Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

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ANNO 2021

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

SETTIMA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Circo.

Superstizione e fisse.

Gli Zozzoni.

Le Icone.

Le Hollywood d’Italia.

«Gomorra», tra fiction e realtà.

Quelli che …il calcio.

I Naufraghi.

Amici: tutto truccato?

Il Grande Fratello Vip.

"I tormentoni estivi? Sono da 60 anni specchio dell'Italia".

Le Woodstock.

Rap ed illegalità.

L’Eurovision.

Abella Danger e Bella Thorne.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Volpe.

Adriano e Rosalinda Celentano.

Aerosmith.

Aida Yespica.

Afef.

Alanis Morissette.

Alba Parietti.

Alba Rohrwacher.

Al Bano Carrisi.

Alda D’Eusanio

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale & Franz.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Borghese.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Nivola.

Alessia Marcuzzi.

Alessio Bernabei.

Alfonso Signorini. 

Alice ed Ellen Kessler.

Alina Lopez e Emily Willis.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amouranth, alias Kaitlyn Siragusa.

Andrea Balestri.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sannino.

Angela White.

Angelina Jolie.

Anya Taylor-Joy.

Anna Falchi.

Anna Oxa.

Annalisa Minetti.

Anna Maria Rizzoli.

Anna Tatangelo.

Anna Mazzamauro.

Anthony Hopkins.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Mosetti.

Antonello Venditti.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Costantini Awanagana.

Antonio Mezzancella.

Antonio Ricci.

Arisa.

Asia e Dario Argento.

Aubrey Kate.

Baltimora.

Barbara De Rossi.

Barbara d'Urso.

Beatrice Rana.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta D’Anna.

Benedicta Boccoli.

Bill Murray.

Billie Eilish.

Björn Andrésen.

Bob Dylan.

Bobby Solo, ossia: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brandi Love.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Camilla Boniardi: Camihawke.

Can Yaman.

Capo Plaza, nato come Luca D'Orso.

Cara Delevingne.

Carla Gravina.

Carlo Cracco.

Carlo Verdone.

Carlotta Proietti.

Carmen Consoli.

Carmen Russo e Enzo Paolo Turchi.

Carol Alt.

Carolina Marconi.

Catherine Spaak.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina De Angelis e Margherita Buy.

Caterina Lalli, in arte Lialai.

Caterina Murino.

Caterina Valente.

Cecilia Capriotti.

Chadia Rodriguez.

Charlotte Sartre.

Chloé Zhao, regista Premio Oscar.

Christian De Sica.

Claudia Koll.

Cristian Bugatti in arte Bugo.

Cristiano Malgioglio.

Clara Mia.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Motta.

Claudia Pandolfi.

Claudia Schiffer.

Claudia Koll.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Santamaria.

Coma_Cose.

Cosimo Fini, cioè Gué Pequeno.

Corinne Clery.

Daft Punk.

Damon Furnier, in arte Alice Cooper.

Daniela Ferolla.

Dario Faini, Dardust e DRD.

Demi Lovato.

Demi Moore.

Demi Sutra.

Deep Purple.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dori Ghezzi vedova De André.

Dredd.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Vianello.

Eddie Murphy.

Elena Sofia Ricci.

Eleonora Cecere.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio (Stefano Belisari) e le Sorie Tese.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elena Anna Staller, detta Ilona (il nome della madre) o Cicciolina.

Elodie.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emma Marrone.

Emily Ratajkowski.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi: Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eva Grimaldi.

Eveline Dellai.

Ezio Greggio.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Faber Cucchetti.

Fabio Marino.

Fabio Testi.

Fanny Ardant.

Federico Quaranta.

Federico Salvatore.

Filomena Mastromarino: Malena.

Fedez e Chiara Ferragni.

Fiorella Mannoia.

Flavia Vento.

Flavio Insinna.

Francesca Alotta.

Francesca Cipriani.

Francesca Giuliano.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Pannofino.

Francesco Sarcina.

Franco Oppini.

Franco Trentalance.

Frank Matano.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Lavia.

Gabriele Paolini.

Gabriele Salvatores.

Gene Gnocchi.

Gerry Scotti.

Giancarlo Magalli.

Giancarlo ed Adriano Giannini.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi D'Alessio.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Veronesi.

Giucas Casella.

Giulia De Lellis.

Giuliano Montaldo.

Giulio Mogol Rapetti.

Giuseppe Povia.

Greta Scarano.

Harvey Keitel.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hugh Grant.

Gli Stadio.

I Dik Dik.

I Duran Duran.

I Jalisse.

I Gemelli di Guidonia.

I Pooh.

I Righeira.

I Tiromancino.

Iggy Pop.

Ilaria Galassi.

Ilary Blasi.

Ilenia Pastorelli.

Irina Shayk.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

J-Ax.

James Franco.

Jamie Lee Curtis.

Jane Fonda.

Jean Reno.

Jenny B.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Drake.

Jessica Rizzo.

Joan Collins.

Jo Squillo.

John Carpenter.

Johnny Depp.

José Luis Moreno.

Junior Cally.

Justine Mattera.

Gabriele Pellegrini: Dado.

Giovanni Scialpi, in arte Shalpy.

Kabir Bedi.

Kayden Sisters.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Kate Winslet.

Katherine Kelly Lang- Brooke Logan.

Katia Ricciarelli.

Kazumi.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kissa Sins.

Lady Gaga.

La Gialappa's Band.

La Rappresentante di Lista.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Pausini.

Le Carlucci.

Lele Mora.

Lello Arena.

Leo Gullotta.

Liana Orfei.

Licia Colò.

Lillo (Pasquale Petrolo) & Greg (Claudio Gregori).

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Liza Minnelli.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Jovanotti Cherubini.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Bizzarri.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luca Ward.

Luce Caponegro: Selen.

Luciana Littizzetto.

Luciana Savignano.

Luciano Ligabue.

Lucrezia Lante della Rovere.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Maccio Capatonda (all'anagrafe, Marcello Macchia).

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Maitland Ward.

May Thai.

Malika Ayane.

Maneskin.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Castoldi in arte Morgan.

Marco e Dino Risi.

Marco Giallini.

Marco Mengoni.

Marco Tullio Giordana.

Maria Bakalova.

Maria De Filippi.

Maria Giuliana Toro: «nome d' arte», Giuliana Longari.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Luisa “Lu” Colombo.

Maria Pia Calzone.

Marianna Mammone: BigMama.

Marica Chanelle.

Marilyn Manson.

Mario Maffucci.

Marina La Rosa.

Marina Perzy.

Marisa Laurito.

Martina Cicogna.

Martina Colombari.

Massimo Boldi.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Massimo Wertmüller.

Matilda De Angelis.

Maurizio Aiello.

Maurizio Battista.

Maurizio Milani.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Pezzali.

Mel Brooks.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael J. Fox.

Michael Sylvester Gardenzio Stallone.

Michele Foresta, in arte Mago Forest.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosé.

Milena Vukotic.

Milton Morales.

Mikhail Baryshnikov.

Mina.

Miriam Leone.

Mistress T..

Mita Medici.

Myss Keta.

Modà.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

Monica Vitti.

Nada.

Naike Rivelli ed Ornella Muti.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Naomi Campbell.

Nek.

Nicolas Cage.

Nicole Aniston.

Nina Moric.

Nino D’Angelo.

Nino Frassica.

Nick Nolte.

Nyna Ferragni.

Noemi.

99 Posse.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Portento.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino, meglio nota come Insta_Paolina.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Fox.

Paolo Rossi.

Paolo Sorrentino.

Paris Hilton.     

Pasquale Panella alias Vito Taburno.

Patrizia De Blanck.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Pedro Almodóvar.

Peppe Barra.

Peppino di Capri.

Phil Collins.

Pietra Montecorvino.

Pierfrancesco Favino.

Pier Francesco Pingitore.

Piero Chiambretti.

Pietro Galeotti.

Pino Donaggio.

Pio e Amedeo.

Pietro e Sergio Castellitto.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones Jr.

Rae Lil Black.

Rajae Bezzaz.

Raffaella Carrà.

Raffaella Fico.

Red Ronnie.

Regina Profeta.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Fabbriconi: Blanco.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Richard Benson.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Ora.

Robert De Niro.

Roberto Da Crema.

Roberto Vecchioni.

Robyn Fenty, in arte Rihanna.

Rocco Maurizio Anaclerio, in arte Dj Ringo.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Roberto Bolle.

Rodrigo Alves.

Rosalino Cellamare: Ron.

Rosario Fiorello.

Rowan Atkinson.

Sabina Guzzanti.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sal Da Vinci.

Salma Hayek.

Salvatore Esposito.

Sandra Milo.

Sara Croce.

Sara Tommasi.

Sarah Cosmi.

Scarlit Scandal.

Serena Autieri.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio Rubini.

Shaila Gatta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvio Orlando.

Simona Izzo e Ricky Tognazzi.

Simona Marchini.

Simona Tagli.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Sylvie Lubamba.

Sylvie Vartan.

Sophia Loren.

Stefania Casini.

Stefania Orlando.

Stefania e Amanda Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Stefano e Frida Bollani.

Stefano Sollima.

Steven Spielberg.

Sting.

Taylor Swift.

Teo Teocoli.

Terence Hill, alias Mario Girotti.

Terence Trent d’Arby, ora Sananda Maitreya.

Teresa Saponangelo.

Tilda Swinton.

Tim Burton.

Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno.

Tina Turner.

Tinì Cansino.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tommaso Paradiso.

Toni Ribas.

Toni Servillo.

Tony Renis.

Tosca D’Aquino.

Tullio Solenghi.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Val Kilmer.

Valentina Lashkéyeva. In arte: Gina Gerson.

Valentina Nappi.

Valentine Demy.

Valeria Golino.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valerio Lundini.

Valerio Staffelli.

Vasco Rossi.

Veronica Pivetti.

Village People.

Vina Sky.

Vincent Gallo.

Vincenzo Salemme.

Vittoria Puccini.

Vittoria Risi.

Zucchero Fornaciari.

Wanna Marchi e Stefania Nobile.

Wladimiro Guadagno, in arte Luxuria.

Willie Nelson.

Willie Peyote.

Will Smith.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figure di m…e figuranti.

Non sono solo canzonette.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed ultima Serata.

Sanremo 2022.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…scrivono.

Quelli che….la Paralimpiade.  

Quelli che…l’Olimpiade.

L’omertà nello Sport.

Autonomia dello sport? Peggio della Bielorussia.

Le Plusvalenze.

Le Speculazioni finanziarie.

Gli Arbitri.

I Superman…

Figli di Papà.

Quelli che …ti picchiano.

Quelli che … l’Ippica.

Quelli che … le Lame.

Quelli che …i Motori.

Quelli che …il Ciclismo.

Quelli che …l’Atletica.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che ...la Palla ovale.

Quelli che …la Pallacanestro. 

Quelli che …la Pallavolo.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Vela.

Quelli che …i Tuffi. 

Quelli che …il Nuoto. 

Quelli che …gli Sci.

Quelli che …gli Scacchi. 

Quelli che… al tavolo da gioco.

Il Doping.

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quelli che ...la Palla ovale.

Giuseppe Sarcina per corriere.it l'8 febbraio 2021. In campo Super Bowl senza storia. La squadra di casa, i Tampa Bay Buccaneers, hanno dominato i campioni in carica dei Kansas City Chiefs: 31 a 9. La stella assoluta della serata è il quarterback, il «regista», Tom Brady, 43 anni, per la settima volta vincitore del trofeo, per la quinta miglior giocatore della stagione. Il suo rivale, Patrick Mahomes, 25 anni, è apparso al di sotto dei suoi standard e non è riuscito a ripetere l’impresa dello scorso anno, quando portò sul podio più alto i Chiefs che non vincevano da 50 anni. I «Bucs» sono stati implacabili nella fase difensiva. Poi Brady si è affidato alle due «frecce» Rob Gronkowski e Leonard Fournette per bucare lo schieramento dei Chiefs. A metà gara, discorso già chiuso: Tampa Bay in vantaggio per 21 a 6. È la consacrazione di Brady, «il migliore di tutti i tempi» annunciano eccitati i telecronisti della Cbs. Un tempo non lontano si dichiarava molto amico di Donald Trump. Ieri, sulla tribunetta è rimasto nel suo perimetro dorato, sollevando il trofeo insieme ai tre figli, due dei quali avuti con la moglie, la modella brasiliana Gisele Bundchen, 40 anni. È andata bene anche per Sara Thomas, 47 anni, la prima donna a far parte del team di arbitri in una finale di football americano, lo sport più popolare.

I temi. Ma il Super Bowl è pure l’occasione per sondare un po’ gli umori del Paese. Registrare, per esempio, chi sale e chi scende nella società, nella cultura pop. Negli ultimi anni anche qui ha tenuto banco il profilo ingombrante di «The Donald». La cinquantacinquesima edizione, invece, lo ha semplicemente ignorato. Tutto l’evento ha seguito due sole tracce, dettate dalla stessa Nfl, la National football league: l’emergenza Covid e le proteste della comunità afroamericana. In uno dei tanti spot l’organizzazione ha annunciato di aver investito 250 milioni di dollari in iniziative contro il razzismo. Peccato, però, che Colin Kaepernick, il campione che portò sul prato verde le rivendicazioni dei «black people», inginocchiandosi durante l’esecuzione dell’inno, sia ancora espulso dal 2017. C’era molta attesa per la performance di Amanda Gorman, la poetessa ventiduenne diventata una celebrità assoluta, con tanto di copertina questa settimana su Time. Il 20 gennaio scorso aveva letto i suoi versi all’Inaugurazione della presidenza di Joe Biden. Ieri sera è salita di nuovo sul podio, con una collana di perle usata come fermacapelli e un lungo soprabito azzurro, ornato da inserti bianchi.

L’omaggio alla prima linea della lotta al Covid. L’audience televisiva è immensa. La prima stima è circa 100 milioni di americani, più almeno altri 30 milioni nel mondo. Sugli spalti del Raymond James Stadium di Tampa (Florida) siedono 25 mila spettatori distanziati da altre 30 mila sagome di cartone. Circa 7 mila sono infermieri, medici, oppure soccorritori in prima linea nella lotta al Covid 19. Tutti invitati dalla Nfl. Ed a loro, gli «essential workers», che è dedicato Chorus the Captains, il breve componimento di Amanda Gorman. I personaggi scelti sono Trimaine Davis, un insegnante; Suzie Dorner, caposala in un ospedale di Tampa e un veterano dei marine, James Martin. Vale la pena riportare almeno l’inizio della poesia, che proviamo a tradurre sperando di non fare troppi danni: «Camminiamo con questi guerrieri, facciamoci carico di questi campioni, e trasmettiamo il messaggio dei nostri capitani. Li celebriamo, con l’azione. Con coraggio e passione, facendo ciò che è doveroso e giusto. Poiché mentre noi li onoriamo oggi, loro ci onorano ogni giorno».

Lo show. L’altro momento che normalmente dà il tono al Super Bowl è lo spettacolo dell’intervallo. Venti minuti di esibizione del cantante canadese Weeknd (il suo vero nome è Abel Makkonen Tesfaye), vincitore di tre Grammy Awards e noto in tutto il mondo per la sua «Can’t feel my face». Lo show è stato piacevole, con belle scenografie, con grande dispiegamento di ballerini, fuochi di artificio e giochi con le luci. Niente a che vedere, però, con l’esplosività di Jennifer Lopez e Shakira nel 2020 o di Beyoncè nel 2016. Molti spettatori sono più incuriositi dagli spot che dalle fasi delle partita. È l’evento cardine della stagione pubblicitaria: uno spazio di 30 secondi costa più di 5 milioni di dollari. I registi, i creativi preparano clip inedite, spesso piccoli gioielli. Quest’anno, però, alcune aziende, come Budweiser, Coca Cola e Pepsi Cola, hanno fatto sapere di aver dirottato le risorse per pubblicizzare la campagna di vaccinazione. Uscito Trump dalla Casa Bianca, sono praticamente scomparsi anche i commercials con un messaggio politico. Da segnalare il primo annuncio della app Robinhood, protagonista dei raid di massa in Borsa sul titolo GameStop. Curiosi anche i 5 secondi acquistati dalla piattaforma Reddit, coinvolta nelle stesse operazioni a Wall Street: «Se state leggendo questo avviso, vuole dire che ne è valsa la pena. Gli spot nelle grandi partite sono carissimi e noi non potevamo comprarne uno». Lunghissima la lista delle star mobilitate. Ne peschiamo una: Bruce Springsteen alla guida di una Jeep invita gli americani a incontrarsi in «the middle», nel mezzo. È l’eco più riconoscibile del nuovo corso con Joe Biden al comando: basta divisioni, torniamo a parlarci, a «incontrarci» appunto.

Matteo Persivale per il "Corriere della Sera" il 10 febbraio 2021. La bellezza spietata del suo gioco è irrefrenabile come la lunga marcia dal campetto del liceo Junípero Serra di San Mateo (California) al settimo Superbowl stravinto a 43 anni e mezzo l' altra notte al Raymond James Stadium di Tampa (Florida), Tom Brady l' invincibile, la macchina da titoli, Brady che sgrida i compagni che piangono, che entra allo stadio unico senza maschera ignorando tifosi telecamere e buone pratiche anti-Covid, «io sono Tom Brady e voi no» gli si legge nello sguardo alla Clint Eastwood dei bei tempi, Brady con la moglie top model, l' avversario di un tempo - Peyton Manning - ormai pensionato mentre lui continua a vincere, chissà per quanto ancora. Brady quarterback del settimo sigillo sulla sua grandezza assoluta, immune dagli acciacchi inevitabili per compagni di squadra di 15 anni più giovani di lui, immune evidentemente anche dal coronavirus visto che è riuscito in un' altra impresa incredibile, far sembrare modesto Zlatan Ibrahimovic che al contrario di Brady ha partecipato al lodevole spot «con il virus non si scherza, metti la mascherina». Brady ha giocato per vent' anni nei New England Patriots, poi ha cambiato maglia e ha condotto la sua nuova squadra, i Tampa Bay Buccaneers, alla vittoria contro i Kansas City Chiefs campioni in carica, 31-9 per far vedere che non ci sono dubbi, che il più forte di tutti i tempi è lui, «goat», il più grande, sei titoli con i Pats e ora la vittoria in Florida, più forte dell' età e della pandemia e dei dubbi di un sistema che dava parte del merito al famoso «programma» dei Patriots, al coach, all' inerzia di una squadra ai limiti della perfezione. Il Superbowl dell' altra notte, come a volte succede nello sport agli appuntamenti con la Storia, è stato deludente, partita bruttina se non brutta, niente di speciale come il concerto dell' intervallo nel quale c' era The Weeknd idolo r&b mentre una volta (2007) c' era Prince in palandrana viola e tacchi a spillo sotto il diluvio. Brady dimostra che tutto cambia ma vince ancora lui, e il suo genio sta nel farlo sembrare inevitabile. Vincente a tutti i costi, contro l' età, la statistica, la logica. I giornalisti sportivi americani ne studiano la dieta «antinfiammatoria e alcalina», riassunta così dal suo nutrizionista: «Niente zucchero bianco. Niente farina bianca. Niente glutammato. Olio d' oliva crudo. Per cucinare, solo olio di cocco. Solo sale rosa dell' Himalaya. Niente peperoni, funghi o melanzane. I pomodori, forse, una volta al mese. Niente caffè. Niente caffeina. Niente latticini.

Niente frutta, qualche banana in un frullato». Un giornalista suo coetaneo della Cbs si è immolato, l' ha provata, e ha spiegato al pubblico: «Ho accusato problemi di meteorismo e sono ingrassato di un chilogrammo», niente Superbowl per lui. Brady più forte anche delle vicissitudini affettive, dà un bel segnale di unità familiare perché allo stadio a fare il tifo in favore di telecamera c' erano la moglie Gisele Bundchen, modella, e tifava anche l' ex compagna Bridget Moynihan con la quale ha avuto un figlio ora 13enne. Ha vinto contro lo scandalo della partita in cui lanciava palloni sgonfiati a arte nella finale di conference 2014 con successiva squalifica e multa, tuttora un duello rusticano tra tifosi Nfl che fa sembrare il mitologico gol di Turone italiano un dibattito di Oxford. Non lo tocca l' antipatia di metà America per la sua amicizia con Donald Trump, tanto lui al contrario dell' ex presidente continua a vincere e chi vince ha sempre ragione, anche quando perde occasionalmente (due volte contro Eli Manning, fratello sfigato dello storico rivale Peyton, perché a volte lo sport sa essere più strano della vita). Sette titoli attraverso tre decenni (record), giocatore più anziano (record), nessuna squadra ha mai vinto sette titoli e lui da solo lo ha fatto (record), impallinando un primato dopo l' altro. Qualche minuto dopo la fine della partita, sul podio, ha detto semplicemente, senza arroganza, vagamente gelido, «we' re coming back», ci vediamo l' anno prossimo, perché appena vinto il settimo titolo sta già pensando all' ottavo. Come un cyborg, il Terminator della Nfl, al punto che la precisione musicale, assoluta, beethoveniana, del suo gioco a volte passa in secondo piano. Il football è la sua sinfonia.

Fooball americano. Chi è Sarah Thomas, la prima donna ad arbitrare il Super Bowl. Vito Califano su Il Riformista il 7 Febbraio 2021. Sarah Thomas entra nella storia dello sport degli Stati Uniti d’America. E mondiale, anche: essendo il Super Bowl l’evento sportivo più importante e seguito in Nord America. Un vero e proprio appuntamento, seguito in tutto il mondo. Thomas sarà la prima donna ad arbitrare il match, sarà down judge, ovvero l’ufficiale di campo che si occupa di posizionare la catena che indica le 10 yard da guadagnare per conquistare un primo down. La sfida di stanotte vedrà di fronte Kansas City Chiefs, campioni in carica, e i Tampa Bay Buccaaneers. L’anno scorso sono stati oltre 148 milioni gli spettatori in tutto mondo. Thomas è alla sua sesta stagione nella Lega NFL. Ha 47 anni, un marito, tre figli, un cane, un percorso universitario da informatrice farmaceutica. È cresciuta in Mississippi, a Pascagoula. Ha sempre fatto sport, fin da piccola. Ha giocato a buoni livelli a softball e ha militato in una squadra di basket. Ha arbitrato anche nei campionati di bocce. La sua designazione arriva a pochi mesi dalla storica prima volta di una donna arbitro nella Champions League di calcio, la francese Stephanie Frappart. La partita del SuperBowl si giocherà al Raymond Hames Stadium di Tampa, in Florida. L’anno scorso quasi 150 milioni di americani hanno assistito al Super Bowl davanti al televisore. In Italia sarà trasmesso alle 00:30 di lunedì 8 febbraio su Rai2, in chiaro. L’ingresso allo stadio sarà consentito a sole 22mila persone. Da giorni le autorità chiedono di evitare assembramenti e riunioni a casa: la paura resta sempre quella dei contagi da coronavirus. Gli Usa restano il Paese più colpito al mondo per positivi e per vittime. La pandemia ha rivoluzionato anche le pubblicità all’interno nella serata: un vero evento nell’evento. Storici marchi di alcolici, bevande e motori non hanno investito per via delle incertezze finanziarie. Molti brand spenderanno i soldi per le pubblicità in aiuti alla società. Per la prima volta comparirà in una clip pubblicitaria Bruce Springsteen.

·        Quelli che …la Pallacanestro. 

Il doodle di Google. Festeggiamenti in onore del dott. James Naismith, l’insegnante che inventò il basket. Redazione su Il Riformista il 15 Gennaio 2021. La prima partita di pallacanestro della storia finì 1 a 0. E comunque fu una partita esaltante: il New Game era nato, e se non fosse stato per la modestia del suo inventore James Naismith – che oggi Google celebra con uno dei suoi doodle – non si sarebbe chiamato basket. Naismith si rifiutò categoricamente di dare il suo nome. Al contrario dettò le prime regole, organizzò il primo match. Era il 1891. Quando alle Olimpiadi estive di Berlino del 1936 lo sport venne dichiarato disciplina olimpica, ebbe l’onore di alzare la prima palla a due e di consegnare la medaglia d’oro agli Stati Uniti. Era nato ad Almonte, un piccolo villaggio in Canada, nel 1861. Laureato in medicina, si traferì negli Stati Uniti e cominciò a insegnare tra scuola e università. L’epifania allo Springfield College, in Massachussets. Il responsabile del corso di educazione fisica gli chiese qualcosa di nuovo: qualcosa che potesse divertire e distrarre gli alunni nelle attività motorie che d’inverno si svolgevano al chiuso, in palestra. Naismith allora appese al muro un cesto di vimini, di quelli usati per raccogliere le pesche. I punti si segnavano lanciando al suo interno la palla. L’ispirazione arrivò da un gioco dell’infanzia del professore che si chiamava Duck-ona-rock (l’anatra su una roccia), che si giocava con un sasso. Serviva una scala, all’inizio, per raccogliere il pallone nella cesta, chiusa sotto. La retina arrivò solo nel ‘900. In due settimane il professore scrisse le prime regole. Che poi divennero 13, pubblicate sul giornale studentesco universitario Triangle il 15 gennaio 1892. L’attività era definita “A new game” sul periodico. Il 21 dicembre 1981 organizzò la prima partita disputata dal cosiddetto First Team: 18 giocatori della sua classe divisi in due squadre. La prima partita ufficiale l’11 marzo 1892, docenti-studenti, 5 a 1. Naismith rifiutò di dare il suo nome al gioco, che altrimenti sarebbe diventato Naismithball. Inventò anche la palla a spicchi, 8 oggi, dalla superficie a pallini per aumentare la presa. Fu il primo coach della storia, ai Kansas Jayhawks dal 1898 al 1907. Giocò 115 incontri, vincendone 55 e perdendone 60. Naismith morì di infarto il 28 novembre 1939. Le regole del Game vennero tradotte in Italia nel 1907 da Ida Nomi Venerosi Pesciolini, una maestra della commissione tecnica femminile della Federginnastica. Lo sport fu presentato a Venezia: palla al cerchio veniva chiamato. All’inizio era considerato uno sport “da signorine”.

Le 13 regole di Naismith:

La palla può essere lanciata in qualsiasi direzione con una o entrambe le mani.

La palla può essere colpita in qualsiasi direzione con una o entrambe le mani, ma mai con un pugno.

Un giocatore non può correre con il pallone, deve lanciarlo dal punto in cui lo ha preso.

La palla deve essere tenuta in una mano o tra le mani; le braccia o il corpo non possono essere usate per tenerla.

Non è possibile colpire con le spalle, trattenere, spingere, colpire o scalciare in qualsiasi modo un avversario; la prima infrazione da parte di qualsiasi giocatore di questa regola è contata come un fallo, la seconda squalifica il giocatore fino alla realizzazione del punto seguente o, se è stata commessa con il chiaro intento di infortunare l’avversario, per l’intera partita; non sono ammesse sostituzioni.

Un fallo consiste nel colpire la palla con il pugno, nella violazione delle regole tre e quattro e nel caso descritto dalla regola 5.

Se una squadra commette tre falli consecutivi, conterà come un punto per gli avversari; consecutivi significa senza che gli avversari ne commettano uno tra di essi.

Un punto viene realizzato quando la palla è tirata o colpita dal campo nel canestro e rimane dentro, a meno che i difensori non tocchino o disturbino la palla; se la palla resta sul bordo e l’avversario muove il canestro, conta come un punto.

Quando la palla va fuori dalle linee del campo, deve essere rimessa in gioco dalla persona che per prima l’ha toccata; nei casi dubbi, l’umpire deve tirarla dentro il campo; chi rimette in campo la palla ha cinque secondi: se la tiene più a lungo, la palla viene consegnata agli avversari; se una squadra continua a perdere tempo, l’arbitro darà loro un fallo.

L’umpire è il giudice dei giocatori e prende nota dei falli, comunicando all’arbitro quando ne sono commessi tre consecutivi; ha il potere di squalificare un giocatore secondo la regola 5.

L’arbitro è il giudice della palla e decide quando la palla è in gioco, all’interno del campo o fuori, a chi appartiene e tiene il tempo; decide quando un punto è segnato e tiene il conto dei punti con tutte le altre responsabilità solitamente appartenenti ad un arbitro.

La durata della gara è di due tempi da quindici minuti, con cinque minuti di riposo tra di essi.

La squadra che segna il maggior numero di punti nel tempo utile è dichiarata la vincitrice dell’incontro. Nel caso di pareggio, il gioco può continuare, se i capitani sono d’accordo, fin quando non viene segnato un altro punto.

Sergio Arcobelli per “il Giornale” l'1 febbraio 2021. Ne ha passate tante, Caris LeVert: lutti, malattie, operazioni. Un altro, forse, avrebbe maledetto il destino. Non lui. Non Caris. Nemmeno questa volta. Niente vittimismi: la sfortuna non esiste. Si vive, si cade. E quando cadi, ti rialzi. Sarà che ha imparato ben presto ad affrontare le problematiche della vita, Caris: ha perso il padre Darryl quando aveva soltanto 15 anni; la madre Kim, invece, convive da diversi anni con la sclerosi multipla. Per fortuna, lui, Caris, è una stella della Nba, se no i Brooklyn Nets non gli avrebbero fatto firmare un triennale da 52 milioni e mezzo di dollari. Quest' anno viaggia a 18,5 punti e 6 assist di media a partita dopo le prime dodici gare della stagione. Un giorno, però, durante il suo riposo pomeridiano, all'improvviso riceve una chiamata. Il succo della telefonata è questo: «Ti abbiamo scambiato, devi lasciare Brooklyn per andare a Indiana». Proprio un bel risveglio. Ma d'altronde, nella National Basketball Association funziona così: una franchigia può scambiare un giocatore più o meno quando vuole. Succede anche stavolta, con Caris protagonista di una trade (questo il termine usato negli States) che vede coinvolte più squadre ma anche uno dei migliori giocatori della lega, ovvero James Harden, il quale da Houston finisce proprio ai Nets, mentre Caris è destinato a Indiana. Giunto ad Indianapolis, però, non ha neanche il modo e il tempo di debuttare con la nuova casacca. Dopo aver salutato i nuovi compagni ed essersi sottoposto alle visite mediche di rito, i dottori scoprono che qualcosa di anomalo nel fisico di Caris. Il sospetto è che sia qualcosa di grave. La risonanza magnetica toglie ogni eventuale dubbio: «É un carcinoma al rene sinistro», gli comunicano dopo la diagnosi. Un annuncio choc. Come se non bastassero i drammi familiari. Ma dopo la brutta notizia ce n'è immediatamente una buona: «Abbiamo individuato il tumore in tempo, ti operiamo subito così guarirai». Dopo lo spavento iniziale, Caris si è sottoposto all'intervento e adesso, per fortuna, sta bene. Ma se non fosse stato per la trade, non avrebbe mai scoperto di avere il cancro. «Mi ha salvato la vita», confesserà poi il giocatore dei Pacers, che prima dell'arrivo ad Indianapolis era sceso in campo in tutte le partite giocate da Brooklyn. Del resto, prima di allora non aveva avuto alcun sintomo. Ora dovrà rispettare un lungo periodo di riposo. Ci vorrà del tempo prima di ritrovare Caris LeVert al pieno della forma e in campo. Ma sapere che non avrà bisogno di ulteriori cure è già di per sé un'ottima notizia.

Michael Jordan. Da ilmattino.it il 16 febbraio 2021. Michael Jordan ha donato 10 milioni di dollari per l'apertura di due nuovi ospedali in North Carolina. Le due cliniche dovrebbero aprire agli inizi del 2022 e rispondere ai bisogni di coloro più in difficoltà nella contea di New Hanover, dove si trova Wilmington, la città natale di Jordan. «Sono molto orgoglioso di collaborare ancora una volta con Novant Health per espandere il modello Family Clinic per offrire un servizio medico migliore nella mia città. Tutti dovrebbero avere accesso a un'assistenza sanitaria di qualità, indipendentemente da dove vivono o se hanno o meno un'assicurazione». Dopo la carriera da giocatore, con i sei campionati vinti con i Bulls, Jordan è tornato a vivere in North Carolina ed è diventato proprietario degli Charlotte Hornets. «Wilmington occupa un posto speciale nel mio cuore ed è davvero gratificante poter ripagare la comunità che mi ha sostenuto per tutta la vita».

·        Quelli che …la Pallavolo.

Da gazzetta.it il 19 settembre 2021. Italia-Slovenia 3-2 (22-25, 25-20, 20-25, 25-20, 15-11). L’Italia maschile segue l’esempio delle colleghe donne di quindici giorni fa e conquista il titolo europeo: è il n. 7 in 11 finali. L’ennesimo trionfo dello sport azzurro di un’estate magica ormai scolpita nella nostra storia. L’Italia batte la Slovenia 3-2 con grande fatica e sale sul gradino più alto di un podio internazionale dopo la cocente delusione olimpica a Tokyo, eliminati ai quarti da parte dell’Argentina. Siamo la squadra più giovane del torneo (24 anni di media e 9 esordienti in questa competizione) e dunque abbiamo davanti un lungo futuro di soddisfazioni. Che dopo i Giochi abbiamo messo nelle mani del nuovo allenatore Ferdinando De Giorgi. Onore anche alla Slovenia, il piccolo paese dei miracoli sportivi, fra basket e ciclismo, che nel volley aveva conquistato un argento pure due anni fa ed oggi è allenata dall’italiano Alberto Giuliani. Non arrivavamo alla finale di un Europeo dal 2013 e non lo vincevamo dal 2005. Ma questo successo arriva dopo una partenza ad handicap. Cediamo il primo set per 22-25 (solo il quarto perso in tutto il torneo) e lì iniziano forse a tremarci un po’ le braccia. Tocca a De Giorgi farsi sentire durante un time-out: “Animo, cosa sono quelle facce mogie: state giocando una finale”. Basterebbe far riaffiorare nella testa la memoria recentissima della vittoria proprio contro la Slovenia: nel girone l’avevamo asfaltata per 3-0. Nel secondo set cambia la musica e riusciamo a vincerlo per 25-20 con il muro sul punto decisivo di Pinali. Nel terzo andiamo ancora in affanno, sempre costretti a inseguire, fino a quando torniamo in parità sul 20-20. Ma è il nostro ultimo punto del set: 25-20 Slovenia. Nel quarto troviamo lo spirito della reazione e riusciamo a prenderci un vantaggio che manteniamo fino in fondo e chiudiamo per 25-20 in 29’ con cui ci assicuriamo il tie-break. Ci guidano Romanò e Michieletto. Nel set decisivo andiamo sotto subito 0-3, per poi pareggiare 3-3. Ma facciamo punti importanti e ci portiamo sull’11-7, un vantaggio prezioso. Lavia fa 12-8. La schiacciata di Giannelli ci dà il 14-9. E il successo arriva su errore in battuta della Slovenia. Siamo campioni d’Europa. Un bis, assieme alle ragazze: storico.

Angelo Di Marino per "la Stampa" il 21 settembre 2021. Il marchio di fabbrica. È quello che Fefè De Giorgi ha messo sulla vittoria europea dell'Italvolley, 16 anni dopo l'ultimo successo continentale. L'asso della Generazione dei fenomeni si è seduto sulla panchina azzurra un mese fa e, cambiando il volto alla squadra rispetto alla gestione Blengini, ha vinto l'Europeo con i suoi ragazzi terribili. E ora se la gode. Alla grande. «Indescrivibile l'esplosione di gioia subito dopo l'ultima palla della finale con la Slovenia. Con il passare delle ore invece pensi alle cose fatte lungo tutto il percorso. È un po' come una degustazione in un ristorante stellato, distingui tutti i sapori...». Dopo l'uscita dai Giochi e il cambio in panchina, pronti via ed è subito vittoria. «Il poco tempo trascorso dalle Olimpiadi effettivamente rende lecita la domanda "che cosa è successo?". La verità è che abbiamo avuto dieci giorni di lavoro per mettere in piedi gli Europei, in poco tempo siamo riusciti a creare diversi equilibri. Per farlo devi avere le idee chiare sulle cose da fare e sul lavoro da svolgere, non puoi andare a tentativi. E in questo i ragazzi hanno agevolato questo percorso con disponibilità e qualità. Si sono messi tutti a disposizione della Nazionale, diventando una squadra compatta che non molla». Nel secondo set della finale con la Slovenia ha chiamato un time out per parlare ai suoi ragazzi delle loro facce.

Una mossa decisiva?

«In quel momento ho cercato di riportare i ragazzi alla realtà, stavano vivendo la finale in un modo che non fa parte del nostro essere squadra. Eravamo in partita ma nell'atteggiamento sembravano battuti. Serviva tornare a divertirsi, quindi cambiare l'approccio negativo, in quel momento preponderante. Poi la Slovenia è squadra di esperienza che ti sfianca. Puoi fronteggiarla solo con un atteggiamento diverso». 

Insomma, gli azzurri sono davvero dei ragazzi terribili, sfrontati che si divertono a giocare con lei.

 «Sono giocatori che hanno delle qualità, per questo li ho chiamati in Nazionale. Molti non hanno avuto tante opportunità in precedenza, ma sono tutti ragazzi con ottime doti tecniche e caratteriali. Avevamo tanta voglia di dimostrare tutte queste cose». 

Nel 1989 lei era in campo quando l'Italia vinse il suo primo titolo europeo. 32 anni dopo inevitabili i paragoni.

«Sono realtà diverse, però una costante c'è: quel gruppo aveva un grande attaccamento alla Nazionale, dedizione per il lavoro, grande rispetto del gruppo, oltre a tanti giocatori di qualità. Gli ingredienti devono essere questi anche adesso. Nessun paragone, ma ci sono dei valori che portano verso il successo e a livelli sempre più alti. E sono quei valori che dobbiamo mantenere. Questa è la strada giusta».

Quale la prospettiva con una squadra che guarda al futuro, carte d'identità alla mano?

«Ho accettato la proposta della Federvolley del presidente Manfredi con l'idea di creare un percorso fino alle Olimpiadi di Parigi 2024. Questo implica un pieno cambio generazionale, il che non esclude che magari possano esserci giocatori di una certa età. La vittoria agli Europei non cambia i nostri programmi, anche se le aspettative ovviamente si alzeranno». 

Tutti bravi i suoi ma Giannelli, miglior giocatore degli Europei, e lo straripante Michieletto hanno avuto una marcia in più.

«Simone Giannelli è il motore di questa squadra, oltre che il regista e il capitano. È il punto di riferimento del gruppo, anche per il ruolo che ha in campo. Alessandro Michieletto è nato per giocare a pallavolo. Bisogna dargli il tempo di crescere, senza caricarlo di eccessive pressioni. È un talento naturale e ha la testa giusta». 

Avete messo il sigillo all'estate d'oro dello sport italiano con tutta la nostra pallavolo sul tetto d'Europa.

«Meglio di così non poteva andare, vincere sia a livello femminile sia maschile nello stesso anno è una cosa difficile. Per questo siamo ancora più orgogliosi di aver ottenuto un grande risultato per lo sport italiano». 

Lei ha attraversato il mondo con la pallavolo, vincendo ovunque. Un viaggio che continua.

«È vero, ho attraversato il mondo con la pallavolo. Tante esperienze e alla fine è arrivato il momento di allenare la Nazionale italiana. Una sensazione unica aver vinto questi Europei. E poi con il passare degli anni uno le vittorie le gusta meglio».

Giacomo Rossetti per "il Messaggero" il 21 settembre 2021. Se tra nove mesi nasceranno molti bambini di nome Alessandro e Yuri tra le coppie di appassionati di volley, non ci sarà da stupirsi. Alessandro Michieletto e Yuri Romanò hanno messo una firma indelebile sull'Europeo vinto dall'Italia in rimonta contro la Slovenia. Il primo ha riscattato una prestazione non brillante con due ace pesantissimi nel tie break, il secondo ha fatto come Re Mida, trasformando in oro ogni pallone nel set e mezzo concessogli dal ct De Giorgi: undici punti, 90% in attacco e delirio azzurro a Katowice, a pochi giorni dall'altro trionfo continentale, quello delle ragazze.

SFIDA IN SUPERLEGA Michieletto e Romanò hanno due storie molto diverse. Del primo si parla già da tempo come del baby prodigio della pallavolo italiana, mentre il secondo - prima del successo europeo - era quasi sconosciuto ai non addetti ai lavori. Alessandro ha 19 anni, gioca schiacciatore ed è già avvezzo alla Superlega date le tante presenze nel Trentino, mentre il ventiquattrenne opposto Yuri non ci ha mai giocato nemmeno un minuto. Si è fatto le ossa in A2, partendo dal New Team Bollate fino all'ultima stagione all'Emma Villas: «Fare tre anni da titolare in squadre di alto livello mi ha aiutato molto». La gavetta lo ha forgiato, ora è pronto al grande salto con la Powervolley Milano: «Arrivo in Superlega nel momento migliore. L'esordio sarà speciale: non mi aspettavo di vincere prima un Europeo (ride, ndr), ma meglio così».

LARGO AI GIOVANI La Nazionale che l'altro ieri ci ha fatto urlare davanti alla tv (a proposito, 3,5 milioni gli italiani sintonizzati) è una squadra di ragazzini: «È stata la prima competizione disputata insieme, chi se lo immaginava un esito del genere», racconta Michieletto. «Però quando si lavora duro, il lavoro paga sempre. Giocavamo senza tante pressioni, ed è stato un vantaggio». Con un'età media di 23 anni, il futuro è dalla parte di questa Italia senza capelli grigi: «L'andazzo è quello giusto continua Romanò piano piano sempre più giovani stanno trovando spazio in Superlega». E potrebbero essere ancora di più: «Nel mondo del volley italiano ci sono moltissime ragazze e ragazzi di talento, con le capacità di giocare nei palcoscenici più importanti. Serve solo dar loro fiducia e spazio», ammonisce Michieletto. Alessandro non gioca in una posizione qualsiasi, ma in quella che per anni è stata il regno di Osmany Juantorena, il fuoriclasse che dopo il boccone amaro di Tokyo ha lasciato i colori azzurri: «L'etichetta di erede di Osmany mi fa felice e mi carica di orgoglio, ma non devo viverla in modo ansioso - spiega - Sono stato fortunato ad aver giocato con un campione come lui, mi ha pure insegnato un paio di trucchetti».

IL RIPOSO Ora per i novelli re del volley europeo è il momento di staccare (meritatamente) la spina, almeno per un poco: «Starò più tempo possibile con la mia ragazza, e poi mi tocca fare un trasloco», dice Romanò. Magari nella pace della sua Paderno Dugnano (che lo ha accolto da eroe con tanti striscioni) riuscirà anche a godersi qualche partita dell'Inter: «La squadra mi sta piacendo, nonostante le tante cessioni. Certo, l'addio di Lukaku è stato un brutto colpo». Anche il figlio d'arte Michieletto (suo padre Riccardo ha vinto da giocatore due scudetti con Parma) si dedicherà al relax più puro: «Ossia passeggiate con gli amici, cene fuori con la famiglia e con la mia fidanzata. Devo recuperare le energie prima che cominci la nuova stagione». La ragazza di Alessandro, Maddalena Bertoldi, è anch' essa una pallavolista (gioca nell'ATA Trento) e si è rivelata abile con le previsioni: «Dopo il successo in semifinale, al telefono mi ha detto che con la Slovenia avremmo vinto». E infatti.

Dagospia il 20 settembre 2021. Da “Non è un paese per giovani" con Tommaso Labate e Massimo Cervelli per raiplayradio.it. “In questo caso possiamo dire che è un paese per giovani! Eravamo la squadra con l’età media più bassa, 21 anni circa, e con molti giocatori alla prima esperienza. Ci auguriamo di iniziare un ciclo importante, la programmazione è sulle Olimpiadi di Parigi”. Scherza Fefè de Giorgi, ct dell’Italvolley campione d’Europa entrato di diritto nell’olimpo della pallavolo internazionale, ospite in diretta su Rai Radio2 a Non è un paese per giovani, con Tommaso Labate e Massimo Cervelli. “Questi ragazzi sono stati davvero bravi”, continua il mister, “in poco tempo hanno messo il massimo e accelerato, ma soprattutto hanno acquisito consapevolezza”. “No, non era un rimprovero”, risponde Fefè alla curiosità di Labate che gli domanda se stesse rimproverando uno dei suoi a fine partita. “Stavo soltanto ripetendo una gag che facciamo nello spogliatoio.. hai presente De Niro in Taxi driver? “Ehi dici a me? Ce l’hai con me?”. Nessuna cazziata!”, ammette divertito. 

Da sport.sky.it il 20 settembre 2021. La magia non esiste, ci sono idee e lavoro. Oggettivamente abbiamo fatto qualcosa di straordinario in tempi molto stretti, dietro però c'è stato un percorso in cui abbiamo avuto le idee molto chiare. Il lavoro fatto e la capacità del gruppo di calarsi immediatamente in una opportunità importante ha accelerato il processo di crescita, i ragazzi hanno dimostrato ampiamente le loro capacità". Commenta così il successo agli Europei dell'Italvolley maschile il commissario tecnico azzurro Ferdinando De Giorgi, ospite a 'Radio anch'io Sport' su Rai Radio1. "Non era facile fare 9 vittorie su 9 in un Europeo, considerando un girone duro come il nostro. Noi siamo andati con la squadra più giovane dell'Europeo per iniziare un altro percorso, la squadra di Velasco aveva un'altra struttura, ma molte cose di quel periodo ce le portiamo dietro. Per me rappresentare l'Italia prima da giocatore e poi da allenatore è un grande onore -prosegue De Giorgi-. Per lo sport di squadra quanto fatto funziona, anche perché ci sono tecnici e staff capaci, che organizzano squadre ad alto livello. E poi si è creato un ambiente in cui i giovani si possono esprimere. C'è dietro tanta preparazione, voglia di fare e tanta qualità dei giovani. Al di là della vittoria, fa tutto parte di un percorso per costruire qualcosa di importante. Siamo solo all'inizio, i ragazzi hanno bisogno di crescere". La vittoria degli Europei è arrivata dopo la delusione alle Olimpiadi. "Non so cosa non sia andato bene a Tokyo -conclude De Giorgi-. Io sono stato chiamato subito dopo i Giochi e ho cercato di gestire un post Olimpiade un po' strano, fatto un anno dopo, a gestire un cambio generazionale sempre un po' difficile, ma che ho visto anche come una opportunità. Scherzando ho detto al presidente (della Federvolley, ndr) che a questo punto dovrei rassegnare le dimissioni: partire così bene non è semplice". E adesso, avanti al prossimo obiettivo: i Mondiali in Russia nel 2022.

Angelo Di Marino per La Stampa il 20 settembre 2021. Italia è campione d’Europa per la settima volta. I ragazzi terribili di Fefè De Giorgi, otto gli esordienti, entrano nella storia battendo al tie break la Slovenia nella finale giocata a Katowice, in Polonia. Come le donne anche gli uomini della pallavolo sono sul tetto d’Europa e proprio come le ragazze di Mazzanti hanno cancellato la brutta figura rimediata alle Olimpiadi di Tokyo. Merito di autentici talenti come Giannelli, Michieletto, Romanò, Pinali, Giannelli, Pinali, Lavia, Galassi, Ricci guidati da un campione come De Giorgi, uno della generazione dei fenomeni che tutto vinse in maglia azzurra, che ha preso la squadra dopo i Giochi e in un mese l’ha portata a vincere un titolo continentale impensabile fino a qualche settimana fa. «È stato molto difficile battere questa Slovenia - dice in lacrime capitan Giannelli a fine gara - ma ho sempre creduto nelle capacità e nell’orgoglio della mia squadra». Parte subito forte la Slovenia di Giuliani che con Ropret alla battuta stacca gli azzurri (2-0). Due lunghezze di vantaggio che diventano una costante nella fase iniziale del match. L’Italia è lì, un po’ meno dinamica del solito ma quadrata in difesa. Gli sloveni servono prevalentemente su Michieletto, il bomber che ormai tutti temono e che è meglio tener lontano dalla rete. Entra meglio la battuta alla Slovenia, ne sbaglia due di fila invece proprio Michieletto permettendo agli avversari di allungare (15-10). De Giorgi lo richiama in panchina, entra Recine per rimescolare le carte. Lavia sale in cattedra con tre veloci capaci di spaccare la difesa slovena (16-13). Pinali prima sbaglia la battuta, poi chiude il punto che tiene a -3 l’Italia (17-14) nella fase cruciale della prima frazione. Con Michieletto di nuovo in campo, Lavia continua a fare da martello da posizione centrale. Sbaglia però, serve un time out all’Italia per schiarirsi le idee (19-14). La fase difensiva viene meno e gli azzurri vanno sotto di 7 (21-14), anche a causa di una discutibile decisione arbitrale su una presunta infrazione azzurra. Continuano gli errori in battuta, sbaglia anche Galassi così come Ropret subito dopo. Batte Giannelli, Urnaut incrocia da sinistra ma mette fuori come conferma anche il challenge (22-17). E’ Giuliani stavolta a chiamare il time out e alla ripresa Pinali accorcia ancora le distanze (22-19). Urnaut sbaglia, turno di battuta vincente di Michieletto con tanto di ace (23-22). Fiato sul collo, time out Slovenia. Proprio Michieletto sbaglia la battuta, regalando il set ball agli avversari. Ace di Alen Sket, entrato giusto per battere e chiudere il primo set (25-22) in mezz’ora esatta. Seconda frazione e Italia obbligata a rincorrere e, soprattutto, a ritrovare la fresca disinvoltura che ha caratterizzato l’intero cammino azzurro in questi Europei. Giannelli, Michieletto e Lavia ristabiliscono l’ordine (1-4). Tre lunghezze di vantaggio che però non bastano per drenare la rimonta della Slovenia che sale in battuta e a muro fino a pareggiare (6-6) con una conclusione di Tine Urnaut. Giannelli dirige il traffico e concretizza sotto rete riportando avanti l’Italia (6-8). E’ necessario ritrovare il ritmo giusto e la profondità nelle conclusioni da parte degli azzurri, colpiti da Ropret dopo un lunghissimo scambio (7-8). Gli azzurri non sono particolarmente precisi in attacco anche nei movimenti: Pinali invade il campo degli avversari e concede il pari (9-9). De Giorgi chiama time out dopo l’ennesima amnesia azzurra: il coach chiede ai suoi ragazzi di divertirsi e non di preoccuparsi. Manca il sorriso e questo penalizza anche braccia e gambe in questa finale nella quale agli azzurri sentono per la prima volta la pressione. Galassi sotto rete e Pinali, prima in battuta e poi con una schiacciata imprendibile, riportano finalmente avanti l’Italia (13-15). Lavia chiude il punto del più 3 al momento giusto: 13-16. Time out Giuliani che chiede ai suoi concentrazione. Adesso le parti sembrano invertite. A un Daniele Lavia protagonista (15-18), risponde ancora il trascinatore Urnaut che non molla mai. Time out Italia, De Giorgi disegna la strategia per il rush finale della frazione. Mentre Michieletto inventa il muro perfetto e Galassi la battuta peggiore (17-19), Lavia annulla il tentativo di riavvicinamento portato da Urnaut. Anzani alza il muro ma non basta: Sket e Kozamernik fraseggiano che è un piacere e si riportano sotto (20-21). Il tifo dagli spalti diventa tutto per gli azzurri, anche i polacchi padroni di casa gridano “Italia, Italia”. Serve anche questo in una finalissima. Michieletto capitalizza (20-23), Lavia conquista il set point che Giulio Pinali mette subito a frutto: set azzurro (20-25 in 31’) e uno pari. Nella terza frazione l’inizio è come al solito sul filo dell’equilibrio con Giannelli ispirato e Michieletto implacabile. C’è Jan Klobucar a complicare i piani degli azzurri con le sue conclusioni sotto rete un po’ sbilenche: un paio vanno fuori, la terza di fila invece vale il pari (5-5). L’attacco dell’Italia funziona meglio rispetto ai primi due set ma gli azzurri non riescono a prendere il largo. Gli sloveni capiscono che c’è qualcosa che non va nel muro azzurro e si portano avanti (9-7) con Klemen Cebulj. Le due lunghezze di vantaggio permettono alla Slovenia di trovare la velocità di crociera. De Giorgi ferma tutto e chiama il time out (11-8). C’è da lottare e l’Italia lotta, proprio come gli sloveni che sono messi meglio in difesa e attaccano bene anche dalla seconda linea. Il turno di battuta di Alen Pajenk è decisivo per precisione e concretezza: 17-12 e cinque sotto per gli azzurri che manco se ne accorgono. Urge time out che arriva puntuale come il discorsetto di Fefè De Giorgi. E’ quello di Giulio Pinali il turno migliore di battuta, Piccinelli si fa in quattro in difesa e Lavia ritrova il braccio giusto: tutti sintomi di ripresa (18-15). Lenta ma costante. Grande muro di Anzani (20-19) e time out Slovenia stavolta. Prologo al pareggio firmato con un ace da Simone Giannelli, il capitano giusto al posto giusto (20-20). Peccato che gli azzurri sbattano contro un monumentale Toncek Stern che praticamente da solo chiude il set (25-20 in 30’) e riporta avanti 2-1 la Slovenia. La quarta frazione inizia senza particolari strappi e continua con le due squadre punto a punto. C’è Romanò in campo e proprio lui firma l’aggancio (6-6) agli sloveni che nel frattempo tentavano la fuga in avanti. E’ la precisione al servizio però che fa la differenza. L’esempio è Gregor Ropret con due battute vincenti in pochi secondi, Galassi invece sbaglia al salto (9-7). Serve più precisione anche in ricezione anche perché il mancino Romanò sembra in buona serata. La Slovenia in difesa non sbaglia un colpo, recupera palloni che sembrano impossibili e riesce così a sfruttare anche la seconda fase. Gli azzurri hanno più numeri, i loro avversari più esperienza. Due pesi diversi, un unico risultato da raggiungere: la vittoria. Si accende la luce in battuta per gli azzurri, Lavia inanella due servizi vincenti e l’Italia allunga fino a più quattro (16-20) dopo una veloce di Anzani che poco dopo concede la replica. Cebulj si mette sulle spalle tutti i suoi compagni e dimezza il distacco (19-21). Esce Galassi, al suo posto Ricci che azzecca subito un muro vincente che vale il punto numero ventidue degli azzurri, proprio il 22 che porta sulle spalle. Invasione Slovenia, tre lunghezze avanti Italia e time out Giuliani. Ace di Yuri Romanò e quattro set ball per gli azzurri. Ultimo punto che diventa un giallo con invasione degli sloveni e challenge che consegna il 2-2 all’Italia (quarto set 20-25 in 29’). Tie break, dunque. Partenza sprint della Slovenia (3-0) ma Yuri Romanò decide che così non va e sfila dalla manica tre punti di fila agguantando da solo il pareggio. Qualcosa inizia a sbagliarla anche la Slovenia, Alessandro Michieletto chiude a muro e porta l’Italia in vantaggio (5-6). Sale di giri finalmente il motore degli azzurri, Michieletto ha l’occhio della tigre ma la Slovenia resta lì perché centellina le ultime forze con grande esperienza. Al cambio di campo è avanti l’Italia (7-8) con Michieletto ancora a punto e a sbracciarsi con i suoi compagni come a incitarli a far presto per sfruttare l’onda giusta. Doppio vantaggio azzurro con Lavia che imbuca sopra le teste degli sloveni che chiamano il time out. Il secondo ace personale di Ale Michieletto è il sigillo all’allungo degli azzurri (7-10). Arriva subito anche la terza battuta vincente del bomber azzurro e i punti di vantaggio diventano quattro (7-11). Giuliani chiama un altro time out, capisce che i suoi giocatori sono in ginocchio. Fuori di un soffio la battuta di Michieletto che sembrava ancora ace, battuta alla Slovenia ma Lavia si riprende quello che è giusto (8-12). Michieletto implacabile apre la stagione dei match point. La chiuderebbe Simone Giannelli ma Maria Rodriguez, arbitro a terra, vede un’infrazione che non c’è. De Giorgi evita di chiamare il challenge, sicuro ormai di vincere. Sbaglia la battuta Cebulj ed è trionfo per l’Italia che vince gli Europei, proprio come le ragazze di Mazzanti. Non era mai successo. E’ la storia.

Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" l'1 ottobre 2021. Dal flop di Tokyo - Italia fuori ai quarti di finale dell'Olimpiade il 4 agosto - al trionfo di Belgrado - oro europeo del volley conquistato il 4 settembre - è passato un mese esatto. Trentuno giorni durante i quali la giocatrice azzurra più forte e rappresentativa ha mutato pelle. Messa la giusta distanza tra sé e quell'arcipelago di emozioni che è stata l'estate dello sport italiano, il playground sul quale si è sentita prima fragilissima e poi una leonessa, Paola Egonu è pronta a raccontare come ha saputo trasformare le sue debolezze (tuttora presenti) in energia positiva e gli umani difetti in forza motrice. 

Questa è la sua verità. Da dove cominciamo, Paola, dalla polvere o dall'altare?

«Scelga lei».

Seguiamo un ordine cronologico, allora. Con il senno di poi, cosa non ha funzionato in Giappone?

«Io, a mente fredda, ancora non vedo una ragione. I fatti sono che come squadra abbiamo lavorato tantissimo, che non abbiamo pensato ad altro che non fosse il torneo olimpico per due anni, che tra noi giocatrici e il c.t. c'era una sintonia totale». 

E quindi?

«Quindi doveva succedere. Dovevamo uscire ai quarti. Doveva andare così».

Per imparare cosa?

«Per irrobustirci, crescere, capire come rialzarci per andare a prenderci l'Europa. Oggi mi sento più grande, più adulta. E sono comunque fiera di noi ragazze: certo uscire ai quarti ai Giochi non se lo augurava nessuno, potevamo fare di più, ma non tutto è stato negativo».

Parliamo delle note positive del Giappone. Portare la bandiera del Cio nella cerimonia d'inaugurazione, per esempio.

«Un onore grandissimo. Mi hanno fatto indossare uno stupendo kimono bianco, che purtroppo non ho potuto tenere. Hanno scelto me per rappresentare tutti gli atleti olimpici, non era scontato. Spero di aver trasmesso emozioni pure». 

Dov' era la notte del doppio oro di Tamberi e Jacobs, tutto in dieci indimenticabili minuti?

«Al villaggio olimpico. Con gli azzurri degli altri sport ci siamo radunati nella hall della palazzina dell'Italia per tifare insieme. Vivere la doppia emozione in una dimensione di squadra, di Italia, è stata una sensazione unica». 

Come ci si scrollano di dosso le tossine di un'Olimpiade gloriosa per l'Italia (40 medaglie) ma deludente per il volley?

«Ognuna di noi ha elaborato da sola: siamo tutte adulte, capaci di autoanalisi. I primi giorni di critiche dopo la batosta sono stati duri: ho pensato che fosse impossibile resettare la testa in tempo per l'Europeo. Io, appena rientrata in Italia, ho preso un aereo per Manchester, in Inghilterra».

Casa di papà Ambrose e mamma Eunice. La mozione degli affetti.

«Mi sono chiusa per una settimana nella mia stanza, staccando tutto. Non ho risposto né a messaggi né a telefonate. Ho visto le mie serie tv, ho seguito la finale maschile tra Francia e Russia (quella femminile l'ho rimbalzata, non ne volevo sapere niente), ho mangiato tonnellate di platano fritto, il mio comfort food , ho parlato con i miei e con mia sorella Angela, che mi conosce come le sue tasche e già a Tokyo mi aveva bombardato di messaggi: stai piangendo, vero? 

Sono tornata piccola e mi sono fatta coccolare da mamma. Le sue parole sono state un balsamo: non sentirti una schifezza, Paola, sono comunque orgogliosa di te. E io lì, stecchita sul divano, completamente numb , intorpidita. Però mi è servito». 

E poi, qualche giorno dopo all'Europeo, l'Italia è diventata invincibile: nove vittorie di fila e il successo in finale a Belgrado sulla Serbia, la squadra che vi aveva battute a Tokyo. Come è stato possibile?

«All'Europeo ci siamo ritrovate faccia a faccia in spogliatoio. Okay, ci siamo dette, facciamolo per noi. Non so se il discorso di Myriam Silla abbia fatto la differenza, io sono convinta che nel gruppo siamo tutte un po' leader e un po' capitane e che il ruolo sia sostanzialmente burocratico, in fondo abbiamo ascoltato cose che sapevamo già. Però dircelo ad alta voce ci ha fatto bene, il primo clic è scattato lì». 

Altri clic, più personali?

«A me ha fatto bene incontrare Daniele Santarelli, che mi allena a Conegliano e mi conosce bene, sulla panchina della Croazia, che abbiamo battuto 3-0. Nel suo sguardo ho visto la fiducia: non potevo deluderlo».

Ma alla fine la lezione da apprendere in un mese in cui ha toppato l'Olimpiade e centrato l'Europeo, quale è stata? L'ha capito?

«Oh sì che l'ho capita. Ho capito che non dipende tutto da me, che non posso fare tutto io. Quello che so fare meglio nel volley è attaccare: il compito che do a me stessa, cioè, è risolvere tutte le situazioni. Ma non può sempre funzionare: sono l'ingranaggio di una squadra, non sono Wonder Woman. Ecco perché sono convinta che Tokyo sia stata una batosta utile per crescere». 

E la polemica sui social? Avete perso perché pubblicavate le storie su Instagram?

«L'ho trovata irrispettosa: come se fossimo una scolaresca in gita e non delle professioniste con la maglia dell'Italia. Mi è venuto da ridere. So perfettamente dividere, nel club e in Nazionale, il tempo libero dal lavoro. Ma le pare che sbaglio una schiacciata perché ho postato una foto dal villaggio olimpico? Volevo condividere quel momento, punto. A maggior ragione in un'edizione dei Giochi a porte chiuse. Davvero non capisco qual è il nesso tra i social e i risultati».

Come gestisce l'odio social?

«Vorrei rispondere a tutti gli hater , uno per uno. Ma capisco che sarebbe peggio. Allora blocco e cancello. E cerco di farmi scivolare le cose brutte addosso». 

Domani la Supercoppa italiana tra Conegliano e Novara, da domenica 10 ottobre il campionato. È pronta a rituffarsi nel triennio che porta a Parigi 2024?

«Onestamente ho creduto di non esserlo. Sono tornata a Conegliano fisicamente a posto ma mentalmente stanca. Una stagione sempre a giocare, senza vacanze, pesa. L'altro giorno, durante l'allenamento, ho avuto un attacco di panico. Non il primo, non l'ultimo». 

Così per dire o letteralmente?

«L'ansia che sale, la tachicardia, il respiro che si fa difficile. Io, poi, non mostro niente: mi tengo tutto dentro. Monica De Gennaro, il nostro libero, è una ragazza molto sensibile: si è accorta di quello che mi stava succedendo, ha stoppato l'allenamento. Siediti, mi ha detto, torna in spogliatoio. Ma io mi conosco: se mi fermo vedo tutto nero ed è peggio. Sono momenti che arrivano e se ne vanno, sono lunatica, non ho un carattere facile. Mi sveglio depressa e poi divento super solare, o viceversa. Cristina Chirichella mi chiama Sunshine !».

Ora come sta?

«Bene. A Conegliano mi sento a casa, tutti sono molto accoglienti, nessuno mi fa sentire sbagliata. Se se lo sta chiedendo, apprezzo ancora la pallavolo: è la mia vita, lo sarà a lungo. Se mi sento solo pallavolista e va male, però, lo vivo come un fallimento. Invece io sono molto di più di una giocatrice di volley: ho altri hobby e passioni, ho amore da dare, farò altri piercing (ne ho tre) e tatuaggi (13), condurrò una puntata delle "Iene" in tv, per i miei 23 anni regalerò a Noir un altro cagnolino, sarà bianco e lo chiamerò Ice. Sono il volley, ma non solo. Ogni tanto lo devo ricordare a me stessa».  

“E dopo tutta la m…”: cosa ha detto la Egonu dopo il trionfo. Alessandro Ferro il 5 Settembre 2021 su Il Giornale. Eletta miglior giocatrice del campionato europeo, Paola Egonu si sfoga su Instagram dopo il trionfo delle azzurre contro la Serbia: ecco il video che ritrae i festeggiamenti. Esattamente un mese fa, la nazionale femminile di volley veniva criticata sia per l'eliminazione ai quarti di finale delle Olimpiadi di Tokyo per mano della Serbia ma anche e soprattutto per l'atteggiamento delle azzurre considerato "troppo social" dopo la striscia vincente delle prime gare. Un mese dopo, Paola Egonu&Co sono campionesse d'Europa dopo aver battuto la bestia nera Serbia, in casa loro, e la giocatrice più rappresentativa non ha perso l'occasione per togliersi qualche sassolino dalle scarpe.

Lo sfogo della Egonu. Dopo aver alzato la Coppa e le foto di rito, le azzure sono tornate nello spogliatoio pronte per i primi festeggiamenti. Paola Egonu, fresca di nomina come migliore giocatrice del torneo e 29 punti realizzati contro le serbe, ha voluto rispondere alle critiche che si portava dietro da Tokyo. E come se non tramite il proprio profilo Instagram: "E dopo tutta la m...a, siamo campionesse", ha affermato prima di lasciarsi andare alla gioia assieme alle compagne al grido di "Siamo noi, siamo noi, i campioni dell'Europa siamo noi". Il video è stato pubblicato sull'apposita sezione delle Stories, video o immagini della durata di 15 secondi, a cui ne sono seguiti tanti altri ricondivisi dalla campionessa dai profili di amici, conoscenti e tifosi scatenati per l'impresa delle azzurre.

Cosa aveva detto Mazzanti. La polemica social ha un'origine ben precisa: come ci siamo occupati al Giornale, il Ct Davide Mazzanti non le aveva mandate a dire dopo l'eliminazione ai quarti dell'Olimpiade giapponese. "Avevo chiesto alle ragazze di staccarsi dai social durante le Olimpiadi, di stare fuori da quello che le circondava, da tutto quello che ti arriva addosso. Ma per loro ormai è diventato difficile. Ci servirà di lezione". Detto fatto: la lezione è servita perché vincere un mese dopo la cocente eliminazione, la stanchezza per una stagione infinita ed in casa delle avversarie più toste degli ultimi anni non era né semplice né scontato, tutt'altro.

"Trionfo bellissimo, contento per le ragazze". "È un trionfo bellissimo per tanti motivi, non sto qui a elencarli perché sono davvero tanti. Sono contentissimo per le ragazze, ce l'hanno messa tutta per andarsi a prendere la medaglia d'oro e il risultato di questa sera è il giusto premio per come sono state in campo, per come hanno sofferto e per la capacità di ritrovare le sensazioni giuste" ha affermato Mazzanti a fine gara dopo il trionfo nella finale dell'Europeo contro la Serbia. "Ne avevamo bisogno un pò tutti, sia noi da dentro, che il mondo della pallavolo italiana. La sensazione più bella è stata vedere la squadra nel quarto set esprimere tutto il proprio talento. Era un pò di tempo che non vedevo le ragazze farlo: bello vincere, ma ancora di più nella maniera che l'abbiamo fatto", ha aggiunto.

Sulla stessa lunghezza d'onda anche la capitana della nazionale, Miriam Sylla, che in un post su Instagram ha dedicato la vittoria a tutte le persone che nella vita hanno dubitato dei loro valori. "Perché ci insegna che a nulla importa il passato, ma solo l'adesso; che ad un fallimento segue sempre una rivincita; che il valore non è dato da come si Vince ma da come ci si rialza". Brave azzurre, orgoglio nazionale: e se nei prossimi giorni farete decine o centinaia di post, stories e commenti, nessuno ve ne potrà fare una colpa.

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Da open.online il 6 settembre 2021. L’Europeo vinto dalla Nazionale femminile di pallavolo in Serbia vale poco secondo il leader del Popolo della Famiglia Mario Adinolfi, che ha definito la rassegna un «torneo minore». In un tweet pubblicato dal proprio account Twitter, Adinolfi ha anche commentato la figura di Paola Egonu, premiata come migliore giocatrice di questa edizione del torneo continentale. «Mi chiedono un commento su Egonu», ha scritto Adinolfi, «il commento è che alle Olimpiadi ha fallito causando il brutto risultato delle azzurre perché non sa reggere i social. Il che, confermo, non ne fa una gran vessillifera olimpica. Sono lieto che in un torneo di rilevanza minore abbia fatto bene». Il leader del Popolo della Famiglia aveva già attaccato la pallavolista di Cittadella, scelta come portabandiera della squadra azzurra alla cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Tokyo 2020. Secondo Adinolfi, in quell’occasione Egonu sarebbe stata scelta «senza nessun merito sportivo» ma solo per il fatto che «incarna un cliché». Nell’ultima stagione Paola Egonu è stata incoronata anche come migliore pallavolista della Champions League, della Serie A1 e della Coppa Italia. 

La risposta definitiva di Ivan Zaytsev alla rosicata di Adinolfi sul Paola Egonu. Il botta e risposta. Adinolfi all’alba dei giochi olimpici si era espresso in maniera molto dura sulla decisione di scegliere come porta bandiera della delegazione azzurra Paola Egonu. Per lui era una questione sportiva, a molti era parsa una polemica legata al colore della pelle. E così all’indomani del successo europeo delle azzurre Adinolfi scrive così, “Mi chiedono un commento su Egonu. Il commento è che alle Olimpiadi ha fallito causando il brutto risultato delle azzurre perché non sa reggere i social – scrive il leader del Popolo della Famiglia -. Il che, confermo, non ne fa una gran vessillifera olimpica. Sono lieto che in un torneo di rilevanza minore abbia fatto bene”.

La replica di Ivan Zaitsev: Guarda che se anche te lo chiedono un parere, puoi benissimo non scrivere fesserie è questo il punto!

Lettera di Mario Adinolfi a Dagospia il 6 settembre 2021. Caro Dago, non ho definito gli Europei di pallavolo vinti dalla Egonu (perché si cita solo lei?) come un “torneo minore”, ma “di rilevanza minore” rispetto a Olimpiadi e Mondiali. Francamente mi pare un argomento inattaccabile, visto che alle Olimpiadi la finale è stata Usa-Brasile e a Tokyo la Egonu (perché si cita solo lei?) ha perso anche con la Cina. Detto questo, come ho scritto nel tweet che ha causato tutto l’inutile baccano, sono lieto della loro vittoria. Bravissime le Azzurre, tutte le Azzurre, anche la Egonu. Qualsiasi accusa infame di razzismo o omofobia la rispedisco al mittente. Sono un cattolico, sono esplicitamente impegnato nel Popolo della Famiglia che subisce l’accusa totalmente strumentale di omofobia, ma nulla è più distante da me e da noi. Però la narrazione a costruire il nemico da bersagliare sui social serve. Per questo alcuni intellettuali da tastiera hanno inveito contro il mio tentativo di aprire un ragionamento non su Paola Egonu, ma sui motivi che l’hanno condotta a 22 anni e senza curriculum olimpico a essere vessillifera a Tokyo: i motivi erano extrasportivi (almeno trenta atleti della delegazione azzurra avevano un curriculum olimpico densissimo meritevole di quell’onore) e di strumentalizzazione politica del colore della sua pelle oltre che del suo orientamento sessuale. Io contestavo e contesto questa strumentalizzazione politica di un momento sportivo, perché lo sport vive di meritocrazia (“citius, altius, fortior” è non a caso il motto ufficiale in latino delle Olimpiadi) e non di pastette politiche per offrire fotine politicamente corrette ai giornali. Per il resto, credo di aver contribuito e neanche poco alle future attenzioni che Paola Egonu avrà da ingaggi sportivi e sponsor extrasportivi. Ogni storia ha bisogno di un antagonista per appassionare, lieto di esserlo stato per un’atleta che comunque ha la potenzialità per diventare certamente una leggenda azzurra, una cui affidare presto o tardi il tricolore alle Olimpiadi che mi auguro davvero prima o poi riesca a vincere, senza dare retta ai social e magari risparmiandosi le inutili volgarità (“merda”, “vai a farti inculare”) che la società del politicamente corretto lascia passare a lei, ma non perdona a Lino Banfi. Perché l’ipocrisia fa viaggiare il mondo al contrario, vabbè, ma il discorso si farebbe lungo. Buona giornata. Con stima Mario Adinolfi

Paola Egonu. Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" il 17 maggio 2021.

Cosa non abbiamo ancora capito di lei, Paola?

«Che sembro una pantera e invece, sotto sotto, sono una bambina di 22 anni che desidera persone vere al suo fianco, che ogni tanto ho i miei momenti di debolezza e allora mi prende la voglia matta di stare a letto tutto il giorno, senza fare nulla».

Un' ora con Paola Egonu - la pallavolista più forte dell' orbe terracqueo, veneta, 189 centimetri per 79 chili, colpisce il pallone a 3,44 metri da terra, numero 46 di scarpe -, a zonzo tra pensieri e parole di un' anima libera, è un' avventura che non segue sentieri noti. Le chiedi cosa sta facendo in una pigra domenica di maggio, a stagione finita, e ti parla del platano fritto che adora (ricette incluse), vuoi sapere come è stata la sua infanzia e ti racconta della zia suora, ipotizzi che possa portare la bandiera dell' Italia ai Giochi di Tokyo e si finisce, con una svolta imprevista, a discettar d' amore. Paola è come gioca. Una potenza. Energia pura, un flusso ininterrotto che si condensa in materia anticonvenzionale. Basta alzarle la palla, a schiacciarla ci pensa lei.

Cosa ha preso da Ambrose e Eunice, i genitori che emigrarono in Italia dalla Nigeria?

«Fisicamente sono papà: alta, longilinea, forte. Anche di viso, gli somiglio moltissimo. Vorrei avere la sua compostezza nei momenti difficili, la dote di non perdere mai la lucidità. E invece, emotivamente, sono tutta mamma: ho ereditato il suo lato sentimentale, l' empatia, la lacrima facile».

Piange spesso?

«Mi capita, però amo più ridere. Quando guardo le serie K-drama coreane, per esempio, di cui vado pazza, una passione condivisa con mia sorella Angela. Dieci puntate per darsi un bacio, intanto non succede mai niente: mi piace l' idea asiatica della lentezza, quell' essere un po' alieni e stralunati, come me».

L' elogio della lentezza, un concetto agli antipodi rispetto all' adrenalina e alla concitazione di una partita di volley.

«Esatto. La mia giornata di relax ideale è orizzontale, a letto. Caffè tra le lenzuola, serie tv a raffica, Tik Tok, video buffi, telefonate ai miei e alle amiche... Sono capace di non alzarmi per ventiquattrore filate».

Da bambina, a Cittadella, com' era, Paola?

«Sempre in movimento. Una mattina, avrò avuto 8 anni, vado da Ambrose: papà, voglio diventare suora come la zia Loreto, gli dico. Avevamo l' abitudine di passare almeno una settimana all' anno a Roma con lei in convitto, travolgevo la zia di domande sui grandi temi della vita e lei sapeva rispondere a tutto: i riti della comunità religiosa mi affascinavano».

Ha finito per scegliere uno sport di squadra, non a caso. Suo padre cosa rispose?

«Va bene Paola, okay, tanto domani avrai già cambiato idea! È andata così, infatti».

Meglio per noi: quest' anno con Conegliano ha vinto tutto e ad agosto c' è il tabù dell' oro olimpico da sfatare.

«Mi piace pormi obiettivi alti. Con Daniele Santarelli, coach a Conegliano, avevamo stretto una promessa: lui mi aiutava a vincere lo scudetto, io lo aiutavo a vincere la Champions».

Miglior giocatrice in Europa con 40 punti (il suo record è 47). Posso fare meglio, ha detto alla fine.

«Dopo ogni partita mi faccio sempre un piccolo esame di coscienza: mi rivedo, esamino gli errori, spesso mi arrabbio. In finale contro Istanbul ho sbagliato l' ultimo punto del terzo set: tragedia! Sono una perfezionista in tutto. Anche all' Università: se non mi sento super preparata, non do l' esame. Devo sapere tutto, non mi accontento».

Perché ha rifiutato l' offerta di un milione di euro per andare a giocare in Turchia?

«Perché non sono pronta ad andarmene. Non con i palazzetti vuoti, senza tifo né festa. L' Olimpiade sarà ancora nella bolla ma l' anno prossimo sarà diverso, spero. Più avanti valuterò l' esperienza all' estero».

L' impatto dei suoi genitori con l' Italia fu traumatico?

«Non ho mai sentito racconti tristi. I miei erano molto giovani quando lasciarono la Nigeria per ripartire da zero in Italia. Fu una scelta di sopravvivenza per aiutare i genitori e i fratelli, senza perdere tempo a piangersi addosso. Questo mi dimostra il coraggio che hanno avuto. E non si sono fermati: oggi vivono a Manchester».

Il suo rapporto con l' Africa?

«Fino all' arrivo della pandemia sono andata in Nigeria almeno ogni due anni. Da parte dei sette fratelli di papà ho 18 cugini, dei cugini da parte dei sei fratelli di mamma confesso che ho perso il conto...».

Come ci si divide tra la cultura italiana e quella africana?

«Non è una domanda banale, perché io sono un mix difficile da spiegare. Diciamo che quando sono strana o folle o buffa per le mie amiche italiane sono tipicamente nigeriana e per le mie amiche nigeriane sono tipicamente italiana!».

E se le amiche nigeriane le chiedono che mestiere fa in Veneto, cosa risponde?

«Nella squadra sono quella che attacca sempre, anche perché non sono capace di fare altro! Super aggressiva, però fuori dal campo mi trasformo. Macché tigre: amo stare con me stessa, il massimo che reggo in compagnia sono un paio d' ore. Poi time out, ragazze, vi saluto, ciao».

Paola lei sembra una donna libera, ed è questo il suo fascino più grande. Che cos' è la libertà per lei?

«Esprimermi per ciò che sono e sento senza essere etichettata».

Quindi lei non è omosessuale.

«Esatto, non lo sono. Ho ammesso di amare una donna (e lo ridirei, non mi sono mai pentita) e tutti a dire: ecco, la Egonu è lesbica. No, non funziona così. Mi ero innamorata di una collega ma non significa che non potrei innamorami di un ragazzo, o di un' altra donna. Non ho niente da nascondere però di base sono fatti miei. Quello che deve interessare è se gioco bene a volley, non con chi dormo».

Ha un amore, oggi?

«No, non c' è. Io sono una pazza che si innamora a prima vista, bang, in due secondi. Non sto lì a pensarci, parto come un treno. Poi prendo anche i miei bei due di picche, batoste micidiali, però almeno me la vivo al cento per cento, senza rimorsi. Devo dire che l' idea del grande amore non mi fa impazzire: mi interessa ciò di cui ho bisogno in una certa fase della mia vita, non deve per forza essere per sempre. Però sono incoerente perché credo che il matrimonio sia un' istituzione fantastica. Boh, forse ho le idee un po' confuse...».

Ha votato alle Politiche del 2018?

«No perché ero via con la Nazionale. Ma prima di votare vorrei informarmi, essere perfettamente consapevole di chi voto e perché lo faccio. Sennò non me la sento».

Ha già deciso il look olimpico?

«Extension di sicuro: lunghe, colore naturale, quindi scure. Unghie pendant . Mai più bianche: ho provato e mi stanno malissimo».

Miriam Sylla capitano dell' Italia, palermitana di genitori ivoriani e sua grande amica, è una buona idea?

«Il c.t. Mazzanti ha visto in lei qualità di leader, e sono d' accordo. Ma in campo siamo tutte un po' capitane».

Paola, lei sarebbe nella short list del Coni per il ruolo di portabandiera dell' Italia ai Giochi di Tokyo: la decisione giovedì.

«Sarebbe fantastico, un onore pazzesco.Wow, poi potrei morire anche subito! Mi piacerebbe prendermi sulle spalle questa responsabilità, davvero: io, di colore, italiana e la bandiera. L' ignoranza e certe cose del passato hanno bisogno di un taglio netto. Sono pronta.Facciamola, bum, questa rivoluzione!».

Francesca Piccinini. Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" il 15 aprile 2021. «Non ci ho dormito la notte. Ci ho pensato e ripensato. È difficile staccarsi dalla vita che ho fatto per quasi 30 anni e sognavo da quando ne avevo 8. Mi fa fatica anche dirlo...». Francesca Piccinini da Massa, 42 anni, capricorno ascendente capricorno, dal 7 novembre 1993, quando - quattordicenne - fece il suo debutto in campionato, per la pallavolo è stata tutto: talento precoce, volto da copertina, corpo da calendario (celebre quello di Men' s Health , correva il 2004), martello di mezza Italia (13 stagioni a Bergamo), pilastro della Nazionale, campionessa. Il fisico per reggere tutti questi ruoli lo ha sempre avuto: 185 centimetri di bionditudine che ha spesso solleticato il gossip.

Francesca, coraggio. Faccia un respiro e lo dica.

«Basta, smetto. Sono sicura al cento per cento. È giusto così: largo alle giovani».

E ora?

«Ora cercherò di capire. Busto Arsizio, la mia ultima squadra, mi ha chiesto di restare a far parte del progetto: in quale ruolo, si vedrà. Per il resto, non mi precludo nulla: allenare le ragazzine, commentare il volley alla tv, quei reality a cui ho detto no quando le mie giornate ruotavano intorno allo sport. Si chiude una porta, se ne apriranno altre, spero».

Flavia Pennetta lasciò da regina dell' Open Usa per metter su famiglia e diventare mamma. Lei non ha questo desiderio?

«Maternità e famiglia non occupano troppi pensieri. Mettere al mondo un figlio, oggi, è una grande responsabilità. Sono in accettazione di quello che arriverà».

Ma un fidanzato c' è?

«No, sono single. È difficile stare con me. Cerco complicità, divertimento: chi si prende troppo sul serio non mi piace. L' uomo che mi sta accanto deve farmi stare meglio di come sto da sola. Mica facile».

La fama di mangiauomini le corrisponde?

«Per niente. Con Dj Ringo è stato amore vero, durato anni. Io e Maurizia Cacciatori siamo state due pallavoliste e due belle ragazze che hanno portato uno sport di nicchia sotto i riflettori. Anche grazie a noi il volley femminile è diventato popolare, ha attratto le ragazzine: ci sono ancora ex fan, diventate donne, che mi ringraziano per averle aiutate a credere nei loro sogni. Copertine, calendario, rifarei tutto».

Anche «Playboy»?

«Fu un gioco, una sfida con me stessa. Bellissime foto e bellissimo ricordo».

Smettere a 42 anni è anche aver voluto prolungare un' eterna adolescenza, Francesca.

Tocca diventare grande, adesso.

«Avrei dovuto uscire di scena con la settima Champions, a Novara, vinta a 40 anni. Ma poi Busto mi ha fatto una corte spietata. La verità è che mi sento sempre quella ragazzina che guardava i cartoni di Mila e Shiro alla tv e anche adesso che esco dalla bolla ovattata dello sport per entrare nella vita vera non voglio perderla, quella ragazzina: continuerò a coltivarla».

Mazzanti, c.t. dell' Italia, ha detto che non l' avrebbe portata all' Olimpiade di Tokyo: quanto ha pesato l' esclusione sulla decisione di smettere?

«A parte che la possibilità di una convocazione in azzurro non me la sono inventata io e che avrei preferito che lo dicesse a me anziché ai giornali, non ha pesato per niente».

Qual è la sua paura più grande?

«Non riuscire a trovare qualcosa che mi faccia battere forte il cuore come il volley».

Cosa le ha insegnato lo sport?

«La pallavolo è stata la mia scuola di vita: mi sono rafforzata caratterialmente, soprattutto nella stagione in Brasile: lasciai l' Italia a 19 anni, una follia totale, nessuna era mai andata all' estero ma quell' esperienza mi fece capire quanta voglia avevo di giocare. Negli anni sono diventata più estroversa, ho imparato il rispetto, ad ascoltare e aiutare gli altri».

Chiude avendo vinto tutto, incluso l' oro mondiale con la Nazionale. In quattro Olimpiadi, però, mai una medaglia.

«Si vede che era destino. Sono serena: a Tokyo tiferò Italia con tutte le mie forze».

Vede in giro un' altra Piccinini?

«Mi rivedo nella determinazione e nella semplicità di Paola Egonu, che ha 22 anni ed è piena di talento. La naturalezza con cui ha fatto coming out è la sua forza».

Cosa lascia al volley?

«L' entusiasmo e l' esempio. Le ragazze mi vedevano come un punto di riferimento».

Vede? Parla già al passato.

«Non mi ci faccia pensare».

·        Quelli che …il Tennis.

La Coppa Davis vinta in Cile nel '76 nella docu-serie «Una squadra»: «Vincevamo con il sorriso».  Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 29 novembre 2021. Pietrangeli, capitano non giocatore e i 4 moschettieri Panatta, Bertolucci, Barazzutti e Zugarelli raccontano la Coppa Davis: «Quella volta con il Concorde da Rio a Parigi per invitare a cena due signore...». Nove lustri più tardi il capitano,Nicola Pietrangeli , indossa i suoi 88 anni come il blazer di quel giorno a Santiago: «La nostra è una storia di sport e politica che suscita ancora attenzione perché racconta il bello e il brutto di un’Italia che, ancora oggi, ha una grande voglia di verità». Eccola, riunita nei giorni della Davis sotto mentite spoglie al film festival di Torino da Domenico Procacci, produttore e regista di «Una Squadra», docufilm in sei puntate su Sky a primavera, la Coppa Davis che riconosciamo e amiamo, figlia unica del ‘76, Pietrangeli con la sua faccia da attore e l’arte della diplomazia con cui portò l’Italia a giocare la finale nel Cile di Pinochet («La vittoria è tutta degli atleti ma il merito di aver difeso la trasferta non lo divido con nessuno») e quattro campioni invecchiati senza perdere per strada il gusto dello sfottò. «Amici miei», con le racchette al posto degli schiaffoni nella sacca. C’è il bon vivant de noantri Adriano Panatta, il ciuffo ingrigito ma ancora morbido come certe veroniche («Abbiamo vissuto con disincanto una storia irripetibile, che nulla ha a che fare con il campionato del mondo che stanno giocando qui a Torino, almeno avessero il buongusto di levargli il nome Davis...»), c’è Paolo Bertolucci, scudiero da una vita («Invidio Volandri per l’abbondanza che può gestire ma per me la Davis è morta: peccato perché con il vecchio format la Nazionale sarebbe ancora più forte»), ci sono — seduti all’altro lato del tavolo come un tempo in spogliatoio o a cena in ritiro — Corrado Barazzutti e Antonio Zugarelli, il tignoso secondo singolarista e la riserva preziosa (sull’erba di Wimbledon contro la Gran Bretagna, nella finale della zona europea, fu proprio Tonino a battere il mancinaccio Roger Taylor). «Avete vinto la Davis senza parlarvi!», stuzzica gli impuniti il capitano. «Nella diversità dei caratteri c’era amicizia» è la volée di velluto di Panatta, ancora oggi sornione e carismatico, motore di tutta la narrazione di un’impresa lontana eppure ancora presente nella memoria collettiva, alla faccia dei social e di YouTube. È la forza di cinque personalità uniche — l’espatriato tunisino di origini nobili, il talentuoso figlio del custode del Tc Parioli, il sagace doppista di Forte dei Marmi, il terraiolo di Udine e il baffo dell’ultimo uomo scoperto da Mario Belardinelli, il venerando maestro cui tutti davano del lei — ad essersi conficcata nel cuore degli Anni 70, al centro del villaggio. E allora, centellinata nella serie di Procacci che abbraccia un arco di cinque anni (un trionfo, tre finali: 3-1 a Sydney dall’Australia nel ‘77, 5-0 a San Francisco dagli Usa nel ‘79, 4-1 a Praga dalla Cecoslovacchia nell’80) con l’aiuto di interviste (la produzione ha riportato Fillol e Cornejo all’Estadio National de Chile) e suggestive immagini d’archivio, una pioggia di aneddoti cade su di noi, deliziandoci. Quella volta che, di ritorno da una rocambolesca esibizione in Argentina, Adriano (la mente) insistette per prendere il Concorde insieme a Paolo (il braccio), mentre Corrado ripiegava su un più lungo ed economico volo di linea. «Il Concorde da Rio de Janeiro — ricorda Bertolucci con gli occhi che ridono ormai da settant’anni — era funzionale al fatto di poterci concedere qualche ora di sole a Copacabana e passare da Parigi per portare a cena due signore a cui l’avevamo promesso...». E pazienza se il volo privato dall’Argentina al Brasile è bloccato da una tempesta che ha costretto alla chiusura l’aeroportino dei Cessna: «A sbloccare la situazione ci pensa Adriano, che offre al direttore dello scalo tutto il compenso che avevamo guadagnato con l’esibizione». Nella trasferta a Wimbledon dell’agosto ‘76 è sempre Panatta ad incaponirsi a voler giocare solo sul dritto di David Lloyd, doppista, fratello scarso di John, fino a metterlo in palla. «Chiedo perdono, è tutta colpa mia — ammette Adriano a reato abbondantemente prescritto —, sono stato un cretino». Si fa perdonare il giorno dopo, blindando il risultato con una netta vittoria su Taylor. Si avanza così, bordeggiando tra lacrime di commozione e risate vere, tra la scorta della polizia necessaria per decollare verso il Cile tra le polemiche e la maglietta rossa in finale a Santiago, un’idea di Adriano (who else?). Come eravamo. E non saremo più.

Ilie Nastase. Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 13 novembre 2021.  

Ilie, come sta?

«Fuori sto benone. Dentro, non lo so».

L'impossibilità di essere banale, a costo di inimicarsi mezzo mondo, è da sempre il tratto distintivo di Ilie Nastase, 75 anni, rumeno di Bucarest («Qui la pandemia è un casino, la gente ha cominciato a vaccinarsi per paura ma è tardi: ogni giorno muoiono 4-500 persone, il governo è caduto, non c'è nessuno che prenda decisioni per il popolo...»), ex campione di tennis funambolico (due titoli Slam in carriera) e parlamentare, sindaco mancato, playboy impenitente («Non lo dica a mia moglie Ioana!»), scrittore di romanzi polizieschi, chissà cos' altro. È Nasty, protagonista di indimenticabili mattane nei ruggenti Anni 70, a introdurci alla magia delle Atp Finals, il torneo dei maestri che decolla domani a Torino con Berrettini enfant du pays . Ne ha pieno titolo: cinque finali consecutive dal '71 al '75, quattro titoli Master, l'ultimo a Stoccolma umiliando Borg. 

Ricordi del primo Master, Nastase?

«A Parigi, su un campo in moquette stranissimo e velocissimo: chiedemmo palle sgonfie, sennò era impossibile giocare. Era l'anno dopo il debutto del torneo, a Tokyo nel '70. C'erano ancora i round robin: l'anomalia del tennis a eliminazione diretta». 

Cinque finali consecutive nel torneo di fine anno: significa che il dominatore era lei.

«Bah, che vuole che le dica, a quei tempi ci si divertiva, non eravamo ingessati come i campioni di oggi. Nel '73, a Boston contro Okker, lo sciopero dei giudici di sedia minacciò la finale: scegliemmo delle persone tra il pubblico, chi vuole arbitrarci? Nel '75, a Stoccolma, diedi 6-2 6-2 6-1 al mio amico Borg, a casa sua. L'anno dopo Bjorn si prese la rivincita a Wimbledon. In entrambe le occasioni fu imperscrutabile: non una parola». 

Cos' era il Master, a quei tempi?

«Una festa di fine stagione, una specie di gita di classe in giro per le capitali del mondo. La sera si usciva tutti insieme a cena. Ognuno aveva il suo stile, la sua personalità. Oggi giocano a tennis tutti uguale, sembrano macchine di Formula 1, solo Federer si distingue, ma che fine ha fatto?». 

Non segue più il tennis, quindi?

«Mi annoia, guardo solo Simona Halep, mia connazionale, e i giovanissimi, tipo Emma Raducanu. Il tennis è diventato uno sport troppo fisico, sono tutti marcantoni alti e forzuti, inutile fare paragoni con la mia epoca. Parliamo d'altro, la prego...». 

Le Atp Finals in Italia sono una buona notizia?

«Per voi italiani ottima! Il vostro tennis sta vivendo un boom, ve le meritate. E, se mi invitano, vengo anch' io».

Berrettini e Sinner le piacciono?

«Alti, potenti, gran servizio: moderni, insomma. Ci sono ancora in giro Djokovic e Nadal, ma con il tempo vinceranno tanti Slam». 

Il nostro Paese lo conosce bene, Ilie, non solo per aver vinto a Roma e Firenze.

«Ho tanti ricordi, in effetti. A vent' anni, con Ion Tiriac, fummo ospiti per mesi di Carlo D'Alessio, avvocato romano e re degli ippodromi, a Trastevere. In cambio dell'ospitalità, insisteva che insegnassimo a giocare al figlio Francesco. Sei mesi in Italia senza pagare un cent! Quante ne abbiamo combinate... La sera si cenava con mille lire e, ora della fine del pasto, a tavola eravamo in venti: tutti sconosciuti, incontrati lì, per caso». 

«Ilie ammazzalo!», gridavano dalle tribune del Foro.

 «A Roma mi sentivo come a casa, infatti!». 

Lei e Adriano Panatta, le gag più celebri.

«Usciamo a cena a Montecarlo, il ristorante è in montagna, siamo un corteo di tre macchine. Adriano, all'improvviso, ferma la sua: tutti fuori, un gatto nero gli ha attraversato la strada! Facciamo 25 km di curve in più per non passare da lì... A Parigi, mi vendico. Do 500 franchi a Mabruk, l'addetto allo spogliatoio, perché mi trovi un gatto nerissimo. Lo infilo nella sacca, lo porto in campo nel doppio contro Panatta e Bertolucci. Lo libero dopo il riscaldamento. Adriano scappa, s' incavola, non ha più voglia. Vinco 6-0 6-1». 

Ha mai perso un amico a causa di uno scherzo? Arthur Ashe, per esempio.

«Ad Arthur infilai un topo nella borsa delle racchette ma era troppo buono per arrabbiarsi e tenermi il muso». 

 Ilie e le donne. Cinque mogli e cinque figli.

«Ho amato e sono stato amato ma non ero mai a casa. Nessuno dei miei figli ha giocato a tennis e io non ho insistito: meglio così, non voglio soffrire».

Rifarebbe tutto?

«Credo di sì: I did it my way, come cantava Frank Sinatra. Non potevo essere diverso. Non ho rimpianti e, se li avessi, non glielo direi». 

Come riempie, oggi, le giornate?

«Il sindaco di Bucarest vuole fare un museo con i miei cimeli, mi godo la vita, vado a fare il bagno nel Mar Nero, ho un'Accademia ma non scendo più in campo. Con i pantaloni corti, a 75 anni, mi sentirei ridicolo».

Adriano Panatta. Daniela Cotto per lastampa.it il 16 novembre 2021. Prima campione, poi opinionista su tutti i fronti dello sport. Ma sempre personaggio. Adriano Panatta non ha perso lo spirito un po' ribelle e molto goliardico che lo rende unico, al di fuori degli schemi. Mai banale, a costo di risultare irriverente. Dice ciò che pensa, incurante del "politicamente corretto".

Lei è stato il primo italiano ad arrivare alle Finals, che allora si chiamavano Masters. Che ricordo ne ha?

«Eh, purtroppo non ero in forma. Soffrivo di… si può dire?». 

Certo…

«Emorroidi. Per superare il dolore mi facevano un sacco di iniezioni. Persi le prime due partite contro Orantes e Ashe, nella terza incontrai il mio amico Ilie Nastase che per passare il turno aveva bisogno di vincere. Così iniziai a prenderlo in giro: “guarda che ti batto, Ilie”. Come si arrabbiava…». 

Avrebbe potuto giocare il Master anche nel ’76.

«Per me era più importante la Davis, era l’anno della finale di Santiago. Il Masters era già un grande torneo, ma per me era un gradino sotto lo Slam per via della formula che non ho mai amato». 

Chi vince a Torino?

«Il favorito è Djokovic. Ha vinto molto ed è tornato in gran forma a Parigi. Gli altri? Più o meno si equivalgono, forse quello che lo può impensierire è Medvedev. Peccato non ci siano Federer e Nadal. Al Masters vince chi è meno acciaccato, dipende sempre dalla tua condizione fisica. Dopo una stagione così intensa le Finals sono sempre un punto interrogativo». 

È sempre stato critico con il tennis di oggi. Perché?

«Per carità, sono tutti fortissimi ma giocano sempre a fondo campo, è un gioco diverso rispetto a quello dei miei tempi, ovvio. Ma lo trovo più noioso». 

Più forti Djokovic, Federer, Nadal o Borg, McEnroe e Lendl?

«Sono epoche diverse impossibili da paragonare, anche i tornei avevano un valore diverso. Io ad esempio in Australia ho giocato una volta sola, nel 1968, allora ci andavano in pochi». 

Dei grandi di oggi chi ama di più?

«Federer è il mio preferito, ma ammiro anche le straordinarie qualità di Nadal, la sua grinta eccezionale. Poi è educatissimo, il primo a salutare quando ci incontriamo. Djokovic è il più grande ‘pallettaro’ che abbia mai visto. Ma lo dico in senso buono, perché è un fuoriclasse». 

C’è una qualità che ammira in loro?

«L’umiltà. Mio padre diceva: quando sei martello picchia, quando sei incudine aspetta che passi. E’ così, bisogna saper attendere l’occasione giusta. Federer lo incontrai una volta al ristorante a Trastervere, non aveva ancora vinto a Parigi e mi disse: ‘ti invidio, scambierei i miei quattro titoli a Wimbledon con il tuo al Roland Garros’. Anch’io!, gli risposi». 

Lei è stato l’unico a fermare Borg sulla terra del Roland Garros. Il segreto?

«Gli davo fastidio, variavo il gioco. Siamo rimasti molto amici io e Bjorn».

Qualcuno sostiene che Berrettini la ricorda un po’. E’ d’accordo?

«Non direi, forse perché siamo entrambi romani. Lo conosco fin da quando era piccolo, ricordo che lo vidi giocare ragazzino ad un torneo e volli avvicinare i genitori. Mi presentai e dissi: fate come volete, ma vostro figlio ha le qualità per diventare forte». 

Previsione azzeccata. Matteo ricorda che lei fu il primo a intuire le sue qualità da grande battitore.

«Sì, e se lanciasse la palla venti centimetri più avanti servirebbe anche più forte…». 

Gli Internazionali d’Italia nel 2023 si allungheranno a 12 giorni. Un torneo lungo quanto lo Slam.

«I tornei si equivalgono. Roma non è certo da meno». 

La nuova Coppa Davis le piace?

«No, è una vergogna, l’hanno svenduta. Del resto per anni a governare il tennis hanno messo i manager che venivano dalla Disney. Ora per fortuna c’è Andrea Gaudenzi, che di tennis ne capisce». 

Un romano che vive a Treviso, come si trova?

«Benissimo. Roma la adoro, ma mi dà l’ansia, appena passo il raccordo anulare mi incazzo. Qui ho aperto anche un centro tennis, che ha una caratteristica a cui tengo molto» 

Cioè?

«Non ci sono soci, tutti possono venire a giocare. Il più democratico che c’è».

Leonardo Iannacci per "Libero quotidiano" il 16 novembre 2021. I ruggenti Anni 70 di Adriano Panatta («71, prego, ma è un dettaglio», fa lui) lo colgono ancora fresco e gagliardo, frenetico e con il solito sguardo vispo sulla vita. Il ciuffo d'ordinanza - inconfondibile marchio di fabbrica - se lo si liscia con la mano, come faceva un tempo.

Ma il passato non torna, e lui lo sa bene.

«Me lo fa un favore? Parliamo di tutto ma basta con il 1976, la Coppa Davis, il Cile e il Roland Garros, ok?», chiede Adriano, l'eterno ragazzone che, tra diritti e rovesci («più i primi, per la verità...»), ha vissuto una vita piena, intensa e curiosa. «Hai ragione, sono un curiosone, mi piace informarmi su tutto. Sono uno che legge molto». 

Cento ne pensa e mille ne ha fatte questo ex numero 4 del mondo, nato al Circolo Parioli, divenuto celebre negli Anni 70 quando seminò ovunque il germe del tennis, sospeso tra grandi vittorie e flirt da dolce vita (Mita Medici, Loredana Bertè e altre...).Oggi lo becchiamo a Treviso, negli uffici del circolo Racquet Club che porta il suo nome, mentre con il figlio Alessandro gestisce Blu, una società di promozione sportiva. Ma che ci fa un romano a Treviso? Si è (ri)sposato con Anna e vive la tranquillità della Marca, da trevigiano de' Roma. «O da romano de' Treviso», aggiunge. 

Panatta imprenditore com' è? Anche qui pochi rovesci?

«L'idea di gestire un centro sportivo come questo mi ha reso felice. Dopo lo tsunami pandemico molti hanno mutato il proprio stile di vita e di fare sport. Il circolo è vita d'insieme. Qui ci sono 6 campi da tennis, 6 da padel, due palestre, una spa, una grande piscina e, ovviamente, un ristorante». 

Ti conosciamo come uno chef attento: voto a questo ristorante?

«Alto. Ma un giorno ti faccio io un'amatriciana da premio Oscar». 

Le Finals di Torino senza Nadal e Federer: chi le vince?

«Djokovic, è lui lo strafavorito. Ieri ha fatto secco Ruud». 

Con Berrettini la fortuna è stata cieca e la sfiga ci ha visto benissimo...

«In questo tennis esasperato sono inconvenienti che capitano. Il corpo è sollecitato oltre misura e può risponderti anche così. In malo modo». 

Dopo tanti anni di dittatura del trio Federer-Nadal-Djokovic, è scattata finalmente l'ora della Next Gen?

«Se non vince Nole, evento difficile, dico Medvedev o Tsitsipas. Ma non sono più bambini». 

E Alcaraz? E Sinner?

«Sono il futuro prossimo del tennis. Devono studiare bene il copione». 

Federer, Nadal e Djokovic: 60 Slam in tre. Il tuo podio?

«Domanda capziosa. Mi salvo dicendo che Roger è quello che gioca meglio a tennis». Perché Roger è, per tutti, il re?

«Un aneddoto: anni fa siamo al ristorante, era il n.1 e gli mancava solo di vincere il Roland Garros. Diventa serio e mi fa con enorme umiltà: Adriano, non sai quanto mi piacerebbe aver vinto come te a Parigi. E io: Roger, facciamo cambio, basta che tu mi dai tre o quattro dei tuoi Wimbledon». 

Wimbledon stregato per te: nel 1979 vai fuori ai quarti contro Du Pré dopo un match incredibile.

«Non avevamo detto di restare nel presente?».

Quando si hanno 70 anni e oltre, di cosa non se ne può più?

«Di giornalisti che ti chiedono della Coppa Davis in Cile o della beffa a Wimbledon nel 1979». 

Vogliamo rammentare che sei stato campione mondiale di off-shore mentre tutti ti ricordano come il più grande tennista italiano?

«Sssst, ti sentisse Pietrangeli... Vero, ho gareggiato tanti anni in motonautica, ho vinto il mondiale classe Evolution nel 1991 e ho il record di velocità. Ma pochi lo ricordano». 

Una curiosità: Adriano Panatta ha mai fatto figuracce nella sua vita esemplare?

«Una epocale con Mina. Erano tempi in cui mi squillava sempre il cellulare. Un giorno, a Forte dei Marmi, l'ennesimo esasperante trillo: ciao Adriano, sono Mina. E io: sì, e io sono Ornella Vanoni... Le chiusi il telefono in faccia».

Ci racconti di quel meraviglioso doppio Panatta-Villaggio contro Pietrangeli-Gassman? «Vittorio voleva vincere a tutti i costi, era un agonista pazzesco, un ex azzurro di basket. Di Paolo amavo il lato comico, grottesco e cinico. Però non ricordo chi vinse quel doppio». 

Vero che Tognazzi ti fece sfumare un torneo?

«Ugo e Villaggio mi telefonarono prima di un match decisivo a Montecarlo: Adriano, ceniamo insieme alle 20 così vai a letto presto. Arrivarono a mezzanotte! Mangiammo all'una, poi ho passato la notte a soccorrere Ugo che vomitava nelle aiuole del Casinò. Il giorno dopo Vilas mi ha massacrato».

Il tuo amico Borg ha rovinato per davvero il tennis?

