Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

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ANNO 2021

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

SESTA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

  

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Circo.

Superstizione e fisse.

Gli Zozzoni.

Le Icone.

Le Hollywood d’Italia.

«Gomorra», tra fiction e realtà.

Quelli che …il calcio.

I Naufraghi.

Amici: tutto truccato?

Il Grande Fratello Vip.

"I tormentoni estivi? Sono da 60 anni specchio dell'Italia".

Le Woodstock.

Rap ed illegalità.

L’Eurovision.

Abella Danger e Bella Thorne.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Volpe.

Adriano e Rosalinda Celentano.

Aerosmith.

Aida Yespica.

Afef.

Alanis Morissette.

Alba Parietti.

Alba Rohrwacher.

Al Bano Carrisi.

Alda D’Eusanio

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale & Franz.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Borghese.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Nivola.

Alessia Marcuzzi.

Alessio Bernabei.

Alfonso Signorini. 

Alice ed Ellen Kessler.

Alina Lopez e Emily Willis.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amouranth, alias Kaitlyn Siragusa.

Andrea Balestri.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sannino.

Angela White.

Angelina Jolie.

Anya Taylor-Joy.

Anna Falchi.

Anna Oxa.

Annalisa Minetti.

Anna Maria Rizzoli.

Anna Tatangelo.

Anna Mazzamauro.

Anthony Hopkins.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Mosetti.

Antonello Venditti.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Costantini Awanagana.

Antonio Mezzancella.

Antonio Ricci.

Arisa.

Asia e Dario Argento.

Aubrey Kate.

Baltimora.

Barbara De Rossi.

Barbara d'Urso.

Beatrice Rana.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta D’Anna.

Benedicta Boccoli.

Bill Murray.

Billie Eilish.

Björn Andrésen.

Bob Dylan.

Bobby Solo, ossia: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brandi Love.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Camilla Boniardi: Camihawke.

Can Yaman.

Capo Plaza, nato come Luca D'Orso.

Cara Delevingne.

Carla Gravina.

Carlo Cracco.

Carlo Verdone.

Carlotta Proietti.

Carmen Consoli.

Carmen Russo e Enzo Paolo Turchi.

Carol Alt.

Carolina Marconi.

Catherine Spaak.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina De Angelis e Margherita Buy.

Caterina Lalli, in arte Lialai.

Caterina Murino.

Caterina Valente.

Cecilia Capriotti.

Chadia Rodriguez.

Charlotte Sartre.

Chloé Zhao, regista Premio Oscar.

Christian De Sica.

Claudia Koll.

Cristian Bugatti in arte Bugo.

Cristiano Malgioglio.

Clara Mia.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Motta.

Claudia Pandolfi.

Claudia Schiffer.

Claudia Koll.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Santamaria.

Coma_Cose.

Cosimo Fini, cioè Gué Pequeno.

Corinne Clery.

Daft Punk.

Damon Furnier, in arte Alice Cooper.

Daniela Ferolla.

Dario Faini, Dardust e DRD.

Demi Lovato.

Demi Moore.

Demi Sutra.

Deep Purple.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dori Ghezzi vedova De André.

Dredd.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Vianello.

Eddie Murphy.

Elena Sofia Ricci.

Eleonora Cecere.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio (Stefano Belisari) e le Sorie Tese.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elena Anna Staller, detta Ilona (il nome della madre) o Cicciolina.

Elodie.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emma Marrone.

Emily Ratajkowski.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi: Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eva Grimaldi.

Eveline Dellai.

Ezio Greggio.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Faber Cucchetti.

Fabio Marino.

Fabio Testi.

Fanny Ardant.

Federico Quaranta.

Federico Salvatore.

Filomena Mastromarino: Malena.

Fedez e Chiara Ferragni.

Fiorella Mannoia.

Flavia Vento.

Flavio Insinna.

Francesca Alotta.

Francesca Cipriani.

Francesca Giuliano.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Pannofino.

Francesco Sarcina.

Franco Oppini.

Franco Trentalance.

Frank Matano.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Lavia.

Gabriele Paolini.

Gabriele Salvatores.

Gene Gnocchi.

Gerry Scotti.

Giancarlo Magalli.

Giancarlo ed Adriano Giannini.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi D'Alessio.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Veronesi.

Giucas Casella.

Giulia De Lellis.

Giuliano Montaldo.

Giulio Mogol Rapetti.

Giuseppe Povia.

Greta Scarano.

Harvey Keitel.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hugh Grant.

Gli Stadio.

I Dik Dik.

I Duran Duran.

I Jalisse.

I Gemelli di Guidonia.

I Pooh.

I Righeira.

I Tiromancino.

Iggy Pop.

Ilaria Galassi.

Ilary Blasi.

Ilenia Pastorelli.

Irina Shayk.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

J-Ax.

James Franco.

Jamie Lee Curtis.

Jane Fonda.

Jean Reno.

Jenny B.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Drake.

Jessica Rizzo.

Joan Collins.

Jo Squillo.

John Carpenter.

Johnny Depp.

José Luis Moreno.

Junior Cally.

Justine Mattera.

Gabriele Pellegrini: Dado.

Giovanni Scialpi, in arte Shalpy.

Kabir Bedi.

Kayden Sisters.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Kate Winslet.

Katherine Kelly Lang- Brooke Logan.

Katia Ricciarelli.

Kazumi.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kissa Sins.

Lady Gaga.

La Gialappa's Band.

La Rappresentante di Lista.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Pausini.

Le Carlucci.

Lele Mora.

Lello Arena.

Leo Gullotta.

Liana Orfei.

Licia Colò.

Lillo (Pasquale Petrolo) & Greg (Claudio Gregori).

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Liza Minnelli.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Jovanotti Cherubini.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Bizzarri.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luca Ward.

Luce Caponegro: Selen.

Luciana Littizzetto.

Luciana Savignano.

Luciano Ligabue.

Lucrezia Lante della Rovere.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Maccio Capatonda (all'anagrafe, Marcello Macchia).

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Maitland Ward.

May Thai.

Malika Ayane.

Maneskin.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Castoldi in arte Morgan.

Marco e Dino Risi.

Marco Giallini.

Marco Mengoni.

Marco Tullio Giordana.

Maria Bakalova.

Maria De Filippi.

Maria Giuliana Toro: «nome d' arte», Giuliana Longari.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Luisa “Lu” Colombo.

Maria Pia Calzone.

Marianna Mammone: BigMama.

Marica Chanelle.

Marilyn Manson.

Mario Maffucci.

Marina La Rosa.

Marina Perzy.

Marisa Laurito.

Martina Cicogna.

Martina Colombari.

Massimo Boldi.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Massimo Wertmüller.

Matilda De Angelis.

Maurizio Aiello.

Maurizio Battista.

Maurizio Milani.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Pezzali.

Mel Brooks.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael J. Fox.

Michael Sylvester Gardenzio Stallone.

Michele Foresta, in arte Mago Forest.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosé.

Milena Vukotic.

Milton Morales.

Mikhail Baryshnikov.

Mina.

Miriam Leone.

Mistress T..

Mita Medici.

Myss Keta.

Modà.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

Monica Vitti.

Nada.

Naike Rivelli ed Ornella Muti.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Naomi Campbell.

Nek.

Nicolas Cage.

Nicole Aniston.

Nina Moric.

Nino D’Angelo.

Nino Frassica.

Nick Nolte.

Nyna Ferragni.

Noemi.

99 Posse.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Portento.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino, meglio nota come Insta_Paolina.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Fox.

Paolo Rossi.

Paolo Sorrentino.

Paris Hilton.     

Pasquale Panella alias Vito Taburno.

Patrizia De Blanck.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Pedro Almodóvar.

Peppe Barra.

Peppino di Capri.

Phil Collins.

Pietra Montecorvino.

Pierfrancesco Favino.

Pier Francesco Pingitore.

Piero Chiambretti.

Pietro Galeotti.

Pino Donaggio.

Pio e Amedeo.

Pietro e Sergio Castellitto.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones Jr.

Rae Lil Black.

Rajae Bezzaz.

Raffaella Carrà.

Raffaella Fico.

Red Ronnie.

Regina Profeta.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Fabbriconi: Blanco.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Richard Benson.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Ora.

Robert De Niro.

Roberto Da Crema.

Roberto Vecchioni.

Robyn Fenty, in arte Rihanna.

Rocco Maurizio Anaclerio, in arte Dj Ringo.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Roberto Bolle.

Rodrigo Alves.

Rosalino Cellamare: Ron.

Rosario Fiorello.

Rowan Atkinson.

Sabina Guzzanti.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sal Da Vinci.

Salma Hayek.

Salvatore Esposito.

Sandra Milo.

Sara Croce.

Sara Tommasi.

Sarah Cosmi.

Scarlit Scandal.

Serena Autieri.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio Rubini.

Shaila Gatta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvio Orlando.

Simona Izzo e Ricky Tognazzi.

Simona Marchini.

Simona Tagli.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Sylvie Lubamba.

Sylvie Vartan.

Sophia Loren.

Stefania Casini.

Stefania Orlando.

Stefania e Amanda Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Stefano e Frida Bollani.

Stefano Sollima.

Steven Spielberg.

Sting.

Taylor Swift.

Teo Teocoli.

Terence Hill, alias Mario Girotti.

Terence Trent d’Arby, ora Sananda Maitreya.

Teresa Saponangelo.

Tilda Swinton.

Tim Burton.

Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno.

Tina Turner.

Tinì Cansino.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tommaso Paradiso.

Toni Ribas.

Toni Servillo.

Tony Renis.

Tosca D’Aquino.

Tullio Solenghi.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Val Kilmer.

Valentina Lashkéyeva. In arte: Gina Gerson.

Valentina Nappi.

Valentine Demy.

Valeria Golino.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valerio Lundini.

Valerio Staffelli.

Vasco Rossi.

Veronica Pivetti.

Village People.

Vina Sky.

Vincent Gallo.

Vincenzo Salemme.

Vittoria Puccini.

Vittoria Risi.

Zucchero Fornaciari.

Wanna Marchi e Stefania Nobile.

Wladimiro Guadagno, in arte Luxuria.

Willie Nelson.

Willie Peyote.

Will Smith.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figure di m…e figuranti.

Non sono solo canzonette.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed ultima Serata.

Sanremo 2022.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…scrivono.

Quelli che….la Paralimpiade.  

Quelli che…l’Olimpiade.

L’omertà nello Sport.

Autonomia dello sport? Peggio della Bielorussia.

Le Speculazioni finanziarie.

Gli Arbitri.

I Superman…

Figli di Papà.

Quelli che …ti picchiano.

Quelli che … l’Ippica.

Quelli che … le Lame.

Quelli che …i Motori.

Quelli che …il Ciclismo.

Quelli che …l’Atletica.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che ...la Palla ovale.

Quelli che …la Pallacanestro. 

Quelli che …la Pallavolo.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Vela.

Quelli che …i Tuffi. 

Quelli che …il Nuoto. 

Quelli che …gli Sci.

Quelli che …gli Scacchi. 

Quelli che… al tavolo da gioco.

Il Doping.

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SESTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Quelli che …il Calcio. 

Paolo Brusorio per “La Stampa” il 14 dicembre 2021. È proprio il caso di chiederselo dopo aver visto la sceneggiata Uefa: ma in che mani siamo finiti? Anzi, in che mani sono finiti calcio e Formula 1. Le biglie di Nyon passeranno alla storia come il più goffo episodio mai visto nell'organizzazione di un torneo milionario quale è la Champions; l'epilogo adrenalinico di Abu Dhabi ha sancito la morte dei regolamenti e la funzione per cui sono nati: essere rispettati. Così era andata anche nel penultimo atto a Gedda e allora qualche domanda sarebbe meglio che i team cominciassero a farsela. A meno che la possibilità di stressare e stravolgere le regole vada bene a tutti perché tanto prima o poi l'effetto convenienza entra in pista: una curva a me, una chicane a te. A Nyon invece abbiamo assistito a uno spettacolo imbarazzante, roba che neanche alla tombola di fine anno. O al gioco dei fagioli di "Pronto, Raffaella?". L'Uefa si è affrettata a trovare il colpevole, "il software", ma certo il governo europeo del pallone ha perso un pezzo importante di credibilità. Come, viva la SuperLega? E se poi salta fuori un software che ti fa sballare i bilanci?

MAURIZIO CRIPPA  per ilfoglio.it il 14 dicembre 2021. Vi ricordate quando certi furboni lanciarono la Superlega per rottamare la Uefa? Durò meno di un mattino, mentre quel maestrino col fischietto in bocca di Ceferin andava strillando come una fidanzata mollata all’altare “per me non esistono più!”. Bene, sembrava che il grande slam delle figure di m. calcistiche fosse stato assegnato per sempre. Invece no. Ieri un nuovo record. La Uefa ha fatto una figura di m. che manco la piattaforma Rousseau e che riabiliterebbe anche l’esame di Suarez a Perugia. Ai sorteggi per la Champions hanno sbagliato a mettere le palline. Nemmeno alla tombola della Baggina. Hanno dovuto annullare e poi rifare. Le scuse, in un tweet più patetico di un comunicato di Dazn: “A seguito di un problema tecnico con il software di un fornitore di servizi esterno, si è verificato un errore materiale nel sorteggio”. Da cui si deduce che avevano un “fornitore di servizi esterno” per infilare 16 palline nell’urna. Forse è davvero il momento di chiuderla, la Uefa, che con un facile gioco di parole milioni di europei da ieri chiamano Super(*)ega. O come direbbe la Giorgia: Ceferin è il vero Casalino europeo.

Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per "la Repubblica" il 14 dicembre 2021. La Champions League ha un tabù. Anzi, almeno dieci. Dieci gare inedite, mai viste, mai giocate. La ripetizione del sorteggio, ieri, ha messo di fronte per la prima volta nella storia del torneo Atletico Madrid e Manchester United.

Una spiegazione c'è.  Il sistema è stretto nel cappio della prevedibilità. Non è un caso che siano capitati Chelsea-Lille e Psg-Real: secondo la statistica, due dei tre accoppiamenti più probabili (il più quotato era Chelsea-Real). C'è voluta la ripetizione del sorteggio, ma la previsione è stata soddisfatta. Complotto? Niente affatto.  Il frutto, semmai, di paletti che finiscono per rendere quasi "annunciati" i sorteggi, pilotando almeno la distribuzione delle squadre. Si comincia già ad agosto: la Uefa, per motivi di audience televisiva, fa in modo di alternare i club dello stesso Paese nei giorni di gara. Così, quando l'Inter era stata sorteggiata nel Girone D, automaticamente la Juventus è stata esclusa dalla possibilità di finire nei gironi A, B o C, altrimenti avrebbe giocato in concomitanza con i nerazzurri. Lo stesso accade per Real e Barcellona. A questo bisogna aggiungere la divisione per fasce di merito, che divide le squadre in 4 gruppi, con i vincitori dei campionati e delle due coppe europee nella fascia più alta e gli altri a scendere in base al rendimento europeo. In più, resta il divieto di affrontarsi tra club dello stesso Paese, a cui aggiungere i vincoli politici che impediscono di mettere di fronte club di Paesi in guerra o in aperta ostilità. Una rete di prescrizioni che contribuisce a creare incroci quasi fissi ogni anno. Prendete l'Inter: i paletti con cui erano distribuite le squadre in estate hanno fatto sì che per due anni di fila trovasse di fronte gli stessi avversari, il Real e lo Shakhtar, in un girone identico, o quasi. L'ormai leggendaria urna di Nyon sembra quasi avere delle preferenze, con partite che continuano a ripetersi sistematicamente. (...) Il divieto di derby negli ottavi finisce col favorire i Paesi al top del ranking e riduce la varietà di abbinamenti. Il divieto di accoppiare agli ottavi due squadre già avversarie nel girone, nelle intenzioni, doveva proprio evitare un eccessivo ripetersi di gare identiche. Ieri invece ha prodotto l'errore di sistema che ha portato alla ripetizione del sorteggio. La responsabilità è stata addebitata a un service esterno. Ma perché la Uefa non ha previsto un Piano B? Se lo chiede pure il Tottenham, che a causa del calendario senza sbocchi non può affrontare il Rennes per provare a passare il turno di Conference: il rischio reale è di essere eliminato senza neanche giocare. Nel silenzio dell'Uefa.

Dagotraduzione dal Daily Mail l'11 novembre 2021. Secondo i media francesi, cinque giocatrici del Paris Saint-Germain femminile sono state affiancate da una guardia del corpo dopo aver ricevuto telefonate minacciose nei giorni precedenti all’aggressione e al pestaggio di Kheira Hamraoui. Così, oltre alla stessa Hamraoui, sotto protezione era finita anche Aminata Diallo, 26 anni, arrestata con l’accusa di aver orchestrato l’attacco alla compagna. Secondo quanto riferito, le telefonate minatorie sono iniziate a fine ottobre, giorni prima del 4 novembre, quando Hamraoui è stata trascinata fuori da un’auto e colpita sulle gambe con spranghe di ferro. Non è chiaro se le guardie del corpo siano state assegnate dopo le telefonate o dopo l’attacco. La polizia intanto ha arrestato un uomo di 34 anni, un amico d’infanzia di Diallo che era già in prigione per racket, con l’accusa di aver organizzato l’attacco da dietro le sbarre. La polizia starebbe lavorando sull’ipotesi che Diallo abbia assunto dei sicari per mettere fuori combattimento la talentuosa rivale in modo da prenderne il posto nella squadra del Psg. Secondo il quotidiano L'Equipe, a telefonare sarebbe stato un uomo di Barcellona che ha sostenuto di aver avuto una lunga relazione finita male con Hamraoui e dalla quale è uscito giurando vendetta. Ma questa sembra più una storia di copertura per il pestaggio. I sospetti si sono concentrati sulle compagne di squadre per via delle informazioni, troppo personali, che l’autore delle minacce rivolgeva ad Hamraoui. L’autore infatti avrebbe parlato di una festa a casa di un’altra giocatrice durante la quale Hamraoui «è caduta», informazione nota solo alle giocatrici. Diallo deve ancora essere accusata e rimane in custodia dove, secondo quanto riferito, ha negato le accuse durante gli interrogatori della polizia. La sua permanenza in custodia è stata prolungata fino a venerdì, quando potrebbe fare la sua prima apparizione in tribunale. La polizia deve ancora identificare gli uomini mascherati che hanno effettuato il pestaggio.

Calciatrice Psg aggredita, rilasciata la compagna-rivale. Stefano Montefiori su Il Corriere della Sera il 12 novembre 2021. L’aggressione a sprangate resta un mistero. Gli indizi contro Diallo non sono sufficienti. E spunta l’amante di Hamraoui e le minacce al telefono. PARIGI - Aminata Diallo, la 27enne riserva del Paris Saint-Germain sospettata di avere fatto ferire alle gambe la titolare 31enne Kheira Hamraoui per prenderne il posto, è stata scarcerata ieri sera senza alcuna accusa formale, qualche ora prima che scadessero i termini (questa mattina) della custodia cautelare. L’inchiesta continua e Aminata Diallo resta coinvolta, anche se gli indizi a suo carico non sono sufficienti per altri provvedimenti. Gli elementi che continuano a non convincere gli investigatori sono lo strano tragitto scelto da Diallo per accompagnare a casa in auto l’amica e rivale Hamraoui; la bassa velocità dell’auto proprio nel punto in cui i due aggressori l’hanno fatta fermare; il fatto che gli uomini a volto coperto abbiano preso a sprangate solo Hamraoui, senza toccare Diallo. A favore di Diallo, invece, gioca il fatto che durante gli interrogatori è apparsa molto solida nel garantire la propria innocenza (rifiutando per due volte di chiamare l’avvocato), ha risposto a tutte le domande collaborando con gli investigatori, e che anche contro l’altra persona arrestata, un amico già in carcere a Lione, non sono state trovate prove schiaccianti. Nelle settimane scorse un uomo, che dice di essere stato amante di Kheira Hamraoui per tre anni, ha fatto telefonate di minacce a lei e a tre compagne del Psg.

Giulia Zonca per "la Stampa" l'11 novembre 2021. Un'atleta gelosa di un'altra organizza un pestaggio per prendere il suo posto. Se lo avete già sentito è perché è già successo, nel 1994, solo che potrebbe essere ricapitato ancora. Adesso. Siamo in Francia, al Psg, club fatto di invidie e litigi al maschile e al femminile. La squadra delle ragazze esce per una cena ufficiale e al rientro tre compagne sono sulla stessa macchina. La più conosciuta si chiama Kheira Hamraoui, centrocampista, una Champions vinta con il Barcellona lo scorso maggio e un rientro a Parigi per il finale di carriera, a 31 anni. L'auto rallenta sotto casa della giocatrice e due tizi nascosti da una maschera aprono la portiera e la tirano giù. Hanno sbarre di ferro e mirano alle gambe. Ripetutamente. L'aggressione dura due minuti, Hamraoui resta a terra e viene portata all'ospedale piena di lividi e squarci. Servono dei punti di sutura, riposo e nuovi esami. Le altre due ragazze non vengono neanche considerate, nessun furto e nessun movente. L'agguato risale al 4 novembre, ma ieri, a Versailles, è stata arrestata Aminata Diallo, 26 anni, la riserva ideale di Hamraoui, al Psg e in nazionale, la ragazza alla guida e al momento l'unica sospettata, come mandante. Se è andata veramente così, come ormai sembra, Diallo non deve aver letto con attenzione la storia da cui ha preso ispirazione, forse si è persa il secondo tempo di «Tonya», film caustico sulla storia più famosa del pattinaggio. Sull'invidia più raccontata dello sport. Ventisette anni fa Tonya Harding, ragazza di borgata capace di farsi strada in un mondo di lustrini, è andata a sbattere contro il suo contrario, Nancy Kerrigan, fidanzata d'America nata con il dono dell'eleganza. Quando le due si sfidano sul ghiaccio gli Stati Uniti si dividono. Entrambe sono tostissime, solo che prima delle Olimpiadi di Lillehammer Harding si lascia travolgere dall'ansia e organizza una trappola per levarsi di torno la concorrenza. Fa assalire la rivale dall'ex marito con una spranga di ferro. A bordo pista. Solo qualche mese prima, la tennista Monica Seles è stata accoltellata da un tifoso di Steffi Graf. Il dibattito sui mitomani in tribuna e sul grado di sicurezza che serve per tenerli a distanza è attualità. Ma il colpo messo in piedi da Harding è troppo goffo per funzionare. Tutti gli indizi portano a lei. Così come ogni sospetto adesso si stringe intorno a Diallo. L'unica differenza sta in una serie di lettere minacciose ricevute d a diverse giocatrici del Psg nei giorni prima dell'assalto. La relazione stavolta è molto più complicata da capire, pure per colpa del precedente, identico, che ha portato la scatenata Harding alla radiazione e ha lasciato comunque il posto olimpico alla sconvolta Kerrigan. Diallo deve essersi persa qualcosa. La sua invidia, se questa è la molla, si muove più lenta: non è un impeto, non è figlia di un fastidio evidente. Le due ragazze del Psg sono amiche o almeno vengono definite così, sono state in vacanza insieme, non hanno avuto carriere gemelle però hanno storie simili. Entrambe subito notate nelle giovanili e poi parcheggiate a lungo, entrambe per tanto tempo lontane dal giro della nazionale. Aminata Diallo, nata e cresciuta a Grenoble, genitori senegalesi e lunghi dreadlock colorati è entrata al Psg nel 2016, anno in cui Kheira Hamraoui, casa nel Nord della Francia, sangue algerino e una chioma riccia e bionda che la rende molto riconoscibile, ha lasciato Parigi per la Spagna. Mentre Harding e Kerrigan hanno manifestato fin dal primo incontro insofferenza reciproca, Diallo e Hamraoui sono sempre andate d'accordo. Fino all'estate. Poi Hamraoui si infortuna e Diallo prende il suo posto, il suo spazio, il suo ruolo, il suo profilo. Fin troppo aderenti. Il contatto è così stretto da mandare in tilt l'identità della più giovane. La titolare resta Hamraoui e anche se gioca a intermittenza, per una serie di guai fisici, l'altra si sente sempre più stretta. Ridotta a una controfigura, a rimpiazzo. Al posto di Hamraoui pure tra le convocate per la Francia anche se resta in panchina. Pazienza, è in campo, fin dal primo minuto, nell'ultima sfida di Champions: Psg-Real Madrid, 4-0 al Parco dei Principi. Serata di gala, vissuta al centro della scena. Il piano funziona, ma è solo il primo tempo, non della partita, del film. Il secondo rischia di andare proprio come «Tonya» e lì persino il premio Oscar lo ha vinto l'attrice non protagonista. Ci sono modi più furbi di uscire dall'ombra, ma quando quella ti risucchia non si vede più nulla.

Francesco Friggi per eurosport.it il 16 novembre 2021. Nuovi dettagli emergono dalla vicenda Hamroui, secondo gli ultimi indizi sarebbe coinvolto anche Eric Abidal. Dopo l'aggressione era stata fermata dalla polizia (poi rilasciata) la compagna di spogliatoio Aminata Diallo ma il movente di rivalità in campo sembra allontanarsi sempre più. Secondo Le Monde, Abidal e Hamroui avevano una relazione segreta scoperta grazie ad chip telefonico dove sarebbero emerse molte chiamate tra i due, compresa una telefonata immediatamente dopo l'aggressione. La polizia, per fare luce sulla vicenda, interrogherà tutti i protagonisti; l'avvocato di Abidal, intercettato da Le Monde, in merito alla questione ha semplicemente detto: “ho parlato con lui, ma per il momento non vi dirò assolutamente nulla.”

Da gazzetta.it il 19 novembre 2021. L’aggressione. Le indagini. E un (presunto) tradimento con richiesta di divorzio. C’è un nuovo capitolo nella storia legata alla rappresentativa femminile del Paris Saint Germain, che si allarga e si sviluppa. Prima c’è stata l’aggressione a sprangate ai danni della calciatrice Hamraoui, avvenuta lo scorso 4 novembre, a seguito della quale è stata arrestata la compagna di squadra Diallo, presunta colpevole, e causata forse dalla rivalità in campo tra le due. Poi il coinvolgimento di Eric Abidal, ex difensore del Barcellona e della Francia, e di sua moglie Hayet. Infine, la richiesta di divorzio da parte di quest’ultima, confermata dall’avvocato Jennifer Losada, secondo cui - come riferito a Esport 3 - la sua cliente è stata “obbligata dalle circostanze e con sconcerto per il caso Hamraoui”. Perché? L’ipotesi è che possano essere fondati i sospetti di una relazione extraconiugale tra l’ex calciatore e l’atleta aggredita: relazione che avrebbe scatenato la reazione della Diallo. Ipotesi, quella del rapporto del marito con la Hamraoui, dalle quali la signora Hayet aveva preso le distanze. E che, invece, sarebbero fondate...

Hamraoui, la moglie di Abidal chiede il divorzio dopo il tradimento del marito. La Repubblica il 19 novembre 2021. Grazie a una sim è stata scoperta la relazione tra la calciatrice pestata e l'ex giocatore, dirigente del Barcellona quando la centrocampista militava nelle fila blaugrana. La signora Abidal, a sua volta, è coinvolta nelle indagini: al vaglio l'ipotesi di una vendetta amorosa. Gli effetti collaterali dell'aggressione subita il 4 novembre scorso dalla calciatrice 31enne del Paris Saint Germain e della Francia, Kheira Hamraoui, hanno colpito anche Eric Abidal, ex calciatore e dirigente del Barcellona. Come riportano i media spagnoli e francesi, la moglie Hayet ha presentato una domanda di divorzio, per la presunta relazione extraconiugale avuta dal direttore sportivo dei blaugrana con Hamraoui dal 2018 al 2021, quando la campionessa ha giocato al Barcellona. Ad accendere la miccia è stata l'indagine sull'episodio che ha coinvolto la calciatrice 31enne del Psg. Gli investigatori hanno trovato tra gli effetti di Hamraoui una sim intestata proprio ad Abidal. Quest'ultima scoperta ha messo alle strette il vicecampione del mondo francese - che ha confessato alla moglie il tradimento - e che ha anche indotto l'autorità giudiziaria a puntare gli occhi sulla signora Abidal come mandante del pestaggio alla centrocampista del Psg per motivi di vendetta amorosa, anche alla luce del fatto che durante le sprangate gli aggressori hanno rimproverato la calciatrice per i suoi presunti legami con uomini sposati. "La mia assistita spera di lavare il suo onore e la sua reputazione dalle voci sporche e ribadisce il suo desiderio di essere ascoltata rapidamente", ha commentato l'avvocatessa di Hayet Abidal. Martedì scorso, dopo lo scoppio del caso, la donna ha assicurato di essere totalmente estranea ai fatti. Nelle prime fasi delle indagini l'indiziata principale dell'aggressione ad Hamraoui era la compagna di squadra Aminata Diallo, che l'aveva riaccompagnata a casa dopo una cena di gruppo in un ristorante di Parigi e che era stata accusata di aver organizzato l'attacco per invidia nei confronti dell'amica, spesso titolare al suo posto.

Massimo Ferrero. Alessandro Bocci per il "Corriere della Sera" il 20 aprile 2021.

Presidente Ferrero cosa ha pensato quando la Superlega è diventata realtà?

«Che Andrea Agnelli è un grande attore. Noi, più volte, gli abbiamo chiesto cosa stesse succedendo e lui ha sempre smentito».

Il calcio dei ricchi è realtà.

«Un disastro. Non possono uccidere così lo sport più bello del mondo. Ringrazio Draghi che si è opposto a questo progetto con fermezza e decisione. Il calcio italiano non ha avuto i ristori con i quali poteva sistemare gli stadi, ma in questa situazione il premier ci ha dato il suo appoggio che per noi è molto importante».

Ma cosa succederà?

«Non ci può essere un campionato senza la Juventus, ma neppure senza la Sampdoria, il Genoa o lo Spezia. La Superlega è un danno anche per l'economia del Paese. Adesso paghiamo un miliardo di tasse. Se arriveremo alla spaccatura, entreranno meno soldi e meno soldi andranno allo Stato. Temo conseguenze per i giocatori stessi e per la Nazionale di Mancini».

Ma in Lega cosa vi siete detti?

«Siamo amareggiati, ma come sempre dispersivi. Se davvero ci sarà un male, da quel male dobbiamo tirare fuori il bene per tutelare i nostri tifosi».

Ma lei ha parlato con Agnelli?

«Si e gli ho fatto i complimenti. Andrea è un genio».

Ceferin non la pensa allo stesso modo.

«Il presidente dell'Uefa ha detto cose molti forti. Però il signor Juve è rodato. Lui sta giocando la sua partita. Intanto ha dato le dimissioni da presidente dell'Eca. Un bel gesto che non deve rimanere isolato. Chi ha avuto l'idea è colpevole, ma lo è altrettanto chi l' idea l'ha seguita e appoggiata».

Non pensa che, alla fine, si arriverà a un compromesso?

«Non lo so. Stanno cercando di trasformare il calcio in un gioco d' élite per miliardari. Ma non hanno tenuto conto di un po' di fattori».

Per esempio?

«Devono rendere conto al popolo sovrano. Gli ideatori della Superlega sono sicuri che i tifosi siano contenti? Eppoi, così facendo, cancellano un principio basilare del calcio: la meritocrazia. La classifica è importante. Ogni anno io e i miei colleghi spendiamo tanti soldi. La Superlega uccide il sogno. Il sogno dei tifosi e dei presidenti. Io sono un passionale e la passione è un grande motore nel calcio. Prendete Percassi: ha fatto sacrifici enormi per costruire il gioiello Atalanta e con questa rivoluzione rischia di stare fuori dall' Europa che conta: vi sembra giusto?».

Ferrero arrestato, crac di 4 società in provincia Cosenza.

(ANSA il 6 dicembre 2021) - Massimo Ferrero è stato arrestato a Milano e portato nel carcere di San Vittore per il crac di 4 società nel settore alberghiero, turistico e cinematografico con sede in provincia di Cosenza. Le società, da quanto si è appreso, sono state dichiarate fallite qualche anno fa. Una delle società coinvolte à la 'Ellemme group Srl', azienda che secondo i magistrati si sarebbe accollata complessivamente un debito di oltre un milione e 200mila euro che diverse società del gruppo avevano verso Rai Cinema Spa, "rinunciando così ad incassare i crediti dalla stessa vantati nei confronti di Rai Cinema Spa senza richiedere alcuna controprestazione e senza pattuire interessi-corrispettivi". Una mossa che, si legge nelle carte "cagionava il dissesto della società Ellemme Group Srl'." Tre sono i capi d'imputazione che ricostruiscono la vicenda. L'amministratore unico della 'Ellemme' risulta essere Vanessa Ferrero, ma il presidente della Sampdoria, dice la procura, è l'amministratore di fatto. Lo stesso Ferrero, sempre secondo le indagini, risulta anche essere stato nel corso degli anni amministratore unico della 'Global Media srl', presidente del Cda di 'Mediaport spa' e amministratore unico di 'Mediaport Cinemas Srl', mentre la figlia è stata anche amministratore unico della 'Ferrero Cinemas srl'. Per quanto riguarda il primo episodio, la Ellemme si sarebbe accollata un debito complessivo di 806mila euro che la Global Media srl, Mediaport Spa e Ferrero Cinemas avevano nei confronti di Rai Cinema; nel secondo capo di imputazione, il debito che finisce sulle spalle della Ellemme è di quasi 209mila euro (contratto da Mediaport srl e Mediaport Cinema) mentre nel terzo ammonta a oltre 239mila accumulati da Mediaport Cinema e Ferrero Cinemas.

Ferrero arrestato: difensore, trattato peggio di Totò Riina

(ANSA il 6 dicembre 2021) - "Lo stanno trattando peggio di Totò Riina". Così l'avvocato Pina Tenga, difensore di Massimo Ferrero, arrestato oggi a Milano per bancarotta. "Abbiamo fatto istanza alla Procura di Paola - prosegue la penalista - per chiedere che Ferraro possa essere trasferito a Roma per presenziare alla perquisizione e all'apertura di una cassaforte". 

Ferrero: Gip, sottratti da figlia 740mila euro casse società

(ANSA il 6 dicembre 2021) - Vanessa Ferrero avrebbe sottratto oltre 740mila dalle casse della società per "procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto e recare pregiudizio ai creditori". E' quanto scrive il Gip del tribunale di Paola in uno dei capi d'imputazione nei confronti della figlia di Massimo Ferrero, posta ai domiciliari nell'ambito dell'inchiesta che ha portato in carcere il presidente della Sampdoria. Dal gennaio del 2011 al dicembre del 2012, si legge nell'ordinanza, "con ripetuti prelevamenti dai conti correnti bancari nella disponibilità della Ellemme Group Srl, sia in contante che a mezzo assegni, distraeva l'importo di 740.520 euro".

Arresto Ferrero: stupore Samp, “non chiare esigenze cautelari”

(ANSA il 6 dicembre 2021) - "Con grande stupore si è appreso dell'odierna esecuzione di una misura cautelare di custodia in carcere a carico di Massimo Ferrero, richiesta da parte della Procura della Repubblica di Paola per vicende fallimentari relative a fatti di moltissimi anni fa e rispetto alle quali non sono di chiara e immediata percezione le stesse esigenze cautelari". Lo sottolinea la Samp, aggiungendo che le vicende dell'inchiesta "sono del tutto indipendenti" dal club e dalle attivita' romane legate al cinema. I legali di Ferrero si mettono "a completa disposizione degli inquirenti" per "per chiarire fin da subito" la posizione del loro assistito.

Ferrero: Sampdoria, vicende non riguardano club

(ANSA il 6 dicembre 2021) - "Tali vicende, in ogni caso, preme precisare che sono del tutto indipendenti tanto rispetto alla gestione e alla proprietà della Società U.C. Sampdoria quanto rispetto alle attività romane di Ferrero e legate al mondo del cinema, già oggetto di procedura avanti al Tribunale di Roma". Lo si legge nel comunicato stampa pubblicato dalla società blucerchiata in relazione all'arresto di Massimo Ferrero. 

Arresto Ferrero: Federclubs, chi ama Samp si faccia avanti

(ANSA il 6 dicembre 2021) - "Dal punto di vista mediatico questo è il punto più basso della storia lunga 75 anni della Sampdoria. Adesso chi davvero ama il club e vuole dare un segnale importante si faccia avanti, non si può più aspettare". Lo ha detto Emanuele Vassallo, presidente della Federclubs all'ANSA commentando l'arresto di Massimo Ferrero. "La nostra posizione nei suoi confronti è sempre stata chiara - ha detto Vassallo -, oggi vediamo il nome della Sampdoria fare il giro d'Italia per notizie non belle e questo ci fa stare male. Un paio di anni fa Edoardo Garrone disse che non avrebbe mai abbandonato la Sampdoria e le avrebbe garantito un futuro: confidiamo che ci sia un intervento di chi ha a cuore i colori blucerchiati. Se è vero che il club non appare interessato all'inchiesta, le conseguenze mediatiche e finanziarie sono imprevedibili. Non sappiamo cosa potrà succedere senza una nuova proprietà".

Da open.online il 6 dicembre 2021. Sono quattro le bancarotte fraudolente su altrettante società per cui la procura di Paola, nel Cosentino, ha chiesto e ottenuto l’arresto di Massimo Ferrero, l’ex presidente della Sampdoria finito in carcere questa mattina, 6 dicembre, a San Vittore a Milano. I crac riportati dal Gip di Paola nell’ordinanza di arresto riguardano la Ellemme Group, la Blu Cinematografica, la Blu Line e la Maestrale srl. Società di proprietà anche di Ferrero che operavano nel turismo e nel settore cinematografico e alberghiero con sede in provincia di Cosenza. Secondo la procura di Paola, Ferrero, arrestato assieme a sua figlia Vanessa e il nipote Giorgio, avrebbero falsificato i bilanci passivi, facendoli quindi passare per attivi, e dichiarato in più occasioni il falso a proposito dei fallimenti relativi alle società. Queste venivano usate come veri e propri bancomat, ottenendo profitti illeciti sottraendo denaro direttamente dalle casse delle società.

I casi sospetti

Uno dei casi in esame riguarda l’azienda Ellemme group Srl, della quale risulta amministratrice delegata la figlia Vanessa Ferrero. Secondo i magistrati, però, l’ex presidente della Samp sarebbe stato l’amministratore di fatto. La Ellemme group si sarebbe accollata un debito di 806 mila euro contratto dalla Global Media srl, dalla Mediaport Spa e dalla Ferrero Cinemas nei confronti di Rai Cinema. I crediti erano stati trasferiti, secondo i magistrati, «a favore dell’Eleven Finance», un’altra società del gruppo Ellemme. Un altro caso riguarda la sparizione di documenti contabili della casa di produzione avviate nel 1998, la Blu Cinematografica Srl. Per la Procura, Ferrero, sua figlia e Aniello Del Gatto (liquidatore della società dal 23 dicembre del 2012) avrebbero distrutto «in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre scritture contabili in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e del movimento degli affari». I pm segnalano un caso particolare, avvenuto il 13 febbraio del 2014: era stato denunciato «il furto di un’Audi S8 all’interno della quale vi era custodita una borsa in pelle contenente tutta la documentazione contabile» della Ellemme, tra cui «il libro giornale, i registri Iva, il libro inventari, i verbali delle assemblee» e altri documenti.

Da corrieredellosport.it il 6 dicembre 2021. Con un comunicato ufficiale, la Sampdoria commenta l'arresto del proprio presidente Massimo Ferrero, annunciando che il patron si è dimesso da tutte le cariche sociali: "Con grande stupore si è appreso dell’odierna esecuzione di una misura cautelare di custodia in carcere a carico di Massimo Ferrero, richiesta da parte della Procura della Repubblica di Paola per vicende fallimentari relative a fatti di moltissimi anni fa- si legge nella nota della società ligure - rispetto alle quali non sono di chiara ed immediata percezione le stesse esigenze cautelari alla base per l’evidente assenza di attualità, tanto più considerando che per tre delle quattro società calabre coinvolte vi era già stata allo scopo una transazione con le relative procedure già perfezionata e adempiuta. Tali vicende, in ogni caso, preme precisare che sono del tutto indipendenti tanto rispetto alla gestione e alla proprietà della Società U.C. Sampdoria quanto rispetto alle attività romane di Ferrero e legate al mondo del cinema, già oggetto di procedura avanti al Tribunale di Roma. Tuttavia Ferrero, proprio per tutelare al meglio gli interessi delle altre attività in cui opera, e in particolare isolare anche ogni pretestuosa speculazione di incidenza di un tanto rispetto all’U.C. Sampdoria e al mondo del calcio, intende formalizzare le dimissioni immediate dalle cariche sociali di cui sinora è stato titolare, mettendosi nel contempo a immediata e completa disposizione degli inquirenti, che verranno contattati dai suoi legali, gli avvocati Luca Ponti e Giuseppina Tenga, proprio per chiarire fin da subito la propria posizione ed evitare che, dalla del tutto inaspettata e presente situazione, possano derivare ulteriori pregiudizi a carico di realtà estranee, come l’U.C. Sampdoria, che ne sarebbero gratuitamente danneggiate. Si confida che tutto si possa risolvere in tempi brevissimi anche considerando che il Trust adottato in funzione delle procedure romane contemplava, a garanzia, anche l’accantonamento di somme proprio a tutela delle procedure di cui alla Procura di Paola". Dopo l'arresto e le dimissioni di Ferrero, la gestione quotidiana e ordinaria è affidata al direttore operativo Alberto Bosco, in attesa della convocazione di un cda straordinario. Bosco in mattinata ha radunato i dipendenti nella sede del club e li ha rassicurati sulla continuità aziendale, invitandoli a essere ancora più uniti e compatti in questo momento. La squadra, che stamani si è regolarmente allenata, è stata informata di quanto avvenuto dal direttore sportivo Daniele Faggiano al termine della seduta e anche in questo contesto è stato sottolineato come oggi per la Sampdoria "sia importante restare compatta per reagire sul campo, a partire dal derby" che si giocherà al Ferraris venerdì alle 20,45. Alcuni giocatori, che hanno sempre avuto un rapporto personale stretto con Ferrero, si sono detti "preoccupati per la salute del presidente e per la sua famiglia", che hanno conosciuto e frequentato in questi anni. 

Chi è Massimo Ferrero: la Sampdoria, i cinema, la Livingston e i debiti di «er Viperetta» arrestato oggi. Maria Strada su Il Corriere della Sera il 6 dicembre 2021. Imprenditore del settore cinematografico, ha tentato un’avventura con la compagnia aerea Livingston, ma si è conclusa con un patteggiamento per bancarotta fraudolenta. Guai anche per abusi edilizi per un attico ai Parioli. Massimo Ferrero, arrestato nella mattinata del 6 dicembre 2021 con l’accusa di bancarotta fraudolenta e altri reati societari non legati al calcio, ha acquistato la Sampdoria nel giugno 2014 dalla famiglia Garrone. Romano di Testaccio, 70 anni compiuti ad agosto, dal 1994 è produttore indipendente in ambito cinematografico. Nel suo curriculum vitae annovera tante pellicole impegnate come «Mery per sempre» e «Ragazzi fuori» e molte commedie all’italiana tra cui «Mani di Velluto», «L’anatra all’arancia» e numerosi film di Tinto Brass. Soprannominato «er Viperetta» (lui sostiene che è un’affettuosità inventata da Monica Vitti, ma sono in pochi a credergli), amico intimo — giura chi lo frequenta —di Sylvester Stallone , è proprietario del cinema Adriano di Roma e controlla oltre 60 sale cinematografiche in Italia, per lo più acquistate a poco prezzo dal gruppo Cecchi Gori come del resto a poco prezzo — meglio: a titolo gratuito, accollandosi i 15 milioni di debiti — ha rilevato il club blucerchiato dai Garrone. «Vengo dal nulla e ho comprato la Sampdoria perché dopo di lei c’è il nulla», diceva di sé presentandosi l’imprenditore, che, sin da bambino, tifa per la Roma. Figlio di un tramviere «che si dedicava ai libri, ai francobolli, a tutto meno che al tram» e con la mamma «figlia di venditori ambulanti», raccontava di aver desiderato fare il ballerino: «La domenica andavo a ballare il tip tap al Bar Veneto. Ho tentato anche di entrare nel balletto della Pavone», mantenendosi facendo il «macellaretto, portavo la carne nelle case. Avevo un amico con una bicicletta con il portapacchi e un giorno gliel’ho rubata». Da lì, racconta, la sua fortuna: «Una Fiat 1.100 comincia a suonarmi, pensavo fosse per la bicicletta e invece era l’aiuto regista di Blasetti che mi consigliava di andare a San Saba Palatino dove sceglievano delle comparse. C’erano solo ragazzini tutti curati, ma Blasetti mi vede: “Sei capace di fischiare?”. “Dotto’ è il mestiere mio”. Dovevo fare un panettiere, fratello di Giovanna Ralli». Così, poi, divenne ispettore di produzione con i maggiori registi italiani, e produttore, appunto. Sposato in prime nozze con Laura Sini una imprenditrice del settore caseario — «Non è vero che mi ha dato lei i soldi per comprare i primi cinema» — con un divorzio non senza strascichi legali, ora è legato a Manuela Ramunni. Ha quattro figli: Vanessa (anche lei arrestata), Michela, Emma e il piccolo Rocco. In passato ha tentato una spericolata avventura con la compagnia aerea Livingston, specializzata in charter nelle isole caraibiche, naufragata malamente, creando un buco da 20 milioni di euro e alcune disavventure giudiziarie, concluse patteggiando una pena di un anno e 10 mesi proprio per bancarotta fraudolenta. Altri guai sono arrivati nel 2016 quando è stato accusato di abusi edilizi nell’attico ai Parioli, nella sua abitazione in via Torquato Taramelli, un immobile che peraltro era stato posto sotto sequestro per ragioni fiscali. Per lui una condanna a 4 mesi di reclusione. Più recenti le accuse inerenti il caso Obiang: oltre un milione ricavato dalla vendita del calciatore, nel 2015, sarebbe stato distratto da Er Viperetta in modo illecito per fini privati.

Massimo Ferrero, quando Fidel Castro gli urlò: «Molla subito la mia mano». Fabrizio Roncone su Il Corriere della Sera il 7 dicembre 2021. Ferrero faceva la comparsa insieme a Giuliano Gemma. «Sul set razziavo tutti i cestini: poi li portavo a casa e facevo cenare i miei tre fratelli». Si annunciò da lontano, con la sua risata cimiteriale. Un albergo a Castelfranco Veneto, tavolata di giornalisti e procuratori sportivi, una cena di qualche tempo fa.Ma guarda: è arrivato Viperetta. Lui: spettinato e allegro. Però anche sfacciato: «Me siedo solo pe’ favve un favore». Elegante nella sua giacca blu di sartoria: «Tocca un po’: sai questo come se chiama? Ca-che-mi-re. Nun te dico quanto costa, sinnò me svieni». Visionario: «Dopo aver fatto vince lo scudetto alla Samp, me compro la Roma e ve regalo la Champions».

L’Amarone

Chiede una bottiglia di Amarone, i camerieri — sussiegosi — portano anche un vassoio fumante di risotto al radicchio. «No, aspé: er vino è bbono, ma sto’ pappone ve lo magnate voi. Io cio’ fame: se po’ ave’ na’ bella ajo e olio?» (urlando). Gli squilla il cellulare, come suoneria ha «Nessun dorma»: «So’ chic d’animo, pure se so’ nato a Testaccio», nel 1951, padre controllore sui bus, madre ambulante. Ma, al terzo bicchiere di rosso, Massimo Ferrero racconta della nonna, Antonietta Prosperini. «Santa donna. Faceva l’avanspettacolo all’Ambra Jovinelli, il Dna dell’attore è un dono suo. Da vecchia teneva tutti i soldi sotto er cuscino. Io lo sapevo, je davo un bacetto e intanto, ogni volta, me fregavo mille lire. Me ricordo l’ultima cosa che disse, sul letto de morte: Massimé, i sordi l’ho spostati nel cassetto».

5 mila euro

Un uomo cinico ai limiti della ferocia, arrogante — «Nun giro mai co’ meno de 5 mila euro in tasca: e non dico fregnacce, eccoli» — ma anche capace di tenerezze inaudite. Racconta che, giovanissimo, dopo aver fatto la comparsa con Giuliano Gemma in qualche film a Cinecittà, finse di avere la patente per diventare l’autista dell’attore Silvio Spaccesi. «Sul set razziavo tutti i cestini: poi li portavo a casa e ci facevo cenare i miei tre fratelli». Piccoletto, tutto nervi, di pensiero furbo e velocissimo. Diventa direttore di produzione, poi produttore esecutivo. Un cameo nel film Camerieri, dove è Sem, il venditore di levrieri che schiaffeggia Diego Abatantuono. Prima di mettersi in proprio, lavora sui set di Mario Monicelli e Liliana Cavani, a lungo con Tinto Brass. «Serena Grandi, nei panni di Miranda, era strepitosa. Na’ volta capito nel suo camerino e trovo lei tutta nuda, addosso solo na’ vestajetta. Se volta, e me dice: “Vipere’, che fai, guardi? Mortacci tua, je rispondo: nun solo guardo, vorrei pure tocca’. All’epoca però aveva una storia con Giovanni Bertolucci, e io so’ all’antica, porto rispetto».

Matrimonio

Tre relazioni, una con matrimonio: si sposa con Laura Sini, ereditiera di un’azienda casearia del viterbese. Sei figli in totale. Gli ultimi, avuti dalla truccatrice Manuela Ramunni, si chiamano Rocco Contento e Oscar. La più grande, Vanessa, è ai domiciliari. Le immagini dei tigì che danno la notizia dell’arresto per bancarotta si sovrappongono al ricordo di quella cena. Di Viperetta che sta prima nel ruolo di efferato affabulatore, e poi di presidente della Samp: «Garrone non me l’ha regalata. Me so’ accollato 25 milioni de debiti, ne ho messi altri 15 per l’aumento di capitale, più altri spicci. In tutto fanno 50 pippi. Ma la felicità di poter considerare i tifosi blucerchiati come una nuova famiglia, non ha prezzo».

«Nun me rompete li...»

I tifosi, in realtà, lo detestano da sempre. I tifosi hanno in testa un altro presidente: Gianluca Vialli (vediamo se adesso, chissà). In genere Viperetta commenta dicendo: «Nun me rompete li cojoni». Fare finta di niente, sghignazzare in faccia alla vita. Nel bene: come quando con un colpo di mano acquisisce le 60 sale (tra cui il gioiello romano dell’Adriano) di un altro meraviglioso caduto come Vittorio Cecchi Gori. E nel male: quando patteggia una condanna definitiva di un anno e 10 mesi per il fallimento — vizio antico — della compagnia aerea Livingston Energy Flight. Però quella cena. Che cena. Al cameriere che gli chiede: «Gradisce un superalcolico, presidente?». Lui risponde: «Presidente un cazzo». Il cameriere si allontana mortificato. E allora Viperetta gli urla dietro: «Ammazza, aho’! Ma qui in Veneto ve offendete facile, eh? Dai, torna qua, damme un bacetto...». E quello torna, mezzo contento, e si fa fare pure un autografo.

Cuba e la gag

Così Viperetta butta giù un paio di segnacci su un tovagliolo di carta e attacca a raccontare la solita gag — vera, falsa, forse solo verosimile — di quella volta che andò a Cuba per creare una casa di produzione cinematografica. Aveva fatto le cose in grande, dice. Una spedizione enorme: luci, carrelli, attrezzi, persino i ciak. «Poi arriva il giorno dell’inaugurazione e io me porto du’ fotografi. Così, appena vedo Fidel Castro, me fiondo e gli afferro la mano pe’ famme immortalà. Solo che, appena me volto, i fotografi nun ce stanno più. Allora me metto a gridà: aho’, a stronzi, ‘ndo state? E Fidel che me tirava dicendo: Mollame la manos, por favor, molla te dicos...».

A Cinecittà

Una cena memorabile. Stiamo per alzarci, è notte fonda, ma uno chiede: «Presidente, un’ultima cosa: davvero fu Monica Vitti a darle il soprannome di Viperetta?». Lui allora diventa improvvisamente serio. «No. La storia è diversa: ero pischello, e a Cinecittà, una sera, un costumista omosessuale mi si avvicina e mi sussurra all’orecchio: lo sai che il cinema è fatto di lenzuola? Allora io je dico che le lenzuola me le rimbocca solo mia madre... Ma mentre gli sto sopra, e con una mano lo tengo fermo, e con l’altra lo prendo a pizze, quello ridacchia e mi urla: sei una Viperetta, ecco quello che sei! Eh... Lo so da solo: questa nun fa tanto ride».

Da video.repubblica.it il 6 dicembre 2021. Da Zenga definito "una pippa come portiere" al Natale in cui si deve "mangiare e fare l'amore". Passando per la lite con Panatta e le reazioni teatrali alle domande sulla cessione della Samp: tutte le volte che Ferrero, davati alle telecamere, ha dato spettacolo.

Le carte contro Ferrero: “Cerca di prendere i soldi dalla Samp”. Marco Lignana su La Repubblica il 7 dicembre 2021. Le intercettazioni agli atti dell’inchiesta della Procura di Paola che ha portato all’arresto dell’ormai ex presidente Il commercialista: “Il Tribunale ha voluto la dichiarazione che noi la società la mettiamo in vendita”. "Adesso ho capito perché sta cercando di prendere i soldi dalla Sampdoria!". A parlare è Gianluca Vidal, commercialista di fiducia di Massimo Ferrero, con Andrea Diamanti, storico manager dei Viperetta, fra gli altri incarichi già dentro il Consiglio di Amministrazione della società blucerchiata. Perché se è vero che la Sampdoria non è direttamente coinvolta nell'indagine, come ripetono gli avvocati Luca Ponti e Giuseppina Tenga, nell'ordinanza di custodia cautelare che ha mandato in carcere per 

Arresto Ferrero, nella Sampdoria avanti nel segno di Vidal ma tutti sognano Vialli. Stefano Zaino su La Repubblica il 7 dicembre 2021. Il commercialista può essere il reggente del club, ma serve un nuovo Cda: il rischio è la paralisi. La prima conseguenza pratica del terremoto che ha investito la Sampdoria, società e squadra, a tre giorni dal derby contro il Genoa, è l’annullamento della cena di Natale, in programma stasera. Un appuntamento a cui Ferrero teneva moltissimo, luogo di scherzi e battute, il presidente a troneggiare, la prima squadra maschile, da quest’anno anche quella femminile e tutti i dipendenti a formare una platea divertita. 

Dal carcere minorile agli arresti per bancarotta, la vita da film di Ferrero "er Viperetta". Enrico Sisti su La Repubblica il 6 dicembre 2021. Luci della ribalta e ombre della finanza spericolata nella parabola dell'imprenditore cinematografico finito in prigione per ordine della procura di Paola. Tutto nel nome, anzi nel soprannome: "er Viperetta", regalo di un costumista isterico subito ripreso e certificato da Monica Vitti. Massimo Ferrero non si è mai tenuto dentro alcunché, mai che avesse rifiutato una chance, a costo di aggirare il sistema. O le sue regole. E senza mai smentire le sue maniere ardite, quel suo modo di fare affari nascosto da una provvidenziale tenebra (lecito o no?).

Arrestato Massimo Ferrero, presidente della Sampdoria. Ma il club non è coinvolto. Alessia Candito, Marco Lignana su La Repubblica il 6 dicembre 2021. Ai domiciliari anche la figlia e la nipote, l'accusa è bancarotta e riguarda il fallimento di diverse società create in Calabria dal numero uno blucerchiato. La sua legale: "Trattato come un delinquente, mi risulta abbia avuto anche un malore". Arrivano le dimissioni dalla Samp. Il presidente della Sampdoria, Massimo Ferrero, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza nell'ambito di un'inchiesta della Procura di Paola, nel cosentino, per reati societari e bancarotta. Secondo quanto si apprende, la squadra ligure non è coinvolta nelle indagini: al numero uno blucerchiato viene contestato il fallimento di diverse società create in Calabria nel settore turistico, alberghiero e cinematografico.

In particolare, al centro dell'indagine ci sarebbe un investimento nel comune di Acquappesa. Secondo l’accusa Ferrero avrebbe distratto fondi a svantaggio dei creditori.

Ferrero è stato arrestato dalle Fiamme Gialle in un hotel di Milano e portato nel carcere di San Vittore, mentre per altre cinque persone sono stati disposti i domiciliari. Tra gli arrestati ci sono anche Giorgio e Vanessa Ferrero, rispettivamente nipote e figlia del patron della Samp.

Il legale di Ferrero, Giuseppina Tenga, ha presentato un'istanza ai magistrati affinché possa essere trasferito a Roma, per consentirgli di assistere alla perquisizione e procedere all'apertura di una cassaforte all'interno di un'abitazione: "E' stato trattato come un delinquente, mi riferiscono anche abbia avuto un malore, poi non sono più riuscita ad avere sue notizie. Si tratta di contestazioni su vicende vecchie di quattro anni. Mi sembrava logico che Ferrero assistesse alla perquisizione a casa sua, a qualsiasi altra persona glielo avrebbero permesso, a lui no".

In totale sono nove le persone coinvolte nell'inchiesta. Ai domiciliari si trovano Vanessa e Giorgio Ferrero; Giovanni Fanelli, 53 anni, di Potenza; Aiello Del Gatto, di Torre Annunziata, 55enne residente ad Acquappesa.

A questi si aggiungono altri quattro indagati, tutti residenti a Roma e sottoposti oggi a perquisizione. Oltre all'abitazione romana di Ferrero, la Finanza si è mossa e in varie regioni tra cui Lombardia, Lazio, Campania, Basilicata e la stessa Calabria.

Le dimissioni

Nel frattempo la Sampdoria ha annunciato le dimissioni di Ferrero. In un comunicato si legge che la scelta è stata fatta "per tutelare al meglio gli interessi delle altre attività in cui opera, e in particolare isolare anche ogni pretestuosa speculazione di incidenza di un tanto rispetto all'U.C. Sampdoria e al mondo del calcio". Da mesi il presidente era nel mirino dei tifosi che lo avevano apertamente contestato

Ferrero dunque "intende formalizzare le dimissioni immediate dalle cariche sociali di cui sinora è stato titolare, mettendosi nel contempo a immediata e completa disposizione degli inquirenti, che verranno contattati dai suoi legali, gli avvocati Luca Ponti e Giuseppina Tenga, proprio per chiarire fin da subito la propria posizione ed evitare che, dalla del tutto inaspettata e presente situazione, possano derivare ulteriori pregiudizi a carico di realtà estranee, come l'U.C. Sampdoria, che ne sarebbero gratuitamente danneggiate".

Samp, il presidente Ferrero fa ginnastica

Le contestazioni

Una delle società coinvolte nell'indagine à la 'Ellemme group Srl', azienda che secondo i magistrati si sarebbe accollata complessivamente un debito di oltre un milione e 200mila euro che diverse società del gruppo avevano verso Rai Cinema Spa, "rinunciando così ad incassare i crediti dalla stessa vantati nei confronti di Rai Cinema Spa senza richiedere alcuna controprestazione e senza pattuire interessi-corrispettivi".

Una mossa che, si legge nelle carte "cagionava il dissesto della società Ellemme Group Srl'." Tre sono i capi d'imputazione che ricostruiscono la vicenda.

L'amministratore unico della 'Ellemme' risulta essere Vanessa Ferrero, ma il presidente della Sampdoria, dice la procura, è l'amministratore di fatto. Lo stesso Ferrero, sempre secondo le indagini, risulta anche essere stato nel corso degli anni amministratore unico della 'Global Media srl', presidente del Cda di 'Mediaport spa' e amministratore unico di 'Mediaport Cinemas Srl', mentre la figlia è stata anche amministratore unico della 'Ferrero Cinemas srl'.

Per quanto riguarda il primo episodio, la Ellemme si sarebbe accollata un debito complessivo di 806mila euro che la Global Media srl, Mediaport Spa e Ferrero Cinemas avevano nei confronti di Rai Cinema; nel secondo capo di imputazione, il debito che finisce sulle spalle della Ellemme è di quasi 209mila euro (contratto da Mediaport srl e Mediaport Cinema) mentre nel terzo ammonta a oltre 239mila accumulati da Mediaport Cinema e Ferrero Cinemas.

Massimo Ferrero aveva acquistato la Sampdoria, a sorpresa, il 12 giugno del 2014. Da mesi era nel mirino dei tifosi blucerchiati

Enrico Sisti per “la Repubblica” pubblicato su Dagospia il 4 maggio 2020. «Non dico che ce la dovevamo aspettare, questa roba orrenda, ma forse potevamo presentarci al virus un po' più preparati, come individui, come società. Adesso temo la bancarotta o l'oblio». Massimo Ferrero, 68 anni, non è soltanto il presidente della Sampdoria e un impresario cinematografico. È tante cose. È un lockdown vissuto in campagna ma con l'eterna nostalgia di Roma. E la sua Roma è un meccanismo a orologeria che pare fatto apposta per rinforzare legami ancestrali. È pallone, certo, ma anche amori, strada, anni vissuti in bianco e nero senza una lira in tasca. Per parlare con lui è necessario mettere insieme i pezzi di un mosaico. Ed è veramente come fare un film: tanti brandelli di Massimo sparsi qua e là, miriadi di interessi e di iniziative, rischi, accuse, personali e pubbliche, sempre al limite, distribuite negli anni della giovinezza e della maturità. Riuniti e incollati su un solo volto, questi brandelli diventano un prodotto finito: bello, verace, traboccante di verità così come di amarezze, travestite magari con un sorriso o mescolate, se viene, a una battuta. Massimo Ferrero è anche il padre di cinque figli (la più grande ha quasi 50 anni). Massimo Ferrero è quello che non ti aspetti, è il Viperetta dotato del suo antidoto: «E sono romanista da prima che nascessi». Per ottenere il mosaico di cui sopra bisogna andare a cercare Massimo a casa, una casa nascosta all' interno di un grande cortile «che non mi sono mai sognato di acquistare, perché in fondo mi è rimasta l'anima del nomade, anche se poi vivo qui da trent' anni». Le case le ha comprate a tutta la sua numerosa famiglia, assicurando certezze da «nonno rock». Le finestre danno su un ampio spazio alle spalle di Trinità dei Monti, circondato dai profili degli altri interni, lontano dalla strada. La porta si apre dopo almeno cinque rampe di scalini con cui si va su e giù per il condominio, disegnato proprio come i condomini di una volta, appartamenti che spuntano qua e là, apparentemente senza un criterio. 

Invece in quella geometria si percepiscono forti i profumi dell' urbanistica del Tridente. Roma che sembrava anche calcisticamente nel suo destino.

«Ma poi non è successo. Ho sognato di rilevare la società, è vero, ma in un giorno lontano».  

E la città della sua infanzia?

«Testaccio. Da dove del resto proviene anche Claudio Ranieri, il mio attuale tecnico alla Sampdoria. Erano tempi liberi e insieme complicati. Chi aveva problemi andava a rubare i portafogli sugli autobus, annavano a fa' er quajo, come si diceva. Eravamo poverissimi. Si faticava a finire la giornata. I maglioncini duravano per generazioni. Le toppe invecchiavano sui gomiti. I valori erano traguardi veri. Aridatece i valori! Levateje i telefonini! Mio padre diceva: discoremo. Parlatevi ragazzi! Noi mangiavamo la frutta che scartavano ai mercati generali di Via Ostiense, c' è una bella differenza». 

Come si faceva all' amore?

«Allora funzionava così: che non sapevi quando avresti dato o rimediato un bacetto. Non era come sarebbe stato poi, che le ragazze, scusate la franchezza, se la svitavano e te la tiravano addosso. Per incontrare le donne dovevi vivere in un'altra dimensione, borghesia, banche, avvocati, notai. O figli di papà. A noi povera gente non restava niente, per noi le ragazze erano tutte vestite, manco a Ostia se spojaveno». 

E poi finì pure dentro, per amore.

«Più che altro ho rischiato la vita mettendomi a cavalcioni sulla balaustra del terrazzo condominiale, lì m' incontravo con Rita, ci nascondevamo tra le lenzuola stese. Un giorno scappai in vespa perché ci avevano trovato e volevo evitare una guardia. Quando tornai indietro la guardia era ancora lì e così gli detti un buffetto sul cappello che volò via. Cominciò a rincorrermi in macchina. Il guaio è che la guardia era il padre di Rita. Finii la benzina e mi arrestarono per oltraggio. Ho passato sei mesi nel carcere minorile di Porta Portese, al San Michele». 

E com' era la vita da rinchiusi, rispetto a quella fuori?

«Lo chiamavano riformatorio, ma in realtà era un carcere vero e proprio. E se non avessi già preso così tanti schiaffi da mio padre e da mia madre, sarei entrato tondo e uscito quadrato. Però lì dentro, a modo mio, mi sono fatto una cultura. Non sapevo niente del mondo, per carità, però aveva imparato a memoria la civiltà dei ragazzi di strada che ero costretto a frequentare, al punto da desiderare quasi di sentirmi uno di loro. Era gente che sparava certe assurdità. Però forse qualcuna era pure vera. Di sicuro entravano, uscivano, entravano di nuovo. Non avevano altra scelta, non avevano altra vita».

Ma lei invece come si definirebbe?

«Un artista di strada, uno che va in giro con lo strumento, pane amore fantasia, che recita, balla. Ero nato per quello, ho sempre avuto i tempi della commedia». 

Cinema, cioè paradiso...

«Sono entrato a Cinecittà nascosto nella casse dei panni della lavanderia, dopo essermi attaccato al tram a San Giovanni. I film li andavano spesso a girare a Frascati». 

Giuliano Gemma faceva l'acrobata. Io gli andavo dietro, mi intrufolavo.

«Facevo sega a scuola, allora andavo alla Quattro Novembre. Era l'unico modo per passare i controlli. Non sa che fila che c' era fuori sulla Tuscolana. Almeno però mangiavo, a noi comparse ci davano il cestino, dieci lire, du mostaccioli, du fragole e 'n cappellino». 

Rimpiange qualcosa?

«In Italia si facevano 600 film all' anno, anche se con le cambiali. Questo rimpiango. Rimpiango l'Italia che il mondo ammirava e che al mondo insegnava. E al cinema ci andavamo tutti. Con gioia. Stupore. Adesso ho paura che al cinema vadano soltanto gli scoppiati, i soli. Il cinema invece va condiviso».

Il suo primo ciak?

«Io io io e gli altri di Blasetti. Dovevo interpretare un fornaretto. Avevo 15 anni. Lo seppi mesi dopo che mi avevano preso. Ero convinto che mi avessero scartato. Invece una mattina mi vennero a prendere col 1400. Tutti a guardare. Poi mi aiutò Gianni Morandi, che conobbi mentre girava Faccia da schiaffi dentro il Farnese a Campo de' Fiori. Avevo già una figlia. Mi imposi come suo factotum». 

Insomma è entrato nel cinema di prepotenza...

«E forse ho anche vissuto di prepotenza. Del resto mi sono sposato a 18 anni». 

E della leggenda del Viperetta?

«All'inizio ero Er Gatto de Testaccio, un gattaccio di strada, ovviamente, non un aristogatto, uno di quelli con gli occhi pieni di cispe e le orecchie smozzicate. Divenni adulto presto. Mamma Anita mi portava le sigarette in carcere. Mi diceva " a Massimì devi comincià, sei grande!" E io: " A ma' ma io non fumo!". E lei: " Zitto e fuma!". Il soprannome di Viperetta arrivò più tardi. Un giorno sul set mi chiesero se volevo fare un film su Pasolini. Dissi di sì. Aggiunsero che c' erano pure scene di letto e uno mi toccò il fondo schiena. Al Gatto di Testaccio non si poteva fare. Gli detti una capocciata. E lui a terra gridava: " Sei una vipera, sei una vipera!". Ma fu Monica Vitti la prima a chiamarmi Viperetta. Ancora ci penso. Aveva ragione, so' na vipera». 

Arrestato Massimo Ferrero: vita e opere di Viperetta, avventuriero prestato al calcio. L’inchiesta della Procura di Paola è solo l’ultima di una lunga serie. L’ex portatore di cestini a Cinecittà ha già dovuto dribblare più volte la magistratura, non sempre con successo. Nel frattempo, è diventato un personaggio popolare grazie alla macchietta del romano “de core” venuto dal nulla. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 6 dicembre 2021. L’arresto di Massimo Ferrero e le sue dimissioni da amministratore dell’Uc Sampdoria segnano l’ennesimo colpo di scena di una vicenda fra le più incredibili dell’imprenditoria collegata al pallone. È vero che il patron dei blucerchiati genovesi è stato portato nel carcere di San Vittore a Milano per eventi estranei al club su ordine della Procura di Paola (Cosenza). Ma nei suoi settant’anni di vita il romanissimo e romanista Viperetta, ex portatore di cestini negli studi di Cinecittà, ha messo insieme una lista di impicci societari nei più vari settori con danni relativamente esigui: nel cinema con la Blu che dovrebbe essere la causa scatenante dell’arresto e della competenza territoriale dei magistrati calabresi, nel trasporto aereo con la bancarotta Livingston (un anno e dieci mesi di condanna definitiva), nell’agroalimentare con la Farvem dell’ex moglie e forse nemica Laura Sini. Da ultimo è arrivato il trust Rosan, creato un anno fa per aggiungere un elemento nuovo alle scatole cinesi che controllano la Sampdoria. La domanda che tutti si sono sempre fatti è: come è arrivato a guidare il club genovese? Nessuno ha mai capito fino in fondo per quali canali Ferrero abbia preso il controllo, sia pure a costo zero, della Samp che aveva messo a dura prova le finanze della famiglia Garrone (gruppo Erg) con 300 milioni di euro di perdite aggregate. Anche per questo si è continuato a dire, senza elementi di prova, che Edoardo Garrone continuasse a essere vicino al club, dietro le quinte o attraverso piccole quote societarie che non si sapeva bene a chi attribuire. La popolarità del calcio ha fatto il resto. Ferrero è diventato un personaggio televisivo, abilissimo nell’interpretare la macchietta del popolano di Roma che ce l’ha fatta, forse un po’ ignorante ma “de core”. Nel frattempo, continuava a intrecciare affari ad ampio raggio, inclusi gli investimenti turistici che sono alla base del suo arresto del 6 dicembre.

Ferrero, che nei suoi uffici romani di via Cicerone esibiva i ritratti di Fidel Castro e del cardinale Crescenzio Sepe, ha potuto godere di appoggi importanti in Calabria, facilitati dal leader del Ccd Lorenzo Cesa e dal suo emissario locale Pino Galati, messo agli arresti nel 2018 a seguito dell’inchiesta Quinta bolgia di Nicola Gratteri e poi scagionato all’inizio del 2020.

Dal 2014 la Blu cinematografica ha seguito un pellegrinaggio inspiegabile di trasferimenti di sede, azionisti e amministratori. Dopo essere stata guidata dalla figlia di Ferrero, Vanessa, coinvolta anche lei nell’inchiesta, la società è stata spostata da Roma ad Acquappesa, località marittima del Tirreno cosentino, ceduta al potentino Giovanni Fanelli e alla laziale Maria Antonietta Rocchi, già indagata per bancarotta insieme a Ferrero dalla procura di Roma per l’acquisto dei diritti del film “Bye bye Berlusconi” attraverso un’altra controllata, la Blu international.

Infine Blu cinematografica è stata messa in liquidazione e affidata al professionista di Torre Annunziata Aniello Del Gatto, anch’egli presente nell’elenco degli indagati dell’inchiesta calabrese. È probabile che i vari amministratori e soci fossero preoccupati di un’inchiesta in arrivo perché Blu è stata cancellata pochi mesi fa.

L’arresto di Ferrero non è una novità assoluta per i presidenti del calcio di serie A e, tutto sommato, potrebbe essere solo l’inizio di una vicenda articolata in altre puntate. Di sicuro non vanno sottovalutate le capacità di Ferrero nel dribblare gli avversari. Poco più di un anno fa, il presidente doriano è stato archiviato nell’inchiesta sulla distrazione di fondi relativi alla cessione del calciatore Obiang, trasferito al Watford allenato da Claudio Ranieri, recentemente anche sulla panchina del Doria.

Poco presente e, tutto sommato, poco interessato alle vicende della Lega di serie A, alle cui assemblee delegava spesso il suo vice, avvocato Antonio Romei, all’inizio del 2021 Ferrero ha finito per allontanare dalla società anche Romei.

Adesso per il club si apre una fase nuova e, chi sa, potrebbe tornare d’attualità l’interesse manifestato dalla cordata che fa capo a Gianluca Vialli. Ma potrebbe essere incauto considerare Ferrero fuori gioco. Viperetta ha mostrare di avere ben più di sette vite.

L’arresto di Massimo Ferrero e le sue dimissioni da amministratore dell’Uc Sampdoria segnano l’ennesimo colpo di scena di una vicenda fra le più incredibili dell’imprenditoria collegata al pallone.

È vero che il patron dei blucerchiati genovesi è stato portato nel carcere di San Vittore a Milano per eventi estranei al club su ordine della Procura di Paola (Cosenza). Ma nei suoi settant’anni di vita il romanissimo e romanista Viperetta, ex portatore di cestini negli studi di Cinecittà, ha messo insieme una lista di impicci societari nei più vari settori con danni relativamente esigui: nel cinema con la Blu che dovrebbe essere la causa scatenante dell’arresto e della competenza territoriale dei magistrati calabresi, nel trasporto aereo con la bancarotta Livingston (un anno e dieci mesi di condanna definitiva), nell’agroalimentare con la Farvem dell’ex moglie e forse nemica Laura Sini. Da ultimo è arrivato il trust Rosan, creato un anno fa per aggiungere un elemento nuovo alle scatole cinesi che controllano la Sampdoria.

La domanda che tutti si sono sempre fatti è: come è arrivato a guidare il club genovese? Nessuno ha mai capito fino in fondo per quali canali Ferrero abbia preso il controllo, sia pure a costo zero, della Samp che aveva messo a dura prova le finanze della famiglia Garrone (gruppo Erg) con 300 milioni di euro di perdite aggregate. Anche per questo si è continuato a dire, senza elementi di prova, che Edoardo Garrone continuasse a essere vicino al club, dietro le quinte o attraverso piccole quote societarie che non si sapeva bene a chi attribuire.

La popolarità del calcio ha fatto il resto. Ferrero è diventato un personaggio televisivo, abilissimo nell’interpretare la macchietta del popolano di Roma che ce l’ha fatta, forse un po’ ignorante ma “de core”. Nel frattempo, continuava a intrecciare affari ad ampio raggio, inclusi gli investimenti turistici che sono alla base del suo arresto del 6 dicembre.

Ferrero, che nei suoi uffici romani di via Cicerone esibiva i ritratti di Fidel Castro e del cardinale Crescenzio Sepe, ha potuto godere di appoggi importanti in Calabria, facilitati dal leader del Ccd Lorenzo Cesa e dal suo emissario locale Pino Galati, messo agli arresti nel 2018 a seguito dell’inchiesta Quinta bolgia di Nicola Gratteri e poi scagionato all’inizio del 2020.

Dal 2014 la Blu cinematografica ha seguito un pellegrinaggio inspiegabile di trasferimenti di sede, azionisti e amministratori. Dopo essere stata guidata dalla figlia di Ferrero, Vanessa, coinvolta anche lei nell’inchiesta, la società è stata spostata da Roma ad Acquappesa, località marittima del Tirreno cosentino, ceduta al potentino Giovanni Fanelli e alla laziale Maria Antonietta Rocchi, già indagata per bancarotta insieme a Ferrero dalla procura di Roma per l’acquisto dei diritti del film “Bye bye Berlusconi” attraverso un’altra controllata, la Blu international.

Infine Blu cinematografica è stata messa in liquidazione e affidata al professionista di Torre Annunziata Aniello Del Gatto, anch’egli presente nell’elenco degli indagati dell’inchiesta calabrese. È probabile che i vari amministratori e soci fossero preoccupati di un’inchiesta in arrivo perché Blu è stata cancellata pochi mesi fa.

L’arresto di Ferrero non è una novità assoluta per i presidenti del calcio di serie A e, tutto sommato, potrebbe essere solo l’inizio di una vicenda articolata in altre puntate. Di sicuro non vanno sottovalutate le capacità di Ferrero nel dribblare gli avversari. Poco più di un anno fa, il presidente doriano è stato archiviato nell’inchiesta sulla distrazione di fondi relativi alla cessione del calciatore Obiang, trasferito al Watford allenato da Claudio Ranieri, recentemente anche sulla panchina del Doria.

Poco presente e, tutto sommato, poco interessato alle vicende della Lega di serie A, alle cui assemblee delegava spesso il suo vice, avvocato Antonio Romei, all’inizio del 2021 Ferrero ha finito per allontanare dalla società anche Romei.

Adesso per il club si apre una fase nuova e, chi sa, potrebbe tornare d’attualità l’interesse manifestato dalla cordata che fa capo a Gianluca Vialli. Ma potrebbe essere incauto considerare Ferrero fuori gioco. Viperetta ha mostrare di avere ben più di sette vite.

Guai per Massimo Ferrero: indagato il presidente della Sampdoria. Emiliano Fittipaldi su L'Espresso l'1 luglio 2017. Gli inquirenti sospettano che abbia usato i conti correnti della squadra per le sue operazioni finanziarie. E per comprare casa alla fidanzata.

Ci sono tre verità. Quella vera, quella processuale, quella documentale, ma se le carte sono a posto, non ti fotte nessuno», diceva Massimo Ferrero nel 2011. Produttore cinematografico, presidente della Sampdoria e oggi tra i personaggi più famosi della serie A, qualche carta dovrà probabilmente mostrarla presto, perché la procura di Roma lo ha iscritto nel registro degli indagati.

Truffa, fatture false e autoriciclaggio: ecco il "sistema" Massimo Ferrero. Emiliano Fittipaldi su L'Espresso il 28 novembre 2018. L'Espresso nel 2017 aveva svelato la galassia di interessi dell'imprenditore romano. A cui oggi la Guardia di Finanza ha sequestrato i beni per 2,6 milioni di euro. I pm di Roma hanno indagato il patron della Sampdoria e altre cinque persone. La Guardia di Finanza ha sequestrato beni e disponibilità finanziarie per 2,6 milioni di euro. Gli inquirenti sospettano che abbia usato i conti correnti della squadra per le sue operazioni finanziarie. E per comprare casa alla fidanzata. Ecco l’inchiesta dell’Espresso che svelò, un anno fa, il “sistema” dell’imprenditore capitolino.

Ci sono tre verità. Quella vera, quella processuale, quella documentale, ma se le carte sono a posto, non ti fotte nessuno», diceva Massimo Ferrero nel 2011. Produttore cinematografico, presidente della Sampdoria e oggi tra i personaggi più famosi della serie A, qualche carta dovrà probabilmente mostrarla presto, perché la procura di Roma lo ha iscritto nel registro degli indagati. Non solo per alcuni reati tributari, come già era emerso a fine 2015, ma anche nell’ambito di un nuovo filone d’inchiesta che ipotizza crimini più gravi, come l’appropriazione indebita e il riciclaggio. Indagine in cui, oltre a Ferrero, sarebbero indagati a vario titolo anche altre persone a lui vicine, come la compagna Manuela Ramunni. 

Il sospetto degli inquirenti, tutto ancora da dimostrare, è che attraverso un giro di bonifici tra vari conti correnti (privati e delle sue società) “l’iper-presidente”, come lui stesso si è definito, abbia usato i conti correnti della Sampdoria per comprare un appartamento alla fidanzata, per rimpinguare le casse di alcune imprese del settore dello spettacolo e del cinema controllate dallo stesso Ferrero e per “spostare” mezzo milione di euro dalla Samp alla compagnia aerea Livingstone, comprata da Ferrero nel 2009 e finita in bancarotta qualche anno fa con un buco da 40 milioni di euro.

Ferrero, zazzera bianca e lingua veloce, è uno che ha la pellaccia dura. «Più di sette vite», dice chi lo conosce e ammira. Quando era rinchiuso nel carcere minorile di Porta Portese guardie e compagni di riformatorio lo chiamavano, in effetti, “Er Gatto”. Il soprannome felino, però, sarà solo di passaggio. Perché oggi Ferrero è conosciuto da tutti come “Er Viperetta”. Un serpente velenoso. L’origine del nomignolo l’ha spiegata lui stesso: «Uscito dal riformatorio ero diventato aiuto segretario di produzione» scrive nella sua autobiografia, “Una vita al Massimo”. «Un pomeriggio in un teatro di posa mi ha fermato un costumista gay. Ha osato mettermi una mano al culo. L’ho insultato e gli ho dato anche una testata. Più lo menavo e più questo sembrava godere. “Bravo, sì, dai, mena, Dammene ancora! Vipera, vipera, picchiami Vipera!”, mi diceva. Ecco. Così sono diventato il Viperetta». 

Testaccino doc, padre tranviere e madre dietro a un bancone al mercato di piazza Vittorio, fulminato giovanissimo sulla via di Cinecittà (prima comparsa, poi autista di vip come Gianni Morandi, infine produttore di registi famosi, Tinto Brass su tutti) dice spesso «sono nato povero, ma morirò ricco». Di affari Ferrero, nei suoi primi 66 anni, ne ha fatti tanti. Su qualcuno di questi, però, la procura di Roma vuole vederci chiaro. Se un anno fa Viperetta ha avuto un avviso di garanzia per conclusione indagini in merito ad alcuni reati tributari perché due società a lui riferibili (la Globalmedia srl e Mediaport Cinema srl) tra il 2009 e il 2011 avrebbe omesso di versare all’erario alcune ritenute entro i termini previsti dalla legge per una somma complessiva poco inferiore ai 2 milioni di euro, ora i magistrati hanno aperto un nuovo filone d’inchiesta. Partito da alcune segnalazioni della Uif, l’autorità antiriciclaggio della Banca d’Italia, e da analisi finanziarie del nucleo di polizia tributaria della Guardia di Finanza. 

Andiamo con ordine. Le segnalazioni sono tre, e sono state trattate congiuntamente «in quanto l’operatività ivi delineata è riconducibile, a vario titolo, all’Unione Calcio Sampdoria spa, al suo presidente dottor Massimo Ferrero e ai nominativi a lui collegati», si legge in un’informativa della polizia giudiziaria. Il primo conto finito sotto i riflettori degli inquirenti è un conto privato intestato direttamente a Ferrero, sul quale può operare anche la sua segretaria Tiziana Pucci, che lavora sia per la Sampdoria sia per altre due società della galassia di Viperetta, la Eleven Finance (ex capogruppo della galassia Ferrero) e la Mediaport, il cui rappresentante legale è Giorgio Ferrero. Nipote del patron, membro del cda della Samp e, insieme alla figlia di Viperetta, Vanessa, titolare delle quote della holding che controlla tutto il gruppo del presidentissimo.

La Finanza ha scoperto che in dodici mesi, dal gennaio 2014 al gennaio 2015, varie società, tutte nell’orbita di Ferrero, hanno rimpinguato il conto con bonifici per 791 mila euro. La causale spiegherebbe i pagamenti, quasi tutti compensi per l’utilizzo del logo “Massimo Ferrero Cinemas”: in pratica le società di Ferrero pagano lo stesso Ferrero affinché possano usare il suo nome e cognome come logo delle sale cinematografiche (una sessantina, le più famose sono quelle del cinema Adriano a piazza Cavour a Roma) controllate sempre da Ferrero. Nel conto gli inquirenti hanno trovato anche una decina di versamenti in contanti per 52 mila euro, più alcuni versamenti (15 mila euro in un solo giorno) effettuati con il deposito di con una trentina di banconote da 500 euro. Ferrero avrebbe dichiarato alla banca che il denaro versato veniva da un altro istituto, e che l’operazione si «era resa necessaria per l’esigenza di avere immediata disponibilità per l’effettuazione di bonifici urgenti e per l’imminente addebito della carta di credito». 

Se i primi sospetti della sezione riciclaggio della Finanza sono arrivati proprio per l’uso massiccio di banconote da 500 euro, gli altri dubbi sono dovuti ad alcuni assegni e bonifici che Ferrero ha effettuato a favore della sua compagna Manuela (anche lei dipendente di Mediaport e Eleven Finance): otto assegni per un totale di 350 mila euro staccati a fine 2014 a cui si aggiungono tre bonifici da 257 mila euro, con la causale “acconto prima casa”. L’informativa evidenzia come «elementi del sospetto» sarebbero «da individuarsi alla mancanza di riscontri sulla compravendita immobiliare», ma in realtà dal catasto risulta che la Ramunni abbia davvero comprato il 24 novembre 2014 un appartamento e un box auto a Firenze per 800 mila euro. 

Possibile che i soldi per l’acquisto dell’appartamento siano arrivati, dopo giri contabili, dalla Sampdoria, come ipotizzano i magistrati? Carte alla mano sembra che il conto di Viperetta, dal quale sono usciti i bonifici a favore della Ramunni, sia stato in realtà rimpinguato esclusivamente dai compensi arrivati dalle sue società cinematografiche. I pm, però, hanno scoperto altre operazioni finanziarie, che dimostrerebbero come i rapporti tra Sampdoria e il resto della galassia Ferrero siano strettissimi. Forse troppo. 

La seconda segnalazione riguarda infatti altri due bonifici, disposti dall’Unione Calcio Sampdoria spa a favore della Vici srl, la società proprietaria di alcune sale cinematografiche che “comprò” la Sampdoria dalla famiglia Garrone nel 2014 senza spendere nemmeno un euro. È il 18 giugno 2015, il totale dei bonifici è di 610 mila euro. Causale: “Lavori a Bogliasco”, la località dove si trova il centro sportivo in cui si allenano i giocatori oggi guidati da Marco Giampaolo. Ebbene, secondo la Finanza, non ci sarebbe «coerenza tra l’attività svolta con l’oggetto sociale della Vici srl, la cui attività prevalente è quella di fare “proiezioni cinematografiche”. Quello della Sampdoria è “esercizio attività sportive”. Inusuale, poi, l’ingente ammontare dell’operazione». Di più: il giorno dopo aver ricevuto il bonifico dalla Samp, la Vici srl ha emesso 10 assegni circolari per un valore di mezzo milione di euro a favore della Livingstone. La compagnia aerea finita in bancarotta a causa della quale Ferrero è finito sotto inchiesta davanti al tribunale di Busto Arsizio, patteggiando a febbraio 2016 un anno e dieci mesi di carcere. «Qui non è fallito nessuno, non c’è stato nessun crac, la Livingstone è stata messa in amministrazione controllata», chiosò il patron della Samp quando, qualche mese fa, la Figc gli comunicò che per colpa del patteggiamento era decaduto dalla carica di presidente della Sampdoria (ai fini esclusivamente sportivi). «Io resto l’iper-presidente. Un patteggiamento non è una condanna». 

La scoperta del cadeau della Vici srl alla Livingstone, però, rischia ora di mettere Ferrero in guai più seri: gli inquirenti sospettano infatti che ci sia stato un trasferimento illecito di capitali dalla Sampdoria alla Livingstone, e che la Vici srl abbia fatto solo da schermo. Sospetti che aumentano se si analizzano i movimenti bancari della Samp: il 17 giugno 2015, il giorno prima che la squadra finanziasse direttamente e indirettamente le altre società di Viperetta, era infatti arrivato un bonifico estero dall’importo significativo. Causale: “West Ham - Obiang”. 

Gli investigatori e la Uif sospettano che la provvista finita alla Livingstone possa essere stata creata anche attraverso la vendita del calciatore Pedro Obiang al West Ham, che Ferrero cedeva in quei giorni per 6,5 milioni di euro. Fossero confermate le supposizioni dei pm, i tifosi della Doria (già preoccupati per le cessioni importanti delle ultime stagioni, quest’anno rischiano di andarsene anche i campioncini Luis Muriel e Patrik Schick) non sarebbero molto contenti. Anche perché la Samp nel bilancio 2015, l’ultimo depositato alla Camera di Commercio, ha segnato un rosso di 1,4 milioni di euro. Che sarebbe stato assai più alto se gli ex proprietari della squadra, i petrolieri della famiglia Garrone, non avessero girato a Ferrero 7 milioni di euro di «indennizzi» a causa di alcune correzioni contabili al prezzo della vendita, avvenuta un anno prima. 

C’è infine una terza segnalazione analizzata dagli uomini della finanza. Riguarda ancora un conto dell’Unione Calcio Sampdoria spa, sul quale sono stati registrati vari bonifici «a favore di società dello spettacolo e della cinematografia». Tutte, ça va sans dire, gestite da Ferrero e dai suoi parenti: si passa da un versamento da 122 mila euro per la Vici srl, a un altro per la Comunicazione e promozione srl da 11 mila euro, fino a un terzo da 79 mila euro per la Eleven Finance. «Si sospetta» spiega la Finanza «che le operazioni possano essere riconducibili al fenomeno delle frodi nella fatturazione». 

«Sono nato povero e morirò ricco, non ho paura di nessuno, mando vaffanculo chiunque, anche se di cognome fa Berlusconi», spiegava in un’intervista a Malcom Pagani il mitologico Viperetta, raccontando la sua incredibile cavalcata, da ex autista di Gianni Morandi a presidente di una storica squadra ligure, passando per macellaio, fornaio, strillone, aiuto segretario e produttore di film. Di geni della pellicola come Brass e Bernardo Bertolucci. 

«Non ho studiato, non frequento i salotti, non ho padrini o amici importanti. Ma dico una cosa: chi ruba a Ferrero, chi prova a fregarlo, deve morire», chiariva a tutti nel 2011. In realtà qualche amico importante, almeno oggi, ce l’ha: come il presidente della Lazio Claudio Lotito, l’ex direttore della Rai Mauro Masi oggi piazzato da Matteo Renzi in Consap, l’attore Ricky Tognazzi. Anche Edoardo Garrone ha deciso di puntare su Viperetta. 

Il rampollo della famiglia proprietaria della Erg a giugno 2014 ha lasciato tutti di stucco quando ha annunciato di aver trovato un accordo per la vendita della squadra allo sconosciuto (almeno al grande pubblico) Ferrero. “Vendita” è una parola grossa: dopo aver perso nella Samp, come ha scritto su questo giornale Gianfrancesco Turano, 99 milioni di euro in 12 anni, i Garrone hanno di fatto regalato l’attività sportiva. Ferrero non solo non ha sganciato un euro, ma ha visto azzerati tutti i debiti con le banche (Edoardo e i suoi cugini hanno versato alle banche una sessantina di milioni, a mo’ di dote di cessione) e goduto di fideiussioni garantite (circa 35 milioni di euro) direttamente dai Garrone. Che, almeno fino al 2015, l’ultimo bilancio consolidato conosciuto, non hanno reciso il cordone ombelicale né con la Samp né con il nuovo proprietario. 

Anche per questo sono tre anni che tifosi e addetti ai lavori cercano di rispondere alle stesse domande: perché l’algido e aristocratico Garrone ha scelto la sua nemesi, il vulcanico Viperetta, come patron della Doria? Perché garantiscono (o hanno garantito) ancora per lui? E Ferrero ce li ha i soldi per finanziare un’avventura complicata e costosa come è la serie A, o dietro la sua zazzera bianca e le sue corse sfrenate sotto la curva si nascondono ghost buyer più attrezzati? Di gossip e retroscena, a Genova e in Liguria, ne sono stati scritti tanti. Qualcuno ha ipotizzato che dietro la “Vipera” potesse stagliarsi l’ombra di Antonio Gozzi, un imprenditore di Chiavari chiamato “il Professore” con grandi investimenti nella siderurgia e enorme passione per il calcio (dal 2007 è il presidente della Virtus Entella). 

Altri invece ipotizzano che la Sampdoria finirà presto o tardi nel carnet di Gabriele Volpi, un imprenditore che non ama la ribalta e che qualcuno considera tra gli uomini più ricchi d’Italia. Ex operaio meccanico ed ex giocatore di pallanuoto, Volpi ha fatto fortuna in Nigeria vendendo servizi alle multinazionali del petrolio, e oggi la sua Intels ha un giro d’affari pari a un miliardo e mezzo di dollari. Amico di Flavio Briatore, di Gianpiero Fiorani e, soprattutto, degli ex vertici politici nigeriani (come l’ex vice presidente Atiku Abubakar, che gli ha persino concesso la cittadinanza), ha comprato nel tempo prima la squadra di pallanuoto Pro Recco trasformandola in una macchina da guerra (sette scudetti consecutivi e 21 titoli finora) poi il La Spezia calcio. Ora in molti credono che punti alla Samp, di cui è da sempre tifosissimo. 

«Basta con lo stillicidio delle notizie spazzatura, il bilancio della Samp è in ordine e io non vendo» disse Ferrero un anno fa parlando di calunnie mandate via stampa. «Qui c’è un mandante che vuole il male della Sampdoria, solo perché Ferrero non ha santi in paradiso. Forse da’ fastidio il mio lavoro onesto, ma vengano avanti che stavolta meno forte...». Se l’inchiesta della procura di Roma procede, Viperetta va dritto per la sua strada: di recente ha pensato di mettere qualche fiches sulla Ternana, s’è beccato 20 giorni di inibizione dalla giustizia sportiva perché, dopo un gol della Samp contro la Roma, si è messo a cavalcioni su una balaustra mimando gesti osceni, ha scritto una lettera aperta agli italiani per invitarli a votare Sì al referendum dello scorso dicembre. «Sì al cambiamento, sì alla vita» spiegava «Firmato Massimo Ferrero, un italiano orgoglioso».

Chi è Massimo Ferrero, patron della Samp. Il viperetta tra calcio, cinema e crac. È la nuova star tv della serie A, grazie a interviste sopra le righe e sparate e gaffe di ogni tipo. Ma, oltre alla "maschera", ecco chi è davvero il produttore arrivato alla guida della squadra di Genova senza pagare un euro. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 3 novembre 2014. Nel calcio si è subito trovato a suo agio. Il ritmo vertiginoso della serie A non poteva essere un problema per Massimo Ferrero, 63 anni. È una vita che il nuovo proprietario della Sampdoria fa esattamente lo stesso tipo di gioco con le sue aziende: cessioni, liquidazioni, passaggi di mano che coinvolgono familiari e amici, garanzie bancarie spostate da qui a là, niente bilanci consolidati per aumentare le possibilità di contropiede alle banche creditrici.

Chi è Massimo Ferrero, l’eclettico presidente della Sampdoria e produttore cinematografico. Nicolò Olia su News Mondo il 6 dicembre 2021.

Alla scoperta di Massimo Ferrero, il produttore cinematografico e presidente della Sampdoria. La carriera, gli amori e la vita privata.

Nato a Roma il 5 agosto 1951 sotto il segno del Leone, Massimo Giovanni Mario Luca Ferrero, meglio noto semplicemente come Massimo Ferrero, è uno degli imprenditori italiani più famosi. È un vero e proprio personaggio televisivo, autore di simpatici siparietti destinati a rimanere nella storia del calcio in tv. Figlio di un conducente di autobus e di una venditrice ambulante, il produttore cinematografico forgia il suo carattere a Testaccio, quartiere storico di Roma e della romanità. La sua ascesa è ricca di aneddoti e leggende e merita di essere letta tutta d’un fiato.

Terza dose Vaccino, a chi spetta prima e quanto dura.

La carriera di Massimo Ferrero: da comparsa a produttore cinematografico

La carriera di Massimo Ferrero inizia decisamente dal basso. Entra nel magico mondo del cinema come comparsa e come tuttofare. Il classico ragazzo disposto a portare i caffè per mettersi in luce.

Imparati i segreti del mestiere, il giovane Ferrero decide di mettersi in proprio fondando la Blu Cinematografica, una casa di produzione indipendente che gli porta più spese che guadagni.

La svolta arriva nel 2009, quando si assicura le sale di Cecchi Gori e si ritrova con un impero tra le mani. La Ferrero Cinemas diventa una delle realtà più importanti in Italia. Grazie all’inaspettata solidità economica, Ferrero decide di lanciarsi – da neofita – nel mondo del calcio.

Massimo Ferrero presidente della Sampdoria

Nel 2014 Massimo Ferrero diventa presidente della Sampdoria in una delle trattative più clamorose di tutta la storia del calcio mondiale. Stando a quanto riferito da La Gazzetta dello Sport, infatti, Ferrero si sarebbe assicurato la squadra a costo zero. Anzi, secondo la rosea il neo presidente sarebbe stato addirittura pagato da Garrone, ex patron della società.

“La prima cosa che faccio alla Samp è cambiare l’inno che fa schifo, non come quello della Magica che è una delle cose più belle di Roma”. Questo il controverso biglietto da visita di Ferrero. Va detto che le parole sono state riferite alla stampa romana e lui è un grande tifoso della Roma. Insomma, conoscendolo potrebbe aver calcato la mano.

Alla guida dei blu-cerchiati Massimo Ferrero è riuscito a riportare la luce dei riflettori sulla Genova calcistica. A volte con interviste decisamente sopra le righe, altre volte con risultati sportivi degni di nota.

Massimo Ferrero arrestato per reati societari e bancarotta

Il 6 dicembre 2021 Massimo Ferrero è stato arrestato dagli uomini della Guardia di Finanza per reati societari e bancarotta. Secondo quanto appreso, la Sampdoria non è coinvolta nell’inchiesta che ha portato all’arresto del Presidente.

Massimo Ferrero: i figli, gli amori e la vita privata

L’attuale compagna di Massimo Ferrero è Manuela Ramunni, madre di Rocco Contento e Oscar, gli ultimi due rampolli di casa Ferrero. Il corteggiamento da parte del futuro numero uno della Sampdoria non sarebbe stato propriamente… tradizionale. I due si sarebbero incontrati per la prima volta al matrimonio di Luca Argentero e Myriam Catania e la Ramunni avrebbe notato subito l’interessamento  abbastanza palese di Massimo, uno senza peli sulla lingua. Non fu decisamente un colpo di fulmine. Lei provò a seminarlo nascondendosi tra la folla, lui avrebbe continuato a chiamarla per giorni e settimane. Alla fine avrebbe vinto lui.

Le notizie intorno alla vita privata di Massimo Ferrero sono frammentarie e talvolta incerte. Insomma, uno dei personaggi più eclettici della scena imprenditoriale italiana è avvolto da quell’alone di mistero che contribuisce a renderlo ancora più affascinante.

Le certezze iniziano dal matrimonio con Laura Sini, sposata però in seconde nozze. Prima di conoscere la ricca ereditiera, Ferrero è stato sposato con un’altra donna, Paola, della quale non si hanno molte informazioni. Dalla prima relazione Ferrero ha avuto due figli, Vanessa e Michela, mentre dall’amore con Laura Sini è nata Emma.  Il matrimonio con la seconda moglie finisce in tribunale con lei che ha accusato lui di minacce e truffa e Massimo Ferrero che ha risposto con una denuncia per calunnia.

Il patrimonio di Massimo Ferrero

Dopo i primi passi fallimentari nel mondo del grande schermo, con la creazione del circuito Ferrero Cinemas l’imprenditore è riuscito a mettere in piedi un vero e proprio impero economico, consolidatosi dopo l’acquisizione della Sampdoria.

Sommando i compensi per gli incarichi ricoperti nel club blucerchiato, Ferrero dovrebbe intascare di stipendio un milione l’anno (euro più euro meno). Al suo patrimonio vanno però aggiunti gli introiti delle sue aziende che dovrebbero aggirarsi intorno ai dieci milioni di euro ogni anno.

Nel novembre del 2018 il presidente doriano si è trovato al centro di una vicenda giudiziaria. A Ferrero sono stati infatti sequestrati i beni per un valore complessivo di 2,6 milioni di euro per autoriciclaggio, appropriazione indebita e truffa. Tra le altre accuse, il numero uno della Sampdoria avrebbe sottratto alcuni milioni alle casse del proprio club per investirli in suoi affari privati

Non sarà uno dei presidenti più ricchi della nostra Serie A (è entrato nel mondo del calcio come penultimo nella speciale classifica) ma non si può dire che se la passi male.

Cinque curiosità su Massimo Ferrero

• Che Ferrero abbia un carattere esuberante, tutto “testaccino”, non è certo una novità. In pochi sanno che da piccolo ha scontato sei mesi in un carcere minorile per aver picchiato un poliziotto, padre della ragazza di cui Massimo era innamorato.

• Er Viperetta. Massimo Ferrero è conosciuto anche con questo suo soprannome dalle origini decisamente poco chiare. C’è chi giura che sia nato il suo carattere incontenibile, altri sono certi che gli sia stato affibbiato da un costumista omosessuale, malamente rifiutato da Ferrero.

• Tra le avventure imprenditoriali di Ferrero ricordiamo anche la gestione della Livingston, una compagnia aerea presto fallita e poi riportata in quota da Riccardo Toto.

• Massimo Ferrero… attore! Nel 1991 il futuro produttore cinematografico ha recitato in Ultrà, il noto film diretto da Ricky Tognazzi.

• Massimo Ferrero e Ilaria D’Amico! Nel corso delle sue prime interviste ai microfoni di Sky, il neo presidente della Sampdoria si è fatto conoscere per il suo amore folle per la nota conduttrice, alla quale ha anche dedicato una canzone.

