quale partecipano Andreotti, Cossiga e Scalfaro, i vertici dei servizi segreti italiani e americani, i giudici Imposimato e Priore, Valerio Morucci e Adriana Faranda (confermati però da tutti i br con la sola eccezione di Alberto Franceschini) andrebbe definita col nome che merita: “terrapiattismo”. Come la convinzione che la terra sia piatta abbia avuto la meglio su tutti i dati di realtà, sulle indagini, sulle sentenze, sulla logica è il mistero del caso Moro. L’unico. L’intemerata pubblicata dal Fatto quotidiano era in realtà un attacco contro Marco Bellocchio, reo di non aver creduto, nel suo lungo film Esterno Notte, alla bizzarre ricostruzioni dei Ghostbusters. Attacchi e critiche sono sempre leciti. Evitare di condurli in modo sgangherato sarebbe tuttavia opportuno. «Possiamo sempre prendercela con la politica, che viene facile, ma registi, giornalisti, letterati? Diamo a tutti licenza artistica e dicano un po’ quel che vogliono?». Anche a mettere da parte il tono implicitamente ricattatorio, come si fa a definire «licenza artistica» la verità raggiunta coralmente dagli inquirenti (in decine di processi) e raccontata dagli imputati (tutti e sempre con l’eccezione unica di Franceschini) se non sulla base di un capovolgimento del più elementare senso comune?

Il film di Bellocchio non è in realtà esaustivo. E’ reticente su un elemento fondamentale del quadro: il ruolo del Pci, che impose di fatto la linea della fermezza minacciando in caso contrario una crisi di governo che la Dc non poteva in quel momento permettersi. Per tutto il resto è un film coraggioso, perché l’assurdità della situazione in Italia è che per dire quel che le sentenze stesse affermano ci vuole coraggio. Si rischia di incorrere nell’anatema di tutti quelli che «sanno senza aver le prove»: sono un esercito. Di sfuggita Esterno Notte è anche un film molto bello.

Controritratto di Moro il bizantino.  Marcello Veneziani, 9 maggio 2021

Il 9 maggio del 1978 fu ritrovato il corpo di Aldo Moro nel bagagliaio della Renault. In quel giorno tremendo anche l’Italia antidemocristiana che aveva quasi gioito per il rapimento di Moro, ammutolì sgomenta davanti a quel corpo senza vita. Non dirò dei misteri di via Fani e delle Brigate rosse né della dietrologia interna e internazionale sul suo assassinio, degna dei teoremi morotei. Moro fu la sfinge duttile e contorta della Dc, l’incarnazione di uno stile labirintico, una razza politica e una lingua assiro-politichese.

Il suo volto pallido e assorto, le sue labbra improntate a una smorfia di lieve e rattenuto disgusto, i suoi occhi perduti nei cieli levantini della Magna Grecia, la sua mano molle, la sua andatura lenta e la sua mitica frezza bianca che con gli anni si era allargata.

Ah, tu con quella frezza bianca, che stai combinando? Gli avrebbe detto una volta Padre Pio rimproverandogli l’apertura a sinistra, come già aveva fatto in una lettera il cardinale Siri. Su quelle parole del frate burbero e santo, nel collegio elettorale di Moro, la circoscrizione Bari-Foggia, puntò la sua campagna elettorale del’76, il sacerdote don Olindo Del Donno, prete dannunziano eletto deputato nel Msi, sospeso a divinis.

Moro firmò una stagione politica e forse antropologica del nostro Paese. Fu il leader più autorevole della Dc, dopo la disfatta di Fanfani al referendum sul divorzio. Di indole moderata e conservatrice, di provenienza cattolico-fascista, Moro promosse la stagione degli “equilibri più avanzati” e delle “convergenze parallele”, come diceva nel suo linguaggio degno del barocco leccese, ricco di ossimori levantini e paradossi babilonesi che sfidavano la logica e la geometria. Fu l’epoca bizantina della Dc. Per certi versi Moro fu la versione politica di Paolo VI.

Stratega più che statista, intellettuale di elevata cultura giuridico-filosofica, Moro fu il principe della Mediazione. I moderati non lo amavano per i cedimenti a sinistra, per i “patti conciliari”, come in un primo tempo fu chiamato il compromesso storico; ma anche per la sua politica estera ambigua, con le sue concessioni a Tito e a Gheddafi a danno degli italiani in Libia e nelle terre d’Istria e Dalmazia. Viceversa i progressisti lo stimavano ma ne diffidavano perché vedevano in lui il grande ammorbidente della sinistra. Un professore di latino e greco delle sue parti, ricordava che moros nelle zone griche del Salento vuol dire stolto.

A Moro rimproverarono di aver corrotto il linguaggio politico, come gli rinfacciarono Pasolini e Sciascia, usando un lessico involuto ed esoterico, paludato e impenetrabile, una specie di latinorum che escludeva la comprensione delle masse; di aver corrotto la sinistra socialista e poi comunista, consociandola al potere, così neutralizzando la sua carica civile e vitale; e di aver giustificato la corruzione politica attraverso il memorabile discorso sull’affare Lockheed circa i costi inevitabili della politica, i finanziamenti illeciti e la non processabilità della Dc.

Il potere democristiano subì un triplice processo: prima dagli intellettuali, a partire dal memorabile attacco di Pasolini alla Dc; poi dai brigatisti rossi, e infine dai magistrati. In principio fu il verbo, poi venne il mitra, infine Mani pulite.

Si dimenticava però che, a fianco del compromesso storico tra Dc e Pci, stava marciando dalla metà degli anni Settanta un altro compromesso tra comunisti e capitalisti, che culminò nel Patto dei produttori (auspici Amendola, Agnelli e La Malfa) e che dette vita a quella saldatura tra sinistra e potere economico perdurata negli anni (che trovò ne La repubblica uno dei suoi capisaldi politico-editoriali). E se Moro fu il teorico del costo illecito della politica, la corruzione politica era pratica diffusa ormai da anni, in casa Dc e non solo. E la straordinaria congiuntura internazionale, la pressione combinata di Stati Uniti e Urss sul nostro paese, costringeva alle acrobazie per barcamenarsi; quelle in cui Moro eccelleva.

I suoi estimatori dicevano che la sua strategia del compromesso storico, quella che lui chiamava la terza fase, era propedeutica a una democrazia bipolare dell’alternanza: prima legittimiamo il Pci, consociandolo gradualmente al governo, così gettiamo le basi per una democrazia compiuta fondata sull’alternanza.

In realtà Moro si era posto un altro problema: come conservare il potere alla Dc davanti all’onda lunga della sinistra, le turbolenze della piazza, le lotte sindacali, il terrorismo e l’incalzare di una società laica e libertaria, emersa col divorzio. L’unico modo per sopravvivere era venire a patti con l’avversario, cercando di sterilizzare le spinte antagoniste e rivoluzionarie, ma anche di imbrigliare le tensioni sociali e frenare le tentazioni permissive; considerando il Pci grande forza popolare e morale, alleata in questa battaglia contro il laicismo e l’individualismo della società radicale. Per altri versi era la strategia del pugile che quando rischia di soccombere sotto i colpi dell’avversario lo cinge in un abbraccio.

Moro non lasciò eredi: Andreotti proseguì la strategia consociativa ma al di fuori del disegno moroteo, pronto successivamente a varare un’alleanza di altro segno con il cosiddetto CAF, con Craxi; De Mita, anche lui come Moro, intellettuale della Magna Grecia dal linguaggio contorno, proseguì su altre vie il disegno politico bipolare, ma contrapposta a Craxi; e i morotei come il suo fidato Zaccagnini o il successore Martinazzoli, non avevano la sua statura politica. Così Moro si trovò nella solitudine mortale di un portabagagli, rigettato come un corpo estraneo, punito per la pretesa consociativa di narcotizzare i conflitti. L’onda di sangue del ‘900, in cui erano stati uccisi Umberto di Savoia e l’Italia umbertina, Mussolini e l’Italia fascista, travolse anche Moro e l’Italia morotea. MV, 9 maggio 2021

Il mistero di Moro e le trame a cui restò impiccato. Marcello Veneziani 

È quasi impossibile spiegare a un ragazzo, a uno straniero, a un postero il caso Moro. Già difficile di suo era Moro, il suo linguaggio criptico e involuto, ricco di sfumature e allusioni. Difficile da comprendere fu la sua politica finale, che per taluni era un modo per portare i comunisti al governo, per altri era un modo per svuotarli, per logorarli. Forse per corromperli, come pensavano le Br. Difficile capire se il suo fine fosse portare a compimento la democrazia, superando il bipartitismo imperfetto e legittimando il Pci al governo, così creando la possibilità dell’alternanza; oppure se la strategia consociativa avesse come fine quello di protrarre, seppure in condominio, il potere democristiano, e ripetere coi comunisti quello che era stato già fatto con i socialisti.

Ma ancora più difficile è capire il rapimento e l’assassinio di Moro. Arduo districarsi sulla matrice del sequestro, anche se gli esecutori sono evidenti, i comunisti delle Brigate rosse. Si parlò di Kgb, Cia, Mossad, più i nostri servizi deviati, gli Usa e una fetta di Dc. E poi le voci che alcuni sapessero dove fosse realmente nascosto, qualcuno insinuò perfino di visite “politiche” durante la prigionia di Moro. E’ complicato spiegare che i suoi carnefici erano comunisti come quelli che Moro voleva al governo.

Impossibile da spiegare a chi non visse quel mondo è perché il suo partito, alcuni morotei, il Pci di Berlinguer con cui si stava consociando, ma anche il filo-occidentale partito repubblicano, furono per la fermezza, cioè lo mandarono a morire, non vollero trattare come invece avevano fatto in precedenza. Come vai a spiegare che la motivazione era che Moro fosse ormai ostaggio anche psicologico delle Br, pativa la sindrome di Stoccolma, era quasi passato dalla loro parte e svelava loro i segreti più scottanti del Deep state italiano e atlantico? Anche se fosse vero, la soluzione non era lasciarlo uccidere, semmai acciuffare quei brigatisti che avevano carpito i segreti scottanti del nostro potere. Come fai a spiegare ai posteri che a voler salvare la sua vita e a intavolare una trattativa erano i veri antagonisti del compromesso storico, a partire da Craxi? Impossibili da decifrare erano poi le sue lettere, i suoi messaggi occulti, a cui si sono dedicati perfino libri iniziatici sul significato enigmatico, anzi enigmistico, dei suoi segnali sotto traccia.

Il caso Moro, morta la vittima e presi i colpevoli, è rimasto irrisolto. Ma al suo posto fioriscono le narrazioni. Una di queste è il nuovo film di Marco Bellocchio, naturalmente de sinistra, un tempo anche estrema, che già aveva realizzato un film su Moro. La chiave del suo nuovo film, Esterno Notte, è manichea: Moro il martire, Andreotti il diavolo. Ora caricare sulle spalle curve di un sol uomo, seppur avvezzo a intrighi e trame come Andreotti, tutto il caso Moro, è storicamente infondato. Bisogna da un verso capire il pressing internazionale, americano soprattutto, e dall’altro ricordare che a condannare Moro alla morte fu anche il serafico Berlinguer, il mite Zaccagnini, il furente Pertini, che poi diventò Presidente della Repubblica. Bellocchio, naturalmente, se li dimentica, o li lascia ai margini. Facile demonizzare Belzebù, già noto per il suo mestiere di diavolo, e la leggenda supera di gran lunga la realtà. Cossiga appare correo, ma per Bellocchio lui era un po’ pazzo, bipolare, e non in senso politico, ciclotimico. Facile pure ridurre Moro all’apertura a sinistra, eludendo i dubbi, le sue strategie bizantine e la sua storia antica, non dico il suo filo-fascismo giovanile ma il suo moderatismo destrorso del primo dopoguerra.

Ma poi non si capisce perché il giorno del rapimento doveva essere votato in Parlamento un governo ispirato alla linea Moro, con l’apertura al Pci, guidato – ma guarda un po’ – proprio da Andreotti, voluto dallo stesso Moro.

Bellocchio ha sovrapposto la fiction alla realtà e dunque quando gli conviene può dire che è storia, altrimenti dirà che è pur sempre finzione cinematografica.

Un Moro romanzato, ma non falsificato, è in un libro recente che gli ha dedicato Marco Follini, Via Savoia (La Nave di Teseo) all’epoca giovane democristiano, poi diventato il vice-Premier di Berlusconi ma presto dissidente fino a lasciare la politica. Follini nel libro non nomina mai Moro e molti protagonisti di quel tempo, anche se il libro è dedicato a lui, e di riflesso a loro. E’ scritto bene, non è mai banale; bella, devo dirlo, anche la prefazione di Marco Damilano che definisce l’opera di Follini il primo romanzo storico sulla repubblica italiana (magari c’è qualche precedente). Il libro di Follini, forse involontariamente, disegna un Moro totus democristiano ma non statista. Il Moro di Follini è visitato con discrezione sul piano privato e personale; è visto tutto sul piano politico e di partito; emerge lo stratega democristiano di alto profilo ma non appare mai l’uomo di Stato. Eppure è così che di solito si descrive Moro, lo statista. Invece in Moro, lo sostengo da anni, ha prevalso la ragion politica di partito sulla ragion di Stato e infine la ragione personale su quella politica. Moro non lascia grandi eredità allo stato italiano, ma larghe e raffinate strategie politiche, si occupa più del sistema politico che degli italiani, non lascia grandi riforme ma grandi operazioni di Palazzo. Il personaggio che più gli si avvicina nel suo tempo non è un politico ma Paolo VI, un papa politico. Nel Moro di Follini si parla sempre di politica, di partito, di potere, ma mai di Stato, mai d’Italia. Non è un difetto del libro di Follini ma è il limite di Moro.

Sant’Agostino diceva che non è la pena ma la causa a fare i martiri. San Moro resta solo Tommaso Moro, che fu pure gran politico, cattolico e statista. Follini racconta che Aldo Moro aveva un ritratto di San Tommaso Moro su una parete del suo studio. Ma non erano parenti. La Verità (20 maggio 2022)

Caso Moro, in tv la verità sulle torture a Enrico Triaca. Frank Cimini su Il Riformista il 24 Giugno 2022 

«Mi torturavano mentre firmavano trattati internazionali contro la tortura». C’è voluto quasi mezzo secolo perché Enrico Triaca arrestato nell’ambito delle indagini sul caso Moro potesse andare in tv a raccontare dove e come fu torturato al fine di estorcergli informazioni. Sul canale 122 di Sky sono andate in onda il 13 e il 20 giugno le due puntate (vedibili on demand) di un documentario sul sequestro del generale americano James Lee Dozier e su altri fatti di lotta armata a cavallo tra gli anni ‘70 e ‘80.

All’epoca Enrico Triaca per aver denunciato le torture venne condannato per calunnia. Soltanto pochi anni fa con la revisione del processo è stato assolto. I torturatori, in testa il funzionario di polizia Nicola Ciocia, “il professor De Tormentis” l’hanno fatta franca per utilizzare il linguaggio di un famoso magistrato perché ovviamente era intervenuta la prescrizione. «Dalla questura dove c’era stato un interrogatorio molto blando mi portarono in una struttura che credo fosse una caserma, mi legarono a un tavolo e così iniziò il trattamento», sono le parole di Triaca che ricorda la tecnica solita in casi del genere del finto annegamento. Al “trattamento”, considerati gli scarsi “risultati” pose fine un superiore del professor De Tormentis che invece avrebbe voluto continuare.

Il documentario di Sky rende almeno in parte pan per focaccia a chi continua a raccontare la favola del “terrorismo sconfitto senza fare ricorso a leggi e pratiche eccezionali”. Una posizione ribadita in tempi recenti dall’ex ministro Minniti, il quale una certa responsabilità politica per quanto capitato ai migranti nei campi libici non può non averla. La vera tragedia è politica e riguarda il fatto che le torture ai migranti non hanno provocato cortei e proteste nelle piazze. Come del resto nulla sembra destinato a spostare il documentario di Sky sulle torture inflitte ai responsabili di fatti di lotta armata oltre quarant’anni fa. Se il nostro paese non ha tuttora una legge adeguata a sanzionare la tortura come reato tipico del pubblico ufficiale una ragione c’è. E si tratta ancora una volta di una ragion di Stato che neanche il documentario del canale 122 riuscirà a scalfire.

Alcuni condannati per il sequestro e le torture all’imam Abu Omar sono stati graziati in parte da Giorgio Napolitano e in parte da Sergio Mattarella. Insomma, torturare non è che sia proprio vietato. Speriamo che a chi oggi ha 20 anni o 30 e anche 40 sia utile la visione del documentario di Sky che comunque ha la grave lacuna di non aver contestualizzato storicamente i fatti, come accade sempre soprattutto in tv quando si parla di quella storia maledetta. Terminiamo con Triaca ricordando che l’anno scorso è stato tra quelli ai quali hanno preso il Dna perché la procura di Roma è sempre a caccia di improbabili complici e di misteri inesistenti. Frank Cimini

 Roberto Faben per “La Verità” il 13 giugno 2022.  

«Vorrei che nessuno parlasse di mio padre se non è in grado di farlo rispettosamente e dignitosamente e di non considerarlo una specie di vittima inconsapevole».

Maria Fida Moro, figlia primogenita di Aldo Moro, non assisterà alla proiezione del film di Marco Bellocchio Esterno notte. «Non lo vedrò mai, perché mi dà dolore, per noi è una tortura, e qui ci starebbe pure bene una parolaccia, ma mi limito a dire accidentaccio». 

Ciononostante ha incaricato i suoi legali di visionare il lungometraggio per valutare «se si ponessero risvolti giuridici». «Preferirei il silenzio, perché il silenzio è più rispettoso della parola».

Cosa la ferisce di questo film?

«Io, in questa vita incasinata, non mi vorrei più rincrescere. Mi piacerebbe che mio padre non fosse rappresentato come un'entità apparsa sulla faccia della Terra il 16 marzo 1978 e scomparsa il 9 maggio di quell'anno. 

Non si capirà mai niente delle ragioni profonde della sua morte se non ci si sofferma sulla sua vita. È bene considerare che la sua morte non è servita a fare un colpo di Stato, ma a mettere Italia ed Europa su un declivio che ci ha portato alla situazione in cui ci troviamo ora. Mi fa orrore solo l'idea che vita e morte di mio padre siano un business.

I vari registi che hanno ridotto il caso Moro a quei 55 giorni hanno sbagliato e in un certo senso finiscono per essere conniventi con una verità ufficiale che non è vera». 

Questa verità ufficiale presenta molte crepe, come è trapelato dalle indagini di due commissioni d'inchiesta.

«La seconda Commissione, diretta da Giuseppe Fioroni, ha trovato circa l'80% della verità, ma ha secretato gli atti per 50 anni. Posso comprendere il diritto giuridico per farlo e le ragioni di politica anche internazionale. Ma che senso ha? È come indire un referendum sapendo che i risultati non saranno applicati».

Sul vostro sito Web, salviamoaldomoro.it, l'unico film che lei e suo figlio Luca riconoscete è Piazza delle Cinque Lune di Renzo Martinelli, del 2003, in cui aleggiano le ombre dei servizi segreti italiani già il giorno dell'eccidio di via Fani. Ci spiega perché?

«Perché Martinelli ha riconosciuto il concetto fondante del lavoro di Moro e ha raccontato mio padre con umanità. L'ipotesi, nel film, del Super 8 girato da un balcone di via Fani il 16 marzo, si è rivelata vera. 

Il giudice Imposimato mi disse che una giornalista francese gliene aveva parlato e lui la invitò a consegnarlo a chi di dovere, ma poi è scomparso, così come le foto fatte dai palazzi di via Fani. Guardi, credo che gli italiani sappiano che Moro è stato una vittima sacrificale.

Lui faceva politica in quel modo trasfigurante, verso un'umanità amorevole e armonica. È il lavoro dei profeti e dei pacificatori, e per questo finiscono ammazzati, come Gesù. Basti pensare a Gandhi, due Kennedy, e tre Bhutto, Benazir, suo padre e suo fratello. 

Mio padre li ha ringraziati, i brigatisti, li ha salutati, vorrei sapere chi ringrazia i suoi carcerieri. Moro è stato un padre divertente, un educatore, uno statista, uno stratega, un cristiano, un mistico. 

Perché dobbiamo parlare solo dei 55 giorni, con relativa agonia? Lo comprende Bellocchio che, per noi, la sua arte, meglio il suo modo di narrare, ci dà dolore, è solo una tortura? Inoltre altri film su Moro contengono errori».

Ad esempio?

«Ad esempio nel film Il caso Moro, di Ferrara (1986, ndr). La mattina del sequestro, mia madre, infermiera della Croce Rossa in tempo di guerra, stava facendo catechismo nella chiesa di San Francesco e, dopo l'attentato, accompagnò un sacerdote in via Fani per l'estrema unzione delle vittime.

Dopo essersi accertata che le persone fossero decedute, lei s' inginocchiò per terra, a pregare tra i bossoli e il sangue. E invece Ferrara che fa? La manda in un bar a prendere un cognac L'avrò vista due volte nella vita, mia madre, entrare in un bar e certamente non per prendere un cognac». 

Il fatto che la figura di Aldo Moro vada compresa nel suo spessore biografico e storico è sacrosanto. Tuttavia va fatta chiarezza su come andarono davvero le cose in quei 55 giorni e affinché gli italiani siano consapevoli sugli sconcertanti retroscena della vicenda.

«La morte di papà non è finita con la sua morte e la cattiva coscienza di tanti fa sì che il terror panico per le cose perpetrate li tenga sulla difensiva o si difendano attaccando. Quelli che l'hanno voluto morto, lo volevano cancellato. I brigatisti e tutti gli altri hanno profuso parole, ma noi no, noi non siamo stati ascoltati».

Longa manus dell'intelligence, membri dei comitati di crisi di Cossiga legati alla P2, Hyperion, formale scuola di lingue ma raccordo tra servizi segreti internazionali punto di riferimento del br Moretti, la farsa della seduta spiritica di Prodi, il falso comunicato n. 7 del lago della Duchessa commissionato dai servizi a Tony Chichiarelli, la finta ricerca di Moro, gli sconti di pena ai brigatisti. Pressoché un'intera classe politica corresponsabile, compreso il Pci. Ma la Repubblica perché secreta squarci di verità?

«Il giudici istruttori del primo processo Moro, Imposimato e Priore, durante una tavola rotonda in una televisione, hanno dichiarato che, nella vicenda Moro, erano coinvolti almeno 12 servizi segreti di altrettanti Paesi. 

Non conosciamo tutta la verità. E il nodo non è nemmeno questo, ma il fatto che lo Stato usa un colpevole silenzio su tutto ciò che riguarda il vero andamento della vicenda Moro. Fanno parlare solo coloro che non sanno e mistificano e non hanno alcun afflato d'amore nei confronti di Moro».

Lei crede che si potrà giungere, un giorno, a un chiarimento su tutti gli aspetti oscuri della vicenda?

«Ciò è impossibile, ora. Ci vorranno, forse, 100 anni. C'è tanta, troppa gente coinvolta. Cossiga diceva che almeno 10.000 persone avevano a che fare con il caso Moro. In occasione del film di Valsecchi (Aldo Moro, Il presidente, 2008, ndr), la Camera invitò noi e i familiari della scorta di Moro, aggiungendo: "Sarebbe meglio se non veniste".

Noi, con Giovanni Ricci (figlio di Domenico Ricci, autista della vettura su cui si trovava Moro, ndr), facemmo un duro comunicato e nessuno ci andò. Per il 60° della Costituzione Italiana, a Firenze, invitarono tutti i familiari delle stragi, tranne la famiglia Moro che, guarda caso, oltre a essere una vittima del terrorismo, è stato un Costituente. 

È come se il caso Moro non riguardasse i Moro e non sono io che sono una cretina, sono loro che non capiscono che tutto quello che riguarda il caso Moro mi dà dolore. L'Italia non ha fatto ciò che ha fatto la Germania dopo il nazismo. Dovrebbe assumersi almeno la responsabilità etica collettiva, anziché nascondersi dietro le Br e basta. Il delitto Moro è stato un delitto d'abbandono e da omissione di soccorso. Vogliono dire, almeno, che Moro è stato lasciato morire?».

Furono posti dubbi sull'equilibrio mentale di Moro, che faceva pervenire lettere dalla prigionia. Carlo Gaudio, in un libro, osserva che alcune sue frasi sono perfetti anagrammi dove avrebbe rivelato il luogo in cui era recluso.

«I principi giuridici che papà segnalava nelle lettere erano gli stessi che insegnava ai suoi studenti da sempre. Che quelle lettere fossero assolutamente lucide e autentiche l'ha sempre detto e scritto ad esempio anche Giuliano Vassalli (è stato ministro di Grazia e Giustizia e presidente della Corte Costituzionale, ndr), amico e collega di papà, che per questo ha pagato: non è diventato presidente della Repubblica. I pochi che si sono esposti durante il sequestro per salvare davvero Moro hanno pagato un prezzo altissimo». 

Qualcuno degli amici di partito di suo padre le fu vicino dopo la tragedia?

«No. Ma Andreotti, notoriamente avversario politico di mio padre, fu l'unico del mondo democristiano a essere stato gentile con me e mio figlio, non una, ma decine di volte. Se gli avessi chiesto aiuto a tempo debito, avrei risolto tutti i problemi.

Ad esempio l'unico democristiano che si congratulò con me per la mia elezione al Senato, nella Dc, fu Andreotti». 

Com' è possibile che il gruppo «P38» sia stato autorizzato a esibirsi in passamontagna in alcuni concerti, come quello organizzato il 1° maggio 2022 da un circolo Arci di Reggio Emilia, inneggiando alle Br e infierendo pesantemente sul dramma di Moro?

«Attraverso il mio avvocato, Angelo Andreatta, del foro di Venezia, li ho denunciati» (il legale specifica di aver depositato la querela presso la Procura di Reggio Emilia, con ipotesi di violazione art. 597 del Codice penale, «offesa alla memoria» e 414, «istigazione a delinquere e apologia di reato», ndr). 

La sua lettera inviata a Bergoglio, nella quale ha chiesto di interrompere la causa di beatificazione in corso per suo padre, a suo avviso offesa da liti per motivi di business, ha avuto risposta? «Il Papa mi ha ricevuto assicurandomi che, finché c'è lui, nessuno approfitterà dell'agonia di mio padre». Pensa che suo padre e Giovanni Battista Montini, Paolo VI, stiano dialogando nell'Oltre? «Certo! Ma papà ora è in salvo, e questo solo conta».

La serie Sky Original. Il caso del sequestro di James Lee Dozier: il colpo di grazia alle Brigate Rosse e il misterioso professor De Tormentis. Redazione su Il Riformista il 7 Giugno 2022. 

Dopo soli tre anni dal sequestro Moro un altro caso scosse le istituzioni e gli apparati di sicurezza italiana. Era il 17 dicembre 1981 quando un gruppo di brigatisti fece irruzione nella casa veronese di James Lee Dozier. Il generale statunitense della NATO venne rapito, sequestrato per 42 giorni. A mettere fine alla prigionia un magistrale blitz nel covo padovano delle Brigate rosse.

Operazione che salvò la vita al generale americano, la faccia degli apparati di sicurezza, l’affidabilità delle autorità di un Paese ancora alle prese con la violenza degli anni di Piombo. Eppure il caso non era chiuso. Solo un capitolo era chiuso. Ed è sul seguito che la docu-serie Sky Original IL SEQUESTRO DOZIER – UN’OPERAZIONE PERFETTA indaga: un seguito controverso, che riguarda le garanzie di uno stato di diritto e la tenuta di una democrazia.

Dopo le pressioni del governo e del generale per evitare il tragico epilogo del sequestro Moro e il magistrale blitz di liberazione si apre un capitolo torbido della storia. Una squadra speciale della polizia di stato venne accusata di aver perpetrato atroci torture e violenze sui brigatisti, sotto diretto ordine delle istituzioni italiane. E il caso si riaprì. “Il confine tra vittime e carnefici si assottiglia”, preannuncia la docu-serie che indaga “un’epoca drammatica della storia italiana, in cui la distinzione tra lecito e proibito si confonde e la violenza non è più solo un’arma del terrorismo, ma pervade l’intero tessuto politico e sociale“.

Quattro puntante, a partire da lunedì 13 giugno: terroristi travestiti da idraulici, il misterioso e anonimo funzionario detto “Professor De Tormentis” per la sua specialità nell’estorcere informazioni con metodi “discutibili”, un blitz di liberazione perfetto, lo sgretolamento delle BR, le testimonianze che aprono uno squarcio inquietante, il magistrato Vittorio Borraccetti che decide di far luce sulla faccenda.

IL SEQUESTRO DOZIER – UN’OPERAZIONE PERFETTA è una nuova docu-serie Sky Original, in arrivo su Sky Documentaries da lunedì 13 giugno alle 21.15 e disponibile anche on demand e in streaming su NOW, che svela gli aspetti più inquietanti di quella che, a distanza di quarant’anni, resta una vicenda controversa. È stata realizzata da Dazzle, scritta da Davide Azzolini, Fulvio Bufi e Massimiliano Virgilio, con la regia di Nicolangelo Gelormini.

Andrea Galli per corriere.it il 7 giugno 2022.

«Un po’ mi annoio. Per fortuna non sono in camera da solo, con me c’è un colonnello della Marina, di Taranto». E che fate, di cosa parlate? «Niente, quello dorme sempre». Lui no. Lui mai. Lui è Lello Liguori, l’unico, originale e assoluto «re delle notti», definizione cui non servono aggiunte: guidò il mitico «Covo di Nord-Est» di Santa Margherita dove si esibirono i più grandi (da Sinatra a Stevie Wonder, da Chet Baker a Mina), mentre a Milano gestì «in contemporanea undici locali» e se ne capisce che, «dovendo stare dietro a tutti e dovendo correre attraverso la città, ecco, mi concedevo appena cinque minuti di riposo, ma in piedi, come i cavalli». 

Adesso siamo sempre a Milano, domenica, afa amazzonica, periferia, una di quelle malate croniche fra degrado e abbandono e dolente umanità; l’ospizio perfino stona col contorno, ordinato e pulito com’è, tacendo della contagiosa gioia di vivere del personale in maggioranza femminile e sudamericano.

Ebbene, Liguori compie gli anni. Sono 87. Elegante e magro, bel portamento. Avevamo chiamato in mattinata domandando se si potesse incontrarlo; nel pretendere da noi l’orario esatto per ragioni di Covid, dalla reception dell’ospizio avevano risposto di no a un secondo interrogativo. Interrogativo fisiologico: non è che avrà altre visite e disturbiamo, insomma è una giornata speciale… 

«Nessuno in agenda». Liguori arriva da quattro matrimoni che hanno generato undici figli: dunque, senza offendere e premesso che sono affari vostri: ma dove sono tutti e tutte? «In settimana delle figlie mi hanno portato una torta di cioccolato. Stia tranquillo: sì, non mi piace campare in ’sto posto; sì, i figli insistono, vorrebbero andassi a stare da loro, giuro...

Però non mi va di pesare, di trasformarli in badanti. Lasciamo perdere. Tanto prima o poi, sicuro, me ne vado. Ho il mio appartamento in piazzale Baracca, mi rifugerò là. Con la mia attuale fidanzata. Quarant’anni, brasiliana. Qualcuno dice che ho avuto mille relazioni sentimentali. Sbagliato: sono state cento. Senza vantarmi, ho praticamente fatto qualsiasi azione si possa fare in un’esistenza». 

Dopodiché, di Beppe Grillo, che Liguori lanciò e del quale non condivide l’esperienza politica, il diretto interessato preferisce non parlare. L’annoiano il ricordo di epocali mosse rivoluzionarie tipo quando portò sul palco un gruppo di travestiti e il pubblico bigotto si scandalizzò, pur lasciando durare l’imbarazzo un attimo ché deflagrarono eccitazione e dipendenza, si sfasciarono matrimoni e sorsero appassionate storie di sesso dei travestiti con donne e dei travestiti con uomini. Annoiano Liguori anche le curiosità inerenti la trasversale e infinita rete di relazioni. 

Per esempio, la mala milanese, che giocoforza (non è i balordi non si divertano, anzi) frequentò i suoi locali. Sicché, signor Lello, fra tutti chi? «Turatello». E com’era? «Retorico discutere delle sue malefatte eccetera eccetera. Era uno intelligente. Altro non c’è da aggiungere. L’intelligenza è il massimo dono. Se ce l’hai, il resto viene di conseguenza, o può benissimo anche non venire». Altri? «Vallanzasca gettò un sacco pieno di bombe dentro una bisca. Momenti difficili, senonché era un avvertimento, le bombe non esplosero». La bisca era sua? «Ma no. Ci stavo giocando a poker».

Del pokerista, quello vero, non da tastiera, Lello Liguori esibisce la morbida postura, la gestualità azzerata, il governo dell’attesa e dei tempi morti, la forza della memoria avendo egli in aggiunta la capacità di certi investigatori: immagazzina frammenti della conversazione come se non gli interessassero, per proporli a sorpresa e a distanza sondando la reazione dell’interlocutore. 

Non ha arie da divo, pur se gli altri ospiti in parte lo venerano e in parte gli saettano contro occhiate invidiose. A proposito di certe mosse da sbirro: per sua ammissione, il signor Lello condivise lunghi momenti col commissario Ettore Filippi, gran poliziotto sottovalutato dai superiori, esperto di terrorismo. Inutile insistere: quali furono gli argomenti delle discussioni, non lo sapremo mai.

Amico di Liguori fu Bettino Craxi, che gli commissionò una mediazione per liberare Aldo Moro. Il signor Lello tentò con i terroristi detenuti nel carcere di Cuneo, senza successo. Eppure rimpianti non ne ha, inteso in senso generale. Dell’odierna Italia nulla gli frega, della Milano contemporanea men che meno. Molteplici editori l’hanno pregato di stendere un’autobiografia, promettendo cifre folli. 

Invano. «Non è una roba di denaro. Il fatto è il seguente: se davvero, ma proprio davvero, io raccontassi soltanto una minima percentuale, scoppierebbero casini epocali a catena: conosco i segreti di tanti, molti, tutti. Quanto ai soldi, tengo un gruzzoletto, custodito dalla segreteria. Mi piace dare il denaro gratis».

Cioè regalarlo? «Non lo regalo: distribuisco senza pretendere restituzioni. I beneficiari si comprano merendine e sigarette, magari della birra, e sono felici. Io non ho bisogno di nulla. Se non di andarmene da ’sto posto».

Esterno notte, Marco Bellocchio nel corpo e nel cuore del caso Moro. Fabio Ferzetti su L'Espresso il 18 Maggio 2022.

Presentata a Cannes la miniserie da oggi nelle sale italiane (e in autunno su Rai1). Che si concentra, anche grazie a un cast eccezionale, la dimensione intima, dunque tragica, di tutti i personaggi coinvolti. Con pagine tanto più efficaci quanto più libere e paradossali.

Il caso Moro come tuffo vertiginoso in una follia tutta italiana, con politici ma anche psichiatri, mitomani, veggenti, intercettazioni che non svelano nulla se non la profondità dello psicodramma vissuto da un intero paese (e in buona parte pilotato da governo, servizi segreti, televisione). 

I 55 giorni di sequestro del presidente Dc, che stava per varare un governo sostenuto dal Partito Comunista, visti non tanto dai luoghi del Potere ma da quelli dell'intimità, in cui del Potere si avvertono gli effetti più remoti e pervasivi: case, cucine, sale da pranzo, camere da letto, perfino confessionali (momento geniale: la brigatista Adriana Faranda che becca il compagno Valerio Morucci a lamentarsi con un prete delle loro difficoltà di coppia). 

Il dramma politico più devastante del dopoguerra scandagliato, ma in parte anche reinventato, in 6 episodi da 55 minuti che non illuminano chissà quali retroscena ma ci portano con crescente emozione nel corpo, nel cuore e talvolta nell'inconscio dei protagonisti.

Presentato in anteprima al Festival di Cannes, da oggi nelle sale italiane (subito i primi tre episodi, dal 9 giugno gli altri, in autunno su Rai1), “Esterno notte” arriva a quasi vent'anni dal film con cui Marco Bellocchio affrontò la prima volta il caso Moro, “Buongiorno, notte”, riprendendone in chiave ipotetica la trovata più “scandalosa” e paradossale, quella che vedeva il presidente Dc sopravvivere al rapimento. Ma approfitta della struttura da miniserie, della stringatezza del linguaggio tv e dell'eccellenza del cast, per cambiare ogni volta agilmente punto di vista.

Prologo e epilogo, più corali, sono dominati anche umanamente dalla figura di Moro (impressionante Fabrizio Gifuni, al culmine di un lungo lavoro anche teatrale sullo statista). I quattro episodi centrali invece esplorano altrettanti microcosmi. Ci sono i tormenti di Cossiga (Fausto Russo Alesi) e quelli di Paolo VI (Toni Servillo). Le lacerazioni vissute in casa Moro (con Margherita Buy nei panni della moglie del leader Dc) e quelle, non solo politiche ma sempre inevitabilmente anche personali, che dividono i brigatisti. Da un lato, maggioritaria, l'ala dei duri, che non vuole concedere nulla al nemico ed è decisa a eliminare l'ostaggio in ogni caso. Dall'altro chi, come Adriana Faranda (Daniela Marra), si pone problemi non solo umanitari ma politici. Perché condannare Moro al martirio facendo un favore proprio alla Dc, che lo abbandona, lo denigra e lo delegittima fin dal primo momento? E poi, siamo proprio sicuri che la fiammata di entusiasmo generata dal sequestro nelle frange più estreme dell'ultrasinistra sia un buon investimento (è il succo della bella scena in cui le BR discutono col “mediatore” Lanfranco Pace)? 

La discussione potrebbe portare lontano, ma Bellocchio (con Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino alla sceneggiatura) non si avventura sul terreno scivoloso dei retroscena e dei manovratori occulti. Anche il contesto internazionale è sintetizzato nella figura di un consigliere “amerikano”, come si diceva allora, che la sa lunga ma in definitiva capisce poco d'Italia e di italiani. Mentre a emergere con forza in “Esterno notte” è la dimensione intima, dunque tragica, di tutti i personaggi coinvolti, dai protagonisti ai semplici comprimari. Con pagine tanto più efficaci quanto più libere e paradossali. Tanto che alla fine della maratona – sono 330 minuti - a restare in testa non sono tanto le scene più a effetto, la visione di Moro che trascina una croce, l'invettiva di Cossiga contro quella congrega di generali (“tutti massoni o ex-fascisti”) che non farà nulla per salvare il rapito, o le rapide sintesi del quadro politico (con una sola apparizione per Craxi e poco più per Berlinguer). 

No, ad accompagnarci, anche a visione finita, è Moro che a tarda sera, solo, si fa l'uovo al tegamino in cucina; è Cossiga che prega la moglie di farlo dormire con lei; sono Faranda e Morucci travolti da raptus erotico (il che non impedisce a lei di portarsi la pistola in camera da letto); sono il ghiaccio e il fango, così simbolici, del Lago della Duchessa. Senza dimenticare la furibonda discussione in cui Faranda scopre che il suo compagno non crede alla rivoluzione, anzi è vocato alla sconfitta (“Hai ucciso cinque padri di famiglia e non ci credevi! Io per la causa ho lasciato mia figlia, ho abortito, e tu non ci credevi...”). 

Difficile comunque credere che “Esterno notte” farà l'unanimità. Qualcuno magari, dopo la scomunica preventiva di Maria Fida Moro, accuserà Bellocchio di aver romanzato troppo, o di aver dato eccessiva dignità ai terroristi, o di aver semplificato il quadro politico. Ma la forza di questa miniserie così anomala sta proprio nella molteplicità dei punti di vista, nello sguardo quasi “psicopatologico” poggiato sui protagonisti, nella capacità di evocare un'intera epoca con tocchi anche bizzarri (accanto a poche doverose immagini di repertorio, e ad alcune citazioni cinematografiche, compare un immaginario film sul sequestro girato quasi in diretta). Lasciando sulle spalle di Moro e delle sue lettere, mai abbastanza lette e commentate, il peso dell'emozione più autentica. “Vorrei capire con i miei piccoli occhi mortali – scrive nell'ultima indirizzata a sua moglie – come ci si vedrà, dopo. Se ci fosse luce sarebbe bellissimo”. 

La lotta tra ragion di Stato e ragion di rivoluzione. Bellocchio ha capito la tragedia di Moro: “Esterno notte” dopo 44 anni prova a chiarire il mistero. David Romoli su Il Riformista il 20 Maggio 2022. 

È un’impresa molto ambiziosa Esterno notte, il fluviale film in due parti sul sequestro Moro, realizzato da Marco Bellocchio e presentato a Cannes. In quasi sei ore, divise in due parti al cinema e in sei puntate nel serial tv, Bellocchio racconta non la tragedia del presidente sequestrato e dei suoi rapitori ma quella dell’intero Paese, della sua classe politica, della sua cultura mediatica. Dovrebbe essere l’aspetto saliente in ogni tentativo di ricostruzione storica di quei 55 giorni tragici e cruciali. Invece, nonostante le centinaia e forse migliaia di volumi usciti sul caso, i titoli dedicati a quello che successe allora nel Palazzo, nelle sedi politiche e istituzionali, nelle redazioni che indirizzavano l’opinione pubblica, si contano su una mano sola.

Quello di Bellocchio è un film e un bel film, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni, che restituisce un Moro perfetto, Margherita Buy, altrettanto brava nei panni di Eleonora Moro, Toni Servillo che presta le fattezze ai tormenti di Paolo VI, Fausto Russo Alessi sorprendente nel mettere in scena la figura forse più travagliata e lacerata tra tutti i politici, l’allora ministro degli Interni Cossiga. Ma è anche un grandioso quadro che propone per la prima volta al grande pubblico una visione storica di quella tragedia, di solito limitata all’affastellamento di misteri inesistenti e trame da spy-story sgangherata. Dietro le Br non c’era nessuno: non muovevano i fili burattinai incappucciati, non occupavano la cabina di regia emissari di Washington o Mosca, non c’erano “grandi vecchi” di sorta. Su questo punto chiave il film di Bellocchio è tassativo e impeccabile: basterebbe, dopo l’alluvione di ipotesi sempre più strampalate, a renderlo una pietra miliare. Chi fossero i rapitori di Moro, chi li muovesse, Bellocchio lo fa dire all’uomo di Washington, l’agente inviato dal presidente Carter per coadiuvare le indagini, Steve Pieczenick.

I suoi dialoghi con Cossiga non sono però parto della fantasia degli sceneggiatori (lo stesso Bellocchio, Stefano Bises, Ludovica Rampoldi e Davide Serino). Riassumono quanto raccontato dall’americano nel suo libro sulla vicenda mai tradotto in italiano: “Non c’è bisogno di cercare sempre un secondo e un terzo movente dietro il primo come siete abituati a fare voi italiani”. Le Br erano quel che dicevano di essere: un gruppo comunista rivoluzionario armato, non controllato da nessuno. Bellocchio sfata anche la leggenda nera per cui, a un certo punto, l’intero apparato statale avrebbe voluto Moro morto. Le reazioni dei leader politici nel film sono molto diverse. C’è un abisso tra la sofferenza di Cossiga, Zaccagnini o Paolo VI e il gelo arido di Andreotti. Ma nessuno, neppure il divo Giulio, si adopera perché la vicenda si concluda con l’esecuzione dell’ostaggio. Tutti, inclusi i comunisti, accettano di pagare un riscatto vertiginoso, 20 mld di lire, peraltro in buona parte raggranellato proprio da Andreotti, in cambio della vita di Moro. C’è tuttavia un confine, quello del “riconoscimento politico”, che nessuno nella Dc era disposto a superare in nome di una ragione di Stato che, non senza scatenare in alcuni sensi di colpa mai superati, fece premio su qualsiasi altra considerazione.

Bellocchio è preciso e affilato nel descrivere il conflitto anche interiore tra quella ragion di Stato e le ragioni umane del sentimento e degli affetti, contrapponendo da un lato la famiglia Moro al palazzo e dall’altro i dubbi di Adriana Faranda, brigatista dissidente, a quelli del capo Mario Moretti. È meno netto nel chiarire i contorni della partita politica giocata intorno alla cella di Aldo Moro e dunque gli elementi che sostanziarono quella “ragion di Stato”. Il veto del Pci, che minacciava la crisi di governo in caso di trattativa, fu determinante nell’imporre la fermezza a una Dc che temeva di sfidare le urne. Dopo la sostanziale parità registrata col voto del 1976, il Pci, presentandosi come solo e vero “partito della fermezza” , avrebbe infatti vinto le elezioni. La sola possibilità di negoziato era affidata a una trattiva segreta, come quella che aveva cercato di intavolare Moro con la lettera a Cossiga del 29 marzo. La lettera non avrebbe dovuto essere resa pubblica. Le Br scelsero invece, tradendo l’impegno assunto col prigioniero, di renderla nota. Persero così la sola possibilità di arrivare a un esito positivo del sequestro e Bellocchio rende giustamente decisivo nell’evolversi della tragedia quel passaggio.

Il lungo film è anche molto esplicito e onesto nell’illustrare come e perché la politica scelse di “delegittimare” l’ostaggio, le sue posizioni che invocavano la trattativa e le sue possibili rivelazioni, facendolo letteralmente passare per pazzo. Quasi tutti lo fecero, mostra Bellocchio, con sofferenza, sensi di colpa, tempeste interiori. Ma alla fine per tutti, incluso Paolo VI col discorso quasi dettato da Andreotti in cui chiedeva la “liberazione senza condizioni”, prevalse la ragion di Stato. Alla quale si contrappongono Eleonora Moro, in una sorta di ripetizione moderna e reale del conflitto tra Antigone e Creonte, e lo stesso Moro, nel colloquio finale con il suo confessore, don Mennini. Il regista ipotizza infatti che i carcerieri abbiano concesso al confessore di visitare l’ostaggio subito prima dell’esecuzione. È improbabile che le cose siano andate davvero così, anche se si tratta di una voce che circola da decenni. Ma qui si tratta in realtà quasi di una licenza poetica, che permette a Bellocchio di far parlare Moro e di fargli ammettere la sua “colpa”: quella, umanissima, di non voler morire.

Ai brigatisti il film dedica uno spazio limitato. Ne compaiono solo tre: Mario Moretti, Valerio Morucci e Adriana Faranda. Il primo incarna, sul fronte opposto della barricata, la stessa ottica che spinse lo Stato verso la fermezza, in nome di una “ragione rivoluzionaria” non diversa da quella “di Stato”. Tra gli altri due, i dissidenti che avrebbero voluto salvare Moro, soprattutto Adriana Faranda è in qualche misura speculare alla famiglia Moro. Il suo dissenso è motivato in parte dal ragionamento politico, dalla convinzione che la liberazione dell’ostaggio sarebbe stata per il sistema più destabilizzante della sua uccisione. Ma a fianco di quel calcolo c’è anche e soprattutto, fatto intuire più che dichiarato, un rifiuto della “ragione rivoluzionaria” che è la stella polare di Moretti come quella di Stato lo è di Andreotti. Si può non essere d’accordo su molti aspetti dell’opera di Bellocchio, ad esempio sulla sua convinzione che il compromesso storico voluto da Berlinguer e Moro fosse la strada giusta per rendere l’Italia una democrazia compiuta e più giusta. Ma il suo film resta la prima opera storicamente valida e rigorosa sulla principale tragedia politica della Repubblica italiana. David Romoli

LA SERIE DI BELLOCCHIO SU MORO. Bellocchio racconta Moro, l’uomo che «doveva morire». TERESA MARCHESI su Il Domani il 17 maggio 2022

Tecnicamente “serie”, ma opera cinematografica a tutti gli effetti, Esterno notte andrebbe goduto in sequenza. Cinque ore e mezzo non sono poche, ma è un privilegio.

I suoi effetti speciali sono semplicemente cervello e regia. A ottantadue anni  sembra un talento ancora in crescita.

Ognuno, dal “figlio” Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) al “padre” Paolo VI (Toni Servillo), dai familiari trainati dalla fierezza di Eleonora Moro (Margherita Buy) ai brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci (Daniela Marra e Gabriel Montesi), vive a partire da quel 16 marzo una tragedia diversa.

JFK, di Oliver Stone, Z-L’Orgia del potere di Costa-Gavras, in parte Anni di piombo di Margarethe Von Trotta. Non sono poi tanti, nella storia del cinema, i film che hanno avuto l’ambizione e la capacità di mettere sotto processo una classe politica. Marco Bellocchio, consultato, aggiunge Il Divo di Paolo Sorrentino. Ma la sensibilità politica di Bellocchio, anche ma non solo per questioni anagrafiche, è molto diversa da quella di Sorrentino.

Esterno Notte è la prima avventura seriale di Marco Bellocchio che torna a misurarsi, quasi vent’anni dopo Buongiorno notte, con il trauma incancellabile del sequestro e della morte di Aldo Moro. È agli onori di Cannes 75, al secondo giorno di Festival, nella sezione Première. La prima parte in Italia è già in sala da oggi con Lucky Red, la seconda uscirà il 9 giugno. In autunno i sei episodi saranno trasmessi su Rai 1. E fa sorridere in prospettiva l’idea che sotto la sigla Rai Fiction, che figura nel team produttivo, vada in onda un prodotto così inconciliabile con gli standard cari alla tivù pubblica, per non dire delle private.

DA GODERE IN SEQUENZA

Tecnicamente “serie”, ma opera cinematografica a tutti gli effetti, Esterno notte andrebbe goduto in sequenza. Cinque ore e mezzo non sono poche, ma è un privilegio. E andrebbe goduto, da chi come me in quel 1978 era già adulto e pensante, facendo tabula rasa di memorie e retaggi ideologici.

La folgorante immersione umana di Fabrizio Gifuni nella ricostruzione artistica di Moro è un ausilio cruciale. Racconto emotivo, più che politico, secondo Stefano Bises – sceneggiatore insieme al regista, a Ludovica Rampoldi e a Davide Serino – è un film che scava di fatto nell’essenza profonda della politica, in «quell’evidente silenzio» di cui parlava il presidente della Dc in una delle sue ultime lettere al fedele Benigno Zaccagnini. Un silenzio che è diventato, nel corso degli anni e delle generazioni, rimozione collettiva di un intero paese. Le domande di Fabrizio Gifuni, che aveva lavorato per il teatro sulle carte di Moro, si sono intrecciate a quelle di Bellocchio: due magnifiche ossessioni in cortocircuito.

Rielaborato lungo due anni di riscrittura, il racconto di quei 55 giorni senza respiro segue uno schema di sperimentata efficacia narrativa: ogni episodio riparte da zero, proponendo i punti di vista degli uomini e delle donne più strettamente legati ai destini di un politico colpevole di aver guardato troppo avanti per i suoi tempi. In un’Italia lacerata dallo scontro politico tra gli ultimi fuochi delle utopie e il monolite del potere democristiano, con Moro impegnato nell’estrema battaglia interna per «includere quel 33 per cento di italiani che non hanno votato per noi», ognuno, dal “figlio” Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi) al “padre” Paolo VI (Toni Servillo), dai familiari trainati dalla fierezza di Eleonora Moro (Margherita Buy) ai brigatisti Adriana Faranda e Valerio Morucci (Daniela Marra e Gabriel Montesi), vive a partire da quel 16 marzo una tragedia diversa. Ma è proprio questo confronto a illuminare sui retroscena della linea della fermezza. Figura sbiadita per la rigidità degli argomenti, nella versione Bellocchio, Enrico Berlinguer non è un personaggio chiave. Lo è, ovviamente, Giulio Andreotti, incarnazione del Potere su cui Bellocchio si era già esercitato con sottile perfidia ne Il Traditore.

IL POTERE DEI SIMBOLI

Il sogno di Aldo Moro uscito vivo dalla prigionia, che era il finale di Buongiorno notte, qui si ripete all’inizio e alla fine del film. Ma nello sguardo che rivolge al trio schierato davanti al suo letto d’ospedale – Andreotti, Cossiga e Zaccagnini – c’è una condanna implacabile. È un miraggio a servizio di una domanda: cosa sarebbe accaduto nell’universo parallelo di un diverso epilogo?

«Mi dimetto dalla Dc, rinuncio a tutte le cariche»: Moro lo aveva scritto, in quei giorni. E in un altro indecifrabile passo ringraziava le Br «a cui devo la salvezza della vita e la restituzione della libertà». Non c’è immaginazione capace di partorire un thriller storico di questa portata, con la sua rete di trame, pressioni, speranze, false piste, incoscienza e follia. Ma l’immaginazione può materializzare incubi, sogni, sensi di colpa di chi ha scelto di chiudere gli occhi. C’è Macbeth dietro le ossessioni che il regista attribuisce a Cossiga. È un ministro dell’Interno che vede macchie sulle proprie mani, invisibili agli altri, paralizzato dagli occhi di Moro nel volantino Br: «Mi sta guardando».

È il potere, squisitamente cinematografico, dei simboli e delle allegorie. Logorato dalla malattia, Paolo VI, che morirà sei mesi dopo, prova in camera le croci che vorrebbe portare sulla Via Crucis, tutte troppo pesanti per le sue spalle. E sogna Moro che come Cristo la porta in sua vece, isolato dalla nomenklatura del suo partito. È il linguaggio dei sentimenti che dilata i fatti, la cronaca nuda, e trasforma lo spettatore non in giudice, ma in testimone.

Il tentativo di riscatto compiuto dal Vaticano non è un’idea astratta, ma una montagna di bigliettoni, concreta, tangibile. Sulla lettera ai brigatisti per implorare il rilascio senza condizioni né contropartite, come ha imposto Andreotti, il Papa suda, si inciampa, sono parole impossibili, senza senso. Ed Eleonora “Noretta” Moro, anima di una battaglia di pietas contro tutto e contro tutti, davanti a quella missiva reagisce: «Si è arreso anche lui!»

Appartiene alla cronaca la strategia di annullare il valore morale delle prime lettere scritte da Moro dichiarandolo pazzo, mentalmente demolito dai carcerieri. Ma è rivoltante il dialogo – tanto fittizio quanto credibile – in cui il “consulente Cia” inviato dagli Usa teorizza la necessità di screditare l’ostaggio. Non dispone dei mezzi pachidermici delle grandi produzioni seriali a stelle e strisce, Marco Bellocchio. Lo scarto tra i grandi interpreti e le prestazioni-lampo dei figuranti di sfondo a volte è stridente, perché non abbiamo il vivaio di talenti freschi dei sistemi competitivi. I suoi effetti speciali sono semplicemente cervello e regia. A ottantadue anni sembra un talento ancora in crescita.

LO SGUARDO SUI BRIGATISTI

Qualcuno noterà che nel corso del tempo lo sguardo dell’uomo sui brigatisti si è andato modificando. Sono figure su cui ha ragionato fin dai tempi di Diavolo in corpo, appartenendo a una generazione che di utopie politiche si è nutrita, a vent’anni, fino a farne un perno della propria esistenza. Protagonisti nel racconto di Buongiorno notte, qui i brigatisti, nella genesi del progetto, non erano contemplati, benché l’interesse per il percorso di Adriana Faranda avesse suggerito in passato al regista l’idea di un possibile film.

Ma c’è un versante del partito della trattativa con cui Bellocchio ha voluto spezzare il cieco fronte della lotta armata. C’è un ribollire di dubbi nella sua Faranda, non a caso una donna, non a caso una madre che ha sacrificato sua figlia. I suoi compagni sono sordi e grotteschi, monoliti senza domani. Lei, nei suoi incubi, vede scorrere cadaveri sulla corrente placida di un fiume. In un’opera intrisa di citazioni da schermo, Il mucchio selvaggio di Sam Peckinpah è la chiave per leggere la funerea Weltanschauung delle Br: non il fantasma della rivoluzione proletaria, ma morire da eroi dopo una bella strage.

Taccio volutamente della vera eroina del film, Eleonora Moro: è una sorpresa da non guastare, come l’impennata di scrittura e recitazione dell’episodio finale, come il lavoro emozionante di non-star, Paolo Pierobon, Fabrizio Contri, Gigio Alberti. Il tremendo spettacolo del Potere si è consumato. La morte ha fatto l’uovo, con un aiutino dai piani alti.

Come da esplicita richiesta dello statista, la famiglia rifiuterà i funerali di stato, che verranno celebrati comunque, il 13 maggio, senza feretro, senza il martire che non voleva essere martire. È la tragica farsa di un paese che celebra le proprie esequie. Quell’uomo, come Cristo, «doveva morire», scrive Bellocchio. Perché nulla potesse cambiare non solo nella politica, ma nella mente degli italiani. 

TERESA MARCHESI.  Critica cinematografica e regista. Ha seguito per 27 anni come inviata speciale i grandi eventi di cinema e musica per il Tg3 Rai. Come regista ha diretto due documentari, Effedià - Sulla mia cattiva strada, su Fabrizio De André, presentato al Festival del Cinema di Roma e al Lincoln Center di New York, premiato con un Nastro d'Argento speciale, e Pivano Blues, su Fernanda Pivano. presentato in selezione ufficiale alla Mostra di Venezia e premiato come miglior film dalla Giuria del Biografilm Festival.

Bellocchio torna al caso Moro e lo fa sbarcare sulla Croisette. Stefano Giani il 17 Maggio 2022 su Il Giornale.