«Glielo dicevo per farlo arrabbiare. Lui controbatteva: tu, Adriano, dovresti sfruttare meglio il tuo gioco... E io: scherzi? Per diventare uno come te?».

Come si può far rifiorire la poesia nel tennis? Il metodo "pof... pof" che hai decantato in quel celebre cameo?

«Oggi è impossibile. Tutto cambiato. E poi il metodo pof è una filosofia esistenziale. Ma tu non puoi capi'...». 

Ultima pallina: il giorno che vinse il Nobel, Albert Camus disse: "Ho il Nobel ma anche una strana sensazione di malinconia...". Vero che l'hai provata anche tu, dopo il trionfo al Roland Garros 1976?

«È così. La felicità evapora in un attimo. E la vita è adesso».

Game, set, match.

Antonella Piperno per agi.it l'8 novembre 2021. “Le Finals le vincerà chi si presenterà a Torino con meno acciacchi. I tennisti di oggi giocano troppo, hanno la frenesia di essere ovunque e il Master è un torneo complicato proprio perché arriva a fine stagione”. Che il tour de force del Masters o Finals che dir si voglia imponga un fisico bestiale Adriano Panatta, primo italiano a giocarne uno, a Stoccolma nel lontano 1975, l’ha sperimentato di persona.

Fu per colpa di “un fastidioso problema fisico”, racconta all’AGI, se non agguantò neanche una vittoria in quel Masters dove approdò dopo una stagione non memorabile, ma culminata con uno strepitoso trionfo proprio nell’Open di Stoccolma, in finale contro l’allora numero uno del mondo Jimmy Connors che lo qualificò tra i magnifici otto. 

Può essere più esplicito o è violazione della privacy?

“Avevo le emorroidi, ebbi un attacco fulminante proprio all’inizio del Masters. Stavo davvero male, mi alzavo dal letto soltanto per andare in campo, mi mettevano in piedi a colpi di punture, ma soffrivo. Giocavo per modo di dire e rimediai tre sconfitte nel girone, contro Manolo Orantes, Arthur Ashe e Ilie Nastase, che poi vinse il torneo volta battendo in finale Borg”. 

Con quel problema fastidioso i campioni di oggi alzerebbero probabilmente bandiera bianca, perché lei non si ritirò?

“Perché volevo comunque esserci, era tanta la contentezza per essermi qualificato”. 

Il 1975 era l’anno prima della sua sontuosa annata, quella del triplete Internazionali d’Italia-Roland Garros-Coppa Davis, quando invece stranamente non si qualificò al Masters…

“Ancora oggi non capisco perché non ottenni i punti per qualificarmi al Masters del ’76, è vero che giocai meno tornei perché quello fu l’anno della Coppa Davis vinta in Cile e mi ci dedicai molto, forse oggi è più semplice qualificarsi…”.

Sconfitte e sofferenze fisiche a parte che sensazione le diede il suo primo e unico Masters?

“A Stoccolma c’era l’atmosfera di un momento tennistico prestigioso che non scalfiva però il cameratismo e la voglia di ridere e scherzare di quel gruppo di eletti (nel secondo girone si diedero battaglia Guillermo Vilas, Raul Ramirez e Harold Solomon).

Più forti i baciati dal dio del tennis di quei ruggenti anni Settanta o Djokovic, Medvedev and Co.?

“Ora è tutto diverso, a partire dai materiali, ma sicuramente noi ci divertivamo di più tra di noi, oggi i tennisti vivono solo con i loro team, coach, fisioterapisti, nutrizionisti…”. 

Tra i tennisti che oggi sembrano divertirsi in campo ce n’è uno, l’americano Frances Tiafoe, non qualificato per Torino ma che con il Masters qualche collegamento ce l’ha essendo stato definito un Nastase 2.0 dopo il suo show in campo a Vienna, ai danni del nostro Sinner.

“Ma meno male che esistono ancora giocatori come Tiafoe, e comunque in confronto a Nastase Tiafoe è un chierichetto. Il clamoroso strappo di Ashe contro Nastase, quando Arthur esasperato prese la sacca e abbandonò il campo, fu al Master di Stoccolma del ’75. Ilie in campo era terribile, ho litigato con lui in ogni nostro match, sono arrivato a minacciarlo di morte. Una volta usciti dal campo però tornavamo grandi amici”.

Ma insomma, chi vincerà a Torino?

“Djokovic resta ancora un giocatore di un altro pianeta, e anche Medvedev, fattore estetico a parte, gioca un pochino meglio degli altri. Ma possono vincere davvero tutti, Berrettini compreso naturalmente. Dipenderà da come staranno fisicamente”.

Stefano Semeraro per "Specchio - la Stampa" il 21 settembre 2021.«Sbam! sbam! sbam!». Poi l'inevitabile crash, con la telecamera che zooma sul telaio accartocciato. Il tennista che rompe la racchetta, il suo prezioso strumento di gioco, il mezzo che ha scelto per raggiungere i sogni, è una story-board da fumetto già vista mille volte, ma con infinite variazioni. L'ultima, in senso cronologico, ce l'ha mostrata Novak Djokovic a New York, all'inizio del secondo set contro Daniil Medvedev. Tre spallate sul cemento, nessuna pietà. La furia di chi punisce lo strumento per colpire se stesso. Non funzioni? Mi distruggo. C'è sempre un tratto di masochismo, in quei gesti plateali. Lo ha reso evidente una volta per tutti Mikahil Youzhny, quando invece di picchiare la racchetta contro il terreno se l'è sbattuta in fronte, chiamando il sangue a testimone dei misfatti di entrambi. A volte serve, a volte no. «Invece di dare un pugno a qualcuno, spacchi la racchetta». Marcos Baghdatis il transfert emotivo lo spiega così. Cosa c'è di male, in fondo? Perché farne una tragedia? Marcos, ex top ten cipriota, finalista agli Australian Open del 2006, è autore dell'episodio più famoso della storia. Il più surreale. A Melbourne, nel 2012, durante il match di secondo turno contro Stan Wawrinka, si siede al cambio campo, spacca la racchetta che sta usando e la porge al raccattapalle. Poi ne estrae una dal borsone, ancora incellofanata, e distrugge anche quella. Poi un'altra, e un'altra ancora. Quattro, in 25 secondi. Record mondiale - è il caso di dirlo - frantumato, e boato della folla. «Il bello è che gli spettatori mi incoraggiavano», confessa qualche tempo dopo. « Ridevano, ridevo anch' io, insomma non me ne fregava nulla. Ho anche mostrato la racchetta a mia figlia. Ha quattro anni, e ha già iniziato a spaccarle anche lei. Se non ci sono altri che lo fanno è solo perché hanno paura dell'Atp». Un coming out che inorridirebbe Rafa Nadal, il campione che in carriera non ha mai torto una corda ad una delle sue Babolat. «Me lo spiegò mio Zio Toni quando ero ragazzino: una racchetta da tennis costa molti soldi, c'è chi vorrebbe possederne una ma non può permettersela. Spaccarla è un insulto alla povertà». A parte il lato morale e il costo vivo del telaio, accanirsi sulle fibre di carbonio procura una multa: 500 dollari se lo fai nel tabellone principale, 200 nelle qualificazioni. Poi c'è il combinato disposto con altre trasgressioni: Nick Kyrgios, il re dei bad boys del tennis, a Wimbledon nel 2019 ha dovuto firmare un assegno da 113 mila dollari per «abuso di racchetta» - è il termine burocratico del regolamento Atp - sommato a «udibile oscenità» e «condotta antisportiva». E dire che la Yonex, la marca che gli fornisce le racchette, già nel 2016, stufa di raccogliere cocci in giro, aveva iniziato a chiedere un risarcimento ai propri testimonial più iracondi. Kyrgios e Baghdatis non sono però un'eccezione. Tutti, tranne Nadal e Federer - che comunque da cucciolo di Wilson ne ha demolite parecchie, e una almeno da pro, nel 2009 a Miami contro Djokovic- prima o poi ci cascano. McEnroe si è dedicato alla specialità fino a età avanzata - e oggi il relitto di una sua Dunlop può valere fino a 20mila euro - i suoi nipotini non si tirano indietro. «Qualche racchetta in effetti l'ho rotta, nella mia carriera», ammette candido il Fogna, al secolo Fabio Fognini. Il suo «doppio» francese Benoit Paire recentemente ne ha demolite due in un colpo solo, Andy Murray, Ernests Gulbis o Grigor Dimitrov non si sono mai risparmiati. Persino Serena Williams è una peccatrice seriale. «Da giovane avevo l'abitudine di rompere parecchie racchette, anche in allenamento, perché aiuta a superare la frustrazione», ammette la Pantera, un filo contrita. «Non mi metterò a fare la predica, visto che io stessa l'ho fatto tante volte, ma non è il modo migliorare di sfogare la tua rabbia». Se probabilmente nessuno ha la velocità di esecuzione di Baghdatis, ci sono altri campioni capaci di esplorare dimensioni ulteriori. Goran Ivanisevic, ad esempio, ha raggiunto un vertice inedito, poco invidiabile e ancora oggi inimitato: la squalifica per mancanza di racchette. Capita a Brighton, nel 2000. Goran dal numero 2 è precipitato al 136 della classifica per colpa di un infortunio alla spalla e sta cercando di risalire la corrente. Al secondo turno del Samsung Open, torneo indoor balneare e decisamente minore, si trova davanti il coreano Hyung-Taik Lee. Sul 5 pari del primo set Goran perde il servizio, e per la rabbia spacca la prima racchetta. Si becca un warning ma, dopo aver vinto il secondo set, nel terzo persevera, spaccandone un'altra sull'1-1. Secondo warning. Va sotto 3-1, commette un doppio fallo e sul 15-40 è il terzo telaio che va in frantumi. Il problema, a questo punto, è che non ne ha un quarto nel borsone. «Quando me ne sono accorto, mi sono sentito un idiota. Mi sono rivolto al giudice di sedia, Gerry Armstrong. "Gerry, non ho più racchette". "Goran, cosa vuoi che ti dica?" mi ha risposto. "Non lo so, sei tu il giudice"». Anche il tentativo di di farsene prestare una da Ivan Ljubicic, che potrebbe recuperarla in tutta fretta negli spogliatoi entro i quattro minuti di tempo concessi, non funziona, perché Ivan usa una Slazenger che a Goran, testimonial Head, non piace. «Così», racconta Armstrong, «Sono risalito sul seggiolone e ho detto agli spettatori che il match non poteva continuare per "mancanza di adeguato equipaggiamento del signor Ivanisevic"». Un pessimo esempio. Una cosa che non si fa. Goran la pensa diversamente. «Non ho mai capito chi ha problemi con i tennisti che rompono le racchette. Lo fai, e la gente inizia a fischiarti. Ma, numero uno, la racchetta è mia. Numero due, la rompo quando voglio. Se hai un talento come il mio puoi riuscirci su quasi tutte le superfici. Io potrei spaccarne una persino sull'acqua. L'unico errore che non devi fare è pensarci troppo su dopo». E, aggiungiamo, perdere il conto di quante ne hai spaccate. Difficile stabilire chi sia stato, nella storia, il più prolifico distruttore. Un candidato autorevole, insieme con Ivanisevic, è l'ex numero 1 Marat Safin, l'unico di cui possediamo una statistica affidabile. Qualcuno gli attribuisce 48 demolizioni nel solo 1999 ma il dato a fine carriera è ufficiale: «In totale ho spaccato 1.055 telai», svela con una nota di malcelato orgoglio il magnifico dissipatore. «Lo so perché la Head mi ha regalato una targa con il numero esatto». Il più elegante, fra tutti i frantumatori, è invece Stan Wawrinka. Durante un match con Paolo Lorenzi ha fratturato la sua Yonex facendo perno sul ginocchio, con ortopedica freddezza. Poi ha delicatamente consegnato il rottame ad un bambino, che lo ha ricompensato con il più entusiasta dei sorrisi. Da maleducato a eroe di giornata nel tempo di un "crac".

Da "Specchio - la Stampa" il 21 settembre 2021. John McEnroe, 62 anni e numero 1 del mondo per quattro anni consecutivi dal 1981 al 1984, si è dedicato alla specialità fino a età avanzata. E oggi il relitto di una sua Dunlop può valere fino a 20mila euro. Famoso per esssere irascibile, nel 1981 a Wimbledon (l'anno del suo primo titolo) McEnroe dopo un suo ace chiamato fuori, urlò all'arbitro di sedia la famosa frase «You cannot be serious». L'All England Club non gli concesse il titolo di socio onorario dopo la sua prima vittoria. Tra i tennisti contemporanei, Nick Kyrgios, 26 anni, è di sicuro il giocatore più incontrollabile del circuito. A Wimbledon nel 2019 ha dovuto firmare un assegno da 113 mila dollari per «abuso di racchetta» - è il termine burocratico del regolamento Atp - sommato a «udibile oscenità» e «condotta antisportiva». La Yonex, la marca che gli fornisce le racchette, già nel 2016, stufa di raccogliere cocci in giro, aveva iniziato a chiedere un risarcimento ai propri testimonial più iracondi. «Qualche racchetta in effetti l'ho rotta, nella mia carriera», ammette Fabio Fognini. Basterebbero due esempi per spiegare il comportamento non senpre irreprensibile del tennista azzurro. Nell'ultima edizione degli Internazionali d'Italia durante l'incontro, poi perso, con Nishikori, Fogna spazza la racchetta e poi sbotta: «Non devo giocare a tennis, devo sciare». Molto simile la sceneggiata fatta al torneo di Barcellona e nel 2020 a Parigi durante il Roland Garros. Anche i numeri 1 perdono la calma e quando lo fanno se la prendono con l'oggetto che più hanno vicino a loro: la racchetta. L'ultima volta che è successo, in senso cronologico, ce l'ha mostrata Novak Djokovic a New York, all'inizio del secondo set contro Daniil Medvedev. Tre spallate sul cemento, nessuna pietà. Raro vedere Djokovic così nervoso, ma è stato un anno particolare tanto che il serbo ha avuto la stessa reazione ai Giochi di Tokyo quando durante la finale (persa) con Zverev ha distrutto un'altra racchetta.

Emma Raducanu. La 18enne nata in Canada. Chi è Emma Raducanu, la tennista britannica che ha vinto gli US Open. Vito Califano su Il Riformista il 12 Settembre 2021. La tennista britannica di 18 anni Emma Raducanu ha vinto gli Us Open femminili. Un trionfo da record: non aveva mai giocato un main draw del circuito maggiore prima di Wimbledon, era fuori dalle prime 300, e al secondo Slam ha sorpreso. Ha superato Leyla Fernandez nella finale più giovane dallo Us Open dal 1999. 6-4, 6-3. Raducanu ha vinto senza perdere un set tra qualificazioni e main draw. È nata in Canada da padre rumeno e madre cinese. Quando aveva due anni la sua famiglia si trasferì nel Regno Unito. È diventata la prima giocatrice di tennis, sia maschile che femminile, a vincere un titolo del Grande Slam partendo dalle qualificazioni. È anche la tennista più giovane a vincere un torneo del Grande Slam dopo la russa Maria Sharapova, che aveva vinto il torneo di Wimbledon a 17 anni nel 2004. È inoltre la prima tennista britannica a vincere un torneo del Grande Slam dopo Virginia Wade nel 1977. Raducanu non ha perso neanche un set in tutte le partite giocate. L’ultima a riuscirci era stata la statunitense Serena Williams nel 2014. Questa edizione passerà alla storia perché la finale tra Raducanu e Fernandez era la prima in un Grande Slam giocata da due tenniste con meno di 20 anni dal 1999, quando agli Us Open la 17enne Serena Williams sconfisse la 19enne Martina Hingis. Raducanu ha ringraziato il team, la federazione inglese, il suo agente e il pubblico. “Oggi il livello in finale è stato molto alto, spero che ci incontreremo ancora in tanti tornei e speriamo in tante altre finali – ha detto la britannica – Questa finale mostra il futuro del tennis femminile. Dimostra anche che la profondità di questo sport è grandissima, ogni giocatrice in tabellone ha una possibilità di vincere il titolo in ogni torneo. Spero che la prossima generazione possa seguire le orme di leggende come Billie Jean King che è qui”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Nicola Pietrangeli: «Non so ancora perché è finita con Licia Colò. Presentai io Fenech a Montezemolo. La mia notte con la Coppa Davis e il gatto». Gaia Piccardi su Il Corriere della Sera il 7 settembre 2021. Il più grande tennista italiano si confessa: «Con Licia Colò non so perché è finita. Io e Edwige eravamo a cena assieme. La difesa del viaggio in Cile per la Coppa Davis è una delle cose di cui vado più fiero» 

Spaghettino al dente, pomodoro e peperoncino, affacciato sul campo-gioiello del Foro Italico che porta il suo nome. Sabato il più grande tennista italiano di tutti i tempi (aspettando Matteo Berrettini e Jannik Sinner) compie 88 anni.

Nicola Pietrangeli, sono quasi diciotto lustri. Leggeri o pesanti, da reggere sulle spalle?

«Pesanti. Comincio a pensarci troppo».

A cosa?

«A quello che c’è dopo».

Cosa s’immagina?

«Non voglio saperlo. E se proprio dovrò continuare a fare sport anche nell’aldilà, al campo da tennis preferirei un prato per giocare a pallone».

Vecchio cuore laziale.

«Tre anni nelle giovanili, tutte le mattine stavo da Maestrelli a Tor di Quinto. Ma il pallone non è un rimpianto: il tennis mi dava più libertà, viaggi, bella vita».

Pietrangeli e lo stipendio azzerato: «Trattato senza rispetto»

Pochi soldi, però.

«Quest’anno chi ha vinto a Parigi ha preso 1.400.000 euro. A me nel ‘59 e nel ‘60 diedero 150 dollari e una coppetta grande come un bicchiere. Sono nato nell’epoca sbagliata. Però ai miei tempi bisognava anche saper giocare a tennis...».

Oggi non più?

«Sono macchine, li vede? Mi alzo in piedi solo per Roger Federer e Martina Navratilova».

E gli eredi, Berrettini e Sinner?

«Servizi mostruosi, violenza inaudita. Bravissimi, per carità. Ma noi giocavamo anche per il pubblico, ai campioni moderni non gliene frega niente. Ogni palla vale 50 mila dollari, pensano solo a se stessi».

Pietrangeli è Pietrangeli, però.

«I giovani non hanno memoria, sono ignoranti. Ho vinto 44 tornei e quattro titoli del Grande Slam su sette finali, tra singolare, doppio e misto. Matteo in finale a Wimbledon ha battuto il mio record dopo 61 anni: forse non era così facile arrivarci!».

Partiamo dall’inizio, Nicola. Perché i suoi nonni emigrarono in Tunisia?

«Emigrò nonno Michele, che era di un paesello vicino a L’Aquila. Un giorno, di colpo, prende una nave e sbarca a Tunisi per fare il muratore. Si compra una carriola, due carriole, un cavallo, diventa costruttore. A Fiuggi conosce una signora napoletana, la sposa. In Nordafrica fanno cinque figli, tra cui Giulio, mio padre. Quando nasco io, papà non ha ancora sposato Anna De Yourgaince, scappata dalla guerra di Russia e già sposata con un conte. Lo sanno in pochi ma io sul passaporto sono Nicola Chirinsky Pietrangeli. Madrelingua francese e russo. Quando sono arrivato a Roma non parlavo una parola d’italiano».

L’ha studiato?

«Mai. L’ho appreso parlandolo. A vent’anni mandai una lettera d’amore a un filarino dell’epoca. Ti amo, robba da matti, scrissi. E lei: basta una b sola. Che figura...».

Torniamo in Tunisia, protettorato francese. Arriva la guerra. Che ne è dei Pietrangeli?

«Ci salviamo dai bombardamenti, con l’occupazione alleata papà è internato in un campo di prigionia alla frontiera con la Libia. Con mamma andiamo a trovarlo una volta al mese. C’è un campo da tennis, io e mio padre ci iscriviamo al torneo di doppio. Vinciamo. Un pettine ricavato dalle schegge di una bomba è il primo premio della mia carriera».

Perché a 18 anni, tra Francia e Italia, ha scelto il passaporto italiano?

«Stavo qui, già vincevo a tennis, mi trovavo bene. Mai pensato di diventare francese, giuro».

Ha avuto più donne o match point, Nicola?

«In vita mia, ho amato quattro volte: Susanna, la madre dei miei tre figli, Lorenza, che mi ha lasciato perché non la sposavo, Licia, con cui ancora non ho capito perché è finita, e Paola, 60 anni, con cui ci frequentiamo. Non vorrei passare per maschilista ma vestito di bianco, sullo sfondo rosso o verde di un campo, facevo la mia figura...».

Una donna che non ha avuto?

«In un periodo in cui ero libero, e lei era libera, sono uscito con Edwige Fenech. La porto a cena, al tavolo accanto c’è Luca di Montezemolo, glielo presento. Mi sono dato la zappa sui piedi da solo ma che facevo, finta di non conoscerlo?».

Dove tiene le coppe e i trofei di una vita?

«A Casal Palocco, in campagna, dove vivevo con Licia, entrarono i ladri e rubarono tutto. Ma molto mi rimane nella casa di Roma: targhe, collari, la replica della Coppa Davis».

La mitica vittoria del ‘76, da capitano, nel Cile di Pinochet.

«La difesa del viaggio a Santiago per giocare la finale è la cosa di cui vado più fiero, l’unica che non sono disposto a dividere con nessuno, perché di quel trionfo hanno cercato di impossessarsi in troppi. Il merito sportivo è solo dei tennisti, ma a giocare laggiù li portai io. Contro tutto e tutti. Mi rifiutai di regalare la coppa a Pinochet. Con Panatta, Barazzutti, Bertolucci e Zugarelli partimmo scortati dalla polizia, le minacce di morte non le scordo. Capisce perché non posso avere simpatia per la sinistra?».

La notte a letto con la Davis la ripagò delle amarezze?

«Tornati dal Cile, partecipammo a una festa alla Canottieri Roma, alla presenza del presidente del Consiglio Giulio Andreotti. Alla fine, non era stato previsto che la coppa venisse riconsegnata al caveau della banca: nel panico generale la portai a casa io e ci dormii abbracciato. A letto, a dire la verità, eravamo tre: io, la Davis e il gatto».

Chi è il più forte tennista di tutti i tempi?

«Nessun dubbio: Roger Federer».

Il più forte che lei abbia mai sfidato?

«Rod Laver. Anche se Lew Hoad, sulla partita secca, era formidabile».

E Djokovic dove si colloca?

«Non supererà Federer, neanche se realizzasse il Grande Slam. Diciamo che è un grande che non sarà mai il più grande».

Un amico che le è rimasto dal tennis?

«Manolo Santana. Ha cinque anni meno di me ma non parla più, che tristezza».

E Orlando Sirola, compagno di mille doppi, cos’era?

«Un fratello».

Panatta è un figlioccio, un amico, un rivale o un collega?

«Quando Ascenzio Panatta, custode del Tc Parioli, venne a dirmi che era nato il figlio Adriano, lo ribattezzai Ascenzietto. Lo conosco da quando era in culla. Nel 1968, ai campionati italiani, mi trovo di fronte questo giovinastro che mi ammazza di smorzate. A regazzì, gli dico al cambio di campo, le palle corte le ho inventate io. Vinco. A rete il ragazzino mi fa: la saluta tanto papà Ascenzio. Era Adriano».

Nicola come s’immagina l’ultimo game di questa strepitosa partita?

«Il mio funerale si terrà sul campo Pietrangeli, al Foro Italico. Sa perché? Perché si trova facilmente posteggio. Due preti, cristiano e ortodosso: sono russo, ricorda? Musica di Barry White e Frank Sinatra, che conobbi al torneo di Indian Wells. E se piove, si rimanda tutto al giorno dopo. Non vorrei che le signore si bagnassero le scarpe».

Daniil Medvedev. DA ilnapolista.it il 13 settembre 2021. Il giochino, ora che non c’è più bisogno di googlarlo perché ha vinto gli Us Open (ed era pur sempre già il numero due al mondo), è mettere Medvedev nel traduttore dal russo, e vedere l’effetto che fa: “orso”. Che a suo modo è cognome, sostantivo e pure aggettivo d’un tennista che ha trionfato ma vive nell’ombra d’un oltraggio: ha tolto a Djokovic il Grand Slam, gli ha strappato dal cuore la leggenda, ha ridotto in lacrime quel che la letteratura tennistica raccontava come un cyborg. Ha vinto e tutti fanno finta quasi di no. Perché non può essere che “quello tutto storto” sia così forte. Medvedev, tocca farci i conti, è un campione sgradevole. Per conformazione fisica e metodologia tecnica si presta a mortificazioni varie: ognuno ci vede quel che vuole, e in genere non sono complimenti. Esempio: Gaia Piccardi sul Corriere della sera lo descrive come “un moscovita dal tennis sghembo e imprevedibile, che pare uscito dalle pagine della grande letteratura russa: un Oblomov meno accidioso, ma ugualmente flemmatico”. I suoi colleghi, pure, fino a poco tempo faticavano a farsene un’idea, erano spiazzati: Nishikori diceva che “gioca in un modo completamente diverso rispetto agli altri, il suo stile è davvero strano. Ti mette a disagio“; per Tsitsipas “ha un gioco molto strano. È davvero sciatto, ma una sciatteria… buona. Può essere disturbante giocare contro di lui: ti fa sbagliare senza che tu abbia capito perché hai sbagliato”. Lui stesso non si piace granché: “Quando vedo i miei video mi capita di dire “Ma cosa sto facendo?!”. Visto che tutti i media prima della finale di New York l’hanno presentato frettolosamente come il re degli scacchi perché gioca a scacchi (“in realtà poi perdo”, ha detto lui) val la pena di approfondire meglio questa figura trasversale del tennis: non è elegante, non è particolarmente ardimentoso, non è stiloso ma nemmeno noioso; non è bello, ed è antipatico. E – di nuovo – è tutto storto. Il che, oltre un certo livello, in questo tennis tutto conforme, diventa il suo asso nella manica. Efficace, ecco. Medvedev è la definizione stessa di efficacia. E’ alto come un’ala del basket ma è filiforme al limite della malnutrizione. Con la postura incurvata in avanti, i capelli effetto riporto impiegatizio, l’andatura dinoccolata. E’ disordinato, trasandato, snodato, scomposto. Ma tutta questa è percezione. Il campo dice un’altra cosa. L’ortodossia è una perversione che lascia agli altri. Il dritto ha una preparazione asimmetrica, colpisce con impugnatura eastern, sembra sempre una frazione di secondo in ritardo. In realtà poi centra la palla con poco spin, quasi piatto e buca campo e traiettorie: rimbalzi bassi e veloci, asfissianti. Il rovescio bimane invece è da manuale, incisivo, veloce, pulito, con più soluzioni. Ha una battuta missilistica diretta derivazione della statura, che allena per sottrazione: “Faccio come se dovessi sempre annullare un match point con la seconda”. Se non ti divora l’ansia, alla lunga funziona. A meno che il pubblico non decida di fischiarti durante il servizio, e a quel punto non c’è tana delle tigri che tenga: due doppi falli di fila, che per poco non mandavano a ramengo l’impresa. Lì invece è intervenuta la testa. Medvedev non è il pezzo di ghiaccio che a New York ha spezzato Djokovic nella tensione. Anzi. Ad inizio carriera dichiarava di volere essere il nuovo Safin, mentre gli altri lo ammiravano con dichiarato distacco: chi è quel tipo lunatico e inelegante? E’ stato forse il primo a lamentarsi delle pause bagno tattiche di Tsitsipas, prima che divenissero tema di dibattito regolamentare. Lui glielo rinfacciò direttamente in campo: «Meglio che tu chiuda quella cazzo di bocca. Stefanos, vuoi guardarmi? Non parli? Te ne vai in bagno per 5 minuti, e poi non chiedi scusa per un net. Pensi di essere uno bravo?». A Wimbledon aveva perso contro Bemelmans e s’era messo a lanciare monetine all’arbitro. E una volta, al Challenge di Savannah, si trovò a protestare contro Donald Young puntando il dito verso un giudice di linea di colore: “Lo so che siete amici voi due…”. Con una sobria allusione al colore della pelle. A New York lo odiano ancora perché nel 2019, in campo contro Feliciano Lopez, se la prese con un raccattapalle strappandogli l’asciugamani: il pubblicò fischiò e lui rispose col dito medio. Curiosità: il giudice di sedia era Damien Dumusois, lo stesso arbitro travolto dal pubblico buzzurro nella finale di ieri. Essendo giocatore di scacchi, Medvedev ha registrato le informazioni e ha imparato la lezione: “Il campo da gioco non è il luogo per mostrare le emozioni, ma per dimostrare le proprie qualità”. Piano piano sta ruminando il suo tennis inedito. Non ha solo tolto a Djokovic l’immortalità statistica, non s’è solo preso il suo primo Slam, ha creato un suo stile. Brutto, complicato, anche infame. Con geometrie variabili, illusioni, schemi perfettamente aderenti all’unicità di quei movimenti sgraziati. Sta a suo modo rivoluzionando il tennis con una terza via, sterrata. Tutta storta.

Ernesto Branca per sportfair.it il 13 settembre 2021. Alla terza finale finalmente Daniil Medvedev è riuscito a rompere il ghiaccio, conquistato il primo Slam in carriera grazie al successo contro Novak Djokovic agli US Open. Una vittoria che non solo ha spezzato il sogno del serbo di completare il Grande Slam, ma che ha anche permesso al russo di vendicare la sconfitta subita nella finale degli Australian Open di inizio stagione. Un trionfo meritato per Medvedev, che ha pensato bene di festeggiare subito dopo il punto decisivo con un’esultanza particolare, copiata direttamente da FIFA. Lo ha rivelato proprio il russo in conferenza stampa, ammettendo di aver voluto celebrare in maniera iconica e particolare un successo così prestigioso. Stuzzicato sull’esultanza in conferenza stampa, Medvedev ha spiegato per filo e per segno come gli sia venuta in mente: “ero a Wimbledon e stavo giocando bene perché anche se non mi trovo bene sull’erba come sul cemento, comunque è una superficie che mi piace. Una notte non riuscivo a dormire, per 5-10 minuti continuavo ad avere pensieri assurdi come capita a tutti, e mi sono detto "se dovessi vincere il torneo contro Novak dovrei trovare un’esultanza, non posso non fare niente, sarebbe noioso, è quello che faccio sempre". Allora mi è venuto in mente FIFA, perché mi piace giocare con la PlayStation. C’è un’esultanza che si chiama ‘il pesce morto’, si vede molto spesso. Allora ho chiesto ai giocatori più giovani, e loro mi hanno detto che sarebbe stata una celebrazione leggendaria, e così l’ho fatta. Volevo rendere il momento speciale per le persone a cui voglio bene e per gli amici con cui gioco a FIFA. Dico la verità, non è facile farlo sul cemento, mi sono anche fatto un po’ male! Però sono contento di aver reso il momento leggendario per me stesso”. 

Fabio Fognini. Fabio Tonacci per “La Repubblica” il 22 luglio 2021. Le parole che non si sono detti sono come la cappa d'afa umida sopra Tokyo: innervosiscono e lasciano addosso una sensazione di malessere. Fabio Fognini sta ancora aspettando una telefonata da Matteo Berrettini. L'ha saputo dai giornali che il finalista di Wimbledon e suo compagno di doppio ai Giochi aveva dato forfait e non sarebbe venuto in Giappone. Decisione presa fuori tempo massimo, che ha impedito di trovare un sostituto. Un ritiro per due, quindi. Un peccato per tanti. Perché Fabio e Matteo sul cemento dell'Ariake Tennis Park, superficie veloce e campo indoor, erano tra i favoriti. «Non voglio commentare, altrimenti vado abbastanza sul polemico...», è la premessa (fragile) di Fognini. Lo raggiungiamo dopo l'allenamento mattutino. Ha appena pranzato alla mensa del Villaggio Olimpico. Il torneo comincia sabato.

Fognini, cosa non vuole commentare?

«La scelta di Matteo. La sua piccola decisione di dare forfait si ripercuote anche su di me, perché non potrò giocare il doppio. Con lui qui le chance di vedere l'Italia sul podio, anche nel singolare, sarebbero state più alte. Matteo sta vivendo un momento speciale, non c'è dubbio».

Ha avuto un risentimento alla coscia destra. Non è così?

«Non lo so, non lo so. Io non l'ho più sentito. Ho la mia opinione e la tengo per me». 

Non vi siete telefonati?

 «No, zero... comunque gli auguro di riprendersi presto». [...]

Lei è alla terza Olimpiade. Quali sensazioni prova?

«La verità? Sono un po' triste, perché non c'è il pubblico. Si farà fatica. Fa un caldo pazzesco. L'Ariake Tennis Park è molto bello: hanno fatto due centrali enormi, e non so quanti campetti di allenamento. Ma il vuoto sugli spalti resta, e non mi piace». 

Le autorità giapponesi sono state troppo severe?

«Non dico questo, organizzare un'Olimpiade durante la pandemia era complicato. Ogni giorno sentiamo dire che i casi aumentano e qui sono tutti preoccupati. I cittadini giapponesi neanche li volevano questi Giochi...». [...] 

Sua moglie Flavia Pennetta le ha dato qualche consiglio?

«Mi conosce, sa che io per la maglia della nazionale mi sono sempre squartato». [...] 

Non esattamente la filosofia di Jannik Sinner, che ha preferito un modesto torneo ad Atlanta.

«Sono decisioni personali, vanno rispettate. Ma non le condivido».

Il tennis italiano sta vivendo uno dei momenti migliori di sempre.

«E pensare che fino a 4-5 anni fa solo le donne erano competitive. Io ho tirato la carretta, ho tre-quattro giovani dietro di me che rimarranno in prima linea per molto tempo. Più siamo meglio è! È bello vedere che il tennis trionfa. Ora tocca alle donne riportarsi sulla scia lasciata da Flavia, Roberta (Vinci, ndr) e Sara (Errani, ndr) ». [...]

Matteo Berrettini. Federica Cocchi per gazzetta.it il 15 novembre 2021. Si presenta, con grande forza d'animo, in conferenza stampa. Un rito obbligato per i professionisti. Matteo Berrettini è letteralmente sotto un treno, fa fatica a parlare, la delusione è così forte che spezza le parole in gola: "Non aver potuto giocare questa sera è una cosa che mi uccide - dice trattenendo le lacrime sotto la visiera del cappellino -. Era un'atmosfera incredibile, una delle serate più belle sul campo che in un attimo si è trasformata nella serata più brutta, tennisticamente parlando, della mia vita". Nella gara della 1ª giornata del gruppo Rosso delle Atp Finals di tennis di Torino, Matteo Berrettini è costretto al ritiro per un problema muscolare agli addominali nel match contro Zverev. Ancora un infortunio, probabilmente ancora agli addominali obliqui che già lo avevano tradito all'Australian Open, poco prima di giocare gli ottavi contro Tsitsipas: "Il posto era simile, ma il dolore inferiore. Mi sono spaventato, non riuscivo a continuare. Non so ancora precisamente di cosa si tratta, non so di che entità sia l'infortunio. Spero che gli esami che farò domani possano tranquillizzarmi e spero di poter tornare in campo. Perché davvero non voglio perdermi quest'atmosfera, questa gente meravigliosa". Matteo non ha parlato di Sinner, suo possibile sostituto. È ancora incredulo, non vuole arrendersi all'evidenza. E poi, dopo le Finals ci sarebbe la Davis, dove si presentava da primo singolarista: "Non voglio pensarci - continua -, ora voglio concentrarmi su questo torneo. Un passo alla volta, non riesco ancora a capacitarmi di quello che mi è successo. Ancora un'infortunio. Non so chi mi sta portando via tutto questo, e non so perché". Tornerai Matteo, più forte di prima. 

Gaia Piccardi per “7” - corriere.it/sette/ il 13 novembre 2021. Dentro uno spogliatoio affacciato sul mare, dove la storia del tennis ha lavato via sotto la doccia la fatica di decenni di match impolverati di terra rossa, Matteo Berrettini racconta la sua. A 25 anni è necessariamente una storia incompleta, ancora tutta da scrivere. Però indizi e sensazioni conducono verso un esemplare di tennista che in Italia non avevamo mai avuto. Lo sparo del servizio che piove da un’altitudine di 196 centimetri, la quota d’alta montagna degli sportivi doc di ultima generazione. Il dritto che fa i buchi nel campo e scava la differenza con gli avversari. Una maturità ben oltre l’età anagrafica, imprinting felice di mamma Claudia e papà Luca, plasmata dai passaggi di crescita obbligati di una vita da globetrotter iniziata da bambino. Ma soprattutto l’impressione che Matteo, romano del Nuovo Salario fedelissimo alla trimurti Carlo Verdone/ Adriano Panatta/pasta alla gricia però non a Francesco Totti e alla Roma (colpa del nonno paterno di Firenze, Piero, tifoso viola), non perda mai di vista, ma proprio mai, nemmeno nei momenti di difficoltà o scoramento, la consapevolezza di essere un gran bravo ragazzo prima che un campione: «Sono contento che il vero Matteo stia uscendo e sia visibile, perché io sono un tipo che tende a tenersi tutto dentro. Far venire fuori chi sono è la mia nuova forza: prima viene l’uomo, poi il tennista». È l’umanità di questo gladiatore moderno e gentile, che sbarca sul palcoscenico delle Atp Finals e della Davis a Torino con due titoli stagionali (Belgrado sulla terra e il Queen’s sull’erba), una strepitosa finale a Wimbledon contro il mostruoso Djokovic 61 anni dopo l’ultimo italiano approdato in semifinale (Nicola Pietrangeli, correva il 1960) e il n.7 della classifica mondiale in valigia, il valore aggiunto di Berrettini, la qualità che nemmeno la barbetta per sembrare più adulto e cattivo riesce a celare. Su un playground di campioni inseguiti dai grandi marchi del lusso, chiamati ad esporsi per cause nobili che non sempre hanno l’ardire di abbracciare motu proprio (vedi la Nazionale di calcio all’Europeo), Matteo è il testimonial di un’italianità poliglotta e cosmopolita, è il romano a cui Roma - la città - non manca; forse non sarà l’esperienza religiosa che David Foster Wallace attribuiva alla luminosità dei colpi di Roger Federer ma sa essere, a suo modo, rassicurante. In campo, con una costanza di rendimento consolidata nelle ultime tre stagioni, e fuori. Il figlio che vorresti avere avuto, il fidanzato che sogni per tua figlia. «Vincenzo Santopadre, mio allenatore da quando avevo 14 anni, mi ha cresciuto in questo modo. Se sono così, è perché la mia famiglia è così. Il mental coach ha scoperto la mia anima prima di me, ma pian piano ci sto arrivando anch’io. Oltre ai dritti e ai rovesci, metto in campo chi sono. La vita vera è fuori dal tennis». Se Panatta l’ha battezzato («Tu da grande tirerai il servizio a duecento all’ora» pronosticò a baby Berrettini) e Verdone l’ha sorpreso facendosi trovare a bordo campo al Circolo Canottieri Aniene, la collega Ajla Tomljanovic è la donna che ama: «Ha un animo buono, direi addirittura puro, che ho scoperto per gradi. Per sua educazione e cultura, aveva messo su una scorza: mi ha intrigato partire alla ricerca, andare oltre. E quello che ho trovato mi ha colpito». Non è un caso che la prima finale Slam di Berrettini sia arrivata lo scorso luglio a Wimbledon, luogo di tradizioni, riti, simboli. L’ordine mentale di Matteo è ancorato a punti fissi e personalissime icone. Ed è da qui, dalla pulizia interiore che deve mettere in fila le mille combinazioni caotiche di un incontro di tennis, che cominciamo questo match. 

Matteo, si racconti attraverso i suoi oggetti e i suoi simboli.

«Il più importante è la rosa dei venti, il pendaglio che porto al collo, regalo di mia madre per un compleanno: è un ciondolo troppo lungo per giocarci, quando entro in campo lo appoggio sulla panchina, è un modo per portare la mia famiglia sempre con me. Mi ricorda da dove sono partito: i primi tornei, le prime trasferte, le prime gioie e delusioni. E poi i punti cardinali sono fondamentali: mi aiutano a non perdere la bussola. Tanto che me li sono tatuati sul bicipite insieme alla data di nascita di Jacopo, mio fratello, e a un portafortuna brasiliano, l’equivalente del nostro cornetto rosso. Me l’ha fatto conoscere nonna Lucia, la mamma di mamma, che vive a Roma ma è nata in Brasile». 

Collane e anelli come aggancio alla vita vera.

«Mi piacciono. La loro estetica mi appaga. L’anello a cui sono più legato me l’ha regalato Ajla, la mia ragazza australiana, tennista come me: ha valore anche perché dentro c’è incisa una data importante».

È un grande amore.

«È una storia importante, sì. Ero convinto che mi piacessero le bionde e mi ritrovo con una mora... Credo di essere in grado di amare in maniera forte, di essere intenso come in tutte le cose che faccio. Do tanto, chiedo altrettanto. Mi piace condividere, costruire il rapporto, cercare una profondità». 

Se le relazioni sono uno specchio riflesso, lei cosa vede in Ajla?

«La mia testardaggine. Io ho la capoccia dura, ma Ajla più di me, pazzesco... A un certo punto la relazione è diventata un testa a testa. Lì ti scontri, oppure molli qualcosa. Ecco, l’amore mi ha fatto diventare più paziente: correvo a perdifiato con il rischio di non godermi niente e ho rallentato, ho visto le cose con una prospettiva più ampia, ho lasciato evaporare un po’ della mia impulsività. Prima era tutto bianco o nero. Ho scoperto il grigio, e mi piace».

E lei cosa restituisce in cambio, di sé, ad Ajla?

«La mia presenza, spero. Per la vita che facciamo non ci vediamo molto, e quel poco va maneggiato con cura. Ajla era con me nella bolla anti Covid di Wimbledon dove, prima volta di un tennista italiano, sono arrivato in finale. Ma non ci sono solo Wimbledon, i bei tornei e le vacanze. Ci sono gli scontri, i momenti difficili. Prima li affrontavo con gravità, ora mi dico che se andiamo a mangiarci una pizza, magari, il nodo si scioglie prima». 

Ha mai avuto un amore sbagliato?

«È successo che mi abbia fatto stare male il fatto di non essere più innamorato: è bruttissimo spezzare il cuore a una ragazza. Scelta mia, ma sofferta». 

Tutti hanno un lato oscuro. Qual è il suo?

«Non credo di avere maschere spesse. Credo di essere quello che sembro. Ci sono stati dei momenti, in passato, in cui non mi sono piaciuto: uscivo troppo, ero single e mi divertivo, trascurando il tennis. In generale ho una buona considerazione di me stesso, certo potrei essere migliore. Una stupidaggine, che poi non lo è: mio fratello chiama tutti i giorni i miei genitori, io non lo faccio. Penso a mia madre e so quanto ci tiene. Non mi forzo, perché ne uscirebbe una telefonata innaturale. Però sono i miei, cazzarola, mi hanno dato tutto e io li amo immensamente. E falla, una telefonata in più, Mattè, mi dico. C’è stato un tempo in cui ho chiesto e preteso il mio spazio e a volte quello spazio diventa una distanza troppo larga. Colpa mia». 

Un pregio e un difetto.

«Sono impietoso con me stesso. Ma tanto, tanto, tanto. Faccio tutto io: mi rompo le palle da morire».

È il pregio o il difetto?

«Eh, bella domanda... Tenersi sotto pressione aiuta a migliorarsi però sono capace di non perdonarmi il minimo errore». 

Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa.

«Qui a Montecarlo, lo scorso aprile, rientravo da un lungo stop per uno strappo agli addominali. Ho giocato e perso, senza lottare come mi ero ripromesso. Per quattro giorni mi sono insultato a morte per non essere stato quello che avrei voluto. Vincenzo, il coach, mi diceva: tranquillo, Matteo, è normale. E io a darmi del coglione senza pietà. Però da questo atteggiamento è nata una stagione super: le vittorie, i quarti di finale a Parigi e New York, la finale a Wimbledon, le Atp Finals. La cosa bella è che, quando prendo una batosta, per quanto sia forte, reagisco positivamente. Rimbalzo quasi sempre all’insù

Ha nominato suo fratello Jacopo, più giovane di tre anni. Il Berrettini destinato a diventare un campione, da bambini, sembrava lui. Ha sensi di colpa?

«No, non mi pare. Se fossi numero due del mondo, l’unico tennista che vorrei davanti a me è Jacopo, una delle persone migliori che abbiano mai calpestato questo pianeta. Siamo cresciuti insieme, mi dispiaccio quando in questo ambiente c’è mancanza di sensibilità, quando la sua storia viene messa da parte, quando passano da lui per arrivare a me. Io sono fumino, impulsivo; lui è più morbido e riflessivo». 

Cosa la fa ridere alle lacrime?

«Verdone. Le sue facce. I dettagli. Il piedino nervoso in Maledetto il giorno che t’ho incontrato , quando manda una videocassetta alla moglie che lo ha lasciato facendo finta di avere un’altra donna, se la tira, fa il figo. Poi stoppa la telecamera e crolla miseramente. Come tutti noi uomini, quando facciamo i duri e invece vorremmo solo che quella brutta sensazione se ne andasse. Sono cresciuto con Verdone e De Sica, i suoi Cinepanettoni. Vacanze di Natale lo so a memoria».

Ha citato due romani doc. Lei è un romano sui generis , però.

«Lo ammetto. Tifo Fiorentina come il nonno, e non essere romanista o laziale, già questo, a Roma fa strano. A mia discolpa dico che me ne sono andato presto, le strade del tennis mi hanno portato in giro per il mondo, non vivo a Roma da molti anni. La città in sé non mi manca. È stupenda però non la riconosco più: se vedo una carta per terra, sbrocco. Roma si è lasciata troppo andare, e i romani con lei. Servirebbe più amor proprio, oltre che una miglior gestione. La plastica sulla strada del mare non è colpa del sindaco, ma di chi la butta». 

Quindi non si vede un domani, con una famiglia, a Roma.

«Non lo so. Io amo il caldo e gli inverni a Roma sono umidi. Non so nemmeno se mi vedo fisso in un posto. Mi piace che l’esistenza mi abbia portato in giro, che mi abbia costretto ad aprirmi al mondo, a cominciare dalla mia ragazza». 

Le dispiace che la scelta di lasciare Roma per Montecarlo sia stata criticata?

«Mi spiace che una scelta di carriera non sia stata capita. Non ho più legami professionali in Italia. Vivo undici mesi all’anno per tornei, ho deciso di trasferirmi in un posto dove posso allenarmi sempre all’aperto e dove vivono 15 dei migliori 20 tennisti del mondo. Non ho nulla da nascondere, sono sereno». 

Cosa la fa piangere, invece?

«I film drammatici, il messaggio che mi mandò l’anno scorso mia mamma per il compleanno: io ero in lockdown in Florida con Ajla e lei stava a Roma. Ho pianto per relazioni, rabbia, infortuni, delusione, gioia. Con un filino di alcol in corpo divento ancora più sentimentale! Nel 2019 avevo invitato alle Atp Finals, a cui mi ero qualificato all’ultimo dopo una stagione pazzesca, la famiglia e gli amici. Quando li ho visti al ristorante, tutti insieme, sono scoppiato in lacrime. Un bel momento». 

Cosa la fa infuriare?

«La violenza, di qualsiasi tipo. Se cogliessi in flagrante uno che lascia la cicca della sigaretta sulla spiaggia, potrei non rispondere di me». 

Il suo lato sex symbol è uscito con l’exploit a Wimbledon.

«A Indian Wells una tifosa mi fa: Matteo allenati senza maglietta, tanto fa caldo. Ho 25 anni, ci rido sopra. Ajla un po’ meno. Fa questo piccolo gesto, con la spalla che si avvicina all’orecchio, come se non gliene fregasse niente. Invece... Ma può stare tranquilla, lo sa». 

Il suo mental coach, Stefano Massari, dice di lei: Matteo è capace di scavare dentro di sé finché non trova il cielo. Qual è il suo cielo, Berrettini?

«Scavarmi dentro è una mia specialità. Scavandomi dentro sono diventato, partendo da zero, numero 7 del mondo. È così che trovo le motivazioni extra per fare un passo in più, migliorarmi, crescere. Ci credo veramente: prima o poi voglio alzare la coppa del primo posto di uno Slam, non del secondo».

Cercando il cielo, per strada ha incontrato la sua anima?

«Parlare con Stefano mi fa bene, i miei pensieri l’hanno colpito da subito. La mia profondità l’ha scoperta prima lui di me, io mi aiuto scribacchiando, fermando le riflessioni sul tablet: se sento un’emozione forte, tipo rivedere Ajla a un torneo dopo una lunga separazione, la devo mettere giù. Sorrido pensando a quanto ero naif e ingenuo». 

Jannik Sinner la incalza in classifica e ha 5 anni in meno di lei. L’avvicinamento del predestinato la preoccupa, in vista di un inevitabile derby?

«Non mi preoccupa, mi stimola. E mi dà forza. Con Jannik c’è un buon rapporto e una sana rivalità, che farà bene ad entrambi». 

È questa la vita che sognava da bambino?

«Sognavo di diventare un professionista del tennis, cioè uno che vive della sua passione. Quello che non avevo considerato è tutto ciò che il ruolo porta con sé».

A cosa si riferisce?

«Alla sensazione di essere sempre alla rincorsa delle cose. Lo sport professionistico ti costringe a vivere a trecento all’ora, senza casa, sempre in albergo o in campo: faccio tanto però, a volte, mi sento come se in mano non stringessi niente. A questo senso di vuoto intermittente no, non pensavo da bambino».

Qual è la sua idea di felicità su questa terra, Matteo?

«Stare bene con quello che ho. Da vecchio non credo che sarò il tipo nostalgico che passa le giornate a contare coppe e trofei. Lungo il percorso vedo una moglie, un figlio, una famiglia, una casa. Oggi lo sport ha il potere di rendere felici tante persone che mi circondano e io, spesso, sono felice se gli altri sono felici. Però poi mi ricordo il senso di pace che provo davanti al mare. E allora penso che la felicità sia un tramonto con Ajla e una birra in mano».

Paolo Rossi per “la Repubblica” il 28 agosto 2021. A New York sta per andare in scena la nuova puntata Slam dell'anno, e Matteo Berrettini si avvicina al palcoscenico dopo l'estate più bella e più pazza dello sport italiano. Il tennista romano è stato uno dei grandi protagonisti con la finale di Wimbledon. 

Matteo, lei dove si colloca nella hit parade di questa estate?

«Be', io so cosa ho fatto e quanto lavoro c'è alle spalle: non è avvenuto tutto in un giorno. Ma non mi piace parlare di me stesso. Mi sono emozionato guardando i ragazzi e le ragazze alle Olimpiadi: credo che Marcel Jacobs abbia fatto una delle più grandi imprese sportive di tutti i tempi. Sono gli appassionati a dover dire dove mettermi in classifica. Diciamo che il podio penso di meritarlo».

Voi eroi dello sport avete dato un bel messaggio all'Italia, in questo momento così difficile.

«Siamo un popolo che vive ancora di emozioni. Nonostante questo periodo terribile di cui anche lo sport ha risentito tanto, soprattutto per l'assenza del pubblico. Ma credo che questa estate siamo riusciti ad aprire un grande varco, al livello emozionale, e non vedo l'ora che questo momentaccio passi». 

Ogni bambino sogna di essere finalista a Wimbledon. Cosa si prova a viverlo in campo, quel sogno?

«Eh cercavo di non farmi travolgere dalle emozioni, volevo realizzare quanto stava succedendo. Ricordo la routine, il riscaldamento con Paolo Lorenzi. Mangiavo a fatica, lo stomaco chiuso per la tensione. Mi sforzavo di viverla come una cosa normale. Anche se, ovviamente, non c'era nulla di normale».

Rigiochiamo la finale con Djokovic: sotto 2-5 nel primo set, alla fine vinto 7-6. Poi il ritorno del serbo.

«Quella rimonta mi è costata un grande sforzo, sia fisico che mentale. All'inizio nessuno dei due ha giocato bene, anche lui era un po' teso. Ho subìto un break ma sono rimasto aggrappato al set. Poi, certo, sapevo che la partita sarebbe stata ancora lunga. In generale, ricordo la fatica di gestire le emozioni e le difficoltà tecniche e tattiche del match».