La bancarotta di Ferrero: "Ferrari e yacht in affitto pagati dalle sue società". Nino Materi il 7 Dicembre 2021 su Il Giornale.  Arrestato il presidente della Samp: lascia il club, non coinvolto. Il legale: trattato peggio di Riina. Sembra uno sketch di Crozza che fa la parodia di Massimo Ferrero, l'ormai ex presidente della Sampdoria dimessosi ieri dopo essere stato arrestato a Milano per «bancarotta e reati societari» (nulla hanno a che vedere con la gestione del club blucerchiato).

Ma qui, a differenza che nelle scenette del programma «Fratelli di Crozza», non c'è niente da ridere. La situazione è «grave» e pure «seria», tanto per usare l'aforisma di Ennio Flaiano in versione riveduta e corretta.

Lo scenario è quello classico dei crac finanziari: società che sono «scatole vuote», bilanci manipolati e documenti fatti sparire. Almeno secondo l'accusa.

Gli avvocati del 70enne imprenditore romano (quartiere Testaccio) hanno tentato di ammorbidire la situazione («Il nostro cliente non si trova...»; «Non sappiamo dov'è...»; «Non abbiamo sue notizie...»; «Non è stato arrestato...»; «Lo stanno trattando peggio di Totò Riina...»), ma alla fine si sono dovuti arrendere.

La Guardia di finanza è arrivata ieri di buon mattino in un hotel di Milano per «prelevare» il vulcanico imprenditore dalla verve inesauribile. Le Fiamme gialle hanno così eseguito l'ordine di custodia cautelare emesso dalla procura di Paola, nel Cosentino, nell'ambito di un'inchiesta che ha portato ai domiciliari 5 persone, tra cui Vanessa e Giorgio Ferrero, rispettivamente figlia e nipote dell'imprenditore. Perquisita anche l'abitazione romana di Ferrero, il quale si è subito tirato fuori dal club ligure al fine di «isolare ogni pretestuosa speculazione rispetto all'U.C. Sampdoria e al mondo del calcio».

Ma di cosa è accusato esattamente Ferrero?

Scrive il gip: «In esecuzione di un medesimo disegno criminoso Massimo Ferrero quale amministratore di fatto della società Ellemme Group Srl dal 7 dicembre 2010 al 23 dicembre 2013 in concorso con il liquidatore della società sottraevano/distruggevano in tutto o in parte con lo scopo di procurare a sé o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizio ai creditori, i libri o le altre scritture contabile, in modo da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari». E poi: «In particolare il 13 febbraio 2014 veniva denunciato il furto di un'auto, un'Audi, all'interno della quale vi era custodita una borsa in pelle contenente, tra le altre, tutta la documentazione contabile».

Provano a dipanare la matassa i legali di Ferrero: «L'arresto è legato al fallimento di quattro società operanti nel settore alberghiero, turistico e cinematografico (Ellemme Group Srl; «Blu Cinematografica Srl»; «Blu line srl»; «Maestrale Srl») con sede in provincia di Cosenza e che furono dichiarate fallite anni fa». Fin qui i termini giudiziari della vicenda.

Quanto invece all'aspetto - diciamo così - procedurale dell'inchiesta, i difensori di Ferrero non risparmiano critiche alla procura cosentina: «Lo stanno trattando peggio di Totò Riina. Abbiamo fatto istanza al tribunale di Paola per chiedere che Ferrero possa essere trasferito a Roma per presenziare alla perquisizione e all'apertura di una cassaforte. L'avrebbero concesso a chiunque, ma a Ferrero no».

Nell'inchiesta riguardante il crac delle società «calabresi», vengono contestati agli indagati i reati di «bancarotta fraudolenta aggravata, false comunicazioni sociali e vari reati societari». Fra le accuse a Massimo Ferrero, c'è anche la «distrazione di oltre 200mila euro compiuto attraverso un contratto di leasing per una Ferrari».

«Ferrero e un altro indagato - si evidenzia nel capo di imputazione - cagionavano il fallimento della società Maestrale Srl in quanto dal 12.03.2009 al 14.03.2013, distraevano dal patrimonio sociale la somma complessiva di 201.434 euro. In particolare, la fallita stipulava contratto di leasing riferito all'autovettura marca Ferrari modello F430 Spider, pagando l'intero piano d'ammortamento di 246.434 euro ed alienandola successivamente alla società V Production Srl introitando soltanto 45mila euro. Pertanto veniva distratta la somma complessiva di 2.012.434 euro».

Ai due medesimi imputati viene inoltre contestato anche «il contratto di leasing per uno yacht, in presenza di un debito tributario di svariate centinaia di migliaia di euro». Tradotto: i conti non tornavano. E - per farli «tornare» - Ferrero avrebbe taroccato le cifre.

Ma lui è sereno: «Storie vecchie, chiarirò tutto». Nino Materi

Arrestato il presidente della Sampdoria Massimo Ferrero. Il legale: «Prelevato come l’ultimo dei delinquenti». La procura di Paola contesta al presidente della Sampdoria reati societari e bancarotta. La difesa chiarisce che l'arresto non ha nulla a che fare con il club della Sampdoria. Il Dubbio il 6 dicembre 2021. Il presidente della Sampdoria, Massimo Ferrero, è stato arrestato dalla Guardia di Finanza nell’ambito di un’inchiesta della procura di Paola, coordinata dal procuratore capo Pierpaolo Bruni, per reati societari e bancarotta. Secondo quanto si apprende, la squadra ligure non è coinvolta nelle indagini. Ferrero è stato trasferito in carcere, mentre per altre 5 persone sono stati disposti i domiciliari. Il club blucerchiato non dovrebbe essere interessato; l’operazione vede coinvolte altre cinque persone. Perquisizioni in varie regioni, tra cui Lombardia, Lazio, Campania, Basilicata e Calabria. Ferrero, al momento dell’arresto, si trovava a Milano. Nell’inchiesta coinvolti anche due familiari: il nipote Giorgio e la figlia Vanessa. L’arresto di Massimo Ferrero, presidente della Sampdoria, è legato al fallimento di alcune società con sede in Calabria. Lo ha confermato a LaPresse il legale, Giuseppina Tenga, che ha ribadito l’estraneità del club ligure nell’inchiesta della procura di Paola, nel cosentino, che ha portato ai domiciliari altre 5 persone, tra cui la figlia e il nipote. «Stamattina il presidente si trovava in un albergo a Milano – spiega il legale -, ma era necessario che venisse a Roma, perché a casa sua c’è la Guardia di Finanza per la perquisizione, e solo lui è in possesso della combinazione della cassaforte da perquisire. Ritengo fosse intelligente e giusto che Ferrero assistesse alla perquisizione a casa a piazza di Spagna. Probabilmente a qualsiasi altra persona glielo avrebbero permesso, a Massimo Ferrero no». «Lo hanno prelevato in albergo come fosse l’ultimo dei delinquenti – denuncia Tenga -, hanno perquisito anche casa della figlia e del nipote, hanno arrestato anche l’autista». «Io sto cercando da stamattina alle 7.30 di parlare con la guardia di finanza», aggiunge l’avvocato, chiarendo che «la cassaforte che deve essere perquisita la può aprire solo il presidente Ferrero».

Dagospia il 13 ottobre 2020. Da Un Giorno da Pecora. “Io sono l'uomo più penalizzato d'Italia, è la verità, lo dicono i fatti. Perché sono un esercente di cinema e faccio e calcio. E lo Stato non ha dato un euro di aiuto al calcio mentre i cinema praticamente sono chiusi”. Lo dice a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, Massimo Ferrero, presidente della Sampdoria e dei Ferrero Cinema. Ma i cinema sono aperti. “Io a Roma ho 12 sale, al cinema Adriano ho aperto due sale ma la gente non ci viene, le due sale sono vuote, allo Stato non frega niente della cultura e allo sport”. A proposito di Roma, è apertissimo il toto-candidati per il nuovo sindaco. “Io sono romano di sette generazioni, conosco ogni sanpietrino di questa città”. Potrebbe candidarsi lei, allora. “Io sono un po' presuntuoso, faccio arte, sono un artista di strada. La politica non mi interessa molto ma se dovessi candidarmi, visto che tutti mi tirano dalla giacchetta...” Quindi le hanno chiesto di candidarsi a primo cittadino della Capitale? “Sì -ha detto a Rai Radio1 Ferrero -e lo avevano già fatto quattro anni fa”. Col c.destra o col c.sinistra? “Io vorrei fare una cosa serissima: andare da solo, con una bella lista civica”. Lista Ferrero? ”Certo, vota Ferrero per un voto sincero. Vinco a mani basse. Non sarei contro nessuno ma a favore della città in cui sono nato”, ha concluso il patron blucerchiato a Un Giorno da Pecora. Mille tifosi allo stadio? “E' una cosa che non ho mai capito, ci sono dei 'professoroni' che paragonano le discoteche agli stadi. Queste persone devono stare attente perché stiamo andando a rovinare lo sport più bello del mondo. Ma se allo stadio Olimpico, dove c'è una capienza di 70mila posti, ne metti 20 mila, nemmeno li vedi”. La pensa così Massimo Ferrero, presidente della Sampdoria, che oggi è intervenuto a Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1. Lei quindi farebbe entrare un maggior numero di persone negli stadi. “Si. Ad esempio a Marassi lo stadio porta 45mila persone. Se ne fai entrare 15mila e le metti a distanza di due metri, non le vedi. Dobbiamo stare attenti, la mia idea è che dobbiamo riportare la gente allo stadio”.

Francesco Persili per “Dagospia” l'11 giugno 2025. «Da Obama ha mandato il fratello Raúl Castro ma quando a L’Avana sono arrivato io, mi ha accolto proprio lui, Fidel Castro in persona». Con Massimo Ferrero, produttore cinematografico e presidente della Sampdoria, anche la realtà sembra la sceneggiatura di un film. Del resto, il suo sogno è sempre stato quello di fare cinema. Erano gli anni Sessanta, a Roma si giravano 500 film l’anno e quel pischello del Testaccio già volava con la fantasia: «Scappavo di casa la mattina per andare a piedi a Cinecittà, mi nascondevo nelle ceste colme di abiti di scena, mi imbucavo in sartoria». In quel posto fiabesco in mezzo a vestiti e costumi potevi diventare «gladiatore o extraterrestre». O Massimo Ferrero, che è forse è una via di mezzo fra le due cose. Ciak, motore, azione. Il presidente della Sampdoria, per tutti “Viperetta”, si racconta in un libro (Una vita al Massimo, Rizzoli) scritto a quattro mani con il giornalista di Sky Sport Alessandro Alciato e presentato ieri sera alla libreria Feltrinelli di via Appia tra selfie, boutade su una possibile candidatura a sindaco di Roma e un karaoke non indimenticabile per Radio Rock sulle note di “Vita spericolata”, la canzone che meglio lo rappresenta. «Voglio una vita come quelle dei film», già. Comparsa a 12 anni in un film di Blasetti, adolescente innamorato di una ragazza, Rita, che poi avrebbe rifiutato la corte anche di Claudio Baglioni («La maglietta tanto stretta al punto che si immaginava tutto? Ha continuato a immaginarla»), autista senza patente di Gianni Morandi, assistente-factotum del regista Dino Risi che gli predisse un futuro da grande presidente («Della Samp? No, di una major americana»), Ferrero è un fantasista della vita: un’infinità di lavori dentro e fuori il mondo del cinema, un incontro stracult con Fidel Castro a Cuba (“Il Lider Maximo con il Massimo leader”) e una valanga di aneddoti, aforismi e ricordi, a partire dai casting di Tinto Brass col “gioco della monetina”, una tecnica del regista per valutare il fondoschiena delle sue attrici. «Massimo è un libro aperto: lui è come appare. Sincero, spontaneo, esuberante. Se penso a lui dal punto di vista cinematografico mi vengono in mente i personaggi della commedia all’italiana e di un certo neorealismo pasolian-cittiano ma anche Joe Pesci e l’epica di certi film di Scorsese», spiega a Dagospia l’amico regista Ricky Tognazzi, che lo ha diretto in “Ultrà”: «Lavorava come organizzatore di produzione, aveva un forte senso dello spettacolo: ad un certo punto è saltato fuori il personaggio di Grigione e io ho pensato: “facciamolo fare a Massimo”. Il film fu un enorme successo». Perché il pallone non si vede mai: le pellicole sul calcio, di solito, vanno male al cinema: «Mio padre fece “Ultimo minuto”, e anche lì il pallone non si vede mai. E’ difficile trasferire le emozioni del calcio sul grande schermo. Lo sport di squadra è meno funzionale alla narrazione rispetto allo sport individuale. Al cinema vanno benissimo la boxe e l’atletica», prosegue Ricky Tognazzi che ha diretto il film per la tv su Mennea. Con Ferrero si conoscono da quando erano ragazzi: «Io facevo l’assistente volontario in un film di Pupi Avati, lui lavorava con Giovanni Bertolucci. Si capiva che era un tipo piuttosto sveglio. Lui poi è diventato presidente, io neanche allenatore…» Ferrero non ha le scarpe bicolore «Grande Gatsby style» su cui tanto si è ricamato ma gli occhi «di fuoco» sono sempre quelli che avevano quasi convinto Fellini ad assegnargli una parte nel Satyricon. Come suo costume, si prende il centro del palcoscenico. Bacia alcune tifose blucerchiate, motteggia, salta da un microfono a un altro, non esclude il ritorno di Cassano e si dice pronto ad accogliere a braccia aperte anche Balotelli. Fantasie di cuoio, sogni di cinema. «Il calcio – spiega a Dagospia – è un po’ come un film. Non dura per sempre, una volta finito di girare, tutti a casa. Invece Mihajlovic è andato al Milan». Si sente tradito? Il tecnico si è comportato un po’ da primadonna? «Non scherziamo, Mihajlovic è un gran maschio e si è comportato da uomo ambizioso. Merita un grande club». Viperetta parla anche degli altri presidenti di serie A: “Il più simpatico? Lotito. Per me è difficile capirlo solo quando parla in latino. Mi dispiace che sia stato indagato ma bisogna leggere le carte. Non mi piacciono i processi mediatici». Andrea Agnelli? «E’ uno serio, sarà simpatico in privato, in pubblico è molto istituzionale». Ferrero non rinuncia all’idea del nuovo stadio: riuscirà a costruirlo prima lei o Pallotta? «Mi auguro che lo facciamo insieme. Sono romano de’ Roma, se il progetto del nuovo stadio giallorosso va avanti, sarei molto felice per tutti i lupacchiotti...». A Berlusconi cosa sente di dire su Mihajlovic? «E’ l’ultima persona a cui potrei dare un consiglio. Meglio se me ne dà qualcuno lui a me..». L’uomo delle stelle non si ferma mai, si concede all’abbraccio dei fan e poi si attacca al telefono. Il calcio-mercato incombe. Trattative, idee, la suggestione Balotelli. In fondo anche il mercato sembra la sceneggiatura di un film. Ciak, si sogna.  

Estratto dal libro di Massimo Ferrero con Alessandro Alciato, "Una vita al massimo", Rizzoli. La mia storia nel cinema è iniziata cosi, da aiuto segretario di produzione, un attimo dopo aver messo sotto chiave Spaccesi. Prendevo centoventimila lire a settimana e, la prima settimana che mi hanno pagato, ho comprato subito pannolini e vestitini per Vanessa. Sulla patente temporanea che mi aveva concesso il prefetto mancava la marca da bollo, ho risolto anche quel problema. Costava mille lire e io finalmente mille lire ce le avevo. Me ne sono addirittura avanzate trentamila. Con la seconda paga settimanale ho messo a posto gli affitti e con la terza le bollette, il resto l'ho messo via. Oltre al nuovo lavoro, in quel periodo m'hanno ammollato un altro soprannome. Non più "Er Gatto" come nel carcere giovanile, bensì "Viperetta". È successo tutto un pomeriggio, durante una pausa, in un teatro di posa, quando mi ha fermato un costumista: «Ehi tu, lo sai che qui parlano tutti bene di te?». Con grande spavalderia gli ho risposto: «Sì, lo so». «E ti piacerebbe allora fare un film con Pasolini?» Una bella domanda, ma mentre la faceva mi ha piazzato una mano sul culo. Mamma mia, non ero mica pronto a una cosa del genere. Oggi sappiamo che quel costumista va definito gay, oppure omosessuale, però all'epoca pensavo che uno a cui non piacevano le donne dovesse essere affetto da qualche strana patologia, che avesse una malattia rara, perché io sono cresciuto che li chiamavamo froci. Non c'avevo niente contro quelle persone Iì, però evitavo di incontrarle. E ha osato mettermi una mano al culo! E mentre lo faceva, mi ha detto: «Il cinema è fatto anche di lenzuola ... ». L'ho insultato, gli ho detto tante cose brutte, gli ho dato anche una testata: «A frocio, ricordati che a me, le lenzuola, me le rimbocca solo mi' madre». È caduto in terra, mi sono spaventato e quindi mi sono bloccato un attimo, perché ho avuto un flash come quando a prenderle ero io dentro al carcere minorile. Qualche secondo più tardi ho ricominciato. Più lo menavo e più questo sembrava godere: «Bravo, sì, dai, mena. Dammene ancora. Vipera ... Oh sl, sei una vipera ... ». Dopo mi hanno spiegato che c'è gente che si eccita quando la gonfi de botte, e uno di questi pervertiti l'ho incontrato io. 

«Ancora, sì, riempimi di botte. Vipera ... Vipera ... »

«Ma la vuoi smettere?»

«lo la posso smettere, ma tu no, vai avanti, ancora, sempre di più. Picchiami. Vipera ... Vipera...»

«Basta.» 

«Bravo, vipera. Vipera ... »

«Ma vattene affanculo» e me ne sono andato, perché ho pensato che la violenza nun paga, e ho promesso a me stesso e a Di Casimiro che non avrei più usato violenza contro nessuno, manco contro quelli che mentre ero in motorino mi facevano le corna dalla macchina. 

Qualcuno mi ha sgridato: «Cos'hai combinato? Quello era uno dei costumisti più bravi».

«Ma chissenefrega, è un poveretto.»

«Però non ci si comporta così. Vipera ... Vipera» 

Mi prendevano per il culo anche loro: non nel vero senso della parola, al contrario del costumista che ci aveva pensato seriamente. Ormai ero il Viperetta.

Almeno da lì, non mi hanno mandato via. Anzi, Agostino Pane ha iniziato a occuparsi di un altro film, e poi di un altro ancora, e mi ha portato sempre con sé. Ero sveglio, non mi scappava niente. Bravo, veloce, molto attento. Una produzione tirava l'altra e io facevo carriera, come se fossi stato un militare. Scalavo le posizioni. La linea gerarchica è facile da spiegare. Il produttore finanzia il film e sotto di sé, durante le riprese di una pellicola importante, ha altre figure. 

L'organizzatore: solo lui può parlare con il produttore, ma collabora anche con il regista e insieme a lui prepara la scena.

Il direttore: rende conto all'organizzatore. 

L'ispettore e il segretario: loro sono fondamentali affinché la macchina produttiva non si fermi, perché ogni volta che si inceppa sono soldoni che partono. Il cinema è come una catena di montaggio della Fiat, se si blocca un pezzo non si finisce l'auto. 

Nella mia carriera mi sono occupato direttamente di centoquaranta film: venti da segretario, venti da ispettore, quaranta da organizzatore e il resto da produttore, cioè investendo direttamente.

Nello specifico il segretario istruisce gli attori sugli orari di lavoro, pianifica gli spostamenti delle macchine che li devono andare a prendere, organizza viaggi e pasti, comunica l'ordine del giorno all'intera troupe. L'ispettore controlla il segretario, o meglio verifica che quanto detto dal segretario si trasformi in realtà, che le parole diventino fatti.

Massimo Ferrero in riformatorio a 14 anni, ciò che non sapete: il precedente che gli ha stravolto la vita. Francesco Specchia su Libero Quotidiano l'8 dicembre 2021. Era da quando aveva 14 anni che Massimo Ferrero detto Er Viperetta non osservava il mondo dalla finestra a scacchi, sfumacchiando sigarette di contrabbando. L’ultima volta aveva disertato la scuola, già mal frequentata di suo, fu a causa d'una cinquina («'sta mano po' esse piuma e po' esser fero», per dirla alla Carlo Verdone) mollata a un pizzardone padre non consenziente d'una sua aspirante fidanzatina. Lo arrestarono dopo un furioso inseguimento per tutta Roma, e solo quando al motorino finì la benzina. Oggi qualcuno azzarda, considerandone la picaresca esistenza - un po' Victor Hugo un po' Jean Gabin, un po' Harry Potter - che l'arresto di Ferrero per il crac finanziario di ben quattro sue società, sia, in realtà, montato ad arte per aggiungere un'altra pagina di sceneggiatura al film della sua vita. Può starci.

GAVETTA DI FERRO

Phisique da Accattone pasoliniano, barba bucaniera, parlata alla glicia che odora di guanciale e pecorino, Ferrero potrebbe apparire come il protagonista di una delle sue pellicole di successo, da Mery per sempre a Mani di velluto, da Ragazzi fuori agli eroticoni di Tinto Brass. A San Vittore, in queste ore, il presidente della Samp, l'uomo che acquistò 60 sale cinematografiche dalla bancarotta di Cecchi Gori pagandole un piatto di ceci, che risanò la squadra genovese (ma senza esserne risanato né riamato), che «non ho paura di nessuno e mando a fanculo chiunque»; be', ora starà rimuginando per fornire ulteriore materiale alla caricatura fattagli da Maurizio Crozza in tv. Romano del Testaccio, classe 51, figlio di una venditrice ambulante e di un tramviere, nipote di una soubrette dell'Ambra Jovinelli, Ferrero vanta una gavetta straordinaria. La sua interpretazione è appunto, quella del romano buzzico, ruvido ma "de core". Ferrero, nella vita fa il «macellaretto», porta la carne nelle case montandola sulla bicicletta rubata a un amico; tenta di proporsi come ballerino, prima nei locali di tip tap di via Veneto e poi nel corpo di danza di Rita Pavone; s' infila nel mondo del cinema in ogni ruolo: latore di cestini del pranzo di Cinecittà, comparsa, portatore di caffè, direttore di produzione, produttore. Il soprannome "Viperetta" pare sia un affettuoso omaggio di Monica Vitti, ma ne dubitiamo fortemente. Sfugge, dell'irresistibile ascesa del businessman, qualche passaggio. Qualcuno nota che le sue fortune finanziarie coincidono col matrimonio coll'imprenditrice casearia Laura Sini. Qualcun'altro sospetta, nell'intreccio di cartelle esattoriale e contenziosi, che Ferrero, avesse alle spalle imprenditori più classici (come Garrone, ex patron della Samp da lui acquistata a prezzo irrisorio). Ma, insomma, è lì che s' allungano le ombre sulla presenza costante di Ferrero, un Ricucci più funambolico, nei palazzi del potere. Si registra, infatti, un furioso andirivieni dagli uffici romani di via Cicerone, da dove pare spiccassero in bella mostra i ritratti di Fidel Castro e del Cardinal Sepe. Specie al settimo piano di viale Mazzini, in Rai, dove i suoi servigi sono assai apprezzati. C'era già, allora, qualcosa che non tornava. Ricordo che, compulsando le carte di certi suoi contratti, s' avvertiva qualcosa di stonato a cui s' accompagnava il simpatico refrain «Ahò, occhio, chi tocca er Viperetta more...». Che non era esattamente un pungolo ad approfondire un'inchiesta, diciamo. Fatto sta che dal 2014 la sua Blu cinematografica divenne oggetto di una giostra inspiegabile di trasferimenti di sede, azionisti e amministratori. Dopo essere stata guidata dalla figlia di Ferrero, Vanessa, anche lei arrestata (Ferrero ha altri tre figli da mogli diverse), la società venne spostata da Roma ad Acquappesa, nel Tirreno cosentino, ceduta al potentino Giovanni Fanelli e alla laziale Maria Antonietta Rocchi, già indagata per bancarotta insieme a Ferrero dalla procura di Roma per l'acquisto dei diritti del film Bye bye Berlusconi attraverso un'altra controllata, la Blu International. La Blu, in seguito è finita in liquida zione poco prima che lo stesso liquidatore, Aniello Del Gatto, finisse nell'inchiesta della Procura calabrese di Pao la che oggirimette Ferrero in cella. Fer rero ha dalla sua una simpatia esplosi va. Ma, come mi diceva un amico della Finanza, io non ho mai visto un banca rottiere antipatico.

UN MULTITASKING

A ben vedere, Viperetta ha prodotto devastazioni in vari settori merceologici. Nel cinema con la Blu, certo; ma pure nel trasporto aereo con la bancarotta della compagnia aerea Living ston in un'avventura spericolata che si chiuse con una condanna definitiva di un anno e dieci mesi; e nell'agroalimentare con la Farvem assieme all'ex moglie; e nella creazione, un anno fa, del trust Rosan, giusto per aggiungere un elemento nuovo alle scatole cinesi dentro la Sampdoria. Per non dire della condanna a 4 mesi di reclusione per un abuso edilizio riferito ad un immobile acquistato al Parioli. O alle accuse per il caso Obiang, il calciatore la cui vendita fruttò a Ferrero oltre un milione pare distratto «in modo illecito e per fini privati». Una personcina. L'unica cosa certa del suo copione è che, appena se ne scrive la parola "fine", Viperetta riesce sempre, non si sa come, a pas sare al copione successivo...

Massimo Ferrero, "perché era a Milano con Dejan Stankovic": clamoroso retroscena sull'arresto. Libero Quotidiano il 07 dicembre 2021. Sul caso di Massimo Ferrero, arrestato per bancarotta fraudolenta nell'ambito di un’inchiesta calabrese che ha colpito anche gran parte della sua famiglia, ora piove la clamorosa testimonianza della sua avvocatessa, Giuseppina Tenga. Interpellata da Radio Punto Nuovo, infatti, la legale ha spiegato: "Non mi intendo di calcio ma so che il presidente stava trattando con Dejan Stankovic per farlo diventare il nuovo allenatore della Sampdoria. Ecco perché al momento dell'arresto si trovava a Milano". Così quando le hanno chiesto come mai Ferrero - che ha subito lasciato la presidenza del club blucerchiato - al momento dell'arresto eseguito dalla Guarda di Finanza si trovasse nel capoluogo meneghino. Insomma, si scopre che la panchina di Roberto D'Aversa, mister della Samp, dopo il ko a Marassi per 3-1 contro la Lazio, era decisamente a rischio. E nonostante le dimissioni di Ferrero, il mister sarebbe davvero appeso a un filo: venerdì sera lo attende il derby della Lanterna contro il Genoa. In caso di risultato negativo, assicura Sport Mediaset, le strade dell'allenatore e del Grifone si separeranno. Nel giorno dell'arresto, era sempre stato l'avvocato Tenga a denunciare le modalità, ritenute poco consone, con cui Ferrero era stato catturato: "È stato prelevato come un delinquente. Stamattina il presidente si trovava in un albergo a Milano, ma era necessario che venisse a Roma, perché a casa sua c'è la Guardia di Finanza per la perquisizione, e solo lui è in possesso della combinazione della cassaforte da perquisire. Ritengo fosse intelligente e giusto che Ferrero assistesse alla perquisizione a casa a piazza di Spagna. Probabilmente a qualsiasi altra persona glielo avrebbero permesso, a Massimo Ferrero no", aveva dichiarato a caldo.

Da sportmediaset.mediaset.it il 7 dicembre 2021. Pietro Vierchowod, ex stella della Samp, non usa giri di parole per attaccare l'ex presidente blucerchiato Massimo Ferrero arrestato per reati societari e bancarotta. "Nessun dispiacere, anzi, almeno la Sampdoria si è liberata - ha dichiarato l'ex difensore -. Dovevano chiuderla anche prima questa faccenda". "Adesso spero che la Samp riesca a tornare una squadra vera e una società seria", ha aggiunto Vierchowod. Parole durissime, che attaccano Ferrero non solo in prima persona, ma anche il suo modo di gestire il club, le dinamiche societarie e i rapporti con i tifosi e tutto il mondo del calcio che ruota attorno alla Samp. "Cattiva gestione? Non è una questione di gestione, ma di come ti proponi alla gente", ha aggiunto Vierchowod. Poi il "tackle" finale dell'ex difensore roccioso della Samp e della Nazionale: "A me non è mai piaciuto. La società era a sua immagine e somiglianza. Alla fine è una bella notizia".

Marco Callai per "il Messaggero" il 7 dicembre 2021. L'arresto di Massimo Ferrero per reati societari e bancarotta apre nuovi scenari per il futuro della Sampdoria. La reggenza societaria, con le dimissioni dell'ormai ex presidente, passa provvisoriamente al direttore operativo Alberto Bosco ma il prossimo consiglio d'amministrazione sarà chiamato a sciogliere nodi importanti.

 IL BILANCIO Una nuova governance per navigare in acque certamente non tranquille. Economicamente, un bilancio di primo semestre 2021 chiuso con un passivo di oltre 20 milioni di euro. Numeri significativi che si spiegano con i minori ricavi e le mancate plusvalenze. Cifre collegate alla chiusura del bilancio al 31 dicembre 2020 con una perdita di 14,7 milioni di euro, coperta con le riserve del patrimonio netto. L'anno del Covid-19 e dei suoi pesanti influssi sulle casse societarie di tutta la serie A ma anche l'anno in cui la Sampdoria usufruisce, insieme ad altri 5 club, dello slittamento al primo dicembre sancito dalla Figc per il pagamento degli stipendi arretrati e, quindi, per evitare penalizzazioni in classifica. Tutti aspetti che giocoforza finiranno sotto la lente di ingrandimento di chi prenderà in mano le redini societarie dentro l'attuale cda in attesa che possano aprirsi strade nuove per un eventuale passaggio di proprietà. Nuove ipotesi di trattative per la vendita della Sampdoria sono state, nelle ultime settimane, collegate ai concordati di Eleven Finance e Farvem, società del gruppo Ferrero, presso il tribunale fallimentare di Roma. Dal ritorno di Gianluca Vialli con il magnate Dinan del fondo York Capital, due anni dopo il closing mancato per l'elevata distanza tra domanda e offerta, all'imprenditore Gabriele Volpi, patron della Pro Recco Pallanuoto. Nomi da sogno per i tifosi della Sampdoria. Dalla società alla squadra, chiamata a preparare la partita più attesa dell'anno nella settimana più difficile. Il derby di venerdì sera, con D'Aversa nuovamente sulla graticola dopo 2 sconfitte consecutive e la zona retrocessione a pochi passi, può essere il crocevia sportivo. Per quello societario, invece, ci vorrà più tempo. 

Filippo Grimaldi per gazzetta.it il 7 dicembre 2021. Nell’ampia documentazione in possesso dei magistrati che indagano sulla bancarotta di Massimo Ferrero, ci sono anche alcune intercettazioni rivelate oggi dal “Secolo XIX”, dove appare chiaro lo stupore di Gianluca Vidal, commercialista di fiducia dell’ex presidente blucerchiato e componente del CdA dimissionario della società blucerchiata, per alcune operazioni finanziarie portate avanti dallo stesso Ferrero. Lo stesso Vidal, peraltro, oggi è a capo del trust che ha in cassaforte la Sampdoria a garanzia dei creditori di Holding Max, ed è uno dei personaggi più autorevoli in campo per gestire questa delicatissima fase societaria del club di Corte Lambruschini. Dice lui, parlando di Ferrero: “Ho capito perché sta cercando di prendere i soldi dalla Sampdoria”, citando una telefonata di Vidal con un uomo legato al presidente, che deve trovare 250 mila euro per sanare alcuni fallimenti. “Lui ha duecento milioni di debiti”, ricorda preoccupato Vidal, che rivela pure l’idea del presidente di acquistare un costoso appartamento nella capitale: “Quando l’ho saputo, gli ho detto: ‘Massimo, mi fai quasi ridere, sei pieno di debiti. Non sai come ne uscirai e pensi a comprare?’”. Poi parlando del rifiuto netto di Ferrero medesimo a vendere la Sampdoria, ancora Vidal parla al telefono con la figlia Vanessa, oggi ai domiciliari nella stessa indagine: “Massimo va avanti a sogni. Ha un c… micidiale, è una persona veramente fortunata, ma il tribunale ha voluto la dichiarazione che noi mettiamo in vendita la Sampdoria”. Aggiungendo, poi che “se lui trovasse qualcuno che versa 33 milioni e li mette sul banco, lui salverebbe la Sampdoria. Potrebbe trovare qualcuno a cui vendere una quota importante, il 50% o una cosa del genere, forse potrebbe essere una soluzione per tenere capre e cavoli”. Anche la figlia, poi, reclama liquidità con il padre e allora Vidal ne parla con Ferrero. Il primo: “Chiede cinquantamila euro per…”. Il presidente: “Le diamo una piotta e fa tutto”. Vidal: “Fa tutto alla grande. No, non glieli diamo tutti assieme”. Ancora Ferrero: “Glieli diamo trenta e trenta”. Colloqui surreali. Ancora la figlia Vanessa, dialogando (senza sapere di essere intercettata) con il cugino Giorgio, pure lui indagato: “Non mi posso fare il problema per cento euro che ho speso da… per fare tre aperitivi…”.    Una delle vicende più sconcertanti riguarda l’acquisto di una Ferrari che costa di listino quasi duecentomila euro. La stessa figlia di Ferrero chiama una società romana, che spiega a livello contabile la vicenda, evidentemente ingarbugliata. Vanessa: “Io ho visto in banca che c’era un circolare da 100, volevo sapere se c’è stata la vendita con un circolare, perché la Ferrari è stata sequestrata”. La risposta: “Centomila, poi abbiamo fatto un saldo stralcio a 48, quindi lì già c’è stata una sopravvenienza di cinquantamila…”. La storia della supercar e del leasing per uno yacht sono appunto fra le carte dell’indagine della Finanza.

Fabio Amendolara per "la Verità" il 7 dicembre 2021. «Ho comprato il pacchetto Farvem e c'erano 'sti soldi qua che allora li aveva fatti diventare liquidi dopo tutti i strilli che ho fatto io perché ho detto mi avete rubato i soldi e bla bla bla». Di telefonate che dimostrino come Massimo Ferrero curasse le sorti di tutte le società (non solo della Farvem) riconducibili alla sua galassia pur non ricoprendo alcuna carica riempiono 15 pagine dell'ordinanza d'arresto e mettono in luce le ultime peripezie da uomo d'affari diviso tra la curva blucerchiata e le produzioni cinematografiche. Il 5 febbraio è a telefono con il suo commercialista Gianluca Vidal e dà disposizione su come usare i soldi che transitano sulle varie società del gruppo Ferrero da vero «dominus», annotano gli investigatori. «Eh, gli diamo 'na piotta (100.000 euro) e fa tutto!». Sono soldi che gli chiede sua figlia Vanessa. Il commercialista è parzialmente d'accordo: «Fa tutto alla grande! No, non gliela diamo tutto assieme i ciccioli! Gli diamo 50 e 50». Massimo, però, nonostante si tratti della figlia, gioca subito al ribasso: «Gliene diamo 30! 30! e 30! Ci sono però già i soldi là, eh!». Vidal, però, gli ricorda: «Sì, lo so... però abbiamo anche l'obbligo con... con il transfer! Sto verificandoti tutto!». Il Viperetta lo stoppa: «Va beh ascolta! Quella cosa dei 50.000 euro da dare all'Arabia Saudita... l'hanno rifiutata eh! Sì hanno rifiutato l'offerta perché il giudice si è anche pentito di... che abbiamo pagato quelle altre cose...». L'operazione per far arrivare i soldi alla figlia, stando alle spiegazioni del commercialista, può essere fatta solo con la Ssh (Sport spettacolo holding, la società-cassaforte che il patron blucerchiato controlla attraverso il suo Rosan Trust), poiché è l'unica società che non ha l'obbigo di rendiconto e di controllo periodico. «Ci sono 50.000 euro che dovevamo dare alla Maestrale!», dice il Viperetta, «che stavano da parte... però adesso le hanno rifiutate! Per cui se c'è una risorsa da dare di là... ce l'abbiamo». Gli investigatori hanno scoperto che i fondi della Ssh sono disponibili perché un accordo transattivo che aveva coinvolto la fallita Maestrale srl era stato rifiutato. E quindi il Viperetta vuole usare quei soldi, peraltro provenienti da un finanziamento Sace (Cassa depositi e prestiti), per accontentare la figlia. Fondi che avrebbero fatto già una giravolta tra le società in area Ferrero: «Sono arrivati alla Ssh», annotano gli investigatori, «poi sono transitati in Hm srl per poi essere girati a chiusura degli accordi transattivi delle due società fallite Blu cinematografica srl e Blue line srl». Una conferma sulla gestione di Ferrero dei soldi del gruppo arriva anche da una telefonata con Andrea Diamanti, membro del Cda della Sampdoria: «Andre', mi fai sapere quando scadono i pagamenti, così vi mando i soldi? [...] perché credo che li mandano a Roma e poi mandano dalla Holding!». Poco dopo chiede ancora: «La Maestrale pure è chiusa? Perché volevo fa' un unico pagamento... così pagavo e mi levavo dal cazzo!». Ferrero, insomma, si atteggia ancora a manager. E conosce anche a fondo tutti i pasticci societari: «Lì Eagle (una delle creditrici, ndr) si è presa i soldi, non li ha rimessi in Farvem. Questo è un dato certo. L'hanno messi a Ellemme (società intestata alla figlia Vanessa, ndr), Eagle... e non li poteva mettere... non potevano fa'. Allora c'è la bancarotta distrattiva già in partenza, perché non puoi darmi a me 7 milioni, io ti pago un mutuo [...] e poi tu ci fai i cazzi tuoi...». Parola del Viperetta.

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 7 dicembre 2021. Si annunciò da lontano, con la sua risata cimiteriale. Un albergo a Castelfranco Veneto, tavolata di giornalisti e procuratori sportivi, una cena di qualche tempo fa. Ma guarda: è arrivato Viperetta. Lui: spettinato e allegro. Però anche sfacciato: «Me siedo solo pe' favve un favore». Elegante nella sua giacca blu di sartoria: «Tocca un po': sai questo come se chiama? Ca-che-mi-re. Nun te dico quanto costa, sinnò me svieni». Visionario: «Dopo aver fatto vince lo scudetto alla Samp, me compro la Roma e ve regalo la Champions». Chiede una bottiglia di Amarone, i camerieri - sussiegosi - portano anche un vassoio fumante di risotto al radicchio. «No, aspe': er vino è bbono, ma 'sto pappone ve lo magnate voi. Io ciò fame: se po' ave' 'na bella ajo e olio?» (urlando). Gli squilla il cellulare, come suoneria ha «Nessun dorma»: «So' chic d'animo, pure se so' nato a Testaccio», nel 1951, padre controllore sui bus, madre ambulante. Ma, al terzo bicchiere di rosso, Massimo Ferrero racconta della nonna, Antonietta Prosperini. «Santa donna. Faceva l'avanspettacolo all'Ambra Jovinelli, il Dna dell'attore è un dono suo. Da vecchia teneva tutti i soldi sotto er cuscino. Io lo sapevo, je davo un bacetto e intanto, ogni volta, me fregavo mille lire. Me ricordo l'ultima cosa che disse, sul letto de morte: Massimé, i sordi l'ho spostati nel cassetto». Un uomo cinico ai limiti della ferocia, arrogante - «Nun giro mai co' meno de 5 mila euro in tasca: e non dico fregnacce, eccoli» - ma anche capace di tenerezze inaudite. Racconta che, giovanissimo, dopo aver fatto la comparsa con Giuliano Gemma in qualche film a Cinecittà, finse di avere la patente per diventare l'autista dell'attore Silvio Spaccesi. «Sul set razziavo tutti i cestini: poi li portavo a casa e ci facevo cenare i miei tre fratelli». Piccoletto, tutto nervi, di pensiero furbo e velocissimo. Diventa direttore di produzione, poi produttore esecutivo. Un cameo nel film Camerieri , dove è Sem, il venditore di levrieri che schiaffeggia Diego Abatantuono. Prima di mettersi in proprio, lavora sui set di Mario Monicelli e Liliana Cavani, a lungo con Tinto Brass. «Serena Grandi, nei panni di Miranda, era strepitosa. Na' volta capito nel suo camerino e trovo lei tutta nuda, addosso solo na' vestajetta. Se volta, e me dice: "Vipere', che fai, guardi? Mortacci tua, je rispondo: nun solo guardo, vorrei pure tocca'. All'epoca però aveva una storia con Giovanni Bertolucci, e io so' all'antica, porto rispetto». Tre relazioni, una con matrimonio: si sposa con Laura Sini, ereditiera di un'azienda casearia del Viterbese. Sei figli in totale. Gli ultimi, avuti dalla truccatrice Manuela Ramunni, si chiamano Rocco Contento e Oscar. La più grande, Vanessa, è ai domiciliari. Le immagini dei tigì che danno la notizia dell'arresto per bancarotta si sovrappongono al ricordo di quella cena. Di Viperetta che sta prima nel ruolo di efferato affabulatore, e poi di presidente della Samp: «Garrone non me l'ha regalata. Me so' accollato 25 milioni de debiti, ne ho messi altri 15 per l'aumento di capitale, più altri spicci. In tutto fanno 50 pippi. Ma la felicità di poter considerare i tifosi blucerchiati come una nuova famiglia, non ha prezzo». I tifosi, in realtà, lo detestano da sempre. I tifosi hanno in testa un altro presidente: Gianluca Vialli (vediamo se adesso, chissà). In genere Viperetta commenta dicendo: «Nun me rompete li cojoni». Fare finta di niente, sghignazzare in faccia alla vita. Nel bene: come quando con un colpo di mano acquisisce le 60 sale (tra cui il gioiello romano dell'Adriano) di un altro meraviglioso caduto come Vittorio Cecchi Gori. E nel male: quando patteggia una condanna definitiva di un anno e 10 mesi per il fallimento - vizio antico - della compagnia aerea Livingston Energy Flight. Però quella cena. Che cena. Al cameriere che gli chiede: «Gradisce un superalcolico, presidente?». Lui risponde: «Presidente un cazzo». Il cameriere si allontana mortificato. E allora Viperetta gli urla dietro: «Ammazza, aho'! Ma qui in Veneto ve offendete facile, eh? Dai, torna qua, damme un bacetto...». E quello torna, mezzo contento, e si fa fare pure un autografo. Così Viperetta butta giù un paio di segnacci su un tovagliolo di carta e attacca a raccontare la solita gag - vera, falsa, forse solo verosimile - di quella volta che andò a Cuba per creare una casa di produzione cinematografica. Aveva fatto le cose in grande, dice. Una spedizione enorme: luci, carrelli, attrezzi, persino i ciak. «Poi arriva il giorno dell'inaugurazione e io me porto du' fotografi. Così, appena vedo Fidel Castro, me fiondo e gli afferro la mano pe' famme immortala'. Solo che, appena me volto, i fotografi nun ce stanno più. Allora me metto a grida': aho', a stronzi, 'ndo state? E Fidel che me tirava dicendo: Mollame la manos, por favor, molla te dicos...». Una cena memorabile. Stiamo per alzarci, è notte fonda, ma uno chiede: «Presidente, un'ultima cosa: davvero fu Monica Vitti a darle il soprannome di Viperetta?». Lui allora diventa improvvisamente serio. «No. La storia è diversa: ero pischello, e a Cinecittà, una sera, un costumista omosessuale mi si avvicina e mi sussurra all'orecchio: lo sai che il cinema è fatto di lenzuola? Allora io je dico che le lenzuola me le rimbocca solo mia madre... Ma mentre gli sto sopra, e con una mano lo tengo fermo, e con l'altra lo prendo a pizze, quello ridacchia e mi urla: sei una Viperetta, ecco quello che sei! Eh... Lo so da solo: questa nun fa tanto ride».  

Carlo Macrì per il "Corriere della Sera" il 7 dicembre 2021. «Un deus ex machina il cui disegno criminale era l'ambizione di soddisfare le sue esigenze personali dando al patrimonio una destinazione diversa da quella di garanzia delle obbligazioni sociali, con conseguente danno per l'Erario e i creditori sociali». È l'immagine che il gip di Paola dà di Massimo Ferrero nelle 105 pagine dell'ordinanza che ha portato all'arresto del «Viperetta», per il quale è stato disposto il carcere. Uno spaccato che ha messo alla luce le modalità d'intervento di Ferrero, definito persona «spregiudicata, pervicace e scaltra». Come quando, il 23 dicembre 2013, nel tentativo di far sparire i libri contabili relativi al fallimento della Ellemme, convinceva il liquidatore della società a denunciare il furto di un'Audi SA8, all'interno della quale c'era una borsa con registri Iva, libro inventari, verbali d'assemblea e del Consiglio d'Amministrazione della Ellemme. Un suo ex dipendente della Eleven Finance, Dario Lemma, intercettato il 22 febbraio del 2021 mentre parlava con Vanessa Ferrero diceva: «Conosco bene i doppi giochi di Massimo». E la figlia: «...io mi potevo lega' tutti al c... perché praticamente stanno tutti alle dipendenze mie... sulla carta comando io!... non l'ho fatto perché sono troppo rispettosa e poi perché non mi è convenuto!... te sto a chiede' tutto quello che mi devi da' che non mi hai dato... cioè! lui un po' l'ha capito..., però non se credesse che co 'sti contentini che m' ha dato... cioè pagame la macchina... famme arriva' n'altra... e i mille euro! che m' ha sistemato?». Se da un lato, però, Massimo Ferrero cercava di frenare le richieste della figlia, quando c'era da acquistare beni di lusso non si faceva scrupoli, pur sapendo di non poterselo permettere. Il 24 luglio 2008, l'ex presidente doriano stipula un contratto di leasing per l'utilizzo dell'imbarcazione Azimut pur in presenza di un debito tributario di 497.628 euro e con ricavi dichiarati e registrati nel 2007 per 285.658. Ferrero si impegna a pagare per i primi due anni 600 mila euro di rate per la barca e addirittura 950.304 per i successivi otto. Ha manie di grandezza pur non avendo possibilità di spesa. Il 18 novembre 2020 il commercialista che cura gli aspetti economici delle varie società del gruppo parla con un certo Andrea Diamanti: «Ieri stavo a litigare con Massimo... perché mi dice... mo' c'ho da prendere 'sti soldi qua, perché con questi voglio ricomprarmi via Taramelli!... Ma sei scemo? Mi fa... non hai idea... è una cosa che vale... quando è messa a posto vale 4 milioni. Ma scusa Massimo mi fai quasi ridere! Hai 200 milioni di debiti! Non sai come ne uscirai e adesso pensi di uscirne in 'sta maniera?». Anche quando la situazione patrimoniale e finanziaria del gruppo Ferrero era gravata da inequivocabili segnali di difficoltà - come emerge dal bilancio del 2008, con debiti bancari complessivi per 7.038.287 euro - Ferrero ha sottoscritto un contratto di prelazione per l'acquisto di sale cinematografiche di proprietà di Vittorio Cecchi Gori investendo subito 58,5 milioni euro, impegnandosi a versare in futuro altri 19,5 milioni euro, senza averne la disponibilità. La procura di Paola in questi anni ha riletto ogni atto delle quattro società di Ferrero finite sott' inchiesta: Ellemme Group, Blu line srl, Blu cinematografica e Maestrale. La Ellemme addirittura è stata svuotata della contabilità e i finanzieri per ricostruire le sue vicende sono dovuti ricorrere alla banca dati della Guardia di Finanza.

Elisabetta Esposito per gazzetta.it il 7 dicembre 2021. Sono tanti gli aspetti sconcertanti dietro al caso Ferrero. Uno va oltre i soldi, la bancarotta e quel "progetto criminale" descritto nell'ordinanza di custodia cautelare secondo cui la detenzione del presidente della Samp è "l'unica misura idonea" visto pure il "concreto e gravissimo pericolo di commissione di delitti analoghi". Ad attirare l'attenzione è anche il modo in cui Vanessa Ferrero, figlia di Massimo e da ieri agli arresti domiciliari, parla del padre. Ecco alcuni passaggi delle intercettazioni effettuate nel corso delle indagini dalla Guardia di Finanza. Il 18 settembre 2020 parlando con un conoscente la donna fa riferimento a una discussione avuta con il padre: "Niente l’ho mandato affanc... de brutto, m’ha rotto il c..., (...), lui, la moglie e tutti sti falsoni di m..., me devono mette sotto i piedi (incomprensibile) mandato via dicendo glie fai i conti testa di c... l’unica figlia che non gli ha mai rotto il c..., fa a Sampdoria e perché quello str... gli ha firmato i fogli, hanno magnato tutto e io me de ritrovà così! A famme di... casa rinunciace oppure non magni (incomprensibile) che diresti a Marta... ma vaffanc... sto pezzo di m... m’ha rotto il c... non hai capito! Se pensa che solo lui è indagato, solo lui non dorme a notte... solo lui c’ha i ragazzini carini... che devono cresce... ai miei non gli ha mai comprato un cazzo... mai s’è preoccupato se mi magnavano... ma annassero affanc... non hanno capito con chi c’hanno a che fa... ma io devo avé i soldi miei... ma vaffanc... aho... l’avvocato s’è arricchito e quello s’è arricchito... gli anni titolare della c... di squadra mo ce stanno i problemi e hanno magnato tutti. L’ho presa a 100mila l’ho dati come acconto casa e mi ritrovo ch’e pezze ar c...? Ma annassero affanc... tutti io sto a chiede quello che mi spetta...ma annassero affanc... oh! Casa ho dato quattro sacchi de sacrificio, non magno, mo non c’ha na piotta da dammi per tenerli boni ... ma vaffanc... non ce credo... non ce credo no, sei stato in barca fino a ieri ... e vaffanc... oh! io non magno pe' pagarmela... ma chi te se ‘nc... oh... sempre a (incomprensibile) l’artri, l’artri, l’artri, ma chi s’inc... l’artri oh! (...) Poi io so scema, io non so gestì avemo preso il gruppo me so accollata 18 milioni de debiti aho, ma chi c.... lo fa a 35 anni oh! Chi c... lo fa! Solo sta cogliona e l’unica che si ritrova così...".  E ancora, il 4 giugno 2021, al telefono con una conoscente: "Mi padre io non vedo l’ora di sputarglie in faccia... e mannallo a fanc... pure lui... i sordi... glie do’ n’ c... e foco ai capelli.... no? cioè me venisse a chiede!! in piena.... (incomprensibile) ...ti giuro non ce la faccio più!! cioè invece de dire amore scusa che ti ho messo in questa situazione di m... (incomprensibile) a pagà la galera quando i problemi so miei e non tuoi! Perdonami figlia diletta!! Così dovrebbe comportasse, hai capito? Cosa ti serve? Mangiare? L’università? Bere? No! Che non c’ho manco i soldi per la spesa!". E ancora: "Pure mi padre che... se lui c’ha l’Alzheimer... o un principio di schizofrenia... e nella mente si è convinto che tutti i problemi che c’ha è colpa mia... è un problema suo non mio!! Io non ho fatto una cosa delle 16 denunce penali che c’ho!! Una!! Una!! (...) Glielo devo di... non ce sta con la testa!! Sta fuori de testa!! a me non me ne frega un c... io me voglio levà da sto ginepraio!! Io me voglio levà!! Io voglio lavorare... farmi i c... miei... devono mori!! Capito? Che sto così per loro!".

 Jacopo Iacoboni per "la Stampa" il 7 dicembre 2021. Il problema è che, lui per primo, non ha mai seguito il motto che ripeteva sempre: «Vola basso e schiva il sasso». Ha volato troppo alto e ha pigliato il sasso in faccia. «Lo stanno trattando peggio di Totò Riina», lamenta il suo avvocato, e certo Massimo Ferrero non è Totò Riina. In carcere (minorile) però c'era già stato, adolescente irregolare, romano di Testaccio, pokerista e uomo di azzardi, un incrocio tra accuse degne dei furbetti del quartierino e un personaggio che non avrebbe sfigurato in Febbre da cavallo. Quando finì dentro da ragazzino s' era innamorato della figlia di un vigile, il quale non gradiva, un giorno Ferrero lo incontrò in piazza e gli diede uno schiaffone facendogli cadere il berretto. Furbo ma non furbissimo: dietro il pizzardone c'era una volante della polizia e Ferrero finì al gabbio. «Lo chiamavano riformatorio, ma in realtà era un carcere vero e proprio». «Mamma Anita mi portava le sigarette in carcere. Mi diceva "a Massimì devi comincià, sei grande! "E io: "A ma' ma io non fumo!". E lei: "Zitto e fuma!"». Eterno ritorno. Il padre era autista di autobus. La madre aveva un banco al mercato di piazza Vittorio all'Esquilino. Lui da Testaccio scappava lontanissimo, fin giù a Cinecittà, alla fine della Tuscolana, e non si sa letteralmente cosa facesse per giornate intere. Le prime comparsate, ma pure al carcere, appunto. «Erano tempi liberi e insieme complicati. Chi aveva problemi, andava a rubare i portafogli sugli autobus, annavano a fa' er quajo, come si diceva». Ferrero faceva letteratura di questo suo passato dal riformatorio alla casa in piazza di Spagna, tipo che fosse amico di Giuliano Gemma, con cui scoprì Cinecittà. O i vari racconti sul suo soprannome, er viperetta. «All'inizio ero Er Gatto de Testaccio, un gattaccio di strada, ovviamente, non un aristogatto». Fece girare che il nome er viperetta gliel'avesse dato Monica Vitti quando lui la difese da un molestatore. Poi però lui stesso aveva anche raccontato una storia diversa, il nome gliel'appioppò un costumista gay di Cinecittà che gli diede della vipera quando lui rifiutò con forza certe avances, in un film che voleva essere pasoliniano: «Uno mi toccò il fondoschiena. Al Gatto di Testaccio non si poteva fare. Gli detti una capocciata. E lui a terra gridava: "Sei una vipera, sei una vipera!"». Verità o mitomania? Il problema è che con Ferrero le dimensioni realtà e cinema si sono a tal punto confuse da creare qualche leggerissimo problema di affidabilità anche nelle sue imprese, le cui accuse di bancarotta, che riceve adesso per il fallimento di quattro società in Calabria, paiono più che una nemesi un destino, a prescindere da come poi andranno i processi. «Io sono nato e cresciuto a Cinecittà dove la realtà e la fantasia si sono sempre fuse», dirà lui. Illuminante. Verità e bugie. Ex giocatore di poker da bische romane, anche come imprenditore ha sempre cavalcato tra l'immagine autoalimentata del self made man de noantri, e lo spregiudicato raider di provincia, mai amato dai tifosi della Sampdoria, che aveva rilevato sette anni fa con 15 milioni di debiti dal petroliere Garrone e, a pensarci, non è neanche andata così male come altre sue libere intraprese. Solo che Ferrero rifiutò di venderla a una cordata guidata da Gianluca Vialli, e non è che la cosa sia stata presa bene dalla curva doriana. Pochi giorni fa, Ferrero ha ammesso che sta per gettare la spugna: «Dopo anni di attacchi calunniosi, e critiche pesanti, che io ritengo ingiustificate, comincio a essere stanco. Non della società, di fare il presidente. Ma della cattiveria nei miei confronti. Acquirenti all'orizzonte? Magari. Non ce ne sono. Fatemeli conoscere. Presentatemeli». L'amore quasi estetico per le belle donne potrebbe riempire pagine, senza però liberarsi mai da quel tragico complesso dell'infanzia povera, l'idea che chi non era come lui era un pariolino (come disse in tv a Panatta) e invece «per incontrare le donne dovevi vivere in un'altra dimensione, borghesia, banche, avvocati, notai. O figli di papà. A noi povera gente non restava niente, per noi le ragazze erano tutte vestite, manco a Ostia se spojaveno». Ha avuto una prima moglie da cui ebbe due figlie (i figli arrivarono poi a cinque con la seconda moglie e la terza compagna). Si è risposato con la figlia del proprietario di un'azienda casearia di Viterbo, che i soldi li aveva davvero. E per anni gestì con lei sei caseifici. Insomma, come dicono i viterbesi, "faceva il formaggiaro". Ma lui voleva essere ricordato come uomo di cinema e sciarpe di seta a pois, di doppi anelli alle dita del mignolo e di spettacolo, al limite di sport, inteso come tv. Nel '98 fondò, con i soldi della moglie, la Blu Cinematografica, la sua società di produzione di film: inanellò una serie di buchi neri finanziari, tipo Libero burro o La carbonara, perdendo un miliardo di lire. Produsse cose come Tra(sgre)dire di Tinto Brass, film con Bonolis, o con la coppia Tognazzi/Izzo: la storia del cinema poteva attendere. Ma anche quella della gestione oculata di un'azienda. Anche i suoi cinema romani, comprati con una nuova società, Farvem Real Estate, alcuni dei quali dal fallimento dell'impero Cecchi Gori, si portarono lo stigma di quel destino: ingiunzioni di pagamento, cartelle esattoriali, cause. Nel 2009, con un'altra scatola, FG Holding, si comprò una compagnia aerea di voli charter, la Livingston Energy Flight. Risultato: nel 2010 l'Enac sospese la licenza di volo alla compagnia, e il tribunale di Busto Arsizio ne dichiarò l'insolvenza. Non era più cinema, era realtà. 

Lo sfogo di Massimo Ferrero dal carcere: "Se volevo potevo scappare quando stavo a Pechino Express". Augusto Parboni su Il Tempo l'8 dicembre 2021. «Se volevo potevo far perdere le mie tracce quando stavo girando le puntate di Pechino Express». È Massimo Ferrero, detenuto dall'altra notte nel carcere di San Vittore a Milano, a parlare a poche ore dal suo arresto per bancarotta per il fallimento di quattro società in Calabria e per la distrazione di milioni di euro. «Non mi hanno mandato agli arresti domiciliari perché ritenevano che non era una misura adeguata. Ma se ho la Digos che mi segue da tempo e mi mettevano il braccialetto elettronico agli arresti domiciliari come potevo scappare?». L'ex presidente della Sampdoria anche da una cella del penitenziario milanese continua a lottare, a sostenere che se avesse voluto sarebbe potuto fuggire dalle indagini delle forze dell'ordine che da anni stanno indagando sullo stato delle società a lui riconducibili. Ferrero è considerato dalla procura di Paola e dagli investigatori della Guardia di Finanza il dominus di una serie di reati societari che avrebbero portato al fallimento di aziende del settore cinematografico, turistico e alberghiero. A distanza di 12 ore dall'arresto di Massimo Ferrero, i finanzieri si sono presentati in una delle sue abitazioni, quella in piazza di Spagna a Roma, dove c'era una cassaforte della quale aveva la combinazione solo l'imprenditore. Per poterla aprire i finanzieri hanno dovuto utilizzare una fiamma ossidrica. Una volta scardinata, all'interno gli investigatori avrebbero trovato 15mila euro in contanti. «Oggi (ieri ndr.) è Sant' Ambrogio e il carcere è chiuso - ha detto uno dei suoi legali, l'avvocato Giuseppina Tenga - Nessuno può andare a trovarlo. Sono riuscita a sentirlo almeno al telefono». Il penalista ha inoltre riferito che «tramite un autista siamo riusciti anche a mandargli un cambio di biancheria, con sé non aveva niente». E ancora: «I fatti riguardano attività private di Ferrero, compreso il cinema, del 2003, con i fallimenti avvenuti nel 2017. Non discuto il provvedimento, ma il modo in cui si è svolta la vicenda. Evidentemente Ferrero dà fastidio a qualcuno». Il legale dell'ex patron blucerchiato parla anche della società sportiva. «La Sampdoria non c'entra nulla, formalmente sarà costretto a dimettersi perché dal carcere, ovviamente, non può occuparsi di una società sportiva. Non me ne intendo di calcio, ma so che il presidente stava trattando con Stankovic per farlo diventare il nuovo allenatore della Sampdoria. Ecco perché al momento dell'arresto si trovava a Milano. I prossimi passi? Ci sarà l'interrogatorio di garanzia nei prossimi cinque giorni, poi ci sarà il nostro ricorso al Tribunale di Catanzaro».

Da il Messaggero il 9 dicembre 2021. «Se volevo potevo far perdere le mie tracce quando stavo a Pechino... ma dove dovevo scappare se la Digos mi segue da tempo?». Lo sfogo di Massimo Ferrero, in carcere a San Vittore con l'accusa di bancarotta fraudolenta, avviene attraverso i suoi avvocati, Giuseppina Tenga e Luca Ponti. «Perché i giudici non mi fanno stare ai domiciliari? Non ho nessuna intenzione di scappare». Avrebbe voluto assistere alla perquisizione il patron (dimissionario) della Sampdoria, ma per la tensione ha avuto un picco di pressione, spiega Tenga. «Naturalmente - aggiunge l'avvocato - vorrebbe i domiciliari, vorrebbe andare a casa, ha escluso qualsiasi intenzione di fuga e vorrebbe stare con la sua famiglia. «Se mi avessero messo il braccialetto elettronico agli arresti domiciliari come potevo scappare?», ha aggiunto Ferrero. Una misura che invece il giudice ha disposto per Vanessa, la figlia dell'indagato principale dell'inchiesta. 

L'INTERROGATORIO Oggi Ferrero, considerato dalla Finanza e dalla procura di Paola il dominus di una serie di manovre che avrebbero portato al fallimento di alcune società del settore cinematografico e alberghiero, sarà interrogato dal gip e si avvarrà della facoltà di non rispondere, perché come ha spiegato il suo legale, non è ancora stato possibile leggere gli atti d'accusa. «Si può affermare - scrive il Gip nel provvedimento - che l'analisi delle vicissitudini societarie accumuna le stesse in un medesimo destino, contrassegnato dallo svuotamento, deliberatamente programmato, degli asset e dal successivo fallimento». Dalle intercettazioni, afferma ancora il giudice, «emerge il ruolo di Vanessa Ferrero di amministratore formale di alcune società e che consapevolmente pone in essere gli atti ed i comportamenti suggeriti anche dal padre Massimo. Vanessa Ferrero, pertanto, agisce nella piena consapevolezza degli atti distrattivi e degli illeciti societari che hanno determinato lo stato di dissesto della società Ellemme Group, amministrata dalla stessa Ferrero ed il suo successivo fallimento». In una conversazione telefonica col compagno Filippo Boggiani, che fa seguito ad un'altra avuta poco prima col padre, la donna si sfoga: «L'ho mandato aff...de brutto, m' hanno rotto...lui, la moglie e tutti sti falsoni di..., l'unica figlia che non gli mai rotto...Se pensa che solo lui è indagato, solo lui non dorme la notte..solo lui c'ha i ragazzini carini che devono crescere. Ai miei non gli ha mai comprato niente, mai s' è preoccupato se mi magnavano...ma annassero..Ma io devo avere i soldi miei».

Ferrero, parla il gestore della Sampdoria Vidal: «Gli avevo suggerito cosa era giusto fare. Ha preferito il rischio». Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021. Parla il manager che in questo momento gestisce la Sampdoria oltre agli immobili del suo ex presidente, ora in carcere

«Ho capito perché sta cercando di prendere i soldi della Sampdoria». Gianluca Vidal, membro del cda dimissionario del club ligure e a capo di Rosan Trust, che ha in cassaforte oltre agli immobili dell’ex presidente Massimo Ferrero anche il club blucerchiato, aveva già lasciato trapelare dubbi e sospetti nelle intercettazioni diffuse nei giorni scorsi. «Massimo, sei pieno di debiti, non sai come ne uscirai e pensi a comprare?».

Dottor Vidal lei immaginava un epilogo del genere quando al telefono esternava queste perplessità?

«Non conoscevo le vicende relative all’inchiesta di Paola ma avevo contezza del potenziale impatto che certi comportamenti avrebbero potuto generare. Del resto gli avevo già consigliato che sarebbe stato meglio chiudere ogni fronte prima di ripartire. Detto questo, io non sono un politico, sono un tecnico».

Quindi?

«Leggo che sbrigativamente mi si definisce commercialista di Ferrero. È vero che sono dottore commercialista, ma non è mio compito compilare la sua dichiarazione dei redditi. Mi occupo di attività di gestione di rischio di impresa: sono stato chiamato in primis per gestire i concordati Eleven Finance e Farvem e poi per seguire le trattative di cessione della Sampdoria. Piuttosto mi fa piacere che dalle intercettazioni si comprenda come preferissi realizzare valore per chiudere pendenze pregresse».

Ferrero non l’ha ascoltata.

«Diciamo che il mio punto di vista da tecnico non collima necessariamente con quello del presidente che da imprenditore ha una certa propensione al rischio. Il tecnico deve suggerire cosa sia giusto fare per restare nel perimetro della legge».

Lo ha sentito da quando è stato arrestato?

«No, non si può. Ho tenuto i contatti con gli avvocati che gli hanno fatto visita in carcere mercoledì per la prima volta. Piuttosto, non comprendo come sia possibile che un uomo di 70 anni con due bambini piccoli venga trattenuto in custodia. Non credo possa scappare, ma non ho letto le carte. Di certo lo avranno ferito le frasi della figlia Vanessa che sono state pubblicate».

La Sampdoria che galleggia a cinque lunghezze sopra la zona retrocessione, ha il presidente in prigione, un allenatore in bilico e il derby alle porte: è una barca alla deriva?

«Ma no, deve solo trovare il comandante: ha una struttura dirigenziale che adempie alle proprie funzioni. Certo, l’assenza di un presidente rumoroso come Ferrero si fa sentire ma ci sono compiti assegnati a ogni manager».

È vero che il nuovo presidente sarà un ex calciatore come Giovanni Invernizzi?

«L’assemblea dei soci è stata convocata per il 23 dicembre: si nominerà un nuovo cda e per la figura del presidente ci sono diverse ipotesi sul tavolo. Tra queste, assegnare il ruolo a chi conosce e riveste i valori del club».

Dopo l’arresto di Ferrero, potenziali acquirenti si sono fatti avanti?

«Confermo, ci sono cinque soggetti che hanno avanzato manifestazioni di interesse. Sarò rigido nel valutarle considerando la reale identità del soggetto e che non sia schermo di altre figure, la provenienza lecita delle risorse e la trasparenza nell’affare».

Genova attende Vialli.

«Negli ultimi giorni la cordata a cui appartiene non mi ha contattato. Due anni fa fummo molto vicini a chiudere ma sul più bello le parti non posero la penna sul foglio. Di rinvio in rinvio arrivammo in autunno quando, dopo la striscia di sei sconfitte in sette partite, furono rivisti i valori dell’operazione. Sa, il presidente è esuberante. Tanto può essere empatico con alcune persone, quanto può non esserlo con altre. Non fu facile...».

Da sportmediaset.it l'8 dicembre 2021. Massimo Ferrero, arrestato per reati societari e bancarotta in seguito all'inchiesta aperta dalla Procura di Paola sul fallimento di quattro società in Calabria, si sfoga dal carcere lamentandosi del fermo. "Non mi hanno mandato agli arresti domiciliari perché ritenevano non fosse una misura adeguata. Se volevo potevo far perdere le mie tracce quando stavo girando le puntate di Pechino Express" le parole riportate da Il Secolo XIX. L'ex presidente della Sampdoria (si è dimesso proprio in seguito all'avvio delle indagini) continua: "Se ho la Digos che mi segue da tempo e mi mettevano il braccialetto elettronico agli arresti domiciliari come potevo scappare? Dicono che potrei fuggire: è una follia, dove potrei andare?". Ferrero, che ha una scorta privata, infatti è posto sotto 'vigilanza dedicata' negli spostamenti effettuati a Genova da circa due anni, quando era naufragata la cessione del club al gruppo guidato da Gianluca Vialli e aveva ricevuto minacce. Una misura che la Digos adotta per quei cittadini considerati a rischio. Ma il GIP ha effettuato il fermo non per un pericolo di fuga, bensì perché esisterebbe "un concreto e gravissimo pericolo di commissione di delitti analoghi a quelli per cui si procede". In pratica l'arresto è arrivato per timore che l'indagato possa reiterare il reato se tenuto in libertà. Parlando dell'arresto, Ferrero ha ricordato: "Ora sto bene. Mi sono arrabbiato con i finanzieri che non mi hanno concesso di essere trasferito nella mia casa romana per assistere alla perquisizione e mi è uscito un fiotto di sangue dal naso, ho avuto un picco di pressione".

Carlo Macrì per il “Corriere della Sera” l'8 dicembre 2021. Nonostante fossero a conoscenza dell'inchiesta sul fallimento delle 4 società del Gruppo, tutte con sede legale ad Acquappesa (Cosenza) i Ferrero, Massimo e la figlia Vanessa, al telefono dialogavano apertamente con i loro amministratori sulle disavventure delle aziende e sui modi per trasferire capitali dalle aziende fallite a società di comodo. Il Gruppo Ferrero era un affare di famiglia. Oltre a Massimo, Vanessa e al nipote Giorgio, ne faceva parte anche Laura Sini, ex moglie del Viperetta, anche lei indagata dalla Procura di Paola per bancarotta fraudolenta. Il procuratore Pierpaolo Bruni aveva chiesto per lei i domiciliari, negati dal gip. Da ieri, intanto, Massimo Ferrero è a San Vittore, a Milano, e domani sarà interrogato dal gip di Paola Rosamaria Mesiti. «Sto bene - le sue prime parole - anche se sono in cella. Ieri (lunedì, ndr ) mi sono arrabbiato con i finanzieri che non mi hanno concesso di andare nelle mia casa romana. Dicono che potrei fuggire. Una follia, ma dove potrei andare?». L'inchiesta ha fatto emergere, oltre al ginepraio di società costituite ad arte per frodare l'Erario e i creditori, lo scontro tra Ferrero e la figlia Vanessa. Nell'ordinanza si legge dell'aspirazione della donna di abbandonare l'ambito familiare per dedicarsi a un progetto cinematografico tutto suo, attraverso la società Freedom Pictures srl. Ne parla con un'amica, Ornella Morsilli, in una telefonata del 18 giugno 2021. «Innanzitutto voglio lavora' co professionisti me so' rotta il c..., di scacciacani da gente incompetente e da schifo, infatti colgo l'occasione per ripartire con la mia produzione, i miei film e scegliendomi la mia gente...». Poi Vanessa si lascia andare a uno sfogo: «Quando t' ho fatto quei discorsi di riiniziare, di rifare tutti quei miei propositi della vita, l'ho fatti sinceri e ho fatto in modo che tutto questo accadesse, ovviamente non ho un'idea del tempo nel senso che ho costituito una società, l'ho mantenuta in piedi co' tutti i casini e i disordini societari, mi ritrovo oggi finalmente a farla lavorare seriamente... perciò è una grande cosa mo' anche perché ho perso lo stipendio, ho perso tutto... stavo per perde' casa e se non riparto con le produzioni non mangio...». E in un altro passaggio aggiunge: «Io non c'ho manco i soldi per la spesa». È un fiume in piena la figlia del Viperetta e accusa il padre, unico punto di riferimento del Gruppo, con un «ruolo apicale» - scrive il gip - che non rivendica ma che gli viene riconosciuto da vari interlocutori. «Anche se è la mia famiglia io non me ce trovo... calcola, lui ha fatto pure una grande scorrettezza facendo lavorare i miei competitor... tipo la Pegasus» dice Vanessa. La donna parla con risentimento: «Io mi sono incaz... perché ho detto: perché non mi dai più lo stipendio, non mi aiuti neanche privatamente che sei pure il nonno delle miei figlie, non te rendi conto che sto a passa' una situazione del c... Te ne fotti...». Di Massimo Ferrero fa una descrizione anche il suo commercialista Gianluca Vidal, che, intercettato, ne parla come di «...un uomo con una propensione al rischio ed è comunque spregiudicato, pervicace e scaltro». Vanessa, nello sfogo dice però di «perdonare» il padre. «Io non sto a rimpiangere mancanza di affetto il fatto che mi chieda soldi, o mi metta nei guai, cioè io se tu ce pensi sto pagando tutto quello che riguarda lui... nonostante tutto mi sono trovata con ancora più difficoltà di lui che dà la colpa a me e non m' aiuta. Lui non ci sta più con la testa... adesso però siccome so che so' scelte mie ho capito, l'ho perdonato, mi sto allontanando. So comunque che lui non sarà mai riconoscente...». Vanessa scarica tutta la sua tensione nella telefonata del 21 giugno 2021, con un'altra amica, Adriana Salviato: «Secondo te io c'entro qualcosa in tutte le cose che sto facendo... tutte le cause... le denunce. Lui ha detto che è tutta colpa mia, pensa! Non ero manco nata che stavo a paga' i Tfr degli anni 70!». Ieri, intanto, è arrivata la motivazione del legale di Ferrero sulle sue dimissioni da presidente della Sampdoria: «Ferrero è stato costretto a dimettersi perché dal carcere, ovviamente, non può occuparsi di una società sportiva».

Da storiesport.it il 15 dicembre 2021. La revocatoria del “Rosan trust” dentro il quale sono custodite le azioni Sampdoria. L’azione di responsabilità del giudice delegato del tribunale fallimentare. L’ipotesi di concorso esterno in bancarotta. Rischi e inciampi aleggiavano, almeno da due anni: ora sono tornati a incombere, volano sempre più bassi, s’adagiano sul terreno. L’erba è diventata fango. A Genova, ma anche a Roma. È preoccupato. Molto preoccupato. Teso, come una corda di violino. Chi l’ha incrociato negli ultimi giorni lo descrive come terrorizzato. Fibrilla Gabriele Gravina nella stanza del palazzo di via Allegri a Roma, incrocia le dita e spera mentre a Milano Massimo Ferrero nel chiuso di una cella a San Vittore ha perso finanche il sonno e promette di scrivere un memoriale: sono ore affilate quelle che sta trascorrendo il presidente federale, preoccupato non tanto per l’arresto del presidente della Sampdoria quanto per gli sviluppi della vicenda, per la piega che potrebbero prendere le indagini e gli eventi se soltanto anche un occhio – quello della magistratura ordinaria ma anche quello della giustizia sportiva – si posasse nella metà campo Figc per valutarne atti, passaggi, eventuali profili di responsabilità. È preoccupato. Ancor più del caso plusvalenze e delle indagini della magistratura ordinaria sulle operazioni della Juve e di altri club, riemerso tra clamori dopo le dovute (tardive?) segnalazioni della Covisoc alla Procura federale solo dopo l’avvio indagine della Consob, fascicoli che ancora non sono sul tavolo di Chiné, vicenda commentata così dal presidente federale: «Il calcio fa bene al Paese. No a processi sommari, sono tre anni che lavoriamo su questo tema. La giustizia sportiva? Abbiamo bisogno di strumenti, aspettiamo prima quella ordinaria». È preoccupato, così preoccupato dalle vicende doriane tanto da andare in panne, letteralmente in tilt bruciando la decisione della Procura federale, anticipandone l’archiviazione del fascicolo “Suarez-Juve-Perugia”, «si è valutato e si è giunti a decisione, per la prima parte di quell’inchiesta non ci sono stati elementi per procedere: si va verso l’archiviazione»: così, proprio così, calpestando così il dettato dell’art. 28 (autonomia, terzietà e riservatezza degli organi di giustizia federale), un’indebita invasione di campo che non ha trovato ufficialmente argine in atti e parole del procuratore capo Giuseppe Chiné. Indotto poi dalla Federcalcio e dall’ufficio giuridico di via Allegri – lì dove dirige il traffico l’avvocato Giancarlo Viglione – costretto a rispondere via mail con un’insolita auto-intervista all’interno di una nota (tre domande, tre risposte) ai rilievi sottolineati nella puntata del 6 dicembre di Report (redazione invitata a rettifica, leggi qui) anche sui presunti ritardi nell’azione della Procura federale sul caso plusvalenze. «Gravina deve fare le riforme, qui mi sembra di stare su Scherzi a parte»: disse proprio così Massimo Ferrero nel giorno della prima elezione di Gravina al soglio federale. Era autunno 2018: tre anni sono trascorsi, tante vicende non fanno nemmeno più sorridere. Altro che scherzi a parte. Tempo ne è passato, l’inverno ormai alle porte ha ghiacciato le emozioni, le vittorie estive. Gli abbracci e i sorrisi. Ricordi lontani. Come il trionfo della Nazionale a Wembley: Gravina campione d’Europa e il pallone tricolore che finalmente poteva passare all’incasso per non sgonfiarsi. Fiato alle trombe, invece. Era luglio, in tribuna a Londra c’era pure Ferrero con tutta la famiglia, tra gli invitati d’onore proprio della Figc, uno degli invitati scelti e selezionati perché non a tutti i dirigenti di club era stato regalato l’invito. A proposito di regali. Un mese prima Gravina aveva finanche accolto la richiesta congiunta della Sampdoria e della Florentia San Gimignano, attribuendo al club doriano il titolo sportivo di serie A femminile e svincolando (non senza veleni) tutte le calciatrici del club toscano: un completamento della gamma, così fu definita l’operazione (passata sotto silenzio) in quei giorni proprio mentre negli stessi giorni la Samp, inscatolata in un trust a garanzia dei creditori di due società della galassia Ferrero, staccava un altro tagliando d’iscrizione superando i rigidi paletti fissati per l’ottenimento della licenza nazionale e sempre proprio in quei giorni le procedure al tribunale di Roma per le società Eleven Finance e Farvem (il valore dell’alienazione delle quote societarie della Samp confluite nel “Rosan trust”, fissato con un plafond minimo di 33 milioni di euro, a garanzia e come argine per evitare il tracollo) ballavano, tra richieste di fallimento, parere del comitato creditori, omologhe e ipotesi di ammissione a concordati. Un piano inclinato, azzardato. La traballante posizione della Samp, del trust, della Figc. Vicenda cristallizzata, descritta il 4 di giugno con un titolo eloquente: “La Samp balla ancora il trust, valzer Ferrero e liscio Gravina”. Eppure rassicurazioni, silenzi. Persino distinzioni, proprio mentre in quei giorni curiosamente un altro club di serie A – la Salernitana di Lotito e Mezzaroma – finiva inscatolato dentro un trust, un’altra operazione autorizzata dalla Figc. “Sono due cose diverse” era questo il refrain. Eppure lo strumento giuridico era lo stesso, validato all’epoca – era quasi la fine del 2020, il trustee Gianluca Vidal tre mesi prima della costituzione del Rosan Trust entrava nel cda della Sampdoria – da una commissione ad hoc della federazione. Adesso spifferi di corridoio da via Allegri suggeriscono che quella commissione sarebbe stata allargata nel numero dei componenti proprio prima di autorizzare il via libera al trust di Ferrero e proprio mentre erano in corso le procedure fallimentari delle due società della galassia “Holding Max” dentro cui c’era (e c’è ancora) la società “Sport e Spettacolo” che detiene il 99,96% delle quote dell’Unione Calcio Sampdoria (eppure quello 0,4% forse vale molto più dell’insignificante percentuale), Holding Max le cui azioni sono divise tra Vanessa e Giorgio Ferrero e la società (schermata) Pkb servizi fiduciari, Holding Max dentro cui c’erano (e ci sono ancora) anche Eleven Finance e Farvem. Un complicato reticolo, un tessuto intrecciato. Uno scudo, la Sampdoria. Forse anche uno strumento, come sembra emergere dalle intercettazioni telefoniche pubblicate nell’ordinanza emessa dal Tribunale di Paola che ha portato all’arresto di Ferrero. È di 342 pagine il decreto che ha ad oggetto quattro società “calabresi” del presidente della Sampdoria. Lui considerato “amministratore di fatto”, accusato “di plurime e gravi condotte delittuose” in relazione alle attività di quattro società dichiarate fallite nel 2017. E mentre dal mondo pallonaro e non solo si levava un coro di sorpresa e stupore (possibile? Sì, possibile che nessuno in questi anni avesse mai compreso, eppure anche la vicenda Livingstone avrebbe dovuto accendere quantomeno domande sui requisiti di onorabilità, patrimonialità etc. etc. chiesti da Lega e Figc per partecipare al consesso pallonaro) ecco a fare da controcanto un altro coro. “La Sampdoria non c’entra”. Lo ribadiva in una nota il club, lo dicevano due avvocati di Ferrero tra cui Luca Ponti, che è pure però il “guardiano” del Rosan Trust le cui quote sono intestate al commercialista Gianluca Vidal (sempre presente alle riunioni in Lega e alle votazioni, ma da domani chi rappresenterà il club anche in via Rosellini a Milano?): anche lui subito ad affrettarsi, «la Sampdoria non c’entra nulla, nulla rischia». Lo ribadiva, rammaricato, lo stesso Ferrero annunciando la propria fuoriuscita. Non una parola ufficiale dalla Figc, non un commento, pure laconico, di Gravina che in questi giorni – plusvalenze, caso Suarez, sospensioni versamenti Irpef – non ha mai fatto mancare la propria voce mentre all’improvviso, come dal nulla, una serie di voci sulla cessione delle quote della Samp ha ripreso prepotentemente piede. Una, due, addirittura cinque offerte: un’agenda piena di nomi e ipotesi, alcune fresche, altre datate, un farsesco refrain che accompagna la Sampdoria di Ferrero da almeno quattro anni. Un’accelerazione improvvisa, invece. Come se il terreno fosse sgombro, senza un reticolo di procedure, pendenze. «Per la vicenda concordataria siamo in attesa della decisione del tribunale. Oggi interessa mantenere la continuità aziendale della Sampdoria. Posso solo confermare che c’è stata un’accelerazione sul versante della vendita del club con la ricezione di manifestazioni d’interesse di più soggetti, che sto quotando»: così l’esperto in crisi e ristrutturazioni aziendali Gianluca Vidal appena due giorni dopo l’arresto di Ferrero. Il commercialista veneto entrato nel cda della Sampdoria nell’estate del 2020. Il proprietario legale delle quote della Sampdoria confluita nel Rosan Trust a novembre 2020. Sempre presente alle riunioni in Lega a Milano, esperto sempre più ascoltato in via Allegri, a stretto contatto con il consigliere giuridico Giancarlo Viglione, il braccio destro (e sinistro) del presidente federale. Quel Gianluca Vidal che nelle intercettazioni inserite nel decreto della Procura della Repubblica di Paola, esclama: “Ahi, adesso ho capito perché sta cercando di prendere i soldi della Sampdoria”. Il tempo è prezioso, adesso che la luce dei riflettori s’è accesa bisogna fare presto. Gianluca Vidal prova ad accelerare la procedura di alienazione delle quote. «Ci vogliono cinque mesi per cedere il club», ha detto, provando poi a rassicurare su eventuali rischi. «Nei due concordati, a diverso titolo, sono state promesse delle somme che dovrebbero essere versate entro trenta mesi. Ovviamente se questi venissero omologati. Ma in caso di non omologa il trust non si scioglierebbe ma potrebbe proporre un concordato fallimentare per arrivare alla chiusura del fallimento». Prova a tenere le carte in mano, proprio in giorni decisivi per il futuro delle procedure relative a Farvem ed Eleven Finance, le due società per cui la Sampdoria è stata data a garanzia. Tutto bloccato, tutto ogni giorno più complicato. Invece di sciogliersi, la matassa si ingarbuglia. Oggi  a Roma era fissata l’udienza dei creditori sulla proposta di concordato per evitare il fallimento di Farvem: è saltata, rinviata a data da destinarsi, probabile che la sezione fallimentare del Tribunale di Roma voglia prima pronunciarsi sull’opposizione fatta da Hoist ancora in pendenza nel procedimento concordatario relativo ad Eleven Finance. In caso di bocciatura, unitamente a quella per l’altra società, il giudice delegato potrebbe invece decretare anche la morte del “Rosan trust”, azionare la revocatoria, promuovere l’azione di responsabilità e procedere, dopo il fallimento, per bancarotta fraudolenta: un procedimento nel quale rischierebbe di finirci dentro non solo la famiglia Ferrero, non solo il commercialista Vidal e altri ma anche la Figc con l’ipotesi di concorso esterno in bancarotta. Un’ipotesi da brividi. Che metterebbe spalle al muro i vertici federali. Altro che plusvalenze, altro che caso Suarez. Magari è questo il pensiero che toglie il sonno: Gabriele Gravina a Viglione ha subito chiesto il report sulla situazione, vuole essere aggiornato minuto dopo minuto. Dall’ufficio giuridico e dalla specifica commissione aveva ricevuto garanzie. E invece…

Invece adesso attende risposte. Bisogna incrociare le dita. E sperare. Sperare che la buriana passi in fretta, che si arrivi a una conclusione che renda felici i tifosi della Sampdoria, ormai liberatisi di Ferrero e pronti ad abbracciare una nuova proprietà. Poi magari tutto si sistemerà. Un bel respiro, un respiro bello e profondo lo farebbe la federazione. E il capo della federazione. Lo raccontano preoccupato. Terrorizzato. A differenza di molti, è probabile che Gravina le abbia lette tutte quelle 342 pagine. Che non si sia fermato a quel coro rassicurante, “la Samp non c’entra nulla”, che non abbia dato peso a quell’unico rilievo, “il solo riferimento alla Sampdoria sta in quella frase del commercialista, ahi, ora ho capito perché sta cercando di prendere i soldi della Samp”. Frase pronunciata il 18 novembre del 2020 dal trustee Gianluca Vidal (il Rosan Trust viene costituito il 13 novembre 2020 in uno studio notarile di Mestre) in una conversazione telefonica con Andrea Diamanti, manager di fiducia del gruppo Ferrero. L’argomento sono le somme di denaro che dovrebbero “tacitare” le situazioni della quattro società “calabresi”. Diamanti parla di due versamenti da 125mila euro (per Blu cinematografica e Bluline) e un termine di pagamento al 2 dicembre 2020 “…che Ferrero si è impegnato a fare”. “Ahi, ora ho capito perché sta cercando di prendere i soldi della Samp”, risponde Vidal. L’eventuale conferma della distrazione di quelle somme potrebbe “accendere” l’interesse della Procura Federale e del procuratore capo Giuseppe Chiné che però intanto come da copione non ha ancora aperto un fascicolo. Non solo dunque l’occhio della magistratura ordinaria che potrebbe anche indagare, provare a capire se la costituzione del “Rosan Trust” possa essere considerata come un’altra spericolata manovra di Ferrero, condotta magari simile o assimilabile a quelle utilizzate nella vicenda calabrese per evitare il baratro. 

La Sampdoria (utlizzata come un bancomat da Ferrero, nove sarebbero i milioni di euro prelevati nel corso di questi anni sotto la voce di compensi e altro da Viperetta e tra l’altro una delle sue società, la Eleven Finance che è una delle due società a rischio fallimento, fu individuata come general contractor per i lavori al centro sportivo di Bogliasco con compiti di “coordinamento e gestione delle attività di finanziamento, progettazione, attuazione e sviluppo dell’iniziativa immobiliare”, attività lautamente remunerata con un compenso da 1,1 milioni pagato da Corte Lambruschini, attraverso la holding Sport Spettacolo, all’altra società di Ferrero, quella che detiene le quote della Samp) – in base alle norme sulle responsabilità oggettiva previste dal codice di giustizia sportiva – rischierebbe un deferimento con conseguenze che andrebbero da sanzioni economiche a penalizzazioni se venisse accertata la distrazione di somme e bonifici partiti dalle casse del club doriano per “suturare” ferite di altre società riferibili allo stesso proprietario.

Non solo: considerata già l’elevata massa debitoria della società a giugno 2021, rilevati i principi e i valori necessari all’ottenimento della licenza nazionale e valutata la “funzionalità” del Rosan Trust, le domande potrebbero diventare altre. La Sampdoria poteva essere iscritta al campionato? Era al 28 giugno dentro i rigidi paletti fissati dalla Figc? La Covisoc era al corrente? Il consiglio federale ha responsabilità? Ne ha il suo presidente? È stata mai chiesta una relazione al giudice che ha in mano i fascicoli delle società Farvem ed Eleven Finance? E il comitato dei creditori? Domande che restano appese, insieme ad altri passaggi. Perché non è mica vero che nelle 342 pagine dell’ordinanza del gip della Procura di Paola la situazione della Sampdoria e la funzione del “Rosan Trust” compaiano di sfuggita, e solo in una riga. No, non è così. Ad esempio, a pagina 255 è registrata una conversazione telefonica del 9 novembre 2020 tra Vanessa Ferrero e Francesco Cocola.

Gli inquirenti scrivono: “Per meglio comprendere il contesto bisogna fare una doverosa premessa. La compagine sociale della Holding Max detiene il 100% del capitale sociale della “Sport Spettacolo Holding”, società amministrata da Ferrero e che a sua volta detiene il 99,96% della Sampdoria il cui presidente del Consiglio d’amministrazione è Massimo Ferrero. In questo periodo i consulenti che gravitano intorno al gruppo Ferrero, sia gli advisor legali avvocati Ponti e Spadetto che quello fiscale – Vidal Gianluca, insieme al factotum Diamanti Andrea – stanno predisponendo un’operazione con cui l’asset Sampdoria verrà ceduto ad un trust, al fine di tutelarne l’eventuale vendita. Per tale motivo Vanessa Ferrero dovrà partecipare ad una assemblea dei soci della Holding Max nel corso della quale l’amministratore unico Giorgio Ferrero verrà incaricato di costruire il trust e di farvi confluire la partecipazione totalitaria della Sport Spettacolo Holding che ha la proprietà della Sampdoria. Tutta l’operazione ha come scopo quello di mettere in sicurezza l’unico asset di valore del gruppo al fine di renderne più agevole la vendita e salvaguardarlo dall’eventuale aggressione dei creditori. A conferma di tale assunto l’interlocutore di Vanessa Ferrero, afferma: Scusa, ma in sicurezza rispetto ai deb…ai creditori, è bancarotta. Non è che ha un altro nome, eh! Ed aggiunge: Se zompa la Holding andate tutti in galera, ma veramente eh!”.

Gianluca Vidal è il commercialista di Ferrero. È entrato nel cda della Sampdoria scalando le gerarchie fino a diventarne quasi il dominus nelle scelte finanziarie sostituendo l’avvocato romano Antonio Romei, defenestrato nel 2019 da Ferrero e diventato il suo nemico giurato, accusato di scelte e disastri. Gianluca Vidal è il trustee del Rosan Trust che detiene le quote della Sampdoria. Il Rosan Trust ha una durata massima per rispondere allo scopo (può decadere prima se non risponde in tutto o in parte allo scopo o se non può più rispondere allo scopo) stabilita al 18 novembre 2025 e un plafond di 33 milioni di euro che sarebbe il valore minimo dato alla società blucerchiata per garantire i creditori delle società (Farvem e Eleven Finance) della galassia Ferrero finite in crack. È un intreccio geografico e finanziario nato con lo scopo di “giungere alla cessione sul mercato e utilizzarne il prezzo incassato in primis per estinguere ogni debito di Holding Max e con il residuo garantire, con un apporto di finanza esterna, le procedure concordatarie”: così si legge nel verbale di costituzione. Nell’ordinanza del gip del tribunale di Paola alle pagine 267 e 268 ricompaiono ancora Vidal, la Sampdoria, il trust. La telefonata è del 3 giugno 2021, tutte le società professionistiche sono alle prese con scadenze e impegni da onorare per ottenere la licenza nazionale mentre al tribunale di Roma il giudice delegato è davanti ad un bivio per le società Farvem ed Eleven Finance: ammissione al concordato o fallimento?

Vanessa Ferrero intanto chiama Gianluca Vidal, che dice: “…con l’adunanza dei creditori si va a definire sostanzialmente il termine entro il quale noi andiamo ad accendere il voto e a vedere come muoverci col voto e a quel punto…possiamo vedere se riusciamo, lì bisogna arrivare in sede di voto e aver necessariamente negoziato con gli amici, per modo di dire, di Hoist, perché questi…questi qui altrimenti ci fanno fallire, matematico, perché hanno già detto in sede di discussione per il credito che io sto cercando di trattare dall’altra parte hanno detto a chi avevo mandato avanti, a un avvocato che avevo mandato avanti, che loro non hanno nessuna intenzione di cedere, a nessuno che nasconda o che abbia dietro Ferrero…”.

Vanessa Ferrero: “..ma poi tu quindi vorresti perdurare l’accordo dei 33 che abbiamo?”. Vidal: “No, non c’era nessun accordo dei 33, l’accordo dei 33 è scaduto un anno e mezzo fa, oggi se dovessimo dargli i soldi sulla base dell’accordo attuale saremmo a 42, 43… io vorrei dargliene 30 sostanzialmente, 29 e 50, stiamo trattando da un mese. Bisogna vedere cosa riusciamo a fare, naturalmente noi non è che ci abbiamo questi soldi, non abbiamo neanche un euro, ma abbiamo un soggetto che a quel punto si comprerebbe i crediti per poi vendere gli immobili…”. Vanessa Ferrero: “…tenersi l’Adriano sarebbe un sogno”. 

Vidal: “…dobbiamo riuscire a pagare le somme concordatarie in misura tale che ci consentano di avere il voto e oggi la vera verità è che quella porcheria che al tempo hanno fatto e anche lì…purtroppo c’è un mea culpa serio perché l’ha fatta Romei questa roba, però Romei è stato autorizzato, è stato spinto e quindi ci ritroviamo tra i coglioni questi qui di Hoist che sono incattiviti con noi…Andiamo avanti, avevamo tutti contro, il Tribunale, l’agenzia delle Entrate”. Vanessa Ferrero: “…ma papà per quello che concerne invece la Sampdoria lui nun ce pensa proprio, potrebbe continuare a tenerla andando avanti”. Vidal: “Ascolta, questi qui sono sogni.

Massimo va avanti a sogni dopodichè ci ha culo e tuo padre ci ha un culo micidiale devo dire che è una persona veramente fortunata e quindi magari realizzerà anche questo, allora il tema è che il Tribunale ha voluto la dichiarazione che noi la Sampdoria la mettiamo in vendita, perché altrimenti… se lui trovasse qualcuno che dà 33 milioni e li mette sul banco lui salverebbe la Sampdoria quindi potrebbe al limite trovare qualcuno a cui vendere una quota importante, il 50% o una cosa del genere, forse potrebbe essere una soluzione per tenere capra e cavoli, potrebbe essere, va bene?”. 

Due mesi prima (14 aprile 2021) Massimo Ferrero era convinto che tutto stesse finalmente andando a posto, che il debito nei confronti di Hoist sarebbe stato regolato, evitando così il fallimento di Farvem ed Eleven Finance, società per le quali aveva fatto confluire la Samp in un trust. Nella telefonata con Andrea Diamanti parla anche della Deloitte, la società di revisione e certificazione che si occupa anche delle società di calcio su cui la Covisoc fa dipendere le decisioni.

“Abbiamo un mandato irrevocabile di una persona amica mia, ricchissima… ce l’ha Vidal in mano, abbiamo firmato ieri…già è firmata, già è pronta, già abbiamo chiamato la Deloitte… già stiamo facendo una 106 perché non voglio che figuri Vidal, Vidal gli ho fatto dare 50mila euro per le spese per far vedere che non è mio…abbiamo già chiamato Antonio che ci ha dato il nome della signora di Deloitte che ci ha in mano la roba di Hoist…l’abbiamo fatta alle undici e siamo andati a vedere…io e Vidal a magnà…a ubriacasse con… è già firmata, è irrevocabile”.

Operazione di acquisto dei crediti in sofferenza poi non andata a buon fine, con Hoist è rimasto aperto il contenzioso. Otto mesi dopo tutto è ancora aperto. Massimo Ferrero è in carcere, si è lamentato perché alcuni amici non gli hanno manifestato vicinanza, promette di scrivere un libro. La magistratura continua nelle indagini mentre quella sportiva attende notizie. Il trustee Vidal prova a cedere le quote della Sampdoria, prova a forzare i tempi per evitare intoppi, blocchi e inciampi, prova a rassicurare, tiene aperto un canale con la Figc che gli chiede conto delle mosse. 

I tifosi doriani giustamente sono in trepidante attesa: dopo essersi liberati di Ferrero attendono un nuovo acquirente e la sicurezza che il club non possa incorrere in deferimenti e penalizzazioni. Il giudice delegato del tribunale di Roma deve decidere le sorti di Farvem ed Eleven Finance, dalla sua decisione dipendono anche le sorti del Rosan Trust, della Sampdoria, persino della Figc.

Concordato, o fallimento? Revocatoria? Azione di responsabilità? Concorso esterno in bancarotta? Domande affilate e pesanti, come le ore che sta trascorrendo Gabriele Gravina. Preoccupato, lo raccontano come terrorizzato. Non bastavano le plusvalenze, il caso Suarez, i ripetuti dinieghi del Governo Draghi sugli aiuti richiesti. Per il presidente della Figc non sarà un Natale con i fiocchi. Si aspettava regali e qualche coro di ringraziamenti, rischia di ascoltare qualche richiesta di chiarimenti. E di dimissioni.

Da ilnapolista.it il 10 dicembre 2021. L’ex presidente della Sampdoria Massimo Ferrero non si è lasciato deprimere dal carcere. Lo racconta la Gazzetta dello sport. Neppure la prigione lo ha incupito. (…) Anche in un ambiente così particolare non ha perso il buonumore, né il consueto gusto per la battuta diventando in brevissimo tempo il beniamino di guardie e detenuti. Occupa da solo una delle nove celle (da due posti) del primo piano: un ambiente spartano, sette metri quadrati, con una brandina, un lavandino, il bagno e un piccolo televisore, anche se stasera non potrà vedere il derby di Genova in diretta. Lunedì scorso, evidentemente impreparato alla detenzione e senza ricambi di vestiario, gli è stato confezionato e consegnato in fretta un pacco con una tuta e alcune magliette blucerchiate, che sono diventate la sua divisa nel reparto. Ha chiesto di verificare le esigenze quotidiane della moglie Manuela e dei loro due figli piccoli, attualmente a Roma nella casa di famiglia, poiché nella capitale i bambini frequentano l’asilo e la scuola elementare. Sono loro, oggi, la sua principale preoccupazione.

Il messaggio di Mihajlovic a Ferrero: Amico mio, ti sono vicino. E verrò a trovarti». Nel prepartita Torino-Bologna, parole d’affetto per il presidente della Sampdoria. E un consiglio a Zaki: «Basta scrivere il tuo dissenso, finchè non torni qui». Alessandro Mossini su Il Corriere della Sera l'11 dicembre 2021. «Sono davvero dispiaciuto per il mio amico Massimo Ferrero, a cui sto molto vicino». Nel prepartita di Torino-Bologna, il tecnico rossoblù Sinisa Mihajlovic manda un messaggio al presidente della Sampdoria, che fu suo datore di lavoro dal 2013 al 2015 ma che è soprattutto suo grande amico. Ferrero è nel carcere di San Vittore a Milano e Mihajlovic cercherà di fargli visita: «Se possibile, cercherò sicuramente di andare a trovarlo. Lui con me è stato meraviglioso nei giorni della mia malattia e non lo dimentico. Mi dispiace molto per quello che sta passando». Da una prigionia all’altra, per fortuna terminata: quella di Patrick Zaki in Egitto. Storie diversissime tra loro, ovviamente. Ma nei giorni in cui Zaki è stato liberato, Mihajlovic parla anche dello studente dell’Università di Bologna, che ha espresso a più riprese il suo tifo per i rossoblù: «Lo abbiamo invitato allo stadio e a un nostro allenamento a Casteldebole, quando tornerà in Italia. Il Bologna ha sempre fatto qualcosa per la sua situazione. Due anni in carcere per aver espresso idee di dissenso? Mi sembra esagerato, non si faceva neanche ai tempi di Tito. Speriamo non scriva più, almeno finché non torna in Italia». 

Scontro diretto

Quanto alla partita che attende il Bologna domenica alle 12.30 sul campo del Torino, i rossoblù recuperano l’infortunato Arnautovic. “Ci sarà, per noi è un giocatore fondamentale perché protegge palla e ci fa salire”. Una buona notizia per Mihajlovic, fin qui sconfitto due volte su due senza l’austriaco. «E’ uno scontro diretto - spiega il serbo - perché la rosa del Torino per valori è simile e potrebbe anche essere superiore alla nostra. Tolte le prime sette c’è la Fiorentina, poi nei posti successivi ci siamo noi, il Torino e il Sassuolo come valori. Contro la Fiorentina abbiamo perso, ma non abbiamo smarrito la strada: veniamo da una settimana di grandi allenamenti, mi sono complimentato con i giocatori ed è un buon viatico per una gara che si preannuncia tosta e difficile».