In "Esterno notte" il regista rimette in scena la tragedia dello statista. Stavolta in una serie. E senza compromessi.

Hanno ammazzato Moro. Moro è vivo. E si dimette dalla Dc in rotta con ogni meccanismo del partito. Via Caetani. Baule di una Renault rossa. Il sacrificio è compiuto. Lo statista, accreditato a diventare presidente della Repubblica, di lì a qualche mese alla scadenza di Giovanni Leone, si trasforma invece nel martire di uno Stato che celebra i funerali di se stesso. Manca infatti il protagonista delle esequie. Il defunto.

Per lui, cerimonia in forma privata e passerella dei papaveroni politici fine anni Settanta senza Aldo Moro. L'artefice del compromesso storico. L'uomo per il quale un papa - Paolo VI - si era schierato apertamente. Il vicario di Cristo nel mondo, la quintessenza dell'ultraterreno, si era fatto inequivocabilmente terreno. Ma - come anni prima con Franco che supplicò per abolire la pena di morte - non venne ascoltato nemmeno dai brigatisti rossi ai quali chiese di liberare il presidente della Dc senza pretendere nulla in cambio.

Erano gli anni di piombo. Un sistema che vacillava. Marco Bellocchio, che nel 2003 li aveva raccontati in Buongiorno notte, torna sull'argomento con una serie tv in sei puntate di un'ora (protagonista Fabrizio Gifuni)che assaggerà la sala cinematografica dal 18 maggio con le prime tre parti e dal 9 giugno con le ultime tre. In autunno Esterno notte verrà programmato su Raiuno. Intanto arriva a Cannes per il credito di stima di cui gode il regista piacentino presso il direttore del Festival, Thierry Fremaux che un anno fa lo aveva premiato con la Palma d'oro alla carriera.

A gennaio, in una chiacchierata informale, era venuto a conoscenza del progetto di Bellocchio. Tempo quindici giorni, con un cartellone ancora tutto da definire, è arrivata la telefonata. «È il primo film che scelgo», diceva il francese. Ed è dai tempi de La meglio gioventù di Marco Tullio Giordana che un'opera così massiccia non sbarcava sulla Croisette. Stavolta il caso Moro, studiato come serie tv, trova un posto nella rassegna cinematografica più prestigiosa del mondo. E descrive l'esterno della notte più buia della Repubblica. Non più, quindi, un'esegesi degli eventi. Né un racconto degli accadimenti ma come è stato vissuto il sequestro e la condanna a morte dell'onorevole Aldo Moro. L'esterno, appunto.

Ne esce un quadro impietoso che non risparmia accuse brucianti, cui nessuno è esente. L'ambiguo Francesco Cossiga, ministro dell'Interno e pupillo del presidente Dc che non ha saputo proteggere dai rischi del terrorismo. Il cinico Giulio Andreotti, ritratto del male assoluto. Il gelido Benigno Zaccagnini, segretario Dc e icona di quegli squali che nuotano in parlamento e - tra la retorica di circostanza - lasciano morire un «amico». Il freddo e negativo Enrico Berlinguer. Il dolore dei familiari di Moro che cozza contro il muro di falsità della politica militante e lo zelo iconoclasta di una lotta armata che anch'essa firma la sua fine con i proiettili che spengono la vita dello statista.

Esterno notte è opera di grande corporeità perché, anche attraverso la fisicità, viene descritta la tragedia. Il divo Giulio cede alle convulsioni dopo la notizia dell'agguato di via Fani. Cossiga è divorato da una tensione che gli consuma la pelle. Il pontefice crolla progressivamente verso la china finale e morirà due mesi dopo il tragico rinvenimento della Renault rossa. Sangue sull'arte. La settima.

Il cinema evocato tra riferimenti ad Anima persa e Il mucchio selvaggio, titoli emblematici che rappresentano l'agnello sacrificale Moro e il terrorista Valerio Morucci in un dedalo di incroci che solo alla fine mostra i volti dolenti dei veri protagonisti. E colpiscono maggiormente proprio nell'anticlimax verso l'abisso con quel funerale senza defunto dove i veri cadaveri sono quelli delle «autorità», ignare di celebrare la morte di uno Stato di cui sono espressione mentre la stessa lotta armata firma la sua morte. Esterno di una notte senza fine.

“Esterno Notte”: Bellocchio torna sul caso Moro, ferita senza pace. Serena Nannelli il 21 Maggio 2022 su Il Giornale.

Il regista riesamina il sequestro Moro firmando, oltre che un j’accuse politico e umano, l’affresco degli idealismi infranti di un intero Paese.

Esterno notte di Marco Bellocchio, opera presentata il secondo giorno del Festival di Cannes in corso, è attualmente al cinema e ripercorre uno dei momenti più drammatici della storia della Repubblica Italiana: il sequestro Moro.

Allo stesso tema il regista aveva già dedicato nel 2003 il film “Buongiorno Notte”, ma se quasi vent’anni fa il fatto era inquadrato cinematograficamente dal punto di vista di una giovane terrorista coinvolta nel rapimento, oggi Bellocchio sposta la narrazione, come “annunciato” nel titolo, all’esterno di quel cubicolo in cui per 55 giorni Moro trascorse la prigionia, proponendo i medesimi eventi vissuti dalla prospettiva ora dal rapito, ora dai suoi colleghi e pseudo-amici, ora dalla famiglia, ora dai brigatisti. A ogni episodio o capitolo che dir si voglia, a seconda che si percepisca l’opera come miniserie o lungo film, scopriamo la reazione di chi pur non essendo fisicamente accanto a Moro è gioco forza sotto il giogo dello stesso dramma.

La dilatazione temporale in quasi sei ore di girato permette un approfondimento degli ideali, delle motivazioni profonde e delle fragilità di tutte le parti interessate.

Si va dalle stanze dei bottoni, in cui protagonista è soprattutto il Ministro dell'Interno Francesco Cossiga (Fausto Russo Alesi), a quelle vaticane di Papa Paolo VI (Toni Servillo), dalla dimensione domestica di Eleonora Moro (Margherita Buy) alle divisioni interne che nascono tra gli aguzzini.

L’incipit, dopo l’immaginifica sequenza in cui Moro appare liberato e grato alle Brigate Rosse per la clemenza (ma non siamo nel revisionismo storico alla Tarantino), si sofferma sulla genesi dell’astio trasversale per quest’uomo gentile e onesto: i tempi non erano maturi per la sua visione politica, l’ipotesi del compromesso storico tra DC e PCI agitava gli animi e creava nemici ovunque.

In “Esterno notte” la corte di politici pullula di personaggi faziosi o vili o ipocriti, con focus su un Cossiga disturbato e irrisolto al punto da venire poi definito “bipolare”. Lo vediamo vittima di psoriasi psicosomatica, nonché paralizzato da allucinazioni paranoiche. Il suo assurdo peregrinare tra intercettazioni telefoniche, consulenze e false speranze, regala piccoli scorci di assurdo, le sole parentesi ilari dell’intero racconto. Andreotti (Fabrizio Contri) è il ritratto dell’impenetrabilità ma bastano un paio di pennellate a definirne il pericoloso sposalizio tra essenza autoindulgente e rigidità bacchettona. Verso la fine della narrazione non si faranno sconti a quella che viene etichettata come laida ignavia, ma sarà durante l’unico momento di vera fiction, ossia la confessione di un condannato a morte che nella realtà nessuno ha udito ma il cui supposto contenuto deve aver pungolato a lungo molte coscienze.

In “Esterno Notte” sono molti gli uomini tutto sommato mediocri ma raffigurati in posizioni di potere (istituzionale o criminale che sia). Perfino di una figura di indubbia statura spirituale come papa Paolo VI si accentuano il senso di inadeguatezza, la confusione e l'umana indecisione. In alcuni è la mancanza di lungimiranza, in altri lo scarso coraggio, ma il risultato non cambia: ognuno ha le proprie colpe.

Bellocchio ben raffigura la genesi della tempesta perfetta. Moro è circondato da segnali in ogni dove, dalle scritte sui muri delle strade che percorre quotidianamente in auto agli onnipresenti slogan urlati nei cortei di piazza, fino alle incursioni di falsi studenti alle sue lezioni all’Università. Sono gli “Anni di Piombo”, quelli in cui il malcontento e la tensione sociale sfociano in una ribellione che diventa violenza multiforme.

La ricostruzione del gioco di corresponsabilità tra istituzioni e brigatisti rende evidente come i carnefici raramente indossino una sola casacca quando in gioco sono gli interessi di molti.

Bellocchio, al netto di qualche licenza poetica, ha grande lucidità nel descrivere quello che fu un vero attacco al cuore dello Stato. Tra trattative, fallimenti, depistaggi e certe teorie astruse, il tempo scorre scandito dalle lettere del rapito e dai comunicati dei brigatisti.

Se il coinvolgimento di Servillo, la cui bravura non si discute, pare non essere stata la scelta giusta (stavolta l’iconicità dell’attore inficia la credibilità del personaggio), la performance di Gifuni nei panni del riflessivo e pacato statista democristiano è invece qualcosa di memorabile.

L’interprete, che aveva già portato a teatro la lettura delle lettere scritte da Aldo Moro durante la prigionia, incarna lo sfortunato politico in maniera impressionante. Il tono placido eppure di straordinaria intensità con cui pronuncia parole misurate e piene di decoro, la voce così scrupolosamente simile e la presenza scenica enorme pur coniugata in piccoli gesti non hanno eguali se non, appunto, nel fu Moro. Anche quando non è fisicamente in scena, lo spettro del suo personaggio resta potente nel tormento emotivo di tanti.

La caratterizzazione meticolosa in "Esterno notte" non riguarda solo i personaggi ma anche il tessuto valoriale di anni in cui convivono una religiosità che ancora crede nel cilicio, una rabbia ideologica che non esita a farsi armata e sanguinaria e un’utopia politica destinata a restare vittima del proprio ottimismo. Sembra che nella via crucis di un uomo si rifletta quella di ogni forma di idealismo del tempo.

“Esterno notte” non è solo il solenne “De Profundis” di una persona, ma di un’epoca.

Bellocchio, offrendo una panoramica drammaturgica dell'Italia di ieri agli italiani di oggi, costringe a riflettere su un passato ancora vivo. Prendere coscienza di come alcuni accadimenti siano stati e restino una questione morale oltre che istituzionale, è un atto di civiltà.

La prima parte dell'opera è in sala, la seconda uscirà il 9 Giugno mentre l'insieme, in formato di mini-serie, andrà in onda in autunno sulla Rai.

Marco Giusti per Dagospia il 18 maggio 2022.

Cannes. Seconda giornata. Siete pronti per “Esterno notte”, serie di sei puntate, o se preferite film di sei ore o sei film di un’ora l’uno, dedicati al rapimento Moro e ai suoi principali protagonisti? Ve lo dico subito. E’ di gran lunga il miglior film italiano della stagione, imperdibile per chi ha vissuto quegli anni, perché Bellocchio conosce alla perfezione le storie e i personaggi che sta mettendo in scena, che solo in parte ha già ricostruito nel bellissimo “Buongiorno, notte” vent’anni fa, perché questo sembra proprio coprire quello che nel primo film non si vedeva, l’esterno del buio profondo della prigione di Moro, la notte profonda della nostra Repubblica.

E non si fanno sconti. “Io odio Giulio Andreotti”, dirà nella sua ultima apparizione Aldo Moro, ritenendo il Presidente del Consiglio e suo collega di partito il vero regista dell’intera vicenda e della sua morte. 

E Francesco Cossiga? “Un ingrato… un bipolare… un ciclotimico”. E la Democrazia Cristiana, il suo partito? La Democrazia Cristiana la sbriga già nella prima, incredibile scena, dove vediamo tutti i nomi più potenti del suo partito che lo vanno a trovare “da vivo” dopo il rapimento delle BR. Qualcosa da cui scappare per sempre.

Come già accadde in “Buongiorno notte”, Bellocchio si prende il lusso di dipingere altri scenari possibili, solo se le BR lo avessero salvato, come ci dicevamo fra di noi allora. Moro vivo… Moro morto… Ma a chi sarebbe convenuto un Moro vivo? 

Non certo alla DC e a Andreotti, né al PCI di Berlinguer, né ai servizi americani, che attraverso Cossiga conducono la loro strategia. Mentre Craxi è per trattare, intuendo che è quello che gli americani non vogliono. Certo che sarebbe convenuto alle BR. Che con Moro vivo magari non sarebbero state decapitate come accadrà neanche due anni dopo. Il meccanismo dei due diversi finali possibili del caso Moro serve a Bellocchio per spiegare politicamente la scelta-non scelta di Andreotti e soci e quella delle BR, che impongono la morte di Moro anche a chi, come Morucci e Faranda, lo vedevano come un terribile errore politico.

Ma cosa ci possiamo aspettare da un uomo della cultura di Mario Moretti, un perito elettronico?, si domanda il colto Cossiga, quattro lauree, cinque lingue parlate, una passione quasi delirante per le intercettazioni, per sentire la vita degli altri, per registrare qualsiasi cosa. Mentre a casa soffre perché la moglie continua a rifiutarlo e le mani si riempiono di impetigine. La serie è divisa in sei parti ben distinte, ognuna dedicata a un personaggio della storia. La prima parte spetta ovviamente a Aldo Moro, interpretato alla perfezione da Fabrizio Gifuni, più vicino al Volonté di “Il caso Moro” di Giuseppe Ferrara che al Roberto Herlitzka di “Buongiorno notte”, a pochi giorni dal rapimento mentre tesse il Compromesso Storico col PCI di Berlinguer per la prima volta in appoggio esterno al governo DC, cercando così di aprire il paese a un nuovo corso. Che non arriverà mai.

La seconda è dedicata a Francesco Cossiga, interpretato con giusta nevrotica complessità da Fausto Russo Alesi, al tempo Ministro dell’Interno, pupillo di Moro, quasi un figlio politico, che vede il rapimento come la sua stessa fine politica. La terza invece è dedicata alla figura di Paolo VI, interpretato con giusta solennità da Toni Servillo, un Pontefice già molto malato e sofferente che cerca di salvare come può l’amico fraterno punendosi con un cilicio quasi medievale e poi servendosi di un personaggio di mediazione, Don Curione, interpretato con grande umanità da Paolo Pierobon, che terminerà con la celebre lettera del Papa agli “uomini delle Brigate Rosse” per chiedere la liberazione di Moro.

La quarta, è dedicata alla figura di Adriana Faranda, interpreta da Daniela Marra, bravissima e credibilissima, che lascia la famiglia e la figlioletta per seguire la via della rivoluzione con Valerio Morucci, benissimo interpretato da Gabriel Montesi, che già fu un perfetto Cassano nella serie dedicata a Totti “Speravo de morì prima”. Attraverso la figura della Faranda, Bellocchio scava sull’evidente errore politico di Moretti e delle BR e ci riporta in maniera incredibilmente presente alla realtà di quei giorni. La quinta è dedicata a Nora, la moglie di Moro, interpretata con toni asciutti e profondi da Margherita Buy, nel momento più tragico della vicenda, quando cioè si accorge che il partito, la DC, non muoverà un dito per la salvezza del marito.

La sesta e ultima puntata deve concludere l’intera vicenda con la morte di Moro e la sua macabra messa in scena. Inutile dirvi per tutte le sei ore, malgrado una sceneggiatura complessa dove le storie dei singoli personaggi si intrecciano, Bellocchio tiene perfettamente in pugno il suo film e la sua costruzione non lineare, usando certi momenti ritornanti come puntelli per farci meglio capire la storia e i suoi tempi sfalsati. 

E se possiamo preferire il bellissimo episodio del Papa e di Don Curione o quello ultrarealistico della coppia Morucci-Faranda o quello più originale dedicato a Cossiga, non mancano mai né le sorprese del meccanismo narrativo né quelle di pura messa in scena, la grande tavola di Roma che gronda sangue sotto gli occhi di Cossiga, Andreotti, interpretato da Fabrizio Contri, che quando sente del rapimento di Moro, si chiude in bagno e vomita, le scene di rivolta per le strade con gli slogan, il ritorno dei percorsi romani più tipici pieni di scritte d’epoca, la Via Crucis, l’uso dei repertori televisivi con Bruno Vespa e Emilio Fede.

Bellocchio non solo ingloba nella serie, sfruttandola, l’esperienza di “Buongiorno notte”, non solo ingloba gli altri film girati su Moro, dal grottesco di “Todo Modo” di Elio Petri al realismo non sofisticatissimo del “Caso Moro” di Ferrara, che pure aveva fior di attori, da Volonté a Margarita Lozano, ma tocca anche il nuovo grottesco sorrentiniano di “Il Divo” e di “The New Pope”, riuscendo sempre però a imporre un suo sguardo preciso, mai moralista, sulla storia, sui tempi, sulla follia della lotta armata, su quello che significò per tutti noi la morte di Roma. Una morte che porterà alla fine delle BR e alla nascita della Prima Repubblica, al CAF, a Bettino Craxi e Berlusconi e a Mani Pulite. “La politica ha un prezzo” si sente dire da Moro a Cossiga, senza pensare al prezzo che lui stesso sarà costretto a pagare per la politica del suo partito.

Se la figura di Andreotti rimane quella più ambigua e non sviluppata, magari ci ha pensato Sorrentino, si dirà, e quella di Cossiga è frutto di un continuo tormentarsi cattolico fra il bene del partito e la gratitudine al suo maestro, il Moro che viene fuori da questa serie è un Moro combattivo che è sceso in campo pronto a regolare i conti con un partito che ha dominato il paese e che forse un’apertura politica a sinistra avrebbe potuto migliorare. Solo un Paolo VI ormai vecchio e malato vede come precisa scelta politica per il bene del paese, quella di liberare Moro.

Grande racconto tragico che non so francamente come verrà accolto dal pubblico di Rai Uno in tv, “Esterno notte”, come il celebre programma di Sergio Zavoli, “La notte della Repubblica”, è un viaggio di grande intelligenza e conoscenza storica dentro il cuore profondo del paese, senza dover per questo fare rivelazioni sorprendenti o sposare qualche tesi. Bellocchio sa come non cadere nelle trappole del cinema politico, essendoci nato dentro. Ma quel che mette in scena, con la produzione di Lorenzo Mieli di The Apartment, con il montaggio di Francesca Calvelli, con la musica (una vera scoperta) di Fabio Massimo Capogrosso e la fotografia di Francesco Di Giacomo non è una lezione di storia, è una lezione di cinema. Fenomenale. Da oggi in sala la prima parte di tre ore. Tre puntate.

E Moretti disse: «Se lo Stato avesse ceduto noi avremmo vinto. I Servizi? Idiozie». La testimonianza dal libro: "Brigate rosse. Una storia italiana", di Mario Moretti, Carla Mosca  Rossana Rossanda. Il Dubbio il 18 maggio 2022.

Pubblichiamo di seguito un estratto dal libro: “Brigate rosse. Una storia italiana”. Di Mario Moretti, Carla Mosca  Rossana Rossanda.

Perché non prendeste in esame la possibilità di liberare unilateralmente Moro? Avrebbe rotto con la Dc, avrebbe messo in difficoltà il Pci.

Se si trattava di incrinare la scena politica, questo l’avrebbe modificata. Non si può giudicare col senno di vent’anni dopo. Nel 1978 la Dc era compatta sulle posizioni di Andreotti-Berlinguer, la spaccatura era fra Moro e tutti gli altri. Quanto sarebbe durata? Oggi sappiamo che i suoi amici al governo stavano occupandosi di come neutralizzarlo, farlo passare per matto. Avevano preso le loro brave precauzioni per ricondurre la pecorella all’ovile.

Adesso sei tu a paventare una sindrome di Stoccolma… Il Moro che ci hai descritto si sarebbe ribellato a farsi trattare con psicofarmaci. E non sarebbe rientrato docilmente all’ovile.

Se si fosse aperto un varco e l’avessimo liberato, come abbiamo fatto con altri, Moro sarebbe diventato presidente della Repubblica e la Dc non sarebbe stata demolita affatto.

Forse, se si fosse creato il varco nel fronte della fermezza. Ma stiamo prospettando l’ipotesi che lo liberaste unilateralmente, mentre tutta la scena politica gli aveva detto “no”. Fra l’altro nei movimenti c’era stata una simpatia al momento del sequestro, sembraste figure vendicatrici, i nuovi Robin Hood. Ma quando si parlò di esecuzione, tutti vi chiesero di fermarvi e lasciarlo libero.

Ah sì, è vero, verissimo. Quelli che hanno libertà di esprimersi dicono proprio questo. Immaginavano che si trattasse d’una partita, più o meno sportiva; se le stanno dando, ma poi suonerà il gong.  Non è stato molto serio.

Sei ingeneroso. Avreste parlato al paese, lasciando Moro libero.

Il paese chiedeva molte cose, delle quali la liberazione di Moro non era certo la più pressante. La sinistra che non stava nello stato stava alla finestra. Liberare Moro con un atto unilaterale significava ammettere una parziale sconfitta o incassare un parziale successo – su questo si potrebbe discutere all’infinito. Ma per un’organizzazione di guerriglieri che avevano fatto un’operazione enorme, con un grandissimo impatto, lasciar libero Moro senza contropartita significava registrare un limite invalicabile della nostra strategia, ammettere che la guerriglia aveva un tetto che non avrebbe mai potuto sfondare. La guerriglia urbana, quella che avevamo definito nientemeno che la politica rivoluzionaria dell’epoca moderna, sarebbe apparsa sulla difensiva, e in fin dei conti lo stato invincibile. Era inaccettabile… non lo potete capire, non siete Brigate Rosse. Per questo, nonostante avessimo fatto di tutto per evitarla, all’unanimità decidemmo l’esecuzione. Dico all’unanimità perché due compagni che dissentono – Morucci e Faranda – non fanno un’eccezione, sono una eccentricità.

Non eravate in grado di far capire ai vostri militanti che un punto era stato segnato, una contraddizione aperta, e che liberando Moro rilanciavate sul piano politico?

Eravamo in grado di capire e far capire questo e altro. Ma non è il punto. Il punto è che qualsiasi cosa fosse successa dopo che avessimo lasciato libero Moro, liberarlo senza contropartita significava decretare la fine della lotta armata, ammettere che la lotta armata non può vincere. Una riflessione del genere, in quelle circostanze, nessuno poteva né proporla né accettarla, si sarebbe gridato al tradimento. Se mai, mi ostino a credere, una ridiscussione su noi stessi sarebbe stata favorita dalle circostanze opposte, quelle che la Dc e il Pci non vollero, o che non seppero cercare. Alla fermezza non potemmo rispondere che con uguale rigidità: “Non è una grande vittoria,” pensammo “ma almeno non è la sconfitta sicura”. Abbiamo processato la Dc, guadagnato grandi simpatie pur in quella tragedia e sotto quella cappa tremenda, e questo  ci resta. Tanto è vero che saremmo andati avanti ancora quattro anni.

Il figlio di Andreotti: «Nel film di Bellocchio falsità su mio padre. Non andrò a vederlo». Massimo Franco su Il Corriere della Sera il 18 maggio 2022.  

Stefano Andreotti, 70 anni

«H o visto che il regista Marco Bellocchio si è pentito dopo cinquant’anni di essere stato tra i firmatari del documento famigerato contro il commissario Luigi Calabresi: proprio adesso che ci vuole fare un film. Poi parlano di cinismo di Andreotti... Spero che tra una ventina d’anni, studiando magari un po’ di carte, si penta anche dell’immagine falsata che mi dicono dia di mio padre Giulio nella sua ultima pellicola sul sequestro di Aldo Moro. Che non andrò a vedere». Stefano Andreotti, 70 anni, terzogenito dell’ex premier democristiano scomparso nel 2013, arrota il sarcasmo e la erre francese «ereditata dalla famiglia di mia madre Livia Danese insieme alla bassa statura, perché gli Andreotti invece sono altissimi: compreso mio figlio Giulio». Ma conferma soprattutto quanto sia siderale e irrisolvibile la distanza tra l’immagine cinematografica dell’emblema del potere democristiano nella cosiddetta Prima Repubblica, e quella che ne serba la famiglia. 

Scusi, dottor Andreotti, ma ci sono stati film nei quali è stato accreditato perfino il bacio di suo padre al mafioso Totò Riina, nonostante le perplessità degli stessi magistrati. Ma non avete reagito.

«Allora non dicemmo nulla come famiglia perché era vivo mio padre. E mio padre non aveva bisogno di difensori. Ricordo che quando vide con Gian Luigi Rondi il film Il Divo in una saletta privata, disse: “È una vera mascalzonata”. Ma non ha mai reagito, mai querelato, e noi per rispetto nei suoi confronti lo abbiamo assecondato, pur non essendo sempre d’accordo».

Secondo lei suo padre non era cinico? Per un uomo di potere è quasi una dote, non un difetto. Non le fa velo l’affetto filiale?

«Guardi, premetto che non ho visto il film ma solo letto gli articoli in cui si fa riferimento a mio padre. Ma mi è bastato vedere altre opere di Bellocchio come quella sul mafioso pentito Tommaso Buscetta, che ha fatto apparire quasi come un eroe. Quanto al cinismo: la cosa intollerabile è che dipingano mio padre come se fosse responsabile dell’assassinio di Aldo Moro, insensibile ai tentativi di salvarlo. Di più, quasi d’ostacolo alle trattative. Questa è una profonda falsità politica e ingiustizia storica».

È un fatto che fosse presidente del Consiglio e il più esposto al no alla trattativa con le Brigate rosse.

«Ma per la trattativa non era quasi nessuno. Enrico Berlinguer e il Pci erano contrari, Giovanni Spadolini e il Pri, il futuro capo dello Stato Sandro Pertini e gran parte della Dc. La trattativa significava rilasciare dei terroristi in prigione. Era possibile dopo l’uccisione di cinque uomini della scorta di Moro? Quegli anni sono stati brutti, e quelli dopo, con i processi di Palermo e Perugia, furono addirittura più infamanti: babbo li visse come un Purgatorio in terra, ci diceva. Ma non poteva accettare di essere descritto come un ostacolo alla liberazione di Moro. È una mistificazione, come quella di raffigurare Moro come un politico che non apparteneva alla Dc».

Se fosse stato rapito lui, che cosa avrebbe fatto? E voi che avreste fatto?

«Ne abbiamo discusso molto, in quei mesi terribili e anche dopo. Ci disse: se succede a me, bisogna fare la stessa cosa. Lo Stato non può riconoscere un’organizzazione criminale e terroristica».

Sembra proprio che Andreotti e il caso Moro rimangano prigionieri della cronaca. Lei come se lo spiega?

«È un Paese con la memoria corta, nella quale continua la demonizzazione della Dc da parte di una sinistra sconfitta dalla storia insieme con l’Unione sovietica dalla quale di fatto dipendeva e alla quale era legata a doppio filo. E sulla contrapposizione tra Moro e il suo partito si dimentica che fu lui a dire in Parlamento: “Non ci faremo processare nelle piazze”. E sempre lui volle mio padre a Palazzo Chigi per guidare il governo con i comunisti nella maggioranza».

«Esterno notte», il caso Moro nella serie di Bellocchio presentata alla Croisette

Colpisce un po’ vedere emergere gli Andreotti come famiglia, e con questa voglia di riabilitare la figura paterna, dopo che per decenni con vostro padre vivo e potente sembravate non esistere.

«Era una scelta di mio padre, e condivisa da noi, di crescere il più possibile come una famiglia normale, facendo pesare il meno possibile un cognome ingombrante. E noi ne siamo stati ben felici».

Non si riconosce neanche nell’immagine un po’ tetra, misteriosa che alcuni film hanno trasmesso della vita privata della vostra famiglia? «Nemmeno un po’. La verità è che anche quella descrizione della nostra famiglia è stata data sulla base di pregiudizi, senza conoscere davvero nulla di noi. Mio padre era esattamente l’opposto di quanto si diceva. In famiglia era pieno di umorismo, di attenzioni, di vita. E, sembrerà strano ad alcuni, di gesti affettuosi».

Lei ne sembra molto orgoglioso.

«Non sembro, sono molto orgoglioso di lui. E voglio ricordare quanto fosse diverso da come lo raffigura la vulgata: colluso con la mafia, o così cinico da fare ammazzare Moro. Ricordo le serate con monsignor Pasquale Macchi, braccio destro di Paolo VI, a casa nostra in Corso vittorio Emanuele, a Roma, alla disperata ricerca di un canale per salvare Moro. Pensi che quando quel terribile 9 maggio del 1978 Francesco Cossiga chiamò mio padre per dirgli che era stato ritrovato, per qualche attimo sperò che lo avessero liberato e non ucciso. Era un uomo con la coscienza pulita, e lo dimostra la serenità con la quale ha affrontato la morte. Aveva una fede profonda in Dio, che io non ho così profonda».

I nipoti che ne pensano?

«Per loro è un mito. Un vero nonno, affettuoso e attento. Il loro è stato un rapporto forte, intenso, complice».

Non sta offrendo un’immagine troppo angelicata? Suo padre è stato un uomo di potere controverso, per alcuni spietato. Ed era famoso per le raccomandazioni. Lei ne ha goduto?

«Non scherziamo. Tutti noi quattro, due figlie e due figli, abbiamo fatto il nostro percorso lavorativo lontani dal potere e dalla politica. Racconto solo un episodio. Nel 1977, mio padre era presidente del Consiglio, un amico mi disse che assumevano alla Siemens, a Milano. Col cuore spezzato di un romano che ama Roma, andai al colloquio. Poi passai all’ufficio del lavoro perché a quel tempo serviva il nulla osta. Quando l’impiegato lesse il mio cognome, disse d’istinto: “Andreotti… Di certo non è figlio di quell’Andreotti, altrimenti non sarebbe qui a fare la fila come gli altri…”. E sono andato a fare l’impiegato a Milano».

Caro Bellocchio, la fermezza di Andreotti salvò il nostro Stato. La polemica sul nuovo film di Marco Bellocchio "Esterno notte", che sembra avallare la narrazione di un Andreotti cinico e spietato che quasi determinò la morte di Aldo Moro. Gianfranco Rotondi su Il Dubbio il 17 maggio 2022.

Non vedrò il film di Marco Bellocchio, fidandomi dell’intuito di Stefano Andreotti, che ha annunciato la decisione di non voler assistere alla proiezione di un film cucito su misura del luogo comune del cinismo andreottiano. In realtà il film di Bellocchio prosegue una ricerca del regista sul ‘caso Moro’, già culminata nella precedente opera intitolata ‘Buongiorno notte’. Già nel primo film la ricostruzione storica del caso Moro era alquanto approssimativa. Ma tant’è : la licenza cinematografica è come quella poetica, e ci può stare una libera reinterpretazione fantastica delle vicende.

Temo però che ‘Esterno notte’ – che completa con due lungometraggi una vera e propria trilogia morotea di Bellocchio – vada leggermente oltre la licenza poetica: dalle pellicole scaturisce una adesione quasi ideologica alla vulgata di un Andreotti cinico e indifferente alla sorte di Moro, freddo esecutore di un disegno superiore volto ad eliminare Moro dalla scena politica. Siamo quasi alle chiacchiere da bar Sport del tempo del sequestro, quando si sentivano manipolo di destra e sinistra cianciare che ‘a far fuori Moro ci hanno pensato i democristiani’.

Dalla tragedia di Moro ci separano quarantaquattro anni. Vi sono stati processi, indagini, inchieste. Giace nelle biblioteche e nelle emeroteche una florida produzione giornalistica e letteraria sul tema. Più di recente vi è stata una commissione di inchiesta molto ben condotta da un politico intelligente e non prevenuto come Beppe Fioroni. Sulla genesi del caso Moro non sappiamo molto di più di quarantaquattro anni fa. La sola scelta condivisibile di Bellocchio è la titolazione evocativa della notte: il sequestro Moro fu davvero la notte della repubblica, il mistero dei misteri di una stagione repubblicana solcata ciclicamente da eventi tragici. Il senso di impotenza di fronte a tale mistero non può tuttavia giustificare l’adesione a costruzioni retoriche spacciate per verità: un film condiziona il pubblico soprattutto giovanile, ed è un peccato di superbia raccontare la morte di Moro come l’esito di una strategia lucida e cinica dei suoi compagni di partito. Certo, è stata la vulgata di un tempo di cui conserviamo memoria: Cossiga veniva presentato come servo di poteri internazionali che avevano condannato Moro a morte, e Andreotti esecutore se non correo del disegno. Ma era una vulgata, appunto, da bar Sport, senza le pretese di solennità di un evento culturale come la produzione di un film.

La verità è che la Dc scelse la linea della fermezza nei confronti delle Brigate Rosse. Decise di non trattare, di non aderire agli scambi di prigionieri e di favori variamente proposti da una cospicua e variopinta costellazione di mediatori. Tutta la Dc decise di rischiare la vita di Moro, ma di non cedere alla apertura di una trattativa che avrebbe messolo Stato alla pari se non in ginocchio rispetto al terrorismo rosso. La Dc scelse lo Stato, la fermezza, declinó nell’ora più tragica il suo dna di forza garante dell’ordine costituzionale, e su questa linea ebbe anche la solidarietà del PCI. Questo è vero, ed è indubitabile che il partito democristiano mettesse in conto l’uccisione di Moro. Ma di qui a concludere che la Dc volesse la morte di Moro,o fosse indifferente al suo destino, ce ne passa.

Tutti i democristiani erano consapevoli di sfidare il demonio terroristico. Molti leader democristiani misero per iscritto che – in caso di loro rapimento – non si doveva tener conto di eventuali loro appelli alla trattativa, perché contrari al giudizio che esprimevano in condizioni di serenità e di libertà. Di fronte a queste decisioni così drammatiche, non si può speculare raccontando il cinismo invece dell’eroismo dei democristiani. Quanto ad Andreotti, il cinismo accompagnava la sua leggenda. In realtà era solo un uomo molto controllato nelle emozioni, come era tipico della generazione nata tra le due guerre, e attraversata da tutte le tragedie collettive del novecento. Lo stesso mal di testa di Andreotti, malessere stabile di cui hanno raccontato generazioni di cronisti, facilmente era solo il riflesso psicosomatico della fatica di controllare il turbinio delle emozioni di una vita vissuta oltre la frontiera del rischio personale. I diari di Andreotti oggi ci restituiscono un uomo molto diverso: delicato nelle relazioni personali, attento verso amici ed avversari, sollecito maggiormente verso i deboli e coloro che erano declinato da posizioni di potere. Ma a una certa area culturale questa verità non piace. Viene preferita la maschera algida di Andreotti da offrire al grande pubblico, perché nella storia la Dc deve rimanere così, nella postura più inquietante.

La verità è che certa ‘intellighenzia’ non vuol far sapere ai posteri che a uccidere Moro furono terroristi rossi, comunisti mai pentiti, marxisti- leninisti coerentemente legati alla prassi dell’eliminazione fisica dell’avversario. Possono aver avuto complici internazionali persino nella loro controparte ideologica, ma certamente gli assassini erano loro, ì terroristi rossi. Ma questo è brutto da pensare e da raccontare. Meglio nascondere tutto dietro il sorriso cinico del divo Giulio.

La serie tv al Festival di Cannes. “Esterno notte”, Bellocchio racconta Aldo Moro: “Un vero riformista che ha pagato per le sue idee”. Chiara Nicoletti su Il Riformista il 17 Maggio 2022. 

Torna a pieno regime nelle sue date primaverili il 75esimo Festival di Cannes, ai nastri di partenza oggi 17 maggio fino al 28. L’edizione dello scorso anno era stata posta nelle retrovie di un luglio caldo e fin troppo turistico ma aveva riacceso, nella rassegna francese, la voglia di competere ancora ad alti livelli, soprattutto per reggere il confronto con la rivale, mai dichiarata tale, Mostra del Cinema di Venezia. Esce virtualmente dalle restrizioni della pandemia dunque e lo dichiara con il manifesto di quest’anno, una foto di scena di Jim Carrey in The Truman Show di Peter Weir, che lo ritrae nell’atto di uscire da quel mondo finto e fittizio di cui era schiavo.

Non ha paura di selezionare tutti i film francesi possibili, il delegato generale Thierry Fremaux e al contempo di azzardare due manovre acchiappa pubblico generalista: un omaggio a un gigante del cinema di intrattenimento, Tom Cruise, insieme all’anteprima di Top Gun: Maverick, sequel dell’epocale film del 1986 e la partnership con TikTok, come a salutare i tempi in cui era vietato farsi i selfie sul red carpet. Per onorare 75 anni di storia però, non devono mancare i capisaldi, gli habitué del cinema d’autore che garantiscono l’etichetta d’essai al Festival. Presenti quindi, esponenti di tutto rilievo delle cinematografie mondiali, a cominciare dal rumeno Cristian Mungiu, i francesissimi Arnaud Desplechin e Claire Denis, la nostra e loro Valeria Bruni Tedeschi, i sempreverdi Jean-Pierre e Luc Dardenne, Ruben Östlund già Palma d’oro per The Square e Hirokazu Kore-eda.

L’Italia che non manca mai in concorso a Cannes si fa sentire direttamente e indirettamente: il sempre veneziano Mario Martone approda con un film intimo e più napoletano che mai, Nostalgia con Pierfrancesco Favino mentre Luca Marinelli e Alessandro Borghi si ricongiungono dopo Non essere cattivo, diretti da Felix van Groeningen e Charlotte Vandermeersch in Le otto montagne. A confezionare il pacchetto perfetto, gli americani: James Gray con Armageddon Time, David Cronenberg e il suo Crimes of the Future e infine, il ritorno di Baz Luhrmann sulla croisette dopo The Great Gatsby con Elvis. Con la guerra in Ucraina, il Festival di Cannes ha scelto una posizione oppositiva nei confronti della Russia. In concorso c’è Kirill Serebrennikov da sempre dichiaratamente contro il governo di Putin ma, ai giornalisti russi, invece, Cannes quest’anno ha detto di no. Non potendo accertarsi della posizione tenuta da ogni singola testata, il festival ha scelto la via del tutti fuori. Intanto, c’è chi come Marco Bellocchio al Festival di Cannes non rinuncia. Premiato l’anno scorso con la Palma d’onore, il regista suggella ulteriormente questo patto di fedeltà al festival, presentando in anteprima mondiale la sua prima avventura seriale, Esterno Notte, in sala con Lucky Red in 2 parti: la prima dal 18 maggio, la seconda dal 9 giugno e in autunno su Rai 1 nell’originale formato seriale.

Il Maestro di Bobbio riprende i temi di Buongiorno Notte del 2003 per tornare sulla vicenda Aldo Moro, approfondirla, interiorizzarla e dedicare ad ogni interlocutore di quel fondamentale pezzo di storia italiana il giusto tempo, un episodio. 6 in totale, ognuno dedicato ad un personaggio, a partire dallo stesso Moro, interpretato magistralmente da Fabrizio Gifuni, che già lo aveva “incontrato” nell’opera teatrale Con il vostro irridente silenzio. Imperdibili Toni Servillo nel ruolo di Paolo VI e un’inedita Margherita Buy nei panni della moglie di Moro, Eleonora. Perché tornare sul caso Aldo Moro? Incontrato a Roma con l’intero cast, prima della partenza per la Croisette, il maestro Bellocchio dichiara: «Mi devo fidare del mio istinto. Quando nel quarantennale della morte sono uscite un sacco di cose su Moro, è chiaro che mi è tornato un desiderio, rappresentare in modo diverso la vicenda». «Come possa interessare i giovani di oggi? – si interroga – non me lo sono minimamente posto ma mi sono fidato di quello che volevo fare».

È notizia di questi giorni che, a partire dalla figlia di Moro, Maria Fida, che ha parlato di “inutile fabbrica di dolore aggiuntivo e sconsiderato, molto simile alla tortura” Esterno notte non sia stata vista bene da tutti. Bellocchio se ne discosta: «Il film è molto meno ideologico di Buongiorno Notte perché è passato dell’altro tempo. Mi dispiace se c’è chi lo ha interpretato come se ci fosse un accanimento da avvoltoi sui ricordi tragici di quegli anni. Io non odio nessuno, sarà per l’età. Capisco il dolore di Maria Fida, però lei pensa che nessuno debba parlare più del papà e io non sono d’accordo. Tra altro, a livello di sceneggiatura abbiamo rappresentato la famiglia Moro con il massimo dell’affetto». Presentando il suo Moro in Esterno Notte, Fabrizio Gifuni spiega l’irridente silenzio del suo spettacolo: «Il silenzio riguarda noi e il perché quella storia così radicata nell’immaginario collettivo sia stata rimossa. Probabilmente oggi ci sembra un po’ meno lontana di quanto non sembrasse qualche anno fa. La vicenda Moro non sarebbe comprensibile se levata dal contesto internazionale. Quello che si è fatto per Moro non è stato fatto per nessun altro né prima né dopo. È stato un uomo che si è spinto oltre quello che il perimetro della storia gli consentiva, era in anticipo rispetto a quello che sarà sotto gli occhi di tutti negli anni ‘90».

Concorda con le parole di Gifuni Marco Bellocchio mentre cerca di rispondere sul confronto tra la politica di ieri con quella di oggi: «Il modo di gestire la politica è cambiato ma non è che quelli che la fanno oggi siano gente infima. Magari tra 30 anni si parlerà bene di Di Maio ed altri. Certamente, noi che avevamo 20 anni all’epoca, vivevamo nella politica anche se le utopie politiche stavano tramontando. Attenzione però, Moro era un vero riformista le cose che lui ha osato fare, le ha pagate con la vita». Celebrano tutti Marco Bellocchio, Toni Servillo sintetizza la potenza del suo cinema: «L’opera di Bellocchio ci affranca dalla testimonianza e permette allo spettatore di fare un’avventura conoscitiva. Ci mette nella condizione di riflettere su fatti realmente accaduti con autonomia di pensiero». Chiara Nicoletti

Agostino Gramigna per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2022.

Non capita spesso che l'autore di un libro parli della sua opera con una negazione: «Questo libro non doveva uscire. Non doveva vedere la luce». Eppure il lavoro è durato oltre dieci anni, la ricerca è stata certosina, basata su decine di migliaia di pagine di atti giudiziari e trascinata da fiumi di parole scambiate con protagonisti che a diverso grado sono entrati in una storia densa di fatti palesi e di molte ombre. Ma allora di che sostanza è fatto un libro che non sarebbe dovuto esistere?

In questo caso ha un nome. Giangiacomo Feltrinelli. Ferruccio Pinotti, scrittore di numerosi libri d'inchiesta e giornalista del Corriere della Sera è l'autore che ha speso dieci anni a ricostruire la vita del ricco editore, controversa e affascinante, terminata sotto un traliccio di Segrate, mentre cercava di piazzare una bomba esplosa (forse) per un errore. 

Nel suo libro su Feltrinelli (Untold, La vera storia di Giangiacomo Feltrinelli, Round Robin Editore, 812 pagine), Pinotti ha lavorato sulle decine di migliaia di pagine di atti giudiziari scannerizzati dal Tribunale di Milano che riguardano l'editore da quando, poco più che ventenne, iniziò a frequentare il Pci e i gruppi di estrema sinistra, sino alla morte sotto il traliccio di Segrate.

Questi atti sono un patrimonio che apre squarci nuovi, integrato dalla consultazione di archivi esteri e da interviste esclusive: dal generale Maletti («Lo ha ucciso il Mossad») a Sibilla Melega, ultima moglie dell'editore; dal fondatore delle Br Alberto Franceschini fino a Franco Freda; da magistrati come Viola, Bevere, Mastelloni a esperti di intelligence. 

Le domande erano e restano tante: qual era il progetto politico di Feltrinelli? Il suo crescente impegno rivoluzionario preludeva ad una dedizione totale alla lotta armata? 

Se è così, chi erano davvero i suoi compagni di viaggio? Si limitavano ai militanti del suo gruppo, i Gap, e ad alcuni esponenti di Lavoro Illegale, di Potere Operaio e delle nascenti Brigate Rosse? Oppure comprendevano scenari più ampi, dai palestinesi alle Raf?

Resta irrisolta, infine, la domanda più grande, quella che concerne la sua morte. Feltrinelli è saltato in aria per un banale errore nella messa a punto dell'esplosivo con cui voleva divellere un traliccio. 

Ma se al contrario si è trattato di una abile messinscena, chi voleva la sua morte? L'inchiesta Untold segue una chiave di lettura inedita, quella internazionale, che fa di Feltrinelli una figura nuova. E che conferma che non era un rivoluzionario ingenuo e impreparato. Era un intellettuale che rifletteva sui temi dell'ineguaglianza, della povertà, della lotta operaia, dell'economia internazionale e dei movimenti di liberazione nazionali. Pinotti indaga sui lati oscuri di Feltrinelli. Ma scrive: «Su tante cose è lecito sollevare dubbi, ma non su una: l'idealismo e la buona fede di Feltrinelli».

La democrazia di Aldo Moro e Peppino Impastato. Quel 9 maggio 1978 44 anni dopo. PARIDE LEPORACE su Il Quotidiano del Sud il 9 maggio 2022.   

Da anni nella ricorrenza del 9 maggio, sui social soprattutto, si ricordano assieme lo statista Aldo Moro e l’attivista Peppino Impastato. Due meridionali, il primo pugliese, il secondo siciliano, morti nello stesso giorno in circostanze e contesti molto diversi.

Aldo Moro ucciso in una R4 rossa come il colore delle Brigate che in maniera simbolica lo depositano in via Caetani tra piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure a simboleggiare quel Compromesso storico tra Dc e Pci, partiti che con fermezza non avevano voluto trattare per liberare l’illustre e scomodo prigioniero.

Tutti i media del mondo trasmettono quell’immagine realizzata da una tv privata romana arrivata per prima su quel luogo della Capitale.

Peppino, invece, viene trovato con le carni smembrate su un binario di ferrovia vicino alla sua Cinisi, alle porte di Palermo. La prima versione dei carabinieri, che reggerà per tempo, è che l’attivista che denunciava su Radio Out il parente capomafia don Tano Badalamenti era saltato con una bomba da lui preparata mentre compiva un attentato.

Il giorno dopo una breve di cronaca tra le pagine dei giornali interamente e giustamente dedicate alla morte di Moro.

Per molti storici quel giorno morì la Prima Repubblica. Moro era l’emblema e la coscienza critica della Democrazia Cristiana, il partito-Stato italiano che includeva sindacalisti e Confindustria, destra dorotea e sinistra di Base, cattolici del dissenso e oltranzisti vaticani.

Moro era l’uomo delle svolte storiche. Parla per 9 ore al Congresso di Napoli per aprire al centrosinistra e viene assediato dalle vicende del Piano Solo.

Con convergenze parallele astruse ma nodali apre al Pci. Sarà l’agnello sacrificale di una storia terribile che gli uomini delle Brigate Rosse non seppero gestire liberando il prigioniero.

Moro, lucido nella prigione del popolo, comprende che lo hanno lasciato solo a morire. Non vuole nessuno del suo partito ai funerali chiesti solo in forma privata. Quelli di Stato sono celebrati contro la sua volontà. 

Moro vivo sarebbe stato un enorme problema per il cuore dello Stato, che continuò a battere in forma infartuata per quel trauma che porterà Cossiga alla depressione perenne e la Dc ad una delle sue più terribili maledizioni con il fantasma di Moro che ancora compare come il padre di Amleto sul teatro della politica.

E anche su Aldo Moro sarà un film, “Buongiorno notte” di Marco Bellocchio, a regalare al nostro immaginario il prigioniero libero che esce per Roma a dare una svolta che in molti impedirono. E ora lo stesso regista porta a Cannes il seguito. “Esterno notte”, miniserie Rai in sei puntate che prima potremo vedere al cinema con l’interpretazione di Gifuni su quello che accade fuori dal covo brigatista in quei terribili giorni. 

Moro e Impastato cercavano democrazia. Quella cattolica e quella proletaria. Due chiese diverse con uguali martiri. Ricordiamoli con le loro idee evitando le confusioni.

 Moro: un frate e un generale potevano liberarlo…Di Emanuele Beluffi su Culturaidentita.it il 10 Maggio 2022.

Il 9 maggio 1978 di 44 anni fa il corpo del Presidente della DC Aldo Moro venne rinvenuto nel bagagliaio di una Renault 4 rossa parcheggiata in via Caetani, geograficamente a metà strada fra via delle Botteghe Oscure sede del PCI e Piazza del Gesù sede della DC. Una foto iconica quanto la Renault 4 rossa, che compare sulla copertina di un libro recente scritto da uno che sa, il cosiddetto “Airone 1”, alias Antonio Cornacchia, del Nucleo Investigativo Carabinieri: fu lui ad aprire per primo il bagagliaio della Renault 4 in via Caetani, trovando il corpo di Aldo Moro.

Il sequestro Moro è uno dei cosiddetti “misteri” italiani, su cui molto si è scritto e altrettanto si è detto: inutile analizzare qui la vicenda, che ha innumerevoli addentellati con altrettanti misteri italiani come la morte del giornalista Mino Pecorelli (altra vicenda di cui il generale Antonio Cornacchia è stato testimone storico) e del generale Carlo Alberto dalla Chiesa (tanto per citare un paio di spunti). Né vogliamo sviscerare il dilemma intorno alla presenza di un agente dei servizi segreti la mattina dell’agguato e alla questione se il commando fosse veramente composto soltanto da brigatisti o anche da “Brigate di servizio” per citare Sciascia: basti solo accennare a un prodotto di cultura, il film del regista ostracizzato dai benpensanti Renzo Martinelli, Piazza delle Cinque Lune, che nella finzione cinematografica ha detto forse molte verità.

O forse no. Forse, per citare Francesco Cossiga, “dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse”: nessun coinvolgimento dei Servizi, né nazionali né internazionali, né deviati né affrancati. Anche se, come scrisse il generale Antonio Cornacchia, i servizi segreti sono per forza deviati, altrimenti non sarebbero segreti. Ma il generale confermò che sulla scena del sequestro si sarebbe mossa anche quell’organizzazione supersegreta detta Noto Servizio, o Anello, un esponente del quale sarebbe stato quel frate francescano di Milano, Enrico Zucca, lo stesso che nel 1946 avrebbe nascosto nel capoluogo lombardo la salma di Mussolini, che si sarebbe dato da fare per liberare il Presidente della DC. “Airone 1” parla di un suo viaggio, la sera del 6 maggio 1978, in compagnia di Padre Zucca e di don Cesare Curioni verso Castel Gandolfo: “Alle 7.30 del 6 sera vedo il segretario del Papa rispondere al telefono, convinto, forse, sia il segnale per la conclusione delle trattative e la consegna del cofanetto pieno di soldi, ma quando depone la cornetta, pallido in volto, ci informa che tutto è andato a monte”…

Con lo statista democristiano (così molti lo chiamavano e non è il caso di discettare intorno alla fondatezza della definizione) vennero assassinati i 5 agenti della scorta, morti sul colpo (uno di loro spirerà poche ore dopo), 5 eroi entrati nella Storia ma non sempre adeguatamente ricordati dalla pubblicistica e dall’informazione:

Francesco Zizzi Vice-brigadiere della polizia (Medaglia d’Oro al Valor Civile il16 febbraio 1979). Nato a Fasano nel 1948. Entrato nella Pubblica Sicurezza nel 1972, quattro anni dopo vince il concorso per la scuola allievi sottufficiali di Nettuno. Vive presso la caserma Cimarra di via Panisperna. Conseguiti i gradi di sottufficiale progetta le nozze con la fidanzata Valeria. E’ nominato al servizio di scorta dell’onorevole Moro come capo equipaggio. Muore a 30 anni.

Raffaele Iozzino Guardia di Polizia (Medaglia d’Oro al Valor Civile il 16 febbraio 1979). Nato a Casola (Na) nel 1953. Si arruola in Pubblica Sicurezza nel 1971, frequenta la scuola di Alessandria ed è successivamente aggregato al Viminale e quindi comandato permanentemente al servizio di scorta dell’On. Moro. Muore a 24 anni.

Giulio Rivera Guardia di Polizia (Medaglia d’Oro al Valor Civile il 16 febbraio 1979). Nato a Guglionesi (Cb), nel 1954. Si arruola nella Pubblica Sicurezza nel 1974. Muore a 24 anni, crivellato da 8 proiettili delle Br.

Domenico Ricci Nato a Staffolo, Ancona, nel 1934, morto in via Fani il 16 marzo 1978. Nel 1954 si arruola nell’Arma dei Carabinieri e inizia il corso presso la Scuola allievi carabinieri di Torino. Nel 1957 viene assegnato alla scorta di Moro, allora ministro della Giustizia. Nel 1966 si sposa dopo 10 anni di fidanzamento. Ha due figli. Muore a 44 anni.

Oreste Leonardi Nato a Torino nel 1926. Istruttore alla Scuola Sabotatori del Centro militare di paracadutismo di Viterbo, è stato per 15 anni la guardia del corpo di Moro. Aveva una moglie, Ileana Lattanzi, e due figli, Sandro e Cinzia. Muore a 52 anni.

Sacrificare il leader della DC ha condizionato la vita politica italiana. “Il Partito Socialista voleva salvare Moro, ma non fu ascoltato”, la rivelazione di Gennaro Acquaviva. Gennaro Acquaviva su Il Riformista il 9 Maggio 2022.  

E’ molto probabile che le dosi massicce di asfissiante banalità che sempre più circondano, spesso incupendola, tanta parte della nostra vicenda politica ci regaleranno, anche in occasione della ricorrenza – potremmo dire sulle ceneri – dei quarantaquattro anni trascorsi dal maggio 1978, quelli della tragedia di Aldo Moro, un supplemento di opinionismo e di banalità. Eppure dovrebbe essere ormai chiaro e visibile per tutti – i vecchi che lo vissero ed i giovani che vogliono rifletterci sopra – che quei 55 giorni, per come furono preparati, gestiti e poi conclusi, rappresentarono un passaggio che rimane decisivo nel farci arrivare al nostro difficile presente: che è poi quello dell’impotenza proclamata, ben rappresentata dalle vicende politiche di questi ultimi anni.

Tanto per fare qualche esempio: a voler essere seri dovremmo mettere in rilievo il fatto che, almeno oggi, occorrerebbe dover dare ragione a chi, in ogni caso, allora fu proclamato “reprobo”. Come dovremmo almeno cercare di rinnegare, e far rinnegare, il sentimentalismo – chiamiamolo così – della generazione sessantottina che era allora molto presente nei media, che è tuttora ben viva e presente, ed anche ben messa, demograficamente e culturalmente. Infine, almeno dal mio punto di vista: ci sarebbe  ancora da ricordare la rilevanza di una grossa questione storica rappresentata da quella che fu allora una fallita velleità di protagonismo comunista, propria di quegli anni, un protagonismo che finì con il mettere paura ai protagonisti stessi.

E’ per noi comunque necessario tornare almeno a ricordare la forza e soprattutto la serietà della posizione allora assunta dai socialisti, caratterizzata da una disinteressata spinta umana e solidale, desiderosa comunque di non lasciare andare inevitabilmente le cose per un verso che sembrava obbligato. Dal punto di vista politico, naturalmente, Craxi, guardando anche al suo futuro, voleva dalla vicenda uscirne vivo e perciò continuò a ricercare una soluzione capace di non fargli rompere irrimediabilmente i rapporti con la Democrazia Cristiana. E forse questo fu il suo limite decisivo. Allora, comunque, tutti noi fummo guidati e sostenuti da questa sua serenità coraggiosa e determinata. Ricordo ancora oggi con nostalgia lo stato della nostra difficilissima condizione, umana e politica, spessissimo soli e minacciati, che però ci favorì indubbiamente,  per il futuro, nella nostra crescita comunitaria.

Lasciati soli e circondati da un clima oppressivo e demagogico, i socialisti scoprirono infatti, allora, nuovamente se stessi. E, forse, per la prima volta, impararono ad amare sul serio questo loro giovane leader, che li guidava imperterrito e che sembrava in grado di capire tutto: ma che, forse, anche per questo, era inevitabilmente destinato alla sconfitta. Oggi possiamo riconoscere che la sconfitta collettiva di quindici anni dopo forse non ci sarebbe stata e che comunque  avrebbe assunto caratteristiche e modi inevitabilmente diversi e forse contrapposti. Con Moro vivo, attivo ed autorevole protagonista della ricostruzione della politica e della democrazia, il decennio decisivo che allora si apriva sarebbe stato profondamente diverso. Gennaro Acquaviva

«I miei archivi in mano alla polizia della Storia e al complottismo…». Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi storico e ricercatore, è accusato di diffondere documenti riservati della Commissione Moro II: se le perizie hanno smontato la tesi dei Pm perché il materiale delle sue ricerche rimane sotto sequestro? Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 9 giugno 2022.