Dopo la sua finale, in serata, Italia-Inghilterra, a Wembley. Il ritorno a Roma, i presidenti Mattarella e Draghi, il tour sul bus con i calciatori.

«Che momenti! Wembley è stato bellissimo, anche perché con me c'erano la mia famiglia e il mio team. Avevo visto tutte le partite dell'Italia, ed essere alla finale, vivere i rigori, è stato bellissimo e inaspettato. La tensione della partita mi ha fatto quasi dimenticare quella che avevo appena vissuto io, poche ore prima. E poi, appunto, tutto il resto: dopo quei 2-3 giorni me ne sono serviti una decina per realizzare bene, apprezzarlo fino in fondo». 

Cosa le è rimasto dentro? Anche una cosa piccola o intima...

«La visita al Quirinale, il discorso fatto davanti al Presidente. Con me c'era Vincenzo Santopadre, il mio coach: quando ha capito che non avrebbe dovuto parlare ha sfoderato un gran sorriso, a me invece sono venuti i sudori freddi. Ma essere lì con Vincenzo e Giovanni Malagò, che fin dall'inizio ha creduto in me, come presidente del Circolo Aniene, mi ha fatto pensare al lungo percorso insieme, sin da quando ero ragazzino. Mio padre mi ha scritto di essersi commosso per il discorso che ho fatto. Mia nonna ovviamente in lacrime. Mi ricordo la grande scioltezza del premier Draghi, che ci ha accolto in maniera informale e ci ha fatto sentire a nostro agio, nonostante il cerimoniale».

Dopo Wimbledon lei è diventato molto popolare tra le ragazze.

«Ah ah ah. Sì, ho letto di un po' di interesse, e la cosa mi ha fatto piacere e anche un po' sorridere: mai avrei pensato che si scatenasse un'onda simile. Ma proposte indecenti no, ho letto qualcosa tipo un "prendimi a racchettate" ma ho preferito non approfondire». 

Quando c'è Matteo Berrettini non si vive di mezze misure, si vivono sempre emozioni forti.

«Ci ho pensato anche io e, insomma, credo di essere fatto così, è la mia vita. Non c'è mai una pausa emotiva, è sempre tutto molto intenso. Credo sia una cosa bella, comunque: sono passato da una grandissima gioia a una delusione. Ma il mio fisico mi ha mandato un segnale forte: saltare le Olimpiadi di Tokyo mi è dispiaciuto tanto, ma ancor di più leggere certe insinuazioni. Hanno detto che avrei finto un infortunio, una cattiveria che mi ha fatto stare più male della grandissima delusione di non aver potuto partecipare ai Giochi». 

Lei continua a scrivere pagine inedite per il tennis italiano.

«E questo mi spinge a volere ancora di più, cercando di rimanere sulla mia strada. A Parigi sono diventato il primo italiano a raggiungere gli ottavi di finale in tutti gli Slam. Ne sono orgoglioso perché ricordo quando, da piccolo, giocavo solo sulla terra rossa e il veloce non mi piaceva tanto. Ho saputo adattarmi e crescere su tutte le superfici: un grande risultato. E poi sono e resterò il primo finalista italiano di Wimbledon, cosa che mi rende davvero orgoglioso. Perché nel nostro Paese il tennis non è il calcio, ma ha la sua storia importante, piena di tradizione e di campioni nel passato».

E ora New York, gli Us Open: senza Federer e Nadal, solo voi giovani leoni potete impedire a Djokovic il Grande Slam.

«Io gioco per me stesso, non per evitare che qualcuno faccia il Grande Slam. Novak sta scrivendo la storia del nostro sport e se centrasse lo Slam, realizzerebbe l'impresa sportiva dell'anno, per tutti gli sport e a tutti i livelli. Ma non sarà così facile, con Zverev, Medvedev, Tsitsipas. Sicuramente è il grande favorito. Il tabellone ci fa incrociare nei quarti? Però bisogna prima arrivarci». 

Nonostante tutto, la sua estate è stata di basso profilo: altri avrebbero usato molto di più la passerella e il palcoscenico.

 «Mah, per me sono apparso anche tanto. Io sono un ragazzo tranquillo, che non che non vive di movida e di media. Certo, la fama fa piacere, ma non la ricerco. Poi, dopo l'infortunio non ero al massimo, quindi mi sono riposato, ma sempre concentrato per tornare a giocare il prima possibile». 

Dopo un Wimbledon così, non c'è un rischio appagamento?

«Appagamento è una parola che non mi appartiene. Io vengo da lontano: uno dei miei obiettivi, quando ho iniziato a giocare, era entrare nei Top 100. Quindi sarei già dovuto essere appagato da un pezzo. Invece ho sempre chiesto di più a me stesso, perché so che ogni grande risultato potrebbe essere l'ultimo. Ci vuole tanto impegno e tanta volontà per confermarsi. Quindi, per rispondere: non sono appagato e ho sempre voglia di migliorarmi. Però, allo stesso tempo, ho anche imparato ad apprezzare quello che faccio, non dando nulla per scontato: il tennis è uno sport complicato, dopo un grande risultato la settimana successiva ti chiedono di farne un altro, non c'è mai una fine e non puoi mai staccare la spina. Però, è anche questo il bello: dopo una delusione puoi subito ritornare più forte e volenteroso di prima. Niente appagamento. Ma equilibrio e stimoli».

Matteo Berrettini, la polemica di Roncone del Corsera: "Non paghi le tasse in Italia e ti fai un giro al Quirinale?" Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. "Spiace non stare nel coro: ma Matteo Berrettini non mi piace per niente. Uno che non paga le tasse in Italia, come faccio io e come fanno milioni di italiani, mi sta antipatico. E molto. Non paghi e ti fai un giro Quirinale?". Così Fabrizio Roncone, del Corriere della Sera, ha attaccato il tennista italiano dopo la cerimonia avvenuta, in suo onore e per la Nazionale, al Quirinale. Al giornalista non è andata giù la visita sul Colle di un personaggio che ha non ha la residenza all'estero per pagare meno tasse, pur essendo italiano.  Lo stesso Berrettini, intervistato sempre dal Corriere, ha raccontato l'emozione di essere ricevuto dal Capo dello Stato, ma anche quella di aver vissuto la finale di Euro 2020 in tribuna vicino a Mattarella. "Sono arrivato nell'intervallo di Italia-Inghilterra, quando perdevamo 1-0. Non ho fatto in tempo ad entrare nella lounge alle spalle della tribuna d'onore, che mi è venuto incontro il presidente della Repubblica Mattarella. Lui a me! Mi ha colto di sorpresa... Complimenti, mi ha detto, ho visto i primi due set della tua partita, sei stato pazzesco...". "Poi non ci ho capito più niente. È sbucato Fabio Capello e mi ha abbracciato: io so chi è Capello, ovviamente, ma non ci eravamo mai visti in vita nostra! C'erano presidenti, istituzioni, vip, ex calciatori... A un certo punto sono spuntati Shevchenko, Figo, Beckham a cui ho stretto la mano. Una confusione incredibile! Tante emozioni tutte insieme. Troppe. Io sono una persona molto privata, ormai mi conoscete. Essere al centro dell'attenzione non mi piace particolarmente e quando sono troppo esposto mi viene addosso una sensazione di disagio, come se sentissi di non meritarmi tanti complimenti. Però credo che la finale a Wimbledon abbia scritto un po' di storia del nostro tennis, forse le attenzioni di questi giorni un po' me le sono meritate...". Si se le è meritate, ma si è beccato anche le critiche, via Twitter, del Roncone infuriato.

Filippo Facci per “Libero quotidiano” il 15 luglio 2021. Il tifo per i tennisti italiani ha un po' ammosciato anche l'appassionato sottoscritto: questo dopo aver appreso quanti risiedono a Montecarlo per pagare meno tasse. Vedere Matteo Berrettini omaggiato da Mattarella, in quanto italiano, mi è parso un nonsenso che mi fatto guardare al bicchiere mezzo vuoto: in fondo Berrettini ha perso la finale, e nessun alpinista - per dire - riceve grandi onori perché è arrivato non in cima, ma quasi. In generale la cosa, perlomeno, ti fa capire quanto certi giovani tennisti credano nei propri mezzi: Sinner e Musetti hanno solo 19 anni ma sono già monegaschi, mentre il più attempato Fognini risiede orgogliosamente in Liguria, anche se sua moglie, l'ex campionessa Flavia Pennetta, paga le tasse in Svizzera come molti tennisti francesi a cui il governo proibisce di risiedere nel Principato. Il modello resta Rafael Nadal, tra i massimi campioni di tutti i tempi: paga le tasse nella sua Spagna (il 56 per cento delle entrate) e se ne vanta: altrove pagherebbe la metà. Invece, mentre l'Italia pativa la pandemia e la crisi economica, Berrettini passava il tempo libero con la fidanzata croata, australiana di adozione, con la quale trascorreva la pandemia in Florida, pur residendo a Montecarlo, giungendo infine secondo in un torneo in Inghilterra. Mattarella, a Roma, poteva occuparsi d'altri. Non si può fare il patriota con il commercialista al seguito.

Gaia Piccardi per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. Mister Berrettini? Welcome. Al terminal dei voli privati stavano aspettando il finalista italiano di Wimbledon, dopo la sfida con il numero uno del mondo Novak Djokovic Matteo è un volto noto anche in Inghilterra: il Guardian l'ha definito «valiant» (audace), l'editorialista del Times ha scritto che i suoi fondamentali sono «ordnance», armamenti. Il match trasmesso in chiaro da Sky su Tv8 ha avuto ascolti record (4.700.000 spettatori medi cumulativi), è chiaro che domenica 11 luglio 2021 segna l'inizio di una storia diversa per il ragazzo del Nuovo Salario, Roma, e per tutto il tennis italiano («Il successo di un campione e di un sistema» l'ha definito il presidente della Fit Binaghi). La giornata di sport di Berrettini tra Wimbledon e Wembley è stata lunga e la notte piccolissima, è mattina presto quando la barbetta elettrica del primo azzurro in finale sui prati di Church Road in 144 anni di leggenda si affaccia sul jet che lo porterà a Ciampino: «Ho organizzato tutto io con i miei potenti mezzi» scherza. In realtà il volo privato è un regalo dello sponsor.

Matteo, tornato in Italia cosa le resta addosso del pomeriggio più importante della sua vita sportiva?

«Un delirio di belle emozioni, tra cui è difficile scegliere».

Ci provi.

«Be' il momento in cui ho chiuso 7-6 il primo set della finale con Djokovic è stato speciale: urlavo di gioia ma non riuscivo a sentire la mia voce, il boato del centrale di Wimbledon la sovrastava».

E dopo l'adrenalina di Wimbledon, Wembley

«Sono arrivato nell'intervallo di Italia-Inghilterra, quando perdevamo 1-0. Non ho fatto in tempo ad entrare nella lounge alle spalle della tribuna d'onore, che mi è venuto incontro il presidente della Repubblica Mattarella. Lui a me! Mi ha colto di sorpresa... Complimenti, mi ha detto, ho visto i primi due set della tua partita, sei stato pazzesco...». 

Il presidente della Repubblica ha detto proprio «pazzesco»?

«Giuro, lo ha detto!». E poi? «Poi non ci ho capito più niente. È sbucato Fabio Capello e mi ha abbracciato: io so chi è Capello, ovviamente, ma non ci eravamo mai visti in vita nostra! C'erano presidenti, istituzioni, vip, ex calciatori... A un certo punto sono spuntati Shevchenko, Figo, Beckham a cui ho stretto la mano. Una confusione incredibile! Tante emozioni tutte insieme. Troppe».

Ieri il Quirinale e Palazzo Chigi: come vive le attenzioni un giovane romano riservato e taciturno come lei?

«Io sono una persona molto privata, ormai mi conoscete. Essere al centro dell'attenzione non mi piace particolarmente e quando sono troppo esposto mi viene addosso una sensazione di disagio, come se sentissi di non meritarmi tanti complimenti. Però credo che la finale a Wimbledon abbia scritto un po' di storia del nostro tennis, forse le attenzioni di questi giorni un po' me le sono meritate...».

Attenzioni e premi sono graditi, quindi.

«Con grande piacere. Non mi succede tutti i giorni di incontrare le cariche più importanti dello Stato». 

In campo e fuori sembra sempre così composto e rilassato, Berrettini.

«Magari! Sembro sereno, ma poi ripenso alle cose e non riesco a dormire, rimugino per giorni. Gestire le emozioni intense di una finale sul centrale di Wimbledon, per esempio, non è stato affatto facile. Per calmarmi ho pensato alla strada per arrivare fino a lì, al lavoro, alle trasferte, ai mesi lontano da casa e dalla famiglia. Mi ha aiutato a sentire che mi meritavo quella partita, che era giusto che fossi in quel luogo, contro quell'avversario. Perché mi sono impegnato: io sono la dimostrazione che il lavoro paga». 

Oltre alle vittorie, cosa la fa stare bene?

«I miei genitori, a cui devo tutto: senza di loro non sarei quello che sono diventato. Mio fratello Jacopo, che mi convinse a lasciare il judo per il tennis: non potrò mai ringraziarlo abbastanza. La mia ragazza Ajla, gli amici».

Chi sono i suoi amici?

«Quelli di sempre, degli inizi. Io sono un tipo abitudinario: magari ci metto un po' a decidere di fidarmi però quando sono a mio agio non cambio più. Il mio coach, Vincenzo Santopadre, mi allena da quando avevo 14 anni. Ero un bambino. Sono ancora in contatto con i miei primi maestri e con i compagni della scuola tennis».

I titoli dei giornali, le interviste, i grandi guadagni, la gente che la tirerà per la giacchetta: non c'è il rischio di perdere la testa, Matteo?

«No, non credo. Le cose succedono però dovrò essere bravo a ricordarmi di essere solo un giocatore di tennis: ho cominciato per il piacere di usare la racchetta, per il divertimento di vincere un match, non certo per avere successo. Non vivo per questo. Questi sono giorni euforici ed è giusto così, ma presto mi rimetterò sotto a lavorare».

Ha citato Ajla, la sua ragazza: quanto è stato importante averla con sé dentro la bolla di Londra? Quanto è importante, in generale, per il benessere che poi riversa in campo?

«Ajla è stata fondamentale. La bolla di Wimbledon era molto restrittiva, per due settimane ho fatto hotel-circolo e circolo-hotel. Avere un affetto accanto, passare il poco tempo libero con la persona che ti è più cara, è decisivo. Da tennisti giramondo, non ci vediamo tutti i giorni: i tornei per noi sono un'occasione per stare insieme. Anche a Londra siamo entrati dentro la relazione a tutti gli effetti: durante Wimbledon abbiamo litigato, fatto pace, riso, discusso, scherzato. Non è facile. Però è importante». 

Ha raccontato che aver trascorso il lockdown dell'anno scorso con Ajla in Florida l'ha aiutata a crescere.

«È vero. Ho sperimentato la convivenza: tra alti e bassi, è stata un'esperienza molto intensa e molto bella. Ho capito che devo migliorare in tutti gli aspetti del rapporto con la mia ragazza e ho intensificato, a distanza, la relazione con i miei genitori. Tutti dettagli che mi sono serviti moltissimo anche nel tennis». 

Che bambino è stato, alla fine degli anni Novanta, a Roma?

«Un bambino che a tennis pensava di essere scarso. Ci ho messo un po' ad appassionarmi: mio fratello Jacopo, come ho detto, è stato decisivo. Siamo molto uniti: non a caso porto tatuata la sua data di nascita».

E quando ha capito di non essere malaccio?

«Nel 2016, a vent' anni, quando ho raggiunto la prima finale Challenger in Puglia, mi sono detto che forse, per vivere, potevo fare il tennista. Ma ho iniziato a crederci sul serio nel 2019, con la semifinale contro Nadal all'Open Usa. A New York ho capito che a un certo livello ci potevo stare, però da quel punto in poi andava creata una continuità di rendimento». 

Ed eccoci a Wimbledon. Se potesse rigiocare la finale, cosa farebbe di diverso?

«In termini di qualità, posso fare meglio. Ma non è tanto questione di un colpo o di un momento della partita: la sfida più grande per me era gestire aspettative, pressione ed emozioni, perché a tutto ciò poi si lega il livello del gioco. Con una presenza diversa, certe palle non sarebbero finite in rete o fuori. Ma, insomma, Djokovic era alla trentesima finale Slam, io alla prima! La prossima volta sarò più bravo».

A un certo punto, dopo un errore, stava per scagliare la racchetta per terra. Si è frenato, non l'ha fatto: perché?

«Ci tengo a essere corretto, nei miei confronti e dell'avversario: la sportività, anche nella fatica e nella lotta, per me è fondamentale».

Con il diabolico Djokovic cosa vi siete detti?

«Novak è incredibile: le sfide con lui mi fanno crescere inevitabilmente. L'ho rivisto a Wembley la sera, mi ha detto: bravo Matteo, hai il futuro davanti. Poi è arrivato Capello e si è buttato in mezzo per fare una foto tra noi due!».

Berrettini, è soltanto l’inizio. Djokovic può battere tutti i record. Matteo esce a testa altissima da Wimbledon, che può segnare l’avvio di un’ulteriore scalata. Nole ha ancora davanti un paio d’anni ad alto livello, nei quali spazzar via primato dopo primato. Gianni Valenti il 12 luglio 2021 su Gazzetta.it. Mai come questa volta possiamo dire, senza alcuna retorica, bravo lo stesso. Matteo Berrettini esce a testa altissima dal tempio di Wimbledon. Ha lottato per 3 ore e 24 minuti contro Novak Djokovic, l’attuale dominatore del tennis, trascinandolo al quarto set, divertendo e divertendosi. Poteva fare qualcosina in più, certo. Ma va benissimo così, anche perché l’esperienza di Nole è stata un fattore determinante del match. Come ha detto il nostro Matteo a fine partita, la sconfitta nell’epilogo dello Slam più importante del tennis può costituire l’inizio di una carriera di altissimo livello.

RANKING. Questa mattina l’azzurro tornerà numero 8 del mondo, posizione che aveva ricoperto nel novembre del 2019. Solo Adriano Panatta (4) e Corrado Barazzutti (7) hanno fatto meglio di lui nella storia del tennis italiano. Ma questo ragazzo di 25 anni, dal gioco esplosivo e i modi gentili ed educati, ha tutto il tempo per raggiungere i loro primati e anche superarli. A cominciare dai Giochi olimpici in Giappone dove sarà il condottiero della nostra Nazionale. Nella storia delle Olimpiadi l’Italia ha vinto solo una medaglia di bronzo con Umberto De Morpurgo a Parigi nel 1924, l’ultima edizione prima della “purga” che durò fino a Seul 1988. Due altri bronzi arrivarono con Paolo Canè e Raffaella Reggi a Los Angeles 1984 quando il tennis però era ancora uno sport dimostrativo.

TOKYO. Chissà, allora, che il primo di agosto a Tokyo non si ripeta proprio la finale vista ieri sull’erba più famosa del mondo. Si giocherà sul cemento, superficie congeniale al nostro azzurro, ma anche al “cannibale” serbo che ieri ha messo in bacheca l’ennesima grande impresa. Djokovic oltre ad aver trionfato per la sesta volta a Wimbledon (la terza consecutiva) ha raggiunto Roger Federer e Rafa Nadal a quota venti nei Major. E si prepara a riscrivere la storia di questo sport tentando di realizzare il Grande Slam. E cioè vincere in un anno solo tutti i tornei più importanti. Dopo Australian Open, Roland Garros e appunto Wimbledon manca un tassello, gli Us Open che si disputeranno in agosto a New York. Il capolavoro, dunque, è a un passo e certo Nole farà di tutto per non lasciarselo scappare. Dei tre fuoriclasse che hanno segnato la storia di questo sport a livello mondiale negli ultimi quindici anni, Djokovic è certamente quello che oggi si trova nelle condizioni migliori. Mentre Roger appare ormai al capolinea e Nadal avrà bisogno di centellinare sempre di più i suoi impegni, il fisico del numero uno del mondo appare integro e la sua forza mentale altrettanto. Davanti a lui ci sono ancora almeno due anni ad alto livello dove potrà permettersi di battere tutti i record. Certo, dietro i giovani scalpitano e si faranno sentire sempre più forte, ma il divario è ancora importante.

AZZURRI. Tra chi ambisce alla corona del futuro oggi si è iscritto anche Matteo Berrettini. Guida un tennis maschile azzurro che sta vivendo una stagione esaltante e che con Jannik Sinner e Lorenzo Musetti ha il futuro assicurato per i prossimi dieci anni. Servirà tenere sotto pressione nel modo giusto questi due ragazzi e non sbagliare le scelte strategiche. Il talento è importante, ma va coltivato assieme all’umiltà e alla cultura del lavoro.

Berrettini, da Federer 2019 alla finale con Nole: così in due anni è nato un top player. Due anni fa la lezione agli ottavi di Wimbledon, da lì una crescita costante che lo ha portato a un passo dalla consacrazione. Francesco Sessa il 12 luglio 2021 su Gazzetta.it. Un italiano finalista a Wimbledon è sempre stato un pensiero astratto. Un’idea lontana. Talmente lontana che non c’era spazio nemmeno per sognare, citando Matteo Berrettini dopo la vittoria contro Hurkacz in semifinale. Eppure, a colpi di martellate, il ragazzo nato a Roma è riuscito nell’impresa di unire ideale e reale, di plasmare un’impresa che solo a pensarla c’era da mettersi a ridere. Quello di Matteo è stato lavoro da Demiurgo, la figura di Platone mediatrice tra intellegibile e materia: The Hammer ha scolpito un capolavoro con la forza del braccio e il sudore della fronte. Uniti alla capacità di saper prendere tutto quello che passa, dai successi alle cadute in picchiata: due anni fa Berrettini vinceva cinque game nel match contro Federer, ora è andato vicino a raggiungere l’Olimpo del tennis.

DUE ANNI FA. Nel luglio 2019, Berrettini si era presentato a Wimbledon da numero 20 al mondo e con tre titoli in carriera, di cui uno freschissimo sull’erba di Stoccarda poche settimane prima. Curriculum importante, numeri da giocatore di alto livello. Eppure, gli ottavi di finale contro Federer furono una raffica di schiaffoni da cui non era scontato rialzarsi. L’8 luglio 2019 Matteo si è trovato di fronte l’intellegibile e non aveva ancora le facoltà per interpretarlo. Fu una vera e propria lezione di tennis e non solo: 6-1 6-2 6-2. Roger poi arrivò in finale e fu partecipe, suo malgrado, di una partita che con il mondo degli umani ha poco a che fare. Vette inesplorate e inesplorabili. Ma il travolto Berrettini, evidentemente, è riuscito a sbirciare qualcosa, a cogliere un trucco del mago, a vedere nella sconfitta pesante una possibile fonte di ispirazione per le prove a venire.

US OPEN E POI LE FINALS. Praticamente due mesi esatti dopo, il 7 settembre, dall’altra parte della rete ci fu Rafa Nadal. L’altra faccia della medaglia dopo Roger. Palcoscenico da brividi, test sulla carta quasi impossibile: semifinale degli US Open. Il traguardo più alto raggiunto in carriera. La lezione di Federer era servita, non aveva ucciso Matteo e l’aveva fortificato: contro lo spagnolo arrivò sì una sconfitta in tre set, ma con tutto un altro sapore. Il tie-break perso nel primo set fece tutta la differenza del mondo, con Nadal che poi mise le mani sul match con il 6-4 nel secondo e chiuse 6-1 al terzo. Deciso passo in avanti. Il 2019 fu l’anno delle sfide per farsi le ossa: Berrettini arrivò alle ATP Finals, tra gli otto migliori tennisti dell’anno solare. Altra esperienza da stropicciarsi gli occhi, da secchiate di acqua gelata per capire se si è in un sogno oppure no. Matteo visse quei giorni con l’entusiasmo del bambino al luna park e aumentò la propria fiducia match dopo match: prima la frullata subita da Djokovic (6-2 6-1 per il serbo), poi il buon match contro Federer (7-6 6-3 per lo svizzero) infinte la vittoria contro Thiem (5-7 7-6 6-2).

LA RIPRESA E IL QUEEN'S. Nell’analizzare la salita verticale di Berrettini in questo biennio non ci si deve dimenticare della pandemia, che ha fermato il mondo intero e i giri del motore di chi vive di sport e ha ambizioni importanti. Dal punto di vista dei risultati, il 2020 non è stato un anno semplice per Matteo: fuori al secondo turno agli Australian Open, agli ottavi di finale agli US Open e al terzo turno al Roland Garros. Date queste premesse, la finale di Wimbledon è ancora più incredibile. Anche perché non va dimenticato l’infortunio in Australia quest’anno, con l’impossibilità di scendere in campo per gli ottavi contro Tsitsipas. Perdere la trebisonda era un possibile rischio, ma Matteo sa rialzarsi e migliorare dopo le cadute. La stagione sulla terra ha regalato al romano la vittoria a Belgrado, la finale a Madrid persa con Zverev e il set strappato a Djokovic ai quarti di finale al Roland Garros. Il martello era tornato e sull’erba si è unito allo scalpello: il gioco efficacissimo su questa superficie (colpi pesanti, servizio devastante, rovescio slice) e una consapevolezza impressionante hanno portato a casa Berrettini la coppa del Queen’s, prestigiosa e nobile come la personalità del ragazzo allenato da Vincenzo Santopadre.

TRA I BIG. L’opera demiurgica di Matteo è arrivata a compimento non soltanto grazie a un dono innato. Il lavoro, il sorriso, la semplicità, la voglia di imparare e la maturità di prendere il buono anche dalle batoste: Berrettini ha unito intellegibile e materia partendo dal basso, scoprendo parti di sé lungo il percorso e non distogliendo mai lo sguardo da quella luce accecante che, due anni fa sul centrale di Wimbledon, lo aveva abbagliato. E ora Matteo è definitivamente tra loro: tra i big del tennis. Dopo due anni di scalata costante e inimmaginabile. 

Marco Imarisio per il “Corriere della Sera” il 14 giugno 2021. E adesso come facciamo. Dove finiscono tutte le discussioni sul più grande di tutti i tempi che escludevano sempre Novak Djokovic, quasi come fosse l'intruso o il terzo incomodo nella storia d'amore tennistica tra Roger Federer e Rafa Nadal. Il campione serbo vince il suo secondo Roland Garros e il suo 19° Slam battendo l'esordiente Stefanos Tsitsipas. E lo fa compiendo un'altra impresa, rimontando da due set a zero, quando tutti avevano ormai pronto l'articolo celebrativo del primo Next Gen capace di abbattere uno di quella irripetibile Santa Trinità. C'era molto più di un singolo Slam in palio, oggi. Lo dimostra il fatto che il pubblico era quasi tutto contro di lui, come accade quasi sempre, e si sentivano urlare i nomi del re svizzero e dello spagnolo. Dovremmo conoscerlo, eppure ogni volta Djokovic stupisce. Per quella capacità di non considerarsi vinto, andando contro la logica e l'anagrafe. Per il modo incredibile in cui alza il proprio livello quando ha le spalle al muro, senza più alcun margine di errore. L'età avrebbe dovuto concedere i favori del pronostico sulla lunga distanza al giovane greco, consigliando invece una faccenda il più breve possibile per Djokovic. Dopo aver perso un primo set durato 68' ed essere stato dominato nel secondo, per lui si era avverato il peggior scenario possibile. Un microfono lasciato acceso a bordo campo ne rivelava il respiro pesante. Appena il caso di ricordare che venerdì notte aveva scalato il monte Everest battendo Nadal sulla terra rossa. Sembrava finita. Poi c'è stato quel gesto, all'inizio del terzo set. Quando Djokovic agita la racchetta con un gesto di sobria esultanza, significa che è di nuovo in missione. Le speranze di Tsitstipas si sono spente in quell'istante, mentre il suo avversario come per incanto ritrovava la profondità dei colpi, come era avvenuto contro Musetti. Il serbo è il primo dal 2004 a vincere una finale Slam dopo essersi trovato sotto di due set. E il primo dell'era Open a uscire per due volte nello stesso torneo da una buca così profonda. Ma questo è quasi un dettaglio. Con questa vittoria, Djokovic diventa anche l'unico giocatore dell'era Open ad avere vinto almeno due volte tutti e quattro gli Slam. Ha sconfitto ancora Nadal al Roland Garros. Ha battuto Federer a Wimbledon, in tre finali. Nei confronti diretti possiede un record positivo contro entrambi. Ha il record assoluto di settimane al numero uno della classifica. Con il suo 19° Slam si avvicina a Nadal e Federer, fermi a quota 20. Stanno per arrivare Wimbledon e lo Us Open, che non lo vedono certo sfavorito. In teoria, esiste per lui la possibilità di realizzare il Grande Slam. Il dibattito sul più grande di sempre non troverà mai una risposta, legato com' è a considerazioni estetiche e all'importanza rappresentata da un giocatore nella sua epoca. Così come quello sul più grande sportivo in assoluto. Ma sul nome del tennista più forte della storia iniziano a esserci pochi dubbi.

Il caso al Roland Garros. Chi è Yana Sizikova, la tennista arrestata al Roland Garros con l’accusa di gare truccate. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Giugno 2021. È stata arrestata al torneo del Roland Garros con un’accusa di truffa e corruzione sportiva. Yana Sizikova, tennista russa, 26 anni, è finita sui giornali, e non solo sportivi, di tutto il mondo per quello che è successo stamane a Parigi. L’atleta aveva appena finito un match in doppio con la partner Ekaterina Alexandrova. Sizikova è originaria di Mosca, nata il 12 novembre 1994. È 101esima al mondo nel doppio. Ha vinto tre tornei Itf in carriera. È stata ammanettata all’esterno della sala massaggi ed è stata condotta in carcere. Secondo lo scoop di Le Parisien l’inchiesta della Polizia di Parigi andava avanti da ottobre 2020. A quanto riporta lo stesso quotidiano le guardie di sicurezza del torneo francese hanno cercato di impedire l’arresto. La 26 enne è stata condotta nei locali del Servizio Centrale per le Corse e Giochi della polizia giudiziaria. Il quotidiano tedesco Die Welt ha scritto di “frodi tra bande organizzate” e “corruzione sportiva attiva e passiva”. Piuttosto sconvolgenti le modalità con le quali è stato condotto l’arresto, per accuse ancora tutte da dimostrare tra l’altro. I sospetti sulla 26enne sarebbero sorti durante l’edizione precedente degli Open di Francia. Sotto l’attenzione degli investigatori la partita del primo turno del 2020, quando Sizikova in coppia con l’americana Brengle perse contro le romene Mitu-Tig. E in particolare in quinto game del secondo set, con alcuni errori banali della russa. Il match aveva raccolto un movimento di scommesse per decine di migliaia di euro. Il match in coppia di Sizikova con Alexandrova di ieri era finito 6/1, 6/1 a favore della coppia Ajla Tomljanovic-Storm Sanders.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Roland Garros, la tennista russa Yana Sizikova arrestata in sala massaggi: accusa sconvolgente. Libero Quotidiano il 04 giugno 2021. Incredibili sviluppi giudiziari al Roland Garros, il celebre torneo di tennis francese. Stavolta i colpi di scena non sono avvenuti in campo, ma fuori. Una giocatrice è stata arrestata fuori dalla sala massaggi dopo una partita persa in doppio. L'accusa per Yana Sizikova è di aver truccato delle partite. Numero 101 al mondo in doppio e numero 765 in singolare, è stata accusata dopo una lunga indagine della polizia di Parigi, partita nell'ottobre scorso. Si parla di "frodi tra bande organizzate" e "corruzione sportiva attiva e passiva". Secondo il quotidiano "Le Parisien", la Sizikova aveva appena terminato la partita di doppio di primo turno insieme ad Ekaterina Alexandrova (persa contro le australiane Ajla Tomljanovic e Storm Sanders) quando è stata raggiunta dalla polizia francese. Le guardie di sicurezza del torneo hanno cercato di impedire l'arresto, ma senza successo. La giocatrice è stata poi condotta nei locali del Servizio centrale per le Corse e Giochi della polizia giudiziaria. Al centro dell'interesse della giustizia francese, il match di doppio del primo turno che l'anno scorso la tennista russa ha giocato in coppia con l'americana Madison Brengle contro le romene Andreea Mitu e Patricia Maria. Se le romene, favorite, avevano rispettato i pronostici vincendo (7-6, 6-4), i sospetti si erano concentrati sul 5° gioco del 2° set. Questo perché diverse migliaia di euro erano state scommesse da diversi operatori on line, e in diversi paesi, sulla vittoria in quel game da parte delle romene. Che poi se lo erano aggiudicate in modo più che netto. Le avversarie avevano sbagliato tutte le palle di servizio. In particolare, la Sizikova era incappata in due doppi falli raggranellando soltanto un punto in tutto il game.

Sinner, il tennista "non umano". L'Italia ha la sua star. Paolo Rossi su La Repubblica l'1 aprile 2021. In semifinale a Miami, un Masters 1000, a neanche vent'anni. Bublik, l'avversario sconfitto: "Hai 15 anni e giochi così..." Il ragazzo prodigio è in semifinale a un Masters 1000. Jannik Sinner non si ferma a Miami, e respinge l'appagamento: "La mia settimana più bella di sempre? Parliamone a fine torneo...". Non è arroganza, o presunzione, Jannik è fatto così. Non avrebbe, altrimenti, superato lo scoglio Bublik, tennista kazako che non sai come prendere perché non tira un colpo uguale all'altro. E questa cosa, per un regolarista disciplinato sul ritmo come l'altoatesino, è una specia di bestemmia.

"Hai 15 anni e giochi così..." Ma lo ha battuto. Rincorrendolo, standogli appiccicato, restando convinto della possibilità di una chance. Questione di testa, si dice nel tennis. Mai vero come stavolta. Glielo ha riconosciuto anche il kazako: "Ma non sei umano! Hai 15 anni e giochi così...", rifilandogli una pacca affettuosa sulle spalle mentre Sinner sorrideva, per una volta sorpreso.

I teenager che vanno forte a Miami...Qualche dato statistico: è il 3° italiano di sempre in una semifinale di un Masters 1000 sul veloce dopo Fognini (Miami 2017) e Berrettini (Shanghai 2019). Va aggiunto che è il primo Masters 1000 sul veloce che gioca in carriera. Ancora: Sinner è il 14° teenager a raggiungere i quarti di finale a Miami. 10 su 13 sono poi diventati n.1. Gli unici a non esserci (ancora) riusciti, sono Auger-Aliassime, Zverev e Shapovalov. Con l'ingresso tra i primi quattro del torneo Sinner è già certo di entrare tra i primi 25 al mondo (vincesse il torneo diventerebbe n. 14 del mondo). Al momento, nel ranking virtuale, è 24°. Poi c'è l'altra classifica parallela, la Race, quella che porta alle Atp Finals che si disputeranno a Torino: bene, in questo momento l'italiano è settimo. Numeri da impazzire, ma non per il diretto interessato. "Ho ancora 19 anni, ci sono tante cose che devo ricordare in campo...". La sua applicazione, la sua disciplina sono da manuale. Perfino per tennisti veterani. 

In semifinale contro Bautista Agut. In semifinale avrà un altro deja vu, e anche questo sembra un paradosso del destino. Spieghiamo: Sinner ha giocato il torneo di Dubai, dove aveva già incontrato (e battuto) Bublik ai sedicesimi di finale. Negli ottavi ha incrociato lo spagnolo Bautista Agut, avendo la meglio. Bene, a Miami si ripropone la stessa sceneggiatura: Jannik ritrova lo spagnolo, che contro pronostico ha avuto la meglio sul russo Medvedev, attualmente n. 2 del mondo. Un'ottima notizia, considerando che contro Medevedv il nostro è stato respinto due volte su due. "Resta il fatto che si tratta di giocatori solidissimi, bisognerà giocare al massimo" s'è limitato - come suo stile - a rispondere. Aggiungengo, oppure rassicurando a seconda delle interpretazioni, "che la pressione c'è, ma la sentono tutti i giocatori. E, credetemi, a qualunque livello".

Questo è Jannik Sinner: il suo focus è la pallina da tennis. Sempre e soltanto. Il resto è contorno, ma sempre all'interno di quel quadro. Una cosa è certa: l'Italia non ha mai avuto un tennista con queste attitudini, faremo bene a tenercelo stretto.

Da corrieredellosport.it il 2 aprile 2021. Continua il sogno di un meraviglioso Jannik Sinner. L'italiano si impone 2-1 (5-7, 6-4, 6-4) a Miami sullo spagnolo Bautista Agut in semifinale e potrà così giocarsi la prima finale in un Masters 1000, contro il vincente tra il russo Andrey Rublev e il polacco Hubert Hurkacz. Dopo aver eliminato (in ordine) il francese Hugo Gaston, il russo Karen Khacanov, il finlandese Emil Ruusuvuori e il kazako Aleksandr Bublik, l'italiano si ripete anche con la testa di serie numero 7 del torneo (10 al mondo).

Sinner in finale a Miami. Il match dell'italiano parte in salita, con il break subito al primo game. Sul 3-1 per lo spagnolo inizia la rimonta di Sinner, concretizzata nel break del 3-3 e nel successivo turno in battuta mantenuto, che lo porta in vantaggio per la prima volta nel corso dell'incontro. Il 19enne concede però un altro break allo spagnolo, che si porta 6-5 e va a prendersi poi il primo set nel game successivo (giocato peraltro in modo spettacolare). Nel secondo set Bautista Agut sembra leggermente  più impreciso rispetto al primo, Sinner ne approfitta (rischiando grosso nel settimo game, con 4 palle break annullate) e si prende la possibilità di giocarsi tutto nel terzo set andando a vincere 6-4. Nell'ultimo set lo spagnolo riprende in mano le redini della gara e ruba il servizio già al terzo game. L'italiano replica al sesto e si porta sul 3-3, per poi andare a vincere 6-4 con una prova impressionante, di carattere e personalità, rubando il servizio nel decimo game.

Le parole dell'italiano. Subito dopo l'incontro Sinner ha commentato la vittoria: "Incredibile, sono contentissimo. Era difficile giocare la prima semifinale in un mille. Ho affrontato un giocatore solidissimo, è stata una dura battaglia anche due settimane fa. Vincere oggi vuol dire tanto per me. Rimonta? All'inizio eravamo tutti e due un po' tesi, oggi non era facile giocare bene, c'era vento. Ho cercato di servire meglio, di muoverlo di più e mischiare le carte. Questa è stata la chiave". Poi sul servizio rubato al decimo game del terzo set: "Nel game precedente ho sentito un po' più di ritmo, ho pensato che dovevo dare il tutto per tutto, tanto anche se avessi perso saremmo stati 5-5".

Sinner, che peccato. Ma ha ragione coach Piatti: gli servono 150 match. Paolo Rossi su La Repubblica il 4 aprile 2021. Stress e tensione, il tennista azzurro sconfitto nella finale di Miami da Hurkasz. Ma il futuro è suo. Jannik Sinner è caduto, viva Jannik Sinner. Non ha trionfato a Miami, il Masters 1000 della Florida è finito nelle mani di Hubert Hurkasz, il polacco che domani entra nei primi Venti del mondo, mentre l'azzurro si "accontenterà" della ventiduesima posizione. Ma cosa ha detto questo torneo di Jannik Sinner? Qual è l'analisi della finale? Beh, innanzitutto Janniskin ci ha confermato un vecchio adagio del calcio, quello di Vujadin Boskov: "rigore è quando arbitro fischia". Parafrasandolo, Sinner ha confermato che quando lui è in campo il match finisce solo quando l'avversario riesce a conquistare il matchpoint. Perché diciamo questo? Sinner si è trovato, nel secondo set, indietro nel punteggio 0-4 e per due volte ha evitato lo 0-5. Eppure non ha sciolto, come si dice nel tennis, chiunque alro avrebbe perso 6-0. Invece lui è rimasto incollato all'avversario, illudendosi di poter recuperare. E non ci è andato così lontano. Però sarebbe bello sapere cosa davvero cosa gli è passato per la testa, in quei momenti. Ma anche prima. Ad esempio nel primo set, sul 6-5 in suo favore e il servizio per incassare la frazione, perdendolo a zero. O, ancora: cosa è accaduto sul 2-3 nel tie break: da quel momento è uscito dalla partita. Ecco, nel match dei quarti di finale Bublik lo aveva definito robot, giocatore non umano. La finale contro Hurkasz ha mostrato invece tutta l'umanità di Sinner: le sue emozioni, la sua ansia, i dubbi che ogni normale essere umano, e campione sportivo, può vivere. Ma l'analisi non finisce qui: Sinner ha confermato la sua filosofia: ogni avversario è uguale, lui non cambia il suo modo di giocare, nel bene e nel male. Ritmo, pressing, comando del gioco. Eppure certe volte fare solo a braccio di ferro non è utile. Ma che ci siano margini di miglioramento lo dimostra appunto le gestioni di alcuni momenti chiave. Quindi, senza esaltarsi troppo prima, e non abbatendosi troppo adesso, vanno ricordate le parole di coach Piatti, che ha individuato in 150 il numero magico: il numero delle partite che definiranno completamente Jannik, ne determineranno un cospicuo bagaglio di esperienza. La finale di Miami è la sua settantesima, quindi non è ancora al giro di boa. Ad esempio: nei match precedenti l'altoatesino è stato capace di alzare il suo livello di gioco, cambiare il ritmo migliorandolo nei momenti topici. Non è accaduto nella finale: per motivi di ordine psicologico? Per la pressione della finale? Perché stava giocando contro un amico, un compagno di allenamenti? Probabilmente sì. "Torneremo più forti l'anno prossimo" ha detto ai tifosi presenti durante la premiazione, chiudendo il suo intervento. C'è da scommetterci.

Chi è la fidanzata di Jannik Sinner, l’influencer 21enne Maria Braccini. Redazione su Il Riformista il 4 Aprile 2021. Si chiama Maria Braccini la fidanzata di Jannik Sinner, il tennista classe 2001, astro nascente del tennis italiano che oggi pomeriggio affronterà il polacco Hurkacz nella sua prima finale in un Masters 1000 a Miami. Un talento riconosciuto a livello mondiale. Se vincerà diventerà il numero 14 al mondo. Il fenomeno altoatesino ha quindi una relazione con l’influencer, piuttosto seguita sui social, oltre 53mila followers. Lei più grande di lui, quasi 21 anni. La relazione sarebbe sbocciata durante gli allenamenti tra Montecarlo e la Liguria tra questo inverno e quest’autunno, secondo quanto ha scritto il Corriere della Sera. Non si sa molto della ragazza. Galeotto, a quanto pare, fu un cuoricino del tennista a una foto su Instagram, con un pastore tedesco, nella cui didascalia Braccini scriveva di desiderare un cane. I due stanno insieme da settembre, come ha rivelato lo stesso Sinner. L’atleta ha quindi confermato una voce che all’inizio era sembrata poco più che un roumor. “Ho una ragazza dallo scorso settembre. È molto carina ma soprattutto capisce le mie esigenze di tennista, compreso il fatto che giocare a tennis in questo momento della mia vita è la priorità. È brava a capire cosa serve a uno sportivo, è una tipa alla mano e non mi mette alcuna pressione”, ha detto alla Rai sudtirolese Sinner.

Serena Williams. Stefano Semeraro per “La Stampa” il 19 febbraio 2021. Non piangere per lei, America. Serena Williams è fuori dagli Australian Open, battuta dalla sua erede designata Naomi Osaka. La chimera del 24° Slam - il record assoluto che la bigottissima Margaret Court stringe fra le mani ossute da decenni - si allontana di un altro passo. È dal 2017, l'anno della maternità, che la Williams non riesce più ad alzare una delle quattro grandi coppe, così quando in conferenza è arrivata, sottile come una stilettata, la domanda più crudele - «Sei uscita di campo salutando il pubblico: era forse un'addio?» - Serena non ha retto. «Se mai darò l'addio, non lo dirò a nessuno...», ha mormorato, accusando il colpo. La risposta alla domanda seguente l'ha appena farfugliata, poi si è coperta il volto, si è alzata in fretta, con uno scatto ha lasciato la sala. «Scusate, ho finito...». Il pudore della diva che non vuole mostrare le lacrime in pubblico, anche se a giudicare dagli occhi un pianticello, dopo il 6-3 6-4 rimediato in campo, se l'era già fatto. A quasi 40 anni - Serena li compirà in settembre, un mese e mezzo dopo Federer - è lecito chiedere di quale fine stiamo parlando. «Sono cresciuta ammirandola in tv, io vorrei che giocasse per sempre», dice la ragazza Osaka, che si prepara ad affrontare Jennifer Brady nella quarta finale Slam (le prime tre le ha vinte tutte) e che al momento di stringere la ma-no alla regina sconfitta ha piegato due volte il capo. Serena aveva giocato bene, a tratti benissimo per tutto il torneo, in-guainata nella tutina variopinta e asimmetrica, omaggio alla memoria di Florence Griffith. Celebrata come «la più grande atleta», senza distinzione di genere, da suo marito Alex Ohanian, miliardario in t-shirt. Il match che avrebbe potuto regalarle una finale comoda - sarebbe stata la quinta in un major, dopo il rientro al-le gare e una galleria di infortuni - invece l'ha steccato. Troppa emozione, troppi errori. «Ed errori facili, facili, facili...», ha ammesso, con il magone che le risaliva il petto. Osaka è molto forte, giovanissima (23 anni), perdere da lei non è un disonore. Ma a Serena, che i trofei da finalista è abituata a buttarli nella spazzatura («Non mi piacciono i secondi posti») un'uscita di scena da comprimaria non si addice. Ci riproverà a Wimbledon, quindi non piangiamo -non ancora - per lei.

Emanuela Audisio per “la Repubblica” il 19 febbraio 2021. Se n'è andata in lacrime, eliminata in semifinale. Non più tanto Serena. E nemmeno molto Queen. Ha pianto dicendo che aveva fatto troppi sbagli nel torneo di Melbourne, che è stato suo per sette volte. Forse ha capito che era un'altra occasione persa. Molto più definitiva della altre: se non stavolta, quando? Forse ha realizzato che davanti non ha più porte che si aprono e che lo Slam numero 24 è un'onda che torna indietro. Un sogno imprendibile. In molti hanno pensato all'addio, ai titoli di coda, me lei: "Se mai dovessi chiudere con il tennis, non lo direi a nessuno". Ha 39 anni, l'ultimo Slam vinto (numero 23) è del 2017, sempre in Australia. Quella Serena Williams dalla forza devastante, quella che faceva piangere le altre, quella che non trovava più avversarie e voleva addirittura sfidare gli uomini, per trovare più motivazioni, è svanita. Ora non picchia più: né con il servizio, né con il dritto. È solo una preda. Naomi Osaka che l'ha battuta ieri ha 16 anni meno di lei. L'anno scorso a sconfiggerla al terzo turno era stata una cinese, Wang Quiang, alzi la mano chi la conosce. E Serena, furiosa, aveva esclamato: "I'm better than that". Sono meglio di così. Lasciava presagire vendette, dedizione, nuova concentrazione. Per carità, Serena resta una celebrità, un'icona, amica di Michelle, l'ex First Lady, di Shonda Rhimes, creatrice e produttrice di serie tv di successo, della modella Gigi Hadid, del rapper Lamar, volto di molti brand, megafono di diritti importanti. Una oltre: lo sport, il colore della sua pelle, il suo essere donna. Serena aveva ed ha il potere di farsi ascoltare. Quando Ion Tiriac, grande manager e organizzatore, si è permesso di dire nel 2018 che Serena con 90 chili addosso non avrebbe vinto più, tutti ad incolparlo di body shaming, come si permette? Lei stessa si vantava del suo corpo muscoloso e strabordante, esibito senza pudori in vari completi e in molti scatti fotografici (Annie Leibovitz, naturalmente). Era il suo marchio di fabbrica, era il fisico di una neo-mamma. Ce l'avrebbe fatta a risalire, invece non ha più vinto uno Slam. Deve aver pensato che il mito, i 24 Slam di Margaret Court, era a portata di mano. Ne serviva solo un altro, inutile sbattersi. Prima o poi sarebbe arrivato. Bisognava solo provarci. Continuando ad essere "more than an athlete", ad occuparsi di moda, di canzoni, di documentari, di Hollywood e dintorni. Ma lo sport è geloso dei campioni che lo trascurano, che lo mettono da parte. Vuole restare una priorità. In più Serena nel suo ventennio ha dominato senza avere una grande nemica, senza spinta a migliorarsi, non come Evert-Navratilova. L'avversaria che ha incontrato più volte in finale è stata sua sorella Venus, con 7 successi e 2 sconfitte. Più che tennis sono state dinamiche familiari. Forse ha subito la personalità e la rivalità di Maria Sharapova: bella, bionda, amata dagli sponsor, ma contro di lei ha perso solo una finale su quattro. L'hanno un po' disturbata la belga Henin e la tedesca Kerber, ma nulla di più. Le bastava essere Serena per vincere. Quando però è rientrata la situazione è cambiata: lei non è più devastante, e le sue eredi la fanno correre. Le riconoscono il trono, non il comando. Per lei più che un'ossessione questo Slam numero 24 è diventato una delusione. Dovrebbe rimettere il tennis al centro, capire che bisogna adattarsi, adottare strategie, studiare un po' di più. Se vuoi restare regina, devi conoscere le armi di chi ti vuole spodestare. Altrimenti il viaggio per lo Slam 24 è solo un viale del tramonto pieno di soste. A settembre avrà 40 anni. Vale la pena riprovarci, prima di dire addio. Ma giocando in un solo campo. Quello rettangolare.

Bjorn Borg. Stefano Semeraro per “Specchio - la Stampa” il 15 febbraio 2021.

Ciao sono Bjorn, come stai?». La voce che gorgoglia allegra dal telefono, con accento inequivocabilmente svedese, ammettiamolo, una botta di emozione la trasmette anche ai voyeur tennistici più scafati.

Anche a quarant' anni di distanza, anche se nel frattempo ci sono sfilate sotto gli occhi tre o quattro generazioni di fenomeni: Becker, Edberg, Agassi, Sampras, e poi Federer, Nadal, Djokovic. Tutti campionissimi, okay. Ma Borg resta Borg, l' Uomo che ha cambiato il tennis. Le magliette Fila incollate al torace carenato, la bandana stretta sulla zazzera bionda, lo sguardo sottozero, Wimbledon e il tie-break più famoso della storia. Lo sport che nel guado fra anni '70 e '80 diventava definitivamente costume, business, jet set, sotto la frusta bimane del suo rovescio. Quest' anno l' Orso compirà 65 anni, vive fuori Stoccolma. Si è messo da tempo alle spalle la porzione maudit della sua storia, è un marito e un padre felice. I capelli sono più corti e cromati, l' amore per il tennis immutato, forse addirittura cresciuto. Nessuna passione si è spenta, nel cuore del mito che ha deciso di concedere una delle sue rare interviste a Specchio.

Bjorn, i nostalgici sostengono che il tennis dopo Federer rischierà la noia. Lei che ne dice?

«A me piace guardare il tennis. Lo seguo al 100 per cento e continuerò a farlo. Il 2020 è stato ovviamente difficile, ma ogni anno vado a vedere qualche torneo, perché mi diverte. Il livello oggi è incredibile, sono in tanti a giocare molto bene. Dobbiamo superare questo momentaccio, poi riavremo un grande spettacolo. Il futuro non mi preoccupa».

Nel futuro c' è anche suo figlio Leo, che oggi ha 17 anni e proprio in Italia, a Bergamo, l' anno scorso ha giocato il suo primo match da professionista.

Lei ha subito chiarito che non lo avrebbe allenato, anche se lo segue da vicino, e Leo sostiene di non aver mai visto una sua partita.

«Leo vuole diventare un tennista e si allena molto duramente. Il tennis è la sua vita, ci mette il cuore. A inizio anno è andato a giocare in Sudamerica, può contare su un ottimo team e ha tutta la vita davanti. Vedremo».

Leo l' ha anche impersonata nel film sulla sua rivalità con McEnroe. Le è piaciuto?

«Il film è okay, anche se io sembro molto serio: non sorrido mai dall' inizio fino alla fine Peccato solo che non abbiano coinvolto di più me e John. Avremmo potuto raccontare tanti episodi, spiegare che cosa fare e che cosa no».