Da ilnapolista.it l'11 dicembre 2021. La Süddeutsche Zeitung sbatte Massimo Ferrero in prima pagina, o meglio in homepage. Una sua foto sparata e il titolo: “compra il mondo senza un soldo”. È un po’ l’immagine del calcio italiano. Infatti l’articolo della Süddeutsche comincia così: “Ci sono personaggi che esistono solo in Italia. Figure dell’eterna commedia dell’arte, strepitosi funamboli sull’abisso. La dirigenza del calcio italiano in particolare è sempre stata piena di avventori, ebbri degli applausi dei tifosi, barcollanti tra megalomania e satira vera e propria. Ricordiamo solo Silvio Berlusconi. Ma ora stanno lasciando, uno dopo l’altro, per far posto a investitori dall’estero. Alcuni camminano in silenzio, altri rumorosi e senza gloria. L’imprenditore cinematografico e cinematografico romano Massimo Ferrero, 70 anni, fino a poco tempo proprietario e presidente della Sampdoria Genova, è stato arrestato pochi giorni fa. A causa di bancarotta fraudolenta, falsificazione di conti in alcune delle sue società. I pm inquirenti si sono rifiutati di concedergli gli arresti domiciliari perché, secondo il tribunale, l’imputato era troppo “furbo e furbo”. Il quotidiano tedesco scrive che a Ferrero ha dovuto arrendersi anche il comico Maurizio Crozza: “perché l’originale era troppo bello”. Di Ferrero scrive che “difficilmente pronuncia una frase senza aggettivi anatomici”. Scrive che “forse la Sampdoria è stata la migliore impresa di sempre di Ferrero. Tutto il resto è fallito. La compagnia aerea Livingston Energy Flight, che aveva acquistato per far volare il maggior numero possibile di italiani su voli charter verso i Caraibi, fallì presto. Solo due dei suoi cinema a Roma sono ancora aperti”. Per altri, il vento sta soffiando di nuovo foglie autunnali sotto le porte di vetro nelle casse polverose. “Naturalmente, ci si potrebbe chiedere perché sia riuscito a farla franca così a lungo, nonostante tutti le evidenze. Le persone in Italia sono sempre state un po’ più generose con i potenti del mondo del calcio”.

L’arresto di Massimo Ferrero è diventato un orrendo show: diffuse anche le foto segnaletiche. Luisa Perri giovedì 9 Dicembre 2021 su Il Secolo d'Italia. L’arresto del presidente della Sampdoria, Massimo Ferrero come uno show mediatico, dove la presunzione d’innocenza e il garantismo vanno a farsi benedire. Una situazione mediatica aberrante dove sono saltate tutte le regole. Intercettazioni private pubblicate senza reticenza, addirittura le foto segnaletiche, che ormai non vengono pubblicate neanche per l’arresto di latitanti internazionali o autori di crimini efferati. Come scrive Piero Sansonetti sul Riformista, Massimo Ferrero – detto er Viperetta – ha più di 70 anni. È accusato di avere commesso alcuni reati finanziari circa 10 anni fa. “La giustizia con l’arresto di Massimo Ferrero non c’entra un fico secco: er Viperetta in carcere solo per show”. “Non so nulla della vicenda giudiziaria che riguarda Massimo Ferrero ma chiedo: perché le foto segnaletiche dell’arresto sono in rete? Perché dolorose intercettazioni coi familiari sono sui giornali? Perché questa barbarie della pena prima del processo in Italia non ha mai fine?”. Lo domanda su Twitter Luciano Nobili, deputato di Italia Viva. Davanti al giudice delle indagini preliminari di Paola, Rosamaria Mesiti, l’ex presidente della Sampdoria, in carcere a San Vittore da lunedì con l’accusa di bancarotta fraudolenta e false comunicazioni sociali, non risponderà all’interrogatorio di garanzia. «Non abbiamo potuto vedere il fascicolo» dice l’avvocatessa Pina Tenga, che difende Ferrero. «Stiamo ancora aspettando le copie del fascicolo, non so quando ci arriveranno, non so se oggi. Se anche le ricevessi, non potrei certo leggerle in un quarto d’ora. Dunque vedremo oggi formalmente alle 13.30, ora in cui è fissato l’interrogatorio di garanzia, ma direi che posso confermare che il presidente Ferrero si avvarrà della facoltà di non rispondere». Così all’AdnKronos l’avvocato Luca Ponti, uno dei legali del presidente della Sampdoria Massimo Ferrero, arrestato per bancarotta nell’ambito di un’inchiesta della procura di Paola (Cs) e recluso a San Vittore. “Ieri ho visto il presidente – aggiunge il legale -, conviene con me che in questo momento è opportuno fare un passo indietro, separare le vicende della Sampdoria dalle sue vicende giudiziarie e da quelle della sua famiglia. La Sampdoria verrà gestita al meglio per raggiungere i suoi obiettivi e tutto il resto della famiglia cercherà di chiarire questa posizione processuale”. Una vicenda processuale “sul passato”, chiosa l’avvocato Ponti, “che non ha collegamenti con la Sampdoria e vogliamo evitare che ci siano anche in termini mediatici”.

La giustizia con l’arresto di Massimo Ferrero non c’entra un fico secco: er Viperetta in carcere solo per show. Piero Sansonetti su Il Riformista l'8 Dicembre 2021. Massimo Ferrero – detto er Viperetta – ha più di 70 anni. Massimo Ferrero – detto il Viperetta – è accusato di avere commesso alcuni reati finanziari circa 10 anni fa. Massimo Ferrero – detto er Viperetta – non ha nessuna possibilità di nascondere le prove eventuali dei reati dei quali è accusato. Massimo Ferrero – detto er Viperetta – non ha nessuna possibilità di far fallire nuovamente aziende già fallite da dieci anni, e dunque di reiterare il reato. Infine sono vicine allo zero le possibilità che Massimo Ferrero – detto er Viperetta – possa fuggire all’estero per sottrarsi alla giustizia. Siccome la legge sconsiglia il carcere per le persone che hanno più di settant’anni (salvo situazioni particolarissime di pericolo), e siccome la legge dice che si può ricorrere alla custodia cautelare in carcere solo come extrema ratio e solo se c’è pericolo di fuga, o di reiterazione o di inquinamento delle prove – e siccome tutte queste condizioni eccezionali non ci sono nel caso di Massimo Ferrero – detto er Viperetta – qual è la ragione del suo arresto spettacolare, avvenuto l’altra notte? Probabilmente sta proprio nel fatto che è detto “er Viperetta”. È detto er Viperetta perché è molto famoso, è il presidente di una squadra di calcio di serie A, è un personaggio spettacolare e molto conosciuto dalle Tv e dai giornali, e perciò il suo arresto – l’arresto del Viperetta – crea molto clamore e visibilità. Fa spettacolo. Tutto qui. La giustizia non c’entra niente. Un fico secco. Non c’era nessuna ragione di giustizia per arrestare Massimo Ferrero, che oltretutto non era l’amministratore delle società fallite. Esisteva solo una esigenza di spettacolo. In molte Procure oggi l’esigenza di spettacolo è la più importante. Molti magistrati (ridimensioniamo: alcuni magistrati) giungono a teorizzare questa esigenza. Dicono che la giustizia è fatta di diritto, sì, ma anche e soprattutto di comunicazione. Perché solo con la comunicazione – e dunque con lo spettacolo – si influenza (si educa) l’opinione pubblica e si costruisce una barriera sociale contro l’illegalità. Molti magistrati pensano che la missione del magistrato sia essenzialmente quella di educare. Il problema è che spesso le esigenze di spettacolo giudiziario – come in questo caso – sono in contrasto aperto con la legge. Chi può fermare queste iniziative? Nessuno, perché chiunque proponga di porre sotto un controllo democratico lo strapotere dei Pm e dei Gip – come avviene nella maggior parte dei paesi civili – viene accusato di essere un nemico della Costituzione. La Costituzione non dice in nessun suo articolo che lo strapotere di Pm e Gip debba restare assoluto e insindacabile, e che possa superare la legge, il buonsenso, la ragione, lo spirito dell’umanità. ma se fai notare questo ti rispondono: c’è l’articolo 104 e l’articolo 104 dà al magistrato la “licenza di uccidere”. Quindi nessuno può fermare dei magistrati che abusano del carcere? Potrebbe, forse, il Csm. Ma il Csm è stato costruito su uno schema dominato dalle correnti e dai veti incrociati, in modo da non poter mai sindacare sull’attività dei singoli magistrati (tranne Palamara). Il Csm considera per principio come eccellente il lavoro di tutti i magistrati. A questo punto è la notte.

Piero Sansonetti. Giornalista professionista dal 1979, ha lavorato per quasi 30 anni all'Unità di cui è stato vicedirettore e poi condirettore. Direttore di Liberazione dal 2004 al 2009, poi di Calabria Ora dal 2010 al 2013, nel 2016 passa a Il Dubbio per poi approdare alla direzione de Il Riformista tornato in edicola il 29 ottobre 2019.

Le dimissioni dalla presidenza della Sampdoria. Arresto show per Massimo Ferrero, ma l’inchiesta è vecchia di 10 anni: “Trattato peggio di Riina”. Frank Cimini su Il Riformista il 7 Dicembre 2021. «L’hanno trattato peggio di Totò Riina». Con queste parole l’avvocato Pina Tenga sintetizza la notizia del giorno, aggiungendo di aver presentato apposita istanza affinché il suo assistito venga trasferito dal carcere di San Vittore a Roma per poter assistere alla perquisizione disposta dai magistrati di Cosenza. Il suo assistito si chiama Massimo Ferrero ed era fino a poche ore fa il presidente della Sampdoria, società che non c’entra nulla con la vicenda dell’arresto dal punto di vista tecnico-giudiziario ma che in realtà spiega tante cose. Ferrero è accusato in sostanza di bancarotta fraudolenta, un reato di tipo documentale in relazione al fallimento di società dei settori turistico e cinematografico avvenuto anni fa. Stiamo parlando di un’inchiesta alla vigilia della chiusura e di un arresto di carattere mediatico: da cinema, tanto per restare in tema alle manette scattate ai polsi di uno dei personaggi del pianeta calcio dalla battuta sempre pronta. Ferrero è finito in carcere mentre la figlia Vanessa, sospettata di aver sottratto tra il 2011 e il 2012 una somma di 740 mila euro dalle casse societarie, è agli arresti domiciliari insieme alla nipote dell’imprenditore, all’autista e ad altre due persone. Gli indagati sono in tutto nove per fatti che risalgono in pratica a una decina di anni fa. Una delle società coinvolte, la “Ellemme group srl”, secondo i magistrati si sarebbe accollata complessivamente un debito di oltre un milione e 200 mila euro che diverse aziende del gruppo avevano verso Rai Cinema Spa, «rinunciando così a incassare i crediti dalla stessa vantati nei confronti di Rai Cinema senza richiedere alcuna controprestazione e senza pattuire interessi corrispettivi». La mossa, si legge nelle carte dell’accusa, «cagionava il dissesto della società Ellemme Group srl». Tre sono i capi di imputazione che ricostruiscono la vicenda. L’amministratore unico della “Ellemme srl” risulta essere Vanessa Ferrero ma il presidente della Sampdoria, sostiene la Procura, sarebbe l’amministratore di fatto. Lo stesso Ferrero risulta essere stato nel corso degli anni amministratore unico della “Global Media srl”, presidente del Cda di “Mediasport spa” e amministratore unico di “Mediasport Cinema srl”, mentre la figlia risulta essere stata anche amministratore unico della “Ferrero Cinema srl”. La “Ellemme” si sarebbe accollata un debito di 806 mila euro che altre società del gruppo avevano verso Rai Cinema. In un altro capo di imputazione per “Ellemme” il debito risulta di 209 mila euro. L’avvocato Luca Ponti aggiunge che l’arresto stupisce e che Ferrero era ed è a disposizione per chiarire i fatti dopo aver già avviato alcune transazioni accantonando delle somme a favore delle procedure al fine di coprire il fabbisogno. Massimo Ferrero si è dimesso da presidente della Sampdoria calcio «per tutelare al meglio gli interessi delle altre attività in cui opera e in particolare isolare ogni pretestuosa speculazione di incidenza rispetto alla Sampdoria e al mondo del calcio». Questo dice il comunicato della Samp, preannunciando in pratica un obiettivo impossibile da raggiungere. Il presidente del Coni Giovanni Malagò afferma di non poter commentare la vicenda. «Che volete che dica?», taglia corto con i cronisti. “Se so bevuti er viperetta” titola con la consueta efficacia Dagospia. Frank Cimini

Crack Ferrero, gli "amici" colletti bianchi tirrenici e il giochetto dei fallimenti in Calabria. Guido Scarpino su Il Quotidiano del Sud il 19 Dicembre 2021. Presunti “colletti bianchi” del Tirreno cosentino amici dei Ferrero e poi il giochetto dei fallimenti calabresi, territorio dove il patron della Sampdoria sembrava godere di particolari “entrature”. È quanto emerge dallo sviluppo delle indagini nel crack Ferrero, venuto alla luce grazie alle indagini delle Fiamme Gialle cosentino, coordinate dal Procuratore capo Pierpaolo Bruni. Ma vediamo di essere più chiari, analizzando parte dell’impero Ferrero. La compagine sociale della Holding Max Srl, ossia la società capogruppo della “galassia” Ferrero, risulta costituita da Vanessa Ferrero, figlia di Massimo, proprietaria di una partecipazione pari all’80 per cento, ma anche da Giorgio Ferrero (nipote di Massimo), proprietario di una partecipazione pari al 12,24 per cento ed amministratore unico) e la Pkb Servizi Fiduciari spa (proprietaria di una partecipazione pari al 4,76 per cento). La Hm Srl detiene invece una partecipazione pari al cento per cento del capitale sociale della Sport Spettacolo Holding Srl, amministrata quest’ultima da Massimo Ferrero che, a sua volta, detiene anche il 99,96 per cento della Unione Calcio Sampdoria spa (società il cui presidente del Cda è lo stesso patron blucerchiato Massimo Ferrero).

Dalla Samp, come documentato nei giorni scorsi, sarebbero transitati denari verso le società fallite del gruppo Ferrero, soldi elargiti anche nell’ambito della emergenza covid. Risulta, peraltro, che oltre al fallimento della Ellemme Group Srl, per la quale è scattato il blitz della Procura di Paola a carico di nove persone (uno in carcere, quattro ai domiciliari, quattro indagati a piede libero), vi sono altri tre soggetti giuridici dichiarati falliti a Paola: Blu Cinematografica Srl, posta in liquidazione il 23 dicembre 2013 e dichiarata fallita dal Tribunale di Paola con sentenza numero 8 del 28 settembre 2017; la Blu Line Srl, posta in liquidazione il 29 aprile 2014 e dichiarata fallita dal Tribunale di Paola con sentenza numero 10 del 2017 del 28 settembre 2017; la Maestrale Srl, posta in liquidazione volontaria il 14 febbraio 2012 e dichiara fallita, sempre al Tribunale di Paola, con sentenza numero 10 del 2020.

Dalle intercettazioni è emerso che per le prime due società, sono stati sottoscritti accordi transattivi tesi alla chiusura delle rispettive procedure fallimentari, ambedue per 125 mila euro; per la società Maestrale Srl è stata avanzata proposta di sottoscrizione di un accordo transattivo del valore di 50mila euro per la chiusura della procedura fallimentare.

Attesa l’urgenza di reperire fondi necessari al pagamento di due accordi transattivi in scadenza, per i fallimenti delle società “Blu Cinematografica” e “Blu Line Srl, gli indagati, unitamente ai vari professionisti, si adoperavano al fine di utilizzare il “finanziamento Sace”, per il quale il gruppo Ferrero e, in particolare, la Sampdoria, ha ottenuto 25milioni di euro.

Ora la domanda che tanti addetti ai lavori si stanno ponendo è la seguente: perché i Ferrero sono venuti ad organizzare i loro affari in questo lembo di Calabria? Perché avviare attività d’impresa e venire a fallire proprio al Tribunale di Paola? Esistono “colletti bianchi” e amici degli amici che hanno consigliato tale strada o è solo una mera casualità?

Vedremo se le indagini del Procuratore capo Pierpaolo Bruni, titolare del fascicolo assieme ai magistrati Maria Francesca Cerchiara e Rossana Esposito, porteranno a sviluppi clamorosi, magari attraverso il coinvolgimento di qualche faccendiere della zona specializzato in “entrature” grigie in seno alla Pubblica amministrazione.

Gregorio Spigno per gazzetta.it il 24 dicembre 2021. Un tappeto di letame "sistemato" appena fuori il cancello d’ingresso di casa. È questa l’ultima contestazione messa in atto dai tifosi della Sampdoria nei confronti dell’ex presidente blucerchiato Edoardo Garrone, che questa mattina ha ricevuto l’ennesima intimidazione da parte di alcuni ultras sampdoriani: non è ancora chiaro chi sia l’autore del gesto, ma è certo che negli ultimi giorni l’accanimento si sia aggravato di una forte impennata. A seguito dell’arresto del presidente della Samp uscente Massimo Ferrero (dimissionario dopo la carcerazione a San Vittore - atteso per venerdì il verdetto sull’attenuazione della misura detentiva), sono aumentate le polemiche nei confronti di chi, sempre secondo alcuni tifosi blucerchiati, viene considerato "colpevole" di aver messo in mano a Ferrero la società di Corte Lambruschini. Ai vari striscioni comparsi per le vie di Genova e al corteo di protesta organizzato qualche settimana fa contro Garrone, dunque, si aggiunge pure questo spiacevole episodio.

Malcom Pagani e Silvia Truzzi per il Fatto Quotidiano il 16 dicembre 2021. Ripubblichiamo un’intervista del 2010 realizzata da Malcom Pagani e Silvia Truzzi a Massimo Ferrero (conosciuto come “Viperetta”), oggi arrestato per bancarotta. Prevedere, prevenire, provvedere. Il Vangelo secondo Ferrero è un manifesto appeso distrattamente alle pareti di un ufficio labirintico a un passo da Porta Pia. Al centro, il profilo poco british di Massimo Ferrero. Milleduecento dipendenti, due compagnie aeree, la Livingston e Lauda Air, multiplex sparsi in tutta la Penisola, lo storico cinema Adriano rilevato pochi mesi fa da Cecchi Gori. Produzioni cinematografiche e televisive di cui il capo incontrastato è un indemoniato signore di 60 anni. Capelli bianchi e intercalare romanesco, riflesso dell’adolescenza ruvida, dei tempi lontani in cui nel quartiere, a suo dire, l’unica legge che valesse era quella del menga: “Chi ce l’ha al culo se lo tenga, je piace?”. Dicono sia cattivissimo. Spietato. Carattere difficile, generosità inattese alternate a scatti d’ira. Nell’ambiente lo detestano. Lo hanno soprannominato Viperetta. “Creo posti di lavoro, disturbo”. Lui salta, imita, canta, spiega, ribatte. Guarda sempre negli occhi e quando accade, rimane la sensazione che non sia per gioco. “Sono nato povero e morirò da povero ricco. Non temo nessuno, non scendo a compromessi e mando affanculo chiunque, anche se di cognome fa Berlusconi”. Lo temono, fanno bene. Massimo Ferrero ha fame. Non gli è mai passata. 

Lei è amico di Mauro Masi?

Era meglio se alla Rai non fosse andato. Dite al signor Masi che io non voglio essere amico del direttore generale, ma dopo aver fatto 120 film in 40 anni, esigo che mi rispetti come produttore. Voglio essere trattato come tutti. Da quando è alla Rai non ho fatto un solo minuto di fiction. Avevo dei lavori in ballo prima che arrivasse. Qui giocano con la vita di tante famiglie. Io respiro solo ostruzionismo. 

Non ci crediamo.

Fate male. Riferite a quel cornuto di giornalista che ha scritto ‘Ferrero è una gallina delle uova d’oro’ che io le uova non le ho neanche di plastica. Mi impediscono di lavorare perché ho la fortuna di essere in buoni rapporti con Masi. 

Ferrero il perseguitato?

No, non soffro di manie. Non frequento i salotti, non ho padrini.

Però ha un attico in Piazza Navona.

È una grandissima stronzata. Abito in affitto, dalle parti di Via Barberini. A Piazza Navona andavo da bambino per farmi il bagno nella fontana del Bernini e quando uscivo, i vigili mi sequestravano i vestiti e mi inseguivano.

Come ha fatto uno come lei a lavorare con Bertolucci?

Bernardo mi adora. Allo snob manca Ferrero e a Ferrero, forse, manca lo snob. Siamo complementari, di complemento, come i militari. 

Torniamo a Masi, quando va in viale Mazzini, raccontano, lui si illumina.

Magari sono comico. Cerco di ridere. È un reato? Da quando è alla Rai, Masi lavora 18 ore al giorno. Mi avrà ricevuto tre volte. Perché invece di descrivermi come Calimero, non guardano al comportamento dei suoi predecessori?

Si spieghi.

Ci sono miei colleghi cui la tv di Stato ha garantito contratti quadro da 30-40 milioni di euro, ma nessuna anima bella dice nulla. Avverto tutti: sto iniziando a stancarmi. La tv si limiti a comprare il cinema indipendente. C’è un contratto nazionale che dice che il canone deve essere reinvestito. Carta morta. 

Quindi Masi la danneggia.

Tra un po’ alla Rai faccio causa. Dovevo fare tre fiction, a iniziare da ‘Il terremoto di Messina’. Prodi e Napolitano mi diedero l’ok.

Mischia le carte?

Prima mi stendevano i tappeti, ora alla Rai non mi fanno neanche entrare. Conosco tanta gente, ho 60 anni, ho incontrato Agnelli, Fidel Castro mi vuole bene. Vi faccio vedere una cosa (si alza, mobilita l’ufficio, escono campagne per i bambini down, foto con il leader di Cuba, con il Papa, con cardinali del passato e del presente; quella con Berlusconi è vicina al suo tavolo, accanto a un cartello: ‘Se porti un problema e non hai la soluzione sei parte del problema’, ndr). 

Rapporti con il premier?

L’ho visto una volta. Se lo facessero lavorare, potrebbe fare grandi cose per il Paese.

Già sentita. Vota per lui?

Sono di sinistra, ho fatto il ’68. Alle manifestazioni per i morti di Battipaglia io e i miei amici facemmo a botte con la polizia. Ventotto, ne mandammo a terra, Oggi come idea, voto D’Alema. 

Invece i rapporti con Balducci? Sulla connessione con il commercialista Gazzani, lei è stato anche ascoltato dalla Guardia di Finanza.

È tutto a verbale. Ci sono fatture, tasse e Iva pagate, iscrizioni al collocamento. Hanno controllato. Tutto in regola. 

Qualcuno ha ipotizzato che quella versatale da Gazzani, (un milione e centomila euro, ndr) fosse una tangente.

Non so cosa significhi la parola tangente. Con quel denaro è stato coprodotto un film con Anna Maria Barbera: Ma l’amore sì. Però una cosa ve la posso dire: se qualcuno mi fa un regalo io non lo restituisco. Sia chiaro. 

Come giudica Balducci?

Una persona squisita, ma non è mio fratello. Ho conosciuto anche il figlio. Un bravissimo attore, ora dilaniato. L’ho incontrato per caso a un Festival, è distrutto. Quando facciamo un casting, non interroghiamo. Il tenente Sheridan lo trovate in tv. 

Tra le persone coinvolte nell’inchiesta, qualcuno è stato intercettato al telefono mentre si rallegrava per il sisma in Abruzzo.

Se è vero e lo dico da cittadino, sono delle merde. Uno che ride di una tragedia devastante, non merita l’arresto, ma l’impiccagione.

Brutale.

Ad Haiti sono stato anche io. Ho messo a disposizione un Airbus di mia proprietà pieno di medicinali e di volontari. Un’ora di volo costa 12.800 euro. Per andare e venire, Livingston sulla tratta Haiti/Malpensa ha speso quasi un milione di euro. 

Però.

Gli unici che mi hanno dato retta sono stati Formigoni, Bossi, Berlusconi e il ministro Frattini. La burocrazia si era messa di mezzo. Ho portato via 12 bambini malati e li ho trasferiti in strutture adeguate in Lombardia. Creature tornate a casa loro con i miei aerei. Questo è il Viperetta che tutti temono. 

Tutto bellissimo. Non le dispiacerà se ritorniamo ai suoi rapporti con Masi, La sua ex fidanzata, Susanna Smith, è la protagonista di un film da lei prodotto recentemente: Piazza Giochi.

L’ho conosciuta prima che diventasse la donna di Masi. Per me Susanna è una sorellina.

Però Masi ha un’altra.

Non mi risulta. Si amano.

E che dice dei suoi colleghi produttori?

Miracolati. Li amo tutti.

Anche quelli come Tozzi e Procacci?

Soprattutto (sorride, ndr) Sono più bravi di me e sono facilitati perché dietro hanno le major. 

Piazza Giochi è stato un flop.

Ho perso 1.250.000 euro per raccontare che i ragazzi non sono tutti zozzoni o drogati. Naturalmente non riesco a venderlo alla tv. Mi chiamo Ferrero e ho sempre operato con dignità anche se non ho la mangiatoia alta. 

Prego?

C’è chi ha la mangiatoia a portata di bocca e chi si deve chinare fino a terra per mangiare: io sono tra loro. E ne sono orgoglioso. Sono nato a Testaccio: mio padre faceva il controllore dell’Atac, mia madre l’ambulante a Piazza Vittorio. Di studiare non mi fregava niente, poi uscì la legge dell’obbligatorietà e a scuola iniziai ad andare con la camionetta dei Carabinieri.

Il cinema?

Il cinema sono io. A otto anni scappavo di casa per andare a Cinecittà, amavo l’atmosfera zingaresca. Facevo piccole parti, apparizioni anche brevissime. Vita dura. Un giorno vedo Gianni Morandi: ‘Mi dia un consiglio, qui non mi prende nessuno’. Fu gentile. Mi insegnò una formula civile. ‘Buongiorno, sono Massimo Ferrero, mi piacerebbe lavorare con lei, mi metta alla prova’. 

E lei?

Ero selvatico. Mi scordavo la parte. ‘Buongiorno, sono Massimo Ferrero, me pija a lavorà? Non so fa un cazzo’. 

Un po’ diverso.

Infatti mi cacciavano regolarmente. Ma avevo due figli, ero senza lavoro e a Testaccio, stare a galla non era uno scherzo.

Il primo mentore?

Blasetti, il regista dei telefoni bianchi. Avevo appena preso in prestito una bici e correvo verso gli studi di Safa Palatino per ottenere una comparsata.

Presa in prestito?

Anche se non fosse stata proprio mia, non sarebbe il caso di sottilizzare. Il reato è in prescrizione, sono passati 50 anni. Non avevo diritto a una bici anch’io? Quindi sudo, pedalo e mi accorgo di essere seguito da una 1100 nera. 

Chi era?

Blasetti. Mi urla: ‘Dove corri, ragazzo?’. Girava Io lei e gli altri. Mi provò.

Ruolo?

Un fornaio. Da quel giorno non mi sono più fermato. Ho fatto il segretario, l’organizzatore, tutto. Poi ho voluto fare il coglione e ho iniziato a finanziare i film. Papà me lo diceva sempre: ‘Bisogna avere credito, non denaro. I soldi non servono, se hai credibilità vai ovunque’.

Però aiutano.

Non giro mai senza soldi (tira fuori un rotolo dalla tasca, sono pezzi da 500, ndr). La gente con cui tratto lo sa. Da me non vogliono le firme, solo la mia parola. Se la do, sono disposto a morire. 

Non esageri.

Giuro. Però vi dico una cosa. Chi ruba a Ferrero, chi prova a fregarlo, deve morire.

Sembra un racconto di Scorsese.

Invece è un film di Ferrero. Rubare è una cosa importante e ci vuole gente seria. Voi sapete solo lavorare. 

Scorrettezze?

Tante. È un mondo difficile. Per gli altri (ride, ndr). Svoltai nel ’75, grazie a Piero Lazzari (mentre lo nomina si fa il segno della croce, ndr) organizzatore per un film di Fondato. A mezzanotte va la ronda del piacere. 

Un cast importante.

Sul set lavoravano Claudia Cardinale, Gassman, Pozzetto. Un giorno passando in macchina vidi i camion del Cinema e mi fermai. Disturbavo. Ero anche un po’ aggressivo, questione di carattere. Comunque mi infilo con una scusa e ascolto un brandello di conversazione. 

Indiscreto.

Dio mi ha dato la rapidità. L’attore Silvio Spaccesi chiedeva di andare all’Eliseo e non trovava nessuno che ce lo portasse. Nella pausa mi avvicino. ‘Scusi, deve andare al Teatro Eliseo?’. ‘Sì’, ‘Ce la porto io, sono della produzione’. 

Un’altra bicicletta?

No, ho preso al volo una 500, parcheggiata vicino ai camerini. Ero senza patente, non mi sono formalizzato. Arrivati all’Eliseo, quelli del set si accorgono dell’assenza di Spaccesi. Lo cercano, lo trovano, sento le urla dall’altro capo del filo. 

E lei che fa, sparisce?

Macché. Gli dico una cosa gentile: ‘Se mi denunci, te meno’. Poi accendo il motore e punto verso il set. Dopo un km, la macchina si ferma. È senza benzina. Io e Spaccesi spingiamo.

La arrestarono?

No, perché avrebbero dovuto? Avevo 18 anni e cercavo solo di portare a casa la pagnotta. Ma arrivati sul set, lo chiudo in una camera e tolgo la chiave. ‘Le faccio da segretario, mi assume?’. 

Un sequestro di persona…

Ma no, voi siete matti. Gli ho soltanto detto di aspettare. Non c’ho avuto mai un papà che mi dicesse: ‘Ti compro la merendina’. Me la sono dovuta guadagnare, ogni giorno. 

Perché decise di fare il salto in proprio?

Per presunzione. Pensavo di riposare, sbagliavo. Bondi toglie soldi al cinema, non avendo nessuna competenza. Blandini, il suo predecessore nel settore, era anche peggio. Eppure la soluzione sarebbe semplice. 

Quale?

Leggi adeguate per far lavorare tutti, chi non ha i rapporti giusti in Italia agonizza.

Le rimane la ditta di import-export casearia di sua moglie. Fa miliardi.

Un’altra bella leggenda metropolitana. Quando iniziai a fare il produttore, peccai di megalomania. Sette film, tutti insieme. Bertolucci Jr, Castellitto, nomi importanti. Ai miei colleghi rodeva il culo. Fu allora, dall’invidia, che nacque la leggenda di “Viperetta”. Il nome in realtà me lo affibbiò Monica Vitti, perché fui rapido a dare uno schiaffo a un signore che la molestava. Monica senza di me non girava, ero una clausola del suo contratto. 

Va bene, ma le mozzarelle di sua moglie?

Per non farmi rompere i coglioni inventai che avevo sposato una miliardaria, proprietaria di una grande industria di formaggi che finanziava i miei film. Mio suocero produce Pecorino romano in realtà, a carattere familiare. 

Ingegnoso.

Tutti a dire: ‘Che culo che ha avuto Ferrero, ha trovato la miliardaria’. Creai una storiella, e Radiocinema, puntuale, fece aumentare l’invidia.

Lei ha un bizzarro concetto della verità.

Ne esistono tre. Quella vera, quella processuale, quella documentale. Ma se le carte sono a posto, non ti fotte nessuno. 

È vero che sta vendendo la sua compagnia aerea?

Me la vogliono scippare. Ho letto un messaggio sul telefonino di un mio avversario: ‘Stressate Ferrero’. Primo: sono nato stressato. Poi un altro: ‘Stancate Ferrero’: sono già nato stanco. Per fregarmi hanno assoldato una sporca dozzina, ma hanno dimenticato i cannoni di Navarone. 

Male che vada, può sempre scappare con l’autista. Dicono non lo paghi mai.

Bugie. Lo pago. Magari ogni tanto, ma lo pago. Amo l’Italia, ma odio i tanti cazzari che perdono tempo a parlare male di me. 

Da corrieredellosport.it il 28 dicembre 2021. Marco Lanna è il nuovo presidente della Sampdoria, la decisione questa sera nel corso del proseguimento dell'assemblea dei soci che si è svolta a Mestre nello studio di Gianluca Vidal. 53 anni, per tantissimi difensore della Sampdoria dove era cresciuto nel settore giovanile: adesso per lui una nuova avventura nella società che lo ha visto protagonista dal 1987 e fino al 1993 quando si è trasferito alla Roma. Nella stagione magica dello scudetto ottenuto dai blucerchiati nel 1991 era stato uno dei giocatori più importanti della squadra collezionando 26 presenze. Poi era tornato alla Samp nel gennaio del 2002 per dare una mano quando i liguri erano in serie B: in totale ha indossato 193 volte la maglia della Sampdoria.

Marco Lanna: "La Samp da sempre nel cuore"

"È una grandissima gioia ed una fortissima emozione, il mio cuore è sempre stato blucerchiato", ha confessato ai suoi amici. L'assemblea dei soci ha definito anche il nuovo cda dove spicca la presenza di Antonio Romei, l'avvocato al fianco di Ferrero sin dall'inizio dell'avventura doriana prima di essere allontanato dall'imprenditore romano nel febbraio del 2021 quando Romei era vice presidente e membro del Cda. E fu proprio lui a guidare le trattative quando ci fu la proposta del gruppo di Gianluca Vialli per l'acquisto del club: operazione conclusa con una fumata nera per la valutazione della società da parte di Ferrero considerata eccessiva. Da quanto filtra Romei avrebbe il compito di seguire in prima persona tutto il percorso che porterà alla cessione della società.

Luciano Moggi. Luciano Moggi si racconta: "Il calcio, Agnelli e i pm. La mia vita tra Pablito, Maradona e l'Avvocato". Giovanni Terzi su Il Tempo il 5 dicembre 2021. «La Juve finisce spesso nell'occhio dei magistrati perché si espone di più o perché più potente? Nel merito delle carte non entro. Bisogna capire quali situazioni hanno portato a investigare nuovamente sui bilanci. Quando ho iniziato io, nei primi anni Duemila, la prima inchiesta che aveva riguardato la Juve era stata quella di Guariniello sul doping farmacologico, da cui poi era nata nel 2004 quella sulle frodi sportive, condotta sempre dalla procura di Torino. Di sicuro più una società è importante e più i riflettori vengono accesi su di lei. Poi, che ci sia un accanimento, lo si vedrà dopo gli accertamenti». Così ha detto Luca Palamara, il magistrato che ha, un anno fa, denunciato comportamenti non coretti da parte del CSM . In soldoni Luca Palamara ha detto che la Juve è attrattiva per le inchieste giudiziarie. «Palamara dice una cosa assolutamente ragionevole. Nell'inchiesta sono infatti coinvolte altre società come il Parma, il Genoa, la Sampdoria, il Chievo Verona, per finire con il Pescara e il Napoli ma si parla soltanto di Juventus». Così dice Luciano Moggi già dirigente sportivo di grandi società calcistiche come Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, che è riuscito a conquistare sei scudetti, tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane (quattro con la Juventus e una con il Napoli), una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una supercoppa UEFA (tutte con la Juve) oltre alla vittoria della Coppa Uefa con il Napoli; insomma uno che di calcio e di sport se ne intende. «Non conosco nel merito l'inchiesta ma so con precisione ciò che accadde nel 2004 per l'indagine delle procure per i bilanci falsi» continua Moggi.

Cosa accadde?

«Tutto evaporò come una bolla di sapone. Le procure archiviarono facendo rimanere in piedi soltanto l'inchiesta sulla Juventus per infedeltà patrimoniale dovuta all'acquisto del calciatore Moretti della Fiorentina».

E come andò a finire?

«Premesso che l'acquisto fu fatto dalla Juve per sostenere la Fiorentina che era in difficoltà finanziaria ma alla fine, il tutto, si concluse con la richiesta della Juve di patteggiare ma con il GUP (giudice per udienza preliminare) che chiese l'archiviazione perché il fatto non sussisteva».

E quindi anche questa volta pensa che finirà tutto in una "bolla di sapone"?

«Ripeto che non conosco le carte mi risulta però difficile pensare che una società quotata in borsa possa fare plusvalenze e, per ciò che io so della società, credo sia impossibile che la Juventus falsifichi. Intanto però si creano i conflitti di opinione e con questo si costruisce notorietà e si vende di più; le racconto un altro fatto...».

Mi dica...

«Un giorno uscì su un giornale sportivo la notizia "ecco come truccano i sorteggi" ma dopo questa sparata non successe nulla nella realtà. Spesso sono i giornali che fanno il processo costruendo un sentimento popolare su cui viene prodotta la notizia. Anche in questo caso il processo fu fatto dopo anni ma erano già state formulate delle condanne a priori». 

Parlando di calcio giocato un anno fa ci lasciava Paolo Rossi un grande campione che lei in qualche modo scoprì. Che ricordo ha del Pablito nazionale?

«La sua scomparsa prematura ed inaspettata mi ha molto colpito e rattristato. Così giovane e con una famiglia meravigliosa. Ho telefonato subito a sua moglie Federica perché a Paolo volevo davvero bene, come ad un figlio».

Quasi si interrompe Luciano Moggi nel parlare del grande campione di calcio e ricordando l'amore della moglie Federica. È una commozione reale di un uomo che non lascia quasi mai trasparire i sentimenti profondi.

«Innanzitutto Paolo Rossi si è scoperto da solo. Noi osservatori dobbiamo solo recepire le notizie di coloro che visionano i giocatori e poi andare a vedere. Io arrivai alla Juve e trovai il fratello Rossano, un buon giocatore tecnicamente preparato ma non veloce, insomma per me non era da Juve. Intanto mi segnalarono Paolo e vado a vederlo mentre giocava nella Cattolica Virtus Firenze e ne rimango stregato. Due piedi incredibili, che parlavano, una visione del gioco straordinaria ed il fiuto per il gol. Non è mai stato fortunato sotto il profilo fisico perché tartassato da tanti infortuni ma ha sempre saputo riprendersi perché era un campione con delle doti di umiltà e resistenza incredibili; e questo senza parlare del profilo umano».

Invece parliamone Moggi, forse un po' manca nel calcio di oggi ...

«Posso dire che era un ragazzo perbene, portatore di valori sani e capace di essere un esempio positivo per tutto il movimento calcistico».

Cosa fece per portarlo alla Juventus?

«Chiesi al papà di Paolo Rossi di far cambio e riportare Rossano a Firenze e Paolo a Torino. Fu, forse, una delle trattative più complicate della mia carriera».

Un altro campione che ha avuto da dirigente, anche lui scomparso un anno fa, è stato Diego Armando Maradona. Che ricordo ha di lui?

«Difficilmente si può spiegare un uomo come Maradona. Dentro di lui c'erano almeno due persone: una adorabile, generosa e capace di dare la vita per aiutare chi amava ma anche chi ne aveva bisogno. E poi c'era il calciatore dal talento unico ma capace di farsi del male. Le racconto un aneddoto: dovevamo andare a Mosca per giocare Spartak-Napoli ed io avevo saputo che lui non voleva partire con la squadra ma con un aereo privato il giorno dopo. Andai a casa da lui e dissi che, qualora fosse successa questa cosa, lui non avrebbe giocato».

E che cosa successe?

«Diego arrivò con l'aereo privato il giorno dopo e si presentò al ristorante. A quel punto io scelsi di dimettermi perché volevo tenere fede a ciò che avevo detto».

E Maradona?

«Nulla. Io dissi che se fosse andato via lui sarebbe implosa la città mentre dimettendomi io non succedeva niente».

La sua carriera fu soprattutto alla Juventus. Che ricordo ha dell'avvocato Gianni Agnelli?

«L'avvocato ogni mattina alle cinque e mezza mi chiamava per sapere come andava la squadra. Per me è stato un rapporto ottimale perché ho sempre avuto la fortuna che si fidasse ciecamente di me e questo ha fatto la differenza. Ma non solo con l'avvocato ma anche con il fratello Umberto ebbi un rapporto profondo. Erano due imprenditori straordinari uno, l'avvocato Gianni, capace di grandi visioni e l'altro, Umberto , con doti manageriali davvero eccezionali. Ogni quindici giorni ci trovavamo per vedere i bilanci e le criticità della società. È stata un'esperienza sia professionale che umana per me indimenticabile».

Che ricordo ha di Umberto Agnelli?

«Un ricordo è stato quando voleva prendere Didier Deschamps come allenatore il quale si faceva desiderare. Così io andai a Roma per cercare un accordo con Fabio Capello che aveva deciso di andare via dalla società giallorossa. Fatto l'accordo con Capello lo dissi al dottor Umberto pregandolo di non confidarli ad alcuna persona, nemmeno sua moglie. Quando mancò la moglie, Allegra Caracciolo, mi confidò che alla domanda precisa di chi sarebbe stato l'allenatore della Juve il dottor Umberto a denti stretti aveva detto. Questo era il livello di relazione che avevamo».

Ed invece dell'avvocato Gianni Agnelli?

«Ricordo una telefonata in cui esordi dicendomi "se le avanza qualcosa pensi a me" riferendosi ad un sondaggio in cui ero uno dei dirigenti sportivi più apprezzato dalle donne. L'avvocato era una persona con una ironia molto inglese. Però, la cosa che più mi è rimasta nel cuore, e che solo due giorni prima che morisse mi ha voluto, insieme a Lippi, vicino. E con questo ho detto tutto».

La Juventus. Febbre a 90. Report Rai PUNTATA DEL 04/12/2021 di Daniele Autieri, collaborazione di Federico Marconi. Un calcio dove si muovono interessi trasversali che arrivano a coinvolgere anche la politica. La Juve e le sue sorelle. Oltre l’inchiesta di Torino sulle plusvalenze sospette per la quale è stato indagato il Presidente della Juventus Andrea Agnelli, il vicepresidente Pavel Nedved, l’ex-direttore sportivo Fabio Paratici e altri due top manager, la prassi delle plusvalenze a specchio” (gli scambi di giocatori conclusi senza passaggio di denaro) tira dentro i più grandi club italiani. Obiettivo: ripianare i debiti e sistemare i bilanci. Una serie di documenti riservati e inediti, in parte analisi dell’Agenzia delle Entrate e in parte degli organi di controllo sul calcio, rivelano la reale situazione finanziaria delle principali squadre di calcio italiane, i ritardi dei pagamenti degli stipendi dei calciatori, ma anche dei debiti tributari e pensionistici. E si aggiungono a un allarme lanciato dalla Covisoc, la Commissione di vigilanza sulle società professionistiche, in una lettera riservata inviata alla Federcalcio: «Esiste un concreto rischio che eventuali situazioni di default abbiano a verificarsi a campionato in corso». All’interno di questo sistema qual è il ruolo dei super agenti come Jorge Mendes, il procuratore di Cristiano Ronaldo, o Mino Raiola, quello di campioni come Donnarumma, Verratti, Ibrahimovic? Testimonianze e documenti inediti ricostruiscono le modalità d’azione e le relazioni tra gli agenti e la dirigenza delle società di calcio, a partire dal caso del giorno: il futuro di Dusan Vlahovic, l’attaccante della Fiorentina ormai considerato uno dei migliori calciatori d’Europa. Dopo le dichiarazioni delle ultime ore del presidente della Fiorentina, Rocco Commisso, che afferma di non farsi ricattare dagli agenti di Vlahovic, Report svela chi c’è dietro l’agenzia che cura gli interessi del calciatore serbo e i giochi di potere per gestire il futuro di un campione. Un gioco diverso dal calcio, dove si muovono interessi trasversali che arrivano a coinvolgere anche la politica.   

 FEBBRE A 90 di Daniele Autieri con la collaborazione di Federico Marconi immagini di Dario D’India, Carlos Dias, Davide Fonda, Tommaso Javidi Luca Martinelli montaggio di Andrea Masella grafiche di Michele Ventrone ricerca immagini Silvia Scognamiglio

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS 1994-2006 Io adesso ti dico a te, e te le dico anche, chi manovrava il campionato… ma tu sta sicuro che non mi querela nessuno.

DANIELE AUTIERI Chi lo manovrava?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS 1994-2006 Non avendo avuto illeciti riscontrati è stato detto che c’era un sistema, il famoso sistema Moggi. Ecco, bene, il sistema Moggi consisteva nel condizionare il campionato. Come si poteva condizionare il campionato se avevi il presidente della Lega contro, il presidente della Federazione contro, il presidente del Coni contro, i designatori contro? Poi c’è un’altra cosa: Lepore, il capo del tribunale di Napoli a un certo punto dice: il processo doveva essere fatto al calcio nella sua interezza, a 360 gradi. Ma lo dice quando praticamente ormai il processo era quasi finito di Calciopoli.

DANIELE AUTIERI E da allora il processo al calcio non è mai stato fatto, ancora oggi dico?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS 1994-2006 Che vuoi processare, il calcio è questo qui.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Luciano Moggi è il simbolo di Calciopoli, l’immagine di una Juventus che vince nonostante tutto. Ma quello che per tutti era un dominio costruito sull’esercizio del potere, per lui era solo una lotta per la sopravvivenza, il tentativo di emergere in una guerra tra bande.

DANIELE AUTIERI Lei a un certo punto viene coinvolto anche in un’indagine, un filone di questa indagine sulle plusvalenze della Juve…

 LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS 1994-2006 Questa è ridicola, questa è carina. Non io, la Juventus. La Juventus sapete cosa aveva di plusvalenze? 5 milioni di vecchie lire. E sapete perché? Era stata sollecitata da qualcuno e qui non vi saprei dire da chi, dai capi del calcio, ad aiutare la Fiorentina che era in fallimento e fu comprato Moretti, quello che giocava nel Siena, per 5 milioni o miliardi, adesso non ricordo… Di fronte a tutte le squadre che avevano 200, 300 milioni, e voi sapete chi sono: Inter, Milan, Genoa, Roma in modo particolare, Lazio non ne parliamo… le procure di quei posti lì, hanno azzerato dopo due mesi la cosa, hanno proprio archiviato. La nostra è durata due anni con 5 milioni. Fino a quando non è stata fatta una querela contro ignoti per infedeltà patrimoniale dalla Juventus. Gli ignoti eravamo io, Bettega e Giraudo, non c’era bisogno di cercare, la Juventus fece subito il patteggiamento per questi impiegati infedeli che in 12 anni non gli avevano mai chiesto una lira, erano andati avanti con le proprie forze, quindi erano proprio infedeli. Sapete come è finita? Il Gup ha rifiutato il patteggiamento della Juventus e ha detto che il fatto non sussiste. Quindi gli avversari non erano solo fuori, erano anche dentro.

DANIELE AUTIERI Mi aiuta a capire quante società fallirebbero secondo lei senza le plusvalenze?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS 1994-2006 Il sistema delle plusvalenze è un debito che si protrae nel futuro, nel senso che tu fai una plusvalenza salvi il bilancio un anno però ti ritrovi il debito l’anno prossimo. È tutta una scaletta che dopo arriva come è arrivato per tanti a 200, a 300 milioni e quando parlano di Covid è una barzelletta perché il botteghino può valere 50 milioni, voglio esagerare, ma quando tu hai bilanci in negativo di 200, 300 milioni non è più Covid.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il sistema delle plusvalenze era in piedi già ai tempi di Calciopoli, ma le indagini sulle operazioni sospette che hanno coinvolto l’ex-direttore sportivo finiscono in niente. La Juve di quegli anni è una macchina da guerra: capace di forgiare grandi campioni ma anche grandi procuratori. Uno su tutti: Mino Raiola.

DANIELE AUTIERI Come fanno gli agenti ad acquistare così tanto potere dentro i club, anche nei confronti dei direttori generali?

LUCIANO MOGGI – DIRETTORE GENERALE JUVENTUS 1994-2006 Ci sono agenti potentissimi e sono due, Mendes e Raiola, e poi ci sono gli agenti che aiutano società di calcio perché indicano i giocatori, la società di calcio si fa del male da sola nel momento che non sa trattare. Io ad esempio ho fatto le squadre forti con Raiola. Adesso sento dire che prende 25, 30 milioni. Sapete io cosa gli ho dato a Raiola per avermi fatto prendere Pavel Nedved, anche Emerson che era della Roma, però lui non era procuratore ma era un mandatario di gare della Roma, anche Ibrahimovic, gli ho preso un giocatore senza dargli dei soldi, praticamente un ragazzino valutato un milione, poi questo ragazzino l’ho dato in comproprietà al Siena e mi ha dato 500mila euro. Ecco io in tutta l’attività di Raiola lui ha preso 1 milione.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Certo che appare in gran spolvero Lucianone. Insomma sono passati 15 anni da Calciopoli, da quando quello che era nato come un semplice capostazione di una cittadina, diventa negli anni un potentissimo direttore sportivo, fino a diventare, secondo i magistrati l’ideatore di un sistema illecito per condizionare l’esito dei campionati di calcio. È stato condannato in appello a 2 anni e 4 mesi, con l’accusa di associazione per delinquere finalizzata alla frode sportiva. Ecco, poi nel 2015, prima che si pronunciasse la Cassazione è scattata la prescrizione. Ora Luciano Moggi con Antonio Giraudo, l’ex amministratore delegato della Juventus, hanno presentato ricorso presso la Corte europea dei diritti dell’uomo. Ora, in attesa che la corte si pronunci, però va dato atto, piaccia o non piaccia, che i due avevano messo in piedi un sistema che consentiva alla Juventus di vincere i campionati, dall’altra anche quella di avere i conti apposto. Già allora si parlava di plusvalenze, ma solo 5 milioni di euro, a distanza di 15 anni le cifre sono ben altre e la Juventus è apparsa più fragile e più fragile è tutto il calcio italiano. Perché si è retto per anni sul sistema di plusvalenze a specchio. Come funzionano grosso modo? Funzionano che una società acquista da giovane un calciatore, lo paga 10, poi lo rivende a 20 ma senza sborsare un euro perché trova la complicità di un procuratore, o di una squadra di calcio, che gli mette a disposizione indipendentemente dalla qualità, alla stessa cifra a cui la società vende, gli mette a disposizione uno o più giocatori. Ora, qual è il vantaggio di tutta quella operazione? Che la società che vende l’incasso lo mette subito a bilancio, ed è compresa anche la plusvalenza che ha realizzato negli anni, mentre invece quella che spende può spalmare negli anni, senza aver versato un euroa, la cifra, spostando più in là il debito. Solo che questo sistema di plusvalenze ti costringe ogni anno a ripetere queste operazioni finché poi la bolla esplode. Ed è quello che è successo. Oggi al centro dello scandalo c’è nuovamente la Juventus che è accusata di false comunicazioni societarie, di fatture inesistenti, sostanzialmente di aver falsificato i bilanci. Coinvolti sono il presidente Andrea Agnelli, il vicepresidente Pavel Nedved, l’ex direttore sportivo Paratici e poi altri tre manager. Ora, in queste accuse, tra queste accuse, la magistratura, per formulare queste accuse la magistratura si è soffermata su alcune operazioni di mercato. Una è proprio quella dell’acquisto, da parte della Juventus, di un giocatore, Niccolò Rovella, che era stato acquistato dal Genoa e di cui noi avevamo parlato nella scorsa inchiesta. Sono finite anche nell’occhio della magistratura alcuni contratti, come quello di Cristiano Ronaldo, che ha come manager uno dei procuratori più importanti al mondo: Jorge Mendes. Un altro procuratore, tra i più importanti al mondo è Mino Raiola. Ha la procura di giocatori come Donnarumma, il portiere della Nazionale, e anche Ibrahimovic. Nel 2020 ha incassato commissioni per 84 milioni di dollari. Insomma, noi eravamo andati a cercare la sua sede a Malta, però dopo la puntata Raiola ci ha accusato di falso. Chi aveva ragione? Il nostro Daniele Autieri.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Quindici anni dopo Calciopoli la Juventus è di nuovo nella bufera. La Procura di Torino ha aperto un’indagine sulla società e indagato sei alti dirigenti del club tra cui il Presidente Andrea Agnelli, il vicepresidente Pavel Nedved e l’ex-direttore sportivo Fabio Paratici. Le ipotesi di reato sono false comunicazioni delle società quotate ed emissione di fatture inesistenti. Al centro dell’inchiesta, una serie di operazioni di mercato fittizie, per un totale di 322 milioni di euro, che sarebbero servite solo per far quadrare i conti del club. Quelle che danno vita alle famose plusvalenze.

DANIELE AUTIERI Quanto valgono le plusvalenze nei bilanci dei grandi club?

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Le plusvalenze sono raddoppiate negli ultimi cinque anni, valevano 300 milioni sono salite a 750 milioni. La sola Juventus ad esempio di plusvalenze fa il 25% dell’intero fatturato annuo

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO L’indagine della procura di Torino segue la strada battuta da quella precedente della Covisoc, la Commissione di vigilanza sulle società di Calcio, che proprio sulla Juve concentra il numero maggiore di operazioni sospette.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Solo negli ultimi due anni sono 62 i trasferimenti sospetti, di cui 42 riguardano la Juventus.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel caso della Juventus l’indagine approfondisce anche i termini del contratto di Cristiano Ronaldo e gli inquirenti si mettono alla ricerca di una scrittura privata rimasta fuori dagli accordi ufficiali. Il papello è scottante tanto che – dicono i manager della Juve intercettati – “se viene fuori, ci saltano alla gola”. Gli uomini della guardia di finanza lo stanno ancora cercando mentre i giudici si concentrano su sette operazioni a specchio, scambi utili a far quadrare i bilanci ma in cui nessuno dei club ha sborsato un euro. Tra questi quello clamoroso di Nicolò Rovella, il centrocampista acquistato dalla squadra di Torino nel gennaio scorso.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Niccolò Rovella passato dal Genoa alla Juventus per un valore di 18 milioni, nello stesso lasso di tempo sono passati due giocatori del Genoa Portanova e Petrelli alla Juventus, uno valutato 10 l’altro 8, guarda caso …

DANIELE AUTIERI La somma fa 18…

FABIO PAVESI - GIORNALISTA La somma fa 18, e non è un caso tutte e due avevano bisogno di iscrivere una plusvalenza a bilancio ma non è entrato nulla nel flusso di cassa, né nell’una né nell’altra

DANIELE AUTIERI Guardando il bilancio della Juve questo valore di 18 milioni riconosciuto a Rovella è un valore reale?

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Mi sembra del tutto irrealistico. Chi conosce Rovella?

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nell’indagine “Prisma”, i manager intercettati parlano di tutta la “merda che sta sotto e che non si può dire” e per la prima volta confermano anche il ruolo degli agenti all’interno del sistema, strumenti essenziali per agevolare gli scambi fittizi. Nel caso di Rovella la Juventus incarica il procuratore Giuseppe Riso. L’operazione tra Genoa e Juve è a saldo zero, ma questo mandato riservato dimostra che il club bianconero riconosce a Riso un compenso di 1,7 milioni di euro per la mediazione. Riso non è solo uno dei primi procuratori italiani, ma è anche vicinissimo ad Adriano Galliani, a cui deve l’inizio della sua sfolgorante carriera.

GAETANO PAOLILLO – PROCURATORE Soprattutto con la sorella di Galliani… aveva un rapporto…

DANIELE AUTIERI Una consuetudine… Che faceva, l’autista?

GAETANO PAOLILLO – PROCURATORE Sì.

DANIELE AUTIERI Da factotum?

GAETANO PAOLILLO – PROCURATORE Sì, so che per dire l’accompagnava se doveva andare in un posto, l’accompagnava…

DANIELE AUTIERI E con Galliani stesso lui ha stretto dei rapporti?

GAETANO PAOLILLO – PROCURATORE Sicuramente ha stretto dei rapporti anche con Galliani, perché comunque andavano in vacanza insieme, andavano a Forte dei Marmi insieme, li accompagnava, eccetera. Avendo un rapporto con la sorella, lo aveva anche il dottor Galliani…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Quella delle plusvalenze è una prassi comune a tanti club, che emerge analizzando i bilanci delle società. Nel 2019, anno pre Covid, la Juve ha messo a bilancio 154 milioni di plusvalenze, la Roma 132 milioni, il Napoli 83 milioni, il Genoa 79 milioni, la Sampdoria 53. In tutti questi casi le plusvalenze valgono dal 25 al 55% dei ricavi dei club.

FABIO PAVESI - GIORNALISTA Mentre i ricavi da gara più di tanto il biglietto non può aumentare, i ricavi dei diritti tv sono esplosi ai massimi, dalle sponsorizzazioni più di tanto non puoi ottenere, l’unica voce di ricavi che puoi manipolare è proprio lo scambio dei calciatori, le cosiddette plusvalenze.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Mentre Consob e Guardia di Finanza si muovono con grande celerità, la Procura Federale della Federcalcio, guidata dal magistrato Giuseppe Chiné, non fa lo stesso. L’indagine della Covisoc inizia nel settembre del 2020, le anomalie vengono segnalate il 14 aprile del 2021 ma ad oggi nessun provvedimento sportivo è stato ancora preso nei confronti dei campioni delle plusvalenze.

DANIELE AUTIERI Il calciatore rischia di diventare una pedina in questo sistema di plusvalenze che poi servono per far tornare i conti dei club?

UMBERTO CALCAGNO – PRESIDENTE ASSOCIAZIONE ITALIANA CALCIATORI Fino a quando qualcuno non dimostrerà che non sono create in maniera fittizia non danno quel tipo di problema però sono situazioni con le quali il nostro sistema oggi si è finanziato.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il 17 novembre scorso a Roma la IAFA, una delle prime due associazioni di rappresentanza dei procuratori italiani, nomina presidente onorario Mino Raiola, il super agente residente a Montecarlo, con società a Malta e nei paradisi fiscali. È un evento aperto a tutta la stampa, tranne ovviamente a Report.

CRISTIAN BOSCO – PRESIDENTE IAFA Noi ci siamo sentiti fino a sera tarda e siamo in overbooking, gliel’abbiamo spiegato. È un amico, però ci ha chiamato solo ieri.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nonostante la nostra richiesta di accredito, il presidente dell’associazione Cristian Bosco fa presente che non siamo i benvenuti e la sicurezza ci invita a lasciare il Circolo. Non prima di aver salutato Mino Raiola.

DANIELE AUTIERI Signor Raiola, sono Daniele Autieri di Report

MINO RAIOLA - PROCURATORE E tu sei serio?

DANIELE AUTIERI Sì, perché no?

MINO RAIOLA Sei serio… io sono contento che vivo in Italia, lo sai perché, così andiamo avanti al tribunale e facciamo decidere qualcun altro.

DANIELE AUTIERI Io l’ho chiamata subito, la prima cosa che ho fatto, si ricorda che la chiamai?

MINO RAIOLA Sì, ma non è che chiamare vuol dire che c’è un obbligo…

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nella precedente inchiesta sul calcio avevamo fatto visita alla Three Sport Business, la società di Malta del signor Raiola, incappando – secondo i legali del procuratore – nell’indirizzo sbagliato.

MINO RAIOLA Giornalisticamente tu scopri che l’indirizzo è sbagliato

DANIELE AUTIERI No, non è sbagliato.

MINO RAIOLA Ah, non è sbagliato?

DANIELE AUTIERI Guardi, le dico. Io ho recuperato il mandato di Manolas, la società è quella, l’indirizzo è quello.

MINO RAIOLA Non è quello…

DONNA Io non credo sia questa la sede…

DANIELE AUTIERI Operazione fatta Roma e Napoli…

MINO RAIOLA Non è così…

DANIELE AUTIERI È così!

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questo è il mandato che il Napoli firma a Mino Raiola per l’acquisto di Kostas Manolas dalla Roma. Un’operazione Italia su Italia che viene retribuita alla Three Sport Business di Malta. E questo è l’indirizzo che corrisponde al palazzetto nel cuore della Valletta dove abbiamo provato a chiedere spiegazioni sulla società del procuratore. UOMO State registrando?

DANIELE AUTIERI Si, siamo giornalisti UOMO Perché non me lo avete detto? Non voglio essere registrato

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Raiola dopo la scorsa puntata ci aveva accusato di aver detto il falso, di essere andati presso l’indirizzo sbagliato di quella che è la sua società, la Three Sport Business di Malta. Ora, e invece che cosa era successo? Era successo che Raiola non aveva ancora comunicato alla Federcalcio al momento della nostra visita il cambiamento di indirizzo. Semmai quel contratto che il nostro Daniele Autieri gli mostrava, il contratto di Manolas, è la testimonianza che la sua società di Malta era proprio a quell’indirizzo dove noi eravamo andati e che era servita nelle sue operazioni anche Italia su Italia. Raiola dice che è tutto quanto legale, la sua residenza è a Montecarlo, la sua società è operativa al 100 per cento seppur maltese. È contento solo per il fatto di essere in Italia, di vivere in Italia, è contento solo per il fatto di poterci denunciare. Ecco, insomma, questo è Raiola. E per quello che riguarda invece le plusvalenze, insomma la magistratura è dovuta intervenire, è intervenuta sulla Juventus. Però le fanno anche la Sampdoria, la Roma, il Napoli, soprattutto il Genoa. Nel campionato pre-Covid ha fatturato 50 milioni di euro dai diritti televisivi, dai biglietti, dalle sponsorizzazioni, ma ne ha anche fatturati 70 dalle plusvalenze: una cifra che non ha precedenti nella storia del campionato italiano. Ecco, dicevamo, è dovuta intervenire la magistratura per quel che riguarda la Juventus, perché la procura federale che è guidata da Giuseppe Chiné, che è anche capo di gabinetto del ministro dell’economia, non si è mossa in maniera molto veloce: ha un po’ il passo felpato. Anche la Covisoc, che è la commissione che vigila sulle società professionistiche, aveva segnalato alla Federcalcio e alla procura federale una montagna di anomalie già a partire dalla scorsa primavera. Ma ora aspetta l’esito della giustizia della magistratura ordinaria che la giustizia sportiva, l’abbiamo capito, ha i suoi tempi. Ne sa qualcosa il patron del Chievo Luca Campedelli. Il quale dice che la giustizia sportiva per gli amici si interpreta, e invece per i nemici la si applica. E a lui l’hanno applicata. In un’intervista che lui stesso definisce l’ultima della sua storia, si toglie i sassolini dalle scarpe. Siamo andati a trovarlo in quel centro che lui stesso aveva costruito quando all’inizio sembrava tutto una favola.

DANIELE AUTIERI VOCE FUORI CAMPO A scivolare sulle plusvalenze qualche anno fa era stato il Chievo, coinvolto in un’inchiesta della procura federale, e punito con alcuni punti di penalizzazione.

DANIELE AUTIERI Anche voi siete finiti sotto la lente della procura federale sul tema delle plusvalenze ad esempio. Vi siete prestati anche voi a questo sistema?

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA La procura federale ha contestato al Chievo il fatto che noi facevamo delle plusvalenze secondo loro fittizie per ottenere l’iscrizione. Gli abbiamo dimostrato che avevano sbagliato i conti, perché li avevano sbagliati, e addirittura e noi eravamo iscrivibili a prescindere dalle plusvalenze.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel 2018 il Chievo si è salvato, ma non stavolta. Il 26 luglio scorso il collegio di garanzia del Coni rigetta il ricorso del club e decreta la sua esclusione dal campionato di serie B per debiti tributari pari a circa 20 milioni di euro. Finisce così la storia della cenerentola partita da una frazione di Verona e arrivata a un passo dalla Champions League.

DANIELE AUTIERI Perché vi hanno buttato fuori a un certo punto, lei se l’è chiesto?

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Per me… al tavolo ormai non servivamo più e quindi nella loro ottica è giusto che il Chievo…

DANIELE AUTIERI Cioè la legge per alcuni si interpreta per altri si applica.

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Questa è una frase tanto cara a un mio ex-amico che continua a ripetere: aho, per gli amici si interpreta per i nemici si applica. Devo dire con me non si è mai interpretato

DANIELE AUTIERI Il suo vecchio amico chi è, Lotito?

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Non si fanno nomi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Chievo oggi è una società fantasma. Tutti i suoi tesserati, dal giocatore più forte della prima squadra all’ultima promessa del settore giovanile, sono stati liberati, e sono andati a giocare altrove.

DANIELE AUTIERI Lei adesso che farà col Chievo?

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Non so cosa farò di me dopo l’intervista sinceramente … credo che sia l’ultima intervista che rilascio.

DANIELE AUTIERI Lei lo vive da più di vent’anni, qual è il male del calcio italiano?

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Si fa calcio non per il calcio.

DANIELE AUTIERI Affari…

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Altre cose, affari, interessi, voglia di protagonismo. Io almeno ho cercato di fare il calcio sempre e solo per il calcio.

DANIELE AUTIERI Essere la cenerentola della serie A ha avuto un prezzo abbastanza alto

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Cenerentola a un certo punto il principe viene con la scarpetta e ti porta a palazzo…

DANIELE AUTIERI Qui non è arrivato nessun principe?

LUCA CAMPEDELLI - PRESIDENTE CHIEVO VERONA Qui non è arrivato nessuno. Diciamo che sembriamo più la strega cattiva de Biancaneve.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Il Chievo era davvero la strega cattiva del calcio italiano? Relazioni riservate dell’Agenzia delle Entrate dimostrerebbero che non era meno cattiva di altre streghe. La quasi totalità delle società di calcio è in ritardo con i pagamenti. Non solo degli stipendi, ma anche delle incombenze fiscali e pensionistiche.

DANIELE AUTIERI Dai documenti che abbiamo recuperato emerge che almeno la metà dei club di serie A è in ritardo con i pagamenti.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Le società di calcio sono tutte in condizioni di squilibrio economico talvolta anche finanziario. Come anche le imprese non calcistiche, la prima cosa che si fa non si paga lo stato, non si paga l’Iva, quindi non mi stupisco per niente.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO I club non pagano perché hanno finito i soldi. Almeno i più grandi, a partire dall’Inter campione d’Italia che per raccogliere finanza sul mercato ha sottoscritto un bond da 300 milioni di euro.

DANIELE AUTIERI Lei come definirebbe la situazione finanziaria dell’Inter?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO La definirei come minimo pesantissima. Nel senso che ha una marea di debiti, credo che sia sugli 800 milioni di euro, 900 milioni di euro di debiti a fronte di un 300 milioni di euro di crediti, quindi hanno un grosso squilibrio.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Se il futuro è incerto la proprietà cinese dell’Inter ha cercato nuovi modi per mettere una pezza sul presente. Nel 2019 presta al Genoa il calciatore Andrea Pinamonti con obbligo di riscatto e iscrive a bilancio una plusvalenza di quasi 20 milioni di euro. Il 1° settembre del 2020 il Genoa onora il patto e riscatta Pinamonti a 20 milioni, ma pochi giorni dopo – il 24 settembre – l’Inter lo ricompra a 22. Un gioco di prestigio, simile alla scelta di rivalutare i beni di sua proprietà.

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Loro hanno rivalutato il marchio Inter e la libreria media, che avevano comprato dalla rai.

DANIELE AUTIERI Di quanto hanno rivalutato la libreria e il marchio?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Si, 90 milioni il marchio e 25 milioni la libreria

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO In questo caso la zattera di salvataggio del calcio italiano è stata la Federcalcio, che il 10 settembre ha approvato questa nota di indirizzo all’interno della quale vengono sospesi i controlli sugli adempimenti fiscali e contributivi previsti dalle scadenze federali. Un provvedimento preso da una federazione ancor prima che venga discusso dal governo.

DANIELE AUTIERI Cosa significa questo provvedimento della Federcalcio?

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO La Federcalcio dice: se tu non paghi noi non ti sanzioniamo.

DANIELE AUTIERI Non apriamo un’inchiesta su di te e non ti diamo punti di penalizzazione non facciamo niente

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO No.

DANIELE AUTIERI È un modo un po’ per incentivare i club a non pagare…

GIAN GAETANO BELLAVIA - ESPERTO IN RICICLAGGIO Poveri club…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Vabbè, allora la Covisoc, la commissione che controlla i bilanci delle società professionistiche, aveva il 30 giugno lanciato un allarme. Aveva scritto una lettera al presidente della Federcalcio Gravina, aveva detto guardate che avete applicato delle norme buoniste per le iscrizioni al campionato da parte delle squadre di calcio. C’è il rischio che qualcuna ci abbandoni a metà strada, che dichiari il default e metta rischio il regolare svolgimento del campionato. Ma Gravina tira diritto e a settembre dice alle squadre di calcio: guardate che sono interrotti i controlli sul pagamento dei contributi e il pagamento delle tasse. Insomma, un po’ un via libera. Quello che è certo è che le squadre stanno facendo di tutto per aggiustare i bilanci. L’Inter per esempio ha rivalutato per 90 milioni di euro il proprio marchio e ha rivalutato anche di 25 milioni di euro il proprio archivio fotografico e la propria cineteca. Insomma, non ci sarebbe nulla di male vista l’importanza dell’Inter solo che gli hanno affibbiato l’etichetta di eterni a questi valori. Insomma, poi se va in serie B l’Inter che succede? Lo vedremo. Quello che è certo è che le squadre sono sempre alla ricerca disperata di liquidità, questo potrebbe avvenire anche attraverso le bollette pazze, come quelle del Milan Real Estate, la società che controlla l’immobiliare del Milan.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La storia di Michelangelo Albertazzi al Milan inizia in questo edificio alle porte di Gallarate. È qui che il club alloggia i suoi giocatori che non hanno una casa a Milano. Un benefit garantito dalla società del quale hanno beneficiato campioni come Ronaldinho, Gattuso, Inzaghi.

DANIELE AUTIERI Era giovanissimo, un ragazzo.

MICHELANGELO ALBERTAZZI - EX CALCIATORE PROFESSIONISTA Io alloggiavo, ho fatto due mesi in convitto poi nel frattempo mi preparavano questo appartamento… In comodato d’uso dove c’erano altri giocatori come Kalac, Inzaghi, Gattuso, c’era Ancelotti.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Michelangelo Albertazzi milita dal 2008 al 2011 nel settore giovanile del Milan e dal 2014 al 2015 in prima squadra. La prima volta che varca il portone dell’edificio ha solo 16 anni e la società gli assegna l’appartamento che era stato di Rino Gattuso. Il patto, per lui come per tutti i condomini, è semplice: il club mette a disposizione l’appartamento, il calciatore paga le utenze.

MICHELANGELO ALBERTAZZI - EX CALCIATORE PROFESSIONISTA Io mi ritrovavo detratte dalla busta paga cifre assurde si parla anche di 9mila euro in un mese e giustificate come spese condominiali luce e gas. Ho iniziato a chiedere semplicemente di vedere la bolletta, come mai c’era qualche problema, era il contatore, non lo so… Per farla breve negli anni, ormai sono passati 9 anni, 10 anni, per i 3, 4 anni che ho usufruito di questa casa qui non ho mai avuto una bolletta reale.

DANIELE AUTIERI In quei 3, 4 anni quanto ammontano le spese condominiali che ha dovuto sostenere?

MICHELANGELO ALBERTAZZI - EX CALCIATORE PROFESSIONISTA Io so che mi hanno trattenuto una cifra intorno ai 150mila euro.

 DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel 2015 a Casa Milan c’è una riunione tra Albertazzi, il suo procuratore, e lo staff del Milan. Una riunione convocata per chiarire il mistero delle spese condominiali.

PROCURATORE MICHELANGELO ALBERTAZZI Milan Real Estate che non so se è una cosa vostra o meno…

STAFF MILAN Eh si che è nostra.

PROCURATORE MICHELANGELO ALBERTAZZI Addirittura loro arrivano su con una cartella e devono verificare se coincide. E mi hanno detto: ma qui è tutto sballato

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Secondo i dirigenti del club, il Milan non ha alcuna responsabilità. Gli appartamenti sono infatti di proprietà della Tordisole srl, una società immobiliare che ha siglato un contratto di locazione con la Milan Real Estate, l’immobiliare che per anni è stata guidata da Adriano Galliani e oggi da Paolo Scaroni. La Tordisone segnala alla Milan Real Estate i costi e quest’ultima li detrae dagli stipendi dei calciatori.

DANIELE AUTIERI Rispetto a questi appartamenti di Gallarate che affittavate alla Milan Real Estate eravate voi a segnalare i costi delle utenze a loro?

ROBERTO TONETTI – AMMINISTRATORE TORDISOLE SRL Ma in realtà loro facevano un contratto e se le intestavano loro quindi non avevamo noi riscontro.

 DANIELE AUTIERI Ma a voi non risulta che arrivassero bollette molto elevate ad alcuni giocatori?

ROBERTO TONETTI – AMMINISTRATORE TORDISOLE SRL No, no. Allora l’immobile dove stanno è un immobile importante, c’è la piscina, la portineria, sono sempre state affittate a loro, le abbiamo sempre affittate e vendute senza che ci fosse questo problema. I calciatori si sa, vivono la loro vita come dire, non è che sono proprio parchi nei consumi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dopo gli scontri sui costi dell’abitazione, Michelangelo Albertazzi viene ceduto in via definitiva al Verona e arriva il momento di lasciare la casa. A quel punto dalla società che gestisce gli appartamenti arriva una richiesta di risarcimento danni.

MICHELANGELO ALBERTAZZI - EX CALCIATORE PROFESSIONISTA Mi hanno effettivamente chiesto una cifra spropositata, si parla di più di 100-120- 130mila euro per i danni alla casa.

DANIELE AUTIERI Cioè che lei gliel’avrebbe lasciata danneggiata la casa?

MICHELANGELO ALBERTAZZI Sì, per 120, 130mila euro… adesso non voglio sbagliarmi ma tra danni alla casa e altre spese condominiali dovute agli anni precedenti che non mi avevano tolto dalla busta paga.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Queste sono le foto della casa di Albertazzi dopo il suo trasloco. Una casa ben tenuta. Nonostante questo il calciatore accetta l’accordo, rinuncia a chiedere indietro i soldi delle bollette e in cambio evita la causa per i danni all’abitazione.

DANIELE AUTIERI Lei aveva delle prove…

 MICHELANGELO ALBERTAZZI Io avevo tutte le prove, i testimoni, i filmati quando ho lasciato la casa. L’unica cosa strana era queste cose che non sono mai state spiegate. A quel punto io ho detto vi chiedo i soldi del mio contratto che mi avete tenuto ingiustamente, poi c’era anche uno scivolo di contratto non pagato. Alla fine si è venuto a un patteggiamento dove loro hanno rinunciato a chiedere soldi per danni che in realtà non c’erano.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La questione si chiude per sempre e nessun altro giocatore denuncia le anomalie delle bollette pazze del Milan, ma i resoconti interni delle spese condominiali che siamo riusciti e recuperare dimostrano come quella delle bollette pazze fosse una prassi comune.

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora in quegli alloggi ci sono dei campioni come Nesta, Inzaghi, Ronaldinho, Gattuso, però certo loro hanno dei contratti milionari, se ala fine del mese gli detrai qualche migliaio di euro loro nemmeno se ne accorgono. Cosa diversa invece se riguarda un giovane della primavera come Michelangelo Albertazzi, che ha uno stipendio mensile di circa 10mila euro, se ne detraggono 9 per pagare condominio e utenze del gas e utenze della luce, lui ci fa subito caso. Ed è per questo che chiede spiegazioni a Milan Real Estate. Dice: mi fate vedere le bollette originali, quelle di Enel e Eni? Allora manager di Milan Real Estate era Adriano Galliani, oggi è Paolo Scaroni. Solo che invece le bollette non gliele fanno vedere, tranne in un paio di casi, e gli fanno vedere solamente i rendiconti della Tordisole, la società proprietaria degli immobili che vengano affittati poi ai giocatori. Per la Tordisole non c’è nulla di anomalo in quei conguagli. Quando invece Albertazzi viene poi venduto al Verona, lui che cosa fa? Minaccia una causa al Milan Real Estate e chiede indietro quei 120mila euro che lui suppone siano frutto di bollette gonfiate. È solo a quel punto che Milan Real Estate chiede danni ad Albertazzi per la stessa cifra equivalente, 120 mila euro, perché secondo loro ci sarebbero stati dei danni all’appartamento di Albertazzi. M ainsomma dalle foto e dalle immagini che abbiamo visto non ci sarebbero danni. Insomma, alla fine fanno pari e patta: Albertazzi non chiede i soldi delle bollette e Milan Real Estate non chiede i soldi per i danni. Insomma, finisce così in una bolla di sapone. Gli unici che incassano sempre sono i procuratori dei giocatori. Talmente potenti che questa volta ci conducono ad un intrigo internazionale.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Rino Gattuso, Ringhio per gli amici, il campione del mondo divenuto allenatore è incappato in una brutta esperienza con la Fiorentina. Un amore nato e morto in un amen. Terzo incomodo, secondo molti, il suo procuratore Jorge Mendes, uno degli agenti più potenti al mondo, capace di negoziare nel 2020 oltre 1 miliardo di euro di contratti, compreso quello di Cristiano Ronaldo.

DANIELE AUTIERI Perché nascono dei problemi tra il procuratore Mendes e la Fiorentina?

PROCURATORE Perché nel momento in cui Gattuso firma e diventa l’allenatore questa estate, Mendes chiede alla Fiorentina l’acquisto di tre, quattro giocatori tra i 20 e i 30 milioni di euro.

DANIELE AUTIERI È immediato… quasi contemporaneo

PROCURATORE Si, è una condizione successiva alla firma ma diventa necessaria per il deposito del contratto.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per alcuni di questi calciatori Mendes è l’agente, per altri l’intermediario. Uno di loro è Sergio Oliveira, un 29enne che veniva dal campionato greco. Alla Fiorentina Mendes chiede 20 milioni di euro e un contratto di 5 anni a 4 milioni di euro l’anno.

DANIELE AUTIERI Perché, come ad esempio nel caso di Oliveira, la Fiorentina si sente sotto scacco del procuratore?

PROCURATORE Mendes ha chiesto di dare una risposta dal lunedì alla domenica, in una settimana…

DANIELE AUTIERI La squadra poteva non accettare l’acquisto e finiva là.

PROCURATORE Se la Fiorentina non avesse accettato l’acquisto rimaneva pendente la situazione Gattuso, il contratto era firmato ma non depositato.

JOE BARONE - GENERAL MANAGER FIORENTINA Buongiorno, è una bellissima giornata di sole, con il nuovo allenatore, il nostro Gennaro Gattuso.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO La Fiorentina non cede e il 17 luglio, a meno di un mese dall’annuncio del nuovo allenatore, un comunicato del club ufficializza la rottura con Rino Gattuso.

RINO GATTUSO - ALLENATORE A me chi mi conosce nel mondo del calcio sa che io sono uno che parla chiaro, non sono uno che sta dietro ai soldi. Avevo firmato un contratto milionario l’ho lasciato perché le promesse che sono state fatte non sono state mantenute.

DANIELE AUTIERI A me risulta che Mendes volesse piazzare quattro calciatori alla Fiorentina e che questa fosse una sua condizione per la sua permanenza all’interno del club…

RINO GATTUSO - ALLENATORE I giocatori non erano 4, c’erano Silva e Guedes, non erano 4 giocatori. Dopo ripeto, la storia dice ad oggi che io non ho mai preso un giocatore di Jorge Mendes.

DANIELE AUTIERI Sì ho capito, ma a suo avviso non c’è un conflitto di interessi quando un agente tutela sia gli interessi di un allenatore che di un calciatore?

RINO GATTUSO - ALLENATORE Io sono d’accordo che ci può essere un conflitto di interesse ma poi sta anche alle persone. Io penso che quando una persona è una persona perbene e non vuole nascondere nulla e non c’ha scheletri nell’armadio si comporta bene.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Dopo la disavventura di Gattuso e lo scontro con Jorge Mendes, la squadra del tycoon italo-americano Rocco Comisso si trova alle prese con altri agenti, quelli della stella serba del club, Dusan Vlahovic. Una brutta storia, che porta Comisso a dichiarare pubblicamente: “Con gli agenti è un Far West, non mi faccio ricattare”

DANIELE AUTIERI In che momento la Fiorentina comincia a trattare il rinnovo di Vlahovic l’attaccante

PROCURATORE La Fiorentina presenta una prima proposta a dicembre del 2020. I suoi procuratori volevano parlare, hanno chiesto come commissione 2 milioni e mezzo. Una cifra che per la Fiorentina considerando Vlahovic un attaccante molto buono su cui contare che poi è esploso quest’anno ha fatto anche 20 gol, una cifra anche ragionevole.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Società e agenti iniziano a dibattere su tutto, dal compenso del calciatore alla clausola rescissoria, la cifra che la Fiorentina sarebbe obbligata ad accettare se si presentasse un eventuale acquirente del calciatore. Ma la rottura si consuma sulla richiesta di una percentuale elevata da riconoscere agli agenti stessi in caso di vendita del calciatore ad un altro club.

DANIELE AUTIERI Ad oggi la fiorentina ha detto che ha rotto i rapporti con gli agenti di Vlahovic. Perché si è arrivati a questa rottura? Che gioco facevano gli agenti?

PROCURATORE Un gioco al rialzo. Secondo il club dietro questo gioco c’è l’interesse e lo so per certo di altre squadre, sia italiane che straniere.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO A tutelare gli interessi del calciatore è la International Sports Office di Belgrado, rappresentata in Italia dal procuratore Lodovico Spinosi.

LODOVICO SPINOSI – AGENTE ITALIANO DI DUSAN VLAHOVIC Hanno detto un sacco di stupidaggini.

DANIELE AUTIERI Sì?

LODOVICO SPINOSI – AGENTE ITALIANO DI DUSAN VLAHOVIC Sì, ma ho sentito roba di connivenza con cose strane, personaggi equivoci in Serbia, ma assolutamente purtroppo sono delle voci che temo stia mandando in giro la Fiorentina per giustificare il fatto che rischiano di perdere il giocatore. Io lavoro con loro e sono delle persone normalissime che vengono da buone famiglie serbe, famiglie importanti in Serbia.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Per capirne di più raggiungiamo la International Sports Office in una Belgrado irriconoscibile. I vecchi idoli sopravvivono ancora, ma la città è nel pieno di una incredibile speculazione urbanistica che punta a trasformare il suo skyline. Gli uffici dell’agenzia sono invece nel centro storico, all’interno di questo palazzo circondato di telecamere di sicurezza. Proviamo più volte a contattarli ma nessuno risponde al citofono.

DANIELE AUTIERI Che tipo di agenzia è questa?

IVANA JEREMIC - DIRETTRICE BALKAN INSIGHT È un’agenzia molto giovane. È stata fondata nel gennaio del 2015 e Vlahovic è stato il primo calciatore registrato, appena due settimane dopo la registrazione della società alla camera di commercio serba.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Ivana Jeremic viene dal Centro di Giornalismo Investigativo della Serbia e oggi dirige la testata Balkan Insight. Da anni lavora sulle relazioni tra la International Sports Office e il Partizan di Belgrado, una delle due squadre cittadine controllata direttamente dallo Stato. La rete di relazioni della Fiorentina arriva però ben più in alto, fin dentro le stanze del potere dove si muove con maestria il Segretario Generale del Governo serbo, Novak Nedic.

IVANA JEREMIC - DIRETTRICE BALKAN INSIGHT I collegamenti tra il Partizan e l’International Sports Office vengono dall’amicizia tra il proprietario dell’agenzia, Grgic, e un membro del governo, il segretario generale Novak Nedic. Quello che sappiamo è che la madre di Novac Nedic aveva delle quote di una società, quote che sono state poi rilevate da Grgic. Circa sei anni dopo questo scambio di quote Nedic ha sostenuto l’ingresso della International Sports Office negli affari del club

DANIELE AUTIERI Quindi Nedic ha un ruolo ufficiale anche dentro il Partizan?

IVANA JEREMIC - DIRETTRICE BALKAN INSIGHT Nedic faceva parte del management del club ed era uno dei membri del board.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questo è il contratto che dimostra il passaggio di quote tra la madre di Novac Nedic e Dejan Grcic nel controllo della branch serba di una società con sede nel Delaware. Tutto ruota intorno al Partizan di Belgrado, una delle squadre cittadine, con un passato e un presente gloriosi, ma anche una fucina di nazionalismo, tifo violento, crimine di strada.

BOJANA PAVLOVIC – GIORNALISTA KRIK In Serbia abbiamo due grandi club controllati dallo stato, la Stella Rossa e il Partizan. Quello che ogni governo prova a fare quando va al potere è prendere il controllo di questi club perché ci sono dietro tanti soldi. Quello che sappiamo, su cui abbiamo investigato per anni, è il tentativo del presidente Aleksander Vucic di prendere il controllo del club mettendo persone a lui vicine nel management.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Nel 2014 una guerra tra bande combattuta tra gli ultras del Partizan segna l’ascesa dei Giannizzeri, un nuovo gruppo, più forte e più violento degli altri. E proprio accanto ad alcuni supporter di questo gruppo è stato visto più volte il figlio del presidente della Serbia, Danilo Vucic.

BOJANA PAVLOVIC – GIORNALISTA KRIK La prima volta che lui è stato visto con queste persone è stato in uno stadio di calcio, durante i mondiali di calcio in Russia.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Questa è la prima immagine che ritrae Danilo Vucic con il gruppo di supporter più estremo del Partizan. Una circostanza che l’entourage del presidente spiega parlando di un incontro casuale allo stadio.

BOJANA PAVLOVIC – GIORNALISTA KRIK Ci sono foto di Vucic con Aleksander Vidoevic. Sappiamo con certezza, grazie alle informazioni confermate dalla Polizia, che Aleksander Vidoevic è considerato un membro attivo di questo gruppo criminale molto pericoloso.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Bojana Pavlovic è una giornalista di Krik, l’urlo in serbo, un network di giornalisti investigativi impegnati contro la corruzione e le mafie. Una sera, su segnalazione di una fonte, raggiunge un bar in centro dove Danilo Vucic il figlio del presidente siede in compagnia con alcuni uomini vicini ad ambienti criminali. Tra loro c’è anche il capo ultras Aleksander Vidohevic. E li fotografa.

BOJANA PAVLOVIC – GIORNALISTA KRIK Ho fatto questa foto e dopo sono stata fermata da alcuni uomini che mi seguivano e dicevano di essere della polizia. Mi sono fermata e mi hanno detto che era proibito scattare foto a persone protette.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Poco dopo Aleksander Vidoevic esce dal caffè e le fa ridare il telefono. In quel momento gli uomini della polizia scompaiono. La giornalista denuncia ma il caso viene immediatamente chiuso. Lei riesce comunque a salvare le foto, ed ecco una nuova immagine che ritrae il figlio del presidente insieme al capo ultrà Vidoevic.

BOJANA PAVLOVIC – GIORNALISTA KRIK Recentemente il gruppo dei Giannizzeri ha cambiato nome e si è molto indebolito. Negli anni ha commesso reati violenti e adesso alcuni componenti del gruppo sono accusati di omicidi, rapimenti, traffico di droga e possesso illegale di armi.

DANIELE AUTIERI FUORI CAMPO Danilo Vucic e suo padre, il presidente, hanno preso più volte le distanze da questo gruppo, spiegando che il giovane Vucic è solo un grande appassionato di calcio. Ed è forse per questo che la sua figura ricompare al fianco di Dusan Vlahovic, il calciatore della Fiorentina che – secondo alcune fonti qualificate vicine al club – avrebbe tra i suoi agenti anche il figlio del presidente serbo Danilo Vucic. Gli altri agenti del calciatore negano e nega anche lo staff del Presidente. Proviamo allora a domandarlo direttamente alla stella dei Viola.

DANIELE AUTIERI Ciao Dusan, sono un giornalista della Rai ti posso chiedere solo una cosa? Volevo sapere del contratto con la Fiorentina, volevo sapere se lo rinnovi, non lo rinnovi? Ti va di dirmi…

DUSAN VLAHOVIC Ciao amico…

DANIELE AUTIERI Me ne vado solo una cosa…

DUSAN VLAHOVIC O, vado a fare allenamento amico.

DANIELE AUTIERI Vucic, il tuo agente, il figlio del presidente serbo…

DUSAN VLAHOVIC Sto andando…

DANIELE AUTIERI Vucic, il tuo agente…

SIGFRIDO RANUCCI IN STUDIO Allora, il campione della Fiorentina Vlahovic ha un contratto che scade tra un anno e come spesso avviene in queste situazioni si cerca di trovare un accordo per rinnovarlo: da una parte ci sono gli uomini della società, il direttore sportivo, dall’altra gli agenti del calciatore serbo. Solo con chi sta trattando la Fiorentina? E qui c’è un’ombra: da voci incontrollate pare che uno degli agenti, anzi l’agente occulto del calciatore, sia Danilo Vucic, figlio del presidente serbo Alexander Vucic. Fonti presidenziali smentiscono questa ipotesi, quello che è certo è che invece l’International Sport Office, cioè la società che ha la procura del calciatore, ha, se la guardi dentro, se guardi nella pancia, un filo che conduce nel governo: è quello di Nedic, il potente segretario del governo serbo. Ora che le squadre di calcio siano uno strumento per il consenso della politica, questo è noto da tempo. Che siano anche un bacino clientelare di voti, anche questo è noto da tempo. Ma ora che anche i procuratori siano invece collegati alla politica, insomma rappresenta una evoluzione preoccupante. Perché poi come la coniughi la commessa che si intasca un procuratore con l’ipotesi di un finanziamento a un politico? Le infiltrazioni come abbiamo visto sono sempre pericolose. Avevamo parlato nella scorsa puntata della criminalità all’interno dei procuratori, abbiamo parlato anche di una misteriosa aggressioni che aveva subito Davide Lippi. Ecco ci tiene a far sapere che quell’aggressione era finalizzata a rubargli l’orologio e non è da considerarsi una spedizione punitiva per la compravendita di giocatori.

Antonio Barillà Giuseppe Legato per “La Stampa” il 27 novembre 2021.  Le operazioni di calciomercato effettuate dalla Juventus nell'ultimo triennio, che hanno generato in più circostanze discusse plusvalenze, già al centro di accertamenti da parte della Consob e poi della Covisoc, organismo di controllo delle società di calcio, diventano adesso un'ipotesi di accusa per la Procura di Torino che ha inviato i militari della Guardia di Finanza alla Continassa e nella sede milanese del club bianconero per acquisire documenti. Sei gli indagati, tra cui il presidente Andrea Agnelli, al vertice della società dal 19 maggio 2010. Con lui il vicepresidente Pavel Nedved, l'ex managing director area football Fabio Paratici, adesso al Tottenham, l'ex managing director area business Stefano Bertola, il direttore finanziario Stefano Cerrato e il suo predecessore Marco Re. Sia Bertola sia Re non fanno più parte dell'organigramma societario bianconero. I sei dirigenti sono accusati di false comunicazioni delle società quotate ed emissione di fatture per operazioni inesistenti: è altresì ipotizzato, a carico della società, il profilo di responsabilità amministrativa da reato, previsto qualora una persona giuridica abbia tratto vantaggio dalla commissione di taluni specifici illeciti. L'indagine, denominata Prisma, che ha avuto avvio nel maggio 2021 ed è affidata ad un pool di Magistrati del Gruppo dell'Economia, composto dai Sostituti Procuratori Ciro Santoriello, Mario Bendoni e dal Procuratore Aggiunto Marco Gianoglio, fa seguito come detto ad accertamenti di Borsa o interni al calcio, estesi non solo il club bianconero: al centro movimenti di calciatori con valutazioni spesso sospette che lascerebbero trasparire l'intenzione di creare plusvalenze fittizie finalizzate al falso in bilancio. Materia intricata che la magistratura ha trattato già in passato scontrandosi sovente con la difficoltà di stabilire il valore reale ed oggettivo di un calciatore, un parametro che possa consentire di inchiodare i responsabili di valutazioni gonfiate. In realtà, non esistendo listini o riferimenti, ogni società può essere libera di trattare su basi che ritiene eque. Tra l'altro, nell'indagine calcistica sono stati registrati in altre realtà operazioni coinvolgenti calciatori ai quali sono state attribuite valutazioni elevate e poi finiti in categorie molto basse, cosa che alla Juventus non si è verificata. Per questo, a fronte dei precedenti accertamenti, pur senza commentare è sempre stata ostentata tranquillità. Silenzio anche ieri davanti all'apertura dell'inchiesta e all'acquisizione dei documenti della Guardia di finanza: «I finanzieri del Nucleo di Polizia Economico-Finanziaria Torino, delegati alle indagini, sono stati incaricati di reperire documentazione ed altri elementi utili relativi ai bilanci societari approvati negli anni dal 2019 al 2021, con riferimento sia alle compravendite di diritti alle prestazioni sportive dei giocatori, sia alla regolare formazione dei bilanci - recita il comunicato della Procura -. Al vaglio vi sono diverse operazioni di trasferimento di giocatori professionisti e le prestazioni rese da alcuni agenti coinvolti nelle relative intermediazioni». Sotto la lente della magistratura sono finiti i trasferimenti di Pereyra da Silva (8 milioni), Marques (8,3), Rovella (18), Portanova (10) e Petrelli (8), oltre ad Arthur (72) inserito in uno scambio con Pjanic (60). In alcuni casi, quindi, si tratta di Under 23. A tutela del mercato finanziario, le perquisizioni sono state avviate successivamente alla chiusura delle contrattazioni settimanali di Borsa italiana, ove il club calcistico è quotato nell'ambito del Mercato Euronext Milan.

Plusvalenze Juventus, il pm accusa: Agnelli consapevole del sistema. Simona Lorenzetti e Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 27 novembre 2021. A un certo punto, lo squilibrio economico e finanziario aveva portato gli stessi manager bianconeri a un paragone che rendeva l’idea della situazione: la Juve è come «una macchina ingolfata». Non è solo questione di valutazioni (di giocatori), ma anche di intercettazioni (da luglio fino a pochi giorni fa) l’inchiesta della Procura di Torino e della guardia di finanza che ha messo sotto accusa i conti, e i vertici, della società. Per l’accusa, dagli accertamenti si è «avuta espressa conferma in merito alla “gestione malsana delle plusvalenze”, talvolta utilizzate quale autentico strumento “salva bilanci”, cioè in modo distorto». Un sistema noto a tanti: «Per quanto emerso dalle attività di ascolto, i vertici del cda, in primis il presidente Andrea Agnelli, appaiono, di fatto, ben consapevoli della condotta» e «delle conseguenze estremamente negative sotto il profilo finanziario». Che, si sente in un’intercettazione, «non era solo per il Covid, lo sappiamo bene!». Ieri Agnelli ha parlato alla squadra, come raccontato da Allegri dopo il ko con l’Atlanta: «Ha fatto un bellissimo discorso, l’ambiente è sereno e tranquillo. La società penserà a tutto». A partire da una nota, a tarda sera: «Juventus sta collaborando con gli inquirenti e con la Consob e confida di chiarire ogni aspetto, ritenendo di aver operato nel rispetto delle leggi e delle norme che disciplinano la redazione delle relazioni finanziarie, in conformità ai principi contabili e in linea con la prassi internazionale della football industry e le condizioni di mercato». Resta il quadro tratteggiato dai pm Mario Bendoni, Ciro Santoriello e dall’aggiunto Marco Gianoglio nelle 12 pagine del decreto di perquisizione che, venerdì sera, ha fatto scattare il blitz delle Fiamme gialle: al quartier generale del club, nel training center di Vinovo e negli uffici milanesi. Con contestuale avviso di garanzia ad Agnelli, al vice presidente Pavel Nedved e all’ex capo dell’area tecnica Fabio Paratici (ora al Tottenham), oltre a un dirigente (e due ex) del settore finanza. Ipotesi di reato: false comunicazioni sociali ed emissione di fatture per operazioni inesistenti. Era «il meccanismo delle plusvalenze» — secondo le indagini del nucleo di polizia economico-finanziaria della Finanza — il «correttivo dei rischi assunti in tema di investimenti e dei costi connessi ad acquisti e stipendi “scriteriati”». Per un motivo che, qua e là, spunta dalle telefonate: proprio gli investimenti oltre le previsioni del budget e gli «ammortamenti e tutta la m. che sta sotto che non si può dire». I conti sono presto fatti dai pm, sulla base delle operazioni analizzate dai militari: nei tre anni contabili oggetto di indagine, ci sono state «plusvalenze per 322.707.000 euro», di cui oltre 282 milioni da operazioni con «profili di anomalia». Attività che, sempre secondo gli investigatori, sono state di «assoluto rilievo» per i bilanci, limitando il rosso dei libri contabili. Mentre si registrava «la costante crescita di siffatta voce (le plusvalenze, ndr), ad eccezione dell’ultimo esercizio, in via del tutto proporzionale all’aumento delle perdite e degli ammortamenti». Le attività di mercato sospette — secondo la Procura — vanno dalle «cessioni di giovani calciatori» con «corrispettivi rilevanti e fuori range» alla «scrittura privata» sulle retribuzioni arretrate di Cristiano Ronaldo. «La carta famosa che non deve esistere tecnicamente», si sente in un’intercettazione. Un meccanismo che gli investigatori identificano come «gestione Paratici», l’uomo «al vertice dell’area sportiva fino al giugno 2021», ma appunto ben noto ai massimi livelli della Juve. Come confermava un manager, in un’intercettazione: «Hanno chiesto di fa’ plusvalenze». E ancora: «Che almeno Fabio, dovevi fa’ plusvalenze e facevi plusvalenze». E ieri mattina, per oltre nove ore (verbale secretato), i pm hanno sentito come testimone Federico Cherubini, dal 2012 braccio destro dell’ex ds e ora al suo posto. Seguiranno altre audizioni, pure perché il materiale è vasto: dagli affari con altri club ai compensi e agli incarichi di alcuni procuratori.

(ANSA il 27 novembre 2021) - Plusvalenze per 282 milioni in tre anni "connotate da valori fraudolentemente maggiorati”. C'è questo dato alla base dell'indagine della procura di Torino e della Guardia di Finanza, che ieri è sfociata in una serie di perquisizioni negli uffici della Juventus. Indagati i vertici del club bianconero

(ANSA il 27 novembre 2021) - Ci sono accertamenti anche sui rapporti economici con Cristiano Ronaldo nell'inchiesta della procura di Torino e della guardia di finanza sui conti della Juventus che ieri ha portato a una serie di perquisizioni. Il calciatore non risulta indagato. I militari però hanno ricevuto dai magistrati l'incarico di cercare "documenti e scritture private" relative al contratto e alle retribuzioni arretrate.

(ANSA il 27 novembre 2021) - La Juventus paragonata a una "macchina ingolfata" a causa di investimenti oltre le previsioni di budget e di altre operazioni poco accurate, tra cui gli stipendi eccessivi. E’ lo scenario che stanno disegnando gli inquirenti della procura di Torino nell'inchiesta che ieri ha portato la Guardia di Finanza a perquisire le sedi della società. Nel corso dell'indagine sono state svolte intercettazioni telefoniche.

Da calcioefinanza.it il 27 novembre 2021. L’indagine avviata dalla Procura di Torino sulle presunte responsabilità della dirigenza della Juventus sul tema plusvalenze è molto più complessa di quanto possa apparire a un primo sguardo. Finora si era pensato che ad accendere per prima i fari sulle operazioni del club bianconero fosse stata la Consob. Fari – ricorda La Gazzetta dello Sport – che si pensava si fossero accesi con una verifica ispettiva sulle società quotate in Borsa, e che le anomalie emerse già in questa fase avessero fatto interessare la Covisoc prima e la Procura federale poi, con tanto di apertura di fascicolo in ambito sportivo alla fine di ottobre. 

Juventus plusvalenze cosa rischia – L’indagine “Prisma”

In realtà l’indagine penale, denominata “Prisma” e avviata in maggio, si è interfacciata a più riprese con gli accertamenti della Consob, come si legge nel comunicato della Procura di Torino: «Delle attività in corso è stata data comunicazione alla Consob e alla Procura Federale istituita presso la FIGC». Nel mirino, come ormai noto, sono finite ben 42 operazioni di mercato, alcune molto importanti come lo scambio Pjanic-Arthur con il Barcellona. In totale, si tratterebbe di 50 milioni di euro in “proventi da gestione diritti calciatori” per il club presieduto da Andrea Agnelli.

Juventus plusvalenze cosa rischia – Le prospettive

Ma la Juventus rischia effettivamente qualcosa? Innanzitutto, bisogna separare la risposta in “due parti”. Come spiega il quotidiano sportivo, la prima riguarda i reati di falso in bilancio, illustrati negli articoli 2621 e 2622 del Codice Civile, e del decreto legislativo 74/2000. Il fronte, dunque, delle presunte «false comunicazioni di società quotate in borsa» e «false fatturazioni», naturalmente declinando le pene a seconda della gravità della violazione. Nella seconda si entra nell’ambito della giustizia sportiva. Il tema delle plusvalenze è stato sempre molto complicato da affrontare, a causa della difficoltà di individuare dei criteri oggettivi per la stima del valore di un calciatore, che varia anche in poco tempo e sulla base del mercato e di tantissimi fattori che lo influenzano. È l’articolo 31 del Codice di giustizia della FIGC a regolare la materia. Ma molto viene affidato alla discrezionalità dei giudici. Se restiamo sul piano del «fornire informazioni mendaci, reticenti o parziali» o mettere in atto «comportamenti comunque diretti a eludere la normativa federale in materia gestionale ed economica», con l’eccezione di eventuali altre norme speciali e di violazioni in termini di licenza UEFA, ci si ferma alla ammenda con diffida nel comma 1. Ben più grave è la punizione prevista dal comma 2, che riguarda i comportamenti di «chi tenta di ottenere l’iscrizione a una competizione cui non avrebbe potuto essere ammessa»: qui andiamo dai punti di penalizzazione fino all’esclusione dal campionato. Ma è chiaro che si tratta di situazioni di estrema gravità e i contenuti dell’inchiesta “Prisma” sono ancora tutti da decifrare.

Da ansa.it il 27 novembre 2021. E' Fabio Paratici, ex Chief football officer della Juventus, "l'artefice della pianificazione preventiva delle plusvalenze", ma il Cda della società bianconera, e "in primis il presidente Andrea Agnelli", era "ben consapevole" della sua condotta. Questa, per ora, è l'ipotesi su cui stanno lavorando la procura di Torino la Guardia di Finanza nell'inchiesta sui conti del club. Gli inquirenti si sono avvalsi di numerose intercettazioni telefoniche, dalle quali si ricava che negli ambienti della Juventus era chiaro che le difficoltà non derivavano soltanto dall'emergenza sanitaria: in una conversazione si sente dire "sì ma non era solo il Covid e questo lo sappiamo bene". (ANSA).