Sono passati 12 mesi da quando la procura di Roma gli ha sequestrato archivi cartacei, computer, telefoni, tablet, pieni di email, foto, video in larga parte materiale privato di nessuna rilevanza che giace ancora nelle mani degli inquirenti. Paolo Persichetti, ex militante delle Br-Ucc, oggi apprezzato storico e ricercatore, avrebbe diffuso documenti riservati della Commissione Moro II allo scopo di favorire, non si sa in che modo, dei latitanti. Le indagini non hanno confermato nessuna delle accuse, al contrario le perizie dei file hanno escluso che si trattasse di materiale sottoposto a segreto, ma Persichetti non ha ancora avuto indietro i suoi file. Convincendosi che lo scopo del sequestro non sia accertare le accuse, ma ostacolare con ogni mezzo il suo lavoro storiografico sugli anni di piombo, la sua lotta incessante contro le dietrologie, contro le ricostruzioni fantasy e i complottismo sul sequestro Moro puntualmente smentite dai fatti ma che continuano a titillare ampi settori della politica, della magistratura e degli apparati di sicurezza dello Stato. Tesi ben illustrate nel suo ultimo, documentatissimo libro, La polizia della storia. La fabbrica delle fake news nell’affaire Moro, pubblicato da Derive e Approdi. «La polizia della Storia non è soltanto una metafora suggestiva, ma un fatto concreto: in Italia ci sono poliziotti che indagano in carne e ossa sugli archivi, che presidiano la memoria e decidono su cosa si possa o no fare della ricerca, è assurdo!».

Perché questo accanimento?

Credo che questo sia tutto un pretesto, il vero problema è che vogliono il mio archivio e tenerselo il più tempo possibile per bloccarmi e intralciare il mio lavoro di ricerca, magari nell’idea non restituirmelo mai più per neutralizzarmi del tutto. Non vedo altra ragione: dopo un anno sono crollate tutte le accuse, la perizia, ripeto, ha stabilito che non c’è nulla di rilevante, il teorema come si capiva fin dall’inizio, era del tutto infondato.

Cosa sosteneva il “teorema”?

Che io avessi trasmesso ad altre persone del materiale riservato della Commissione Moro II, in particolare la bozza della prima relazione annuale che non è un atto riservato nemmeno per i criteri interni della Commissione, ma un documento politico destinato ad essere pubblico che deve essere votato ed emendato. Siamo nel campo di interpretazioni infondate. La bozza è stata utilizzata come espediente per cercare nel mio archivio documenti davvero riservati ma non li hanno trovati perché semplicemente non ci sono, non li ho mai avuti e non ne ho accesso.

Quale sarebbe stata la finalità?

Siamo nel cuore del teorema : mi hanno accusato di favoreggiamento, ossia avrei svolto una sorta di attività di intelligence, appropriandomi di atti riservati e avrei condiviso il materiale con due latitanti, allo scopo di favorire la loro latitanza. Stiamo parlando di persone latitanti da oltre trent’anni, dai tempi in cui ero minorenne, peraltro uno di loro, Alvaro Lojacono ha già scontato la sua pena, mentre con l’altro, Alessio Casimirri non ho mai avuto contatti, non ci ho mai parlato. E infatti non è stata agomentata nei miei confronti nessuna ipotesi accusatoria, ma solo un generico favoreggiamento. La cosa surreale è che tutto nasce dalle “recensioni” della polizia di prevenzione (l’ex Ucigos n.d.r) che ha letto le bozze del mio libro, trovandole sospette.

In che senso “recensioni”?

Secondo funzionari della polizia di prevenzione, che svolgono sia attività di intelligence che di polizia giudiziaria nelle mie carte ci sarebbero tesi che non corrispondono agli esiti processuali. Inoltre sostengono che nelle mie mail sarebbero citati episodi e fatti che poi non ho inserito nel libro e questo giustificherebbe il presunto favoreggiamento. È ridicolo.

A quali fatti si riferiscono?

Alla via di fuga del commando brigatista che ha sequestrato Moro e al secondo furgone, che avrebbe dovuto entrare in scena nel caso le cose fossero andate male e di cui si occupò Lojacono, ma che non fu mai utilizzato. Se io scopro dei dettagli che non erano emersi nei processi ma lo faccio senza avere elementi tali da riempire una pagina di storia, a causa di testimonianze incongruenti e contrasti di memoria, è mia responsabilità di ricercatore non pubblicarli, è una questione di serietà. E stiamo parlando di un aspetto del tutto secondario di cui nessuno si è mai interessato fino ad ora. Coinvolgermi in questa vicenda fa parte della narrazione dietrologica sul caso Moro che circola da almeno trent’anni senza mai trovare riscontri nella realtà.

È molto difficile fare lavoro storiografico in queste condizioni?

Il problema principale è che c’è una sovrapposizione tra l’indagine della procura e le vecchie e mai dimostrate tesi dietrologiche e cospirazioniste sull’affaire Moro, trovo questo aspetto sconcertante. Soprattutto da quando, con le direttive Prodi e Renzi, sono stati resi pubblici gli archivi, un tempo monopolio della magistratura e dei consulenti delle commissioni, tutti personaggi littizzati. È finita l’epoca in cui i documenti venivano citati a rovescio o a metà o con le sequenze sbagliate, oggi i ricercatori possono verificare tutto e questo ha prodotto un nuovo lavoro storiografico che smonta le narrazioni costruite fino ad oggi e questo fatto evidentemente dà fastidio. Al punto da creare il cortocircuito di cui parlavo.

E sembra ancora più difficile farlo sugli anni di piombo, ancora oggi un campo minato.

Se oggi qualcuno compie un lavoro di ricerca e di memorialistica sul ventennio fascista viene considerato uno storico, se invece lo fai sugli anni 70, sul terrorismo, si parla di attività di propaganda se non addirittura peggio. Ho sentito persino l’incredibile definizione di “banda armata storiografica”.

C’è però anche un elemento personale, che riguarda la biografia dell’autore.

Certo, questo ahimé è un aspetto centrale: in sostanza non mi viene riconosciuto il fatto di aver scontato la pena e il diritto di poter svolgere ricerca storica su quegli anni. La conseguenza è che i miei studi non vengono considerati come una libera e disinteressata attività intellettuale, ma sarebbero un’ambigua opera di proselitismo, di favoreggiamento, di mantenimento di non si sa quali legami e quali vincoli associativi. Non avendo argomenti e non potendomi contestare sul merito subisco un attacco e una delegittimazione totale del mio lavoro di storico e della mia stessa persona. Non dovrei essere io a dirlo, ma trovo incredibile che in Italia non si parli di questa vicenda, di questa censura odiosa, del fatto che la polizia sequestri impunemente degli archivi e, pur non trovandoci dentro nulla, continui a tenerli sotto sequestro.

"La polizia della storia". Le dietrologie sull’omicidio Moro, Persichetti racconta la sua storia processuale in “La polizia della storia”. Frank Cimini su Il Riformista l'1 Maggio 2022. 

La polizia della storia è il titolo di 281 pagine, editore Derive Approdi, 20 euro, in libreria dal 5 maggio con cui Paolo Persichetti racconta il suo caso che la dice lunga sulla qualità della nostra democrazia, dalla Prima Repubblica fino ai giorni nostri. Come se non fossero passati ben 44 anni dal sequestro e dall’omicidio di Aldo Moro, il fatto intorno al quale ruotano le parole del ricercatore che ormai quasi un anno fa subì i sigilli al suo archivio, il più pericoloso del mondo. E non ha ancora riavuto dall’8 giugno del 2021 “il maltolto” dove era compresa pure la certificazione medica di Sirio il figlio diversamente abile.

Paolo Persichetti combatte da anni la battaglia contro la dietrologia spiegando che il fenomeno non riguarda solo il passato ma il presente e il futuro di questo paese. Persichetti è coinvolto in una vicenda giudiziaria dove il capo di incolpazione ha subito cinque modifiche e visto l’eliminazione del reato più grave, l’associazione sovversiva finalizzata al terrorismo attraverso la violazione del segreto di carte della commissione parlamentare sul caso Moro che segrete non erano. L’inchiesta è coordinata dal pm Romano Eugenio Albamonte lo stesso che ha chiesto e ottenuto di prendere il Dna dei brigatisti condannati per via Fani e altre persone nell’ambito di una caccia a complici ulteriori veicolando il sospetto che servizi segreti nazionali e esteri avessero avuto un ruolo nella vicenda con cui la Prima Repubblica cominciò a morire.

“L’idea che la realtà sia qualcosa su cui si deve gettare luce perché dominata dall’ombra e dall’invisibile diventa il nuovo modo di giustificare una contronarrazione che si pretende autonoma libera e indipendente dai ‘poteri’ – scrive l’autore – È sconcertante questa idea di un passato fatto di misteri e segreti anziché di processi, rotture, trasformazioni, uno schema cognitivo che riporta ai tempi dell’Inquisizione…. L’idea che il mondo sia più comprensibile se visto dal buco della serratura di un ufficio dei servizi segreti piuttosto che dai tumulti che attraverso le strade e i luoghi di lavoro è il segno di una malattia della conoscenza. Attraverso la dietrologia si vuole veicolare l’idea che dietro ogni ribellione non c’è l’agire sociale e politico di gruppi umani ma solo un inganno, una forma di captazione, uno stratagemma del potere”.

Va ricordato che la dietrologia non è un fenomeno solo italiano. Basti pensare a quanto accaduto intorno all’11 settembre. Ma il nostro è per molti aspetti un paese almeno un po’ particolare perché il capo dei dietrologi sta al Quirinale fa pure il presidente del Csm che quasi ogni 16 marzo e 9 maggio insiste: “Bisogna cercare la verità”. Come se cinque processi non avessero accertato anche dalle deposizioni di “dissociati” e “pentiti” che dietro le Brigate Rosse c’erano solo le Brigate Rosse. “Esiste in questo paese un organismo che si chiama polizia di prevenzione il cui ruolo potrebbe finire pericolosamente per sorvegliare l’indagine storica se non addirittura per prevenirla segnando i paletti oltre i quali non è lecito inoltrarsi” scrive nella prefazione Donatella Di Cesare aggiungendo di “una gendarmeria della memoria che assenza una concezione poliziesca della storia narrata in bianco e nero, da una parte i buoni dall’altra i cattivi”.

“Il tratto di strada che il 16 marzo del 1978 vide alcuni operai scesi dalle fabbriche del nord insieme a dei giovani romani dare l’assalto al convoglio di auto che trasportavano l’onorevole Moro non trova pace. Questo fatto storico non è accettato ancora dai cultori del complotto, anzi dei ripetuti complotti di diversa natura e colore, tutti assolutamente reversibili che nei decenni si sono succeduti in perfetta antitesi tra loro” chiosa l’autore. E per questa ragione domenica 22 febbraio 2015 la zona fu sottoposta a scansione laser dalla polizia scientifica. I nuovi rilievi fecero emergere l’assenza di novità. In via Fani agirono le Brigate Rosse. Solo loro. Ma dirlo, riaffermarlo, ribadirlo è pericoloso. In pratica come dimostra la vicenda di Paolo Persichetti un reato. Frank Cimini

Gli anagrammi nascosti nelle lettere di Moro. Michele Ainis su La Repubblica il 26 Aprile 2022.

La teoria di Carlo Gaudio in un libro

Cadono i 44 anni dal rapimento e l'assassinio di Aldo Moro. E dopo tutto questo tempo, i lati oscuri prevalgono su quelli che siamo riusciti a illuminare. Succede, d'altronde, anche per altre pagine nere della nostra storia, prima e dopo la stagione delle stragi: in Italia la verità è un segreto di Stato. Ma le 86 lettere che Moro scrisse nei 54 giorni della sua prigionia rimangono, forse, il più misterioso dei misteri che girano attorno alla vicenda. Era davvero lui, quell'uomo? Scriveva sotto dettatura dei suoi sequestratori? Aveva smarrito la propria integrità mentale, precipitando - si disse fin dai primi giorni - nella sindrome di Stoccolma? Ma se invece Moro era in sensi, sapeva dove si trovasse? E ha cercato di trasmettere all'esterno l'indicazione di quel luogo?

Questa pioggia di domande è rimasta, fin qui, senza risposta. Specialmente l'ultima, che proverebbe l'estrema lucidità di Moro. Sciascia intuì un messaggio cifrato in quelle lettere, senza però riuscire a dimostralo: giacché il suo stile - disse - "per l'attenzione che sapeva dedicare alle parole, per l'uso anche tortuoso che sapeva farne", era il più adatto a "nascondere (pirandellianamente) tra le parole le cose". Del resto Moro, soffrendo d'insonnia, di notte frequentava l'enigmistica, i rebus, gli anagrammi. Eppure nessuno seppe - o volle - decrittare le sue lettere.

A risolvere il puzzle provvede adesso un libro di Carlo Gaudio, L'urlo di Moro (Rubbettino). Sennonché lui non è un campione di quiz televisivi, è un medico, e d'ottima carriera. Dirige il dipartimento di Scienze cardiovascolari alla Sapienza, ha firmato oltre 400 pubblicazioni. Ma è pure autore di un pamphlet filosofico (La zattera, 2018), d'un paio di volumi sul cinema, di biografie. Dunque Gaudio è un eclettico, categoria un tempo celebrata, oggi guardata in gran sospetto. Se vai da un ortopedico per un dolore alle ginocchia, potresti ottenerne in cambio uno sguardo esterrefatto: "Il ginocchio? Ma io sono uno specialista della caviglia!". Lo specialismo, ecco la malattia del nostro tempo. Come diceva Flaiano, oggi anche il cretino è specializzato. E allora come si permettono i medici di giocare con la storia?

Il gioco di Carlo Gaudio, però, ci dona una rivelazione: Moro conosceva l'indirizzo della sua prigione - l'appartamento di via Montalcini al numero 8, interno 1 - e cercò di divulgarlo. Ne è prova l'inciso più celebre di tutto il suo epistolario, contenuto in una lettera a Cossiga recapitata il 29 marzo 1978: "Che io mi trovo sotto un dominio pieno ed incontrollato". Suona così, difatti, l'anagramma della frase: "E io so che mi trovo dentro il p.o uno di Montalcini n.o otto".

D'altronde non è l'unica prova; con un'analisi lessicale parola per parola, Gaudio ne mostra varie altre. Per esempio nella lettera alla moglie Eleonora (5 aprile), dove Moro scrive: "Io poso gli occhi dove tu sai e vorrei che non dovesse mai finire", e dove si nasconde, di nuovo, un anagramma: "O forse che io dovevo essere chiuso prigione di via Montalcini". Mentre più volte raccomanda di leggere "con la dovuta attenzione" i suoi messaggi, di "vederli bene". Le frasi in codice di Moro sono sempre in prima persona, vengono introdotte da un "Io" che a sua volta assume valore segnaletico. Succede soprattutto nelle prime nove lettere, le più importanti, anche perché vi s'esprime subito una linea strategica (la trattativa per lo scambio di prigionieri); poi rinuncia, capisce che i suoi indizi non vengono raccolti. Ma non rinuncia mai a rivendicare la propria lucidità, lamentandosi perché "sono, si dice, un altro e non merito di essere preso sul serio" (lettera alla Democrazia cristiana, 27 aprile).

È l'"Io" di Moro, dunque, che torna a visitarci attraverso la ricerca imbastita da Carlo Gaudio. Ed è esattamente questo l'intento programmatico dell'autore: "la restituzione di Moro a Moro", contro l'espropriazione della sua personalità operata dai politici del tempo, contro la rimozione del suo lascito praticata dai politici di oggi.

Dagospia il 12 aprile 2022. Estratto del libro “Delitto Moro - Carte nascoste” in uscita per Kaos Edizioni pubblicato da il "Fatto quotidiano".

La destra reazionaria indirizzò ad Aldo Moro un minaccioso avvertimento pubblico nel novembre del 1966 (...). Un periodico della compagnia di varietà "Il Bagaglino", fondata l'anno prima da ambienti vicini alla destra neofascista romana, pubblicò l'articolo intitolato "Dio salvi il Presidente", sottotitolo: "Quindici uomini vegliano sulla vita dell'onorevole Moro. Ma sarebbero sufficienti a difenderlo contro un Oswald italiano?". 

Lee Oswald era il killer di John Kennedy. (...) Lo scritto era ricco di sibilline evocazioni di morte per attentato e comprendeva la menzione di via Mario Fani: È al sicuro la vita del Presidente Moro? (...) Questo servizio giornalistico si prefigge appunto lo scopo di cooperare alla vigilanza.

La casa - Gli uomini di Moro sono quindici (...) si muovono alle dirette dipendenze di un questore, il dottor Giulio Saetta (...). Sono reclutati tra il fior fiore della Pubblica sicurezza e dei Carabinieri. La loro base è l'abitazione stessa del Presidente del Consiglio (...) Almeno quattro volte per settimana l'ispettore generale Saetta partecipa direttamente al servizio del Presidente. (...) Il servizio consiste soprattutto nella vigilanza della casa del Presidente e nella scorta durante gli spostamenti.

La casa dell'on. le Moro si trova in via del Forte Trionfale, al numero 79. (...) La scelta dell'abitazione appare appropriata. Precedentemente, infatti , la famiglia del Presidente abitava in una strada affollata a ridosso del frequentatissimo viale Libia. Un luogo zeppo di palazzoni, che sembrava fatto apposta per gli attentati alla Oswald. Bene ha fatto il Presidente a cambiare. (...) Le dolenti note cominciano, invece, quando dalla casa si passa alla strada. (...) Il Presidente Moro, da quell'uomo ordinato e metodico che è, ha una giornata rigorosamente organizzata. (...)

Si configura così uno "schema-tipo" di movimenti che sembra fatto apposta per essere sfruttato da eventuali attentatori. (...) L'on. Moro lascia la sua abitazione alle 8.30 in punto. Prende posto insieme alla consorte su una "Flaminia" blu ministeriale o su un'"Alfa 2600" dello stesso colore. Questa delle 8.30 è l'ipotesi che configureremo nello "schema A".

Tracceremo poi uno "schema B" per i giorni in cui, come spesso avviene, il Presidente Moro si muove di casa mezz' ora più tardi , alle 9.

Schema A - Il Presidente e sua moglie salgono sull'automobile ministeriale. La macchina viene preceduta da una "Giulia" bianca e seguita da un'altra "Giulia" blu. Sulla prima, che funge da staffetta-battistrada, prendono posto quattro carabinieri. Sull'altra, che chiude la marcia, salgono tre agenti di Pubblica sicurezza, di cui uno autista, e il funzionario di servizio (il questore Saetta o il commissario comandato). L'on. Moro con la consorte siede nel sedile posteriore della macchina centrale dalla parte sinistra.

Alle 8.31 la piccola autocolonna si mette in moto, percorre tutta la via del Forte Trionfale, a quell'ora quasi sgombra, e arriva all'incrocio con via Trionfale (...). All'incrocio il corteo deve necessariamente fermarsi (...) Una volta imboccata la via Trionfale, le tre automobili, sempre nell'ordine anzidetto, la percorrono per circa 600 metri fino alla piazza di Monte Gaudio. Qui girano a sinistra e si portano sullo spiazzo in cui sorge la parrocchia di San Francesco a Monte Mario (...) In chiesa l'on. Moro prende posto al terz' ultimo banco della fila di destra. 

Un agente si pone alle sue spalle, un altro resta sulla porta, un terzo occupa l'ultimo banco della fila di sinistra. Gli altri si fermano all'esterno e vigilano l'ingresso al tempio e le adiacenze. (...) La chiesa, benché piccola, è abbastanza frequentata, perciò alle 8.52, al momento della Comunione, si verifica un piccolo assembramento fra i fedeli, che in fila affollano il corridoio per accostarsi all'altare e ricevere il sacramento.

L'on. Moro, come un qualsiasi comunicando, è tra gli altri, gomito a gomito fra gente sconosciuta, abbandonato dalla scorta, alla mercé di chi gli sta attorno. (...) (Dopo la Chiesa) l'autocolonna, sempre con la "Giulia" bianca in testa, riprende la marcia. (...) Il Presidente fa ritorno a casa. 

Alle 9.05 le tre automobili sono di nuovo davanti al numero 79 di via del Forte Trionfale. Come mai? Semplice: i coniugi Moro sono digiuni, per via della Comunione; tornano a casa per fare colazione. Il "breakfast" dura esattamente quindici minuti. Alle 9.20 il Presidente è di nuovo fuori, questa volta senza la moglie, che resta a casa mentre lui si dirige velocemente a Palazzo Chigi. (...)

Schema B - Lo "schema B" differisce dal precedente solo perché entra in funzione nei giorni in cui invece di uscire alle 8.30 l'on. Moro esce di casa alle 9. In questi casi il corteo si dirige sempre per la via Trionfale, arriva alla chiesa di San Francesco, ma non si ferma, prosegue ancora un po', quindi svolta a sinistra per via Mario Fani e poi per via della Camilluccia, fino ad arrivare alla Chiesa di Santa Chiara ai Due Pini, la chiesa-bene dei "vigna clarini".

Questo velenoso cocktail di "notizie riservate" (...) era firmato dal giornalista Pier Francesco Pingitore, caporedattore del settimanale di destra Lo Specchio, nonché autore di teatro e cabaret. Cinque anni prima di firmare l'articolo spionistico su Aldo Moro, il Pingitore era stato attenzionato dal Sifar, su disposizione del colonnello Giovanni Allavena comandante del Centro di controspionaggio di Roma, come sospetto seguace dell'organizzazione paramilitare terroristica francese Oas-Organisation armée secrète. (...) 

L’incrocio di via Fani e la memoria di Aldo Moro. Quarantaquattro anni fa, l’Italia viveva collettivamente la crisi politica più grave della sua giovane storia repubblicana. Liborio Conca su La Gazzetta del Mezzogiorno il 23 Marzo 2022.

Da poco trentenne, in questi giorni di marzo, quarantaquattro anni fa, la repubblica italiana viveva collettivamente la crisi politica più grave della sua ancora giovane storia. D’altro canto, un uomo solo era precipitato all’improvviso in un tunnel dal quale non avrebbe più rivisto la luce. Il 16 marzo 1978 un commando di brigatisti rossi aveva sequestrato il presidente della Democrazia cristiana Aldo Moro, assassinando i cinque membri della scorta. Dalla cosiddetta prigione del popolo in via Montalcini, alla Portuense, un alloggio nascosto nell’infinito intrico metropolitano di Roma, iniziarono a fioccare lettere, biglietti e messaggi del prigioniero. A nulla valsero i tentativi, più o meno convinti, di ottenerne la liberazione: le Brigate rosse uccisero infine Moro, assumendosi l’intera responsabilità dell’omicidio. Mi è capitato, sì, di passare all’incrocio tra via Fani e via Stresa, esattamente come è capitato in tutti questi anni a migliaia di persone, nel trafficato quartiere della Camilluccia, quadrante Nord della città.

Una lapide ricorda cosa è successo, i nomi dei caduti Domenico Ricci, Oreste Leonardi, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera, Francesco Zizzi. Ancora più spesso mi è capitato di passare nella centralissima via Michelangelo Caetani, alle spalle di largo di Torre Argentina, nelle vicinanze del ghetto ebraico: lì, in una «Renault 4» rossa, venne abbandonato il cadavere di Moro, ostentando la posizione equidistante tra la sede del Pci in via delle Botteghe Oscure e quella della Dc, a piazza del Gesù.

Anche qui, una lapide, con l’effigie del volto in bassorilievo di Moro, di fronte al bellissimo Palazzo Mattei di Giove, dove hanno sede il Centro studi americani e la Biblioteca di storia contemporanea. Fu il professor Franco Tritto, assistente e collaboratore storico di Moro, a prendere la telefonata del brigatista Valerio Morucci che annunciava «l’esecuzione della sentenza», dando le indicazioni su dove fosse il corpo dello statista. Pugliese come il suo mentore, per Tritto fu un dolore indicibile.

La registrazione della telefonata mostra ancora oggi la voce che si rompe in un pianto. «Non avrei mai immaginato, neppure per un solo istante, che la primavera da me prediletta […] sarebbe divenuta, nel momento più bello della mia vita, la stagione del dolore e della sofferenza», scrisse dopo. Molte targhe, diverse intitolazioni, tantissime vie in tutta Italia sono state dedicate a Moro: un tributo, certamente, e forse, chissà, qualcosa che somiglia a una forma di richiesta di perdono per il sacrificio. Nella natia Maglie, una statua è stata posta nella piazzetta adiacente alla casa di famiglia. L’Università di Bari, dove si era laureato negli anni Trenta e dove insegnò a lungo, porta dal 2008 il suo nome; così come il piazzale d’ingresso dell’altra grande università dove ha insegnato, La Sapienza di Roma. Ci era arrivato nel 1963, proprio da Bari, nello stesso anno in cui formò il suo primo governo. Sulla macchina insanguinata in via Fani giacevano le tesi dei suoi studenti.

Durante il sequestro fu deciso di far passare l’immagine di un Aldo Moro sotto il completo giogo dei propri aguzzini, privo di controllo, addirittura pazzo; vennero scomodate perizie grafologiche, sedute di psicanalisi a distanza, esperti strateghi. Da qualche anno Fabrizio Gifuni porta a teatro un’intensa e bellissima lettura dei messaggi che Moro scrisse in via Montalcini. Ma chiunque abbia letto l’epistolario dalla prigione, o il cosiddetto memoriale – la trascrizione degli «interrogatori» a cui Moro fu sottoposto dai suoi carcerieri – può capire come la «follia» di Moro non fosse vera ieri, e non è ancor più vera oggi. «Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo», scrisse in uno degli ultimi biglietti indirizzati alla moglie Eleonora. Non ci fu luce, e resta solo l’immagine onirica che ci ha regalato Marco Bellocchio alla fine del film Buongiorno, notte, l’uomo liberato dal carcere, in un’alba grigia e piovosa, fuori dal covo di via Montalcini, sotto le note di Shine on you Crazy Diamond.

Via Fani: 44 anni fa la strage della scorta di Aldo Moro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2022.

Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse

Roma, ore 9 del 16 marzo 1978. In via Mario Fani, l’auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta, furono bloccate all’incrocio con via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I terroristi aprirono immediatamente il fuoco, e in pochi secondi uccisero i cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro, lo statista della Democrazia Cristiana poi ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Alle 9.03 una telefonata anonima al 113 informava di una sparatoria con numerosi colpi di arma da fuoco esplosi in via Fani. 

Sul luogo della strage furono trovati, dentro un’Alfa Romeo Alfetta, il cadavere della guardia di pubblica sicurezza Giulio Rivera e il corpo agonizzante del vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi; nella Fiat 130, su cui viaggiava Moro e che precedeva l’Alfetta, i cadaveri dell’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci e del maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi; a terra, vicino all’auto, la guardia di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino. 

Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse. I 3 giovani poliziotti, il 16 febbraio del 1979 furono insigniti della Medaglia d’oro al Valor civile, e i loro nomi sono incisi anche nelle piccole lapidi del Sacrario presente alla Scuola superiore di Polizia. 

Durante la cerimonia, un picchetto interforze, composto da personale della Polizia di Stato, dell’ Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, ha reso omaggio al vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, alle guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, al maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi e all’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci.

Sul luogo dell’eccidio sono state deposte delle corone d’alloro da parte del Presidente della Repubblica, degli altri organi costituzionali dello Stato e delle Autorità locali. Anche il capo della Polizia Lamberto Giannini e il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi, presenti alla cerimonia, hanno deposto due corone in ricordo dei poliziotti e dei carabinieri uccisi nell’attentato terroristico. Redazione CdG 1947

E' ancora caccia ai fantasmi. Caso Moro, dopo 44 anni la giustizia cerca altri 4 o 5 colpevoli cui dare ergastoli…Paolo Persichetti su Il Riformista il 17 Marzo 2022. 

Pochi sanno che per il sequestro e l’esecuzione di Aldo Moro e dei cinque uomini della sua scorta sono state condannate 27 persone. La martellante propaganda complottista sulla permanenza di «misteri», «zone oscure», «verità negate», «patti di omertà», ha offuscato questo dato. Il sistema giudiziario ha concluso ben 5 inchieste e condotto a sentenza definitiva 4 processi. Oggi sappiamo, grazie alla critica storica, che solo 16 di queste 27 persone erano realmente coinvolte, a vario titolo, nel sequestro. Una fu assolta, perché all’epoca dei giudizi mancarono le conferme della sua partecipazione, ma venne comunque condannata all’ergastolo per altri fatti. Tutte le altre, ben 11 persone, non hanno partecipato né sapevano del sequestro. Due di loro addirittura non hanno mai messo piede a Roma.

Il grosso delle condanne giunse nel primo processo Moro che riuniva le inchieste «Moro uno e bis». In Corte d’assise, il 24 gennaio 1983, il presidente Severino Santiapichi tra i 32 ergastoli pronunciati comminò 23 condanne per il coinvolgimento diretto nel rapimento Moro. Sanzioni confermate dalla Cassazione il 14 novembre 1985. Il 12 ottobre 1988 si concluse il secondo maxiprocesso alla colonna romana, denominato «Moro ter», con 153 condanne complessive, per un totale di 26 ergastoli, 1800 anni di reclusione e 20 assoluzioni. Il giudizio riguardava le azioni realizzate dal 1977 al 1982. Fu in questa circostanza che venne inflitta la ventiquattresima condanna per la partecipazione al sequestro, pronunciata contro Alessio Casimirri: sanzione confermata in via definitiva dalla Cassazione nel maggio del 1993. Le ultime tre condanne furono attribuite nel «Moro quater» (dicembre 1994, confermata dalla Cassazione nel 1997), dove vennero affrontate alcune vicende minori stralciate dal «Moro ter» e la partecipazione di Alvaro Loiacono all’azione di via Fani, e nel «Moro quinques», il cui iter si concluse nel 1999 con la condanna di Germano Maccari, che aveva gestito la prigione di Moro, e Raimondo Etro che aveva partecipato alle verifiche iniziali sulle abitudini del leader democristiano.

Tra i 15 condannati che ebbero un ruolo nella vicenda – accertato anche storicamente – c’erano i 4 membri dell’Esecutivo nazionale che aveva gestito politicamente l’intera operazione: Mario Moretti, Franco Bonisoli, Lauro Azzolini e Rocco Micaletto; i primi due presenti in via Fani il 16 marzo. Furono poi condannati i membri dell’intero Esecutivo della colonna romana e la brigata che si occupava di colpire i settori della cosiddetta «controrivoluzione» (apparati dello Stato, obiettivi economici e politico-istituzionali): Prospero Gallinari, Barbara Balzerani, Bruno Seghetti, Valerio Morucci, tutti presenti in via Fani. Gallinari era anche nella base di via Montalcini. Adriana Faranda, che aveva preso parte alla fase organizzativa e il già citato Raimondo Etro, che dopo un coinvolgimento iniziale venne estromesso. C’erano poi Raffaele Fiore, membro del Fronte logistico nazionale, sceso da Torino a dar man forte, Alessio Casimirri e Alvaro Loiacono, due irregolari (non clandestini) che parteciparono all’azione con un ruolo di copertura e Anna Laura Braghetti, prestanome dell’appartamento di via Montalcini. Era presente anche Rita Algranati, la ragazza col mazzo di fiori che si allontanò appena avvistato il convoglio di Moro e sfuggì alla condanna per il ruolo defilato avuto nell’azione.

Tra gli 11 che non parteciparono al sequestro, ma furono comunque condannati, c’erano i membri della brigata universitaria: Antonio Savasta, Caterina Piunti, Emilia Libèra, Massimo Cianfanelli e Teodoro Spadaccini. I cinque avevano partecipato alla prima «inchiesta perlustrativa» condotta all’interno dell’università dove Moro insegnava. Appena i dirigenti della colonna si resero conto che non era pensabile agire all’interno dell’ateneo, i membri della brigata furono estromessi dal seguito della vicenda. La preparazione del sequestro subì ulteriori passaggi prima di prendere forma e divenire esecutiva. In altri processi la partecipazione all’attività informativa su potenziali obiettivi, quando non era direttamente collegata alla fase esecutiva, veniva ritenuta un’attività che comprovava responsabilità organizzative all’interno del reato associativo, nel processo Moro venne invece ritenuta una forma di complicità morale nel sequestro. Furono condannati anche Enrico Triaca, Gabriella Mariani e Antonio Marini, membri della brigata che si occupava della propaganda e che gestiva la tipografia di via Pio Foà e la base di via Palombini, dove era stata battuta a macchina e stampata la risoluzione strategica del febbraio 1978. Tutti e tre all’oscuro del progetto di sequestro.

Furono condannati anche due membri della brigata logistica della capitale, Francesco Piccioni e Giulio Cacciotti, solo perché nel mese di aprile 1978 avevano preso parte a un’azione dimostrativa contro la caserma Talamo ed erano fuggiti con la Renault 4 rosso amaranto che il 9 maggio venne ritrovata in via Caetani con il cadavere di Moro nel bagagliaio. Gli ultimi due condannati furono Luca Nicolotti e Cristoforo Piancone, membri della colonna torinese mai scesi a Roma ma coinvolti – secondo le sentenze – perché avevano funzioni apicali in strutture nazionali delle Br, come il Fronte della controrivoluzione. Tra i 27 condannati, 25 furono ritenuti colpevoli anche del tentato omicidio dell’ingegner Alessandro Marini, il testimone di via Fani che dichiarò di essere stato raggiunto da colpi di arma da fuoco sparati da due motociclisti a bordo di una Honda. Spari che avrebbero distrutto il parabrezza del suo motorino. Marini ha cambiato versione per 12 volte nel corso delle inchieste e dei processi. Studi storici hanno recentemente accertato che ha sempre dichiarato il falso. In un verbale del 1994 – da me ritrovato negli archivi – ammetteva che il parabrezza si era rotto a causa di una caduta del motorino nei giorni precedenti il 16 marzo.

La polizia scientifica ha recentemente confermato che non sono mai stati esplosi colpi verso Marini. Queste nuove acquisizioni storiche, non hanno tuttavia spinto la giustizia ad avviare le procedure per una correzione della sentenza. Al contrario in Procura sono attualmente aperti nuovi filoni d’indagine, ereditati dalle attività della Commissione parlamentare d’inchiesta presieduta da Fioroni, per identificare altre persone che avrebbero preso parte al sequestro: i due fantomatici motociclisti, un ipotetico passeggero seduto accanto a Moretti nella Fiat 128 giardinetta che bloccò il convoglio di Moro all’incrocio con via Stresa, eventuali prestanome affittuari di garage o appartamenti situati nella zona dove vennero abbandonate le tre macchine utilizzate dai brigatisti in via Fani. Si cercano ancora 4, forse 5, colpevoli cui attribuire altri ergastoli. Non contenta di aver condannato 11 persone estranee al sequestro, la giustizia prosegue la sua caccia ai fantasmi di un passato che non passa. Paolo Persichetti

Il pensiero e il gesto. Aldo Moro, lo statista nel suo labirinto. Mario Lavia su L'Inkiesta il 18 Marzo 2022.

Con “Via Savoia” (La nave di Teseo), Marco Follini fa un ritratto personale e psicologico del leader democristiano, in una biografia che ripercorre le idee e indaga i motivi della diffidenza del partito nei suoi confronti.

Un po’ come Stendhal, che non cita che una sola volta la Certosa di Parma nel suo capolavoro omonimo, addirittura in “Via Savoia” (La nave di Teseo, da ieri in libreria) il protagonista non è citato mai. È “lui” la persona importante di cui si narra e non c’è bisogno di nominarlo perché questo libro di Marco Follini non è un né una biografia politica né un saggio storico ma, appunto, un racconto drammatico e, se ben si intende l’espressione, romantico.

“Lui” è ovviamente Aldo Moro, ce lo dice subito la fotografia in copertina che lo ferma in una delle sue passeggiate solitarie, le braccia dietro la schiena, un poco incurvato nel doppiopetto scuro nei viali della Farnesina (se ci si consente un lontano ricordo, noi da bambini che andavamo lì a giocare lo vedemmo più di una volta proprio in quei viali, il ministero degli Esteri era a due passi).

A via Savoia invece aveva il suo sobrio ufficio privato, lontano dai palazzi del potere, in una zona tranquilla non lontana da Villa Borghese, dove si rintanava come in un «guscio» – così lo definisce Follini – dove poter lavorare ma soprattutto immaginare quel famoso «dopodomani» evocato nel celebre, magnifico suo ultimo discorso ai gruppi parlamentari della Democrazia Cristiana.

Questo è un libro diverso da tutti quelli di politica. Anche, va detto incidentalmente, perché è scritto con uno stile personale molto prezioso e altrettanto sofferto (le idee dell’autore sono ovviamente dentro la cosmogonia morotea). Ma non solo per questo. “Via Savoia” restituisce non solo il pensiero di Moro ma i suoi presupposti morali e umani, persino psicologici. Illumina i nessi profondi e forse mai così bene scandagliati tra il cervello del presidente democristiano e la sua azione.

Ma di più, tra le sue caratteristiche psicofisiche e l’agire politico, perché alla fine la politica è cosa di individui, nasce dalla loro pelle, si sviluppa nei gesti, nella voce, negli sguardi, e dunque ecco la famosa flemma tutta meridionale di Moro che accompagna il suo movimento lento verso nuovi orizzonti, come se nella pressione bassa di cui soffriva fosse la chiave di una vicenda politica rallentata, lunga tre decenni tra alti e bassi, altari e polveri, discorsi fatti e cancellati, successi e incomprensioni. È quel “labirinto” che Moro dovette percorrere senza peraltro poterne trovare l’uscita, come si sa.

Ecco: in queste pagine c’è l’uomo Moro, con le sue debolezze e la sua intelligenza degli avvenimenti, come si intitolava una raccolta di suoi interventi. «Tutto gli appariva sempre molto precario, quasi sul punto di potersi rompere da un momento all’altro. E il cammino politico procedeva per forza di cose in quel modo circospetto su cui non si finisce mai di fantasticare»: da questa sensazione permanente di precarietà scaturisce in Moro l’attitudine a guardare avanti per “aggiustare” cioè che si sta per rompere, e forse in questo sforzo continuo – azzardiamo – si intrecciano il senso cristiano dell’ascesa e un certo incedere illuministico della Storia.

La quale – Follini lo sottolinea più volte – non tralascia certo le meschinità e le brutture con le quali uno statista così intelligente dovette convivere e in un certo senso persino contribuire a non recidere in nome di un equilibrio inteso come ragione superiore. Ecco il compromesso, talvolta i silenzi. La politica di sempre eppure così lontana da quella di oggi: «La sua leadership insisteva a esprimersi così per accenni, silenzi, prudenze, omissioni, all’occorrenza rinvii. Ma era sempre tutto troppo implicito. Mai un gesto forte, mai un appello al Paese, mai uno strappo rispetto a procedure avvolte in una coltre di nebbia». Era il Moro che non si capiva, o si capiva dopo. Non era “popolare” eppure alle elezioni ogni volta aveva un consenso larghissimo.

L’autore, giovanissimo testimone dell’ultima fase della vita della Dc, prova a squarciare il velo sul complicatissimo rapporto con il suo partito che «lo assecondava e contemporaneamente diffidava di lui. E i nuovi equilibri politici e di governo a cui cercava di mettere mano, se portavano armonia – un tentativo di armonia – da una parte, seminavano controversie e anche qualche veleno dall’altra».

Moro fu amato da un pezzo della Democrazia Cristiana e odiato da un altro pezzo. Accadde anche agli altri cavalli di razza, Fanfani, Andreotti, un po’ anche a De Mita. La lotta politica interna al proprio partito è terribile. Ma certo Moro ebbe nemici “pesanti”, nell’establishment economico, in America, nella Chiesa. E il dubbio che alla fine della storia odî, rancori e vendette si siano in qualche modo aggrumati all’ombra del «pugno di assassini», come Luciano Lama definì le Brigate Rosse il pomeriggio del 16 marzo a piazza San Giovanni, è un dubbio che resta. Nessuno saprà mai dire con esattezza a chi giovò la sua morte.

Annota Follini: «Ancora una volta si affacciava una corale diffidenza nei suoi riguardi. E se prima era risultata insopportabile la sua supremazia di pensiero, ora quella supremazia poteva facilmente venire capovolta fino a scivolare verso la rappresentazione caricaturale di un uomo tremebondo, dominato dalla paura e forse addirittura incline a una forma di vigliaccheria». La “linea della fermezza” – non cedere al ricatto dei terroristi – contemplava anche questo.

E dunque, nella stanzetta del covo brigatista, disperato e solo come nessun uomo politico nella storia è mai stato, «il potere dovette essergli apparso per quello che aveva sempre sospettato. Come una sorta di inutilità».

Contarono, alla fine, gli affetti e solo quelli. Non c’era altro, non il suo partito, non i comunisti, non il Parlamento, addirittura neppure il grande amico Montini. Così finì la tragedia, giusto 44 anni fa, e la vita di un uomo così difficile da accostare, ieri e ancor di più oggi che tanto tempo è passato.

Giovanni Bianconi per corriere.it il 16 marzo 2022.

«Nel periodo antecedente alla strage di via Fani non risulta che il Sismi abbia mai raccolto elementi che potessero far in qualche modo prevedere l’insorgere della vicenda Moro, sia sotto il profilo dell’acquisizione di informazioni su possibili e dirette azioni terroristiche e sia dal punto di vista dell’esistenza di semplici minacce od avvertimenti nei confronti del parlamentare».

Comincia così la relazione del Servizio segreto militare (Sismi), predisposta nel 1979 per la prima commissione parlamentare d’inchiesta sulla strage di via Fani e sul sequestro e l’omicidio di Aldo Moro, desecretata solo pochi giorni fa dalla Commissione per la biblioteca e archivio storico del Senato, presieduta dal senatore del Pd Gianni Marilotti. 

Il documento «riservato» fa parte delle 130.000 pagine di atti prodotti dai servizi segreti considerati ancora «top secret» e ora declassificati in base alle direttive dei presidenti del Consiglio Prodi, Renzi e Draghi, con le quali si è deciso di anticipare la “liberazione” di documenti che riguardano dodici episodi – fra stragi, attentati e vicende ancora misteriose – che hanno segnato in modo particolare la storia d’Italia.

Uno di questi è certamente l’assalto di via Fani del 16 marzo 1978, compiuto dalle Brigate rosse, nel quale furono uccisi i cinque agenti di scorta al presidente della Democrazia cristiana – Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Raffaele Iozzino, Giulio Rivera e Francesco Zizzi – e venne rapito Aldo Moro. 

Il Sismi, istituto da pochi mesi, aveva ereditato le strutture del vecchio Sid (Servizio informazioni difesa) che, si scoprirà in seguito, aveva avuto un ruolo nei depistaggi di alcune stragi neofasciste degli anni precedenti, come quella di Brescia del 28 maggio 1974; ma sulle mire del terrorismo rosso nei confronti dello statista democristiano ammette di non sapere nulla. Almeno ufficialmente.

Il documento inviato alla commissione d’inchiesta elenca una serie di informazioni che, rivalutate dopo, potevano forse fornire qualche indicazione, o almeno destare qualche allarme, ma sul momento non avevano avuto seguito. Né avevano destato particolare interesse. 

«A posteriori», il Sismi ritiene comunque di segnalare che «in relazione alla possibilità che in concomitanza con l’apertura del processo di Torino, fissato per il 3 marzo 1978 a carico di Curcio e altri terroristi, le Brigate Rosse effettuassero atti di terrorismo in Italia o all’estero con il concorso di elementi stranieri come la banda Baader Meinhof o l’Armata rossa giapponese o gruppi estremisti palestinesi o arabi, o altre cellule internazionali, il 15 febbraio 1978 il Servizio aveva provveduto ad allertare tutta la propria rete informativa nazionale e internazionale e i servizi collegati».

Ne venne fuori l’informazione, di cui già s’è saputo qualche anno fa, «acquisita da un appartenente all’organizzazione palestinese Fplp guidata da George Habbash, secondo cui sarebbe stata possibile nel prossimo futuro un’azione terroristica di notevole portata». 

Il Sismi si premura di precisare che «l’informazione, pur se generica veniva, subito trasmessa al Sisde (il servizio segreto civile, anch’esso neonato, ndr) ai servizi collegati e a tutti gli organi periferici del servizio», senza che venissero però acquisiti ulteriori elementi utili. Né è dato sapere, a 44 anni di distanza, se la segnalazione giunta dalla Palestina avesse a che fare con l’agguato di via Fani.

Nella relazione del Sismi si riferisce anche che «nella prima decade di marzo 1978 sul periodico di informativa e satira politica “Il Male”, ideologicamente attestato su posizioni extraparlamentari di sinistra, veniva pubblicato un articolo su Moro che alla luce delle successive esperienze sembra anticipare circostanze stranamente aderenti a quanto poi si è realmente verificato. 

In proposito, non appena un organo periferico del Servizio comunicava di avere acquisito la notizia (20 marzo 1978) venivano effettuate appropriate segnalazioni al Sisde al comando generale dell’arma e al capo della polizia e disposti particolari accertamenti sui responsabili della pubblicazione senza peraltro acquisire elementi suscettibili di ulteriori sviluppi». 

A parte le informazioni recepite in edicola, il rapporto del Sismi è un lungo elenco delle segnalazioni più strane, quasi tutte inverosimili o senza alcuna possibilità di sviluppo concreto, e comunque scollegate da ciò che negli anni successivi s’è scoperto a proposito del sequestro Moro.

Quanto alle «minacce o avvertimenti» ricevuti dal leader democristiano nei mesi precedenti al sequestro, il Sismi comunica di non essere «mai giunto a conoscenza di alcun particolare». 

Tuttavia segnala un episodio: «Il 9 ottobre 1978, al termine di un’attività di raccolta di elementi informativi riguardanti i soggiorni della famiglia Moro a Predazzo, fonte confidenziale predisponeva un appunto riepilogativo nel quale si accennava al fatto che l’anno precedente il defunto maresciallo Leonardi, conversando con una persona del luogo, avrebbe detto di avere appreso da imprecisati studenti universitari, discepoli di Moro, che qualcuno ne controllava spostamenti ed orari.

Il parlamentare, reso edotto di ciò, avrebbe cominciato periodicamente a cambiare le sue abitudini. Nel corso di tali confidenze il maresciallo Leonardi avrebbe mostrato una pistola a tamburo di grosso calibro asserendo di essere pronto a tutto… Si concludeva soggiungendo che nulla era stato possibile acclarare circa gli studenti universitari che avevano messo l’avviso il maresciallo Leonardi, ma che essi erano tuttavia di Roma».

Lo stesso caposcorta di Moro avrebbe anche riferito l’episodio sospetto di due motociclisti armati che, un mese prima dell’attentato, avevano affiancato l’auto del presidente della Dc; circostanza anch’essa nota da tempo, rimasta senza spiegazione giacché nessun brigatista l’ha mai messa in relazione con i preparativi dell’azione da parte dell’organizzazione. 

Il Sismi riferisce, in ogni caso, che «il maresciallo Leonardi dopo tale fatto avrebbe chiesto senza precisare a quale organo di avere un’altra auto di scorta, in rinforzo, ed una vettura blindata per il parlamentare». 

Ma auto blindate in via Fani, la mattina del 16 marzo di 44 anni fa, non ce n’erano. Il lavoro di desecretazione avviato dalla commissione della biblioteca del Senato, grazie al quale è oggi possibile leggere questo documento del Sismi, è solo all’inizio: «Passati i cinquant’anni dall’evento – ha spiegato il presidente Marilotti – le carte classificate possono essere coperte solo dal segreto di Stato, il resto lo renderemo fruibile».

Anni di piombo: «Mio padre carabiniere fu ucciso dalle Br, ma non so ancora chi gli sparò». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 16 Marzo 2022.

Giovanni D’Alfonso, appuntato, fu colpito nello scontro a fuoco durante il quale morì anche la terrorista Mara Cagol. Non si è mai scoperto chi ha premuto il grilletto perché un uomo riuscì a sfuggire. Il figlio: «Lo vidi in un letto d’ospedale mentre era in agonia». La Procura ha riaperto il caso 46 anni dopo. 

Bruno D’Alfonso il 5 giugno 1976, primo anniversario dell’agguato al padre, mentre riceve la Medaglia d’argento al Valor Militare a lui destinata.

Non sapeva nulla di lacrime e sofferenza. Poi a dieci anni ha conosciuto entrambe. Era il 5 giugno 1975, un giorno d’estate, «un maledetto giorno». Bruno D’Alfonso viveva a Mosciano Sant’Angelo, nel Teramano. Il padre Giovanni era appuntato dei carabinieri e lavorava al Nord. La moglie Rachele era rimasta al paese con la figlia maggiore Cinzia, 16 anni, Bruno e la sorellina Sonia di due anni e mezzo. Nel maggio del ‘75 Giovanni venne trasferito ad Acqui Terme, nell’Alessandrino. «Presto avremmo dovuto raggiungerlo. Aveva già trovato una casa che accogliesse tutta la famiglia. E un lavoro come sarta per mia mamma». Ma arrivò quel «maledetto giorno», quando Giovanni D’Alfonso, 45 anni, venne ucciso in un conflitto a fuoco con le Brigate Rosse alla Cascina Spiotta, ad Arzello. Il caseggiato arroccato su un poggio era la prigione in cui il commando, dopo il rapimento, aveva nascosto Vittorio Vallarino Gancia, il re dello spumante. Nella sparatoria perse la vita anche Margherita «Mara» Cogol, 30 anni, minuta e combattiva, moglie di Renato Curcio e capo della colonna torinese delle Br. Altri carabinieri rimasero feriti: il tenente Umberto Rocca (oggi generale), il maresciallo Rosario Cattafi e l’appuntato Pietro Barberis. Uno dei carcerieri di Gancia riuscì a fuggire. Fu il battesimo di sangue delle Brigate Rosse. Sono passati 46 anni e non si è mai saputo chi fosse quel terrorista scampato alla giustizia. È un uomo libero e Bruno vuole conoscere il suo nome: «Lo devo a mio padre, a me stesso, alla mia famiglia».

Il silenzio

A novembre l’avvocato Sergio Favretto ha depositato in Procura, a Torino, un articolato esposto frutto di un lavoro di ricerca negli archivi di Stato, nelle segrete dei tribunali e tra i documenti della commissione Moro. In trenta pagine si mettono in luce le discrasie delle testimonianze raccolte, le anomalie negli atti. Ma soprattutto si fanno i nomi di chi sa e continua a tacere: a cominciare da Curcio, custode anche della relazione sui fatti della Spiotta redatta dal brigatista scappato. Lo scritto venne ritrovato il 18 gennaio 1976 nel covo di via Moderno a Milano, quando finì la latitanza di Curcio e della nuova compagna Nadia Mantovani. Altri personaggi che proteggerebbero l’identità di «mister x» sono ancora in vita: Mario Moretti, Alberto Franceschini, Lauro Azzolini e Massimo Maraschi. Quest’ultimo ebbe un ruolo nel rapimento: è l’unico a essere stato condannato per l’omicidio dell’appuntato e il sequestro Gancia. All’esposto fa da cornice il libro Brigate Rosse. L’invisibile. Edito da Falsopiano, è stato scritto dai giornalisti Simona Folegnani e Berardo Lupacchini: racconta analiticamente i fatti suffragati da un’inedita documentazione.

Immagini in tv

La cronaca di «quel maledetto giorno» sono le immagini in bianco e nero che scorrono su un televisore. Bruno sta ancora finendo di mangiare, quando una voce fuori campo racconta di una sparatoria tra carabinieri e terroristi. Un militare è gravemente ferito, si chiama Rodolfo D’Alfonso. «Quando sentii il mio cognome ebbi un sussulto e corsi da mamma. Il nome del carabiniere ferito era sbagliato e così pensai che non fosse mio padre. Forse volli solo illudermi e uscii a giocare». Nel pomeriggio, quando rientra, c’è una processione di persone che si allunga all’interno del condominio in cui abita. «Corsi da mamma, l’abbracciai. Lei piangeva disperata. Papà era in coma». In fretta, Rachele e la figlia maggiore partono per Acqui Terme. Il giorno dopo anche Bruno arriverà in città con lo zio Gabriele. «L’ultima immagine di mio padre è quella di un uomo steso in un letto d’ospedale. Lasciai quella stanza sussurrando “ciao papà, spero di rivederti presto. Sei il mio eroe”. Non l’ho più rivisto». 

Esplosione, proiettili e fuga

Il giorno di dolore della famiglia D’Alfonso è la narrazione di un conflitto a fuoco pieno di punti oscuri. Il 5 giugno è la Festa dell’Arma. Giovanni D’Alfonso avrebbe dovuto rientrare al paese, invece viene trattenuto ad Acqui Terme. Ventiquattr’ore prima l’industriale vinicolo Vallarino Gancia era stato rapito poco dopo essere uscito da Villa Camillina, a Canelli. Quello stesso giorno, il 4 giugno, Maraschi, 22 anni, al volante di una 124 verde rimase coinvolto in un incidente con una 500. Il giovane provò a chiudere in fretta la pratica del sinistro, si offrì di pagare i danni in contanti. Ma qualcosa non quadrava e gli automobilisti chiamarono i carabinieri. Il giovane venne arrestato fuori da Villa Camellina: aveva una beretta 7.65 con il colpo in canna. In caserma si dichiarò «prigioniero politico». Nel frattempo, erano iniziate le ricerche dell’imprenditore. La mattina del 5 giugno, alle 10.30, il tenente Rocca insieme con D’Alfonso, Cattafi e Barberis sono impegnati in una perlustrazione che è quasi routine. I militari arrivano alla Spiotta a bordo di una Fiat 127. Sotto il porticato ci sono due vetture: una 127 rossa e una 128 bianca. Dietro a una finestra s’intravede per pochi istanti una figura.

Esplosione, proiettili e fuga

«Uscite», ordinano i militari. Barberis risale sull’auto di servizio e si sposta dietro la cascina per chiamare i rinforzi. Un uomo compare sulla porta: uno strano luccichio tra le sue mani annuncia il lancio e l’esplosione di una bomba, una Srcm in dotazione all’esercito italiano. D’Alfonso viene travolto dall’ordigno e dai proiettili: uno gli perforerà il cranio, un altro il polmone. Cattafi riesce a mettersi al riparo, il tenente Rocca perderà il braccio sinistro e un occhio. I brigatisti, un uomo e una donna, sparano e approfittano di quel fuoco incrociato per salire a bordo delle due auto e darsi alla fuga. Ma trovano Barberis a sbarrare la strada. Le vetture finiscono nella boscaglia. Un uomo scappa tra la vegetazione. La donna si accascia a terra, è Mara Cagol. Morirà pochi minuti dopo: nell’autopsia verrà scritto che è stata colpita da tre proiettili. Vallarino Gancia è chiuso in un tugurio, illeso. Il fuggitivo è l’uomo che ora Bruno D’Alfonso vuole stanare. Nei verbali racchiusi nei fascicoli d’inchiesta dell’epoca c’è la descrizione di Cattafi: «Sui 30-35 anni, senza baffi, alto circa un metro e 70, corporatura longilinea, capelli castani con una riga a sinistra, viso ovale, zigomo marcato, senza alcuna inflessione dialettale». Il maresciallo era certo di poterlo riconoscere, ma nessun identikit o riconoscimento fotografico sarebbe oggi presente agli atti. All’interno della cascina viene sequestrato un arsenale, che nel ‘91 verrà distrutto.

Tante versioni

«Quando sono entrato nell’Arma ho cominciato a raccogliere notizie discordanti su quei fatti» racconta Bruno, che ha seguito le orme del padre ed è diventato maresciallo. «Nel ‘95, all’inaugurazione della scuola di Arzello intitolata a mio padre, percepii malumori tra gli ex colleghi. Barberis mi raccontò una versione. Poi nei sentii altre. Nessuno mi ha mai detto la verità». Dieci anni più tardi, Bruno decide di indagare: «L’inchiesta sulla sparatoria è piena di lacune e vuoti. L’impressione è che nessuno avesse interesse a far emergere quel nome». Ora la Procura ha riaperto il caso, acquisito il materiale dell’epoca e sentito alcuni testimoni. S’indaga, ma la strada è in salita. Anche se i sospetti si concentrassero su qualcuno, i reperti dell’epoca sono stati distrutti e le comparazioni scientifiche non sono possibili. Non può raccontare nulla neanche la cascina Spiotta, ancora oggi adagiata in cima alla collina tra i dolci paesaggi attraversati dal torrente Erro. Nel 1985 è finita all’asta ed è stata restaurata. Non vi è più traccia della sua storia passata. Ma talvolta, nell’anniversario della sparatoria, compare un mazzo di rose.

"Non era in via Fani". Quella "teoria" su Aldo Moro. Gianluca Zanella il 16 Marzo 2022 su Il Giornale.

44 anni fa Aldo Moro veniva rapito e la sua scorta trucidata. Tra le diverse teorie che aleggiano sul caso più intricato della storia italiana, c'è chi sostiene convintamente che lo statista non fosse in via Fani la mattina dell'eccidio.

“[...] Esiste la storia ed esiste la fantasia. Quando la storia non combacia con le proprie scelte ideologiche, si esercita la fantasia. E si ha quella specifica forma di storia che si chiama dietrologia. [...] Moro è stato ucciso dalle Brigate rosse e le Brigate rosse sono un fatto tutto italiano e, come dice giustamente quella gran signora di Rossana Rossanda, nel suo bel libro “ritratto di famiglia”, è una cosa tutta interna alla sinistra italiana e alla storia della Resistenza. Io conosco tutti quelli che hanno rapito, hanno custodito, non ho conosciuto quello che ha ucciso Aldo Moro [...]. Loro si limitano [...] a confermare le cose che sono accertate dalla giustizia. Non negano mai. Però non denunciano mai nessuno. Per esempio non hanno mai fatto il nome – e mai lo faranno – dei due motociclisti che esaminarono la zona e poi fecero da staffetta”.