Negli ultimi anni lei è stato capitano del team europeo di Laver Cup, la Ryder Cup del tennis di cui Federer è organizzatore oltre che giocatore. Il ruolo le piace?

«Sono orgoglioso di essere il capitano dell' Europa. Lo sono già stato tre volte, la prossima sarà a Boston in autunno. È una grande esperienza perché mi permette di passare molto tempo con campioni come Roger e Rafa, uscire con loro a cena e capire che cosa pensano dello sport, come cercano ancora di migliorarsi».

Federer e Nadal non sono intimoriti dal «dio del tennis»?

«Be', se la mette così Diciamo che loro sanno quanto ho fatto io, e io so cosa quanto stanno facendo loro. Sono molto più vecchio, ma sono passato attraverso le loro stesse esperienze, per questo ci capiamo alla perfezione».

Ha dato loro qualche consiglio?

«Ehi, sono due dei più forti di sempre, sanno che cosa devono fare. Io piuttosto sono impressionato da quanto sono motivati e concentrati in campo. E sono grandi persone anche al di fuori del tennis».

I tre grandi domineranno ancora?

«È un peccato che Roger abbia deciso di non giocare in Australia, aveva una chance. Ma per il 2021 ha cinque obiettivi: il primo è restare in forma, gli altri sono Wimbledon, le Olimpiadi, gli Us Open e la Laver Cup. Nadal a Melbourne ha vinto una volta, ma avrebbe potuto farcela altre due o tre volte. A Parigi sicuramente sarà il favorito, ma non dimentichiamoci Tsitsipas, Medvedev, Shapovalov, Zverev che possono fare bene in tutti i grandi tornei. E poi Djokovic: lui vuole vincere più Slam possibili per superare Federer e Nadal».

Gli Australian Open lei li ha giocati solo una volta, nel 1973. Quest' anno da giocatore avrebbe affrontato la bolla per essere in campo a Melbourne?

«Quello che sta passando il mondo, non solo il tennis, è tragico. In Australia vogliono comunque giocare lo Slam, perché è un torneo importante, ma credo che sarà molto difficile. Onestamente non saprei dire se lo avrei giocato in queste condizioni».

In circolazione vede qualche Borg 2.0?

«Be', ci sono Nadal e Djokovic, ma anche tanti giovani. Fra l' altro non so cosa state combinando ora in Italia, avete quanti sono fra i primi 100, sei o sette?».

Otto.

«Otto addirittura. Ho visto giocare Musetti, che non è ancora nei top-10 ma ci arriverà quest' anno, e dal vivo ho visto Nardi e Cobolli, potenzialmente altri due ottimi giocatori».

È informatissimo sul nostro tennis.

«Devo esserlo: sono il capitano dell' Europa in Laver Cup. Ovviamente conosco anche Matteo Berrettini, altro grande talento, da lui mi aspetto un grande 2021. Fognini è un campione, e c' è che Sinner ha giocato benissimo l' anno scorso».

Su di lui ci sono grandi aspettative: può soffrire la pressione?

«L'ho visto giocare varie volte, mi sembra molto rilassato. Perché mai dovrebbe sentire la pressione? È numero 36 del mondo. La pressione semmai arriverà quando inizierà a vincere i grandi tornei. Oggi ha tutto da guadagnare e nulla da perdere, deve solo pensare a divertirsi. Ha un bel tennis, senza nessun vero lato debole, e sa stare in campo».

A proposito di italiani. Lei al Roland Garros ha vinto 6 volte, giocando 51 partite e perdendone solo due: contro Adriano Panatta. Lo metterebbe fra i suoi avversari più difficili?

«Be' ogni volta che mi trovavo di fronte Adriano lui giocava splendidamente. E quel che è peggio, io sapevo che sarebbe andata così. Le due volte che mi ha battuto a Parigi ha meritato, perché ha giocato meglio di me. Era un avversario molto tosto, ma i più forti sono stati McEnroe e Connors».

Che momento ricorda di più della famosa finale contro McEnroe a Wimbledon nel 1980?

«Solo l' ultimo matchpoint: ho passato John con un rovescio incrociato. Una sensazione bellissima...».

Se potesse rigiocare un solo match, quale sceglierebbe?

«La finale del 1976 agli Us Open, che ho perso contro Connors a Forest Hills. Eravamo un set pari e nel tie-break del terzo ho servito sul 6-3 per andare avanti due set, ma tutte e due le volte Jimmy mi ha giocato un passante sulla riga. Se avessi vinto quel set sono sicuro che avrei vinto la partita e gli Us Open».

Che invece le sono sempre sfuggiti nonostante quattro finali. Oggi vorrebbe sfidare più Federer, Nadal o Djokovic?

«Tutti e tre. Perché mi diverto tantissimo solo a guardarli, figuriamoci a giocarci contro».

Quando si è accorto che con il suo stile e le sue vittorie stava cambiando il tennis?

«Il tennis fra la fine degli anni '70 e l' inizio degli '80 è cambiato soprattutto perché sono cambiate le racchette, i materiali, il tipo di impugnatura. Tutti hanno iniziato a picchiare più forte. Non si può paragonare neanche lontanamente il tennis dei miei tempi a quello di oggi, è come passare dalla notte al giorno. Noi ci siamo divertiti, e giocavamo bene, ma come negli altri sport le cose sono cambiate parecchio. Oggi è tutto più veloce».

Ha mai pensato di fare il coach?

«No, non ne ho intenzione. Bisogna viaggiare molto, e io l' ho già fatto come tennista. Poi credo che se mi ritrovassi in tribuna a guardare le partite finirei in fretta per chiedermi: ma che cosa ci faccio qui? E avrei voglia di tornarmene a casa».

Che cosa cambierebbe nel tennis?

«Si giocano tanti tornei, forse troppi. Il tennis muove grandi interessi, grazie anche agli sponsor è diventato uno degli sport più importanti del mondo, quindi lo capisco. Ma per me se giocassero un po' meno sarebbe meglio».

Dal 2021 le Atp Finals si giocheranno a Torino: la sede giusta?

«Ottima scelta. La sede era stata cambiata tante volte, forse anche troppe prima che il torneo arrivasse al Madison Squadre Garden di New York, dove è rimasto per tredici anni, poi per altri dodici a Londra, spostarle in Italia è una decisione azzeccata».

All' Italia che cosa la lega?

«Sono amico di tanti tennisti italiani, ho trascorso parecchio tempo da voi, un altro legame forte è quello con la Fila. A Roma ho giocato una finale contro Panatta a Roma (nel 1978, ndr), ed è un bel ricordo, anche se non fu facile, per me, quel giorno. A Torino non ho mai giocato, ma conosco la città, ci sono stato varie volte, mi portarono anche a visitare la Fiat».

L' appuntamento allora è al Pala Alpitour per le Finals?

«Direi che ci sono ottime possibilità».

Ci vediamo a novembre, Bjorn.

·        Quelli che …la Vela.

Giovanni Soldini. Giorgio Terruzzi per il “Corriere della Sera” il 6 settembre 2021.

Giovanni Soldini, milanese, classe 1966. Prima traversata atlantica in barca a vela a 16 anni. Fu un colpo di fulmine?

 «Fu un caso, abbinato alla passione. Mi trovavo alle Baleari con due amici, avevamo trasferito lì una barca, vedevo molti equipaggi americani che si preparavano ad attraversare l'oceano destinazione Caraibi, decisi di tentare il barca-stop.  Ero disposto a fare di tutto, gratuitamente. Mi accolse a bordo un capitano di 75 anni, Jim. All'inizio non voleva nemmeno parlarmi. La traversata fu una scuola, imparai molte cose, a usare il sestante, a fare il punto. Allora navigare era più complicato e io stavo realizzando un sogno. Fu quello forse il viaggio più bello della mia vita. Ero libero, totalmente». 

«La paura in fondo mi dà sempre un gusto strano, se ci fosse ancora mondo, sono pronto, dove andiamo»... « Itaca» , canzone di Lucio Dalla. Si riconosce nelle parole di quel marinaio?

«Sicuramente. L'attrazione per la scoperta è fortissima. Poi ci sono i rischi e bisogna gestirli. Ma la voglia di conoscere è sempre una spinta decisiva. Luoghi ignoti, culture sconosciute, persone portatrici di storie. È così da quel primo viaggio. Arrivai ai caraibi, poi presi un altro passaggio sino in Jamaica. Vivevo di espedienti, non avevo posto dove dormire, stavo dentro un furgone nel porto, pulivo barche, facevo di tutto pur di continuare, pur di ripartire». 

In mare, oggi, cosa vede, cosa trova?

«La mia natura, la mia passione, ciò che più mi piace e mi fa stare bene. Poi trovo un disastro, la traccia dell'uomo: negli ultimi quarant' anni ne abbiamo combinate di tutti i colori. Più navigo e più noto i danni prodotti dall'impatto umano, una sequenza di delitti spaventosa, commessi senza un minimo di gestione delle risorse, delle nostre abitudini. Di questo, il mare ne risente in modo pesante. Servirebbe ricordare che negli ultimi cento anni siamo passati da mezzo miliardo a sette miliardi e mezzo di individui e questo dovrebbe modificare le priorità, lo stile di vita, altrimenti la casa dove abitiamo non regge l'impatto. Se non correggiamo davvero il nostro modo di consumare, ogni equilibrio salta, irreversibilmente».

Anni di navigazione e di trionfi in solitario. Resta quella la dimensione più affascinante?

 «È una dimensione speciale. Non l'unica. Navigare in solitario significa stabilire una relazione molto intima con la barca. Impari a interpretare ogni movimento, un suono, il più piccolo rumore. Nel frattempo hai a che fare con un aspetto più angosciante perché non c'è nessuno con cui confrontarsi, sia quando accade qualcosa che ti riempie il cuore di gioia e vorresti condividerlo, sia quando sei nei guai e ti domandi: porca malora e adesso come faccio? Pro e contro, sempre. Nella navigazione in equipaggio, quel rapporto particolare che si crea con la barca lo si stabilisce con chi ti accompagna». 

In equipaggio viaggia dal 2012. Che cosa distingue un buon capitano?

«La capacità di mantenere una particolare atmosfera a bordo. Credo sia così per ogni esperienza di gruppo. Il vero gol sta nel procedere tutti nella stessa direzione, nel cercare di eccellere in armonia. Dunque, si tratta di infondere positività. Un buon capitano deve scegliere le persone giuste e quindi fare in modo che ogni azione sia appropriata; destinare attenzione alle necessità dei singoli; sciogliere i nodi che si creano sotto stress per chi lavora molte ore, impegnando energie e cuore». 

Maserati Multi 70 è un trimarano che vola sull'acqua; volano le barche della Coppa America. È il bello della tecnologia o è la perdita di un antico romanticismo?

«Beh, l'evoluzione tecnologica esiste da sempre e io ho costantemente cercato una avanguardia. Negli anni Novanta costruimmo "Stupefacente" all'interno di una comunità di recupero per tossicodipendenti. Disponevo di pochi soldi ma quella era, all'epoca, una delle barche più avanzate in circolazione. Individuare e superare un limite tecnico rappresenta una attrazione irresistibile, disegna un percorso iniziato dai fenici. Dalle vele quadre con gli schiavi ai remi, siamo arrivati alla Coppa America: scafi che viaggiano di bolina stretta a 35 nodi. Non si può tornare indietro. Scovare soluzioni, migliorare la realtà credo significhi corrispondere una aspirazione permanente». 

John Elkann, di Maserati è l'armatore ma anche, spesso, un componente dell'equipaggio. Che marinaio è?

«Molto appassionato. Un conto è navigare con vento in poppa e mare piatto, un altro è viaggiare contro il mare, contro il vento, con onde di quattro metri. Quando è così la vita a bordo si fa davvero tosta. Il fatto che Elkann decida di affrontare queste condizioni implica una vera disposizione. Con noi ha navigato anche in regate impegnative, quando puoi beccare una depressione australe o un fronte freddo che ti fa rizzare i capelli. Si vede che ha proprio voglia di vivere esperienze autentiche».

Sul suo trimarano salgono ospiti diversi, anche per un solo giorno. Con quali reazioni?

«Spesso non si rendono conto, soprattutto le persone che non sono mai state su una barca da 40 nodi che sta volando. Credono di trovarsi su una giostra e, a differenza nostra, non avvertono il pericolo anche quando è presente. Chi invece ha già vissuto una esperienza simile, apprezza le emozioni di una navigazione estrema». 

 Nel suo partire in continuazione c'è una vocazione, forse una inquietudine, cos' altro?

 «C'è che quando ti occupi di un progetto del genere, la scelta si fa totalizzante. Poi il piacere di vivere in questo modo. C'è il privilegio di affrontare qualcosa di nuovo ogni volta. Compreso, ad esempio, lavorare con i cinesi a Hong Kong, cercare di comprendere una mentalità diversa dalla nostra. Quando sono lontano da casa, da un comfort consueto, so che serve adattamento, abitudine al confronto con la natura, con gli esseri umani. Mettersi alla prova significa sperimentare sempre qualcosa di interessante». 

Moglie e quattro figli. Un marito e un padre assente. Giustificato?

«Assente mica tanto. Anche se non sono presente ogni giorno, mi faccio sentire e secondo me in casa lo avvertono. Esistono molti modi per "far parte". I miei figli ricevono qualcosa in meno rispetto a chi ha un padre da incontrare ogni giorno, ma ricevono anche delle cose in più. Cerco di consegnare molte responsabilità, lascio che affrontino con i loro mezzi ogni esperienza, che imparino dai loro errori. Mi pare che mantenere una distanza, una astensione, talvolta aiuti un figlio a crescere meglio». 

A sua moglie Benedetta, lo scorso Natale ha regalato un gancio per il traino di un rimorchio. Contenta?

 «Ahahaha, non proprio. Comunque, il gancio serviva, era utile».

Uno come lei, vulcanico e mai fermo, come ha vissuto la pandemia?

«Molto bene perché ho la fortuna di vivere in campagna, vicino a Sarzana. È stata l'occasione per stare tutti insieme, per occuparmi di mille cose che di solito trascuro, piccoli e grandi lavori necessari coinvolgendo i miei figli in attività di manutenzione straordinaria. Mi sono molto divertito».

Due fratelli. Silvio, professione regista, Emanuele direttore dell'Istituto europeo di design. In comune, cosa avete?

«Il coraggio di scegliere la nostra strada in modo indipendente e di crederci sino in fondo. Credo che questo sia un dono impagabile, in arrivo da nostro padre Adolfo. Non ci ha mai detto: fate ciò che vi pare. Piuttosto, ha trasmesso forza interiore in un'epoca in cui i genitori sapevano fare il loro mestiere, magari rendendoti la vita quasi impossibile. Non erano genitori democratici, ecco. Però erano molto giusti, molto retti. Fornivano un esempio non scritto, indicavano una serietà preziosa per affrontare il tuo destino». 

Quando nel 1999 salvò Isabelle Autissier, naufragata nell'oceano Pacifico durante la regata Around Alone, ricevette le massime onorificenze, sia in Italia, sia in Francia. Si è mai sentito un eroe?

«Mai, nemmeno un po'. Ai media piacciono questi gesti, spesso vengono esaltati oltre misura. La realtà è diversa, io stesso sono stato salvato due volte da navi che mi hanno raccolto in mezzo all'oceano e a nessuno è venuto in mente di trattare quei comandanti come eroi. C'è una legge in mare, ed è la regola numero uno: se qualcuno è nei guai bisogna soccorrerlo. È un fondamento culturale peraltro, che riguarda ogni marinaio ed è al tempo stesso una legge universale. Persino i pirati, nel '500, dopo un arrembaggio, non buttavano in acqua gli equipaggi battuti. Magari li mettevano ai remi visto che stiamo parlando di personaggi un po' duri. Ma li raccoglievano e li sfamavano. È il mare il vero nemico, non gli uomini. La prima regola da osservare, ieri come oggi, è portare a terra chiunque, in salvo. Un principio che viene messo in scacco dalle società moderne, da coloro che si proclamano paladini della civiltà. Trogloditi. E non parlo di una questione solo italiana, riguarda tutti i Paesi sviluppati, a cominciare dagli Stati Uniti». 

Esiste il posto del cuore, il vero porto?

 «Ne esistono tantissimi. Ci sono luoghi in cui il cuore l'ho lasciato perché il mondo è una meraviglia. Ma alla fine credo che per me il posto del cuore sia la Terra, il nostro Pianeta. Per questo è importante preservarlo».

Fabio Pozzo per "la Stampa" l'11 marzo 2021. James Spithill detto Jimmy, freddo e aggressivo, in piena azione mai oltre i 65 battiti cardiaci al minuto, ha festeggiato ieri la sua entrata nell' Olimpo dei timonieri dell' America' s Cup, per numero maggiore di regate vinte nei 170 anni di storia del Match, esclamando un prosaico «Co, boys» che si è sentito nella telecronaca della prima giornata della finalissima tra Emirates Team New Zealand e Luna Rossa Prada Pirelli. È uno dei pochi termini italiani che il velista australiano ha imparato, essendosi rifiutato di prendere lezioni della nostra lingua e così facendo costringendo il resto dell' equipaggio ad adeguarsi al suo inglese. Idioma, quest' ultimo, forse più efficace nella comunicazione delle manovre in regata tra lui e l' altro timoniere di Luna Rossa, il palermitano Checco Bruni, che subito dopo l' esclamazione di Jimmy lo si sente complimentarsi con un «I' m proud of you» (sono orgoglioso di te/voi), non si capisce se rivolto allo stesso Spithill per lo sprazzo di italianità o all' equipaggio per la vittoria della gara 2, che ha fermato il punteggio della "prima" dell' America' s Cup sull' 1 a 1, smentendo i pronostici pro Kiwi. Spithill con 15 vittorie supera di un punto il kiwi Russell Coutts, cinque America' s Cup vinte e di due punti un' altra leggenda, lo statunitense Dennis Conner, quattro coppe vinte. Un traguardo, questo di quota 15, che Jimmy condivide col team di Luna Rossa, che festeggia la prima vittoria della sua storia nell' America' s Cup e con il compagno Bruni, il primo timoniere italiano a vincere una regata del Match, considerato che alla ruota del Moro di Venezia c' era il franco-americano Paul Cayard. Un campione, Spithill, con una storia tutta da raccontare, e lui l' ha fatto con l' autobiografia 50 nodi (Tea). Classe 1979, nasce a Sydney e deve subito combattere a scuola, dov' è bullizzato per i suoi capelli rossi, le lentiggini e la gamba destra più corta della sinistra. Il rugby, la boxe e poi la vela lo aiutano a difendersi e a trovare una via d' uscita dagli eccessi di droga e alcol. «Sul campo, in palestra non si facevano discriminazioni. Valeva chi lavorava più duramente e con più determinazione», dice. A nove anni la sua prima barca, condivisa con la sorella Katie, un anno dopo la prima regata: vince e non si ferma più. Poi le gare di match-racing, le regate d' altura, l' esordio nell' America' s Cup nel 2000 con Young America, dove a 19 anni è il più giovane timoniere della storia del trofeo. Prosegue con Seattle One World, Luna Rossa nel 2007, Oracle Usa con cui vince nel 2010 e nel 2013, quando compie il suo capolavoro, la rimonta più grande dello sport: da 1-8 a 9-8 contro i kiwi. Nel 2017 perde il trofeo sempre con Oracle contro Team New Zealand e ora cerca la rivincita alla sua settima America' s Cup. «È bello essere competitivi, è bello vincere», ha detto ieri dopo la vittoria. Non male per un bambino di cui il medico curante aveva detto «Non credo riuscirà mai nello sport».

Da corriere.it il 22 febbraio 2021. (...)

Ma perché i rapporti con gli ex alleati neozelandesi si sono guastati?

«Me lo chiedo anch’io. Li abbiamo aiutati a Bermuda, abbiamo concordato gli Ac75, abbiamo sponsorizzato la Prada Cup. Cosa vogliono di più? Mi sembra tutto un po’ esasperato, eccessivo. Quando il capo dei kiwi era Tom Schnackenberg, veniva a mangiare gli spaghetti alla nostra base. Con Grant Dalton è tutto più difficile».

Fabio Pozzo per “la Stampa” il 22 febbraio 2021. «Siamo italiani, che cavolo!» ha esclamato il timoniere Checco Bruni sulla linea d' arrivo, salutando così la vittoria dell' ottava regata contro i britannici di Ineos Uk (bilancio 7-1), un successo che è valso a Luna Rossa la Prada Cup come 21 anni prima, sempre ad Auckland, e l' accesso all' America' s Cup contro il detentore Team New Zealand. «Ci dovranno passare sopra i Kiwi per batterci!», sempre Bruni. Patrizio Bertelli, il patron di Luna Rossa, l' uomo che ha lanciato sei volte la sfida al trofeo, più di tutti gli altri tycoon che si sono cimentati in questo gioco brutale che dal 1851 fa penare e gioire i tifosi di tutto il globo, e che adesso vuole vincerlo (scongiuri) lo ha sentito in tv.

Signor Bertelli, per la prima volta non è sul campo.

«Purtroppo, questo Covid mi ha costretto a restare in Italia Non è un momento facile, speriamo di venirne fuori».

Nemmeno ora, la tentazione di salire su un aereo e raggiungere il team?

«No, purtroppo non mi è possibile. A parte che è difficile trovare all' ultimo momento un posto ad Auckland dove poter osservare come straniero la quarantena obbligatoria, ma in questo momento devo seguire l' azienda e non posso proprio volare via».

Si soffre di più a casa?

«Mah, magari quando sei sul campo di regata, con il team sul gommone di appoggio, condividi le emozioni, ti confronti con qualcuno Ma, in definitiva, si soffre in egual misura».

E che team ha visto da casa?

«Intanto, ho visto un gruppo molto unito, come ai vecchi tempi. Anche se devo dire che Luna Rossa è sempre stata una squadra affiatata. Abbiamo avuto la capacità di fare barche più o meno veloci, ma il team è sempre stato coeso. Lo skipper Max Sirena è stato bravo a gestire questo gruppo».

È un punto di forza?

«Sì, trovo che questo poi si veda in mare, alla prova dei fatti. E sa anche una cosa bella?».

Quale?

«Che abbiamo anche tanti ragazzi nuovi con noi. Abbiamo di fatto un' altra squadra di giovani. E questo è importante, significa il futuro. Mi proponevo di creare una continuità e ci siamo riusciti».

Ora ci sono i Kiwi all' orizzonte: come li vede?

«Sono forti, come sempre. Non sarà facile».

Luna Rossa finora ha fatto bene. Può ancora migliorare?

«Io penso proprio di sì. Almeno, ci proveremo. È un dovere provarci».

Luna Rossa è una barca riuscita. Quando però è nata questa nuova classe di monoscafi volanti, avveniristici, lei sembrava poco convinto.

«No, a me questa barca mi è sempre piaciuta molto, però in principio forse la conoscevamo poco, perché ci mancava un po' di rodaggio. Non s' è potuto regatare prima di arrivare in Nuova Zelanda, la pandemia ci ha fatto saltare tutto. Avevamo pensato a tappe di avvicinamento, come in passato. Per esempio a Cagliari. Peccato, sarebbe stata bello partire con le prime gare, anche se preparatorie, dall' Italia».

Le prime regate alla fine si sono viste lo scorso Natale in Nuova Zelanda.

«Molto ravvicinate alla Prada Cup. Gli inglesi, ad esempio, a Natale non conoscevano ancora la loro barca, i sistemi per gestirla. Erano stati dati per spacciati, ma poi hanno dimostrato il contrario. Gli americani invece, forse hanno sbagliato calcoli. Hanno pensato a costruire una barca tipo catamarano, puntando sulla velocità e pensando che sarebbe bastato correre e non invece battagliare nel classico match-race».

Ventun anni fa ad Auckland la prima Luna Rossa, allora battezzata "silver bullet", vinse la Louis Vuitton Cup e andò in finale. Se lo ricorda?

«E come posso dimenticarlo? Era la prima nostra America' s Cup. Ma per una ragione o per l' altra a me tutte le edizioni mi hanno emozionato. Anche Valencia, nel 2007. Penso che in tutti questi anni Luna Rossa abbia seminato qualcosa, abbia lasciato una scia. Fatta pure di amicizie, tanti velisti, anche che non hanno gareggiato con noi. Penso ad esempio a Mauro Pelaschier di Azzurra».

Ecco, l' Italia nell' America' s Cup comincia con Azzurra. C' è un filo che vi lega a quella prima impresa?

«Ma certo. Tutti insieme abbiamo fatto crescere la vela, e con essa lo sport, in Italia. Tanti atleti, ma anche tanti tecnici, professionisti che oggi il mondo ci invidia».

Che cosa le è piaciuto di Luna Rossa?

«Mi sono piaciuti i comportamenti, sempre rispettosi. L' umanità conta. E poi, la sintonia tra timonieri e stratega e anche la scelta stessa di avere due timonieri, che ci ha avvantaggiato nelle partenze».

Sa che si parla già dell' America' s Cup che verrà, la 37a? Di un possibile vostro accordo con Alinghi, che tornerebbe nel ruolo di primo sfidante.

Che c' è di vero?

«Ci sono stati contatti, ma non c' è nulla di scritto».

Se vincerà, difenderà la coppa in Italia?

«Certo, ma non parliamone ora. Non sono molto scaramantico, ma insomma...».

Gaia Piccardi per il “Corriere della Sera” il 12 febbraio 2021. Lo skipper con i baffi del Moro di Venezia (San Diego '92), diventato il grande nemico di Luna Rossa al timone di America One (Auckland 2000), oggi è un marinaio californiano di 61 anni con i riccioli imbiancati - sarà la salsedine? - e un'insana passione per il volo. No, non quello degli Ac75 che stanotte tornano a decollare nella finale di Prada Cup: Luna Rossa contro gli inglesi di Ineos per un posto in Coppa America, dal 6 marzo, contro i detentori di Team New Zealand. «Ho appena fatto un altro brevetto: piloto un Cessna 421, ormai vado più in aereo che in barca» racconta Paul Cayard da San Francisco, dove tiene casa, yacht club e grandi progetti per il team Usa in vista dei Giochi di Los Angeles 2028. Ma il timoniere della prima barca italiana a conquistare la selezione degli sfidanti - al Moro di Gardini nel '92 seguirà la Luna di Bertelli nel 2000 -, ancora amatissimo in Italia, torna volentieri a parlare di vela.

Se quella di Auckland, con le barche che sfrecciano a cento all'ora e i marinai vestiti da astronauti (copyright Cino Ricci), può ancora definirsi vela. A lei piace, Cayard?

«Pensavo peggio, dico la verità. Credevo che grandi differenze di velocità avrebbero reso le regate meno interessanti. Invece no. Però a me mancano le storie degli uomini, le manovre a bordo, l'azione ravvicinata: gli spinnaker che esplodono, i prodieri che cadono in acqua, le barche poppa contro prua con i timonieri che si sgolano per ottenere la penalità. La Coppa America che conosco io da 35 anni era così».

La velocità degli Ac75 non l'ha conquistata?

«La velocità è più bella in Formula 1, dove ci sono dieci macchine che girano. Ma quando sono in due e una barca va il 2% più veloce dell'altra, è finita: la velocità in sé, senza competizione, è noiosa. Sembra più iceboating: ha presente quelle vele che corrono sul ghiaccio? Però lì almeno c'è la flotta».

Da velista sarebbe curioso di mettersi al timone dei mostri di Auckland?

«Moltissimo! Ma alla mia età su quel gioco ho messo una pietra sopra: a 61 anni non puoi competere con i ragazzi, sarebbe ridicolo. Un'altra coppa come Ceo di un sindacato, invece, la farei». Su quali barche? «A me non dispiacciono i Mini Maxi: sui monoscafi tradizionali, capaci di fare 40 nodi in poppa, l'equipaggio tornerebbe a fare la differenza. Ma andare indietro non si può: sarebbe una brutta immagine per l'America' s Cup».

Punterebbe un dollaro su Luna Rossa o Ineos vincitore della Prada Cup?

«Luna Rossa. Immaginandola simile a Ineos come velocità, io vedo l'organizzazione a bordo di Francesco Bruni e Jimmy Spithill migliore. Vedo una barca più stabile e meno gente che corre avanti e indietro, come sullo scafo inglese. E Checco non è il numero due, non è inferiore a Jimmy. Mi chiedo, piuttosto, perché tutta la barca parla inglese anziché italiano...».

Già, perché?

«Perché Spithill non aveva voglia di imparare l'italiano, forse! Credo ci abbiano pensato e poi hanno scartato l'idea. L'inglese in barca è più immediato, so per esperienza che l'equipaggio risponde meglio alle chiamate, più che con le lingue latine».

Luna Rossa grande favorita per approdare in Coppa America, quindi.

«È una barca raffinata, la più bella della flotta. Scafo, foils, vele perfette, nera e affilata. E poi ha la randa più grassa di tutti. I like it ».

La scelta del doppio timoniere la convince?

«Sì. In regate così brevi le decisioni le prendi prima. Bruni e Spithill sanno fare anche il tattico, all'occorrenza».

Possiamo definire la campagna di American Magic, costata circa 10 milioni di dollari a regata (14 in totale), un fallimento?

«Oh yes. Dovranno fare molte riflessioni su un incidente, il quasi naufragio nel Golfo di Hauraki, che non doveva succedere».

Il suo ricordo più indelebile dell'avventura con il Moro di Venezia?

«La lite sul bompresso con i neozelandesi, la rimonta da 1-3, la battaglia nella finale di Vuitton Cup. Ricordo il panico la mattina in cui i kiwi decisero di mettere al timone Russel Coutts. Paul, e ora? mi chiese l'equipaggio. E ora regatiamo, ho risposto. Abbiamo trionfato 5-3, chiudendo con due vittorie di fila».

Ha conservato cimeli?

«La giacca rossa con il leone della Compagnia della Vela di Venezia, il nostro guidone. Quasi trent' anni dopo, la metto ancora».

Paul Cayard. Francesca Lodigiani per "il Messaggero" il 12 febbraio 2021. Paul Cayard, 61 anni meravigliosamente portati, segno zodiacale toro, sportivo di cultura velica rinascimentale, nel senso che spazia dalla Star, la regina delle Classi Olimpiche (un titolo mondiale e un quinto posto ai Giochi di Atene 2004), all'America' s Cup, alla quale si dedica per 30 anni, a due Giri del Mondo a tappe, la famosa Whitbread, poi Volvo Ocean Race, che vince al primo colpo su EF Language nel 96, alla One Ton Cup, che vince nel 1989 come tattico del Brava di Pasquale Landolfi con Francesco De Angelis al timone, all'Admiral's Cup che vince, sempre con Brava, nel 95 a Cowes nell'isola di Wight. Senza contare i successi sui Maxi e altri scafi in giro per il mondo. Il ragazzo al quale Raul Gardini affida, quando ha solo 29 anni, la gestione della sua campagna di Coppa America. Non un gioco, ma all'altezza delle doti manageriali che in lui vede «Raùl», come ancora oggi pronuncia il suo nome Cayard. Paolino Cayardo per i tifosi italiani delle dirette notturne di Telemontecarlo da San Diego, telecronista Paolo Cecinelli insieme a un irrefrenabile, incensurabile Cino Ricci. Grazie a Zoom entriamo nella sua casa con vista sulla baia di San Francisco alla vigilia della Prada Cup, la già Louis Vuitton Cup che al timone di America One il 6 febbraio 2000 perse per 4 a 5 contro Luna Rossa Silver Bullett. Sono passati 21 anni dalla Louis Vuitton Cup del 2000 con la Sua America One contro Luna Rossa, la ricorda? «È tra i miei grandi ricordi di Coppa America: 9 gare combattute con continui colpi di scena. Sono considerati ancora oggi i più bei match della storia della Coppa America».

Quanti suoi spinnaker verdi esplosi in quelle regate?

«Non ho tenuto il conto, ma 8 è un numero che mi suona».

Che fine hanno fatto i baffi, gli italiani c'erano affezionati?

«Tagliati nel 2011 su suggerimento della fidanzata di allora. Mi sono trovato bene e mi piaccio. Erano cosa da anni 80/90».

La 36ª America' s Cup e gli AC 75: cosa ne pensa ?

«Avevo dubbi, temevo barche con differenze di velocità e quindi regate non interessanti. Ma sono stato ben impressionato fin da dicembre, regate competitive. Bene la partenza di bolina ed è tornato un po' di match race, di gioco di posizionamento. Peccato poche barche e poche regate».

Cosa pensa di Luna Rossa?

«La barca sembra buona, all round, migliorata molto con vento, e avendo una serie lunga davanti, al meglio di 13 prove, potranno esserci condizioni differenti, un bene per lei. Hanno belle vele. Loro sono bravi. Mi piace il coraggio della scelta di due timonieri che non si muovono da una parte all'altra. Evitare il momento di transizione degli altri è una cosa potente. Gli mancava qualcosa per unire le due visioni di destra e sinistra, e ora col randista che diventa strategist (Pietro Sibello, ndr) hanno creato il collegamento. Giles Scott, (il tattico di Ben Ainslie, ndr) guarda sempre di qua e di là della randa. Checco e Jimmy il gioco del match race lo sanno fare bene quanto Ben e Giles e meglio di Peter Burling di New Zealand che non ha mai fatto il circuito top di match race. Jimmy dopo le regate di Natale è tornato se stesso come timoniere e Checco è bravissimo. Come umano e come velista; intenso, ma non troppo, il giusto. Mi fa sorridere che, tutti italiani, a bordo parlino tutti in inglese per Jimmy, uno solo».

Che idea ha di Ineos Team UK?

«Bravissimi velisti che sanno dare il meglio quando conta. Anche Jimmy ha quella cosa lì. Nella sfida tra loro bisognerà capire la velocità delle rispettive barche. Se è equivalente, sarà lotta tra pari e nessuno può prevedere il risultato».

Ineos Team UK e Emirates Team New Zealand hanno regatato meno di Luna Rossa, quanto pesa?

«Per Luna Rossa aver fatto le semifinali è un vantaggio sia psicologico, perché si sente più forte, sia per lo sviluppo, perché per la macchina che sta dietro alla barca è un bene avere scadenza ravvicinate da rispettare per scelte e miglioramento. New Zealand è una macchina lubrificata dalle tante Coppe e sono master nel simulatore. Se hanno la velocità, non hanno problemi, altrimenti sì perché il loro timoniere Burling è un incredibile talento, ma non sa perché fa le cose, mentre Jimmy e Checco, e Ben e Giles, sono ben testati in questo tipo di gara».

Terry Hutchinson, skipper di Patriot, era il suo randista?

«Sì, l'incidente è stato una combinazione di sfortuna e mancata gestione del momento. La vera domanda è se Dean Barker fosse il timoniere giusto. Lui è il più giovane della mia generazione e non è un grande campione. Come americano, sono però orgoglioso di come Terry si è comportato dopo».

·        Quelli che …i Tuffi. 

Flavio Vanetti per il “Corriere della Sera” il 24 giugno 2021. L'Angelo Biondo, Tarzan mancato al cinema, oggi è un signore di 73 anni che dispensa la sua esperienza al mondo dei tuffi, il pianeta del quale fu sovrano. Parlare con Klaus Dibiasi lascia un brivido a chi ricorda le sue piroette per tre volte baciate dall' oro olimpico, simbolo di un'Italia a cavallo tra anni 60 e 70 nella quale «Klaus aus Bozen», poi diventato uomo della capitale, fu sinonimo di vittoria. L' Angelo Biondo è stato anche un Angelo Azzurro, custode dei successi con la maglia più bella.

Nel nome del padre: è proprio vero, nel suo caso.

«Papà Carlo è stato l'inizio di tutto. Si era sposato nel 1939 e nel 1940 si era trasferito a Bressanone. Ma al lago di Monticolo, distante 60 km, aveva costruito con gli amici un castello in legno di 10 metri per tuffarsi: così tornava spesso e l'andirivieni lo faceva in bici». 

Poi trovò lavoro in Tirolo...

«Sì, io sono nato a Solbad Hall. Papà lavorava e dirigeva una piscina all' aperto: immaginate che freddo, in certi mesi. Nel 1953 la famiglia tornò a Bolzano, dove mio padre aveva creato una scuola di tuffi ben frequentata anche dagli austriaci». 

Carlo Dibiasi non ha vinto ai Giochi come il figlio, ma era un campione.

«Papà è stato un autodidatta: dalla ginnastica era passato ai tuffi. Mi ha regalato soprattutto sicurezza e serenità, nei grandi eventi non sono mai stato tradito dall' emozione». 

I Dibiasi hanno «rischiato» di gareggiare per l'Austria?

«Io no, ma papà visse un pasticcio che lo fregò. Ai Giochi 1936 era andato come azzurro, primo altoatesino olimpico. Però a Londra 1948 avrebbe dovuto partecipare come austriaco, vivendo in Tirolo. Vienna non gli diede il permesso perché aveva già gareggiato con l'Italia, che non lo volle più in quanto aveva residenza e passaporto austriaci. Totale: niente Giochi. Peccato, nel 1948 era in forma». 

I Giochi del 1936, Hitler e la propaganda: suo padre gliene ha mai parlato?

«Non mi ha raccontato il clima dell'evento, ma mi ha descritto gli avversari: così ho conosciuto i vari Marshall Wayne, Elber Root, Hermann Stork, Erhardt Weiss, Tsuneo Shibahara.

Papà chiuse decimo dalla piattaforma, a Londra avrebbe fatto meglio». 

Berlino fu l'Olimpiade di Leni Riefenstahl, la regista di Hitler, anche se lei disse che quel committente le creò più danni che vantaggi.

«Penso che la Riefenstahl abbia avuto il merito di raccontare lo sport dall'interno, frequentandolo con passione».

Il Klaus Dibiasi alto e biondo sarebbe piaciuto a Leni?

(risata). «Anche mio padre era prestante, se è per quello. Però, chissà: se fossi capitato nella sua era magari mi avrebbe dedicato delle immagini». 

Preferisce la definizione di altoatesino o di sudtirolese?

«È la stessa cosa». 

Un altoatesino a Roma: dove sta l'errore?

«Chi come me ha viaggiato tanto, si adatta ovunque. A Roma sto bene: ci vivo non solo perché mia moglie è romana, ma anche perché ero diventato allenatore federale». 

Vota per Virginia Raggi?

«Roma è difficile, la Raggi a mio giudizio ha fatto il meglio possibile. Però ha anche scoperto che chi governa non sempre riesce a fare ciò che desidera». 

L' Alto Adige e certe rivendicazioni rispetto all' Italia: erano giuste o sbagliate?

«Alcune erano giuste. La popolazione era di madrelingua tedesca e quando è arrivata l'Italia ha dovuto imparare cose nuove dall' oggi al domani: mia madre stessa non conosceva l'italiano. Ma a volte sono stati usati metodi esagerati: sì, penso alle bombe». 

Lei era l'Angelo Biondo. E non solo dei tuffi.

«Il fisico alto e atletico mi ha aiutato nell' essere identificato in un certo modo. Però sono stato agevolato anche dai risultati: a 17 anni ho vinto l'argento a Tokyo. Era la seconda medaglia di un altoatesino ai Giochi estivi dopo l'oro di Albert Winkler nel "4 con" di canottaggio a Melbourne. Per me valeva quanto un titolo». 

Dibiasi, una delle certezze dello sport italiano dell'epoca.

«Ringrazio ancora Mario Saini, segretario del Coni: lanciò me e Cagnotto. Ci notò a Napoli ai Giochi del Mediterraneo 1963 e l'anno dopo ci spedì ai Giochi di Tokyo. L' allenatore era un tedesco dell'Est scappato nel 1958. Ci ha guidato per un decennio, conosceva la biomeccanica: da lui imparammo tanto». 

Dibiasi e Cagnotto, amici o nemici?

«Sul trampolino eravamo agonisti in un confronto di abilità e destrezza. Ma la rivalità finiva lì, andavamo in vacanza assieme. Grazie a Giorgio ho avuto una "misura", un riferimento. E lui può dire la stessa cosa di me: uno tirava l'altro, come accadeva tra Thoeni e Gros». 

Poi apparve Greg Louganis...

«Ricambio generazionale: noi eravamo a fine carriera, anche se Giorgio è arrivato ai Giochi di Mosca e ha pure vinto un bronzo. Greg nel 1976 era un debuttante poco esperto. Si sarebbe rifatto: l'unico argento che ha è quello di Montreal, il resto è oro. È stato il migliore di sempre. Non era solo "meccanico", era pure elegante. Studiava arte drammatica e balletto: aveva movimenti morbidi e riconoscibili». 

Vi sorprese quando disse di essere gay e sieropositivo?

«Sì, nessuno ci pensava. E ai tempi l'omosessualità non era dichiarata facilmente».

Tornando ai Cagnotto, Tania è stata meglio del papà?

«Certi confronti sono impossibili, anche perché quando noi saltavamo esistevano solo due specialità. Tania, comunque, è stata una campionessa: è cresciuta, l'argento e il bronzo di Rio 2016 sono stati straordinari. Lei era eccezionale fisicamente e nell' eleganza, bella di gambe. E fredda in gara, a differenza di altre». 

Tre ori in tre edizioni contigue dei Giochi: in Italia ce l'hanno fatta solo Vezzali, Compagnoni e lei. Che effetto fa essere una «divinità» dello sport?

«Amo restare con i piedi per terra, la mia cifra è la modestia. Certo, è molto bello anche perché è difficile ripetersi».

Tuffarsi equivale a creare un'opera d'arte?

«Sì: il tuffo va interpretato e l'atleta, al di là delle regole della fisica, ci mette del suo, come un ballerino classico». 

A bordo piattaforma: pensieri ed emozioni.

«Le emozioni vanno accantonate. Per fare un bel tuffo devi ricordarti, senza alternative, quanto sperimentato in allenamento. A Montreal, a causa del guaio al tendine, ho dovuto superarmi: vedevo gli altri, poi pensavo a me. E dovevo battere Louganis...». 

Non facile.

«L' ultimo tuffo avrebbe potuto essere rovinato dall' emozione. Invece mi sono detto: devi fare così, così, così. Ed è andata in quel modo: tuffo perfetto, da 9,5». 

La paura è contemplata?

«Passa in secondo piano. Più che paura è timore di sbagliare. Ma se sai tuffarti, hai dei riferimenti». 

Qualche «spanciata» sarà pur capitata anche a lei...

«Certo che sì... E non è piacevole entrare male in acqua: sono solenni botte. I tuffi si imparano dal basso, poi si sale sempre più in alto. Avevo timore, quando dovevo spostare il triplo avvitamento dai 3 ai 10 metri. Il presidente mi disse: "Se fai questo tuffo da lassù ti pago cento strudel al bar"». 

Ha mai pensato di cimentarsi da La Quebrada, la scogliera di Acapulco?

«I messicani mi hanno invitato. Però, a differenza di Cagnotto, non sono mai andato: quel tipo di tuffo non mi ha mai attirato». 

Si vince più con la tecnica o con la testa?

«Con entrambe. La potenza spiega la differenza tra ieri e oggi: ieri l'obiettivo era essere rapidi, oggi è fare un salto mortale in più». 

Le giurie agevolano i più famosi?

«Qualche aiuto l'ho avuto: se sei conosciuto, è umano che un giudice dia una mano. Nei corsi per giudici dico agli allievi di valutare l'esercizio, non l'atleta. Sui voti c' è una barzelletta: uno si tuffa e prende tutti 6. Ma il giudice capo ricorda che è il campione in carica: allora le palette vengono girate e i 6 diventano dei 9». 

Le ragazze volevano fidanzarsi con Dibiasi?

«Me ne ronzavano attorno un po', però non sono mai stato un don Giovanni». 

In quale Italia si è stati meglio?

«Negli anni '70 e '80 c' era spensieratezza, ora si è fin troppo rigorosi». 

Ha mai ricevuto proposte curiose?

«Mi hanno offerto di interpretare Tarzan e di ripercorrere, al cinema, le orme di Johnny Weissmuller. Ma è stato solo un pour parler».

C' è chi ha scritto che lei era popolare quanto Mike Bongiorno.

«Ma no, dai. Tra l'altro gli sportivi all' epoca non potevano avere l'esposizione di oggi, pena la squalifica. Ero stato contattato dalla Marzotto, sarei finito sui cartelloni pubblicitari. Ma ho dovuto rinunciare».

Perché non troviamo più un Klaus Dibiasi?

«Perché per arrivare alle medaglie serve un balzo in avanti rispetto al buon livello. A noi italiani manca l'ultimo gradino: Tania Cagnotto e Francesca Dallapé sono state l'eccezione». 

È stato giusto mettere in discussione i Giochi di Tokyo?

«No, andavano fatte: gli atleti hanno tenuto duro e abbiamo imparato a gareggiare nelle "bolle". L' Olimpiade s' è fermata solo per le guerre». 

In che cosa deve tuffarsi l'Italia?

«In una ripartenza seria. Da uomo d' acqua aggiungo: nel cloro il virus si perde, perché le piscine sono state tenute chiuse?».

·        Quelli che …il Nuoto. 

Chiara Pellegrini per "Libero quotidiano" il 30 giugno 2021. Due uomini annegati nel Po, un altro in Sardegna, un ragazzo morto affogato nelle acque dell'Isonzo mentre era con gli amici e partecipava ad un allenamento in kajak. Sulla spiaggia di Rosolina (Rovigo) un bambino ha rischiato di annegare ed è stato salvato grazie al massaggio cardiaco. A Torvajanica Roma un bagnino eroe ha salvato la vita ad un bambino, questa volta di appena due anni. Solamente mercoledì scorso, ad Ostia, un fatto analogo dove un bagnino ha salvato un 15enne. La stagione balneare è appena iniziata ma il panorama che si comincia a delineare secondo la Società nazionale di Salvamento (Sns) «è quello degli scorsi anni, che nel 2020 con il Covid e l'apertura in ritardo dei lidi aveva registrato un'ovvia decrescita». Secondo i dati dell'Istituto superiore di sanità in Italia ogni anno più di 400 persone muoiono in Italia per annegamento (sono 320mila nel mondo per il 90% nei paesi a basso o medio reddito). La fascia di età con il numero di decessi più alto è quella fra i 15 e i 19. Nel rapporto si evidenzia come tra il 2010 e il 2012 in Italia sono morte per annegamento 1129 persone, circa 380 all' anno: 73 (circa 25 l'anno) erano bambini con meno di 14 anni, soprattutto maschi (il 75%). Ai mondiali di nuoto e alle Olimpiadi inanelliamo medaglie: ma gli italiani sanno nuotare? No, almeno stando ad una ricerca effettuata dal pediatra Italo Farnetani, docente alla Libera Università Ludes di Malta e pubblicata da Fortune Italia. Su sette milioni e mezzo di minori da 4 a 18 anni solo 2,2 milioni, ovvero il 30%, sa nuotare bene; 2,2 mln sanno solo galleggiare e spostarsi in avanti, mentre il 10%, sa nuoticchiare solo in piscina, ma non in mare e il restante 30% non sa nuotare affatto. Il nuoto resta però lo sport più praticato in Italia tra i piccoli. Secondo il rapporto Istat 2017 sulla "Pratica sportiva in Italia" tra i bambini fino a 10 anni il nuoto è lo sport più praticato (43,1%), soprattutto tra le bambine (47,7% contro 38,9%). «Ma in Italia non c' è», spiega Giorgio Pezzini dell'ufficio di presidenza della Società nazionale di salvamento (Sns) e tecnico dell'Osservatorio nazionale sugli annegamenti «l'attenzione a livello statale e scolastico che c' è in Germania, dove infatti temono, a seguito della chiusura delle piscine a causa del Covid, che possa esserci un aumento degli annegamenti». Nei land tedeschi il nuoto è inserito nel programma pedagogico delle scuole e per un semestre il nuoto sostituisce le normali lezioni di ginnastica. Ci sono alcuni Gymnasium in cui bisogna addirittura aver raggiunto un certo livello in questo sport per poter essere ammessi. In Italia nelle piscine annegano 20-30 vittime l'anno, più della metà sono bambini piccoli che sfuggono al controllo degli adulti, un numero enorme se si pensa alla differenza tra la frequenza delle spiagge e piscine. Certo rispetto ai numeri del passato va meglio. In Italia, nei primi anni '70, gli annegamenti erano quasi 1.400 annui; alla fine degli anni '90, circa 400, e da lì sono rimasti pressoché stabili. «Tra le cause che hanno prodotto questa drastica riduzione va annoverato senza dubbio», spiega Pezzini, «l'apprendimento del nuoto e l'educazione alla sicurezza in acqua della popolazione italiana». Secondo il rapporto stilato dall' Sns assieme all' Istituto superiore di sanità negli annegamenti dei bambini piccoli non ci sono pressoché differenze tra i sessi. Queste vengono fuori con l'adolescenza: i maschi annegano di più (anche se negli ultimi dieci anni c' è stato un recupero delle femmine) in un rapporto di 3 a 1 (quasi il 75%) . Negli ultimi due decenni è balzato in alto il numero degli annegamenti per malore di italiani e turisti stranieri dovuto ad una popolazione invecchiata e benestante che va al mare: l'età media è 60 anni anche se c' è balzo verso l'alto ai 64 anni. «Il "triangolo delle Bermude"», spiega Pezzini, «è il tratto da Gabicce a Lignano perché il fondale si presta molto bene alla deambulazione in acqua». La mappatura degli annegamenti ha evidenziato alcuni tratti ad alto rischio sulle coste italiane. Otto zone in particolare: Liguria di ponente (da Savona a Ventimiglia), Toscana (dalla foce del Magra a Piombino), Lazio, tratti sabbiosi, Campania, (Cilento, in particolare), Puglia, parte più meridionale, Adriatico: da Pescara a Trieste, Sardegna e Sicilia in vari tratti. «I pericoli associati a questi tratti», ragiona Pezzini, «sono le correnti di ritorno naturali o artificiali, che possono raggiungere anche i 9 km/h e provocano circa 50 annegamenti per stagione».

Dal “Corriere della Sera” il 3 luglio 2021. I nuotatori e le nuotatrici nere non potranno gareggiare alle Olimpiadi con il «soul cap», una cuffia studiata appositamente per mantenere asciutti i capelli delle persone di colore. La commissione che si occupa di varare le regole per il nuoto ha deciso che queste cuffie «non seguono la forma naturale della testa e quindi non possono essere usate». Gli atleti si sono detti «molto dispiaciuti». Alice Dearing, la prima donna nera a rappresentare la Gran Bretagna alle prossime Olimpiadi, è convinta che molte ragazzine di origine africana lascino il nuoto per via dei capelli che sono molto più voluminosi e secchi degli altri e possono essere danneggiati dal cloro presente nelle piscine. «L' equipaggiamento per il nuoto può e deve essere inclusivo».