Da gazzetta.it il 27 novembre 2021. Dalla scrittura privata con Cristiano Ronaldo “carta famosa che non deve esistere tecnicamente” alla Juve paragonata a “una macchina ingolfata”: trapelano le prime intercettazioni dell’inchiesta della procura di Torino che ieri ha portato alle perquisizioni nelle sedi della società. E secondo i Pm della Procura - come scrivono nel decreto di perquisizione -dalle intercettazioni si è “avuta espressa conferma in merito alla gestione malsana delle plusvalenze, voce di ricavo caratteristica della gestione sportiva, talvolta utilizzata quale autentico strumento “salva bilanci”, cioè in modo distorto”. Le accuse fanno riferimento alle attività di ascolto e agli accertamenti documentali fatti dal nucleo di polizia economico-finanziaria della Guardia di Finanza che avrebbero fatto emergere il meccanismo delle plusvalenze come “correttivo dei rischi assunti in tema di investimenti e dei costi connessi ad acquisti e stipendi scriteriati”. Il meccanismo è stato considerato dagli inquirenti come “gestione Paratici” nel decreto di perquisizione firmato dai pm Mario Bendoni, Ciro Santoriello e dall’aggiunto Marco Gianoglio. “Sono emersi, in più casi, riferimenti alla gestione Paratici, soggetto posto al vertice dell’area sportiva fino al giugno 2021, e artefice della pianificazione preventiva delle plusvalenze”. E nelle intercettazioni ci sono frasi come: “Hanno chiesto di fa’ plusvalenze” e poi: "Che almeno Fabio, dovevi fa’ plusvalenze e facevi plusvalenze”. Ma i vertici del club - secondo quanto raccolto dal nucleo di polizia economico-finanziaria della guardia di finanza - erano a conoscenza del sistema: “Per quanto emerso dalle attività di ascolto, i vertici del cda della società bianconera, in primis il presidente Andrea Agnelli, appaiono, di fatto, ben consapevoli della condotta attuata dall’ex manager bianconero e delle conseguenze estremamente negative sotto il profilo finanziario, non certo derivanti solo dal contesto pandemico in atto”. E una intercettazione, si sente dire: "Sì, ma non era solo il Covid e questo lo sappiamo bene!”. Sotto la lente degli inquirenti c’è il rapporto con Cristiano Ronaldo (e la “carta che tecnicamente non esiste”), anche l’acquisto dal Marsiglia di Marley Ake “per 8 milioni di euro, con contestuale cessione allo stesso Marsiglia di Franco Daryl Tongya Heubang per 8 milioni euro” nel bilancio al 30 giugno 2021. Secondo gli investigatori si tratta di “operazioni cosiddette a specchio” senza movimento finanziario e con effetto positivo sui bilanci. “Sin dai primi accertamenti, sono emersi indizi precisi e concordanti per ritenere che i valori sottesi ai trasferimenti in questione non siano stati oggetto di una fisiologica trattativa di mercato ma che si sia di fronte a operazioni sganciate da valori reali di mercato, preordinate ed attestanti ricavi meramente “contabili”, in ultima istanza fittizi”.

Inchiesta plusvalenze: gli scambi gonfiati coinvolgono almeno 6 club di Serie A. Matteo Pinci su La Repubblica il 29 novembre 2021. In 5 anni quasi raddoppiato, da 381 a 739 milioni, il peso del calciomercato, ma con pochi contanti. Il Genoa ha chiuso affari per 123 milioni con i bianconeri e 78 con l’Inter. Il calcio italiano è un sistema che vive regolarmente al di sopra delle proprie possibilità, spendendo ogni anno quasi un miliardo più di quanto guadagna. Ma nel silenzio delle proprie istituzioni, ha ideato un sistema che permettesse di non affondare: lo scambio supervalutato di giocatori fantasma. O quasi. Nel 2015, la Serie A fatturava 2,2 miliardi e le plusvalenze - 381 milioni - rappresentavano il 17% della produzione.

Stefano Agresti per il “Corriere della Sera” il 28 novembre 2021. C'è chi la definiva «finanza creativa». E chi, con toni compiaciuti e ammirati definiva i dirigenti della Juve «i maghi delle plusvalenze». Dal cilindro bianconero di conigli ne sono usciti a decine, nel corso degli anni: da Pjanic, ceduto al Barcellona per 60,8 milioni mentre Arthur faceva il percorso inverso per 72, fino allo scambio di sconosciuti ragazzini con il Marsiglia, Tongya per Marley, valutati 8 milioni ciascuno. Operazioni di maquillage al bilancio che permettevano, non solo alla Juve, di sistemare i conti senza sborsare denaro e che consistevano nell'attribuzione di quotazioni evidentemente fuori mercato ai calciatori. Una soluzione estrema, emergenziale, già adottata dai nostri club a inizio millennio, tanto che Inter e Milan erano finite nel mirino della magistratura, venendo assolte nel 2008 «perché il fatto non costituisce reato». Da qualche anno le plusvalenze sono tornate di moda, ma la giustizia sembra più intransigente. Il fatto che si sia mossa la Consob non è irrilevante. Fino a qualche mese fa la giustizia sportiva si era occupata di plusvalenze fittizie solo raramente, per di più partendo da un concetto che di fatto annullava ogni possibilità di condanna: la soggettività della valutazione dei calciatori. Nessuno, secondo gli organi della Figc, era in grado di stabilire se davvero i costi dei trasferimenti fossero artatamente gonfiati, anche di fronte a casi che parevano evidenti. «Chi può dimostrare che non si tratti di errori di mercato?», era la tesi. Solo due club sono stati condannati dai tribunali del calcio: Chievo e Cesena. Perché loro sì e gli altri no? Perché in quel caso è stata trovata la «pistola fumante», la prova inconfutabile del reato: un dirigente del Cesena dell'epoca era intercettato dalla magistratura ordinaria per altri motivi e in quelle telefonate concordava con il Chievo le plusvalenze fittizie. Gli atti dell'inchiesta, trasmessi alla giustizia sportiva, hanno portato alla penalizzazione dei due club. Ora che è entrata in azione la Consob gli scenari cambiano anche a livello sportivo, tant' è vero che la Covisoc, l'organismo di vigilanza della Figc, ha segnalato alla procura federale 62 operazioni di mercato. Di queste, ben 42 riguardano la Juve: ce ne sono con Manchester City e Pro Vercelli, Barcellona e Lugano, Samp e Genoa, e poi con Empoli, Parma, Pescara, Pisa, Novara, Amiens, Basilea. Ma nel mirino è finito anche il Napoli per l'operazione Osimhen, acquistato dal Lille per 71,2 milioni. Il problema è che, mentre il nigeriano lasciava la Francia, arrivavano da Napoli 4 calciatori di livello discutibile valutati cifre monstre: il vecchio portiere Karnezis oltre 5 milioni, i ragazzini Palmieri, Manzi e Liguori tra i 4 e i 7 milioni ciascuno. Colpisce, della Juve, anche la portata delle operazioni relative alla squadra B, iscritta alla serie C: nella stagione 2019-2020 il club ha movimentato 39 milioni per quella formazione, mentre le altre 59 società iscritte allo stesso torneo, messe assieme, sono arrivate circa a un decimo di quella cifra. E tutto questo per arrivare a metà classifica. Nelle ultime stagioni si è parlato di plusvalenze anche per altre società, ad esempio per l'Inter che ha spesso ceduto a prezzi alti molti giovani della Primavera (in tre anni ha messo a bilancio oltre 130 milioni grazie ai ragazzi). Ma questo non significa che così fan tutti. Anzi. Molti club sono rimasti alla larga da tale metodo, e di recente qualcuno ha anche alzato la voce. Come la Fiorentina, che le plusvalenze non le ha utilizzate al pari di Milan, Torino, Lazio. Ha detto Commisso, presidente viola: «Nei conti dovrebbe esserci trasparenza, invece la Juve non ha rispettato le norme. E non è stata penalizzata, né in classifica né sul mercato». 

Dagospia il 28 novembre 2021. Estratto dell'articolo di Fabio Pavesi per il Fatto Quotidiano pubblicato da Dagospia il 7 giugno 2021. Debiti che superano costantemente i ricavi; perdite plurimilionarie che si susseguono anno dopo anno; flussi di cassa azzerati. Se fosse un’azienda normale avrebbe già portato i soldi in Tribunale. Non è così per l’industria del calcio italiano che vive da anni sul filo del rasoio. Bilanci scassati (con pochissime eccezioni, Atalanta e Napoli in particolare) affidati alle magie del calciomercato e delle plusvalenze sullo scambio dei giocatori come unico salvagente a rattoppare in parte i conti disastrati. Con in mezzo il ruolo opaco di quel manipolo di agenti e procuratori di allenatori e calciatori che fanno il bello e il cattivo tempo nel gioco ambiguo del calciomercato. Di tutto questo si occupa Report in un’inchiesta sull’affaire miliardario di quell’industria particolare che è il calcio professionistico nella puntata che andrà in onda lunedì sera su RaiTre. Basta sfogliare i bilanci delle squadre per capire che si è di fronte a un enorme gigante dai piedi d’argilla. Un’azienda malata, da anni, con il Covid che ha solo aggravato una situazione da punto di non ritorno. Come documenta l’ultimo report annuale della Figc e di Pwc sul calcio italiano professionistico (serie A B e C) nelle ultime 5 annate dal 2014 al 2019, quindi pre-Covid, le perdite cumulate sono state di 1,6 miliardi. L’ultima annata, il 2018-2019, ha visto perdite per le tre serie professionistiche di 395 milioni su ricavi totali di 3,85 miliardi. Ogni 100 euro incassati 10 diventano perdite secche. Solo i ricchi stipendi di calciatori e allenatori si mangiano in media il 60% dei ricavi, e gli ammortamenti annui dei calciatori sono costi per quasi un miliardo. Dai diritti tv arriva il grosso del fatturato, circa 1,4 miliardi l’anno. Con i ricavi da biglietti che anche in era pre-Covid valgono ormai meno del 10% delle entrate, l’altra gamba dei ricavi dopo i diritti televisivi sono proprio le plusvalenze da calciomercato che solo nel 2018-2019 sono state di ben 753 milioni. Spesso solo numeri contabili dato che con gli incroci di scambio tra club su valori spesso artificiosi, soldi veri in cassa non entrano. Sono, in virtù degli acquisti e cessioni concordate tra club, solo numeri scritti a bilancio. Transazioni figurative che gonfiano i ricavi in modo fittizio, quel tanto che basta a evitare una Caporetto definitiva. Senza quei ricavi aggiuntivi lo sprofondo del calcio italiano varrebbe ogni anno oltre un miliardo di euro, rendendo la situazione debitoria ancora più grave. Già, i debiti: l’altro macigno che incombe sulle squadre. I debiti cumulati, saliti a quota 4,6 miliardi nella stagione 2018-2019 superano ampiamente i ricavi complessivi fermi a 3,8 miliardi. Poche aziende si possono permettere debiti superiori ai fatturati senza fallire. E la stagione che si è appena chiusa ha visto i debiti salire ancora verso quota 5 miliardi. Un peso insostenibile, dato che non ci sono utili e flussi di cassa tali da poter pensare a un futuro rimborso di così tanta esposizione finanziaria. Sono tra l’altro proprio i grandi club ad avere i bilanci peggiori. E non a caso la suggestione SuperLega con una torta più ricca di ricavi da spartire su pochi club in un circolo chiuso, ha subito ammaliato le regine storiche del campionato Juve, Inter e Milan. I tre ex-scissionisti più la Roma vedono un saldo delle perdite complessive della stagione pre-Covid che sfiora i 600 milioni con debiti netti finanziari che valgono quasi 1,4 miliardi.

Da ilnapolista.it il 30 novembre 2021. «Peggio di così c’è solo Calciopoli». È una delle frasi intercettate nelle conversazioni tra gli uomini del presidente della Juventus, Andrea Agnelli. Lo scrive Repubblica a proposito del caso plusvalenze Juve. “Decisive per blindare le accuse, secondo gli inquirenti, restano le telefonate raccolte da luglio a settembre tra i dirigenti della squadra. Il commento più duro sul sistema che regola i rapporti finanziari nel mondo del calcio – «peggio c’è solo calciopoli» – arriva proprio dalle loro conversazioni ed è citato nella premessa dell’annotazione che la Guardia di finanza ha depositato come principale atto di indagine”. Per i pm si tratta di un «intero sistema che è malato». Presto, scrive il quotidiano, “i pm che presto invieranno tutti gli atti delle indagini alla procura federale della Figc, nella convinzione che siano emersi «numerosi profili» da far tremare numerose altre squadre, non solo la Juventus”. Gli atti saranno trasmessi appena cadrà il segreto istruttorio, al termine degli interrogatori e dopo la consulenza tecnica sui conti affidata ad un esperto di bilanci, il commercialista Enrico Stasi. Lo stesso che, già 15 anni fa, aveva esaminato le plusvalenze dei calciatori bianconeri in un’inchiesta fotocopia senza intercettazioni che si era conclusa con l’assoluzione di Luciano Moggi, Roberto Bettega e Antonio Giraudo.

Da gazzetta.it il 30 novembre 2021. C'è la convinzione che quello delle plusvalenze nel calcio sia un sistema malato, sulla base delle risultanze d’indagine dell’inchiesta Prisma. La Procura rivela che tra le carte ci sono elementi che si riveleranno utili per la giustizia sportiva, a proposito della Juve ma anche del sistema calcio nel suo insieme. In particolare tra le intercettazioni, che però al momento sono secretate e lo saranno fino al termine delle indagini perché coperte da segreto istruttorio. È quanto emerge da ambienti del palazzo di giustizia piemontese, dando un seguito alla richiesta di informazioni sul materiale acquisito avanzata dalla Federcalcio e a cui la Procura piemontese ha da subito dato la disponibilità.  Pur avendone la facoltà, secondo quanto emerge la giustizia sportiva non andrà avanti finché non potrà disporre di elementi emersi dall’inchiesta, ovvero i verbali degli interrogatori secretati, le intercettazioni e il materiale coperto da segreto istruttorio che non può essere divulgato fino a quella chiusura delle indagini che secondo le ultime indiscrezioni potrebbe arrivare in tempi relativamente rapidi. Quello che già adesso può essere a disposizione della giustizia sportiva è quel decreto di perquisizione in cui, al di là della necessità di una controparte con cui la Juve potesse fare le operazioni, sono state esplicitamente nominate alcune società, come l’Atalanta nel caso delle cessioni di Romero e Demiral e il Genoa nel caso dello scambio per Rovella.

Mario Sconcerti per calciomercato.com il 30 novembre 2021. Il primo luogo comune da negare sulle plusvalenze è che tanto le fanno tutti. Non è vero, negli ultimi tre anni, cioè quelli in questione nel caso Juve, ci sono almeno quattro società che non ne hanno fatte: Milan, Lazio, Torino e Fiorentina. L’altro è che sono il Male puro. Anche questo non è vero. Le plusvalenze sono il cuore del sistema commerciale, se vendo Vlahovic a sessanta milioni ho solo plusvalenza sana essendo Vlahovic cresciuto nel mio settore giovanile. Il problema non è la plusvalenza, è l’uso che se ne fa. Il confine è il bilancio: se si usano plusvalenze per falsificarlo, si commette un reato serio. Non ho idea se e cosa abbia potuto fare la Juve, c’è un’indagine aperta, direi che hanno fatto anche troppo in fretta ad arrivare ai giornali alcune frasi prese dalle intercettazioni telefoniche. E’ vero invece che le plusvalenze fittizie possono portarsi dietro altri reati, come le fatturazioni false. Sarebbe segno di grande civiltà per tutti astenersi dalla voglia di vedere colpevoli perché tutti siamo innocenti fino a prova contraria. Dare la Juve per colpevole ora, sarebbe come dare del colpevole a chiunque di noi senza sapere nulla, solo per tifo. E questo sarebbe barbaro.

Juventus e plusvalenze, il mea culpa di un dirigente bianconero: «Sognavamo di raggiungere il Real». Stefano Agresti e Massimiliano Nerozzi su Il Corriere della Sera il 30 novembre 2021. La giustizia sportiva in continuo contatto con Procura e Consob. E c’è attesa per alcune intercettazioni: potrebbero risultare rilevanti. La fine di un’epoca, irripetibile e vincente, con nove scudetti filati, può essere contenuta anche nel messaggio di un dirigente bianconero, spedito via whatsapp nel mezzo dell’ultima estate: «Pensavamo di raggiungere il Real, ma è stato comunque un sogno bellissimo». Era la Juve partita da due settimi posti, capace di riprendersi la serie A e, appunto, sfidare le grandi d’Europa, in due finali di Champions. Finché qualcosa s’era forse inceppato: con quell’impennarsi delle plusvalenze che, incrociate con le cifre dei bilanci, sono state l’incipit dell’inchiesta della Procura di Torino e della guardia di finanza. E continua intanto il lavoro di analisi dei documenti sequestrati da parte dei militari del nucleo di polizia economico finanziaria delle Fiamme gialle, anche se al momento «la carta famosa» dei presunti compensi arretrati di Ronaldo non è saltata fuori. Come nessuna rivelazione pare arrivare dall’audizione dei testimoni: ieri è toccato a Paolo Morganti, segretario organizzativo arrivato alla Juve nel febbraio 2019, per due ore davanti ai pm Mario Bendoni, Ciro Santoriello e all’aggiunto Marco Gianoglio. L’inchiesta penale sarà fondamentale anche per il percorso della giustizia sportiva. La Procura federale ha aperto l’indagine ormai da tempo, ma gli strumenti investigativi non le consentono di andare avanti in modo significativo. Finora le plusvalenze fittizie sono state punite con una penalizzazione in classifica soltanto in un caso: quando un’inchiesta penale, attraverso le intercettazioni, ha consegnato ai giudici del calcio le prove che Chievo e Cesena si erano accordate per gonfiare le valutazioni di alcuni ragazzi della Primavera. In tutte le altre circostanze ci si è arenati di fronte alla soggettività della quotazione dei giocatori: una linea che il Tribunale federale ha sempre seguito e alla quale non derogherà. Ma Giuseppe Chiné, capo della Procura, conta proprio su questo: l’esito delle indagini dei pm torinesi. È in continuo contatto con loro, è stato informato in anticipo delle perquisizioni, ma ancora non ha ricevuto alcun atto giudiziario. Succederà quando, con l’avviso di fine indagini, ci sarà il deposito degli atti: cosa che a Torino sperano di fare nel giro di un mese. Una situazione differente rispetto a quanto accaduto con i magistrati di Perugia impegnati nel caso del falso esame di Suarez, che hanno trasmesso le carte dopo mesi di attesa, creando anche un po’ di tensione tra gli 007 della Federcalcio. È diretta anche la linea tra gli organi della Figc e la Consob, che ha già avuto due audizioni — una informale e una formale — con i membri della Covisoc, la Commissione di vigilanza e controllo sulle società. 

Tutte le 42 operazioni sotto indagine, da Pjanic a Cancelo

Tra documenti e intercettazioni dell’inchiesta torinese, ci sono elementi che potrebbero tornare utilissimi alla Procura federale. Soprattutto le telefonate intercettate sui telefoni dei dirigenti juventini, alcune «molto brutte» dal punto di vista sportivo, secondo gli investigatori. Potrebbero non avere valenza penale, ma essere rilevanti per la giustizia sportiva, che segue altri principi. Di sicuro i tribunali sportivi sono più rapidi nello svolgimento delle indagini e nell’istruzione dei processi: negli ambienti della Federazione c’è chi è già pronto a una primavera di fuoco.

L'inchiesta sui conti della Signora. Plusvalenze della Juventus, cosa rischia la società bianconera e quali sono le regole. Astolfo Di Amato su Il Riformista il 30 Novembre 2021. «Sin dai primi accertamenti, sono emersi indizi precisi e concordanti per ritenere che i valori sottesi ai trasferimenti in questione non siano stati oggetto di una fisiologica trattativa di mercato ma che si sia di fronte a operazioni sganciate da valori reali di mercato, preordinate ed attestanti ricavi meramente “contabili”, in ultima istanza fittizi». Questo è il cuore della motivazione del decreto, con cui la procura della Repubblica di Torino ha disposto una perquisizione a carico di alcuni dirigenti della Juventus. Il meccanismo illecito ipotizzato è semplice. Se il giocatore x, acquistato per 10 euro viene poi rivenduto per 1000 euro, sarà possibile portare in bilancio un guadagno (la cosiddetta “plusvalenza”) di 990 euro. Ma se non li vale e vi è l’urgenza di nascondere che il bilancio è in perdita? Si trova un’altra squadra che ha anch’essa la necessità di far figurare un guadagno e che ha un giocatore che vale 10euro. I due giocatori vengono scambiati alla pari e, perciò, senza movimenti finanziari e negli atti si afferma che il loro valore è per ognuno di 1000 euro. Ciascuna delle due squadre porterà in bilancio un guadagno di 990 euro, in quanto il cartellino del giocatore acquisito viene iscritto in bilancio per il valore di acquisto e sarà oggetto di un ammortamento, e perciò di un abbattimento di valore, diluito nel tempo di durata del contratto. In questo modo il bilancio delle due società di calcio ha un evidente, seppure fittizio, miglioramento. Si chiamano “operazioni a specchio” e sono, insieme ad altri analoghi artifici, da tempo nel mirino della Covisoc, l’organismo deputato dalla Figc a controllare i bilanci delle società di calcio professionistico. Ma, a parte quanto avvenuto in una vicenda che ha visto coinvolte le società del Chievo e del Cesena e che registrava la presenza agli atti di inequivocabili intercettazioni telefoniche, la Giustizia sportiva si è sempre fermata di fronte all’obiezione che non sarebbe possibile dare una valutazione economica obiettiva del cartellino di un calciatore e che, comunque, potrebbe anche trattarsi di fisiologici errori di mercato. Oggi, alla Juve è contestata la falsa appostazione in bilancio di ben 282 milioni, relativi a operazioni compiute negli ultimi tre anni. Si tratta di una cifra di entità tale da non poter essere mimetizzata nell’incerto andamento del mercato dei cartellini dei giocatori. Al di là della specifica vicenda oggetto dell’indagine condotta dalla procura di Torino, vi sono alcune considerazioni di carattere generale che occorre svolgere. La prima è che la Juventus, spesso dominatrice del campionato italiano, è sovente coinvolta in vicende che interessano la giustizia penale. Nell’aprile di quest’anno si è chiusa l’istruttoria della procura della Repubblica di Perugia sul caso dell’esame farsa del calciatore uruguaiano Luis Alberto Suarez. Nel 2017 è sorto il problema dell’esistenza di rapporti tra alcuni dirigenti ed esponenti del tifo organizzato legati alla ‘ndrangheta. Si tratta della Juventus rifondata, dopo essere stata protagonista dello scandalo che nel 2005 ha travolto il calcio italiano. Se la “disinvoltura” contestata dalla procura di Torino vi è stata, essa appare poi ancora più grave, ove si consideri che la Juventus è una società quotata, come tale tenuta in modo stringente al rispetto delle regole di trasparenza e correttezza. Di fronte a tutto questo, diventa inevitabile porsi due domande. La prima è se le vicende poco chiare che vedono il coinvolgimento del club bianconero non siano altro che lo specchio di una condotta poco chiara anche sul piano sportivo, atteso che molto spesso avversari e commentatori sportivi hanno lamentato inammissibili distorsioni arbitrali a favore di quel club. La seconda domanda riguarda il mondo del calcio nel suo insieme. Già la circostanza che una squadra, su cui si addensano tanti dubbi, abbia potuto svolgere un ruolo egemone nel calcio italiano fa sorgere il problema di quale sia l’effettivo livello di trasparenza e di correttezza di questo mondo. Ora che si è mossa la procura della Repubblica di Torino, tutti grideranno allo scandalo e chiederanno pulizia. E sarà, ancora una volta, l’ennesima manifestazione di ipocrisia. Questo perché il ricorso alle operazioni a specchio o simili per risanare fittiziamente i bilanci è fatto da tempo notorio, perché le operazioni oggi oggetto di indagine erano chiacchierate già da tempo, perché, mentre sui pretesi torti sportivi subiti si sono spesso levate le voci delle altre squadre e dei commentatori, sul tema della trasparenza economica e della correttezza dei bilanci, salvo rarissime eccezioni, vi è sempre stato il più rigoroso silenzio. Circostanza, quest’ultima, che induce a sua volta a una ulteriore riflessione. Tanto silenzio non è forse dovuto alla circostanza che così fan tutti, o quasi tutti? Del resto, le operazioni a specchio richiedono, necessariamente, un accordo illecito con la controparte. Va aggiunto che la Covisoc ha acceso i fari anche su alcune operazioni di altre società di calcio della serie A. Diventa, allora, inevitabile riflettere su come sia possibile che una pratica illecita, come quella delle plusvalenze fittizie, sia così diffusa nel mondo del calcio. Vi è una sensazione largamente avvertita. Quella secondo cui il calcio viva in una bolla separata dalla realtà, nella quale i metri di valutazione delle condotte sono totalmente diversi da quelli che si applicano ai normali cittadini. Questo si spiegherebbe con il fatto che in una società, in cui non vi è più spazio per eroi e leggende, il calcio sarebbe oggetto di idolatria. E come tale trasferito in un altrove dove valgono regole diverse. Del resto, le cronache hanno spesso raccontato di imprenditori, che, in passato, hanno acquistato una società di calcio per conseguire una sorta di immunità per meriti sportivi. Ma non è più così. Basta considerare che all’entusiasmo, che ha fatto seguito alla vittoria ai campionati europei, si è sostituita una assai diffusa indifferenza di fronte alla mancata qualificazione diretta della nazionale ai prossimi campionati del mondo. Prima vi sono state le crisi del 2008 e del 2011. Oggi, poi, la pandemia. La durezza delle conseguenze, che moltissimi hanno dovuto sopportare, ha, tra le altre cose, tolto la disponibilità a tollerare eccessi e sgrammaticature. Chi ha dovuto subire la chiusura del proprio piccolo negozio o il licenziamento conseguente a una delocalizzazione e anche chi, senza subire direttamente, ha visto la sofferenza degli altri vicino a sé, inevitabilmente sente come un’offesa la possibilità dell’esistenza di una zona franca, senza regole. La avverte come una realtà posticcia, come tale immeritevole di sostegno e di attenzione. L’auspicio è che chi governa il calcio se ne renda conto, prima che il distacco dalla collettività diventi incolmabile. Astolfo Di Amato

Pippo Russo per "Domani" il 30 novembre 2021. Nel linguaggio da relazione finanziaria vengono chiamati “oneri accessori”. Che associati al costo per l’acquisizione dei diritti pluriennali alle prestazioni sportive dei calciatori sono i compensi pagati a agenti e intermediari. Questi ultimi intervengono nella trattativa sia come rappresentanti dei calciatori trasferiti, sia come facilitatori della trattativa fra club acquirente e club cedente. Su molte di queste facilitazioni e sulla loro necessità vi sarebbe parecchio da obiettare, poiché per svolgere certi compiti esistono gli staff che i club pagano regolarmente per occuparsi di trasferimenti. Ma anche molte intermediazioni che gli agenti fanno in quanto rappresentanti dei calciatori presentano profili di eccentricità. Le indiscrezioni sull’inchiesta relativa alla Juventus e al suo intreccio di plusvalenze incrociate fanno emergere il forte interesse dei magistrati per alcune operazioni e per il ruolo che in esse è stato giocato dagli agenti. Ecco chi sono. Si tratta del caso più eclatante. Classe 1973, tedesco di origine iraniana, Mahmoud-Reza Fazeli è a capo dell’agenzia International Soccer Management che ha piantato radici nel calcio tedesco e successivamente si è ben sviluppata anche in Inghilterra, dove è stata aperta un’ulteriore sede della società. Fra i suoi clienti principali troviamo Mario Götze e Mesut Özil. Il suo incontro con la Juventus si costruisce in occasione del trasferimento in bianconero del centrocampista Emre Can. Che arriva nell’estate 2018 alla conclusione del rapporto col Liverpool e perciò potrebbe giungere in bianconero a zero euro. Dunque si può immaginare la sorpresa generale destata dalla lettura del comunicato ufficiale con cui la Juventus ne annuncia l’ingaggio e specifica che esso è costato 16 milioni di euro per costi accessori. Una straordinaria generosità nei confronti dell’agente, che non trova proporzione nel rapporto con gli altri costi di intermediazione della società bianconera di cui la procura della repubblica torinese si starebbe occupando. Va aggiunto che, a certi livelli, i cosiddetti parametri zero quasi mai costano davvero 0 euro, poiché qualche incentivo viene dato per spingere il calciatore e il suo agente a privilegiare l’offerta di un club anziché di un altro. In Portogallo lo chiamano “premio de assinatura” (premio di firma), che quasi sempre beneficia soprattutto l’agente del calciatore. E mai come in questo caso la firma è dorata. Il super-agente portoghese Jorge Paulo Agostinho Mendes, fondatore di Gestifute, entra in ballo con l’acquisizione di Cristiano Ronaldo da parte del club bianconero. Il comunicato ufficiale parla di 12 milioni di euro spesi in sovrappiù alla cifra di acquisizione dei diritti economici (100 milioni di euro) del portoghese e specifica che quel supplemento riguarda il contributo di solidarietà (percentuale destinata ai club che hanno formato il calciatore dal 12° al 23° anno di età) e gli oneri accessori. Quanta parte di questa cifra per il boss di Gestifute? L’ammontare non è esattamente quantificabile perché la presenza della quota in conto contributo di solidarietà (che in genere viene pagata dal club cedente e non da quello acquirente) rende difficile dare risposta. Tuttavia è sufficiente dire che in genere Mendes porta a casa almeno il 10% sul valore pagato per la compravendita dei diritti economici. Nei giorni in cui Cristiano Ronaldo approda a Torino i rapporti fra Mendes e Juventus sono ottimi, tanto che in bianconero arriva un altro cliente di Gestifute, João Cancelo. Ma l’idillio finisce presto, mentre quello fra la Juventus e il fuoriclasse non inizia mai davvero. In questi giorni Mendes se la passa piuttosto male in Portogallo perché da quelle parti gli inquirenti hanno messo sotto ispezione i suoi affari coi club lusitani. L’apertura di un altro fronte giudiziario in Italia gli complicherebbe ulteriormente la vita. Molti lo disprezzano, tutti fanno affari con lui. Carmine “Mino” Raiola, italiano cresciuto in Olanda è in questa fase storica il più spregiudicato fra i super-agenti in circolazione. I suoi rapporti con la Juventus di Andrea Agnelli sono felici e floridissimi. La transazione che sarebbe andata sotto ispezione è quella che riguarda il difensore olandese Matthijs De Ligt, giunto dall’Ajax per 75 milioni di euro, cui vanno aggiunti 10,5 milioni di euro per oneri accessori. Una cifra che corrisponde al 14 per cento del valore dei diritti economici. Che non è nemmeno la percentuale più alta versata dalla Juventus all’agente italo-olandese. Il record rimane quella messa in cassa da Raiola con la cessione del centrocampista francese Paul Pogba al Manchester United nell’estate del 2016. In quell’occasione il super-agente portò a casa circa il 25 per cento dei 105 milioni di euro pagati dai Red Devils, una cifra di oltre 27 milioni di euro. Il rapporto fra la Juventus e Raiola è sempre solido e se n’è avuta ulteriore dimostrazione durante lo scorso calciomercato estivo. La necessità di sostituire in fretta Cristiano Ronaldo ha determinato il ritorno a Torino di Moise Kean, assistito da Raiola che ha imposto anche l’acquisizione di Mohamed Amine Ihattaren. Quest’ultimo è stato subito girato alla Sampdoria, ma non si è mai ambientato a Genova e adesso medita addirittura di lasciare il calcio. Cuore di mamma che batte per il figlio calciatore. La fama della signora Veronique, madre del centrocampista Adrien Rabiot, era già ben presente all’Europa intera prima che l’ex del Paris Saint Germain approdasse in bianconero. Note erano soprattutto le sue litigate coi dirigenti di club e di nazionale, ma anche coi clan familiari degli altri calciatori della nazionale francese (l’ultimo episodio è avvenuto in occasione degli scorsi Europei). Anche per questo motivo Adrien ha portato a termine un rapporto di 7 anni col Paris Saint Germain. E su quale sia stata, fra le due parti, a decidere di condurre a esaurimento il rapporto circolano verità opposte. La sola cosa certa è che nell’estate del 2019 la Juventus potrebbe portare Rabiot a Torino per 0 euro. E invece decide di pagare 1,4 milioni di euro per oneri accessori. Destinati ovviamente alla signora Veronique. Va sottolineato che, fra tutte le cifre menzionate nell’articolo, questa è la più contenuta. Ma se chiedete in giro ai tifosi della Juventus o vi fate un giro per i social bianconeri, troverete dichiarato che anche quel poco è troppo, visto l’irritante rendimento del centrocampista francese durante queste tre stagioni di militanza juventina. Da una disperazione all’altra, ossia da Adrien Rabiot a Aaron Ramsey. Così come il centrocampista francese anche quello gallese provoca un disappunto abbastanza costante nel popolo juventino. Ma non solo questo accomuna i due: c’è che entrambi (come Emre Can) potevano arrivare in bianconero a 0 euro e invece hanno fruttato denaro al proprio agente. Nel caso di Ramsey, che il 30 giugno del 2019 si è liberato del vincolo con l’Arsenal, l’agente si chiama David Baldwin. Inglese, un passato nella potente Base Soccer, Baldwin si è messo in proprio nel 2018 fondando un’agenzia il cui nome suona particolare all’orecchio italico: Avid Sport & Entertainment. L’arrivo di Ramsey comporta per la Juventus un esborso di costi accessori da 3,7 milioni di euro. Quanto al rendimento in campo, condizionato anche da numerosi infortuni, meglio soprassedere. Il signor Baldwin è anche abbastanza attivo sui social. La scorsa estate si è preso la briga di intervenire via Twitter per smentire alcune indiscrezioni di mercato che volevano il suo cliente in procinto di tornare in Premier League, direzione West Ham o Crystal Palace, così come in precedenza aveva respinto le ipotesi di un trasferimento all’Aston Villa o di un ritorno all’Arsenal. Vista l’aria che tira, forse adesso le lascerebbe quietamente correre. Il suo nome non circola nelle indiscrezioni di queste ore. Eppure uno dei più significativi costi per oneri accessori sborsati di recente dalla Juventus riguarda proprio questo agente brasiliano cresciuto all’ombra del potente anglo-iraniano Kia Joorabchian ma adesso forte abbastanza da agire con relativa autonomia. Molti dei principali affari calcistici realizzati sul mercato brasiliano portano la sua firma. E a lui si deve anche il trasferimento in bianconero del giovane Kaio Jorge, strappato al Santos quando era quasi in scadenza di contratto. La società paulista si è dovuta accontentare di 1,5 milioni di euro e se li è visti pure presentare come un segno di magnanimità. Ma la lettura della relazione finanziaria sul bilancio juventino al 30 giugno 2021 riferisce che il costo complessivo per l’acquisizione dei diritti sul giovane brasiliano è di 5,3 milioni di euro. Dunque gli oneri accessori sono costati oltre il 353 per cento in più dei diritti. Un gran colpo per Bertolucci. Che poi sia stato anche un affare per la Juventus, lo dirà soltanto il tempo. 

Salvatore Riggio per corriere.it l'1 dicembre 2021. La Juventus è finita nel mirino della procura di Torino che indaga sulle plusvalenze sospette – effettuate dal club bianconero – per 282 milioni di euro in tre anni, con l’ipotesi principale di reato di falso in bilancio. Oltre alle ben note operazioni come Danilo in bianconero dal Manchester City per 37 milioni di euro – con gli inglesi che presero Cancelo per 65 – e quelle che hanno portato Pjanic al Barcellona per 60 milioni in cambio di Arthur passato alla Juventus per 72 milioni, nel mirino della Procura ci sono anche i cosiddetti scambi «a specchio» che terminano «a somma zero». In sostanza, operazioni nelle quali non girano soldi. Come ad esempio l’acquisto dal Marsiglia del 20enne Aké per otto milioni di euro, in cambio della cessione alla stessa cifra di Heubang, 19enne nato a Torino da genitori camerunensi, cresciuto nel vivaio Juventus. 

Rovella

Nel mirino dei pm anche le trattative effettuate in scadenza di contratto come l’acquisto dal Genoa di Rovella (18 milioni di euro) con cessione ai rossoblù di Portanova (10 milioni) e di Petrelli (otto milioni per lui che oggi gioca nell’Ascoli in Serie B).  

Tra tutte queste operazioni coinvolte, forse Rovella rappresenta la madre di tutti gli «scambi a specchio». Nato il 4 dicembre 2001 a Segrate, alle porte di Milano, è un centrocampista che in serie A ha già totalizzato 36 presenze (40 in totale con i Grifoni). 

Leonardo Mancuso

All’interno di queste operazioni di mercato finite nel mirino della Procura, anche il passaggio di Leonardo Mancuso all’Empoli per 4,5 milioni di euro. Tra l’altro il giocatore è andato anche a segno nella vittoria dei toscani all’Allianz Stadium: 1-0 il 28 agosto scorso. Si tratta di un attaccante nato a Milano il 26 maggio 1992 e cresciuto nelle giovanili del Milan. In bianconero non ha mai collezionato una presenza. Acquistato dalla Juventus nel gennaio 2018, venne lasciato in prestito al Pescara e poi ceduto all’Empoli nel 2019. 

Erasmo Mulé , il più pagato in C

In tutto questo sistema di trasferimenti sospetti per la Procura, ci sono anche alcuni giocatori spostati per la squadra Under 23, che milita in serie C. È il caso di Erasmo Mulè, difensore centrale classe 2003 che la Juventus aveva acquistato per l’Under 23 appunto nell’agosto 2019 per 3,2 milioni di euro dal Trapani. Il più pagato fra quelli che oggi militano in serie C. Oggi il difensore gioca nel Cesena. Ma non è il solo. Giulio Parodi è stato ceduto alla Pro Vercelli, serie C, per 1,32 milioni di euro. Curioso invece il caso di Eric Lanini, attaccante nato nel 1994, che dopo una vita in prestito in giro per l’Italia dopo essere cresciuto nel vivaio juventino, a gennaio 2020, fu ceduto al Parma per quasi tre milioni di euro e che ora, dopo un altro lungo girovagare tra Como e Novara, è alla Reggiana, sempre in C. Altro nome da segnalare quello di Leonardo Loria, portiere del 1999, passato a settembre del 2020 dalla Juventus U23 al Pisa prima di trasferirsi al Monopoli dove milita attualmente. 

Correia e Taboada: le due operazioni col City

Curioso il caso di Felix Correia che passò dal Manchester City alla Juventus per 10,5 milioni di euro. Attaccante portoghese nato nel 2001, oggi gioca nel Parma in B. Inoltre, nel mirino della Procura c’è anche Moreno Taboada, dalla Juventus al City per 10 milioni di euro e che attualmente indossa la maglia del Girona, nella seconda divisione spagnola.

Erik Gerbi nella serie B in Romania

Infine, un altro caso curioso è quello di Erik Gerbi, che gioca nella SSU Politehnica Timisoara, club che disputa il campionato di serie B in Romania: l’attaccante, nato a Ivrea nel 2000, nel settembre 2020 passò alla Sampdoria per 1,3 milioni di euro. Non è finita qui. Tra le operazioni sospette anche quella che ha portato Matheus Pereira dalla Juve al Barcellona B per quasi otto milioni e Daouda Peeters, adesso allo Standard Liegi in Belgio dopo il trasferimento dalla Sampdoria alla Juventus per quattro milioni. Infine, tra i giocatori poco noti ci sono Giacomo Vrioni, che dopo il passaggio alla Juventus dalla Sampdoria per quasi quattro milioni di euro nel gennaio 2020, oggi milita al Wsg Tirol in Austria. In Svizzera, al Lugano, ci sono Kevin Monzialo e Christopher Lungoyi e Kaly Sene al Grassoppher. 

MASSIMILIANO NEROZZI, STEFANO AGRESTI per il Corriere della Sera l'1 dicembre 2021. La fine di un'epoca, irripetibile e vincente, con nove scudetti filati, può essere contenuta anche nel messaggio di un dirigente bianconero, spedito via whatsapp nel mezzo dell'ultima estate: «Pensavamo di raggiungere il Real, ma è stato comunque un sogno bellissimo». Era la Juve partita da due settimi posti, capace di riprendersi la serie A e, appunto, sfidare le grandi d'Europa, in due finali di Champions. Finché qualcosa s' era forse inceppato: con quell'impennarsi delle plusvalenze che, incrociate con le cifre dei bilanci, sono state l'incipit dell'inchiesta della Procura di Torino e della guardia di finanza. E continua intanto il lavoro di analisi dei documenti sequestrati da parte dei militari del nucleo di polizia economico finanziaria delle Fiamme gialle, anche se al momento «la carta famosa» dei presunti compensi arretrati di Ronaldo non è saltata fuori. Come nessuna rivelazione pare arrivare dall'audizione dei testimoni: ieri è toccato a Paolo Morganti, segretario organizzativo arrivato alla Juve nel febbraio 2019, per due ore davanti ai pm Mario Bendoni, Ciro Santoriello e all'aggiunto Marco Gianoglio. L'inchiesta penale sarà fondamentale anche per il percorso della giustizia sportiva. La Procura federale ha aperto l'indagine ormai da tempo, ma gli strumenti investigativi non le consentono di andare avanti in modo significativo. Finora le plusvalenze fittizie sono state punite con una penalizzazione in classifica soltanto in un caso: quando un'inchiesta penale, attraverso le intercettazioni, ha consegnato ai giudici del calcio le prove che Chievo e Cesena si erano accordate per gonfiare le valutazioni di alcuni ragazzi della Primavera. In tutte le altre circostanze ci si è arenati di fronte alla soggettività della quotazione dei giocatori: una linea che il Tribunale federale ha sempre seguito e alla quale non derogherà. Ma Giuseppe Chiné, capo della Procura, conta proprio su questo: l'esito delle indagini dei pm torinesi. È in continuo contatto con loro, è stato informato in anticipo delle perquisizioni, ma ancora non ha ricevuto alcun atto giudiziario. Succederà quando, con l'avviso di fine indagini, ci sarà il deposito degli atti: cosa che a Torino sperano di fare nel giro di un mese. Una situazione differente rispetto a quanto accaduto con i magistrati di Perugia impegnati nel caso del falso esame di Suarez, che hanno trasmesso le carte dopo mesi di attesa, creando anche un po' di tensione tra gli 007 della Federcalcio. È diretta anche la linea tra gli organi della Figc e la Consob, che ha già avuto due audizioni - una informale e una formale - con i membri della Covisoc, la Commissione di vigilanza e controllo sulle società. Tra documenti e intercettazioni dell'inchiesta torinese, ci sono elementi che potrebbero tornare utilissimi alla Procura federale. Soprattutto le telefonate intercettate sui telefoni dei dirigenti juventini, alcune «molto brutte» dal punto di vista sportivo, secondo gli investigatori. Potrebbero non avere valenza penale, ma essere rilevanti per la giustizia sportiva, che segue altri principi. Di sicuro i tribunali sportivi sono più rapidi nello svolgimento delle indagini e nell'istruzione dei processi: negli ambienti della Federazione c'è chi è già pronto a una primavera di fuoco.

(ANSA l'1 dicembre 2021) - Annunciano di volersi avvalere della possibilità di non rispondere all'interrogatorio due degli indagati nell'inchiesta della procura di Torino sui conti della Juventus. Si tratta degli ex manager Marco Re (convocato per oggi) e Stefano Bertola. "Le questioni in discussione - spiega il loro legale, avvocato Luigi Chiappero - sono essenzialmente di carattere tecnico e necessitano di una riflessione".

Massimiliano Nerozzi e Stefano Agresti per il "Corriere della Sera" l'1 dicembre 2021. La fine di un'epoca, irripetibile e vincente, con nove scudetti filati, può essere contenuta anche nel messaggio di un dirigente bianconero, spedito via whatsapp nel mezzo dell'ultima estate: «Pensavamo di raggiungere il Real, ma è stato comunque un sogno bellissimo». Era la Juve partita da due settimi posti, capace di riprendersi la serie A e, appunto, sfidare le grandi d'Europa, in due finali di Champions. Finché qualcosa s' era forse inceppato: con quell'impennarsi delle plusvalenze che, incrociate con le cifre dei bilanci, sono state l'incipit dell'inchiesta della Procura di Torino e della guardia di finanza. E continua intanto il lavoro di analisi dei documenti sequestrati da parte dei militari del nucleo di polizia economico finanziaria delle Fiamme gialle, anche se al momento «la carta famosa» dei presunti compensi arretrati di Ronaldo non è saltata fuori. Come nessuna rivelazione pare arrivare dall'audizione dei testimoni: ieri è toccato a Paolo Morganti, segretario organizzativo arrivato alla Juve nel febbraio 2019, per due ore davanti ai pm Mario Bendoni, Ciro Santoriello e all'aggiunto Marco Gianoglio. L'inchiesta penale sarà fondamentale anche per il percorso della giustizia sportiva. La Procura federale ha aperto l'indagine ormai da tempo, ma gli strumenti investigativi non le consentono di andare avanti in modo significativo. Finora le plusvalenze fittizie sono state punite con una penalizzazione in classifica soltanto in un caso: quando un'inchiesta penale, attraverso le intercettazioni, ha consegnato ai giudici del calcio le prove che Chievo e Cesena si erano accordate per gonfiare le valutazioni di alcuni ragazzi della Primavera. In tutte le altre circostanze ci si è arenati di fronte alla soggettività della quotazione dei giocatori: una linea che il Tribunale federale ha sempre seguito e alla quale non derogherà. Ma Giuseppe Chiné, capo della Procura, conta proprio su questo: l'esito delle indagini dei pm torinesi. È in continuo contatto con loro, è stato informato in anticipo delle perquisizioni, ma ancora non ha ricevuto alcun atto giudiziario. Succederà quando, con l'avviso di fine indagini, ci sarà il deposito degli atti: cosa che a Torino sperano di fare nel giro di un mese. Una situazione differente rispetto a quanto accaduto con i magistrati di Perugia impegnati nel caso del falso esame di Suarez, che hanno trasmesso le carte dopo mesi di attesa, creando anche un po' di tensione tra gli 007 della Federcalcio. È diretta anche la linea tra gli organi della Figc e la Consob, che ha già avuto due audizioni - una informale e una formale - con i membri della Covisoc, la Commissione di vigilanza e controllo sulle società. Tra documenti e intercettazioni dell'inchiesta torinese, ci sono elementi che potrebbero tornare utilissimi alla Procura federale. Soprattutto le telefonate intercettate sui telefoni dei dirigenti juventini, alcune «molto brutte» dal punto di vista sportivo, secondo gli investigatori. Potrebbero non avere valenza penale, ma essere rilevanti per la giustizia sportiva, che segue altri principi. Di sicuro i tribunali sportivi sono più rapidi nello svolgimento delle indagini e nell'istruzione dei processi: negli ambienti della Federazione c'è chi è già pronto a una primavera di fuoco. 

S.A. per il "Corriere della Sera" l'1 dicembre 2021. Una vita nelle istituzioni, Prefetto di Roma per quasi 7 anni, Giuseppe Pecoraro è stato capo della Procura federale dal 2016 al 2019. Si è dimesso per dissensi con i vertici Figc. 

Pecoraro, è sorpreso da quanto sta succedendo?

«No. Il sistema calcio è sbagliato, lo dico da sempre. È un fatto culturale, la Juve ce l'ha nel Dna: interessa solo vincere. Ma per riuscirci in Europa servono risorse infinite, perché competi con colossi che si arricchiscono con il petrolio e il gas e non con il lavoro degli uomini, come la famiglia Agnelli. Per tenere il passo di Psg, City e Chelsea si ricorre alle plusvalenze. E diventa un problema di regole». 

Non ci sono regole?

«Non vengono rispettate: manca il controllo di bilanci, fideiussioni, tutto. Ci sono grandi società che trovano club complici e fanno le plusvalenze».

Lei ha denunciato con forza questo malcostume.

«Mi sono trovato in difficoltà, il Tribunale mi respingeva sempre. Dicevano che non potevo essere io a stabilire il reale costo di un giocatore. Ci ho provato con Mancini, oggi difensore della Roma. All'epoca era al Perugia e la Fiorentina aveva diritto al 50% sulla rivendita. Ebbene, il Perugia lo ha ceduto all'Atalanta per 200 mila euro e nello stesso tempo le ha dato anche il portiere Santopadre, figlio del presidente, per un milione. Ma come poteva valere più lui di Mancini? In tanti anni si è arrivati solo alla condanna di Chievo e Cesena, perché lì c'erano le intercettazioni che inchiodavano i protagonisti». 

Non è soggettivo il valore di un calciatore?

«Solo entro certi limiti. Si devono stabilire dei parametri. Ora li chiamano algoritmi. Poi c'è una parte che deve essere lasciata libera, al mercato».

Le sue idee sono state spesso frenate. E lei si è dimesso.

«Io sono per un calcio equo, giusto, che dia a tutti le stesse possibilità. Invece questo non accade. Quando chiedevo le carte sulla Juve, mi arrivavano quelle su Bari, Foggia, Palermo. Ci sono società sulle quali è difficile muoversi: Juve, Inter, Milan, Roma. Ma così non siamo tutti sullo stesso piano».

Plusvalenze Juventus, la «carta» di Ronaldo che non si trova: un rebus per la Procura. Simona Lorenzetti su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2021. Gli ex manager Re e Bertola non rispondono agli interrogatori, potrebbero imitarli anche gli altri indagati. La «famosa carta» di Ronaldo, quella che «non deve esistere teoricamente», e di cui parlano al telefono il ds Federico Cherubini e il capo dell’ufficio legale del club, Cesare Gabasio, rischia di diventare un rebus: la guardia di finanza non l’avrebbe ancora trovata, nella mole di documenti sequestrati. «Mi informo», avrebbe risposto ai pm l’ad della Juve Maurizio Arrivabene, dopodiché è calato nuovamente il silenzio. Nessuna risposta risolutiva neppure da Cherubini. Nel decreto di perquisizione si parla di «retribuzioni arretrate», ma l’interesse dei magistrati è di natura tecnica: come sia stata contabilizzata la scrittura e, in caso contrario, se si sia di fronte a «un debito fuori bilancio». Che poi si parli di somme legate al periodo Covid o al passaggio del giocatore allo United, poco importa. Per questo, c’è chi non esclude che il documento possa essere chiesto direttamente ai manager di CR7. Nei prossimi giorni intanto verrà affidato al commercialista Enrico Stasi l’incarico di analizzare le operazioni sospette e i bilanci del club. Conti sui quali pesa l’ipotesi di accusa contro i vertici della società, per «gestione malsana delle plusvalenze». Da chiarire anche — per la Procura — le operazioni di contabilizzazione dei bonus legati ai contratti dei singoli giocatori. La consulenza potrebbe allungare i tempi dell’inchiesta e, nel caso, anche l’invio alla Federcalcio degli atti per la valutazione di eventuali illeciti sportivi. Illeciti che non riguarderebbero solo la Juve, ma anche altre squadre di serie A. A palazzo di giustizia, il procuratore aggiunto Marco Gianoglio e i pm Mario Bendoni e Ciro Santoriello stanno valutando se convocare altri testimoni: era prevista l’audizione dell’avvocato Gabasio, che però, da rappresentante legale della società (indagata per responsabilità amministrativa) potrà essere ascoltato solo con un difensore. Non sfileranno in Procura, almeno per ora, neanche i sei indagati. Ieri hanno annunciato di volersi avvalere della facoltà di non rispondere gli ex manager Marco Re e Stefano Bertola. «Le questioni in discussione — spiega il loro legale, l’avvocato Luigi Chiappero — sono essenzialmente di carattere tecnico e necessitano di una riflessione». È una linea difensiva che potrebbe essere seguita anche dagli altri quattro accusati: il presidente Andrea Agnelli, il vice Pavel Nedved, l’ex ds Fabio Paratici, ora al Tottenham, e il manager Stefano Cerrato, tutti difesi dall’avvocato Davide Sangiorgio. Il club è invece tutelato dal professor Maurizio Bellacosa, dello studio Severino.

Da open.online il 2 dicembre 2021. Rischia di allargarsi l’inchiesta sulle plusvalenze della Juventus. Secondo quanto riferisce il quotidiano La Verità, sotto la lente della Procura di Torino sarebbero finite anche fatture, stipendi e pagamenti. I pm intendono analizzare in maniera approfondita i conti della società bianconera, e per farlo sono pronti ad affidare a un consulente il compito di verificare i bilanci degli ultimi tre anni. Al momento, si procede per false comunicazioni di società quotate ed emissione di fatture per operazioni inesistenti: 282 milioni (su un totale di circa 320) di plusvalenze che i pm ritengono «fittizie», non legate ai ricavi effettivi e fatte maturare ad arte con l’obiettivo di mascherare le perdite di esercizio. Ma gli investigatori stanno verificando anche i pagamenti ad agenti e intermediari. Ieri, i primi due indagati – Emilio Re e Stefano Bertola – si sono avvalsi della facoltà di non rispondere. Entrambi ex manager della Juventus, erano stati convocati dopo le perquisizioni di venerdì scorso. Il difensore, l’avvocato Luigi Chiappero, ha motivato la scelta con la necessità di una «riflessione». «Le questioni sul tappeto – ha detto – sono di carattere eminentemente tecnico. Se ci sono chiarimenti da dare, si daranno. Ma prima bisogna conoscere il contenuto delle contestazioni. E noi, al momento, non lo conosciamo». La procura dovrà depositare le carte solo in caso di un ricorso al Tribunale del riesame da parte degli indagati. Dovrebbe saltare anche l’audizione dell’avvocato Cesare Gabasio, che negli ambienti investigativi è considerato figura di rilievo. Gabasio, che non risulta indagato, da alcuni mesi è general counsel della Juventus a contatto diretto con il presidente Andrea Agnelli e compare in alcune delle conversazioni intercettate dalla Guardia di finanza. 

La scrittura privata con Ronaldo

Il nome di Gabasio compare anche in uno dei punti più caldi dell’inchiesta, quello sulla scrittura privata riguardante Cristiano Ronaldo. Citata nel decreto di perquisizione come relativa a «retribuzioni arretrate del calciatore», potrebbe riguardare un accordo sugli stipendi posticipati o una buonuscita per il trasferimento del portoghese al Manchester United. Quello che i pm vogliono capire è come è stata messa a bilancio. Gli inquirenti sono venuti a conoscenza del documento da una conversazione intercettata tra il responsabile del mercato Federico Cherubini e lo stesso Gabasio. La carta, però, non è ancora stata trovata nel materiale sequestrato. Di quella scrittura privata i pm hanno chiesto conto alle persone interrogate, ma finora nessuno ha fornito informazioni utili a risolvere il mistero. Ecco allora che, secondo la Gazzetta dello Sport, la Procura sta seriamente pensando convocare il campione portoghese, attraverso il suo procuratore e la società Gestifute, che lo gestisce.

Fabiana Della Valle per "la Gazzetta dello Sport" il 2 dicembre 2021. La carta che non c'è è diventata il mistero buffo di cui si dibatte parecchio ai piani alti del Palazzo di Giustizia, dove negli uffici dei pubblici ministeri Marco Gianoglio, Ciro Santoriello e dell'aggiunto Mario Bendoni da qualche giorno è un via vai di riunioni e audizioni. Carta che viene citata a pagina 6 del decreto di perquisizione notificato venerdì sera alla Juventus nell'ambito dell'inchiesta «Prisma» - che coinvolge i vertici del club bianconero, indagati per emissione di fatture false e false comunicazioni delle società quotate in Borsa - e che riguarda non uno qualsiasi, ma Cristiano Ronaldo. La vicenda è nota: si tratta di una scrittura privata di cui gli inquirenti sono venuti a conoscenza da una conversazione intercettata tra il responsabile del mercato Federico Cherubini (che ieri era con Massimiliano Allegri a Vinovo per seguire la Coppa Italia Primavera) e l'avvocato Cesare Gabasio. «La famosa carta che non deve esistere teoricamente» e che di fatto non è ancora stata trovata, nonostante sia stato analizzato quasi tutto il materiale sequestrato. Una carta di cui è stato chiesto abbondantemente conto ai dirigenti della Juventus finora interrogati (oltre a Cherubini, anche l'a.d. Maurizio Arrivabene e il segretario Paolo Morganti, potrebbe invece non essere sentito Giovanni Manna, responsabile Under 23) e che se non uscirà fuori potrebbe spingere i pm a chiamare in causa il portoghese. Difficile che sia lui a presentarsi a Torino, convocato per fornire chiarimenti su un documento che «non risulta essere stato oggetto di pubblicazione e di comunicazione agli organi competenti», ma i pm potrebbero rivolgersi al suo procuratore e alla società che lo gestisce, la Gestifute, per riuscire a risolvere l'arcano. Nessun chiarimento Della carta che non c'è si è parlato tanto e a lungo nelle tre audizioni andate in scena finora in Procura tra sabato e mercoledì. L'impressione è che i pm s' aspettassero di averla già in mano, invece possono solo continuare a cercare. Di fronte alle richieste degli inquirenti la Juventus si è mostrata molto collaborativa, senza però fornire il documento. «M' informerò», avrebbe garantito Arrivabene. Sulla questione CR7 si è insistito ancora di più con Cherubini (che non figura tra gli indagati, così come Arrivabene, ed è stato sentito come persona informata sui fatti), visto che se ne parla in un'intercettazione che lo coinvolge, ma da quanto filtra non avrebbe dato indicazioni utili.

Arretrati o buonuscita? Così il giallo sul contenuto della carta resta: nel decreto si parla genericamente di «retribuzioni arretrate del calciatore». In realtà più che il contenuto agli inquirenti interessa l'aspetto tecnico: che si tratti di un accordo sugli stipendi posticipati in periodo di pandemia o di una buonuscita per incentivare il passaggio estivo di Cristiano al Manchester United (ipotesi che si sta facendo largo nelle ultime ore) poco importa, la procura la cerca con tutta questa insistenza perché ha bisogno di capire come è stata computata a bilancio.

I bonus nei contratti. Sotto indagine ci sono gli esercizi delle ultime 3 stagioni, dal 2018-19 al 2020-21, per un totale di 282 plusvalenze sospette. Operazioni che l'accusa definisce «a specchio», senza movimenti di denaro e con duplice effetto positivo sui bilanci delle due società coinvolte. L'altro aspetto su cui il pool di magistrati dell'Economia si sta concentrando e che è emerso dall'analisi dei documenti sequestrati riguarda la contabilizzazione dei bonus presenti nei contratti dei giocatori, su cui ci sarebbero delle anomalie. Gabasio non più test e Tornando alla carta CR7, non potrà essere interrogato come testimone Gabasio, interlocutore di Cherubini nell'intercettazione chiave, e quindi per la procura potenzialmente ben informato sull'argomento: essendo procuratore e legale rappresentante della Juventus, che nel procedimento sulle plusvalenze è indagata come persona giuridica, potrà essere ascoltato solo se affiancato da un avvocato.

Agnelli e gli altri. In attesa che arrivino novità sulla carta che non c'è, il lavoro della Procura va avanti con l'analisi di tutte le altre carte, quelle sequestrate alla Juventus nelle perquisizioni effettuate in 4 sedi differenti (Continassa, centro sportivo, Vinovo e la sede milanese) tra venerdì e sabato. Ieri era stato convocato Marco Re, ex responsabile finanziario bianconero, che però non si è presentato e lo stesso farà l'atro ex manager Stefano Bertola, successore di Re, che aveva avuto l'invito a comparire per oggi. Tramite il loro avvocato, Luigi Chiappero, hanno fatto sapere di volersi avvalere della facoltà di non rispondere. «Si tratta di questioni tecniche - ha spiegato il legale -. Per rispondere bisogna avere le carte da visionare». Gli altri indagati, il presidente Andrea Agnelli, il vice Pavel Nedved, il responsabile dell'area sportiva Stefano Cerrato, attuale Chief Financial Officier, e l'ex capo dell'area sportiva Fabio Paratici, ora al Tottenham, non hanno ancora ricevuto l'invito a comparire (e non è detto che la procura avesse intenzione di chiamarli) ma il loro legale Davide Sangiorgio ha già fatto sapere che, se convocati in questa fase processuale, si avvarranno facoltà di non rispondere.

Da gazzetta.it il 3 dicembre 2021. "Se quella carta salta fuori abbiam... ci saltano alla gola tutto sul bilancio". A indirizzare le indagini dell’inchiesta Prisma sui rapporti tra la Juventus e Cristiano Ronaldo è questa frase, riportata dall’Ansa, captata dalle intercettazioni della Guardia di Finanza in una conversazione del 23 settembre scorso tra Federico Cherubini, sentito nei giorni scorsi come persona informata dei fatti dalla Procura di Torino ma non indagato, e Cesare Gabasio, legale rappresentante della Juventus, il cui nome dalle ultime ore è il settimo iscritto nel registro degli indagati dopo quelli di Agnelli, Paratici, Nedved, Cerrato, Re e Bertola. Sono legate a questo filone le perquisizioni di ieri della guardia di finanza incaricata di recuperare la documentazione "contabile ed extracontabile" in riferimento alla "famosa carta che non deve esistere teoricamente" intercettata in una conversazione tra Gabasio e Cherubini su Cristiano Ronaldo. Inizialmente si ipotizzava fosse legata agli arretrati dovuti al portoghese per le mensilità che in tempo di Covid i giocatori bianconeri avevano deciso di differire in futuro, ma si fa strada l’ipotesi di una buonuscita per favorire il passaggio di CR7 allo United. Nel nuovo decreto di perquisizione si legge: “Riportavano in modo difforme dal vero alla voce ‘Cessioni definitive’ i valori economici della cessione del calciatore Cristiano Ronaldo”. Secondo le ipotesi della Procura la “carta famosa che non deve teoricamente esistere” potrebbe essere rilevante ai fini della correttezza del bilancio 2021 perché, pur essendo l’esercizio chiuso precedentemente alla cessione del portoghese, neanche nella relazione allegata con i fatti intervenuti dopo la chiusura dell’esercizio risulterebbero riferimenti a cui questa “carta” possa essere riconducibile. 

(ANSA il 3 dicembre 2021) - Riguarda i rapporti della Juventus con Ronaldo una parte della nuova perquisizione ordinata dalla Procura di Torino nella sede della società bianconera. I magistrati hanno preso l'iniziativa dopo gli interrogatori di questi giorni dei manager del club ascoltati come testimoni.

Massimiliano Nerozzi per il "Corriere della Sera" il 3 dicembre 2021. Avviata il 3 agosto 2018 per fabbricare - «i campioni di domani» - l'under 23 della Juve ha finito soprattutto per esportare, ingrossando i ricavi. Progetto legittimo e invidiato, sulla scia delle squadre B dei campionati esteri, a patto di non stravolgerne la logica, come sospetta invece l'inchiesta della Procura di Torino sulle plusvalenze. Che a questo aspetto dedica un punto dell'indagine: «Numerose operazioni di cessione riguardanti giovani calciatori (appartenenti all'under 23) con corrispettivi rilevanti e fuori range, rispetto a calciatori di medesimo livello e categoria». Di questo ha parlato ieri Giovanni Manna, responsabile dell'under 23 appunto, ascoltato per quasi quattro ore dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dal pm Mario Bendoni, che insieme al collega Ciro Santoriello coordinano le indagini della guardia di finanza. Per dire, nella stagione 2019/20, l'under 23 ha movimentato compravendite di un valore superiore, per distacco, alla somma delle altre 59 società di serie C. Commerciando, tante volte anche all'estero, alcuni di quei giocatori finiti negli atti dell'inchiesta e negli accertamenti della Covisoc. Come Matheus Pereira da Silva, impacchettato per il Barcellona (in uno scambio) per 8 milioni di euro, con plusvalenza sui 6,82 milioni. O Pablo Moreno Taboada, finito al Manchester City per 10 milioni, con «un effetto economico positivo» (sui conti) di 7,6 milioni, «al netto del contributo di solidarietà e degli oneri accessori». Stesso percorso per Franco Daryl Tongya Heubang, passato all'Olympique Marsiglia per 8 milioni, praticamente tutti di plusvalenza. Anche in questo caso, nell'ambito di uno scambio. L'udizione di Manna, ascoltato come persona informata sui fatti (verbale secretato), ha di fatto terminato il primo giro di colloqui, visto che ora i pm e i militari del nucleo di polizia economico finanziaria della Finanza si concentrerà sull'esame dei documenti sequestrati e sulle copie forensi del contenuto di pc e hard disk. Insomma, un materiale sconfinato. Nel quale gli investigatori sperano ancora di rintracciare la «famosa carta» di Cristiano Ronaldo, «quella che non deve teoricamente esistere». L'ultima mossa sarà quella di sentire come testimone Jorge Mendes, amico e storico procuratore di CR7: l'agente del giocatore potrebbe essere contattato e invitato in Procura dopo le feste di Natale. E se due indagati - gli ex manager dell'area finanza, Marco Re e Stefano Bertola - hanno preferito non rispondere ai pm, gli altri quattro - Agnelli, Nedved, Paratici e Cerrato - non sono stati neanche convocati: avrebbero fatto la stessa scelta.

Juventus, le plusvalenze nella Under 23: da sola più di tutte le altre squadre di C. Massimiliano Nerozzi Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2021. Un punto dell’indagine della Procura di Torino è dedicato proprio alle operazioni della squadra B: il responsabile è stato ascoltato per quattro ore. Avviata il 3 agosto 2018 per fabbricare — «i campioni di domani» — l’under 23 della Juve ha finito soprattutto per esportare , ingrossando i ricavi. Progetto legittimo e invidiato, sulla scia delle squadre B dei campionati esteri, a patto di non stravolgerne la logica, come sospetta invece l’inchiesta della Procura di Torino sulle plusvalenze. Che a questo aspetto dedica un punto dell’indagine: «Numerose operazioni di cessione riguardanti giovani calciatori (appartenenti all’under 23) con corrispettivi rilevanti e fuori range, rispetto a calciatori di medesimo livello e categoria». Di questo ha parlato giovedì Giovanni Manna, responsabile dell’under 23 appunto, ascoltato per quasi quattro ore dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dal pm Mario Bendoni, che insieme al collega Ciro Santoriello coordinano le indagini della guardia di finanza. Per dire, nella stagione 2019/20, l’under 23 ha movimentato compravendite di un valore superiore, per distacco, alla somma delle altre 59 società di serie C. Commerciando, tante volte anche all’estero, alcuni di quei giocatori finiti negli atti dell’inchiesta e negli accertamenti della Covisoc. Come Matheus Pereira da Silva, impacchettato per il Barcellona (in uno scambio) per 8 milioni di euro, con plusvalenza sui 6,82 milioni. O Pablo Moreno Taboada, finito al Manchester City per 10 milioni, con «un effetto economico positivo» (sui conti) di 7,6 milioni, «al netto del contributo di solidarietà e degli oneri accessori». Stesso percorso per Franco Daryl Tongya Heubang, passato all’Olympique Marsiglia per 8 milioni, praticamente tutti di plusvalenza. Anche in questo caso, nell’ambito di uno scambio. L’udizione di Manna, ascoltato come persona informata sui fatti (verbale secretato), ha di fatto terminato il primo giro di colloqui, visto che ora i pm e i militari del nucleo di polizia economico finanziaria della Finanza si concentrerà sull’esame dei documenti sequestrati e sulle copie forensi del contenuto di pc e hard disk. Insomma, un materiale sconfinato. Nel quale gli investigatori sperano ancora di rintracciare la «famosa carta» di Cristiano Ronaldo, «quella che non deve teoricamente esistere». L’ultima mossa sarà quella di sentire come testimone Jorge Mendes, amico e storico procuratore di CR7: l’agente del giocatore potrebbe essere contattato e invitato in Procura dopo le feste di Natale. E se due indagati — gli ex manager dell’area finanza, Marco Re e Stefano Bertola — hanno preferito non rispondere ai pm, gli altri quattro — Agnelli, Nedved, Paratici e Cerrato — non sono stati neanche convocati: avrebbero fatto la stessa scelta. 

MASSIMILIANO NEROZZI per il Corriere della Sera il 5 dicembre 2021. Di Cristiano Ronaldo, dentro casa Juve, si parla quasi tutta l'estate, prima di arrivare alla «carta famosa che non deve teoricamente esistere», di cui Cesare Gabasio, capo dell'ufficio legale bianconero, parla con il ds Federico Cherubini, in una telefonata (intercettata) del 23 settembre scorso. Atterrato il 25 luglio all'aeroporto di Caselle, CR7 aveva accennato all'ipotesi di andarsene nelle chiacchiere con qualche compagno, come poi andrà a fine agosto, con il volo verso Manchester, contea United. Va da sé, che non ci sarebbe stato l'happy end se l'era immaginato anche qualche dirigente, nonostante le comprensibili smentite pubbliche: c'era pur sempre la possibilità che l'asso portoghese fosse rimasto. Resta il fatto che la valutazione sul numero 7 si era fatta tecnica, alla luce delle osservazioni di Massimiliano Allegri, ed economica, per una busta paga da 31 milioni di euro (netti). Morale, supportata dalle chiacchiere (non pubbliche) durante il mercato estivo: un acquirente sarebbe stata la miglior via d'uscita. Si arriva dunque all'accordo con il Manchester United, riportato a bilancio nei «fatti di rilievo avvenuti dopo il 30 giugno 2021», quando si chiude l'annata contabile. Al prezzo di 15 milioni di euro, più altri eventuali 8, una sorta di bonus collegati «al raggiungimento di obiettivi sportivi». Nulla viene invece annotato a proposito di altri accordi con il giocatore e il suo storico amico e agente, Jorge Mendes, nonostante l'ultima stagione a uno stipendio monstre da oltre 50 milioni lordi (che il club avrebbe risparmiato) e, forse, qualche «retribuzione arretrata». A tutto ciò si riferisce la «carta famosa», della cui esistenza sono convinti gli investigatori, sulla scorta di quanto viene detto nelle conversazioni telefoniche captate. Ne dubitano, al contrario, i legali degli indagati e del club, gli avvocati Davide Sangiorgio e Maurizio Bellacosa, dello studio legale Severino, che parlano della «presunta esistenza di documentazione della quale, al momento, non risulta il rinvenimento». Da «follow the money», seguite i soldi, vecchio consiglio investigativo, a «follow the paper», seguite la «carta»: quella che continuano a cercare i militari della Guardia di finanza, coordinati dal procuratore aggiunto Marco Gianoglio e dai pm Mario Bendoni e Ciro Santoriello. Di certo, alcuni ne hanno parlato al telefono, ma nessuno lo fa di persona, come da verbale di perquisizione del 26 novembre, redatto dagli uomini del nucleo di polizia economico finanziaria delle Fiamme gialle: «Si riceveva riscontro negativo», alla domanda sulla «carta famosa» fatta ad Andrea Agnelli, Pavel Nedved, Maurizio Arrivabene, Cherubini e Gabasio. Dell'esistenza ne sono appunto certi Procura e Finanza, ma non per questo è detto che salterà fuori. Poco male - il pensiero degli investigatori - anche perché l'eventuale scrittura privata relativa «al rapporto contrattuale» con CR7 è solo un punto, non il fulcro, delle ipotesi di accusa: l'aver «fraudolentemente» gonfiato le plusvalenze, falsificando così il bilancio degli ultimi tre esercizi. 

Plusvalenze, la Juventus e il documento con lo scenario peggiore: «Rischi per la continuità aziendale». Mario Gerevini su Il Corriere della Sera il 4 dicembre 2021. La società bianconera invia un supplemento di informazioni alla Consob dopo l’inchiesta e delinea anche gli scenari peggiori: «Se arrivassero sanzioni o condanne potrebbero esserci impatti negativi sulla situazione economica del gruppo». È messo nero su bianco in un documento ufficiale bianconero: la Juventus potrebbe non avere la capacità «di mantenere il presupposto della continuità aziendale». E se arrivassero sanzioni o condanne a esponenti aziendali ci potrebbero essere «impatti negativi, anche significativi, sulla situazione economica… del gruppo». Fa effetto, soprattutto ripensando alle recenti manovre per la creazione di un’elite del calcio: dalla Superlega al rischio di nessuna Lega.

Però bisogna fare la tara: sono tutte affermazioni vere (messe al condizionale), indotte anche dall’inchiesta penale torinese ma portate alle estreme ipotetiche conseguenze. In quale contesto sono state scritte? E perché? La Juve è una società quotata in Borsa e ha in corso un aumento di capitale da 400 milioni. Tipica situazione da croce e delizia. Croce perché deve raccontare tutto al mercato, anche formulando le ipotesi più estreme. Delizia perché è proprio dal mercato che si appresta a raccogliere denaro. Pochi giorni prima che la ricapitalizzazione partisse (29 novembre, terminerà il 16 dicembre quando si concentreranno le eventuali sottoscrizioni) il club ha pubblicato il documento informativo, approvato dalla Consob. Lì dentro non c’è spazio per ambiguità e omissioni: esiste il reato specifico di falso in prospetto. Il vertice del club guidato da Andrea Agnelli ha messo in fila le promesse sull’utilizzo del denaro, bilanci aggiornati e l’elenco dei rischi («stressandoli» come da prassi) che un investitore potrebbe correre acquistando le nuove azioni. Solo che nel frattempo l’indagine della Procura di Torino sulle plusvalenze sospette e con ipotesi di reato (false comunicazioni sociali delle società quotate) direttamente impattanti sul profilo patrimoniale e gestionale del club, ha alzato il livello dei rischi. Con un duplice, micidiale, effetto collaterale. Il primo: far crollare il titolo (-17% in sette giorni a 0,403 euro) rendendo meno appetibile l’aumento di capitale (a 0,334 euro). Il secondo costringere il club a un addendum sui rischi che non è certo una medaglia per la reputazione. Così venerdì sera poco prima di mezzanotte, passando dalle mani della dirigente societaria Elisabetta Cravero e dei legali dello studio Pedersoli, è stato licenziato il supplemento al prospetto. «Sussiste il rischio — si legge in un passaggio molto importante, a proposito dell’indagine della Procura — che i Garanti ritengano che i suddetti fatti configurino i presupposti per l’esercizio del diritto di recesso dall’impegno di garanzia dell’aumento di capitale». Secondo la società bianconera, a termini di contratto, non è un «mutamento negativo rilevante» che consenta il recesso. Ma il rischio c’è. In parole povere, potrebbero sfilarsi Goldman Sachs, Jp Morgan, Mediobanca e Unicredit che si sono impegnate a sottoscrivere le azioni della Juventus eventualmente invendute (i Garanti, appunto). Resta naturalmente la sicurezza di Exor che «copre» la sua quota del 64%. Se però arrivassero solo 255 dei 400 milioni non ci sarebbero risorse sufficienti per sostenere il Piano di sviluppo al 2024 e dunque «la capacità del gruppo di mantenere il presupposto della continuità aziendale nell’arco del Piano verrebbe meno». Che cosa ci vuole fare la Juve con i proventi dell’aumento di capitale? In parte intende rimborsare prestiti bancari e di società di factoring così riducendo il carico degli oneri finanziari. Poi indirizzerà risorse per finanziare le attività «previste per il mantenimento della competitività sportiva e l’incremento della visibilità del brand Juventus». Sotto questo profilo, ovvero quello della destinazione delle risorse provenienti dall’aumento, nulla è cambiato, ovviamente. Anzi, dalla controllante Exor sono già stati bonificati fin dal 27 agosto scorso 75 milioni in conto aumento capitale, quindi a essere precisi ad oggi l’operazione è di 320-330 milioni. I rischi, insomma, al momento appaiono più legati alle conseguenze delle indagini penali che non alla contingente, eventuale, carenza di risorse finanziarie. Exor non è certo una holding senza mezzi: la Juve potrebbe avere meno «benzina», nuovi manager ma di sicuro non rischia di rimanere in panne. E comunque il prezzo in Borsa rende ancora appetibile l’aumento. Poi è davvero difficile immaginare le quattro banche chiudere il paracadute a John Elkann che è a capo di un gruppo da 30 miliardi di euro con un utile nel primo semestre 2021 di 838 milioni. Intanto, però, il titolo della Juventus è ai minimi dall’estate 2017.

Esame farsa di Suarez, la Procura archivia l’inchiesta: “Non ci sono elementi sufficienti”. Asia Angaroni il 14/12/2021 su Notizie.it. "Dalla documentazione ricevuta non sono emersi elementi sufficienti per ritenere provate condotte illecite rilevanti", si legge nel comunicato della Figc. Ha fatto a lungo discutere il caso dell’esame farsa di Suarez che ha causato non pochi problemi in casa Juventus. Ora c’è una svolta: la Procura ha archiviato l’inchiesta.

Esame farsa di Suarez, procura archivia l’inchiesta

La giustizia sportiva italiana ha fatto il suo corso: la Procura Federale ha confermato l’archiviazione del procedimento relativo all’indagine della Procura della Repubblica di Perugia sul tanto dibattuto test eseguito da Suarez per ottenere la cittadinanza italiana.

Il calciatore attualmente veste la maglia dell’Atletico Madrid, ma all’epoca dei fatti era protagonista del mercato bianconero.

Nel comunicato ufficiale che riferisce la decisione di archiviazione si legge: “In attesa della trasmissione di eventuali ulteriori atti di indagine e/o processuali dalla competente Autorità Giudiziaria, non sono emersi elementi sufficienti per ritenere provate condotte illecite rilevanti nell’ambito dell’ordinamento federale sportivo di dirigenti o comunque tesserati, unici soggetti sottoposti alla Giustizia Sportiva ai sensi del vigente C.G.S.”.

Viene così cancellato ogni rischio di provvedimento per la Juventus, in attesa che anche la giustizia ordinaria faccia il suo corso. La vicenda che coinvolge Luis Suarez proseguirà solo nelle aule di Tribunale.

Esame farsa di Suarez, procura archivia l’inchiesta: le parole degli inquirenti

Il test sostenuto dal calciatore sarebbe stato organizzato “soltanto per consentire a Suarez di ottenere, nei tempi richiesti dalla Juve e all’esito di una fittizia procedura di esame, la certificazione linguistica necessaria per l’ottenimento della cittadinanza italiana”.

Così hanno dichiarato gli inquirenti.

Esame farsa di Suarez, procura archivia l’inchiesta: le dichiarazioni di Gravina

Solo pochi giorni prima che la Procura archiviasse il caso, in occasione dell’evento in onore di Paolo Rossi al museo Fifa di Zurigo, Gabriele Gravina aveva dichiarato: “Non è vero che la Procura non si è pronunciata. Su Suarez si è valutato e si è giunti a decisione”.

Quindi aveva ricordato: “Mi sembra di capire che per la prima parte di quell’inchiesta, con gli atti finora trasmessi dalla Procura, non ci siano stati elementi per procedere: si va verso l’archiviazione”, non escludendo la possibilità di un supplemento di indagine.

“C’è attesa per la seconda parte relativa ai dirigenti coinvolti: aspettiamo che Perugia consegni questa seconda parte di atti”, aveva aggiunto.

Valerio Piccioni per la Gazzetta dello Sport il 3 dicembre 2021. Succede spesso quando i pm si occupano di sport e in particolare di calcio: immaginiamo percorsi giudiziari rapidissimi, carte che viaggiano con il tempo di una mail dalle procure della repubblica alla sede federale, sentenze sportive confezionate nel giro di poche settimane. Poi le istruttorie si allungano, la montagna dei verdetti partorisce il topolino e arrivederci al prossimo scandalo. Diamoci dunque una calmata: una cosa è restare impressionati da quelle cattive abitudini con cui diversi club (non tutti) hanno preso da anni a inventare acrobazie contabili in bilancio per ammorbidire l'impietosa fotografia di conti spaventosamente in rosso. O riflettere su alcune risultanze dell'istruttoria di Torino, peraltro tuttora in corso. Un'altra è pensare di risolvere con un colpo di bacchetta magica, una stangata di qua una stangatina di là, problemi annosi, un vero e proprio groviglio di interessi che, nonostante i buoni propositi, non si sbroglia mai. La miscela fra plusvalenze sospette, mostruose "commissioni", impotenza delle istituzioni, produce una panna andata a male che inquina sempre di più il sistema. Gravina ha ragione: niente processi sommari. E una giustizia sportiva non può ordinare intercettazioni o prendersi i computer degli indagati per studiare cosa c'è dentro. Diciamoci la verità: senza la procura della repubblica di Torino, pure gli allarmi lanciati da Covisoc e Consob (non si sa chi ha cominciato prima, ma questo non cambia i termini della questione), avrebbero probabilmente sbattuto sul muro della "soggettività" della valutazione del calciatore. Semmai ci si potrebbe chiedere:non sarebbe ora che anche i club si interrogassero su malsane abitudini che sembrano andare sempre sull'autostrada di costi folli e non sostenibili? Dunque ok, niente processi sommari, non si può andare a duecento all'ora perché si va a sbattere. Ma magari a cinquanta sì. Certe volte la procura federale sembra accendere il motore proprio a fatica. Per dire, Perugia, l'esame di Suarez. Attenzione, l'esempio che facciamo è anche a tutela della Juve e del sacrosanto diritto di essere considerata a un certo punto definitivamente scagionata. Noi non riusciamo a capire perché, a richieste di rinvio a giudizio già pronunciate, a udienza preliminare già ampiamente aperta, non si riesca a capire se il famoso fascicolo aperto già nel settembre 2020 dal procuratore federale Giuseppe Chiné sia stato aperto e chiuso (nel senso di archiviato) o se il lavoro debba ancora cominciare. La domanda è: si devono aspettare le carte o l'esito delle richieste di rinvio a giudizio? Naturalmente un pm o una procura che indaga conta anche sul segreto istruttorio. E la legge 280, che regola i rapporti fra giustizia ordinaria e sportiva (quella che dice: c'è solo il Tar dopo tutti i gradi di giudizio "sportivi"), non mette un punto chiaro sui tempi e le modalità della collaborazione fra le due giustizie. Però non dobbiamo dimenticare che spesso, in questi anni, sportivo e penale si sono parlati, costruendo un rapporto che ha consentito di bruciare i tempi per non tenere sotto scacco il sistema. Che viene lasciato in pasto a un ritornello che rischia di durare mesi: c'è un colpevole, ce ne sono tanti, o non ce ne sono? Insomma, siamo sempre lì. Sentenze che fanno a pugni fra loro, discrezionalità gigantesca affidata ai giudici, attendismi certe volte incomprensibili: questa giustizia sportiva ha qualcosa che non va. 

Striscia la Notizia, altra bomba sulla Juve: "Denunce già dal 2018, ma...". Chi gioca sporco per difendere i bianconeri? Libero Quotidiano il 03 dicembre 2021. Non è rimasta sorpresa dalle presunte plusvalenze della Juventus Striscia la Notizia. Il tg satirico di Canale 5, come spiegato nella puntata di venerdì 3 dicembre da Moreno Morello, aveva già denunciato dal 2018 la questione "operazioni a specchio". Nel mirino valutazioni gonfiate e scambi di calciatori senza esborso di denaro, su cui l'inviato del programma di Antonio Ricci vuole nuovamente fare chiarezza dopo che "nulla è stato fatto", o quasi. "Dopo la condanna di Cesena e Chievo - si legge nell'anticipazione rilanciata da Striscia -, il procuratore della Federazione italiana giuoco calcio (Figc) che si occupò del caso, Giuseppe Pecoraro, si dimise dall’incarico. Allora l’avvocato del Chievo disse: 'Questo processo è cominciato con Striscia la notizia. Ma un bel Tapiro alla Procura federale glielo vogliamo dare o no?'". Per il tg satirico "sembrava un’allusione oscura", fino a quando un anno dopo Pecoraro si dimise "per motivi personali" e le inchieste si fermarono. Ad oggi le inchieste sono ricominciate per merito della magistratura ordinaria. Le "operazioni a specchio" citate da Striscia sul caso che sta travolgendo i bianconeri altro non sono che operazioni sospette per cui non si verificano movimenti finanziari: due club, consapevoli di quello che stanno facendo, si scambiano due giocatori, entrambi con la stessa valutazione "gonfiata", per mettere nei loro bilanci due valori patrimoniali più alti di quelli che avevano precedentemente.  Intanto, a rispondere alla Procura di Torino nelle ultime ore ci ha pensato il capitano, Giorgio Chiellini: "Le indagini lasciano il tempo che trovano, dobbiamo aspettare, Ormai siamo abituati che quando si parla di Juve ogni cosa viene amplificata di un milione".

Juventus processata sui giornali, ma gli atti erano segreti. Intercettazioni e particolari dell’inchiesta della procura di Torino diffusi da tutti i media. Vitiello (Iv): si rischia di inquinare la genuinità delle indagini. Valentina Stella su Il Dubbio il 30 novembre 2021. Non lasciamoci influenzare dalla nostra fede calcistica: lo sputtanamento mediatico che sta subendo la Juventus in questi ultimi giorni è probabilmente illegale e va raccontato, anche se da napoletani o interisti la vorremmo vedere in fondo alla classifica. L’inchiesta, condotta dalla procura di Torino, riguarda una presunta «gestione malsana» dei conti della squadra bianconera, che ha portato all’iscrizione nel registro degli indagati di sei persone, tra i quali il presidente della Juventus Andrea Agnelli, il vicepresidente Pavel Nedved, e l’ex dirigente Fabio Paratici. La procura del capoluogo piemontese aveva diramato un comunicato stampa di poche righe in cui, tra l’altro, informava che «i finanzieri del Nucleo di Polizia economico-finanziaria Torino, delegati alle indagini, sono stati incaricati di reperire documentazione e altri elementi utili relativi ai bilanci societari approvati negli anni dal 2019 al 2021». Il problema è quello che è successo dopo: da qualche giorno su quasi tutti i media sono stati pubblicati ampi stralci del decreto di perquisizione notificato lo scorso 24 novembre. Addirittura una grossa testata nazionale ha aggiunto proprio foto delle pagine originali del decreto. La domanda è sempre questa, la stessa che ci siamo posti per il caso Renzi/Open/Fatto Quotidiano, pur essendo in una fase diversa: quell’atto poteva essere pubblicato? E se la risposta è negativa, chi ha passato il materiale alla stampa? E si indagherà sulla presunta violazione di legge? Quell’atto è arrivato anche a noi, “inoltrato molte volte” su whatsapp. Ma abbiamo deciso di non pubblicarlo. Per l’onorevole di Italia Viva, Catello Vitiello, «senza entrare nel merito della vicenda, che l’atto di perquisizione venga notificato agli indagati non significa che cade il segreto investigativo. C’è un errore tecnico di fondo in quanto si confonde la conoscenza dell’atto da parte del soggetto interessato con l’opponibilità dell’atto erga omnes. La conoscibilità non riguarda tutti e in più siamo ancora nella fase dell’indagine preliminare». Inoltre, così facendo, si inquina la genuinità dell’indagine: «Persone non direttamente coinvolte che leggono il loro nome accostato agli indagati potrebbero mettere in atto delle azioni per coprire eventuali reati personali». In più, «la pubblicazione di un decreto di perquisizione lede la reputazione degli indagati, facendoli apparire colpevoli anche se siamo ben lontani da una sentenza definitiva». A questo punto l’onorevole Vitiello si augura che la sua pdl, che estenderebbe il segreto istruttorio all’arco temporale in cui gli atti di indagine sono conosciuti dalle parti, cioè fino a quando non inizia il processo vero e proprio, venga discussa quanto prima in Commissione giustizia: «Non pretendo che la mia proposta rappresenti la panacea di tutti i mali, ma penso sia importante discuterne perché sempre di più assistiamo a violazioni di legge in questo campo». Violazioni che spesso sono commesse perché la sanzione è irrisoria: l’arresto fino a trenta giorni o una ammenda da euro 51 a euro 258. Di solito nessuna procura apre un fascicolo per questo, anche se ci sarebbe il totem dell’obbligatorietà dell’azione penale da rispettare, oppure semplicemente le redazioni non si lasciano frenare da somme così irrisorie. Duro anche il commento dell’onorevole Enrico Costa di Azione da twitter: «Intercettazioni telefoniche che devono restare segrete, infilate con il copia-incolla in un decreto di perquisizione, il quale finisce in rete e sui giornali che riportano anche le virgole dei dialoghi. L’atto d’accusa è oro colato, la vera sentenza non interesserà più a nessuno». A noi aggiunge: «La procura di Torino, oltre che indagare sulla Juventus, cerchi di capire come quel materiale sia finito ai giornali. Il punto è sempre lo stesso. Quel decreto non andava così pubblicato. Lo ha ricordato la Corte di Cassazione in una sentenza del 2019 per cui quando l’atto non è segreto o non lo è mai stato rimane fermo il divieto di pubblicazione dell’atto anche in modo parziale». Lo abbiamo già detto: l’articolo 114 cpp è uno dei più ambigui e peggio scritti del codice; comunque che ci si riferisca ad atti coperti da segreto (art. 114 comma 1) o ad atti non più coperti da segreto ma non divulgabili (art. 114 comma 2) quel decreto di perquisizione non andava reso noto integralmente o parzialmente sulla stampa. Però, come ha sottolineato l’avvocato Cataldo Intrieri su Linkiesta, «come è successo in altre occasioni, con la solita ipocrisia ci sarà qualcuno che spiegherà che il comma 7 dell’articolo 114 del Codice di procedura penale recita che sono sempre pubblicabili gli atti non più coperti dal segreto e che i decreti di perquisizione lo sono in quanto conosciuti dagli indagati». Ovviamente abbiamo chiesto anche un commento al procuratore capo di Torino Anna Maria Loreto e ai colleghi incaricati dell’indagine – Mario Bendoni, Marco Gianoglio e Ciro Santoriello – ma nessuno di loro ha risposto alla nostra email. La nuova norma che recepisce la direttiva sulla presunzione di innocenza, peraltro ancora non pubblicata nella Gazzetta Ufficiale, qui non c’entra nulla, semmai è il principio dell’articolo 27 della Costituzione che sistematicamente viene violato attraverso la narrazione colpevolista fatta soprattutto in fase di indagine. Costa è comunque pronto a dare battaglia: «La legge sulla presunzione d’innocenza sarà a breve pubblicata in GU. Ora dobbiamo impegnarci perché non venga aggirata. Ci proveranno. Stiamo predisponendo moduli perché tutti possano segnalare al ministero della Giustizia ogni violazione».

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 28 novembre 2021. Un bel giorno Andrea Agnelli decide che Giuseppe Marotta non va più bene perché sì, è bravo ma, oh, largo ai giovani!, a Fabio Paratici che, tra l'altro, non ha nessun dubbio sul fatto che Ronaldo vada preso a tutti i costi, mentre Don Beppe no, non si fida, teme assai gli effetti collaterali, non vuole rischiare. Essù, eddai, se non vuoi Ronaldo allora non hai la visione giusta. E lo fa fuori. Senza neanche troppi complimenti, tra l'altro. Marotta, che in precedenza aveva rifiutato il corteggiamento del Milan proprio perché rispettoso del suo contratto in bianconero, a quel punto accetta la proposta della famiglia Zhang, lestissima ad accaparrarselo subito dopo il siluramento. Il giorno dell'addio, Agnelli chiede a Marotta di presenziare a una conferenza stampa "congiunta" per salutare tutti quanti e magari stringersi la mano. Marotta declina con gentilezza. Ebbene, quell'addio, quell'atto di - definiamola "superbia agnelliana", coincide con l'inizio dei guai bianconeri: gli affari, le responsabilità, passano Paratici, talent scout capacissimo, dirigente discutibilissimo. È lui che sponsorizza e definisce l'acquisto di Cr7 (già ribattezzato Cr730), giocatore che alla fine risulterà più caro che produttivo; è lui che porta il monte ingaggi della Juve a livelli siderali e decisamente insostenibili; è lui che insieme a Nedved fa fuori il primo Allegri in nome del «bel giuoco»; è lui che imbarazza la Signora per la faccenda Suarez; è lui che a un bel punto lascia Torino per Londra e questa volta sì, dopo una conferenza congiunta con il suo benefattore, Andrea Agnelli. Ecco, il grande capo bianconero ha avuto il merito (enorme) di far rinascere la Juve post-Calciopoli, l'ha resa modello sia in Italia che in Europa e ci è riuscito proprio perché si è affidato a Marotta, ovvero al più bravo. Accompagnarlo all'uscita senza un vero perché non è stato solo un errore, è stata la prima, vera, enorme minusvalenza bianconera.

Gigi Garanzini per "la Stampa" il 29 novembre 2021. È sotto gli occhi di tutti, juventini e non, che la difesa non è più quella, l'attacco segna col contagocce, il centrocampo non è parente nemmeno alla lontana di quello di qualche stagione fa. Ed è tanto incredibile quanto vero che la squadra dei nove scudetti consecutivi nel giro di un paio di stagioni si è dissolta, rendendo inevitabile partire da qui, dai risultati, da 6 sconfitte in 14 partite, da 21 punti sui 42 a disposizione. Ma partire da qui per arrivare altrove, ben più in alto: perché è sempre più chiaro, giorno dopo giorno, che si scrive squadra ma si legge società. Sono anche le cronache giudiziarie a raccontarlo, ed è un buon motivo di inquietudine ulteriore: come se già non bastasse, sullo sfondo e sempre in attesa di giudizio, quella deliziosa botta d'immagine dell'esame di italiano di Suarez. E vogliamo parlare del reality? Delle telecamere piazzate per un anno intero in spogliatoio, di un grande fratello che in qualche altro paese funzionerà pure ma da noi aveva un solo precedente, tanti anni fa, nientemeno che al Cervia: con un campione del mondo, Ciccio Graziani, a sputtanarsi con gli occhiali colorati. Ma a chi sarà venuta in mente una roba del genere nel sancta-sanctorum della Juventus? E quante volte si sarà rigirato nella tomba Giampiero Boniperti, custode e garante della privacy bianconera a tutti i costi? Mica finita, ci sarebbe anche la Superlega, volendo. Quasi a confermare che dopo anni di gestione oculata, e prima ancora di rispetto assoluto del dna bianconero, la maionese è improvvisamente impazzita. Spiegazione? Facciamo ipotesi, che il beneficio d'inventario non guasta mai. Nel segno, e qui sì, ci si può scommettere, del cherchez l'argent. Dopo anni di operazioni il cui passo era sempre stato rispettoso della lunghezza della gamba, la Juve decide di regalarsi Cristiano Ronaldo. Quasi tutta la Juve: non l'amministratore delegato, Beppe Marotta, che ritiene il suo acquisto sproporzionato rispetto alle risorse societarie e al percorso di crescita rispettato sino a lì. Si arriva alla rottura, Marotta se ne va, la spiegazione che viene fatta filtrare è che ormai guadagnava troppo e, sottintesa, troppo voleva comandare. Gli succede l'ex-delfino, Fabio Paratici. E prende il via tutt' altra politica societaria che, prima di degenerare per esempio nel turbine di plusvalenze e nell'esame di Suarez, passa per i parametri zero, tipo Ramsey, che costano effettivamente zero alla voce cartellino e montagne di quattrini alla voce contratti, con giocatori e procuratori. Poi arriva la voglia di bel gioco e Allegri non basta più, poi il flagello del Covid, per tutti, non solo per la Juve. Mentre Marotta prima costruisce un'Inter da scudetto, poi la rigenera con acquisti mirati, nettamente al ribasso, altro che parametri zero. Meditate, gente, meditate.

(ANSA il 13 dicembre 2021) - I finanzieri del nucleo speciale di polizia valutaria della guardia di finanza di Milano, coordinati dalla procura, stanno eseguendo perquisizioni nei confronti di un agente sportivo italiano e delle sue società, nonché undici richieste di consegna di documenti, anche informatici, nei confronti di altrettanti club tra cui Juventus, Torino, Milan, Inter, Verona, Spa, Fiorentina, Cagliari, Roma, Napoli e Frosinone. I reati ipotizzati sono di natura fiscale, riciclaggio e autoriciclaggio e riguardano l'attività di un noto agente sportivo straniero in collaborazione con l'agente italiano.

(ANSA il 13 dicembre 2021) - Sono Fali Ramadani e Pietro Chiodi i due indagati nell'inchiesta milanese per reati fiscali, riciclaggio e autoriciclaggio con al centro le commissioni in varie operazioni di compravendita di calciatori.

(ANSA il 13 dicembre 2021) - Nell'ambito della nuova inchiesta milanese sul calciomercato, la Guardia di finanza, coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli e dal pm Giovanni Polizzi, si è recata nelle sedi di vari club - che non sono indagati - per acquisire la documentazione su molte operazioni di compravendita gestite da Fali Ramadani e Pietro Chiodi, tra cui secondo quanto si apprende quella che ha portato Miralem Pjanic dalla Juve al Barcellona e il passaggio di Federico Chiesa dalla Fiorentina alla Juventus. Ramadani, inoltre, risulta agente del difensore del Napoli Kalidou Koulibaly e del tecnico della Lazio, Maurizio Sarri.

Inchiesta Ramadani, la frode fiscale sul calciomercato: da Handanovic a Rebic, da Pjanic a Chiesa. Giuseppe Guastella su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2021. Un’inchiesta per frode fiscale con al centro un procuratore di giocatori e allenatori riesce a scuotere il mondo del calcio italiano già indebolito dai contraccolpi della crisi dei ricavi dovuta alla pandemia e dai deludenti risultati sportivi a livello internazionale. Dopo le indagini a Torino sulle plusvalenze della Juventus, ora a finire sotto la lente di ingrandimento degli inquirenti per frode fiscale, riciclaggio e auto riciclaggio sono a Milano le operazioni tra Fali Abdilgafar Ramadani e undici squadre di serie A e B. Ramadani è uno dei procuratori più importanti del calcio mondiale. Nato in Macedonia 58 anni fa e residente in Irlanda, basi in Germania e Spagna, rappresenta calciatori come Kalidou Koulibaly (Napoli), Samir Handanovic e Ivan Perisic (entrambi Inter), oltre all’allenatore della Lazio Maurizio Sarri. A febbraio 2020, fu coinvolto in Spagna in un’inchiesta per riciclaggio e altri reati commessi, secondo l’accusa, attraverso trasferimenti fittizi di calciatori tra club europei che erano stati gestiti dalla sua società maltese. Si tratta della Lian sports limited che Forbes considerava quell’anno la terza agenzia di calciatori al mondo, accreditandola di un portafoglio di contratti pari a 777 milioni di dollari, in grado di produrre provvigioni per 78 milioni di dollari. Seguendo i fili dell’indagine dalla Spagna all’Italia, e dopo una segnalazione dell’Uif (unità di informazione finanziaria) della Banca d’Italia, il pm Giovanni Polizzi e i militari del Nucleo di polizia Valutaria della Guardia di Finanza di Milano, con il coordinamento dell’aggiunto Maurizio Romanelli, hanno focalizzato l’attenzione sulla Lian e su una galassia di altre società che fanno capo allo stesso Ramadani e a Pietro Chiodi, 53 anni, considerato un suo prestanome. Entrambi sono indagati, appunto, per frode fiscale, riciclaggio e auto riciclaggio.

Società che ufficialmente hanno sede a Malta, in Irlanda, Bulgaria e Croazia, ma che in realtà avrebbero operato in Italia attraverso una «stabile organizzazione occulta» i cui introiti sarebbero stati nascosti al fisco e trasferiti su conti di banche estere. Queste società hanno concluso affari soprattutto per la compravendita di giocatori nel calciomercato con le undici squadre italiane, nessuna delle quali è coinvolta nell’inchiesta. Lunedì mattina le Fiamme Gialle hanno perquisito gli uffici delle società che fanno capo a Chiodi e hanno ordinato alle squadre di consegnare tutta la documentazione cartacea e informatica relativa ai contratti stipulati a partire dal 2018 con Ramadani, Chiodi e con le imprese a loro riconducibili e ai versamenti fatti sul conto corrente italiano della Primus sports consultancy limited di Dublino (Irlanda), anch’essa di Ramadani e su due conti personali dello stesso agente macedone, oltre ai rapporti professionali intrattenuti con altri due procuratori italiani che, però, non sono indagati.

Ci vorranno giorni prima che i club riescano a mettere insieme tutte le carte volute dalla procura della Repubblica di Milano, che comprendono anche l’intera posta elettronica dei responsabili e dei dirigenti. L’obiettivo degli investigatori è accertare quali trattative e accordi erano alla base dei vari movimenti di calciatori da un team all’altro.

L’ordine di consegna notificato a Fiorentina e Juventus riguarda il clamoroso passaggio nel 2020 dell’attaccante Federico Chiesa dalla prima alla seconda. Al Napoli, invece, è stato chiesto di produrre gli atti dell’acquisto di Koulibaly e della risoluzione nel 2018 del contratto con il tecnico Sarri, mentre l’Inter dovrà documentare le procedure di rinnovo con Handanovic, la Roma il prestito di Kalinic, il Milan l’acquisto di Rebic, la Juventus e il Barcellona la cessione di Pjanic dall’una all’altra, il Torino l’acquisto nel 2018 di Butic, l’Hellas Verona e la Spal, rispettivamente, i prestiti di Kalinic e Simic. Ordine di consegna atti anche per Cagliari e Frosinone.