A trent’anni dal rapimento di Aldo Moro e dall’eccidio della sua scorta in via Fani, Roma, il 16 marzo del 2008 sono queste le parole di Francesco Cossiga intervistato da Roberto Arditti per Il Tempo. Un incipit quanto mai adatto per l’articolo che state leggendo e che, sicuramente, avrebbe fatto storcere il naso al picconatore che, stando a chi l’ha conosciuto bene, si portò dietro fino all’ultimo dei suoi giorni il dolore (e forse il rimorso?) per l’uccisione del politico e statista rapito e sequestrato per 55 giorni, prima che il suo corpo venisse ritrovato rannicchiato e crivellato di colpi nel bagagliaio di una Renault 4 parcheggiata in via Caetani, sempre Roma, la mattina del 9 maggio 1978.

Quest’anno di anni ne saranno passati 44 e a risentire queste parole viene da farsi più di una domanda, ma non è questa la sede.

Testimonianze dirette, processi, commissioni d’inchiesta, libri, un memoriale (quello di Valerio Morucci), perizie balistiche non hanno fatto chiarezza su come siano andate esattamente le cose in via Fani, quando a perdere la vita furono cinque servitori dello Stato: Oreste Leonardi, maresciallo dei carabinieri e responsabile della sicurezza di Aldo Moro; Domenico Ricci, appuntato dei carabinieri e autista del politico pugliese; i poliziotti Giulio Rivera, Francesco Zizzi e Raffaele Iozzino. Trucidati. I primi due – Leonardi e Ricci – da un fuoco preciso, quasi millimetrico, che spense le loro vite come si spegne una luce pigiando l’interruttore. I restanti tre, che seguivano con un’Alfetta di scorta la Fiat 130 su cui viaggiava Moro, investiti da un muro di proiettili (quasi 100). Colpi sparati da chi e da dove, non è dato sapersi con certezza. Come nulla in questa vicenda.

Proprio concentrandosi sull’agguato - che il leader di Potere Operaio Franco Piperno definì di “geometrica potenza” – nel corso degli anni sono fioccate molte teorie. Tra chi è sicuro che a portare a termine l’agguato siano stati i Berretti verdi americani; tra chi giura che a sparare furono i terroristi rossi della Raf tedesca; tra chi porta avanti la tesi di un super gruppo di fuoco guidato da Carlos lo Sciacallo e chi si azzarda a scomodare anche Goldrake e i Cavalieri dello Zodiaco. E c’è anche chi sostiene convintamente che Aldo Moro non fosse presente in macchina quella mattina. Proprio così.

Sono in molti a non ritenere possibile che Moro – seduto nella Fiat 130 – possa essere rimasto illeso sotto quella grandine di piombo abbattutasi sulla sua scorta. Sono in molti, anche, a sostenere questa teoria basandosi sul fatto che dalla prigione del popolo, nell’arco dei 55 giorni di prigionia, Aldo Moro non abbia scritto una riga in memoria dei suoi uomini massacrati, quasi fosse all’oscuro di quanto accaduto. Su questo punto, si può porre immediatamente un’obiezione: non tutte le lettere vennero consegnate dai brigatisti ai rispettivi destinatari. C’è dunque la possibilità che Moro avesse scritto rivolgendosi alle famiglie delle vittime (in particolare alla moglie di Leonardi, con cui era legato anche da un’amicizia di vecchia data). Sempre sul punto, vale la pena riportate quanto sostenuto da Miguel Gotor – grande esperto del caso Moro e attuale assessore alla Cultura del Comune di Roma – che nel corso della trasmissione web Dark Side – storia segreta d’Italia, in occasione del 16 marzo 2021, ha detto che un accenno alla scorta c’è e si trova in una lettera alla moglie mai recapitata, ritrovata nel covo brigatista di via Monte Nevoso, a Milano, solamente nell’ottobre 1990.

La lettera in questione (ritrovata in fotocopia) fu scritta il 26 marzo 1978 (lo si evince da alcuni riferimenti alla domenica di Pasqua, che cadeva proprio quel giorno). Moro scrive: “Per quanto mi riguarda non ho previsioni né progetti, ma fido in Dio che in vicende sempre tanto difficili non mi ha mai abbandonato. Intuisco che altri siano nel dolore. Intuisco ma non voglio spingermi oltre sulla via della disperazione”. Secondo Gotor, sarebbe questo il riferimento – ovviamente implicito – alla scorta massacrata.

“Al di là del fatto che c’è questo riferimento testuale”, ha sostenuto lo storico e curatore di una fondamentale edizione del memoriale Moro, “io credo che la risposta [alla questione dell’assenza di riferimenti chiari alla sorte dei suoi uomini, ndr] sia sul piano logico sufficientemente stringente: se Moro avesse fatto un riferimento esplicito agli uomini della scorta morti, ecco che avrebbe posto un vero e proprio macigno sulla questione della trattativa, del negoziato segreto che lo coinvolse e coinvolse anche Paolo VI. Io credo sia questa la ragione. Una ragione squisitamente strategica”.

Ma al di là del riferimento agli uomini della scorta, c’è un altro elemento sul quale puntano coloro che sostengono la “non” presenza di Moro in via Fani: quello balistico e più in generale squisitamente tecnico/operativo. La verità giudiziaria di via Fani – che non necessariamente combacia con la verità storica - si fonda sostanzialmente sul memoriale Morucci, redatto nel 1986 e sulla cui attendibilità o meno non è questa la sede per soffermarsi.

In questo memoriale si parla di un’azione condotta da circa 11 brigatisti che, con armi obsolete – dei veri e propri residuati bellici – spararono su delle auto in progressivo rallentamento, dunque su un bersaglio mobile, colpendo un po’ dappertutto (dei colpi hanno raggiunto il secondo piano del palazzo di fronte cui si è tenuta la sparatoria). Stando alla versione riportata dal memoriale e dalle testimonianze degli stessi brigatisti rilasciate negli anni, quasi tutti i partecipanti all’agguato ebbero problemi con le armi, che s’incepparono. Insomma, più che un agguato di “geometrica potenza” quello trasmesso dalla vulgata ufficiale sembra un Circo Barnum. Letale, ma pur sempre un circo.

Naturale, allora, prestare il fianco a interpretazioni diverse della vicenda, magari in netto contrasto con quella ufficiale. Ma quando queste interpretazioni vengono argomentate e quando l’interlocutore che le propina non è esattamente l’ultimo arrivato, allora la curiosità cresce e, al di là di come la si pensi, può valer la pena ascoltare e cercare di fare una riflessione per quanto possibile scevra da preconcetti. Nello specifico, sono state diverse le persone con cui abbiamo parlato. Nessuna di loro – per svariate ragioni - ha voluto metterci la faccia. Una sì.

“Ci tengo a precisarlo – ha esordito la prima volta – non ho mai fatto parte dei servizi segreti o informativi che dir si voglia, né italiani, né stranieri”. Incontriamo l’ex generale di Divisione dell’Arma del Genio Piero Laporta – in congedo dal 2010 – in un’area aperta, priva di traffico, della Capitale. Fa freddo, tira un vento di tramontana che non fa sconti, ma l’incontro avviene al centro di un prato privo di ripari. I telefoni in macchina, come richiesto alla nostra prima telefonata.

“Lavoro sul caso Moro, e nello specifico sull’agguato di via Fani, da vent’anni. Da quando ho smesso di credere alle volgari bugie che sono state dette nel corso del tempo”.

Il generale Laporta, durante i nostri vari incontri, tutti avvenuti con modalità simili al primo, ci illustra il suo lavoro poderoso, un lavoro propedeutico alla stesura di un libro che – sostiene lui – promette non solo di far discutere, ma “di ribaltare il lavoro fatto in questi 44 anni da processi, commissioni e perizie”.

Aldo Moro – secondo lui – non era in macchina quella mattina: “Vi furono una serie di preparativi, che partirono da almeno cinque anni prima dei fatti e si esplicitarono fino a mezz’ora prima dell’agguato”. Laporta si riferisce in particolare alla notizia trasmessa da Radio Città Futura il 16 marzo, poco dopo le 8 del mattino, mentre Moro era ancora a casa in attesa della scorta, di un possibile rapimento dello statista. Un episodio controverso, ben ricostruito dal giornalista Marcello Altamura in un libro, La borsa di Moro, oggi fuori commercio.

“È probabile che proprio a seguito di questo messaggio radiofonico - ci spiega il generale esplicitando la sua teoria - qualcuno si sia presentato a casa di Moro mentre arrivava la sua scorta. Questo qualcuno potrebbe aver convinto Leonardi, che non era certo uno sprovveduto, della necessità di prevenire un eventuale rapimento prendendo in custodia Moro e facendo comunque sfilare le macchine di scorta lungo il tragitto stabilito quella mattina, magari con l’accordo di ritrovarsi da un’altra parte. A quel punto, i cinque agenti della scorta erano testimoni scomodi. Dovevano morire”.

A questo, Piero Laporta aggiunge una serie di minuziose considerazioni pratiche e balistiche, ma dal suo punto di vista, la prova principe che Moro non si trovasse nella Fiat 130 quando questa venne investita di piombo, sta nelle parole dello stesso rapito. E qui dobbiamo fermarci.

L’ex generale sostiene di avere tra le mani degli elementi assolutamente inediti e assolutamente sconvolgenti. Noi de IlGiornale.it questi elementi abbiamo avuto la possibilità di vederli. Non sta a noi valutarne l’attendibilità, non ne abbiamo la capacità e nemmeno la presunzione, ma senza dubbio si tratta di materiale interessante. Abbiamo promesso al generale di non parlarne fin quando non avrà terminato di lavorare al suo libro, ma ci siamo assicurati l’anteprima quando sarà il momento di divulgarli, nell’assoluta certezza che si alzerà un polverone o che verrà steso un velo di silenzio.

“Vedete – conclude Laporta nel nostro ultimo incontro – la commedia di via Fani non poteva essere portata a termine se non ci fosse stata la regìa concordata di cinque attori fondamentali”. Anche chi siano questi attori secondo il generale, ve lo sveleremo a tempo debito.

Quello che in conclusione possiamo dire è che, al di là delle intime convinzioni, al di là di qualsiasi polemica – giusta o strumentale che sia -, resta il ricordo, e il dolore sempre vivo, per cinque vite stroncate. Perché l’unica certezza del caso Moro sono loro, gli uomini della sua scorta. Morti senza saperne il perché, lasciando famiglie distrutte che solo con enormi sforzi hanno trovato la forza di rialzarsi. La nostra vicinanza va a loro.

Via Fani: 44 anni fa la strage della scorta di Aldo Moro. Redazione CdG 1947 su Il Corriere del Giorno il 16 Marzo 2022.

Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse

Roma, ore 9 del 16 marzo 1978. In via Mario Fani, l’auto con a bordo Aldo Moro e quella della scorta, furono bloccate all’incrocio con via Stresa da un commando delle Brigate Rosse. I terroristi aprirono immediatamente il fuoco, e in pochi secondi uccisero i cinque uomini della scorta e sequestrarono Moro, lo statista della Democrazia Cristiana poi ucciso dopo 55 giorni di prigionia. Alle 9.03 una telefonata anonima al 113 informava di una sparatoria con numerosi colpi di arma da fuoco esplosi in via Fani. 

Sul luogo della strage furono trovati, dentro un’Alfa Romeo Alfetta, il cadavere della guardia di pubblica sicurezza Giulio Rivera e il corpo agonizzante del vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi; nella Fiat 130, su cui viaggiava Moro e che precedeva l’Alfetta, i cadaveri dell’appuntato dei Carabinieri Domenico Ricci e del maresciallo dei Carabinieri Oreste Leonardi; a terra, vicino all’auto, la guardia di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino. 

Questa mattina a Roma è stata commemorata la strage di via Fani dove, il 16 marzo 1978, furono uccisi tre agenti di polizia e due carabinieri che componevano la scorta dell’onorevole Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana. Il politico, in quella circostanza, fu rapito da appartenenti all’organizzazione terroristica Brigate Rosse. I 3 giovani poliziotti, il 16 febbraio del 1979 furono insigniti della Medaglia d’oro al Valor civile, e i loro nomi sono incisi anche nelle piccole lapidi del Sacrario presente alla Scuola superiore di Polizia. 

Durante la cerimonia, un picchetto interforze, composto da personale della Polizia di Stato, dell’ Arma dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, ha reso omaggio al vicebrigadiere di pubblica sicurezza Francesco Zizzi, alle guardie di pubblica sicurezza Raffaele Iozzino e Giulio Rivera, al maresciallo maggiore dei carabinieri Oreste Leonardi e all’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci.

Sul luogo dell’eccidio sono state deposte delle corone d’alloro da parte del Presidente della Repubblica, degli altri organi costituzionali dello Stato e delle Autorità locali. Anche il capo della Polizia Lamberto Giannini e il comandante generale dell’Arma dei Carabinieri Teo Luzi, presenti alla cerimonia, hanno deposto due corone in ricordo dei poliziotti e dei carabinieri uccisi nell’attentato terroristico. Redazione CdG 1947

·        Le aste dei cimeli giudiziari.

VOLANTINO CHE RIVENDICA IL RAPIMENTO DI ALDO MORO VENDUTO ALL’ASTA PER 32.760 EURO. Da lastampa.it il 27 gennaio 2022.

È stata venduta all'asta per 32.760 euro una copia a ciclostile del volantino originale con il quale le Brigate Rosse annunciarono il rapimento dello statista democristiano Aldo Moro e l'uccisione della sua scorta in via Fani il 16 marzo 1978. 

Il lotto numero 43 del catalogo «Autografi & Memorabilia» è stato aggiudicato oggi pomeriggio durante la vendita organizzata dalla casa d'aste Bertolami Fine Arts di Roma, che nelle scorse settimane era stata preceduta da numerose polemiche. 

Stimato da Bertolami 1.500 euro, il volantino è partito in asta oggi da una base di 13.000 euro, cifra massima raggiunta dalle pre-offerte su Internet. Dopo una serie di continui rilanci, il prezzo del martello si è fermato a 32.760 euro (diritti d'asta compresi) e il volantino del gruppo terroristico è stato aggiudicato ad un collezionista privato collegato al telefono, che ha chiesto di restare anonimo.

Il volantino (misura cm 33x22), con 80 righe di testo scritte su entrambe le pagine, fu distribuito all'indomani del rapimento dello statista democristiano: si tratta di una delle numerose copie che furono distribuite dai militanti del gruppo terroristico in quel marzo di 44 anni fa. 

Il volantino con intestazione Brigate Rosse e la stella a cinque punte all'interno di un cerchio, inizia recitando: «Giovedì 16 marzo un nucleo armato delle Brigate Rosse ha catturato e rinchiuso in un carcere del popolo Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana...». E si chiude con la data 16/3/78 e la firma «Per il Comunismo Brigate Rosse». 

In seguito alle polemiche politiche sollevate dall'annuncio della vendita, si è mossa la Direzione generale archivi del ministero della Cultura, guidato da Dario Franceschini, che ha disposto una verifica sul ciclostile del Comunicato n.1 delle Brigate Rosse al fine di verificarne la peculiarità e l'interesse.

Nel fascicolo «Moro uno» della Corte di Assise di Roma, studiato e digitalizzato dalla stessa Direzione generale archivi nell'ambito del Progetto Moro, risultano già presenti infatti 41 esemplari ciclostilati originali del Comunicato n. 1. Gli ispettori ministeriali hanno verificato che si tratta di una delle tante copie ciclostilate. Anche la Digos della questura di Roma ha svolto indagini per conto della Procura.

Non è la prima volta che documenti degli anni di Piombo vanno all'asta. Il 29 marzo 2012 la casa d'aste Bolaffi di Torino nella sua sede di Milano mise in vendita 17 volantini e comunicati ciclostilati delle Brigate Rosse, risalenti al periodo 1974-1978, fra i quali anche il comunicato numero 6 del 15 aprile 1978, tristemente noto perché annunciava la condanna a morte di Aldo Moro: «L'interrogatorio al prigioniero Aldo Moro è terminato... – si legge nel testo dei terroristi –. Stendere una cappa di terrore controrivoluzionario sull'intera società è l'unico sistema con cui questo Stato, questo regime Dc sorretto dall'infame complicità dei partiti cosiddetti di sinistra vorrebbe soffocare ed allontanare lo spettro di un giudizio storico che il proletariato ha già decretato... Per quel che ci riguarda il processo ad Aldo Moro finisce qui... Aldo Moro è colpevole e viene condannato a morte».

Il lotto di 17 volantini, che erano tra quelli distribuiti dai fiancheggiatori delle Br davanti alle fabbriche, partito da una base di 1.500 euro raggiunse i 17mila euro: fu acquistato dalla Fondazione Biblioteca di via Senato a Milano, ideata e presieduta dall'ex senatore di Forza Italia Marcello Dell'Utri.

DAGOREPORT il 5 gennaio 2022. Come prevedibile, dopo il lancio Ansa e il melenso servizio sul Tg2 delle 20,30 di ieri sera i rilanci per aggiudicarsi in pre-asta il volantino n.1 del 16 marzo 1978 con il quale le BR annunciavano di aver sequestrato Aldo Moro per processarlo si sono susseguiti. Circa una ventina in una notta per un’asta fissata per il 18 gennaio dalla Casa d’incanti romana Bertolami. Nonostante il servizio del Tg2 avesse omesso il nome della Casa d’aste - riteniamo per più o meno convinto desiderio di non alimentare i rilanci - chi partecipa alle aste ci ha messo meno di un minuto a scovare sui data base internazionali dove il pezzo era messo all’incanto e a fare la propria offerta.

E, nonostante il servizio stigmatizzasse in maniera un po’ demagogica il possibile acquisto (con frasi, parafrasiamo, del tipo: ci immaginiamo come si faccia ad appendere nel salotto un simile testo…), i feticisti dei documenti – che valgono in quanto tali – si sono tuffati a pesce. E quel che fa specie osservare è che il lotto successivo, una lettera di Garibaldi, sia ancora a zero offerte. Le Br schizzano e Garibaldi resta ancorato a Quarto. Sic transit gloria mundi… 

Ma c’è un’osservazione più interessante non affrontata: come fa a esser finito all’asta quel volantino n.1, che non è una copia da carta-carbone? Moro fu sequestrato il 16 marzo 1978, che è anche la data che riporta il volantino. Che, però, non viene subito ritrovato. Il 18 marzo, sul “Corriere della Sera”, Vittorio Feltri scrive che non ci sono ancora volantini.

Il volantino viene, però, trovato proprio quel giorno: infatti il “Corsera” del 19 lo annuncia in prima pagina e pubblica l’intero testo a pagina 2. Il volantino finisce all’attenzione della polizia, che lo affida a un esperto per capire con quale macchina da scrivere è stato stilato. Il giorno dopo, infatti, il 20 marzo, un lungo articolo discetta che per la prima volta gli inquirenti hanno notato che le BR hanno usato una sofisticata macchina da scrivere IBM da 15mila lire con testina rotante ecc.

A questo punto il documento deve essere per forza entrato nel fascicolo di indagine e trovarsi oggi nell’Archivio del Tribunale di Roma in attesa di essere versato, un tempo dopo 70 anni, nell’Archivio Centrale dello Stato o, comunque, in un Archivio di Stato a disposizione di eventuali studiosi. Quindi c’è stata una manina che, da qualche parte, l’ha sfilato. Da dove viene il volantino battuto da Bertolami? Non dovrebbe essere lì… 

"Vergognoso mettere all'asta il volantino Br del caso Moro". Chiara Giannini il 6 Gennaio 2022 su Il Giornale. Politici e vittime del terrorismo sdegnati dalla vendita. "A che titolo un atto giudiziario è diventato privato?" Da dove proviene quel comunicato delle Brigate Rosse risalente a 44 anni fa messo all'asta online dalla Bertolami Fine Art, ma soprattutto come è possibile che possa essere venduto un reperto che costituisce corpo del reato? Dopo l'uscita della notizia la Direzione generale archivi del ministero della Cultura guidato da Dario Franceschini ha disposto una verifica sul ciclostile del «Comunicato n.1» delle Brigate Rosse, con cui l'organizzazione terroristica rivendicava il rapimento di Aldo Moro e l'uccisione della scorta.

«Nel fascicolo della Corte di Assise di Roma - specificano dal ministero - , studiato e digitalizzato dalla stessa DG Archivi, risultano già presenti infatti 41 esemplari ciclostilati originali del comunicato che sono l'esito di consegne da parte dei destinatari alla questura oppure di sequestri. Alcuni risultano incompleti». L'avvocato Valter Biscotti, che da anni segue legalmente le famiglie della scorta di Moro, ritiene «insolito e incredibile quanto accaduto». «I casi sono due - spiega - : o quel comunicato proviene da una delle redazioni a cui fu fatto recapitare, oppure durante la digitalizzazione qualche furbetto si è impossessato di una delle copie. Di qualunque ipotesi si tratti, è ignobile fare mercimonio di atto che riguarda fatti di terrorismo in cui hanno perso la vita delle persone».

Le reazioni politiche non hanno tardato ad arrivare. Cinzia Pellegrino (FdI), coordinatore nazionale del dipartimento tutela vittime, auspica che «la magistratura possa presto dare risposte sulla vicenda», mentre il senatore del Pd Dario Parrini, presidente della commissione Affari costituzionali a Palazzo Madama, si chiede: «Com'è potuto accadere? Sono state violate delle leggi? Di sicuro si è violato un principio di decenza e di umanità». Il senatore Maurizio Gasparri (FI), annuncia che sul «fatto di assoluta gravità» saranno chiesti «chiarimenti in Parlamento. La nostra storia e le tragedie che l'hanno caratterizzata meritano un approccio diverso». Ciro Iozzino, fratello di Raffaele, uno degli agenti morti in via Fani, chiarisce: «Sarebbe stato più giusto conservare il volantino come fosse una reliquia; venderlo all'asta è un po' una presa in giro». Il dem Enrico Borghi annuncia che col collega Filippo Sensi farà «un atto sindacale ispettivo parlamentare». Giuseppe Fioroni, già presidente della Commissione Moro, tiene invece a dire: «Mi colpisce come tutto questo sia potuto accadere e mi auguro che le autorità preposte facciano i loro doverosi accertamenti». Per la leader di Fratelli d'Italia Giorgia Meloni mettere all'asta quel volantino «è una vergogna. La testimonianza del sequestro dell'allora presidente del Consiglio, Aldo Moro, e il drammatico massacro degli uomini della sua scorta non può e non deve essere venduto al miglior offerente».

Giovanni Berardi, presidente dell'Associazione europea vittime del terrorismo e figlio del maresciallo Rosario Berardi, ucciso dalle Br il 10 marzo 1978 a Torino, parla di «ennesimo affronto ed ennesima offesa alla memoria delle vittime del terrorismo», mentre il giornalista Mario Calbresi, figlio di una delle vittime degli anni di piombo, specifica che quelle «pagine che grondano sangue devono piuttosto stare in una Casa della memoria».

La casa d'aste ieri si è affrettata a commentare: «I collezionisti di documenti storici non sono speculatori, né volgari voyeur. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia».

Chiara Giannini. Livornese, ma nata a Pisa e di adozione romana, classe 1974. Sono convinta che il giornalismo sia una malattia da cui non si può guarire, ma che si aggrava con il passare del tempo. Ho iniziato a scrivere a cinque anni e ho solcato la soglia della prima redazione ben prima della laurea. Inviata di guerra per passione, convinta che i fatti si possano descrivere solo guardandoli dritti negli occhi. Ho raccontato l’Afghanistan in tutte le sue sfumature e nel 2014 ho rischiato di perdere la vita in un attentato sulla Ring Road, tra Herat e Shindand. Alla fine ci sono tornata 13 volte, perché quando fai parte di una storia non ne esci più. Ho fatto reportage sulle missioni in Iraq, Libano, Kosovo, il confine libico-tunisino ai tempi della Primavera araba e della morte di Gheddafi e sull’addestramento degli astronauti a Star City (Russia). Sono scampata all’agguato di scafisti a Ben Guerdane, di ritorno da Zarzis, tre le poche a documentare la partenza del barconi. Ho scritto due libri: “Come la sabbia di Herat” e l’intervista al leader della Lega, dal titolo “Io sono Matteo Salvini”, entrambi per Altaforte. Sono convinta che nella vita contino solo due cose: la verità e la libertà. Vivo per raccontare il mondo, ma è sempre bello, poi, tornare a casa e prendere in mano un giornale e rileggere il tuo articolo.

Chiara Baldi per la Stampa il 6 gennaio 2022. Potrebbe essere il quarantaduesimo comunicato numero uno delle Brigate Rosse per la rivendicazione del sequestro di Aldo Moro, il presidente della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo del 1978. Ma se quello messo all'asta dalla Bertolami Fine Art sarà effettivamente il quarantaduesimo l - stabilirà solo la verifica disposta dal ministero della Cultura: le altre 41 copie ciclostilate sono già nelle mani dello Stato, essendo agli atti del processo «Moro Uno» nel fascicolo della Corte di Assise di Roma, ma - come spiega il dicastero - «alcuni documenti risultano incompleti e non tutti sono nello stesso stato di conservazione». 

A fugare i dubbi per ora ci pensa l'ex Br e uno dei massimi esperti del caso Moro, Paolo Persichetti, secondo cui quello finito in vendita «non è uno dei nove comunicati originali stampati con la famosa Ibm a testina rotante in light italic fatti ritrovare a Roma il 18 marzo 1978, bensì un testo ciclostilato di cui esistono centinaia di copie».

Certo è che l'asta che sarà battuta il 18 gennaio ha già raggiunto cifre da capogiro: partita da una base di 600 euro, con una quotazione tra i 1300 e i 1700 euro, al momento viaggia sui 7 mila con oltre 30 offerenti. Per Ilaria Moroni, direttrice dell'Archivio Flamigni, centro di documentazione specializzato nello studio del terrorismo, si tratta di «morbosità che si manifesta soprattutto quando c'è di mezzo il caso di Moro e di opportunismo da parte di chi possiede il documento e pensa di farci dei soldi. Sarebbe molto più corretto se questi preziosi documenti venissero donati agli archivi dello Stato, così da poter portare avanti una memoria storica di cui, peraltro, nel nostro Paese c'è una grande cultura».

Concorda Roberto Della Rocca, presidente dell'Associazione Italiana Nazionale Vittime del Terrorismo, che si dice «stupito della decisione di mettere all'asta un documento di questo tipo», anche se ricorda che in passato è già accaduto. «Avrei preferito che - spiega - trattandosi di documentazione storica finisse nelle mani di un ente statale». Chi difende, invece, i collezionisti è Giuseppe Bertolami, amministratore unico della Bertolami Fine Art: «Non sono speculatori né volgari voyeur. Sono, anzi, appassionati di storia, persone che la studiano e la rispettano e che, talvolta, grazie alle loro piccole scoperte, contribuiscono anche a ricostruirla. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia, una testimonianza dolorosa e preziosa della memoria della nostra comunità».

Sulla vicenda, intanto, in Parlamento arriverà una interrogazione presentata dal senatore dem Dario Parrini, che è anche presidente della commissione Affari Costituzionali a Palazzo Madama. 

«È assurdo che finisca all'asta come un qualunque oggetto d'epoca il volantino originale con cui le Brigate Rosse rivendicarono con un linguaggio barbaro e delirante il rapimento di Aldo Moro e l'assassinio in via Fani di cinque agenti della sua scorta. Com' è potuto accadere? Sono state violate delle leggi? Di sicuro si è violato un principio di decenza e di umanità». 

PAOLO COLONNELLO per la Stampa il 6 gennaio 2022. La rivendicazione del sequestro Moro derubricato a «memorabilia» e messo all'asta per un prezzo che ormai viaggia sui 7 mila euro, non può lasciare indifferente chi, come Mario Calabresi, degli anni di piombo è vittima e testimone: «Forse qualcuno ha perso la memoria di quell'orrore». 

Non è invece destino che persino certi fatti di sangue divengano a un certo punto souvenir della Storia?

«Ma quella è l'attribuzione di un massacro, non è un "memorabilia" come il biglietto di un concerto o un disegno di Fellini. Non può essere un oggetto di collezionismo che può avere elementi di passione. Questo foglio messo all'asta è la rivendicazione dell'assassinio degli agenti della scorta di Moro e del suo sequestro. L'idea che ci sia qualcuno che ha conservato quel documento e che pensa di trarne profitto, io la trovo francamente abbastanza riprovevole».

Eppure non è la prima volta che succede

«Infatti c'è un precedente: già la casa d'aste Bolaffi aveva messo in vendita diversi documenti del brigatismo nel 2012: si trattava di volantini che si aggiudicò... Indovina chi? Marcello Dell'Utri. Erano 17 documenti delle Br, tra cui il comunicato numero 6, quello che annunciava la condanna a morte di Aldo Moro. Ne scaturì proprio una polemica su "La Stampa" e io sostenni che era inopportuno». 

Come adesso?

«Sì, non ho cambiato idea. Credo che questi documenti deliranti non dovrebbero essere oggetti di lucro. L'ho già detto: sono documenti che grondano sangue e il foglio messo all'asta adesso è la rivendicazione di un pluriomicidio». 

Eppure si collezionano anche armi, abiti, manoscritti di mostri della Storia

«La passione del collezionista in questo caso diventa morbosità: perché dovrei avere il culto di un documento che rivendica un massacro? Ci sono luoghi deputati per questo genere di cose: gli archivi storici». 

Uno dei personaggi più gettonati in Italia in questo senso è Mussolini. Dovrebbe valere lo stesso?

«Faccio questo esempio: l'ultimo documento di Mussolini è un foglio scritto di suo pugno dove racconta che venne trattato bene dai partigiani che lo arrestarono. Quel documento non si trova a casa di qualche fanatico ma, giustamente, negli archivi dell'Istituto Parri di Milano». 

C'è poi la questione economica del valore di certi documenti...

«Che un documento come la rivendicazione di un omicidio abbia un valore economico, che dunque qualcuno faccia dei soldi vendendolo, mi fa abbastanza schifo. Tanto che sono tentato di comprarlo io e consegnarlo a chi certamente ne saprebbe fare buon uso, come Mario Milani, il presidente della Casa della Memoria di Brescia, testimone della strage di piazza della Loggia. L'idea che invece finisca nella casa privata di qualcuno, che poi magari lo rivenderà, rendendolo semplicemente un oggetto commerciale, mi sembra inquietante così come il fatto che qualcuno possa farne ad esempio un oggetto di culto. Sarebbe interessante, per esempio, sapere cosa poi ne ha fatto Dell'Utri dei volantini che acquistò...».

Di sicuro da noi certe ferite non si riescono mai a chiudere: dal fascismo al terrorismo, alla corruzione, la polemica è infinita... «È vero, questo perché da noi la storia è spesso utilizzata come un manganello da picchiare in testa agli avversari. Detto questo, sono convinto che siano davvero pochi quelli che al mondo riescono a fare i conti col passato, negli Usa ancora si rinfacciano la guerra di secessione. Gli unici forse sono i tedeschi: l'hanno fatta talmente grossa e devastante che per andare avanti hanno dovuto ripartire da zero». 

C'è comunque da considerare che tutt' ora il sequestro Moro non ha chiarito tutti i suoi aspetti, c'è ancora un'inchiesta aperta.

«A maggior ragione non possiamo ritenere completamente storicizzato quel periodo, è una pagina che ha ancora delle ferite aperte, zone grigie, omissioni. La casa d'aste avrebbe fatto una gran bella figura a ritirare quel documento e consegnarlo a un archivio storico. Oppure a dichiarare che i documenti che grondano sangue non si mettono all'asta». 

Volantino Br su Moro all'asta, ecco tutto quello che c'è da sapere. Sul caso Moro è ancora aperta una ferita di una nazione. Si continui la ricerca storica seria che ha bisogno dei documenti originali per essere ben compresa. L’isteria e le urla servono solo alla propaganda di parte. Paride Leporace su Il Quotidiano del Sud il 07 gennaio 2022.

Sta creando polemiche sterili, prese di posizione da Inquisizione, denunce penali, accertamenti ministeriali il fatto che la casa d’aste Bertolami Fine arts di Roma abbia messo in vendita una copia del volantino originale con il quale le Brigate Rosse rivendicarono l’omicidio dell’onorevole Aldo Moro e l’uccisione della sua scorta.

Le polemiche, tra l’altro, hanno fatto da detonatore alla promozione dell’asta, infatti l’Adn Kronos, informa che già 34 richieste di acquisto sono giunte, facendo arrivare il rialzo dell’offerta a 8.000 euro, e molte altre ne arriveranno. Il fronte della polemica da destra a sinistra ritiene politicamente scorretto che ci sia un’asta su un materiale storico che ha un suo interesse.

I collezionisti di questi reperti, di ogni provenienza storica, contribuiscono spesso a ricostruire gli avvenimenti, e non si comprende la ragione dello scandalo. In pochi hanno infatti riportato la dichiarazione dell’amministratore della casa d’asta, Giuseppe Bertolami, che a riguardo della vicenda ha detto: «I collezionisti di documenti storici non sono speculatori, né volgari voyeur. Sono al contrario degli appassionati di storia, persone che la storia la studiano e la rispettano e che, talvolta, grazie alle loro piccole scoperte, contribuiscono anche a ricostruirla. È facile prevedere che chi comprerà quel foglio lo conserverà come una reliquia, una testimonianza dolorosa quanto preziosa della memoria della nostra comunità».

Sono molti, infatti, che ricercano e custodiscono documenti originali della Guerra di Spagna, della lotta armata italiana, del fascismo nei personali archivi o in collezioni tematiche e generaliste. Né è la prima volta che si vendono volantini delle Br. Nel 2012, per esempio, da Bolaffi, Marcello Dell’Utri, noto bibliofilo e non certo sospettabile di simpatie eversive di sinistra, acquistò 17 volantini e documenti delle Brigate Rosse risalenti al periodo 1974-1978 che ritengo siano ancora custoditi alla Fondazione Biblioteca di Milano. Molti altri sono conservati in centri di documentazione e in archivi privati di cultori di materia e studiosi degli anni Settanta.

Il coro d’indignazione forse vorrebbe distruggere il materiale storico alla base della ricerca e dello studio? E se la politica cerca spazio non si comprende invece l’intervento di autorevoli giornalisti come Mario Calabresi che su Twitter ha dettato la linea: “Queste pagine grondano sangue, non possono essere comprate o vendute, diventare oggetto di collezione. L’unico luogo dove possono stare è nelle Case della Memoria a ricordarci la barbaria che fu il terrorismo”. Che il terrorismo italiano sia stato bocciato dalla Storia è una consapevolezza anche della maggior parte anche di chi ne fece parte, stabilire come e dove deve essere archiviata è un altro discorso. Forse Calabresi vuole impedire a suoi colleghi o storici di acquisire un documento?

Facciamo chiarezza sul volantino messo all’asta

Per tornare alla questione del volantino messo all’asta facciamo chiarezza sul documento. Il volantino che è stato messo all’asta, non è quello originale dei nove dattiloscritti battuti a macchina dalla celebre Ibm che usarono i brigatisti.

Fa parte di quelli diffusi dall’organizzazione per la sua propaganda clandestina, come faceva la Resistenza ai tempi del nazifascismo, e di cui da conto nel suo blog Paolo Persichetti, ex aderente alle Br e che da tempo si occupa di ricerca storica sull’argomento. Persichetti basa la sua documentazione su un rapporto della Questura di Roma, che il 29 aprile 1978 riporta numeri e zone di rinvenimento di quelli sequestrati. Molti andarono a singoli cittadini. Il volantino battuto all’asta fa parte di quella diffusione. Una parte fu sequestrata dalla Digos.

Sul caso Moro è ancora aperta una ferita di una nazione. Si continui la ricerca storica seria che ha bisogno dei documenti originali per essere ben compresa. L’isteria e le urla servono solo alla propaganda di parte.

Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” l'8 gennaio 2022. Vi sorprendete e indignate perché un volantino delle Brigate Rosse circola online, viene messo all'asta e riceve offerte di acquisto fino a 7.000 euro? Da destra a sinistra blaterate che è uno scandalo, che la memoria non può trasformarsi in merce, che così si banalizza la storia e si offendono le vittime? E così chiedete di restituire quell'oggetto ai musei, al patrimonio culturale della Nazione, di rimetterlo alla sacrosanta custodia dello Stato?  

Siete sicuri che funzioni così, che documenti e reperti, cimeli e testimonianze debbano diventare per forza oggetti di esposizione e studio in pubbliche gallerie e biblioteche e non possano essere proprietà di singoli cittadini? Che ne sarebbe allora delle miriadi di archivi e fondi privati, su cui si regge grossa parte della ricerca storiografica? Che ne sarebbe di quel mercato di pezzi di antiquariato illustre che alimenta da secoli la curiosità dei collezionisti? 

Il fatto che ciò avvenga è la migliore conferma che la storia siamo noi, come direbbe De Gregori, che il passato non è esclusiva di pochi ma appartiene a tutti, anche a chi ne conserva, tramanda o commercia dei frammenti: no, la storia non si può irrigidire solo in un museo o in un archivio di Stato, non è immobile e fissa, ma spesso sfugge ai documenti ufficiali e al controllo istituzionale, e perciò è viva e vera. 

Chissà quante pagine del passato (si pensi alle foibe) sarebbero rimaste strappate, se non ci si fosse affidati alla memorialistica personale, alla documentazione privata... E il fatto che quegli oggetti oggi circolino online è solo un segno dei tempi, la dimostrazione che anche grazie alla tecnologia l'interesse per il passato non si limita ad ambienti accademici ma si fa pop.  

E infatti si tratta di un fenomeno più diffuso di quanto si immagini. Basta dare una sbirciata su eBay, uno dei siti più noti di e-commerce, per accorgersene: qua l'attrazione per i cimeli del passato è bipartisan, spazia dai neri ai rossi.  

Di Mussolini e del fascismo, assieme a tanta paccottiglia e feticci kitsch, è possibile trovare testimonianze preziose, come quel manifesto originale del plebiscito del 1934 con tanto di «Sì» in bella vista, acquistabile a 1.500 euro; o la copia autentica de La Gazzetta del Popolo del 10 maggio 1936, il giorno successivo alla proclamazione dell'Impero (1.099 euro); così come di valore sono un testo autografo del Duce su un documento della Rsi, venduto a 899 euro, e una lettera autografa di Mussolini a Matilde Serao, disponibile a 1.970 euro.  

Per ciò che riguarda Hitler, se non riuscite a trovare una copia originale del "Mein Kampf", come quella strapagata in un'asta a Monaco nel 2019, potete dirottare su un manifesto anni '30 che riporta una dichiarazione di odio contro la Francia tratta dallo stesso libro e venduta a 1.500 euro. 

Se invece avete nostalgie comuniste e cercate tracce autentiche di Stalin, potete procurarvi il suo autografo alla cifra non esattamente modica di 3.000 euro; c'è pure la prima edizione americana del "Libretto Rosso" di Mao, acquistabile a 7.524 dollari, o la sua statua enorme di bronzo, viene 12mila euro; in caso siate fan di Che Guevara, eccovi la sua foto originale scattata da Korda e venduta a 1.900 euro, purtroppo non pagabili in comode rate. 

Per Marx avete doppia scelta: comprare la firma autografa, sganciando 6.000 euro, o accontentarvi della prima edizione americana del "Manifesto del Partito Comunista", vostro a soli 668 euro. Se invece avete vocazioni letterarie, affidatevi a cimeli eccellenti come il testo "Guerra sola igiene del mondo" di Marinetti, edizione del 1915 con dedica, venduta a 890 euro, ola raccolta di "Opere" di Giacomo Leopardi, pubblicata nel 1845 da Le Monnier e acquistabile a 1.800 euro.  

Fidatevi, non farete un torto alla storia e alla memoria patria se oserete acquistarli. Dimostrerete piuttosto di avere sensibilità per la cultura e di non spendere tutti i vostri soldi in macchine, champagne e mignotte.

·        Le Brigate Rosse.

(ANSA il 27 ottobre 2022) Svolta nelle indagini sul conflitto a fuoco in cui morirono la brigatista Margherita 'Mara' Cagol e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso. Quarantasette anni dopo il conflitto a fuoco avvenuto nell'Alessandrino in occasione della liberazione dell'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, sono stati interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. 

Gli accertamenti dei carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi, ormai quasi cinquant'anni fa, partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate Rosse. 

L'attività investigativa fa seguito agli accertamenti scientifici cui sono stati sottoposti, con le più moderne tecniche, i reperti sequestrati all'epoca della sparatoria. Nel corso degli anni si sono fatte varie ipotesi sulla identità del brigatista che riuscì a fuggire. A far riaprire le indagini è stato l'esposto presentato, con il tramite di un avvocato, da Bruno d'Alfonso, anche lui carabiniere, figlio dell'appuntato morto nella sparatoria del 5 giugno 1975. "E' una questione di giustizia e di verità storica.

Anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni", ha detto d'Alfonso dopo aver presentato l'esposto. Le indagini sono affidate ai carabinieri del ROS e coordinate dai magistrati del pool sul terrorismo della Procura di Torino e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.

Br, si riapre la caccia al terrorista che riuscì a dileguarsi dopo lo scontro a fuoco in cui morìrono Mara Cagol e un carabiniere. Accertamenti dei Ris di Parma sui reperti sequestrati all'epoca della sparatoria che portò alla liberazione dell'imprenditore sequestrato Vittorio Vallarino Gancia. interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. La Repubblica il 27 Ottobre 2022.

Svolta nelle indagini sul conflitto a fuoco in cui morirono la brigatista Margherita 'Mara' Cagol e l'appuntato dei carabinieri Giovanni D'Alfonso. Quarantasette anni dopo il conflitto a fuoco avvenuto nell'Alessandrino in occasione della liberazione dell'imprenditore Vittorio Vallarino Gancia, sequestrato il giorno prima, sono stati interrogati a Milano alcuni ex appartenenti alle Br. Gli accertamenti dei carabinieri del Ris di Parma potrebbero dare un nome a chi, ormai quasi cinquant'anni fa, partecipò a quello che è passato alla storia come il primo sequestro di persona a scopo di autofinanziamento operato dalle Brigate Rosse.

L'attività investigativa fa seguito agli accertamenti scientifici cui sono stati sottoposti, con le più moderne tecniche, i reperti sequestrati all'epoca della sparatoria. Nel corso degli anni si sono fatte varie ipotesi sulla identità del brigatista che riuscì a fuggire. A far riaprire le indagini è stato l'esposto presentato, con il tramite di un avvocato, da Bruno d'Alfonso, anche lui carabiniere, figlio dell'appuntato morto nella sparatoria del 5 giugno 1975. "E' una questione di giustizia e di verità storica. Anche per onorare la figura di mio padre, un eroe che diede la vita per le istituzioni", ha detto d'Alfonso dopo aver presentato l'esposto.

Le indagini sono affidate ai carabinieri del ROS e coordinate dai magistrati del pool sul terrorismo della Procura di Torino e dalla Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo.

La morte di Mara Cagol e del carabiniere nel ‘75: un cold case delle Br riaperto da un’impronta. Giovanni Bianconi su Il Corriere della Sera il 27 Ottobre 2022. 

Si cerca il terrorista che scappò: c’è un’ipotesi sulla sua identità. Analisi sulla macchina da scrivere utilizzata dal fuggitivo per una relazione sui fatti 

L’irruzione dei carabinieri, il 5 giugno 1975, nel covo delle Br a Spiotta di Arzello (Alessandria): nella sparatoria morirono Mara Cagol e il carabiniere Giovanni D’Alfonso

È uno dei capitoli incompleti della storia delle Brigate rosse; uno dei primi, scritto 47 anni fa: la sparatoria alla cascina Spiotta, in provincia di Alessandria, in cui furono uccisi l’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e Margherita «Mara» Cagol, che con il marito Renato Curcio aveva fondato le Br. Il tenente Umberto Rocca perse un braccio e un occhio, il maresciallo Rosario Cattafi rimase ferito, l’appuntato Pietro Barberis ne uscì illeso mentre un secondo brigatista riuscì a scappare. La sua identità è sempre rimasta sconosciuta, ma adesso una nuova indagine coordinata dalla Procura di Torino e dalla Procura nazionale antiterrorismo, con l’appoggio dei carabinieri del Ros, ipotizzano un nome: quello di un ex dirigente delle Br arrestato qualche anno dopo, condannato per altri omicidi e ferimenti firmati con la stella a cinque punte chiusa nel cerchio e oggi libero dopo aver scontato le pene accumulate.

L’impronta

È una «pista» emersa da nuovi elementi, non ancora sufficienti ad attribuirgli con certezza la partecipazione a quel conflitto a fuoco. C’è però una traccia: un’impronta digitale rilevata all’epoca nella cascina-covo che — riesaminata con le nuove tecniche a disposizione — è risultata compatibile con quella dell’ex br archiviata al momento della sua cattura. Per essere sicuri che appartenga a lui si tenterà l’esame del Dna, che con le nuove tecniche a disposizione del Ris di Parma si potrebbe estrarre dal vecchio reperto. Tuttavia pure l’eventuale attribuzione dell’impronta nel covo sarebbe un indizio ma non una prova del coinvolgimento nella sparatoria.

Sentito Patrizio Peci

Nel frattempo gli inquirenti procedono con gli strumenti più tradizionali, e sono tornati a interrogare alcuni ex brigatisti; tra questi il proto-pentito Patrizio Peci, che però non sarebbe stato in grado di fornire elementi utili per via della «compartimentazione» all’epoca vigente dentro l’organizzazione; una regola secondo la quale i compagni venivano informati su operazioni e fatti a cui non avevano partecipato solo se serviva ai compiti assegnati loro.

Gli interrogatori e l’inchiesta

Si sta dunque provando a riempire le parti mancanti di una pagina di storia del terrorismo italiano con gli strumenti dell’indagine penale, una via che inevitabilmente suscita reticenze tra ex militanti (soprattutto se non pentiti né dissociati) che invece sanno ciò che accadde quel giorno e finora hanno sempre taciuto. Riaprire fascicoli giudiziari che possono portare a nuove incriminazioni (in questo caso per omicidio) per fatti così indietro nel tempo, non è considerata una strada percorribile dai protagonisti della lotta armata di allora. Il corso della giustizia però ha altre regole, e l’inchiesta è stata riaperta sulla base di un esposto presentato un anno fa dal figlio del carabiniere ucciso, Bruno D’Alfonso, anche lui un passato nell’Arma, assistito dall’avvocato Sergio Favretto. In una ventina di pagine più allegati, D’Alfonso e il suo legale hanno ricostruito tutto quanto accertato nel 1975 dai carabinieri di Acqui Terme e Torino intervenuti dopo la sparatoria, confluito nel processo a carico di un brigatista arrestato il giorno prima, Massimo Maraschi, accusato di sequestro di persona.

Il rapimento di Vallarino Gancia

Alla cascina Spiotta, infatti, Cagol e il suo complice tenevano in ostaggio il «re delle bollicine» Vallarino Gancia, rapito il 4 giugno per ottenere un riscatto che rimpinguasse le casse dell’organizzazione. Lo stesso giorno Maraschi fu arrestato in seguito a un incidente stradale, e si dichiarò prigioniero politico. Nelle perlustrazioni dell’indomani, una pattuglia dei carabinieri giunse alla Spiotta, e notate le macchine parcheggiate bussò alla porta. I brigatisti risposero a colpi di pistola, mitraglietta e bombe a mano, uccidendo e ferendo i carabinieri e innescando la sparatoria in cui perse la vita la donna.

La «relazione interna»

Il brigatista che sfuggì al fuoco dei carabinieri riuscì a scappare tra campi e boscaglia, e riagganciati i compagni scrisse una sorta di «relazione interna» trovata nel covo milanese di via Maderno in cui a gennaio ‘76 fu arrestato Renato Curcio. Lì c’è una versione dei fatti che accredita la versione di una «esecuzione» di Mara Cagol, sempre smentita dai carabinieri superstiti. Uno dei quali, Rocca, ha anche detto di aver successivamente riconosciuto e identificato il fuggitivo, indicandone anche la provenienza da un marcato accento emiliano; ma senza la conferma dell’altro collega che l’aveva visto in faccia, l’appuntato Barberis morto nel 2003, la sua testimonianza non portò a nulla. Tra i reperti ora all’esame del Ris ci sono pure la macchina da scrivere trovata in via Maderno, con cui verosimilmente fu scritta la relazione del fuggitivo, e l’originale del documento, alla ricerca di altre tracce. Ma si tratta di accertamenti ancor più complicati rispetto a quelli sull’impronta digitale. «A noi interessa una piena ricostruzione dei fatti — spiega l’avvocato Favretto — che all’epoca non fu possibile perché le indagini furono inspiegabilmente chiuse in tutta fretta».

Si riapre il caso sull'uccisione di Mara Cagol. Caccia a un altro brigatista. Il Tempo il 27 ottobre 2022

La Procura di Torino ha riaperto le indagini sulla morte di Mara Cagol e dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, rimasti uccisi in un conflitto a fuoco in provincia di Alessandria durante la liberazione dell’imprenditore Vittorino Gancia, nel 1975. L’inchiesta, affidata all’aggiunto Emilio Gatti, ha portato a individuare alcuni reperti, che sono stati analizzati dai carabinieri del Ris di Parma, tra cui un’impronta digitale e tracce di Dna. Nelle scorse settimane, a quanto si apprende, sono anche stati sentiti alcuni testimoni, tra cui alcuni ex appartenenti alle Brigate Rosse.

Le indagini sulla morte di Mara Cagol, moglie di Renato Curcio e cofondatrice delle Br, e dell’appuntato dei carabinieri Giovanni D’Alfonso, sono state riaperte un anno fa, dopo che Bruno D’Alfonso, figlio del militare ucciso, ha presentato un esposto alla Procura di Torino, chiedendo di riesaminare l’episodio alla luce delle conoscenze maturate negli anni sul mondo delle Brigate Rosse e alla luce delle nuove tecniche forensi.

In particolare, i carabinieri del Ris di Parma guidato dal colonnello Giampietro Lago, hanno esaminato i reperti raccolti all’epoca dei fatti utilizzando le attuali tecniche di indagine, analizzando Dna, reperti balistici e altro materiale ritrovato nel casolare di Melazzo, in provincia di Alessandria, dove il 5 giugno 1975 era stato individuato e liberato l’imprenditore Vittorino Gancia, sequestrato dalle Br il giorno prima. L’obiettivo è accertare chi fosse il brigatista che era insieme a Mara Cagol e che quel giorno è riuscito a sfuggire all’arresto.

L’ipotesi di Bruno D’Alfonso, è che, a sapere qualcosa di quello che è accaduto siano «i vertici delle Br dell’epoca, come Mario Moretti, Lauro Azzolini, Roberto Bonisoli o la stessa Nadia Mantovani», che abitava con Renato Curcio nel covo di via Maderno a Milano, dove il 18 gennaio 1976 è stato trovato un dattiloscritto redatto dal brigatista che era di guardia durante la liberazione di Gancia ed è riuscito a sfuggire alla cattura. «Rileggendo le sentenze e gli atti, vedendo quello che è stato fatto e che non è stato fatto nel corso delle indagini - ha detto Bruno D’Alfonso - ho notato diverse anomalie. Di fatto, dopo che è stato trovato il dattiloscritto a 7 mesi dalla sparatoria in cui è morto mio padre, l’indagine non è stata più approfondita. Ci si è solo preoccupati di accusare Massimo Maraschi, arrestato il giorno prima del conflitto. A lui sono state addossate tutte le responsabilità ed è stato condannato per omicidio». Delle indagini si occupano i carabinieri del Ros. 

"L'altro Br con la Cagol era Azzolini". Riaperta l'indagine sulla morte della terrorista. Parla l'ufficiale che intervenne dopo il blitz. Luca Fazzo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

«Arrivai alla Cascina Spiotta poche decine di minuti dopo il conflitto a fuoco. Mara Cagol era stesa al suolo, nell'erba, già morta. La situazione era terribile, c'erano i due colleghi feriti in modo gravissimo. Dell'altro brigatista che era con lei non c'era più traccia, era riuscito a dileguarsi nella boscaglia. Iniziammo da subito a cercare di dargli un nome, da alcune tracce all'inizio ci convincemmo che fosse Alfredo Bonavita, uno dei fondatori delle Brigate Rosse. Adesso invece a quanto pare si è scoperto che era un altro del nucleo storico, Lauro Azzolini». Uno dei due che nel 1977 avrebbero gambizzato Indro Montanelli. Azzolini spiega al il Giornale: «Dico solo che di quella operazione si assunse per intero la responsabilità, l'organizzazione Brigate Rosse».

Luciano Seno, alto ufficiale dei carabinieri e poi del Sismi, nel 1975 era l'uomo di punta della squadra appena costituita dal generale Dalla Chiesa per dare la caccia ai terroristi rossi. Anche lui nei mesi scorsi è stato interrogato dai magistrati torinesi che hanno riaperto l'inchiesta sullo scontro a fuoco in cui persero la vita la brigatista Mara Cagol e il maresciallo Giovanni. D'Alfonso, arrivando a dare un nome al compagno della Cagol dileguatosi nei boschi.

Come fu individuata la Cascina Spiotta?

«Dalla Chiesa aveva avuto l'intuizione di allertare tutti i reparti territoriali dell'Arma perché dessero la massima attenzione ad appartamenti presi in affitto, casali, ville. Non si parlava di cascine ma i colleghi di Acqui avevano messo nell'elenco anche la Spiotta. Il 4 giugno era stato rapito l'industriale Vallarino Gancia, due giorni dopo era stato fermato nella zona Maraschi, un ragazzo che si era subito dichiarato prigioniero, capimmo che il sequestro era opera delle Br, fummo allertati noi del nucleo speciale e venne avviato il protocollo preparato per questi casi. Ma il sopralluogo alla Spiotta era di routine, arrivarono lì dopo avere visitato alcuni casolari attigui, non erano preparati allo scontro a fuoco fin quando la Cagol non tirò la bomba che staccò di netto l'avambraccio al tenente Rocca. Il maresciallo D'Alfonso iniziò a sparare con tutto quello che aveva a disposizione, sparò fino all'ultimo proiettile che aveva, forse riuscì a ferire la Cagol. Ma venne ucciso dai due brigatisti che cercavano di fuggire, ma si trovarono la strada chiusa da una nostra auto. La donna venne uccisa dall'appuntato Barberis: e non ho mai saputo se durante la sparatoria o da un colpo finale. Quando scoprimmo che era la latitante Cagol la cosa mi fece un certo effetto. Perché poco tempo prima ero andato a Fiera di Primiero, in Trentino, a incontrare i suoi familiari, e la sorella Milana mi aveva detto: Viviamo nella paura che suoni il telefono e ci dicano che Margherita è morta. Toccò a me farle quella telefonata e accompagnarla il 6 giugno all'obitorio a fare il riconoscimento».

L'altro brigatista invece riuscì a fuggire.

«Purtroppo sì, ma è chiaro che non si può dare nessuna colpa ai colleghi che erano sul posto e che si erano trovati nel pieno di una tragedia. Le loro reazioni, e anche i loro ricordi personali, le dichiarazioni che hanno fatto in seguito, possono essere stati sicuramente condizionati dallo stato d'animo in cui si erano trovati all'improvviso. Erano andati lì per fare un accertamento e si erano trovati attaccati con mitra e bombe a mano».

L'inchiesta successiva come venne condotta?

«Su questo ho qualche dubbio in più, diciamo che si poteva probabilmente essere più precisi. Adesso si è arrivati a identificare Azzolini. Come fisionomia e statura direi che corrisponde. Ma a quarantasette anni di distanza dai fatti avere delle certezze rischia di essere molto difficile».

Da un’impronta sulla tastiera la prova regina dell’inchiesta. L’esposto del figlio del militare ucciso. Cruciali le tracce trovate su una macchina da scrivere. Luca Fazzo il 28 Ottobre 2022 su Il Giornale.