Benedetta Pilato. Arianna Ravelli per corriere.it il 26 luglio 2021. Non un errore, non una gara banalmente sottotono, qualcosa di più di una delusione, un fallimento epocale, un crollo, una valanga che travolge tutto e ti ritrovi con tutti i pezzi del domino rovesciati: la tensione, la bracciata improvvisamente stanca, il corpo che non ti risponde più come vorresti e infine anche il gesto tecnico, che hai ripetuto milioni di volte e che ti ha portato a un record del mondo (50 metri rana, 29”30), che ti tradisce: squalificata. Questa è stata l’Olimpiade di Benedetta Pilato, “orribile” per usare l’aggettivo che ha scelto lei e non è chiaro se ci sarà una seconda possibilità a Tokyo (qui lo speciale Olimpiadi e qui il live delle gare di oggi) perché per le staffette dovrebbero essere impiegate le compagne Martina Carraro e Arianna Castiglioni. «Non so che ha combinato, prima della gara era agitatissima - rivela Martina - ma anche se ha fatto un record del mondo bisogna ricordare che ha solo 16 anni». Ecco. Nella terra estrema dei 16 anni, dove esistono solo colori assoluti, luce o buio, una caduta così, con squalifica, rischia di significare il baratro, di unire alla normale delusione quel sentimento di inadeguatezza mista a vergogna che abbiamo provato tutti quando abbiamo fallito per la prima volta. Quando ci siamo sentiti falliti. Perché la differenza forse è tutta qui. E a volte ci vuole una vita per impararla. Per imparare a ridimensionare e a perdonarsi, a rimettere tutto in prospettiva e a concedersi una seconda chance, non significa che non valiamo niente se abbiamo sbagliato, anche clamorosamente. Se vuole qualche esempio Benedetta può trovarlo vicino a lei, qualche camera più in là nel Villaggio: Federica Pellegrini vince l’argento ad Atene a 16 anni, subito sulla vetta del mondo senza passare per la maturità, poi sono arrivati i disturbi alimentari e le crisi di panico che Federica ha superato crescendo. Ed è arrivata la carriera straordinaria che sappiamo. Jennifer Capriati era arrivata al top a 17 anni, un successo strepitoso, poi perse a Flushing Meadows al primo turno e da lì si prese più di due anni di pausa. Per poi tornare numero 1 sette anni più tardi. Qualcuno resta segnato. Gianluigi Quinzi vince Wimbledon junior a 17 anni, poi non è in grado di gestire le aspettative che si creano, i risultati non vengono, non si diverte più, comincia a infortunarsi in serie, fino a quando capisce che deve cambiare strada. È dentro tutto questo che è finita Benny, adesso. Finora le era venuto tutto facile. Dotata di un talento naturale straordinario, aveva vissuto l’ascesa come un gioco, si era qualificata per Tokyo senza neanche sapere il tempo che le serviva, con un allenatore “amatore” (di mestiere lavora all’Asl) che le ha ripetuto che l’Olimpiade per lei doveva essere come il Natale, l’attesa persino più bella dell’evento in sé. Poi però evidentemente le pressioni ha cominciato a mettersele da sola. E la testa ha fatto tilt. Ora vede nero, ma ha dentro di sé gli anticorpi giusti. «Se una gara va male noi non ne facciamo un dramma», diceva prima del record e dell’esplosione di popolarità. Può tornare lì. Basta che alzi la testa e dia un’occhiata alla piscina che ha appena lasciato. L’americana Simon Manuel, la prima nera a vincere la medaglia d’oro nel nuoto, nei 100 stile a Rio, e dopo aver vinto nove ori tra i Mondiali 2017 e 2019, ha fallito la qualificazione per Tokyo nella gara individuale, la sua gara. “Sindrome da superallenamento”, ha rivelato. Poi si è ripresa, ha guadagnato il pass per la staffetta e oggi ha vinto un bronzo. Forse per noi europei è più difficile. Per gli americani non esiste una storia interessante se non c’è una caduta e una risalita. Fallire è una cosa della vita, un passaggio, qualcosa che può succedere e magari succede a te. Cadi, ci riprovi, ti rialzi. Magari scopri che sei meglio di prima. Per noi italiani spesso la vergogna diventa un’ombra lunga e gigantesca, uno stigma che ci sentiamo addosso come una fine. Ricominciare – nello sport, nel lavoro, nella vita di relazioni – è un’avventura. Come dicono gli americani, dentro e fuori vasca, finché c’è una corsia davanti a te puoi sperare. Coraggio Benny, a 16 anni ne avrai davanti altre migliaia, se solo lo vorrai. 

Da gazzetta.it il 22 maggio 2021. Benedetta Pilato polverizza il record del mondo dei 50 rana di cui è argento mondiale dietro l’americana Lilly King. La sedicenne tarantina migliora il record mondiale junior del mattino di 29”50 cancellando io 29”40 dell’americana Lilly King realizzato proprio in questa piscina proprio ai Mondiali 2017. Per Benny 29”30 in semifinale: e può migliorare ancora domani. L’ultimo record mondiale azzurro è stato realizzato da Fede Pellegrini nel 2009.

Dagospia il 10 giugno 2021. Da Un Giorno da Pecora. La campionessa europea di nuoto e primatista mondiale sui 50 metri rana Benedetta Pilato oggi si è raccontata a Un Giorno da Pecora, Rai Radio1, parlando, tra le altre cose, di come questa passione per il nuoto sia nata in modo del tutto inaspettato. L'hanno definita 'cocciuta, determinata e impertinente'. Si ritrova in questa definizione? “Si, forse più nell'esser cocciuta”. Come mai ha scelto lo stile rana? “E' una cosa che viene naturale. E forse mi piacciono meno gli altri stili...” Qual è quello che le piace di più? “Il dorso, per il quale io sono negata”. E' vero che da piccola lei non voleva fare nuoto? “Si, non mi piaceva il nuoto, anzi in generale non mi piaceva fare sport”. E com'è scattata poi la passione per il nuoto? “Ho incontrato il mio attuale allenatore quando avevo 5 anni, con lui mi divertivo, mi diverto e quindi pian piano questo sport mi è piaciuto sempre di più”. E' vero che suo padre non riesce a vedere le gare a cui partecipa? “Si, le vede solo mia madre, che poi lo chiama per dirgli come sono andata”, ha spiegato la campionessa a Un Giorno da Pecora. Il mio obiettivo a Tokyo? "Proverò a migliorare, non so neanche cosa aspettarmi perché è la mia prima Olimpiade, non le ho mai viste nemmeno in tv perché non amo molto guardare sport in televisione". A parlare, ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, è la campionessa europea di nuoto e primatista mondiale sui 50 rana Benedetta Pilato. Anche la sua 'collega' Federica Pellegrini ha usato parole di apprezzamento nei suoi confronti. Cosa ne pensa? “Mi fa piacere, detto da lei fa ancora più effetto, spero di arrivare un giorno ai suoi livelli”.

La fuoriclasse della vasca corta. Chi è Benedetta Pilato, la 16enne "enfant prodige" del nuoto: suo il record nei 50 rana. Fabio Calcagni su Il Riformista il 22 Maggio 2021. Ha riscritto la storia del nuoto grazie al talento incredibile che le ha dato "madre natura". È Benedetta Pilato, enfant prodige del nuoto azzurro che oggi pomeriggio ha polverizzato il primato del mondo dei 50 rana agli Europei di Budapest buttando giù dal piedistallo una icona come l’americana Killy King, che proprio in quella stessa piscina, nel 2017, aveva firmato la sua impresa ai Mondiali. L’adolescente di Taranto è riuscita nella sua semifinale a chiudere il tempo in 29’30 limando di 10 centesimi il crono della statunitense King. In mattinata aveva già migliorato il record mondiale junior nuotando in 29’50. “Non me lo aspettavo, sono contentissima. Non pensavo di fare un tempo simile in semifinale, ancora non ho realizzato che ho fatto il record del mondo”, ha detto Pilato trattenendo a stento le lacrime ai microfoni di Rai Sport. Benedetta che ora detiene un record mondiale in vasca lunga assieme all’altro simbolo del nuoto azzurro, quella Federica Pellegrini ancora imbattuta col suo 1’52″98 sui 200 stile libero datato 29 luglio 2009. La 16enne, già capace di conquistare una medaglia d’argento ai Mondiali 2019 nei 50 rana, ora punta dritta alle Olimpiadi di Tokyo, dove però la sua distanza preferita non sarà disputata: lì Benedetta ci proverà sui 100 metri.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

BENEDETTA PILATO FA IL RECORD DEL MONDO NEI 50 RANA A SOLI 16ANNI. Il Corriere del Giorno il 22 Maggio 2021. La giovane nuotatrice tarantina, che ha appena 16 anni, è diventata la primatista mondiale più giovane dell’Italia del nuoto, aveva già migliorato in mattinata il record italiano in 29″50 diventando la seconda italiana in attività a detenere un record del mondo insieme a Federica Pellegrini, che lo stabilì nell’ormai lontanissimo 2009 nei 200 stile libero a Roma. Una pazzesca Benedetta Pilato ha stabilito il record del mondo col tempo di 29″30 durante le semifinali dei 50 rana degli Europei di Budapest, annientando il precedente record di 29″40 stabilito quattro anni fa dalla statunitense Lilly King allorquando si aggiudicò l’oro mondiale nella Duna Arena della capitale ungherese. Un risultato eccezionale, dopo che in mattinata aveva già conquistato il record del mondo juniores nelle batterie, nuotando in 29”50.  La Pilato, già argento mondiale a Gwangju nel 2019 (a soli 14 anni) e campionessa europea della specialità in vasca corta di cui detiene il record continentale in 28″81, diventa la più giovane primatista mondiale della storia italiana “Non me lo aspettavo, sono contentissima. Non pensavo di fare un tempo simile in semifinale, ancora non ho realizzato che ho fatto il record del mondo” ha detto Benedetta Pilato trattenendo a stento le lacrime per la gioia ai microfoni di Rai Sport. “Oddio, non so cosa dire. Il record del mondo della King? non me l’aspettavo, volevo fare meglio di stamattina ma non pensavo così. Non voglio piangere come ogni volta” “Benedetta Pilato ha solo 16 anni e ha un destino abbastanza segnato, ma deve crescere con serenità senza affrettare i tempi. Si manifesta come un grande personaggio e lei è forte di carattere: ma la pista e lunga, ha davanti a sé almeno altre due Olimpiadi oltre a Tokyo”. Con queste parole il presidente della Federazione Italiana Nuoto, Paolo Barelli, ha commentato con l’Adnkronos l’incredibile record del mondo conquistato oggi dall’azzurra nella semifinale dei 50 rana agli Europei di nuoto in corso a Budapest. Come lei solo la divina, Federica Pellegrini: “ma ci aspettavamo che sarebbe arrivato -aggiunge Barelli -, la ragazza è molto migliorata. Ancora non è matura nei 100 metri e sprigiona bene la sua potenza nei 50. Senza considerare che il record precedente è di un mostro sacro del nuoto, Lilly King”. L’azzurra ha migliorato di un decimo il record che durava dal 2009, fermando il cronometro a 29″30. La giovane nuotatrice tarantina, che ha appena 16 anni, aveva già migliorato in mattinata il record italiano in 29″50 diventando la seconda italiana in attività a detenere un record del mondo insieme a Federica Pellegrini, che lo stabilì nell’ormai lontanissimo 2009 nei 200 stile libero a Roma in 1’52″98. Benedetta e Federica sono due ragazze che rappresentano il simbolo di due diverse generazioni del nuoto italiano. Purtroppo però i 50 non è specialità olimpica, infatti a Tokyo si nuoteranno i 100 e i 200, anche se Benedetta in questi Europei la medaglia d’oro può vincerla domani.

Michael Phelps, il proiettile in piscina che non falliva mai un colpo. È l'olimpionico più decorato della storia con il maggior numero di medaglie e il più alto numero di medaglie d'oro vinte in una singola Olimpiade. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 22 marzo 2021. Nessuno, né Debbie, né Whitney, né Hilary Phelps avrebbe scommesso un dollaro, nemmeno quello bucato, sul futuro natatorio di Michael, figlio della prima e fratello più piccolo di 5 e 7 anni delle seconde, che invece erano due ondine, specie Whitney che di lì a poco sarebbe arrivata a una medaglia mondiale, Roma 1994. Michael Fred Phelps di Baltimora, nello stato unito del Maryland, classe 1985, in piscina andava volentieri, ma solo per accompagnare le due sorelle: quanto a tuffarsi, era tutto un altro paio di maniche. Poteva starsene ore a guardarle, ma niente acqua: frignava, scalciava come i muli. E quando finalmente ce lo buttarono, a sette anni, teneva testardamente la testa fuor d’acqua, sbatteva da tutte le parti, meno che da quelle giuste, i piedini che un giorno avrebbero raggiunto la misura di 48,5, e le braccia, che quello stesso giorno avrebbero raggiunto l’apertura alare di 198 centimetri. Avrebbe imparato, invece, tutti gli stili. Alla fine di una carriera di cinque Olimpiadi, la prima a 15 anni a Sydney, il più giovane nuotatore americano dal 1932 (allora c’era stato Ralph Flanagan, tredicenne californiano di Los Alamitos), la quinta a Rio 2016, il primo nuotatore al mondo a vincere un oro a più di trent’anni, avrebbe collezionato grandi numeri e grandi trionfi. Cioè 29 medaglie olimpiche, un record, 23 d’oro, un altro record, 13 di queste individuali, ancora un record su di un totale di 16 (naturalmente record), 10 d’oro su 12 in staffetta, altri due record. Più, a proposito di primati, 39 record del mondo. E, a proposito di mondiali, in campionati di questo tipo Michael Phelps, che veniva chiamato “Baltimora Kid” o “il proiettile di Baltimora” ha vinto 33 medaglie, 26 d’oro più spiccioli d’altro, mentre a conteggiare tutte le manifestazioni internazionali cui ha partecipato, le medaglie sarebbero 83, d’oro 66. Tutta questa frequenza sul podio gli veniva anche dalla considerazione che la produzione di acido lattico del suo fisico “bestiale” (altezza 193, chilogrammi 88, dalla cintola in giù 81 centimetri) era la metà di quella di un ragazzo qualunque, e questo gli consentiva recuperi più rapidi e molteplicità di gare in tempi brevi. In più, questo corpo così ben predisposto per lo sport e per il nuoto, veniva incoraggiato e addestrato da 60 chilometri nuotati al giorno (talvolta 85) e nutrito da calorie che variavano fra le 8 e le 10 mila, il triplo dell’uomo qualunque. Per fare tutti quei chilometri le consumava fino all’ultima molecola. A 7 anni un dottore gli diagnosticò la sindrome da deficienza di attenzione, a 12 l’allenatore che sarebbe diventato il suo per sempre, Bob Bowman, gli prescrisse “nuoto e basta” senza che si disperdesse in altre pratiche sportive. Si “disperse”, nel corso di quei 15 anni che seguirono, due o tre volte, facendo di quegli “errori di gioventù” che accadono più o meno in ogni vita, ma che a lui, essendo Phelps e dunque un “modello per i giovani” vennero perdonati a mala pena dai moralisti a tempo pieno, quelli di cui diceva Oscar Wilde “un uomo che moraleggia è un ipocrita, una donna che moraleggia è inevitabilmente brutta”. Inciampò un paio di volte in guida in stato di ebbrezza, che non gli fece tener conto dei limiti di velocità e della segnaletica stradale, e un’altra volta in un fotografo che lo immortalò mentre utilizzava il bong, strumento da marijuana. Ne conseguirono multe, lavoro ai servizi sociali o semplicemente una “non convocazione morale per ammaestrare” che gli costò i mondiali di Kazan 2015, e dunque qualche medaglia. A 15 anni e 9 mesi diventò il più giovane primatista mondiale di sempre nel nuoto, più giovane di Ian Thorpe che l’aveva fatto a 16 anni e 10 mesi. Don Talbot, allenatore australiano, disse che avrebbe voluto vivere fin quando Phelps avrebbe sconfitto Thorpedine: per sua fortuna il cielo non lo ascoltò, perché venne presto quella volta. Anche se non fu nell’occasione più attesa, nella piscina di Atene 2004, dove si disputò la “gara del secolo”, i 200 stile libero che videro contro Ian e Michael che toccarono la piastra finale nell’ordine tra di loro, perché in mezzo si insinuò l’olandese Van den Hoogenband. Fu questa gara a far perdere a Baltimora Kid la sfida dell’oro: voleva vincerne sette come Spitz, “non ce la farà mai: è impossibile” disse Thorpe, e non ce la fece; si fermò “solo” a quota 6 per quella volta. Furono 7, però, ai mondiali del 2007 a Melbourne, dove nuotò i 200 farfalla abbassando di un secondo e 62 il suo primato, una cosa che “vale il salto magico di Bob Beamon al Messico”, dissero gli esperti, quel volo da 8,90 metri rimasto inarrivato fino al 1991. Ora c’era Pechino. Qui Phelps alzò ancora l’asticella: aveva collaudato a inizio dell’anno il costume in poliuretano della Speedo, quello che teneva a galla anche le pietre e rivoluzionò i crono di tutte le gare (alcuni primati di allora resistono ancora). Phelps l’aveva indossato in una scenografica presentazione che imitava l’Uomo Vitruviano di Leonardo, braccia e gambe divaricate, immagine della perfezione. A Pechino Michael promise otto medaglie d’oro. Thorpe fu insistente: “Non ce la farà mai”. Bob Bowman fu “motivatore”: appiccicò l’articolo in cui Thorpe si sbilanciava dentro l’armadietto di Phelps, un monito quotidiano. “Siamo qui per suonargliele” disse il francese Bernard: fu un piffero di montagna, di quelli del proverbio, che andarono per suonare e furono suonati. Perché erano, quelli cinesi, i Giochi dell’Otto. Otto è il numero magico, il portafortuna oltre la Grande Muraglia: per stuzzicarlo, le Olimpiadi furono aperte il giorno 08-08-08 alle ore 08.08.08. E l’8 fu di Phelps, anche se ci fu la crisi del settimo oro, quando toccò la piastra dei 100 farfalla dopo Cavic ma mentre Cavic l’accarezzò lui fece pressione, e il crono tiene conto anche di una certa “violenza”. A Londra, 4 anni dopo, altra vasca altre medaglie, Michael superò il record di sempre della Latynina. “Mi ritiro” disse, dandosi al poker e al golf: “Se andrò a Rio sarà sul green”: Ma con due anni, quattro mesi e quindici chili in più, si tuffò di nuovo: destinazione Rio. E anche qui medaglie, pure se una gliela tolse Schooling, un ragazzino di Singapore che teneva nel portafogli la foto scattata da bambino con il suo idolo. Il suo idolo era Michael Phelps: “Anche io sono un bambino, non voglio crescere, sono un bambino grande” sorrise Phelps.

Massimiliano Edgar Rosolino. FLAVIO VANETTI per il Corriere della Sera il 9 ottobre 2021.

Massimiliano Edgar Rosolino, si sente il padre fondatore di questo periodo d'oro del nuoto italiano?

«Sì, però assieme a Domenico Fioravanti ed Emiliano Brembilla. Ci pensavo lavorando a un progetto con Sport e Salute sul boom del nuoto negli ultimi 30 anni: fa piacere appartenere a un'era in evoluzione». 

Super-Max da Napoli, con un pezzo di cuore in Australia, è stato il primo italiano a realizzare lo «Slam del nuoto»: oro agli Europei, ai Giochi e ai Mondiali. Ma a 43 anni l'ex campione delle piscine non è più solo «acquatico»: ha scoperto la corsa. Nella sua vita ci sono poi la compagna Natalia Titova (conosciuta a «Ballando con le stelle»), due bellissime figlie (Sofia Nicole e Victoria Sydney), i reality, il cinema. «Però sul set qualcuno mi ha criticato», ammette. 

Max gli ha risposto con i fatti:

 «Mi sono impegnato e il giorno dopo tutto è andato meglio».

Le sarebbe piaciuto nascere pesce?

«Di quelli non velenosi, però. Più che un pesce, comunque, mi sarebbe piaciuto essere un delfino, quindi un mammifero». 

Da bambino pensava a...

«Quando sono tornato dall'Australia il mio circolo offriva canottaggio, nuoto e pallanuoto. La pallanuoto viene dopo il nuoto, scegliere è stato semplice. Nei giorni scorsi mi sono rituffato in una piscina dopo mesi: mettere gli occhialini è sempre un piacere, sembri un astronauta. Però la curiosità mi ha spinto al triathlon e alla corsa». 

Un uomo d'acqua innamorato della terra: strano.

«La corsa è pazzesca: può essere sia un anestetico rilassante, sia avere un effetto-caffeina. La esploro in ogni versione: lenta, ripetuta, in salita. Ho partecipato a mezze maratone con sensazioni meravigliose».

Diventare attore era nei progetti?

«Da bambino ero timido, non mi immaginavo attore. Finire sotto i riflettori è la conseguenza dell'essere stato nuotatore di valore».

Come sta andando?

«L'anno scorso ho fatto un film con Raoul Bova. Ora lavoro ne "Le tre sorelle" di Enrico Vanzina: nel cast ci sono Giulia Bevilacqua, Serena Autieri, Chiara Francini e Rocío Muñoz Morales, la compagna di Raoul. Io sono l'intruso, ma è bello avere un altro ruolo e scoprire che il cinema richiede tempo e sacrifici». 

Diceva dei commenti poco carini.

«Ho sentito dire: "Abbiamo toccato il fondo del cinema italiano...". Pensando agli altri attori, forse è così. Ma ho risposto che ero stato scelto e che non avevo chiesto l'elemosina». 

Ci racconta il mix tra Napoli e Australia?

«Sono napoletano. Punto. Ma cinque anni li ho trascorsi dall'altra parte del mondo: tre da piccolo, la mia famiglia cercava fortuna. Al rientro parlavo solo inglese. Un maestro di dizione mi ha detto che il mio italiano non è mai stato al top perché ho prima imparato l'altra lingua». 

È tornato a Napoli nel 1984, quando è sbarcato Maradona: chi dei due è stato più importante per la città?

«Un amico mi disse: "Sei l'oro di Napoli". Chi gli stava a fianco aggiunse: "Ma dopo Maradona". E l'altro: "No, più di Maradona: Diego poi se n'andato via"». 

Goethe disse: vedi Napoli e poi muori.

«Io correggo: guardate Napoli e poi tornate. Chi viene senza conoscerla se ne innamora».

Qual è l'aspetto evidente della «napoletanità» di Massimiliano Rosolino?

«L'essere solare e creativo. Poi c'è l'altra parte di me: sono "tedesco", un po' cinico. Però mi riconosco di più nella cultura della mia gente. Siamo speciali: c'è magari il napoletano che ti sfila l'orologio, ma questo è solo un "terriccio" che copre le tante qualità della popolazione». 

Parliamo della fama da sciupafemmine di Rosolino?

«Non sono stato un palo della luce, ma questa è un'etichetta esagerata che mi hanno appioppato».

Però lei era l'immagine del maschio latino.

«Non lo nego, ma in tutte le avventure, come nello sport, ho cercato la continuità. Non sono uno da "notte da leone": leone preferisco esserlo almeno per un mese». 

È vero che ha avuto un flirt anche con Federica Pellegrini?

«Noooooo, è una leggenda metropolitana».

Però con la Divina ha condiviso la piscina: fa pure rima.

«Sul piano sportivo, nei due anni a Verona, ho visto nascere la Creatura, la Divina appunto. A 16 anni era già "principessa", nonostante non avesse vinto ancora nulla». 

Nel 2013 le ha dato della maleducata, dopo una querelle che Federica ha avuto con la Federnuoto.

«Fede o la ami o la odi. Io preferisco valutarla solo dal punto di vista tecnico, ma è sempre stata collocata su un piedistallo. Ci sta sopra ancora adesso, diciamo la verità». 

È giusto che sia così osannata?

«Arrivi a un punto della carriera nel quale sei inattaccabile. Lei lo è a prescindere: rappresenta lo sport nazionale al femminile e la longevità agonistica». 

A Tokyo faceva clamore ogni giorno, anche senza gareggiare.

«Federica non ha bisogno di mettersi nuda per richiamare attenzione... Comunque, meglio lei che una tik-toker. Genera un "effetto dolby": a parità di prestazione batte per ritorni un Paltrinieri che ha già vinto più di me e di lei e che in Giappone s' è preso due medaglie dopo la mononucleosi».

Ce la vede come moglie e mamma?

«Sì e le auguro ogni bene. Tuttavia non sono sicuro che abbia smesso. Intanto gareggerà a novembre, poi arriveranno gli Europei in casa e una medaglia la prenderebbe ancora: attendo sviluppi...». 

Rosolino ha vinto tanto: ma le sarebbe piaciuto essere un dominatore come Phelps, Thorpe o Spitz?

«In carriera ho vinto 60 medaglie, di che cosa dovrei lamentarmi? Più di così la carretta non andava, anche se i miei limiti sono stati le mie virtù: non ero forte a gambe, compensavo a braccia. Non ero tecnicamente eccelso, ma ci provavo più di tutti». 

Paltrinieri è l'evoluzione di Rosolino?

«Ci sta. Greg ha continuità, è ambizioso. Forse nel mezzofondo ero più forte io, però lui è serio, solido di testa e ama fare fatica: mi piace». 

Rosolino ha vinto «Pechino Express», ma nell'«Isola dei Famosi» di luglio s' è beccato le critiche di Ilary Blasi. Come la mettiamo?

«A metà reality faticavo, un po' come quando nuotavo i 1.500. A Ilary ho chiesto di affrontare subito la questione. Ma con leggerezza». 

È stato fidanzato con Roberta Capua, ex Miss Italia, però la compagna della vita, Natalia Titova, l'ha trovata a «Ballando con le stelle».

«Nel 2006 ero single. Dopo un'ottima stagione mi chiamarono per il programma. Chiesi di ballare con Natalia, mi risposero che forse non era possibile. In realtà credo avessero già architettato tutto...». 

Ha funzionato, si direbbe.

«Lei era la maestra severa ma comprensiva: sapeva che in quelle giornate nuotavo, andavo in palestra e ballavo pure. Comunque era evidente che tra rumba, salsa e cha-cha-cha un bacio ci sarebbe scappato...».  

La mentalità vincente è un dono o la si costruisce?

«La si costruisce e la si migliora: può diventare un'arma decisiva. Però serve pure la paura: induce a reagire». 

Rosolino, un fan della tutela del mare.

«E non solo: sono pure testimonial del Wwf. Prendiamoci cura del pianeta e dell'acqua in particolare: è ovunque ed è tutto quello che abbiamo». 

Lei si batte anche per lo sport paralimpico: tra i successi di Tokyo quale l'ha impressionata di più?

«Sono state 69 medaglie esaltanti, con 14 ori splendidi. Ho rivisto la finale dei 50 stile libero di Barlaam: è stato lento in avvio ma s' è costruito un finale da eroe». 

Natalia in un'intervista dichiarò che la vostra relazione è cominciata come una sfida reciproca.

«È vero. I caratteri simili sviano, i poli opposti si attraggono. Tra me e lei ci sono di mezzo culture differenti: io sono vicino a quella anglosassone più che a quelle dell'Est. I russi, poi, sono di coccio». 

La madre di Natalia disse: «Max è un bravo ragazzo, ma non fa per te».

«Dopo dodici anni s' è dovuta ricredere. Con il cemento giusto è possibile consolidare perfino i terreni argillosi». 

La sua compagna lotta contro un guaio fisico a un ginocchio: ne ha parlato con coraggio. Affrontate il tema?

«Sì, è adesso che Natalia paga le maggiori conseguenze. Il ginocchio le dà problemi, ma da bambina ha rischiato di restare zoppa: la considero fortunata».

Il doping è sempre una piaga?

«Ci sono dei progressi, ma quanti vengono ancora pizzicati? Non ci si deve dopare perché si rischia un controllo, ma perché non va fatto in ogni caso». 

È vero che un nuotatore non deve fumare, bere e abbuffarsi?

«I fumatori li critico senza sconti. Bere? Se dopo una gara si vuole fare uno sgarro, lo si faccia. Il punto è un altro: va preservata la macchina del corpo, perfino Phelps quando si è "sparato" le canne l'ha pagato».

Rosolino teme di invecchiare?

«Lo confesso: da sempre».

Pellegrini replica a Rosolino: «A qualcuno gli rode... Dica le cose esatte». Arianna Ravelli Il Corriere della Sera il 9 Ottobre 2021. Rosolino al Corriere, oltre a negare che tra i due ci fossero mai stati flirt, aveva aggiunto che Federica è da sempre «su un piedistallo». La replica social. Federica Pellegrini non ha gradito le parole di Massimiliano Rosolino che, in un’intervista al Corriere della Sera, oltre a smentire un flirt tra i due, di cui si era chiacchierato all’epoca negli ambienti del nuoto, ripeteva che lei «è sempre stata collocata su un piedistallo». E, come nel suo stile, la Divina ha spiegato il suo fastidio in modo diretto e senza filtri usando le Storie di Instagram: «Buongiorno gente, da quello che leggo sui giornali a qualcuno rode il c...». Poi un’aggiunta un po’ più criptica: «Eh eh se vogliamo fare i paladini della giustizia almeno diciamo le cose esatte». Non è chiaro che cosa contesti in particolare Federica: di sicuro lei si è infastidita per quella che ai suoi occhi appare come una certa doppiezza di comportamenti; quando i due si vedono i rapporti sono apparentemente buoni, Rosolino è sempre molto gentile, mentre nelle interviste si rivela decisamente più tagliente. E se i due non sono mai stati grandi amici (Rosolino appartiene a un’altra generazione, diciamo quella dei pionieri del nuoto in Italia e come ricorda lui ha condiviso la piscina a Verona con una Federica sedicenne), le relazioni — al di là del gossip smentito da lui — sono sempre stati normali. Se si vuole Max più vicino alla Federazione (all’ultima festa al Foro Italico a Roma di poche settimane fa, organizzata per celebrare i successi di Tokyo, Rosolino conduceva la serata, mentre Federica non c’era, presa dai suoi mille impegni), Pellegrini più legata a Malagò e al circolo Aniene. Nell’intervista al Corriere si fa riferimento a un vecchio screzio del 2013: erano i tempi in cui Pellegrini (dopo la morte del suo storico allenatore Castagnetti) aveva avuto rapporti un po’ tesi con la Federazione (c’entravano i cambi di tecnici, in aggiunta c’era stata una questione di premi che dovevano andare alle società) e all’epoca Rosolino si era esposto dicendo che la Fin doveva imporsi e «la prima cosa era l’educazione». Acqua decisamente passata, che è riemersa nell’intervista. Il passaggio in cui Rosolino fa riferimento a Pellegrini è questo: «Fede o la ami o la odi. Io preferisco valutarla solo dal punto di vista tecnico, ma è sempre stata collocata su un piedistallo. Ci sta sopra ancora adesso, diciamo la verità». È giusto che sia così osannata? «Arrivi a un punto della carriera nel quale sei inattaccabile. Lei lo è a prescindere: rappresenta lo sport nazionale al femminile e la longevità agonistica». L’ex nuotatore mette anche in dubbio che Federica si sia ritirata davvero: «Non sono sicuro che abbia smesso. Intanto gareggerà a novembre, poi arriveranno gli Europei in casa e una medaglia la prenderebbe ancora: attendo sviluppi...». In realtà Federica è stata molto netta nell’escludere una sua partecipazione agli Europei del prossimo anno che si terranno a Roma («Il mio corpo mi ha chiesto di smettere») e appare decisamente appagata dalla sua nuova vita, tra le ultime gare della Isl, gli impegni tv (sta registrando le puntate di Italia’s Got talent), la storia d’amore con Matteo Giunta, suo ex allenatore, che ora può vivere alla luce del sole. Di certo è innegabile quello che dice Rosolino: anche da neo o quasi ex Federica ha la capacità di attirare attenzione più di qualsiasi altro nuotatore. E persino quando le interviste sono a qualcun altro.

Massimiliano Gallo per ilnapolista.it il 10 ottobre 2021. Rosica è il termine esatto. Non c’è altro verbo per fotografare l’intervista di Rosolino al Corriere della Sera. Massimiliano Rosolino è stato un grande del nuoto italiano. Ha vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi di Sydney e un altro oro ai Mondiali di Fukuoka. È stato un campione. Ha contribuito, come altri, in maniera importante a riportare il nuoto alla ribalta dello sport italiano. È fisicamente bello e quindi ha bucato lo schermo. È spesso in tv, ha partecipato anche all’Isola del Famosi. Sulla sua pagina wikipedia è messo ben in evidenza che ha vinto sessante medaglie, lo ha ripetuto anche ieri al Corsera. Evidentemente, però, non è pienamente soddisfatto. Altrimenti si sarebbe mantenuto su Federica Pellegrini, oppure sarebbe andato giù bello dritto: in modo inequivocabile. Invece ha assunto l’atteggiamento tipico di chi rosica. Rosica perché Federica – quasi vent’anni dopo – è ancora sulla breccia. Perché, come dice lui intriso di schiattiglia (termine napoletano che non sappiamo se Rosolino conosca), “a 16 anni era già “principessa”, nonostante non avesse vinto ancora nulla”. Che poi, a dirla tutta, a 16 anni compiuti da pochi giorni Federica conquistò l’argento alle Olimpiadi. E quell’oro lo perse per una ingenuità, non avrebbe mai immaginato che glielo avrebbe soffiato la romena Potec che nuotava in prima corsia nella parte che lei – sbagliando – non controllò con lo sguardo. Ma quella fu solo la prima di cinque Olimpiadi. E Federica ai Giochi ha vinto decisamente meno di quanto avrebbe potuto. Una volta travolta da questioni di cuore e un’altra da questioni di ciclo mestruale. Ne parlò, infrangendo l’ennesimo tabù nel mondo dello sport. Perché, questo passaggio a Rosolino sfugge, si diventa o meglio si è personaggi non solo per quel che realizzi a livello sportivo (e già qui tra i due non c’è gara) ma per quel che riesci a porre all’attenzione dell’opinione pubblica. E in parte, senza esagerare per carità, il percorso di Federica Pellegrini è anche un percorso di emancipazione femminile. Oltre che di leadership. Ha posto temi di cui ancora si discute: i disturbi dell’alimentazione, le crisi di panico, la gestione del ciclo mestruale. E sì, è anche stata protagonista di relazioni sentimentali burrascose in cui ha rivaleggiato e sofferto senza mai apparire come la debole. Lo ha fatto anche ieri quando ha liquidato Rosolino con un video di 15 secondi su Instagram e non lo ha degnato di citazione. In più, da vera divina, ha alluso con un “eh se vogliamo fare i paladini della giustizia almeno diciamo le cose esatte”. Chissà se si riferiva al noooo di Rosolino a proposito di una presunta liaison con la fuoriclasse veneta. Federica Pellegrini ha sempre avuto carattere. Non le ha mai mandate a dire. E non ha bisogno delle interviste per lanciare frecciate. Le sue battaglie le ha sempre combattute a viso aperto. Memorabile il suo “bla bla bla” rivolto ai giornalisti dopo una vittoria. Ha sempre bucato lo schermo. Ha sempre attirato l’attenzione su di sé, naturalmente. Che è la capacità dei grandi. Si chiama carisma. Lo fece persino quando rivelò che aveva paura di nuotare a mare. E se vogliamo rimanere al solo ambito sportivo, ha vinto molto più di sessante medaglie. Pellegrini ha vinto sei medaglie d’oro soltanto ai Mondiali. Sei. Ha infranto undici record del mondo. Uno ancora lo detiene, quello sui 200 stile libero stabilito a Roma (sia pure con il costume gommato). Ha cominciato quando la sua rivale era Florence Manaudou oggi una signora di 35 anni con tre figlie, e ha terminato con Ledecki e Titmus. Per ripercorrere la sua carriera, servirebbe un’enciclopedia. Rosolino si rassegni. Lui è stato un signor nuotatore, un grande del nuoto italiano, ha vinto una medaglia d’oro alle Olimpiadi: impresa che vale una vita intera. Ma non è un personaggio. Difficilmente potrà diventarlo. Quel che dice, resta di interesse limitato. Del resto della sua intervista è rimasto solo il rosicamento nei confronti di Federica. La vita va così. Bisogna godersi quel che si ha, senza stare a guardare gli altri. Soprattutto quando gli altri sono di un’altra dimensione.

Da leggo.it l'11 ottobre 2021. Massimiliano Rosolino, ospite con la moglie Natalia Titova a “Oggi è un altro giorno”. L'ex campione di nuoto Massimiliano Rosolino nella trasmissione condotta da Serena Bortone su RaiUno è tornato sulle polemiche nate dopo una recente intervista, in cui parlando della collega nuotatrice Federica Pellegrini ha affermato che lei è «sempre stata collocata su un piedistallo». Massimiliano Rosolino, ospite con la moglie Natalia Titova a “Oggi è un altro giorno”. Massimiliano Rosolino  è tornato sulle polemiche nate dopo una recente intervista, in cui parlando di Federica Pellegrini ha affermato che lei è «sempre stata collocata su un piedistallo». Dopo le sue parole, che hanno naturalmente scatenato il gossip, ha risposto via social la diretta interessata: «Buongiorno! – ha esordito su Instagram la Pellegrini - A quanto leggo dai giornali a qualcuno rode il cul*... Eh eh, se vogliamo fare i paladini della giustizia almeno diciamo le cose esatte». Deciso a chiudere la polemica, Massimiliano Rosolino è tornato sulla vicenda: «La morale – ha spiegato ospite del programma di Serena Bortone -  è che è giusto confrontarsi. E' meglio una piccola osservazione da parte di un amico piuttosto che avere attorno mille persone che ti danno sempre ragione. Secondo me non abbiamo mai litigato, anche se ho provato due volte a chiamarla e non mi ha risposto… Inoltre ho detto “messa” su un piedistallo, non che ci si mette. Io penso che non abbia bisogno di tutto questo….”

Da ilnapolista.it il 16 ottobre 2021. Dopo la figuraccia col Tapiro ad Ambra Angiolini per la rottura con Massimiliano Allegri, Striscia prosegue nella distribuzione dei Tapiri ed è toccato a Federica Pellegrini. Motivo: lo scambio a distanza con Rosolino che ha rilasciato al Corriere della Sera un’intervista acida nei suoi confronti, senza riuscire a trattenere la sua invidia e negando decisamente che ci sia mai stato un flirt tra i due. Adesso, proprio a Striscia, la fuoriclasse lo smentisce. Ecco le sue parole riprese dalla Gazzetta: «Flirt è una parola grossa. C’è stato qualche bacio. Ma io allora avevo 16 anni e lui dieci di più». Avvenne alle Olimpiadi Atene del 2004 quando la Pellegrini conquistò l’argento nei 200 stile libero. Dice ancora Federica: «Ci sono rimasta male perché quando lo incontro, Massimiliano, è sempre molto piacevole. Avrei preferito che quelle cose me le dicesse vis-à-vis». 

Federica Pellegrini. Anticipazione dell’articolo di Carlo Tecce e Vittorio Malagutti per “L’Espresso”, pubblicata da “la Repubblica” il 19 giugno 2021. La divina Federica Pellegrini, conquistata da poco una doppia poltrona al Comitato olimpico internazionale (Cio) e italiano (Coni), ha agevolato l'ingresso in Europa e in Italia del magnate ucraino Konstantin Grigorishin, da anni in conflitto con le istituzioni sportive con la sua Champions League del nuoto. Un patto di affari e di potere che, come ha ricostruito l'inchiesta de L'Espresso in edicola domani con Repubblica , arriva al paradiso fiscale cipriota di Limassol e coinvolge due uomini vicinissimi a Pellegrini: il suo allenatore (e futuro marito) Matteo Giunta e il suo procuratore Stefano Dealessi. Grigorishin, miliardario con passaporto ucraino, russo e cipriota, è il fondatore e il finanziatore di International Swimming League (Isl), una sorta di campionato mondiale a squadre, a lungo osteggiato dalla federazione internazionale. Per lanciare Isl in Italia, il magnate ucraino ha coinvolto Pellegrini nel progetto. La «divina» ha dettato le sue condizioni: dentro l'allenatore Giunta e anche Dealessi, che con la sua Dao si è messo in affari con la lega di Grigorishin. È nata così Aqua Centurions, la squadra, con Pellegrini capitana e Giunta capo coach, che difende i colori dell'Italia nella Isl. Aqua Centurions fa riferimento a un'omonima società di Roma, controllata al 60 per cento dalla Rimland, una holding di Cipro. Gli altri soci, ciascuno con una quota del 20 per cento, sono Giunta e Alessandra Guerra, la compagna di Dealessi. Allo stesso indirizzo cipriota di Rimland sono domiciliate altre società di Grigorishin, tra cui almeno cinque con il marchio della International swimming league. Il magnate ucraino compare anche nelle liste dei Pandora Papers, l'archivio delle società offshore pubblicato dall'International consortium of investigative journalism (icij). L'agenzia di comunicazione e marketing di Dealessi, grande amico di Giovanni Malagò, fin dal 2007 gestisce l'immagine e i relativi proventi pubblicitari di Pellegrini e da anni è stata coinvolta in numerosi eventi promossi dal Coni presieduto dallo stesso Malagò.

Da liberoquotidiano.it l'8 dicembre 2021. Federica Pellegrini ha recitato un monologo molto duro durante il programma Le Iene, nella puntata su Italia Uno da lei condotta insieme a Nicola Savino e la Gialappa’s. "Qui molte donne in queste settimane hanno parlato del proprio vissuto e delle proprie idee, e stasera tocca a me. Io non mi sono mai sottratta al confronto: so di avere carattere, e non me ne vergogno. Mi sono sempre battuta per ciò in cui credo, mi sono esposta ed ho difeso le persone che amo, pagandone le conseguenze. Fa parte del gioco", ha iniziato la campionessa di nuoto. "C’è una cosa che mi ha fatto riflettere in particolare: in tutti questi anni, in cui ho gareggiato contro le donne, perché mi sono dovuta confrontare molto più spesso con gli uomini? Uomini che mi aspettavano al varco sia che vincessi, sia che perdessi. Se cadi sei un’atleta finita, e se stai in piedi sei una principessa messa su un piedistallo. Piedistallo che, in ogni caso prima o poi paghi, perché se un uomo vince e ne va giustamente orgoglioso, è un bomber, se una donna vince e ne va giustamente orgogliosa, se la tira. Così stanno tutti in attesa del disastro, tipo 'guardiamo dallo spioncino che succede', che se va male usciamo sul pianerottolo a festeggiare", ha proseguito la Pellegrini. L'atleta ha poi sottolineato la differenza tra un atleta uomo e uno donna e le loro eventuali relazioni amorose: "Se sei un atleta maschio e hai delle relazioni sei un uomo di successo, se sei un’atleta donna e hai delle relazioni sei la mangiauomini. Come quel figlio di un allenatore di nuoto, che quando ho difeso il mio coach ha twittato 'eh sì, è lui il tuo pene dell’anno'. Una finissima analisi sportiva… che poi mi chiedo, perché 'il pene dell’anno'? È annuale, tipo il bollo della macchina? Uomini che a 16 anni, alla mia prima Olimpiade, quando ero alle prese con l’acne come tutte le adolescenti di questo mondo, in radio commentavano 'sarà il testosterone'. Quante risate. Ah, esistono anche donne stronze, è ovvio. Ma mi hanno chiesto di parlare per qualche minuto, non per pochi secondi", ha concluso sorridendo la nuotatrice.

Da today.it l'8 dicembre 2021. Matteo Giunta ha fatto uno strappo alla regola della sua proverbiale riservatezza concedendo un’intervista a Le Iene. L’occasione è stata la presenza come conduttrice del programma di Italia1 della fidanzata Federica Pellegrini che presto diventerà sua moglie. La campionessa e il suo allenatore fanno coppia da circa tre anni, ma solo a luglio scorso, in occasione dell’ultima Olimpiade della ‘Divina’, hanno ufficializzato un rapporto fino ad allora sempre tenuto al riparo dai media. Giunta ha raccontato come negli ultimi tempi le loro vite private e professionali siano andate di pari passo, legate da un rapporto che con il tempo ha fatto maturare il sentimento adesso pronto per essere suggellato con le nozze. Al matrimonio, però, sembra proprio che non parteciperà il cugino di Matteo, Filippo Magnini, storico ex fidanzato di Federica Pellegrini: per la prima volta, infatti, il 39enne pesarese ha rivelato le incomprensioni intercorse in famiglia proprio per via del legame sentimentale. 

Matteo Giunta rivela le incomprensioni con il cugino Filippo Magnini

Il riferimento al cugino Filippo Magnini è arrivato quando a Matteo Giunta è stata posta la domanda sugli ex fidanzati di Federica Pellegrini: "Conosco i suoi ex, ma non sono geloso" ha ammesso l’allenatore entrando poi nel dettaglio delle frizioni famigliari.

"Come va in famiglia? Ci sono state delle incomprensioni che non sono state risolte. Qualche litigio c'è stato. Lui è sposato (con Giorgia Palmas, ndr). Mi piace pensare che queste nostre incomprensioni l'abbiano portato a trovare il vero amore della sua vita" ha confidato Giunta. "Se lo inviti al matrimonio, ci viene?" è stata poi la domanda a cui è seguita una risposta che ha lasciato immaginare come tutt’ora tra i due non ci siano rapporti: "La vedo molto difficile". 

Chi è Matteo Giunta, carriera e vita privata del fidanzato di Federica Pellegrini

Matteo Giunta, 39 anni, è originario di Pesaro. Preparatore atletico e per anni vice di Philippe Lucas che è stato allenatore di Federica Pellegrini, lui stesso vanta una carriera come nuotatore. La sua collaborazione con la campionessa inizia nel 2014, dopo la fine del rapporto professionale con Lucas: "Ce la faremo, insieme arriveremo fino in fondo", si promisero allora dando inizio a un sodalizio che sarebbe diventato anche sentimentale. Per Federica, Matteo ha interrotto i rapporti con il cugino Filippo Magnini che prima di lui è stato legato alla campionessa per diversi anni. Filippo Magnini di questa storia non ha mai voluto parlare: oggi è felicemente sposato con Giorgia Palmas da cui ha avuto una figlia, Mia.

Arianna Ravelli per corriere.it il 30 novembre 2021. Solo Federica Pellegrini poteva riuscirci. Un tuffo in piscina mano nella mano con il presidente del Coni (vestito, via solo le scarpe e pluff, dentro di testa), 50 metri con le avversarie che ha «sportivamente combattuto» e che tre giorni fa hanno accettato il suo invito — Camelia Potec che la battè ad Atene 2004, Sarah Sjostrom, Femke Heemskerk, Sara Isakovic che invece perse da Fede a Pechino, Evelyn Verraszto, Alice Mizzau in rappresentanza delle compagne azzurre, più una cuffia rosa e una corsia vuota per ricordare Camille Muffat, scomparsa in un incidente d’elicottero nel 2015 —, il tifo della sua gente, i genitori sugli spalti, il suo allenatore «e futuro marito» Matteo Giunta. E poi selfie, autografi, abbracci, cinque schioccati in aria, in una festa tutta per lei. E un titolo italiano vinto perché nei suoi 200 è ancora la migliore.

L’ultima di Fede, questa volta davvero. 

«È stato bellissimo: un po’ di tifo, un po’ di gente, è quello che volevo alla fine. Si chiude un cerchio come lo volevo, purtroppo per le restrizioni c’era meno gente di quanto avrei voluto, ma tutte quelle importanti c’erano», le parole ai microfoni di Rai Sport che ricordano da vicino quelle di un altro campione che ha appena salutato, Valentino Rossi. Siamo sempre lì quando si parla di Fede, dentro la nomenclatura di un circolo ristretto, di quelli che hanno cambiato il loro sport. E non a caso a guardarla, c’è anche Alberto Tomba, un altro della stessa razza. Fede è commossa, sente la solennità del momento, anche se non c’è l’importanza e il peso del contesto olimpico. Fino al blocco di partenza, racconta, «è stato un aumentare di sensazioni ed emozioni, al limite del pianto dirotto, diciamo che ero sull’orlo di una crisi di nervi; dopo la presentazione non ce l’ho fatta, mi sono commossa, ma sono riuscita a riprendermi in tempo per poter competere. Il tuffo con Malagò? Me l’aveva promesso». 

Ora il futuro è arrivato: «Ci saranno tantissime cose da fare, l’impegno col Cio lo prenderò più seriamente di quanto abbia potuto fare fino adesso, quello sarà il mio lavoro». Un ultimo messaggio prima di salutare: «In bocca al lupo ai giovani che stanno crescendo, il nuoto è uno sport di fatica. Bisogna crederci, ma questo in tutto quello che si fa nella vita. Andate dritti per la vostra strada, qualunque cosa vi dicano. Le deviazioni ci saranno, ma la forza bisogna trovarla». Ciao Fede.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” il 31 ottobre 2021. La Divina si sposa. Lo ha annunciato lei stessa poco dopo le undici di sabato sera, con una foto su Instagram: il principe in ginocchio con l'anello d'ordinanza in una scatoletta verde (Tiffany?) e lei, la regina assoluta, che gli stampa un bacio sulle labbra e sotto scrive, citando Vasco, «Io e te e tutto il mondo fuori #SI». Pochi minuti dopo è lui, Matteo Giunta, l'allenatore pesarese di Federica Pellegrini, a pubblicare sul suo profilo Instagram un'altra foto e un'altra citazione, questa volta di Jovanotti: loro due sempre insieme, lei che sfoggia un solitario spettacolare, e il commento «Sono un "ragazzo" fortunato... (ha detto sì)». Il fratello della sposa, Alessandro, si è offerto di organizzare al cognato l'addio al celibato. Poi subito pioggia di auguri e congratulazioni, da Fabio Fognini a Paola Egonu. Prosegue così verso il lieto fine la favola della più grande nuotatrice italiana della storia e l'allenatore che l'ha presa per mano e l'ha accompagnata a prendersi i due ori Mondiali del 2017 e del 2019, dopo la débâcle di Rio de Janeiro, e la quinta finale olimpica a Tokyo, in Giappone, dove questa estate la relazione è stata ufficializzata, tra le lacrime del record di longevità sportiva. Era il segreto di Pulcinella, come lo definì la stessa campionessa, che poi ad agosto in un'intervista al Corriere della Sera raccontò la bellezza della scoperta della quotidianità di un amore vissuto alla luce del sole: «Stiamo scoprendo ora questo nuovo modo di vivere. In questi anni non ci siamo mai abbracciati in pubblico, non abbiamo mai scambiato un gesto affettuoso, c'eravamo abituati così, tenevamo separati i ruoli, Matteo è tecnico federale e allenatore della mia squadra. Anche se era un po' il segreto di Pulcinella volevamo stare tranquilli. Adesso ci stiamo abituando, l'altra sera ci siamo presi per mano per andare a fare la spesa e ci siamo detti "che roba strana"». Erano le nozze, dunque, uno degli ingredienti segreti della nuova vita che la stessa atleta stava già immaginando nei mesi scorsi. Tutti avevamo pensato alla tv, che infatti c'è, o alla moda, che probabilmente ci sarà, oltre all'impegno nel Cio, per il quale Federica Pellegrini resterà in carica fino ai Giochi di Los Angeles 2028. Ma non ha ancora smesso di nuotare: ci sono ancora i playoff della Isl, la International Swimming League a Napoli. Insieme con Matteo. In vasca e nella vita. Auguri!  

Com’è cambiata Federica Pellegrini dalla prima Olimpiade a Tokyo 2020. A cura di Valeria Paglionico il 26/7/2021 su Fampage.it. Federica Pellegrini è tra le grandi protagoniste di Tokyo 2020, dove dal 23 luglio all’8 agosto 2021 porterà alto il nome dell’Italia nel nuoto. In quanti ricordano i suoi esordi ai Giochi Olimpici? Aveva solo 16 anni quando partecipò per la prima volta all’evento e da allora il suo aspetto è molto cambiato: ecco le foto che mostrano la trasformazione. Federica Pellegrini è tra le grandi protagoniste di Tokyo 2020, dove dal 23 luglio all’8 agosto 2021 porterà alto il nome dell’Italia nel nuoto. In quanti ricordano i suoi esordi ai Giochi Olimpici? Aveva solo 16 anni quando partecipò per la prima volta all’evento e da allora il suo aspetto è molto cambiato: ecco le foto che mostrano la trasformazione.

Federica Pellegrini è una delle grandi protagoniste di Tokyo 2020, dove dal 23 luglio all'8 agosto 2021 porterà alto il nome dell'Italia nel nuoto. Si tratta della sua quinta esperienza ai Giochi Olimpici (come annunciato da lei stessa, potrebbe essere l'ultima volta che vi prende parte): sebbene non venga considerata la favorita, non potrebbe essere più felice di mettere ancora una volta in gioco il suo talento. Era il 2004 quando partecipò per la prima volta alle Olimpiadi, all'epoca era solo una ragazzina di 16 anni, portava i capelli lunghi e aveva uno stile acqua e sapone. Da allora di tempo ne è passato e inevitabilmente anche il suo aspetto è cambiato moltissimo: ecco le foto che mostrano l'incredibile trasformazione della nuotatrice soprannominata "La Divina".

Capelli lunghi e stile acqua e sapone alle Olimpiadi del 2004. Il 2004 è stato un anno importante per Federica Pellegrini: ha rappresentato il suo debutto ai Giochi Olimpici. Aveva solo 16 anni quando è volata in Grecia per le Olimpiadi di Atene con la nazionale italiana e, nonostante la giovanissima età, è riuscita a conquistare la medaglia d'argento nei 200 m stile libero, divenendo la più giovane atleta italiana a salire su un podio olimpico individuale. All'epoca era solo un'adolescente, portava i capelli a caschetto e, complice il fatto che appariva in pubblico solo prima e dopo le gare in piscina, prediligeva i look acqua e sapone, mostrandosi sempre senza neppure un filo di trucco sul viso. L'unico dettaglio che è rimasto invariato da allora? Non ha mai rinunciato al biondo, il suo colore naturale.