Monica Colombo, Stefano Agresti per il "Corriere della Sera" il 14 dicembre 2021. Uno, Fali Ramadani, lo chiamano «il Raiola dell'Est», perché parla molte lingue, cinque, e perché ha cominciato anche lui dalla ristorazione prima di diventare il procuratore di tanti campioni, soprattutto balcanici (Pjanic, Perisic, Handanovic, Maksimovic, Marin) ma non solo (Koulibaly, Marcos Alonso), oltre che di un allenatore di primo piano come Sarri. L'altro, Pietro Chiodi, è stato definito «un cucciolo al quale è stato dato troppo cibo e per questo si è ribellato»: la frase appartiene a Giovanni Becali, grande manovratore del calcio romeno, e l'ha pronunciata nel momento in cui è stato arrestato per un altro scandalo legato al calciomercato. I due agenti di calciatori sui quali sta indagando la Procura di Milano non sono nuovi a voci e polemiche, che li hanno sfiorati o toccati nonostante siano sempre attenti a sfuggire ai riflettori. In questo, ad esempio, Ramadani è decisamente differente rispetto a Raiola, preferisce il basso profilo e restare nell'ombra, sia nei tempi buoni che in quelli cattivi. Come questo, evidentemente. Ramadani, nato in Macedonia da genitori albanesi, domiciliato a Palma di Maiorca ma con la sede operativa della sua Lian Sport a Berlino, vanta legami importanti nel calcio. Di De Laurentiis, ad esempio, ha detto: «Aurelio è un amico e agli amici si cerca sempre di dare una mano». Ma il rapporto più stretto ce l'ha probabilmente con Pantaleo Corvino, ex direttore sportivo della Fiorentina, al quale hanno spesso rimproverato di avere contatti esclusivi con Fali: con lui ha chiuso l'affare Jovetic, quello che ha trasformato il ristoratore in procuratore, e poi anche Ljajic, Nastasic, Seferovic, Behrami. «Ma guardate quante plusvalenze ci ha fatto fare», la difesa del dirigente. Quanto a Chiodi, è lo storico agente della famiglia Di Francesco: papà Eusebio, allenatore esonerato dal Verona, e Federico, ora all'Empoli. Così ha stabilito un rapporto intenso anche con Totti, con il quale è stato fotografato nell'estate scorsa a pranzo a Pescara e nella sede dell'Empoli. Tra gli undici club nei quali ieri gli agenti della Guardia di Finanza hanno raccolto documentazioni e mail, il sentimento prevalente è la collaborazione. La Juve ostenta serenità nonostante sotto la lente di ingrandimento della procura di Milano emergano i trasferimenti di Pjanic al Barcellona e di Chiesa dalla Fiorentina. «Gli indagati sono altri, non noi», ribattono dalla Continassa. Il Milan, a cui è stata chiesta la documentazione relativa a Rebic e Kalinic (ma il secondo ha vestito la maglia rossonera sotto la precedente gestione cinese), offre piena cooperazione. Marotta, amministratore delegato dell'Inter, non pare scomporsi: non è la prima volta in cui - indagando su reati fiscali a carico di agenti - la magistratura chiede copie di documenti. Allo studio i contratti di Perisic e Handanovic. La Roma ha ricevuto la visita degli agenti ieri pomeriggio: le operazioni su cui verte l'inchiesta riguardano tre giocatori, ma sono movimenti che risalgono all'epoca in cui la società era di proprietà di Pallotta. Ancora più tranquillo è il Torino che con Ramadani ha concluso solo l'affare riguardante il giovane Butic, ceduto in prestito in B e oggi al Pordenone.

Federico Strumolo per “Libero Quotidiano” il 15 dicembre 2021. Attaccati, invidiati, spesso sopra le righe, per tutti il lato oscuro del calciomercato. Insomma, i procuratori sportivi non sono mai stati i migliori amici dei tifosi, figuriamoci delle società. Ma adesso uno degli agenti più potenti del mondo, il macedone Fali Ramadani, si trova sotto l'occhio del ciclone per aver svolto attività economiche in territorio nazionale, sottraendo i proventi all'imposizione tributaria. In sostanza, Ramadani sarebbe riuscito a non dichiarare nulla al Fisco italiano sulle cifre incassate per le mediazioni nelle compravendite in Italia, facendo invece transitare i suoi compensi su una rete di società estere. E, secondo i pm, potrebbe arrivare addirittura a 70 milioni di euro l'evasione fiscale derivata dai compensi sui contratti di compravendita, o rinnovo dei giocatori, trattati dal super agente, insieme al procuratore sportivo italiano Pietro Chiodi, ritenuto dagli investigatori un prestanome. Almeno questo è quello che si evincerebbe dall'inchiesta della Procura di Milano sulle presunte irregolarità negli affari dell'agente nato nel 1963 a Tetovo, al quale sarebbero contestati anche i reati di riciclaggio e autoriciclaggio. La somma in questione, di 70 milioni, è frutto di una stima basata sull'incredibile valore del parco atleti gestito da Ramadani, con giocatori come lo juventino Federico Chiesa, o il napoletano Kalidou Koulibaly, o ancora l'allenatore della Lazio Maurizio Sarri, che sfiora i 770 milioni di euro. Da quanto si apprende, la Guardia di Finanza avrebbe trovato sui conti correnti del procuratore macedone più di 7 milioni di euro versati da squadre italiane come commissioni per la compravendita di giocatori e allenatori, oltre ad altri 25 milioni provenienti da club stranieri, in particolare della Liga spagnola (nel mirino, ad esempio, ci sarebbe l'operazione che ha portato Miralem Pjanic dalla Juventus al Barcellona nell'estate del 2020). Si presume, però, che Ramadani abbia nascosto al Fisco italiano, appunto, molto di più, attraverso l'omessa presentazione delle dichiarazioni dei redditi del 2018 e del 2019. Una vicenda che, ovviamente, non può che toccare anche i club coinvolti nelle operazioni, che, nel dettaglio, sono Cagliari, Fiorentina, Frosinone, Inter, Juventus, Milan, Napoli, Roma, Spal, Torino e Verona. Negli ultimi due giorni i militari si sono presentati nelle sedi degli undici club per acquisire materiale e documentazione relativa ai contratti conclusi da Ramadani (inclusi gli scambi di email tra dirigenti e procuratore), seppure le società non risultino indagate. A oggi è difficile ipotizzare se, o quanto, possano rischiare i club di serie A. Quel che è certo, però, è che il caso Ramadani rappresenta solo l'ultimo scandalo riguardante un sistema, quello del calciomercato, che scricchiola ogni giorno di più.

Agenti, le colpe di Fifa e società. Nicolò Schira il 16 Dicembre 2021 su Il Giornale. Nel 2017 fu cancellato l'albo. Il doppio gioco dei presidenti. Sono davvero i procuratori il male del calcio? Probabilmente no. O meglio, non solo loro gli unici responsabili di un pallone che rischia di scoppiare travolto da scandali e debiti. Gli agenti fanno parte di un sistema in cui il loro potere e credito è cresciuto costantemente negli anni, per volere degli stessi presidenti. Ovvero coloro che, con i loro capitali, finanziano e mandano avanti il giocattolo. Naturalmente - come in ogni categoria - ci sono personaggi dal modus operandi tutt'altro che limpidi. Verso di loro in maniera corporativa sta facendo fronte pure l'AssoAgenti. L'evasione fiscale è un reato grave, così come sono sempre più gli agenti a prendere la residenza all'estero proprio per sfuggire al regime fiscale italiano molto rigido rispetto a quello di altri paesi. Servirebbero regole certe anche da parte della FIGC e gli stessi procuratori sarebbero disposti a sedersi al tavolo delle trattative con le istituzioni, tuttavia da anni la loro richiesta relativa alla formulazione di un nuovo regolamento non è stata ascoltata. La Fifa da anni fa la guerra agli agenti, ma la deregulation del 2017 si è rivelata un flop oltre che un boomerang: nel 2020 sono state pagate commissioni agli intermediari per 444,7 milioni di euro. L'abolizione dell'albo professionale (poi reintrodotto) ha aperto le porte del mondo del calcio a faccendieri e personaggi con capitali di dubbia provenienza. Altro che ripulire il pallone, verrebbe da dire. Gli ingaggi sempre più alti richiesti dai calciatori sono da ascrivere totalmente alla bramosia di denari da parte dei loro manager o sono gli stessi giocatori a voler guadagnare sempre di più e si nascondono dietro i loro agenti,? La verità sta nel mezzo. Ci sono commissioni monstre richieste da alcuni procuratori come denunciato recentemente (Commisso in primis), tuttavia alcune "sparate" sono legate al fatto che i familiari dei giocatori riceveranno una fetta consistente della parcella incassata dagli agenti. Non a caso è in crescita il fenomeno dei calciatori (da De Bruyne a Brozovic) che rompono con gli storici rappresentanti per gestirsi da soli attraverso fratelli o genitori: in questo modo anche la commissione resta nelle loro tasche. D'altronde per rinnovare un contratto basta e avanza un legale di fiducia. L'agente serve soprattutto per cambiare squadra. Intanto i bilanci dei club sono in profondo rosso, ma molti presidenti, invece che investire nello scouting, preferiscono demandare tutto a un agente di riferimento. Ogniclub ne ha almeno uno, che molto spesso viene imposto proprio dai club all'interno di una operazione. È davvero necessario avvalersi di questa figura? In molti casi diremmo proprio di no. Nicolò Schira

(ANSA il 14 dicembre 2021) - E' ufficiale, la Procura della Figc ha deciso l'archiviazione del caso Suarez e del suo esame di italiano all'Università di Perugia. In una nota sul sito della Figc si legge infatti che "la Procura Federale, su conforme parere della Procura Generale dello Sport, ha disposto nei giorni scorsi l'archiviazione 'allo stato degli atti' del procedimento relativo all'indagine della Procura della Repubblica di Perugia sull'esame del calciatore Suarez volto ad ottenere la cittadinanza italiana, in attesa della trasmissione di eventuali ulteriori atti di indagine e/o processuali dalla competente Autorità Giudiziaria". "Dalla documentazione ricevuta dalla Procura della Repubblica di Perugia, infatti, non sono emersi elementi sufficienti - continua il comunicato - per ritenere provate condotte illecite rilevanti nell'ambito dell'ordinamento federale sportivo di dirigenti o comunque tesserati, unici soggetti sottoposti alla Giustizia Sportiva ai sensi del vigente C.G.S".

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 22 dicembre 2021. Babbo Natale è andato a far visita al calcio italiano. Non era vestito di rosso, ma di giallo-verde e grigio antracite e aveva sostituito la slitta con un’auto targata G. di F. Niente renne, dunque, né doni, solo allarmi, turbamenti, un po’ di fumo e tanto clamore: ogni azione, ogni colpo di scena, quando riguarda il calcio assume immediatamente una dimensione iperbolica. Era sospettabile che l’inchiesta sulle plusvalenze della Juve, partita da Torino si estendesse ad altri club e attivasse più procure della Repubblica (wait and see). Eppure la prevedibilità non ha attutito l’effetto del blitz, anche perché ha interessato addirittura la sede della Lega calcio. Il cui vertice, per inciso, si trova per impegni o vacanze natalizie negli Stati Uniti. Non è semplice chiarire quali potranno essere gli sviluppi delle indagini sul piano sportivo. Che numerose valutazioni di giocatori fossero gonfiate per aggiustare i conti anche prima della pandemia, è immaginabile: provarlo è però un lavorone - sottolineo peraltro che il ricorso alle plusvalenze si è esaurito da molti mesi. Giornata piena di fibrillazioni, questo 21 dicembre: oltre alle preoccupazioni per l’aumento dei casi di positività che ha portato alla mancata disputa di una partita di campionato, abbiamo registrato l’intervento rigoroso e coerente del presidente federale Gravina sul caso Salernitana e, appunto, l’irruzione delle fiamme gialle negli uffici di Inter e Lega. Se il calcio si permette degli stravizi finanziari la colpa, lo ripeterò fino allo sfinimento, è soprattutto di chi non esercita nei tempi giusti il controllo al quale è deputato. I nostri club sono pieni di creativi, di fantasisti e di impellenze: l’unica via per frenare slanci, sforzi e taroccamenti è una severa vigilanza esterna. Il fenomeno delle plusvalenze non è una nostra esclusiva, il guaio è che noi non sappiamo trattenerci, e comunque è irritante lo stupore delle istituzioni. Allargo il discorso. Fifa, Uefa e fino a poco tempo fa la stessa Federcalcio non hanno svolto il ruolo di “governanti”. Non sono mai entrate nel merito con competenza e rigore. A oggi - e qui penso a Fifa e Uefa - hanno esclusivamente organizzato eventi di due tipi, quelli importanti per produrre utili e quelli inutili, o quasi, per finalità politiche, i cui costi vengono coperti con i ricavi dei primi. Risorse che sarebbero dovute servire per contenere il danno economico generato globalmente dal virus, ma che le istituzioni si son ben guardate dal distribuire alle leghe. Perché - le stesse - non mostrano il lavoro svolto per individuare e affrontare le patologie che affliggono da tempo l’operato dei club? Hanno verificato con cura i bilanci delle società prima che questi esplodessero? Hanno creato commissioni miste per studiare e accompagnare l’evoluzione del sistema? Hanno chiesto conto ai club dei comportamenti borderline? Hanno condannato le ripetute e costanti infrazioni regolamentari? No! è la risposta a tutte queste domande. Se ne sono altamente fregate e adesso, nel momento in cui tutte le componenti chiedono la riduzione del numero delle partite e l’abolizione di quelle inutili, Infantino insiste con il Mondiale biennale. Per quelli della Fifa i soldi sono eticamente e moralmente accettabili soltanto quando sono loro a incassarli.

Marco Iaria per "La Gazzetta dello Sport" il 21 dicembre 2021. Dopo essersi ristrutturata e aver consolidato la leadership nazionale, a un certo punto la Juventus ha mirato all’obiettivo più ambizioso: dare l’assalto all’élite del calcio mondiale. Per farlo ha profuso investimenti senza precedenti per un club italiano, resi possibili dalla crescita dei ricavi, dalla disponibilità degli azionisti e dalla fiducia di banche e investitori. Con il senno di poi - vero, esercizio fin troppo facile - è possibile quantificare la massa di spese che non hanno reso secondo le aspettative. Viene fuori un numero gigantesco: mezzo miliardo di euro. E Ronaldo non c’entra. Seguiteci. Innanzitutto, l’arco temporale. C’è chi individua l’inizio di una pericolosa china nell’operazione CR7. In realtà, dal punto di vista delle strategie aziendali e della movimentazione degli investimenti, la vera svolta va rintracciata ancor prima, nell’estate 2016. È da qui che parte la nostra analisi, perché da questa sessione di mercato la Juventus cambia il modus operandi che aveva adottato a partire dall’insediamento di Andrea Agnelli a presidente, nel 2010. Non a caso, nel 2016-17, il valore della rosa a bilancio schizza a 302 milioni dai 186 del 2015-16. La cessione-record di Pogba al Manchester United per 105 milioni spinge i dirigenti ad alzare l’asticella: arriva così Higuain, pagando al Napoli la clausola (91 milioni complessivi) e offrendo all’argentino uno stipendio mai così alto (7,5 milioni netti contro i 4,5 dello juventino più pagato nella stagione precedente, Pogba). Gonzalo Higuain è il primo nome che balza agli occhi esaminando le operazioni di mercato dell’ultimo quinquennio. È vero che l’arrivo di Ronaldo era stato accompagnato da aspettative altissime, commisurate a costi senza precedenti. In totale l’operazione CR7 è costata 277 milioni tra acquisizione, oneri e stipendio, al netto della cessione allo United. Ma aveva un senso più ampio, e non a caso la presenza dell’icona portoghese ha regalato alla Juventus benefici che sono andati al di là del rettangolo di gioco. In ogni caso, Ronaldo ha lasciato Torino dopo aver segnato 101 gol in tre stagioni: non il ruolino di marcia di un semplice testimonial. No, gli errori sono stati commessi altrove. Nel momento in cui i dirigenti bianconeri hanno avuto a disposizione una “potenza di fuoco” fuori portata per gli altri club di Serie A e al passo con la top ten europea, ad alcune scelte azzeccate si sono affiancate scommesse non riuscite e operazioni eccessivamente onerose che non hanno migliorato il progetto tecnico e hanno finito per appesantire i conti. Per quantificare le spese abbiamo preso in considerazione i corrispettivi per i trasferimenti, le commissioni agli agenti, gli stipendi lordi (per i giocatori attualmente in rosa è stato incluso l’ingaggio dell’intera stagione 2021-22), sottraendo gli eventuali incassi per prestiti, bonus o cessioni a titolo definitivo. Ecco, mettendo dentro tutto, Higuain è costato 122 milioni: 91 per l’acquisto, 45 per lo stipendio (buonuscita compresa), 4 per oneri accessori, meno i 18 milioni incassati dal prestito a Milan e Chelsea nel 2018-19. I suoi gol sono stati preziosi per gli scudetti 2017 e 2018, troppo poco però per giustificare l’esborso, tanto che lo stesso club l’ha poi bollato come esubero accettando la svalutazione del “cartellino” e la liquidazione pur di liberarsene. In tutto abbiamo selezionato nove casi. Dietro Higuain c’è Douglas Costa, il cui “cartellino” tra prestito e riscatto è costato 51 milioni: più lo stipendio, si arriva a 87. Troppi per un giocatore che, dopo essere stato tra i protagonisti del girone di ritorno nella cavalcata-scudetto 2018, si è perso tra infortuni, discontinuità di rendimento e limiti caratteriali. Sul podio troviamo pure Arthur, la cui iper-valutazione da 72 milioni è chiaramente influenzata dallo scambio con Pjanic: ingaggio compreso, parliamo di 85 milioni per un asset che ora la Juventus vorrebbe dismettere. Ci sono poi le scommesse sui giovani talenti. Possono riuscire oppure no. Nel caso di Federico Bernardeschi e di Dejan Kulusevski, non si può dire che le rispettive acquisizioni da 40 e 35 milioni abbiano prodotto ancora un adeguato ritorno dell’investimento: aggiungendo stipendi e commissioni, l’esborso calcolato fino al giugno 2022 è di 73 e 49 milioni. Né l’ex Fiorentina, arrivato a Torino a 23 anni, né lo svedese, acquistato a nemmeno 20 anni, hanno convinto. Alla categoria dei parametri zero non riusciti rientrano di diritto Adrien Rabiot e, soprattutto, Aaron Ramsey. Il gallese, in realtà, è costato la bellezza di 9 milioni di commissioni: più lo stipendio, il costo totale è di 44 milioni. Il francese – operazione più sensata, vista l’età in cui arrivò, 24 anni – si ferma a quota 29 tra oneri (1,5) e ingaggio. Più o meno allo stesso livello della meteora Marko Pjaca, costato 32 milioni: 29 per l’acquisto, 6 per gli stipendi nei primi anni, meno bonus e prestiti vari. Nella galleria abbiamo inserito Cristian Romero, non tanto per il saldo effettivo messo in conto-uscite dalla Juventus (10 milioni) ma per la schizofrenia delle movimentazioni riguardanti un calciatore che non ha mai vestito la maglia bianconera: acquistato per 28 milioni, togliendo poi 3 di bonus, è stato ceduto a 15 all’Atalanta che, peraltro, l’ha subito dopo piazzato al Tottenham per 50 milioni più bonus. Mettendo assieme questi nove giocatori, il conto della spesa fa oltre 500 milioni. Investimenti totalmente sbagliati? Non necessariamente, anche perché ogni caso fa storia a sé e nel calcio è sempre difficile parametrare costi aziendali e performance sportive. Non v’è dubbio, però, che negli ultimi anni la Juventus, dopo aver raggiunto vette elevatissime dentro e fuori dal campo, abbia compiuto una serie di errori nell'individuazione di giocatori, allenatori e progetti tecnici che hanno interrotto il circolo virtuoso creando un effetto a valanga sulla competitività agonistica e sull’equilibrio economico-finanziario.

L’Inter. Da gazzetta.it il 22 dicembre 2021. Nell'ambito dell'indagine milanese per falso in bilancio che coinvolge l'Inter su presunte vendite gonfiate per sistemare i conti, sono state effettuate ieri acquisizioni anche su dispositivi informatici, alla ricerca di mail e messaggi tra dirigenti, responsabili e dipendenti relativi alle cessioni e scambi di calciatori tra il 2017 e il 2019. Tra i temi dell'indagine i contratti, acquisiti dalla Gdf nell'inchiesta dei pm Cavalleri e Polizzi, con la clausola di recompra: vendita e riacquisto l'anno successivo dello stesso giocatore. Da analizzare, in particolare, le operazioni coi valori degli atleti che paiono marcatamente sproporzionati.

Da gazzetta.it il 22 dicembre 2021. Dopo la visita della Guardia di finanza che ha acquisito le documentazioni relative ai bilanci 2017-18 e 2018-19, L'Inter ha emesso il seguente comunicato: "FC Internazionale Milano conferma di aver fornito la documentazione richiesta relativa alle cessioni di taluni calciatori avvenute nelle stagioni 2017/2018 e 2018/2019. La richiesta è pervenuta dalla Procura di Milano per verificare la regolare contabilizzazione delle relative plusvalenze. I bilanci della società sono redatti nel rispetto dei più rigorosi principi contabili. Nessun tesserato dell'Inter è indagato. Nessuna contestazione è stata formalizzata. Come recita il comunicato stesso della Procura, si tratta di indagini preliminari".

(ANSA il 21 dicembre 2021) - Nell'inchiesta a carico di ignoti della procura di Milano che oggi ha portato la Gdf a effettuare acquisizioni presso la sede dell'Inter e della Lega Calcio si stanno facendo accertamenti su plusvalenze di 100 milioni relative a due annualità, 2017/18 e 2018/19, per la cessione di una decina di giocatori di fascia medio-bassa, alcuni anche delle giovanili. In particolare, gli investigatori stanno facendo accertamenti sui bilanci di quegli anni, tra il 2017 e il 2019, nel corso dei quali le plusvalenze hanno inciso per il 10% dei ricavi. Plusvalenze che si sarebbero generate soprattutto con le cessioni di giocatori di fascia medio bassa, anche delle giovanili, che potrebbero essere stati 'sopravvalutati' nelle operazioni di compravendita tra Inter e altre squadre. Nell'ipotesi d'accusa, tutta da verificare, iscrivere quelle plusvalenze potrebbe essere servito per 'abbellire' i conti della società per quegli anni. Se le passività, ossia i costi dei giocatori, vengono ammortizzati su più anni, le plusvalenze vengono iscritte nel singolo anno e incidono sui ricavi del bilancio. Oggi la Gdf è andata ad acquisire tutti i documenti relativi alle operazioni che hanno generato plusvalenze per l'Inter in quegli anni, compresi i contratti delle compravendite che sono depositati in Lega calcio. L'indagine è autonoma, ma si muove sulla falsariga di quella aperta dai pm di Torino sulle plusvalenze della Juve.

Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella per milano.corriere.it il 21 dicembre 2021. L’Inter finisce nel mirino della Procura di Milano per le plusvalenze realizzate nella compravendita di calciatori in un’inchiesta che ipotizza il reato di falso in bilancio contro ignoti, cioè senza indagati, che inizialmente ha riguardato anche il Milan, nei cui confronti, però, non sono emerse ipotesi di irregolarità già subito dopo i primi accertamenti.

Dopo il caso Juventus

Dopo l’indagine avviata dalla Procura di Torino sulle plusvalenze della Juventus, la Guardia di Finanza di Milano ha messo sotto osservazione anche quelle dichiarate da Inter e Milan nei bilanci 2017/2028 e 2018/2019. 

Il 9 dicembre scorso le Fiamme gialle hanno trasmesso un’informativa alla Procura di Milano evidenziando alcune criticità nei bilanci dell’Inter in relazione alle operazioni legate a una decina di calciatori non di primissimo livello e oggi, su ordine del sostituto procuratore Giovanni Polizzi, che ha aperto l’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, hanno bussato alla porta della sede dell’Inter e della Lega di Serie A per acquisire la documentazione su tutte le plusvalenze dichiarate nei due bilanci. 

I valori sopravvalutati

L’ipotesi, ancora tutta da dimostrare, su cui lavorano gli investigatori è che il valore dei diritti pluriennali sulle prestazioni sportive dei calciatori venduti sia stato sopravvalutato rispetto al prezzo al quale gli stessi calciatori erano stati acquistati, con la conseguenza di incrementare notevolmente la voce ricavi e, di riflesso, ridimensionare quella delle perdite.  Come si legge nell’ordine di esibizione di atti notificato dalla Guardia di Finanza all’Inter e alla Lega nazionale professionisti, alla quale le società depositano i contratti dei calciatori, in questo modo si sarebbe realizzata una operazione di «Window dressing». Si sarebbero cioè alterati i bilanci dando una rappresentazione migliore delle condizioni della società al fine di «rispettare i parametri di fair play finanziario» richiesti dalla Uefa per l’iscrizione ai campionati di calcio. Tutto questo, però, dovrà superare la valutazione del pm Polizzi e dell’aggiunto Romanelli che dovranno accertare se siano stati commessi reati ed eventualmente da chi. 

I movimenti di denaro

In Procura, infatti, si esorta alla cautela su una materia molto complessa in cui non esiste un criterio, per così dire, scientifico per stabilire quanto valga un calciatore, perché questo valore è legato sì ad elementi oggettivi, come la qualità generalmente riconosciuta dell’atleta, ma anche soggettivi, che dipendono da stato di forma del giocatore o dagli infortuni, o addirittura esterni, come l’impiego nelle competizioni deciso dagli allenatori. Tra la documentazione informatica e cartacea che è stata richiesta e già ottenuta — gli investigatori evidenziano l’atteggiamento estremamente collaborativo dall’inter e della Lega — oltre ai bilanci e ai contrati, ci sono anche i movimenti bancari di denaro per perfezionare i passaggi e tutto ciò che riguarda le trattative, comprese quelle con i procuratori dei singoli giocatori. 

Da ilnapolista.it il 21 dicembre 2021. l presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ha rilasciato alcune dichiarazioni alle telecamere di Report, programma in onda su Rai 3. Ha commentato, insieme ad altri presidenti di Serie A, il momento particolare del calcio in Italia. “Non mi fate parlare perché se io parlo del calcio scoppia il finimondo. Io ne ho talmente la palle piene… Mi hanno impedito per due anni di andare a casa mia a Los Angeles e non vedo l’ora adesso che sia il 20 gennaio per fare un mese rigeneratore”.

Voi siete tra i pochi club con i conti in ordine. 

“Ce ne sono anche degli altri, come la Fiorentina”. 

Non è una concorrenza sleale?

“L’ha detto lei, non c’è bisogno che lo dica io. Ci si arriva da soli, ma certo. Queste sono le responsabilità della Federcalcio. La Lega, se è un’associazione di società per azioni, dunque indipendente, dovrebbe pagare la Federcalcio e la Federcalcio non dovrebbe fare nulla, se non segretariato per cosette così. Invece è diventato un centro di potere. Uno istituzionalmente si mette la medaglia”.

Da eurosport.it il 21 dicembre 2021. L’ad dell’Inter Beppe Marotta ai microfoni di 90° minuto ha parlato a tutto campo del momento dell’Inter che è sempre più vicina a chiudere il girone d’andata al primo posto: “Inzaghi si è inserito a meraviglia. È il nostro valore aggiunto. Brozovic? Ottimista per il rinnovo. Un ritorno di Icardi in Serie A alla Juve? Per il calcio italiano sarebbe una grande notizia". L’Inter è sempre più vicina a chiudere il 2021 da campione d’inverno. La ciliegina sulla torta su un anno solare straordinario per la Beneamata che, dopo aver festeggiato a maggio uno scudetto che mancava da 11 anni, nelle ultime settimane si è anche tolta la soddisfazione di rompere il tabù qualificazione agli ottavi di finale di Champions League e si appresta a chiudere la prima parte da stagione in cima alla classifica e con ottime chance di confermarsi campione d’Italia. Chi l’avrebbe detto quest’estate quando l’Inter in poche settimane ha perso Conte, Hakimi e Lukaku? Grazie al lavoro e alle intuizioni dell’ad Beppe Marotta però i nerazzurri sono rimasti al vertice, in primis quella di ingaggiare Simone Inzaghi, lodato ai microfoni di 90° minuto dal dirigente nerazzurro. "Immaginavo maggiori difficoltà d'inserimento, in realtà Inzaghi si è inserito con più facilità del previsto, supportato anche dalla società. È riuscito a dimostrare il suo autentico lavoro, dimostra un valore aggiunto nell’area tecnica. Come mai Inzaghi è riuscito ad arrivare agli ottavi di Champions League e Conte no? Forse una risposta precisa non c'è. Facendo una breve retrospettiva storica ed entrando nel clima natalizio, ricordo che quest'estate il club è stato condizionato da turbolenze forti e temporali violenti, fortunatamente abbiamo trovato la nostra stella polare che ci guidasse nel migliore dei modi. Siamo riusciti a trovare la strada giusta con un riequilibrio economico del club, con tre cambiamenti legati alle partenze di Hakimi, Lukaku ed Eriksen, oltre al cambio dell'allenatore. Questa è stata la grande difficoltà in quel momento, ma siamo riusciti a facilitare l'ingresso di Inzaghi. Dall'altra parte c'è la stella luminosa che ha un significato molto più ampio: le due stelle sono il nostro obiettivo che rappresenterebbero il ventesimo scudetto, due come il segno di vittoria, il nostro grande obiettivo che tutti insieme con grande umiltà dovremo perseguire”. "Non credo Antonio si sia pentito, non bagna rivangare il passato. Ha tracciato un solco importante sotto tutti i punti di vista, dal carattere al gioco il suo lavoro si è visto. Ma comunque è proficuo anche il lavoro di Inzaghi. Abbiamo ottenuto una grande vittoria lo scorso anno, come già detto vorremmo ripetere questo risultato. Sarebbe un segno di grande crescita, comunque abbiamo trovato la qualificazione agli ottavi dopo ben dieci anni. Brozovic rinnoverà? Abbiamo alcuni temi da affrontare, siamo contenti dei giocatori in scadenza, speriamo di portare a termine con profitto per tutti le negoziazioni. Brozovic ha manifestato di voler rimanere, ora dobbiamo contrattare a livello economico che è la parte più difficile. Ma sono fiducioso. Se regaleremo Luis Alberto a Inzaghi? Nel futuro non mi voglio addentrare, affronteremo al momento giusto questo discorso”. "Le insinuazioni della Fiorentina sui conti dell’Inter? La sede opportuna è stata quella dell’Assemblea, ho già detto quello che dovevo dire a Joey Barone. L’Inter è per la trasparenza, volevamo mettere a conoscenza la situazione debitoria, è un fatto di grande trasparenza. L’Inter ha sempre rispettato le scadenze, ho chiesto a Barone di evitare di esprimere in quel modo le sue rimostranze. L’eventuale ritorno di Icardi alla Juve? Al momento l’Italia non è l’eldorado del calcio come negli anni ‘90, è un campionato di transizione, spesso si perde in qualità. È normale che ben venga il ritorno di giocatori importanti. Comunque non sta a me commentare la vicenda Icardi, non è uno nostro giocatore, noi sicuramente siamo contenti dei nostri attaccanti, dico che il calcio trarrà beneficio nel momento in cui i giocatori di qualità torneranno nel nostro paese”.

Plusvalenze Inter, inchiesta per falso in bilancio. Accertamenti sul Milan, escluse irregolarità. Luigi Ferrarella e Giuseppe Guastella Il Corriere della Sera il 21 dicembre 2021. La Procura apre un’inchiesta contro ignoti. Perquisizioni nella sede dell’Inter: sospetti sui contratti di una decina di giocatori, nel mirino i bilanci 2017-2019. L’ipotesi: «Valori gonfiati per rispettare i parametri del fair play finanziario». Da Pinamonti a Radu, gli affari nel mirino dei pm. L’Inter finisce nel mirino della Procura di Milano per le plusvalenze realizzate nella compravendita di calciatori in un’inchiesta contro ignoti che ipotizza il reato di false comunicazioni sociali (cioè irregolarità nella rappresentazione del bilancio), cioè senza indagati, che inizialmente ha riguardato anche il Milan, nei cui confronti, però, non sono emerse ipotesi di irregolarità già subito dopo i primi accertamenti.

Dopo il caso Juventus

Dopo l’indagine avviata dalla Procura di Torino sulle plusvalenze della Juventus, i magistrati di Milano hanno messo sotto osservazione quelle dichiarate da Inter e Milan nei bilanci 2017/2028 e 2018/2019. Il 9 dicembre scorso le Fiamme Gialle della Guardia di Finanza hanno trasmesso un’informativa alla Procura di Milano evidenziando alcune criticità nei bilanci dell’Inter in relazione alle operazioni legate a una decina di calciatori non di primissimo livello (anche del settore giovanile) e oggi, su ordine del sostituto procuratore Giovanni Polizzi, che ha aperto l’indagine coordinata dal procuratore aggiunto Maurizio Romanelli, hanno bussato alla porta della sede dell’Inter e della Lega di Serie A per acquisire la documentazione su tutte le plusvalenze dichiarate nei due bilanci. Sotto la lente dei pm ci sono, tra le altre, le cessioni del portiere romeno Ionut Radu (24 anni), dell’attaccante Andrea Pinamonti (22 anni, in prestito all’Empoli) e del difensore belga Zinho Vanheusden (22 anni, in prestito al Genoa).

I valori sopravvalutati

L’ipotesi, ancora tutta da dimostrare, su cui lavorano gli investigatori è che il valore dei diritti pluriennali sulle prestazioni sportive dei calciatori venduti sia stato sopravvalutato rispetto al prezzo al quale gli stessi calciatori erano stati acquistati, con la conseguenza di incrementare notevolmente la voce ricavi e, di riflesso, ridimensionare quella delle perdite. In una delle due annualità, sottolinea un investigatore, avrebbe raggiunto il 10%, un livello che evidentemente è considerato allarmante. Come si legge nell’ordine di esibizione di atti notificato dalla Guardia di Finanza all’Inter e alla Lega nazionale professionisti, alla quale le società depositano i contratti dei calciatori, in questo modo si sarebbe realizzata una operazione di «Window dressing». Si sarebbero cioè alterati i bilanci dando una rappresentazione migliore delle condizioni della società al fine di «rispettare i parametri di fair play finanziario» richiesti dalla Uefa per l’iscrizione ai campionati di calcio. Tutto questo, però, dovrà superare la valutazione del pm Polizzi e dell’aggiunto Romanelli che dovranno accertare se siano stati commessi reati ed eventualmente da chi.

I movimenti di denaro

In Procura, infatti, si esorta alla cautela su una materia molto complessa in cui non esiste un criterio, per così dire, scientifico per stabilire quanto valga un calciatore, perché questo valore è legato sì ad elementi oggettivi, come la qualità generalmente riconosciuta dell’atleta, ma anche soggettivi, che dipendono da stato di forma del giocatore o dagli infortuni, o addirittura esterni, come l’impiego nelle competizioni deciso dagli allenatori. Tra la documentazione informatica e cartacea che è stata richiesta e già ottenuta — gli investigatori evidenziano l’atteggiamento estremamente collaborativo dall’Inter e della Lega — oltre ai bilanci e ai contrati, ci sono anche i movimenti bancari di denaro per perfezionare i passaggi e tutto ciò che riguarda le trattative, comprese quelle con i procuratori dei singoli giocatori.

Il commento del club nerazzurro

«Nessun tesserato dell’Inter è indagato. Nessuna contestazione è stata formalizzata. Come recita il comunicato stesso della Procura, si tratta di indagini preliminari». Questa la posizione dell’Inter in una nota ufficiale dopo l’acquisizione di documenti nella sede del club e l’avvio dell’inchiesta per falso in bilancio.

Il fascicolo su Ramadani

Questo nuovo fascicolo di inchiesta si aggiunge a quello aperto dai magistrati milanesi nelle scorse settimane su una presunta frode fiscale addebitata al procuratore macedone Fali Abdilgafar Ramadani, uno dei maggiori agenti nel mondo del calcio, in relazione al mancato pagamento in Italia delle tasse sui profitti realizzati nella compravendita di calciatori e per la quale la Finanza ha acquisito una molti atti nelle sedi di undici società di calcio di serie A e B. 

Plusvalenze, 100 milioni dubbi. Anche l'Inter sotto inchiesta. Luca Fazzo il 22 Dicembre 2021 su Il Giornale. Nel mirino i conti a cavallo tra le gestioni Thohir e Zhang. Il club si difende. Controlli pure al Milan, ma nessuna criticità. Gioiellini usciti da poco dal vivaio, ragazzi di belle speranze piazzati sul mercato del calcio a prezzi da campioni affermati; o onesti lavoratori del pallone, gregari di carriera venduti come se fossero in odore di Nazionale. Per almeno due anni, secondo la Procura di Milano, l'Inter ha usato questo sistema per abbellire i bilanci malfermi dell'epoca a cavallo tra l'epoca Thohir e la gestione Zhang. E per questo il club ambrosiano si trova ora, in un momento cruciale del campionato, investito da una rogna giudiziaria assai simile a quella che un mese fa è piombata sulla Juventus. Anche in casa nerazzurra, come nel club bianconero, il metodo era sempre quello: inserire a bilancio plusvalenze fittizie, gonfiando artificiosamente i valori dei calciatori oggetto di scambi «a specchio», in modo da abbellire i dati trasmessi per l'iscrizione ai campionati. Tra le operazioni più vistose avvenute negli scorsi anni, a quanto si è appreso, c'è l'andirivieni quasi frenetico di giocatori con il Genoa: il centravanti Andrea Pinamonti e il portiere Ionut Radu che vanno e vengono crescendo sempre di prezzo e senza mai vedere il campo di serie A; e così pure l'attaccante Eddy Salcedo, l'esterno Federico Valietti, il difensore Nicholas Rizzo. L'indagine della Procura di Milano esce allo scoperto ieri quando la Guardia di finanza va a bussare alla sede interista - e in contemporanea a quella della Lega - e si fa consegnare i documenti relativi ad una decina di passaggi di cartellini avvenuti negli anni scorsi. A differenza che nel caso Juve, qui non ci sono di mezzo grandi nomi. L'altra differenza è che l'inchiesta è per ora a carico di ignoti: ma il reato ipotizzato è falso in bilancio, ed è inevitabile che nel mirino finisca dunque chi ha firmato i bilanci sotto accusa: a partire dagli amministratori delegati Alessandro Antonello e Giuseppe Marotta, per arrivare a chi cooperò con loro. «I bilanci sono stati redatti nel rispetto più rigoroso dei principi contabili», fa sapere ieri l'Inter, sottolineando che nessun dirigente è indagato e che siamo ancora nella fase delle «indagini preliminari». Ma è significativo il fatto che dagli ambienti giudiziari trapeli che accertamenti preliminari, già prima dell'esplosione del caso plusvalenze a Torino, sono stati compiuti anche sul Milan, dove non sono emerse «criticità»: a differenza evidentemente che in casa Inter, dove le «criticità» assommerebbero a circa 100 milioni spalmati sui due anni; e dove l'inchiesta giudiziaria arriva a ridosso della vivace polemica che sta agitando, proprio sul tema della regolarità dei bilanci, i rapporti tra Inter e Fiorentina, con il manager viola Joe Barone che accusa in diretta Marotta di fare campagna acquisti con i soldi «risparmiati» sul fisco. Inevitabile chiedersi se e quali conseguenze la scoperta di effettivi falsi in bilancio potrebbe avere sulla classifica interista. Le violazioni al sistema delle licenze nazionali, che regola la partecipazione ai campionati, sono in genere punite piuttosto blandamente. Ma se si accerta che il bilancio prima del trucco avrebbe reso impossibile l'iscrizione del club milanese alla serie A, le conseguenze potrebbero essere più pesanti. Soprattutto se a venire tratta in inganno è stata anche la Covisoc, la commissione federale che si occupa della regolarità dei bilanci.

Luca Fazzo (Milano, 1959) si occupa di cronaca giudiziaria dalla fine degli anni Ottanta. È al Giornale dal 2007. Su Twitter è Fazzus.

100 anni di avvocato Prisco. Antonio Modaffari, Esperto in comunicazione, su Il Riformista il 10 Dicembre 2021. La prima cosa che ho pensato prima di scrivere questo pezzo è stata: chissà cosa penserebbe l’avvocato Prisco del calcio di oggi? Un calcio che è cambiato, che non è più quello di una volta. Una certezza c’è: lui sarebbe sempre e comunque innamorato della sua Inter. Peppino Prisco nasceva 100 anni fa, il 10 dicembre 1921. Ha vissuto tante stagioni, è stata parte fondamentale della Grande Inter. Con le sue battute disarmava tutti, con la sua simpatia si faceva amare da tutti, era l’amico di tutti. All’inizio, come spesso succede quando si parla di Inter, me ne raccontava mio padre poi ho iniziato a capire la grandezza di questo personaggio a cui tutto il popolo interista deve tanto. Ricordo bene il suo impegno per riportare un Moratti alla guida dell’Inter, i fatti gli hanno dato ragione. Certo, resta l’amarezza che lui non fosse a Madrid quel magico 22 maggio 2010, ma era lì, in cielo, a gioire con Angelo Moratti e Giacinto Facchetti. Grandi uomini, Grande Inter. Ciao avvocato.

Da calciomercato.com il 10 dicembre 2021. IL RICORDO DI MASSIMO MORATTI - “L’ho conosciuto da bambino, era il vicepresidente dell’Inter quando il club era del mio papà. È sempre stato di famiglia, anche perché all’epoca il calcio era una cosa diversa, aveva un’impostazione familiare e non istituzionale. Per cui si era tra amici ed era normale vederli girare per casa. Prisco era brillantissimo e anche ammirato per il suo passato da eroe alpino. E poi quell’ironia, quel modo inconfondibile di comunicare. Diventa difficile fissare un solo aneddoto per ricordarlo, perché in qualsiasi ragionamento, anche in quello più serio, emergeva con una sua battuta che ti imponeva a riflettere sul fatto che in fondo alcune cose della vita sono serie o meno a seconda di come le guardi. Possedeva invidiabili punti di vista. E poi non posso dimenticare il giorno in cui uscendo di casa lo trovai fermo all’angolo ad aspettarmi: in dieci minuti mi spiegò che l’Inter attraversava un brutto momento, che bisognava immediatamente intervenire, ma aggiungendo che avrei dovuto farlo io, che fino a quel momento pensavo a tutto tranne che a comprare l’Inter. In quei pochi minuti riuscì a raccontarmi praticamente tutto e anche a convincermi del fatto che fondamentalmente avrei potuto fare qualcosa. Non parliamo solo della classica pulce all’orecchio, Prisco fece tutto affinché la trattativa iniziasse e finisse come desiderava, organizzò anche gli incontri. Io mi trovavo in quelle classiche situazioni in cui c’è di mezzo un amico a cui fai anche fatica a dire di no. All’Inter pensavo più come una cosa futura, e invece… Adesso mi manca la sua intelligenza, quel rapporto di ragione e tutto ciò che portava l’avere accanto uno come lui, anche nella sua discrezione. Perché non è mai stato invadente, ti lanciava dei messaggi estemporanei che coglievi perché aveva la capacità di attecchire con poche parole”. E allora un’ultima domanda sorge spontanea… Anche oggi l’Inter attraversa un momento di difficoltà, provi a pensarci: esce di casa e lì all’angolo trova Peppino Prisco ad aspettare. Come si comporterebbe? (Ride divertito, ndr)“Eh no, non me la farebbe per la seconda volta. Cambierei marciapiede”.

Maria Strada per corriere.it il 10 dicembre 2021.  

L'alpino

Prima, però, c'è la Seconda Guerra Mondiale. Vissuta al fronte, con gli Alpini. Che gli rimarranno sempre dentro. Si arruolò appunto subito dopo la maturità, battaglione Aquila del 9° Reggimento, Divisione Julia. Significava campagna di Russia. Il sottotenente Prisco fu uno dei tre ufficiali superstiti, del suo battaglione tornarono vivi in 159 su 1700 anime. Per lui, una medaglia d'argento al valore. E un plico di lettere, che gli furono recapitate tutte in una sola volta: erano quelle che il padre Luigi gli inviava ogni giorno, cui non aveva mai potuto rispondere. Il figlio, battezzato in onore del nonno, racconta che solo allora pianse. Non lo aveva fatto nemmeno quando, al fronte, si era reso conto dell'inferiorità di mezzi rispetto a quella dei tedeschi: « Noi eravamo poco addestrati, male armati, scarsamente attrezzati mentre quelli, i crucchi, sembravano bestie nate per fare la guerra... Mandarci in tali condizioni in Russia fu per certi aspetti una forma di vera criminalità», raccontava. 

La lattina contro il Borussia e la vittoria (in tribunale)

Proprio da una delle Coppe Campioni cui partecipò nasce uno dei cardini della giustizia sportiva: la responsabilità oggettiva. Il 20 ottobre 1971 l'Inter, campione d'Italia, allenata da Giovanni Invernizzi, sta giocando la partita d’andata degli ottavi di finale contro i campioni della Germania Ovest, il Borussia Moenchengladbach. La squadra nerazzurra, fu poi sconfitta per 7-1.

Ma, sul 2-1, Boninsegna viene colpito alla testa da una lattina di Coca Cola mentre sta per battere una rimessa laterale (con Mariolino Corso che, letteralmente prese a calci nel sedere l’arbitro, reo di avere concesso un rigore inesistente). E qui arrivò il capolavoro di Prisco: nella sua arringa davanti all'Uefa parlò di un «pesante condizionamento» arrivando a chiedere addirittura la vittoria a tavolino. L'Uefa fece ridisputare l'incontro (dopo quello di San Siro vinto per 4-2 dai nerazzurri) in campo neutro, a Berlino, e finì 0-0. Nerazzurri, poi, lanciati verso la finale persa contro l'Ajax. 

Un'altra perla, forse meno innovativa, fu quando minacciò di non fare iniziare una partita di campionato finché la Curva Nord, la culla del tifo dell'Inter, non avesse tolto uno striscione antisemita. Pronto ad assumersene le responsabilità anche in sede disciplinare.

Le sue frasi: caustiche, mai volgari

«Quando stringo la mano a un milanista me la lavo, quando la stringo a uno juventino mi conto le dita»; «Il Milan è finito in B due volte, la prima pagando, la seconda gratis»; «La Juventus è una malattia che purtroppo la gente si trascina fin dall'infanzia». Sono alcune delle sue celebri, feroci, caustiche battute contro i rivali di sempre («Tifo per l'Inter. E sempre per chi gioca contro di loro»). Impossibile per milanisti e juventini evitare di riderne: Peppino Prisco era il tifoso ideale anche per gli avversari. Anche per Franco Baresi, che ricevette un grande complimento nel 1997, il giorno dell'addio al calcio: «Il miglior acquisto dell'Inter? L'addio al calcio di Franco Baresi. E se si fosse ritirato prima, gli avrei pagato io la festa». 

Prisco e l’imitazione di Teocoli

Tanto simpatico e irriverente l’originale, quanto la sua imitazione caricaturale fatta da Teo Teocoli (come avvenuto per Gianni Agnelli, anche per qualche anno dopo la scomparsa del modello) a «Quelli che il calcio...» e in teatro: «Quello sketch l’ho fatto con il cuore, spinto solo dall’affetto e dalla voglia di rendere omaggio a due grandi personaggi che, purtroppo non ci sono più e che hanno lasciato un grande vuoto negli sportivi. Nelle tournée il pubblico mi chiede continuamente “facci Prisco”», raccontava lo showman. L’avvocato (quello interista) ricambiava sempre gli sfottò: « Ogni volta che lo stuzzicavo prima del derby mi rispondeva: “Ci sono quasi 60 milioni di italiani, perché devi venire a rompere i cogl.. proprio a me?”». 

Moratti jr, il fallo di Iuliano su Ronaldo, la sua assenza in Calciopoli

Prisco fu anche l'uomo che iniziò con Angelo Moratti e chiuse con Massimo Moratti. Anzi, fu l'uomo che fece sì che Massimo iniziasse ad investire. Vinse solo una Coppa Uefa con lui, quella del 1999 conquistata in finale contro la Lazio, e appena prima visse con rabbia uno degli episodi chiave della storia dell'Inter, il famigerato caso Iuliano-Ronaldo del 1998. «La denuncia del furto non mi interessa, vorrei la restituzione della refurtiva», soffiò ai microfoni di Tutto il calcio minuto per minuto. Morì a 80 anni e 2 giorni e non visse né il 5 maggio (2002) con lo scudetto sfumato all'ultimo secondo (morì con i nerazzurri primi in classifica), doppio sorpasso di Juventus e Roma mentre la sua squadra cadeva in casa della gemellata Lazio. Si perse anche Calciopoli, l'estate della guerra giuridica e della retrocessione (a tavolino) della «odiata» Juventus, con lo scudetto assegnato proprio all'Inter. E mancava, non soltanto ai nerazzurri o nei tribunali sportivi. Giampiero Mughini, tifosissimo bianconero, in quell'estate 2006 ammise: «Prisco avrebbe smorzato tutte queste polemiche con una battuta delle sue».

Francesco Persili per Dagospia l'11 novembre 2021. “Napoleone è Waterloo, Toto Cutugno i secondi posti a Sanremo. E l’Inter il 5 maggio, il giorno dello scudetto perso all’ultima giornata, a vantaggio della Juve”. Chissà cosa avrebbe detto il più interista di tutti, l’avvocato Prisco, alpino della Divisione Julia che partecipò alla campagna di Russia, nel leggere della “sindrome eroica dei cornuti e mazziati” enunciata da Tommaso Labate. E sì che di veri eroi la storia nerazzurra ne avrebbe, a cominciare dal capitano Virgilio Fossati, che cadde combattendo al fronte durante la prima guerra mondiale. Ma il commentatore politico del Corriere della Sera e tifoso “bauscia”, nel suo libro “Interista social club” (Mondadori), preferisce offrire una visione dell’interismo depurata da epopee, mitologie e leggende per tuffarsi nell’intimismo della sua cameretta a rimirare vecchi poster già sbiaditi di Conte e Lukaku e azzardare paragoni tra la Beneamata e il centrosinistra. “Entrambi hanno avuto periodi oscuri, spogliatoi litigiosi, leader santificati e poi sacrificati, conti scombinati e tassi percepiti di sfiga”. In effetti, i vizi storici della sinistra sembrano essere quelli dell’interismo: le doppie morali (ma su Calciopoli non viene menzionata da Labate “l’attività di lobbying” sugli arbitri di Facchetti né lo scandalo passaporti), il complesso dei migliori (l’unica squadra a non essere mai andata in B, l’ultima ad aver vinto una coppa europea nell’anno di grazia del Triplete) e il difficile rapporto con il leader, o l’allenatore, di turno. La “non vittoria” di Bersani del 2013 viene accostata dall’autore all’eliminazione dell’Inter da parte del Bayern nella Coppa Uefa del 1988 con l’interista La Russa, oggi senatore di Fratelli d’Italia, che mise a fuoco in un “misto tra giallognolo e verdognolo” le facce dei leader sconfitti della sinistra. “Ma al contrario del centrosinistra che ancora paga il conto di quella sconfitta – puntualizza Labate - al termine di quella stagione la Beneamata vinse lo scudetto”. Le analogie tra centrosinistra e Inter, che “hanno una loro regolarità temporale nel vincere”, stuzzica anche il ministro Andrea Orlando, tifoso viola: “Labate ha ragione, leggerò il libro…” Tra “perdentismo romantico” e “valore mistico della sconfitta” (i 45 minuti di Barcellona-Inter, primo anno di Conte), connessioni sentimentali con la legge di Murphy (“se una cosa può andare male, sicuramente lo farà”) e il pessimismo come “ottavo vizio capitale”, il primo istinto è fare gli scongiuri come Lino Banfi in “Occhio, malocchio, prezzemolo e…”: “Col sale, l'olio e l'aceto mi protegge la Madonna dello sterpeto.” In questo clima da commedia all’italiana, arricchito da una citazione stracultissima di Paolo Villaggio nel non memorabile “Ho vinto la lotteria di Capodanno”, il fantasma di Mourinho balena come quei lampi di malinconia che accompagnavano il Conte Mascetti di “Amici Miei”, fino all’arrivo di un altro Conte, “Andonio”, maschio alfa della juventinità, che si presentò come “una via di mezzo tra un mago della finanza e il broker del narcotraffico de “Le Conseguenze dell’Amore”. Da Monicelli a Sorrentino, ma anche Alanis Morisette, i Verve, e l’immancabile Jovanotti, Labate conferma la difficoltà dei quarantenni di emanciparsi da un simbolismo pop che rischia di chiudere l’immaginario nel recinto angusto della nostalgia mescolando il brit pop degli Oasis, Bruce Willis e le madeleine della gabbia di Orrico e delle geometrie banali, anche a livello tricologico, di Wim Jonk. In questo mare magnum di rimandi e citazioni, l’intruso, come nella Settimana Enigmistica, è l’antieroe del 5 maggio, un terzino slovacco dall’espressione dolente e dal destino tragico, che non a caso oggi fa l’impresario teatrale. Di chi si tratta? (Gresko) Sulla maledizione del terzino sinistro dell’Inter dopo Roberto Carlos, si poteva fare ampia letteratura ma Labate ha preferito infliggerci l’aneddotica da “tennico” da Bar Sport di Benni sull’ex agente di borsa Corrado Verdelli e sui tranquillanti presi prima di Bayern-Inter, la “chicca” su Moratti che ritoccò al rialzo il contratto di Sartor ché “nella sua Inter non c’era nessuno che guadagnasse meno di un miliardo” e il racconto del suo battesimo da tifoso con un Real-Inter del 1986 e l'incubo di un furoreggiante Santillana. La biografia legata alla divorante passione calcistica per la propria squadra: si parte sempre per essere Nick Hornby ma tra vecchie figure, tv, sorrisi e palloni si finisce per diventare il Max Pezzali dell’interismo. E non è detto che sia peggio...

Da blitzquotidiano.it il 29 ottobre 2021. Con la radiolina sulla tomba del figlio, dall’Argentina la foto virale. Non solo odio e conformismo sono virali sui social, non solo un gioco per milionari e teledipendenti è il vituperato pallone. Una foto scattata in un camposanto argentino restituisce un po’ di speranza su un genere umano piuttosto abbacchiato e disilluso. E se una lacrimuccia fa capolino, lasciamola pure correre. Seduto su una panchina accanto a una tomba c’è un uomo. Nella tomba riposa il figlio. L’uomo ascolta, concentrato, la voce di una radiolina.  Sta seguendo una partita di calcio. Precisamente la partita del San Martìn de Tucuman, di cui è tifosissimo. Di cui era tifosissimo anche Nahuel Pérez, detto Dibu, suo figlio. E’ morto in un incidente stradale cinque anni fa. Uno scontro con un camion a Santiago del Estero: tornava da una trasferta della sua squadra del cuore. Da allora suo padre non si perde una partita del San Martìn. Cascasse il mondo, lui va dove Dibu non può che aspettarlo e segue la partita insieme a lui. Più di un’abitudine, un rito. Soffre, gioisce, impreca, esulta: sa che da qualche parte qualcuno ascolta. Non si fa la stessa cosa quando si prega? E il tifo non è forse una preghiera?

L'ingegnere tifoso che inventò la rete di porta. Pietro Mei su Il Quotidiano del Sud il 25 ottobre 2021. L’INGEGNER John Alexander Brodie, di Liverpool, era tifoso dell’Everton. Era un trentenne di belle speranze professionali quando andò al campo di Anfield a sostenere la squadra del cuore il 26 ottobre 1889, un sabato inglese di quelli dell’antica tradizione, tutto sport e riposo, niente lavoro, uno dei sabati che oltremanica erano una domenica. Quel giorno l’Everton doveva affrontare l’Accrington Stanley. L’ingegner Brodie aveva lasciato da parte tutti quei pensieri che di solito gli turbinavano in testa e che lo avrebbero portato ad essere l’inventore dell’autostrada, della tangenziale, della rivisitazione urbanistica di Bilbao, in Spagna, e di Nuova Dehli, in India, nonché il tunnell sotterraneo più lungo del mondo al tempo in cui fu costruito, sotto il Mersey, nel 1934, tutte opere che avrebbero fatto la sua fama di ingegnere e che gli avrebbero garantito, postuma, una targa del Brtish Heritage, una delle prime due messe fuori Londra. L’altra, ugualmente a Liverpool e nello stesso giorno, fu dedicata a Frank Hornby, l’uomo che inventò il gioco del Meccano, oggi sconosciuto ma una volta popolarissimo tra i maschietti. Di queste targhe attualmente a Liverpool ne sono state messe 11, due di queste sono dedicate una alla zia Mimì dove tenne in casa il nipote John Lennon (“non si vive di chitarra” lo ammoniva la tenera signora, sbagliandosi) e un’altra a una sindacalista e politica, Bessie Braddock, la quale un giorno incontrò Winston Churchill del quale non condivideva le idee e gli disse “lei è ubriaco”; Churchill la guardò e rispose: “E lei, signora, è brutta. Io, però, domattina sarò sobrio…”. Il 26 ottobre 1889 era l’ottava giornata di First Division, come si chiamò fino al 1992 l’attuale Premier League, il primo campionato di calcio al mondo che era alla sua seconda edizione. Partecipavano 12 squadre: Accrington, Aston Villa, Blackburn, Bolton, Burnley, Derby County, Everton, Notts County, Preston North End (che bissò il titolo che aveva già vinto nella prima edizione), Stoke City, West Bromwich e Wolverhampton. L’Everton finì secondo, l’Accrington sesto. Ma quel giorno ad Anfield l’incontro finì 2 a 2. Avrebbe dovuto vincere l’Everton: ne erano convinti tutti i suoi tifosi. Se non era successo, era per colpa dell’arbitro, il signor John James Bentley: non confermò il gol che avevano visto tutti, segnato da Alex Latta, scozzese, ala destra dell’Everton dove giocò per sei stagioni, 148 partite e 70 gol che con quello sarebbero stati 71 e sarebbe stato un gol decisivo: l’Everton perse il titolo per un solo punto. Ma JJ Bentley ordinò la semplice rimessa dal fondo: per lui il pallone non era passato dentro quel rettangolo base 7,32 metri altezza 2,44 che era, e sempre è, la porta del calcio: i pali esistevano da sempre, la traversa dal 1875. Tutti avevano visto il pallone entrare dalla porta, lui no ed era lui a decidere: non c’era la rete, valeva l’occhio umano dell’arbitro. L’ingegner Brodie non si dava pace e, tornato nella sua casa al 28 di Ullet Road (è lì la lapide del British Heritage), cominciò a riflettere su come ovviare la prossima volta. E gli venne l’idea che, fu il suo parere per sempre, fu quella della quale andare più fiero anche rispetto al tunnel, all’autostrada, a Bilbao, a Nuova Dehli. Prese matite e fogli e abbozzò, dietro ai pali e alla traversa, una “grande tasca”, come la chiamò: nasceva la rete della porta. “Net pocket” fu il nome che l’ingegnere dette all’invenzione quando, il 27 novembre 1889, attraverso gli agenti Sloan e Lloyd Barnes, la presentò per ottenere il brevetto. Lo scopo dichiarato era quello di “formare una tasca in cui la palla si fermi dopo aver superato la linea della porta”. Disegni e descrizioni accompagnavano la richiesta che, a parere dell’inventore, avrebbe dovuto trovare realizzazione nei campi di calcio, di rugby e di lacrosse, altro sport del pallone molto popolare ai tempi tanto da far parte dei primi palinsesti olimpici. Scriveva Brodie: “Si attacca un sacco, rete o altro materiale adatto alla porta, inclinato e disposto verso l’esterno del campo da gioco. Il materiale può essere verniciato di bianco, in modo da formare un sfondo mediante il quale il percorso della palla può essere più facilmente osservato più facilmente di quanto non lo sia per le porte attualmente in uso. Dove può essere fatto convenientemente preferisco racchiudere lo spazio così formato dietro la porta, in modo da formare una tasca in cui la palla possa depositarsi dopo aver attraversato la linea di porta. In questo caso preferisco usare la rete, in quanto non ostruisce la visuale e, non essendo rigida, la palla non è così suscettibile di rimbalzare fuori”. L’ingegnere prevedeva anche una primordiale “goal line technology” quando scriveva “ove ritenuto desiderabile, una o più campane o altri allarmi adatti possono essere collegati con la rete o altro materiale che forma la tasca, in modo da indicare l’impatto della palla”. La domanda venne registrata dall’autorità competente con il numero di protocollo 19.112. Il 27 agosto 1890 il brevetto venne concesso. Cominciò una trattativa tra l’ingegnere e le autorità calcistiche per la concessione dell’utilizzo e, anche se Brodie non aveva un “procuratore” (né esisteva ancora questa figura che nel Terzo Millennio condiziona pesantemente il mondo del calcio), si andò per le lunghe. Solo a gennaio 1891, il 12, un lunedì, le reti fecero la loro comparsa ufficiale a Nottingham, la città dello sceriffo e di Robin Hood, per una partita che era una specie di “all star game” tra i calciatori della lega del North e quelli del South. L’arbitro era il signor Clegg di Sheffield e, per una ciliegina sulla torta dell’ingegner Brodie, il primo pallone a finire in rete fu quello calciato al quindicesimo minuto da un suo idolo, il bomber Fred Geary che giocava nell’Everton, 78 gol in 91 partite con la maglia del cuore di Brodie. Il 2 giugno 1891 venne decisa l’obbligatorietà delle reti che comparvero su tutti i campi nella stagione 1891-92: vinse il titolo il Sunderland che ebbe il capocannoniere del torneo in John Campbell: 32 delle 777 reti segnate furono sue. L’Everton dell’ingegner Brodie si classificò quinto.

Stefano Agresti per il "Corriere della Sera" il 15 ottobre 2021. E pensare che c'è perfino chi si lamenta. Come Ramsey: «Nella Juve non sanno gestirmi, il mio Galles mi cura meglio». Oppure come Sanchez: «Puoi valere molto, ma se sei nel posto sbagliato non brillerai». Per il cileno, in effetti, l'Inter non sembra essere il luogo giusto in cui esprimersi, però bisogna capire chi ci rimette di più dalla sua frequentazione milanese: lui, che in due anni e tre mesi ha incassato oltre 16 milioni netti, oppure il club nerazzurro, che lo ha pagato 7.732 euro per ogni minuto giocato in serie A? Ramsey e Sanchez sono gli emblemi di una tipologia di calciatore che destabilizza i conti e società: include gli strapagati che non giocano quasi mai. A volte per scelta dell'allenatore, spesso per problemi fisici. Naturalmente gli infortuni non sono una colpa (lo diventano solo se sono conseguenza di una vita dissennata), semmai possono essere determinati dall'età che avanza: i muscoli si usurano, le articolazioni scricchiolano, i tempi di recupero si allungano, le ricadute sono frequenti. Ma non tutti quelli che giocano poco e guadagnano tanto sono avanti con gli anni. Il solito Ramsey è appena arrivato ai 30, eppure procede faticosamente tra un acciacco e l'altro. Tanto che, conti alla mano, nei suoi due anni e spiccioli a Torino è costato alla Juve 7.809 euro per ogni minuto disputato in campionato. Solo la Nazionale, come sostiene lui, riesce a rigenerarlo: in bianconero, tra campionato e Champions, da agosto a oggi è rimasto in campo 106 minuti; nel Galles ne ha messi assieme 170 in quattro giorni (90 una settimana fa contro la Repubblica Ceca, segnando anche un gol, e 80 lunedì contro l'Estonia). Effetti dell'amor patrio. «Mi sento bene quando vengo gestito correttamente. Se le mie prestazioni in partita sono elevate, avrei bisogno di maggiore riposo durante la settimana anziché passare tanto tempo in campo ad affaticarmi». I tecnici della Juve ci fanno quasi la figura degli aguzzini. Le lamentele di Ramsey e Sanchez hanno indispettito Juve e Inter e fatto infuriare i tifosi. Ma c'è anche chi ha maggiore rispetto nei confronti dei presidenti che pagano lo stipendio.  Vidal, almeno per ora, è uno di questi: ogni suo minuto in serie A gli ha portato in tasca 7.416 euro, ma per lo scarso utilizzo non se l'è presa con i dirigenti nerazzurri. Forse anche perché gli hanno perdonato lo show d'agosto sul cofano della Ferrari, con capriole, in un momento di lucidità dubbia. È più moderato il romanista Smalling, e guadagna anche un bel po' in meno, ma pure lui fatica a trovare un'affidabilità fisica accettabile. E pensare che il suo primo anno a Roma era stato convincente anche sotto questo punto di vista, tanto che era stato riscattato dallo United. Poi, il tunnel: 1.110 minuti nella scorsa stagione, un piccolo calvario anche all'inizio di questa. A Empoli, prima della sosta, sembrava essere riuscito a giocare finalmente una gara intera dopo quasi sei mesi. Macché: all'89' l'adduttore lo ha mollato. Ibrahimovic è un caso a parte. Nel 2020 (è arrivato a gennaio) ha cambiato volto al Milan, con i gol e la personalità. Operazione possibile perché era in campo: ha giocato 25 partite di campionato. Ma l'incantesimo si è rotto, da marzo a oggi ha partecipato appena a 6 incontri e, in questa stagione, solo a mezz' ora contro la Lazio. Con un gol, ovvio. Ieri è tornato a allenarsi in gruppo. Poi c'è Javier Pastore, 4,5 milioni netti a stagione, che ha battuto ogni record: in tre campionati con la Roma ha giocato 1.184 minuti, ciascuno dei quali è costato 11.402 euro. La scorsa estate, finalmente, la società è riuscita a rescindere il contratto. C'è chi giura di avere sentito tappi di champagne volare in aria, dalle parti di Trigoria.

L’Atalanta. Francesco Battistini per il "Corriere della Sera" il 15 dicembre 2021. Giovane cronista, una domenica a Vittorio Feltri capitò di raccontare un'Atalanta-Juventus. E siccome la Dea lo faceva godere già allora, gli veniva facile telefonare al giornale e dettare il pezzo a braccio. Frasi pulite e chiare, pochi aggettivi. Era l'epoca di Nicolò Carosio che in radio diceva il Diavolo, il Grifone, la Lupa...Così anche Feltri, per evitare troppe ripetizioni nella dettatura, a un certo punto chiamò «Vecchia Signora» la Juve. Gli era vicino il suo direttore all'«Eco di Bergamo», monsignor Andrea Spada, un maestro, che fiutando il luogo comune lo fulminò: « Sbambossàde ! Che stupidaggini! Se vai da tuo fratello e devi spiegargli com' è andata la partita, che cosa dici? Che ha vinto la Juve o che ha vinto la Vecchia Signora?». Da quel giorno, giura Feltri, Vecchia Signora non l'ha usato mai più. La Dea però è un'altra cosa. A Bergamo «diciamo Atalanta subito dopo mamma, forse prima di papà», racconta oggi il Vittorioso Direttore, perché l'Atalanta «è una grande mamma che alleva bravi figli», è «bella e matta», «pazza e zingara» e mille altre cose: «L'Atalanta dei miracoli, l'Atalanta che gioca bene, l'Atalanta che non annoia mai e segna più di tutti in Europa. L'Atalanta dei giovani, degli stranieri sconosciuti che diventano fenomeni, che incassa montagne di soldi e coi bilanci sontuosi tra gli squadroni coi debiti fino al collo, l'Atalanta che gli ambiziosi delle superleghe non vogliono tra i piedi perché è solo una squadra di paese. L'Atalanta imbucata e rompiscatole nel Rotary d'Europa. L'Atalanta strana, imprevedibile, indefinibile, inspiegabile. Un fenomeno paranormale». E quindi, una Dea. Se il gran lombardo Gianni Brera fosse ancora vivo, disse una volta Gianni Mura, amerebbe l'Atalanta più d'ogni altra squadra. E probabilmente l'avrebbe scritto lui questo libro, Atalanta, la Dea che mi fa godere (Rizzoli), 160 pagine di conversazione fra Vittorio Feltri e Cristiano Gatti. Una «Cosa Nostra bergamasca». Il canto d'amore di due «gasperinos inedemoniati» (da Gian Piero Gasperini, l'allenatore che ha sbancato l'Ajax e il Liverpool: se nella Treccani è finito il «sarrismo», perché non metterci anche il «gasperinismo»?). Il romanzo d'un piccolo squadrone che tremare il mondo fa. Una provinciale che non ha mai vinto niente, a parte un'antica Coppa Italia, ma è come se: non si diceva lo stesso dell'Olanda di Cruijff? «Affrontare l'Atalanta è come andare dal dentista», confessò Pep Guardiola, il guru del tiki-taka. Con una fifa che talvolta si maschera di disprezzo: «Non può esistere che in Champions possa arrivare un'Atalanta qualsiasi», disse l'incauto Andrea Agnelli, poco prima che la sua Juve si fermasse agli ottavi e l'Atalanta invece andasse avanti. Papa Giovanni, Gimondi e l'Atalanta: a Bergamo «tutto il resto è contorno» e Feltri, figlio d'una Dea minore, non ha mai dimenticato di santificare quaresime e vitelli grassi. Se le ricorda tutte, le passioni e le resurrezioni: il roccioso terzino Gardoni, più bravo a menare che a giocare e perciò detto «Gardù, o pé o balù», piede o pallone qualcosa prende sempre; quel ragazzino gracile e minuto soprannominato l'oselì , l'uccellino, che in realtà si chiamava Gaetano Scirea e tanti ritenevano inadatto; gli anni di Lippi e di Mondonico, la Hall of Fame di Jepsson e Cabrini, Donadoni e Papu Gomez, Bobo Vieri e Pippo Inzaghi, l'immenso Ilicic e le partite vendute dall'idolo Doni; la curva leghista e i milioni di Percassi; l'introvabile portiere Pizzaballa delle figurine Panini; il famoso vigile Arrigoni, che all'uscita dello stadio Brumana indicava la direzione al pullman del Milan usando tre dita tre, proprio come i gol appena rifilati Fo' de cò , fuori di testa, si dice a Bergamo e dice Feltri di se stesso: l'Atalanta «mi ha fatto godere più di tutte le fidanzate che ho avuto nell'ultimo secolo». Però però. Desùra o desòta , l'Atalanta è come Bergamo Alta e Bergamo Bassa ed è come la vita, alta classifica e bassifondi. E la storia, prima felice, sa farsi pure dolentissima e funesta. «L'eterna regola sgualdrina» che nei momenti più belli riprecipita la Dea fra i semidei. La prima serie A arrivò con la Grande Guerra? L'unico trofeo lo vinse mentre moriva Papa Roncalli? La stagione d'oro sboccia nel deserto della pandemia. Due date segnano l'inizio del grande contagio, il Paziente Zero a Codogno e la Partita Zero dell'Atalanta, febbraio 2020: 4 a 1 contro il Valencia, 44 mila abbracci dentro San Siro, il tifo che si fa covid e «l'allegra follia che è stroncata e negata, soffocata in gola». Il cumulo dei morti, i camion con le bare, le famiglie falcidiate. Ai bergamaschi fo' de cò , gente seria quando le cose si fan serie, in questi due anni è passato ben altro per la testa. La Dea continua a far godere, ma è un piacere diverso: «Ci vorrà del tempo - scrive Feltri -, un tempo interminabile di campionati sospesi, di giocatori malati, di calendari rabberciati, soprattutto di stadi vuoti, prima di tornare lentamente e faticosamente a una mezza idea di normalità. Sempre in attesa di un nuovo inizio, vero e spensierato. Non necessariamente migliore: a noi basta dove eravamo rimasti. Se il Cielo lo vorrà. Altrimenti sarà lo stesso».

La Serie A ha perso identità: "Quanti calciatori sono stranieri", addio attaccamento alla maglia. Federico Strumolo su Libero Quotidiano il 24 agosto 2021. Si chiama serie A e dovrebbe essere il campionato di calcio italiano. Utilizzare il condizionale, però, è d'obbligo, perché più della metà dei giocatori che scendono in campo ogni settimana è straniera. Su 499 calciatori tesserati per i venti club di A, infatti, ben 311 non sono italiani (quindi il 62,3%). Tanti, probabilmente troppi. La squadra più esterofila di tutti è la Lazio, con addirittura ventitré stranieri in rosa su ventisette, seguita dall'Udinese, che ne conta ventuno su ventisei, e la Roma, con diciannove su ventinove calciatori totali. Ma le altre grandi non sono da meno: Atalanta, Inter, Milan e Napoli hanno in squadra diciassette stranieri, mentre la Juventus solamente uno in meno. Il tutto per la disperazione dei poveri telecronisti, costretti a fare i conti con nomi impronunciabili come quello del centrocampista belga del Milan Alexis Saelemaekers, del portiere polacco della Juventus Wojciech Szczesny o dell'attaccante olandese del Bologna Sydney Van Hooijdonk, giusto per citarne qualcuno.

L'ATALANTA DEL 1963. È il risultato di un mondo sempre più volto alla globalizzazione, ma a quale prezzo? Il calcio italiano ha inevitabilmente perso la sua identità. Dopotutto, lo straniero proviene da un'altra cultura e spesso ignora anche l'esistenza del club finché non firma il contratto con esso. Il giocatore allevato nel settore giovanile, invece, viene indottrinato fin da piccolo e cresce ben consapevole della filosofia della propria squadra. È certo, quindi, che quando scenderà in campo lo farà rispecchiando in toto la maglia che indossa. Mentre chi è cresciuto in un'altra realtà, non potrà provare le stesse sensazioni ed avrà un attaccamento diverso alla squadra ed alla propria città. L'impresa dell'Atalanta nella Coppa Italia del '63, con il trofeo conquistato grazie al cuore e alla grinta di una squadra con ben 7 bergamaschi in campo, appare impossibile nel calcio d'oggi, almeno in Italia. Guardando alla Spagna c'è il caso dell'Athletic Bilbao, che per rispettare la tradizione del club tessera solamente giocatori baschi odi origine basca (sono ammessi anche ragazzi formati nelle giovanili di un club basco). E lo fa con grandi risultati, considerando che è l'unico club insieme a Barcellona e Real Madrid a non essere mai retrocesso in seconda divisione. I tifosi, poi, sono felicissimi della filosofia adottata dal club, tanto da rifiutare la proposta di aprire la squadra anche a calciatori stranieri (nel 2010 venne lanciato un sondaggio in cui il 93% dei tifosi votarono per mantenere la squadra chiusa a giocatori baschi). Il tutto, permette che si conservino le rivalità tra le varie piazze, che evidentemente non possono essere percepite in egual misura da chi non è cresciuto in quell'ambiente. Saremo illusi e nostalgici a pensarla così, ma ci manca il buon vecchio calcio di una volta.

Estratto dell’articolo di Luciano Murgia per pu24.it il 14 luglio 2021. Viviamo settimane che hanno visto undici azzurri in campo, gli altri in panchina  e milioni di italiani davanti alle Tv cantare Fratelli d’Italia, l’Italia s’è desta, dell’elmo di Scipio s’è cinta la testa, Dov’è la Vittoria? Le porga la chioma, ché schiava di Roma Iddio la creò…Perché fratelli d’Italia? Perché i massoni si chiamano fratelli ed erano massoni sia Goffredo Mameli, l’autore del testo, sia Michele Novaro che lo musicò. Mameli si rivolgeva prima di tutto ai fratelli massoni, protagonisti del Risorgimento, che lottarono fino a morire, come Mameli a soli 22 anni, per liberare l’Italia dalla monarchia sabauda e per abbattere lo Stato pontificio. Mameli era mazziniano, Mazzini era massone, come Giuseppe Garibaldi. Due grandi che hanno fatto l’Italia, con la complicità – è giusto riconoscerlo – di grandi potenze. Potete immaginare i Mille che partono da Quarto e sbarcano a Marsala senza la complicità della flotta inglese?

DA il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2021.

1934: L'esordio trionfale, la Rimet è azzurra

Trionfo al primo tentativo. Il campionato del mondo è stato istituito già da 4 anni ma nel 1930 l'Italia non c'è: così è l'Uruguay a organizzare e vincere la Coppa Rimet, dopo aver battuto in finale allo Stadio del Centenario di Montevideo l'Argentina 4-2 davanti a quasi centomila spettatori.

Nel 1934 tocca all'Italia, in pieno clima fascista, ospitare il Mondiale anche perché, oltre all'Inghilterra che si rifiuta di partecipare per «manifesta superiorità», il nostro Paese è l'unico a garantire stadi all'altezza dell'evento: dal civettuolo Littorio di Trieste (8.000 posti di capienza) a San Siro (55.000) passando dal Nazionale di Roma, l'attuale Flaminio, il Littorale di Bologna, il Berta di Firenze, il Via del Piano di Genova, il Partenopeo di Napoli e il Mussolini di Torino. Il campionato italiano è dominato dalla Juventus, 5 scudetti consecutivi dal 1931 al 1935 e il c.t. Vittorio Pozzo integra il blocco bianconero con innesti da Ambrosiana, Bologna e Roma. 

Eliminati Stati Uniti, Spagna e Austria, il 10 giugno 1935 gli Azzurri disputano la finale con la favoritissima Cecoslovacchia che passa in vantaggio nella ripresa con Puc ma a 9 minuti dalla fine una prodezza di Orsi manda la partita ai supplementari, decisi dopo 5 minuti da un diagonale di Schiavio.

1938: Per Pozzo è subito bis Anche Parigi ci applaude

Vincere un Mondiale è un'impresa, vincerlo per due volte consecutive (con in mezzo l'oro di Berlino 1936) è un miracolo. L'Italia lo realizza nell'edizione organizzata dalla Francia nel 1938. L'avventura comincia fra i fischi, il 5 giugno al Velodrome di Marsiglia, quando gli Azzurri di Pozzo durante l'inno sollevano il braccio per il saluto romano.

Contro la Norvegia l'Italia soffre e solo un gol di Silvio Piola nei supplementari consente di vincere 2-1 e accedere ai quarti dove l'attende la Francia padrone di casa: al Du Munoir di Parigi, davanti a oltre 60.000 spettatori, gli Azzurri si riscattano e vincono 3-1 con una doppietta dello scatenato Piola, tuttora il miglior marcatore di sempre della serie A con 274 reti (davanti a Totti, 250). I gol del triestino Colaussi e di capitan Meazza piegano il Brasile di Leonidas ed è finale. Anche stavolta l'Italia è sfavorita contro la sontuosa Ungheria: ma le doppiette di Colaussi e Piola consentono agli Azzurri di vincere 4-2 e a Vittorio Pozzo di conquistare, unico c.t. nella storia, il secondo titolo mondiale. Decine di milioni di italiani «assistono» al match grazie alla radiocronaca diretta di Niccolò Carosio. Nonostante gli attriti politici, a fine partita, perfino il presidente della Repubblica francese Albert Lebrun tributò un applauso all'Italia imitato dai sessantamila di Parigi. 

1968: Sul trono d'Europa con monetina e doppia finale

Trent' anni di digiuno, due fallimenti mondiali alle spalle (Cile 1962 e Inghilterra 1966) e finalmente il ritorno alla gloria. Nelle magiche notti romane del giugno 1968 l'Italia di Ferruccio Valcareggi trova una grande squadra e un pizzico di fortuna quando, dopo lo 0-0 ai supplementari nella semifinale contro l'Unione Sovietica, la monetina cade nel verso giusto per capitan Facchetti: allora non ci sono i rigori e gli Azzurri volano in finale contro i fenomeni della Jugoslavia, che hanno eliminato l'Inghilterra. 

L'8 giugno, davanti a 70.000 spettatori, il fuoriclasse Dzajic batte Zoff ma a 10 minuti dalla fine Domenghini porta le squadre sull'1-1. La gara si ripete due giorni dopo e Valcareggi, un po' nello stile che adotterà Mancini, lascia a riposo mezza squadra (Castano, Ferrini, Juliano, Lodetti e Prati) per disporre di forze fresche. In poco più di mezz' ora l'Italia si porta sul 2-0 con Riva e Anastasi e la Jugoslavia si arrende. Gli Azzurri conquistano così il primo titolo europeo: l'Olimpico si accende di entusiasmo e l'intero Paese scende nelle strade a festeggiare improvvisando per la prima volta caroselli con le macchine. La formazione vincente: Zoff, Burgnich, Facchetti, Rosato, Guarneri, Salvadore, Domenghini, Mazzola, Anastasi, De Sisti, Riva. 

1982: Il terzo urlo Mondiale con Pablito e il presidente

Nel Mondiale argentino del 1978 la giovane Italia di Enzo Bearzot è la vera rivelazione: conquista il quarto posto dopo 4 brillanti vittorie, compresa quella sull'Argentina che vincerà il titolo in finale sull'Olanda. Quattro anni dopo, la spedizione azzurra parte fra le polemiche e conclude con un trionfo, grazie soprattutto alle straordinarie prodezze dell'uomo più contestato alla vigilia, Paolo Rossi, reduce dalla squalifica per il calcio scommesse, da cui uscirà pulito.

Dopo un modesto girone di qualificazione (3 pareggi con Polonia, Perù e Camerun), l'Italia si qualifica faticosamente alla seconda fase e si ritrova nel girone impossibile con Brasile e Argentina. Nella gara decisiva, ai verdeoro basta un pareggio ma esplode Pablito Rossi che con una tripletta abbatte la Nazionale di Tele Santana, grazie anche alle prodezze di Dino Zoff. Dopo la «formalità» della semifinale contro la Polonia (2-0 e doppietta di Rossi), l'11 luglio 1982 al Bernabeu di Madrid l'Italia affronta la corazzata della Germania Ovest: gli Azzurri dominano grazie alla tecnica, alla velocità e all'intelligenza e vincono 3-1 (Rossi, Tardelli, Altobelli) sotto lo sguardo del presidente Pertini. Ecco lo straordinario undici di Bearzot: Zoff, Bergomi, Cabrini, Collovati, Gentile, Scirea, Oriali, Tardelli, Conti, Rossi, Graziani (Altobelli, Causio). 

2006: Una testata alla sfortuna e la Francia si inchina

Nel 1994 l'Italia di Sacchi perde a Pasadena il titolo mondiale ai calci di rigore nella finale contro il Brasile; nel 2000 gli Azzurri di Zoff gettano al vento un titolo europeo già vinto contro la Francia che trionferà al golden gol. Sembra una maledizione ma il 9 luglio 2006 all'Olimpiastadion di Berlino i destini cambiano: la Nazionale di Marcello Lippi ritrova in finale la Francia, zeppa di campioni del calibro di Barthez, Thuram, Vieira, Ribery, Zidane, Thierry Henry e Trezeguet.

Prima dell'atto finale, l'Italia vince il girone di qualificazione (successi con Ghana e Repubblica Ceca e pari con gli Stati Uniti), batte l'Australia agli ottavi (rigore di Totti al 95'), l'Ucraina ai quarti (3-0 con gol di Zambrotta e doppietta di Toni) e i padroni di casa della Germania in semifinale: 2-0 nei supplementari con Grosso e Del Piero. Nella finale la Francia parte lanciata con il vantaggio di Zidane su rigore dopo 7 minuti. Materazzi pareggia al 19' e si va ai supplementari: dopo il rosso a Zidane per la storica testata a Materazzi si decide ai rigori. 

Stavolta però gli Azzurri sono infallibili dagli undici metri: Barthez non può opporsi alle trasformazioni di Pirlo, Materazzi, De Rossi, Del Piero e Grosso mentre per la Francia di Domenech è fatale l'errore di Trezeguet: la gara viene archiviata con il 5-3, il quarto mondiale azzurro e una festa infinita.

Il Prefetto responsabile della sicurezza degli Azzurri. Tagliente e il ricordo della Coppa a Berlino: “Ecco gli aneddoti di quel Mondiale del 2006”. Francesco Tagliente su Il Riformista il 28 Giugno 2021. Mi è stato chiesto di ricordare un momento particolarmente toccante dei Mondiali che ci accompagnarono a quella notte magica del 9 luglio del 2006. Sono già passati 15 anni da quel trionfo Mondiale allo stadio Olimpico di Berlino. Per ripercorrere i momenti più emozionali mi è sufficiente ripensare al mio ruolo di responsabile della sicurezza degli azzurri anche per quella avventura tedesca irripetibile, iniziata a Coverciano e conclusa al Circo Massimo. Ripensarci oggi a distanza di 15 anni ogni segmento continua ad essere unico e indimenticabile.

SOGNO AZZURRO. Marcello Lippi e gli Azzurri del 2006 hanno regalato a milioni di italiani tanti battiti di cuore. Si sa che le partite dei Mondiali tengono incollati alla tv anche chi dichiara di non essere interessato al calcio. Quasi tutti gli italiani hanno vissuto i tanti momenti toccanti. Come non ricordare “Il cielo è azzurro sopra a Berlino” Io oggi voglio ricordarne uno dei tanti momenti di altissimo valore, forse meno noto al grande pubblico.  Tutti gli amanti del calcio ricordano l’Italia che, il 22 giugno del 2006, ad Amburgo vinse il girone e conquistò i tormentati ottavi di finale. Ad Amburgo gli Azzurri di Lippi riuscirono a battere la tosta Repubblica Ceca 2-0. La mattina della gara mentre Marcello Lippi preparava al grande appuntamento la squadra azzurra con gli allenamenti di rifinitura, i vertici della FIGC evidenziavano la più alta sensibilità istituzionale immaginabile. 

IL RICORDO. Giancarlo Abete, Gabriele Gravina, Demetrio Albertini, Gigi Riva, Antonello Valentini, Gianni Nave e alcuni poliziotti italiani in uniforme portarono un cuscino di fiori al Cimitero Militare italiano d’Onore di Amburgo dove  sono custodite le spoglie di 5.839 italiani prigionieri di guerra, internati e lavoratori civili, deceduti dall’inizio della Seconda Guerra Mondiale fino al 15 aprile 1946, traslati dai territori dello Schlewig-Holstein, Bassa Sassonia, Amburgo, Brema, Hannover e della Westfalia.  Quel giorno, nel vedere affiancati i poliziotti tedeschi e quelli Italiani in divisa, mentre il Tricolore italiano veniva issato sul pennone provai una delle emozioni più forti che si possono immaginare. E fu grande e gratificante anche l’impegno per convincere le Autorità tedesche a far partecipare anche i poliziotti tedeschi in divisa alla cerimonia di alzabandiera in omaggio ai nostri soldati catturati e deportati in Germania dall’esercito tedesco.

AL CIMITERO DI GUERRA. L’evento fu reso noto agli italiani con un servizio di Donatella Scarnati mandato in onda al telegiornale delle 13.00. Il complesso cimiteriale si presenta grandioso e solenne. Al centro si erge la grande croce monumentale, alta 10 metri e formata da 5 blocchi di Muschelkalk (pietra lumachella), opera dello scultore G. Kraemer. Mi piace ricordare anche che l’area in cui sorge il Sepolcreto fu concessa in uso dal Governo tedesco in base al reciproco accordo del 22 dicembre 1955 riguardante le sepolture di guerra, mentre la costruzione, iniziata nel 1957 e ultimata nel 1959, fu curata dal Commissariato Generale Onoranze Caduti in Guerra.  Per quella celebrazione, per me ancora particolarmente toccante, devo ringraziare ancora una volta l’Ufficiale di Collegamento tedesco, comandante Michael H.Muller, per il ruolo anche di facilitatore svolto. A margine della cerimonia ebbi modo di ricordare che dopo l’armistizio siglato dall’Italia con gli anglo-americani, annunciato dal maresciallo Badoglio l’8 settembre 1943, oltre 650.000 militari italiani, dislocati in Italia o nelle zone d’occupazione, furono fatti prigionieri dai tedeschi ed internati in campi di concentramento. Tra quei deportati c’era anche mio padre Donato Tagliente.

NON DIMENTICARE. E’ una pagina da non dimenticare, anche per i gesti eroici dei nostri soldati a lungo purtroppo trascurati benché fosse noto a tutti che dopo la proclamazione dell’Armistizio, soldati e ufficiali vennero posti davanti alla scelta di continuare a combattere nelle file dell’esercito tedesco o, in caso contrario, essere inviati in campi di detenzione in Germania. Solo il 10 per cento accettò l’arruolamento. Gli altri vennero considerati prigionieri di guerra. In seguito cambiarono status divenendo “internati militari italiani” per non riconoscere loro le garanzie delle Convenzioni di Ginevra, e infine, dall’autunno del 1944 alla fine della guerra, lavoratori civili, in modo da essere utilizzati come manodopera coatta senza godere delle tutele della Croce Rossa spettanti invece per i Kriegsgefangenen, appunto i prigionieri di guerra. Uno sfruttamento come forza lavoro in condizioni disumane, con turni massacranti e un regime alimentare decisamente insufficiente.  I prigionieri furono largamente utilizzati nell’industria bellica, bersagliata di continuo dai bombardieri alleati. Molti furono vittime delle incursioni aeree inglesi o americane, ma la maggior parte dei decessi fu causata dalle malattie o dalla scarsa e cattiva alimentazione che portò molti giovani al deperimento organico, fino alla loro morte.  Furono migliaia i soldati italiani che persero la vita nei lager tedeschi. I deceduti vennero sepolti nei cimiteri all’interno, o nei pressi dei lager, ma molti furono inumati anche nei cimiteri comunali, in reparti separati dalle altre sepolture, nelle località dov’erano impiegati presso i comandi di lavoro esterni. Altri ancora finirono in fosse comuni, o in sepolture che ne resero impossibile l’identificazione.

CON LA FIGC. Per rendere omaggio ai militari catturati e deportati e detenuti nei lager fino alla fine della guerra, a contribuire a tenere viva la memoria del tragico ed oscuro periodo della storia nel nostro Paese, con una rappresentanza della FIGC, impegnata a promuovere i valori dei simboli della Repubblica, ci recammo al Cimitero militare italiano d’onore per rendere omaggio ai nostri connazionali. Un episodio molto toccante per me. Lo sport e i valori fondanti del nostro ordinamento costituzionale sono stati i fili conduttori del mio percorso professionale e della mia vita. E non solo della mia vita perché questo evento è il frutto della sensibilità e della vocazione istituzionale e sociale di Giancarlo Abete, Gabriele Gravina Gigi Riva, Demetrio Albertini, Gianni Nave presenti alla cerimonia e tanti altri della “Squadra” non potuti intervenire.

Gabriele Guccione per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. Ogni tiro in porta un calcio. Ma non sul campo: in pancia. «Tutte le volte che mi agitavo davanti alla tivù, il piccoletto scalciava», racconta Chiara Appendino, 37 anni, in attesa di dare un fratellino alla figlia Sara. L'altra sera per l'Europeo, come quindici anni fa per il Mondiale a Berlino, la sindaca di Torino non poteva mancare all'appuntamento. Certo, qualcosa è cambiato: il 9 luglio del 2006, giorno del trionfo degli azzurri al Mundial, si trovava sugli spalti dell'Olympiastadion. Una foto rimbalzata per uno strano scherzo del destino sui social e diventata virale negli ultimi giorni la ritrae in quell'occasione, appena ventiduenne, con indosso un bikini, un boa tricolore attorno al collo e le bandiere dell'Italia dipinte sulle guance. Questa volta la super-tifosa Appendino si è dovuta accontentare di seguire l'Italia dal salotto di casa. «L'emozione è quella di sempre, quella che solo lo sport può farti vivere», riconosce, anche se, da ex calciatrice, le tocca ammettere: «Allo stadio è un'altra cosa». Come l'emozione, a non essere cambiata è la compagnia: «Anche domenica ho seguito la partita con mio marito Marco e un gruppo di amici». E con loro, e insieme al piccolo che porta in grembo, ha esultato: «Seppure con tutti i limiti e le attenzioni ancora dovute per evitare una recrudescenza della pandemia - osserva la prima cittadina torinese -, la vittoria dell'altra sera ha rappresentato un momento collettivo di grande gioia e, forse, anche di rinascita». Ci spera, Appendino. E riavvolge il nastro della memoria per tornare indietro a quel momento di quindici anni fa rilanciato per caso da un profilo social, «DirettaGoal», insieme alla domanda: «Dove eravate a quest' ora il 9 luglio 2006?». «Allo stadio a Berlino e questa foto direi che lo prova», ha risposto la sindaca, svelando di essere presente tra i tifosi in quello scatto. E poi scherzando, per replicare a chi le ha chiesto che fine avesse fatto il bikini: «L'ho lanciato in campo quando Fabio Grosso ha segnato l'ultimo rigore e dopo è stato impossibile ritrovarlo». Grosso: uno dei campioni di quella Nazionale. «Come Buffon, Cannavaro e Pirlo», ricorda la prima cittadina. E quelli del trionfo di Wembley? «Bonucci e Chiellini: un muro invalicabile. E poi Chiesa, davvero formidabile. Ma a Berlino come a Londra - assicura la sportiva Appendino - ciò che ha fatto la differenza è stato lo spirito di squadra, la compattezza del gruppo».

Una squadra di Pippe. Andrea Sorrentino per "il Messaggero" il 18 novembre 2021. Viva l'Italia, certo, come no. A Roberto Mancini e agli altri tecnici azzurri, da domani, scapperà da ridere come ogni volta, quando il campionato riparte dopo la pausa per le nazionali. E sarà un riso amaro, dolorosamente consapevole, del resto nello staff c'è gente che abita nel calcio da una vita, ne hanno viste tante. Come altre volte capiterà che diversi giocatori, non disponibili per la Nazionale fino a tre giorni prima, invece scenderanno in campo coi loro club, smaltendo d'incanto i problemi che avevano accusato in azzurro, o che li avevano costretti a rifiutare la convocazione.  Mancini ha preso nota, valuta, riflette, non senza un pizzico, anzi, un bel po' di amarezza. Del resto, è sotto gli occhi di tutti, basta fare un minimo di attenzione, anche se quando ricomincia la serie A c'è un processo di rimozione collettiva e il ricordo della Nazionale sparisce di botto. Solo che, stavolta, c'era in palio la qualificazione diretta al Mondiale, dopo aver saltato l'ultimo. Non era un appuntamento banale, il Mancio mastica amaro perché a questo giro si aspettava un po' più di rispetto per la Nazionale campione d'Europa. Ciò che è accaduto da settembre in poi fa riflettere, se ai recenti fatti sovrapponiamo le immagini delle feste per i campioni d'Europa dopo Wembley, le parate a Roma tra ali di folla, i discorsi al Quirinale e a Palazzo Chigi, e viva la Patria: in realtà poi nelle ultime tre convocazioni di Mancini, per 20 volte si sono registrati casi di giocatori che hanno lasciato il ritiro per affaticamenti, indurimenti, contratturine e influenzine varie, e la maggior parte di loro poi ha giocato nel successivo turno di campionato (la lista non contempla chi si è chiamato fuori già prima di essere convocato: Zaniolo in ottobre, ad esempio).  L'unico infortunato serio è stato Pessina, e anche Belotti, Chiesa e Verratti si sono trascinati diversi problemi anche nei club. A settembre la fuga dall'azzurro fu addirittura grottesca, ci fu persino chi come Sensi ebbe l'improntitudine o l'ingenuità di annunciare via social che avrebbe sicuramente giocato la domenica successiva con l'Inter. Altri, dopo, sono stati più discreti e furbi, poi hanno giocato lo stesso: presi tra Scilla e Cariddi, tra le esigenze del club e della Nazionale, hanno compiuto l'unica scelta possibile di sopravvivenza (ormai i calciatori sono totalmente ostaggio dei club: più vengono pagati, più devono obbedir tacendo). Pochi benemeriti, come Barella, hanno invece giocato in Nazionale pur essendo a rischio di infortunio, anche perché le alternative erano sparite. Per questo i tecnici azzurri da domani rideranno amaro alla lettura delle formazioni della A, mentre continueranno a seguire le partite nella vana speranza che spunti un talento buono per il futuro. Intanto si intravede solo l'autocandidatura del brasiliano Joao Pedro, attaccante del Cagliari, 30 anni il prossimo 9 marzo: è sposato con una siciliana, potrebbe diventare cittadino italiano e convocabile, a lui non dispiacerebbe. A proposito di uomini disillusi, in Nazionale pare che ridano sardonicamente anche quando sentono di immaginifiche proposte di rinviare il turno di campionato del 20 marzo 2022, per consentire all'Italia di preparare i playoff mondiali (mentre almeno lo stage di fine gennaio dovrebbe proprio esserci): evento possibile solo se a gennaio si avesse la certezza che le italiane nelle coppe fossero tutte eliminate, quindi non se ne parla. Poi allo stato delle cose, e per quello che si è visto da settembre in poi, agli azzurri sembra impossibile che di colpo i vertici del calcio siano presi per incantamento dalla Nazionale e modifichino il calendario in ossequio alla missione-Qatar: anzi già ci fanno sapere che nessun altro campionato delle nazioni coinvolte nei playoff cambierà qualcosa, perché dunque dovremmo noi? Magari perché la seconda assenza consecutiva dai Mondiali potrebbe essere un disastro epocale, segnerebbe forse la fine stessa del nostro sistema calcio. Ma chissà, forse c'è davvero qualcuno in Italia, o più d'uno, che non si straccerebbe il doppio petto per un'eliminazione della Nazionale (sarebbe invece un incubo per la Rai, che ha già speso oltre 150 milioni per i diritti di Qatar 2022). Infatti il problema è se siamo nel pieno di un'emergenza nazionale e se a qualcuno interessa affrontarla, oppure no. Per ora, non sembra: nessun dirigente o nessun politico, finora, ha tuonato sull'esigenza di sostenere la Nazionale. Si attendono ravvedimenti o precisazioni. Per ora, buon campionato a tutti: per quattro mesi, quei seccatori con la maglia azzurra non saranno un problema.

Da gazzetta.it il 18 novembre 2021.  “È ingiusto e scorretto mettere in dubbio la professionalità dello staff medico della nazionale”. A rilasciare questa dichiarazione, all’Ansa, è il capo delegazione azzurro Gianluca Vialli. La polemica era esplosa con le dichiarazioni di Lotito dopo il k.o. di Immobile in nazionale, ora Vialli butta acqua sul fuoco e risponde al patron laziale. “Pensavo che la dettagliata relazione del professor Ferretti alla vigilia della partita dell’Olimpico avesse già fatto chiarezza sulle condizioni e sulla gestione dell’infortunio di Immobile. Come ho potuto accertare direttamente e come sempre avviene quando i calciatori sono chiamati in Nazionale, il nostro staff medico è stato professionale, scrupoloso e trasparente nel verificare e gestire le condizioni fisiche del calciatore”. Lotito aveva criticato l’operato dei dottori azzurri dopo che l’attaccante della Lazio era stato dichiarato non in condizione di giocare la doppia sfida con Svizzera e Irlanda del Nord. “Stava bene quando è partito. Non attacco lo staff della Nazionale, faccio solo cronaca”, aveva detto. Ora è arrivata la risposta azzurra.

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 17 Novembre 2021. Non è esattamente un flashback azzurro. Piuttosto: sono schegge di memoria, uno scarabocchio che resta sugli appunti, il graffio di una sensazione, qualcosa in meno di un sospetto, sono dubbi sparsi, leciti, forse inevitabili. Però, a ripensarci: prima che nel gioco, la nostra Nazionale sembra essersi smarrita dentro. Nella mente e nel cuore. Sappiamo che, in qualsiasi sport, il peggior nemico è la paura. Dell'avversario devi avere rispetto, mai spavento. E invece: sguardi bui già all'Inno di Mameli. Nel sottopassaggio dell'Olimpico, prima di affrontare la Svizzera, i nostri sembravano undici cristiani diretti al martirio. Spifferi: non avevano cantato sul pullman, molti con le cuffiette, ciascuno con i propri demoni; lasciata nella leggendaria notte di Londra tutta la spavalderia, l'esorcismo dell'allegria, l'idea magnificamente perversa e vincente di non essere dei campioni, e però di fingere d'esserlo. Così non si sfalda solo un gruppo: ma anche un progetto di gioco. Quello di Mancini è tutto sul ritmo. Corri e ti proponi al compagno, lo aiuti, lo cerchi, ti cerca. Un palleggio pieno di solidarietà, fratellanza, coraggio condiviso. Cosa urlava invece Chiesa, con occhiate di fuoco, ai compagni sul prato del Windsor Park di Belfast? E poi: mai visto un Barella tanto nervoso. E Gigio Donnarumma, porca miseria: con quell'uscita che nemmeno da bambini, sulla spiaggia, ai tempi del portiere volante. Sono indizi, non prove. Bonucci sostiene - e bisogna credergli - che sia venuta meno la leggerezza. Per recuperarla, però, è fondamentale capire perché sia evaporata. L'orizzonte sul quale siamo adesso costretti a camminare non prevede incertezze, tremori, ansie battenti. Per dominare gli spareggi, dobbiamo dominarci. E riconoscerci per quello che siamo: una squadra normale che ha già dimostrato di poter essere speciale. In quattro mesi non illudiamoci di riuscire a trovare un nuovo Gigi Riva. Facciamo prima a ritrovare noi stessi.