Una vecchia macchina da scrivere riapre la finestra, a quasi mezzo secolo di distanza, su un episodio cruciale nella storia del terrorismo rosso in Italia: il sanguinoso scontro a fuoco che nel giugno del 1975, vicino Aqui Terme, costò la vita al maresciallo dei carabinieri Giovanni D’Alfonso e a Margherita «Mara» Cagol, fondatrice delle Brigate Rosse e moglie del loro leader Renato Curcio. Il bliz dei carabinieri portò alla liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia, rapito il giorno prima dai brigatisti in una delle loro prime imprese di autofinanziamento e tenuto prigioniero nella cascina Spiotta, teatro della battaglia tra terroristi e carabinieri. Il compagno che insieme alla Cagol custodiva l’ostaggio e che partecipò insieme a lei alla sparatoria con i militari non è mai stato identificato, benché il numero dei membri di spicco delle Brigate Rosse fosse allora piuttosto ristretto. Recentemente la Procura di Torino e i Ros dei carabinieri, con la collaborazione dei reparti scientifici dell’Arma, hanno riaperto l’inchiesta in base anche all’esposto del figlio di Giovanni D’Alfonso, il maresciallo che venne ucciso dai terroristi nel tentativo di aprirsi la strada verso la fuga. Dalle tracce lasciate all’epoca all’interno della cascina non è emerso nulla di utilizzabile. Ma uno spunto decisivo potrebbe essere venuto dalla macchina da scrivere trovata qualche anno dopo nel covo milanese di via Maderno, dove vennero arrestati Curcio e la sua compagna Nadia Mantovani. Nel covo venne sequestrata anche una ampia relazione dattiloscritta sui fatti della Cascina Spiotta, il cui autore - per i dettagli inediti che vi erano contenuti - era verosimilmente lo stesso brigatista che aveva partecipato allo scontro. Si trattava di una ventina di fogli, una specie di rapporto di servizio destinato probabilmente proprio a Curcio, e utile forse alla indagine interna decisa dalle Br per individuare gli errori che avevano portato al disastroso esito della «operazione Gancia». Da lì sono partite le nuove indagini, che hanno portato gli inquirenti torinesi a interrogare sia ex appartenenti alle forze dell’ordine sia alcuni esponenti del vecchio gruppo dirigente delle Brigate Rosse. Una attività resa possibile da fatto che il reato di concorso in omicidio non si prescrive mai, e doverosa dalla prospettiva di dare una risposta ai molti interrogativi ancora aperti sui fatti della Spiotta. «È importante - dice Bruno D’Alfonso, figlio del maresciallo ucciso - che dopo tanti anni ci sia ancora qualcuno disposto a scoprire qualcosa e a risolvere il caso. Non so quanto, ma oggi sicuramente la verità è meno lontana». A rendere tutto più difficile, nell’inchiesta-bis, c’è sicuramente il tempo trascorso, che fa sì che alcuni protagonisti non siano più in vita, che i ricordi degli altri siano fatalmente annebbiati, che la ricerca di riscontri materiali e documentali sia impervia. Ma la ricostruzione potrebbe essere preziosa non solo per individuare il nome mancante (per il quale la prescrizione del reato sarebbe quasi certa, viste le attenuanti inevitabili, specie se dovesse trattarsi di un esponente - come quello citato qua sopra - che ha da tempo preso le distanze dall’esperienza della lotta armata) ma anche per completare il quadro storico del brigatismo delle origini. Per i quadri delle Brigate Rosse lo scontro della Spiotta divenne una sorta di spartiacque, un mito fondativo: la prova che non si poteva più tornare indietro.

 Idealisti & sconfitti. Chi erano i ventenni degli Anni 70 che entrarono nelle BR. Paolo Di Stefano su Il Corriere della Sera il 10 Maggio 2022.  

Alessandro Bertante in Mordi e fuggi ricostruisce la fase aurorale delle Brigate Rosse. Cosa volevano quei giovani che gravitavano fra l’università e le fabbriche occupate, in una Milano irriconoscibile? Dialogo con i coetanei di oggi. A distanza, ma con alcuni punti in comune: dal «vogliamo tutto» al «vogliamo almeno qualcosa» 

Che cosa ne saprà un ventenne di oggi dei ventenni degli anni 70? Niente, o quasi. Forse anche ispirato da questa domanda, Alessandro Bertante ha voluto scrivere Mordi e fuggi. Perché in realtà il «romanzo delle BR», come recita il sottotitolo, è anche altro: è il romanzo di un sogno o meglio di un’illusione. L’illusione di cambiare il mondo e di cambiarlo con le armi. Meglio ancora: il romanzo dell’ubriacatura di una generazione. Non tutta una generazione, ma pur sempre una sua minoranza significativa. Questa minoranza è la protagonista del libro di Bertante. Leggendo Mordi e fuggi , un ventenne di oggi è messo nelle condizioni migliori per capire i suoi coetanei di mezzo secolo fa, perché a raccontare quella storia si immagina che sia uno di loro: Alberto Boscolo, figlio di un impiegato milanese dell’Alfa Romeo, dunque un «piccolo borghese» che diventa un militante comunista e poi un combattente armato delle Brigate Rosse. Che cosa ne saprà oggi delle Brigate Rosse un ventenne? Poco o niente. Ma leggendo il romanzo di Bertante imparerà un sacco di cose, trovandosi egli stesso dentro quella vicenda per tanti versi drammatica e per altri affascinante.

Da Fenoglio a Culicchia

Non che manchino i libri sull’argomento: a parte la fiumana di memoriali che hanno inondato l’editoria, ci sono i romanzi con i loro sguardi trasversali e imprevedibili. Uno dei più straordinari è uscito l’anno scorso ed è Il tempo di vivere con te , in cui Giuseppe Culicchia rievoca la vita del suo adorato cugino, il brigatista Walter Alasia, ucciso dalla polizia nel dicembre 1976 nel cortile di casa. Un altro è quello di Loris Campetti, L’arsenale di Svolte di Fiungo , che racconta dal punto di vista di chi l’ha vissuta (Campetti è del 1948 e all’epoca aveva 24 anni) una assurda storia di militanza e di fuga intrapresa per evitare l’ingiusta accusa di associazione sovversiva nel clima terribile seguito alla strage di Piazza Fontana e alla morte di Pinelli, al mancato golpe di Junio Valerio Borghese, alle lotte operaie e al manifestarsi del terrorismo. Sono affreschi di un’epoca lontana, che riesce a rivivere con rinnovato vigore più attraverso la letteratura che nei libri di storia, com’è accaduto, per esempio, alla lotta partigiana grazie ai romanzi di Fenoglio, di Calvino o di Vittorini.

Il libro di Bertante (classe 1969) è un esempio di questa capacità di rendere dall’interno una vicenda altrimenti (e giustamente) demandata ai manuali delle scuole o alle indagini degli storici.

Emozioni, dubbi e confusione

Mordi e fuggi cerca di restituire le emozioni, i dubbi, le esaltazioni, le ingenuità di un protagonista (immaginario ma verosimile) di quegli anni, e lo fa senza tradire il rigore documentario della cornice, tanto più interessante in quanto ricostruisce la fase aurorale delle Brigate Rosse sin da quando si chiamavano, al singolare, Brigata Rossa subito dopo il convegno fondativo di Costaferrata. Renato è il fondatore Renato Curcio, Mara è la sua fidanzata e futura moglie Margherita Cagol, anche lei dirigente delle BR. C’è Alberto Franceschini, detto il Mega, proveniente dal gruppo di Reggio Emilia. C’è il collaboratore di giustizia Marco Pisetta, a cui si deve la prima retata della polizia. C’è poi la presenza imponente di Giangiacomo Feltrinelli, il compagno Osvaldo, con i suoi Gruppi di Azione Partigiana. E c’è il traliccio di Segrate in cui morì l’editore.

Le diagnosi psicologiche sui nostri adolescenti e postadolescenti le ritroviamo, simili, nel combattente Alberto

C’è l’ambiente formicolante dell’università in una Milano effervescente e cupa, estranea a ogni cliché, compreso quello neorealista, una città di melting pot che in parte coincide con quella raccontata magnificamente da Alberto Rollo in Un’educazione milanese , una Milano che certo un ventenne di oggi, magari frequentatore di happy hour e di apericena, stenterebbe a riconoscere. Ci sono le fabbriche occupate, la Sit-Siemens e la Pirelli, c’è la Comune in cui lo «studentame» ribelle convive con gli operai di estrema sinistra, ci sono le bettole in cui si discute, si fa baldoria e si beve vino di pessima qualità.

La stessa «vulnerabilità»

Insomma, ci sono tutte le tracce per capire. E magari si trovano anche gli elementi per un confronto tra i cosiddetti Baby Boomers e la cosiddetta Generazione Z: un confronto solo in apparenza abissale, se si pensa che le diagnosi psicologiche fatte sugli adolescenti e postadolescenti di oggi - compresi gli stati d’animo depressivi e le infinite solitudini - le ritroviamo, simili, in un combattente come Alberto che nel corso della sua maturazione militante non cessa di lamentare il «torpore malinconico», la fragilità, l’incostanza e la vulnerabilità. Tutto ciò che lo spinge a cercare altrove la propria esaltazione: e il romanzo di Bertante ci mostra che se lui sembra realizzarsi nella lotta armata, molti suoi compagni parimenti idealisti, a cominciare dalle ragazze che incontra e di cui si innamora, trovano la loro esaltazione in una battaglia altrettanto convinta ma non violenta.

Bivio tra pistole e volantini

È anche in questa varietà umana il pregio di Mordi e fuggi : non tutti gli arrabbiati contro lo Stato erano Alberto, non tutti erano Renato, non tutti erano il Mega, non tutti impugnavano pistole e fucili, non tutti erano tipi da «mordi e fuggi». Si parte con una scena di volantinaggio ai cancelli della Sit-Siemens nell’inverno 1969 e si passa quasi immediatamente allo strazio di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969, che è il vero discrimine tra il prima e il dopo anche per Alberto, il protagonista, che da allora sempre più viene sedotto dalla svolta militare e dalla violenza come forma di giustizia sociale e persino di moralità. E noi gli stiamo dietro e lo capiamo anche senza condividerne i furori distruttivi. È questo il bello della letteratura. Ci riporta alle ragioni emotive di quella “rivoluzione” fasulla, attraverso le voci di dentro e senza didascalie eccessive.

Fare i conti con la solitudine

Sicché possiamo vivere la progressiva infatuazione del ventenne Alberto per la rivolta (mediata dalla lettura appassionata di Albert Camus), la polemica e poi la rottura nei confronti della famiglia, il disamore per lo studio, l’attrazione fatale per le battaglie operaie... Alberto pensa e noi seguiamo i suoi pensieri, a volte vorremmo consigliarlo ma lui non si lascia consigliare: deluso dall’aria «troppo rigida e pretesca» di quelli del Movimento Studentesco, spinto dall’«energia di un ideale dalla forza apparentemente inesauribile», diventa un militante comunista, inebriato già solo dalla parola «comunista». È però ancora un «cane sciolto», innamorato di Anita, ben presto in rotta con Alberto quando capisce che il ragazzo sta imboccando una strada senza ritorno.

Oggi i ragazzi protestano per l’ambiente e contro il razzismo, fanno volontariato, diffidano però dell’impegno politico

Tante sono le fratture che deve vivere un brigatista per diventare brigatista: non solo abbandonare i genitori e gli amici, non solo rinunciare agli amori, ma votarsi alla solitudine ascetica della lotta armata. Perché se qualcuno pensa che la lotta armata sia solo una questione collettiva, si sbaglia: è sorprendente l’itinerario di Alberto laddove lo troviamo isolato nel suo appartamentino, in attesa di avere istruzioni sulla prossima «azione», rapina, rapimento o attentato che sia: solo nell’azione esemplare troverà l’orgoglio di sé e del proprio essere al mondo, il resto è disperazione, visto che sempre più entra nella clandestinità e nel totale isolamento. Allora in Alberto si affaccia il pentimento di aver abbandonato la commistione della Comune con i neonati (tanti) che urlavano, il mangiare e il dormire insieme, il proletariato della fabbrica, i combattenti e le combattenti, i sindacalisti, gli studenti incazzati, quelli del Collettivo Politico Metropolitano, quelli di Potere Operaio e quelli di Lotta Continua, quelli di Avanguardia operaia... Ciò che emerge attraverso Alberto è che, quando sembra troppo tardi, anche un militante delle BR può essere assalito (e salvato) dai dubbi, oltre che dalla paura e magari da quella che poco prima gli sembrava viltà.

Generazione «vogliamo tutto»

Con questo libro Bertante ha voluto affrontare una domanda: chi era il ventenne idealista rivoluzionario degli anni 70? E quanta distanza c’è tra quel ventenne e un ventenne di oggi? I ragazzi inquieti e ribelli sono inquieti e ribelli a modo loro, risponderebbe forse Tolstoj parafrasando l’incipit di Anna Karenina . Se è vero che quella era la generazione del «vogliamo tutto», il ventenne di oggi conosce le stesse malinconie e gli stessi dubbi di Alberto: più realisticamente vorrebbe almeno qualcosa. Ma se per fortuna non imbraccia il fucile, non va nemmeno a votare. Magari protesta contro la catastrofe ambientale, contro il razzismo, contro la violenza di genere, fa volontariato, ma diffida di ogni forma di impegno politico e la sera torna a casa forse più triste di prima.

Eleonora Capelli per “la Repubblica” il 5 maggio 2022.

Si sono esibiti con il passamontagna in testa, davanti a una bandiera delle Brigate Rosse, mettendo in musica trap versi come «Zitto zitto, pagami il riscatto, zitto zitto, sei su una Renault 4», con la stella a cinque punte a incorniciare il nome della band, "P38". 

Così i "trapper brigatisti" si sono presentati il 1° maggio sul palco dello storico circolo Arci "Tunnel" di Reggio Emilia, davanti a una sessantina di persone, in una tappa del loro Br Tour.

Nella terra d'origine di fondatori delle Br, come Lauro Azzolini, Franco Bonisoli, Prospero Gallinari e Tonino Loris Paroli, il concerto adesso viene definito «un vero insulto alla memoria delle vittime» dal sindaco Luca Vecchi. Uno schiaffo a chi ancora fa i conti con il lutto, come Lorenzo, figlio di Marco Biagi, ucciso nel 2002 a Bologna da un commando delle Nuove Brigate Rosse. «Le cose schifose sono due: la prima è che il titolare del locale li ha difesi dopo l'esibizione - ha scritto Lorenzo sui social - e la seconda è che non è la prima volta che questo "gruppo" viene invitato nei locali». 

Il tour dei trapper aveva già toccato Roma, Bergamo, Padova e Bologna, ma la ribalta concessa da un circolo Arci ha provocato una vera bufera. «È successa una cosa gravissima, noi ci dissociamo totalmente - dice il presidente regionale Arci, Massimo Maisto, dopo che il presidente del circolo aveva minimizzato parlando di provocazione artistica - Questo non è un gioco, siamo un'associazione nonviolenta e pacifista e non dimentichiamo cosa sono stati gli anni di piombo in termini di morte e dolore».

I componenti del gruppo, che si firmano Astore, Papà Dimitri, Jimmy Pentothal e Yung Stalin, non hanno trovato di meglio che rispondere con un comunicato delirante: «Aldo Moro è stato un morto, come lo sono i morti di overdose, come lo sono i morti sul lavoro nelle fabbriche, come lo sono i morti di una pandemia gestita disastrosamente». 

Un terribile salto all'indietro, a pagine di storia che si speravano chiuse. Sui concerti del gruppo adesso sono in corso accertamenti della Digos, su disposizione dell'autorità giudiziaria. Mentre i versi terribili, che rievocano quella stagione di violenza cieca, suonano anche su You Tube.

Rap Br dei P38 Gang, indagato presidente circolo Arci. Maria Fida Moro: "Denuncio quella band". La Repubblica il 6 Maggio 2022.  

La figlia dell'onorevole assassinato dai terroristi adirà alle vie legali contro il gruppo che inneggia alle Brigate Rosse. Denunciati anche a Pescara dal figlio di un'altra vittima, Giovanni D'Alfonso. Il presidente del circolo Arci 'Il Tunnel' di Reggio Emilia che il primo maggio ha ospitato il concerto della band 'P38 - La Gang' è indagato per istigazione a delinquere. Secondo quanto si apprende ne risponderebbe in concorso con i componenti del gruppo musicale, che nei testi si ispira alle Brigate Rosse, che però sarebbero ancora da identificare, dal momento che si esibiscono a volto coperto. Lo stesso Vicini commenta sui social un avviso ricevuto nell'ambito dell'indagine seguita dalla Digos di Reggio Emilia.

Martedì è previsto un presidio di solidarietà dei Carc davanti alla Questura per l'interrogatorio di Vicini.

"Intendo agire per vie legali. Qui non si tratta di libertà di pensiero, ma è istigazione al terrorismo. Mio padre, Aldo Moro, era il contrario di tutto ciò che c'è in quei testi, altrimenti sarebbe stato comprato come altri. Invece è stato ucciso. E ancora oggi in Italia e in Europa paghiamo l'assenza della sua politica lungimirante".

Così, alla Gazzetta di Reggio, Maria Fida Moro, figlia primogenita dello statista democristiano ucciso dalle Br, annuncia l'intenzione di affidarsi al suo legale per valutare gli estremi di una denuncia nei confronti della band P38 - La Gang.

"Solo chi è passato per un dolore del genere può davvero capire cosa si prova e può capire che anche una canzone può avere esiti volgari e pericolosi - aggiunge Maria Fida Moro - Mio padre era una persona ad esempio che non era assolutamente attaccata al denaro, che non ha mai accettato regali e usava l'indennità parlamentare per far studiare i bambini poveri del sud. Di tutto questo ci si dimentica, spesso si dimenticano anche le persone aiutate, ora diventate adulte. Se fosse stato attaccato al denaro non sarebbe mai morto ammazzato. Invece era attaccato a solidi principi giuridici del fare il bene e non il male, sapendo che, ahimè, proprio facendo il bene sarebbe stato ammazzato. Purtroppo lo ha sempre saputo".

I quattro componenti del gruppo sono stati inoltre denunciati per apologia di reato dalla Digos di Pescara in riferimento alla loro esibizione al circolo Arci Scumm nel capoluogo adriatico la sera dello scorso 25 aprile. A riferirlo è l'edizione abruzzese de Il Messaggero.

Sulla vicenda sono arrivati due esposti in procura, uno dei quali a firma di Bruno D'Alfonso, uno dei tre figli di Giovanni il carabiniere pennese di 44 anni ucciso dalle Brigate Rosse l 5 giugno 1975 nello scontro a fuoco alla cascina Spiotta per la liberazione dell'industriale Vittorio Vallarino Gancia. Denuncia per ora contro ignoti visto che i componenti del gruppo sono anonimi: adottano nomi di fantasia e indossano passamontagna bianchi. Per identificarli anche dopo la seconda esibizione a Reggio Emilia lo scorso primo maggio è al lavoro la direzione centrale Anticrimine della Polizia.

Michele Serra per “la Repubblica” il 6 maggio 2022. 

Per giocare con la morte bisogna conoscerne il peso. La sola cosa interessante da sapere, a proposito del trio "P38-La Gang" che si è esibito a Reggio Emilia cantando le gesta delle Brigate Rosse, è se il loro gioco sia spensierato (nel quale caso si tratta di tre stupidi, e il caso è chiuso) oppure cosciente.

In questo secondo caso l'arte, vera o presunta, non può essere un alibi, e i tre pitrentottini per primi non possono non saperlo o non capirlo. Se scrivo un inno allo stupro, in qualunque contesto, le stuprate e gli stuprati me ne chiederanno conto. Se scrivo un inno al sequestro e all'assassinio, i sequestrati e gli assassinati me ne chiederanno conto. Non ci sono sconti possibili, di fronte alla sopraffazione, e se è vero che il mondo spesso appare come una somma di sole sopraffazioni, non è un buon motivo per iscriversi all'albo dei sopraffattori: questo, non altro, fu il crimine orrendo del terrorismo rosso.

Anche nel caso che il trio voglia richiamarsi all'ambiguità dell'arte, alla sua non corrispondenza ai canoni triti del buon senso, sappia, il trio, che per ambire all'ambiguità (o al sarcasmo, o alla seconda lettura) bisogna essere artisti per davvero. L'arte non è, in sé e per sé, un lasciapassare. Ci sono fior di coglioni che, avendo studiato da "provocatore", credono che le loro coglionate siano provocazioni. Ma bisogna anche avere studiato da artista, averne il talento e lo spirito di sacrificio, per potersi permettere di parlare di rapimenti, omicidi, sangue. Lo scandalo dell'arte ha bisogno, per pretendere attenzione, di enorme lavoro, fatica, studio. Altrimenti è solo uno scandalo - uno dei tanti - della mediocrità.

"Ti metto in una Renault 4", inchiesta sulla band pro Brigate rosse P38. E i 'compagni' gli pagano le spese legali. Il Tempo il 17 maggio 2022.

"Ti metto dentro una Renault 4 (il modello di auto in cui è stato trovato il corpo senza vita del segretario della Dc, Aldo Moro, il 9 maggio 1978 , ndr), Brigate rosse scritto sul contratto" cantano i P38 la Gang, nome che è tutto un programma, nelle loro canzoni che si possono ascoltare anche su Spotify. Il gruppo per i riferimenti al terrorismo è stato fatto oggetto di numerose denunce e i componenti sono stati identificati dalle forze dell'ordine, nonostante si esibiscano col passamontagna e si facciano chiamare con pseudonimi come Young Stalin, Astore, Papà Dimitri e Jimmy Pentothal.  

A Torino c'è un fascicolo aperto con l’ipotesi di reato di istigazione a delinquere ed è indagato anche il presidente del circolo Arci di Reggio Emilia in cui il gruppo si è esibito nel concerto del primo maggio. Ma non è un caso isolato. Sono state acquisite dalla procura piemontese le denunce sulla band ’P38 la Gang’ per il concerto che lo scorso 25 aprile è stato tenuto dal gruppo in Abruzzo, nel circolo Arci Scumm di Pescara. Durante la performance pescarese, i ragazzi hanno inneggiato alle Brigate rosse con passamontagna bianchi a coprire il volto e nomi di fantasia per non farsi riconoscere. Sono stati denunciati, per apologia di reato, dalla Digos del capoluogo abruzzese, dopo l’esposto alla procura pescarese di Bruno D’Alfonso, figlio del carabiniere di Penne (Pescara), Giovanni d’Alfonso, vittima di terrorismo, ucciso dalle Br nel ’75, nella sparatoria per la liberazione di Vittorio Vallarino Gancia. La denuncia di Pescara è stata la prima segnalazione nei confronti della band alla procura e se il reato di apologia di reato resterà al tribunale di Torino, dov’è stato aperto il fascicolo, per gli altri reati si procederà nel tribunale del capoluogo adriatico. 

Intanto in area antagonista si mobilitano per la band: in una raccolta fondi promossa sul sito Produzioni dal basso sono stati raccolti oltre 7mila euro per le spese legali. 

P38, Bruno D’Alfonso: «Io, il primo a denunciare la band che canta le Br: minacciato». Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 18 Maggio 2022.

Bruno D’Alfonso, carabiniere in pensione, è figlio di Giovanni, l’appuntato ucciso dalle Br nel 1975. Ha presentato una denuncia in Questura a Pescara: «Istigano al terrorismo». 

La canzone più famosa parla del rapimento Moro e s’intitola «Renault», il testo fa riferimento alla vettura in cui venne trovato il corpo del leader della DC: «Presidente non mi sembra stanco, la metto dentro una Renault 4». Poi ce ne sono altre, tutte raccontano le Brigate rosse e in stile rapper ne magnificano le gesta. A portarle sul palco di alcuni circoli privati d’Italia i «P38 Gang»: si esibiscono incappucciati, usano pseudonimi per rimanere anonimi e hanno la stella a cinque punte come simbolo. Le rime che cantano, però, sono stilettate al cuore per chi negli anni di piombo ha pianto e tuttora piange i propri cari uccisi o gambizzati.

La denuncia

Tra loro c’è Bruno D’Alfonso: è il figlio di Giovanni, il carabiniere di 44 anni ucciso dalle Br il 5 giugno 1975 in un conflitto a fuoco alla cascina Spiotta, nell’Alessandrino, durante la liberazione dell’industriale Vittorio Vallarino Gancia. Quel giorno morì anche Mara Cagol, la moglie di Renato Curcio. Bruno, anche lui carabiniere (in pensione), ora ha 57 anni e lo scorso 29 aprile ha depositato una denuncia in questura a Pescara, contro la band. Il giorno dopo ha fatto lo stesso a Reggio Emilia, nella speranza di bloccare il concerto del gruppo in programma il primo maggio: «Non ci sono riuscito. Fino a qualche settimana fa non sapevo neanche chi fossero. Poi mio figlio mi ha detto che si erano esibiti il 25 aprile in un locale di Pescara. Abbiamo scritto al titolare del circolo, ma lui ha sminuito dicendo che era solo una provocazione politica. Per me è istigazione al terrorismo».

Il marchandising

L’ex carabiniere ha ascoltato alcuni brani dei P38 e li ha seguiti sui social, scoprendo che la musica era affiancata da un merchandising di t-shirt con il volto di Curcio oppure con la P38 e la stella a cinque punte. «Non solo è offensivo, è pericoloso. Per chi si culla in certi ideali, passare dalle parole ai fatti non è difficile. Quei ragazzi inneggiano agli anni di piombo». Bruno D’Alfonso, che da anni si batte per ristabilire la verità sulla morte del padre, ha poi ricevuto una minaccia che lui collega alle querele contro la band: «Mi è stato inviato un messaggio anonimo su Instagram con la foto in bianco e nero di mio padre, sul volto una X rossa e la scritta “Sarai il prossimo”».

La colletta

Nel frattempo, dopo i suoi esposti, i rapper sono stati identificati e denunciati per i loro concerti: «Hanno tanti fan e nei giorni scorsi è stata lanciata una colletta per pagare le spese legali, sono già stati raccolti 3mila euro», insiste l’ex carabiniere. Gli atti sono stati trasmessi alla Procura di Torino. Nel capoluogo piemontese, infatti, già da dicembre i pm Enzo Bucarelli e Paolo Scafi indagano sul gruppo: l’ipotesi di reato è istigazione a delinquere.

Paolo Griseri per “la Stampa” l'1 aprile 2022.

Quando i carabinieri del generale Dalla Chiesa perquisirono l'abitazione di Renato Curcio, il fondatore delle Br, trovarono nelle agende l'indicazione degli appuntamenti delle ultime settimane. In diverse date l'indicazione era «Bestia feroce». Un nome in codice, quello di Silvano Girotto, frate Leone, francescano, guerrigliero nel Cile del dittatore Pinochet, un passato nella Legione straniera. Tornato in Italia dal Sudamerica, Girotto aveva accettato di infiltrarsi nelle Brigate Rosse. Fu lui a consentire l'arresto dei fondatori del gruppo armato, Curcio e Franceschini, a Pinerolo, l'8 settembre del 1974. È morto ieri a Torino all'età di 83 anni.

«Pensavamo che sarebbe sparito e per questo lo interrogammo prima del processo con una testimonianza a futura memoria», ricorda oggi Giancarlo Caselli che con l'allora procuratore di Torino, Bruno Caccia, aveva seguito il tentativo di infiltrazione di Girotto. Anni duri e difficili. L'interrogatorio a futura memoria rende bene il clima di quei giorni. Smentendo tutti i timori "frate mitra" non fuggì. E non venne nemmeno eliminato per vendetta dai brigatisti. Si presentò invece al processo ai capi storici delle Br che si celebrò a Torino nell'aula di corso Vittorio Emanuele nelle settimane del rapimento Moro. 

Processo celebrato in una città blindata, quando fu quasi impossibile comporre la corte d'assise perché la paura teneva lontani i giudici popolari. E quando il presidente degli avvocati torinesi, Fulvio Croce, venne assassinato dai brigatisti per il solo fatto di aver accettato la loro difesa d'ufficio.

I terroristi nelle gabbie ammutolirono quando videro entrare Girotto in aula. Il frate prese posto di fronte alla corte e raccontò i motivi della scelta di infiltrarsi nelle Br. Di come da ragazzo si fosse arruolato nella Legione straniera, di come ne fosse fuggito dopo tre mesi, inorridito dalle torture dei francesi ai prigionieri algerini, della sua conversione religiosa in carcere a Torino, catturato dopo una rapina a un tabaccaio. 

Girotto scelse il nome di frate Leone, uno dei più stretti collaboratori di san Francesco negli ultimi anni della sua vita. Dopo la partecipazione alle manifestazioni operaie a Borgomanero (dove diventò "il prete rosso") il frate partì in missione per la Bolivia e qui aderì alla lotta armata contro il dittatore Suarez. Si trovava in Cile nei giorni del golpe appoggiato dalla Cia per rovesciare Salvador Allende. Combatté contro i militari di Pinochet, venne ferito, si rifugiò nell'ambasciata italiana e venne rimpatriato. Era la fine del 1973. Per quale motivo un combattente con questo curriculum decise di condannare la lotta armata e, anzi, di accettare la proposta del generale Dalla Chiesa tentando di infiltrarsi nelle Brigate Rosse?

In una intervista rilasciata pochi mesi dopo l'arresto di Curcio e Franceschini, "frate mitra" spiegò la nuova conversione: «Nel contesto italiano la lotta armata è un'avventura tragica e senza sbocchi Non sono concettualmente contrario alla lotta armata ma lo sono quando essa non è necessaria. Se tornassi in America Latina - diceva nel 1975 - riprenderei il mitra perché so che là non esiste alternativa». 

Pur in assenza dei social, anche all'epoca si sprecarono le dietrologie sulla figura di Silvano Girotto. Alimentate da un particolare che viene ricostruito da Giancarlo Caselli e Mario Lancisi in un libro del 2015 intitolato Nient' altro che la verità.

Per arrivare alle Br Girotto aveva contattato un medico di Borgomanero, Enrico Levati. Pochi giorni prima dell'incontro fissato dal frate con Curcio e Franceschini a Pinerolo (doveva essere l'atto dell'ingresso definitivo del religioso nelle Br) un anonimo telefonò a Levati avvisandolo: «Curcio sarà arrestato domenica a Pinerolo».

Chi sapeva dell'operazione degli uomini di Dalla Chiesa? E perché nonostante la telefonata non si riuscì ad avvisare Curcio e Franceschini? L'unico messo in allerta fu Mario Moretti, capo della colonna romana e organizzatore, quattro anni dopo, del sequestro e dell'assassinio di Aldo Moro. 

Ma il vero segreto, quello che sarebbe rimasto per molto tempo il cruccio di Silvano Girotto, è perché l'Italia, a partire dalla sinistra, lo abbia considerato, in fondo, un traditore e non un benefattore, come effettivamente fu. L'arresto di Curcio e Franceschini ebbe un peso determinante nella lotta alla lotta armata. Senza quell'arresto non ci sarebbe stato il processo ai capi storici delle Br che nei giorni del sequestro Moro sarebbe diventato il contraltare ai proclami brigatisti, la dimostrazione che, nonostante le difficoltà, lo Stato c'era, continuava a funzionare, non era stato colpito al cuore come volevano far credere i terroristi. Girotto si è spento mercoledì sera a Torino, circondato dalla moglie boliviana (conosciuta durante la resistenza agli squadroni di Suarez) e dai nipoti. Giancarlo Caselli lo ricorda così: «Un uomo dalle mille esperienze e dalle mille sfaccettature, certamente un uomo decisivo nel contrasto alla lotta armata».

La figlia di Silvano Girotto: «Quel giorno in cui mio padre mi disse: sono Frate Mitra, ma non un traditore».  Massimo Massenzio su Il Corriere della Sera il 2 aprile 2022.

«Ho sempre saputo che mio padre aveva avuto una vita speciale, ma la verità sul suo passato l’ho conosciuta solo a 19 anni». Daniela, figlia maggiore di Silvano Girotto, era appena nata quando «Frate Mitra», infiltrato per conto del generale Carlo Alberto dalla Chiesa, riuscì a far arrestare i fondatori delle Br, Renato Curcio e Alberto Franceschini. Un evento che cambiò la storia d’Italia e la vita dell’ex missionario francescano, morto giovedì a 82 anni.

Il maresciallo

Figlio di un maresciallo dei carabinieri, Girotto aveva avuto un’adolescenza turbolenta, conoscendo prima il riformatorio e poi il carcere. In mezzo, ancora minorenne, si era arruolato per tre mesi nella legione straniera francese, ma tornò in Italia inorridito. In cella avvenne la sua conversione e Girotto abbracciò l’ordine francescano. Dopo qualche esperienza pastorale, andò in una missione in Bolivia e si ritrovò nel mezzo di un golpe militare. Decise di unirsi ai ribelli, guadagnandosi il soprannome di «Frate Mitra» e l’espulsione dall’ordine francescano. In Bolivia conobbe Carmen, la donna che poi avrebbe sposato nel 1973, in Cile, dove fu ferito e poi rimpatriato in Italia. Qui iniziò il terzo capitolo della sua vita, segnata dal suo contributo alla cattura dei capi storici delle Brigate Rosse.

«Traditore»

«La narrazione di quel periodo è stata sempre sbagliata e lo ha fatto soffrire molto. Per anni è stato bollato come “traditore” e perfino “prezzolato” — racconta Daniela Girotto —. Tutte fantasie. Quando pensava che una cosa fosse giusta la faceva. Punto. Senza retropensieri». Fu così che l’ex frate di sinistra, che aveva abbracciato la guerriglia in Sud America, iniziò a collaborare con i carabinieri, convinto che la lotta armata fosse ancora evitabile e non necessaria. Ebbe diversi incontri con Curcio, alcuni «a torso nudo» perché i brigatisti volevano essere sicuri che non avesse addosso un registratore. L’8 settembre ‘74, a Pinerolo, nel giorno del reclutamento ufficiale di Girotto, Curcio e Franceschini vennero arrestati.

La testimonianza

«Mio padre sosteneva che sarebbe potuto andare avanti e “consegnarli tutti”, ma le cose andarono diversamente. Decise comunque di testimoniare al processo e non ha mai avuto la scorta. Ha tolto semplicemente il nome dal citofono e dall’elenco telefonico. Quando gli chiedevo perché, mi rispondeva “perché sì”». Nell’estate del 1993, però, ci fu la rivelazione: «Avevo finito il liceo e stavo per partire per un anno sabbatico prima dell’università — ricorda la figlia di Frate Mitra —. Eravamo in cortile, mi fece sedere e mi disse “adesso ti racconto”. Così ho saputo che mio padre era stato frate e tante altre cose. Fui meravigliata, ma da subito orgogliosa di un padre che aveva fatto la cosa giusta. Leggendo libri e giornali dell’epoca ho invece capito il dolore di mio padre, quella sofferenza che lo ha divorato da dentro».

Pendolare

La vita «normale» di Girotto era quella di un pendolare, elettricista, che ogni mattina prendeva il treno. Fino al 1982 nessuno gli ha offerto un lavoro a Torino e nel 2002 la lunga lettera scritta alle figlie Daniela e Federica si trasformò nell’autobiografia «Mi chiamavano Frate Mitra», suo testamento spirituale. «Quel libro è stato catartico per lui, ha ricominciato a vivere e finalmente la gente ha iniziato a guardarlo con occhi diversi. Forse ci voleva un po’ di distanza storica». Ieri è stato il momento dell’ultimo saluto a Girotto, con un funerale laico al tempio crematorio: «La sua religiosità era forte, ma molto personale. Vissuta in modi diversi a seconda dei differenti momenti della sua vita. Non era più legato alla Chiesa come istituzione». Dopo la pubblicazione del libro ha vissuto per 13 anni in una missione in Etiopia con la moglie Carmen e poi ha fatto la spola fra la Bolivia e Torino, prima di trasferirsi stabilmente nel quartiere Campidoglio dopo l’inizio della pandemia: «Per 49 anni sempre insieme a mia madre, che per farci andare all’università si era rimessa a studiare e aveva preso il diploma da infermiera — dice Daniela —. È stato un marito, un padre e un nonno molto presente. Un esempio e uno stimolo per me, anche quando discutevamo. Cosa mi mancherà di più di lui? Tutto, era mio padre».

Morto a 83 anni. La vita misteriosa di ‘frate Mitra’: dalle rapine ad infiltrato nelle BR per far catturare Curcio. David Romoli su Il Riformista il 3 Aprile 2022. 

Silvano Girotto, già padre Leone, per la stampa “frate Mitra”, se ne è andato a 83 anni portandosi nella tomba il segreto dell’operazione che l’8 settembre 1974 avrebbe dovuto decapitare le Brigate Rosse, con l’arresto dei due principali leader Renato Curcio e Alberto Franceschini, e che ruotava tutta intorno al misterioso “frate guerrigliero”. Compiacenti oggi come allora i media non si pongono domande. Accreditano una biografia dell’ex francescano nella quale si fondono evidentemente elementi reali e il lavoro di fantasia che portò i capi delle Br, in contrasto netto con tutte le loro regole, a fidarsi dello sconosciuto che li consegnò al generale Dalla Chiesa.

Figlio di un maresciallo dei carabinieri, nato nell’aprile 1939 a Caselle Torinese, Girotto si mette nei guai con la giustizia ancora minorenne, lo prendono mentre passa illegalmente il confine con la Francia, si arruola nella Legione Straniera dalla quale diserta dopo appena tre mesi, a suo dire perché inorridito dalla repressione feroce contro i militanti dell’Fnl algerino. Torna in patria e finisce in galera dopo la rapina in una tabaccheria finita male. In carcere scopre la religione, indossa il saio, diventa francescano. Nel 1969 è ordinato sacerdote: padre Leone fa un po’ il prete operaio, il vescovo di Novara gli proibisce di predicare, lui chiede di essere spedito in America latina.

Questo, almeno, è il racconto di Girotto. Il problema nella sua avventurosa biografia è che ad accreditarla c’è sempre e solo la sua parola. La presenza in Bolivia nel 1971 è certa. Più discutibile la versione in stile “Rambo col saio” delle sue imprese durante il golpe del 21 agosto del colonnello Banzer: “Mi trovai nel pieno di un massacro, quando da un nido di mitragliatrici cominciarono a sparare sopra una folla di bambini e mamme. Imbracciai le armi. Lanciai una granata e feci saltare il nido di mitragliatrici”. Pochi giorni dopo Girotto esce da una casa nella quale si nasconde un militante ricercato dal nuovo regime. Giusto un attimo dopo la polizia irrompe e lo arresta. È sempre la parola del frate, che a quel punto aveva smesso il saio e si era anche sposato con una boliviana, a garantire la militanza in Cile contro il regime di Pinochet. Qualcuno ancora oggi lo mette addirittura tra il fondatori del Mir, il gruppo armato della sinistra cilena. Più sobrio e serio, nella sua inchiesta televisiva sul terrorismo italiano La notte della Repubblica, Sergio Zavoli lo liquidò in pochissime parole: “Dall’America Latina ritornò con la fama, in gran parte millantata, di frate guerrigliero”.

In realtà c’è probabilmente qualcosa in più delle vuote vanterie di un miles gloriosus con la bandiera rossa. La biografia eroica di Girotto sembra studiata sin nei particolari per spingere le Br ad accettare le sua proposta di collaborazione senza andare per il sottile. A rendere noto quella storia rivoluzionaria che riassumeva tutta la mitologia dell’epoca fu del resto un periodico di estrema destra, Il Borghese. Forte dell’articolo che lo descriveva come una specie di pericolo pubblico, l’ex frate si presentò a un comandante partigiano, Giovan Battista Lazagna, chiedendo di metterlo in contatto con le Br. Nella memorialistica dei decenni successivi i leader delle Br hanno giurato tutti di non essersi mai fidati del rodomonte, di aver fiutato subito la trappola e di aver pertanto deciso di accoglierlo sì, ma con rigida compartimentazione, senza metterlo al corrente di nessun dato sensibile. Di fatto però, pur non sapendone niente, Curcio e Moretti lo incontrarono e fu poi preso un nuovo appuntamento a Pinerolo, l’8 settembre, con il solo Curcio.

C’è qui un secondo mistero: perché Dalla Chiesa decise di far scattare la trappola proprio quel giorno, prendendo nella rete il solo Curcio, invece di infiltrare il frate e di aspettare fino a poter catturare l’intero vertice brigatista? Probabilmente il generale sapeva che la copertura del suo uomo stava per franare. Due giorni prima dell’appuntamento una telefonata anonima avvertì Enrico Levati, medico vicino alle Br, che a Pinerolo Curcio sarebbe stato arrestato. Le Br pensarono che l’avvertimento partisse da Israele, che già aveva offerto loro aiuto perché la destabilizzazione in Italia avrebbe aumentato il loro peso contrattuale con gli Usa come punto di riferimento nel Mediterraneo. Di fatto, chi abbia fatto quella telefonata è a tutt’oggi ignoto ma Dalla Chiesa deve aver subodorato che la storiella del frate rivoluzionario era arrivata agli sgoccioli.

La telefonata andò comunque a vuoto. Il medico era fuori città, il messaggio fu lasciato alla moglie che lo avvertì solo il giorno dopo. Le Br, a quel punto, disponevano di forze troppo esigue per rintracciare in tempo Curcio e rifiutarono l’aiuto di Autonomia, che avrebbe potuto sguinzagliare un numero ben superiore di macchine. Dalla Chiesa godette poi di un vero colpo di fortuna: Curcio avrebbe dovuto presentarsi da solo all’incontro, mentre Franceschini avrebbe dovuto viaggiare verso Roma. Decise invece, violando le regole dell’organizzazione, di andare verso Torino con Curcio e finì nella rete anche lui. Dopo il colpaccio, Girotto se ne uscì con una sgangherata lettera alle Br, sul modello di quelle usate dall’Fbi nell’operazione Cointelpro con la quale avevano sgominato le Black Panthers.

Li accusava di essere “piccoli borghesi frustrati e megalomani” che spalancavano le porte a una sanguinosa repressione contro “le vere Avanguardie dei lavoratori”. La passione militante lo abbandonò però subito dopo quel proclama. Scomparve dalla scena, salvo raccontare di nuovo la storia della sua vita, vera o falsa che fosse, in un paio di libri, ripeterla nel 2000 di fronte a una delle tante inutili commissioni parlamentari d’inchiesta sul terrorismo e incontrare infine nel 2002, tramite i buoni uffici di suor Teresilla Barillà, i due uomini che aveva fatto arrestare 28 anni prima. Curcio fu gelido. Franceschini cordiale, quasi amichevole. Della storia italiana degli anni ‘70 Girotto non è stato un protagonista e neppure un comprimario: piuttosto un’anonima pedina.

David Romoli

La polvere sotto il tappeto. Emilio Alessandrini fu giustiziato per un tragico abbaglio. Otello Lupacchini su Il Riformista il 10 Febbraio 2022.  

1979 annus horribilis. A quella del primo sindacalista e militante del Partito Comunista Italiano, Guido Rossa, a Genova, seguiva l’uccisione, qualche giorno dopo, del primo magistrato a Milano, Emilio Alessandrini, che dal suo arrivo in città, alla fine del 1968, e sino alla sua tragica scomparsa, con funzioni di sostituto procuratore, s’era sempre occupato di terrorismo e, in particolare, di eversione di destra. Il giornalista Walter Tobagi, che sarebbe stato ucciso il 28 maggio dell’anno seguente dal gruppo terrorista di estrema sinistra Brigata XXVIII marzo, scrisse sul Corriere della Sera: «Sarà per quella faccia mite, da primo della classe che ci lascia copiare i compiti, sarà per il rigore che dimostra nelle inchieste, Alessandrini è il prototipo del magistrato di cui tutti si possono fidare; era un personaggio simbolo, rappresentava quella fascia di giudici progressisti, ma intransigenti, né falchi chiacchieroni, né colombe arrendevoli».

Quelli di Emilio Alessandrini a Milano furono gli «anni di piombo» e, periodicamente, delle stragi. Piazza Fontana, piazza della Loggia, Italicus, Peteano, le uccisioni di magistrati, poliziotti, carabinieri, e l’ultimo delitto eclatante, l’assassinio di Aldo Moro, gli episodi maggiori, o i più visibili, fino a quel momento, di una guerra allo Stato, nella quale il nemico della democrazia indossava di volta in volta maschere diverse. E muoveva burattini dai colori apparentemente opposti, «rossi» e «neri»: figure di poco o nessuno spessore, sovente inconsapevoli dei fili che li guidavano, disposti a uccidere, e a essere uccisi, o, i più astuti e prudenti, a tacere su quello che sapevano o intuivano, per salvare la faccia, e soprattutto la pelle.

Furono gli anni in cui i protagonisti della dura stagione di lotta anticomunista apertasi sul finire degli anni Sessanta, erano passati dal «partito del golpe» alla P2, strutturatasi come il club dell’oltranzismo atlantico, in cui si ritrovavano i vertici dei Servizi segreti italiani, alti ufficiali dell’Esercito, dell’Aeronautica, della Marina e dei Carabinieri, ministri, parlamentari e politici di vari partiti, dalla Democrazia Cristiana al Partito Socialista Italiano, dal Partito Socialdemocratico al Partito Liberale, fino al Movimento Sociale Italiano; alti magistrati, tra cui il procuratore generale della Repubblica di Roma, Carmelo Spagnuolo; e poi giornalisti, finanzieri, tra cui Roberto Calvi, presidente del Banco Ambrosiano, imprenditori, tra cui il futuro presidente del Consiglio Silvio Berlusconi.

L’impegno profuso e le doti investigative evidenziate nelle delicate indagini relative ad alcuni attentati dinamitardi compiuti a Milano dalle Squadre d’Azione Mussolini, erano valsi, il 14 febbraio 1972, a Emilio Alessandrini, insieme al collega Luigi Fiasconaro, un elogio per «la prontezza, la sagacia, l’energia e lo zelo» con cui aveva affrontato l’affaire. La stessa formazione terroristica, peraltro, a qualche giorno di distanza, si sarebbe resa protagonista di un nuovo attentato, questa volta diretto proprio contro di lui: un ordigno venne fatto esplodere nel cortile dello stabile dove risiedeva, provocando, fortunatamente, solamente danni alle cose. «Alle 16.30 del 12 dicembre 1969 un ordigno esplodeva nel salone centrale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in Piazza Fontana a Milano, uccidendo 16 persone e ferendone 88. Un secondo ordigno, inesploso, veniva rinvenuto nella sede della Banca Commerciale di Piazza della Scala tra le 16.25 e le 16.30. Si trattava di una cassetta portavalori… chiusa a chiave e contenuta in una borsa in skai di colore nero. Gli inquirenti ne decidevano la immediata distruzione e così, la sera stessa la cassetta veniva fatta brillare nel cortile interno della Banca Commerciale senza verificarne il contenuto. Quasi contemporaneamente nell’arco di un’ora, altri tre ordigni esplodevano in Roma, dove rimanevano ferite 18 persone in totale».

Questo l’incipit della requisitoria del 6 febbraio 1974 con la quale il pubblico ministero Emilio Alessandrini chiedeva al giudice istruttore il rinvio a giudizio di Franco Freda, Giovanni Ventura e altri per associazione sovversiva e strage in relazione alle bombe di Milano e Roma del 12 dicembre 1969. Emilio Alessandrini, peraltro, era stato uno dei primi a condurre indagini sull’Autonomia Operaia milanese. Come altri suoi colleghi meneghini, cercava non solo di affrontare il problema eversivo dal punto di vista giudiziario, ma di comprendere il fenomeno dal punto di vista sociale. In una relazione svolta a un incontro di studio, organizzato dal Consiglio Superiore della Magistratura, nell’estate del 1978, aveva avuto modo di affrontare il problema delle connessioni fra criminalità comune e criminalità politica, dall’angolo visuale della istituzione carceraria.

Gli argomenti utilizzati appaiono di estrema attualità e rilevanza rispetto agli odierni fenomeni di radicalizzazione che, nel contesto carcerario, trovano terreno fertile: sostenne che nella sua esperienza aveva potuto notare «persone che entrano in carcere per qualche episodio di intolleranza politica, escono, e poi, dopo qualche tempo, le ritrovi denunciate, arrestate per reati sicuramente comuni»; che i motivi che spesso caratterizzano il fenomeno inverso, criminali comuni che una volta in carcere abbracciano l’eversione, fossero da individuare nella «esigenza di dare uno scopo alla propria esistenza futura ed una spiegazione alla propria vita passata»; che lo strumento repressivo fosse necessario, ma non sufficiente nella soluzione dei problemi eversivi, credendo a tal fine fondamentale un’istituzionalizzazione del dissenso.

Tra gli anni Settanta e i ruggenti anni Ottanta, erano cominciate anche le prime disavventure del Banco Ambrosiano: Roberto Calvi, indisturbato, creava società fantasma in Svizzera e in altri paradisi fiscali e utilizzava le stesse per intercedere con lo Ior, la banca vaticana; gli ispettori della Banca d’Italia, però, avevano cominciato a insospettirsi, fino a denunciare diverse irregolarità, inviate al magistrato Emilio Alessandrini, prontamente deceduto, tuttavia, in epoca utile, perché non se ne potesse occupare.

«Oggi, 29 gennaio 1979 alle ore 8,30 il gruppo di fuoco Romano Tognini «Valerio» dell’organizzazione comunista Prima Linea, ha giustiziato il sostituto procuratore della Repubblica Emilio Alessandrini. Era una delle figure centrali che il comando capitalistico usa per rifondarsi come macchina militare o giudiziaria efficiente e come controllore dei comportamenti sociali e proletari sui quali intervenire quando la lotta operaia e proletaria si determina come antagonista ed eversiva». Rileggere questa rivendicazione dopo aver rievocato l’impegno professionale di Alessandrini dà la misura dell’abisso in cui erano sprofondate quelle formazioni terroristiche.

Otello Lupacchini. Giusfilosofo e magistrato in pensione

Nascita e morte della lotta armata nel romanzo delle Brigate Rosse. Alessandro Gnocchi il 16 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Bertante racconta il nucleo storico dei terroristi attraverso gli occhi di un ragazzo che capisce: nessuno vuole la rivoluzione.

Mordi e fuggi (Baldini + Castoldi, pagg. 206, euro 17; in uscita il 20 gennaio) di Alessandro Bertante è un affilato romanzo sulla nascita delle Brigate Rosse. L'autore conosce l'argomento. Bertante si è laureato con una tesi su Re Nudo, la rivista della sinistra extraparlamentare che pubblicò per prima i volantini delle Br. Relatore: lo storico Giorgio Galli. Le sue conoscenze sono al servizio di una storia tanto significativa quanto a presa rapida. Mordi e fuggi vale anche come descrizione dello stile di Bertante, se azzannate le prime pagine, vorrete velocemente sapere come andranno a finire le vicende di Alberto, il protagonista; e l'autore, con bravura, vi accontenterà.

Ecco, chi è Alberto? Lo chiediamo proprio a Bertante: «È uno dei due fondatori delle Brigate Rosse mai identificati. Sappiamo che agirono sul campo, ad esempio nelle rapine che i terroristi utilizzavano come forma di finanziamento. Renato Curcio e gli altri membri storici, quando furono arrestati, si rifiutarono di fare i loro nomi».

Alberto è in rotta con la famiglia borghese ma anche col movimento studentesco al quale appartiene. Le lotte degli anni Sessanta non hanno condotto a nulla. Nonostante gli slogan e le prediche sfiancanti, gli studenti sono borghesi compiaciuti. Non faranno nulla se non parlare. Alberto, invece, vuole sentirsi in grado di cambiare qualcosa. Il comunismo promette un futuro radioso a patto di fare la rivoluzione. Il problema è la mancanza di un solido legame con i lavoratori, in particolare gli operai delle grandi città. Le Brigate Rosse sono il gruppo che con maggiore forza cerca il consenso nelle fabbriche soprattutto di Milano. Mordi e fuggi è un romanzo milanese quasi al cento per cento, e non è questione di strade nebbiose e altri cliché. Bertante ci fa vedere i cancelli della Sit-Siemens, lo spaccio dell'Alemagna, la zona africana tra Corso Buenos Aires e i viali che conducono alla Stazione, il quartiere di Porta Romana quando in via Orti, al posto di premi Nobel e conduttori televisivi, c'erano le osterie della leggera, come veniva chiamata la piccola criminalità.

Alberto passa da un gruppo all'altro. Decisivo è l'ingresso nel Collettivo Politico Metropolitano, dal quale nasce Sinistra Proletaria e con quest'ultima siamo ormai a un passo dalle Brigate Rosse. La svolta è la bomba di Piazza Fontana, esplosa il 12 dicembre 1969 a Milano, nella Banca nazionale dell'agricoltura. Di fronte ai diciassette morti, e ai novanta feriti, Alberto, e altri come lui, rompono gli indugi. Chiediamo conferma a Bertante: «La frustrazione politica dopo Piazza Fontana, specie a Milano, è un incredibile catalizzatore». Cresce la paranoia del golpe e della reazione. Bertante precisa: «Bisogna tenere conto che la teoria della strage di Stato non è una lettura a posteriori. Era l'interpretazione coeva all'attentato. Le prime indagini che misero nel mirino gli anarchici rafforzarono la convinzione che fosse iniziata la repressione».

Le Brigate Rosse nascono nell'agosto del 1970 a Costaferrata, un piccolo paese sui colli di Reggio Emilia. Organizzatore del convegno è Alberto Franceschini detto il Mega, figlio e nipote di partigiani, capace di procurarsi con facilità le armi nascoste alla fine della Seconda guerra mondiale. Sono presenti Renato Curcio e sua moglie Margherita Cogol detta Mara. Curcio e Mara sono credenti. Non avvertono contrasto tra gli ideali comunisti e il cristianesimo. Si parla di entrare in clandestinità e si formano, anzi sono già formate, le prime cellule oltre alla milanese: Genova, Borgomanero, e poi i romani, i lodigiani e i torinesi. La strategia prevede azioni dimostrative nelle fabbriche non solo per fare propaganda ma anche per reclutare. Chiediamo ancora a Bertante come andarono le cose: «Erano veramente quasi tutti operai, a parte Curcio e Mara, oppure avevano alle spalle una situazione disagiata. Moretti veniva dalla fabbrica anche se era un colletto bianco alla Siemens. La dimensione operaia delle Brigate Rosse, a lungo negata dal Pci era una realtà».

Alberto rompe con gli amici che non vogliono impugnare le armi, lo fa in modo violento, in modo «fascista» come dice Ivan, una delle sue vittime. Nel neo-terrorista la lotta politica conta tanto quanto il lato torbido e avventuroso della vita. C'è qualcosa in Alberto che rimanda, più che ai partigiani, all'esteta armato di ogni epoca, stringere in pugno un'arma dà una fantastica sensazione di potere ed ebbrezza. La sconfitta, per quanto la battaglia sia priva di speranza e addirittura stolida, «rimane scolpita nella memoria del mondo». Puro romanticismo applicato alla violenza.

Dopo alcuni gesti dimostrativi alla Pirelli e in altre fabbriche, le Brigate Rosse iniziano a colpire i dirigenti. Si comincia con Giuseppe Leoni, dirigente della Sit-Siemens, al quale viene bruciata la macchina. Nei bagni della fabbrica compare il primo volantino firmato ancora «Brigata rossa» al singolare (dal successivo si passa al plurale). La fama delle Brigate Rosse, nel mondo della sinistra extra-parlamentare, è in forte crescita. Il compagno Osvaldo, vale a dire Giangiacomo Feltrinelli, entra nella loro orbita. Poi ci sono altre organizzazioni come Lotta Continua e Potere Operaio che oscillano tra la collaborazione e le accuse alle Br di essere più o meno consapevoli strumenti della reazione. Dalle dimostrazioni si passa ai rapimenti, dai rapimenti alle rapine, dalle rapine a... In realtà la storia di Alberto finisce prima che la lotta armata passi alla gambizzazione o all'omicidio. Alberto sfugge alla prima retata che di fatto decapita il movimento, specie a Milano.

E come finisce, chiediamo a Bertante: «Capisce che non ci sono i presupposti di una rivoluzione. Non c'è un noi contro loro. La lotta armata è una scelta di minoranza». Non si pente: «No. Alberto non avrebbe, credo, appoggiato la svolta militaristica delle Brigate Rosse ma neppure era contrario all'uso della violenza. Tra l'altro, per un certo periodo, quello raccontato in Mordi e fuggi, le Brigate Rosse non furono il gruppo più violento. Non furono i brigatisti a uccidere il commissario Calabresi, per citare un evento tragico e fortemente simbolico». Come Pier Paolo Pasolini, da sinistra, fece tabula rasa del Movimento studentesco, accusandolo di aver favorito l'omologazione, così Leonardo Sciascia, ripartendo proprio da Pasolini, farà notare l'inconcludenza della strategia brigatista: rapito Moro, Democrazia cristiana e Partito comunista avranno una ragione in più per avvicinarsi. Sciascia si chiederà0 se l'esperienza brigatista non appartenga alla «sfera dell'estetismo in cui il morire per la rivoluzione è diventato un morire con la rivoluzione». Alessandro Gnocchi

Morto Corrado Alunni, il brigatista rosso inseguito per sempre dal suo passato. Massimo Pisa su La Repubblica il 29 Gennaio 2022. 

Aveva 74 anni, viveva a Varese da tempo. Si era dissociato, ma il suo nome riemergeva ciclicamente nelle inchieste sul terrorismo. 

Il passato che non passa, se la tua traiettoria ha attraversato eventi e sigle scolpite nel granito della storia, è una condanna supplementare che sopravvive a qualsiasi sentenza. A Corrado Alunni, morto a Varese a 74 anni, l'etichetta di brigatista rosso rimase addosso ben oltre la sua dissociazione arrivata a metà degli anni Settanta, di fatto la prima scissione del nucleo storico all'interno della più sanguinaria organizzazione terroristica degli anni di piombo.

Cesare Giuzzi per corriere.it il 28 gennaio 2022.

Ha attraversato le stagioni più dure degli Anni di piombo poi nel 1987 si era dissociato dalla banda armata. È morto a Varese a 74 anni l’ex brigatista e militante delle Formazioni comuniste combattenti, Corrado Alunni. 

È stato insieme a Renato Vallanzasca uno dei protagonisti del clamoroso tentativo di evasione dal carcere di San Vittore. Nato a Roma il 12 novembre 1947, Alunni si era trasferito a Milano dopo gli studi nel 1967.

Assunto come operaio alla Sit-Siemens inizia il suo percorso verso la lotta armata. È nella fabbrica milanese che conosce i futuri brigatisti Mario Moretti, Giorgio Semeria e Paola Besuschio. Sette anni dopo, quando è già componente delle Brigate rosse e braccio destro di Renato Curcio, lascia il lavoro ed entra in clandestinità. 