Federica Pellegrini, drastico cambio look ai Giochi Olimpici 2008. La seconda esperienza della Divina ai Giochi Olimpici risale al 2008, quando a Pechino ha regalato all'Italia il primo oro femminile nel nuoto, superando nei 200 m stile libero la rivale slovena Sara Isaković. All'epoca aveva 20 anni e, confrontando le foto dell'epoca con quelle della sua prima volta alle Olimpiadi, la differenza estetica è decisamente evidente. Federica aveva un viso leggermente più maturo rispetto al passato e, sebbene per le gare continuasse a prediligere dei look al naturale, optò per un cambiamento drastico in fatto di capelli, apparendo in pubblico con un taglio inedito. È stato in quel momento che la campionessa ha detto addio al caschetto, provando per la prima volta nella sua vita un'acconciatura corta con il ciuffo laterale.

Trucco e costumi colorati per le Olimpiadi di Londra. Le Olimpiadi di Londra del 2012 sono state una grande delusione per Federica Pellegrini: nonostante fosse la favorita nei 200 stile libero, in nessuna delle gare è riuscita a conquistare il podio. La cosa ha creato non poche polemiche, i media nazionali non hanno esitato a parlare di flop, sottolineando il fatto che era dal 1984 che l'Italia non conquistava nessuna medaglia d'oro nel nuoto. Anche in quell'occasione la nuotatrice è apparsa cambiata rispetto al passato: ai Giochi Olimpici di Londra non solo ha sfoggiato un taglio di capelli ancora più corto ma ha rivoluzionato anche il suo stile. Ha detto addio ai look acqua e sapone e ai costumi in tinta unita, per le gare in piscina ha cominciato a usare un tocco di trucco waterproof e dei capi olimpionici trendy e colorati.

Le Olimpiadi di Rio 2016 sono in total black. Federica Pellegrini è stata tra le grandi protagoniste delle Olimpiadi di Rio 2016, dove è stata scelta come portabandiera della delegazione italiana alla cerimonia di apertura (andata in scena il 5 agosto, giorno del suo compleanno). In vasca, però, non è riuscita a raggiungere il successo, tanto che in molti hanno cominciato a parlare del suo ritiro dalle attività agonistiche. Se da un lato all'epoca ha lasciato invariato l'hair look con la chioma corta e bionda, dall'altro ha stravolto il suo stile in fatto di costumi. In piscina non è più apparsa variopinta, ha preferito il total black con cuffia e costumi a tutina abbinati. Così facendo, ha messo in risalto i numerosi tatuaggi che ha fatto in diverse parti del corpo.

Federica Pellegrini con caschetto e frangia a Tokio 2020. Tokio 2020 è la quinta esperienza ai Giochi Olimpici di Federica Pellegrini e, che riesca a raggiungere o meno il podio, non importa, sarà di sicuro un evento che difficilmente dimenticherà, visto che rappresenta il suo ritorno al nuoto agonistico dopo il Covid. Come apparirà prima e dopo le gare? Da diverso tempo la nuotatrice ha detto addio al taglio corto, è tornata al caschetto e ha aggiunto una frangetta sbarazzina alla sua acconciatura. A questo punto, dunque, non resta che aspettare l'esordio in piscina per scoprire quali saranno i costumi che indosserà quest'anno.

Da sport.sky.it il 21 luglio 2021. “Ancor prima della sua nuotata e dei suoi successi, c’è tutto un mondo dentro Federica”, la descrive così Matteo Giunta che dal 2015 è il coach della Pellegrini. Esternamente una vincente, una dura, una determinata. A volte fin troppo schietta: “Non ho mai voluto nascondermi. Sono sempre stata molto diretta e trasparente, anche pagando quando alcune volte avrei fatto meglio a stare zitta”. La 33enne fuoriclasse azzurra ripercorre la sua carriera iniziata con la medaglia d’argento a 16 anni nei 200 stile nelle Olimpiadi di Atene 2004, la più giovane medagliata olimpica nella storia del nuoto. L’Italia intera si innamora della veneziana, ricoprendola di attenzioni, forse troppe addossate sulle spalle di una adolescente che nel trasferimento da Spinea (Venezia) a Milano inizia a soffrire di bulimia, malattia che spesso resta ancora sottotraccia nel mondo dello sport, quasi fosse una vergogna da dover nascondere. Non poteva nascondersi Federica, proprio per la sua visibilità mediatica. “In quel momento mi sembrava di fare una cosa molto razionale. Ero cambiata fisicamente, dal corpo di ragazzina a quello di donna non mi riconoscevo più. Quindi, volendo tornare al corpo di ragazzina, per me la cosa più logica è stata per alcuni mesi quella di mangiare e vomitare. Per fortuna è stato un periodo temporale durato meno di un anno, non è scattato un campanello d’emergenza totale. Certo, per me è sempre stato molto difficile nascondere un problema, non era possibile. Anzi, forse la cosa migliore era proprio parlarne apertamente. E così ho sempre fatto, sia in riferimento ai problemi alimentari sia alle crisi di panico che sono arrivate dopo. Molte persone ne soffrono, tante di loro si sono un po’ riconosciute in quello che io stavo vivendo, l’ho percepito dai messaggi che ricevevo. Se ho aiutato qualcuno sono molto contenta”. Nello speciale "La Divina – Federica Pellegrini Esclusiva"– si affronta anche il tema del ciclo femminile, in merito al quarto posto ottenuto alle Olimpiadi del 2016. “Quella gara di Rio è stata una grande rabbia, scendere dal podio per un decimo di secondo è difficile da digerire. Quando qualcuno mi dice che ho infranto un tabù a parlare di ciclo, perché nello sport è quasi disdicevole farlo. E’ vero, non se ne parla mai. Ma perché? Perché se parli degli effetti che dà il ciclo in una prestazione di alto livello sembra che tu parli di fuffa, di una scusa campata in aria. Invece non è così, basta pensare a come ci cambia l’umore, al netto di qualsiasi sport. Intendo il livello ormonale che entra in circolo ad un certo punto, il gonfiore che ci dà il ciclo una settimana prima. Però, va bene. Nello sport succede anche questo. Da lì abbiamo iniziato a calcolare anche il ciclo”. La medaglia d’oro ai Giochi di Pechino 2008, prima italiana nella storia natatoria, i successi nei 200 e nei 400 stile, con record del mondo, ai Mondiali di casa a Roma 2009, il trionfo sublime davanti al pubblico della piscina del Foro Italico cui ha fatto seguito, due mesi dopo, il dolore mai superato per la scomparsa del mentore Alberto Castagnetti, l’uomo che la prese per i capelli proprio durante il periodo di crisi post Atene: “Ehi tu, ragazzina, adesso vieni a stare da me a Verona”.  Nella piscina scaligera, ora intitolata proprio all’ex CT del nuoto italiano, tutto parla di lui. E forse per questo Federica è sempre voluta restare li’, a vivere e ad allenarsi, considerandola la sua vera casa. Il gossip ha aiutato il personaggio Pellegrini ad uscire dall’acqua, riconoscibile e corteggiata dagli sponsor, pur con alcune storture mal digerite. “Quando i tuoi genitori leggono il titolo: La Mangiauomini… vaglielo a spiegare come funzionano certe dinamiche. All’inizio non è stato semplice né per me né per loro. Ma ho la fortuna di avere una famiglia intelligente che ha capito. Anche perché, a volerla proprio dire tutta, ho avuto poche storie, ma lunghe e importanti”. I social e l’esperienza televisiva con Italia’s Got Talent l’hanno messa in risalto nella sua spontaneità, sorridente e pure con un pizzico di timidezza che non ti aspetti in una sportiva dalla carriera monumentale. Resta, però, la difficoltà a… chiedere scusa, da orgogliosa: “Sulle cavolate sono brava, sulle cose più importanti magari ho un po’ di difficoltà a chiedere scusa faccia a faccia, però faccio capire che mi dispiace”. A 32 anni, saranno 33 il prossimo 5 agosto, è una donna consapevole, ha pure smussato alcune spigolature caratteriali. Più dolce ed incline a commuoversi, come quando parla dell’Italia e del Tricolore da lei rappresentato durante la Cerimonia di Inaugurazione dei Giochi di Rio 2016: “Il ruolo di portabandiera a Rio è stato uno dei più grandi onori. Mia madre mi mandò un messaggio, quando in Italia era notte fonda, scrivendomi: falla sventolare forte e alta quella bandiera. A ripensarci mi viene ancora da piangere…”, e gli occhi diventano lucidi. Resta però una agonista, competitiva, forse pure troppo. Ai Giochi di Tokyo dovesse raggiungere la finale nei 200 stile libero eguaglierebbe il record di sua maestà “Mr Nuoto” Michael Phelps, l’unico ad aver disputato cinque finali consecutive nella stessa specialità. Un primato non da poco, anche se lei non ci vuole pensare, continua a puntare al massimo a dispetto delle rivali che hanno quasi la metà dei suoi anni. Per il grande pubblico italiano – e mondiale - una medaglia olimpica o meno di Federica Pellegrini ai Giochi giapponesi non cambierebbe nulla del suo essere “leggenda”, nessuna donna del nuoto è stata mai capace di essere così vincente in termini di longevità, in uno spazio temporale che dura da 16 anni, pur con alti e bassi, con cadute e risalite. Ma per la LA DIVINA è sempre e solo una questione personale, una sfida con sé stessa: “A prescindere che io sono contenta di tutto ciò che ho fatto fino a qua, in carriera. Voglio arrivare a Tokyo pronta, per cercare di combattere fino alla fine. E soprattutto di non deludermi. Io sono consapevole di essere molto cattiva con me stessa. Io mi sono sempre chiesta tanto. E anche per questo che forse, tra qualche mese, sarà il caso di non chiedermi più così tanto”. 

L'azzurra vince assoluti 200 stile e fa il tempo per Tokyo. L’intervista dopo la gara a Rai Sport - Ansa /CorriereTv il 2 aprile 2021. «Piango per l'emozione». Federica Pellegrini conquista la qualificazione ai Giochi di Tokyo nei 200 Stile libero, e a fine gara non trattiene le lacrime. Agli Assoluti di nuoto di Riccione la campionessa azzurra ha vinto la finale in 1'56''69 che le vale il pass per i Giochi, la sua quinta partecipazione a un'Olimpiade.

LARIA RAVARINO per il Messaggero il 25 gennaio 2021. La divina, col rossetto fuoco delle occasioni importanti, fa le prove generali per la sua seconda vita. Da campionessa mondiale di nuoto a volto del piccolo schermo, Federica Pellegrini - veneta, 32 anni, 11 record del mondo, 6 ori mondiali e un fidanzato allenatore, il marchigiano Matteo Giunta - si prepara al grande salto: dopo le Olimpiadi di Tokyo chiuderà la porta della carriera sportiva per aprire il portone, altrettanto competitivo, del mondo dello spettacolo. E così, in parallelo all'allenamento per le qualificazioni olimpiche («Ogni atleta ha il diritto di cantare l'inno e sfilare sotto al proprio tricolore», ha detto ieri, intervenendo sulla polemica tra CIO e CONI), procede anche l'addestramento al piccolo schermo, negli studi di Italia' s Got Talent - il talent di TV8 condotto da Lodovica Comello, in onda dal prossimo mercoledì tutte le settimane alle 21:30 dove farà da giurata insieme all'imprenditore Joe Bastianich, la discografica Mara Maionchi e l'attore Frank Matano.

Il lavoro in tv non la distrae dagli allenamenti?

«No, le puntate di Italia' s Got Talent sono state registrate tra settembre e ottobre. Ora penso solo agli allenamenti. Devo recuperare dopo lo stop imposto dal Covid (Pellegrini ha contratto il Covid lo scorso ottobre, ndr). Non è facile e lo metto in conto».

La finale del talent però è in diretta: come farà?

«È un tasto dolente. Stiamo aspettando di capire cosa deciderà Sanremo. La nostra finale dovrebbe andare in onda il 17 marzo, ma se quella settimana dovesse esserci Sanremo slitterebbe tutto al 24. E io non potrei partecipare: mi dispiace, ma sarebbe a due giorni di distanza dalle qualificazioni olimpiche. Aspettiamo la decisione».

Come si sente dopo il Covid?

«Sapevo che avrei dovuto recuperare. Ho ricominciato ad allenarmi il 2 gennaio e al di fuori del nuoto non ho altri impegni. Devo recuperare la pausa forzata della malattia e il bagaglio che si porta dietro».

Cioè? Le manca il fiato?

«No, il problema vero è la stanchezza muscolare. Una settimana piena di dolori intensi ai muscoli te la porti tutta dietro. E meno male che non l'ho presa pesante».

Che ha fatto in quarantena? Ha visto anche lei Bridgerton, la serie Netflix? «Ho letto tanto, specialmente i romanzi di Donato Carrisi: ho amato molto il suo film, L'uomo del labirinto. Bridgerton? Film e serie romantiche non fanno per me, preferisco horror e thriller».

Dopo Tokyo si ritira davvero?

«Onestamente sì. Finisce un ciclo di vita: sarebbe dovuto finire l'anno scorso, lo chiudo in ritardo. Ho dato abbastanza. Per come sono fatta io andrei avanti per tutta la vita, ma sento di dover mettere un punto. Come donna, oltre che come sportiva».

Vorrebbe un figlio?

«Sì. È una cosa che sto rimandando, ma che avrei voglia di fare già da qualche anno. Direi che 33 o 34 anni sono l'età giusta. Non ho fretta, voglio prima chiudere i cicli della mia vita. Non voglio rimpianti né rammarichi. Per adesso mi faccio bastare i miei cani, Vanessa e Rocky».

In rete i fan si interrogano: la sua frangetta è solo un nuovo taglio o ci sono novità in arrivo?

«Se avessi dovuto cambiare moroso per ogni nuovo look, ne avrei avuti almeno venti».

Ma dopo Tokyo si sposa?

«Non è compito mio dirlo. Ci dovrebbe pensare qualcun altro».

E se Tokyo non si facesse, si ritirerebbe comunque?

«L'ho detto, sì. Ma Tokyo si farà. Se non fosse così lo sapremmo, girerebbero voci. E invece niente».

Come si fa a costruire un'Olimpiade in una bolla sanitaria?

«Ho sperimentato le gare in bolla durante questo inverno. Gli atleti erano chiusi in albergo senza nessun contatto fra loro. Ogni giorno tamponi molecolari, spostamenti vigilati, non si poteva uscire dalla stanza per più di un'ora d'aria. Un incubo».

Quindi?

«Io penso che l'unica soluzione sia che il CIO imponga il vaccino agli atleti. Non c'è altro modo di fare le Olimpiadi in sicurezza».

Lo farebbe?

«Se l'alternativa fosse non partecipare alle Olimpiadi, di vaccini me ne farei pure tre».

Si dice che abbia un progetto per restare comunque nel nuoto: quale?

«Sto lavorando in questi mesi per organizzarlo, se ne parlerà il prossimo anno. Penso a una academy, una scuola di nuoto in cui insegnare. Ora va molto di moda, non è mica un'idea solo mia».

Italia' s Got Talent è una prova generale per la tv?

«Sì certo, alla tv ci penso. Dipende però dal ruolo: un conto è essere un giudice in un talent ed esprimere un'opinione, un conto è condurre un programma. Quello richiede un livello di preparazione che ancora non ho. Posso dire che mi piace, ma la mia unica esperienza è con Italia' s Got Talent. Non so se sarei in grado di fare altro».

Un programma di sport lo condurrebbe?

«Perché no, soprattutto se riguardasse il nuoto. Sul calcio non sono aggiornatissima: dovrei studiare molto».

Sanremo: ci andrebbe mai?

«Bisogna essere prontissimi per quello. Nella vita bisogna fare le cose per bene, non si nasce imparati. Sanremo non si può improvvisare».

È vero che si sente spesso con Milly Carlucci?

«Ci siamo sentite tante volte per Ballando con le stelle, ma lei ha una produzione che è una macchina da guerra e io, per impegni sportivi, ho sempre dovuto declinare gli inviti. L'idea di imparare a ballare mi ha sempre affascinato. Non credo di essere proprio un tronco: potrei migliorare, mi piacciono molto la musica e il ritmo».

Non ha paura di ricominciare da capo?

«Mai provato questo tipo di paura. Ho le spalle larghe e un privilegio: posso non ricominciare a lavorare il giorno dopo che mi sono ritirata».

Un nome: chi le ha dato la più grande opportunità?

«Alberto Castagnetti, il mio ex allenatore. Quando mi davano tutti per finita, con una spalla a pezzi, lui ha suonato il mio golden buzzer (lo strumento per l'accesso diretto alla finale del talent, ndr). E io sono stata pronta a risorgere».

·        Quelli che …gli Sci.

Deborah Compagnoni. La tragedia in Alta Valtellina. “L’anima di Jacopo mi aspetterà sulle sue montagne”, il dolore di Deborah Compagnoni per la morte del fratello. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Dicembre 2021. È “straziante” il dolore di Deborah Compagnoni per la morte, tragica, del fratello Jacopo. Aveva 40 anni, due bambine piccole avute con la compagna Francesca, era il terzo figlio della famiglia dopo Yuri e la campionessa olimpica di sci. È scivolato a valle, travolto per 500 metri lungo un canalone, mentre scendeva dal Monte Sobretta, territorio di Valfurva in Alta Valtellina, Sondrio. “La perdita di un fratello è un dolore straziante, lo è ancora di più per un fratello speciale com’era per me Jacopo. Un papà e un marito meraviglioso”, ha detto la campionessa olimpica ricordando il fratello e affidando le sue parole all’Agi dopo un giorno di silenzio. Jacopo Compagnoni è morto mentre un elicottero del Soccorso Alpino lo trasportava all’ospedale di Sondalo. I soccorsi sono arrivati in fretta, appena 10 minuti dopo l’incidente, grazie a Francesco, l’amico che era con Compagnoni in montagna. Ma non c’è stato niente da fare per il 40enne, che non ha mai ripreso conoscenza. La vittima era una guida alpina. Lavorava anche come maestro di sci. Viveva proprio a Valfurva, nella frazione di Santa Caterina. “Sono sempre andato in montagna – diceva in un video autopromozionale pubblicato all’inizio della stagione invernale – mio nonno era guida alpina, mio papà anche, e da piccolino mi portava; quando c’era magari un posto libero mi chiedeva e andavo insieme. Da quando avevo 6 anni ho fatto quasi tutte le montagne qua, nel giro di 3 o 4 anni. Sicuramente ci vuole passione, poi visto da fuori sembra un lavoro bellissimo, e non è neanche un lavoro”. I traumi rimediati nella caduta lungo la parete rocciosa non gli hanno lasciato scampo. Sulla dinamica del tragico incidente farà chiarezza l’inchiesta che è stata aperta e per la quale è stato già sentito l’amico di Compagnoni. “Voglio ricordarlo sempre con il suo sorriso quando rientrava soddisfatto a casa dalle sue escursioni estive o invernali – ha aggiunto la sorella Deborah, prima atleta ad aver vinto tre medaglie d’oro in tre diverse edizioni dei Giochi invernali nella storia dello sci alpino  -, abbracciando forte le sue adorate bimbe. Sono sicura che la sua anima resterà nelle sue montagne ad aspettarmi ogni volta che sentirò la sua mancanza. Ringrazio tutti coloro che mi hanno scritto e sono vicini a me e alla mia famiglia”. Alessandro Benetton, l’imprenditore ex compagno di Deborah Compagnoni si è detto “profondamente sconvolto e addolorato” per la tragedia.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

La morte di Jacopo Compagnoni e il dolore di Benetton, «profondamente sconvolto». Giusi Fasano inviata a Valfurva (Sondrio) su Il Corriere della Sera il 17 dicembre 2021. Sondrio: aveva 40 anni, era guida alpina e maestro di sci. Lascia la moglie e due bambine piccolissime. Illeso l’amico in escursione insieme con lui. Il dolore della pluricampionessa. Un passaggio con gli sci d’alpinismo su un manto di neve intonsa, a 2.850 metri di quota, uno sguardo all’amico che sciava poco più in alto e all’improvviso nessun appoggio sotto i piedi. Jacopo Compagnoni, 40 anni, guida alpina e maestro di sci, è scivolato a valle assieme alla valanga che lo ha trascinato per circa 500 metri lungo un canalone pieno di balzi rocciosi. Quando finalmente la massa di neve si è fermata lui era semisommerso e non più cosciente. I traumi violenti contro la parte rocciosa della discesa non gli hanno lasciato scampo. Se n’è andato mentre un elicottero del Soccorso Alpino lo portava all’ospedale di Sondalo. Lascia due bambine piccolissime e la loro madre, Francesca.

Tutto questo mentre scendeva dal canale Nord del Monte Sobretta, territorio comunale di Valfurva, in Alta Valtellina (Sondrio). Casa sua. Francesco, l’amico che era assieme a lui, è del soccorso alpino della Guardia di finanza e sa quel che fa quando affronta la montagna e i suoi pericoli. Così ieri, dopo la valanga, non c’era miglior compagno possibile per salvarsi, se ci fosse stata una sola chance. Ma quando lo ha liberato dalla neve Jacopo era già altrove. Francesco ha mantenuto la calma la lucidità. Ha seguito la sua sagoma mentre cadeva per individuare il punto esatto dove andare a soccorrerlo; è sceso sulla neve disordinata della valanga calcolando anche i rischi per se stesso; lo ha raggiunto in pochissimi minuti e ha tolto il cumulo di neve che lo copriva in parte; ha chiamato i soccorsi e ha cominciato un massaggio cardiaco. Era in corso, non lontano da lì, un’esercitazione con l’elisoccorso degli uomini del Corpo nazionale del soccorso alpino speleologico. Nell’arco di 10 minuti l’elicottero è arrivato sul posto ma Jacopo era in condizioni disperate e non ha mai ripreso conoscenza. La corsa al vicino ospedale di Sondalo non è servita a nulla.

Ieri il pericolo delle valanghe in zone era «2 moderato», il bollettino meteo ottimo, la neve perfetta. Che cosa sia successo esattamente lo stabilirà l’inchiesta per la quale è stata raccolta ieri la prima testimonianza: quella di Francesco. Potrebbe essere stato lo stesso Jacopo a «tagliare» la neve e innescare la valanga — questa l’ipotesi ritenuta probabile — in un punto in cui il vento dei giorni scorsi ne aveva probabilmente accumulato un manto instabile. L’ex pluricampionessa olimpica di sci, Deborah Compagnoni, è la sorella di Jacopo. Non ha voluto rilasciare dichiarazioni e ieri pomeriggio il suo staff ha fatto sapere che «sta malissimo per suo fratello. E sta malissimo anche perché era padre di due bambine piccole, le sue nipotine». Si è detto «profondamente sconvolto e addolorato» anche Alessandro Benetton, ex marito di Deborah Compagnoni: «Conoscendo questa sua meticolosa prudenza non posso che pensare ad una tragica fatalità».

Alberto Tomba, la leggenda dello sci. Le vittorie, la vita sentimentale e le tappe dei primi 55 anni del campione. Marco Vigarani su Il Corriere della Sera il 26 dicembre 2021.

Una leggenda, un’epoca

Pochi giorni fa Alberto Tomba ha compiuto 55 anni. La leggenda dello sci italiano e mondiale ha segnato un’epoca vincendo cinquanta gare di Coppa del Mondo (nessun italiano come lui nella storia) alzando al cielo il trofeo assoluto nel 1995 e otto volte quello di disciplina: quattro nello slalom speciale ed altrettante nello slalom gigante. Arruolato nell’Arma dei Carabinieri, “Tomba la Bomba” ha vinto anche cinque medaglie olimpiche e quattro mondiali entusiasmando l’Italia intera per tredici anni.

Martina, primo amore

Nato nel 1966 sulle colline bolognesi di Castel de’ Britti, Tomba è stato da sempre molto legato all’Appennino ed in particolare al Corno alle Scale. Uomo immagine del territorio emilianoromagnolo e dello sci in tutto il mondo, è stato anche più volte testimonial olimpico nonché tedoforo ai Giochi invernali di Torino 2006. Nella vita privata si ricorda la sua lunga relazione con Martina Colombari, showgirl riccionese eletta Miss Italia nel 1991: proprio in quell’occasione è scattata la scintilla.

1984: primo lampo di gloria

Il primo lampo di gloria è arrivato già nel 1984 quando, da poco promosso membro della squadra B, ha sconfitto tutti i colleghi di livello superiore aggiudicandosi la vittoria nel Parallelo di Natale, una gara dimostativa organizzata a Milano sulla collina di San Siro. Da quel momento l’ascesa è stata rapidissima e la consacrazione è arrivata il 23 febbraio 1986 in Coppa del Mondo ad Are: partito con il pettorale numero 62, Tomba ha chiuso la gara al sesto posto andando per la prima volta a punti.

Storica doppietta (e Sanremo si interrompe)

Il 1988 è stato l’anno della storica doppietta olimpica a Calgary e della definitiva conquista del grande pubblico italiano. La popolarità assoluta di Tomba è stata certificata il 27 febbraio dall’interruzione della serata finale di Sanremo per consentire la messa in onda della diretta della sua seconda manche dello slalom speciale: un’entusiasmante rimonta fino alla medaglia d’oro. Le Olimpiadi canadesi hanno visto il campione bolognese trionfare anche nella specialità dello slalom gigante.

Vittoria francese

Il feeling speciale di Tomba con i cinque cerchi olimpici è stato confermato anche nel 1992 ad Albertville con la conferma dell’oro nello slalom gigante: nessuno era mai riuscito a centrare la doppietta consecutiva. Alfiere dell’Italia nella cerimonia di apertura dei Giochi francesi, Tomba è tornato a casa anche con il secondo posto nello slalom speciale, conquistato grazie ad una travolgente riscossa dopo una prima manche chiusa solo al sesto posto con grande distacco dalle prime posizioni.

Tomba e gli scatti d’ira

Ormai volto notissimo della società italiana, Tomba nel 1995 è stato protagonista anche di uno scatto d’ira passato alla storia. Il 18 dicembre, al termine di una premiazione, lo sciatore ha deciso di scagliare la coppa di cristallo contro il fotografo milanese Alberto Martinuzzi che in precedenza aveva scattato senza alcuna autorizzazione delle immagini del campione nudo in una sauna per poi venderle ad un giornale scandalistico. Un episodio spiacevole che testimonia la celebrità assoluta di Tomba.

L’emiliano che riporta in Italia la Coppa del Mondo

Il 1995 è stato anche l’anno in cui Tomba ha riscritto la storia dello sci italiano. Vent’anni dopo l’ultimo successo di Gustav Thoni, il campione emiliano ha riportato nel nostro Paese la Coppa del Mondo vincendo undici gare tecniche di cui sette consecutive nello slalom speciale. Alla fine ha trionfato con ben 375 punti di vantaggio sul secondo classificato. È passata alla storia l’immagine dei suoi festeggiamenti con i tifosi vestito solo con body e pantaloncini gialli sulla neve di Bormio.

Sierra Nevada, sconfitta la «maledizione»

I Mondiali in Sierra Nevada del 1996 hanno poi permesso a Tomba di infrangere la maledizione di una competizione in cui aveva ottenuto al massimo una medaglia di bronzo nove anni prima. Ovviamente ha riscritto la storia da campione aggiudicandosi un doppio oro nello slalom speciale e nello slalom gigante, nel secondo caso ancora una volta firmando una rimonta entusiasmante partendo dal sesto posto dopo la prima manche. Tomba ha chiuso così un decennio di attività vincendo tutto il possibile.

Coraggio (e febbre alta)

Alberto Tomba non vuol dire soltanto medaglie d’oro e vittorie ma anche emozione. Gli italiani sono stati conquistati dal coraggio con cui ha affrontato tutte le sfide dimostrando una tenacia senza pari. L’ennesimo esempio è arrivato nel 1997 ai Mondiali al Sestriere davanti a migliaia di tifosi. Uscito nello slalom gigante, ha disputato una prima manche deludente nello slalom speciale ma alla fine è riuscito a rimontare fino al terzo posto decidendo di gareggiare nonostante la febbre alta.

L’anno del ritiro

Dopo un infortunio che gli ha impedito di trovare gloria anche alle Olimpiadi di Nagano, il 1998 è stato l’anno del ritiro dalle piste per Alberto Tomba che è riuscito a dare l’addio alla neve nel modo migliore: con una vittoria. Il 15 marzo si è infatti aggiudicato l’ultimo slalom speciale della stagione di Coppa del Mondo a Crans-Montana facendo calare il sipario sulla sua gloriosa carriera nella località in cui aveva conquistato la sua prima maglia iridata nel 1987. La perfetta chiusura del cerchio.

Sci, la leggenda Gustav Thoeni compie 70 anni: "Ancora in pista, e ricordo ogni mia vittoria". La Repubblica il 27 febbraio 2021. Dominatore dello slalom negli anni '70 e poi allenatore di Alberto Tomba, oggi è albergatore e si diletta a fare il nonno di 11 nipoti: "Quello della Valanga Azzurra fu un periodo bellissimo. Nessuno ha mai ripetuto le nostre imprese". Gustav Thoeni si appresta a festeggiare 70 anni. Nato il 28 febbraio 1951, l'ex re dello sci è stato dominatore dello slalom negli anni '70 e capitano della cosiddetta Valanga Azzurra. Nella sua bacheca 4 Coppe del mondo fra il 1971 e il 1975, un oro e due argenti olimpici in gigante e slalom, altri due titoli olimpici in combinata, un oro e un argento mondiali, 24 vittorie in Coppa del mondo, 25 secondi e 20 terzi posti in più di 300 gare disputate. Una volta appesi gli sci al chiodo, ha intrapreso la carriera di allenatore che oggi ha lasciato spazio all'attività di albergatore e a quella di nonno: "Non potrò festeggiare il mio compleanno, siamo bloccati. I miei 11 nipoti stanno crescendo, vedono le coppe e mi fanno qualche domanda. Ma che gli devo dire? Sono solo il nonno". Thoeni conferma così il suo carattere riservato che lo ha sempre tenuto lontano dalle luci dei riflettori, nonostante fosse riuscito a tenere gli italiani incollati alla tv per seguire le sue imprese. Leggendario lo slalom parallelo che nel 1975 in Val Gardena vinse contro l'astro nascente Ingemar Stenmark. Ancor più memorabile fu nello stesso anno la sua discesa dalla terribile Streif di Kitzbuhel, chiusa un centesimo di secondo dietro il re della libera, l'austriaco Franz Klammer: "Scio ancora, anche se quest'anno sono andato solo un paio di volte. Ora vado un po' meno veloce - scherza l'ex campione azzurro - E' bellissima la neve di questi giorni, ce n'è proprio tanta. Un panorama da favola, una grande tranquillità, ma è triste vedere tutto chiuso". Da quando si è ritirato Thoeni vive nella sua Trafoi sullo Stelvio e dei propri successi ricorda tutto: "E' difficile scegliere una vittoria in particolare, però l'oro olimpico a Sapporo nel 1972 è stato favoloso. Penso pure alla prima vittoria, Trofeo Topolino a Trento. Avevo 15 anni, che emozione. La Valanga Azzurra degli anni Settanta? Fu un periodo bellissimo, eravamo molto amici e uniti. Ci divertivamo, ma poi ognuno gareggiava per sé. Siamo rimasti in contatto, anche se ora ci vediamo meno. A Berchtesgaden nel 1975 arrivammo 5 italiani nei primi 5 posti. Vinse Piero Gros, io fui secondo, poi Erwin Stricker, Helmuth Schmalzl e Tino Pietrogiovanna. Che giornata, nessuno ha mai ripetuto un'impresa del genere". Era il 7 gennaio 1974, la leggenda della Valanga nacque lì. Il principale rimpianto, invece, risale alle Olimpiadi di Innsbruck del 1976: "Dopo la prima manche del gigante ero primo con buon margine, la medaglia d'oro era praticamente mia. Ma nella seconda commisi un errore banale e arrivai soltanto quarto. Quante volte ci ho pensato, quella gara non doveva andare così". Uomo di poche parole, come testimoniato dai suoi proverbiali monosillabi durante le interviste in tv dopo ogni successo, il campione che ha fatto grande lo sci azzurro e ha poi guidato da allenatore Alberto Tomba è sempre positivo: "Ho visto i Mondiali di Cortina, uno spettacolo magnifico. Deluso dagli italiani? Non era facile. Poi c'è stato l'argento di De Aliprandini, l'oro della Bassino e due quarti posti. Non possiamo dire che è andata male".

Gustav Thoeni: «Il primo alloro vinto mia zia lo ha usato per cucinare. Con Tomba mi sono divertito un sacco». Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera il 7/2/2021. L’hotel di famiglia, Bellavista-Schoene Aussicht, è chiuso. Ovunque cumuli di neve immacolata: non si scia. Nella teca, quattro Coppe del Mondo, tre medaglie olimpiche, sette mondiali, e la foto di una splendida ragazza bionda: «Lei è Ingrid. È stata la mia prima fidanzata: io avevo ventun anni, lei diciotto. È stata anche l’ultima. Abbiamo tre figlie e dodici nipoti». Oggi cominciano i Mondiali di sci a Cortina. A fine mese compie settant’anni Gustavo Thöni, uno dei più grandi uomini nella storia dello sport. L’inviato del Corriere a Sapporo ’72 — dove lei fu il secondo italiano a vincere un oro olimpico nello sci alpino, vent’anni dopo il leggendario Zeno Colò — scrisse che durante i Giochi le erano state rivolte 107 domande. A 84 lei rispose con un monosillabo.

«Come dice il Vangelo? “Sia il vostro parlare: sì, sì; no, no. Il di più viene dal Maligno”».

Ma per i lettori del Corriere dovrebbe fare uno sforzo.

«Proviamo».

Gustav o Gustavo?

«Tutti e due. Ho due nomi: uno tedesco, uno italiano. Ma sempre io sono».

Lei si sente italiano?

«Io sono italiano».

Südtirol o Alto Adige?

«Tutti e due. È la stessa terra».

Ora vogliono eliminare «Alto Adige». Messner dice che è giusto.

«È sbagliato. Io sono profondamente legato alla nostra piccola patria alpina; questo non mi impedisce di essere profondamente legato all’Italia. Anche i siciliani sono orgogliosi della loro meravigliosa isola; ma non sono certo meno italiani per questo».

Lei è stato in Sicilia?

«Certo. Ho anche sciato sull’Etna».

È capace a nuotare?

«Sì. Anche se non sono un grande nuotatore… Quando le figlie erano piccole andavamo al mare a Caorle, a Cesenatico, all’Elba».

Cosa provò quando sentì suonare l’inno di Mameli sul podio olimpico?

«La più grande emozione della mia vita. Sono stato anche portabandiera ai Giochi di Innsbruck ’76, vede la foto con il tricolore?, e pure a Lake Placid ’80. Ho anche la fiaccola di Torino 2006, sono stato tedoforo…».

Lei con le sue vittorie portò l’Alto Adige in Italia.

«All’inizio qualche giornalista alimentava un pregiudizio negativo nei nostri confronti. Ci consideravano dinamitardi».

Saltavano i tralicci.

«C’era stata una lotta per un’autonomia reale: un tempo per noi italiani di lingua tedesca era molto difficile avere una carica negli uffici pubblici. Ma la mia generazione non ha mai avuto problemi. Siamo una zona di confine, mio papà Giorgio ha fatto il maestro di sci a Bormio e a Madesimo, con i lombardi ha sempre avuto un bel rapporto. Io ho gareggiato per l’Italia in tutto il mondo, e mi sono sempre trovato benissimo. E ho portato con orgoglio la divisa della Guardia di finanza».

Oggi non c’è tutto quest’orgoglio. Si tende a pensare che essere italiani sia una sfortuna.

«Essere italiani è una fortuna clamorosa. Non esiste al mondo un Paese così ricco di storia e di bellezza. All’estero lo sanno; e ci invidiano».

Con gli austriaci ha mai avuto problemi?

«No. Da ragazzo il mio mito era Toni Sailer: sfogliavo i libri con le foto delle sue vittorie ai Giochi di Cortina, poi l’ho conosciuto quando era direttore tecnico dell’Austria. Sono amico di Franz Klammer, il grande discesista: un festaiolo, molto più espansivo di me, sono anche andato al suo sessantesimo compleanno».

Klammer nel 1975 vinceva tutte le discese; ma lei, slalomista, sulla mitica Streif di Kitzbuhel arrivò a tre millesimi da lui. Non avreste dovuto finire ex aequo?

«Avremmo potuto. Purtroppo scattò il cronometro, e indicò un centesimo in più. Ma fu sfortuna, non truffa».

È la pista più pericolosa.

«Ma anche la più tecnica, quindi adatta a me. Mi è sempre piaciuta la discesa, anche se perdevo un po’ nei piani».

Non aveva paura?

«Se hai paura, meglio che cambi sport. E poi alla partenza ero troppo concentrato per sentire emozioni».

Ghedina si è fratturato almeno dieci volte; lei mai.

«Non ho avuto cadute gravi. Una volta nella libera di Schladming ero già per terra, ma sono riuscito a tirarmi su; anche se non ho mai capito come».

Il 1975 è anche l’anno del parallelo della Val Gardena: lei e Stenmark vi giocaste tutto nell’ultima discesa.

«Be’, lì un po’ di tensione la sentivo. Era una gara a eliminazione, non finiva mai…».

Infatti Stenmark saltò. C’è un video su Youtube: lei ha appena vinto la sua quarta Coppa del Mondo, ma non esulta…

«Non si esulta mai quando un avversario cade».

…E risale la pista per andare a stringergli la mano.

«D’istinto, non per calcolo. Pochi giorni prima avevamo festeggiato i suoi 19 anni, abbiamo una foto mentre brindiamo».

Chi è per lei Stenmark?

«Ingemar Stenmark è il più grande slalomista di tutti i tempi».

Eravate amici?

«Insomma…Io com’è noto non sono un chiacchierone; ma lui parla ancora meno di me. È nato in Lapponia, vicino al Circolo polare artico…».

In confronto Trafoi è ai Tropici.

«Ogni tanto scambiavamo qualche parola in tedesco».

La prendevano in giro. Felice Andreasi le fece un’imitazione abbastanza feroce.

«Confesso che mi dava un po’ fastidio. Ma rivederla adesso mi diverte».

Da chi ha imparato l’italiano?

«Una nostra cugina aveva sposato un calabrese e si era trasferita a Gioia Tauro. Ma lui morì, e lei tornò qui a Trafoi con due bambini. Giocavamo insieme: così loro impararono il tedesco, e io l’italiano. Adesso ci sono meno occasioni di incontro».

Come mai?

«In ogni valle c’erano militari italiani, alpini, carabinieri, che frequentavano i bar, a volte trovavano moglie, e si fermavano; mentre i giovani altoatesini andavano a fare il militare in Piemonte o al Sud. Invece adesso tanti ragazzi che non lavorano nel turismo parlano male italiano. È un peccato».

Si racconta che nell’inverno 1951, quando lei nacque, a Trafoi caddero sette metri di neve, e il medico arrivò all’ultimo momento con gli sci.

«Leggende. In effetti però era nevicato molto. Fu un parto difficile: in casa, con mia mamma Anna che aveva quasi quarant’anni. Il dottore ci salvò entrambi. Ero il primo figlio».

Quando ha imparato a sciare?

«Più o meno quando ho imparato a camminare. Il nonno mi fece i primi sci con due assi di legno, ammorbiditi nell’acqua bollente per curvare le punte. Ne ho ancora uno. L’altro non si trova più… Non c’erano scarpe della mia misura, erano tutte troppo larghe: quando mi toglievo gli sci restavo scalzo».

Come si chiamava il nonno?

«Giorgio come mio padre. Alpinista: era stato guida per i turisti della Belle Epoque, poi per i Kaiserjaeger durante la Grande Guerra, il fronte passava qui vicino. Faceva pure il cantoniere: ripuliva a mano dalla neve la strada dello Stelvio. Ed era cacciatore».

Quali animali cacciava?

«Tutti. Anche la volpe, per la pelliccia».

Lei crede in Dio?

«Molto. Ho anche fatto il chierichetto».

È vero che era amico del parroco?

«Il vecchio parroco era stato trasferito, e pensavamo che a Trafoi non avrebbero mandato più nessuno, per poche decine di abitanti… Mio cugino Rolando e io stavamo girando in bici sul piazzale della chiesa, quando vediamo arrivare un motociclista su una Bmw, con gli occhialoni, senza casco, che ci dice: “Siete voi i ragazzi veloci? Io sono il nuovo meccanico delle anime”. Era il parroco: Vigil Klamsteiner, detto Gili. Gli insegnai a sciare e lo aiutai a riparare il tetto della chiesa. Divenne il mio primo tifoso. Quando vinsi l’oro nel gigante a Sapporo fece suonare le campane».

Nello slalom speciale lei fu argento, e Rolando bronzo.

«Potevamo fare meglio, ma in prova avevamo beccato un palo in testa, e nella prima manche siamo stati troppo prudenti. Comunque fu bellissimo: due Thöni sul podio. Da bambini facevamo i primi slalom piantando i rametti nella neve. Poi andai nel bosco a prendere gli alberi più sottili, per togliere la corteccia e farne dei pali. Talora colorati di rosso e blu. Al disgelo salivo sullo Stelvio in bici».

La sua prima vittoria fu il trofeo Topolino.

«Sul podio mi diedero una corona d’alloro. Purtroppo non ce l’ho più. Mia zia la usò per cucinare».

Nell’estate del ’69 andò a sciare in Australia.

«Fu una grande avventura. Cambiai cinque aerei: Milano, Roma, Beirut, Nuova Delhi… non si arrivava mai. A Thredbo al mattino vedevo i pappagalli variopinti che volavano tra gli alberi pieni di neve».

Com’era gareggiare all’epoca?

«Le piste non erano levigate come adesso, non esisteva la neve artificiale: quando nevicava poco, nelle curve spuntava la terra; quando nevicava troppo, si creavano buche tremende… Non c’erano reti, nemmeno sulla Streif; al massimo qualche steccato. Al traguardo si arrivava in mezzo al pubblico».

Lei inventò il passo-spinta.

«Un semplice accorgimento per girare meglio senza perdere velocità. Gli sci erano molto più lunghi: 2 metri e 8 quelli per lo speciale; oggi sono un metro e 65. Allora ognuno aveva un suo stile. Adesso sono bravissimi, ma tutti uguali».

Grazie a lei l’Italia scoprì lo sci.

«Prima vincevano solo austriaci, tedeschi, francesi. Era francese pure il nostro direttore tecnico, prima dell’arrivo di Mario Cotelli. La gente si appassionò. E siccome aveva messo qualche soldo da parte, cominciò ad andare in montagna. Ora purtroppo si scia meno. Costa troppo. E ci sono molti altri sport. Gli snowboard, le palestre…».

Quest’inverno poi non si scia proprio.

«Che angoscia. Mi fa quasi piangere: è stato il primo Natale della mia vita in cui non ho messo gli sci. Poi ho fatto due gite di sci alpinismo, con le figlie. Almeno noi qui abbiamo la vista delle montagne. Non oso pensare a chi ha dovuto passare il lockdown chiuso in un piccolo appartamento al quinto piano».

A Berchtesgaden, dove Hitler aveva il suo Nido dell’Aquila, il 7 gennaio 1974 arrivarono cinque italiani nei primi cinque posti: Piero Gros, lei, Erwin Stricker, Helmuth Schmalzl, Tino Pietrogiovanna detto l’Elicottero perché sciava a braccia larghe…

«Sì, Tino sbracciava un po’… Eravamo un gruppo di amici: sempre insieme, giocavamo anche a calcio e a pallavolo. Ci chiamavano la Valanga Azzurra. Il più giovane era Paolo De Chiesa, molto simpatico. Certo, c’era rivalità; ma questo aiuta. All’inizio un po’ mi copiavano. Poi qualcuno in allenamento andava anche più forte di me. Ho sempre dato il meglio in gara».

Gros ha detto che lei avrebbe potuto essere più capitano, prendere le parti della squadra; invece stava sempre zitto.

«Be’, la cosa non dovrebbe stupire…».

A cosa si riferiva Gros?

«Alle questioni con la Federazione: sui premi, sui materiali. Ma io non amo le discussioni. In tanti anni di sport non ho mai litigato con nessuno».

Però, quando arrivò secondo nello speciale a Innsbruck ’76, con Gros primo, ebbe un gesto di stizza.

«Ero arrabbiato; ma con me stesso. Non avevo sciato come avrei potuto».

Ai Mondiali di Sankt-Moritz 1974, Gros era in testa dopo la prima manche; lei ottavo. Vinse lei con una rimonta incredibile. Piero inforcò una porta.

«Feci la discesa perfetta, perché non avevo nulla da perdere».

In quella squadra c’era anche Fausto Radici, morto suicida.

«Un grande dolore. Eravamo amici, spesso dividevamo la stanza. Veniva da una famiglia bergamasca, molto ricca. Non si è mai capito cosa sia successo».

Dopo il ritiro, lei scoprì Alberto Tomba.

«No, era già nella squadra C. Davo una mano al capo dello staff, che era Pietrogiovanna. Vidi Tomba saltare tre volte in una manche; ma mi piacque molto. Tino mi disse: “Lascia stare; è uno di Bologna, un figlio di papà”. Invece era un campione».

Vinse più slalom di lei, ma una sola Coppa del mondo.

«Io avrei potuto vincere più gare, ma per calcolo mi frenavo, pensando alla classifica generale. Lui avrebbe potuto vincere almeno altre due Coppe, se non avesse tirato in ogni gara. Un anno saltò cinque volte di fila. Comunque a lavorare con lui mi sono divertito moltissimo».

Più che a gareggiare?

«No. Correre è la cosa più bella; ma non si può fare in eterno. Ho provato con una ditta di abbigliamento; non era il mio campo.

Dobbiamo accettare i passaggi della vita».

L’intervista più ricca che si trova negli archivi è di sua moglie Ingrid, nel 1975, a Gente. Titolo: “Gustavo è bellissimo, bravo e buono”.

«Le solite esagerazioni giornalistiche».

Racconta che lei le scriveva lunghe lettere.

«Non è vero».

Non scriveva lettere?

«Sì. Ma non lunghe».

Dice Ingrid che lei inventava strane macchine…

«Ma no. Riparavo le moto e gli attrezzi agricoli. Aiutavo mio zio a fare il fieno per le mucche. E giocavo ai Lego con le bambine. Ora con i nipoti».

…E che era appassionato di fotografia: «I suoi soggetti preferiti sono i paesaggi, gli animali e me».

«Tornai dal Giappone con una Nikon. Fotografare mi piaceva; ma a Ingrid non piaceva essere fotografata… Ora con il telefonino c’è meno gusto».

È vero che quando l’hotel è aperto prepara le colazioni?

«Certo. E accompagno i turisti a sciare, o in gita alle Tre Fontane Sacre. È un posto bellissimo».

Gustavo Thöni cosa votava?

«Sempre Südtiroler Volkspartei. Siamo pochi; se non ci unissimo, la nostra voce andrebbe dispersa».

Come immagina l’Aldilà?

«Non lo immagino. Mi lascerò sorprendere».

Ghedina: «Mia mamma morì sciando, da allora sono diventato forte: so che è orgogliosa di me».  Aldo Cazzullo su Il Corriere della Sera l'1/2/2021.

Kristian Ghedina — «mi raccomando, con la kappa» — sembra un vecchio esploratore dell’Africa, di quelli sopravvissuti ai leoni e agli indigeni: gli manca metà dell’orecchio destro, ha il naso rotto in tre punti, innumerevoli fratture alle costole e alle vertebre mai ricomposte del tutto…

Kristian, lei non ha mai avuto paura?

«La paura l’ho sempre cercata. Da bambino guardavo Tarzan, poi salivo sugli abeti di fronte a casa, alti dieci metri, e mi lasciavo cadere di ramo in ramo. A 14 anni, siccome papà non mi comprava la moto, me la sono costruita saldando pezzi trovati nella discarica, e l’ho collaudata scendendo nella pista olimpica del bob: facevo gara con un amico a chi prendeva le curve paraboliche più in alto; se cadevi, eri morto. Sul bob, quello vero, andavo invece nei boschi: sono finito contro un albero, e mi sono rotto il naso per la prima volta».

Lei è stato il più grande discesista italiano, il primo a vincere la Streif di Kitzbuhel. Ma ama lo sci o la velocità?

«Amo il rischio. In moto. In macchina. E ovviamente in montagna».

A Wengen fece il record della pista, che ancora resiste, e superò i 156 all’ora. Poi al traguardo franò addosso alle recinzioni, in mezzo al pubblico.

«Lì mi ruppi la prima vertebra, ma lo scoprii anni dopo. Rifiutai di fare le radiografie, nel timore che mi fermassero. Provai anche il chilometro lanciato, ho raggiunto i 218 chilometri all’ora, ma mi sono annoiato».

Perché?

«Tutto dritto. Nessun pericolo».

A 20 anni lei era già sul podio di Coppa del Mondo.

«Terzo in Val Gardena. Secondo a Schladming. Esordio a Kitzbuhel: si parte praticamente in verticale, tant’è ripido; curva a destra, curva a sinistra, salto della Mausefalle che vuol dire trappola per topi, compressione, tornante a sinistra, tornante a destra, con pendenza del 75% per cui se lasci correre finisci contro le reti, se spigoli troppo perdi velocità per il piano… finalmente la diagonale, vedo già il traguardo, però mi si stacca uno sci. Finisco piedi in avanti contro il cavo d’acciaio del telone: due costole rotte, commozione cerebrale. Mi chiedevo: dove sono?».

Due settimane dopo vinse la prima gara di Coppa, qui a Cortina.

«La seconda emozione più grande della mia vita. Venne tutto il paese sotto casa, c’era ancora il nonno, mi affacciai sul poggiolo, pareva il carnevale di Rio, mi portarono in trionfo su una Porsche decappottabile. Dissi a papà che ne volevo una pure io».

E lui?

«Rispose che mi sarei schiantato. Erwin Stricker, il matto della valanga azzurra, assentì: “Kristian non si farà mai davvero male con gli sci, è troppo bravo. Ma siccome anche lui è matto, si farà male in macchina”. Alla fine trovammo un compromesso: niente Porsche, niente Uno turbo che era il mio sogno, ma una Passat bella pesante».

Con cui si schiantò l’anno dopo, in autostrada.

«Non si è mai capito come. Forse scoppiò una gomma, forse un colpo di sonno. Mi ruppi la scatola cranica, uno zigomo, i polsi, la clavicola, la scapola, altre due costole, e il naso per la seconda volta. Gli sci che portavo in macchina mi mozzarono un pezzo d’orecchio».

Lei finì in coma.

«Prima sembrava che dovessi morire, poi che non potessi più sciare, quindi che non potessi più gareggiare. Provai a rimettermi in bicicletta; caddi subito. L’inverno dopo ero di nuovo in pista».

Ma per tre anni non fu più lei.

«Mi avevano avvisato. Il cervello è come un computer: ha bisogno di tempo per resettarsi, recuperare il senso dell’equilibrio. Così sono tornato a vincere».

E a rompersi.

«Il menisco per passare sotto un tornello, il naso per la terza volta, un piede facendo footing nel bosco alla vigilia dei Mondiali. L’infortunio peggiore è stato nel 2002 in Argentina. Tento un salto mortale con gli sci, cado male, sento crac: tre vertebre rotte. Quella volta pensai davvero di finire sulla sedia a rotelle. Mi dissi: “Ma quanto sei mona…”. Avevo una fidanzata argentina esigentissima, Fabiana. Feci lo stesso il mio dovere, urlando. Lei si convinse di essere una maga del sesso; ma le mie erano urla di dolore. L’anno dopo sono tornato, e lei aveva un bimbo piccolo…».

Figlio suo?

«Mi ha assicurato di no».

Kristian, lei correva anche in moto.

«Formula Supermotard. Mi piaceva un sacco. Ma dopo tre fratture – piede, polso, clavicola — la federazione dello sci mi fermò».