ANDREA SORRENTINO per il Messaggero il 17 novembre 2021. Ce la potremmo cavare col fatalismo consolatorio: i rigori danno e i rigori tolgono, all'Europeo ci premiarono e alle qualificazioni Mondiali ci hanno punito, il destino era nel dischetto, amen. Oppure, avvicinandoci di più alla cruda realtà, dovremmo osservare che è bastata la Svizzera di riserva, falcidiata da assenze di rilievo fin da settembre, per rimontare l'Italia e vincere il girone che portava in Qatar, condannandoci ai playoff. Si parla degli equilibri generali del calcio internazionale, quelli veri e non presunti. Magari anche la Svizzera è ai nostri livelli, come valore complessivo del movimento. Nell'emergenza, ha sostituito a dovere i suoi assi Xhaka, Embolo, Elvedi e Seferovic, e mentre noi pativamo le assenze di Spinazzola e Immobile ha pareggiato a Roma poi ha rifilato 4 gol ai bulgari e se ne va a giocare il suo quinto Mondiale di fila, e negli ultimi due si è comportata meglio dell'Italia: due volte agli ottavi, mentre gli azzurri una volta si sono fermati al primo turno e un'altra non c'erano proprio. Nemmeno l'Italia di Mancini era a pieno organico durante il dramma d'autunno, né lontanamente quella delle notti di Wembley per spirito, lucidità, stato di forma, a cominciare da Verratti-Jorginho-Barella che furono il cuore dell'impresa insieme a Donnarumma. 

PICCONATA Si è spenta la luce. L'Italia si è abbandonata, appagata dall'insperata vittoria o incredula, ed è stata pure picconata: la tirannia dei club le ha sottratto giocatori più o meno infortunati da subito, in modo a volte brusco e irridente, senza rispetto per la Nazionale, ed è successo pure prima di Belfast. Mancini ha subito troppo, o ha troppo a lungo atteso che gli eroi dell'Europeo tornassero in sé. Ma è la storia recente del calcio di élite che ci ammonisce: non siamo più un riferimento, né una guida, non abbiamo né il campionato né i calciatori migliori, in Europa coi club non esistiamo (dal 2011 solo tre finali di coppa, perse, su 20), la Nazionale negli ultimi tre Mondiali o si è fermata subito o non ha partecipato. Questo siamo. L'Europeo è stato un magnifico miracolo sportivo, ma sui giocatori ha suggerito iperboli e stime al rialzo smentite dai fatti. Donnarumma non è certo ancora il miglior portiere del mondo, del resto non è una congiura di pazzi a Parigi che non gli permette per ora di scavalcare Keylor Navas nelle gerarchie, e nel mentre il suo colpo d'occhio si è appannato (continuiamo a pensare che il tiro di Widmer a Roma fosse parabile). Jorginho non è un Pallone d'oro per acclamazione, è un ottimo regista che ha bisogno di una squadra rapida e aggressiva intorno, altrimenti non fa miracoli, né gol (e al Chelsea quest' anno è in flessione). Di Federico Chiesa si è detto troppo presto che fosse uno dei migliori attaccanti europei, per ora è un'ottima ma incostante ala destra, sa fare un po' di tutto ma niente in modo eccezionale, segna alla media di 1 gol ogni 4 gare (conserviamo il sospetto che suo papà Enrico fosse assai più bravo tecnicamente). Di Insigne, a 30 anni, conosciamo i limiti quando il livello agonistico sale. Il problema, a magia dell'Europeo svanita, è che solo Verratti e Jorginho sono giocatori di alto livello internazionale e forse anche Barella, e Gigio quando si riprenderà. E nulla c'è alle spalle dei convocati per pensare a un ricambio, anche se in primavera si spera che Pellegrini e Zaniolo aggiungano tasso tecnico: per il resto tutti giocatori deboli, da squadre deboli. Il campionato offre nulla, col suo 61% di stranieri, e l'Italia tutta è in ritardo sull'integrazione, quindi non abbiamo un apporto dai figli degli immigrati che in Francia, Inghilterra e Germania, oltre alla famigerata Svizzera, sono l'ossatura delle nazionali. La serie A ha proposto Tonali, ma tra i veti incrociati a cui il ct deve sottostare, oltre a quelli dei club, c'è stato pure quello federale: guai a sottrarlo all'Under 21. Invece Luis Enrique ha preso Gavi, 17 anni, e gli ha fatto giocare quattro partite decisive di fila, alla faccia delle nazionali giovanili spagnole. Così conciati, riusciremo ad andare ai Mondiali? La risposta è che dipenderà da chi incontreremo, e in che momento saremo. Non possiamo più permetterci di dirci favoriti. Non siamo più la grande Italia, siamo come tanti altri. Ma potrebbe bastare, almeno si spera.

(ANSA il 16 novembre 2021) - "Ai Mondiali ci andremo passando dai play off di marzo e magari li vinceremo anche, chissà...". Roberto Mancini è un misto di delusione e fiducia per il futuro, dopo lo 0-0 con l'Irlanda del Nord che costringe gli azzurri ai play off. "Purtroppo è un momento così in cui facciamo tanta fatica a fare gol - dice alla Rai - Peccato, il gruppo andava chiuso prima. Ora dobbiamo ritrovare quel gioco che ci ha contraddistinto anche fino ad oggi. Se pensiamo che abbiamo sbagliato due rigori nelle sfide decisive con la Svizzera vuol dire che il girone era nel nostro controllo, ma se le occasioni non le trasformi poi puoi trovare difficoltà".

(ANSA il 16 novembre 2021) - Una qualificazione buttata. E una nuova paura da scacciare. Roberto Mancini non lo dice così esplicitamente, ma lo fa capire. E con grande amarezza: "Sono dispiaciuto perchè era un gruppo che avevamo già chiuso, dovevamo essere al Mondiale già da due partite, o al massimo venerdì...E invece ce la siamo complicata da soli", dice il ct prima di lasciare Belfast, ancora una volta sfortunata nella storia azzurra. La gara di Belfast ha mostrato una squadra giù di corda e che ha faticato tanto a tirare nella porta avversaria. "E' un momento in cui facciamo fatica a trovare il gol anche se abbiamo sempre il pallino del gioco in mano - riconosce il ct - Nel primo tempo potevamo sbloccarla e questo poi ci avrebbe permesso di giocare più tranquilli, ma non ci siamo riusciti. Loro stavano tutti dietro e non era facile riuscire a trovare spazi liberi. Peccato, ma il girone andava chiuso prima". "Se penso che abbiamo avuto due rigori contro la Svizzera e li abbiamo sbagliati...", era stato il rammarico a caldo del ct, che poi in conferenza stampa ha fatto di tutto per infondere fiducia ed evitare crisi da depressione. "Penso che andremo al Mondiale: ripeto, dovevamo già esserci. Ma se hai delle occasioni e non le sfrutti... Siamo da troppo tempo nel calcio per non sapere che capitano questi momenti difficili". A marzo, il play off "sarà più complicato" del semplice spareggio, ma con un vantaggio, si dice convinto Mancini, che all'idea di un secondo fallimento mondiale non vuole neanche pensare: "Stasera abbiamo trovato una squadra, l'Irlanda del Nord, che giocava in 10 davanti alla difesa: a marzo sarà diverso, due partite sì ma ad eliminazione diretta. E bisogna giocare". Non si appella alle assenze, perchè la Svizzera qualificata ne aveva forse più degli azzurri, e ribadisce: "Resto convinto che questa sia una grande squadra: i ragazzi devono solo ritrovare tranquillità, di qui a marzo, per fare quello di cui sono capaci. Nella difficoltà, abbiamo la fortuna di avere ancora la possibilità di andare al Mondiale: e io dico che ci riusciremo".

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 16 novembre 2021. Botte di sudore freddo, tifo bieco, gesti di pura e tribale scaramanzia: per brutale necessità tutti abbiamo provato di tutto guardando l'Italia pareggiare contro l'Irlanda del Nord, una squadra di modestia assoluta. Sofferenza inutile. Andiamo agli spareggi seguendo ancora una volta l'unico che, a questo punto della notte, può ancora portarci ai Mondiali: Roberto Mancini. Restare ai fatti. Dentro la cronaca. Raccontare quello che è successo. Perché il nostro c.t. è stato formidabile a tenerci per un'estate intera infilati in uno struggente inganno: ci ha fatto vincere e credere di essere davvero pieni di luce, forti, a tratti irresistibili. Con un po' di onestà intellettuale dovremmo invece riconoscere che ci siamo solo lasciati trascinare nel suo mondo pieno di ambizione e orgoglio, ottimista, prepotente quasi per destino. La sua maggiore abilità è stata convincere i calciatori. Quasi tutti di livello normale, i più bravi sono pure i più anziani, nessun fuoriclasse, alcuni di loro in azzurro perché la vita è strana e sa rendere possibili anche i miraggi. Agli Europei, in molte notti, l'abbiamo fatta franca per un niente. E, quando si è fermato Spinazzola, che a sinistra volava a spaccarci le partite, il Mancio ha subito provveduto a uscire dall'equivoco del bel gioco. Se la sua idea iniziale era quella di un calcio pieno di bollicine, di palleggi in allegria, un calcio per divertirsi e divertire, senza indugi ci ha riportato - furbo, e con monumentale realismo - agli istinti tattici primordiali. Di fatica e necessari contropiedi, di fango, di lotte furibonde e improvvisi lampi di classe. Chiaro che è in queste ultime due partite l'assenza di Giorgione Chiellini, il capitano, si sia rivelata straziante. Ma poi? Cercare le occhiate del c.t., in eurovisione, dal Windsor Park di Belfast, è stato utile per capire che persino da qualche parte nel suo cuore la faccenda si stava facendo molto complicata. Ha sempre ripetuto: tranquilli, ai Mondiali ci andiamo. Quanto mestiere ci ha messo. E quanto, tutti, abbiamo voluto continuare a credergli. Ma poi, quando arriva la notizia che la Svizzera se ne va avanti di tre gol, lui si volta e in panchina trova Raspadori e Scamacca, che nel Sassuolo nemmeno giocano sempre. L'altro che scorge è Belotti, uno che già all'Olimpico ha corso sulla volontà, tutta furia, ingobbito, senza ritmo. Questi aveva, questi sono: Mancini finisce così in quel genere di psicodramma che ha sempre osservato con stupore solo addosso agli altri. E che bisogna sperare adesso sappia gestire. L'orizzonte su cui deve condurci gli è sostanzialmente sconosciuto. Si prepari. Ci saranno crudele irriconoscenza, pessimismo feroce, l'invidia covata esploderà come un bubbone. Gli diranno che, alla fine, è come Gian Piero Ventura. Quello stempiato, lui con l'unica differenza di un ciuffo color mogano. Li azzittisca. E ci porti, in qualche modo, al sole del Qatar. 

Massimiliano Gallo per ilnapolista.it il 16 novembre 2021. Mancini comincia a somigliare in maniera inquietante a Ventura. L’effetto Europei è svanito. Il calcio italiano si è mostrato nuovamente in tutta la sua pochezza. Un sistema che produce poco, molto poco, di interessante, in mano a dirigenti e presidenti che di dirigenziale e manageriale hanno ben poco. Un sistema che attacca la politica ma che non ci pensa nemmeno a denunciare le proprie arretratezze. Quel che sarebbe dovuto accadere agli Europei – una debacle – è invece accaduto con qualche mese di ritardo. I miracoli non si ripetono, alla lunga la realtà emerge sempre. In questo caso in maniera impietosa. La Nazionale non vince a Belfast contro l’Irlanda del Nord – non va oltre lo 0-0 – e al momento è fuori dal Mondiale. Dovrà passare attraverso gli spareggi e non sarà una passeggiata. Mentre noi pareggiavamo nella terra di George Best, la Svizzera dominava e batteva 4-0 la Bulgaria. Mancini è calcisticamente morto con le sue idee. Gli vanno riconosciuti gli alibi per le assenze e gli infortuni. Ma l’Italia stasera è stata poca roba. Jorginho mai in partita. Barella lontano parente del giocatore che abbiamo conosciuto. Incomprensibile – anche se non decisiva – l’ostinazione del ct con Insigne schierato addirittura centravanti. Che poi fosse arretrato, di manovra, finto, nullo, poco cambia. Sempre centravanti era. E andare a giocarsi la partita decisiva con Insigne centravanti, è un po’ come guidare un’automobile di Formula Uno bendati. Per di più in uno stadio dove nessuno aveva mai segnato. Va comunque detto che con Insigne o senza Insigne nulla sarebbe cambiato. Non abbiamo mai rischiato di vincerla. Anzi, siamo andati più volte vicino a perderla. La verità è – per dirla alla Gianni Mura – che la carta si è indignata da un po’. Si è indignata con il rigore sbagliato in Svizzera, quello fallito a Roma sempre contro la Svizzera, il pareggio in casa contro i bulgari sommersi di gol e di gioco dagli svizzeri. Del resto ci eravamo giocati tutto nel mese magico in Inghilterra. Lì tutto era filato liscio, e alla lunga si paga. Il classico errore italiano di ammalarsi di riconoscenza, come se la vittoria fosse davvero un prodigio. E quindi i protagonisti da trattare come eroi leggendari. Di fondo, una mancanza di fiducia nel sistema calcio. Per certi versi persino comprensibile. Della partita che cosa possiamo dire? Il pareggio è stato giusto anzi, come detto, sta stretto ai padroni di casa. Le occasioni più pericolose le hanno avute i nordirlandesi. L’Italia ha dimostrato di non averne più. Adesso Mancini dovrà capire cosa fare. Continuare ad andare a sbattere con la riconoscenza, oppure provare a inventarsi qualcosa, ovviamente con la consapevolezza he nessun George Best è rimasto fuori? Nel frattempo, l’ex stella della Sampdoria comincia a somigliare a Ventura. E non è una bella notizia.

Ivan Zazzaroni Per Corrieredellosport.it il 16 novembre 2021. Meritiamo gli esami di riparazione. Il campo ci ha rimandato in coraggio e lucidità, prima che in qualità tecnica: è proprio in personalità che siamo risultati largamente insufficienti. E non soltanto in Irlanda del Nord dove abbiamo sbattuto addosso a una squadra di serie B: soprattutto i due confronti con la Svizzera e quello con la Bulgaria ci hanno riportato indietro di parecchi mesi. Purtroppo non siamo stati in grado di sfruttare l’entusiasmo creato dalla conquista del titolo europeo: forse qualcuno ha peccato di presunzione, ritenendosi più forte di quello che era e che in realtà è. Siamo appesi a un filo, ora. Il filo della speranza di trovare da qui a marzo ciò che ci è mancato in questo grigissimo autunno. Per delusione, si possono istruire tutti i processi immaginabili, ma è una pratica che non ha molto senso, non portando a qualcosa di buono: l’atteggiamento più maturo, in situazioni come quella che la nostra Nazionale e il nostro calcio stanno vivendo, deve condurre alla consapevolezza dei limiti e dei particolari da correggere. È il momento di scegliere con coraggio, appunto. Proprio l’intraprendenza, il coraggio nelle scelte è mancato per tutto il primo tempo, frazione durante la quale abbiamo giocato a pallanuoto facendo circolare il pallone con insistenza e lentezza solo per linee orizzontali e tentando occasionalmente l’”imbucata”, peraltro quasi sempre imprecisa. È sparito Jorginho che si è limitato all’azione di raccordo ed è stato naturale pensare che fosse ancora condizionato dall’errore dell’Olimpico. Insigne e Barella non hanno fatto nulla di segnalabile, Berardi ha provato a combinare qualcosa di discreto, ma non è andato oltre le intenzioni. Chiesa è lo stesso delle ultime prestazioni con la Juve. Non sappiamo più segnare, poi, il pareggio è diventato la nostra condizione abituale, e non è più tollerabile rimproverare a Immobile di non riuscire a buttarla dentro quando l’asticella si alza. O lui o niente. Il volto di Mancini, inquadrato spesso dalle telecamere, trasmetteva insoddisfazione e sfiducia. Nulla di quello che aveva preparato stava riuscendo: la costruzione a tre, con Di Lorenzo altissimo e Berardi sul centrodestra per creare superiorità risultava prevedibile e controllabile proprio perché al momento di stringere, ovvero del passaggio liberatorio, nessun centrocampista si assumeva il compito di tentare. Le sostituzioni sono risultate utili come un congelatore nel deserto. Secondi in un girone a cinque elementare. Ma anche le cose elementari ormai non ci riescono più. Non possiamo permetterci di saltare il secondo Mondiale di fila, una quaresima di otto anni sarebbe una disgrazia sportiva e sociale. Solo chi si sente in grado di portarci in Qatar può far parte della Nazionale del nuovo miracolo italiano e mentre lo scrivo ripenso a come ci sentivamo l’estate scorsa. Il nostro tempo lontano. Cento anni fa, il 16 novembre del ‘21, nasceva Mondino Fabbri, l’uomo della prima Corea. La seconda l’ha firmata Ventura. La terza non voglio nemmeno immaginarla.

Da gazzetta.it il 15 novembre 2021. (…) La Svizzera dilaga, l’Italia no. Adesso l’unica speranza che ci resta per andare al Mondiale sono i playoff. Certamente da teste di serie, ma lo stesso non c’è da festeggiare. La strada per il Qatar è dura. Le “non” teste di serie, a un primo sguardo, sembrano alla portata degli azzurri, però pensavamo lo fosse anche la Svezia 4 anni fa. E in ogni caso avremo un secondo turno di spareggi nel quale, per esempio, Svezia, Russia e Portogallo non sembrano clienti simpaticissimi.

 LA SITUAZIONE

Piccolo riassunto. In Qatar sono previste 13 europee, poche ma tant’è: le 10 vincenti dei 10 gruppi; le 3 vincenti dei playoff tra le 10 seconde più le 2 migliori della Nations non qualificate via gruppi. La situazione oggi è questa. Partecipano agli spareggi 12 squadre. Teste di serie: Portogallo (17 punti, gare concluse), Scozia (17, sarebbero 23 ma tutte le seconde dei gironi a 6 squadre "perdono" i punti fatti con l'ultima in classifica, gare concluse), Russia (16, gare concluse), Italia (16, gare concluse), Svezia (15, gare concluse) e una tra Polonia (14, gare concluse) e Galles (14, una da giocare). L'ultima di queste due, Turchia (o Norvegia a 12, entrambe devono giocare una gara), Macedonia (12, gare concluse) e infine Finlandia (11, una gara da giocare) sono le non teste di serie, cui vanno aggiunte due nazioni provenienti dalla Nations, attualmente Austria e Rep. Ceca. Naturalmente l’ultima giornata può cambiare qualche equilibrio. Se il Galles battesse il Belgio potremmo scivolare di una posizione, ma uscire dalle teste di serie no, almeno quello non può succedere. 

GROSSO RISCHIO —   Mai stati playoff così complessi e difficili. Nel ’98 (vinto con la Russia) e nel 2018 (k.o. con la Svezia) abbiamo affrontato una sfida tradizionale di andata e ritorno. Qui no. Qui le 12 squadre saranno divise in tre gironcini da 4 squadre. Tre “final four”, immagine che rende meglio l’idea. In ognuna saranno inserite 2 teste di serie che non si affronteranno al primo turno. Sorteggio il 26 novembre. Solo gare “secche”. Le teste di serie giocano in casa la semifinale. Le due vincenti si affrontano in sede da sorteggiare. Esempio teorico: Italia-Finlandia in semifinale (a casa), poi “monetina” per Italia-Svezia (sempre per esempio), magari si finisce a Solna. Prospettive non entusiasmanti.

SORTEGGIO IL 26 NOVEMBRE—   Non solo. Resterà tutto in bilico per quattro mesi d’inferno psicologico, tra il sorteggio del 26 novembre e le sfide previste per il 24-25 marzo (primo turno) e il 28-29 marzo (il secondo e decisivo). Mentre le qualificate Francia, Germania, Danimarca, Inghilterra (manca un soffio), Belgio, Spagna, Croazia e Serbia si allenerebbero con qualche amichevole pericolosa al massimo per il ranking Fifa. E subito dopo, il 1° aprile a Doha, Qatar, il sorteggio della fase finale fissata dal 21 novembre al 18 dicembre.

Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 13 novembre 2021. L'Italia di Mancini è tornata normale, era un suo diritto. Aver vinto l'Europeo non significava essere i migliori per i prossimi quattro anni, significava essere stati i migliori di quel torneo. Abbiamo perso da tempo la differenza iniziale. Oggi manca il ritmo, il gioco rapido di prima, gli scambi corti e continui, la sfacciataggine che diventa fortuna nei tiri e nei dribbling. Se giochi normalmente, sei un avversario normale. Non hai niente più della Svizzera. E infatti in due partite autunnali, hai pareggiato due volte. E non puoi dire di essere stato sfortunato. Semmai Garcia ha causato un rigore inutile mettendo a terra Berardi quando era già chiuso dalla fine del campo. Così adesso siamo tornati a due passi da quello che combinò Ventura quattro anni fa con la Svezia, Ventura che peraltro giusto oggi ha deciso di lasciare il calcio. Stavolta non può essere nemmeno colpa di Immobile, anzi molto rimpianto. È mancato Chiesa, anche se è stato l'unico che ha tirato; non c'è stato Insigne, era attesa l'assenza di Belotti, ma non così totale, poco ha dato Barella, normale è rimasto Jorginho che ha dato ordine contro un avversario ordinato, cioè il minimo. La Svizzera aveva sei riserve ma venivano da tanti paesi. Okafor, Vargas, sono stati attaccanti inaspettati, hanno portato un po' in giro la nostra vecchia difesa. Niente negli avversari ha fatto vedere un'inferiorità, una giustificazione per perdere. È un avversario duro contro cui dovremo ancora combattere. Noi abbiamo due gol di vantaggio nella differenza reti, loro avranno un'ultima partita migliore. Non sono dei grandi attaccanti, ma non lo siamo più nemmeno noi. È come se avessimo la stessa involuzione della Juve, manca costruzione di gioco dal basso e chi possa riempire la parte finale del gioco. La bella Italia si è persa quando è uscito Spinazzola quattro mesi fa. Senza il giocatore che permetteva due ruoli e molti schemi, siamo scoloriti in fretta. Oggi siamo come gli altri, ma ci basta ancora battere gli irlandesi per andare al Mondiale. Non può essere così difficile. Per favore, Forza! 

VENTURA SI RITIRA. Da ilnapolista.it il 12 novembre 2021. «Spero che l’Italia di Mancini si qualifichi ai Mondiali e che li vinca»: proprio nel giorno di Italia – Svizzera, partita fondamentale per la qualificazione dell’Italia al prossimo Campionato del Mondo, l’ex ct Gian Piero Ventura ha annunciato ufficialmente il suo ritiro. L’ha annunciato a TMW. Ho deciso di fermarmi. Non voglio più affrontare discorsi di campo. Gli anni passano, voglio godermi la vita. Dopo trentasette anni di calcio, con tante soddisfazioni e qualche momento negativo, penso che sia un mio diritto riprendere la vita. Oggi, naturalmente, Ventura viene ricordato soprattutto per la partita con la Svezia e la mancata qualificazione dell’Italia al Mondiale di Russia del 2018. La sua però è stata una carriera lunga, con alti e bassi. Nel 2004/2005 è stato il primo allenatore del Napoli targato De Laurentiis, in C1. Venne esonerato a stagione in corso e sostituito da Edy Reja, che sarebbe rimasto alla guida dei partenopei fino al ritorno in Serie A.

L'ira di Mancini: cosa è successo negli spogliatoi subito dopo il fischio finale. Antonio Prisco il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. Grande tensione dopo il fischio finale. La scelta chiara del commissario tecnico dopo la fine del match (disastroso). L'Italia di Roberto Mancini si è persa. Va tutto male a Windsor Park, dove scende in campo una copia sbiadita della squadra ammirata a Euro 2020, rinvigorendo la tradizione di una Belfast nefasta per i nostri colori. Il tutto mentre la Svizzera travolgeva la Bulgaria senza grossi problemi e, minuto dopo minuto, aumentava la pressione sulle spalle degli Azzurri. Serviva ben altra prestazione per scardinare la solida muraglia di Baraclough. Ma al di là della prova deludente, questo è un fallimento che affonda le sue radici negli ultimi 70 giorni più che negli ultimi 90 minuti. Dal 2 settembre e da quel mediocre pareggio contro la Bulgaria, l'Italia non c'è più. Svuotata di energie ed entusiasmo, condizionata dal calo di rendimento dei suoi uomini cardine, la Nazionale ha saputo battere solo la Lituania. Il doppio pareggio contro la Svizzera e quello fatale contro l'Irlanda del Nord hanno dilapidato una qualificazione che sembrava in cassaforte prima dell'estate e sull'onda lunga del trionfo storico di Wembley.

La ricostruzione

L'agitazione di Mancini era già molto evidente nel corso del match, quando ha cercato di spronare i suoi i tutti i modi ma non ci è riuscito: ad un certo punto è corso anche a prendere un pallone sulla linea laterale per velocizzare la ripresa del gioco ma poi ha gettato la spugna anche lui. Al fischio finale di Kovacs la tensione era altissima e la delusione evidente sulle facce di tutto il clan azzurro. Il Mancio ha salutato il ct avversario ed è andato subito negli spogliatoi, dove ha richiamato tutti i calciatori compresi Bonucci e Berardi, che si stavano preparando per le solite interviste post-partita.

Lì ha voluto parlare con la sua squadra subito, a caldo. Un faccia a faccia chiaro e diretto, senza mezzi termini per analizzare quanto accaduto. Tra i più tristi Jorginho, che non sarebbe riuscito a trattenere le lacrime perché ha sentito il peso dei rigori sbagliati in tutte e due le sfide con la Svizzera ma i compagni lo avrebbero rincuorato subito. Riguardo alla discussione con la squadra, ai microfoni della Rai, il tecnico jesino subito dopo ha detto: "Ai ragazzi ho detto che oramai non possiamo a fare nulla. Ora ci concentriamo sulla partita a marzo, ci prepareremo bene".

A marzo ci toccherà dunque rivivere l'incubo playoff Mondiali, a distanza di quattro anni dal famigerato incrocio contro la Svezia. Ma al netto di quelle che saranno le prossime avversarie, il primo e unico obiettivo di Mancini sarà ritrovare lo spirito di squadra e quella spensieratezza, che ci ha portati solo pochi mesi fa sul trono d'Europa. Sarà un'attesa lunga ed estenuante ma non bisogna distogliere gli occhi dall'obbiettivo. Perchè non partecipare ai Mondiali per la seconda volta di fila sarebbe un "disastro", neppure da prendere in considerazione.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese.

La "profezia" di Ventura che fa tremare l'Italia: "Sono sicuro..." Marco Gentile il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. L'ex ct dell'Italia, che fallì la qualificazione ai mondiali in Russia nel 2018, aveva dato la sua sentenza sugli azzurri ma purtroppo non è andata come tutti speravano. Gian Piero Ventura ha appeso la giacchetta da allenatore al chiodo qualche giorno fa, proprio nel giorno della disgraziata partita tra Italia e Svizzera che ha di fatto condannato gli azzurri ai playoff. "Dopo trentasette anni di calcio con tante soddisfazioni e qualche momento negativo penso sia un mio diritto riprendere la mia vita. Gli anni passano, voglio godermi la vita. Faccio un grande in bocca al lupo a Mancini affinché possa andare ai Mondiali e vincerli", l'augurio dell'ex ct all'Italia e al suo collega, ma le cose purtroppo non sono andate bene.

Il pronostico di Ventura

A Torino si stanno giocando le Atp Finals di tennis, con i primi otto tennisti al mondo che si giocheranno tutto nell'ultimo importantissimo torneo della stagione. Ventura è stato ospite di Paolo Damilano, vice-presidente del comitato tecnico-organizzatore delle Finals e a poche ore da Irlanda del Nord-Italia si era sbilanciato: "Faccio un grande in bocca al lupo a Mancini affinché possa andare ai Mondiali e vincerli. Ai Mondiali ci andiamo di sicuro. Nessun consiglio a Mancini, posso soltanto fare un grande in bocca al lupo".

Mancini fiducioso

Il ct è convinto che l'Italia ce la farà passando attraverso i playoff e a fine partita ha commentato così lo 0-0 di Belfast che ha condannato gli azzurri. "I playoff di marzo? Sono totalmente fiducioso, andremo al Mondiale a marzo e magari lo vinceremo anche. Avremmo dovuto vincere con la Bulgaria, abbiamo avuto due rigori contro la Svizzera, partite che potevano finire a nostro vantaggio". "Ai ragazzi ho detto che oramai non possiamo a fare nulla. Ora abbiamo la partita a marzo, ci prepareremo bene. Questo è un momento così, dove facciamo fatica. Abbiamo avuto un'occasione nel primo tempo, queste sono partite da sbloccare subito per giocare più tranquilli. Peccato perché il gruppo andava chiuso prima di questa partita", il commento amaro del Mancio. "Cosa ci manca? Dobbiamo solo ritrovare quello che ci ha contraddistinto anche fino ad oggi. Il gruppo era stato tenuto in controllo, ora recuperiamo le forze. La partita con la Bulgaria è stata la prima di settembre con due partite di campionato. Rimpianto per il pari con la Bulgaria? Era la prima partita di settembre, dopo due giornate di campionato. E poi ci sono stati i due rigori sbagliati con la Svizzera...", la chiosa del ct che è sicuro di staccare il pass per Qatar 2022 anche se ai tifosi tornano in mente i fantasmi del 2017 contro la Svezia.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016. 

"Mamma...". Gli inglesi ci prendono a schiaffi. Antonio Prisco il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. La disfatta della squadra di Mancini, costretta ai playoff per conquistare i prossimi Mondiali, ha trovato ampio risalto sui tabloid inglesi. La vendetta è servita, adesso i giornali inglesi godono: il pareggio in Irlanda del Nord dell'Italia e la contemporanea vittoria della Svizzera costringerà gli Azzurri a disputare i playoff per l'accesso ai Mondiali in Qatar, la prossima primavera. La disfatta della squadra di Roberto Mancini ha trovato grande spazio sulla stampa d'Oltremanica. Dopo tutto c'era da aspettarselo, questa rivalità si è accesa moltissimo negli ultimi mesi. Da Euro 2020 alle Olimpiadi di Tokyo fino al sorpasso nel ranking Fifa, in questi mesi gli inglesi hanno dovuto ingoiare tanti bocconi amari. In un modo o nell'altro e con atroci rimpianti avevano sempre visto i nostri colori passargli davanti. Proprio per questo oggi si respira un'aria di soddisfazione sfogliando i principali quotidiani inglesi. Il motivo però non è il roboante 10-0 degli uomini di Southgate contro il malcapitato San Marino bensì il fallimento azzurro. Dopo "la gufata" riservata ai nostri subito dopo il match contro la Svizzera, il tabloid Daily Mail ha titolato "Disastro Italia" e ha commentato così il pareggio azzurro per 0-0 a Belfast: "Quattro anni dopo aver sofferto il crepacuore nei play-off per mano della Svezia – e quattro mesi dopo aver battuto l'Inghilterra nella finale di Euro 2020 – gli italiani hanno ceduto il primo posto nel Gruppo C alla Svizzera, che si è qualificata con una vittoria in casa contro la Bulgaria". Il giornale diretto da Geordie Greig ha aperto così il resoconto sul match del Windsor Park: "L'Italia dovrà raggiungere il Qatar a sue spese dopo che i campioni d'Europa sono stati ancora una volta condannati alla lotteria degli spareggi per i Mondiali in una notte difficile a Belfast". Sulla stessa lunghezza d'onda anche un altro noto tabloid d'Oltremanica come il The Sun, che prendendo in prestito la canzone dei Maneskin, ha aperto con un ironico "Mamma mia". Il secondo quotidiano in lingua inglese più venduto al mondo ha raccontato così la brutta serata degli Azzurri in "L'Italia affronterà uno spareggio da incubo per la Coppa del Mondo per non essere riuscita a qualificarsi automaticamente per il Qatar 2022. A quattro anni dal momento più buio, per gli Azzurri potrebbe succedere di nuovo. […] Sembravano essere rinati sotto la guida di Roberto Mancini, che a luglio aveva portato gli Azzurri a vincere Euro 2020, ma potrebbero mancare ancora una volta il massimo torneo di calcio". Insomma un piccolo giorno di gloria dopo l'impareggiabile delusione di Wembley.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Da corrieredellosport.it il 16 novembre 2021. "Mamma mia!". Inizia così il lungo resoconto di Irlanda del Nord-Italia che campeggia sull'home page del tabloid britannico "The Sun". Sembra che gli inglesi non abbiano ancora dimenticato la finale dell'Europeo a Wembley, il "It's coming Rome" e la pastasciutta di Bonucci. Forse aspettavano solo il momento buono per "vendicarsi" e il pareggio per 0-0 di Belfast - con il conseguente approdo degli azzurri ai playoff del Mondiale - gliene ha dato di certo l'occasione. 

Gli inglesi sfottono l'Italia: l'ironia sulla stampa e sul web

"L'Italia affronterà uno spareggio da incubo per il Mondiale - scrive il Sun - per non essere riuscita a qualificarsi automaticamente a Qatar 2022. A quattro anni dal loro momento più buio, per gli azzurri potrebbe succedere di nuovo". Nei commenti, gli utenti si scatenano. "Italiani re d'Europa? - si legge - Se non fosse stato per Southgate non avrebbero nemmeno vinto l'Europeo. Sono solo dei sopravvalutati". O ancora: "Football's coming Rome??? Hahaha". 

Italia nel caos, Mancini richiama Bonucci e un giocatore in lacrime: dopo il flop, voci drammatiche dallo spogliatoio. Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. L’Italia di Roberto Mancini l’ha combinata grossa. Lasciare la testa del girone e quindi la qualificazione al mondiale alla Svizzera è stato un delitto, messo a punto negli ultimi tre mesi con una serie di partite autolesionistiche: il pareggio contro la scarsissima Bulgaria (travolta 3-0 senza problemi dagli elvetici), il doppio pari con la Svizzera a fronte di altrettanti rigori sbagliati da Jorginho, l’opaco 0-0 in Irlanda del Nord, dove gli azzurri hanno avuto molte più occasioni di perdere che di vincere. Ci siamo fatti del male da soli, perdendo un girone che sembravamo avere già in tasca e condannandoci all’inferno dei playoff. Tralasciando il precedente nefasto con la Svezia, stavolta può essere addirittura peggio per come è cambiato il format: gli azzurri dovranno giocare, nella migliore delle ipotesi, semifinale e finale, con quest’ultima che potrebbe essere con un’altra testa di serie del calibro del Portogallo. Insomma, a seconda di quello che sarà il verdetto dell’urna tra dieci giorni, a marzo l’Italia potrebbe essere chiamata a giocare due partite durissime da dentro o fuori. Per fortuna c’è tanto tempo per recuperare consapevolezza, uomini chiave e fiducia, ma intanto al termine del match con l’Irlanda del Nord tutto il gruppo è stato travolto dalla sensazione di fallimento. Stando a quanto riportato dal Giornale, subito dopo il fischio finale Mancini ha richiamato tutti i calciatori, compresi Bonucci e Berardi che si stavano preparando per le interviste post-partita, e ha avuto un confronto diretto. Pare che Jorginho sia addirittura scoppiato in lacrime, sentendo il peso dei due rigori falliti che avrebbero portato l’Italia al mondiale, ma i compagni lo avrebbero subito rincuorato. Adesso non resta che resettare tutto e farsi trovare pronti a marzo: otto anni di fila senza mondiale sono un’eventualità che non si vuole neanche considerare…

Un mese di emozioni. Le dieci cose che ricorderemo di Euro 2020. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Luglio 2021. È tutto da ricordare, e da incorniciare, soprattutto per l’Italia e per gli italiani, questo Euro 2020 con il trabocchetto già nel nome. Doveva giocarsi l’anno scorso: è stato rinviato di un anno, per la pandemia da coronavirus, ma senza un nuovo battesimo. È stato un mese di emozioni forti, partite itineranti e Paesi coinvolti, ritorni allo stadio emozionanti dopo le fasi più dure dell’emergenza covid-19, sorprese clamorose, voli imprevedibili ed ascese velocissime e anche qualche fallimento niente male. 24 nazionali, sei gironi. L’Italia ha vinto il suo secondo Campionato Europeo 53 anni dopo il primo (1968): è l’intervallo di tempo più lungo tra due titoli nella storia della competizione. In questo torneo sono stati segnati 142 gol – più di qualsiasi altra fase finale EURO – con una media di 2,78 gol a partita (anche questo un record). Miglior giocatore Gigio Donnarumma, 22 anni. L’Italia sul tetto d’Europa dopo il fallimento dei Mondiali in Russia del 2018 mancati. Poteva essere un torneo di transizione, di crescita, e invece è stato un successo straordinario. Come tutta un’edizione da ricordare per lo spettacolo in campo e tutto quello che è successo dentro, intorno, fuori, a margine, tangenzialmente alla competizione.

Il format. Euro 2020 si è giocato nel 2021, e tutti sappiamo perché. E si è giocato in 11 città distinte. Quella inaugurale all’Olimpico di Roma, quella finale a Wembley a Londra. Un format speciale in occasione del 60esimo anniversario dalla nascita del torneo. Oltre a diventare un problema per le Selezioni che hanno dovuto viaggiare tra una partita e l’altra, il format non ha convinto neanche l’Organizzazione Mondiale della Sanità. “Dovrei divertirmi a guardare il contagio avvenire davanti ai miei occhi? La pandemia covid19 non si prende una pausa stasera. La variante Delta approfitterà di persone non vaccinate, in ambienti affollati, senza mascherine, che urlano/gridano/cantano. Devastante”, ha postato sui social Maria van Kerkhove, responsabile tecnico dell’Oms. Il presidente dell’UEFA Aleksander Ceferin ha già bocciato senza appello il format.

Gli autogol. Mai così tanti autogol in un’edizione degli Europei: 11 in tutto. La prima rete della competizione è stata un autogol, di Merih Demiral, Turchia, contro l’Italia, allo Stadio Olimpico. L’ultima è stata quella di Simon Kjaer in semifinale, Danimarca-Inghilterra. Nelle 15 edizioni precedenti il bilancio totale raggiungeva complessivamente appena nove autogol in tutto. Una strage.

Eriksen. Copenaghen. Alle 18:42 dello scorso 12 giugno, seconda giornata degli Europei di calcio, esordio per la Danimarca, il mondo si ferma e prega per Christian Eriksen. Il numero 10 della Danimarca e centrocampista dell’Inter crolla privo di sensi in campo, colpito da un arresto cardiaco, nella partita contro la Finlandia. L’atleta viene soccorso. Il capitano danese Kjaer è il primo a intervenire. Mentre i sanitari utilizzano anche un defibrillatore i compagni di squadra fanno un muro intorno al calciatore per proteggerlo dalle telecamere. Pochi minuti dopo l’atleta viene trasportato fuori dal campo e arrivano anche le prime notizie confortanti. Eriksen è stato operato e gli è stato impiantato un Icd. Ancora incerto il futuro della sua carriera ma a un mese dal malore sta bene.

Black Lives Matter. In ginocchio o no? Il dilemma della Nazionale italiana non è stato solo della Nazionale italiana. Si è scatenato comunque un vero e proprio dibattito intorno al gesto, nato nel 2016 nel football americano contro le violenze della polizia statunitense sugli afroamericani. È diventato un simbolo del movimento Black Lives Matter e più in generale della lotta al razzismo. Anche il calcio ha adottato il cosiddetto “kneeling”. La Premier League per esempio. Tutto il dibattito è stato strumentalizzato a fini politici, con quelli italiani che hanno dato il meglio anche a questo giro, tirando in ballo il famigerato “pensierounico”. E quindi: “Non è inginocchiandosi che si risolve il problema del razzismo”. Ma dai?

Schick. Pronti e via, e alla prima partita utile, Repubblica Ceca-Scozia, Patrick Schick ha segnato un goal da centrocampo contro i padroni di casa a Glasgow. Una parabola straordinaria da 45,5 metri. Hanno fatto il giro del mondo le immagini del capolavoro tecnico e del portiere scozzese Marshall che è finito rovinosamente impigliato nella stessa rete. Che pena. Quello dell’attaccante ex Roma, che ha chiuso con 5 marcature, capocannoniere alla pari di Cristiano Ronaldo, è uno dei goal tra i più belli non di questo Europeo ma della storia degli Europei.

Paracadute. Voleva protestare contro le stragi ambientali e climatiche e ha rischiato di combinare lui una strage. Un attivista di Greenpace ha provato a planare con un paracadute sul terreno di gioco dell’Allianz Arena a Monaco di Baviera. È successo poco dopo il fischio d’inizio di Francia-Germania. L’attivista si è impigliato nella Spider Cam, ha perso il controllo del paracadute e con l’elica posizionata sulla schiena ha ferito alcune persone. Arrestato.

Goal! Due esultanze su tutte in questo mese di goal. Delirio puro firmato Fiola che dopo aver segnato il goal del vantaggio dell’Ungheria contro la Francia, si è diretto a bordo campo e con una manata aggressiva ha buttato all’aria diversi oggetti dalla scrivania sulla quale stava lavorando una giornalista. Il tutto in una Puskas Arena stracolma all’inverosimile e in estasi per un risultato storico, inimmaginabile. È stata invece un’apoteosi in differita quella della Svizzera: il portiere Sommer ha parato il rigore di Kylian Mbappé regalando il momento più alto nella storia calcistica elvetica e la qualificazione ai quarti di finale ai suoi. La sua esultanza è stata però posticipata di qualche secondo, con tutto lo staff svizzero già in campo che si è fermato anche lui prima di abbracciare il portiere. Sommer si voleva assicurare che tutto fosse regolare. Non ci poteva credere.

Luis Enrique. Luis Enrique ha allenato una Spagna tormentata dai giornalisti per i risultati e per il gioco e per le occasioni e per le formazioni per un mese intero. È uscito in semifinale giocando una partita stratosferica, che ha fatto vedere un futuro possibile per una Nazionale asfissiata dai fasti degli ultimi anni – una generazione di fenomeni e due Europei e un Mondiale tra il 2008 e il 2012. Luis Enrique ha accettato la sconfitta, ai rigori, fatto i complimenti all’Italia e confidato: “Sono stanco di vedere bambini che piangono, non so perché lo fanno. Bisogna iniziare a gestire una sconfitta, congratularti con il tuo avversario e insegnare ai più piccoli che non bisogna piangere. Devi alzarti e fare i complimenti a chi ti ha battuto”. L’allenatore asturiano è riuscito a ripartire dopo la morte della figlia, a soli nove anni, per un tumore alle ossa. E ha dato un futuro alla Spagna.

Wembley. Un pestaggio furioso che era stato raccontato in Italia come il pestaggio di alcuni tifosi italiani per mano di tifosi inglesi, in occasione della finale della competizione. In realtà, è stato chiarito, il video diventato virale mostra supporter paganti che provano a respingere altri che avevano forzato gli ingressi per entrare allo stadio per Italia-Inghilterra. La polizia non ha parlato di violenze tra le due tifoserie ne lo hanno fatto i giornali inglesi. Perché, com’è stato chiarito, non si è trattato di questo.

Italian job. L’Italia di Roberto Mancini non è stata solo un capolavoro ma è stata anche un’idea chic, trendy, catchy, a tratti anche freak, un po’ trash pure, ma insomma sempre e in qualche maniera fashionable. Dallo show in prima tv su Rai1 con Amadeus prima della competizione alle canzoni neomelodiche napoletane, dalla forza bruta del Capitano Chiellini al “tiraggir” di Lorenzo Insigne, dalla classe di Roberto Mancini all’eleganza di Alberico Evani, dal laconico Daniele De Rossi all’emozionante Gianluca Vialli, dalle Notti Magiche dei gironi all’Olimpico di Roma fino all’esultanza del Capo dello Stato Mattarella a Wembley. Royal Italia.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Luca Valdiserri per corriere.it il 13 luglio 2021. Promossi e bocciati .I premi ufficiali li conoscono tutti: Europeo all’Italia, Donnarumma Mvp del torneo, Bonucci della finalissima, Cristiano Ronaldo capocannoniere per un’astrusa regola che oltre ai gol considera anche gli assist (uno) come se il calcio fosse l’hockey su ghiaccio. Di seguito undici promossi e undici bocciati, in ordine alfabetico, di un mese di pallone davvero senza confini. Anche troppo.

Austria PROMOSSA

Alla fine, insieme alla Spagna che ha però una cifra tecnica enormemente superiore, è stata l’avversaria che ci ha fatto più soffrire. La Var che ha pescato il fuorigioco millimetrico di Arnautovic è stata salvifica per gli azzurri quasi come Donnarumma. Si dice che la prima partita a eliminazione diretta sia quella che ti fa capire quale sarà il tuo destino. Così è stato, con Chiesa che ha iniziato lì a essere l’uomo in più. 

Bizzotto (Stefano) e Rimedio (Alberto) PROMOSSI

Il calcio è uno sport di squadra anche tra i telecronisti: si vince e si perde insieme. Così un’entrata da dietro, vigliacca e impunita, ha tolto dalla finale la voce Rai di Alberto Rimedio, confinato in camera da una positività Covid, lui che era vaccinato («E per questo i sintomi sono lievissimi», grande spot). Dalla panchina si è alzato Stefano Bizzotto e, come dicono gli allenatori, non ha fatto rimpiangere il titolare. Gli Spinazzola/Emerson del microfono azzurro.

Florenzi (Alessandro) PROMOSSO

Partito titolare, presto infortunato, in campo di nuovo negli ultimi minuti dei supplementari di Wembley e pronto a tirare il sesto rigore che Donnarumma gli ha evitato ipnotizzando Saka. Sue le parole più bella nella festa finale: «Abbiamo un esempio che ci dimostra ogni giorno come si deve vivere e comportare: è Gianluca Vialli, per noi è speciale». Si incomincia a vincere sempre fuori dal campo.

Henderson (Jordan) PROMOSSO

Non si è capitani del Liverpool a caso, non si eredita la fascia di Steven Gerrard senza avere una tempra morale superiore. Nell’Inghilterra che si è sfilata la medaglia d’argento in un gesto altamente antisportivo, che purtroppo è diventato di moda e che in passato ha visto protagonisti anche calciatori italiani, lui l’ha tenuta al collo. Lui sì che non ha perso.

Kjaer (Simon) PROMOSSO

Il gesto più importante dell’Europeo è stato il suo. Ha capito immediatamente la gravità della situazione di Christian Eriksen, colpito da un attacco cardiaco, e si è trasformato nel George Clooney della prima serie di ER. Appena l’amico era tra le mani dei medici, si è occupato di sua moglie, piombata disperata sul campo di Copenaghen. Uomo con la U maiuscola.

Lewandowski (Robert) PROMOSSO

Piazza di San Pantaleo, Costa Smeralda, un pizzico di maestrale. Bambini che giocano a pallone, poi arriva uno stangone che si mette a palleggiare. Ma quello è Lewandowski! La sera è lui che organizza una partita per tutti sul sagrato della chiesa. Non sarà la finale di Wembley, ma è un grande spot per il calcio di tutti.

Luis Enrique (Martinez Garcia) PROMOSSO

Adesso hanno scoperto tutti quale immenso tesoro sia dentro il cuore di questo asturiano fiero. Chi lo ha frequentato un po’ a Roma, anni fa, lo sapeva benissimo anche quando era minoranza della minoranza. Le sue parole nel dopopartita di Italia-Spagna andrebbero fatte studiare in tutte le scuole. Non le scuole calcio. Le scuole scuole.

Pandev (Goran) PROMOSSO

Tutti bravi a fare gol con la Germania, l’Inghilterra, la Francia o l’Italia. Provateci voi, invece, con la Macedonia del Nord. A 37 anni compiuti. Unico dettaglio fuori posto, la pettinatura (eufemismo) che ai vecchi cuori nerazzurri ricorda quella di Scanziani, centrocampista «scarsicrinito», come diceva il maestro Gianni Brera. Ma in un mondo prigioniero del look ci sta bene anche una chierica.

Rossi (Marco) PROMOSSO

Il signor Rossi è riuscito nell’impresa di rendere quasi simpatica l’Ungheria, una specie di manganello calcistico nelle mani di Viktor Orban. Dentro il girone della morte – con Francia, Germania e Portogallo – sembrava una squadra materasso e invece è arrivata a 10 minuti dalla qualificazione, stoppata solo dal tedesco Goretzka. Panchina d’oro, insieme a Roberto Mancini.

Schick (Patrik) PROMOSSO

Cinque gol, compreso quello più bello di tutto il torneo, segnato da centrocampo contro la Scozia. Il miglior centravanti dell’Europeo ha 25 anni, l’età in cui gli attaccanti cominciano a entrare nella maturità. La Roma e il calcio italiano non l’hanno aspettato, grave peccato di frettolosità. Ma lui non se l’è presa e, dopo la finale, si è congratulato con agli azzurri. Alla prossima… 

Tifosi (del Galles) PROMOSSI

Non amano l’Inghilterra, proprio come gli scozzesi che alla vigilia della finale avevano dedicato a Roberto Mancini una prima pagina di giornale nei panni di William Wallace/Braveheart. Con grande ironia, su Twitter, i tifosi gallesi hanno cambiato il loro nickname per un giorno, italianizzandolo: Matt Hughes è diventato Matteo Hucini, Cory Nicholas si è trasformato in Coryano De Rossi Nicholasano e George Andrews in Giorgio Andrea. Gol!

 Arbitri BOCCIATI

Dal rigore «alla Klaus Dibiasi» concesso dall’olandese Makkelie nella semifinale Inghilterra-Danimarca alla mancata espulsione da parte di Orsato del danese Danielson, che aveva quasi staccato una gamba a un avversario ma era stato punito solo con un giallo (rosso dopo la Var). Non è stato un Europeo facile per i fischietti, anche se Kuipers in finale è stato convincente.

Belgio BOCCIATO

Eterni piazzati, mai vincenti. Forse sarà il caso che il ranking Uefa, che continua a vederli al primo posto, sia corretto con bonus speciali per chi vince le grandi manifestazioni. Forse l’unico vero campione dei Diavoli Rossi è quel De Bruyne che è arrivato all’Europeo tenuto insieme con lo spago.

Calendario BOCCIATO

Non si uccidono così anche i cavalli? Stagione interminabile, troppe partite, la final four di Nations League già alle porte (Italia-Spagna il 6 ottobre e Belgio-Francia il 7), poi il Mondiale in Qatar anticipato al 21 novembre 2022 per via delle temperature proibitive d’estate. Quantità non vuol dire per forza qualità.

De Boer (Frank) BOCCIATO

Gran giocatore, non allenatore. L’Olanda che esce negli ottavi contro la Repubblica Ceca è una delle grandi delusioni dell’Europeo, tanto più che era capitata nella parte del tabellone più facile. Si rinfaccia all’Inghilterra di non vincere nulla da 55 anni, ma anche gli Oranje, se continuano così, sono sulla buona strada.

Johnson (Boris) BOCCIATO

Pensava di aver costruito un Europeo su misura per la sua Inghilterra, sperando magari di avere qualche vantaggio dall’aver stoppato la Superlega targata Real-Juve-Barça. E invece non sono bastate 6 partite su 7 giocate a Wembley. Football is (not) coming home.

Mbappé (Kylian) BOCCIATO

Il futuro del calcio passa probabilmente dai suoi piedi ma in questa stagione è riuscito a perdere lo scudetto francese contro il Lilla e l’ottavo di finale all’Europeo contro la Svizzera, sbagliando proprio lui l’ultimo rigore. Ripassare, please.

Muller (Thomas) BOCCIATO

Il simbolo della Germania legata al passato, che si è rinnovata troppo poco anche se ha tra le sue fila una stella come Kai Havertz. Il gol divorato contro l’Inghilterra poteva cambiare completamente il corso dell’Europeo. Quasi quasi lo rimettiamo tra i promossi.

Platini (Michel) BOCCIATO

Sua l’idea dell’Europeo itinerante. Un fallimento. Di sicuro non poteva immaginare la pandemia ma fare un calcolo sulle distanze da percorrere non era difficile. Così c’è stato chi ha fatto la pallina da ping pong (Svizzera, Galles) e chi ha quasi sempre giocato in casa. Esperimento da non ripetere.

Sinner (Jannik) BOCCIATO

Cosa c’entra il tennis? Non si dice no all’Olimpiade mai, tanto meno quando la Nazionale di calcio vince l’Europeo, quella di basket elimina la superfavorita Serbia e vola a Tokyo e Berrettini va fino in finale a Wimbledon dando lezioni di stile e di attaccamento alla bandiera.

Tifosi (dell’Ungheria) BOCCIATI

Tre partite a porte chiuse sono la giusta punizione per chi porta dentro lo stadio cori omofobi e razzisti, trasformando una partita in tribuna elettorale. Peccato. La storia dell’Ungheria del 1954, una delle squadre più forti di tutti i tempi, meritava tifosi migliori.

Turchia BOCCIATA

Zero punti, un gol fatto e otto subiti. In rapporto ai calciatori a disposizione, una delusione totale. Lontani i tempi dell’Imperatore Fatih Terim e del suo Galatasaray.

 Michele Serra per “La Repubblica” il 13 luglio 2021. La retorica a tonnellate, a vagonate, a cargo, rende greve ciò che dovrebbe essere alato: la vittoria. Non c'è rimedio né salvezza, non c'è scampo se non nel profondo della foresta e con lo smartphone scarico. E i tronfi festeggiamenti che gli inglesi avevano in animo di fare, con un giorno di bagordi di Stato (manco Elisabetta fosse Franceschiello) la dice lunga su quanto il vizio sia sovranazionale. Non siamo soli al mondo, noi italiani, quando si tratta di sventolare bandiere fino a slogarsi i polsi e fare cori che incrinano le tonsille. Bisogna comunque non dargliela vinta, alla retorica, e tenere il punto, dunque tenerci lo sport. Vincere è bellissimo e lo sport è bellissimo. È epica allo stato puro, gesto che non ha bisogno di parlarci sopra, solo di essere descritto, raccontato nel suo farsi. È difficile. Non per niente i grandi giornalisti e telecronisti sportivi, da sempre, sono fuoriclasse, e i cattivi giornalisti e telecronisti sportivi non si reggono proprio. Se ci ricordiamo tutti di "un uomo solo è al comando, il suo nome è Fausto Coppi", è perché è una frase epica, secca, semplice, ingigantita dalla purezza della radio. L'alluvione di parole inutili di queste ore scomparirà, nel tempo, come vapore. Resteranno i gol, le parate, il gioco.

La Vittoria dell’Europeo. Paese in festa. Italia sul tetto d’Europa, Donnarumma para l’Inghilterra: secondo titolo dopo 53 anni. Redazione su Il Riformista il 12 Luglio 2021. Godiamo! Dopo 53 anni l’Italia torna sul tetto d’Europa battendo l’Inghilterra a Wembley per 5-4 dopo i calci di rigore, al termine di una partita epica. Decisivo uno strepitoso Gigio Donnarumma, il miglior portiere del Mondo (ora si può dire), che para due calci di rigore nella lotteria finale e ‘ripara’ gli errori di Belotti e Jorginho. Una serata indimenticabile, che premia un percorso straordinario intrapreso dagli Azzurri sotto la guida di Roberto Mancini. Solo tre anni dopo la delusione dell’esclusione dal Mondiale di Russia, l’Italia festeggia la conquista del suo secondo titolo europeo dopo quello del 1968 e lo fa con pieno merito. Grande partita giocata dagli Azzurri, bravi a non scoraggiarsi dopo l’iniziale vantaggio di Shaw e a trovare il pareggio con Bonucci dopo quasi un’ora di dominio assoluto. Come preventivabile, il centrocampo italiano ha fatto valere la sua maggior qualità con Jorginho e Verratti che hanno nascosto il pallone agli inglesi. Il tutto nonostante la serata opaca di Barella. L’Inghilterra dopo l’avvio bruciante si è accontentata di difendere il vantaggio, rinculando progressivamente davanti all’area di rigore di Pickford. Non a caso la parata più complicata Donnarumma l’ha fatta nei supplementari, mentre il portiere inglese è stato decisivo in almeno un paio di circostanze su Insigne e Chiesa. Poi nella lotteria dal dischetto è ancora il numero 1 azzurro a diventare l’eroe della serata. L’Inghilterra mastica amaro, non è bastato giocare dinanzi ai quasi 60mila indiavolati tifosi di Wembley per conquistare un titolo importante che manca ormai dal 1966. Stesso identico undici con cui l’Italia è scesa in campo contro la Spagna in semifinale. Questa la scelta del ct Mancini per la finale. Pertanto Donnarumma in porta; difesa con Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini ed Emerson Palmieri; centrocampo con Barella, Jorginho e Verratti; attacco con Chiesa, Immobile e Insigne. Cambia eccome, invece, il ct inglese Southgate che deve fare a meno dell’acciaccato Foden e decide quindi di schierare una sorta di 3-4-2-1 con Pickford in porta; Walker, Stones e Maguire in una linea di difesa a tre; Trippier e Shaw sulle fasce con Phillips e Rice in mediana; sulla trequarti Sterling e Mount alle spalle del bomber Kane. Prima dell’inizio, fischi all’Inno italiano mentre le due squadre si sono inginocchiate a metà campo in sostegno del movimento Black Lives Matter. Si gioca sotto una fitta e fastidiosa pioggerellina. Inizio shock per gli Azzurri, sotto di un gol dopo appena 2′: l’Inghilterra passa grazie ad un sinistro vincente di Shaw su assist dalla destra di Trippier. Difesa azzurra spiazzata nell’occasione. Wembley esplode. La prima replica dell’Italia con una punizione dal limite di Insigne, con palla di poco alta. Gli Azzurri però soffrono le incursioni di Trippier a destra, ogni volta che arriva sul fondo sono dolori. La bolgia infernale di Wembley non aiuta, i ragazzi di Mancini appaiono frastornati di fronte agli assalti inglesi. Dopo oltre venti minuti di sofferenza, finalmente gli Azzurri provano a farsi vedere dalle parti di Pickford con la velocità di Insigne e Chiesa. Immobile però appare troppo solo in area e per i giganti Maguire e Stones controllarlo è un gioco da ragazzi. Al 34′ prima vera occasione per l’Italia, con Chiesa che di sinistro calcia do poco fuori dopo una bella azione insistita dalla trequarti. Gli Azzurri prendono coraggio e iniziano ad assediare l’area di rigore inglese, nel giro di pochi secondi ci provano Immobile e Verratti ma la difesa inglese si salva. Prima dell’intervallo Bonucci tenta la conclusione dalla distanza, ma la palla è alta. In avvio di ripresa subito un brivido in area azzurra, con Sterling che si inserisce ma viene fermato da un intervento in collaborazione tra di Bonucci e Chiellini. Al 50′ Insigne si procura una punizione dal limite da ottima posizione, ma il suo destro a giro purtroppo non è preciso. Dopo meno do un’ora di gioco, Mancini toglie l’ammonito Barella e inserisce Cristante. Ma soprattutto esce Immobile per Berardi, con Insigne e l’attaccante del Sassuolo che si alternano da centravanti e Chiesa spostato a sinistra. Una mossa che mette subito in difficoltà l’Inghilterra, tanto che proprio Insigne impegna Pickford da posizione ravvicinata ma molto defilata. Ben più complicata per il portiere inglese la parata poco dopo su un destro velenoso di Chiesa. Adesso l’Italia attacca con insistenza anche se la difesa inglese resta sempre molto compatta. Proprio uno dei due centrali, Stones, impegna poi Donnarumma con un colpo di testa su calcio d’angolo. La superiorità azzurra di questa fase viene giustamente premiata al 67′ dal gol dell’1-1 firmato da Bonucci in mischia su calcio d’angolo dopo un palo di Verratti. L’Italia c’è, Wembley è zittito. In tribuna esulta anche Mattarella. L’Inghilterra inizia a tremare, Southgate allora manda in campo Saka per Trippier nella speranza di riallungare una squadra ormai costantemente asserragliata in difesa. A venti dalla fine Azzurri vicinissimi al raddoppio con Berardi che al volo calcia alto solo davanti a Pickford.Ma non era facile. Assorbito il contraccolpo del pareggio azzurro, Wembley prova di nuovo a spingere gli inglesi ma è sempre l’Italia a comandare con Insigne e Chiesa che fanno ammattire la difesa avversaria. Proprio nel momento migliore, l’attaccante della Juve si fa male e deve lasciare il campo a Bernardeschi che si va a piazzare in posizione da centravanti. Nel finale da segnalare soltanto l’invasione di campo da parte di un tifoso inglese, braccato in campo a fatica dagli steward. Si va ai supplementari. All’inizio dei supplementari Mancini toglie uno stanco Insigne e manda in campo Belotti. Il ct cambia ancora, con Bernardeschi che ora si sposta all’ala sinistra. Fuori anche Verratti, dentro Locatelli. Intanto si rivede l’Inghilterra, prima con una incursione di Sterling fermata in angolo e poi con un destro dal limite di Phillips di poco fuori. Un cambio anche nelle file inglesi, dentro Grealish per Mount. C’è poi un brivido nell’area inglese, con Pickford che anticipa Bernardeschi al momento di deviare in porta un cross di Emerson da sinistra. Il biondo attaccante della Juve ci riprova nel secondo supplementare su punizione, para Pickford. Sul fronte opposto brivido in area azzurra con Donnarumma che in uscita acrobatica anticipa Stones pronto a un colpo di testa vincente. Dopo oltre un’ora di sofferenza, l’Inghilterra spinta dal pubblico di casa torna a spingersi in avanti con maggior determinazione per evitare la lotteria dei rigori. Gli Azzurri iniziano ad accusare un po’ di stanchezza, ma lottano e anzi alla fine sfiorano anche il colpaccio con una deviazione di testa di Cristante su calcio d’angolo che non trova nessuno sul secondo palo per la deviazione in rete. La squadra campione d’Europa la si decide ai calci di rigore e come nel 2006 ai Mondiali di Berlino a trionfare sono gli Azzurri grazie alle parate di superman Donnarumma. Football Coming Rome. (Lapresse)

Da video.repubblica.it il 13 luglio 2021. Ecco il video della riunione tecnica in cui il il ct della Nazionale, Roberto Mancini, ha annunciato ai giocatori la formazione titolare della finale dell'Europeo, poi vinta ai rigori dall'Italia sull'Inghilterra. L'allenatore mostra ancora una volta una delle sue qualità vincenti, ossia la capacità di stemperare la tensione e di cercare leggerezza e divertimento anche in momenti così importanti, come aveva già fatto prima dei rigori con la Spagna, in semifinale, quando si era incluso nella lista dei tiratori con Vialli e gli altri ex sampdoriani del suo staff. Questa volta, tra i nomignoli e i soprannomi dei calciatori, include tra gli undici titolari "Spina", ossia Spinazzola, in realtà infortunato e con le stampelle. Ride, poi cancella il suo nome e lo sostituisce con quello di Emerson. Infine, concluso l'elenco, dice: "Sapete quello che siete e quello che dovete fare. Se siamo qua non è un caso. Siamo noi i padroni del nostro destino, non gli avversari".

Euro 2020, Roberto Mancini e il discorso prima della finale: "Spina...". Il gelo e poi il delirio: Inghilterra distrutta così. Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. L'arte di preparare una finale. Alla lavagna, è il caso di dirlo, il professor Roberto Mancini. Siamo nella pancia di Wembley, a pochi minuti dalla finalissima di Euro 2020 contro l'Inghilterra, padrona di casa e grande favorita per la vittoria. Tutto lo stadio, tranne uno spicchio azzurro, è bianco e intona "it's coming home", duchi William e Kate Middleton e principino George in testa. Il clima è quello di una grande festa con un unico agnello sacrificale: l'Italia. La stampa britannica sta bombardando da giorni, i Tre Leoni sembrano in grado di portare a casa il primo titolo europeo della loro storia, dopo il grande smacco del 1996. Alla vigilia si temono i favori arbitrali, con l'olandese Kuipers al passo d'addio, dopo le spintarelle in semifinale contro la Danimarca a favore degli inglesi. Il pericolo per gli azzurri è duplice: da un lato adagiarsi sugli allori, dopo le imprese nei quarti contro il Belgio e in semifinale con la Spagna. A loro nessuno poteva oggettivamente chiedere di più, dopo un torneo giocato da prima della classe. Il secondo pericolo è quello dell'alibi perfetto: alla prima folata di vento contrario, la tentazione di arrendersi a un destino ineluttabile. A noi gli applausi, a loro la coppa. Bravi, complimenti, sarà per la prossima volta. Invece no. Il ct Mancini da un lato sdrammatizza e scherza, dall'altro responsabilizza i nostri. Il suo discorso motivazionale durante la riunione tecnica è finito nella docu-serie Sogno Azzurro - La strada per Wembley che andrà in onda giovedì 15 luglio prossimo alle 20.30 su Rai1. L'estratto, un minuto scarso, è emozionante. Prima il Mancio disegna sulla lavagnetta i nomi degli undici titolari. "Gigio, DiLo, Leo, Giorgio, Spina...". Momenti di silenzio, ha detto veramente Spinazzola, infortunatosi gravemente contro il Belgio. Poi l'allenatore guarda i suoi giocati e ride sornione - Emerson. Jorgio, Marco, Bare, Ciro, Lorenzo e Federico". Quindi poche parole, un messaggio che entra nei giocatori e immaginiamo non esca più fino ai rigori. E che soprattutto sarà rimbalzato nelle loro teste dopo i primi deludenti e difficili 45 minuti. "Allora, io non ho niente da dire. Voi sapete quello che siete, e non siamo qua per caso. Siamo noi i padroni del nostro destino, non l'arbitro, non gli avversari, nessuno. Voi sapete quello che dovete fare". Alla fine, l'hanno fatto. E alla grande.

Così ci siamo presi la Coppa: i 3 colpi Azzurri. Marco Gentile il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Dall'autorete di Italia-Turchia all'esordio, passando per il gol annullato all'Austria negli ottavi fino ad arrivare alla mentalità: ecco come gli azzurri hanno vinto Euro 2020. 34 risultati utili consecutivi per l'Italia di Roberto Mancini che ha colto la bellezza di sette vittorie ad Euro 2020 e si è presa così la coppa che mancava dal lontano 1968 quando a trionfare fu la nazionale di Ferruccio Valcareggi. 3-0 contro la Turchia all'esordio, 3-0 alla Svizzera, 1-0 al Galles, 2-1 all'Austria agli ottavi di finale, 2-1 contro il Belgio nei quarti di finale, più due pareggi per 1-1 nei 120 minuti contro Spagna in semifinale e Inghilterra in finale, sfide poi però vinte ai calci di rigore in entrambe le circostanze: è questo il ruolino di marcia della strepitosa nazionale del Mancio che ha vinto con merito, dimostrandosi squadra e mostrando soprattutto un grande gioco. I 3 momenti chiave:

1) La partita contro la Turchia, il "lontano" 11 giugno ha segnato l'inizio di Euro 2020 per l'Italia che dopo un primo tempo discreto è riuscita a sbloccarla solo con un'autorete siglata da Merih Demiral nel secondo tempo al minuto 53 e questo può essere considerato il primo momento chiave all'Europeo per gli azzurri che da quel momento in poi hanno inserito il pilota automatico vincendo a mani basse il girone avendo la meglio per 3-0 sulla Svizzera e 1-0 sul Galles.

2) Il secondo momento chiave è stato sicuramente il gol annullato a Marko Arnautovic in Italia-Austria (forse "peggior" match giocato dagli azzurri in tutta la manifestazione per la bravura degli avversari a barricarsi in difesa tentando di ripartire in contrpiede). Senza il Var, forse, si parlerebbe di una possibile eliminazione già agli ottavi di finale ma in realtà da quel momento l'Europeo dell'Italia è svoltato con i gol di Chiesa e Pessina a qualificare gli azzurri ai quarti di finale.

3) Il terzo momento chiave si racchiude in quattro parole: Grande con le grandi. Belgio-Spagna e Inghilterra: più che un Europeo potrebbe essere il ruolino di marcia in un mondiale con magari l'aggiunta di una sudamericana tra Brasile e Argentina. L'Italia ha avuto il grande merito di non adattarsi mai al gioco degli avversari e questo è stato significativo e ha permesso agli azzurri di trionfare. Se contro il Belgio la vittoria è stata netta e meritata, contro la Spagna il gioco ha un po' latitato ma non il cuore e l'essere squadra che hanno permesso di portare la contesa fino ai rigori. In finale, dopo un primo tempo da incubo, ecco l'orgoglio azzurro che esce alla distanza per merito della mentalità inculcata da Mancini e dal suo staff ai calciatori. Chapeau.

Il "pagellone" Azzurro. E ci sono le sorprese... Marco Gentile il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Roberto Mancini è il vero artefici del "miracolo" azzurro. Donnarumma-Chiellini-Bonucci-Jorginho imprescindibili: ecco i voti dell'Italia campione d'Europa. L'Italia ha vinto Euro 2020 e tutti e 26 i protagonisti hanno dato il loro contributo. Scopriamo insieme i voti assegnati agli azzurri da ilgiornale.it:

Gianluigi Donnarumma, voto 10: premiato come miglior portiere della manifestazione gioca una finale da veterano, para due rigori e consegna così la coppa all'Italia. Non solo l'atto finale, ovviamente, ma in tutto l'Europeo ha dimostrato sicurezza, classe ed esperienza nonostante i soli 22 anni e tutto il caos mediatico per il suo burrascoso addio al Milan. Saracinesca.

Giovanni Di Lorenzo 6,5: il voto è una giusta media tra il primo tempo (brutto) della finale e tutto il suo Europeo partito in sordina e terminato alla grande avendo conquistato la fiducia di Mancini anche per il forfait di Florenzi Applicazione e voglia di emergere. Motorino.

Leonardo Bonucci, voto 10: un punto in più per il gol segnato durante i 90' di gioco e per il rigore realizzato freddamente. L'esperto centrale della Juventus è tornato ad essere impenetrabile in coppia con il compagno di reparto Chiellini. Carisma e leadership indiscutibili: tra i migliori dell'intero torneo. Leader

Giorgio Chiellini, voto 9,5: il capitano è tornato ad essere un muro invalicabile e questo nonostante la carta d'identità dica quasi 37 anni il prossimo 14 agosto. L'infortunio subito a inizio Europeo l'ha caricato ancora di più e il voto è un giusto premio a quanto fatto in questo torneo. Muro

Leonardo Spinazzola, voto 9: il voto è così basso ma solo perché non ha potuto giocare semifinale e finale. L'esterno della Roma è stato sicuramente la grande sorpresa azzurra e il suo grave infortunio non gli ha però tolto il sorriso a testimonianza di come questo sia un grande gruppo. Speedy Gonzales

Nicolò Barella 7,5: è stato per mesi il motore dell'Inter ed è così arrivato un po' stanco ad Euro 2020. Contro l'Austria e proprio in finale le sue partite meno brillanti ma nel girone e contro Belgio (con tanto di gol sblocca partita) e Spagna ha fatto vedere di che pasta è fatto. Presente e futuro

Jorginho 9,5: è lui il cervello del centrocampo di Roberto Mancini. Giocatore imprescindibile per carisma, qualità, quantità e geometrie. Mezzo punto in meno per il rigore fallito nel momento decisivo (da uno bravo come lui ci si aspettava il gol ma va bene così). Cervello

Marco Verratti 8: Mancini l'ha convocato lo stesso seppur infortunato e questo è indicativo di quanto sia importante per il ct. Assist al bacio per Barella contro il Belgio, bella prestazione contro la Spagna e grande partita anche in finale dove mette lo zampino nel gol del pareggio di Bonucci (con un colpo di testa). Fantasia

Federico Chiesa 8,5: non è partito da titolare in questo Europeo ma ha saputo aspettare la sua chance e puntualmente ce l'ha fatta con la sua grande caparbietà a prendersi il posto in squadra. Vero e proprio spaccapartite in grado di far cambiare marcia alla nostra nazionale. Presente e futuro di questo gruppo. Crack

Ciro Immobile 6,5: due gol all'attivo e tanto tanto lavoro sporco in favore dei compagni di squadra. Viene criticato ma il ct gli ha sempre fatto sentire al fiducia e così i compagni di squadra. Potrà raccontare di aver vinto un Europeo da titolare e da protagonista. Utile

Lorenzo Insigne 7: la sua classe e fantasia spesso non sono efficaci alla manovra ma quando si è accesso ha fatto la differenza. Il suo gol con tiro a giro è il marchio di fabbrica di un giocatore importante per gli equilibri della nostra nazionale. Scugnizzo.

Roberto Mancini 10 e lode: 34 risultati utili consecutivi sono davvero qualcosa di incredibile e forse impareggiabile nel breve periodo da qualsiasi ct. E' sicuramente lui il grande artefice di questo successo e tutta l'Italia gli deve dire una sola parola: GRAZIE

Rosa importante

Non solo i titolari, dato anche gli altri hanno dato il loro grande contributo alla vittoria finale:

Domenico Berardi, Matteo Pessina e Manuel Locatelli, voto 7: importantissimi con la loro qualità e i loro gol nei momenti chiave: Fondamentali

Emerson Palmieri 6,5: non ha fatto rimpiangere Spinazzola né in semifinale contro la Spagna né in finale contro l'Inghilterra. Umiltà e abnegazione al servizio della squadra. Ordinato

Federico Bernardeschi e Francesco Acerbi, voto 6,5: il primo si traveste da tuttofare della nazionale, il secondo non fa rimpiangere Chiellini. Due garanzie

Alessandro Florenzi, voto 6 di incoraggiamento: al Psg è stato spesso uno dei migliori e solo un infortunio ne ha rallentato il rendimento ad Euro 2020. Di Lorenzo non lo fa rimpiangere ma lui vuole sicuramente dire ancora la sua in nazionale. Duttile

Andrea Belotti, Alessandro Bastoni, Rafael Toloi e Bryan Cristante 6: hanno giocato poco ma hanno dimostrato di essere utili alla causa. Menzione particolare per il difensore dell'Inter: è solo un classe 1999 e il futuro è suo. L'unione fa la forza

Salvatore Sirigu e Alex Meret senza voto: con davanti uno dei migliori portieri del mondo è dura trovare minutaggio mase il primo ha già 34 anni, il secondo ne ha soli 24. Porte girevoli

Gaetano Castrovilli, Gianluca Raspadori, senza voto: il primo è stato chiamato a sorpresa per l'infortunio di Pellegrini, il secondo come jolly alla "Paolo Rossi". Non hanno praticamente giocato ma sono campioni d'Europa. Tanta roba.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

Euro 2020, l'Italia è campione! La coppa torna a Roma, lezione di calcio (e di rigore) all'Inghilterra. Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. L'Italia di rigore è campione d'Europa. It's coming Rome, cari inglesi. Gli azzurri danno una lezione di calcio davanti ai 70mila di Wembley, rimontando lo svantaggio maturato dopo soli due minuti. Dopo l'1-1 dei tempi regolamentari, rimasto invariato anche nei 30' aggiuntivi, Gigio Donnarumma ha letteralmente messo le mani su Euro 2020. L'Inghilterra ha preso un palo al terzo tentativo con Rashford, poi Gigio ha fatto il resto prendendo le conclusioni di Sancho e Saka. Al termine del match Roberto Mancini si è lasciato travolgere giustamente dall'emozione e non ha trattenuto le lacrime: questo successo non sarebbe stato possibile senza di lui. Indimenticabile l'abbraccio finale con Gianluca Vialli. 

LA PARTITA

Il fischio di inizio è una doccia fredda per l’Italia, che dopo 2 minuti si ritrova sotto 1-0. Gli azzurri sbagliano la pressione al centro e lasciano una prateria sul cambio di gioco a sinistra per Trippier, che ha tutto il tempo per crossare sul secondo palo, dove Shaw impatta benissimo di sinistro e manda il pallone in rete. Wembley esplode subito di gioia, l’Italia accusa il colpo. Ma col passare dei minuti gli azzurri prendono le misure in campo e iniziano a farsi vedere dalle parti di Pickford. In particolare con un’azione personale di Chiesa, che col sinistro prova a piazzarla ma esce di poco a lato. È però nel secondo tempo che l’Italia fa il vero salto di qualità, con i cambi effettuati al 55’ da Roberto Mancini: dentro Cristante e Berardi, fuori Barella (ammonito e fuori giri) e Immobile. È così che inizia il dominio azzurro, che nasconde il pallone agli inglesi senza dar loro punti di riferimento in attacco. Chiesa è imprendibile, Insigne e Berardi salgono di tono e l’Italia al 67’ trova meritatamente il pari: lo fa con Bonucci, lesto a ribadire in rete un pallone spedito sul palo da Verratti di testa. L’Inghilterra è frastornata, continua a rimanere schiacciata a ridosso dell’area di rigore ma l’Italia all’80’ perde Chiesa per infortunio.  Nonostante i 6’ di recupero, il punteggio rimane invariato: si va ai tempi supplementari. Lo spartito della partita non cambia nei primi 15' aggiuntivi, poi però gli azzurri iniziano ad accusare il grande sforzo profuso e si abbassano. Spinta dal pubblico di Wembley, l'Inghilterra ritrova coraggio e inizia ad attaccare soprattutto con Grealish, che ha dalla sua freschezza e qualità tecnica. L'Italia però riprende campo e negli ultimi 8' torna in possesso della palla, senza però riuscire a essere pericolosa. 

Euro 2020, il dietro le quinte dell'esultanza di Sergio Mattarella: ciò che non si era visto, senza precedenti. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Nel giorno del trionfo azzurro, nel giorno della vittoria dell'Italia di Roberto Mancini a Wembley contro l'Inghilterra, nel giorno del tripudio, nel giorno di Gigio Donnarumma e Leonardo Bonucci (e di tutti gli altri, ma proprio tutti), c'è molto spazio anche per Sergio Mattarella. Già, il presidente della Repubblica che era in tribuna per la finalissima. Forse mai così amato. La sua esultanza, infatti, è diventata subito virale. Un sussulto di gioia: non si alza, alza appena le braccia, poi unisce le mani. Una reazione che ricorda da vicino quella di Sandro Pertini nel 1982. Nessun applauso ma, come nota Dagospia, "sorride in modo sardonico quasi a dire tiè, beccatevi questa". Alla fine della parita le foto con il tricolore in mano e quella frase ai giocatori: "Sono orgoglioso di voi". Oggi, la Nazionale, è attesa al Quirinale per le 17. Ma di video dell'esultanza di Mattarella ce n'è anche un altro, quello che potete vedere qui. Un "dietro le quinte" della sua esultanza. Ecco il presidente della Repubblica ripreso da dietro. E in questo caso sì che si alza, abbraccia, batte le mani. E poi quello sguardo, gli occhi sgranati e un sorrisone beffardo. Insomma, l'altro lato dell'esultanza di Mattarella. Quello ancor più genuino, italiano. E bellissimo.

DA tuttomercatoweb.com il 16 luglio 2021. Dalle colonne del Corriere della Sera in edicola stamani emerge un curioso retroscena legato al trionfo dell'Italia a Wembley. Sugli spalti, accanto a Mattarella, sedeva Zbigniw Boniek, oggi vicepresidente della UEFA. Mattarella - racconta il quotidiano - ha chiesto all'ex stella di Juve e Roma un pronostico quando la partita volgeva al brutto. "Era un po’ preoccupato - ha raccontato lo stesso Boniek -, sembrava quasi che volesse essere rassicurato. L’Italia era in svantaggio, si è voltato verso di me: signor Boniek, come finisce? Gli ho risposto: tranquillo Presidente, segniamo l’uno a uno e poi non succede più niente, andiamo ai rigori". E dopo i rigori? Ha domandato un paio di minuti più tardi il Capo dello Stato: "A quel punto mi sono buttato: non sono certo che vinciamo, ma di sicuro Donnarumma ne para due. È andata proprio così, perché un tiro degli inglesi è finito contro il palo", ha concluso Boniek, che si è detto favorevolmente sorpreso della profonda conoscenza del calcio di Mattarella.

Euro 2020, il Sergio Mattarella che non ti aspetti: "E poi così è stato", la profezia prima dei rigori. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Composto ma orgoglioso, eccolo il presidente della Repubblica Sergio Mattarella sugli spalti dello stadio di Wembley per la finalissima degli Europei. Con la cravatta azzurra come la nostra Nazionale e la mascherina blu, alza le braccia, unisce le mani senza alzarsi in piedi (come invece aveva fatto Sandro Pertini), sorride e sobriamente, dice (rigorosamente non urla) "Gol". La sua esultanza sta facendo impazzire i social.  "Il presidente Mattarella prima dei rigori é stato fantastico perché ha detto: 'Siamo nella mani, no nelle manone di Donnarumma'. E poi così è stato", ha raccontato Evelina Christillin, Consigliera Uefa, ad Agorà Estate su Rai Tre, che era seduta vicino al capo dello Stato e che ha riferito le sue parole prima dei rigori. "Grande riconoscenza a Roberto Mancini e ai nostri giocatori, hanno ben rappresentato l’Italia e hanno reso onore allo sport", ha detto subito dopo la fine della partita il presidente della Repubblica che ha poi festeggiato sull'aereo presidenziale la vittoria dell'Italia ai campionati europei di calcio. "Torniamo vincitori", le parole rivolte dal Capo dello Stato all'equipaggio che lo ha applaudito. "Ha portato fortuna", le parole dei comandanti del volo a cui Mattarella ha risposto: "Tutti quanti insieme abbiamo avuto fortuna, è stata una bella vittoria". Oggi pomeriggio 12 luglio cu sarà il ricevimento al Quirinale, con gli azzurri invitati dal Capo dello Stato insieme a Berrettini.

Mario Ajello per "il Messaggero" il 12 luglio 2021. L'applauso liberatorio di Mattarella: «Abbiamo vinto». Senza enfasi, senza sceneggiate. Da Italia forte della propria forza e non servono gesti troppo retorici ed esultanze eccessivamente folk per sottolineare una squadra che c' è, eccome, e un Paese che è degno della squadra che è degna di questa Italia. Ed evviva. Ha portato fortuna la cravatta del presidente, azzurra come la maglia dei nostri. E la sua mascherina blu, come i calzoncini della squadra del Mancio. E' in tribuna d' onore Mattarella a Wembley, dove ci sono Berrettini e Djokovic, Boris Johnson con William e Kate, Tom Cruise e Beckham e Kate Moss, e nella postura, nel suo sguardo, nella maniera in cui sta sull' attenti mentre canta (sussurrandolo) l'Inno di Mameli a inizio partita il presidente della Repubblica esprime la compostezza e la forza non gridata fatta persona. Uno stile empatico, nel sorriso. Un approccio popolare e non popolaresco come quello di Pertini al Bernabeu («Non ci prendono più...», gridava sbracatamente il partigiano Sandro) nel momento in cui gioisce per il gol di Bonucci. Alza le braccia appena un po', poi unisce le mani senza neppure alzarsi in piedi (come Pertini) e senza fare l'applauso e sorride alla sua maniera, timida e quasi impercettibile, dicendo appena e senza urlare: «Gol». Tutto qui. Ed è un bello spettacolo. Alla fine del quale il presidente si fa fotografare con in mano il tricolore e manda ai giocatori tutta la sua ammirazione: «Orgoglioso di voi». «Una grande vittoria, figlia di un grande gioco», questo il suo commento a caldo. E ancora: «L' Italia è una nazione campione». Ma non c' è neanche un filo di retorica nelle parole del presidente. Convinto che il capolavoro azzurro parla da sé. Nel fuoco di Londra l'hanno sentito sussurrare: «Avanti azzurri». Ed è stato l'incarnazione di un Paese rispettabile e rispettato, della serietà che produce risultati. E' seduto affianco a Gravina, palpita ma non si sbraccia il Capo dello Stato perché non ne è capace. Risponde con un gesto della mano ai pochi tifosi italiani presenti che vorrebbero abbracciarlo e gli gridano: «Grazie Sergio». Una short form per trasmettergli l'orgoglio di italiani all' estero, fieri per tutto il terreno recuperato dall' Italia in questa fase - e il merito non è solo di Draghi lo schiacciasassi ma lo è anche e non da oggi del Colle - come Paese che ha ancora tanti problemi da risolvere ma si è messo in pista e ha ritrovato la fiducia in se stesso anche molto al di là del fatto sportivo. Basti vedere le previsioni del Pil in crescita di oltre il 5 per cento. E' partito per Londra nel pomeriggio Mattarella, insieme al capo dell'ufficio di segreteria Simone Guerrini, è stato accolto dall' ambasciatore italiano in aeroporto e poi è direttamente andato in auto a Wembley. Sale in tribuna (dove tra il primo e secondo tempo fa i complimenti a Berrettini e gli dice: «Ci vediamo al Quirinale» e dove Fabio Capello autore di uno storico gol a Wembley nel 73 gli dice: «Grazie presidente di essere qui») e comincia il match. Ogni tanto sembra mordersi il labbro o toccarsi la fede al dito quando gli inglesi vanno all' arrembaggio. L'Italia in campo gli somiglia nella tenacia, non sbracata, con cui conduce la sua partita. Osservare Mattarella palpitante in tribuna è uno spettacolo nello spettacolo. Che racconta di un Paese coriaceo e che non si risparmia tra pressing e ripartenze. Lo stesso a cui proprio Mattarella ha dato il suo timbro in questi anni: pochi grilli per la testa, e massima concentrazione nel connettere tutte le sue parti, nel tessere la tela collettiva, nel sentirsi squadra. Abbiamo definito Mattarella, alla vigilia della finale, l'uomo in più a Wembley: e lo è stato nella maniera in cui proteggeva con gli occhi i giocatori senza il bisogno di incitarli troppo. Perché si fidava di loro. Così come il presidente si fida in generale degli italiani, e perciò non è mai invasivo, didattico, retorico. L' opposto di Pertini. Non s'è imbarcato nell' aereo del ritorno in Italia con gli azzurri Mattarella, non ha giocato nessuno scopone scientifico con Mancini come il «presidente partigiano» fece nell' 82 con Bearzot. Rispetto dei ruoli e nessuna demagogia, ecco lo stile Sergio. E se Napolitano, dopo il trionfo azzurro ai Mondiali del 2006, scese negli spogliatoi per festeggiare e brindare con i campioni, Mattarella invece non lo ha fatto: se non altro per rispetto delle norme anti-Covid, che lui e tutto il Quirinale adottano in maniera assoluta, e tutto avrebbe sconsigliato il mescolarsi in un assembramento con i giocatori in una fase di attenzione sanitaria ancora così forte. Anche il ricevimento di oggi pomeriggio (diretta su Rai1) al Quirinale, con gli azzurri invitati dal Capo dello Stato insieme a Berrettini si svolgerà nei giardini proprio in ossequio alle norme sanitarie. Mattarella ha twittato: «Grande riconoscenza per Mancini e per tutti gli azzurri. Hanno ben rappresentato l'Italia e reso onore allo sport».

Mattarella fatto il Mattarella a Wembley e in hoc signo vinces.

Euro 2020, "cosa ha detto Boris Johnson a Mattarella sugli spalti": Inghilterra ko, ora si capisce tutto. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. A sentire le parole pronunciate da Boris Johnson prima del primo tempo degli Europei di domenica 11 luglio, verrebbe da dire che l'ha tirata alla.sua squadra, l'Inghilterra. Stando a quanto riportato dal Corriere della Sera, il premier inglese ha salutato sportivamente Sergio Mattarella. Proprio al presidente della Repubblica, rappresentante dell'Italia a Wembley, ha detto: "Forza Italia!". Un augurio che si è rivelato fatale. A strappare la vittoria, seppur sudata, sono stati gli Azzurri di Roberto Mancini. Nonostante tutto Johnson ha comunque accettato la sconfitta complimentandosi con la squadra inglese: "Avete giocato come eroi", ha poi twittato all'indirizzo dei calciatori inglesi: una squadra che "ha reso la nazione orgogliosa e merita un grande riconoscimento". D'altronde BoJo non è mai stato un grande tifoso, ammettendo di non capire nulla di calcio, non essendosi mai interessato. Però gli Europei sono gli Europei, soprattutto dopo la Brexit. E così, nella speranza di dimostrare la potenza inglese, Johnson in semifinale si era perfino presentato in tribuna indossando una maglietta dell'Inghilterra, cosa che ha fatto anche ieri sera. Ma evidentemente non è bastato: dopo il primissimo gol a favore dell'Inghilterra, ecco che l'Italia si è rimboccata le maniche portandosi a casa la rivincita e una bella coppa.

Giorgio Rutelli per formiche.net il 13 luglio 2021. Ieri sera Evelina Christillin, membro UEFA del Consiglio FIFA, era a Wembley, immortalata in uno scatto con il Presidente Mattarella, Matteo Berrettini e la sottosegretaria allo sport Valentina Vezzali. L’abbiamo contattata per farci raccontare cosa è successo su quella tribuna, una goccia italiana in un mare (di birra) inglese. Non male come foto ricordo di una serata storica. Berrettini è arrivato al secondo tempo e ha portato bene: l’Italia ha iniziato a giocare meglio ed è arrivato il gol di Bonucci. Fino a quel momento, la serata era stata…complicata.

Ci racconti quei momenti.

Una partenza da brividi, sia per il gol dell’Inghilterra al secondo minuto, per la pioggia fredda e per l’intero stadio che tifava contro di noi. I mille italiani sorteggiati dalla Federazione per assistere alla partita, al loro arrivo, si sono pure ritrovati i posti occupati dagli inglesi, e sono stati sparpagliati in mezzo a ultras ostili. Un clima decisamente sfavorevole, condito dalla sicurezza dei padroni di casa di avere la coppa in tasca. It’s coming home, forse qualcuno avrebbe dovuto insegnare loro l’arte secolare della scaramanzia.

Dopo un’interminabile prima parte sotto schiaffo, la Nazionale si scioglie, gli avversari si incartano, e anche voi in tribuna avete cambiato faccia.

Intorno a noi c’erano Tom Cruise, Djokovic e Beckham, ma quando durante gli intervalli Gravina e Brunelli (presidente e direttore della Figc, ndr) andavano negli spogliatoi, Valentina Vezzali e io facevamo le “guardie d’onore” al presidente Mattarella. Sono stati momenti incredibili: il gol del pareggio, i supplementari, i rigori, la tensione e l’entusiasmo alle stelle. Quando Jorginho stava per tirare dal dischetto eravamo tranquilli, memori della sua freddezza con la Spagna. Invece i giochi si sono riaperti. Per fortuna san Donnarumma ci ha messo le manone. Mattarella era davvero contento, anche se il politico british sembrava lui e non certo Johnson che…beh, faceva Boris. 

L’immagine dello stadio stracolmo di tifosi senza mascherina era un po’ straniante vista dalla tv italiana. Certo, non possiamo criticare troppo visti i caroselli nelle nostre piazze.

Ma una cosa è il rischio di contagio “spontaneo” (e difficilmente controllabile) dei festeggiamenti, un’altra è istituzionalizzarlo riempiendo Wembley fino all’ultimo posto. Quello l’ho trovato eccessivo, visto che noi membri Uefa avevamo l’obbligo di non lasciare l’hotel e di fare due tamponi al giorno. Se fossi uscita in strada per andare in un posto diverso dallo stadio, mi avrebbero fatto 10mila sterline di multa. Il tutto mentre in giro c’era il delirio.

Ma l’Uefa non ha insistito per avere gli stadi pieni?

Certo che no! Si è diffusa un’idea distorta: noi avevamo chiesto un minimo di presenza sugli spalti, intorno al 20-25%, che infatti è stato rispettato all’Olimpico di Roma e in altri stadi. Sono stati poi i singoli Paesi a decidere la capienza massima. Solo gli inglesi hanno scelto il “liberi tutti”, con grande scorno della Germania. 

In ogni caso è stato un successo per l’Uefa, soprattutto a poche settimane dalla crisi scatenata dalla SuperLega.

Sì, se penso poi che l’ultima riunione del comitato esecutivo – prima di quella che si è svolta ieri a Londra – è stata quella di Montreux, in cui eravamo nel pieno della tempesta SuperLega, non mi sembra vero di essere qui oggi a festeggiare. Certo, a livello organizzativo è stato un bel rompicapo, Boniek mi ha raccontato delle difficoltà della nazionale polacca che ha dovuto fare due volte avanti e indietro tra Lisbona e San Pietroburgo. O gli svizzeri in due occasioni a Baku. Gli inglesi sono stati fortunati, ma anche all’Italia è andata bene con le prime partite in casa e poi le trasferte a Monaco e Londra. Tutto sorteggiato, sia chiaro, ma credo che Ceferin non intenda ripetere questa formula.

La Nazionale è appena stata ricevuta al Quirinale e a Palazzo Chigi da Mario Draghi. Mancini, Vialli, Evani hanno costruito una squadra di ragazzi che sembrano pazzi l’uno dell’altro.

Chissà se la mancanza di calciatori-star non sia il segreto del loro successo. Forse l’unico “mitico” è Donnarumma, ma il portiere non è quasi mai prima donna, anzi è spesso una figura che unisce lo spogliatoio. 

Quindi la rosa è già confermata per i Mondiali del Qatar, che iniziano a novembre 2022?

In tre anni da quella maledetta eliminazione con la Svezia, Mancini ha fatto un miracolo, e il nucleo principale non cambierà. Spero che Giorgio Chiellini (37 anni tra un mese, ndr) sia nella stessa forma di queste settimane. Non era sicuro il suo ruolo da titolare e ieri si è fatto 120 minuti senza battere ciglio. Con Bonucci sono due colonne della difesa, e non lo dico solo da juventina: credo che rivedremo anche dei giovani che hanno giocato in Nazionale prima degli Europei e poi sono stati tagliati per rispettare il limite dei convocati. Altre sorprese verranno da Raspadori e Pessina, che abbiamo visto poco in questo torneo ma che hanno grande potenziale. Ora serve solo che Mancini trovi un centravanti della nouvelle vague da portare in Qatar. Chiesa è stato eccezionale, ma non è il suo ruolo. 

Prima del Qatar ci sono le Olimpiadi di Tokyo, che iniziano il 23 luglio. Lei che organizzò quelle invernali di Torino nel 2006, come vede i Giochi al tempo del Covid?

Purtroppo non sarà una festa come questi Europei. Organizzare un’Olimpiade è un’impresa titanica, soffro per i miei colleghi giapponesi che l’anno scorso hanno visto saltare l’evento a tre mesi dal via e quest’anno, a una manciata di giorni, scoprono che non ci potrà essere il pubblico ad assistere alle gare. Non mi sarei augurata uno “scenario inglese” con gli spalti gremiti, ma almeno una capienza ridotta. Immaginare la finale dei 100 metri senza pubblico mi mette un po’ di tristezza. Non sarà facile. Gli unici che se ne accorgeranno meno saranno i nuotatori, sott’acqua il pubblico non si sente. 

Evelina Christillin per "la Stampa" il 13 luglio 2021. (...) Il vero british, per aplomb, stile e compostezza, è un italiano: Sergio Mattarella. Vederlo, così sereno, e pensare che potremmo anche farcela è un tutt' uno col recedere dei corvi che tornano, se non proprio farfalle, almeno passerotti. Il Presidente non si scompone neanche dopo che la Perfida Albione ci infilza con un gol maledetto dopo appena due minuti, e ci scatena contro una pioggia battente che nemmeno Turner avrebbe potuto dipingere più britannica di così. «E' ancora lunga» Ed ha ragione, perché poi l'Italia rinasce, e raggiunge il pareggio con Bonucci dopo un flipper di palloni davanti alla porta di Pickford E il mondo gira. O almeno, il gioco gira. Certo, Presidente, «è ancora lunga», così sorride, e continua a sorridere composto. Arriva anche l'eroe di Wimbledon, Matteo Berrettini, a sostenere l'Italia, ed è l'incontro che sintetizza il meglio di questo nostro amatissimo Paese: un Padre nobile, un Figlio coraggioso. Bello, bellissimo, tremendo: arriviamo ai rigori nella bolgia più assoluta, coi sessantamila inglesi che, chissà, forse iniziano a capire che non avevano già vinto la partita prima di giocarla. Qualcuno non se la sente di guardarli, troppa tensione; Sergio e Matteo invece si, ed è in quella sequenza fatale che si rivela tutta la bellezza di questo straordinario spettacolo che è il gioco del calcio. «Siamo nelle mani di... nelle manone di Donnarumma», e mai predizione fu più giusta, Presidente. (...)  

Euro 2021: campioni. Ragù di capra di Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 12 luglio 2021. Roberto Mancini piange abbracciato all'amico di una vita, Gianluca Vialli. Spinazzola saltella con le stampelle per andare, primo dei ventisei azzurri, a prendersi la medaglia alla premiazione. Chiesa telefona a casa Chiesa dove c'è un altro ex nazionale, suo padre. Matteo Berrettini, fresco di onorevole sconfitta a Wimbledon, razzola su un'erba più ospitale. Sergio Mattarella si pertinizza con senso della misura sotto un cappottone da inverno in Kamčatka. I calciatori inglesi si tolgono dal collo la medaglia del perdente appena dopo averla ricevuta, con uno scatto d'ira. I tifosi inglesi invece sono già corsi a casa per non guardare Wembley colorata ma non di bianco. La galleria fotografica della vittoria italiana nell'Europeo è bella, è pulita ed è meritata. La lode maggiore tocca a Mancini, caso abbastanza raro. Vincere con questi uomini dopo quindici anni dall'ultimo mondiale e 53 dall'ultimo Europeo non era né facile né scontato. L'avversario della finale, il peggiore possibile, era l'Inghilterra trionfatrice autodesignata sotto lo slogan “football is coming home”.

Is it? La casa del calcio è il mondo e i 60 mila fischiatori di Londra non sono bastati a fermare gli azzurri, vincitori secondo tradizione con il gruppo, con la squadra, con quella coesione che sappiamo trovare soltanto nel calcio o nei momenti immediatamente successivi alle catastrofi. Non ci sono molti fuoriclasse in questa Italia. C'è però un'idea di gioco che sa di non potere essere monotono in attesa che il campione o il centravanti cinico e baro tolgano le castagne dal fuoco. Perciò Mancini merita 10 e lode, oltre al posto d'onore nella galleria dei più grandi commissari tecnici della nazionale italiana. E forse non sarà l'unica né l'ultima soddisfazione che si toglierà.

La partita. Si inizia con la cerimonia di chiusura del torneo. Ballerini e ballerine, tutti con maschera, e solito sottofondo di musica pacchiana pseudo-Händel. Sugli spalti, né Händel né mascherine. Prima del calcio di inizio arriva Eder con la coppa coperta di nastri angloitaliani. Eder, per chi non lo avesse riconosciuto, cioè quasi tutti, è l'autore dell'unico gol nella finale vinta dal Portogallo nel 2016. Era entrato dalla panchina ed è rimasto a quel momento di gloria. Oggi gioca nel Lokomotiv Mosca. Sic transit. Le formazioni vedono l'Italia in formazione tipo. L'Inghilterra invece sacrifica Saka per mettere Trippier, sistemato sulla sua fascia destra. La scelta di Gareth Southgate premia i bianchi perché dopo gli sportivissimi ululati contro l'inno di Mameli e un angolo regalato da “Capasuna” Maguire al primo minuto, è subito 1-0 per i padroni di casa con un'azione che parte proprio dal piede dell'inglese colchonero. A segnare su cross di Trippier è il multitasking Shaw. Collaborano con lui un Di Lorenzo assenteista e Donnarumma che copre male il primo palo. Il portierone avrà modo di riscattarsi. Il terzino destro azzurro invece passa un'ora in balia degli eventi prima di dare segnali di risveglio. Lo stesso fa a sinistra Emerson che chiuderà in crescendo. Nonostante la rete a freddo l'Italia produce gioco e pericoli sotto porta. Ma la scossa vera è verso il 55' quando escono Immobile, sconosciuto al battaglione da quattro partite, e Barella, schiacciato dall'emozione.

Il gol arriva con Bonucci, dopo una mischia in area con fallo da rigore su Chiellini. Gli inglesi sbandano, hanno visibilmente paura. Ma l'Italia non riesce a piazzare il colpo del ko e sembra accontentarsi di tenere a lungo il controllo del gioco. I due centrali azzurri sovrastano Kane e obbligano Sterling a esibirsi in ciò che gli riesce meglio. Per fortuna il telecronista Rai è Bizzotto che, oltre al calcio, segue anche i tuffi. Abbastanza misurata anche Katia Serra, salvo un paio di escursioni nel misticismo come quando evoca le “transizioni negative” dei nostri avversari. L'arbitro olandese Kuipers, al passo d'addio, ammonisce a senso unico ma si limita a porcheriole di piccolo cabotaggio, com'era previsto. Si fa male Chiesa, purtroppo, e senza l'attaccante più pericoloso i bianchi riprendono campo. Ma alla fine dei 120 minuti il loro saldo rimane quel tiro in porta di Shaw, 118 minuti prima. Poco per vincere il primo Europeo, soprattutto perché ai rigori viene fuori l'ingombrante personalità di “mani di pietra” Donnarumma che oscura la porta a tre inglesi su cinque (un palo esterno più due parate). L'Uefa lo premia come miglior giocatore del torneo, il che dà un'idea sbagliata e di comodo di quanto hanno mostrato in campo gli azzurri. Ma se all'estero regge lo stereotipo dell'italiano pizza, mandolino e catenaccio, per stasera va bene anche a noi. In Italia si festeggia. In Scozia pure.