Poi l’esperienza delle Brigate rosse comuniste e nel ‘77 la creazione delle Fcc e Prima linea. Viene catturato a Milano nel 1978 quando la Digos e la Mobile della questura fanno irruzione nel covo di via Negroli a Milano. Dentro ci sono armi, esplosivi e soprattutto carte e documenti riservati sull’attività terroristica rossa.

La fuga da San Vittore

Si arriva al 28 aprile 1980 quando Alunni, insieme a Vallanzasca e al suo fedele braccio destro Antonio «Pinella» Colia e ad altri detenuti tentano una clamorosa evasione da San Vittore. 

Durante l’ora d’aria il commando prende in ostaggio un brigadiere e riesce a farsi strada fino all’uscita del carcere. I detenuti hanno armi e le usano contro due guardie che gli sbarrano la strada.

Poi la sparatoria si sposta nelle strade intorno al carcere dove Alunni rimane ferito da due colpi di mitra e viene arrestato insieme al Bel René, anche lui ferito. Negli anni 80 le condanne si sommano e Alunni arriva a un cumulo superiore ai 50 anni di galera. 

La dissociazione

Nel 1987 si dissocia dalla lotta politica armata. E nel 1989 gli viene concessa per la prima volta la semilibertà: viene assunto con l’incarico di catalogare materiale didattico dalla Enaip, il centro di formazione professionale delle Acli, di Bergamo.

Il suo percorso di dissociazione arriva al culmine nel 1997 quando con altri 62 ex terroristi rossi firma uno storico appello per chiudere la «Storia infinita» degli Anni di piombo per aprire la strada a «una democrazia matura, una classe politica e una Repubblica che vogliano davvero rinnovarsi». 

È la fine definitiva di un pezzo di storia del Paese che affonda le sue radici nel Dopoguerra, nella strage di Piazza Fontana, nel sequestro Moro e nella lunga scia di sangue del terrorismo.

Morto a 75 anni l'ex Brigatista Corrado Alunni. Il Quotidiano del Sud il 28 Gennaio 2022.

È morto a Varese, a 75 anni, Corrado Alunni, componente delle Brigate Rosse della prima ora, dalle quali si distaccò per dare vita prima alle Rosso Brigate comuniste e poi alle Formazioni comuniste combattenti.

Particolare figura di borgataro romano “de Centocelle”. Trapiantato a Milano, tecnico specializzato alla Sit-Siemens … con altri tecnici di formazione cattolica ma influenzati dal 68, tra cui Mario Moretti, formano un “gruppo di studio” … cominciano prendendo le difese di un dirigente esautorato e finiscono per costituire il primo significativo nucleo di fabbrica delle Brigate Rosse … ma Corrado rimane un “movimentista” e le Br, soprattutto dopo la scelta dell'”attacco al cuore dello stato” cominciata col sequestro Sossi, gli vanno strette … ne esce, insieme ad altri, nel 1974 … e, pur da ricercato, ritorna a Milano ad una attività anche di massa, partecipando pure a cortei ed iniziative pubbliche col gruppo di “Rosso”, facente capo a quell’area dell’autonomia diretta da Toni Negri.

In quell’ambito organizza il livello di “lavoro illegale” dell’organizzazione con il nome di Brigate Comuniste e poi, col disfacimento di “Rosso” seguito al fattaccio di Via De Amicis il 13 Maggio 1977, in cui muore un poliziotto, fonda le Formazioni Comuniste Combattenti … che, dopo un fallimentare tentativo di “comando unificato” insieme a Prima Linea, terminano la loro attività con l’arresto dello stesso Alunni nell’autunno del 1978 . famoso e clamoroso il suo tentativo di evasione nel 1980 dal carcere di San Vittore a Milano insieme a Renato Vallanzasca e ad altri detenuti, politici e comuni

Durante la fuga Alunni viene ferito allo stomaco con due colpi di mitra e Vallanzasca, che è a suo modo un “generoso” ma che soprattutto sente un po’ il fascino di quel romano scanzonato, così diverso dal clichè dei “brigatisti seriosi”, essendo l’unico armato degli evasi torna indietro per proteggerlo dal probabile “colpo di grazia” e viene così gravemente ferito e ri-arrestato pure lui …nel 1987, in un documento comune ad altri ex appartenenti alla lotta armata di varie organizzazioni, intitolato “La storia infinita” Alunni sceglie la strada della “dissociazione” … non avendo particolari reati di sangue, nel 1989 gli venne concessa la semilibertà e la possibilità di lavorare all’esterno del carcere.

L'ultima lotta di Alunni l'ex Br dalla "tuta blu" evaso con Vallanzasca. Nino Materi il 29 Gennaio 2022 su Il Giornale.

Nel suo curriculum criminale tanti attentati ma nessun omicidio. Era libero dal 1989.

Prima di «dissociarsi», ci ha riflettuto 20 anni. Tanto è trascorso da quel lontano 1967 quando Corrado Alunni comincio a bazzicare i primi terroristi già «affermati» (in primis Mario Moretti) a quel «liberatorio» 1987 quando l'ex operaio della Siet-Siemens decise di abiurare ciò che restava della «lotta politica armata», firmando - dieci anni dopo, nel 1997 - un patetico appello per «chiudere la Storia infinita degli Anni di piombo e aprire la strada a una democrazia matura, una classe politica e una Repubblica che vogliano davvero rinnovarsi»; insomma, una parabola deprimente che lo ha portato a trasmigrare dalla tragica cattedra di cattivo maestro a quella comica di maestrino con la vocazione da «statista». Ieri per l'ex brigatista quella parabola si è conclusa definitivamente: Corrado Alunni è morto infatti nella sua Varese all'età di 75 anni. Il destino ha voluto che tutto finisse dov'era cominciato. Nello stesso territorio in cui Alunni cercò di «mettersi in proprio» tagliando il cordone ombelicale che lo legava ai fratelli maggiori delle Brigate Rosse e fondando una Brigata Comunista tutta sua e che però, nei riguardi delle BR, continuerà sempre a nutrire una sorta di complesso di inferiorità misto a un senso di rispetto reverenziale. Mentre in fatti le BR mettevano a segno attentati di «serie A», i militanti fedeli ad Alunni frequentavano i «campionati inferiori», accontentandosi di espropri proletari e distruzioni di «simboli capitalistici». Ma senza mai arrivare a gambizzazioni o omicidi. I comunisti di Alunni erano invece specializzati in «irruzioni contro il lavoro nero in cantieri e officine; ronde armate contro lo spaccio di droga; attentati contro carceri, stazioni delle forze dell'ordine e sedi partitiche; dossieraggio su dirigenti d'azienda». In nessun blitz ci furono vittime, benché non poche ombre permangano su un suo possibile ruolo nel rapimento Moro.

Le condanne inflitte ad Alunni nei vari processi ammontano a circa 50 anni, solo parzialmente scontati: un po' per buona condotta (dal 1989 la prima seimilibertà), un po' perché Alunni non disdegnava le evasioni, come quella di cui fu protagonista con Renato Vallanzasca nel 1980 dal carcere di San Vittore. Due anni prima, nel 1978, Alunni era stato arrestato nel covo di via Negroli, lasciandosi alle spalle un curriculum di sigle tristemente note come quella delle Formazioni comuniste combattenti.

Oggi c'è chi vorrebbe addirittura riabilitare la sua figura: «Non va ricordato solo per aver aderito alle Br - sostiene Davide Steccanella, avvocato e storico -. Era una persona moralmente retta. Un operaio nato a Roma e arrivato a Milano per fare l'operaio alla Sit-Siemens e che come tanti altri fece la scelta di cambiare le cose, pagandola con anni di carcere». Nino Materi

Alberto Simoni per "la Stampa" il 28 gennaio 2022.

È la mattina del 28 gennaio 1982 quando le teste di cuoio arrivano in via Pindemonte 2 a Padova con un piccolo furgone verde. Hanno pistole e fucili d'assalto M-12. Alle 11,25 sono davanti alla porta di un appartamento di una anonima palazzina. La sfondano con un colpo secco. In una tenda montata in una stanza c'è da 42 giorni un generale americano ostaggio di un commando di cinque persone delle Brigate Rosse guidato dal poi pentito Antonio Savasta: quell'uomo è James Lee Dozier, classe 1931, generale di brigata della Nato. 

Il 17 dicembre un commando era entrato nella sua casa di Verona spacciandosi per idraulici: dopo aver immobilizzato la moglie legandola a un calorifero, avevano preso Dozier e, caricatolo nel bagagliaio di una macchina, lo avevano condotto a Padova. Il generale resterà per sei settimane nello stesso covo, legato a un lettino di ferro sotto una tenda da campeggio con le cuffie e musica ad altissimo volume.

Sempre così fino al blitz del team del comandante dei Nocs Edoardo Perna durato 50 secondi. Dozier oggi ha 90 anni, la sua memoria è viva, i ricordi di quei 42 giorni densi di dettagli. Risponde al telefono dalla sua casa in Florida, seduto - racconta - davanti al "kidnapping corner", l'angolo in cui ha raccolto foto e ricordi di quell'esperienza e libri sui Nocs. Descrive lo scatto con i presidenti Reagan e Pertini e quello con Perna. Simboli di una fulminea parentesi di vita che Dozier ha custodito e che ora - insieme alle altre pieghe dell'esistenza - è diventata un libro, "Finding my Pole Star". 

Generale Dozier, ha rifiutato contratti importanti per un libro subito dopo la sua liberazione, perché farlo adesso?

«Voglio lasciare una testimonianza ai giovani. Dopo il congedo nel 1985, ho intrapreso una carriera nel business dell'agricoltura: mi alzavo all'alba e lavoravo molto. Ma adesso che sono pensionato, ho deciso di scriverlo. Mi ha aiutato mia sorella che ha tenuto le foto e i ricordi dell'infanzia ad Arcadia e poi ho attinto alla mia memoria». 

Sono passati 40 anni dal rapimento. Ha mai avuto incubi?

«Mai, fortunatamente. Sono stato capace di parlarne di continuo seguendo i suggerimenti degli psicologi. Tirare fuori le cose è il modo migliore per superare i traumi». 

C'è qualcosa che le resta conficcato in testa? Un suono, un odore, una voce che la riporta all'appartamento di Padova?

«Si, i tentativi di Di Lenardo (uno dei carcerieri, ndr) di farmi il lavaggio del cervello». Come faceva?

«Ogni giorno veniva nella tenda, mi parlava delle Br, mi dava cose da leggere che io gettavo via. "Scordatelo", gli dicevo. Tornava ancora. Con un dizionario italiano e traducevamo parola per parola. Gli dissi che non avrei mai detto nulla sui segreti della Nato». 

Non si arresero però

«Tentarono di spiegarmi chi erano, in cosa credevano e cosa volevamo le Brigate Rosse. Alla fine Di Lenardo mi disse: "Se non riusciamo a portarti dalla nostra magari riusciamo a farti diventare neutrale».

Del blitz cosa le resta in mente?

«La rapidità, la pistola di una guardia puntata su di me. Era molto strano, non avevo mai visto armi lì. Improvvisamente la guardia venne disarmata. Poi la figura di un uomo che si spinge nella tenda. Temevo fosse una resa dei conti fra bande delle Br che si contendevano la preda, io. Invece quell'uomo si tolse il cappuccio, disse che era un poliziotto. Erano a venuti a prendermi e dovevamo andare via subito perché temevano che l'appartamento potesse saltare in aria. In un attimo ero seduto sul sedile posteriore di una macchina della polizia in mezzo al traffico di Padova. E andavamo veloci, schivando le altre macchine. Ci manca solo un incidente, pensai».

La fine dell'incubo le diede la forza di dire di no al presidente Usa. Dove trovò il coraggio? «No no. Ho imparato a mie spese che al presidente degli Stati Uniti non dici mai di no anche se ti sembra di averlo detto (ride)». 

Come andò allora il no-diventato-Sissignore?

«Un'ora dopo il rilascio, Reagan chiamò. Ero alla base di Ederle, Vicenza. Mi chiese come stavo e mi disse: "Crede di poter venire a Washington la prossima settimana per il National Prayer Breakfast? "Signore - risposi- sono stato via per sei settimane, devo recuperare il lavoro arretrato". Riattaccò».

Però ci andò e ci sono le foto dell'allora vicepresidente Bush che l'accoglie all'aeroporto di Washington

«Dieci minuti dopo, telefonò il capo dello staff dello Stato maggiore: "Torna a Washington. Subito". Insomma, il mio no al presidente non è stato proprio efficace». 

Si ricorda la prima cosa che disse a sua moglie?

«"Ciao cara, bello vederti". Ma sto tirando a indovinare, non ricordo» (grassa risata). 

Dopo l'incontro con Reagan tornò in Italia, ma vi restò poco. Perché?

«I miei superiori ritenevano fosse meglio chiudere l'esperienza per ragioni di sicurezza. Allora si approfittò di una cena di Stato per il rimpatrio senza clamori: Pertini andava a Washington, anch' io fui invitato alla Casa Bianca. Non sono più rientrato in Italia».

Da militare intende

«Certo, da militare, perché sono venuto spesso e ogni volta incontro i miei salvatori. Ora purtroppo a causa del Covid ho saltato gli ultimi anni, l'ultimo volo in Italia risale al 2018. Spero di poter tornare presto e ringraziare ancora il comandante Perna e tutti coloro che mi hanno salvato». 

Ha mai più visto o sentito i suoi rapitori?

«Solo al processo di Verona del 1982. Erano nelle celle degli imputati. Ho fatto la mia deposizione. Poi mi hanno suggerito di andarmene. E così feci. So che qualcuno è diventato dottore, qualcun altro si è pentito e si è rifatto una vita». 

La leadership è uno dei temi dei tanti interventi pubblici che tiene. Cosa dice ai giovani?

«Che oggi ci sono troppi follower e pochi leader».

L'adrenalina, le armi, i pugni alle Br: "Come liberammo Dozier". Gianluca Zanella il 17 Dicembre 2021 su Il Giornale.

Nel racconto di due operatori Nocs, i 50 secondi in cui sono state sconfitte le Brigate Rosse.

Verona, 17 dicembre 1981 - Padova, 28 gennaio 1982. Sono passati quarant’anni dal sequestro e dalla liberazione del generale americano James Lee Dozier a opera delle Brigate rosse guidate da Antonio Savasta.

In particolare, la liberazione del generale americano (un pezzo davvero grosso: al tempo era sottocapo di Stato maggiore addetto alla logistica del comando delle forze terrestri della Nato nell’Europa Meridionale), è stato l’evento che ha portato per la prima volta alla ribalta il Nocs (Nucleo operativo centrale di sicurezza), nato nel 1978 ma fino a quel momento impiegato in situazioni con meno eco mediatica. Un evento, come in molti sostengono, che ha segnato l'inizio della fine delle Brigate rosse; uno di quegli eventi che resteranno nella storia. È per questo che, nel quarantesimo anniversario, abbiamo deciso di ripercorrerlo attraverso la voce di alcuni dei protagonisti che a vario titolo vi hanno partecipato.

"Fuori in 50 secondi": la liberazione che segnò la fine delle Br

La nostra storia comincia il 27 gennaio 1982, alle 22.

È a quell’ora che il capitano Edoardo Perna, giovane vice comandante dei Nocs, riceve la telefonata. Dall’altro capo del telefono, l’allora capo dell’Ucigos, il prefetto Gaspare De Franscisci: “Perna, prepari gli uomini, i più bravi che ha, e li porti immediatamente a Verona”. Queste le parole che ci ripete Edoardo Perna quando lo incontriamo a Roma, all’interno di un bar che affaccia su una delle vie più trafficate della capitale, mentre fuori impazza un temporale di fine autunno.

Oggi Perna è in pensione. Capo scorta di Francesco Cossiga durante il rapimento Moro (“Ho visto i suoi capelli diventare bianchi nell’arco dei 55 giorni”), capo scorta di Virginio Rognoni, guardia del corpo di Berlinguer durante il suo viaggio in Nicaragua, nonostante gli anni trascorsi, Edoardo Perna ricorda ancora molto bene i dettagli di quella operazione: “Erano anni difficili – ci dice – solo quindici giorni prima, a Roma, con un blitz coordinato avevamo smantellato tre covi brigatisti e arrestato Giovanni Senzani”. Gli chiediamo di raccontarci il perché di quella chiamata da parte del prefetto De Francisci: “Avevano trovato il covo in cui era tenuto prigioniero Dozier. Avevano preso il fiancheggiatore che aveva portato il generale da Verona a Padova e lo stavano facendo parlare”.

Perna si riferisce a Ruggero Volinia, fiancheggiatore delle Br. Fu lui a guidare il furgone dove, dentro una cassa di legno, era stato rinchiuso Dozier subito dopo il rapimento. Le versioni su come sia stato individuato il covo brigatista – come già accennato - sono discordanti, per adesso limitiamoci a raccontare i fatti per come sono stati trasmessi dalla verità giudiziaria e, in effetti, per come ci sono stati confermati da testimoni come Perna: “Erano stati Umberto Improta e i suoi uomini a trovarlo. Per convincerlo a parlare, Improta gli aveva detto che gli avrebbe rivelato il luogo dove abitava la sua famiglia, per dimostrargli fiducia... non ne sono sicuro, ma forse gli ha anche promesso qualcosa, in cambio dell’indicazione corretta del covo”.

Umberto Improta, pezzo da novanta della polizia durante gli anni di piombo e non solo, grande investigatore e – a detta di chi l’ha conosciuto – fine psicologo all’occorrenza.

A ogni modo, che cosa ci sta raccontando Perna? Come si è arrivati a Ruggero Volinia? Ecco, arriviamo alla versione ampiamente condivisa tanto dai protagonisti diretti di questa vicenda, quanto dalle cronache dell’epoca: tutto comincia con l’arresto di Paolo Galati, fratello del pentito brigatista Michele Galati.

Paolo fa il nome di Elisabetta Arcangeli, indicata come militante della sinistra extraparlamentare. In casa della Arcangeli, gli uomini di Improta trovano Ruggero Volinia, che si scopre essere appunto il fiancheggiatore che ha guidato il furgone con Dozier prigioniero. Passano due giorni. Da fonti aperte la tesi ricorrente è che tanto Volinia quanto la Arcangeli siano stati sottoposti a tortura da parte del famigerato dottor De Tormentis, alias di Nicola Ciocia, poliziotto membro insieme ad altri tre del cosiddetto gruppo dell’“Ave Maria”. Sul punto però nessuno degli intervistati conferma o smentisce “Noi eravamo operativi – ci dice Perna – non dovevamo ottenere informazioni, agivamo e basta”. Tornando a Volinia, a due giorni dalla cattura crolla e accetta di portare Improta e i suoi al covo dove viene tenuto prigioniero il generale statunitense. Alt. Facciamo un passo indietro e torniamo all’arresto di Paolo Galati, perché anche in questo caso la verità sembra avere molte facce.

Una fonte interna ai servizi, che all’epoca prese parte alle fasi di individuazione del covo brigatista, ci racconta una storia simile, altrettanto credibile. Lasciamo a voi l’interpretazione: “L’individuazione del covo di Dozier fu... come posso dire... una botta di culo”. Queste le sue esatte parole. Vediamo perché: “Fu merito della Polfer di Verona... fermarono alla stazione un tossico e lo portarono in caserma. Una volta qui il ragazzo, per essere lasciato in pace, disse che avrebbe potuto dare informazioni importanti sulle Brigate rosse. All’inizio non fu creduto, anzi si beccò anche qualche scappellotto, perché su certe cose era meglio non scherzare all’epoca. Poi però qualcuno degli agenti s’incuriosì e in effetti, dopo una banale verifica dei documenti, il tossico risultò essere Paolo Galati, fratello del brigatista pentito. Insomma il caso ci ha messo lo zampino”.

Quale che sia la versione corretta, ottenuta da Volinia l’indicazione esatta del covo brigatista – Padova, via Pindemonte 2, appartamento al primo piano – Improta avverte il prefetto De Francisci, che a sua volta telefona a Perna: “Siamo arrivati a Padova alle cinque del mattino. Dovevamo fare un sopralluogo e siamo saliti in una macchina io, Improta, un collega esplosivista, il capo di gabinetto della questura di Padova e Ruggero Volinia, che ci ha portati fin sotto il covo. Una volta lì, Improta mi ha guardato e mi ha detto 'ora tocca a te'... la prima cosa che andava verificata era se ci fosse una porta blindata. In quel caso avremmo dovuto usare l’esplosivo. L’unico modo per fare questa verifica era andare fino al primo piano e bussare al covo... aspettammo le nove di mattina. Sullo stesso piano c’era un dentista. Io e una collega, fingendoci moglie e marito, salimmo le scale e demmo un’occhiata. La porta del covo non era blindata. Due ore dopo facevamo irruzione nel covo. Un’azione durata 50 secondi”.

A raccontarci qualche dettaglio in più – e con un altro punto di vista – è un altro operatore tra i sei entrati nel covo: Carmelo Di Janni. L’abbiamo incontrato a Roma, seduti al tavolo di uno dei locali più famosi della capitale. Stazza enorme, fisico ancora prestante, Di Janni – nome in codice “Bimbo” - faceva parte di un commando di uomini scelti, la "crème de la crème", un manipolo di incursori che all’epoca poteva contare solamente sulle proprie qualità fisiche e psicologiche: “Ero un ragazzino, avevo ventitré anni - ci dice rievocando quei momenti - L’adrenalina prima di un’irruzione è qualcosa di inspiegabile... noi avevamo due obiettivi: neutralizzare le persone e bonificare l’ambiente da armi e, soprattutto esplosivi. Mi ricordo ancora quando quindici giorni prima sono entrato nel covo di Giovanni Senzani a Tor Sapienza, Roma. C’era di tutto là dentro: lanciamissili, mitra, bombe. Una santabarbara. Proprio come nel covo di Padova”.

Steso su un letto infatti i Nocs troveranno l’arsenale della banda. Ma torniamo al momento dell’irruzione: “In quel caso, il mio timore era che dietro la porta fosse piazzato un esplosivo. Ma l’unico modo per scoprirlo era sfondarla. E così abbiamo fatto... Io sono stato il secondo a entrare... la pistola non la tirai nemmeno fuori, non serviva, eravamo tutti esperti di arti marziali, boxeur, campioni di pesi massimi. Ricordo di essermi trovato di fronte uno dei brigatisti, era armato... con un solo pugno gli ho scaricato addosso tutta la tensione del momento. Anni dopo, durante uno dei processi, ci siamo stretti la mano”.

Carmelo Di Janni è il secondo uomo a entrare nella stanza in cui il brigatista Giovanni Ciucci sta per giustiziare – o almeno così sembra – il generale Dozier: “Dopo la botta in testa con il calcio della pistola che gli ha dato il mio collega, l’ho preso (Ciucci, ndr) e l’ho lanciato fuori dalla stanza. A quel punto Dozier ci guardava terrorizzato... credeva fossimo un altro gruppo brigatista venuto a rapirlo. Io ho capito e mi sono tolto il sottocasco... 'Siamo della polizia italiana' gli ho detto. Dozier allora si è alzato e mi ha abbracciato”.

Un lieto fine per nulla scontato. Un'azione da manuale condotta senza sparare un solo colpo. Cosa non da poco, in quegli anni: "Dopo tutto - ci confida la nostra fonte interna - non solo la morte dell'ostaggio era data al 90%, ma l'eco degli spari in via Fracchia, a Genova, quando il 28 marzo 1980 gli uomini di Carlo Alberto Dalla Chiesa uccisero i brigatisti nel blitz, era ancora molto forte". Gianluca Zanella

·        Il retroscena di un delitto. La pista dei servizi segreti domestici. 

Junio Valerio Borghese, la nascita del “principe nero”. Marco Valle su Inside Over il 6 giugno 2022.

Vittorio G. Rossi, magnifico scrittore di avventura e storie di mare, avvertiva i suoi lettori: “Per vivere da morti non basta essere nominati nel libri, avere monumenti nelle strade e le lapidi; quello è un vivere che somiglia a quello delle farfalle nei musei, esse hanno ancora i loro colori, ma c’è lo spillo che le passa a parte a parte”. Rossi aveva ragione. Solo coloro che hanno saputo suscitare nel loro passaggio terreno sentimenti forti, magari contrastanti o divisivi ma viscerali, autentici, continuano a vivere nel tempo. Nell’amore o nell’odio magari, mai nella melassa, nella retorica. Le anticamere dell’oblio.

Junio Valerio Borghese appartiene a questa ristrettissima categoria di figure straordinarie. A ricordarlo vi sono le sue imprese fortunate e quelle meno fortunate, gli errori e le prodezze, le cadute e i bagliori, una somma di fatti, gesta, segreti, un destino complicato ma mai banale, mai scontato.

Junio nacque a Roma il 6 giugno 1906, secondogenito del principe Livio Borghese e della contessa ungherese Valeria Keun. La casata, di lontana origine senese ma presente a Roma dal 1541, vantava antenati illustri tra cui un papa (Paolo V), numerosi cardinali, viceré, generali, governatori, collezionisti d’arte. A fine Settecento i Borghese, nonostante la tradizionale quanto fruttuosa vicinanza al papa re e alla teocrazia romana, abbracciarono entusiasticamente la causa napoleonica al punto che il principe Camillo sposò nel 1803 Paolina Bonaparte, la bellissima quanto capricciosa sorella dell’imperatore.

Un blasone illustre, dunque, ma ormai, dopo la grave crisi finanziaria subita a fine Ottocento a causa di errate speculazioni edilizie, con ridotte risorse. Finiti i tempi delle rendite terriere bisognava lavorare e il principe Livio scelse la strada della diplomazia che lo portò prima nel Levante e in Oriente e poi, assieme alla famiglia, come ministro plenipotenziario a Lisbona e a Londra. Nella capitale britannica il giovanissimo Junio trascorse gli anni dell’infanzia, frequentando per cinque anni una scuola d’élite, per poi trasferirsi con la famiglia a Roma.

Nel 1922, appena sedicenne, venne ammesso ai corsi dell’Accademia navale di Livorno. Il suo sogno. La Regia Marina divenne da allora la sua casa e il mare il suo mondo. Durante il periodo degli studi iniziò ad appassionarsi alle nuove specialità subacquee (sommergibili e mezzi insidiosi), nominato nel 1928 guardiamarina prese brevetto di palombaro “di grande profondità” e iniziò ad approfondire la guerriglia navale ideata da Paolo Thaon de Revel durante la prima guerra mondiale nell’Adriatico.

Un passo indietro. Nel 1916, considerata l’impossibilità di una grande battaglia risolutrice con la flotta austro-ungarica, il lungimirante Revel aveva impostato una strategia aeronavale flessibile tesa a portare, sfruttando il naviglio sottile e incrementando la componente aerea, “la battaglia in porto”, una serie di attacchi mirati (e poco dispendiosi) contro le basi della flotta nemica. Una visione innovativa che convinse giovani comandanti – tra tutti Costanzo Ciano, Luigi Rizzo, Giuseppe Miraglia, Nazario Sauro – ed entusiasmò Gabriele d’Annunzio, 52enne volontario al fronte e da sempre fervente navalista. Fu l’epopea dei Mas, veloci motoscafi armati con due siluri, un cannoncino e bombe di profondità, inizialmente destinati alla lotta anti sommergibile e poi ampiamente impiegati per fini offensivi. Una scelta vincente.

Dopo lo sfondamento di Caporetto e la ritirata sul Piave, furono proprio i dannunziani “gusci di noce, inchiodati a tre tavole di ponte” a rischiarare le più buie ore della guerra: il 16 novembre, all’altezza di Cortellazzo, i Mas guidati da Costanzo Ciano costrinsero alla ritirata la squadra nemica; nella notte fra il 9 e il 10 dicembre Rizzo affondò nel vallone di Muggia la corazzata Wien; il 10 febbraio 1918 Ciano e Rizzo penetrarono nella munita baia di Buccari attaccando il naviglio nemico ma i siluri, per corsa difettosa, mancarono i bersagli. Un insuccesso militare trasformato, grazie alla penna di D’Annunzio (imbarcato per l’occasione), in un successo propagandistico. Durante l’incursione il poeta lanciò in acqua tre bottiglie galleggianti con dentro un messaggio irridente alla “cautissima flotta austriaca occupata a covare dentro porti sicuri la gloriuzza di Lissa“.  Fu la beffa di Buccari. Il 10 giugno i Mas di Luigi Rizzo e Giuseppe Aonzo intercettarono al largo di Premuda la componente da battaglia asburgica in navigazione. Coraggiosamente le due piccole unità penetrarono a tutta velocità lo schieramento sganciando i loro siluri contro le corazzate Tegetthoff e Szent Istvan. I primi non esplosero ma i secondi lanciati da Rizzo colpirono in pieno la Szent Istvan affondandola. Alla vigilia dell’armistizio Thaon de Revel dette l’ordine di un’ultima missione contro il porto di Pola. Due soli uomini, il maggiore del genio navale, Raffaele Rossetti e il tenente Raffaele Paolucci, affondarono la corazzata Viribus Unitis impiegando un’arma subacquea rivoluzionaria, la “mignatta”. Imprese, idee e progetti che Borghese, uomo attento alle innovazioni, continuò a studiare durante i ripetuti imbarchi prima su incrociatori e torpediniere e poi sui sommergibili, il suo incarico ideale.

Nel frattempo il 30 settembre 1931 il giovane ufficiale sposava a Firenze la contessa Daria Olsoufieff. Fu un matrimonio felice allietato dalla nascita di quattro figli (Elena Maria, Paolo, Livio e Andrea Sciré) e temprato dalle avversità. Daria rimase, sino alla prematura morte in un incidente stradale nel 1963, al fianco del marito in tutte le sue traversie. Ricordiamo che gli Olsoufieff erano dei “russi bianchi”, zaristi rocciosi e orgogliosamente militaristi e, ovviamente, visceralmente anticomunisti; arrivati in Italia dopo la rivoluzione bolscevica misero salde radici partecipando con convinzione al clima patriottico del tempo. La sorella Olga sposò il marchese fiorentino Giovanni Vanni Corsini e lo seguì in Etiopia nel 1936; al crollo dell’Africa Orientale Italiana assieme al marito animò la resistenza antibritannica e finì internata in un campo di concentramento. A sua volta il fratello Alessio si arruolò volontario nella Regia Marina e nel’41 morì nell’affondamento dell’incrociatore Alberto da Giussano al largo di Capo Bon. Insomma, gente non comune.

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Borghese, i rapporti con la Marina del Sud e la tragedia del confine orientale. Marco Valle il 18 Agosto 2022 su Inside Over.

Nella vulgata postbellica Junio Valerio Borghese è stato spesso dipinto come un impolitico puro o, talvolta, come un pasticcione, un velleitario. A nostro avviso errori di prospettiva. Nei 600 giorni della repubblica mussoliniana il comandante giocò una sua personalissima, spregiudicata quanto raffinata, partita politica. Su più tavoli.

Non a caso il professor Giuseppe Parlato scrive: “La Decima fu una sorta di compagnia di ventura guidata da una personalità tutt’altro che sprovveduta politicamente, che colse come, in quel determinato momento politico, fosse necessario offrire a coloro che non volevano cedere alla resa incondizionata una via d’uscita che non fosse necessariamente politica. Nel senso che, secondo il principe, si poteva essere fedeli all’alleato tedesco senza necessariamente vestire la camicia nera. Fu questa una soluzione di notevole intelligenza, che permise alla Decima di essere presente nella guerra civile, ma in una posizione che sempre richiamava l’obbligo di una testimonianza di coerenza, in ossequio alla parola data e non a condizioni di carattere ideologico.  Ciò consentì a Borghese di essere considerato dai nemici come uno dei tramiti privilegiati di contatto” (Fascisti senza Mussolini, Il Mulino 2006).

Dall’estate ’44 – dopo la caduta di Roma, lo sbarco in Normandia, l’attentato a Hitler e lo sfondamento sul fronte russo -, Borghese non ebbe più, semmai le avesse avute, illusioni sull’esito finale del conflitto e iniziò a pensare e lavorare per il “dopo”.  Va altresì ricordato che Borghese non era il solo (anzi…) a cercare una via d’uscita dal tunnel della guerra civile: lo stesso Mussolini sperò sino all’ultimo in una soluzione politica appoggiando sia i tentativi dei cosiddetti “pontieri” – Cione, Borsani, Pettinato e altri – per una ipotetica transizione pacifica sia cercando d’interloquire in qualche modo con il campo nemico. Borghese stesso partecipò, il 16 novembre 1944, ad un ancora misterioso incontro sul Lago d’Iseo tra una delegazione del governo della Rsi, accompagnata dal capo delle Ss in Italia, Karl Wolff, e dall’ambasciatore tedesco Rudolf Rahn, con emissari inglesi e americani. L’esito dei colloqui non è noto, ma di certo i due tedeschi, mossi da solidi interessi privati, una volta scaricati gli italiani, continuarono le trattative per proprio conto in Svizzera concludendole a Caserta il 29 aprile 1945 con la resa incondizionata delle forze germaniche in Italia.

In questo complicatissimo frangente, come ricostruito da Fabio Andriola e Franco Bandini nelle loro accurate ricerche, il principe preferì seguire un proprio percorso. Non a torto. Nell’estate del 1944 Raffaele De Courten, ministro della Marina del Sud, inviò il tenente di vascello Giorgio Zanardi presso la Decima con un messaggio segretissimo contenente una duplice valenza anti tedesca e anti jugoslava. Il debolissimo governo regio temeva, in vista dell’imminente crollo dell’Asse, la possibilità di un’ultima vendetta tedesca ai danni del cuore produttivo (o ciò che ne restava…) del triangolo industriale del Settentrione italiano. Bisognava salvare gli impianti e i porti, soprattutto Genova. Rimaneva poi la spinosa questione della Venezia Giulia, ormai inglobata nel Reich germanico e sempre più insidiata dall’avanzata dell’esercito jugo-comunista di Tito. Una minaccia esiziale.

Un passo indietro. Nei mesi precedenti De Courten, d’accordo con Badoglio e poi Bonomi, aveva previsto lo sbarco a Trieste del reggimento “San Marco” e del battaglione “Azzurro” (gli incursori dell’Aviazione) a sostegno dell’intervento dei partigiani italiani anticomunisti. Una mossa che avrebbe posto in sicurezza gran parte dell’Istria e dell’Isontino. Purtroppo, nota Andriola, l’ipotesi cozzava contro più ostacoli: “Come sottolineò la medaglia d’Oro Cigala Fulgosi era necessario che non solo il Comando alleato desse una formale, benché segreta, autorizzazione all’azione ma anche che favorisse il distaccamento degli uomini e dei mezzi necessari. L’operazione infine avrebbe avuto bisogno di una adeguata scorta aerea e di essere sincronizzata con altre operazioni che, da terra, concorressero all’occupazione della Venezia Giulia”. Purtroppo i britannici, grandi sostenitori di Tito e pervicacemente ostili alle rivendicazioni italiane, bocciarono il piano sul nascere e a De Courten non rimase che giocare l’unica carta possibile: per salvare il salvabile bisognava rivolgersi alla Decima a-fascista e al suo eccentrico ma molto patriottico comandante. Da qui la missione al Nord.

Borghese incontrò l’ufficiale e ascoltò con attenzione le sue proposte. Bandini racconta che “Zanardi rimase alquanto stupito quando apprese che queste preoccupazioni ed eventuali iniziative non soltanto non avevano bisogno d’illustrazione, per Borghese, ma si erano tradotte già in fatti concreti”. A Genova la Decima controllava accuratamente i genieri tedeschi ed era pronta ad intervenire per disinnescare eventuali mine, gli impianti della Fiat a Torino, come altre fabbriche del Settentrione, erano presidiati dai marò e il grosso della divisione – circa seimila uomini – era in procinto di spostarsi sul fronte orientale.

Una mossa appoggiata da Mussolini ma assolutamente non gradita dai tedeschi per nulla entusiasti dall'”intrusione” italiana nella Venezia Giulia, per loro ormai solo l’Adriatisches Kustenland, una zona ormai separata militarmente e amministrativamente dalla Rsi e già in procinto, secondo i calcoli del governatore germanico Friedrich Reiner e dei suoi superiori a Berlino, d’essere inglobata nel Reich hitleriano.

Borghese, sempre informando De Courten, dislocò i suoi reparti lungo la frontiera e il 9 dicembre iniziò una accurata ispezione che indispettì terribilmente i nazisti. Riprendendo Andriola: “Il 13 dicembre Reiner ordinò l’arresto del comandante a Fiume. Subito dopo aver passato in rivista la compagnia ‘D’Annunzio’, Borghese fu avvicinato da tre ufficiali della marina tedesca. Il più anziano dei tre, dopo averlo salutato, lo informò di avere l’incarico di arrestarlo. Borghese fece come se non avesse sentito nulla: continuò la sua ispezione e poi tenne un discorso ai soldati. Dopo che Borghese aveva finito di parlare, l’ufficiale tedesco si fece nuovamente avanti ma solo per sentirsi dire che la terra su cui stavano si chiamava ancora Italia, che i suoi marinai erano italiani, che la bandiera che garriva era italiana e che a lui, ufficiale della marina italiana, non importava niente di un ordine che veniva da stranieri sconosciuti. Quelli dissero poche parole quasi a scusarsi, salutarono e fecero dietrofront”.

Malgrado e nonostante le pressioni tedesche i reparti entrarono in linea e a gennaio affrontarono una pesantissima offensiva del IX corpus jugoslavo. Gli strateghi di Tito prevedevano, una volta travolte le difese nella valle del Baccia e sulla selva di Tarnova, una rapida occupazione della valle dell’Isonzo con Gorizia e Monfalcone e poi un’avanzata sino ad Udine e al Tagliamento. Praticamente la conquista di gran parte del Friuli Venezia Giulia. Il peso ricadde quasi interamente sui battaglioni della Decima che per tre notti e tre giorni bloccarono gli jugoslavi sulle montagne sopra Gorizia salvando miracolosamente il fronte. L’ultima vittoria della Divisione. A fine gennaio le autorità militari germaniche chiesero ufficialmente il ritiro della divisione dalla Venezia Giulia e il suo trasferimento oltre il Piave. Borghese, in mancanza di qualsiasi appoggio del governo di Salò, fu costretto ad accettare e dislocò parte delle unità presso Vicenza – pronte ad intervenire ad Est in caso di necessità – mentre un gruppo di combattimento raggiungeva in Romagna il fronte del Senio.

Ma prima di ritirarsi il principe cercò ancora un accordo con i partigiani della brigata “Osoppo”, cardine della resistenza antitedesca e antislava in Carnia, e una delle poche formazioni animata da sentimenti di italianità. Tramite il tenente medico Cino Bocazzi, ufficiale di collegamento del Regio esercito e paracadutato al nord per riorganizzare il locale movimento di resistenza, il comandante del battaglione “Valanga” Manlio Morelli incontrò i capi della “Osoppo” che proposero una soluzione alquanto sorprendente: formare sul confine un reparto misto Decima-osovani contro ogni ingerenza straniera e, nell’avvicinarsi del tracollo tedesco, costruire un fronte comune patriottico.

Purtroppo, come ricorda nelle sue memorie Borghese, “l’accordo con l'”Osoppo” non venne perfezionato per colpa degli inglesi che, da parte loro, paventavano collusioni di carattere patriottico tra italiani, dato che era molto più facile mettere in ginocchio un’Italia divisa che un’Italia unita”.

Il 7 febbraio 1945 un centinaio di militi comunisti italiani e jugoslavi attaccò il comando della “Osoppo”. Un’azione rapida, brutale. Terroristica. I difensori, frastornati, alzarono le braccia e si arresero, ma gli ordini del partito erano chiari: il quartier generale degli “osovani” doveva essere annientato. I sicari assassinarono il comandante Francesco De Gregori – lo zio dell’artista romano -, i suoi luogotenenti – tra cui Guido Pasolini, il fratello di Pier Paolo – e i loro commilitoni. Un massacro. La tragedia del confine orientale entrava nella sua fase più cupa.

Quell'”errore” di Borghese che rischiò di far scoppiare una guerra con il Regno Unito. Marco Valle su Inside Over il 27 giugno 2022.

Nel 1935 l’ambizione mussoliniana “di chiudere i conti” con l’Etiopia e ricavare sul Mar Rosso un piccolo (e poco redditizio) “posto al sole”, assunse l’imprevista dimensione di un affronto intollerabile all’impero britannico. Nonostante i tentativi di mediazione diplomatica e un’iniziale apertura – l’accordo del 7 gennaio 1935 con il ministro francese Pierre Laval, l’incontro di Stresa nell’aprile, le conversazioni tripartite Eden-Laval-Aloisi nell’agosto e la proposta Hoare-Laval nell’autunno – le posizioni si irrigidirono.  Allo scatenarsi del conflitto, il 3 ottobre 1935, l’opinione pubblica albionica, sull’onda di una formidabile offensiva mediatica si convinse – dimenticando come il rosa del British Empire colorasse buona parte dei mappamondi – che l’Etiopia, sino ad allora considerata un trascurabile e semi barbarico reame africano, fosse una “causa della democrazia”. Da qui, il 7 ottobre, l’imposizione all’Italia, tramite la Società delle Nazioni, delle “inique sanzioni” commerciali e finanziarie. Sulla carta misure draconiane, nella realtà “l’assedio sanzionista” si dimostrò un vero colabrodo che l’Italia riuscì ad aggirare con facilità anche per la scarsa fede “societaria” e l’avidità di molti Stati firmatari.

Malvolentieri il governo di Stanley Baldwin dovette limitarsi a “gonfiare i muscoli” inviando il 22 agosto la Home fleet prima a Malta e poi ad Alessandria, Haifa e Port Said. Si trattò di una dispendiosa quanto inutile partita a scacchi. Nel gennaio 1936, al culmine della crisi, le forze britanniche nel Mediterraneo ammontavano a 5 navi da battaglia, 2 incrociatori, 2 navi portaerei, 7 incrociatori pesanti e 9 leggeri, 60 cacciatorpediniere e 17 sommergibili, mentre altre unità – un incrociatore pesante e 4 leggeri, 7 cacciatorpediniere e 4 sommergibili – erano dislocati ad Aden e nell’Oceano Indiano.

A fronte del minaccioso dispiegamento albionico la Regia marina, seppur inferiore per navi da battaglia ma con un certo margine di superiorità nel naviglio silurante e nei sommergibili, si preparò al peggio con un piano che prevedeva lo sbarramento del canale di Sicilia, la neutralizzazione di Malta, il blocco dello stretto di Bab el Mandeb sull’Oceano Indiano e un duplice colpo di mano su Suez: uno sbarco a Port Said del reggimento San Marco e, contemporaneamente, un attacco aeronavale su Suez. Fortunatamente la rapida vittoria italiana consentì di archiviare il dossier abissino ma la kriegsspiele navale continuò pericolosamente sino alla caduta di Addis Abeba e la proclamazione dell’impero; nell’aprile ’36, le squadre di Taranto e La Spezia presero il mare per una manifestazione di potenza ma i britannici, per nulla intimoriti, attesero sino al 9 luglio, all’indomani della revoca delle sanzioni, per ritirare la Home fleet dal Mediterraneo.

Intanto grazie a Teseo Tesei e Elios Toschi, giovani ufficiali del Genio navale – erano ripresi anche gli studi sui mezzi insidiosi. A partire dal 1934 i due s’intestardirono – memori dell’incursione della “mignatta” a Pola nel 1918 – a ragionare su un’arma rivoluzionaria: il Siluro a lenta corsa, per gli addetti ai lavori semplicemente il “maiale”.

Nell’estate 1935, con l’approssimarsi della crisi italo-britannica, il progetto di un mezzo subacqueo capace di penetrare furtivamente nelle basi nemiche e affondare le navi alla fonda – uomini contro corazzate: la riedizione nostrana del Davide contro Golia – fu presentato ai vertici dell’Istituzione. Dopo lunghe discussioni e molti dubbi i navarchi romani (assai conservatori) autorizzarono i geniali ingegneri a costruire dei prototipi e addestrare un pugno di operatori. Purtroppo si trattò di una falsa partenza: all’indomani della conclusione del conflitto africano lo Stato Maggiore sospese il programma e smobilitò il gruppo di lavoro di Toschi e Tesei. Un grave errore.

Intanto il 17 luglio 1936 l’esercito spagnolo, appoggiato dai partiti nazionalisti, era insorto contro il governo repubblicano e filo comunista di Madrid.  Da subito Mussolini, abbacinato dalla facile vittoria sull’Etiopia, offrì il suo appoggio agli insorti inviando armi, soldati e – con discrezione, visti i segreti compiti – sommergibili. Ai suoi occhi una mossa necessaria per inglobare una Spagna filo fascista nel nuovo ordine mediterraneo a trazione italiana, ridimensionare il parallelo intervento della poco amata Germania hitleriana nell’intricatissimo casino spagnolo e costringere la Gran Bretagna ha riconoscere definitivamente all’Italia l’ambito status di grande potenza. Come è noto, nulla andò come previsto. Ma questa è un’altra storia.

A sua volta Regia Marina vide in quella guerra “piratesca”, tesa a colpire occultamente i rifornimenti marittimi alla repubblica provenienti dall’Unione Sovietica, un’ottima occasione addestrativa e dal novembre 1936 inviò ripetutamente le sue unità, prive di segni di riconoscimento, nelle acque spagnole. Il 24 agosto 1937 fu il turno di Borghese al comando dell’Iride. Arrivato nella zona assegnata, tra Ibiza e Capo Sant’Antonio, il sommergibile attaccò senza successo diversi mercantili “rossi”; la sera del 30 Borghese avvistò una sagoma di una nave da guerra che identificò come un caccia repubblicano della classe Barzcaitegui.  Si trattava invece dell’inglese Havok in pattugliamento assieme ad altre quattro unità. Il comandante si portò a 700 metri e ordinò il lancio di un siluro da 450 mm ma la scia fu avvistata in tempo e l’Havock virò, evitandolo di stretta misura. Come racconta il grande storico navale Giorgio Giorgerini nel suo Uomini sul fondo (Mondadori): “L’unità britannica si mise subito in caccia e l’Iride s’immerse rapidamente iniziando una manovra di disimpegno. Alla caccia si erano intanto unite le altre navi che sottoposero l’Iride a ben nove ore di caccia con il lancio di bombe. Comunque Borghese riuscì infine a disimpegnarsi e a portare l’Iride, pur con qualche danno, alla sua base”.

Ne conseguì un incidente internazionale che imbarazzò non poco il governo romano. Al suo ritorno Borghese venne messo ufficiosamente agli arresti e portato a Roma dove, con sua grande sorpresa, fu decorato con la medaglia di bronzo. Cos’era successo? Dopo un’iniziale sfuriata Mussolini aveva compreso che gli inglesi, attenti agli equilibri politici, non intendevano insistere sull’episodio e per di più, molto sportivamente, avevano apprezzato la conduzione dell’attacco. Quindi il combattivo comandante andava lodato e premiato.

Nel frattempo il duce decise di sospendere l’offensiva subacquea e aderì, con notevole faccia tosta, all’accordo multilaterale di Nyon per il controllo e la repressione della pirateria. Una mossa distensiva che però fece infuriare il governo nazionalista e, soprattutto, il generalissimo Franco. Alla fine per salvare capra e cavoli, Mussolini optò per l’ennesimo sotterfugio e cedette quattro sommergibili a Franco. Inalberata la bandiera nazionalista, gli equipaggi italiani vennero incorporati nella Legione straniera spagnola e si diede inizio alle operazioni dei sommergibili “legionari”.

A Borghese fu data così una nuova occasione. Di nuovo al comando dell’Iride, prontamente rinominata Gonzales Lopez, nel settembre 1937 raggiunse la base di Soller presso Palma di Maiorca e riprese la sua caccia (con modesti risultati a causa delle restrittive regole d’ingaggio fissate a Nyon). Ciò nonostante in quei mesi spagnoli il principe fu nuovamente protagonista di un altro giallo internazionale. Il 3 ottobre il cacciatorpediniere inglese Basilisk subì un attacco sottomarino a stento sventato e la stampa internazionale accusò nuovamente l’Italia che smentì vigorosamente. Secondo i rapporti della Marina i mezzi erano in cantiere in patria o all’ormeggio a Soller, dunque…

Resta il fatto che proprio Borghese nel suo libro Los diablos del mar, pubblicato in Spagna nel 1968, rivendicò l’azione aggiungendo di essere stato sottoposto ad una lunga caccia con bombe di profondità, tanto da registrare due morti e quattro feriti tra gli uomini del suo equipaggio. Nonostante le perduranti smentite dell’Ufficio Storico della Marina Militare, Giorgerini ricorda che: “L’uomo aveva certo delle doti di straordinarietà e anche una predilezione per azioni segrete tacite, silenziose. I documenti d’archivio sono importanti però per quanti eventi non sono mai esistiti, sono stati fatti scomparire, sono stati artefatti, ne sono stati creati dei sostituti, sono stati manomessi?”. L’affare Basilisk rimane così l’ennesimo segreto nell’enigmatica storia del Comandante.

La fine dell’avventura. Il 25 aprile di Junio Valerio Borghese. Marco Valle su Inside Over il 19 luglio 2022.

Primo dicembre 1944. Bellagio. Nella mattinata Filippo Tommaso Marinetti, ormai gravemente malato, ascoltava rapito Amleto Venturi, il suo medico curante. Poco prima il dottore aveva visto nel piazzale della stazione di Como un manipolo di giovanissime reclute della Decima Mas salire cantando su un camion diretto al fronte. Lo spettacolo di spensierata adolescenza e di disarmante coraggio colpì Venturi che si avvicinò ai ragazzi e chiese il perché di un gesto evidentemente disperato. E uno di loro rispose lapidariamente:

Ogni cervello è un mondo

Come a dire: ognuno si regola come crede. La spavalderia della sfida colpì Marinetti. In un attimo colse il significato esplicito di una scelta entusiasta, gratuita, estrema e, per l’ultima volta, il pirotecnico fondatore del Futurismo si sentì poeta. Raggiunta a fatica la scrivania scrisse di getto un breve poema, Quarto d’ora di poesia della X Mas. Frasi rotte, veementi, rapide come singhiozzi, il dissidio fra desiderio di agire e freno dell’intelletto, esuberanza fisica e tatticismo, ripiego. Meglio la resa o il sacrificio? No, per Marinetti i “frenatori dal passo calcolato” meritavano soltanto il disprezzo. Per lui avevano ragione quei giovani ad invocare “avanti autocarri” verso la morte.

Nella notte Filippo venne colto da una devastante crisi cardiaca. Si svegliò con l’affanno: il cuore stava rallentando i suoi battiti. In quell’attimo supremo guardò negli occhi la moglie Benedetta. Poi il gran salto verso il mistero. Nei suoi ultimi versi troviamo un saluto alle giovani reclute: “Non vi grido arrivederci in Paradiso che lassù vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti e perciò avanti autocarri”. Nei mesi seguenti il poeta ritrovò nell’aldi là molti di quei ragazzi. Il Quarto d’ora divenne il loro epitaffio.

Il 9 aprile 1945 scattò l’offensiva alleata. L’atto finale. Una tempesta d’acciaio e fuoco sconvolse il fronte italo-tedesco scardinando la linea Gotica e, caduti tutti i caposaldi, iniziò il ripiegamento verso il Po. L’ultimo reparto a ritirarsi fu il gruppo d’artiglieria “Colleoni” della Decima.

Il giorno prima Borghese aveva incontrato Graziani e Mussolini a cui aveva formalizzato il suo rifiuto al progetto, alquanto fumoso e militarmente errato, del fantasmagorico ridotto in Valtellina e ribadito la sua volontà di concentrare la Decima sul fronte orientale. L’unica carta possibile, nell’attesa delle truppe regie come concordato con il governo del Sud, per salvare la Venezia Giulia. In più, in un lungo colloquio di tre ore il comandante aveva tentato di convincere il duce ad intraprendere un passaggio decisivo: “Gli ripetei che il precipitare della situazione richiedeva tempestive ed energiche decisioni, e cioè la dichiarazione dello stato d’emergenza, il passaggio di tutti i poteri alle Forze Armate, la cessazione di ogni attività politica usando con i tedeschi un linguaggio che non desse luogo ad equivoci. Mussolini concordò su tutto”.

Ma, come è noto, in quei giorni infuocati e confusi, in quelle ore disperate e senza speranza, il capo del fascismo – un uomo rassegnato, stanco ma consapevole del disastro – ondeggiò continuamente tra ipotesi contradditorie e opposte, velleitarie e, infine, tutte mortifere e tragicamente perdenti. I vicoli ciechi che portarono a Dongo.

Nonostante la contrarietà di Alessandro Pavolini e degli ultrà del morente fascismo, l’idea di Borghese di instaurare un governo militare per trattare, da soldati a soldati, con gli anglo-americani la resa della Rsi, “secondo le leggi internazionali e le norme di guerra”, aveva una sua logica e una ratio. Un esercito, per quanto vinto, ancora c’era e, soprattutto, ancora combatteva; una struttura statuale, per quanto scassata, c’era e continuava ad operare. Una transizione più o meno pacifica era forse possibile.

Il tutto, però, presupponeva l’immediata partenza di Mussolini verso la Spagna franchista. Un’opzione ancora possibile – a fine aprile un aereo con insegne croate decollò da Milano verso Barcellona con a bordo la famiglia Petacci – ma il duce rimase irremovibile. Riprendendo le memorie di Borghese: “Era fermamente deciso a non abbandonare il suo posto, convinto che questo fosse il suo ultimo dovere. Di sé, della sua persona, non si preoccupava affatto. Due cose gli stavano a cuore: l’incolumità degli italiani che lo avevano seguito e la salvezza dei documenti che avrebbero fornito l’esatto motivo che lo avevano spinto ad entrare in guerra”. Illusioni.

Il 14 aprile uno sfinito Borghese incontrò l’ambasciatore tedesco Rahn e il generale Ss Wolff. I due, all’insaputa di Berlino, avevano perfezionato in Svizzera con l’Oss, i servizi americani, i termini della resa tedesca di tutto il gruppo armate Sud e si preparavano a levare il disturbo ma temevano la reazione della Decima. Così Franco Bandini ricostruì il colloquio: “La cosa era tanto ‘top secret’ che lo stesso Mussolini non seppe nulla finché la bomba non scoppiò il 25 aprile, mentre egli stava a colloquio con i rappresentanti dl Cln. Ma con il principe Borghese – e il particolare è di rilevantissima nota – Wolff fece uno strappo. Guardandolo fisso, gli disse: ‘Stiamo facendo un tentativo per andarcene. Sparerete su di noi?’. Borghese volle saperne qualcosa di più e Wolff glielo disse, senza reticenze. Poi Junio Valerio chiese con un sorrisetto: ‘E a Mussolini, non direte nulla?’. Wolff fece un gesto di noia: ‘Se glielo dicessimo, lo andrebbe a raccontare subito o a Claretta o a Rachele: e allora, dopo cinque minuti, addio segreto. Non gli diremo nulla'”.

In cambio del silenzio il comandante chiese la rinuncia da parte tedesca al progetto di distruzione dei porti e degli impianti industriali e la consegna della Venezia Giulia e dell’Alto Adige alle autorità militari italiane. Sul primo punto il callido Wolff diede la sua parola d’onore mentre sul secondo glissò.

Borghese aveva ormai le idee chiare. Ordinò subito al comandante Arillo di prendere il controllo del porto di Genova e tenere i mezzi sul Tirreno pronti a salpare per un’ultima missione e intanto diede disposizioni perché l’intera divisione si spostasse verso Trieste dove si sarebbe unita alle forze del Sud. Dal governo regio arrivò, tramite l’ingegnere Giulio Giorgis, un messaggio inequivocabile: “Tenete ancora per poche ore in Venezia Giulia perché arriveranno subito gli italiani da Ancona. Portate un bracciale tricolore per farvi riconoscere”. Troppo tardi, ormai. Le truppe alleate avevano passato il Po e dilagavano nel Veneto impendendo così ogni spostamento alla divisione. I piccoli presidi della Decima a Fiume, Pola, Trieste e nel Quarnaro vennero sopraffatti dall’armata titina e i superstiti massacrati senza pietà. Da Ancona non giunse nessuno.

A Milano intanto si consumava l’ultimo atto della tragedia. Mussolini, furente per la resa tedesca, lasciò la città nella sera del 25 aprile andando incontro al suo destino. Borghese rimase: “Decisi di seguire il mio programma, stabilito per la Decima Mas, lo stesso dell’8 settembre 1943: restare sul posto in difesa dei miei uomini e, con essi, seguendo la loro sorte, cecare di rendermi utile al popolo”.

All’indomani, nonostante l’evaporazione delle milizie fasciste il Comitato di liberazione nazionale scelse una linea attendista. I 700 uomini del presidio milanese di piazza Fiume (oggi piazza della Repubblica) incutevano ancora timore e si preferì trattare direttamente con il comandante. Secondo Bandini fu una decisione saggia: “La Decima sarebbe stata un osso duro da rodere, come dimostrò palesemente il fatto che alle 17 del 26 aprile essa era ancora al gran completo, perfettamente alla mano e potentemente armata”.