Questo non le impedì nel 2004 di fare la spaccata nel salto finale della Streif. Una scena di culto su YouTube.

«L’avevo fatta in prova. Mio cugino mi prese in giro: “Vediamo se sei capace pure in gara…”. Non potevo sottrarmi».

Aveva il miglior tempo, arrivò sesto. Si giocò la vittoria.

«Ma no… in ogni caso, vuol mettere la soddisfazione?».

Insisto: lei non ha mai avuto paura?

«Da bambino non dormivo con il buio, volevo sempre la porta aperta».

E poi?

«Mia mamma Adriana mi ha trasmesso il gusto della sfida. Lei era come me: estroversa, sprezzante del pericolo. Mio padre Angelo invece è un po’ tedesco, duro».

Sua mamma morì sciando.

«È stata la prima maestra di sci a Cortina. Andavamo spesso a fare i fuoripista sul monte Cristallo, ma quel mattino dell’aprile 1985 ebbi un presentimento. Preferii restare a casa. Mamma era davanti, con papà che le diceva di andare piano. Incrociò le punte degli sci, precipitò per 600 metri. La trovarono che era ancora cosciente, mormorò: “Ma si può morire così?”. Papà si precipitò a valle per chiamare i soccorsi, ma non volevano mandare l’elicottero. Si spense a mezzanotte, sotto i ferri. Oggi quel fuoripista porta il suo nome: canalino Adriana».

Lei aveva 15 anni.

«Mia sorella più grande, Katia, smise di sciare. Era più forte di me, già convocata in Nazionale. Ora gestisce il negozio di famiglia: lampadari. Io invece mi sbloccai. Avevo una gara la domenica dopo, la famiglia voleva ritirarmi; io pensai che la mamma avrebbe voluto che partecipassi, e vincessi. Vinsi. Prima andavo piano. Cominciai a correre. Come se avessi assorbito la sua fiducia, la sua forza. Come se lei in qualche modo mi accompagnasse, su ogni pista, in tutta la mia carriera. Papà invece era terrorizzato. Mi amava moltissimo ma non guardava mai le mie gare in tv, per paura che mi facessi male».

Dopo la morte della mamma, suo padre la mandò in collegio.

«A Lienz, in Austria. Lui non aveva potuto studiare, mio nonno a undici anni l’aveva voluto al lavoro con sé, nel suo panificio. Adorava leggere; io invece non ho mai aperto un libro, aspettavo la campanella per andare a sciare, giocare a hockey, correre nel bosco. Ero stato bocciato cinque volte. Il collegio mi ha fatto bene, ho anche imparato il tedesco. Così potevo parlare con il mio idolo».

Chi?

«Pirmin Zurbriggen. Quando nel 1990 lo battei ad Are, nella sua ultima gara, mi disse che ero il suo erede. Non era vero: uno come lui non ha eredi; però mi fece felice».

Chi era il nonno?

«Nonno Paolo era stato alpino in Russia. Della ritirata non parlava mai; solo con i commilitoni superstiti. Il suo vicino di casa era Lino Lacedelli, il leggendario alpinista degli Scoiattoli di Cortina».

Le parlò della conquista del K2?

«No. Mi parlava di legna. Lacedelli e il nonno erano ossessionati dalla legna. Ne tagliavano intere cataste. Avevano avuto fame in guerra, freddo in alta quota; e non volevano che mancasse la legna per figli e nipoti. Anch’io ho passato il lockdown a fare legna. È un istinto di noi montanari».

Che rapporto ha con Alberto Tomba?

«Ci conosciamo da bambini. La famiglia di Alberto ha una casa a Cortina, lui era il fidanzatino di mia sorella. Gareggiavamo insieme, ma venivamo regolarmente battuti da Gianluca Vacchi».

Quello dei balletti sui social?

«Lui. Per nostra fortuna smise di sciare. Alberto Tomba è una persona buonissima. Purtroppo non ha mai accettato il calo di popolarità, lo fa soffrire non essere più riconosciuto per strada dai giovani».

E lei?

«A me non importa nulla. E poi qui a Cortina mi conoscono tutti; anche perché si chiamano quasi tutti Ghedina. Così ognuno ha un secondo cognome. Il mio è Broco. Tomba mi chiama ancora adesso così: “Come stai, Broco?”».

Tra una settimana ci sono i Mondiali, e Sofia Goggia si è fatta male.

«Una disdetta. Si riprenderà: Sofia è una fuoriclasse della discesa. Come Dominik Paris. Abbiamo una grande squadra, sia femminile sia maschile».

Chi è stato il suo migliore amico sulle nevi?

«Peter Runggaldier. Dividevamo la stanza, e dormivamo sempre con la finestra aperta: per me una temperatura sotto i 14 gradi è malsana, tropicale. A Wengen ci diedero una camera con terrazzo. La notte ci fu una bufera. Al risveglio avevamo una spanna di neve ai piedi del letto. Runghi portava un orologio che segnava la temperatura: meno 4».

Lei cosa ascoltava?

«Laura Pausini. A tutto volume. Fino a quando gli altri non mi facevano smettere: “Italiani sempre melodici! Basta!”».

Qual è stata l’emozione più grande della sua vita?

«La nascita di mio figlio Natan, 4 mesi fa. Le vittorie sportive sono meravigliose; ma nulla è paragonabile a un figlio. La mia fidanzata si chiama Patrizia».

Crede nell’Aldilà?

«Tendo a credere a quel che vedo. Ma mi piace pensare che, in tutti questi pericoli, mia mamma mi sia sempre stata vicina. E che sia stata orgogliosa di me».

Daniela Cotto per "la Stampa" il 20 giugno 2021. Fattore G. Sofia Goggia si diverte, non si ferma più e sbanca anche il supergigante della Val d'Isère dopo il dominio nella libera di sabato. Una doppietta che manda all'aria le statistiche ingessate dello sci alpino. Con lei capita spesso. Quando passa, nulla è come prima. Il Fattore G è dirompente. Aria frizzante. Geniale e volitiva, l'azzurra ha il tratto caratteristico delle grandi, mettere giù le punte anche su una pista selettiva come la Oreiller-Killy. E ieri ha aggiornato i numeri. Quinta vittoria stagionale, sedicesima della carriera, come la leggenda Deborah Compagnoni. Meglio anche della velocista Isolde Kostner (a 15). Ma siamo solo all'inizio. La Goggia vola anche in testa alla classifica generale (635 punti, davanti a Shiffrin staccata di 65 punti a 570) ed è prima nelle discipline veloci. «Non faccio calcoli, affronto gara per gara», è il mantra che ripete ad ogni vigilia. «Vinco perché so leggere il tracciato meglio di tutte e ho la consapevolezza di cosa devo fare in ogni momento. Essere tutti i giorni sul pezzo è la sfida di ogni atleta». Ieri ha sfornato un capolavoro trascinando la squadra, con Elena Curtoni ottima terza e Federica Brignone quarta. «Già dal mattino - racconta Sofia - sentivo di avere un buon feeling. E in ricognizione sentivo che avrebbe potuto essere un superG dei miei. Ho sciato sempre in sicurezza, fluida. Sapevo che nella zona del bosco non si doveva sbagliare. Il lavoro fatto sul gigante in estate paga». Il coach delle azzurre Gianluca Rulfi, il suo punto di riferimento, come al solito non si scompone. «Lei è sempre stata veloce ma a differenza degli anni scorsi ha trovato regolarità. E ha imparato a mettere in fila tutti i pezzi». E aggiunge: «Non dobbiamo dimenticare i mille infortuni che ha avuto Sofia in carriera. Ha sempre dovuto rincorrere. La sua voglia di spaccare il mondo a volte l'ha penalizzata. Adesso invece, grazie ad una raggiunta maturità, è uno dei suoi punti forti e fa la differenza. E poi non è banale mettere i bastoncini fuori dal cancelletto. Le pulsazioni salgono a palla. Ora è riuscita ad abbassarli e ad esser più fredda in gara». Un percorso costruito passo dopo passo, studiando la preparazione nei minimi dettagli, dalla preparazione fisica alla nutrizionista, dalla psichiatra al preparatore atletico. Ma al centro c'è lei. Il fattore G. Il vento che scombina tutto. Alle imprese sportive la Goggia unisce leggerezza e ironia. Quando ha ricevuto la vitellina, premio per la discesa francese di sabato, l'azzurra ha aperto un sondaggio sui social. «Mi aiutate a trovare un nome?». E poco dopo: «La chiamerò Iser come la montagna conquistata e il soprannome sarà Isy, in onore di Isolde Kostner perché sabato con la libera ho vinto 15 gare come lei». "Iser" terrà compagnia ad "Ambrosi", il vitello vinto l'anno scorso che ha trovato casa nell'agriturismo vicino a Bergamo gestito da una coppia di amici. Sofia è un vulcano, insomma. Non solo in pista, ma anche nella vita. Con passioni intellettuali forti, dai libri all'amore per il pianoforte alla curiosità e alla voglia di un contatto con la terra che l'ha spinta a sponsorizzare il progetto delle galline certificate come biologiche, coltivate da un'azienda agricola. «La cultura ancestrale dei contadini mi affascina». Domani e mercoledì torna sotto i riflettori a Courchevel, in Francia. Luci puntate sulle azzurre, che vantano sei successi in dodici gare di Coppa, e sulle specialiste della specialità Marta Bassino e Federica Brignone. Perché le ragazze, che hanno trascinato l'Italia in testa alla classifica per Nazioni, non sono mai sazie. 

Sofia Goggia: i trionfi, gli infortuni, le goggiate, le galline e le uova bio, il mistero sul fidanzato. Chi è l’erede della Vonn. Flavio Vanetti su Il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. La discesista bergamasca ha cominciato alla grande la stagione in cui gli obiettivi sono ancora la Coppa del mondo e, soprattutto, l’oro a Pechino 2022 dopo quello di 4 anni fa a Pyeongchang. Ecco 10 cose da sapere su un’atleta che ama vivere al limite

Goggia regina della discesa

I due successi in discesa a Lake Louise a inizio dicembre – il luogo del suo grave incidente del 2013 – e quello in SuperG immediatamente successivo hanno regalato a Sofia Goggia la sesta vittoria consecutiva nella specialità, calcolando che alcune gare, tra cui quelle del Mondiale 2021, le ha dovute saltare per lo strano e stupido incidente dello scorso fine gennaio a Garmisch (cadde su una pista di servizio mentre rientrava a valle dopo la cancellazione del superG e si ruppe il piatto tibiale destro). Ma al di là della sequenza favorevole che prosegue – ultima a batterla in pista fu Corinne Suter, tra l’altro l’iridata dello scorso febbraio a Cortina, lo scorso dicembre a Val d’Isère – Sofia ha dato un’impressione chiara: oggi in libera lei è di un’altra categoria e il modello di superiorità è molto simile a quello di Lindsey Vonn. Ovvero la regina dello sci femminile, in attesa che Mikaela Shiffrin la sorpassi, e icona della velocità. La nostra campionessa, che tra l’altro ha finalmente addomesticato la pista canadese che, infortunio a parte, non l’aveva mai vista vincere a differenza dell’americana (18 primi posti per la Vonn sulla Men’s Olympic), ha battuto Lindsey in circostanze importanti (ai Giochi 2018, dove lei fu d’oro in discesa e la rivale di bronzo; nella volata finale per la Coppa del mondo di specialità di quell’anno). Ora è davvero e più che mai la sua erede, almeno nell’high speed: vediamo allora di ripercorrere le tappe salienti della carriera della bergamasca, caratterizzando anche il personaggio.

Il confronto con Lindsey Vonn

Partiamo proprio dall’inevitabile confronto con Lindsey Vonn. Va subito detto che nei momenti migliori della sua luminosa carriera, l’americana ha avuto una polivalenza che Sofia non ha. O meglio, l’ha annacquata nel corso degli anni. È stato il gigante a lanciarla e in quel periodo l’azzurra era anche buona combinatista pur non essendo mai stata slalomista di livello. Ma poi, avendo puntato molto sulla velocità (salire sul podio a Pyeongchang era una missione prioritaria), ha pian piano perso smalto tra le porte larghe. E dopo lo stop per l’infortunio dell’ottobre 2018 (frattura di un malleolo peroneale) ha dovuto risalire con fatica il ranking della disciplina. Oggi è tornata nella top ten, ma al momento non pare da podio. Tornando al parallelo con la Vonn, Sofia Goggia ha in comune con l’americana ormai ritiratasi la volontà e la tenacia di riprendersi dagli infortuni (tanti per entrambe) e il concetto che non devi accontentarti di vincere: se puoi, devi dominare le rivali. Differente invece la sciata: era più «pennellata» quella di Lindsey, è aggressiva (e spesso rischiosa) quella di Sofia.

Compagnoni e Brignone nel mirino

Le due discese di Lake Louise le hanno dato le vittorie numero 12 e 13 nella Coppa del Mondo, portandola a 34 podi (scavalcato Kristian Ghedina nella graduatoria complessiva ogni epoca dello sci italiano). Le donne più vincenti del nostro sci sono Deborah Compagnoni e Federica Brignone, entrambe a quota 16 (a 15 troviamo invece Isolde Kostner, che in discesa ha 12 primi posti contro i 10 della Goggia). Proprio Federica Brignone pare la più accreditata a diventare leader, ma a questo punto non è da escludere la rimonta e il sorpasso di Sofia. Almeno in discesa, infatti, sembra avere nella stagione un buon numero di frecce al suo arco.

Esplosione ritardata

Sofia Goggia era diventata una regina dello sci azzurro dopo le prime due vittorie in Coppa del Mondo in Corea (4 e 5 marzo 2017, sulla pista di Jeongseon che nel 2018 l’avrebbe incoronata olimpionica) , il bronzo (in gigante) ai Mondiali 2017 di St. Moritz: l’oro ai Giochi e la Coppa del Mondo di discesa nel 2018 furono la laurea. Ma non è stata una sorpresa, semmai abbiamo assistito a un’esplosione che è stata ritardata solo da una serie di infortuni capitati proprio dopo essersi manifestata sulla grande ribalta: parliamo del Mondiale 2013 a Schladming, nel quale Sofia disputò un grandissimo superG e perse la medaglia per appena quattro centesimi da Julia Mancuso, terza. La ragazza di Bergamo, all’epoca ventunenne, ottenne poi anche il settimo posto in supercombinata e diventò titolare fissa della Nazionale senior.

Gli infortuni

La stagione 2013-2014, quella che portava ai Giochi di Sochi, fu la prima per lei in Coppa del Mondo. Ma fu anche l’inizio di un calvario che ha creato una cesura nella sua progressione. Dopo aver ottenuto i primi punti in coppa nel superG di Beaver Creek (settimo posto), Sofia il 5 dicembre, proprio a Lake Louise e in discesa, si ruppe i legamenti crociati del ginocchio sinistro. Lo stop fu lungo, tant’è che dovette saltare pure le prime gare della stagione successiva. Finalmente rientrata, il 7 gennaio 2015 durante un allenamento a Santa Caterina Valfurva sentì un forte dolore, sempre al ginocchio sinistro: si era formata una cisti; nuova operazione e addio, ancora, alle gara.

L'affermazione

Tra la fine del 2015 e il 2016 Goggia ha ripreso l’attività, trovando modo di avere quella continuità fin lì mancata. Ma è evidente che i risultati non potevano essere significativi. Ed è per questo che colpisce la clamorosa accelerazione che Sofia è riuscita a dare nella prima parte della stagione 2016-2017: le avvisaglie c’erano già state con il quinto posto nel gigante di apertura a Soelden, ma dalle prove di Killington in poi si è assistito a un crescendo che ha portato una serie quasi ininterrotta di podi, in quattro specialità differenti, impresa riuscita solo a Gustavo Thoeni (ma con una combinata che costituiva non una gara a sé, come nel caso di Sofia, bensì la sommatoria dei risultati di una discesa e di uno slalom).

Le «Goggiate»

Nel vocabolario – libero — dello sci il termine «goggiata» sta per azione al limite che comporta un rischio pazzesco, a volte foriero di una caduta rovinosa e, purtroppo, qua e là anche di infortuni. Con quello di Garmisch 2021 sono sette gli incidenti seri di Sofia. Prima del crac al ginocchio destro in Canada, aveva ceduto, nel 2011, il ginocchio sinistro. E nel 2020 la pista di Garmisch era già finita nella lista dei luoghi non precisamente fortunati (anche se proprio lì, nel 2019, Sofia rientrò dopo l’incidente del malleolo e con un secondo posto dimostrò di poter essere competitiva al Mondiale di Aare: l’argento iridato in superG, un altro miracolo nella carriera della bergamasca, nasce dalla consapevolezza acquisita in Baviera): tonfo in superG e frattura scomposta del radio sinistro (ancora oggi Sofia porta il ricordo di una lunga cicatrice regalatale dall’intervento per applicare una placca di titanio all’osso). Nella hit parade dei voli impressionanti della Goggia, non sfugge al podio un ruzzolone in discesa ad Alternmarkt-Zauchensee (Austria): la botta, che procurò un trauma cranico, fu talmente forte che sul casco rimase stampato il segno viola delle reti.

Verso Pechino 2022

Ma che tipo è Sofia Goggia? È una ragazza estroversa, dal carattere forte, che ha sempre vissuto l’agonismo come un modo di esprimersi. Forse questo è stato anche un problema, di riflesso, e lei l’ha ammesso: «Ho sempre inseguito il limite per batterlo; col tempo ho imparato a fermarmi un passo prima, "accarezzandolo"...». Nonostante questo, non ha perso la voglia di spingere e di provarci: questo forma il suo Dna. Ma ha anche aggiunto un sano realismo: «Non faccio programmi a lungo termine, ho deciso di ragionare giorno dopo giorno e gara dopo gara». Questo atteggiamento ha portato già lontano, in attesa di un futuro ancora da disegnare e che prevede, quale prossimo importante appuntamento, i Giochi 2022 di Pechino. Dove tutti vorrebbero salutare applaudire una Goggia di nuovo olimpionica.

Batteva i maschi, ama i libri, ha lasciato Filosofia

Coraggiosa e competitiva al massimo livello lo è sempre stata, fin da bambina. Nata a Bergamo, Città Alta, i genitori (mamma Giuliana e papà Ezio, ingegnere di professione e pittore per passione) la portavano a Foppolo, dove avevano casa e dove era stato avviato allo sci pure Tommaso, fratello maggiore di Sofia, tornato da poco a lavorare in Italia dopo un’esperienza alla McLaren. Sofia disputò la prima gara a otto anni, la sua fissa era vincere e quel giorno ci riuscì battendo perfino i maschi. Autonoma, dotata di spirito libero: in famiglia ne parlano così.E non ha mai avuto paura di nulla: si faceva male e se ne infischiava. Una volta scivolò giù dalla seggiovia, ma ebbe la prontezza di riflessi di attaccarsi al poggiapiedi e di rimanere così fino a quando non arrivarono a recuperarla con la scala. I bambini che erano con lei sulla seggiovia erano invece atterriti. Ha sempre sognato di competere e di lottare, il fratello rammenta che quando ebbe la prima moto, pure lei la chiese. Sofia, tentata invano la strada prima di Economia e poi di Filosofia, si è concentrata sugli studi online, scelta inevitabile in quanto sportiva d’altissimo livello. Ama le buone letture e la cultura (divora i libri), ma ha il pregio di non ostentarlo.

Le galline e le uova bio

Quali gli altri elementi distintivi della Goggia, anche nel privato? Al momento non risulta fidanzata, ma anche se lo fosse, scordatevi che dia in pasto le sue vicende personali, pur essendo un’assidua frequentatrice dei social network (Instagram in particolare). Una delle ultime novità è l’investimento in un’azienda agricola bergamasca che alleva galline destinate a produrre uova «bio»: Sofia a volte va a dare una mano ai soci. Del resto, ha la natura nel Dna perché i genitori ai tempi ristrutturarono una baita sopra Cogne. Ama poi i cani e dopo un setter morto all’età di 17 anni in casa c’è ora Belle, un pastore australiano che Sofia una volta a Sestriere ha voluto a suo fianco sul podio. È poi grande appassionata di fotografia e come hobby personale considera pure la «movida» con gli amici (tra questi la snowboarder Michela Moioli, come lei olimpionica nel 2018). «Non facciamo nulla di eccezionale, semplicemente ci divertiamo a stare assieme». Le cose eccezionali Sofia Goggia le riserva alla pista. Dell’Italia sportiva è diventata un simbolo e non a caso il Coni l’ha scelta quale portabandiera a Pechino. Lei terrà il tricolore nella sfilata iniziale, la Moioli in quella conclusiva. Una staffetta nel segno di Bergamo e dell’amicizia.

·        Quelli che …gli Scacchi. 

Filippo Femia per "la Stampa" il 10 agosto 2021. C'è stato un periodo, tra la fine del 1500 e la prima metà del Settecento, in cui gli italiani erano i campioni incontrastati di scacchi in Europa (e quindi nel mondo). La celebre partita tra il computer Deep Blue e il campione russo Garry Kasparov (1996) era ben oltre la fantascienza e i manuali di gioco quasi non esistevano. Una delle rarissime "guide" utilizzate dagli scacchisti era stata stampata a Torino nel 1597 «appresso Antonio de' Bianchi». Si tratta della prima opera originale di un autore italiano, Horatio Gianutio della Mantia, pubblicata nello Stivale: "Libro nel quale si tratta della maniera di giuocar' a scacchi", il titolo. Ora quel volume è consultabile integralmente online sul sito della Città metropolitana dopo la digitalizzazione realizzata dal laboratorio DigiBESS del Cnr torinese. Il libro è uno dei tesori conservati nella Biblioteca storica intitolata a Giuseppe Grosso e fa parte del patrimonio di circa duecento cinquecentine. Ed è molto raro: le copie sparse per il mondo si contano sulle dita di due mani. Le 128 pagine, tre capitoli più un'introduzione, sono impreziosite da miniature raffinate e capilettera damascati. Prima di spiegare il gioco, l'autore inserisce gli scacchi tra i più nobili esercizi dell'otium: «Non potrebbe la Natura nostra longamente resistere al continuo peso de studij se non fosse tal volta ristorata col mezzo di qualche piacevol trattenimento - si legge nella primissima pagina -. Io ardirei di dire che 'l giuoco de scacchi fosse uno no solo delli più dilettevoli e ingegnosi, ma delli più convenienti a ogni stato e grado di persona nobile». L'autore indica poi il giocatore tipo: «Il cavaliero, che s' attende all'esercitio dell'armi e della guerra». Poi si passa al primo capitolo ("Loro Sito e Regole") dove l'autore descrive i pezzi e ne elenca le norme. L'alfiere, per esempio: «Detto anche delfino, che vuol dire principe. È perciò sta più vicino al re e alla regina che non fan gl'altri». Poi la regina, detta anche donna: "È il miglior scacco e il più nobile del tavoliero. Persa la donna si puol dire che sia perso il gioco". La più grande "rivoluzione" del regolamento scacchistico era avvenuta quasi un secolo prima del volume Gianutio. «Fino al 1475 il ritmo era molto lento, si trattava di un gioco di corte adatto anche alle donne: durante le partite si creavano intrecci amorosi - spiega Mario Leoncini, esperto della storia scacchistica in libreria con "La grande storia degli scacchi" (500 pagg., Le due torri) -. Poi alcuni pezzi che avevano movimenti limitati, come l'alfiere (due case in diagonale) e la regina (una in diagonale) assunsero molta più importanza, diventando fondamentali. Un cambio che si fa risalire alla città di Valencia, forse in onore alla regina Isabella di Castiglia». Il volume disponibile alla Biblioteca della Città metropolitana è «prezioso sul piano storico, perché riassume le regole del gioco osservate nel Nord Italia verso la fine del XVI secolo. Gianutio ammette ancora il salto del Re di tre case, antesignano dell'attuale arrocco» scrivono Adriano Chicco e Antonio Rosino in Storia degli Scacchi in Italia (Marsilio, 1990). 

Garry Kasparov, l'ultima mossa del re degli scacchi. Enrico Franceschini su La Repubblica il 22 gennaio 2021. Campione del mondo per vent'anni, ha supervisionato la serie Netflix che ha rilanciato il gioco. "Ho ancora due partite: vorrei una Russia democratica e portare un fiore sulla tomba di mia madre". Intervista. Per riassumere il personaggio in due parole si può parafrasare la miniserie televisiva che ha conquistato il mondo: Garry Kasparov, 57 anni,   è il re degli scacchi. Nessuno è stato campione del mondo più a lungo: vent'anni come numero uno, dal 1985 al 2005. E a differenza di altri campioni venuti prima e dopo, da Boris Spasskij a Anatolij Karpov, da Bobby Fischer a Magnus Carlsen, a 57 anni lui continua a giocare con successo su molteplici scacchiere: come uno dei principali oppositori politici di Vladimir Putin, di cui a un certo punto sembrava che potesse prendere il posto di presidente della Russia; come autore di bestseller internazionali, insegnando il modo per dare scacco matto nel business, nei rapporti personali e in ogni genere di situazione (in Italia Mondadori ha appena ripubblicato negli Oscar in versione aggiornata la sua autobiografia Gli scacchi, la vita); e come consulente per giochi, film e programmi televisivi. Il più recente dei quali, la serie di Netflix La regina degli scacchi, storia di una ragazza prodigio che da un orfanatrofio del Kentucky arriva al titolo mondiale a Mosca, tratto dall'omonimo romanzo (uscito anch'esso in edizione italiana con Mondadori nei giorni scorsi) di Walter Tevis - scrittore americano già famoso quale autore dei libri da cui sono stati tratti due film cult sul biliardo (Lo spaccone e Il colore dei soldi) - ha battuto tutti sul piccolo schermo nel 2020, contribuendo a dare agli scacchi una nuova ondata di popolarità globale.  Gli argomenti da affrontare sono insomma talmente tanti che l'intervista via Skype dalla sua villa in Croazia andrebbe suddivisa secondo le fasi di una partita a scacchi: apertura, cambio, pedone doppiato, mediogioco, forchetta, aggiornamento, finale. Come i titoli degli episodi della fortunata miniserie a cui Kasparov ha collaborato.

Cominciamo da qui, Garry: l'ha sorpresa il successo mondiale del serial di Netflix?

"Ha sorpreso non solo me, ma perfino i produttori e il regista. Sapevamo che aveva gli ingredienti giusti, ma nessuno poteva prevedere che diventasse lo show dell'anno in ogni Paese dove è stata proposto".

A lei perché è piaciuto?

"Perché è la storia perfetta di una outsider che dalla provincia più profonda sale sul tetto del mondo contro ogni difficoltà, incluse le sue personali. Dimostrando che gli scacchi aiutano a risolvere i problemi e a rafforzare il carattere. Per fare un esempio legato alla realtà, il famoso campione americano Bobby Fischer non impazzì a causa degli scacchi, bensì furono gli scacchi  a mantenerlo sano di mente il più a lungo possibile".

Qualcuno sostiene che anche la pandemia, costringendo l'umanità a chiudersi in casa praticamente per un anno, ha contribuito a risvegliare l'interesse per gli scacchi.

"Può essere un elemento, ma avevano tanta concorrenza: basti pensare a quanti giochi e distrazioni offre il web. Direi che la differenza l'ha fatta senz'altro la miniserie di Netflix, riportando d'attualità un gioco che alcuni consideravano erroneamente un po' vintage e facendo vedere che può unire anziché dividere: sentimento di cui abbiamo tutti bisogno. Soprattutto al tempo del Covid".

A proposito, qual è la migliore definizione degli scacchi: gioco o sport?

"Vanno bene entrambe. È un gioco, il cui scopo è vincere. Ma a mio avviso è anche uno sport, per la straordinaria pressione fisica che mette sui giocatori, anche se non si muovono dal tavolo su cui è poggiata la scacchiera".

Qual è stato il suo ruolo, in qualità di consulente, a La regina degli scacchi?

"Ho dato realismo agli incontri: le mosse sono vere mosse, le partite sono ispirate da vere partite, e poi ho suggerito il modo di toccare i pezzi, l'atteggiamento dei giocatori. Ho inoltre aiutato a far capire com'era l'Unione Sovietica, specie nell'ambito di un gioco come gli scacchi, su cui lo Stato aveva investito moltissimo per ragioni ideologiche: primeggiare negli scacchi era come arrivare primi nella corsa allo spazio o alle Olimpiadi".

È vero che la protagonista è una sorta di versione femminile di Bobby Fischer?

"Non ho dubbi che Tevis, l'autore del romanzo, si sia ispirato a Fischer. Ma bisogna dire che la ragazza della miniserie, interpretata dalla straordinaria Anya Taylor-Joy, è molto più simpatica di Bobby".

È anche una storia sui bambini prodigio, che esistono nella musica come negli scacchi: lo testimonia lei stesso, no?

"Non si eccelle, negli scacchi come in qualunque altra disciplina, senza il talento naturale. Un talento che viene sparso misteriosamente in ogni angolo del mondo. Per farlo crescere, tuttavia, serve l'opportunità di dedicarsi con sacrificio e determinazione a quella disciplina. Talento e opportunità: un elemento senza l'altro non basta".

Veniamo alla sua autobiografia. Riprendendo il titolo dell'edizione inglese, davvero la vita imita gli scacchi?

"Diciamo che gli scacchi offrono una lezione per affermarsi anche nella vita. Sono un gioco su come prendere la decisione giusta al momento giusto, in che modo usare il proprio bagaglio di esperienze, a quale obiettivo dare priorità. E insegnano a capire e accettare sé stessi: puoi vincere sfruttando un carattere impetuoso ed estroverso, oppure utilizzandone uno riservato e cauto. Tutto questo ho provato a spiegarlo nel mio libro".

Consiglierebbe a chiunque di giocare a scacchi?

"Certamente, come ogni attività che allarga la sfera di comprensione umana. E lo consiglierei in particolare ai bambini, perché aiuta a sviluppare una visione d'insieme".

In che momento ha capito che poteva diventare campione del mondo?

"A 14 anni. Quella è stata la svolta della mia vita, dal punto di vista scacchistico. Anche se poi ho dovuto aspettare fino ai 21 anni per vincere il titolo".

Quale è stata la sconfitta più dolorosa della sua carriera?

"Quella contro Deep Blue, il supercomputer dell'Ibm, nel 1997. Lo avevo battuto nella prima partita, l'anno precedente. Ma ho perso la seconda. Ci rimasi male due volte, perché era la mia prima sconfitta in assoluto da quando ero diventato campione del mondo. Ma si impara anche dalle sconfitte, anzi: soprattutto da quelle".

E la sua partita più memorabile?

"La 24ª e ultima della finale contro Karpov, il 9 aprile 1985, quando vinsi il titolo di campione del mondo".

La partita precedente, la 23ª, era stata un pareggio: qualche volta, negli scacchi come nella vita, conviene che non vinca nessuno?

"Ci possono essere molte ragioni che inducono a giocare per pareggiare anziché per vincere. Se non ti senti bene, per esempio. Se vuoi provocare l'avversario. O se ti può bastare un pareggio per mantenere il titolo".

Garry, però lei è noto per il suo gioco d'attacco.

"È sempre stato il mio stile e penso che sia anche il più vantaggioso. Ma attaccare non funziona in tutte le circostanze, negli scacchi come in altri sport o nella vita. Talvolta un gioco difensivo può essere più appropriato: basti pensare a quante partite di calcio ha vinto l'Italia con il suo celebre catenaccio e il contropiede".

Lei si è ritirato a 41 anni, ancora giovane per gli scacchi. Perché se n'è andato presto, come Borg, invece di durare come Federer?

"Ho pensato che fosse il momento giusto. Negli scacchi avevo già vinto tutto da due decenni. Volevo mettermi alla prova in altri campi. Con il senno di poi, ritengo di aver fatto bene".

Federer dice che continuerà a giocare finché si diverte.

"Ma io mi diverto e gioco ancora (c'è una scacchiera anche alle sue spalle, ndr.), in partite di esibizione, in qualche sfida di gioco rapido, o per puro piacere. Ma un conto è il divertimento a un livello di questo genere e un altro quello che serve per giocare a livello professionista, che richiede allenamenti, concentrazione e dedizione assoluta. Beninteso, posso ancora giocare contro i più forti del mondo e batterne qualcuno, ma non potrei più diventare campione del mondo".

C'è qualche giocatore del passato a cui avrebbe voluto dare scacco matto?

"Beh, mi sarebbe piaciuto sfidare Fischer. Ma questi confronti non hanno molto senso. Ho scritto biografie di tutti i campioni del passato, rigiocando le loro partite, mettendomi nei loro panni. Ce ne sono stati di formidabili, ma il gioco si evolve così come si evolvono gli strumenti per giocarlo al meglio, con un approccio sempre più scientifico. È come l'eterno dibattito su chi sia il più forte tra Pelé, Maradona e Messi".

Ecco, appunto, per lei chi è il più forte dei tre?

"Io dico Maradona, perché da scacchista privilegio l'apporto individuale: senza di lui l'Argentina non avrebbe mai vinto i Mondiali. Però ricordo ancora il gol di Pelé contro l'Italia a Messico '70, anche se ricordo di più la storica Italia-Germania 4-3 in semifinale. Quanto a Messi, oggi è il più forte di tutti. Ma non ha mai vinto un Mondiale".

Torniamo agli scacchi: cosa pensa dell'attuale numero uno del mondo, il giovane norvegese Magnus Carlsen?

"Ha la precisione di un Karpov e la fantasia di un Fisher, in un certo senso è l'evoluzione della specie. A cui penso di avere dato una mano anch'io, allenandolo a diventare un giocatore più universale".

Perché per tanto tempo i russi hanno dominato gli scacchi?

"Glielo ripeto, perché per lo Stato sovietico gli scacchi erano un investimento ideologico. Ma non esiste un gene degli scacchi. Proprio Carlsen ne è la riprova: viene da un Paese in cui, prima di lui, questo gioco praticamente non esisteva. Adesso che Magnus è numero uno, certo, in Norvegia gli scacchi sono popolari come lo sci".

Lasciata la scacchiera di re e regine, lei si è messo a giocare sullo scacchiere internazionale. Cosa pensa oggi della Russia di Putin? 

"Ciò che affermo da tempo: la Russia di Putin è una dittatura dotata di armi nucleari, uno dei maggiori pericoli per il mondo odierno".

Come la valuta rispetto all'Unione Sovietica crollata trent'anni or sono?

"È peggiorata, perché allora c'erano grandi speranze, forte entusiasmo e notevoli risorse economiche. Oggi la Russia è un Paese in crisi profonda, controllato da una cupola di potere attorno a Putin, praticamente in mano all'erede del Kgb sovietico. Quando Putin se ne andrà, e non succederà attraverso regolari elezioni, ci saranno enormi problemi".

E come giudica il suo principale avversario, Aleksey Navalnij?

"È riuscito a tenere viva la fiammella dell'opposizione. Ma dopo l'attentato per ora è costretto a vivere all'estero (Navalnij è rientrato in Russia quando l'intervista era già stampata, ndr). Come l'ex petroliere Mikhail Khodorkovsky. E come me".

Per qualche tempo era sembrato che lo sfidante di Putin potesse diventare proprio lei, Kasparov.

"Non aspiro più a questo. Spero solo di collaborare nell'impresa di costruire la democrazia in Russia, in modo che questo grande Paese possa fare parte della civiltà delle nazioni. Non mi candido a un posto, ma se un domani ci sarà qualche incarico da ricoprire per aiutare la Russia non mi tirerò indietro".

Lei è di padre ebreo e madre armena, ha vissuto in Unione Sovietica, ha cittadinanza croata e due figli nati in America: cosa si sente più di tutto?

"Mi sento russo, perché la lingua, la cultura e la storia in cui sono cresciuto sono quelle della Russia. Ma soprattutto mi sento un cittadino del mondo libero, perché la libertà è il valore a me più caro ed è quella che purtroppo manca ai russi".

E da dissidente russo in esilio, cosa le manca più di tutto di Mosca?

"Mi fa questa domanda nel momento sbagliato, o meglio quando devo darle una risposta carica di dolore: a Natale, a Mosca, è morta mia madre e non ho potuto esserle vicino a stringerle la mano un'ultima volta. Come scrivo nella mia autobiografia, è stata di un'importanza fondamentale per quello che sono diventato, negli scacchi e nella vita. Ci sentivamo al telefono tutti i giorni. Spero un giorno di poter portare un fiore sulla sua tomba". Sul Venerdì del 22 gennaio 2021

·        Quelli che… al tavolo da gioco.

Agostino Gramigna per corriere.it il 24 ottobre 2021. Le vittorie al tavolo da gioco lo avevano portato al primo posto del ranking mondiale. Per dieci lunghi anni. Un fenomeno del bridge. Sei volte campione del mondo. Una mente lucida, un genio. Con questa aura Fulvio Fantoni si presentava ai suoi avversari. Fino al 2015. Quando il re del bridge mondiale, l’eroe italiano, è diventato altro. Si è trasformato nel suo rovescio. Sei anni fa, Fantoni è stato accusato di aver barato per anni, di aver truffato il sistema con le carte che gli avevano portato onore e fama. È stato squalificato e privato dei titoli vinti. Ma la storia non è finita qui. Nel 2018 è ricorso al Tas sportivo di Losanna che gli ha dato ragione e lo ha assolto, ritenendo le prove contro di lui inconsistenti. Così ha ripreso. Ha tentato. Ma ha scoperto una nuova realtà. Un nuovo muro. Per lui ancora peggiore delle accuse di aver barato. I suoi rivali non vogliono giocare con lui. È successo in modo eclatante agli European Bridge League di agosto. L’organizzazione che riunisce le federazioni nazionali europee aveva organizzato una serie di partite tra varie rappresentative nazionali. Fantoni è stato boicottato. Tutte e trenta le squadre si sono rifiutate di affrontarlo. La storia è finita addirittura sul New Yorker. Lui ricorda: «Mi sono presentato a ogni incontro, perché era giusto farlo. Ho subìto questa presa di posizione». Parla al telefono. Non vorrebbe. E stufo di essere al centro di una brutta storia. Abita vicino Roma, è sposato, ha un figlio e fino al 2000 faceva il commercialista. Poi si è dedicato solo al bridge. Chi lo difende avanza la teoria del complotto. Che sarebbe stato orchestrato dai molti avversari internazionali che ha battuto. Una teoria a cui crede lo stesso Fantoni. «Il versante degli attacchi è americano. Un’ingiustizia. Mi fa male. Ci sono leggi e regole da rispettare. C’è una sentenza che mi dà ragione. Non riesco a capire come sia possibile». Nel 2015 è successo un fatto insolito. Le partite di Fantoni e del suo compagno di gioco, Claudio Nunes, sono state analizzate minuziosamente da una fisica olandese appassionata di bridge e da un bridgista professionista norvegese, Boye Brogeland. Per i due Fantoni e Nunes avevano barato. Il sistema, secondo Brogeland, era stato congegnato come un codice che veniva letto e interpretato dal compagno. Il codice era basato sulla disposizione delle carte. In decine di occasioni la coppia aveva disposto le carte sul tavolo in posizione orizzontale o verticale. I due italiani vennero squalificati per cinque anni a livello europeo e tre dalla federazione italiana. Il Tas poi annullò le squalifiche. Per il tribunale sportivo non c’è nessuna prova che la «sospetta» disposizione delle carte abbia recato un vantaggio. Nonostante la sentenza, molti giocatori ritengono che le prove contro Fantoni e Nunes siano inconfutabili. Francesco Ferlazzo Natoli è un avvocato e presidente della Federbridge. Difende Fantoni: «Trattato come un lebbroso, un paria, oggetto di una campagna denigratoria e diffamatoria, inaccettabile dal punto di vista della civiltà». Ha detto anche di aver mandato una lettera al Coni e al Cio, il Comitato Olimpico Nazionale e quello Internazionale. Ma di essere deluso dalla mancanza di «una presa di posizione ufficiale». Fantoni intanto gioca solo in Italia e continua a dare lezioni di bridge. «Potrei partecipare a tutte le competizioni. Ma poi trovano il modo per ostacolarmi». Perché quella disposizione? Perché certe carte in orizzontale e altre in verticale? «Non lo so», la risposta. «Sono rimasto stupito anche io di questa assurda accusa».

·        Il Doping.

Gian Antonio Stella per il “Corriere della Sera” il 3 novembre 2021. «Io mi drogo, tu ti droghi, egli si droga». A leggere della condanna a un anno e un mese di squalifica del regatante Renato Busetto che, con il fratello Roberto, era arrivato secondo, lo scorso 5 settembre, alla Regata Storica veneziana (ma come: tu quoque, Busetto?) viene in mente uno strepitoso incipit sulla prima pagina del Corriere d'informazione alla fine di agosto del 1960. Numero speciale: «il Giornale delle olimpiadi». Edito apposta per i Giochi che si sarebbero aperti a Roma. Lo firmava una delle penne più raffinate dell'epoca, Maria Vittoria Rossi, figlia di un generale di corpo d'armata ligure e di una intellettuale ebrea, ribattezzata da Longanesi col nome d'arte di Irene Brin e definita da Lietta Tornabuoni come «una giornalista di costume e scrittrice, viaggiatrice, mercante d'arte e donna di grande cultura, intelligenza e stile». E ovviamente senza peli sulla lingua. Tanto che proprio alla vigilia di quell'evento atteso a Roma da decenni, non si fece problema di sfregiarne la sacralità sotto un titolo micidiale: «Giurano ma si drogano. Non tutti "bombano" alla stessa maniera: ogni atleta ha la sua formula segreta». Cominciava appunto così: «Io mi drogo, tu ti droghi, egli si droga. Noi ci droghiamo tutti, secondo sistemi personali che vanno dalle venti tazze di caffè quotidiane alla simpamina o eventualmente, al doppio cinematografo od alla discussione tra amici. Se gli intellettuali del jazz come Chet Baker, o dei locali notturni come Mort Sahl, hanno bisogno di una carica, accresciuta dal senso dell'illegalità e del pericolo, gli sportivi si sono serenamente abituati all'idea di battere un primato con una iniezione». Ma dai! «Si racconta che la moglie di un notissimo ciclista italiano abbia con la sua improntitudine guastato l'atmosfera d'un banchetto tra amici dove si asseriva che i colleghi assenti dovevano la vittoria solo a specialissime bombe: "Non si potrebbe avere qualche ricetta per mio marito?", chiese l'ignara, così svelando che suo marito mancava di seria preparazione professionale. "Ciascuno", le risposero in coro, "si fa le bombe sue"». Ma come, direte, già 61 anni fa? Esatto. Molto ma molto prima che l'«Operazione Hercules» accusasse l'Ucraina, com'è appena successo, d'aver «aiutato» almeno dal 2012 i propri atleti avvisandoli in anticipo dei controlli a «sorpresa». Ma questo è solo l'ultimo di troppi scandali...

Marco Bonarrigo per il "Corriere della Sera" il 14 ottobre 2021. Murati i passaggi segreti tra stanza e stanza attraverso cui nottetempo avveniva il passaggio delle provette da «sbianchettare», allontanati gli agenti dell'ex Kgb che sovrintendevano alle manipolazioni di sangue e urine, bonificati i server colabrodo, il famigerato laboratorio antidoping di Mosca è riuscito comunque a tornare ai disonori della cronaca. Con un comunicato stringatissimo, l'Agenzia Mondiale Antidoping (Wada) spiega di «aver revocato al laboratorio l'unica autorizzazione rimasta, quella di analizzare i campioni ematici per formare il passaporto biologico dell'atleta», il potente strumento statistico operativo da vent' anni per smascherare i dopati. Alla Wada tengono le bocche cucite sulle ragioni del provvedimento, salvo sussurrare che i tempi del riaccredito non saranno brevi e che la questione è seria. È da tre anni che in Russia non si fanno più analisi antidoping vere e proprie: i pasticci dolosi combinati dal direttore Grigory Rodchenko (poi pentito e rifugiato negli Stati Uniti) su mandato del governo hanno portato non solo ai provvedimenti contro atleti e comitato olimpico nazionale, ma anche al trasferimento all'estero di tutti gli esami. Con una sola eccezione: fino a sabato scorso, a una struttura pubblica moscovita diversa da quella incriminata, era permesso raccogliere campioni di sangue da analizzare per inserire i risultati nel sistema Adams e generare il passaporto biologico per setacciare gli atleti che pasticciano col sangue. Un compito che potrebbe essere svolto egregiamente da qualunque laboratorio di quartiere: si tratta di estrarre con sufficiente precisione dati banali come ematocrito, emoglobina e ferritina e inserirli in una tabellina. Ma a Mosca - secondo fonti autorevoli - lavoravano peggio del peggior laboratorio locale: sia i campioni «civetta» inviati anonimamente dalla Wada, sia i dati inseriti nel sistema centrale avrebbero rivelato anomalie, pesanti e preoccupanti perché basta un solo controllo su dieci fatto male a invalidare legalmente la procedura e togliere il «flag» di possibile dopato a un atleta. Sul motivo per cui i russi abbiano operato così si possono fare ipotesi che spaziano dalla cialtronaggine al dolo: modificare un valore di emoglobina per mascherare una trasfusione, ad esempio, è piuttosto semplice. Le autorità russe hanno 21 giorni per contestare la decisione al Tas di Losanna ma in quel caso la Wada scoprirà le carte davanti alla giustizia sportiva. Nel frattempo il sangue degli ex sovietici andrà (a spese del laboratorio di Mosca) ai più affidabili laboratori di Varsavia e Bucarest.

Marco Bonarrigo per corriere.it il 30 settembre 2021. Nel ciclismo professionistico — dove l’allerta sul doping farmacologico e meccanico è sempre alta — si sta sviluppando un feroce dibattito sul possibile divieto di uso di un prodotto all’apparenza del tutto naturale: l’estratto di lamponi. Durante i recenti Mondiali in Belgio, il board dell’Unione Ciclistica Internazionale ha diffuso un comunicato in cui spiega che «nonostante l’assenza di prove scientifiche sul miglioramento delle prestazioni prodotte dai chetoni e come parte dell’impegno dell’Uci per uno sport onesto e credibile, il Comitato direttivo dell’Uci ha lanciato un nuovo studio scientifico per chiarire la questione. In attesa dei risultati, l’Uci raccomanda ai corridori di astenersi dall’utilizzare questa sostanza». A stretto giro di posta, Merijn Zeeman, capo allenatore di Jumbo Visma, la squadra che divide con la Ineos i gradi di team più forte del pianeta (grazie a corridori come Roglic, Dumoulin e tanti altri) ha fatto sapere che di rinunciare ai chetoni per i loro atleti gli olandesi non ci pensano proprio: «Il professor Asker Jeukendrup, autorità mondiale in questo campo scientifico — ha spiegato Zeeman — ci consiglia di utilizzare i chetoni in casi specifici come parte di una sofisticata strategia nutrizionale ovviamente nei limiti di quanto consentito. Sappiamo da numerosi studi che i chetoni da soli non determinano la differenza tra vincere e perdere, ma facciamo anche ricerche su come possiamo sfruttare i vantaggi marginali. Non appena l’Uci vieterà l’uso di chetoni, ovviamente smetteremo immediatamente di usare questa sostanza». Contro la Jumbo-Visma e contro i chetoni si sono scagliate molte squadre World Tour con in prima linea la Dsm di Romain Bardet: si narra che dietro la rottura del contratto del talento svizzero Marc Hirschi ci sia stata proprio la volontà dell’atleta di continuare a usare i chetoni vietati dal regolamento interno della squadra. Ma cosa sono questi benedetti chetoni e come funzionano? I chetoni sono composti organici prodotti (in quantità limitata) dai reni in caso di deficit di carboidrati e che alcuni ricercatori (contestati) considerano una forma di alimento diversa dalle tre convenzionali, ovvero carboidrati, grassi e proteine e in grado di «regalare» energia supplementare in caso di bisogno. Nessuno sa se i chetoni servano realmente all’organismo (gli studi danno risultati parzialissimi) o a rimpinguare solo le casse di chi li vende. Il fatto è che la maggior parte degli integratori a base di chetoni contengono semplice estratto di lampone, ciliegia o mirtillo con un pizzico di caffeina, succo di mela e, a volte, zenzero. Difficile immaginare che possano far male alla salute. Perché allora i lamponi fanno così paura al governo del ciclismo?

Massimo Calandri per repubblica.it il 13 gennaio 2021. Dal primo gennaio di quest' anno, un atleta sorpreso ad aver fatto uso di droga (cocaina, eroina, ecstasy, cannabis) dopo un controllo rischia una squalifica di soli 3 mesi, riducibili addirittura a 30 giorni se dà prova di essersi pentito e partecipa a un programma di recupero. Campione o meno, professionista o dilettante, può sniffare, bucarsi, inghiottire una pasticca o fumare fino alla mezzanotte prima della gara. Per la Wada, l' agenzia mondiale anti-doping, la cosa importante è che quella droga non abbia alterato in alcun modo il risultato della competizione. Calcio, tennis, basket, nuoto, motorsport: vale per tutte le discipline. Fino a 2 settimane fa, in caso di positività alla cocaina lo stop poteva essere fino a 4 anni: pena ridotta a 2 anni se l' assunzione era accaduta lontano dal contesto sportivo. Per sballarsi, insomma, ma non per doparsi. Ma due anni sono comunque un blackout nella carriera di un atleta, una macchia, l' interruzione di un percorso. Tre mesi, anzi uno, diventano un buffetto. L' innovazione appena entrata in vigore nasce in realtà da lontano. L' impianto normativo è stato varato dalla Wada nel novembre 2019 ed è arrivato dopo due anni di discussioni e lavori, rese in parte noti nell' agosto scorso. Adesso sono in vigore, e lo sport deve farci i conti. L' atleta positivo può dimostrare che l' assunzione è non è legata alla prestazione sportiva ed è avvenuta "fuori dalla competizione". Lo stop di tre mesi "può essere ridotto ad un mese, se l' atleta completa in modo soddisfacente un programma di trattamento approvato dall' agenzia antidoping". In un documento allegato, la Wada indica le cosiddette substances of abuse ("perché di esse si abusa frequentemente nella società al di fuori del contesto sportivo"): cocaina, diamorfina (eroina), metilenediossimetanfetamina (mdma/ ecstasy), tetraidrocannabinolo (Thc). Ma cosa vuole dire "fuori dalla competizione"? L' intervallo di tempo va dalla mezzanotte del giorno di gara fino al termine della competizione stessa e al prelievo antidoping. In altre parole: dal primo gennaio 2021, se un calciatore di A sniffa cocaina quando manca un minuto alla mezzanotte del sabato, poi gioca domenica a mezzogiorno e al termine del match viene trovato positivo all' antidoping, può cavarsela con un mese, al massimo tre. «Alla Wada evidentemente interessa solo il risultato in gara: non la salute dell' atleta, e soprattutto l' esempio che quell' atleta può dare a tutti, in particolare ai giovani»: Antonio De Rensis, avvocato noto per aver difeso molti campioni italiani dall' accusa di doping, ammette di essere sbalordito. «La punizione è ridicola, il messaggio etico gravissimo: drogati pure di eroina, rischia la tua vita e quella degli altri; ma guai a te, se prendi steroidi o anabolizzanti. Ma come: i governi di tutto il mondo investono miliardi e strutture nel combattere la produzione e il consumo degli stupefacenti, e poi vengono veicolati questi messaggi? Lo sport dovrebbe allontanare il pericolo della droga per i ragazzi: invece così il centravanti della mia squadra magari viene nella mia scuola, mi racconta che gli dispiace di aver preso della cocaina sabato scorso, e poi tra un mese torna in campo. Surreale». L' agenzia mondiale ha rivisto il codice a fine 2019 introducendo anche nuove norme per proteggere i 'pentiti' del doping e pene più severe per chi prova a falsificare le prove che lo accusano: nell' agosto scorso aveva reso noto le direttive in caso di assunzioni di "droghe ricreative", a settembre ha comunicato l' elenco delle substances of abuse , dal primo gennaio sono scattate le nuove regole. Quasi trent' anni fa, Diego Armando Maradona, fu trovato positivo alla cocaina dopo un Napoli-Bari: era il 17 marzo del 1991. Giocò la sua ultima partita in maglia azzurra la settimana dopo, a Genova con la Sampdoria: arrivarono i risultati delle controanalisi e la lunga squalifica, l' addio all' Italia. Se fosse successo oggi, avrebbe perso 4 partite al massimo.