Le pagelle. Jorginho vale 9,5 ossia soltanto mezzo voto in meno rispetto al ct. Salvo che contro la Spagna ha giocato un torneo di assoluto dominio. Donnarumma è nel gruppo che merita 9. Con lui sicuramente Chiellini e Chiesa.

A quota 8,5 ci sono lo sfortunato Spinazzola e Bonucci. Prendono 7,5 Verratti e Barella a centrocampo, bravi nonostante qualche discontinuità. Lo stesso voto vale per Insigne, capace di cantare e portare la croce. Nel lotto del 7 vanno Locatelli e Pessina, a confermare che la mediana è stata la vera carta vincente della nazionale.  Molti sono qui dall'inizio, nel lontano 2010. Sanno anche che nei tornei raccontati mancava una vittoria dell'Italia. Abbiamo aspettato un bel po'. Ne è valsa la pena. Anche la selezione caprina è stata all'altezza. Grazie a tutti, ragazzi, ragazze, amiche, amici, avatar e doppelgänger. Godiamoci questa vittoria. 

Guido De Carolis per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2021. Il primo pensiero è andato a Leonardo Spinazzola. Il secondo anche. Jorginho aveva appena infilato il rigore vincente contro la Spagna, gli azzurri avevano da poco conquistato la finale, ma lì sul campo di Wembley in mezzo alla festa degli azzurri è spuntata la maglia numero 4 di Spinazzola, esposta come un trofeo da Lorenzo Insigne. È stato l'omaggio del gruppo Italia al compagno. «Ci ha mandato un messaggio prima della partita, il successo lo dedichiamo a lui», le parole del portierone azzurro Gigio Donnarumma, eroe di Wembley. «Abbiamo un motivo in più per dedicare la finale a Spinazzola, perderlo è stato un colpo duro, ma lui ci ha dato forza anche dopo l'intervento», le parole di Leonardo Bonucci. Gli ci vorranno cinque-sei mesi per tornare in campo, lui che l'ha lasciato in una notte dolce per l'Italia. Un dolore lancinante dentro la partita più bella. Il petto scosso dalle lacrime. Le mani sul viso. L'Europeo di Leonardo Spinazzola è terminato così, a poco più di dieci minuti dalla fine della sfida nei quarti di finale contro il Belgio. Fatale per il romanista l'ennesimo scatto di una partita generosissima. L'esterno azzurro, uno tra gli uomini più veloci dell'Europeo capace di raggiungere i 33,8 km/h, è ripartito di slancio, prendendo in controtempo l'avversario, ma sulla corsa ha perso l'appoggio, ha sentito male. Ha capito la gravità della situazione. Gli si è fatto vicino il compagno di squadra Cristante, ha tentato di consolarlo, il 28enne ragazzo di Foligno è scoppiato in un pianto a dirotto. I giocatori del Belgio protestavano, pensavano a una perdita di tempo, forse a una simulazione e se la sono presa con lo staff medico azzurro, mentre i tifosi dei Diavoli Rossi hanno fischiato l'azzurro singhiozzante, in barella. «Leonardo era tra i migliori giocatori dell'Europeo e lo sarà comunque anche se non scenderà più in campo perché è stato veramente bravo» le parole del c.t. Mancini, nella pancia dell'Allianz Arena di Monaco, subito dopo aver fatto fuori il Belgio. Aveva ragione. I compagni azzurri però gli sono stati sempre accanto. Sull'aereo di ritorno dalla Germania il coro «Spina, Spina», intonato da Federico Bernardeschi, era tutto per lui, sfortunato attore protagonista. «Tanti sono dispiaciuti per il suo infortunio? Pensate a me, il ritorno in campo non sarà prima di gennaio. Diventerà come un acquisto del mercato invernale. Spinazzola è uno positivo», la coccola di José Mourinho, nuovo tecnico della Roma che lo aspetta a braccia aperte. Lo Special One dopo averlo chiamato per rincuorarlo, lo ha voluto salutare di persona. Un rapido scambio di battute a Trigoria, sufficiente per mostrargli la vicinanza sua e del club giallorosso. Il terzino ha deciso di operarsi in Finlandia, a Turku. Sotto i ferri se ne sono presi cura i professori Orava e Lempainen. Poi il rientro a Roma, l'inizio della riabilitazione e una promessa. «Ci vediamo presto», il messaggio ai compagni azzurri che dovevano ancora giocare contro la Spagna. Spinazzola ha disputato quattro partite all'Europeo, per due volte - contro Turchia e l'Austria - era stato il migliore in campo dell'Italia. Il flash più bello della sua serata maledetta era arrivato pochi minuti prima del gravissimo infortunio: un salvataggio di coscia sulla linea di porta, dopo una deviazione di Lukaku. L'uomo giusto al posto giusto. Poco dopo il suo Europeo si è chiuso su quello scatto generoso. «Tornassi indietro, riproverei quell'allungo. Lo farei altre cento volte ancora per andare a prendere un metro in più all'avversario e spostare la partita dalla nostra parte. Niente di straordinario, sono le regole degli azzurri: in fondo a quest' avventura ci arrivi solo se sei disposto a dare l'anima per i tuoi compagni». Iniziava così la lettera che Leonardo Spinazzola ha dedicato ai compagni di Nazionale prima della finale con l'Inghilterra. A Wembley c'era anche lui. «L'infortunio mi ha strappato al campo ma non poteva portarmi via dal gruppo: anche mio figlio Mattia, tre anni appena, ha capito che papà, sul divano di casa, nel giorno della finale proprio non ci poteva stare». «Sono emozionato, non lo nascondo. Quando sono salito sull'aereo per Londra sono rinato un po': tra poche ore sarò in campo con i ragazzi e in tribuna con il Paese, poteva andare meglio ma anche peggio». Il trionfo di Wembley lo aiuterà a guarire.

Da corriere.it il 13 luglio 2021. "Ma la sono meritata", Così Leonardo Bonucci, difensore della nazionale campione d'Europa, aprendo una birra in conferenza stampa, dopo il trionfo azzurro. Poi un sorso di Coca Cola e infine un selfie con il mister.

Il cammino dell’Italia ad Euro 2020. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 12 luglio 2021. Ecco il cammino dell’Italia di Roberto Mancini a Euro 2020 fatto di successi travolgenti ma anche di partite cariche di sofferenza. Si parte con un Girone eliminatorio trionfale a cominciare dall’esordio spumeggiante contro la Turchia, replicato poi con la Svizzera, fino alla ciliegina sulla torta nella sfida contro il Galles. Poi l’Austria agli Ottavi, una partita che ha reso possibile agli azzurri di infrangere ben tre record. Cadono, infatti, l’imbattibilità di Zoff, le vittorie consecutive e i risultati utili consecutivi. Il temibile Belgio di Lukaku ha atteso gli azzurri ai Quarti di Finale ma il collettivo di Mancini non si è fatto intimorire e con due reti fatte (ed una subita su rigore da Lukaku) archivia la pratica.

Prosegue così il cammino dell’Italia ad Euro 2020. In Semifinale contro le furie rosse della Spagna le cose non si mettono bene. Tanta sofferenza malgrado l’Italia sia passata in vantaggio con un eccellente rete di Chiesa. Il pari di Morata spinge le due nazionali prima ai supplementari e poi ai rigori dove grazie ad una prodezza di Donnarumma l’Italia conquista la finale contro l’Inghilterra.

La finale contro l’Inghilterra è partita male, malissimo con una rete subita dopo appena 120 secondi ma è stata vinta all’Italiana. Una partita vinta mostrando l’orgoglio di una nazione, di una squadra, di un gruppo capace di rimettere a posto le idee e riportare in Italia il Campionato Europeo. Determinante il sangue freddo dei giocatori e, in particolare, di Gigio Donnarumma capace di parare ben 2 rigori agli inglesi. Francesco Ridolfi

Italia, che debutto all'Europeo: schiacciata la Turchia. su Il Quotidiano del Sud l'11 giugno 2021. Se il buongiorno si vede dal mattino, l’Europeo dell’Italia potrebbe entrare nella storia. Con una grande prestazione, la Nazionale di Roberto Mancini annienta la Turchia per 3-0 nella gara di esordio di Euro 2020. Un autogol di Demiral, le reti di Ciro Immobile (numero 14 in maglia azzurra) e Lorenzo Insigne regalano agli Azzurri i primi tre punti del girone e sono già un viatico importante verso la qualificazione agli ottavi di finale. Prova super dell’Italia, che ha dominato la Turchia per tutti i novanta minuti con un pressing furioso e un palleggio sempre efficace. È mancata un po’ di precisione nel primo tempo quando la partita si sarebbe potuta già sbloccare, nella ripresa però dopo il vantaggio non c’è stata più storia. Non è bastato alla Turchia il messaggio di incitamento di Erdogan, la squadra di Gunes non è mai entrata in gara limitandosi solo a difendere senza proporsi quasi mai. Per Mancini sono 28 risultati utili consecutivi (-2 dal record di Pozzo), ma è anche la nona partita di fila senza subire gol. Ora vietato esaltarsi perché la strada che porta a Londra è ancora lunga: mercoledì c’è la Svizzera, avversario ostico e probabilmente qualitativamente superiore a questa Turchia. In caso di vittoria, però, gli Azzurri potrebbero già staccare il pass per gli ottavi.

Le formazioni in campo. Tutto come previsto nella formazione dell’Italia. Il ct Mancini schiera un 4-3-3 con Donnarumma in porta; in difesa Florenzi a destra, Bonucci e Chiellini centrali, Spinazzola a sinistra; a centrocampo Barella, Jorginho e Locatelli al posto di un Verratti ancora non al meglio; il tridente offensivo è invece composto da Berardi, Immobile e Insigne. In panchina Chiesa e Belotti.

Nella Turchia occhi puntati sugli “italiani” Demiral e Calhanoglu ma sopratutto il bomber Yilmaz. In panchina Under. In tribuna le massime cariche dello Stato, a partire dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Sugli spalti anche i vertici del calcio italiano ed europeo. Presenti poco meno di 16mila spettatori, nel rispetto delle norme anti Covid e del distanziamento sociale. Tanti i tifosi turchi, circa 3mila sparsi per tutto lo stadio.

Pronti via: i primi 45 minuti bloccati sullo 0-0. Pronti, via e Italia subito pericolosa con Immobile che non trova la porta da posizione defilata, su cross basso dalla destra di Berardi. È la squadra di Mancini a fare la partita, con la Turchia compatta a difesa della propria area di rigore. Si fanno sentire i circa 13mila tifosi italiani sugli spalti dell’Olimpico, non sono da meno le migliaia di turchi che assiepano le tribune. Non è facile trovare spazio nelle strette maglie della difesa turca, gli azzurri poi devono anche stare attenti per evitare le rapide ripartenze di Calhanoglu e compagni. Poco dopo il quarto d’ora la partita si accende: prima l’Italia protesta per un tocco di mani sospetto in area di un difensore turco su cross di Spinazzola (Var silente). Sulla prosecuzione dell’azione è Insigne ad avere la prima grande occasione della partita, ma il suo destro a giro dopo un uno-due al limite con Berardi termina a lato. Ci prova poi dalla distanza anche Bonucci, il suo destro termina a lato. Azzurri ancora vicini al gol al 21′ con un colpo di testa di Chiellini su calcio d’angolo, sventa miracolosamente Cakir. E’ soprattutto a sinistra che l’Italia spinge, con l’asse Insigne-Spinazzola che mette in continua crisi la retroguardia turca. Alla mezzora proprio da una iniziativa di Insigne, l’Italia costruisce un’altra azione pericolosa con Berardi che crossa in mezzo dove Immobile di testa manda la palla di poco a lato. Cinque minuti dopo primo vero affondo turco, con Yilmaz che fugge a sinistra e mette la palla in mezzo per un compagno ma Donnarumma sventa in uscita. Prima dell’intervallo ci provano dalla distanza Insigne e Berardi, ma senza esito. Ancora brividi per un destro rasoterra di Immobile parato a Cakir e una chiusura in area di Chiellini su Yilmaz molto rischiosa. Infine il Var interviene ma non sanziona con il rigore una respinta evidente con il braccio largo di Celik su cross del solito Spinazzola.

La ripresa e il cambio di passo protagonista il calabrese Berardi. Nell’intervallo esce Florenzi, evidentemente non al meglio, ed entra Di Lorenzo. Un cambio anche nella Turchia, dentro l’ex Roma Under per Yazici. Proprio il neo entrato ha subito una buona occasione in contropiede, ma il suo sinistro sul primo palo viene bloccato a terra da Donnarumma. Al 53′ esplode l’Olimpico per il gol dell’Italia: Berardi viene innescato sulla destra, entra in area e sul suo cross basso Demiral commette il più classico degli autogol per impedire ad Immobile di segnare. Determinante l’azione del calciatore del Sassuolo . Vantaggio meritato per gli Azzurri, di fatto alla prima occasione della ripresa. Sulle ali dell’entusiasmo, Italia subito vicina al raddoppio con Spinazzola fermato da Cakir. Ci provano poi Insigne e Locatelli con due destri a giro, da posizioni diverse, ma senza fortuna. Gli Azzurri non si accontentano e continuano a chiudere la Turchia nella propria metà campo, dopo un bel recupero di Di Lorenzo è ancora Berardi ad avere una palla buona ma il suo sinistro viene deviato da un difensore. Al 65′ il raddoppio meritato dell’Italia, firmato da Immobile bravo a ribadire in rete una respinta di Cakir su un destro da centro area di Spinazzola. La Turchia è alle corde e al 79′ l’Italia cala il tris con Insigne, bravo a battere con un destro a giro da centro area su assist in profondità di Immobile dopo l’ennesima palla recuperata a metà campo. Nel finale, Mancini concede spazio anche a Cristante, Belotti, Chiesa e Bernardeschi per Locatelli, Immobile, Insigne e Berardi. Al triplice fischio dell’arbitro, esplode la gioia dell’Olimpico sulle note dell’Inno di Mameli cantato a squarciagola da quasi tutto lo stadio. Son tornate le notti magiche…La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. 

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Europei di calcio, l'Italia batte anche la Svizzera: doppietta di Locatelli poi Immobile. Il Quotidiano del Sud il 16 giugno 2021. Altra serata perfetta per l’Italia, altra serata di festa all’Olimpico di Roma. Gli azzurri di Mancini battono anche la Svizzera ripetendosi dopo il successo all’esordio con la Turchia, strappando quindi già il pass per gli ottavi di finale di Euro 2020. Nella Capitale il protagonista che non ti aspetti risponde al nome di Manuel Locatelli, che firma una doppietta straordinaria nel 3-0 chiuso dal sigillo di Immobile. Si tratta della decima vittoria di fila senza subire reti per l’Italia, che nella sfida di domenica contro il Galles si giocherà il primo posto del Gruppo A (basta anche un pareggio contro i dragoni). Rispetto alla gara inaugurale con la Turchia, Roberto Mancini fa solo un cambio nell’undici titolare azzurro: spazio a Di Lorenzo lungo la corsia destra al posto dell’infortunato Florenzi, alle prese con un risentimento al polpaccio. A sinistra ancora una volta Spinazzola, mentre al centro della difesa Bonucci e Chiellini a far schermo davanti a Donnarumma. Centrocampo a tre formato da Barella, Jorginho e Locatelli, mentre in attacco agiscono nuovamente Immobile con Berardi ed Insigne ai suoi lati. I ritmi sono subito altissimi in avvio, con la Svizzera aggressiva e che non rinuncia a proporre il proprio gioco, a differenza di quanto fatto vedere dai turchi venerdì scorso. La prima grande palla gol della sfida, però, capita all’Italia allo scoccare del decimo minuto: il solito Spinazzola sfonda a sinistra e crossa in mezzo, Immobile ha tutto il tempo di colpire ed indirizzare con la testa ma la mette alta sulla traversa, fallendo una grande chance. È la fiammata che dà coraggio agli azzurri, che prendono in mano il pallino del gioco e che al 18’ troverebbero il gol del vantaggio. Segna Chiellini sugli sviluppi di un corner, ma un tocco di mano dello stesso difensore induce il Var ad intervenire annullando la rete. Sfortunato il capitano azzurro, costretto anche pochi minuti più tardi a lasciare il posto ad Acerbi a causa di un altro maledetto infortunio muscolare.

L’Italia però non si scompone e al 26’ trova il meritato e stavolta regolarissimo gol del vantaggio: Locatelli sventaglia per Berardi e, dopo una corsa di 60 metri, va a raccogliere l’ottimo assist dello stesso compagno firmando da due passi l’1-0 tutto di marca Sassuolo. La Svizzera fa più difficoltà a mettere fuori il naso, mentre la formazione di Mancini resta più guardinga in attesa della ripartenza giusta per colpire. Al 34’ Immobile costringe Sommer all’uscita bassa, Insigne raccoglie la respinta e tenta il difficile lob per scavalcarlo, ma Akanji è appostato all’altezza del secondo palo e allontana il pericolo. Più clamorosa e importante invece l’occasione che capita a Spinazzola un paio di azioni dopo, con il terzino della Roma che ha campo aperto per correre verso la porta di Sommer, decidendo però di calciare (male) di destro anziché provare di mancino. Questo l’ultimo vero squillo di un primo tempo in cui l’Italia ha dimostrato grande temperamento e capacità di gestione del ritmo di gioco, soffrendo poco le iniziative di una Svizzera comunque viva. Al rientro dall’intervallo Petkovic opera subito una sostituzione per smuovere qualcosa in attacco, inserendo Gavranovic al posto di un Seferovic un po’ troppo in ombra. I rossocrociati partono più aggressivi, ma al 52’ è l’Italia a colpire nuovamente alla prima sortita offensiva della ripresa. Barella serve Locatelli appena fuori area in posizione centrale, il centrocampista del Sassuolo controlla e con il mancino fulmina Sommer per la bellissima doppietta personale e il 2-0 azzurro. Colpo durissimo quello incassato dalla Svizzera, che perde morale e lascia campo agli uomini di Mancini, sempre più in controllo del match. Superata da poco l’ora di gioco la squadra di Petkovic prova con orgoglio a rimettersi in corsa, ma trova sulla propria strada un ottimo Donnarumma, bravissimo ad evitare il gol di Zuber che avrebbe riaperto improvvisamente la sfida. Sul ribaltamento di fronte è Berardi ad avere sul mancino la palla del tris, calciata però alta sopra la traversa. Prova a farsi rivedere in avanti anche Immobile al 73’ e poi al 76’, ma l’attaccante della Lazio spreca le due chances prima con il destro e successivamente con il mancino, fallendo quelli che sarebbero stati a tutti gli effetti due pesanti match points. Il centravanti azzurro si rifà nel finale con la complicità di Sommer, realizzando il 3-0 che fa calare il sipario sul match.

Mancini soddisfatto. “Partita durissima ma la vittoria ce la siamo meritata”. Lo ha detto il ct della Nazionale Roberto Mancini ai microfoni della Rai, al termine di Italia-Svizzera vinta dagli azzurri per tre reti a zero. “Abbiamo avuto occasioni, i ragazzi sono stati bravissimi, non era semplice – ha aggiunto il tecnico – e c’era un gran caldo. Abbiamo speso tanto. Chiellini? Speriamo che non sia niente di grave, vedremo domani. Il Galles? dobbiamo giocare per vincere. Dedico questa serata a tutti. A tutti quelli che soffrono e stanno male in particolare”.

Euro 2020, Italia batte Galles 1-0: azzurri agli ottavi a punteggio pieno. Squadra rivoluzionata per la sfida contro i dragoni: decide Pessina al 39’. Terza vittoria in tre gare per la Nazionale. Il Quotidiano del Sud il 20 giugno 2021. L’Italia batte il Galles per 1-0 nella terza e ultima giornata del Girone A di Euro 2020. Gli azzurri, già qualificati agli ottavi di finale, si impongono con il gol di Pessina (39′), centrano il terzo successo di fila e sono primi nel gruppo a punteggio piena. Il Galles chiude con 4 punti come la Svizzera, che batte 4-1 la Turchia, ma è secondo per la miglior differenza reti e passa agli ottavi. La selezione elvetica può sperare nella qualificazione: può essere ripescata tra le 4 migliori terza. L’Italia tornerà in campo il 26 giugno a Londra. Cinque azzurri si inginocchiano per mostrare sostegno alla campagna Black Lives Matter prima dell’inizio del match con il Galles. Belotti, Bernardeschi, Emerson, Pessina e Toloi si sono inginocchiati, come hanno fatto tutti i calciatori della nazionale gallese.

LA PARTITA

In formazione ampiamente rimaneggiata -con 8 cambi nello schieramento titolare- l’Italia cerca di fare la partita sin dalle prime battute. Il caldo si fa sentire, il ritmo in avvio non è propriamente forsennato. La Nazionale prende progressivamente il controllo delle operazioni e si insedia nella metà campo avversaria. La pressione azzurra aumenta dal 10′, con le iniziative di Chiesa e Emerson che provano ad allargare la manovra sulle fasce. Il Galles arretra e fatica a ripartire, accontentandosi di arginare la manovra dei padroni di casa. La porta gallese non corre reali pericoli nei primi 20 minuti: Ward deve limitarsi ad un paio di interventi di routine. Al 24′ Italia pericolosissima. Bernardeschi innesca Belotti, che da posizione defilata prova il diagonale destro: la palla attraversa tutto lo specchio della porta, Chiesa non arriva in tempo per il tap-in. La gara si accende e anche il Galles si fa vivo davanti. Al 26′ Gunter, su corner da sinistra, trova il tempo per il colpo di testa: palla a pochi centimetri dall’incrocio. Dall’altra parte, il più attivo è Chiesa: diagonale potente da posizione defilata, Ampadu devia in corner. L’Italia sfonda al 39′. Punizione di Verratti dalla trequarti destra, Pessina tocca al volo e spedisce la palla nell’angolo: 1-0. Gli azzurri, dopo il vantaggio, mantengono il controllo delle operazioni: a centrocampo giganteggia Verratti, il Galles si accontenta di andare a riposo con lo svantaggio minimo. La Nazionale gioca in scioltezza anche in avvio di ripresa e al 52′ va vicina al raddoppio. Bernardeschi calcia una posizione da oltre 22 metri, il sinistro si stampa sul palo con Ward battuto. Bernardeschi è protagonista anche dell’azione che al 55′ porta all’espulsione di Ampadou. Il difensore, in ritardo, entra col piede a martello e rifila un pestone all’azzurro: cartellino rosso diretto, Galles in 10 per l’ultima porzione di gara. Serve una gran parata di Ward al 64′ per negare il gol a Belotti, che calcia a botta sicura da pochi passi dopo l’ennesima iniziativa dell’indemoniato Chiesa. Il Galles esce dalla trincea e va vicinissimo al pareggio al 75′. La torre di Rodon diventa un assist splendido per Bale che, ignorato dalla difesa azzurra, può calciare al volo da ottima posizione: il sinistro è sgangherato, pallone in curva. L’ultimo quarto d’ora scivola via tra una raffica di sostituzioni che non incidono sull’epilogo del match. Italia avanti tutta a punteggio pieno.

L’Italia infrange 3 record e vola ai quarti, l’Austria si arrende ai supplementari. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 26 giugno 2021. L’Italia non domina ma soffre, e tanto, e dopo l’entusiasmo e l’esaltazione del girone di eliminazione si scopre in difficoltà ma si scuote e nel primo tempo supplementare infiamma la partita batte l’Austria 2-1. Un risultato che consente agli Azzurri di qualificarsi per i quarti di finale che si giocheranno a Monaco di Baviera il prossimo 2 luglio contro la vincente della sfida tra il Portogallo di Ronaldo e il Belgio di Lukaku. A Wembley la Nazionale di Roberto Mancini diventa la Nazionale dei Record: batte il record di imbattibilità di Zoff, batte il record di vittorie consecutive (12), batte il record di risultati utili consecutivi (31) che fu del mitico Pozzo e si aggrappa alle reti di Chiesa e Pessina per continuare il cammino ad Euro2020. Prima del fischio d’inizio gli azzurri decidono di non inginocchiarsi per il movimento Black Lives Matter, ma le critiche e il dibattito politico sembrano non distrarre l’Italia, almeno nei primi minuti. La Nazionale di Mancini impiega poco per prendere le misure ad Alaba e compagni che, a differenza di Turchia e Galles, optano per un’ostinata costruzione dal basso che funziona almeno per 15’. Da quel momento iniziano le palle gol degli azzurri. Al 17’ Spinazzola sfonda sulla sinistra e scarica per Barella il cui tiro è deviato coi piedi da Bachmann. Al 33’ sale in cattedra Ciro Immobile: ricevuta palla fuori area, l’attaccante biancoceleste conclude a sorpresa in porta e colpisce l’incrocio dei pali. Se nel primo tempo, pur soffrendo, l’Italia aveva costruito diverse azioni da gol nella ripresa la sfida inizia con una serie di brividi per gli azzurri: Di Lorenzo stende Arnautovic al limite dell’area, Alaba su punizione non trova la porta. Al 62’ si accende Sabitzer: tiro da fuori deviato da Bonucci in corner. Tre minuti dopo, al 65’ minuto, arriva la rete dell’Austria con Arnautovic, gol che però viene annullato per fuorigioco al termine di un lungo controllo al Var. Sicuramente l’undici di Mancini accusa il colpo e il commissario tecnico capisce che è il momento di cambiare: fuori Barella e Verratti, dentro Locatelli e Pessina. All’83’ la chance più clamorosa: Spinazzola va sul fondo e crossa per Berardi che sbaglia la rovesciata. Nuovo cambio, esce proprio Berardi sostituito con Chiesa mentre Immobile lascia il campo a Belotti. Il risultato non cambia e si va ai supplementari. Proprio ai supplementi cambia tutto. Palla geniale di Spinazzola per Chiesa che doma con la testa e poi aggancia e calcia in rete la palla col mancino siglando il vantaggio al 95’. Dieci minuti dopo, al 105’ il raddoppio: Acerbi ostinato arpiona una palla in piena area e appoggia su Pessina che incrocia col mancino e firma il 2-0. La partita non è finita perché al 114’ Kalajdzic di testa da calcio d’angolo batte Donnarumma sul suo palo e riporta in partita l’Austria. Gli ultimi minuti di apprensione non sono determinanti per gli austriaci con l’Italia che gestisce gli attacchi e vola ai quarti.

A Euro2020 è grande Italia: battuto il Belgio, siamo in semifinale. Il Quotidiano del Sud il 2 luglio 2021.  Un’Italia da applausi non si ferma più e approda in semifinale agli Europei per la quinta volta nella sua storia. Al termine di una partita durissima e sofferta, gli azzurri superano il Belgio per 2-1 grazie ai gol di Barella e Insigne e martedì sera a Wembley sfideranno la Spagna per un posto in finale. I ragazzi di Mancini, protagonisti di una prestazione di cuore nonostante le tante difficoltà dovute alle incursioni di De Bruyne e Lukaku – autore su rigore del gol dei Diavoli Rossi – conquistano con merito la sfida dell’Allianz Arena di Monaco di Baviera e adesso possono davvero sognare di alzare il trofeo continentale. Avvio vivace da una parte e dall’altra, dopo tredici minuti c’è un gol annullato agli azzurri dopo un intervento del Var che rileva il fuorigioco di Di Lorenzo autore dell’assist per Bonucci. L’Italia accusa il colpo a livello psicologico e rischia di sbandare più di una volta sui contropiedi micidiali dei Diavoli Rossi, vicinissimi al gol con le conclusioni di De Bruyne – recuperato in extremis – e Lukaku sulle quali è miracoloso Donnarumma. Passato lo spavento, gli azzurri tornano a giocare con discreta spavalderia e trovano il vantaggio, questa volta in modo assolutamente regolare, con il tiro perfetto di Barella su assist di Verratti. L’Italia, visibilmente galvanizzata, non si ferma più e trova subito il raddoppio con Insigne che, dopo una serpentina nello stretto, calcia con il suo proverbiale tiro a giro. Prima dell’intervallo, però, beffa per gli azzurri con il rigore davvero generoso per un contatto tra Di Lorenzo e Doku. Dal dischetto Lukaku spiazza Donnarumma e segna ancora all’ex portiere del Milan firmando l’1-2. Nella ripresa occasione incredibile intorno all’ora di gioco per Lukaku, che a porta vuota da due passi colpisce in pieno Spinazzola e grazia gli azzurri. Negli ultimi venti minuti i Diavoli Rossi premono con insistenza, mentre per la Nazionale è da segnalare l’infortunio muscolare di Spinazzola che esce in lacrime a dieci minuti dalla fine. Non ci sono però altre occasioni degne di nota e dopo un finale in apnea l’Italia può festeggiare l’approdo in semifinale.

Questo il tabellino della partita:

BELGIO (3-4-2-1): Courtois; Alderweireld, Vermaelen, Vertonghen; Meunier (24’st Chadli, 29’st Praet), Witsel, Tielemans (24’st Mertens), T.Hazard; De Bruyne, Doku; Lukaku. In panchina: Kaminski, Sels, Boyata, Denayer, Trossard, Dendoncker, Carrasco, Benteke, Batshuayi. Allenatore: Martinez.

ITALIA (4-3-3): Donnarumma; Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini, Spinazzola (34’st Emerson); Barella, Jorginho, Verratti (29’st Cristante); Chiesa (45’st Toloi), Immobile (29’st Belotti), Insigne (34’st Berardi). In panchina: Sirigu, Meret, Bastoni, Acerbi, Bernardeschi, Locatelli, Pessina. Allenatore: Mancini.

ARBITRO: Vincic (Slovenia).

RETI: 31’pt Barella, 43’pt Insigne, 47’pt Lukaku (rig).

NOTE: serata serena, terreno di gioco in buone condizioni. Ammoniti: Verratti, Tielemans, Berardi. Angoli: 9-5. Recupero: 3′; 7′.

Italia, il sogno continua: Spagna battuta ai rigori dopo tanta sofferenza. Il Quotidiano del Sud il 6 luglio 2021. Il sogno dell’Italia continua e gli azzurri giocheranno a Wembley la finale di Euro 2020. Al termine di un match sofferto e intenso, la Nazionale azzurra batte in semifinale la Spagna ai calci di rigore con il punteggio di 5-3 e domenica sera proverà a scrivere un’altra pagina di storia. Dopo l’1-1 dei tempi regolamentari targato Chiesa e Morata, non cambia il parziale ai supplementari e ai rigori è decisivo l’errore proprio di Morata con Jorginho che poi trasforma. L’avversaria dei ragazzi di Mancini nell’atto conclusivo sarà designata dall’altra semifinale tra Inghilterra e Danimarca. E’ un primo tempo complicato per gli azzurri, schiacciati a più riprese dal fraseggio instancabile delle Furie Rosse. Sulle poche ripartenze concesse dalla Roja, però, la Nazionale usufruisce di due occasioni clamorose, prima con Immobile e Barella che non riescono a calciare a porta vuota dopo l’intervento fuori tempo di Unai Simon, poi con l’incrocio dei pali colpito da Emerson Palmieri poco prima dell’intervallo. Nel mezzo l’opportunità più importante della prima frazione sui piedi di Dani Olmo, gran parata di Donnarumma sulla sua conclusione. Nella ripresa gli azzurri trovano maggior coraggio e all’ora di gioco passano in vantaggio con Federico Chiesa, rapace a fiondarsi su un pallone di Insigne per Immobile intercettato dalla difesa spagnola. L’attaccante della Juventus può così puntare l’uomo e calciare a giro trovando l’angolino dove Unai Simon non può arrivare. E’ delirio azzurro a Wembley, ma c’è un’altra mezzora di sofferenza. Berardi sfiora il gol in due circostanze, poi la pressione della Spagna aumenta sensibilmente e il fortino azzurro crolla a dieci minuti dal termine. Il pareggio della Roja arriva al termine di una bella combinazione in profondità che libera al tiro Morata, abile a spiazzare Donnarumma e a firmare l’1-1. Si va così ai supplementari e nonostante un’Italia in apnea non cambia il parziale e bisogna ricorrere ai calci di rigore, il cui esito è trionfale per gli azzurri, che vendicano i penalty di Euro 2008 e della Confederation Cup 2013. E domenica sera sarà finale a Wembley, la quarta agli Europei per la Nazionale.

Questo il tabellino della partita:

ITALIA (4-3-3): Donnarumma; Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini, Emerson (28′ st Toloi); Barella (40′ st Locatelli), Jorginho, Verratti (28′ st Pessina); Chiesa (2′ sts Bernardeschi), Immobile (16′ st Berardi), Insigne (40′ st Belotti). In panchina: Sirigu, Meret, Acerbi, Bastoni, Florenzi, Cristante. Allenatore: Mancini 7.

SPAGNA (4-3-3): Unai Simon; Azpilicueta (40′ st M. Llorente), Eric Garcia (4′ sts Pau Torres), Laporte, Jordi Alba; Koke (25′ st Rodri), Busquets (1′ sts Thiago Alcantara), Pedri; Ferran Torres (17′ st Morata), Dani Olmo, Oyarzabal (25′ st Gerard Moreno). In panchina: De Gea, Sanchez, D. Llorente, Traorè, Fabian Ruiz, Gayà. Allenatore: Luis Enrique 6.5.

ARBITRO: Brych (Germania).

RETI: 15′ st Chiesa, 35′ st Morata.

SEQUENZA RIGORI: Locatelli parato, Dani Olmo alto, Belotti gol, Gerard Moreno gol, Bonucci gol, Thiago Alcantara gol, Bernardeschi gol, Morata parato, Jorginho gol.

NOTE: serata serena, terreno di gioco in buone condizioni. Ammoniti: Busquets, Toloi. Angoli: 1-6. Recupero: 0′ pt; 3′ st; 0′ pts: 0′ sts.

MANCINI: “E’ stata una partita durissima, la Spagna è una grande squadra e gioca benissimo. Non abbiamo fatto la solita gara, ma sapevamo che avremmo sofferto. I meriti di questo triennio sono dei ragazzi, hanno creduto a tutto questo ma non è ancora finita. Adesso recuperiamo le forze rimaste per giocarci la finale”. Lo ha detto il commissario tecnico dell’Italia, Roberto Mancini, dopo la vittoria contro la Spagna. “Ci hanno messo in difficoltà all’inizio, dopo abbiamo ritrovato le coordinate giuste e non abbiamo rischiato nient’altro. Sapevamo fin dall’inizio che ci sarebbe stato da soffrire, è stata una partita durissima a causa del loro palleggio”. Sulla prestazione degli azzurri: “Le squadre di calcio attaccano e difendono, abbiamo avuto occasioni sia noi che loro, è stata una partita aperta. Tutte le squadre difendono – ha concluso il ct – non la definirei una vittoria all’italiana”.

ITALIA CAMPIONE D'EUROPA: INGHILTERRA BATTUTA AI RIGORI. Il Quotidiano del Sud il 12 luglio 2021.  Godiamo! Dopo 53 anni l’Italia torna sul tetto d’Europa battendo l’Inghilterra a Wembley per 5-4 dopo i calci di rigore, al termine di una partita epica. Decisivo uno strepitoso Gigio Donnarumma, il miglior portiere del Mondo (ora si può dire), che para due calci di rigore nella lotteria finale e “ripara” gli errori di Belotti e Jorginho. Una serata indimenticabile, che premia un percorso straordinario intrapreso dagli Azzurri sotto la guida di Roberto Mancini. Solo tre anni dopo la delusione dell’esclusione dal Mondiale di Russia, l’Italia festeggia la conquista del suo secondo titolo europeo dopo quello del 1968 e lo fa con pieno merito. Grande partita giocata dagli Azzurri, bravi a non scoraggiarsi dopo l’iniziale vantaggio di Shaw e a trovare il pareggio con Bonucci dopo quasi un’ora di dominio assoluto. Come preventivabile, il centrocampo italiano ha fatto valere la sua maggior qualità con Jorginho e Verratti che hanno nascosto il pallone agli inglesi. Il tutto nonostante la serata opaca di Barella. L’Inghilterra dopo l’avvio bruciante si è accontentata di difendere il vantaggio, rinculando progressivamente davanti all’area di rigore di Pickford. Non a caso la parata più complicata Donnarumma l’ha fatta nei supplementari, mentre il portiere inglese è stato decisivo in almeno un paio di circostanze su Insigne e Chiesa. Poi nella lotteria dal dischetto è ancora il numero 1 azzurro a diventare l’eroe della serata. L’Inghilterra mastica amaro, non è bastato giocare dinanzi ai quasi 60mila indiavolati tifosi di Wembley per conquistare un titolo importante che manca ormai dal 1966. Stesso identico undici con cui l’Italia è scesa in campo contro la Spagna in semifinale. Questa la scelta del ct Mancini per la finale. Pertanto Donnarumma in porta; difesa con Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini ed Emerson Palmieri; centrocampo con Barella, Jorginho e Verratti; attacco con Chiesa, Immobile e Insigne. Cambia eccome, invece, il ct inglese Southgate che deve fare a meno dell’acciaccato Foden e decide quindi di schierare una sorta di 3-4-2-1 con Pickford in porta; Walker, Stones e Maguire in una linea di difesa a tre; Trippier e Shaw sulle fasce con Phillips e Rice in mediana; sulla trequarti Sterling e Mount alle spalle del bomber Kane. Prima dell’inizio, fischi all’Inno italiano mentre le due squadre si sono ingonocchiate a metà campo in sostegno del movimento Black Lives Matter. Si gioca sotto una fitta e fastidiosa pioggerellina. Inizio shock per gli Azzurri, sotto di un gol dopo appena 2′: l’Inghilterra passa grazie ad un sinistro vincente di Shaw su assist dalla destra di Trippier. Difesa azzurra spiazzata nell’occasione. Wembley esplode. La prima replica dell’Italia con una punizione dal limite di Insigne, con palla di poco alta. Gli Azzurri però soffrono le incursioni di Trippier a destra, ogni volta che arriva sul fondo sono dolori. La bolgia infernale di Wembley non aiuta, i ragazzi di Mancini appaiono frastornati di fronte agli assalti inglesi. Dopo oltre venti minuti di sofferenza, finalmente gli Azzurri provano a farsi vedere dalle parti di Pickford con la velocità di Insigne e Chiesa. Immobile però appare troppo solo in area e per i giganti Maguire e Stones controllarlo è un gioco da ragazzi. Al 34′ prima vera occasione per l’Italia, con Chiesa che di sinistro calcia do poco fuori dopo una bella azione insistita dalla trequarti. Gli Azzurri prendono coraggio e iniziano ad assediare l’area di rigore inglese, nel giro di pochi secondi ci provano Immobile e Verratti ma la difesa inglese si salva. Prima dell’intervallo Bonucci tenta la conclusione dalla distanza, ma la palla è alta. In avvio di ripresa subito un brivido in area azzurra, con Sterling che si inserisce ma viene fermato da un intervento in collaborazione tra di Bonucci e Chiellini. Al 50′ Insigne si procura una punizione dal limite da ottima posizione, ma il suo destro a giro purtroppo non è preciso. Dopo meno do un’ora di gioco, Mancini toglie l’ammonito Barella e inserisce Cristante. Ma soprattutto esce Immobile per Berardi, con Insigne e l’attaccante del Sassuolo che si alternano da centravanti e Chiesa spostato a sinistra. Una mossa che mette subito in difficoltà l’Inghilterra, tanto che proprio Insigne impegna Pickford da posizione ravvicinata ma molto defilata. Ben più complicata per il portiere inglese la parata poco dopo su un destro velenoso di Chiesa. Adesso l’Italia attacca con insistenza anche se la difesa inglese resta sempre molto compatta. Proprio uno dei due centrali, Stones, impegna poi Donnarumma con un colpo di testa su calcio d’angolo. La superiorità azzurra di questa fase viene giustamente premiata al 67′ dal gol dell’1-1 firmato da Bonucci in mischia su calcio d’angolo dopo un palo di Verratti. L’Italia c’è, Wembley è zittito. In tribuna esulta anche Mattarella.

Il gol di Bonucci. L’Inghilterra inizia a tremare, Southgate allora manda in campo Saka per Trippier nella speranza di riallungare una squadra ormai costantemente asserragliata in difesa. A venti dalla fine Azzurri vicinissimi al raddoppio con Berardi che al volo calcia alto solo davanti a Pickford. Ma non era facile. Assorbito il contraccolpo del pareggio azzurro, Wembley prova di nuovo a spingere gli inglesi ma è sempre l’Italia a comandare con Insigne e Chiesa che fanno ammattire la difesa avversaria. Proprio nel momento migliore, l’attaccante della Juve si fa male e deve lasciare il campo a Bernardeschi che si va a piazzare in posizione da centravanti. Nel finale da segnalare soltanto l’invasione di campo da parte di un tifoso inglese, braccato in campo a fatica dagli steward. Si va ai supplementari. All’inizio dei supplementari Mancini toglie uno stanco Insigne e manda in campo Belotti. Il ct cambia ancora, con Bernardeschi che ora si sposta all’ala sinistra. Fuori anche Verratti, dentro Locatelli. Intanto si rivede l’Inghilterra, prima con una incursione di Sterling fermata in angolo e poi con un destro dal limite di Phillips di poco fuori. Un cambio anche nelle file inglesi, dentro Grealish per Mount. C’è poi un brivido nell’area inglese, con Pickford che anticipa Bernardeschi al momento di deviare in porta un cross di Emerson da sinistra. Il biondo attaccante della Juve ci riprova nel secondo supplementare su punizione, para Pickford. Sul fronte opposto brivido in area azzurra con Donnarumma che in uscita acrobatica anticipa Stones pronto a un colpo di testa vincente. Dopo oltre un’ora di sofferenza, l’Inghilterra spinta dal pubblico di casa torna a spingersi in avanti con maggior determinazione per evitare la lotteria dei rigori. Gli Azzurri iniziano ad accusare un po’ di stanchezza, ma lottano e anzi alla fine sfiorano anche il colpaccio con una deviazione di testa di Cristante su calcio d’angolo che non trova nessuno sul secondo palo per la deviazione in rete. La squadra campione d’Europa la si decide ai calci di rigore e come nel 2006 ai Mondiali di Berlino a trionfare sono gli Azzurri grazie alle parate di superman Donnarumma. Football Coming Rome. Questo il tabellino della partita.

ITALIA (4-3-3): Donnarumma; Di Lorenzo, Bonucci, Chiellini, Emerson Palmieri (13′ sts Florenzi); Barella (9′ st Cristante), Jorginho, Verratti (6′ pts Locatelli); Chiesa (41′ st Bernardeschi), Immobile (10′ st Berardi), Insigne (1′ pts Belotti). In panchina: Sirigu, Meret, Pessina, Acerbi, Bastoni, Toloi. Allenatore: Mancini.

INGHILTERRA (3-4-3): Pickford; Walker (115′ sts Sancho), Stones, Maguire; Trippier (25′ st Saka), Phillips, Rice (29′ st Henderson, 115′ sts Rashford), Shaw; Mount (9′ pts Grealish), Kane, Sterling. In panchina: Ramsdale, Johnstone, Mings, Coady, Calvert-Lewin, James, Bellingham. Allenatore: Southgate.

ARBITRO: Kuipers (NED).

RETI: 2′ pt Shaw, 22′ st Bonucci.

SEQUENZA RIGORI: Berardi (gol), Kane (gol), Belotti (parata), Maguire (gol), Bonucci (gol), Rashford (palo), Bernardeschi (gol), Sancho (parata), Jorginho (parata), Saka (parato).

NOTE: serata piovosa, terreno in buone condizioni. Spettatori: 67.500. Ammoniti: Bonucci, Barella, Insigne, Chiellini, Stones, Jorginho. Angoli: 3-5. Recupero: 4′ pt, 7′ st, 2′ pts, 3′ sts. 

Paolo Tomaselli per il "Corriere della Sera" il 12 luglio 2021.

ITALIA

9 Donnarumma Le manone sulla Coppa sono sue, ancora decisivo ai rigori, su Sancho e Saka. Gigante.

6,5 Di Lorenzo Incrocia i treni dell'Europeo: Alaba, Doku, Ferran Torres e per ultimo Shaw: la mancata scalata sul gol lo lascia qualche minuto sotto choc. Poi lotta. Anche se «Dilo» di ferro sente un po' la ruggine, resiste. 

8,5 Bonucci Leo di Wembley azzanna il pallone davanti alla porta e rimette in carreggiata una partita nata storta. E Sterling non lo passa mai. Rigorista doc.

8,5 Chiellini Braveheart è lui. Come Messi, vince il primo trofeo con la Nazionale quando è senza contratto. 

6,5 Emerson Non è «l'uomo fortunato» cantato dal suo omonimo Emerson (Lake & Palmer), ma va anche a cercarsela poco, la buona sorte. In difficoltà su Trippier fin da subito (e quindi dal gol), prende coraggio come tutti nel secondo tempo. 

5 Barella Stretto fra Rice e Mount, gli manca la terra sotto ai piedi. Può solo tenere duro, ma esce presto.

7 Jorginho Il trisnonno Giacomo Frello, che nel 1896 lasciò Lusiana Conco e l'altopiano dei Sette comuni in provincia di Vicenza per sfuggire alla miseria e andare in Brasile sarebbe comunque orgoglioso del trisnipote, che l'America calcistica l'ha trovata nell'Italia: dopo la Champions contro Guardiola, guida gli azzurri fra le sabbie mobili e poi sul sentiero giusto di Wembey. Sbaglia il rigore più pesante, ma la festa è tutta sua. 

7 Verratti Il parigino si tuffa con coraggio e prende il palo, per la carambola del pareggio. È tra quelli che guida la riscossa azzurra. 

8 Chiesa Più che altro una cattedrale, costruita a lungo da solo. Il ragazzo dell'Europa/che porta in giro la fortuna, si arrende solo per un guaio alla caviglia, ma l'uomo simbolo di Wembley è lui. Ancora una volta.

5 Immobile L'ultimo Ciro è quello che conta ed è il più deludente. Poco supportato, certo. Quasi sopportato. 

6,5 Insigne Ti raggiro per quasi un'ora, invece che tiraggir'. Poi da falso 9, negli scambi di posizione con Chiesa, si riaccende. 

7 Cristante Porta fisico e senso tattico in dosi giuste, mettendo in difficoltà gli inglesi tra le linee. 

7 Berardi Entra bene, come il rigore che calcia. 

7 Bernardeschi Anche lui è perfetto dal dischetto. 

6 Belotti Fa il vero 9, ma sbaglia il rigore. 

7 Locatelli Fioretto e spada nei supplementari.

9 Mancini Riapre la partita con le scelte giuste, e a 1366 giorni dal flop mondiale contro la Svezia, rimette l'Italia sulla mappa del calcio, puntando sul talento, sulla gioventù e anche sulla sua proverbiale buona sorte. Il trionfo della fiducia: lo spot migliore anche per il Paese. 

INGHILTERRA 

7,5 Pickford Tra i segreti del suo salto di qualità c'è anche il lavoro fatto con lo psicologo, che ora potrà prendersi un po' di vacanza. Decisivo a mano aperta in tuffo sul tiro di Chiesa. Para anche due rigori.

6,5 Walker Il mezzofondista della difesa viene reclutato come terzo centrale e frena Insigne. 

6 Stones Tende al massimo il filo del fuorigioco, ma appena l'Italia gli toglie i riferimenti va in difficoltà. 

6,5 Maguire Il Capoccione usa la testa, ma anche l'arte dell'anticipo per annullare Immobile. Chissà se adesso tornerà a Mykonos, dove è atteso l'appello per la condanna a 21 mesi per aggressione. Intanto all'appello del rigore si fa trovare pronto.

6,5 Trippier Chi avrebbe scommesso che la mossa a sorpresa dopo due minuti avrebbe confezionato l'assist per il gol di Shaw? Forse lui, che ha preso 80 mila euro e 10 di turni di multa per aver puntato sul suo passaggio dal Tottenham all'Atletico. Gli piace vincere facile anche con Emerson per un' ora. Poi le quote cambiano.

6,5 Phillips Lo chiamano «Pirlo dello Yorkshire» e non è chiaro se Andrea abbia già intentato causa. Lui però ha fatto un Europeo da copertina e oggi riceverà una telefonata, dal carcere, per i complimenti di papà. 

6 Rice L'unico inglese astemio sbatte in faccia a Barella la porta del pub, ma non certo a Chiesa. Esce stravolto.

7 Shaw Ribattezzato «Shawberto Carlos», s'inventa un tiro di controbalzo che avrà fatto saltare sul divano i suoi detrattori, da Van Gaal a Mourinho. 

7 Kane La ballata di Harry Kane, su musica delle sue cugine irlandesi, manda fuori tempo gli azzurri: arretrato, fino a schermare Jorginho, è lui che fa partire l'azione del gol e che scava nel cuore degli azzurri, tra le linee, come un trequartista nel corpo di un centravanti.

Dopo un'ora molla il microfono, ma segna il suo rigore. 

6,5 Sterling Nato in Giamaica come Bolt, il suo secondo nome è Shaquille come il grande (e grosso) cestista: stopparlo non è facile, anche perché ha il tuffo sempre in canna. A conti fatti, non sfonda. 

6,5 Mount Ora può svuotare la valigia piena di snack, ma prima si mangia le mani per il ritardo su Verratti.

6 Henderson Spegne la spia della riserva nel mezzo. 

5 Saka Elettrico e solido. Chiellini lo ferma con le cattive. Sbaglia il rigore decisivo.

6,5 Grealish Gambe da calcio gaelico, potenti nel cambio di passo: sempre un pericolo. 

5 Rashford Entra per i rigori, si ferma al palo.

5 Sancho Anche per lui un rigore a freddo sbagliato. 

6,5 Southgate Sceglie di giocare in modo simile al Chelsea campione d'Europa e azzecca la mossa all'inizio. Dopo il gol però gli inglesi non affondano il colpo.

Giovanni Sofia per tag43.it il 13 luglio 2021. Ci hanno impiegato un po’, ma alla fine anche gli inglesi hanno riconosciuto la portata della vittoria azzurra a Euro 2020. L’Italia smaltito l’avvio choc, con il gol subito dopo appena due minuti, ha avuto la capacità di rialzarsi e aumentare progressivamente la mole di gioco, rimettendo in piedi una finale che appariva compromessa. Il pari è arrivato nella ripresa, poi ai rigori la coppa ha preso la via di Roma, premio perfetto per un torneo di altissimo livello. Non è un caso che nella squadra ideale della competizione stilata dal Guardian, compaiano sei italiani, compreso mister Roberto Mancini, già capace Oltremanica di vincere uno scudetto ai tempi del Manchester City. Azzurri e non (soprattutto inglesi) vediamo chi sono i top 11 scelti dal quotidiano britannico (qui invece la top 11 della Uefa).

Portiere, Gianluigi Donnarumma (Ita)

Fresco di passaggio dal Milan al Paris Saint Germain, Gianluigi Donnarumma a Euro 2020 ha confermato di essere uno dei portieri più affidabili al mondo. Non è un caso che l’estremo difensore azzurro sia stato scelto come miglior giocatore del torneo da una giuria composta, tra gli altri, da Fabio Capello, Robbie Keane e David Moyes. Bene hanno fatto anche il danese Schmeichel, lo svizzero Sommer e l’inglese Pickford. Ma Gigio ha dimostrato di essere un gradino sopra.

Terzino destro, Kyle Walker (Ing)

Costretto dai dettami tattici a limitare le sgroppate sulla corsia esterna, Kyle Walker ha mostrato grande attitudine a interpretare la fase difensiva ed è stato decisivo nelle chiusure e nel far ripartire l’azione dell’Inghilterra. L’olandese Denzel Dumfries, il danese Stryger Larsen e l’italiano Giovanni Di Lorenzo si confermati su livelli alti, evidentemente non abbastanza. 

Difensore centrale, Leonardo Bonucci (Ita)

Il più reattivo nell’azione del pari in finale, come nelle chiusure su Sterling ed Harry Kane, Leonardo Bonucci ha segnato anche i due rigori contro Spagna e Inghilterra. A 34 anni è stato fondamentale per tenere la propria porta imbattuta in quattro occasioni, poi, con il trofeo vinto, si è divertito a dire ai rivali «che avrebbero dovuto continuare a mangiare pasta asciutta».

Difensore centrale, Giorgio Chiellini (Ita)

Il 36enne sembra migliorare con l’età. E dove non è riuscito a intervenire ha fatto prevalere l’esperienza e la grinta, basti pensare al modo in cui ha fermato Saka. Se Harry Maguire si è presentato infortunato a Euro 2020 e Simon Kjaer è stato un leader fondamentale per la Danimarca, il capitano di questa top 11 non può che essere Giorgio Chiellini.

Terzino sinistro, Luke Shaw (Ing)

Partito dalla panchina nel match d’esordio contro la Croazia per far spazio a Kieran Trippier, Luke Shaw ha progressivamente scalato posizioni, manifestando grande capacità di adattamento su entrambe le fasce. Spina nel fianco costante per le difese avversarie ha chiuso il torneo con un gol in finale e tre assist. Leonardo Spinazzola avrebbe potuto contendergli il posto, ma con il Belgio è stato fermato da un grave infortunio. Menzione merita pure il danese Mæhle.

Centrocampista centrale, Pedri (Spa)

È stato eletto miglior giovane del torneo, a 18 anni Pedri ha trasferito le qualità già evidenziate con la maglia del Barcellona anche in Nazionale, offrendo prestazioni di livello altissimo, testimoniate dai 429 passaggi riusciti sui 456 effettuati, con una percentuale di successo monstre del 92 per cento. Ha dominato la scena nel match contro l’Italia di Verratti e Barella, non certo due principianti: sarà il riferimento della Spagna per molti anni.

Centrocampista centrale, Jorginho (Ita)

In finale, ha rischiato l’espulsione per la terribile entrata su Jack Grealish ed ha fallito il rigore potenzialmente decisivo. Piccole macchie che non pregiudicano un torneo in cui Jorginho ha confermato di essere centrocampista di grande geometria e visione di gioco. Meglio di Declan Rice e Sergio Busquets, il calciatore del Chelsea è il decimo a vincere Champions ed europeo nella stessa stagione, dettando alla grande i tempi della manovra azzurra.

Centrocampista centrale, Kalvin Phillips (Ing)

L’importanza di Kalvin Phillips nel progetto di Southgate si comprende bene leggendo i minuti giocati. Il centrocampista del Leeds non è uscito mai dal campo né in semifinale, né contro l’Italia. Il rendimento del calciatore è cresciuto insieme alla competizione e la costanza ha fatto la differenza rispetto alle prove sfoderate da Georginio Wijnaldum, Kevin De Bruyne e Renato Sanches.

Esterno d’attacco, Federico Chiesa (Ita)

Da subentrato, ha spaccato la partita con l’Austria ai supplementari. Da allora Federico Chiesa si è rivelato l’arma più efficace dell’attacco azzurro. Gerard Piqué lo aveva indicato come migliore della manifestazione e la sua assenza ha pesato nell’extra time della finale, quando Roberto Mancini è stato costretto al cambio.

Attaccante centrale, Patrick Schick, (Rep. Ceca)

In un torneo in cui sono mancati i grandi attaccanti, Patrick Schick è riuscito a prendersi la scena. Suo il gol più bello, da centrocampo, contro la Scozia. Cinque reti, come Ronaldo, a cui è andata la Scarpa d’oro per aver fornito anche un assist, ma questo non intacca minimamente un grande torneo.

Esterno d’attacco, Raheem Sterling (Ing)

Secondo molti non avrebbe dovuto giocare, almeno non così tanto. Raheem Sterling, invece, è stato il più presente della sua nazionale, collezionando tre gol e forse non il giusto tributo per le prove maiuscole sfoggiate. Forse ai danesi non piacerà per il rigore conquistato in semifinale, ma sarebbe potuto essere il migliore del torneo, se non fosse stato per il successo azzurro.

Allenatore, Roberto Mancini (Ita)

Kasper Hjulmand ha traghettato la Danimarca verso traguardi insperati, Gareth Southgate ha infranto molti tabù dell’Inghilterra, come la vittoria sulla Germania. Roberto Mancini, però, ha dimostrato di essere il migliore, e la trasformazione dell’Italia dopo il gol incassato in finale è la conferma ulteriore del fiuto del tecnico ex Manchester City. 

In panchina: Kasper Schmeichel (Danimarca), Joakim Mæhle (Danimarca), Harry Maguire (Inghilterra), Marco Verratti (Italia), Mikkel Damsgaard (Danimarca), Karim Benzema (Francia).

DA blitzquotidiano.it il 13 luglio 2021. L’esultanza per il rigore di Bonucci è stata rilevata anche dai sismografi dell’INGV.  L’Istituto nazione di geofisica e vulcanologia (INGV) ha infatti pubblicato la registrazione di un sismografo che mostra le vibrazioni prodotte dai tifosi italiani nel corso della finale degli Europei 2020 di calcio vinta dall’Italia contro l’Inghilterra, nella serata di domenica 11 luglio. L’INGV mostra il grafico di un sismogramma della stazione sismica di Montecelio, alle porte di Roma, durante i rigori della finale Italia-Inghilterra. Nel grafico si vede un picco, che indica una maggiore intensità delle vibrazioni in corrispondenza dei calci di rigore, in particolare tra quello segnato da Leonardo Bonucci e quello finale parato da Gianluigi Donnarumma. I geologi dell’Istituto li hanno chiamati “segnali sismici della felicità”. “Non è la prima volta – scrivono gli scienziati dell’INGV – che la rete nazionale sismica dell’INGV registra fenomeni che non sono legati ad attività naturale, ma all’attività umana. Anche il nostro entusiasmo durante i rigori della finale di EURO 2020 tra Italia ed Inghilterra è stato registrato, anche se probabilmente in misura minore del passato per via delle precauzioni per il Covid. Qui il segnale della stazione sismica di Montecelio, in provincia di Roma (MTCE), durante i rigori. Non è una grande città, ma in questo caso la registrazione è stata possibile perché la stazione è collocata all’interno dell’abitato e su uno strato di roccia che ha un ridotto livello di rumore sismico di fondo. Siamo CAMPIONI D’EUROPA!”. 

Mario Sconcerti per il "Corriere della Sera" il 12 luglio 2021. Siamo Campioni d' Europa, la conquista di una grande squadra. Capiremo a mente fredda cosa vuol dire, cosa cambia della nostra estate e del calcio italiano. Questo è il momento di essere liberi e ringraziare tutti. Non tanto Mancini, che è stato sempre il più ringraziato, quanto i ragazzi, quelli insoliti come Di Lorenzo e Emerson, quelli sfiniti come Barella e Verratti. Quelli che ci hanno salvato tante volte come Chiesa e quelli che ci sono sempre stati come Bonucci e Chiellini, la nostra anima. Ringraziare l'estro di Insigne, l'errore inutile di Jorginho. Grazie a tutti quelli che hanno preso questo treno così strano e colorato da non pensare fosse il nostro. È stata un'impresa difficile. Siamo rimasti i primi trenta minuti in balia dell'invenzione di Southgate, un cambio improvviso di modulo che aggiunge un difensore e finisce per schierare la squadra con il 3-5-2. Trippier al posto di Saka, prudenza in più, un omaggio all' Italia che non abbiamo capito. Così quando Shaw ha seguito la prima azione dell'Inghilterra, con la partita ancora nella fase ingenua, e ha calciato in porta in grande solitudine, il suo avversario diretto, Chiesa, era a quaranta metri da lui. Il problema di chi marcava chi, non si è mai del tutto risolto su quella fascia perché Di Lorenzo tendeva a stringersi al centro per dare un'occhiata a Mount, motore ultimo dell'Inghilterra. Tutto per liberare Jorginho da un compito di marcatura e lasciarlo libero di pensare. Così ci siamo incastrati in una confusione suggestiva che ha portato molti fuori ruolo. L' Inghilterra non ha fatto di più, ha giocato all' italiana, aspettando e ripartendo pochissimo. Lentamente l'Italia è tornata in partita nel senso del possesso palla, non in quello del tiro in porta. Per quello bisogna aspettare il vero cambiamento, quando a inizio ripresa Cristante subentra a Barella. Troppo leggeri Verratti e Barella insieme per gli inglesi, Cristante porta fisico e soluzioni diverse. L' uscita contemporanea di Immobile per Berardi ha portato spazi e liberato Chiesa, via via salito fino a dominare. È cresciuto anche Insigne, è cresciuta l'Italia che si è aiutata con lo spavento degli atri, incapaci di cambiare la loro partita. Il gol di Bonucci è nato faticoso ma spontaneo, una conseguenza dovuta alla crescita del gioco italiano. È partito da Cristante, è stato chiuso da Bonucci, due piccoli giganti in mezzo alle torri inglesi. È stato in quel momento che si è capito che era passata un'epoca, con l'Inghilterra nella sua cattedrale non poteva fare nient' altro che difendersi. E noi a stringerla d' istinto fino in fondo alla sua area. Southgate si è reso conto dell'involuzione, ha messo Saka, è tornato sulla vecchia strada, ma l'Inghilterra non è cambiata, ha continuato a difendersi. Fino ai rigori, dove non era più possibile difendersi.

Da liberoquotidiano.it il 12 luglio 2021. Nessuno dei telespettatori da casa ha visto quanto accaduto, ma al minuto 87' di Italia-Inghilterra la partita è stata interrotta. L'arbitro Kuipers, nel bel mezzo della finalissima degli Europei a Wembley, ha preso il pallone in mano e fermato il gioco. Il motivo? Un'invasione di campo. Un ragazzo a petto nudo ha infatti scavalcato la recinzione che divide il pubblico dai giocatori, fino ad arrivare a sfiorare il portiere azzurro Gianluigi Donnarumma. Ci sono voluti ben quattro steward per fermare e braccare l'uomo. Momenti non trasmessi in televisione, per evitare di dare rilevanza al folle gesto. In ogni caso così facendo i giocatori di entrambe le squadre hanno potuto prendersi una breve pausa e riprendere fiato prima dei supplementari e dei rigori. Proprio questi ultimi, dopo una sofferta partita, hanno permesso alla Nazionale italiana di portare a casa la vittoria agli Europei. "Le lacrime sono per l’emozione nel veder gioire i ragazzi, dopo 50 giorni duri in cui siamo stati sempre bene insieme - sono state le prime parole del ct Roberto Mancini -. È merito dei ragazzi che hanno fatto un campionato d’Europa straordinario, nell’aver cementato questo gruppo hanno dimostrato di essere ragazzi per bene. Saranno legati per sempre tra di loro per questa serata". E ancora: "Sono felice perché la squadra ha giocato bene e ha meritato la vittoria. È vero che il gol all’inizio ci ha messo in difficoltà, poi abbiamo dominato e pareggiato. Meritavamo di chiuderla prima e non ai rigori". Stesso discorso per l'Inghilterra, che ha dato all'allenatore e agli azzurri filo da torcere.

Enrica Belloni per “Oggi” il 16 luglio 2021. Era andato sotto la curva a festeggiare la vittoria dell’Italia sulla Spagna. Ma mentre tornava in campo, il difensore Leonardo Bonucci e stato bloccato da una steward, convinta che fosse un tifoso. L’equivoco e durato poco, giusto il tempo per vedere dipingersi sulla faccia del calciatore juventino un’espressione tra l’incredulo e l’infastidito. Poi, grandi sorrisi e la festa e proseguita. I vip in mezzo alla gente sono un po’ cosi: in perenne equilibrio tra il fastidio di essere assediati e quello di non essere riconosciuti. C’è chi la prende con filosofia. Come Tomaso Trussardi, che in occasione di un’asta da lui indetta qualche tempo fa a Milano per sostenere l’associazione Doppia difesa, fondata da Michelle Hunziker e da Giulia Buongiorno, e stato fermato insieme con la scintillante moglie, da un addetto alla security che gli ha chiesto se fosse invitato, lista alla mano per verificarlo. «Sono Tomaso Trussardi, ho organizzato io la serata», e stata la risposta. Oggi potremmo dare la colpa alla mascherina. La indossava Cristiano Ronaldo a Budapest, prima della partita tra Portogallo e Ungheria, quando un addetto alla sicurezza gli ha chiesto «Scusi lei chi e?», la portava Irina Shayk passata del tutto inosservata mentre festeggiava in piazza Duomo la vittoria degli Azzurri sulla Spagna. Due solerti poliziotti hanno bloccato per dieci minuti George Clooney e la moglie Amal Alamuddin all’ingresso di Frogmore House, dove si teneva alla festa di nozze di Harry e Meghan. Gli agenti guardavano nell’auto con occhi sospettosi e George, seduto con Amal, gesticolava cercando di spiegare chi fosse, ha scritto il Daily Mail. Chissà se lo spiritoso Clooney ha azzardato un “No Martini, no party”? Si e senz’altro divertita, la regina Elisabetta, due anni fa, nei pressi della sua tenuta di Balmoral. Me tre camminava con un foulard e un giaccone in tweed (niente cappellino e soprabito color pastello, va detto), e stata fermata da un gruppo di americani che le ha chiesto: «La Regina vive qui intorno?» «Certo, abita qui vicino», ha risposto lei. «E le e mai capitato di incontrarla?», hanno domandato gli ignari turisti. «No, ma quel poliziotto si, vi potrà raccontare qualche gossip su Sua Maestà», ha detto Elisabetta II, indicando Richard Griffin, la sua guardia del corpo. Si e presa gioco dei “comuni mortali” anche Jill Biden, la First Lady americana, che ha fatto un pesce d’aprile sull’aereo: travestita da hostess, con una parrucca mora e la targhetta “Jasmine” sulla divisa, ha servito il gelato ai passeggeri. Nessuno, compresi giornalisti e staff del presidente, l’ha identificata. Pare invece non abbia gradito Vladimir Putin, che nel 2006 fu scambiato per la guardia del corpo di Silvio Berlusconi. «Ero in giro con lui. Aveva una maglietta a maniche corte, pensavano fosse una delle mie guardie del corpo. C’è rimasto molto male», ha raccontato l’allora presidente del Consiglio. Qualcuno svela le sue disavventure. Luciano Ligabue narra spesso questo aneddoto: «Ero seduto al bar a leggere il giornale, si avvicina un uomo e mi chiede “Ma sei proprio tu? “Si”, gli dico. “Ti facevo più alto” e il suo commento. Poi aggiunge: “Puoi fare un autografo a un’amica che e tua fan? Puoi scrivere: a Marta con tanto amore, firmato: Piero Pelu”». La serie “cantanti che passano inosservati” comprende anche Tiziano Ferro ignorato nel 2018 in un locale di Praia De Albufeira, in Portogallo, mentre si esibiva al karaoke (la canzone, va detto, non era sua ma di John Legend). «Imperante indifferenza per la mia appassionata partecipazione al karaoke. Torno al mio repertorio, meglio!», ha scritto sui social. Facciamo un salto indietro nel tempo, al 1976, quando Francesco De Gregori e Claudio Baglioni, improvvisati musicisti di strada, sono stati del tutto ignorati dai romani. «Un sabato pomeriggio decidemmo di scendere in strada e andare a suonare davanti al Pantheon», ha raccontato Claudio Baglioni. «Eravamo già popolari. Iniziammo a suonare dei pezzi non nostri, classici, ma vedendo che non attaccava partimmo con i nostri cavalli di battaglia. Niente. Zero assoluto. Aprimmo le custodie delle chitarre quasi come provocazione perchè qualcuno si fermasse e ci lasciasse qualcosa. Solo dei giapponesi ci lanciarono due spicci. Quindi ce ne andammo e non ne parlammo mai più. De Gregori dice che io la presi malissimo. Ma io ricordo che lui la prese molto peggio». Infine, Giulia De Lellis due anni fa e stata scambiata per una truccatrice nel beauty store di un aeroporto, come ha raccontato su Instagram. «Una ragazza viene e mi fa “Senti bella, non e che tu sai truccare, fare le sopracciglia, mettere l’eyeliner?”. Io dico: “Si, certo, te lo metto io”. Pensavo mi conoscesse e che avesse visto uno dei miei tutorial di trucco. Invece mi chiede: “Tu che fai nella vita?”. “Come che faccio? Non lo sai?” Lei: “No, ho chiesto a te per- che mi sembravi ben truccata”».

La rivelazione di Evani: "Cosa è successo ai rigori..." Antonio Prisco il 17 Luglio 2021 su Il Giornale. Il vice ct di Mancini svela un retroscena sui calci di rigore: "Tutti volevano prendersi la responsabilità di tirarlo, allora ho capito che avremmo vinto". "Tutti volevano calciare i rigori, lì ho capito che avremmo vinto". Lo ha svelato Chicco Evani, vice ct nello staff di Roberto Mancini, ai microfoni de La Stampa. Una volta i rigori erano ritenuti una maledizione anche per l'Italia. Tante volte in passato avevano fatto piangere gli Azzurri nelle gare importanti, basti pensare a Italia '90, in semifinale con l'Argentina di Maradona, o a Usa '94, in finale col Brasile ma anche quattro anni dopo a Francia '98 quando la truppa di Cesare Maldini fu sconfitta da Zidane e compagni. Il tabù fu infranto per la prima volta a Euro 2000 contro l'Olanda grazie ad un super Toldo fino al trionfo indimenticabile di Berlino 2006, cui si aggiunge ora il successo a Euro 2020. In Inghilterra ancora non si danno pace per quei rigori sbagliati: il ct Gareth Southgate è sulla graticola per aver scelto dei ragazzini alle prime esperienze e si è perfino ipotizzato l'utilizzo di un algoritmo per la scelta dei tiratori dagli undici metri. Atmosfera di tutt'altro tipo si respira invece in casa azzurra. Il grande lavoro fatto da Roberto Mancini e dal suo staff (di cui fanno parte oltre a Lele Oriali e Gianluca Vialli, anche gli ex sampdoriani Lombardo, Nuciari, Salsano ed Evani) si è visto sul campo soprattutto nei momenti di maggiore tensione come la lotteria dei calci di rigore con la quale si è decisa la sfida con l'Inghilterra. A raccontare quei momenti è stato Chicco Evani. L'ex ala sinistra del Milan stellare di Arrigo Sacchi ha raccontato un interessante retroscena sui rigori al quotidiano La Stampa: "Io vi garantisco che nessuno dei nostri si è tirato indietro, anzi semmai abbiamo avuto il problema contrario: li volevano tirare tutti. Tutti volevano prendersi la responsabilità, è stata una bellissima prova di coraggio, io lì ho capito che ce l’avremmo fatta". A scegliere i 5 rigoristi è stato naturalmente Mancini: "È lui il ct ed è lui che alla fine ha l’ultima parola. Ha deciso bene direi, d’altra parte lui è sia un ex campione sia un tecnico intelligente e sensibile e in quei frangenti conta molto la psicologia, più che la tecnica. E Roberto sa leggerla". La chiusura infine è sul segreto del successo degli Azzurri, la serenità all'interno dello spogliatoio, come assicura Evani: "Oggi i giocatori hanno bisogno di un clima molto sereno in cui poter dare il meglio, lo dico perché avendo lavorato per anni con le nazionali giovanili so che l’atmosfera dello spogliatoio fa la differenza".

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Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno.

L'attacco a Mancini: "Lo odio, volevo che perdesse..." Antonio Prisco il 17 Luglio 2021 su Il Giornale. L'ex terzino del City, Wayne Bridge attacca il ct della Nazionale: "Non ho mai provato amore per lui, tatticamente non è così bravo..." "Mi ha fatto davvero male perché odio Roberto Mancini, tutti sanno che non lo amo. Non direi che è il peggiore che ho avuto, ma tatticamente non è eccezionale". Lo ha detto l'ex calciatore del Manchester City, Wayne Bridge durante la trasmissione The Big Stage di Bettingexpert. Lo storico successo dell'Italia a Wembley fa ancora tanto male agli inglesi. La conquista dell'Europeo con Roberto Mancini, assoluto protagonista, ha ferito in modo particolare uno dei suoi ex calciatori ai tempi del City, Wayne Bridge. L'ex terzino sinistro, famoso soprattutto per il triangolo amoroso con John Terry e la sua ex compagna Vanessa Perroncel, trovò Mancini sulla sua strada nell'annata 2009, alla guida del Manchester City, subito dopo l'esonero di Mark Hughes. Tra i due il rapporto ai Citizens non funzionò benissimo tanto che ben presto l'arrivo del francese Clichy gli precluse il posto da titolare e lo costrinse ad andare in prestito al West Ham. Di sicuro Bridge non avrà dimenticato quel periodo e non nasconde che la vittoria dell'Italia sia stata per lui un duro colpo: "Mi ha fatto davvero male perchè odio Mancini, tutti sanno che non provo amore per lui. Non direi che è il peggiore che io abbia mai avuto, ma tatticamente non è poi così bravo. Ma quello che ha fatto è stato grande ed è una cosa che mi costa dire. La mia famiglia non era solamente contenta perchè stava vincendo l'Inghilterra, ma anche perchè Mancini 'stava perdendo, quindi è stata una cosa ancora peggiore. Non l'ho mai capito come allenatore. Al Manchester City ha vinto la Premier League, quindi i tifosi lo adorano, ma se guardate ai calciatori e alla squadra che aveva, l'ha vinta grazie a loro, non perchè è un buon tecnico". Ma cosa non è piaciuto a Bridge di quell'esperienza? Lo spiega lui stesso. "Ho avuto problemi con lui, abbiamo lavorato assieme per alcuni mesi, siamo andati d'accordo ma gli allenamenti non mi piacevano per niente. Facevamo tattica contro delle sagome e come terzino ti diceva 'la devi passare a lui o a lui, se la passi di qua corri di là, se la passi di qua corri di là'. Ti dava due opzioni e ti faceva allenare contro delle sagome e questo non è calcio. Craig Bellamy ha provato a chiedere qualcosa, tipo 'che succede se in partita qualcuno fa questo' e Mancini gli ha risposto 'zitto', l'ha mandato a casa e non lo ha fatto tornare agli allenamenti. Ed è una cosa che da un allenatore non capisco".

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King.

Da ansa.it il 12 luglio 2021. "Non avrei potuto dare di più, i ragazzi non avrebbero potuto dare di più. I rigori sono il modo più brutto per perdere al mondo. Non era la nostra serata, ma è stato un torneo fantastico e dobbiamo essere orgogliosi e tenere la testa alta". Harry Kane, attaccante e capitano dell'Inghilterra, ha cercato di spronare i compagni dopo la finale europea persa in casa con l'Italia. "Ora stiamo male, ma siamo sulla strada giusta e stiamo costruendo - ha detto alla Bbc - Spero che possiamo progredire grazie a questa esperienza, l'anno prossimo" al mondiale. "L'Italia è una grande squadra. Avevamo iniziato in modo perfetto e forse dopo siamo andati un po' troppo indietro (...) A dire il vero, avevamo più controllo del gioco, ma loro hanno pareggiato su calcio piazzato. E i tiri in porta sono i tiri in porta. I ragazzi hanno fatto tutto quello che potevano, non era la nostra serata. Queste sono cose che accadono. Chiunque può sbagliare un rigore. Vinciamo insieme o perdiamo insieme". 

Euro 2020, la maledizione di Soutghate: "Una scelta mia", suicidio inglese a Wembley? Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. "Era andata male a Gareth Southgate il 26 giugno 1996, nella semifinale dell'Europeo organizzato dall'Inghilterra, quello del coming home originale. Il c.t. all'epoca era un ruvido stopper, fallì il sesto rigore e mandò in finale la Germania, che poi battè la Repubblica Ceca con un golden gol di Oliver Bierhoff". Così scrive il Corriere della Sera parlando del ct dell'Inghilterra che nella finale persa ai calci di rigore contro l'Italia deve aver rivissuto quell'incubo: stesso stadio, rigori decisivi per assegnare la vittoria, ma stavolta lui era in panchina e non in campo. Ma il risultato è stato lo stesso: la Nazionale dei Tre Leoni ko. "All'epoca sbagliò con i piedi, questa volta ha sbagliato con le scelte. Hanno fallito Rashford e Sancho, gli uomini che ha fatto entrare dalla panchina al 120' proprio per far battere i rigori a giocatori freschi. In realtà ha mandato in campo giocatori freddi, che dagli undici metri hanno tremato nel momento più importante", ricorda ancora il Corriere che poi riporta le frasi sconsolate del ct a fine match: "La scelta è stata mia, sono incredibilmente deluso". Il principe William ha twittato: "Abbiamo il cuore spezzato ma i nostri calciatori possono tenere la testa alta". Anche il premier Boris Johnson si è espresso: "È stata una conclusione straziante per Euro2020, ma Gareth Southgate e la sua squadra hanno giocato come eroi. Hanno reso orgogliosa la nazione e meritano grande merito". Kane, da capitano, ha cercato di sollevare l'animo ai tre compagni che hanno sbagliato, cioè Rashford, Sancho e Saka: "Chiunque può sbagliare. Vinciamo insieme, perdiamo insieme. Impareremo e cresceremo da questa esperienza. Quei ragazzi cresceranno e saranno più motivati per il Mondiale del prossimo anno". L'attesa per un trofeo, però, adesso dura da 55 anni. Dalla vittoria in casa del Mondiale 1966. 

Il ct sbagliò il penalty decisivo. La "maledizione" di Southgate: la sua Inghilterra perde ai rigori contro l’Italia come nel 1996. Carmine Di Niro su Il Riformista il 12 Luglio 2021. Quando Gigio Donnarumma ha parato il rigore tirato da Bukayo Saka, probabilmente Gareth Southgate avrà ripensato a quel drammatico 26 giugno 1996, quando l’allora difensore della Nazionale dei ‘tre leoni’ sbagliò il rigore decisivo contro la Germania, mandandola in finale a conquistare l’Europeo contro la Repubblica Ceca grazie ad un gol di Oliver Bierhoff. Anche domenica sera lo stadio amico di Wembley è stato un incubo per il commissario tecnico inglese, costretto ancora una volta ad uscire sconfitto dalla lotteria dei rigori. Ma se quella volta sbagliò con i piedi, questa volta l’errore è con le scelte. Quelle criticate dalla stampa britannica e internazionale e da alcuni colleghi allenatori, come il portoghese Josè Mourinho. Perché a sbagliare sono stati proprio gli uomini scelti da Southgate per entrare in campo al 120esimo minuto, allo scadere in pratica del secondo tempo supplementare, proprio in vista dei rigori decisivi. L’ingresso in campo di Rashford e Sancho, scelti dall’allenatore proprio per i rigori, si è rivoltato contro lo stesso Southgate con gli errori dal dischetto dei due calciatori di Manchester United e Borussia Dortmund. “Se sei Sterling o Grealish non puoi stare lì seduto e permettere che un ragazzino vada a tirare il rigore decisivo prima di te. Non puoi”, aveva tuonato nel post partita Roy Keane, ex capitano dello United, all’attacco di due dei più forti calciatori della Nazionale non presenti nella cinquina che ha sfidato Donnarumma. Grealish, fantasista dell’Aston Villa e vero e proprio idolo dei tifosi sudditi di Sua Maestà, gli ha replicato evidenziano come la scelta non fosse sua: “Ho detto che volevo tirare un rigore! Il mister ha preso tante decisioni giuste in questo torneo, ha scelto lui anche stasera, ma non permetto a nessuno di dire che non ho voluto calciare quando avevo detto che volevo” ha commentato. Ma il concetto di Keane è stato ripetuto anche da Mourinho in una intervista a Talk Radio: “Dov’era Raheem Sterling? Dov’era John Stones? Dov’era Luke Shaw? Perché Jordan Henderson o Kyle Walker non sono rimasti in campo? Ma per Saka avere sulle spalle il destino di un Paese… penso sia troppo. Povero Saka, mi dispiace molto per lui”. La scelta di Southgate di mandare in campo giocatori "freddi" e di consegnare a loro le sorti della squadra, alla fine, non ha pagato.

Carmine Di Niro. Romano di nascita ma trapiantato da sempre a Caserta, classe 1989. Appassionato di politica, sport e tecnologia 

Finale Euro 2020, tifoso inglese si fa un tatuaggio con la coppa ma poi vince l’Italia. Debora Faravelli il 12/07/2021 su Notizie.it. Si era fatto un tatuaggio con la coppa e il motto della squadra inglese: delusione per un tifoso britannico dopo la sconfitta della sua nazionale. Qualche giorno prima che si disputasse la finale di Euro2020 un tifoso inglese si era fatto un tatuaggio raffigurante la coppa vinta dalla sua nazionale con la scritta “It’s coming home”, il motto britannico urlato, cantato e affermato per giorni dai supporters dell’Inghilterra: cosa farà ora che a vincere gli Europei è stata l’Italia? Era convinto della vittoria e come lui decine di altri supporters britannici che, dopo la vittoria della semifinale contro la Danimarca, non avevano dubbi sul fatto che l’Inghilterra avrebbe trionfato a Wembley. E invece, dopo un goal segnato al secondo minuto e il successivo pareggio da parte dell’Italia, a risultare vittoriosa nello stadio londinese è stata la nazionale azzurra. Il ragazzo in questione si chiama Lewis Holden e aveva scommesso con un amico che si sarebbero fatti dei tatuaggi uguali se l’Inghilterra fosse arrivata in finale. Così ha deciso di tatuarsi sul polpaccio la coppa con la scritta “Euro 2020” e lo slogan dell’Inghilterra “It’s coming home”. “Non sarà un problema, ne sono fiducioso. Lunedì tutti faranno la fila per questo tatuaggio”, aveva affermato manifestando sicurezza circa la vittoria della sua squadra e il ritorno a casa del calcio. E invece domenica sera ha dovuto fare i conti con la delusione dopo che gli azzurri hanno battuto gli inglesi ai rigori. Resta ora da chiedersi cosa farà Lewis con il tatuaggio, che in breve tempo ha già fatto il giro del web. Sui social c’è chi ipotizza possa farlo rimuovere o attendere il prossimo Europeo per cambiare l’anno. Altri ironizzano sul fatto che possa modificare la parola “home” con “Rome”.

Dagotraduzione dal Manchester Evening News il 15 luglio 2021. Il calcio potrebbe non essere ancora tornato a casa, ma il tatuaggio "Inghilterra Vincitore di Euro 2020» di Lewis Holden è qui per restare. Il calciatore della Sunday League Lewis era così fiducioso sulle possibilità dell'Inghilterra di alzare il trofeo, che si è fatto tatuare la frase sulla gamba destra tre giorni prima della finale. E nonostante la sconfitta della notte scorsa, Lewis ha deciso di tenere il suo tatuaggio - e ha persino promesso di farne uno uguale sull'altra gamba se l'Inghilterra raggiungerà la finale della Coppa del Mondo del prossimo anno. Lewis, 26 anni, ha detto; «Sono assolutamente distrutto, ma chi non lo è? Ma mi tengo il tatuaggio - non c'è modo di liberarmene». Lewis era rimasto molto fiducioso che gli uomini di Gareth Southgate avrebbero battuto l'Italia e alzato il primo trofeo importante dell'Inghilterra in 55 anni. Ma quando la partita è andata ai rigori Lewis ammette che anche lui ha a dubitarne. Ha detto: «Quando siamo andati ai rigori ho pensato: “Forse non tornerà a casa”». «Dopo che abbiamo perso, i miei amici mi hanno preso in giro, dicendo che dovrò farmi tagliare la gamba! E, senza esagerare, ho ricevuto richieste di amicizia su Facebook da circa 500 italiani durante la notte. Il mio telefono non ha letteralmente smesso di ronzare. Non ho idea di cosa vogliano, ma non c'è modo di sbarazzarmene». Nonostante la delusione di ieri sera, Lewis afferma di non avere rimpianti per aver fatto il tatuaggio - e ha persino promesso di farsi fare un “'England World Cup 2022 winners” sulla gamba sinistra se l'Inghilterra raggiungerà la finale il prossimo anno in Qatar. Ha detto: «L'ho fatto per una risata con i miei compagni. Vedi così tante persone sempre negative sui social media, volevo solo fare qualcosa con un po' di positività. La quantità di attenzione che ha ricevuto e il brusio che ha creato erano irreali. Questa è la migliore squadra inglese che ho visto nella mia vita e potrei non vederla mai più in una finale. Ma se arriviamo alla finale l'anno prossimo, sarò di nuovo nel negozio di tatuaggi».

Euro 2020, la pagliacciata di Harry Kane che ci era sfuggita: insultano Ciro Immobile? Ecco la vergogna inglese. Libero Quotidiano il 14 luglio 2021. Polemiche infinite, da parte degli inglesi, dopo la finalissima di Wembley, dopo il trionfo dell'Italia ai calci di rigore a Euro 2020. Polemiche iniziate con la medaglia sfilata a tempo record, poi proseguite con la folle petizione online con la richiesta di ripetere l'incontro. La ragione? L'arbitraggio, che è stato perfetto, ci avrebbe favorito. Follie, totali. E che lasciano il tempo che trovano. Inglesi avvelenati anche per l'intervento di Giorgio Chiellini su Sakà al 95esimo minuto, la strattonata che è già nel mito del calcio italiano che al capitano è valsa il cartellino giallo. Inglesi avvelenati e vergognosi: la fuga dal campo dei giocatori, quella del principe William dagli spalti per non salutare Sergio Mattarella, poi la caccia all'italiano fuori da Wembley e un po' per tutta Londra, con i violenti pestaggi di ignari passanti azzurri. Una figuraccia, in tutto e per tutto. E tra gli episodi contestati da tifosi e giocatori, anche quanto fatto da Ciro Immobile nel secondo tempo, quando Leonardo Bonucci è riuscito a pareggiare la partita con la zampata sotto porta. Già, Immobile era a terra, dolorante, o meglio fintamente dolorante. Ma quando la palla è entrata in rete, come per magia, il dolore è sparito: subito in piedi e corsa ad esultare con gli altri compagni. Apriti cielo: anche per questo episodio sono piovute accuse, insulti e chi più ne ha più ne metta. Peccato però che ora sui social stia rimbalzando il video che vi proponiamo qui sotto. Un video che mostra Harry Kane, stella dell'Inghilterra e del Tottenham (che dovrebbe però lasciare in questo calciomercato), dolorante a terra dopo un contrasto proprio con Chiellini. Peccato però che nel momento più propizio, Kane si alzi e prosegua l'azione. E gli inglesi, adesso, che dicono?

Euro 2020, la bomba di Mourinho: "Sicuro al 100%, chi ha rifiutato di calciare il rigore. E quel ragazzino..." Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Josè Mourinho sgancia una bomba sulla sconfitta dell'Inghilterra nella finale degli Europei. L'Italia di Roberto Mancini è per la seconda volta nella storia campione d'Europa, ha vinto ai calci di rigore con la parata decisiva di Gigio Donnarumma che ha lasciato di sasso Saka. Ma secondo il neo allenatore giallorosso, come confidato a TalkSport e ripreso da Dagospia, non si deve attribuire la sconfitta a Saka: "Penso che sia troppo per un ragazzino avere tutto sulle spalle in questo momento, ma non lo so, devo fare questa domanda a Southgate perché tante volte succede che i giocatori che dovrebbero esserci non ci sono, i giocatori che dovrebbero esserci, scappano dalle responsabilità". Insomma, qualcuno è "scappato" di fronte alla propria responsabilità secondo Mou. "Non chiedetemi chi è perché non ve lo dico, ma mi è stato detto al cento per cento che un giocatore avrebbe dovuto tirare un rigore e ha rifiutato". Quindi, prosegue il tecnico, "a volte accadono queste situazioni e le persone oneste come Gareth non espongono il giocatore". E si chiede Mourinho: "Dov’era Raheem Sterling? Dov’era John Stones? Dov’era Luke Shaw? Perché Jordan Henderson o Kyle Walker non sono rimasti in campo? Ma per Saka avere sulle spalle il destino di un Paese… penso sia troppo. Povero Saka, mi dispiace molto per lui”.

La rivelazione: ''Come Southgate ha scelto i 5 rigoristi...'' Antonio Prisco il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Secondo quanto riportato da El Pais, il ct inglese avrebbe scelto i cinque da mandare sul dischetto grazie al lavoro di un gruppo di analisti. Il ct inglese Gareth Southgate avrebbe scelto i cinque rigoristi per la finale di Euro 2020 contro l'Italia, grazie ad un algoritmo. Lo scrive il quotidiano spagnolo El Pais, che cita fonti della Federcalcio inglese. L'Inghilterra perde ancora ai rigori, confermando lo scarso feeling dei suoi calciatori con i tiri dagli undici metri. Stavolta però non è stato però tutto frutto del caso o della sfortuna, ma di strategie ben precise. Infatti secondo quanto riportato da El Pais le scelte degli inglesi sarebbero state affidate ad un algoritmo speciale. Ebbene sì Southgate, che ha mandato dal dischetto il giovane Saka, che non aveva mai calciato un rigore in carriera, avrebbe scelto i cinque rigoristi, sfruttando anni di elaborate analisi dei dati da parte degli scienziati del dipartimento più finanziato di tutte le federazioni calcistiche del mondo. Gli esperti, diretti da Mark Bullingham, hanno seguito un metodo basato su modelli matematici popolarmente conosciuti come Big Data, provenienti dal baseball. Secondo il quotidiano spagnolo, anche l'ordine dei tiratori nella finale con l'Italia (Kane, Maguire, Rashford, Sancho e Saka) sarebbe stato suggerito dagli analisti. E nel caso in cui si fosse andati avanti nella lotteria dei rigori sarebbe toccato probabilmente al portiere Jordan Pickford. In fondo Southgate non è nuovo a scelte di questo tipo. Due anni fa, alla domanda sull'influenza dell'intelligenza artificiale nella preparazione dei rigori, il ct inglese spiegò che i programmi di Google gli avevano aperto l'orizzonte. "Abbiamo analizzato migliaia di tiri - disse - abbiamo cambiato la nostra cultura. Storicamente la federazione inglese viene vista come un gruppo di vecchi in giacca e cravatta, scollegati dal resto della società. Ci siamo dovuti modernizzare". Dopo tutto c'era un precedente felice: quando l'Inghilterra ha battuto la Colombia ai rigori ai Mondiali in Russia. Il giornale spagnolo evidenzia che l'esito di Wembley si sistema accanto ai grandi precedenti, agli errori di calciatori come "Maradona, Zico, Platini, Baggio, Baresi, Cristiano, Ramos, Raul o Djukic, campioni che hanno dimostrato l'inesistenza di una formula infallibile per segnare un rigore. La vera novità non è il fallimento di stelle e capitani - si legge - ma quello di giovani con poca o nessuna esperienza, selezionati tramite Google". Almeno Southgate si è preso fin da subito tutte le responsabilità: "È colpa mia, ho deciso i rigoristi in base a ciò che avevamo studiato. A Russia 2018 e in Nations League aveva funzionato". Sull'argomento l'ex attaccante dell'Inter, Roberto Boninsegna ha spiegato: "C’è una gran bella differenza fra calciare un rigore in una finale di Europeo o alla seconda giornata di campionato o in un preliminare di Europa League, solo l’allenatore può capire chi è giusto mandare sul dischetto e a volte nemmeno lui''. Ecco forse sarebbe meglio seguire i consigli di Bonimba.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. 

Carlos Passerini per corriere.it il 14 luglio 2021. I cinque rigoristi inglesi? Li ha scelti il computer. O meglio, un algoritmo. Che, oggettivamente, non ha fatto un gran lavoro visto come è andata a finire. La verità è che nemmeno i big data — lo studio dei dati statistici, sempre più diffuso anche nel calcio — possono granché di fronte al mistero buffo dei calci di rigore, dove entrano in gioco tante, troppe componenti emotive e ambientali. «C’è una gran bella differenza fra calciare un rigore in una finale di Europeo o alla seconda giornata di campionato o in un preliminare di Europa League, solo l’allenatore può capire chi è giusto mandare sul dischetto e a volte nemmeno lui» spiega Roberto Boninsegna, che non nasconde il suo scetticismo. A svelare il retroscena è stato il quotidiano spagnolo El Pais, che cita fonti della Federazione inglese. In molti hanno espresso grosse perplessità sulla scelta di mandare a calciare gli ultimi tre rigori Rashford, Sancho e Saka, rispettivamente di anni 23, 22 e 22. Tutti e tre hanno sbagliato. Proprio le statistiche dicono che dei 30 calciatori che hanno battuto dal dischetto in questo Europeo, solo Sancho e Saka avevano meno di 22 anni. Saka peraltro non aveva mai calciato un rigore in vita sua in una partita ufficiale. Il c.t. Soutgathe si è preso fin da subito tutte le responsabilità: «È colpa mia, ho deciso i rigoristi in base a ciò che avevamo studiato. A Russia 2018 e in Nations League aveva funzionato». Stavolta no. Anni e anni di elaborate analisi dei dati da parte degli scienziati del dipartimento più finanziato di tutte le federazioni calcistiche del mondo non sono serviti a nulla. Anzi, forse hanno proprio portato sulla strada sbagliata. Scrive il quotidiano spagnolo che pure l’ordine dei tiratori (Kane, Maguire, Rashford, Sancho e Saka) è stato suggerito dagli analisti della FA, che ovviamente ora sono nel mirino della critica. Chissà se questo fiasco epocale cambierà qualcosa nel progetto federale, che ha radici lontane. Southgate parlò di «cambiamento culturale» nel 2019 in una conferenza organizzata da Google Cloud, sponsor della federazione. «Abbiamo analizzato migliaia di tiri — disse il c.t. ora nella bufera, anche se resterà al suo posto — e abbiamo cambiato la nostra cultura. Storicamente la Federazione inglese viene vista come un gruppo di vecchi in giacca e cravatta, scollegati dal resto della società. Ci siamo dovuti modernizzare». Modernizzare non sempre però significa migliorare.

Da liberoquotidiano.it il 14 luglio 2021. Il portiere dell'Inghilterra Jordan Pickford ha tentato di salvare la sua nazionale nella finale contro l'Italia di Euro 2020 provando a parare quanti più rigori possibili. Pickford è riuscito a neutralizzare il rigore di Andrea Belotti e quello di Jorginho, prima di arrendersi agli errori dei suoi compagni di squadra che hanno portato gli azzurri sul tetto d'Europa. Dietro le parate di Pickford si nasconde un piccolo segreto. L'estremo difensore inglese ha scritto gli appunti sui rigoristi della squadra avversaria su un foglio attaccato alla sua bottiglia d'acqua. Il n. 1 dell'Everton aveva fatto la stessa cosa nei mondiali del 2018 contro la Colombia nella vittoria agli ottavi di finale. Le note di Pickford, fa sapere il sito Fanpage, includevano anche istruzioni per il resto della squadra italiana, incluso un appunto su Jorginho e la sua rincorsa "saltellante" che avrebbe potuto ingannarlo. Si leggono i nomi di Florenzi, Raspadori, Toloi, Cristante, Acerbi, Bastoni e anche Donnarumma, erano tutti elencati su un lato della bottiglia di Pickford. Sul dischetto però si sono presentati Berardi, Belotti, Bonucci, Bernardeschi e Jorginho con Pickford che ha parato il tiro dal dischetto all'attaccante del Torino e al centrocampista del Chelsea. Ai Mondiali del 2018, Pickford aveva effettuato una superba parata su Carlos Bacca per aiutare l'Inghilterra a passare agli ottavi del torneo, ma stavolta con l'Italia gli è andata male.

Spunta l'arma segreta del portiere inglese ai rigori...Alessandro Ferro il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Poco prima dei calci di rigore, il portiere dell'Inghilterra Jordan Pickford è apparso con la testa china intento a "leggere": la scena non è sfuggita agli occhi dei fotografi. Ecco cosa stava facendo...Il portiere della nazionale inglese, Jordan Pickford, le ha provate tutte, ma proprio tutte, per fermare i rigoristi azzurri già ben prima che la finale di Euro 2020 si decidesse dai tiri dal dischetto.

Gli appunti sulla borraccia. Previdente, ancora prima di arrivare a Wembley con i propri compagni per affrontare l'Italia, il numero uno dell'Everton aveva appuntato sulla propria borraccia tutti i nomi dei calciatori italiani assieme alle traiettorie usate più di frequente dai ragazzi di Mancini in modo tale da poter provare a parare i tiri qualora la finale si fosse decisa dopo i tempi supplementari. Immaginate una "lista" scritta da Pickford con tutti e 25 gli azzurri e ripassata poco prima dei tiri dagli 11 metri mentre il portiere si avviava verso la porta di destinazione come mostra un fermo immagine catturato dai fotografi con il portiere intento alla lettura. "Berardi tira così, Belotti da quella parte, Bonucci così..." devono essere stati i suoi pensieri in quei momenti secondo quanto appuntato durante il ritiro inglese. Il "memorandum", però, ha funzionato fino ad un certo punto: neutralizzati i rigori di Belotti (in basso alla sua sinistra) e Jorginho (alla sua destra): l'Inghilterra ha sognato ed è stata avanti soltanto per 47 secondi, e cioè il tempo tra l'errore di Belotti e la rete di Maguire. Dopodiché, si sono pareggiati i conti e l'Italia è tornata avanti. Secondo quanto rivelato in Inghilterra da Sportsmail, le note di Pickford includevano anche un appunto particolare su Jorginho e la sua rincorsa "saltellante" che avrebbe potuto ingannarlo: in questo caso, però, onore al merito per aver neutralizzato il rigore di uno dei più bravi rigoristi in circolazione.

Donnarumma va a "memoria" (e vince). Tre gli errori inglesi dal dischetto, di cui due parati dal nostro Gigio che è andato sicuro senza dover ripassare nulla né sulla propria borraccia né da nessun'altra parte: il miglior giocatore del torneo ha neutralizzato i rigori decisivi di Sancho e Saka regalandoci la Coppa che torna a Roma, che è tornata a Roma (ora si direbbe "it has come to Rome"). Come riporta Open, il trucchetto degli inglesi è stato già utilizzato in passato quando l’Inghilterra spezzò la maledizione dei calci di rigore che perseguitava la nazionale dei Tre Leoni appuntandosi le traiettorie dei rigoristi della Colombia ai quarti di finale durante i Mondiali del 2018: all'epoca la mossa funzionò e permise alla nazionale inglese di superare il turno. Questa volta, però, Pickford aveva fatto i conti senza gli "osti": la freddezza degli azzurri dal dischetto e la presenza del portiere più forte del mondo. 

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019 occupandomi soprattutto di cronaca, economia e numerosi approfondimenti riguardanti il Covid (purtroppo). Amo fare sport, organizzare eventi e stare in compagnia delle persone più care. Avviso ai naviganti: l’arancino è sempre maschio, diffidate da chi sostiene il contrario.

Il discorso di Vialli prima della finale commuove l’Italia: l’onore si conquista nell’arena. Redazione venerdì 16 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. Gianluca Vialli, capodelegazione della nostra Nazionale, è stato un motivatore eccezionale agli Europei 2020: lo dimostra il discorso che ha fatto agli azzurri due giorni prima della finale Italia-Inghilterra a Wembley. Vialli ha scelto una citazione di Frank Delano Roosevelt per esortare i calciatori a lottare fino in fondo, a mettercela tutta. Ecco il passaggio letto da Vialli: “Non è colui che critica a contare, né colui che indica quando gli altri inciampano o che commenta come una certa azione si sarebbe dovuta compiere meglio. L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze. L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato. Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta”. Nel leggere queste parole agli azzurri Vialli si è commosso. E alla fine della citazione i calciatori lo hanno applaudito. Lo si vede nel documentario Rai “Sogno Azzurro” dedicato alla Nazionale. Un docu-film che ripercorre la cavalcata vittoriosa degli azzurri di Mancini, dalla partita d’esordio fino alla finale contro l’Inghilterra. Nel ricevere gli azzurri al Quirinale il presidente Mattarella ha voluto citare Gianluca Vialli, la cui partecipazione alle sfide dell’Italia è stata sempre intensa e visibile a tutti. Mattarella ha detto che Vialli ha espresso i sentimenti di tutti gli italiani: entusiasmo, commozione, forza d’animo. E ora il suo discorso continua a commuovere.

Gianluca Vialli. Da corriere.it il 19 luglio 2021. Un ringraziamento, forse un ex voto. Per la trionfale vittoria agli Europei e probabilmente per altro, per la sua malattia già sconfitta due volte. Gianluca Vialli, capo delegazione della Nazionale, domenica è stato al Santuario della Beata Vergine della Speranza di Grumello Cremonese, una chiesetta settecentesca in mezzo ai campi, a un passo dalla casa in cui l’ex attaccante è cresciuto. E ha pubblicato solo una breve didascalia in italiano e in inglese sui social: «Il tempo della gratitudine». Probabilmente un ringraziamento non solo per il titolo europeo, ma anche per la malattia ma anche per il tumore al pancreas che ha dovuto sconfiggere in due riprese tra il 2018, quando lo aveva per la prima volta rivelato al Corriere della Sera, e lo scorso anno. Una battaglia che non è ancora del tutto vinta. Un’esperienza che ha portato l’ex attaccante di Inter e Sampdoria a essere uno dei grandi motivatori del gruppo azzurro con il celebre discorso di Roosevelt prima della finale contro l’Inghilterra. Durante «Sogno Azzurro», la serie tv che aveva prima preceduto - e poi seguito - il debutto dell’Italia agli Europei, lo scorso 11 giugno, lo aveva raccontato: «Il cancro è un compagno di viaggio indesiderato. Devo andare avanti, sperando che si stanchi e mi lasci vivere ancora tanti anni». Il santuario della Speranza, in mezzo ai campi, è non solo un luogo caro al campione di Sampdoria e Juventus per l’infanzia, ma anche quello in cui, aveva raccontato, vuole fare sposare le sue figlie. Noto anche come «Madonna del Deserto», proprio perché in perfetto isolamento - è a circa un km dalla frazione di Zanengo - sorge secondo la tradizione sul luogo di un’apparizione mariana: la Vergine apparve a una giovane muta e la guarì.