Dopo una breve trattativa con il generale Cadorna, comandante del Corpo volontari libertà, si arrivò ad un accordo: “Le armi sarebbero state depositate dagli uomini nell’armeria; ogni uomo, completo del suo corredo, sarebbe stato libero di raggiungere la propria casa; ultimato l‘esodo, la sede con le armi, sarebbe stata consegnata al Cln”.

Nel pomeriggio, riuniti i suoi marò nella caserma, il comandante sotto una pioggia leggera tenne un breve discorso in cui ribadì che la Decima non si arrendeva ma smobilitava, esortando tutti “a custodire e mantenere inalterati i sentimenti che li avevano sorretti in quei venti mesi di lotta disperata”. Dopo l’appello ai caduti Borghese ordinò l’ammainabandiera. Racconta Bruno Spampanato, testimone dell’evento: “Tre squilli di tromba e la bandiera repubblicana da combattimento viene ammainata. L’aquila nera stilizzata sui tre colori chiude le ali nelle pieghe del drappo che scende lentamente”. L’avventura era terminata.

Il processo a Borghese e il Dopoguerra. Marco Valle su Inside Over il 21 luglio 2022.  

La sera del 26 aprile 1945 Junio Valerio Borghese, smobilitati gli uomini e concluse le consegne ai rappresentanti del Cln, lasciava per ultimo la sede milanese della Decima. “Mi diressi, tra la gazzarra che imperversava per le strade, a casa di vecchi amici. Non realizzai, in quei momenti, di sfidare la morte; me ne resi conto dall’espressione dei miei ospiti quando mi videro arrivare in divisa”.

I gentili ospiti erano Sandro Faini e Corrado Bonfantini, due capi milanesi del Partito socialista da tempo in contatto con Borghese. Per sicurezza il principe venne trasferito in un appartamento in via Beatrice d’Este ed affidato al tenente Nino Pulejo, responsabile della polizia partigiana che ne ebbe cura. Borghese, infatti, interessava molto Faini e Bonfantini al punto che proposero al loro ingombrante ospite persino di affiancarli nella loro azione politica. Nelle memorie del comandante raccolte da Mario Bordogna leggiamo: “Se avessi aderito mi avrebbero assicurato la salvaguardia personale di tutti i militari della Decima. Infatti, era noti a tutti il mio attaccamento per gli uomini che mi avevano seguito, nonché la forza organizzativa della Decima: una mia presa di posizione a favore del Partito socialista avrebbe convogliato nelle loro fila migliaia di uomini. Quella richiesta, mossa da interessi di partito, dal loro punto di vista era più che giustificata. Ma per la mia innata refrattarietà ad assumere impegni di ordine politico, respinsi le loro offerte”.

Per quanto possa sembrare surreale il tentativo – proprio nei giorni di piazzale Loreto e delle mattanze partigiane – di arruolare Borghese nei ranghi socialisti, resta documentato l’atteggiamento amicale di Faini nei confronti del comandante anche nelle successive traversie. Non a caso il rappresentante socialista sconsigliò vivamente il suo protetto ad incontrare il capitano di fregata Carlo Resio, del Servizio informazioni segrete della Regia Marina, e l’agente americano Jimmy Angleton, dell’Office of Strategic Service (dal 1948 Cia), venuti appositamente a Milano a cercarlo.  Riprendendo Borghese: “I due dicevano di essere latori di un messaggio dell’ammiraglio De Courten, ministro della Marina […] Mi dissero, messaggio era solo verbale, che De Courten aveva urgenza di parlarmi di alcune situazioni provocate dalla cessazione delle ostilità. Mi riservai di decidere. Senonché, nella tarda serata dell’11 maggio, i due, assolutamente inattesi, allarmatissimi, si ripresentarono. Dissero che i partigiani, scoperto il mio rifugio, sarebbero sopraggiunti al più presto per catturarmi”.

In più Angleton confidò ad uno frastornato Borghese che anche (ma era vero?) gli inglesi lo cercavano per fucilarlo sommariamente. Insomma, non c’era tempo da perdere. All’alba del giorno dopo il gruppo partì di gran lena per Roma ma, arrivato il 12 maggio nella capitale, non vi era alcun ministro ad attendere. Anzi, De Courten non volle in alcun modo ricevere il comandante e ordinò a Resio di trovare la “soluzione più opportuna per mettere Borghese in condizioni di essere giudicato in tempi di maggiore serenità e obiettività. È così avvenne”.

Il 19 maggio il principe fu consegnato ai militari americani e trasferito in una cella d’isolamento nel Centro sperimentale di Cinematografia a Cinecittà, per l’occasione trasformato in un campo di concentramento. Franco Bandini aggiunge a sua volta un particolare interessante: “Per quanto incredibile oggi possa sembrare, Sandro Faini partì per la capitale, chiese udienza a Maugeri (capo del Sis della Marina) e volle sapere da lui per quale ragione a Borghese era stato giocato ‘un tiro mancino’. Maugeri si rifiutò di spiegare alcunché, e Faini dovette tenersi la sua indignazione e la sua curiosità”. Insomma, anche fuori tempo massimo, il capo socialista cercò d’aiutare il principe mentre la Marina (e gli americani) preferirono chiudere la faccenda “congelando” provvisoriamente l’uomo in un sicuro carcere. Resta il fatto che Borghese fu l’unica figura di rilievo della Rsi ad essere tratta in salvo dagli statunitensi, molto interessati al patrimonio di esperienze belliche non convenzionali della Decima e al suo personale qualificato. E non erano i soli. Secondo Renzo De Felice, “gli americani pensavano di utilizzare i famosi ‘maiali’ per la guerra contro i giapponesi. Gli inglesi fecero di più: una nave (ma forse due) che, a operazioni belliche finite, trasportava dalla Jugoslavia armi per gli ebrei di Palestina, fu fatta saltare dai ‘maiali’ della Decima”. Pagine ancora poco indagate.

Il 6 giugno 1945 Junio Valerio compì trentanove anni e il 19 ricevette la visita di Harold Alexander, comandante in capo del dispositivo militare britannico nel Mediterraneo. Il vecchio maresciallo si sincerò delle condizioni del prigioniero e gli promise, come effettivamente fece, d’informarsi sulla sorte della sua famiglia. Dopo mesi di lunghi interrogatori gli anglo-americani si decisero a rilasciarlo in quanto “non criminale di guerra“. Una brevissima parentesi. Le autorità italiane intervennero e decisero che Borghese doveva essere processato a Milano, una sede giudiziaria, considerato il clima politico, estremamente penalizzante per l’imputato. Per sua fortuna il principe, nel frattempo detenuto a Procida, poteva ancora contare su una rete di amicizie importanti sia in Marina militare che nell’aristocrazia romana e in Vaticano (lo stesso Montini, futuro Paolo VI, scrisse una lettera alle autorità alleate in favore di Borghese) e il 20 maggio 1947 il processo fu spostato nella capitale.

Durante il dibattimento, nonostante i tentativi dell’accusa di ridurre l’attività della Decima repubblicana all’attività anti partigiana sorvolando su tutto il resto, la difesa riuscì a dimostrare sia l’impegno alla salvaguardia degli impianti industriali del Nord e del porto di Genova che i contatti con il governo del Sud per la difesa della Venezia Giulia. Dopo diverse interruzioni il procedimento si concluse finalmente il 17 febbraio 1949.

Come ricorda Borghese: “Riconosciuto ‘non colpevole’ di ‘atti criminosi’ né di ‘rapine’ né di ‘sevizie efferate’ né di ‘stragi’ fui condannato a 12 anni per ‘collaborazionismo col tedesco invasore’. In base al mio passato militare e anche in base all’amnistia Togliatti, allora ministro della Giustizia, lasciai il carcere di Regina Coeli alle ore 19 del 17 febbraio 1949”.

L’avventura militare e giudiziaria del principe si era conclusa ma l’uomo non si rassegnò. Una volta libero, Borghese inviò ai reduci della Decima una lettera di saluto in cui ribadiva che: “Solo col ristabilirsi dei principi morali si può iniziare l’opera di ricostruzione: occorre che cada la menzogna nazionale su cui si regge l’attuale classe governante”. Ma, intanto, il primo pericolo rimaneva: “Il comunismo, l’unico, perenne nemico”. Si apriva così, agli albori della Guerra fredda, un nuovo intricato capitolo della romanzesca vita di Junio Valerio.

Otto settembre 1943. La scelta di Junio Valerio Borghese. Marco Valle su Inside Over il 23 luglio 2022.

L’8 settembre 1943 – il fatidico giorno della “morte della Patria”, riprendendo la fulminante definizione di Ernesto Galli della Loggia – è un dramma italiano tuttora irrisolto. La catastrofe seguita all’armistizio – la repentina liquefazione dello Stato e delle forze armate, l’occupazione straniera a nord e a sud, l’orrore della guerra civile – ha scavato una ferita profonda nella memoria collettiva aprendo una piaga ancora non rimarginata e, forse, non più rimarginabile. Per più motivi.

Come nota proprio Galli Della Loggia, nei decenni, scaricato l’intero peso della disfatta su Benito Mussolini e il defunto regime, si è preferito costruire un’immagine-interpretazione, largamente di comodo, fondata su un’attribuzione monopolistica della titolarità dell’idea di nazione. Insomma, secondo i canoni del manierismo resistenziale una volta eliminato il dittatore restava un immaginario quanto immacolato popolo di puri antifascisti e patrioti, unici rappresentanti della “vera” Italia.

Ovviamente le cose furono molto più complesse e laceranti e sempre meno convince – come si evince dall’attuale dibattito storiografico – l’usurata retorica autoconsolatoria tesa non solo a legittimare i nuovi equilibri politici postbellici ma anche a rimuovere l’evaporarsi dell’idea di nazione (con la conseguente e perdurante crisi dello Stato) e la paurosa debolezza etico-politica dimostrata degli abitanti della Penisola in quello snodo cruciale. L’8 settembre – ha scritto Renzo De Felice analizzando l’amplissima “zona grigia” rimasta inerte dinnanzi allo scontro feroce tra opposte minoranze politiche – “non determinò la crisi italiana, ma evidenziò una crisi morale della stragrande maggioranza degli italiani, già in atto”. Una crisi tutt’oggi non risolta.

La Marina non fece eccezione, sebbene la vulgata ufficiale ha cercato a lungo di sminuire, impiccolire, rimuovere i tormenti che attraversarono l’Istituzione. Non a caso una grande storica come Elena Aga Rossi afferma nel suo saggio Una nazione allo sbando (Il Mulino, 2003): “Si è sempre scritto che la flotta eseguì immediatamente le clausole dell’armistizio, dirigendosi nei porti stabiliti. La realtà è completamente diversa. Come è avvenuto molte volte nel nostro passato recente, la storiografia ha evitato di approfondire le vicende della flotta italiana dopo l’armistizio, avvalorando il mito di una Marina fondamentalmente già antifascista, che quindi avrebbe obbedito compatta all’ordine di recarsi a Malta. Si sono taciuti o minimizzati gli episodi di ‘dissidenza’ o di aperta disobbedienza e i casi di autoaffondamento“.

In più imbarazza grandemente ammettere che in quell’immane sciagura non mancarono marinai che, in assoluta buona fede, scelsero di continuare a combattere sotto le bandiere della crepuscolare Repubblica sociale italiana. Tra tutti Junio Valerio Borghese, il mitico comandante della Decima Mas, il violatore di Gibilterra e Alessandria.

Perché? Perché continuare una guerra ormai perduta a fianco di un alleato per nulla amico se non ostile? Perché un principe imparentato con la nobiltà di mezza Europa e ben distante dai riti popolareschi del regime (la mai richiesta tessera del Pnf gli fu recapitata d’ufficio dopo la medaglia d’Oro) decise di condividere – sempre a suo modo – l’ultima avventura di un Mussolini ormai divenuto il “fantasma del Garda”?

Domande ancora aperte. Di certo, Borghese rimase terribilmente scosso all’annuncio della resa incondizionata. “Io l’8 settembre, al comunicato Badoglio, piansi. Piansi e poi non ho più pianto. Perché quello che c’era da soffrire, lo soffrii allora. Quel giorno io vidi il dramma che si andava ad aprire per questa disgraziata Nazione che non aveva più amici, che non aveva più alleati, non aveva più nessuno, non aveva più l’onore, era additata al disprezzo di tutto il mondo per essere incapace di battersi anche nella situazione avversa: non ci si batte solo quando tutto va bene”.

Da queste parole emerge in tutta la sua postura la straordinaria quanto “inattuale” figura di Borghese. Un uomo che si scopre (o si rivela) condottiero di stampo rinascimentale, un Colleoni o un Carmagnola piombato all’improvviso nelle tempeste del Novecento che, indifferente alla politica e ai suoi giochi, decide di “lavare” l’onta dell’8 settembre e salvare l’onore nazionale, poiché “la sconfitta militare incide solo materialmente, ma perdere con il disprezzo dell’alleato tradito e con quello del vincitore a cui si supplica di accordarsi, incide moralmente e le tracce restano per secoli”.

Su queste tormentate coordinate etiche, proprio mentre tutto crollava e tutti scappavano, Borghese e i suoi rimasero ai loro posti e decisero di continuare a combattere. Senza speranza, con tigna, per l’onore.

Concluso un accordo d’alleanza “privato” con il Reich tedesco in cui si riconosceva alla Decima la piena autonomia, archiviati gli attacchi previsti ad ottobre contro Gibilterra e Freetown in Sierra Leone e, soprattutto, a dicembre contro New York (un mini sommergibile sganciato da un’unità più grande doveva risalire l’Hudson e sbarcare un nucleo di “uomini Gamma”), in poche settimane la Decima flottiglia si trasformò da reparto d‘incursori in una forza militare articolata su mare e terra. Una compagine dai tratti garibaldini, volutamente apolitica e ultrà patriottica.

All’appello di Borghese risposero migliaia di volontari (secondo le stime alleate complessivamente 50mila uomini) richiamati dal fascino del comandante e dal suo modo tutto particolare di guerreggiare. Rispetto agli ingessati codici sabaudi, in Decima si respirava tutta un’altra aria: solo volontari, rancio unico per ufficiali, sottufficiali e marò, per tutti l’identico panno della divisa e promozioni soltanto per meriti di guerra. Una vera rivoluzione castrense che affascinò giovani e meno giovani e sgomentò i vertici neofascisti.

Come scrive Franco Bandini: “Questa effettiva indipendenza dette subito ombra ai rissosi atamani che avevano costituito traballanti larve di Uffici e ministeri attorno ad un Mussolini incartapecorito e sfiduciato. E più che l’indipendenza, dette ombra ciò che sotto sotto essi sentivano in Borghese: che non era e non sarebbe mai stato, sotto qualunque firmamento politico ‘dei loro'”.

Da subito i marò iniziarono le critiche verso l’apparato salodiano, in particolare verso il dicastero della Marina affidato nell’ottobre 1943 al capitano di fregata Ferruccio Ferrini. Sfidando ogni censura il giornale della Decima ironizzava sulle «troppe investiture, troppe sedie con troppa gente seduta sopra. Tra ufficiali addetti, capi, sottocapi, vice sottocapi di Gabinetto, direttori di segreteria, segretari particolari, commissari, direttori […] quanta grazia Sant’Antonio, per amministrare una Marina rimasta senza navi”.

Parole e atteggiamenti che stizzirono i notabili della Rsi, sempre più convinti, in buona o cattiva fede, che Borghese stesse progettando un colpo di Stato per “liberare Mussolini dal fascismo” e imbalsamarlo in un mero ruolo onorifico per poi trattare con gli alleati. La crisi si protrasse sino al 13 gennaio 1944 quando Ferrini, d’accordo con il capo della Guardia nazionale repubblicana Renato Ricci e Alessandro Pavolini segretario del Partito fascista repubblicano, fece arrestare Borghese nell’anticamera di Mussolini a Gargnano. L’intento era ridimensionare drasticamente il comandante (se non peggio…) e disperdere il suo “esercito personale”. L’intera faccenda si smontò in pochi giorni: bastò un tintinnio di sciabole dei battaglioni della Decima, pronti a marciare sul Garda per liberar il loro condottiero, per convincere un lunare Mussolini a congedare Ferrini e nominare l’inquisito sottocapo di Stato maggiore.

L’episodio, per quanto risolto, scavò un ulteriore fossato tra i marò e gli uomini di Salò, determinando quella che De Felice considera una “guerra civile fredda dentro la guerra civile calda” costantemente sul punto di degenerare in uno scontro armato. Se ciò non avvenne fu solo per un sottile gioco d’equilibri, poiché “la Rsi era una tale sistema di aggregazioni che togliendo un mattone si rischiava di far venire giù l’intero edificio”. 

Borghese e i (tanti) misteri sul golpe dell’Immacolata. Marco Valle su Inside Over il 15 luglio 2022.

Il golpe Borghese rimane tutt’oggi uno dei principali misteri della Prima repubblica. Poco o nulla è stato chiarito nei diversi processi e tanto, anche a sproposito o volutamente, è stato distorto, occultato, ridicolizzato. Rimosso. Secretato. Restano i perché.

Andiamo per ordine. Dopo le rivelazioni di Paese Sera il giudice romano Claudio Vitalone (figura molto vicina a Giulio Andreotti) promosse i primi arresti: il 18 marzo 1972 furono tratti in arresto Sandro Saccucci, Mario Rosa e Remo Orlandini. Il 19 marzo fu spiccato un mandato di arresto nei confronti di Borghese, già rifugiato in Spagna assieme a Stefano Delle Chiaie. Il 25 febbraio 1972 Saccucci e gli altri imputati furono scarcerati e il primo dicembre 1973 anche la posizione di Borghese fu archiviata. Poteva tornare in Italia ma non volle mai farlo. Perché? Altra domanda. In ogni caso tutta l’accusa crollò: la notte dell’Immacolata del 1970 non era successo nulla. O quasi. Perché?

Il 15 settembre 1974 – dopo la strage di Brescia e quella dell’Italicus, due mattanze ancora oscure… – si aprì una nuova pagina. Giulio Andreotti, allora ministro della Difesa, consegnò alla procura di Roma un rapporto del Sid (Servizio informazioni difesa) pervenutogli dal generale Gianadelio Maletti che rivelava notizie scottanti sul golpe. Il capitano Antonio Labruna, a suo dire sotto mentite spoglie, aveva registrato le dichiarazioni di alcuni personaggi coinvolti nel fallito colpo di Stato. In particolare, Remo Orlandini – uno degli uomini più vicini al principe – sosteneva che il generale Miceli, al tempo capo dei servizi segreti militari e figura molto vicina ad Aldo Moro, aveva incontrato Borghese concordando sul piano eversivo. Quindi Miceli sapeva ed era, verosimilmente, complice. Andreotti lo scaricò subito e lo sostituì, senza motivazioni specifiche, con l’ammiraglio Casardi, un suo fedelissimo.

Il dossier fece riaprire le indagini e il 10 ottobre 1974 vennero spiccati ventitré ordini di arresto, coinvolgendo Saccucci e camerati assortiti più il già intoccabile Miceli. Il generale tacque ostinatamente, negò ogni accusa e, dopo un breve soggiorno in cella, fu liberato e ricompensato per con un seggio in Parlamento nelle liste del Msi-Dn. Almirante ospitò gentilmente il taciturno generale per tre legislature. Perché?

Intanto il 5 novembre 1975 venivano rinviati a giudizio 78 persone. Il processo iniziò il 30 maggio. Gli imputati dovettero rispondere dei crimini di insurrezione armata, cospirazione politica mediante associazione, tentativo di sequestro di persona, furto, detenzione e porto abusivo di armi ed esplosivi. La sentenza di primo grado, formulata il 14 luglio 1978, assolse trenta dei settantotto imputati e per i restanti quarantotto caddero le accuse più gravi. Il processo si concluse il 29 novembre 1984 quando la Corte d’Assise assolse con formula piena i 46 imputati di cospirazione. La Cassazione confermò tutto il 24 marzo 1986 riducendo il tentativo di golpe ad un “conciliabolo” di vecchi nostalgici nello stile del godibilissimo film di Monicelli “Vogliamo i colonelli”, con i burattini manipolati e sconfitti dai burattinai.

In realtà le indagini avevano evidenziato, oltre ad una feroce guerra intestina ai servizi segreti italiani (la cordata Maletti contro la cordata Miceli) e la stramba “confusione“ del potere politico, la presenza di parte della massoneria e, soprattutto, l’iniziale connivenza di settori militari importanti. Ma in quella notte fatidica, almeno secondo Delle Chiaie, i generali che dovevano far scattare dal ministero della Difesa il “piano d’emergenza” per mobilitare i comandi periferici e dare inizio al controllo del territorio nazionale, prudentemente si dileguarono: “Per gestire il ‘piano d’emergenza’ fu designato il generale Duilio Fanali, nominato capo di stato maggiore dell’Aeronautica nel febbraio 1968. Il cuore dell’operazione era in quel piano e la riuscita era subordinata a quell’ordine. Ma Fanali non andò al ministero né vi era possibilità, in quel momento, di sostituirlo. Vari e vani furono i tentativi di rintracciarlo e la sua defezione inceppò il meccanismo rendendo impossibile il proseguimento” (L’aquila e il condor, Sperling & Kupfer). Ancora una volta perché?

Dunque, per il capo di Avanguardia Nazionale un tentativo serio ci fu e poteva riuscire. Chissà. Resta la domanda – ennesimo perché – sugli scenari che il putsch avrebbe aperto. È difficile immaginare che, sebbene supportati da parte delle forze armate, Borghese e i suoi sarebbero stati in grado di gestire una situazione così complicata ed evitare, considerata la robustezza della sinistra italiana e gli incerti equilibri internazionali, una lacerante guerra civile o qualcosa tragicamente simile. Non lo sapremo mai.

Di certo, dal suo rifugio spagnolo, il principe si preoccupò assai delle altre opache ipotesi para golpiste che iniziarono da subito a circolare in Italia (il “golpe bianco” di Edgardo Sogno o la “Rosa dei Venti” di Amos Spiazzi) e, ancor di più, delle trame stragiste; alla fine del 1973, convocò a Madrid i quadri superstiti del Fronte Nazionale e, come afferma Delle Chiaie nel suo libro, “spiegò che l’idea del colpo di Stato era da abbandonare definitivamente e negò seccamente l’autorizzazione a usare il nome del Fronte”.

Come sopra accennato, nonostante la revoca del mandato di cattura, Borghese non tornò più in Patria. Nell’aprile del 1974 si recò con Delle Chiaie in Cile, dove fu ricevuto con tutti gli onori dal generale Augusto Pinochet (un golpista vincente…) che assicurò, almeno sembra, aiuti finanziari agli esuli italiani. L’ultimo atto. Rientrato in Spagna il 26 agosto il comandante moriva a Cadice. Aveva sessantotto anni.

Ma il sipario rimase (e a ben vedere tutt’oggi rimane) alzato. Al di là dei tanti segreti e delle molte ombre che tutt’oggi permangono sull’intera vicenda e le sue tante diramazioni nazionali e internazionali, rimane aperta e oscura anche la modalità della morte del protagonista. Vi è chi, come il generale Ambrogio Viviani (ex Sid), ha sostenuto che il comandante sia morto due giorni prima, spirando tra le braccia di focosa signora romana mandata dai servizi, e chi sospetta, come Virgilio Ilari, che “morì in circostanze che fecero sospettare un avvelenamento”.  Di sicuro non vi è nulla di certo, salvo che per molti, a partire da Andreotti, la scomparsa di Borghese fu di certo un sollievo…

Ma la nostra storia non è ancora finita. Persino l’ultimo viaggio del principe fu tempestoso. Il ministero degli Esteri pretese che la bara fosse racchiusa in un contenitore ligneo chiuso, una vera e propria cassa d’imballaggio per celare l’ingombrante feretro. Il feretro fu scaricato su una pista secondaria dell’aeroporto di Fiumicino e fatto uscire all’alba su un furgone anonimo diretto verso Roma.

A sua volta il ministro dell’Interno Rumor proibì il servizio funebre “a fusto di cannone”, come d’obbligo per tutte le medaglie d’Oro. Poiché la cerimonia era prevista il 2 settembre nella cappella di famiglia della basilica di Santa Maria Maggiore (territorio del Vaticano) la curia, d’accordo con il Viminale, decise di ridurre la funzione religiosa ai minimi termini. Le autorità però non avevano fatto i conti con l’enorme folla che, indifferente al minaccioso schieramento di forze dell’ordine, gremiva da ore la piazza. E successe l’inimmaginabile. Alla conclusione della frettolosa benedizione, un gruppo di giovani rapì la bara e la riportò all’esterno obbligando le spaventate guardie papaline ad aprire il portone centrale della basilica. In un tripudio di grida e saluti romani la salma rientrò nella chiesa attraverso il varco, da secoli riservato solo ai Papi e ai sovrani, e fu deposta davanti all’altar maggiore dove il comandante ricevette il saluto commosso della sua gente, dei suoi marò.

Il giorno dopo sul Tempo uscì il necrologio di Livio Giuseppe e Andrea Sciré Borghese: “Giunga un ringraziamento particolare ai giovani che con la loro coraggiosa indisciplina hanno inteso condannare l’ingiustizia e la codardia di alcuni e hanno dimostrato la gratitudine del popolo italiano verso chi si è sempre battuto per l’onore d’Italia”. Il resto è silenzio.

“Salvate il porto di Genova”. Borghese e la missione “Onore”. Marco Valle su Inside Over il 17 luglio 2022.

Negli ultimi concitati giorni della Repubblica sociale, Junio Valerio Borghese rimase in continuo contatto con Mario Arillo, comandante della Decima nell’Alto Tirreno. Nonostante le rassicurazioni dei vertici germanici, l’ambasciatore Rahn e il generale Wolff, il diffidente principe rimaneva preoccupato per la sorte del porto di Genova: i tedeschi avevano posizionato lungo l’intero bacino 80 mine di enorme potenza pronte a brillare al momento della ritirata.

Da giorni Arillo aveva concentrato in città i guastatori-sabotatori del battaglione “Vega” e gli uomini “Gamma” incaricandoli di mappare gli ordigni, disinnescare le mine subacquee e rendere inoffensivi i circuiti elettrici di collegamento. Al tempo stesso, su preciso mandato di Borghese, Arillo prese contatti, tramite il vescovo Giuseppe Siri, con il Comitato di liberazione nazionale e si accordò con la formazione partigiana “Giustizia e Libertà” per un’azione congiunta in caso di pericolo.

Nella notte del 24 aprile iniziò l’insurrezione, Arillo mobilitò i suoi uomini e la mattina, tra gli applausi dei cittadini, si diresse verso il porto dove restavano asserragliati ancora 2500 soldati tedeschi molto minacciosi. Accanto agli uomini della Decima si affiancarono i partigiani di Giustizia e libertà e tutti assieme si diressero contro lo sbarramento nazista. Nella sua testimonianza Arillo ricordava così gli eventi: “Telefonai a Paolo Emilio Taviani (allora alto esponente del Cln e nel dopoguerra più volte ministro della Dc) e costui, per tutta risposta, mi ingiunse di arrendermi ai partigiani. Gli risposi che era impossibile, proprio in quel momento, perché mi stavo adoperando in stretto rapporto con i partigiani per salvare il porto. Come soldato devo dare atto che i partigiani di Giustizia e Libertà attaccarono con vigore straordinario i tedeschi. […] Con gli uomini schierati in pieno assetto di guerra e con le armi puntate, dichiarai francamente al comandante tedesco che, se avesse tentato di distruggere il porto, avrei ordinato di aprire il fuoco. Soltanto allora i tedeschi cedettero, si arresero e consegnarono le armi”.

Ottenuta la resa e messo in sicurezza il bacino portuale, i partigiani si schierarono e, con gran rabbia del livoroso Taviani, presentarono le armi ai marò della Decima. Arillo, avvolta la bandiera della Rsi attorno a un mitra, la lanciò in mare. La guerra era finita e Genova era salva.

Borghese però aveva dato ancora un altro ordine al coraggioso Arillo. La Decima, nata sul mare doveva chiudere la sua vicenda tra le onde. Con un’ultima operazione – magnificamente disperata e inutile – contro il nemico. La missione “Onore”, una Balaklava mediterranea e tutta italiana.

Alle 19.30 del 23 aprile il comandante Arillo raggiunse la base di San Remo dove tenne un rapporto agli equipaggi. Tutti i mezzi d‘assalto ancora disponibili – in tutto una trentina tra Mas e i motoscafi Sma e Mtm, poca roba ma ancora roba seria, con gente molto seria – dovevano uscire in mare per un attacco ai porti della Corsica e contro il naviglio nemico a Nizza, Antibes, Saint Tropez e Cannes. L’azione prevedeva il non ritorno, l’autoaffondamento o la distruzione delle unità contro i possibili obiettivi. Come riporta Sergio Nesi nel suo Decima flottiglia nostra (Mursia), “Lo scopo era concludere, in modo coraggioso ed esemplare, una guerra ormai definitivamente e irrimediabilmente perduta, lanciando contro il nemico tutto ciò che era possibile reperire come potenziale offensivo. […] Tutti i piloti volevano partecipare alla spedizione per cui fu giocoforza estrarli a sorte”.

Alle otto di sera del 23 aprile i mezzi salparono per portarsi nelle zone assegnate. Fu un massacro. Dalle relazioni operative della marina americana ritrovate dal Nesi si legge: “Il 24 aprile i battelli d’assalto italiani unitamente ai Mas compirono un’operazione d’assalto con la tecnica ‘kamikaze’ attaccando su tre direzioni le forze alleate.  L’attacco, che si manifestò in forma irruente e spregiudicata, venne portato con determinazione dai giovani piloti italiani, ma venne stroncato dalla potenza alleata che intervenne con navi ed aerei ancor prima che otto battelli giungessero a contatto. Gli altri mezzi attaccarono ciò che si presentò loro ma vennero distrutti”.

Solo pochi, pochissimi superstiti vennero recuperati dagli alleati. Militarmente fu un’operazione suicida e, vista l’enorme disparità di forze, un fallimento. Ma, piaccia o meno, la missione “Onore” rimane una bella, quanto dimenticata, pagina di coraggio italiano. Speriamo che, finalmente, dopo tanti anni la nostra Marina Militare, un’Istituzione valida e coesa, se ne ricordi e dia a quei marinai – ancor oggi figli di un Dio minore? – il gusto riconoscimento. Lo meritano.

Pochi giorni prima, il 16 aprile per essere esatti, la Decima aveva colto la sua ultima vittoria. Ancora una volta un uomo solo contro una nave. Il marchio di fabbrica degli uomini di Tesei e Borghese. È la storia del sottocapo Sergio Denti. Nella notte, lo Sma 312 e sei Mtm erano di pattuglia nelle acque di Ventimiglia quando nell’oscurità si stagliarono le sagome scure di quattro navi. Denti lanciò il suo barchino a tutta velocità verso l’unità più grande. A 150 metri l’assaltatore riuscì a saltare e afferrare lo zatterino. Pochi secondi dopo l’Mtm colpiva in pieno il caccia francese “Trombe”. Perforata da parte a parte l’unità riuscì faticosamente a raggiungere Tolone dove fu disarmata e, qualche tempo dopo, demolita. Denti, quasi in fin di vita, fu recuperato esanime da un’altra nave francese e tratto prigioniero. È morto a Firenze il 10 febbraio 2018, aveva 93 anni. MARCO VALLE

La fine dell’avventura. Il 25 aprile di Junio Valerio Borghese. Marco Valle su Inside Over il 19 luglio 2022.  

Primo dicembre 1944. Bellagio. Nella mattinata Filippo Tommaso Marinetti, ormai gravemente malato, ascoltava rapito Amleto Venturi, il suo medico curante. Poco prima il dottore aveva visto nel piazzale della stazione di Como un manipolo di giovanissime reclute della Decima Mas salire cantando su un camion diretto al fronte. Lo spettacolo di spensierata adolescenza e di disarmante coraggio colpì Venturi che si avvicinò ai ragazzi e chiese il perché di un gesto evidentemente disperato. E uno di loro rispose lapidariamente:

Ogni cervello è un mondo

Come a dire: ognuno si regola come crede. La spavalderia della sfida colpì Marinetti. In un attimo colse il significato esplicito di una scelta entusiasta, gratuita, estrema e, per l’ultima volta, il pirotecnico fondatore del Futurismo si sentì poeta. Raggiunta a fatica la scrivania scrisse di getto un breve poema, Quarto d’ora di poesia della X Mas. Frasi rotte, veementi, rapide come singhiozzi, il dissidio fra desiderio di agire e freno dell’intelletto, esuberanza fisica e tatticismo, ripiego. Meglio la resa o il sacrificio? No, per Marinetti i “frenatori dal passo calcolato” meritavano soltanto il disprezzo. Per lui avevano ragione quei giovani ad invocare “avanti autocarri” verso la morte.

Nella notte Filippo venne colto da una devastante crisi cardiaca. Si svegliò con l’affanno: il cuore stava rallentando i suoi battiti. In quell’attimo supremo guardò negli occhi la moglie Benedetta. Poi il gran salto verso il mistero. Nei suoi ultimi versi troviamo un saluto alle giovani reclute: “Non vi grido arrivederci in Paradiso che lassù vi toccherebbe ubbidire all’infinito amore purissimo di Dio mentre voi ora smaniate dal desiderio di comandare un esercito di ragionamenti e perciò avanti autocarri”. Nei mesi seguenti il poeta ritrovò nell’aldi là molti di quei ragazzi. Il Quarto d’ora divenne il loro epitaffio.

Il 9 aprile 1945 scattò l’offensiva alleata. L’atto finale. Una tempesta d’acciaio e fuoco sconvolse il fronte italo-tedesco scardinando la linea Gotica e, caduti tutti i caposaldi, iniziò il ripiegamento verso il Po. L’ultimo reparto a ritirarsi fu il gruppo d’artiglieria “Colleoni” della Decima.

Il giorno prima Borghese aveva incontrato Graziani e Mussolini a cui aveva formalizzato il suo rifiuto al progetto, alquanto fumoso e militarmente errato, del fantasmagorico ridotto in Valtellina e ribadito la sua volontà di concentrare la Decima sul fronte orientale. L’unica carta possibile, nell’attesa delle truppe regie come concordato con il governo del Sud, per salvare la Venezia Giulia. In più, in un lungo colloquio di tre ore il comandante aveva tentato di convincere il duce ad intraprendere un passaggio decisivo: “Gli ripetei che il precipitare della situazione richiedeva tempestive ed energiche decisioni, e cioè la dichiarazione dello stato d’emergenza, il passaggio di tutti i poteri alle Forze Armate, la cessazione di ogni attività politica usando con i tedeschi un linguaggio che non desse luogo ad equivoci. Mussolini concordò su tutto”.

Ma, come è noto, in quei giorni infuocati e confusi, in quelle ore disperate e senza speranza, il capo del fascismo – un uomo rassegnato, stanco ma consapevole del disastro – ondeggiò continuamente tra ipotesi contradditorie e opposte, velleitarie e, infine, tutte mortifere e tragicamente perdenti. I vicoli ciechi che portarono a Dongo.

Nonostante la contrarietà di Alessandro Pavolini e degli ultrà del morente fascismo, l’idea di Borghese di instaurare un governo militare per trattare, da soldati a soldati, con gli anglo-americani la resa della Rsi, “secondo le leggi internazionali e le norme di guerra”, aveva una sua logica e una ratio. Un esercito, per quanto vinto, ancora c’era e, soprattutto, ancora combatteva; una struttura statuale, per quanto scassata, c’era e continuava ad operare. Una transizione più o meno pacifica era forse possibile.

Il tutto, però, presupponeva l’immediata partenza di Mussolini verso la Spagna franchista. Un’opzione ancora possibile – a fine aprile un aereo con insegne croate decollò da Milano verso Barcellona con a bordo la famiglia Petacci – ma il duce rimase irremovibile. Riprendendo le memorie di Borghese: “Era fermamente deciso a non abbandonare il suo posto, convinto che questo fosse il suo ultimo dovere. Di sé, della sua persona, non si preoccupava affatto. Due cose gli stavano a cuore: l’incolumità degli italiani che lo avevano seguito e la salvezza dei documenti che avrebbero fornito l’esatto motivo che lo avevano spinto ad entrare in guerra”. Illusioni.

Il 14 aprile uno sfinito Borghese incontrò l’ambasciatore tedesco Rahn e il generale Ss Wolff. I due, all’insaputa di Berlino, avevano perfezionato in Svizzera con l’Oss, i servizi americani, i termini della resa tedesca di tutto il gruppo armate Sud e si preparavano a levare il disturbo ma temevano la reazione della Decima. Così Franco Bandini ricostruì il colloquio: “La cosa era tanto ‘top secret’ che lo stesso Mussolini non seppe nulla finché la bomba non scoppiò il 25 aprile, mentre egli stava a colloquio con i rappresentanti dl Cln. Ma con il principe Borghese – e il particolare è di rilevantissima nota – Wolff fece uno strappo. Guardandolo fisso, gli disse: ‘Stiamo facendo un tentativo per andarcene. Sparerete su di noi?’. Borghese volle saperne qualcosa di più e Wolff glielo disse, senza reticenze. Poi Junio Valerio chiese con un sorrisetto: ‘E a Mussolini, non direte nulla?’. Wolff fece un gesto di noia: ‘Se glielo dicessimo, lo andrebbe a raccontare subito o a Claretta o a Rachele: e allora, dopo cinque minuti, addio segreto. Non gli diremo nulla'”.

In cambio del silenzio il comandante chiese la rinuncia da parte tedesca al progetto di distruzione dei porti e degli impianti industriali e la consegna della Venezia Giulia e dell’Alto Adige alle autorità militari italiane. Sul primo punto il callido Wolff diede la sua parola d’onore mentre sul secondo glissò.

Borghese aveva ormai le idee chiare. Ordinò subito al comandante Arillo di prendere il controllo del porto di Genova e tenere i mezzi sul Tirreno pronti a salpare per un’ultima missione e intanto diede disposizioni perché l’intera divisione si spostasse verso Trieste dove si sarebbe unita alle forze del Sud. Dal governo regio arrivò, tramite l’ingegnere Giulio Giorgis, un messaggio inequivocabile: “Tenete ancora per poche ore in Venezia Giulia perché arriveranno subito gli italiani da Ancona. Portate un bracciale tricolore per farvi riconoscere”. Troppo tardi, ormai. Le truppe alleate avevano passato il Po e dilagavano nel Veneto impendendo così ogni spostamento alla divisione. I piccoli presidi della Decima a Fiume, Pola, Trieste e nel Quarnaro vennero sopraffatti dall’armata titina e i superstiti massacrati senza pietà. Da Ancona non giunse nessuno.

A Milano intanto si consumava l’ultimo atto della tragedia. Mussolini, furente per la resa tedesca, lasciò la città nella sera del 25 aprile andando incontro al suo destino. Borghese rimase: “Decisi di seguire il mio programma, stabilito per la Decima Mas, lo stesso dell’8 settembre 1943: restare sul posto in difesa dei miei uomini e, con essi, seguendo la loro sorte, cecare di rendermi utile al popolo”.

All’indomani, nonostante l’evaporazione delle milizie fasciste il Comitato di liberazione nazionale scelse una linea attendista. I 700 uomini del presidio milanese di piazza Fiume (oggi piazza della Repubblica) incutevano ancora timore e si preferì trattare direttamente con il comandante. Secondo Bandini fu una decisione saggia: “La Decima sarebbe stata un osso duro da rodere, come dimostrò palesemente il fatto che alle 17 del 26 aprile essa era ancora al gran completo, perfettamente alla mano e potentemente armata”.

Dopo una breve trattativa con il generale Cadorna, comandante del Corpo volontari libertà, si arrivò ad un accordo: “Le armi sarebbero state depositate dagli uomini nell’armeria; ogni uomo, completo del suo corredo, sarebbe stato libero di raggiungere la propria casa; ultimato l‘esodo, la sede con le armi, sarebbe stata consegnata al Cln”.

Nel pomeriggio, riuniti i suoi marò nella caserma, il comandante sotto una pioggia leggera tenne un breve discorso in cui ribadì che la Decima non si arrendeva ma smobilitava, esortando tutti “a custodire e mantenere inalterati i sentimenti che li avevano sorretti in quei venti mesi di lotta disperata”. Dopo l’appello ai caduti Borghese ordinò l’ammainabandiera. Racconta Bruno Spampanato, testimone dell’evento: “Tre squilli di tromba e la bandiera repubblicana da combattimento viene ammainata. L’aquila nera stilizzata sui tre colori chiude le ali nelle pieghe del drappo che scende lentamente”. L’avventura era terminata.

·        Il retroscena di un delitto. La pista della ‘Ndrangheta.

Anticipazione da Tpi – tpi.it il 5 maggio 2022.

“Fui il primo a ritrovare il corpo di Aldo Moro il 9 maggio 1978. Erano circa le 13.20, mi trovavo a piazza Ippolito Nievo, lungo viale Trastevere. Ricevetti una telefonata del colonnello Gerardo Di Donno, che dalla centrale operativa dei Carabinieri mi diceva di portarmi in via Caetani. Pochi minuti prima aveva ricevuto dalla Questura la segnalazione di una macchina sospetta. 

Mi indicò anche una parte della targa: Roma N5. Impiegai sei o sette minuti ad arrivare in via Caetani. Aprii il bagagliaio della Renault con un piede di porco che aveva con me, e mi trovai davanti a una coperta, in cui era avvolto il corpo del presidente della Dc. Durante i giorni del sequestro Moro mi rivolsi a un latitante di ’ndrangheta. Contattai Antonio Varone, detto Rocco, per avere informazioni. Il suo capo era il fratello, Salvatore Varone. Rocco Varone mise come condizione quella di avere il benestare della mafia.

Si recò da Frank Coppola, che stava a Pomezia. Appena entrò quello gli disse: ti daremo anche dei soldi, ma tu non ti devi interessare. Gli amici suoi non vogliono che torni vivo. Per quanto riguarda il ruolo della Cia, ho sempre precisato, almeno per quello che ho potuto, in virtù del lavoro fatto, che sia l’URSS sia gli americani volevano che Moro fosse eliminato, ma non fisicamente, dal punto di vista politico. Sul caso Moro aveva ragione Italo Calvino, che già a maggio ’78 sul Corriere della Sera scrisse che la verità non sarebbe mai venuta a galla. A mio avviso tutte le istituzioni più interessate sapevano dove si trovasse. Non l’hanno voluto liberare”

Così Antonio Cornacchia, ex generale dell'Arma dei Carabinieri e all’epoca del rapimento di Aldo Moro comandante del Reparto operativo di Roma dei Carabinieri, in un’anteprima dell’intervista al prossimo numero del settimanale Tpi in edicola da domani, venerdì 5 maggio  che conterrà una inchiesta sul coinvolgimento di ’ndrangheta e Cia nel caso Moro

Anticipazione da Tpi – tpi.it il 5 maggio 2022.

“La nostra relazione non rappresenta l’unica verità, o tutta la verità sul caso Moro. Contiene tutte le verità che è stato possibile riscontrare in modo storicamente e documentalmente certo. La nostra indagine ha prodotto moltissimi elementi nuovi, anche di dubbio, che abbiamo scoperto durante le indagini. In alcuni casi elementi clamorosi e novità venute alla luce non hanno trovato i necessari riscontri. 

Tutte e tre le principali versioni fornite dalle Br – Morucci, Gallinari, la Braghetti – sono false. Abbiamo stabilito una dinamica più precisa di quella esecuzione. Non un colpo di grazia, al contrario: colpi al cuore e al corpo, sparati con perizia proprio perché non morisse. Moro è morto dissanguato dopo un’agonia. Volevano che soffrisse. Abbiamo lavorato nel segno della trasparenza, desecretando tutti i documenti. Ci sono ancora migliaia di pagine non accessibili? Solo quelle su persone ancora implicate in procedimenti aperti o quelle per cui i titolari dei documenti (pubblici o privati) hanno richiesto il segreto, come è per legge loro diritto.

Poco prima del 9 maggio, era vicina la liberazione di una brigatista. C’erano due canali. Un imprenditore israeliano aveva messo a disposizione 10 miliardi per pagare il sequestro, tramite il Vaticano. Ci sono dei riscontri anche nei diari di Andreotti. Il canale del Papa contava però anche sui cappellani carcerari. L’altro canale era di sinistra. Si era aperto a Milano, intorno alla Libreria Calusca. A Roma intanto il deputato socialista Signorile parlava con Pace e Piperno, Faranda e Morucci. 

Si individuò una possibile pedina di scambio: una brigatista malata di tumore, Paola Besuschio. Era possibile graziarla. Era già tutto pronto. Signorile ci ha detto che lui e Cossiga aspettavano notizie positive. Ma questo accadeva proprio la mattina del 9 maggio! Le Br uccidono Moro proprio quel giorno, guarda caso. 

C’è stato un tamponamento della verità. Persone di cui era stata accertata la presenza sulla scena del crimine a via Fani sono dovute sparire. Magari perché non si poteva spiegarne la presenza. Oppure perché non si era in grado di farlo. Quando è stato chiaro che non si poteva nascondere tutto, è passata la linea di affollare la scena del crimine di via Fani di tutto e di più. Per rendere impossibile per chiunque ricostruire una verità compiuta. 

A uccidere Moro sono state le Br, su questo non c’è dubbio. Ma il reato che uccide davvero Moro è anche l’omissione. Tutti quelli che potevano sapere fanno finta di non sapere. E chi sapeva qualcosa non ha detto nulla. Moro era pericoloso per l’ordine di Yalta: aveva come nemici tutti i Servizi che difendevano l’equilibrio della guerra fredda. Questi attori hanno favorito chi voleva ucciderlo”.

Così Giuseppe Fioroni, Presidente della commissione parlamentare sul rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, commenta le risultanze della relazione finale in un’anticipazione dell’intervista al prossimo numero del settimanale Tpi in edicola da domani, venerdì 5 maggio che conterrà una inchiesta sul coinvolgimento di ’ndrangheta e Cia nel caso Moro

·        Il retroscena di un delitto. La pista palestinese.

Lodo Moro, lodo Brandt, lodo viennese: atti di resa. Così l’Olp conquistò l’establishment europeo, i nuovi documenti. Giordana Terracina su Il Riformista il 2 Giugno 2022. 

La genesi di quello che si definisce “Lodo Moro” è complessa. L’accordo tra Italia e organizzazioni palestinesi ha radici internazionali e sino a un certo momento non differisce da quelli che avevano sottoscritto anche molti altri Paesi europei. A partire dalla Germania che del “lodo” è stata incubatrice. Il 15 dicembre 1972, dal Ministero degli Affari Esteri, Direzione Generale degli Affari Politici, Uff. XIII – Onu, viene inviato un telespresso ad alcune rappresentanze italiane, di cui vengono omessi gli indirizzi, contenente gli estremi di un accordo siglato tra il Governo della R.F.T. e i guerriglieri palestinesi.

Lo scambio prevede il versamento di due milioni di sterline in cambio dell’impegno arabo a non compiere ulteriori attentati ai danni della compagnia aerea Lufthansa, parte anch’essa dell’accordo. In un articolo dal titolo “Viaggio alle origini della strage di Bologna. Non solo Moro: i lodi europei per salvarsi dal terrorismo palestinese”, scritto con Gabriele Paradisi e pubblicato su Reggio Report, abbiamo accennato all’avvio di trattative tra il cancelliere Willy Brandt, in accordo con il ministro degli Esteri Walter Scheel, e i terroristi, dopo il dirottamento di un areo della compagna tedesca, per chiedere il rilascio dei tre palestinesi sopravvissuti al massacro di Monaco di Baviera, attuato durante le Olimpiadi nel settembre del 72 e che era costato la vita a undici atleti israeliani, a un poliziotto tedesco e a cinque terroristi.

L’elargizione dei fondi sarebbe servita alle organizzazioni palestinesi per rinforzare le loro basi in Europa con l’arrivo di nuovi guerriglieri, ad ampliare mediante propaganda l’area dei simpatizzanti in Occidente, e infine ad acquistare materiale bellico, di provenienza principalmente cecoslovacca, mediante emissari francesi e americani di origine araba. Continuando nella lettura del documento, emerge come il passaggio dei nuovi affiliati sarebbe venuto attraverso l’Italia, mediante il rilascio di regolari borse di studio presso le diverse università, e che gli stessi “studenti” sarebbero stati muniti di passaporti algerini, libici e di altri paesi arabi.

Un altro accordo, sarebbe stato stretto più avanti nel tempo, nel gennaio 1986, tra il Governo austriaco e il gruppo terroristico di Abu Nidal, per trattare ancora una volta la liberazione di alcuni guerriglieri detenuti nelle carceri austriache, tra i quali uno dei terroristi coinvolto nell’attentato alla Sinagoga di Vienna e nell’uccisone di un Consigliere Comunale viennese. I contatti, in quel caso, erano stati avviati nell’Ambasciata di Damasco. Rapportando i due accordi, quello del 1972 e quello del 1986, emerge in entrambi come fondamentale la liberazione di detenuti palestinesi in carcere nei diversi Paesi. Lo spazio di queste trattative era dunque internazionale e non solo italiano, riguardava la politica estera legata alla sicurezza dei vari Stati coinvolti, non solo quella interna…

Ciò dimostra l’esistenza di diversi livelli di impegno tra gli Stati e le organizzazioni terroristiche, che andavano dagli accordi tra agenti e guerriglieri, per salire poi a un livello istituzionale e in sede Onu, come è riportato anche nel nome dell’Ufficio competente nel 1972.

Questa politica, il cui raggio era ben più vasto del semplice tentativo di evitare attentati nei propri Paesi, si afferma nella Dichiarazione Congiunta del 6 novembre e nel vertice di Copenaghen del 14 dicembre 1973, considerate dall’Italia il primo passaggio in vista di uno sviluppo potenzialmente ricco di possibilità su nodi vitali come la questione del petrolio e la cooperazione per uno sviluppo economico industriale dei Paesi arabi. In questo quadro, proprio l’Italia si impone come Paese guida e “avviatore” del processo di avvicinamento dell’Europa agli Stati arabi. E’ proprio questa scelta strategica che porterà alla liberazione dei cinque terroristi palestinesi, dopo l’attentato all’aeroporto di Fiumicino il 17 dicembre 1973.

Dalla trascrizione di nastro magnetico del colloquio tra l’On. Miceli e il giudice istruttore Mastelloni, custodita tra i documenti desecretati dalla Direttiva Renzi 2014, emergono chiaramente i dettagli dell’operazione, che vide rilasciati subito i primi due attentatori e solo nel febbraio del 1974 gli altri tre. Dalle parole di Miceli, si evince che le intimidazioni volte a ottenere la liberazione dei detenuti arrivavano a Giovannone e a Terzani e che le portava poi a conoscenza dei ministri della Difesa, degli Esteri, degli Interni e del Presidente del Consiglio. Miceli presume anche, non avendone però la certezza, che fosse stata interessata anche la magistratura. I primi 2 terroristi furono liberati subito, senza il pagamento di alcuna cauzione, a differenza degli altri 3 che seguirono. Lasciarono l’Italia su un aereo del SID (così si chiamava allora il servizio segreto italiano) che li condusse a Tripoli passando per Malta, come peraltro è noto.

La scelta di Tripoli, sempre secondo le parole di Miceli, era stata dettata dalla Libia, perché da quella città avrebbero poi facilmente raggiunto il Fronte per la Liberazione della Palestina, in attesa dell’arrivo degli altri tre guerriglieri ancora detenuti in Italia. Il trasporto fu pagato dalla Libia e nella lettera di accompagno si precisava che i due erano stati rilasciati in sede istruttoria per insufficienza di indizi. Il rapporto di Miceli con Giovannone ha inizio dopo il rientro di quest’ultimo dalla Somalia, quando passa ad occuparsi della sicurezza personale dell’On. Moro. E nel documento qui riportato sono precisati nei dettagli i compiti “istituzionali” affidati a Giovannone, diretti alla salvaguardia dell’Italia e dei suoi interessi all’estero, al congelamento delle azioni terroristiche da parte palestinese che implicava un atteggiamento italiano favorevole a sostenere le istanze, nei confronti degli altri Paesi, che come scritto sopra riguardava anche i rapporti in sede Onu.

Lo stesso Giovannone, durante l’interrogatorio avuto con il giudice istruttore Mastelloni, il 20 giugno 1983 negli uffici di Venezia, ribadì il suo ruolo, già a partire dal 1972, quindi prima dell’attentato a Fiumicino, su commissione del ministro degli Esteri e del Sid da cui dipendeva, diretto dall’epoca dallo stesso generale Miceli. Il suo incarico risulta, nei particolari, dal documento allegato all’articolo e indirizzato a tutte le Ambasciate interessate, da parte del Segretario Generale del Ministero degli Affari Esteri, in data 24 luglio 1972. La missione di Giovannone era prendere contatto con qualche responsabile dell’OLP, al fine di evitare operazioni terroristiche in Italia o contro cittadini italiani all’estero. Le minacce, secondo l’opinione personale dell’agente, provenivano dall’organizzazione “Fronte Popolare Comando Generale”, con a capo Ahmed Gibril, estremista palestinese.

L’accordo prevedeva da parte italiana una disponibilità a livello istituzionale e dell’opinione pubblica a recepire le aspirazioni palestinesi di autonomia e di indipendenza, dando luogo a iniziative internazionali in tale direzione. In quegli anni la struttura di Al Fatah, la maggiore componente dell’OLP guidata da Arafat, assommava circa il 65% dei membri dell’organizzazione e dettava la linea politica, con l’avallo del Comitato Esecutivo e del Consiglio Centrale dell’OLP. Accanto si poneva una minoranza estremista, che non condivideva la linea moderata e diplomatica di Arafat. Come specifica Giovannone, si trattava di elementi vicini all’Iraq, al Sud Yemen, alla Libia, talvolta all’Algeria, alla Siria e con probabilità anche alla Russia.

Seguendo l’orientamento dell’On. Moro i palestinesi avrebbe dovuto avere una loro patria, affinchè non si continuasse a considerarli dei rifugiati e per questo erano indispensabili le iniziative internazionali. I documenti presentati nell’articolo, fondamentali per far luce sul retroscena degli eventi di quegli anni, sono custoditi presso l’Archivio Centrale dello Stato e, come da segnatura, rientrano tra quelli desecretati dalla Direttiva Renzi del 2014, come accennato sopra. A questa, nel 2021, è seguita la decisione del Presidente del Consiglio Draghi di ampliare, ulteriormente, il perimetro della trasparenza nella documentazione delle pubbliche amministrazioni, disponendo il versamento anticipato presso lo stesso Archivio di ulteriore documentazione ancora classificata come non liberamente fruibile.

Non tutte le nebbie che avvolgono gli avvenimenti ancora aperti al dibattito storiografico e non solo, sono però state dissipati. Il lavoro del Senatore Marilotti, Presidente della commissione per la Biblioteca e Archivio Storico del Senato, si muove in questa direzione, con una volontà diretta a limitare il segreto nelle pubbliche amministrazioni, affinché gli studiosi o anche il semplice cittadino possano essere maggiormente informati sui passaggi cruciali della Nostra Repubblica. Giordana Terracina

Il “lodo Moro” è esistito davvero. Ma non è opera di Aldo Moro. PAOLO MORANDO su Il Domani il 18 marzo 2022.

In merito al “lodo Moro” le virgolette ci stanno tutte perché è fuorviante, e infatti ha fuorviato, l’identificazione con lo statista ucciso dalle Brigate rosse di un ipotetico accordo, più o meno formale, con la dirigenza della resistenza palestinese affinché il territorio italiano non diventasse terreno d’azione a colpi di bombe e dirottamenti.

L’accordo è esistito, secondo la storica Valentine Lomellini. Che però vada ascritto ad Aldo Moro è tutt’altra questione. Il libro dimostra infatti che numerose e diverse furono le personalità coinvolte. Dovremmo dunque chiamarlo “lodo Italia”.

Si deve inquadrare quella convulsa fase storica (che peraltro durò anni) senza dimenticare lo stillicidio continuo in tutta Europa di gravissimi atti terroristici, che l’Italia conobbe tragicamente nel 1973 con la strage di Fiumicino.

PAOLO MORANDO. Giornalista, ha lavorato in quotidiani di Trento, Bolzano e Verona. Ora scrive per Huffington Post, Internazionale, L'Essenziale e sul blog minima&moralia. Per Editori Laterza è autore di Dancing Days. 1978-1979: i due anni che hanno cambiato l’Italia (2009, ristampato nel 2020), ’80. L’inizio della barbarie (2016, finalista al Premio Estense), Prima di Piazza Fontana. La prova generale (2019, vincitore del Premio Fiuggi Storia, sezione Anniversari) e Eugenio Cefis. Una storia italiana di potere e misteri (2021).

Documento esclusivo dei fondi ad Al Fatah. L’Italia finanziava i terroristi palestinesi, ecco le prove. David Romoli, Giordana Terracina su Il Riformista il 24 Febbraio 2022. 

Ci sono due modalità diverse attraverso le quali, nel corso del tempo, l’Italia ha evitato di fare chiarezza sul “lodo Moro”, il patto tra lo Stato italiano e le organizzazioni rimasto di fatto in vigore per tutti gli anni 70 e sin oltre la metà degli 80. La prima e più semplice via è stata la pura e semplice negazione dell’esistenza dell’accordo, o la sua derubricazione a faccenda di servizi segreti, che si sarebbe sviluppata in autonomia, senza coinvolgimento o input dei vari governi in carica. Questa visione, a lungo promossa a verità di Stato, è stata smentita da una mole di testimonianze e documenti tali da non lasciare dubbi in proposito: l’accordo ci fu e a volerlo, conoscerlo, sostenerlo e sottoscriverlo non furono gli agenti dei servizi ma i premier e i ministri.

La seconda modalità, quella minimalista, è più sottile e “moderna”: riconosce l’esistenza del lodo e il coinvolgimento dei governi nella stipula ma lo riduce ad accordo stretto per evitare attentati, nel quadro di una modalità adottata da moltissimi Paesi europei all’inizio degli anni 70. Che il Patto sia nato proprio così è certo, che però poi non abbia assunto in Italia caratteri diversi per spessore e longevità rispetto agli altri Paesi europei invece non lo è affatto. Se all’inizio lo scambio era solo, come in buona parte d’Europa, quello tra scarcerazioni facili e permesso di trasportare armi da un lato, rinuncia ad attentati contro obiettivi italiani dall’altro, quasi immediatamente da noi l’accordo si ampliò fino a rendere l’Italia non solo territorio di libero transito ma base logistica a tutti gli effetti, prima di trasformarsi in una delle principali leve dell’intera politica filo-araba ed energetica del Paese negli anni 80. (già dagli anni 70).

Nella trasformazione dell’Italia in centrale operativa i soldi erano importanti tanto quanto le armi. Dal documento che qui pubblichiamo, emerge chiaramente la rete di finanziamenti costruita in Italia. Secondo quanto riportato dai servizi segreti americani e inglesi l’Italia era una delle principali basi logistiche dei palestinesi nell’Europa Occidentale. Il denaro depositato serviva per gli attentati e trovandosi già in loco non dava adito a pericolosi trasferimenti di valuta, che avrebbero potuto mettere in allarme le forze dell’ordine. A occuparsi di questo aspetto delle attività dell’Olp era il Rasd. Significa “rete di osservazione” e, secondo la documentazione dell’Ufficio Affari Riservati risalente al marzo del 1972, il Rasd era in effetti l’organo informativo di Al Fatah, creato per raccogliere informazioni su Israele, poi anche sui territori persi durante la guerra del giugno del 1967 e infine per reclutare nuovi membri di Al Fatah. Il primo direttore fu Salah Khalaf (Abu Iyad), numero due di Al Fatah, addestrato al Cairo dal Servizio Informativo Egiziano (Sie) insieme ad Alì Hasan Salamah (Abu Hasan), destinato a succedergli nella carica. Il sodalizio iniziale vide i due servizi operare insieme, entrando in disaccordo solo ai primi degli anni 70.

Salamah, figlio di Shaykh Hasan Salamah considerato il primo “martire della Palestina”. Il suo ruolo lo poneva agli ordini diretti di Arafat, l’unico a cui era tenuto a rispondere del suo agire. La guerra del 1967 fu il motore di volta del cambio di funzioni del Rasd. L’affluenza di armi e di denaro da parte dei paesi arabi amici verso Al Fatah, comportò il problema dell’investimento degli stessi. All’organizzazione risultava difficile giustificare i suoi investimenti in Occidente e ripiegò sul Rasd usandolo come longa manus nelle sue operazioni. Il tutto doveva avvenire senza che l’Egitto si accorgesse di queste manovre finanziarie. Le somme da portare in Europa ammontavano a circa 100 milioni di dollari, risultato, secondo quanto scoperto dal servizio segreto inglese, del traffico di droga. Per questo fu necessario costruire una rete tutta nuova, reclutando anche elementi europei e sempre secondo quanto riportato nella documentazione, ciò aprì la strada a contatti con gruppi di sinistra e “dischiuse una via tutta nuova alla cospirazione internazionale”. Gli anni del 1968 e del 1969 segnarono questa permanenza in Occidente. Il Rasd aveva la sua direzione centrale a Beirut e il suo centro logistico per la progettazione delle operazioni nel campo di Sabra, zona di profughi palestinesi.

Negli uffici di Beirut i compiti erano legati alla sicurezza, raccolta informazioni, collegamenti con altri servizi, raccolta di armi, addestramento e incarichi a “contratto”. Questi ultimi consistevano nel procurare denaro per Al Fatah mediante azioni da effettuarsi con l’uso di armi come il rapimento o l’uccisione di leader in esilio per conto ad esempio di siriani o iracheni. Per le sue operazioni da effettuarsi all’estero, possiede numerosi passaporti di paesi arabi, tra cui alcuni diplomatici, soprattutto provenienti dall’Algeria, Libia e Sudan.

La necessità di Al Fatah di mantenere una sua immagine moderata, la lega in maniera indissolubile ai servizi del Rasd, che in un certo senso ne cura le operazioni internazionali. Lo stesso Settembre Nero è descritto nei documenti come un gruppo di copertura del Rasd, che provvedeva a fornire nascondigli sicuri, armi e vie di fuga in cambio di addestramento e altre armi. Ad esempio il campo di Hamah, vicino a Damasco era usato per l’addestramento all’uso di esplosivi.

Nel report si parla dell’uccisione del Primo Ministro Giordano W.T., del tentato omicidio dell’ambasciatore giordano nel Regno Unito Z.R. dell’attentato dinamitardo alla ditta Struever KG in Amburgo, alla raffineria Esso sempre ad Amburgo e all’Officina Gas di Ravenstein in Olanda. Il Rasd era ben articolato e al suo interno prevedeva una Direzione con a capo Alì Hasan Salamah (Abu Hasan), un suo autista, un aiutante in campo e un vice Ghazi Abd-Al Qadir Al-Husayni (Abu Ghazi). Al di sotto si ponevano i Capi Squadre Omicidi nel numero di quattro persone, Abu Mihammad, Abu Sakhr, Al-Hilu e Alì Al-Luh (nomi di battaglia). Seguivano i Sostenitori e gli Addetti alla Falsa documentazione. Il Personale a sua volta era composto da quello di Beirut, circa 30 persone e dagli assassini nel numero di 23. Alcuni erano addestrati in Algeria, soprattutto all’uso delle bombe, altri nel Nord del Vietnam e a seguire in Siria, Turchia.

Il Rasd muovendosi in ambito internazionale aveva agenti e funzionari anche al di fuori del Libano: in Medio Oriente si contavano 8 agenti sparsi tra il Kuwait, la Giordania, la Siria, l’Egitto, la Turchia e Gaza. In Europa si radicò nel Regno Unito con 10 agenti, in Germania dove erano presenti anche nomi tedeschi con 5 agenti, in Olanda con 1 solo agente olandese, in Italia con 3 agenti di cui due italiani, in Austria anche 1 solo agente e infine in Francia con 4 agenti di cui 1 francese. Indagare il lodo Moro, non con l’occhio del giudice istruttore ma con quello dello storico significa seguire tracce del genere, per mettere a fuoco le dimensioni reali dell’intesa raggiunta con le organizzazioni palestinesi e i prezzi che si sono pagati per difenderla e rispettarne i dettami. David Romoli, Giordana Terracina

Giuseppe Scarpa per "il Messaggero" il 10 febbraio 2022.

Abou Zayed, 63 anni, è il nome nuovo che compare negli atti dell'inchiesta sull'attentato del 9 ottobre del 1982 alla Sinagoga di Roma. Avrebbe fatto parte del commando di 5 persone che uccise il bimbo di 2 anni, Stefano Gaj Taché, colpito a morte da una scheggia di una bomba a mano. L'informazione, adesso al vaglio degli inquirenti italiani, arriva dai colleghi francesi. La magistratura parigina ha ottenuto dalla Norvegia, dove viveva, l'estradizione di Zayed a dicembre del 2020. L'uomo sarebbe stato coinvolto in un attacco compiuto nella Capitale francese. 

LA ROGATORIA Secondo gli investigatori d'Oltralpe il 63enne partecipò all'attacco, il 9 agosto del 1982, dove morirono 6 persone e 21 rimasero ferite. Il gruppo di fuoco lanciò una bomba all'interno del ristorante ebreo Jo Goldenberg per poi azionare le armi automatiche. Gli inquirenti francesi fondano la loro accusa sulla base delle affermazioni di un super testimone che, adesso si scopre, punta il dito contro Zayed anche per l'attacco compiuto a Roma.

Una comunicazione che, i magistrati di Parigi, hanno fornito ai pm di piazzale Clodio un anno fa. Ma c'è di più. Infatti la procura parigina non esclude (ma è un'ipotesi da verificare) che il commando responsabile della strage al ristorante Jo Goldenberg fosse composto dagli stessi uomini che hanno colpito la sinagoga nella nostra Capitale. Troppe le similitudini. La più evidente, per gli investigatori francesi, è questa: vennero utilizzate le stesse armi e a Parigi e Roma, questo emerge da delle «perizie comparative». Per questo motivo, poco dopo l'estradizione di Zayed da Oslo, la procura di Parigi ha chiesto ai colleghi romani una rogatoria con l'obiettivo di acquisire tutti gli atti dell'indagine relativi all'attacco alla sinagoga. Nel frattempo la procura di Roma ha aperto un nuovo fascicolo d'inchiesta sull'attentato del 9 ottobre 1982. L'indagine è coordinata da un magistrato esperto, il pm Francesco Dall'Olio.

GLI INVESTIGATORI Il sostituto procuratore, che fa parte del gruppo antiterrorismo, ha delegato la Digos. L'obiettivo è duplice, da un lato analizzare i documenti emersi dai cassetti dell'Archivio di Stato, che raccontano di una serie di allarmi inascoltati dalle forze di polizia nei giorni precedenti all'attentato. Dall'altro, cercare di approfondire le parole dalla fidanzata dell'unico condannato per quella strage, uno studente palestinese allora poco più che ventenne, Osama Abdel Al Zomar. Adesso gli inquirenti romani dovranno verificare anche le informazioni che sono arrivate da Parigi sul presunto coinvolgimento di un'altra persona, Abou Zayed. 

SINAGOGA Il 9 ottobre 1982, un commando di cinque terroristi palestinesi attaccò la sinagoga quando era piena di fedeli, uccidendo un bambino di due anni (Stefano Gaj Taché) e ferendo 37 persone. Per quell'assalto, la giustizia italiana ha condannato una sola persona, Osama Abdel Al Zomar, che però non ha passato un solo giorno in galera. L'uomo scappò in Libia poco dopo essere stato individuato e fece perdere da subito le sue tracce.

FRANCIA Era il 9 agosto 1982, ore 13.10 (quindi orario di punta), quando un commando irruppe nella sala da pranzo del Jo Goldenberg facendo esplodere granate e sparando diversi colpi con le mitragliatrici. Sei persone, tra cui due americani, furono uccise, mentre 21 furono i feriti. Il ristorante, che ha abbassato per sempre le serrande nel 2006, fu a lungo centro di attrazione turistica nel famoso quartiere ebraico del Marais. Sebbene l'Organizzazione Abu Nidal fosse stata a lungo nel mirino degli inquirenti, gli uomini sospettati di aver fatto parte del gruppo di fuoco furono identificati definitivamente solo 32 anni dopo gli attacchi, in base alle prove fornite da due ex membri di Abu Nidal (una costola scissionista di Fatah) a cui è stato concesso l'anonimato dai giudici francesi. Nel dicembre 2020 uno dei sospetti, Walid Abdulrahman Abou Zayed, è stato consegnato alla polizia francese (in un aeroporto norvegese) e portato in aereo a Parigi. «Non mi piace la Francia e non voglio andare in carcere» aveva dichiarato l'uomo nel corso di in un'udienza in un tribunale norvegese.

Conosciuto con il nome Osman in Norvegia dove è stato naturalizzato nel 1997. Adesso toccherà agli investigatori italiani capire se il 63enne palestinese è stato effettivamente coinvolto nell'attentato alla sinagoga a Roma, che venne compiuto ad appena due mesi di distanza dall'attacco al ristorante in Francia. 

La verità sul Lodo Moro: i documenti che cambiano tutto. Gianluca Zanella il 22 Gennaio 2022 su Il Giornale. Circa 30mila documenti da archivi italiani ed europei per confermare l'esistenza del cosiddetto "Lodo Moro" e smontare una ad una le leggende proliferategli attorno. Il poderoso lavoro della professoressa Lomellini.  

“La storia della Repubblica italiana è intessuta di varie leggende. Una di queste è il Lodo Moro”. Questo l’incipit del libro Il Lodo Moro: terrorismo e ragion di Stato 1969 – 1986, pubblicato da Laterza e firmato dalla professoressa universitaria e ricercatrice Valentine Lomellini. Un incipit decisamente adeguato, se si pensa all’alone di mistero che da sempre aleggia attorno a uno dei temi maggiormente dibattuti da chiunque si occupi – per lavoro o per passione – di storia contemporanea. Un accordo sottobanco a opera dei servizi segreti effettuato su mandato di Aldo Moro per arginare il dilagante terrorismo arabo-palestinese in Italia; un patto con il diavolo; una leggenda, per l’appunto. In effetti, l’interpretazione di cosa sia stato – dando per buona la sua esistenza – il cosiddetto Lodo Moro varia sensibilmente a seconda dei punti di vista, che possono essere di volta in volta condizionati da opinioni personali, studi effettuati, tendenze politiche e chi più ne ha, più ne metta. Con questo libro, la professoressa Lomellini tenta un’operazione quanto mai coraggiosa nell’epoca dell’informazione a portata di tutti, soprattutto di chi l’informazione la vorrebbe piegata ai propri bisogni contingenti: tenta (e ci riesce) di spiegare cosa sia stato il Lodo Moro non secondo la sua personale opinione, ma carte alla mano, dopo un lavoro durato sei anni e la consultazione di circa 30mila pagine di documenti andati a scovare in più di venti archivi tra Italia ed Europa. Ne esce un lavoro storico rigoroso, uno spaccato nitido degli anni della strategia della tensione, delle stragi, del terrorismo politico. Anni in cui l’Italia venne in qualche modo “risparmiata” dal terrorismo mediorientale, fatta eccezione per alcuni sanguinosi attentati che hanno lasciato a terra circa sessanta morti (Fiumicino, 17 dicembre 1973; sinagoga di Roma, 9 ottobre 1982; Fiumicino, 27 dicembre 1985; Achille Lauro, 8-10 ottobre 1985; Fiumicino, 27 dicembre 1985). Un libro, questo, che chiarisce anche – e forse soprattutto – l’origine di un nome per certi aspetti fuorviante. È leggendo queste pagine che in effetti si scopre come il "Lodo Moro" non sia in realtà ascrivibile solamente allo statista pugliese ucciso il 9 maggio 1978, ma a una pluralità di soggetti. In occasione dell’uscita nelle librerie, abbiamo intervistato l’autrice.

Professoressa Lomellini, come nasce questo libro?

È una bella domanda. In realtà nasce quasi per caso. Ho lavorato per anni a una ricostruzione comparata delle politiche di Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania rispetto al terrorismo arabo-palestinese dalla strage di Monaco, alla strage di Lockerbie. Portando avanti questo studio ho potuto visionare una serie di documenti che mi orientavano a rivalutare, o meglio, ripensare la questione del Lodo e la presunta eccezionalità del “caso” italiano. Da qui, soprattutto da un documento del 23 ottobre 1973 che riguarda la trattativa tra Italia e Olp rispetto ad alcuni terroristi in quel momento carcerati nel nostro Paese, ho iniziato a interrogarmi sul tema e a chiedermi perché il Lodo Moro si chiami in questo modo, quando in realtà tutti i documenti – sia negli archivi italiani, sia all’estero – indicavano che il Lodo non era un “Lodo Moro”, ma il risultato di un lavoro diplomatico portato avanti da diverse persone.

Nel corso di queste ricerche ha trovato qualcosa che non si aspettava di trovare?

Ci sono diverse novità in questo libro. Abitualmente il lodo è stato presentato come una sorta di accordo stretto in sordina; è stato chiamato anche “Lodo d’intelligence”. In realtà con questo lavoro ricostruisco intanto l’esistenza effettiva del Lodo e, in secondo luogo, il fatto che non si è trattato di una devianza delle politiche dello Stato, ma che è stato una vera e propria politica dello Stato. Dimostro che la sua paternità non è di Aldo Moro, ma corale - sono coinvolti in queste vicende, tanto per fare alcuni nomi, Mariano Rumor, Giulio Andreotti, Bettino Craxi – e dimostro che gli interlocutori non sono quelli che fino ad oggi si è pensato che fossero. Si è sempre parlato di un accordo stretto tra l’Italia e la resistenza palestinese, ma in realtà l’accordo è tra Italia, resistenza palestinese, ma – soprattutto dal 1973 in avanti – con una serie di Stati “sponsor” del terrorismo internazionale: Libia, Iraq e Siria.

Perché allora questo accordo viene attribuito al solo Aldo Moro?

L’accordo viene definito “Lodo Moro” in una serie di passaggi. La definizione si sviluppa tra gli anni Ottanta e Novanta, quando comincia a emergere l’idea generica che fosse esistito un accordo tra Italia e resistenza palestinese in generale. Questo soprattutto a seguito di una serie di articoli pubblicati dal settimanale Panorama. Il momento in cui però nasce l’espressione che dà il titolo al libro è a metà degli anni Duemila, quando il presidente emerito della Repubblica, Francesco Cossiga, prima in una lettera a Vincenzo Fragalà, membro della commissione Stragi e deputato di An, e poi in un’intervista ad Aldo Cazzullo sul Corriere della sera nel 2008, parla del “Lodo Moro” e ne parla per spiegare quelle che secondo lui sarebbero state le vere ragioni della strage di Bologna.

Dunque si tratta fondamentalmente di un equivoco?

Come molti altri quando si affronta questo argomento. Tanto per fare un esempio: il Lodo non si è mai concretizzato nel mancato arresto di guerriglieri sul suolo italiano, non c’è una sorta di “divieto” di arresto o di impunità dei terroristi. I guerriglieri vengono sempre arrestati e poi, grazie all’intervento degli Interni, degli Esteri e alla collaborazione di alcuni magistrati e addirittura – nel 1976 – dell’allora presidente della Repubblica, Giovanni Leone, che dà la grazia ad alcuni terroristi libici, vengono liberati. Dunque il Lodo si concretizza in un processo agevolato, ma mai nella prevenzione dell’arresto. È una politica che si sviluppa ad altissimo livello e una delle tesi di questo volume è che ci sia una grossa strumentalizzazione della figura di Moro. Nel libro riporto un documento dell’autunno 1971 in cui un organismo interno al Ministero degli Interni retto da Franco Restivo, nel governo Rumor, sostiene che Moro finanzi Al-Fatah. Questo è un indice della forte strumentalizzazione che è stata fatta nella lettura dell’apertura da parte di Aldo Moro rispetto alla politica mediterranea e alla questione israelo-palestinese. E se consideriamo che in quel momento Moro era ministro degli Esteri, ci accorgiamo di quanto fosse grave e inquietante che circolassero certe informazioni date per attendibili.

Si aspetta delle critiche?

Mi piace confrontarmi con temi complessi, che hanno l’obiettivo di poter far riflettere su nodi complicati della nostra storia nazionale. Dunque sì, mi attendo critiche da ambo le parti. Ma significherebbe che ho fatto bene il mio lavoro. Gianluca Zanella

Il retroscena. I documenti segreti. Attentato di Fiumicino del 1973, 32 morti annunciati: i servizi sapevano ma non fecero nulla. David Romoli su Il Riformista il 22 Dicembre 2021. Tra le stragi che hanno insanguinato l’Italia tra la fine degli anni ‘60 e i primi anni ‘90 è la seconda per gravità dopo quella alla stazione di Bologna anche se per quasi quarant’anni, fino al 2012, nessuno la ha ricordata e le 32 vittime erano state persino depennate dall’elenco delle vittime del terrorismo. Il 17 dicembre 1973, primo giorno d’udienza contro 3 dei 5 terroristi palestinesi arrestati il 5 settembre a Ostia con 2 lanciamissili Sam 7 Strela sovietici, un commando palestinese attaccò l’aeroporto di Fiumicino.

Dopo aver raggiunto la pista sparando all’impazzata i terroristi gettarono una bomba al fosforo e due granate all’interno di un aereo della Panam, uccidendo 30 persone tra cui 4 passeggeri italiani. Poi si rivolsero verso un aereo Lufthansa e nella fuga uccisero il finanziere Antonio Zara, che cercava di fermarli. L’aereo della Lufthansa fu fatto decollare coi terroristi a bordo e atterrò ad Atene, dove fu ucciso l’addetto ai bagagli Domenico Ippoliti. Di lì i dirottatori tentarono di sbarcare prima a Beirut e poi a Cipro, che non autorizzarono l’atterraggio. Dopo uno scalo a Damasco l’aereo ripartì per Kuwait City dove la corsa ebbe termine e i terroristi si arresero. Come nel caso dell’attacco alla sinagoga del 1982, era un attentato annunciato ma nessun servizio di sicurezza era stato disposto a protezione dell’aeroporto. Il 14 dicembre, tre giorni prima dell’attacco, un’informativa sull’imminente attacco era stata inviata al direttore dell’Ufficio affari riservati del Viminale Federico Umberto D’Amato dal Reparto D del Sid (sigla dei servizi segreti italiano di allora): “Viene segnalato che elementi di al Fatah sono partiti per l’Europa alcuno giorno orsono allo scopo di attaccare una rappresentanza israeliana o un aereo della El Al. L’attacco verrebbe condotto principalmente contro un aereo”. L’allarme arrivava dopo numerosissime segnalazioni precedenti, molte delle quali pubblicate da Gabriele Paradisi in un’inchiesta pubblicata sul sito ReggioReport.

Le somiglianze tra le informative del 1973 e quelle del 1982 -della quale abbiamo parlato nei giorni scorsi – in cui si metteva in guardia da attacchi contro sinagoghe del gruppo di Abu Nidal, “prima durante o dopo lo Yom Kippur” sono evidenti. In entrambi i casi gli avvertimenti erano stati molteplici: 23 prima di Fiumicino, 16 prima della sinagoga. Le differenze sono però rilevanti. Nel 1982 l’accordo tra Stato italiano e Olp, il cosiddetto lodo Moro, era ormai rodato e in funzione da anni. Nel 1973 lo si stava ancora mettendo a punto ed è probabile che proprio il sanguinoso attentato di Fiumicino abbia svolto un ruolo decisivo nella definizione dei particolari, a tutt’oggi ignoti. Se infatti l’esistenza del lodo è confermata da una quantità di elementi tale da non lasciare alcun dubbio, la reticenza dello Stato non permette di delinearne i contorni. Decisiva in questo senso è in particolare la scelta di non desecretare l’archivio Stefano Giovannone, colonnello del Sid, capocentro dell’Intelligence italiana in Medio Oriente, uomo di fiducia di Moro nei servizi, massimo artefice dell’accordo con i palestinesi. Questa reticenza e la conseguente vaghezza sul lodo che permettono alla Corte di Bologna, nei processi sulla strage, di affermare che “l’esistenza del lodo non ha trovato alcuna conferma precisa” e di non chiedere quindi, come avrebbe potuto, la desecretazione dell’archivio Giovannone, oppure allo storico Miguel Gotor di affermare contro ogni evidenza che si trattava solo di un “lodo di intelligence” che non coinvolgeva la politica.

La genesi del lodo aiuta pertanto a mettere meglio a fuoco contenuti e finalità di quell’accordo. In Italia, gli attentati e gli arresti di palestinesi armati, a partire dall’unico dirottamento nella storia di un areo della El Al, il 22 luglio 1968, furono numerosi. Il volume di fuoco si alza nel 1972-73. Il 4 agosto ‘72 viene fatto saltare l’oleodotto di Trieste. Poco dopo, il 16 agosto, due palestinesi regalano un mangianastri imbottito di esplosivo a due ragazze inglesi in procinto di imbarcarsi su un areo della El. Vengono rintracciati e arrestati e iniziano subito trattative con i palestinesi per risolvere l’incidente. Ad avviare l’iniziativa diplomatica segreta è il ministro degli Esteri. “Aldo Moro – racconterà anni dopo l’ex capo del controspionaggio Viviani – aveva detto al capo del Sid, Miceli: “Veda di mettersi d’accordo con Arafat. Trovi una soluzione“. La “soluzione” passò per l’invio a Beirut del colonnello Giovannone, come raccontò lui stesso al giudice istruttore di Venezia Carlo Mastelloni: “Alla fine del 1972 fui mandato in missione dal ministero degli Esteri e dal Sid… acché prendessi contatto con qualche dirigente dell’Olp perché si evitassero azioni terroriste contro l’Italia”. Un appunto del Sid del 17 dicembre 1972 rende conto della missione appena avviata: “In relazione all’attività terroristica sul piano internazionale sono in corso colloqui riservati e non ufficiali con i vertici di varie, note organizzazioni in aderenza ai nostri interessi”.

Sul piano concreto, l’esito dei “colloqui riservati” fu la scarcerazione dei due palestinesi, il 4 febbraio 1973, decisa dalla procura di Roma. Non fu una scelta indolore. E’ rimasta leggendaria la risposta del procuratore capo di Roma Achille Gallucci alle proteste di due magistrati secondo i quali il codice penale non avrebbe consentito la scarcerazione: “Il codice, a saperlo leggere, ti dice pure come si fanno le fettuccine”. Gallucci avocò a sé l’inchiesta. Il giudice istruttore contrario alla scarcerazione si mise in licenza per un solo giorno, quello in cui fu concessa ai due palestinesi la libertà provvisoria. Furono trasportati a Chieti, dove avrebbero dovuto presentarsi una volta alla settimana in questura. Scomparvero dopo appena due giorni. Nel complesso tra il 1972 e i primi 8 mesi del 1973 una decina di terroristi palestinesi arrestati in Italia furono scarcerati senza troppo clamore, con l’obiettivo, condiviso peraltro da molti altri Paesi europei, di evitare ritorsioni e rappresaglie. A favore del patto segreto c’erano però anche motivazioni diverse dalla sicurezza, destinate a crescere d’importanza dopo la crisi petrolifera del 1973, quando i paesi arabi produttori di petrolio, in seguito alla Guerra del Kippur in ottobre, aumentarono il prezzo del greggio e misero l’embargo verso i Paesi più filoisraeliani.

Un memorandum dell’ambasciatore in Libano Vincenzo De Benedictis riassumeva così il quadro: “Questa è l’importanza assunta dai palestinesi nella regione del Golfo: in Kuwait sono circa 14mila e controllano il settore informativo e del lavoro; negli Emirati Arabi Uniti controllano i posti direzionali chiave; nel Bahrein e nel Qatar controllano gli ingranaggi dell’industria petrolifera; nella stessa Arabia Saudita numerosi funzionari sono palestinesi”. Questo quadro spiega nel dettaglio l’Appunto inviato dal Sid al governo nel quale si evidenzia “la possibilità che l’Italia giungerà ultima. Le posizioni di maggior interesse e di maggior prestigio verranno accaparrate da quelle nazioni che, per prime, offriranno la loro collaborazione”. L’intesa conosciuta oggi come lodo Moro nasce così, all’incrocio tra l’interesse immediato consistente nell’evitare attentati e quello strategico derivante dalla postazione strategica occupata dalla questione palestinese e dai funzionari palestinesi nella sfida mondiale in corso sulle fonti energetiche. La spinta finale fu però probabilmente proprio il sanguinoso attentato che alla fine del 1973 mise a rischio di naufragio l’accordo tra lo Stato italiano e i palestinesi e finì invece per cementarlo.

La strage di Fiumicino e il rischio di far saltare il Lodo Moro. David Romoli su Il Riformista il 23 Dicembre 2021. La strage riuscita del 17 dicembre 1973 a Fiumicino è figlia di un’altra strage, invece fallita. Il 5 settembre il Sid ( cioè i servizi segreti italiani dell’epoca) arrestò in un appartamento di Ostia 5 palestinesi che si apprestavano, secondo la versione ufficiale, a colpire un aereo della El Al con due missili Sam 7 Strela. Su quegli arresti non è mai stata fatta piena chiarezza. Pare certo che a indirizzare i servizi italiani siano stati quelli israeliani. E’ però anche possibile che la notizia dell’arresto sia stata data in ritardo di mesi e che l’obiettivo del commando fosse l’aereo sul quale viaggiava la premier israeliana Golda Meir.

Gli arresti provocarono una vera crisi nelle trattative in corso da un anno tra Stato italiano e Olp, che avevano già portato a una decina di scarcerazioni di terroristi palestinesi e che si sarebbero poi sedimentate in quell’accordo oggi noto come lodo Moro. Gabriele Paradisi ha rintracciato e pubblicato sul sito ReggioReport numerosi appunti e segnalazioni , sempre in relazione alla detenzione dei cinque terroristi arrestati in settembre e all’ultimatum che ne esigeva la liberazione. Già il 17 settembre un appunto del Sid avvertiva che “Le centrali del terrorismo hanno espresso l’intendimento di svolgere prossimamente in Italia speciali operazioni (rappresaglia o ricatto) tendenti a ottenere l’immediata liberazione dei 5 guerriglieri”. Il 12 ottobre nuovo allarme: “La Resistenza Palestinese attenderà fino alla fine di ottobre del corrente anno per la scarcerazione dei 5 giovani; dopo tale termine, permanendo lo stato di detenzione, saranno effettuati atti di rappresaglia e ricatto in Italia e all’estero”.

Il 19 ottobre si svolse presso l’ambasciata italiana un incontro con il responsabile delle Relazioni politiche dell’Olp Said Kamal, nel quale, spiegheranno poi i diplomatici italiani in una lettera al ministero degli Esteri, il palestinese “ha offerto l’impegno formale dell’Olp che nessuna azione dei fedayn si ripeterà in Italia qualora venga concessa liberazione agli attuali detenuti”. Un “Appunto” del 21 ottobre affermava che “i guerriglieri dimostrano segni di insofferenza in relazione alla ‘assenza dai ranghi per detenzione in Italia’ dei 5 esponenti della formazione, protagonisti del noto episodio dei lanciamissili” e che, tanto presso il comando dell’Olp quanto “in ambienti responsabili dei Paesi arabi”, si sostiene che “non sarà possibile bloccare ancora l’intendimento dei guerriglieri”.

Quattro giorni dopo, il 25 ottobre, una nuova informativa comunicava l’arrivo a Roma di due esponenti di Settembre nero (che era in realtà Al Fatah, il principale gruppo dell’Olp, guidato da Arafat) e uno del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, secondo i quali “frange estremiste di Settembre nero” avrebbero rispettato il termine dell’ultimatum fissato al 30 ottobre “ma riprenderanno la libertà d’azione dal primo novembre”. La nota segnalava comunque la volontà distensiva della leadership nei confronti delle aree più battagliere e aggiungeva un passaggio molto significativo, e infatti evidenziato dagli estensori del testo per la sua importanza: “Naturalmente il tutto nel quadro di colloqui durante i quali agli interlocutori sono state dette ‘cose opportune’ da posizioni di prestigio”. Formula nemmeno velata per sottolineare che ai rappresentanti dell’Olp erano state fatte precise promesse in cambio della loro opera di distensione. Nella stessa giornata del 25 ottobre un vertice tra esponenti dei ministeri degli Esteri e degli Interni e del Sid alla Farnesina affrontò direttamente il caso.

Il 30 ottobre, alla scadenza dell’ultimatum, due dei cinque terroristi furono liberati e scortati in Libia, sull’aereo militare in forza alla struttura segreta Gladio “Argo 16”, da quattro dirigenti del Sid tra i quali Giovannone. Il 23 novembre lo stesso aereo, con il medesimo equipaggio che aveva portato i due palestinesi in Libia, sarebbe precipitato in seguito a un’esplosione. Nonostante due esponenti del Mossad siano stati processati e assolti, il fortissimo sospetto di una rappresaglia israeliana non si è mai sopito. Secondo Cossiga la scarcerazione dei due terroristi fu pilotata da Moro in persona: “Intervenne personalmente sul presidente del Tribunale, con la cortesia e la fermezza che gli erano proprie e fece concedere ai terroristi la libertà provvisoria”. Restava il nodo della detenzione degli altri tre detenuti, L’11 dicembre la polizia inglese avvertì Alitalia che “intorno al 14 dicembre terroristi del Fronte di liberazione palestinese tenterebbero una qualche azione contro Alitalia” in collegamento con l’apertura del processo contro i palestinesi arrestati a Ostia, che fu poi rinviata al 17 dicembre, il giorno della strage a Fiumicino.

Un nuovo incontro segreto con l’Olp dovette svolgersi il giorno seguente. Un documento riservato del ‘79 della Farnesina sulla storia dei rapporti tra Italia e Olp ricorda infatti che incontri “caratterizzati dalla discrezione” con i palestinesi c’erano stati da prima dell’avvio formale dei rapporti nel 1974 e che “fra tali contatti si situa anche il colloquio riservato del 12 dicembre 1973 dell’allora Direttore Generale degli Affari politici con un rappresentante dell’Olp, in un momento reso acuto dalla crisi degli approvvigionamenti energetici”. L’Italia, insomma, non si preoccupò troppo di allarmi e avvertimenti non perché, come è lecito sospettare a proposito dell’attentato del 1982, questa “distrazione” facesse parte degli accordi ma perché, al contrario, si sentiva garantita dall’embrione di lodo Moro già attivo. Una fonte del Mossad spiegava infatti così, parlando con il giornalista Pietro Zullino, la mancanza di protezione a Fiumicino poco dopo la strage: “Gli italiani davano l’impressione di essersi addormentati in un’atmosfera di illusoria sicurezza. Qualcuno di loro, privatamente, sosteneva addirittura che c’erano state delle assicurazioni da parte dei guerriglieri palestinesi”.

Quelle assicurazioni quasi certamente c’erano state davvero ma la leadership dell’Olp non era stata in grado di controllare tutte le sue componenti interne, oppure l’attentato avrebbe dovuto avvenire altrove e la strage si era invece consumata a Fiumicino perché qualcosa aveva costretto i terroristi a cambiare programma all’ultimo momento.

Di certo, subito dopo la strage, la principale preoccupazione dell’Italia fu evitare che quei 32 morti interferissero nei rapporti con i palestinesi. Appena cinque giorni dopo la strage, Giovannone si affrettava a incontrare a Beirut due dirigenti palestinesi chiamati in codice Dario e Antonio, probabilmente Abu Ayad e Farouk Kaddhumi, cioè i principali dirigenti di al Fatah dopo Arafat, per garantire la prosecuzione del dialogo e in effetti gli attentati in Italia si interruppero per anni. I tre terroristi arrestati il 5 settembre dell’anno precedente ottennero la libertà provvisoria, dietro cauzione di 20 mln ciascuno pagata dal Sid, il 27 febbraio 1974 e in marzo furono portati in Libia. I responsabili della strage finirono in Egitto, sotto la responsabilità dell’Olp. Liberati il 24 novembre al termine de drammatico sequestro di un aereo inglese, si “consegnarono all’Olp” il 7 dicembre. Da allora se ne è persa traccia.

Le carte che rivelano lo scandalo. Attentato alla Sinagoga di Roma, il governo sapeva ma non fece nulla – I DOCUMENTI SEGRETI. David Romoli su Il Riformista il 9 Dicembre 2021. Una serie di documenti sin qui ignota conferma le gravissime accuse mosse 15 anni fa da dall’ex presidente della Repubblica Francesco Cossiga, sepolte allora sotto una lastra di silenzio generale. Il 3 ottobre 2008 Cossiga rilasciò una lunghissima intervista al quotidiano israeliano Yediot Aharonot, muovendo accuse che in qualsiasi Paese, e probabilmente anche in Italia se provenienti da altra fonte, avrebbero provocato un mezzo terremoto, pur se riferite a eventi già vecchi di quasi tre decenni.

Senza mezzi termini Cossiga accusò l’Italia di aver permesso al terrorismo palestinese di colpire obiettivi ebraici sul territorio italiano, all’interno del cosiddetto lodo Moro. “In cambio di una ‘mano libera’ in Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e [l’immunità] di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici. Fintanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele”. La clausola, affermava l’ex capo dello Stato, ex primo ministro, ex ministro degli Interni legatissimo ai servizi segreti, equivaleva a una sorta di licenza di uccidere gli ebrei, “fiancheggiatori dei sionisti”, nonostante il lodo Moro. La conclusione di Cossiga era perentoria: “Vi abbiamo venduto”. L’accusa dell’ex capo dello Stato fu completamente ignorata, come erano state lasciate cadere nel vuoto le sue rivelazioni dell’agosto precedente, che confermavano l’esistenza dell’ormai famoso patto segreto tra lo Stato italiano e le organizzazioni palestinesi. Accordo che a tutt’oggi resta un fantasma. Ufficialmente non è mai esistito. Del resto con Cossiga era stata adoperata, fortunatamente senza conseguenze letali, la stessa strategia usata con Aldo Moro nei 55 giorni della prigionia: farlo passare per pazzo e si sa che di quel che dicono i pazzi non ci se deve curare.

Cossiga non era pazzo e i documenti confermano che aveva ragione. Il principale attentato al quale l’ex presidente alludeva era quello contro la sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, nel quale fu ucciso Stefano Gaj Taché, di due anni, e furono ferite 37 persone. La possibilità di un attentato contro la sinagoga era stata segnalata dal Sisde più volte a partire dal 18 giugno 1982. Quel giorno il direttore del Sisde Emanuele De Francesco inviò un telex “riservato e urgente” a Polizia, Carabinieri, Guardia di Finanza e Sismi intitolato “Probabili attentati contro obiettivi israeliani o ebraici in Europa”. Il testo era sintetico e inequivocabile: “Fonte solitamente attendibile ha riferito che i palestinesi residenti in Europa avrebbero ricevuto l’ordine di prepararsi a compiere una serie di attentati contro obiettivi israeliani o ebraici europei”. L’Operazione “Pace in Galilea”, cioè l’attacco israeliano contro le postazioni palestinesi, diretto a sradicare le loro basi in Libano che sarebbe proseguito per mesi, era iniziata da 12 giorni.

Il 27 giugno il Sisde faceva partire un nuovo “Appunto riservato” secondo cui gruppi di studenti palestinesi “avrebbero in animo” attacchi contro obiettivi ebraici a Roma. In testa alla lista dei possibili obiettivi c’era appunto la Sinagoga. In un Appunto del 27 agosto 1982, si afferma chiaramente che l’offensiva terroristica è in fase di ripresa ma che “l’atteggiamento dei fedayn verso l’Italia potrebbe non rivelarsi ostile nel caso di un sollecito riconoscimento dell’O.L.P. e della causa del popolo palestinese”. Secondo l’appunto due organizzazioni interna all’Olp, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina di George Habbash e il Fronte Democratico Popolare per la Liberazione della Palestina di Hawatmeh, stavano facendo entrare clandestinamente in Europa i loro commando.

In tutto, dal 18 giugno al 9 ottobre, furono inviate 16 segnalazioni di possibili attentati in Italia, l’ultima il 2 ottobre, una settimana prima dell’attacco. In tre di queste era esplicitamente indicata la sinagoga come obiettivo. La più esplicita e precisa è del 25 settembre, spedita anche per conoscenza al ministero dell’Interno. Il Sisde affermava che una “fonte abitualmente attendibile” aveva segnalato la possibilità di attacchi del gruppo dissidente palestinese guidato da Abu Nidal “prima, durante o subito dopo lo Yom Kippur, che quest’anno cadrà il 27 settembre”. Anche dall’ambasciata israeliana, peraltro, era arrivato negli stessi mesi un avvertimento specifico: essendo troppo difficile colpire gli obiettivi israeliani, i palestinesi avevano deciso di prendere di mira gli ebrei. Il terrorismo avrebbe cioè colpito obiettivi ebraici, come appunto le sinagoghe, non israeliani o collegati a Israele.

Nonostante gli avvertimenti, la sinagoga non fu presidiata. Non solo non fu aumentata la sorveglianza ma il 9 ottobre non era presente neppure la macchina della polizia che solitamente stazionava lì in occasione di feste o cerimonie religiose. La sorveglianza sulla sinagoga e sul ghetto era stata predisposta solo dalle 19 della sera alle 7 della mattina seguente. Le stesse indagini, subito dopo l’attacco, non furono particolarmente stringenti e non portarono a niente. “Fui interrogato non al commissariato ma una specie di postazione mobile. Mi fecero qualche domanda generica e mi lasciarono andare”, racconta uno dei testimoni, Leonardo Piperno, che aveva visto arrivare due degli attentatori in moto ed è a tutt’oggi convinto, come anche l’allora giudice Rosario Priore, che non tutti i terroristi fossero palestinesi.

Il commando, secondo le ricostruzioni della polizia, era composto da 5 persone, 4 delle quali rimaste sconosciute. Il quinto attentatore, Abdel Osama al-Zomar, ex presidente dell’Associazione studenti palestinesi in Italia, fu arrestato un anno dopo al confine tra Turchia e Grecia, con un carico di 60 kg di tritolo. La sua ex compagna italiana, Anna Spedicato, disse che l’uomo le aveva confessato di essere l’organizzatore dell’attentato. L’Italia chiese l’estradizione fu immediatamente scarcerato dalla Grecia per evitare guai. È stato condannato in contumacia nel 1991. Le rivelazioni di Cossiga sul lodo Moro continuano a essere ignorate. Quel che successe davvero in Italia in quegli anni, strage di Bologna inclusa, non c’è alcun bisogno di chiarirlo… 

BREVE CRONACA DEL 1982

Nel 1982 l’Italia era governata per la prima volta da un governo non a guida democristiana. Il presidente del Consiglio era il capo del partito repubblicano Giovanni Spadolini che era succeduto a Ugo La Malfa, al vertice del partito, dopo la sua morte (nel 1979). Ministro dell’Interno era Virginio Rognoni, democristiano. Presidente della Repubblica il mitico Sandro Pertini. Fu l’anno della clamorosa vittoria dell’Italia ai mondiali di calcio in Spagna. Vittoria ottenuta battendo le squadre più forti del mondo: Argentina, Brasile, Germania.

Il 1982 è un anno ricco di avvenimenti. In Italia si apre in gennaio con la cattura del capo dell’ala più dura delle Brigate Rosse, Giovanni Senzani. Il colpo è clamoroso ma le Brigate Rosse continueranno la loro azione almeno per altri 4 anni. È anche l’anno di avvio dell’azione stragista della corrente corleonese della mafia, che uccide in aprile il leader comunista Pio La Torre e in settembre il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Nel 1982 scoppia e si conclude in tre mesi la guerra delle Falkland tra Argentina e Gran Bretagna. La sconfitta dell’Argentina determina la fine del regime fascista e golpista di Videla e l’avvio del superamento di tutte le dittature dell’America latina. A fine anno muore Breznev e l’impero sovietico diventa meno granitico. Tra i grandi film quelli di maggior successo sono E.T. e Blade Runner. David Romoli

L'inchiesta sull'attentato alla Sinagoga di Roma. Interrogazioni parlamentari di FdI e Pd sull’inchiesta del Riformista. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. Il tempo non cancella la vergogna. Le rivelazioni del nostro giornale sull’attentato terroristico alla Sinagoga di Roma, il 9 ottobre 1982, riportano l’attenzione su una pagina tragica della storia del nostro paese. «Emergono dettagli inquietanti nei documenti riportati da Il Riformista di oggi (ieri per chi legge, ndr) nell’articolo sull’attentato alla Sinagoga del 1982. Il Sisde segnalò il pericolo attentati eppure quella mattinata non c’erano forze dell’ordine a presidiare. È arrivato il momento di fare chiarezza», ha commentato su Twitter la presidente della comunità ebraica romana, Ruth Dureghello.

«Occorre fare la massima chiarezza sul troppo spesso dimenticato attentato del 1982 alla sinagoga di Roma, la più grande d’Europa. Lo si deve non solo alla memoria di Stefano Gaj Taché, che quel giorno fu ucciso all’età di 2 anni e ai quaranta feriti, tra cui diversi gravemente come il fratello Gadiel, ma anche alla sicurezza e al prestigio della nostra nazione. I colpevoli sono rimasti impuniti e ci sono ombre su troppi fatti di quel periodo. Quanto scritto dal Riformista non può essere lasciato cadere ma deve essere occasione per conoscere meglio i fatti, tanto più che il pericolo del terrorismo, nonostante il tanto tempo passato, è purtroppo molto attuale», ha dichiarato ieri il senatore di Fratelli d’Italia, Lucio Malan. Il deputato di FdI Federico Mollicone ha annunciato un’interrogazione alla ministra dell’Interno Lamorgese. Anche i dem Paolo Lattanzio ed Emanuele Fiano hanno fatto sapere che presenteranno un’interrogazione parlamentare. Tutti chiedono che sia fatta chiarezza su esecutori e mandanti di quell’attacco terroristico e anche sulle responsabilità del governo italiano che sapeva e non fece nulla per evitare quell’atto sanguinario.

«L’articolo de Il Riformista ha portato alla luce un quadro sconvolgente», «è mia intenzione portare questa questione all’attenzione del Copasir», ha scritto su Facebook il senatore di Iv e segretario del Copasir Ernesto Magorno. «Ricordando l’attentato al Tempio Maggiore in cui perse la vita il piccolo Stefano Gaj Taché, ricordando quelle ore convulse e drammatiche, ricordando la vergognosa campagna di odio che precedette l’attentato, sottraiamo questa terribile pagina del Novecento italiano da un oblio cui è stata troppo spesso condannata». Così si espresse la presidente dell’Unione delle comunità ebraiche italiane (Ucei), Noemi Di Segni, il 9 ottobre 2016, trentaquattro anni dopo la tentata strage.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Attacco alla sinagoga, Fiano: “Grave e inquietante quanto rivelato dal Riformista, governo ci espose ai terroristi”. Umberto De Giovannangeli su Il Riformista l'11 Dicembre 2021. Il suo impegno politico nella lotta all’antisemitismo s’intreccia indissolubilmente con la storia personale e della sua famiglia. Emanuele Fiano, deputato del Partito democratico, già membro della segreteria nazionale Pd, è il terzo e ultimo figlio (dopo Enzo e Andrea) di Nedo Fiano (1925-2020), ebreo deportato ad ad Auschwitz e unico superstite di tutta la sua famiglia, e della moglie Rina Lattes. Nel gennaio 2021 ha pubblicato il libro Il profumo di mio padre, che racconta della sua vita di sopravvissuto della Shoah e del rapporto con il padre sopravvissuto ad Auschwitz. Tra il 1998 ed il 2001 è stato presidente della Comunità Ebraica milanese, dal 2001 al 2006 è stato invece consigliere dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Nel 2017 è stato promotore di un disegno di legge sull’apologia del fascismo. Dal 2005 è segretario nazionale di Sinistra per Israele, associazione politica, che insieme a Piero Fassino e Furio Colombo che la presiede, si propone di sviluppare la conoscenza delle posizioni della sinistra israeliana e contrastare i pregiudizi anti-israeliani, che ritiene albergare anche in una parte consistente della sinistra italiana. In questo modo ha promosso iniziative che riguardano la convivenza interculturale e il confronto, come iniziative per il dialogo tra israeliani e palestinesi.

Le rivelazioni de Il Riformista riattualizzano una vicenda tragica, l’attacco terroristico alla Sinagoga di Roma del 9 ottobre 1982, e riaccendono i riflettori sul “lodo Moro”, quello che lei ha definito il “lodo insanguinato”. Cosa racconta quel lodo?

Racconta la situazione del nostro paese in quegli anni. Quel lodo di cui parliamo è evidentemente un elemento di scambio determinato da chi governava l’Italia, da chi aveva la responsabilità sulla politica estera di questo paese. Un patto non scritto in maniera formale, che prevedeva che le attività terroristiche dei movimenti palestinesi non avrebbero investito l’Italia. Uno scambio che contemplava, contemporaneamente, un appoggio alla politica palestinese. L’Italia sarebbe stata considerata un terreno di passaggio per le forze palestinesi e di converso la politica estera italiana avrebbe tenuto un profilo assolutamente filopalestinese. Questo intendiamo con questo terribile lodo che fece sposare all’Italia una posizione inaccettabile.

In una intervista a questo giornale, Riccardo Pacifici, per anni presidente della Comunità ebraica di Roma, ha rivelato un episodio alquanto emblematico. Alla signora Daniela Gaj, la mamma del piccolo Stefano Taché, il bambino ucciso nell’attacco alla Sinagoga, che si batteva perché anche lui fosse ricordato nella Giornata dedicata alle vittime italiane del terrorismo, fu motivata così l’esclusione del figlio: «È un ebreo, mica un italiano». Cosa c’è dietro questa terrificante affermazione?

C’è una terribile concentrazione di odio che avvenne in quel periodo e il mancato superamento di stereotipi cari alla cultura antisemita sia di matrice cattolica che di matrice politica. Quelli sono gli anni della manifestazione sindacale, a cui partecipava anche la Cgil, che depositò davanti alla Sinagoga di Roma una bara. Quelli sono gli anni della guerra in Libano del 1982 con la strage nei campi palestinesi di Sabra e Chatila, non opera dei militari israeliani ma delle milizie cristiano-maronite. Quella tragica vicenda determinò in Italia una trasposizione dell’odio verso Israele, che era visto come il massacratore dei palestinesi, falsando la realtà storica di quel momento, verso gli ebrei italiani. Quella manifestazione testimonia tutto ciò. E dà conto anche di una sinistra italiana che, a parte alcune lodevoli eccezioni in cui mi colloco assieme ai miei maestri di quegli anni tra i quali Piero Fassino e Giorgio Napolitano, che Riccardo Pacifici cita nella bella intervista al Riformista, e anche altri come Valter Veltroni e Francesco Rutelli, in quell’inizio degli anni ’80 sulla vicenda mediorientale si era schierata unicamente da una parte e questo fu trasfuso in una parte della cultura corrente italiana. Quella risposta che cita Riccardo Pacifici fa gelare il sangue e testimonia di un periodo che però, va detto, fortunatamente è passato. La frase ricordata da Pacifici coglie un particolare dell’epoca quanto al pregiudizio antiebraico, ma è ancora più grave e inquietante quanto ha portato alla luce Il Riformista con le carte ritrovate nell’archivio di Stato.

Perché più grave?

Qui c’è una collusione di apparati dello Stato. Le segnalazioni dei telex che avete pubblicato dicono che ci potrebbero essere attentati a obiettivi israeliani in Italia ma anche a sinagoghe, nell’ambito di qualcosa che organismi dello Stato adesso dovranno scoprire, e nonostante queste segnalazioni, le forze dell’ordine non agiscono. Qui si va oltre l’antisemitismo. Qui c’è un calcolo, che va investigato, di relazioni internazionali.

Cosa può fare oggi la politica perché sia fatta piena luce su quella pagina oscura della storia italiana?

Il Partito democratico ha presentato subito una interrogazione parlamentare a firma mia e di Lattanzio. Io penso che sicuramente se ne debba occupare, in Parlamento, l’organo che si occupa del funzionamento dei servizi segreti di cui ho fatto parte anch’io per diversi anni, che è il Copasir. Questo organismo può chiedere, ne ha le prerogative, la desecretazione di altri atti, per scoperchiare quello che c’è sotto questa spaventosa costruzione che ha portato a quel morto di due anni e a quei 37 feriti. In più mi pare, come è stato scritto, non c’è solo la possibile omissione colposa o addirittura connivenza colposa con chi ha provocato quelle vittime. Bisogna anche capire il ruolo di Abdel Osama al-Zomar, il palestinese che fu arrestato un anno dopo la tentata strage, al confine tra Grecia e Turchia con un carico di 60 kg di tritolo. Come avete ricordato, l’Italia ne chiese l’estradizione ma il terrorista palestinese fu immediatamente scarcerato dalla Grecia forse per evitare ritorsioni. Al-Zomar che era stato arrestato, che era stato multato, che era stato segnalato, che era conosciuto. Bisogna capire se all’interno di quel lodo sanguinoso ci fossero delle collaborazioni con alcuni palestinesi. Questo lo può sapere solo chi può scavare dentro queste carte ulteriormente. Voglio ricordare un altro episodio di quegli anni…

Quale?

Sigonella. Gli assassini di Leon Klinghoffer, sull’Achille Lauro, furono lasciati andare dall’allora presidente del Consiglio Bettino Craxi. Gli americani chiedevano che fossero trattenuti a Sigonella, ma Craxi decise di lasciarli ripartire all’interno di un accordo con l’Olp. Stiamo parlando di persone che avevano ucciso a sangue freddo, a colpi di mitragliatrice, un povero anziano ebreo in sedia a rotelle che aveva la sola colpa di essere ebreo. Quel clima va ricostruito tutto. Ma a parte il clima, noi vogliamo sapere chi fece cosa e perché.

Perché quella vicenda di oltre 39 anni fa è ancora attuale?

Perché la difesa della libertà e della democrazia per ognuno che emana dalla nostra Costituzione, non può soggiacere a nessun accordo internazionale, palese o nascosto. Non ci possono essere accordi internazionali con forze terroristiche, come potrebbe essere stato in questo caso. La storia italiana è piena di racconti di omissioni e di segnalazioni a cui non ha corrisposto un’azione delle forze dell’ordine, negli anni bui della nostra Repubblica. Ed è ancora attuale perché la trasparenza deve essere una necessità che oggi più che mai è contemporanea. Tutto questo è contemporaneo, secondo me. Continua ad appartenere al rapporto che deve esserci tra le forze di sicurezza che lavorano nel segreto di un paese, e le sue politiche palesi. Dopodiché c’è una storia dell’antisemitismo e anche dell’antisionismo in Italia che, devo dire, è sicuramente migliorata. Nell’intervista, Pacifici può citare, nel Pci di allora, solo Fassino, Napolitano e Occhetto, e ricorda le parole di Giorgio Napolitano – l’antisionismo come forma moderna dell’antisemitismo -. E Pacifici li cita come una eccezione, perché il Partito comunista italiano dalla Guerra dei sei giorni in poi si era schierato con il blocco sovietico, schierato in quegli anni con l’Egitto di Nasser e con la Siria. Da allora c’è stata una evoluzione assoluta. Basta vedere quando oggi ci sono delle manifestazioni di solidarietà con Israele, perché ci sono attentati o per altre cose del genere, nel ghetto di Roma. Ricordo l’ultimissima, Enrico Letta era stato appena eletto segretario del Pd, c’erano tutti i segretari politici dell’arco parlamentare. Questo senza togliere che io, come Enrico Letta o Piero Fassino, ci batteremo sempre per una soluzione del conflitto israelopalestinese fondata sul principio “due popoli, due Stati”. È cambiato il rapporto della sinistra italiana, per lo meno nella quale mi riconosco io, quella parlamentare, con quella vicenda. In quegli anni purtroppo non era ancora così. Non che questo c’entri con quegli attentatori, ma centra con quella storia che abbiamo raccontato. E con il lodo Moro.

Umberto De Giovannangeli. Esperto di Medio Oriente e Islam segue da un quarto di secolo la politica estera italiana e in particolare tutte le vicende riguardanti il Medio Oriente.

Al di là della retorica. Il peggiore di tutti gli antisemitismi. Iuri Maria Prado su Il Riformista il 14 Dicembre 2021. Un’aggressione di stampo razzista non è la stessa se avviene nel Paese che non ha mai conosciuto mozioni e normative discriminatorie o, invece, in quello che le ha viste stabilirsi. Non cambia il fatto puro di quella violenza: ma cambia il modo in cui essa ridonda a sfregio della civiltà che vi assiste. In un caso, è l’inedito scandaloso che oltraggia un ambiente civile vergine e attonito; nell’altro, è la riproposizione angosciante di una realtà che, riproponendosi, non può dirsi pregressa. In un caso è possibile dire: “Che questo non si ripeta”. Nell’altro, no: perché si è già ripetuto.

È con questo criterio che la riproposizione della violenza razzista dovrebbe essere considerata nei Paesi che già l’hanno conosciuta, prodotta, o perfino messa nella legge. Ed è quindi con questo criterio che la violenza antisemita dovrebbe essere considerata nel nostro Paese, che quella violenza ha coltivato e reso sistematica, ordinamentale e, letteralmente, nazionale.

L’inchiesta del Riformista sull’attentato antisemita del 1982, e sulle possibili aree oscure dei fatti e delle omissioni che l’hanno preceduto, o che addirittura hanno contribuito a prepararlo, non ha solo il pregio di un’importante opera di illuminazione: ma anche quello di rendere possibile una ricognizione morale sulla società abbastanza noncurante davanti all’oscenità di un attacco antisemita a poca distanza da dove, giusto qualche decennio addietro, furono scritte le leggi razziali, e proprio nei luoghi dove gli ebrei erano rastrellati. Di là dalla retorica corrente, trionfante in qualche commemorazione solitamente stracca o nelle denominazioni altisonanti di certe commissioni parlamentari, l’Italia ha un rapporto disturbato con ciò che è stata in quegli anni non troppo lontani. Deve essere considerato, perché rischia di sfuggire: molti, tra gli uomini e le donne che quel giorno appresero dell’attentato in cui fu ucciso un bambino ebreo, erano senzienti e consapevoli quando, pochi lustri prima, il loro Paese toglieva i diritti agli ebrei e li faceva infilare nei vagoni piombati.

Riconoscere che quell’attentato non è stato diffusamente risentito come un affronto intollerabile proprio perché avvenuto in quel medesimo Paese, e c