GIANLUCA VIALLI CAMPIONE DELLA VITA. Il Corriere del Giorno il 18 Luglio 2021. Alcuni pensieri di quel grande uomo e uomo di sport che ha conquistato l’affetto e la stima di tutti gli italiani, tifosi compresi. Gianluca Vialli a 55 anni sta combattendo la partita più importante della sua vita. Alcuni giorni fa festeggiando il suo compleanno ha scritto. “…Fuori dall’ospedale c’è scritto “Humanitas”. Che poi significa proprio questo: guardarsi negli occhi e parlare. I miei di occhi sono gialli. E il dottore mi dice: “Si fermi Gianluca” . Lo guardo dubbioso. Perché mi devo fermare? La mia vita è un continuo movimento tra Londra, Milano, la BBC, Sky, la mia famiglia, i miei colleghi, i campi da golf, gli amici. Cosa devo fermare? La risposta me la dà la risonanza magnetica: ferma tutto Luca. Hai un tumore al pancreas. Quando me lo dicono, ancora non lo so che è uno dei più gravi. Ma lo capisco da come il dottore soffia parole fuori dalle labbra: “CI sono buone possibilità”…Buone possibilità di cosa? Quando lo capisco, io che di fino a quel punto della mia vita non sapevo niente di malattie, biopsie, pet-scan, di linfonodi e liquidi di contrasto, mi sento perduto… Bisogna muoversi in fretta, ho una settimana prima dell’operazione. Quando mi sveglio dopo l’intervento c’è mia moglie, ho tubi collegati al collo e all’addome. E una lunga cicatrice in mezzo agli addominali. Lei ha gli occhi che bruciano di felicità. “E’ andata bene” dice. “Quanto devo stare qui” le chiedo. “Quindici giorni”. Esco dall’ospedale dopo sei, tra le proteste dei medici che mi invitano comunque a condividere un lungo trattamento con il professor Cunningham, a Londra. Ma prima c’è Natale. Lo passiamo in Inghilterra tutti insieme e guardo queste persone come non lo avevo guardate mai. Il giorno di Santo Stefano lo dico alle bambine. Come? Così come lo sto dicendo a voi. Mentre parlo con loro, e loro piangono, capisco che non è vero che il cancro è il grande nemico da sconfiggere. Non è una lotta per uccidere lui, ma è una sfida per cambiare se stessi…Ho bisogno di dialogare con la paura. La paura vera, quella che ti fa chiudere in bagno e piangere; paura di non riuscire a dire le parole che servono. Ne parlo con Cunningham: “Dottore lei crede che io possa guarire pensando in modo positivo che io guarirò”. Lui, uomo di scienza mi risponde di sì. E’ tutto quello che mi serve. Ci costruisco intorno una nuova routine e mi ci dedico anima e corpo: mi sveglio presto, medito su piccole frasi fondamentali, cerco il silenzio, mi focalizzo sui dettagli piacevoli, faccio esercizio, leggo e scrivo un pensiero positivo ogni giorno…Scrivo su una serie di post-it gialli le frasi che sono nel mio libro. Mentre vi scrivo queste righe ho finito la chemio e i trattamenti radio ma ancora non so come andrà a finire questa partita, lo scoprirò più avanti. Quello che so è che mi sono preparato bene e ho dato il massimo; che la mia squadra non poteva giocare meglio. E che mi hanno passato la palla, come la si passa ad un attaccante. Quindi sono lì davanti, la rete la vedo bene, così come la linea di porta e quella di fondo. So come si fa. Ma ogni volta che calcio per fare gol è sempre come la prima volta: hai bisogno di un bel po’ di coraggio. E anche di un pizzico di fortuna. Non ci resta che dirti: Forza Gianluca !

Il discorso di Vialli prima della finale è da brividi. Marco Gentile il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Due giorni prima della finale Italia-Inghilterra, Gianluca Vialli ha caricato la squadra con un discorso da brividi citando l'ex presidente Usa Roosvelt. L'Italia si è laureata campione d'Europa e i grandi meriti vanno ripartiti tra il ct Roberto Mancini, i giocatori e tutto il suo staff, anche se una menzione particolare la merita un grande uomo come Gianluca Vialli. Due giorni prima della finale di Wembley, infatti, pare che l'ambasciatore azzurro abbia fatto un bel discorso alla squadra citando l'ex presidente Usa Franklin Delano Roosevelt. Un discorso ricco di significato per un uomo che sta lottando da mesi, con una forza e una dignità immensa, contro il cancro.

Il discorso da brividi. "Non è colui che critica a contare, né colui che indica quando gli altri inciampano o che commenta come una certa azione si sarebbe dovuta compiere meglio", inizia così il discorso da brividi ai suoi ragazzi dell'ex attaccante della Sampdoria. "L’onore spetta all’uomo nell’arena. L’uomo il cui viso è segnato dalla polvere, dal sudore e dal sangue. L’uomo che lotta con coraggio, che sbaglia ripetutamente, sapendo che non c’è impresa degna di questo nome che sia priva di errori e mancanze", uno dei passaggi del dirigente azzurro. Gianluca Vialli ha poi concluso con alcune frasi significative: "L’uomo che dedica tutto se stesso al raggiungimento di un obiettivo, che sa entusiasmarsi e impegnarsi fino in fondo e che si spende per una causa giusta. L’uomo che, quando le cose vanno bene, conosce finalmente il trionfo delle grandi conquiste e che, quando le cose vanno male, cade sapendo di aver osato. Quest’uomo non avrà mai un posto accanto a quelle anime mediocri che non conoscono né la vittoria, né la sconfitta".

Le belle parole. Al termine della finale di Wembley Alessandro Florenzi aveva speso delle belle parole ai microfoni di Sky Sport per Vialli: "So che queste parole lo faranno arrabbiare, ma è importante che tutti lo sappiano. Noi abbiamo un esempio che ci dimostra ogni giorno come si deve vivere, come ci si deve comportare in qualsiasi ambiente ti trovi e in qualsiasi situazione. Per noi è speciale, questa vittoria senza di lui, così come senza Mancini e gli altri, non sarebbe niente. Lui è un esempio vivente, mi odierà per queste parole ma se le merita". 

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

Il rituale nato nella gara d'esordio con la Svizzera. Il rito scaramantico di Gianluca Vialli prima delle partite dell’Italia. Giovanni Pisano su Il Riformista l'11 Luglio 2021. La scaramanzia è tradizione, soprattutto quando i risultati arrivano. Così la Nazionale italiana è passata dall’acqua santa di Giovanni Trapattoni, che si è dovuta arrendere solamente all’arbitraggio scandaloso dell’ecuadoriano Moreno nei mondiali in Corea e Giappone (2002), al rituale che vede come protagonista Gianluca Vialli, capo delegazione della squadra allenata dall’amico Roberto Mancini. Il siparietto speciale prevede infatti che al momento della partenza da Coverciano, sede del ritiro, l’autista del bus parte per poi fermare la corsa del pullman dopo pochi metri. Il motivo? “Manca Vialli, l’abbiamo lasciato a piedi”. L’episodio è realmente accaduto in occasione della prima partita degli Europei contro la Svizzera e da allora, visto il successo degli azzurri, prosegue ogni volta. Un rituale scaramantico ripetuto con Turchia, Galles, Austria, Belgio, Spagna e, nelle scorse ore, con l’Inghilterra, in vista della finalissima di Wembley. L’autista ingrana dunque la marcia, il pullman parte ma dopo pochi secondi si ferma. “Manca Vialli” urla qualcuno seguito dal coro di (finta) sorpresa del resto dei componenti della squadra e dello staff guidato di Mancini. Vialli così si arriva con il consueto berretto in testa e, tra battute e sorrisi, fa finta di essere in ritardo. 

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Roberto Mancini e Gianluca Vialli, l'abbraccio che ha fatto commuovere l'Italia. Le Iene News il 12 luglio 2021. Il commissario tecnico e il capo delegazione azzurri si sono stretti in un lungo abbraccio al termine del trionfo dell’Italia contro l’Inghilterra: in quelle lacrime sul viso di entrambi c’è una storia d’amore calcistico che va avanti da quarant’anni. E che anche noi, nel nostro piccolo, abbiamo aiutato a cementare. Roberto Mancini in lacrime, abbracciato al fratello di una vita, Gianluca Vialli. I gemelli del gol, pilastri della storia azzurra e blucerchiata, che piangono l’uno sulla spalla dell’altro dopo il trionfo dell'Italia agli Europei. C’è una vita intera in quelle lacrime, una vita di successi e sconfitte, una vita sempre al fianco l’uno dell’altro. Era il 1984 quando Gianluca Vialli raggiunse Roberto Mancini a Genova, sponda Samp, per formare una delle coppie d’attacco più forti del nostro calcio. Sono passati 37 anni da allora, scanditi dal trionfo dello scudetto blucerchiato nel 1991. Ma anche tante delusioni, la più cocente la sconfitta in finale di Champions League contro il Barcellona nel 1992. Ironia della sorte, i due finivano l’esperienza insieme alla Sampdoria piangendo di delusione a Wembley mentre i blaugrana alzavano la loro prima Coppa dei Campioni. Ventinove anni dopo si sono presi la loro rivincita: adesso Wembley è il teatro del loro più grande successo. In tutti questi anni, comunque, i gemelli del gol non si sono mai separati davvero. Nemmeno quando Vialli terminò la carriera da calciatore e iniziò quella da allenatore a Londra, sponda Chelsea. E proprio allora noi de Le Iene avevamo portato a Gianluca un videomessaggio di Roberto, un augurio per la sua nuova esperienza da giocatore e allenatore. Era il 1998, ed era già chiaro l’affetto e la vicinanza tra i due. Oggi, nel 2021, ci avete regalato un’emozione immensa dopo un anno e mezzo durissimo. Possiamo solo dirvi, col cuore: GRAZIE! 

Elia Pagnoni per "il Giornale" il 13 luglio 2021. Forse valeva la pena di vincere questo Europeo solo per vedere quell'abbraccio. Vialli e Mancini in lacrime di gioia sullo stesso prato dove trent'anni fa uscirono piangendo di delusione. Dalla finale di Champions persa dalla Samp col Barcellona alla finale di Euro 2020 vinta in casa degli inglesi, c'è tutta la storia di questi due uomini che si sono legati a doppio filo con un'amicizia profonda che va al di là del calcio e fa da esempio a tutti quanti hanno festeggiato ubriachi nella notte azzurra. Perché l'abbraccio del ct al suo vecchio compagno ti riporta con i piedi per terra e ti fa capire che non c'è solo la felicità per un rigore segnato o parato, che una coppa Europa non può nascondere i guai della vita e i valori veri che solo lo sport può trasmettere. Mancini e Vialli, Mancini e il suo cerchio magico, quello che si stringeva attorno agli azzurri ad ogni pausa degli infiniti prolungamenti delle partite di questo Europeo. L'importanza di capire che non si vince solo stando in campo, ma anche stando seduti dietro le quinte, sapendo dare tutto pur rimanendo al proprio posto. Perché dietro quei rigori segnati e parati c'è l'altra Italia, quella dei vecchi compagni di ventura blucerchiati del ct, che Mancio ha voluto al suo fianco nella costruzione e nella gestione di questa squadra. Non solo il Vialli capodelegazione, ma anche Chicco Evani, il vice che ha sostituito degnamente il ct quando ha attraversato problemi di quarantena, e poi Salsano, Lombardo, Nuciari, fino al preparatore dei portieri Massimo Battara (che di blucerchiato ha il padre Piero, numero uno della Samp anni Sessanta). E poi tutti gli altri che hanno vinto stando seduti, come Daniele De Rossi, l'ultimo arrivato nella corte del ct, ma preziosissimo per il suo carisma di campione del mondo, così come ha dato la carica anche un altro che sa come si fa a vincere i Mondiali, il team manager Lele Oriali, che a dire il vero a sedere ci è stato poco: era talmente agitato che durante la partita con il Belgio si è ferito a un sopracciglio. L'importanza di quelli che hanno vinto da seduti come Salvatore Sirigu, fondamentale nello spogliatoio, e Alex Meret, il terzo portiere, l'unico dei 26 a non aver giocato nemmeno un minuto. Ma da seduti, tifando per questa Italia, hanno vinto anche Matteo Berrettini e Sergio Mattarella, la strana coppia seduta quasi affiancata in tribuna a Wembley, il primo reduce dalla straordinaria finale raggiunta a Wimbledon, il secondo incredibilmente esuberante nel suo impermeabile scuro. E alla fine è balzato in piedi anche lui.

Paolo Brusorio per "la Stampa" il 13 luglio 2021. Piangono Roberto Mancini e Gianluca Vialli, lo fanno uno sulle spalle dell'altro. Stringiamoci a coorte, e sembra di averla già sentita. L'Italia è campione d'Europa e in mezzo al campo due uomini si abbracciano sotto gli occhi del mondo e piangono le lacrime che avevano dentro da 50 giorni, quelli del ritiro, e forse anche da una vita. Parlare di intimità in mondovisione è più che un paradosso, invece è proprio così, non c'è niente di più riservato e di privato di quel gesto sul prato di Wembley innaffiato di gloria azzurra. Pianto di liberazione, di gioia, di commozione, di condivisione. Il commissario tecnico e il capo delegazione, così sui documenti ufficiali. Per tutti. Cucciolo e Pisolo, per pochi. Per quelli del club dei Sette Nani, una formazione dentro una formazione, una matrioska blucerchiata: quella della Sampdoria campione d'Italia nel 1991. Cucciolo e Pisolo non si sono mai persi di vista e quando il primo ha indicato chi mettere come guida della Nazionale in questa sua navigazione, non ha avuto dubbi: «Sempre che Luca se la senta». Perché Vialli nel frattempo se la stava giocando su un altro campo, vigliacca la malattia. Ma uno ha sempre avuto bisogno dell'altro, nella buona e nella cattiva sorte. Sulle lacrime degli uomini è facile ricamare e scavare, ma qui c'è la rappresentazione fisica e simbolica di un'intesa «senza limiti e confini». Avevamo bisogno di abbracci, la pandemia ce ne ha tolto il piacere e la stretta di Mancini&Vialli dopo la vittoria nei supplementari contro l'Austria aveva rotto il ghiaccio dopo tanta lontananza fisica. I due uomini, quella sera, erano idealmente tutti noi, ma le lacrime di Wembley, no. Solo cosa loro. In quello stadio, seppur nella versione imperiale, i due amici hanno perso una coppa dei campioni contro il Barcellona al 120 minuto, era il 1992 e anche l'ultimo treno per la gloria della Sampdoria. Dopo quella partita Vialli va alla Juventus, aveva già firmato «e sentivamo - diranno entrambi ricordando - che il giocattolo si stava rompendo». Due giorni prima Mancini e Vialli pranzano insieme in un tavolo isolato da Carmine, uno dei punti cardinali blucerchiati a Genova. Ci sono loro e Gongolo, Guido Montali, allora addetto agli arbitri del club e oggi anche. Si parlano, Luca aveva già firmato il suo trasferimento, Roberto raccoglie le confidenze. Racconta Montali: «Rivedo il Roberto che ho conosciuto io. Allora prendeva da parte i compagni e li ascoltava, oggi fa lo stesso con gli azzurri. Affronta singolarmente i problemi». Per questo i giocatori stravedono per lui, ne accettano il carisma fino quasi a nutrirsene. «Luca era più chiuso, un'altra personalità. Se c'era un problema, si isolava». Ma dove non arriva Mancini, ci pensa Vialli, è sempre andata così, «Roberto sa di avere accanto una persona di cui fidarsi ciecamente». Le lacrime scavano un solco tra loro e gli altri, è un affare privato. Voglia di tenerezza. Come il bacio furtivo che Luca dà alla palla quando gli rotola vicino durante Italia-Polonia dello scorso novembre: quella sera Mancini non c'è, isolato a casa per il Covid, e il gemello orchestra il telefono senza fili per dare le dritte a Evani, il vice del ct. Un bacio che sa di normalità ritrovata, ma ancora molto lottata. Non c'è alle celebrazioni Vialli, niente Quirinale né Palazzo Chigi, si è fermato a Londra. Lì c'è la sua vita, la sua battaglia. Stavolta non è salito sul bus azzurro per ultimo come è successo nella partenza verso l'Olimpico prima di Italia-Turchia e poi, visto l'effetto benefico, tutte le volte successive. «Avete lasciato indietro Luca» e lui che arriva con la coppola. Il calcio è strano, girano miliardi eppure la scaramanzia non arretra. «Roberto» è la voce che sente il ct sul prato di Wembley mentre sta andando al centro del campo dai suoi ragazzi, si volta il Mancio e affonda la testa nelle spalle smagrite del compagno di una vita. «Sono sempre i miei bambini - racconta con la voce calda e fiera Montali - ma non ho mai visto una cosa simile». Si cercano con gli occhi prima che si riempiano di lacrime. Si trovano sempre loro due e quando non si vedono si sintonizzano sulla chat degli ex compagni Samp, «quelli che si ritrovano» l'hanno chiamata. Luca e Roberto, non si sono mai persi. Una vita insieme: gol, assist, sguardi e ora anche le lacrime a unirli in una notte indimenticabile. Per noi e per loro.

Da tuttomercatoweb.com il 18 luglio 2021. "Mancini ha ricordato l'esempio di Boskov", titola oggi La Gazzetta dello Sport con le parole di Gianluca Pagliuca. "Lo scriva pure, non mi vergogno: domenica mi sono commosso anch’io, insieme a loro", esordisce così l'ex portiere della nazionale e della Samp: "Quando ho sentito la dedica di Roberto ai sampdoriani e a Paolo Mantovani, il presidente che gli ha insegnato come si può voler bene anche nel calcio. E quando ho visto lui e Luca avvinghiarsi e piangere insieme. Ho messo la foto in tutti i miei social: meravigliosa. In quell’abbraccio c’era un pezzo di storia della nostra vita, non solo della carriera. C’era tutta quella Samp, ricordi indimenticabili. Ecco, mi piace credere che in quei trenta secondi anche a loro siano tornati in mente". 

Mancini da allenatore ha sempre voluto vicino gente della Samp: "E’ stato bravo anche in quello. Lui ha bisogno di avere vicino solo quelli di cui si fida ciecamente, sceglie di circondarsi di persone che anzitutto lo capiscano. Nella vita, ma anche nel calcio: Chicco, Attilio, Fausto, Giulio, Massimo sono con lui da una vita, non può sbagliarsi. Roberto ricorda tutto ed è molto generoso con chi ha rispetto di lui: quando decide che uno per lui è amico, è amico". 

Ci racconta la magia di quella Samp?

"Spesso si dice “come una famiglia”, ma è una frase fatta. Non per noi: in quella Samp ci si voleva bene come fratelli, ci si rispettava come parenti. E ci si ritrovava sempre nella stessa casa, noi del nucleo storico: io, Mannini, Vierchowod, Pellegrini, Lombardo, Mancio, Vialli. E quando arrivava qualcun altro gli aprivamo la porta". 

E in tutto questo, Boskov?

"Era quello che ci teneva tutti attaccati. Il numero uno assoluto nella gestione del gruppo, a modo suo: grande rispetto per i giocatori più esperti, faceva finta di dare la colpa ai più giovani ma poi coccolava pure loro. Sempre tranquillo, l’aplomb di chi ha in mano il controllo della situazione. E funzionava e ha ispirato Roberto. Da Boskov ha imparato che avere un gruppo forte e saperlo gestire bene può essere la tua arma migliore. Mancini alla sua Nazionale ha dato grande tranquillità e ha insegnato il senso della forza di essere tutti dalla stessa parte. Ho visto anche qualche allenamento della squadra: clima splendido, tutti sereni, uniti. Anche in questo Roberto è stato perfetto".

Paolo Brusorio per "la Stampa" il 12 luglio 2021. In fondo Vujadin Boskov ci era arrivato tanti anni fa, basta pescare nel repertorio del tecnico di quella magica Sampdoria per avvicinarsi alla verità. «Dove tutti vedono sentieri, grandi giocatori vedono autostrade». E lo diceva di Roberto Mancini. E lo diceva con una convinzione tale che se fosse ancora vivo sarebbe il primo ad applaudire il suo ex numero 10. Ora lo possiamo dire, davanti a Roberto Mancini, nel maggio del 2018 non c' erano sentieri, ma un grattacielo da scalare. E noi stavamo sottoterra, nelle cantine. Tre anni abbondanti dopo, l'Italia è sul tetto d'Europa e ce l'ha portata questo signore che compie 57 anni a novembre, ct prodigio, se ce n' è uno, dopo esserlo stato come giocatore. Il prossimo 13 settembre fanno quarant' anni esatti dal suo esordio in serie A e allora è quasi logico che il 4 ottobre cadano gli anta dal battesimo del gol, a Como, e, ovviamente, con la maglia del Bologna. Tutto subito, tutto in fretta. Il talento immenso da calciatore, però, non poteva essere garanzia di successo sulla panchina della Nazionale. Vero, il Mancio ha vinto e stravinto con l'Inter, ha portato il Manchester City al titolo in Premier rompendo un digiuno che durava da 44 anni. Ma la Nazionale, chi l'avrebbe mai detto? Anche qui: peggio non si poteva fare dopo un fallimento come quello di Ventura, serviva però un visionario per immaginarsi un cammino simile. Un visionario. O una visione. Quella che ha sempre avuto Mancini. L' intuizione è di Costacurta, al tempo vice commissario della Figc post Tavecchio, è lui che lo chiama in azzurro. Mancini, che stava allo Zenit, un po' ci pensa, ne parla con Vialli, e con chi altrimenti?, e poi dice sì. «Il bello di allenare una nazionale è che non devi fare il mercato. Per un allenatore è stressante». Non fa mercato il ct, ma sa che oltre a dare una forma tecnica all' Italia deve lavorare sulla testa dei giocatori. A prescindere dai nomi. C' è una nube nera che incombe su ognuno di loro, peggio di quella fantozziana. Fissa subito un obbiettivo, è il Mondiale del Qatar. Lunga gittata. Sembra voler mettere le mani avanti, ma gli serve uno scudo per proteggere chi veste la maglia azzurra. Caricarli subito di responsabilità non avrebbe senso, i superstiti del disastro sono scioccati, le reclute hanno una fottuta paura di accostarsi a una maglia pesante come fosse una lettera scarlatta. Comincia battendo l'Arabia Saudita in uno stadiolo della Svizzera, riparte da Balotelli ed è convinto di farne il centravanti della sua Nazionale. Non ci riuscirà, ma quando ci rinuncia è consapevole di averle provate tutte. Pesca gli azzurri in ogni mare, un giorno chiama Vincenzo Grifo e tutti a chiedersi, «ma chi è mai questo Grifo», arruola Piccini e le facce si allungano. Boh. Più esercitazioni di gruppo che convocazioni, deve testare il materiale umano il ct. Senza mettere pressioni ad alcuno di loro. In Portogallo, per dirne una, va a giocare una partita di Nations League con Caldara e Romagnoli centrali, in attacco c' è Zaza. Dispersi tutti. Italia sconfitta, ma neanche di quella sera il ct butta via qualcosa. «Giocate e divertitevi»: la sua è una formula semplice, ma bisogna avere le (s)palle per sostenerla. Sa di non operare a cuore aperto, di fare un gran bel mestiere. Come gli ha detto Vialli, solo più tardi entrato nel gruppo, nei giorni che hanno preceduto l'investitura: «Roberto, dal calcio abbiamo avuto tanto e ora è giusto fare qualcosa per sdebitarci». Poi, certo lui al pallone non ha mai dato del voi, il colpo di tacco contro la Svizzera senza neanche rovinarsi la piega, dei capelli e dei pantaloni, è la sublimazione del suo talento. Lo fa durante Italia-Svizzera, seconda partita dell'Europeo, lo fa da ct ed è come se avesse fermato il tempo. Non ha mai avuto un centravanti come si deve e si era pure inventato un tridente leggero per ovviare alla lacuna, poi ha deciso che si sarebbe fatto andare bene Immobile o Belotti a targhe alterne. Li ha sempre difesi, «coccolati» come dice lui, ma vedere come si spazientisce a ogni svirgola è sufficiente per comprendere che, ecco, come dire, il concetto che ha della tecnica è un altro. Gli hanno dato una pietraia e lui ne ha fatto una miniera: il contratto gli dura fino al 2026, allungato prima ancora che vincesse qualcosa alla vigilia degli Europei. Due milioni il primo ingaggio, ora raddoppiato. Ci ha messo la faccia, ovunque, Mancini e ridato un senso alla Nazionale. Ha superato Vittorio Pozzo, un signore che ha vinto due Mondiali, nelle gare di fila senza sconfitte, era l'unico sicuro di arrivare nelle prime quattro a questi Europei. Appunto, visione e visionario insieme. Da bambino la mamma, su suggerimento della maestra che vedeva sempre un po' troppo agitato, lo obbligava a bere camomilla prima di andare a scuola. Non per niente, la calma è la virtù dei forti.

Gianluca Vialli e la lotta con il tumore: "Un compagno di vita indesiderato, spero si stanchi di me". Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Gianluca Vialli ha svelato a Sogno Azzurro, la docu-serie di Rai Uno sulla Nazionale italiana realizzata da Donatella Scarnati, la sua battaglia contro il cancro. "Si tratta di un compagno di viaggio indesiderato, ma devo andare avanti, viaggiare a testa bassa senza mollare mai, sperando che si stanchi e mi lasci vivere ancora per tanti anni", ha confessato ai microfoni Rai. L'ex calciatore ora e capo delegazione della nazionale italiana, guidata dal suo amico Roberto Mancini. Vialli si augura la sua storia possa essere d'esempio. "Sono stato un giocatore e un uomo forte ma anche fragile e penso che qualcuno possa essersi riconosciuto. Sono qui con i miei difetti, le paure e la voglia di far qualcosa di importante". Non potevamo mancare nella docu-serie anche parole sul suo rapporto con Mancini, che insieme hanno formato una delle coppie-gol più letali del calcio italiano. "Ci siamo conosciuti in Nazionale quando eravamo ragazzini. Era un giocatore forte, tecnico, velocissimo. Ricordo che la prima volta insieme mangiammo e parlammo della Sampdoria. Nei miei gol c'era il suo piede e nei suoi il mio", ha svelato. "Mancini è un leader serio, tranquillo che non deve dimostrare più niente a nessuno. In Nazionale c’è grande equilibrio, grande disciplina e libertà. Ci sono delle regole ma si fida dei giocatori. A Genova avevamo la stessa idea di vita, condividevamo tutto. Roberto era un giocatore di classe, che faceva divertire, era bello da vedere. Eravamo intercambiabili”, ha infine concluso Vialli. 

Francesco Persili per Dagospia il 28 giugno 2021. Una vita da gemelli del gol. Nell’abbraccio di Mancini e Vialli a Wembley dopo le reti azzurre c’è un mondo, e uno stile. Lo stile Samp. Calcio, allegria, amicizia e uno scudetto storico che li ha uniti per non dividerli più. Cos’è che ha trasformato quei ragazzi con la maglia blucerchiata nella squadra campione d’Italia nell’anno di grazia 90-91? Il Presidente illuminato Paolo Mantovani che cacciava i giocatori che si presentavano con il procuratore per discutere di un rinnovo? O l’allenatore Boskov che non esentò Marco Lanna dal farsi la foto di squadra dopo un incidente stradale nonostante il difensore avesse i capelli alla mohicana e i cerotti in ogni parte del corpo: “Tu stato stupido, giusto così. Almeno vedi foto e ricorda”. Amori che vengono e amori che vanno, le avventure di Vialli con la dama della tv, Lombardo con la parrucca, Pagliuca depilato (“Mia mamma non mi fa entrare in casa se mi faccio biondo”). Cerezo che rispondeva così alle critiche di Sacchi: “Io so’ lento perché voglio andare lento, sono jogadore tutto cervello. Non sono uno che corri sempre, corri corri e dove vai se corri.” E poi Mancini, che era già un allenatore in campo (“Parla, grida, spiega, protesta. Vuole che le cose siano perfette come le vede lui, come sa farle lui”). Quale era l’alchimia di quella squadra? Vierchowod disse no alla Juve dopo aver incontrato Montezemolo a Capri, Luca Vialli riuscì a resistere alle lusinghe di Berlusconi (“A Milano non c’è il mare”). Avevano tutto. Il mare, gli amici. Genova per loro non era solo “un’idea in fondo alla campagna”. Nessuno voleva andarsene. “Il calcio non è una guerra, ma uno sport e un gioco. E nei giochi, si gioca meglio con gli amici”. Le pagine del libro “La bella stagione” (Mondadori) scritto da Vialli e Mancini restituiscono epica e cazzate di quella ciurma di ragazzacci e aiutano a comprendere meglio la filosofia che Mancini e Vialli hanno voluto portare nello spogliatoio azzurro. “Divertirsi e far divertire”, la missione possibile per gli Europei. Anche se Don Fabio Capello dissente e parlando con Claudio Brachino, nella nuova rubrica dell’agenzia Italpress “Primo piano speciale Euro 2020”, sottolinea come il calcio non sia solo “divertimento” ma “fatica, lotta e astuzia”. A calcio, non basta giocare per divertirsi, perchè questa è la più grande balla del mondo, ma bisogna giocare per vincere". Punti di vista, il pallone è un mistero senza fine e non c’è un’unica strada per arrivare al risultato. “Ci sentivamo una famiglia”, ricordano Vialli&Mancini a proposito di quella Samp. La storia dei “sette nani”, spaghettate a mezzanotte e partite a carte. Luca è Pisolo dato che non rinuncia mai alla pennichella, il Mancio è Cucciolo, parla poca e l’aria di chi va coccolato. Moreno Mannini è Eolo. La motivazione ufficiale è che sulla fascia è veloce come il vento ma in realtà è una pietosa copertura. “Moreno ha un talento vero. Scorreggia come un dio. A comando, a piacere, a tradimento…” Una ventata di allegria nel calcio italiano, una bella stagione che non passa mai di moda. Sul prato di Wembley, nella finale di Coppa Campioni del ’92, al tramonto dei tempi supplementari, si infransero i sogni della Samp-gloria. Nel tempio del calcio inglese, 29 anni dopo, i tempi supplementari hanno tenuto in vita il sogno di tornare a Londra per semifinali e finale. Dopo l’abbraccio con Vialli di Wembley, la serata alla Amici miei a Coverciano. Una grigliata, la pizza e Belgio-Portogallo in tv. La banda del Mancio ha portato in azzurro lo stile Samp. Calcio, divertimento, amicizia. Nel calcio si gioca, e si vince, meglio con gli amici.

Zdenek Zeman. Da fanpage.it il 14 ottobre 2021. Sembra una giornata estiva nonostante l’autunno sia ormai alle porte. Foggia è così, spesso le stagioni decidono da par loro. Visto dal rettangolo verde lo stadio Pino Zaccheria assume una visuale diversa rispetto a quando ci si siede sulle gradinate. Mentre osserviamo l’architettura dell’impianto ecco che si materializza dal tunnel una delle sagome più famose e più discusse del calcio italiano degli ultimi trent’anni. Zdenek Zeman si guarda intorno, punta verso di noi e dopo esserci presentati si siede: “Possiamo partire quando volete, io sono pronto”. Un saluto breve ma cordiale. Quello tra il boemo e la città pugliese è un amore che spesso ha vissuto dei momenti difficili ma poi si è tutto risolto: come direbbe un noto cantautore romano, “certi amori fanno dei giri immensi e poi ritornano”. È la quarta volta che il tecnico nato a Praga siede sulla panchina dei Satanelli e i rossoneri puntano ad un campionato di vertice nel girone C di Serie C.  Dopo più di tre anni di inattività Zeman è ripartito proprio dal capoluogo pugliese e inevitabilmente i pensieri sono andati a quel periodo straordinario che ha portato la città ad essere sulla bocca di tutti in Italia e in Europa: ‘Zemanlandia’ è un patrimonio calcistico ancora vivo soprattutto nella Capitanata ma in tutta Italia ricordano quegli anni mi cui andare allo Zaccheria era un ‘inferno' (Alessandro Costacurta dixit). Il martedì gradoni, il giovedì partitella con tre tempi da 30’: “perché non cambi mai” cantava Antonello Venditti, e Zeman non lo ha mai fatto in tutta la sua carriera. Ai microfoni di Fanpage.it l’allenatore boemo ha parlato del Foggia, del momento che vive il calcio italiano, dei suoi contrasti con la Juventus e della tecnologia applicata al calcio. A modo suo. 

Zeman, cosa l’ha riportata in panchina dopo più di tre anni di inattività?

“La speranza che il Covid finisse. Durante il Covid era difficile fare calcio, allora ho aspettato che si risolvesse il problema per tornare a fare quello che più mi piace”. 

Perché proprio Foggia? Qual è il suo legame con questa città e con questa squadra?

"Ho sempre lavorato bene a Foggia. È una piazza che vive di calcio, la gente si interessa, a me interessa dare qualche cosa alla gente e qua si può fare se uno lavora e riesce a fare quello che vuole".

Quando si parla di ‘Zemanlandia’ ci sono persone che si emozionano e appassionati che ricordano ogni istante di quegli anni: crede che sia possibile nel calcio di oggi qualcosa di simile? 

“Quel termine non l’ho inventato io, anche se mi dà soddisfazione; ma bisogna parlare di Foggia Calcio, della squadra che ha fatto quello che ha fatto ed è stato un peccato che sia finito. Ma quattro anni in Serie A sono stati un lusso. Visto che cambiano tante cose, io mi auguro che ci tornerà di nuovo“.

Lei ha iniziato ad allenare in C: ci sono delle differenze tra la Serie C di allora e quella di oggi?

"Io ho allenato prima il settore giovanile del Palermo, poi c’è stato il fallimento e ho avuto l’occasione di allenare in C2 a Licata. Oggi il calcio è cambiato: adesso è più fisico mentre prima era più tecnico". 

Si parla spesso del calcio italiano rispetto a quello europeo: c’è tutta questa differenze sia a livello giovanile che di prime squadre?

“Io penso che a livello giovanile l’Italia si difenda. Le squadre dall'Under 15 in su hanno fatto sempre buoni risultati. Penso che il problema più grande sia il fatto che le squadra siano costruite da stranieri. La maggior parte di ragazzi che hanno talento e hanno fatto il settore giovanile hanno una strada più difficile per arrivare ad affermarsi in Serie A“.

Le sarebbe piaciuto confrontarsi in questa Serie A, che mai come quest’anno sembra essere il “campionato degli allenatori”?

“Sì, anche se in Serie A in questo momento ci sono problemi importanti a livello economico. È difficile costruire una squadra a immagine dell’allenatore, quindi è difficile valutare. Poi è normale che uno voglia misurarsi in Serie A con gli altri”.

Quali sono le squadre o gli allenatori che le piacciono di più in Italia in questo momento?

“Ce ne sono tanti bravi. Sono pochi quelli che riescono a far giocare bene. Italiano è uno di questi, perché riesce a trasferire i suoi concetti alla squadra“. 

La rivista France Football l’ha inserita tra i trenta migliori allenatori della storia qualche anno fa e i suoi principi sono facilmente riscontrabili in alcune squadre di alto livello: pensa di aver dato più lei al calcio o il calcio a lei?

“Io penso che ho dato e ho ricevuto. È normale che a fare tanti anni in Serie A si riceva qualcosa. Anche se non ho vinto niente la mia squadra ha sempre fatto parlare di sé per quello che faceva sul campo“. 

Lei ha sempre detto “Il risultato è casuale, la prestazione no”: cosa pensa della divisione tra risultatisti e giochisti di cui si parla tanto negli ultimi anni? 

“Per me è un dibattito che non esiste. In primis perché se una squadra gioca bene su dieci partite ne perde una. E, secondo, vincere a tutti i costi può portare a cose strane. A tutti i costi non esiste: bisogna misurarsi e giocarsela, poi chi è più bravo deve vincere. Bisogna dare sempre grande importanza ai meriti”.

Insigne, Immobile e Verratti hanno iniziato a vincere con lei e sono arrivati sul tetto d’Europa. Hanno dato quello che lei si aspettava?

“Io li ho avuti 10-12 anni fa ma ho lavorato anche con Florenzi e Barella, che non ho mai fatto giocare ma in allenamento si vedeva che aveva del talento. Sono contento che gente con talento arrivi a fare grande calcio. Magari c’era qualcun altro che non è riuscito ad arrivare, ma in alcuni casi non per colpe sue”. 

I suoi contrasti con la Juventus, e alcuni suoi dirigenti, sono noti e molti attribuiscono a lei un risentimento verso il club perché non è mai stato preso in considerazione per la panchina bianconera non riuscendo a ripercorrere le orme di suo zio Cestmír Vycpálek: c’è un fondo di verità oppure è falso?

“Non è vero. È vero che tutti gli allenatori hanno ambizione di arrivare alla Juventus, ma dipende in che contesto ci si inquadra. Io avevo possibilità di parlare della Juventus più ai tempi di Boniperti che in altre occasioni”. 

Lei è stato tra i primi a sollevare il tema del doping. C’è, nel calcio di oggi, una problematica di cui non si parla ancora abbastanza?

“Io ho parlato prima di abuso di farmaci. C’era gente che prendeva 20 pillole al giorno, non penso che chi fa sport ne abbia bisogno. Poi è venuto fuori che c’era doping vero. È stato tutto prescritto, come spesso accade qui, e si è chiusa la storia. In generale, le statistiche dicono che l’Italia è il paese più dopato del mondo in percentuale. C’è qualcosa che non va e non si riesce a risolvere. Parlo di sport in generale, non soltanto di calcio“.

La prima cosa che ha pensato quando si è cominciato a parlare di Superlega qualche mese fa.

“Non mi piace. Io penso che il campionato nazionale ha il suo interesse e faccia da richiamo a tanta gente che lo segue. Se si levano 4-5 squadre, non ha più molto senso“. 

Il VAR finora l’ha vissuto solo da spettatore, non sul campo. Ma che idea si è fatto del modo in cui viene utilizzato?

“Io all’inizio ero contrario perché avevo fiducia negli arbitri, ma capisco che non sempre si può avere perché nessun arbitro è infallibile. Così come penso che neanche il VAR sia infallibile. Sicuramente ha aiutato a risolvere situazioni che restavano irrisolte”. 

Se avesse potere decisionale, una carica dirigenziale, quale sarebbe la prima riforma che spingerebbe per portare avanti?

“Io faccio fare agli esperti, a me piace il campo. Qualcuno c’è riuscito a togliermi dal campo, ma poi mi ci sono sempre ritrovato e sono contento così. Oggi c’è da tenere in conto la questione economica e i problemi delle squadre più grandi, che hanno dei debiti che non so come si possano pareggiare. È evidente che il calcio è considerato diversamente dalle altre aziende”.

Roberto Mancini. Dagospia il 9 novembre 2021. Estratto da "Euro 2020, Wembley s' inchina all'Italia" di Alberto Rimedio (ed. Diarkos), pubblicato da “la Repubblica”. Una sera Fabbricini viene invitato a cena dal professor Francesco Cognetti, noto oncologo e suo amico. Arriva un po' in ritardo, pieno com' è di impegni in una fase delicatissima per il calcio italiano. C'è anche Massimo Fabbricini, fratello di Roberto, ex responsabile della comunicazione del Coni, presidente del Circolo canottieri Aniene, uno dei più prestigiosi nella capitale. E poi c'è Claudio Ranieri. Tutti sono accompagnati dalle rispettive signore. Cognetti è di Catanzaro, dove Ranieri ha giocato negli anni 70 e 80, e lo frequenta da una vita. Roberto Fabbricini vuole conoscere il tecnico e l'amico comune è il tramite ideale. La serata scorre serena tra persone che hanno tante cose in comune: Massimo ricorda un aneddoto di gioventù, lui giornalista e Claudio calciatore della Roma, appena approdato in prima squadra con il mago Helenio Herrera. Tra l'altro Ranieri si informa sulla possibilità di iscriversi al Canottieri Aniene. Durante la cena l'argomento Nazionale è appena sfiorato, ma ormai il contatto c'è stato, Roberto e Claudio si scambiano i numeri e la trattativa può partire. (...) La questione commissario tecnico sta a cuore anche ai futuri vertici, che vorrebbero incidere sulla scelta. Contattano allora Fabbricini e gli chiedono di temporeggiare per la nomina: anzi, vanno oltre e rilanciano la candidatura di Antonio Conte, ct dal 2014 al 2016 e sotto contratto con il Chelsea. Sostengono che Conte sarebbe disponibile a tornare in azzurro e a riprendere il lavoro interrotto due stagioni prima. Fabbricini incontra Costacurta e Uva. Riferisce l'idea Conte, ma non trova sostegno: «L'attuale gruppo dirigente è pienamente in carica. A settembre e ottobre la Nazionale giocherà quattro partite, tre di Nations League: non si può arrivare a quelle gare senza un ct». Il secondo tentativo di Fabbricini riguarda invece il suo candidato: «Ranieri secondo me è la persona giusta, accetta anche le nostre condizioni economiche». L'aspetto non è secondario, anzi può essere determinante, perché le casse della Federcalcio non permettono alla gestione commissariale un esborso eccessivo. Costacurta e Uva però non sono convinti del profilo di Ranieri. Lo stimano molto, come uomo e come allenatore. Ritengono però che il "Rinascimento del calcio italiano" debba passare da un nome che goda di un appeal ancora maggiore. Fabbricini è un po' in difficoltà, ma capisce che l'accordo di massima raggiunto con Ranieri non può avere un seguito. Sono in due a preferire un'altra ipotesi e l'appoggio di Uva rafforza la posizione di Costacurta, che ha ricevuto l'incarico specifico di individuare il nuovo ct. Fabbricini chiama Ranieri e gli comunica che l'affare non si farà. Uva e Costacurta non hanno incontrato personalmente Ranieri. Hanno invece avuto modo di confrontarsi dal vivo con Ancelotti e con Mancini. Carlo è una vecchia conoscenza di entrambi. Di Costacurta è stato compagno al Milan e in Nazionale, poi è diventato suo allenatore in rossonero, insieme hanno vinto tutto. Uva, invece, era il direttore generale del Parma nelle due stagioni in cui Ancelotti allenò la squadra emiliana, dal '96 al '98. Carlo è reduce dalla sfortunata esperienza con il Bayern Monaco, esonerato a settembre dopo un inizio balordo e qualche polemica con lo spogliatoio. Non dice no all'ipotesi di guidare la Nazionale, ma avanza tanti dubbi: «Non abbiamo ancora la generazione giusta, ci vorrà un sacco di tempo per tornare competitivi, forse dopo il Mondiale in Qatar. E poi mi piacerebbe continuare ancora in un club». Di soldi non si parla, le perplessità prevalgono sulle aperture. Anche Mancini ha lavorato con Uva, uno allenatore e l'altro amministratore delegato alla Lazio nel 2002. Di Costacurta è stato compagno in Nazionale e avversario in tante sfide di Serie A. Al contrario di Ancelotti si dice entusiasta dell'ipotesi e mostra un'intuizione che in quel momento, con l'Italia calcistica sotto un treno, sembra follia: «C'è una nuova generazione che sta crescendo, è di grande valore. Io la metterei subito in campo, forse pagheremo qualcosa all'Europeo ma per il Mondiale saremo pronti». 

Da corriere.it il 10 ottobre 2021. Lui ci scherza, anche se si trova alla vigilia di una gara ufficiale: «Un commento sui Pandora Papers? Magari non sarò in panchina, ma a portare i soldi chissà dove...». Sono le parole che pronuncia sorridendo il c.t. azzurro Roberto Mancini poco prima di Italia-Belgio gara valevole per il terzo-quarto posto della Nations League. Un sorriso tutto sommato amaro per il c.t. azzurro che ha un ruolo del tutto marginale nell’inchiesta giornalistica denominata appunto «Pandora Papers» ed incentrata sui paradisi fiscali off-shore di statisti, politici e vip, da politici e reali come Tony Blair o Abdullah di Giordania a esponenti celebri dello sport come Carlo Ancelotti e Pep Guardiola. Mancini viene indicato nei documenti come l’azionista di Bastian Asset Holdings, società con sede nel paradiso fiscale delle British Virgin Islands. La società caraibica di Mancini sarebbe stata proprietaria di un aereo, un Piaggio P180, successivamente venduto. Nel 2009 poi Mancini era ricorso al cosidetto scudo fiscale, voluto dall’allora ministro Tremonti, provvedimento che permetteva con il versamento di una quota forfettaria pari al 5 per cento del valore dei beni detenuti all’estero non solo il rientro degli stessi, ma anche la non punibilità. Cosa quest’ultima che non avrebbe dovuto neanche interessare Mancini visto che la sua posizione era anche all’epoca non perseguibile dall’erario italiano.

Da ansa.it il 23 luglio 2021. "Non solo un grande campione e professionista, ma un esempio di valori positivi e un vero testimonial della sua terra". Con questa motivazione, al ct azzurro, Roberto Mancini, è stata conferita la Laurea ad honorem in Scienze dello Sport da parte dell'Università di Urbino. "Un riconoscimento che intende valorizzare sia la persona sia lo sport ma anche il territorio nazionale in questa fase di ripresa dopo la pandemia", spiega il presidente dell'Accademia dei Marchigiani dell'Anno in Italia, Mario Civerchia, sostenitore della proposta di conferimento accolta dal Magnifico Rettore dell'Università di Urbino, Giorgio Calcagnini.

Paolo Fiorenza per fanpage.it il 20 luglio 2021. L'Italia ha piazzato ben 5 giocatori nella Top 11 dei campionati Europei che l'hanno vista trionfare a Wembley, a testimonianza di una rosa dalla qualità davvero molto alta. Ma la trasformazione della semplice somma dei nostri talenti in un gruppo invincibile – la Nazionale azzurra non perde da 34 partite – non sarebbe stata possibile senza il lavoro meraviglioso di Roberto Mancini. Il docufilm ‘Sogno azzurro, la strada per Wembley', trasmesso giovedì sera sulla Rai, ha fatto capire realmente lo spessore umano e la capacità di guidare una squadra alla vittoria del CT dell'Italia. Un miracolo quello compiuto dal CT jesino in appena tre anni dal disastro della mancata qualificazione ai Mondiali, con le macerie della gestione Ventura da raccattare e mettere assieme. Di Mancini nel docufilm si vedono l'empatia davvero toccante con i suoi ragazzi, me anche le riunioni tattiche prepartita. Ed è lì che forse per la prima volta si può apprezzare quanto sia mostruosamente bravo l'allenatore campione d'Europa: tutto quello che lui prevede possa accadere contro una certa squadra, puntualmente si verifica in campo. Le telecamere inquadrano il suo discorso alla lavagna prima di Italia-Galles, terzo ed ultimo match del girone vinto a punteggio pieno dagli azzurri. Il Mancio prima scrive come d'abitudine la formazione titolare che scenderà in campo, poi dà le dritte giuste alla squadra: "Quando andiamo a crossare, non facciamo cross alti. O forti sul prima palo o forti tra portiere e linea difensiva". A quel punto le immagini cambiano rapidamente scenario: stadio Olimpico, 39′ del primo tempo, c'è una punizione dalla trequarti destra. Verratti batte forte e teso sul primo palo, dove irrompe Pessina che segna il gol vittoria dell'Italia. Più chiaro di così…Altro match, altro briefing prepartita, stavolta prima dei quarti contro il Belgio. Mancini è sempre alla lavagna, elegantissimo, e parla col suo tono di voce estremamente pacato, che entra nell'animo: "Massima tranquillità e giocare come abbiamo sempre giocato. Dimentichiamo tutto quello che abbiamo detto in questi giorni. Sappiamo che affrontiamo una squadra forte, com'è giusto che sia un quarto di finale. Ok? Difendere sempre insieme, se siamo qua (indica la trequarti difensiva, ndr) difendiamo qua. De Bruyne inizierà a dribblare perché è veloce, potente, tecnico. Quindi essere abbastanza stretti quando ha la palla lui e pressare, perché lui la può mettere ovunque. A 60 metri mette la palla, sopra la difesa mette la palla… ovunque lui sia, può mettere la palla dove vuole. Però dobbiamo fare tutto questo di squadra". Le immagini cambiano e si vede De Bruyne in azione qualche ora dopo contro l'Italia, provare in campo esattamente le giocate predette del Mancio. Ma gli azzurri sanno esattamente cosa fare e lo fermano sistematicamente. Si torna ancora indietro alla riunione tattica e Mancini passa alla fase offensiva: "Quando arriviamo lì, calma. Ci concederanno diversi tiri da qua (indica lo spazio appena fuori dall'area del Belgio, ndr), quindi con calma ci si prepara bene o si può tirare". Altro salto in avanti di qualche ora e siamo di nuovo sul terreno di gioco dell'Allianz Arena di Monaco: Insigne prende palla a metà campo, salta un avversario come fosse un birillo ed arriva fino al limite dell'area, dove nessuno esce a prenderlo, esattamente come predetto dal Mancio. Tiro a giro specialità della casa e gol del raddoppio azzurro. Poco dopo le immagini mostrano Insigne spiegare il giorno dopo come lui sapesse benissimo cosa sarebbe accaduto: "Ho portato palla, non usciva nessuno, sapevamo che non usciva nessuno là". Spesso si dice che l'allenatore bravo sia quello che fa meno danni, ma poi ci sono quelli davvero bravi. Quelli che conoscono intimamente quella materia di cui sono fatti i sogni a forma di pallone. Quelli che vincono. Roberto Mancini è uno di loro.

MANCINI PERSEGUITATO DALLA STAMPA. Da ilfattoquotidiano.it del 21 gennaio 2016. Ci era cascato anche Roberto Mancini. Anche l’allenatore dell’Inter, veloce nello scagliare la pietra contro Maurizio Sarri, reo di averlo apostrofato come “frocio” e “finocchio” durante il recupero di Napoli-Inter giocata martedì in Coppa Italia, in passato ha insultato usando lo stesso termine. Molto tempo fa – ed è bene tenere a mente che le persone si ravvedono e maturano – ma è successo. E nella caccia agli scheletri nell’armadio di questi giorni, come se il “così fan tutti” assolvesse Sarri dalle sue colpe, salta fuori un episodio che riguarda proprio il tecnico nerazzurro, al quale in molti avevano già fatto notare la diversità di vedute riguardo la necessità di denunciare o meno espresso in seguito agli insulti razzisti di Sinisa Mihajlovic all’indirizzo di Patrick Vieira durante Lazio-Arsenal. Bisogna riavvolgere il nastro fino al dicembre 2001, quando Mancini sedeva sulla panchina della Fiorentina e non attraversava un momento felice dopo la vittoria della Coppa Italia nella primavera precedente. La Gazzetta dello Sport scrisse che il centrocampista viola Amaral aveva fatto rientro in Brasile prima della pausa natalizia. Secondo quanto riferito dalla società era in permesso, mentre il quotidiano sosteneva la tesi di un litigio con Mancini e della conseguente partenza del brasiliano, ormai fuori dal progetto tecnico. L’allenatore chiese quindi un incontro con il giornalista Alessio Da Ronch prima di una conferenza stampa. Come andò il fatto a faccia lo racconta ora Gazzetta.it, che ha contestualizzato il caso dopo che la notizia, più a grandi linee, era stata diffusa dal sito FirenzeViola: “Mancini comincia ad insultare: Alessio fa per andare e a quel punto Mancini lo apostrofa così: ‘Sei un frocio di m…., vieni qui’ – scrive – A quel punto Alessio reagisce, soltanto verbalmente, torna indietro e Mancini viene trattenuto prima che la lite degeneri”. Il tutto davanti all’addetto stampa della Fiorentina, a un altro collega e ad alcuni giocatori attirati dalle urla.

DA tuttomercatoweb.com il 20 luglio 2021. Nel corso della conferenza stampa odierna, siparietto tra il ct Roberto Mancini e i giornalisti che lo hanno incalzato sulla possibile formazione azzurra che domani sfiderà la Turchia. "Chi giocherà? Siete così bravi, siete tutti grandi allenatori che non importa", ha detto col sorriso il ct.

DA corrieredellosport.it il 20 luglio 2021. "Da campione d'Europa mi sento molto bene. E' davvero una bella sensazione e sono assolutamente felice, particolarmente per tutti gli italiani in patria e nel mondo. Siamo tutti felici perché abbiamo creato qualcosa di straordinario. Questa Italia resterà nei libri di storia" sono le parole di Roberto Mancini alla radio tedesca Sport1.de. Il ct azzurro ha parlato del trionfo dell'Italia all'Europeo, dichiarando: "La finale del 1992 persa con la Sampdoria a Wembley la ricordo molto bene, adesso però le ferite sono in via di guarigione".

Le parole di Mancini sul trionfo a Euro2020. "Abbiamo festeggiato, ma è successo tutto molto velocemente. Mi è passato davanti come un film. Non avevamo preparato nulla. Ma siamo stati accolti da tante persone per le strade di Roma: è stato bellissimo" ha aggiunto Mancini. Infine, il ct della nazionale italiana ha concluso: "E' stato un momento straordinario, che dura ancora. E tutto ciò appartiene interamente ai miei ragazzi: avevano ragione a volerlo vivere. Ora tutti sono in meritata vacanza da campioni d'Europa".

Carlos Passerini per corriere.it il 19 luglio 2021. La fotografia del c.t. che aspetta il suo turno davanti a un negozio nella sua Jesi sta spopolando sul web ed è una sintesi della nostra Nazionale e delle sue qualità. Educazione, umiltà, rispetto: in fondo, se abbiamo vinto gli Europei, è anche per questo. La straordinarietà della normalità. Che, a pensarci bene, è stato proprio il segreto del successo dei nostri all’Europeo. Maglietta rigorosamente azzurra, bermuda chiari, sneaker, immancabile occhiale da sole: sembrerebbe uno qualunque in coda al salumiere, invece è Roberto Mancini. La foto, nella sua semplicità, anzi proprio per la sua semplicità, sta spopolando sul web. È stata scattata nei giorni scorsi a Jesi, il paese natale del ct, in provincia di Ancona, dove ancora vivono i suoi genitori. Mancio in questi giorni liberi è andato a trovarli. E come capita a tutti noi quando torniamo dove siamo cresciuti e dove tutti ci conoscono per davvero, ecco che il mister delle Notti Magiche 2021 si è immerso appieno nella dimensione di quando era ragazzino. Mancio è in coda davanti a “La Caciotta”, macelleria e salumeria nel centro della cittadina. Mamma Marianna ha un problema a un ginocchio e suo figlio va a farle la spesa, come quando era bambino. Rispetta il suo turno, scambia due parole (non è difficile immaginare il tema) con un concittadino. Poi, via di selfie. Scena di ordinaria normalità, la forza della provincia, dove tutto resta sempre uguale. Roberto ha un saluto e una parola per tutti. Ha posato con le volontarie della Croce Rossa, davanti al vicino ambulatorio. Poi un aperitivo con gli amici di infanzia. Anche uno scatto alla premiazione di un torneo di calcio amatoriale. Sono giorni sereni e bellissimi, per Mancio. Che a Jesi vuole stare vicino alla mamma Marianna che è stata operata a un ginocchio ed è ancora ricoverata in ospedale. Il papà Aldo invece ha raccontato al settimanale Dipiù di aver subito un intervento al cuore: «Devo stare tranquillo, sono del 1935. Ora le partite le guardo in tv». In effetti la finale di Wembley qualche sussulto al cuore ce l’ha regalato a tutti. Ma che bello è stato?

Da sport.sky.it il 19 luglio 2021. "Da campione d'Europa mi sento molto bene. È davvero una bella sensazione e sono assolutamente felice, particolarmente per tutti gli italiani in patria e nel mondo. Siamo tutti felici perché abbiamo creato qualcosa di straordinario. Questa Italia resterà nei libri di storia”. Roberto Mancini, ai microfoni della radio tedesca Sport1.de, è tornato a parlare della recente vittoria dell'Italia a Euro 2020. "La finale del 1992 persa con la Sampdoria a Wembley la ricordo molto bene - ha aggiunto il Commissario tecnico azzurro -, adesso però le ferite sono in via di guarigione. Il titolo vinto ai Mondiali del 2006 può essere sicuramente paragonato a quello degli Europei di quest'anno, perché devi fare sempre grandi cose per vincere certi titoli e i ragazzi di questa Italia le hanno fatte".

"Gli italiani festeggeranno per tutta l'estate". Mancini racconta le forti emozioni legate ai festeggiamenti al momento del rientro a Roma: "Io non sono un festaiolo, non lo sono mai stato. Ma è stato davvero bello festeggiare, soprattutto per il popolo italiano. Penso che la gente continuerà a festeggiare per tutta l’estate. E questo è bello. Mi è passato davanti come un film. Non avevamo preparato nulla. Ma siamo stati accolti da tante persone per le strade di Roma: è stato davvero bellissimo”. Il Ct campione d’Europa ha poi proseguito: "È stato un momento straordinario, che dura ancora. E tutto ciò appartiene interamente ai miei ragazzi: avevano ragione a volerlo vivere. Ora tutti sono in meritata vacanza da campioni d'Europa".

"Il segreto? Grande spirito di squadra". "Il segreto della squadra? Abbiamo iniziato tre anni fa e abbiamo continuato con ragazzi molto bravi fino a oggi. Si è sviluppato un grande spirito di squadra e questi ragazzi lo hanno dimostrato agli Europei. Hanno dato tutto e tutto è andato molto bene. Ecco perché alla fine ce l’abbiamo fatta", ha proseguito Mancini. "Dopo che non siamo riusciti a qualificarci per la Coppa del Mondo del 2018, l'Italia era in svantaggio sulle altre nazionali. Ma subito ho capito che tutti volevano riparare e che erano pronti a sacrificarsi per il Paese. Abbiamo ottenuto un buon mix di giocatori giovani e meno giovani e si è sviluppata una grande unità. Abbiamo dato una possibilità anche a giocatori che tre anni fa non erano molto conosciuti all’estero ed è andata bene", ha concluso il Ct dell’Italia.

Roger Abravanel per il "Corriere della Sera" il 19 luglio 2021. Molti osservatori vedono nella vittoria di Wembley un possibile segnale per la ripresa del Paese. Il New York Times applaude alla rinnovata credibilità internazionale del paese di Mancini e Mario Draghi mentre ogni giorno fioriscono dalle nostre parti interpretazioni più o meno creative sulla riscossa del Paese grazie alla vittoria degli azzurri. Un sottosegretario ha dichiarato che la vittoria porterà il 7% di PIL in più mentre un quotidiano nazionale è uscito con un pezzo «Tra scherma e industrie hi-tech, la Jesi del Mancio ostinata e di successo» nel quale inneggia alle solite «Multinazionali tascabili» come piattaforma del rilancio economico in parallelo al successo globale dei suoi talenti sportivi come Mancini e Valentina Vezzali. La vittoria agli europei è stata sicuramente un piccolo miracolo se teniamo conto che in tre anni Mancini ha costruito una squadra vincente sulle macerie della eliminazione agli ultimi mondiali. Lo ha fatto senza possedere grandi talenti e contro squadre molto più favorite. Più che attendere magici impulsi alla crescita delle nostre imprese dalla vittoria di Wembley solo grazie alla riscossa degli italiani galvanizzati dall'essere diventati i primi d'Europa nello sport più popolare, vale la pena di soffermarsi su ciò che potrebbe imparare dal successo degli azzurri il nostro ecosistema di imprese, università e istituzioni pubbliche responsabili di un rilancio della nostra economia post-covid, reso più difficile da una accelerazione della economia della conoscenza e del talento sulla quale siamo già in grave ritardo. Innanzitutto l'ambizione dichiarata da Mancini di volere costruire un progetto vincente agli europei. Ambizione che troppo spesso manca al nostro capitalismo famigliare che si rifugia nelle «nicchie» e nelle «multinazionali tascabili» e fa sì che oggi siamo il fanalino di coda nelle Fortune 500 , le più grandi aziende del mondo , appunto quelle che vincono nella economia della conoscenza e creano i posti di lavoro ben retribuiti per i laureati che da noi oggi mancano. L'ambizione di Mancini &Co si è poi tradotta in un atteggiamento nei confronti del rischio e della innovazione (attaccare e non difendere, giocare senza centravanti ecc.) che manca totalmente a molte delle nostre imprese che rigettano nuove (e quindi rischiose) forme di crescita e competitività globale come le acquisizioni, l'e-commerce, il marketing ecc. L'ambizione e la ricerca della eccellenza latitano anche nell'altro protagonista della crescita nella economia della conoscenza, i nostri atenei. Mentre la classifica Qs metteva al 149mo posto la migliore università italiana, il Politecnico di Milano, da noi si celebrava una ricerca di Italia-decide, Intesa e Luiss che dimostrava che il 40 percento delle università italiane rientra tra le prime 1.000 del mondo. Il progetto ambizioso di Mancini si è tradotto infine in un'altra dimensione particolarmente carente nelle nostre imprese famigliari e nelle università, la meritocrazia. Selezionare talenti e metterli al posto giusto, puntando su «anziani sicuri» (Bonucci e Chiellini), scoprendo giovani poco noti (Pessina e Locatelli) e facendo rifiorire altri un po' spenti nel campionato (Bernardeschi). Lo stesso Mancini è il risultato di una selezione e non è lì perché suo padre guidava la nazionale. Meritocrazia sconosciuta nel capitalismo familista italiano che durante le settimane di euro 2020 ci sottoponeva all'antico e deprimente rito dei politici che portavano i loro omaggi al convegno di Confindustria «giovani imprenditori» che in gran parte sono figli di imprenditori (sempre meno giovani). Per non parlare del rifiuto cronico da parte dei nostri atenei della meritocrazia e della competizione che portano da sempre a scandali sulle carriere dei docenti e alla fuga dei «cervelli» che ormai non scandalizzano più nessuno. Infine la forza della idea di «squadra» azzurra che manca totalmente a un ecosistema economico in cui le regioni competono tra loro per promuovere a Shanghai il Bel Paese e il potere giuridico blocca la crescita delle imprese paralizzando il potere decisionale della PA e la giustizia civile. Le lezioni dalla vittoria di Wembley per l'ecosistema economico italiano sono interessanti anche se il rilancio del Paese è sfida ben più complessa della vittoria a euro 2020. Il paragone calcio-economia è un po' stiracchiato perché, se l'ultimo «miracolo economico» e di 50 anni fa, di «miracoli calcistici» ce ne sono stati diversi prima di quello di Wembley. Un secondo posto nel '70 dopo la mancata partecipazione del '66, quarto e primo posto nel '78 e '82 dopo l'eliminazione al primo turno del '74, vittoria ai mondiali del 2006 dopo l'eliminazione al primo turno del 2002. Alla fine, ogni 10-15 anni un miracoletto l'Italia del calcio lo ha sempre piazzato. Perciò, anche se c'è molto da imparare dal successo di Wembley, la sfida e le ricette per riscattare un ciclo negativo calcistico non sono le stesse di quelle per invertire un declino quasi secolare. Soprattutto viene da chiedersi perché il mondo dell'economia e delle istituzioni italiane non riesce da cinquant' anni a darsi una iniezione di ambizione, innovazione, meritocrazia e spirito di squadra come invece fa, periodicamente, la nostra nazionale. Qui, forse, una differenza chiave la facciamo noi italiani: tifosi esigenti nel chiedere un cambiamento dopo le sconfitte ma cittadini e operatori economici sonnacchiosi che tollerano un declino che va avanti da cinquanta anni illudendosi che vada tutto bene, senza provare davvero a capire cosa non va e accettando senza critiche le numerose sbagliate diagnosi e ricette proposte delle élite imperanti della politica e della economia e in più diffuse da media di bassa qualità. 

Vincenzo Sansonetti per “Oggi” il 16 luglio 2021. «Credo nelle apparizioni di Medjugorje e ci sono andato diverse volte, parlando anche con i veggenti». Parola di Roberto Mancini, Ct degli azzurri campioni d’Europa, uomo di grande fede «nato e cresciuto in parrocchia» e devoto della Madonna apparsa nella ex Jugoslavia la prima volta 40 anni fa. «Le persone che pregano hanno un aiuto; se si inizia, e si va avanti un po’ alla volta, si ha un grande beneficio e si matura come persone». La nazionale italiana di calcio, vincitrice nella bolgia di Wembley, e stata sorretta dal tifo di un intero Paese, forse di un intero continente, compresi i nazionalisti scozzesi, ma avrebbe anche avuto una tifosa del tutto speciale: la Madonna. L’artefice dello straordinario successo, Roberto Mancini, non ha mai nascosto infatti la sua particolare devozione per la Vergine che appare dal lontano 1981 a sei veggenti, allora ragazzi e oggi padri e madri di famiglia. Ne aveva già sentito parlare da don Mario Galli, cappellano della Sampdoria, la squadra in cui allora giocava. Ma la svolta avviene il 25 marzo 2012 quando, spinto dal giornalista e scrittore Paolo Brosio, si reca pellegrino con moglie e figlia nella cittadina dell’Erzegovina, dove incontra a tu per tu la veggente Vicka, che gli era apparsa in sogno qualche giorno prima, e rimane folgorato. Di ritorno in Inghilterra, dove Mancini allenava il Manchester City, ecco il primo “segno”: con 8 punti di distacco dagli storici rivali del Manchester United a 6 giornate dalla fine del campionato, la sua squadra recupera lo svantaggio e vince la Premier League all’ultimo secondo dell’ultima partita. Era, guarda caso, il 13 maggio, giorno della prima apparizione a Fatima. L’11 luglio 2021, dopo una striscia vincente di sei partite, conquista il trofeo continentale più ambito. Merito della squadra e delle parate del portiere Gigio Donnarumma, indubbiamente. Una vittoria sofferta meritata sul campo. E forse maturata anche fuori, visto quel che pensano molti credenti, per i quali e del tutto realistico immaginare un intervento della Madonna per dare una mano al suo amico Roberto. Di questo e sicuramente convinto il c.t. marchigiano. Ma più laicamente la devozione alla Regina della Pace può avergli offerto quel distacco e quell’umiltà che lo hanno accompagnato nell’avventura europea fino al trionfo. Prossimo traguardo? I mondiali del 2022 nel Qatar. Sempre sotto la benedizione di Maria.

Stefano Agresti per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2021. Più che ammirato, e certamente lo è, Arrigo Sacchi è sorpreso. Stupefatto, quasi. Non per il risultato dell'Italia, ma per il modo in cui gli azzurri sono arrivati a questo traguardo straordinario: pressing, aggressività, attacco anziché difesa (o comunque prima offendere, poi proteggersi). Un atteggiamento mentale e tattico introdotto da Mancini che - secondo il costruttore del grande Milan di Berlusconi - potrebbe trascinare verso una nuova era tutto il nostro calcio, sospinto da principi diversi. 

Arrigo Sacchi, quanto l'ha stupita l'Italia di Mancini?

«Moltissimo. Roberto è uscito dal retaggio del gioco difensivo che fa parte da sempre del calcio italiano. Ha fatto una cosa differente, nuova. Almeno se la confrontiamo con il percorso recente del nostro movimento». 

Arrivavamo dalla delusione atroce di un Mondiale al quale non avevamo nemmeno partecipato.

«E non solo da quello, che era stato l'apice della disfatta. La verità è che, da dieci anni a questa parte, avevamo preso batoste sempre e ovunque, con i club e con la Nazionale. Per crescere bisogna esaminare e conoscere la storia, e non solo quella lontana nel tempo. Noi negli ultimi due lustri non eravamo esistiti». 

 Questione di mentalità?

«Cos' è il calcio per noi? Definiamolo. Quando lo chiedevo a Coverciano, nessuno sapeva rispondermi. È forse uno spettacolo sportivo? No, per noi no: è quello che capitava nell'arena. Abbiamo pensato per tanto tempo che distruggere fosse meglio che costruire, invece è l'esatto contrario. La speranza è che, a forza di perdere, ci sia venuto qualche dubbio. Einstein diceva: solo i pazzi credono che, facendo sempre le stesse cose, si abbiano risultati diversi. Forse noi abbiamo capito che bisogna cambiare per migliorare».

In questo Europeo meraviglioso, l'Italia nel gioco ha davvero sofferto solo contro la Spagna.

«Non è un caso. Anzi. Loro in questi dieci anni, gli stessi nei quali noi ci preoccupavamo di distruggere, lavoravano per costruire. Hanno creato una scuola, una mentalità, e sono efficaci anche quando non hanno interpreti straordinari come adesso, ad esempio, nel ruolo di centravanti. Guardate cosa hanno vinto gli spagnoli di recente: due Europei, un Mondiale e poi in dieci anni addirittura sei Champions League e sette Europa League. L'Italia in questo stesso periodo è rimasta a zero tituli , come dice Mourinho».

Perché Mancini ha affrontato questa avventura in Nazionale con questi principi in controtendenza?

«Perché è stato all'estero, ha lavorato in Inghilterra, è cresciuto grazie a quelle esperienze. Fuori dall'Italia la mentalità è differente, da noi non diamo nemmeno tempo a un commissario tecnico di costruire. Eppure quel lavoro ha bisogno di pazienza». 

Lo ha sperimentato sulla sua pelle, passando dal Milan alla Nazionale.

«Con il club facevo trecento allenamenti all'anno, in azzurro se va bene hai la possibilità di organizzarne trenta, forse meno, venticinque. È tutto più difficile, i sincronismi non si creano senza lavorarci a lungo. Quando ero in Nazionale dicevo che tutte le mie squadre precedenti avevano giocato meglio rispetto a quella, non solo il Milan ma anche il Parma e il Rimini, nonostante i valori tecnici ovviamente diversi. Perciò Mancini è stato bravissimo: ha raccolto i cocci dell'esclusione dai Mondiali e ha costruito un capolavoro». 

Ha anche restituito passione al Paese: la Nazionale è stata seguita con un entusiasmo travolgente. È solo merito dei risultati?

«C'è anche altro. La gente si è appassionata perché ha visto una squadra che pensa innanzitutto a attaccare, che vuole costruire, che pressa. Non un gruppo di comparse, ma di protagonisti. Purtroppo da noi questa idea di calcio non è mai esistita, in Europa è sempre stato diverso rispetto a quanto succedeva nel nostro Paese. Sa cosa facevo trent' anni fa per allenare il Milan al pressing che avremmo dovuto fronteggiare in Coppa dei campioni? Prendevo i ragazzi della Primavera e dicevo loro di correre più che potevano a caccia del pallone, come fossero cani con la preda. In serie A nessun avversario ci abituava a quel tipo di aggressività». 

Pensa che il trionfo dell'Italia, arrivato attraverso il gioco e non con la scaltrezza, possa aprire un'era nuova nel nostro calcio?

«Mi auguro che diventi un modello, del resto noi andiamo avanti per imitazione. Io amo fare lunghe passeggiate dalle mie parti e osservo ciò ho attorno. Se un contadino mette l'uva davanti a casa, i vicini subito lo copiano: qualche giorno dopo, tutti hanno l'uva. Così accade nel calcio, da noi. Speriamo dunque che altri allenatori seguano l'esempio degli azzurri. E comunque c'è già qualcuno che ha la mentalità giusta».

A chi pensa?

«A Sarri, ad esempio, ma anche a Gasperini. E poi ai giovani: De Zerbi, Italiano, lo stesso Juric. Tutta gente che non tiene dietro un uomo in più del necessario, perché altrimenti non ne può disporre quando offende, e accetta di giocare con il sistema puro: un difensore per un attaccante. Sono strateghi, non tattici. Come Mancini. E la differenza non è irrilevante, anzi cambia tutto». 

Il suo auspicio è che l'Italia di Mancini si trasformi in un modello di calcio d'attacco come il Milan di Sacchi 35 anni fa.

«Quando noi cominciammo a giocare in un certo modo, anche all'estero, l'Italia vinse quindici coppe europee in appena undici anni. Non fu un caso, ma una questione di atteggiamento, di idee, di testa. Oggi sento ancora allenatori che dicono: in campo vanno i calciatori, noi non giochiamo, che cosa possiamo fare più di questo? Anche il direttore d'orchestra non suona, anche il regista non recita. Eppure ho sempre saputo che Muti e Spielberg facevano la differenza».

Mario Piccirillo per ilnapolista.it il 28 giugno 2021. Non ha lo stesso richiamo nostalgico delle grandi formazioni della storia, quelle cantilenate a memoria – “Sarti-Burgnich-Facchetti…” o “Zoff-Bergomi-Gentile-Scirea…” – ma ha un suo fascino, recitata con la metrica di un haiku: Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Florenzi, Parolo, Sturaro, Giaccherini, De Sciglio; Eder, Pellè

L’Italia che cinque anni fa perse solo ai rigori con la Germania, ai quarti di finale degli Europei, va riletta oggi come un monito: se la rosa di Mancini è quella “senza stelle”, “senza fuoriclasse”, quella di Conte cos’era? Il relativismo del pregiudizio è ambivalente: non abbiamo un Lukaku noi, va bene, ma nemmeno più Eder-Pellè, presumibilmente il tandem d’attacco più scarso della storia del calcio azzurro. Il giochino dei paralleli, per quanto difettoso, ha un valore per ridistribuire un po’ di meriti, a posteriori. E anche per disinnescare meglio i tranelli della comunicazione corrente. Ci siamo raccontati che Mancini ha potuto calamitare su di sé la luce del “personaggio” – stiloso, elegante, azzimato, bello, bravo, bis! – perché tra i suoi convocati non ce n’era uno che svettasse, la rock star. La rosa italiana è stata analizzata, anche giustamente, come un gruppo omogeneo, di pari livello tecnico. Senza picchi, in alto e in basso. Ma è davvero così? Guardiamo il tabellino di Italia-Belgio del 2016 che finì 2-0 per noi. Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Candreva, Parolo, De Rossi, Giaccherini, Darmian; Pellè, Eder. Se Chiellini recuperasse in tempo, sarebbero solo due i titolari confermati rispetto a quel 13 giugno. All’epoca Immobile subentrò nel finale, Insigne restò in panchina. Il Belgio è quasi la stessa squadra: Courtois, Alderweireld, Vermaelen, Vertonghen, Witsel, De Bruyne, Hazard e Lukaku c’erano allora e ci saranno venerdì, infortuni permettendo. Solo Ciman, Nainggolan e Fellaini non ci sono più. Nota le piccole differenze: quella Nazionale fu per Conte il vero capolavoro della sua carriera: prese una squadra da Serie B e la portò ad un rigore dalla semifinale europea. Quel Belgio, che pure l’Italia sconfisse, in mano a Martinez arrivò terzo ai Mondiali 2018, è oggi il numero 1 nella classifica Fifa per nazionali ed è considerato il quadro d’una generazione quasi irripetibile. Riprendiamo il rinfaccio: dove all’epoca si muovevano Eder e Pellé adesso gioca Immobile che l’anno scorso ha vinto la Scarpa d’Oro. Al posto di Parolo e Giaccherini (di Sturaro!) ora Mancini può schierare Jorginho campione d’Europa col Chelsea, Verratti (titolarissimo del Psg), Barella campione d’Italia se non il Locatelli di provincia che al termine del girone di qualificazione era nel best 11 di tutti i principali quotidiani sportivi d’Europa. A sinistra, nel 2016 agivano Darmian o De Sciglio, oggi c’è Spinazzola. La maglia di Eder (che aveva come rincalzo Zaza…) oggi se la giocherebbero Chiesa o Insigne o Berardi. Va detto anche che quell’Italia agli ottavi fece fuori la Spagna, non la modesta Austria. I rigori contro la Germania poi furono il manifesto della resa tecnica: il destino azzurro restò incollato ai piedi traballanti di Zaza, Pellé e infine Darmian. Zaza avanzò nella ricorsa accumulando un centinaio di strani balzelli prima di sparare altissimo. Pellé, preda dello spirito di Pirlo, annunciò al povero Neuer che lo avrebbe punito con lo scavetto, per poi zappare un piattone a lato. A Conte, che ha cosparso la carriera di lacrime più o meno gratuite, va riconosciuto il merito di aver fritto con l’acqua (nemmeno minerale) una delle più dignitose avventure della nostra Nazionale. E di aver messo un paletto: la prossima volta che lamentiamo poca qualità, penuria di campioni, assenze del fuoriclasse, sarebbe il caso di recitare l’haiku del 2016: Buffon; Barzagli, Bonucci, Chiellini; Florenzi, Parolo, Sturaro, Giaccherini, De Sciglio; Eder, Pellè

La prossima volta è oggi: con lo stesso vecchio Belgio c’è una nuova Italia. Va bene restare sotto traccia, ma a tutto c’è un limite. Quel limite si chiama Eder-Pellé.

Francesco Velluzzi per "la Gazzetta dello Sport" il 13 luglio 2021. «È una cosa unica, è una cosa unica». Marianna Mancini, la mamma del c.t. Roberto lo ripete due volte. «Cosa devo aggiungere? Che è una gioia indescrivibile». Lei e Aldo, il marito, sono rimasti chiusi nella villa di Jesi a seguire il figlio e gli azzurri senza che nessuno li potesse disturbare. «Dopo è arrivata mia sorella e abbiamo stappato una bottiglia di champagne. Ci voleva, eh». La sorella del tecnico, Stefania, è andata a Londra, con suo figlio, i figli maschi del c.t., Andrea e Filippo e un amico. «Erano cinque in tutto». E' stato un mese di felicità continua e di grande sofferenza. Perché la signora Marianna ha, coraggiosamente, scelto di farsi operare alle ginocchia. «Entrambe. Non so quante donne alla mia età lo avrebbero fatto, ma adesso le cose vanno decisamente meglio e non voglio altro che rivedere mio figlio a casa. Lo aspetto». Lo aspetta tutta Jesi che già da qualche giorno aveva tappezzato la città di locandine e manifesti perché ora Mancini è l'idolo assoluto in una città che tra schermidori e calciatori di soddisfazioni ne ha date. Le parole Discrezione. Questa è la parola d'ordine a casa Mancini. E' sempre stato così e il carattere del c.t. evidenzia questo aspetto. «Non l'ho voluto disturbare, aspetto che mi chiami. Ha tanto da festeggiare. C'erano le cerimonie ufficiali: presidente della Repubblica, presidente del Consiglio, la cena con la squadra. Insomma, tutto quel che si deve fare. Ma arriverà prestissimo, qui a Jesi dove gli vogliono bene in tanti, a partire dal suo amico Bruno Sassaroli che è un padre putativo. Lui lo conosce bene. Roberto l'ho sentito domenica mattina, prima della finale, ed era tranquillo, come al solito. E' sempre stato così per tutto questo mese. Io gli chiedevo: ma vinciamo 1-0 o 2-0? E lui non si è scomposto: "Mamma, basta che vinciamo, l'unica cosa che conta è quella". E' stato di parola, è un combattente, fantastico. Ma lo sono stati tutti i ragazzi che dal primo giorno hanno costruito questo gruppo meraviglioso». Il successo Marianna Mancini ora è sollevata: «Ma domenica la sofferenza è stata davvero tanta. Mi è piaciuto molto il finale, ma io e Aldo abbiamo sofferto con quei rigori». La mamma del c.t. non è solita soffermarsi sui singoli o su qualche calciatore in particolare, ma stavolta spende più di una parola: «Devo farlo per Donnarumma, perché quel ragazzo è stato proprio super con quei rigori che ha parato. E poi c'è Chiellini. E' davvero bravissimo, quanto mi piace, un capitano eccezionale». E quindi c'è la dedica per l'amico del cuore del figlio, quello che arrivava in ritardo alla partenza del pullman, quello che ha forgiato un gruppo incredibile: Gianluca Vialli: «Gli abbracci con Roberto in diretta televisiva sono stati qualcosa di straordinario. Voglio tanto bene anche io a Gianluca, lo conosco ovviamente da quando erano ragazzi alla Samp e l'ho avuto anche ospite qui a Jesi». Dove oggi è atteso Roberto. Ma non è certo che ci sarà una festa in città. L'assessore allo Sport Ugo Coltorti è attivo, col telefono che squilla in continuazione. «Ma potremmo organizzare qualcosa di bello più avanti, invitando ovviamente anche Valentina Vezzali, che ora è sottosegretario allo Sport. Una bella festa. Perché Roberto starà pochissimo a casa per rivedere i suoi. E poi scapperà in vacanza, come è giusto che sia». Jesi è ai piedi di Mancini e non vede l'ora di incoronare il suo eroe. Ma, usando la stessa discrezione del c.t., che da domenica è campione d'Europa, gli dà tutto il tempo di godersi il meritato trionfo. Poi lo premierà.

Se il debutto di Ct Mancio fu da... ciclista. Pier Augusto Stagi il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Andò ad onorare l'amico Michele Scarponi, a un anno dalla morte. Sarà perché ha giocato nella Sampdoria, con quella maglia che è considerata nel mondo del calcio tra le più belle in assoluto. Sarà perché i genoani li hanno sempre sfottuti, proprio per via di quella maglia con i cerchi apostrofandoli come «i ciclisti», ma Roberto Mancini, Ct azzurro fresco campione d'Europa, il ciclismo l'ha sempre avuto nel cuore e nelle vene. In bici ci va da anni, oggi a cavallo di una bellissima SK Pininfarina De Rosa, e fino a qualche anno fa le sue uscite erano anche con uno dei nostri campioni più amati, Michele Scarponi, «l'aquila di Filottrano», lo sfortunatissimo campione azzurro morto in un incidente nell'aprile del 2017. Pochi sanno che la prima uscita ufficiale da neo commissario tecnico della nazionale di calcio, Roberto Mancini la fece proprio al Giro d'Italia. La corsa rosa era in transito nelle Marche, l'arrivo era posto a Osimo. L'Astana era di stanza presso l'hotel Sette Colli di Filottrano (Ancona) e la famiglia Scarponi era stata invitata per una cena in famiglia. Michele era morto da poco più di un anno (22 aprile 2017), e quella sera del 16 maggio si ritrovarono tutti assieme per ricordare quel ragazzo dalla simpatia contagiosa. A quell'incontro si presentò a sorpresa anche il neo Ct, nominato commissario tecnico dalla Federcalcio due giorni prima. «Fu per noi una grandissima sorpresa ci spiega oggi Marco Scarponi, fratello di Michele -. Noi non ce lo aspettavamo assolutamente, ma ce lo trovammo lì con i ragazzi e il personale dell'Astana. Con noi il Mancio è sempre stato uno di famiglia. Spero di averlo con noi anche alla prossima Granfondo Michele Scarponi in programma il 26 settembre: quel giorno si correrà anche il mondiale di ciclismo. Può essere di buon auspicio». Pier Augusto Stagi

Roberto Mancini, il rapporto complicato con la figlia Camilla. Valentina Mericio il 10/07/2021 su Notizie.it. Il CT della nazionale Mancini è padre di tre figli, eppure pare che proprio con la figlia Camilla abbia avuto dei rapporti complicati. Il CT della Nazionale Roberto Mancini è uno degli uomini chiave del successo degli azzurri in questi europei del 2020. La ricetta del successo proposta dall’ex campione è sotto l’occhio di tutti. Un team fresco e giovane capace di essere allo stesso tempo fantasioso sul campo e al contempo di divertirsi, non dimenticandosi mai di sottovalutare l’avversario. Poco sappiamo tuttavia sulla sua vita privata. Si sa ad esempio che è padre di tre figli tutti avuti dalla prima moglie Federica Morelli dalla quale ha divorziato e che è sposato in seconde nozze con Silvia Fortini. Ed è proprio come con una dei figli ovvero Camilla che Mancini avrebbe avuto un rapporto non propriamente facile.

Roberto Mancini figlia, il rapporto non facile. Le frizioni del rapporto tra padre e figlia sarebbero emersi all’epoca del divorzio. In quel periodo infatti la figlia Camilla che studiava a Londra pare avesse deciso di trasferirsi per vivere con la madre. Con il divorzio dunque pare che qualcosa si fosse frenato con il padre. Un dettaglio dunque che ha attirato non poco l’attenzione.

Roberto Mancini figlia, il commento di Camilla dopo la vittoria. Nonostante ciò sembrerebbe che i rapporti si siano distesi. In seguito alla vittoria della Nazionale Camilla è stata una delle prime a commentare attraverso una storia di Instagram il trionfo del padre scrivendo: “Sei un visionario”. Non ha inoltre mancato di criticare chi lo ha attaccato: “Te ne hanno dette tante all’inizio. Ti hanno anche attaccato. Ora però salgono sul carro. Tu, sempre stato un signore. Un numero 10”, quindi ha condiviso una foto insieme a Vialli e Oriali che vale più di mille parole.

Roberto Mancini figlia, chi è Silvia Fortini. Dal 2018 Roberto Mancini è sposato insieme a Silvia Fortini, donna a capo di un prestigioso studio legale della capitale che tra le altre cose assiste da alcuni anni il CT della Nazionale. La scintilla tra i due sarebbe scoppiata nell’estate del 2017 circa quando i due vennero sorpresi a Saint Tropez, in una seconda occasione partirono alla volta delle Antille, infine il matrimonio. Per ciò che riguarda la prima moglie, il divorzio è costato 40 mila euro al mese.

Mario Sconcerti per il Corriere della Sera il 26 giugno 2021. C'è una cosa misteriosa e geniale che ha portato Mancini a diventare allenatore: furono due gol di Baggio alla Fiorentina quando in un febbraio lontano vent' anni giocava ancora nel Brescia. Mancini ha sempre capito la differenza di Baggio in assoluto, ma non credo l'abbia mai paragonata alla propria. Erano due giocatori diversi, Mancini non capiva perché confrontarsi. Un po' per spocchia, molto per senso del calcio. Comunque fu Baggio a tenerlo ai margini dell'Italia e fu per non stare ai margini che Mancini rinunciò all' Italia. Quel sabato i due gol di Baggio cacciarono Fatih Terim dalla panchina della Fiorentina e costrinsero me, che ne ero un dirigente, a cercare il sostituto. Era un sabato di neve, stavano chiudendo le autostrade. Mancini era a Cortina, gli chiesi di arrivare in serata. Cinque ore dopo era a Firenze, non so come abbia volato sulla neve. Un'ora dopo era il nuovo allenatore. Nessuno tra i suoi colleghi lo voleva. Azeglio Vicini ne era il presidente e apriva un coro quasi astioso. Non avevano torto, Mancini un mese prima aveva giocato quattro partite con il Leicester, era cioè ancora un giocatore. Accettarlo come tecnico sarebbe stato un doppio tesseramento. Noi chiedevamo una deroga. Ma c' era nei vecchi tecnici anche qualcosa di personale, sentivano che Mancini era predestinato, lo era sempre stato. E il futuro si riconosce dal disagio che la sua idea porta. È strano quanto Mancini sia stato divisivo dentro una vita conciliante. È che porta una diversità evidente, la prima reazione che provi ad averlo accanto è difenderti. Non sai da cosa, senti solo che Mancini sa più cose di te. Per cinque giorni ci rifiutarono tutto, poi al sabato pomeriggio, in fondo all' ultima commissione, riuscimmo ad avere la deroga. Mancini cominciava il suo mestiere. Grazie ai due gol di Baggio e una battaglia vinta contro il suo stesso mondo. Oggi spezza il pane della sapienza e sa benissimo che se perdesse con l'Austria perderebbe senso tutto quello che ha già fatto. A guidarlo sono sempre due sentimenti diversi: l'incertezza sulle cose concrete, Verratti o Locatelli per esempio, è un dubbio che si terrà fino alla fine. E la certezza di sé. Mancini lavora continuamente sui suoi particolari. Ama i dettagli perché lo migliorano, non perché ce ne sia bisogno. E sente il diritto ad avere un grande destino. È come se costruisse storia in ogni momento e fosse costretto a dare importanza a tutto. Per questo fa giocare tutti titolari, per questo dubita su Verratti nonostante lo abbia voluto quando ancora non stava in piedi. Per questo lo farà alla fine giocare, per sentirsi coerente. E per questo sarà comodo oggi far parte del suo destino. Perché è quello di un uomo complesso, ma vincente. 

Da tuttonapoli.net il 16 giugno 2021. Lino Banfi, noto attore italiano, è intervenuto ai microfoni di Radio Kiss Kiss Napoli. "Roberto Mancini, domani deve puntare sulle tre "s". saettata, sinistra, Spinazzola. Il coro ''porca puttena” è diventato un cult. Mi ha chiamato persino mio figlio dicendomi che tutto quello che avevo detto stava succedendo. Non me lo aspettavo davvero, invece Immobile ha avuto il coraggio di farlo. Poi ha segnato Insigne e l’ha ripetuto. Adesso aspetto un terzo napoletano, Donnarumma, ma lui non segna, quindi dubito che lo faccia. Ho sentito che l'anno prossimo faranno un vero e proprio coro allo stadio: “Po-po-porca puttena”. Spalletti? E’ un bravo allenatore, poi è senza capelli quindi lo amo per questo”.

G.Buc. per "la Stampa" il 16 giugno 2021. Se squadra che vince non si cambia, o si cambia poco, a non cambiare deve essere ogni mossa della vigilia, poi vincente. Così accade che il video anti-stress inviato da Lino Banfi a poche ore dal 3-0 alla Turchia venga fatto rivedere dal ct Mancini al gruppo anche questo pomeriggio a poche ore dal trasferimento del gruppo azzurro dall' Hotel Parco dei Principi allo stadio Olimpico per sfidare gli svizzeri. «Il mister è stato un grande perché quel momento ci ha aiutato a scaricare la tensione...», ricorda Bonucci a proposito delle battute del comico pugliese. «Banfi come tecnico col 5-5-5 è avanti a tutti...», sorride il nostro commissario tecnico Mancini e, in un attimo, usciamo dal fortino Nazionale a cui eravamo abituati da sempre. L' Italia, questa Italia, «deve giocare con gioia ed allegria», sottolinea in ogni occasione il ct e, ieri, è stata l'ultima. «Dobbiamo dimostrare a tutti che non siamo scarsi come dicono o scrivono...», è il salto indietro di cinque anni che ci riporta alle riflessioni di Antonio Conte da Montpellier, quartier generale azzurro ad Euro 2016 in Francia. Conte ci mostrò una bella Italia, ma costruita su fondamenta radicalmente diverse dall' Italia del Mancio: soli contro tutti e, in campo, solidità più grinta. Cinque stagioni sembrano un'era calcistica e, oggi, il fortino Nazionale ride davanti a Banfi e allontana lo stress. Conte chiamò il popolo di tifosi a raccolta chiedendo di indossare una maglietta blu davanti alla televisione o allo stadio. Mancini chiede di divertirsi e di incuriosire i tifosi con idee e manovre lontane dalla nostra tradizione: modi diversi per cercare l'obiettivo. In mezzo, si può collocare il racconto dei minuti prima della finale di Berlino 2006 con quanto scritto dal campione del mondo Camoranesi. «Ho ancora i brividi a pensare al discorso di Lippi: "state attenti qua, state attenti là, mi raccomando questo...". Poi, all' improvviso si ferma e dice: "Ragazzi queste sono tutte caz..., siamo venuti per vincere e allora andiamo a vincere!". Nello spogliatoio ci fu un boato...». Riti o rituali. Questa Italia ha scelto l'allegria. Anche di Lino Banfi. «Il migliore di tutti noi tecnici», se la ride Mancini.

Ivan Zazzaroni per il corrieredellosport.it il 16 giugno 2021. Ma sì, porca puttèna, abbracciamoci forte e vogliamoci tanto bene. Di nuovo. Anche se siamo soltanto alla seconda uscita europea - oltre che nella stagione del politicamente corretto che metterebbe al bando il linguaggio, la comicità e i virtuosismi oronzocaniani - nessuno può vietarci di continuare ad accompagnare questa Nazionale con accenti tra l’affettuoso, il toccante e l’entusiastico. Perché circoscrivere il campo del possibile, poi? «Giochiamo con gioia» è stata la raccomandazione di Mancini, che ha aggiunto parole mai pronunciate prima d’ora da un commissario tecnico: «Siamo all’Europeo, serve gioia, allegria, dobbiamo essere felici di fare quel che facevamo da bambini. Più felici di così non possiamo essere, dobbiamo far felici i tifosi». I ventotto risultati utili consecutivi, il 3-0 dell’esordio con i turchi e prim’ancora il 4-0 nell’amichevole con i cechi, prove nelle quali l’Italia ha rubato le idee e il campo alle avversarie, ma anche i 92 gol in 118 partite di Immobile all’Olimpico (14 dei quali con la maglia della Nazionale), la crescita di Berardi e Insigne, la sfavillante condizione di forma del neocampione d’Europa Jorginho e di Spinazzola, sono motivi validissimi per guardar con fiducia alla sfida di stasera con la Svizzera (augurando peraltro a Sommer di diventare in giornata papà). Siamo spudoratamente Canà addicted. Ci sono stati momenti, in particolare nel secondo tempo della gara con la Turchia, nei quali ho creduto che gli azzurri stessero attuando la leggendaria B-zona, il 5-5-5 a farfalla dell’allenatore nel pallone che - grazie a una promessa di Immobile - è diventato ispiratore e ct occulto di questa avventura. Per i più giovani, ovvero per tutti i nati nei primi anni Ottanta, o per chi non ha avuto la possibilità (o la voglia) di vedere una delle centinaia di repliche del film di Sergio Martino, ricordo che Canà spiegò così la variante prototattica di sua invenzione: «Mentre i 5 della difesa vanno in avanti, i cinque attaccanti retrocedono, e viceversa. Allora la gente pensa: “Ma quelli c’hanno cinque giocatori in più!”. Invece no, perché mentre i cinque vanno avanti, gli altri cinque vanno indietro, e durante questa confusione generale le squadre avversarie si diranno: “Ah ah, che sta succedendo”: E non ci capiscono niente!». In effetti ci ha capito pochissimo Gunes, che ha visto azzerate le stelle Yilmaz, Yazici, Calhanoglu e Karaman. A questo punto speriamo che anche Petkovic vada in confusione consentendo ai nostri di ottenere il passaggio del turno con un anticipo esaltante. Mentre è in corso il solito, paradossale dibattito tra giochisti e risultatisti che tentano di attribuirsi il gioco di Mancini, ben sapendo che non li riguarda, trattandosi di calcio da manuale affidato non a schiavi della pedata ma - secondo natura - a giovani vogliosi di giocare e di vincere, tornano alla mente altre soluzioni da porgere agli svizzeri, ingrati traditori del catenaccio, anzi del verrou.  Ad esempio, la formula cara a Fabio Capello, che non ne fa mistero, limitandosi ad accompagnarla con un sorriso: si tratta del 9-1, un movimento armonico e logico, un andirivieni di difensori e attaccanti tutti al servizio del Tiratore Solitario che può chiamarsi - di tempo in tempo - Bettega, Riva, Graziani, Paolorossi, Schillaci, Robibaggio, Bobovieri, Totti, Del Piero, Toni e la voglia esausta di Balo e Cassano, il più naturale interlocutore di Oronzo Canà, porca puttèna!

PS. Sempre a proposito dei meno prevedibili effetti dell’euforia, ripensavo alla settimana grigia del presidente dell’Uefa Aleks Ceferin: dopo aver dovuto sospendere il procedimento disciplinare nei confronti degli irriducibili superleghisti e aver promesso ai suoi che non avrebbe più affrontato pubblicamente il tema, arrivato a Roma non ha perso l’occasione di attaccare nuovamente Juve, Real e Barcellona («a volte ho la sensazione che questi tre club siano come dei bambini che saltano la scuola per un po’, non vengono invitati alle feste di compleanno e poi cercano di entrare al party con la polizia»: questa l’ha capita solo lui). In seguito la sua Uefa è stata criticata duramente dagli Schmeichel per il comportamento avuto il giorno del dramma Eriksen e, infi ne, ha inviato una lettera alla Juve (e alle altre due società) comunicando loro l’ammissione alla prossima Champions. L’irritazione era più che comprensibile eppure – così come i superleghisti – Ceferin ha sbagliato totalmente i tempi e la comunicazione, in particolare i toni: quando si è istituzione, la forma diventa sostanza. 

Da tag43.it l'11 giugno 2021. Marche, e non solo. Roberto Mancini si sa è uomo-brand. Soprattutto ora, con gli Europei 2020 al calcio d’inizio: dai giornali alle tivù e ai social, è tutto un fiorire di spot che lo vedono protagonista. Volto del rilancio turistico della sua Regione d’origine e della campagna The Washing Machine Italia contro la contraffazione del merchandising ufficiale del torneo Uefa targata Mise, lo stilosissimo ct della Nazionale, a cui ha ceduto i diritti di immagine al momento del rinnovo del contratto nello scorso mese di maggio, è ambassador e testimonial anche di marchi della moda e del lusso.

Mancini “stilista” per Paul&Shark. Per esempio, Mancini è da poco diventato global brand ambassador della Paul & Shark, marchio di menswear guidato da Andrea Dini, cognato del governatore lombardo Attilio Fontana (e finito con la Dama Spa che produce il brand e di cui la moglie del governatore detiene il 10%, nel caso della fornitura di camici ad Aria). Di più, proprio per Paul & Shark Mancini ha firmato una collezione ispirata «dall’amore per il mare». Come non omaggiare l’Eleganza del Mister? E via di articoli e pubblicità tabellari.

La collaborazione con PosteDelivery. Nel novembre 2020, Mancini prestò il volto anche alla campagna di PosteDelivery firmata da Saatchi & Saatchi. Nello spot, l’allenatore riceve dal padre un regalo che chiedeva ogni anno quando era bambino e cioè un paio di scarpini da calcio. La voce del Mancio accompagna il viaggio del pacco che gli viene consegnato negli spogliatoi dell’Olimpico. «Lo spirito di aggregazione è fondamentale all’interno di Poste Italiane come in una squadra di calcio», commentò Macini. Poste Italiane, va detto, è Top Partner della Nazionale.

Lidl premium partner della Nazionale. Altro sponsor, altro spot. Nel 2019 fu la volta della Lidl che diventava premium partner della Nazionale (lo sarà fino al 2022) e fornitore ufficiale di frutta e verdura per giocatori e staff durante i ritiri della selezione italiana. Mancini appare alla fine dello spot mentre addenta una mela.

Mancio ambassador della Richard Mille. Nel 2013, invece, Mancini collaborò con la maison Richard Mille per sviluppare un cronografo automatico. Il nome? RM 11-01 Roberto Mancini di cui nel 2019 è uscita la nuova versione RM 11-04 sfoggiata, si legge nelle cronache, in occasione del suo ritorno «sui campi di calcio italiani come allenatore della Nazionale Italiana dopo i due anni allo Zenit di San Pietroburgo».

La campagna Mise-Figc-Uefa contro la contraffazione. Di tutt’altro genere lo spot anti-contraffazione per sensibilizzare il pubblico degli Europei. Una campagna del Mise, in collaborazione con la Fgci e l’Uefa, dal claim: «Se non è autentico non è calcio. L’originale vince sempre».

Lo spot per rilanciare il turismo nelle Marche. Infine le sue Marche. Il ct, jesino doc, passeggia, presentando al pubblico «il terreno di gioco su cui ho mosso i primi passi, i registi di tradizioni uniche e le bandiere di una storia senza tempo».

Lettera del cdr del Corriere della Sera al direttore Fontana l'11 giugno 2021. Caro direttore, ci dispiace dover intervenire per segnalare l’ennesimo caso di invadenza del marketing sulle pagine del nostro giornale. Ieri, 10 giugno, sulle cronache nazionali del Corriere è stata pubblicata una pagina sul commissario tecnico della Nazionale Roberto Mancini che è palesemente un’inserzione pubblicitaria, nella quale viene con ridondanza messo in evidenza un noto marchio di moda, senza segnalarla come tale ai lettori. Che si tratti di pubblicità lo conferma l’inserzione, questa chiaramente pubblicata come tale, uscita oggi con foto sempre di Mancini che indossa un capo del medesimo marchio di moda. Siamo perfettamente consapevoli che in un momento difficile come quello che attraversiamo gli inserzionisti sono sempre i benvenuti e sappiamo pure come sia profondamente cambiata la comunicazione delle aziende. Detto ciò ci pare che in questo caso si sia andati oltre, come dimostrano le innumerevoli lamentele che ci sono arrivate dai colleghi e le reazioni di molti lettori sui social. Siamo certi che tu vorrai cogliere lo spirito costruttivo di questa nostra mail e che converrai con noi sulla necessità di una maggiore vigilanza per tenere separati i contenuti giornalistici da quelli pubblicitari. Un caro saluto Il Cdr

Da gianlucadimarzio.com il 5 giugno 2021. È un Mancini diverso quello che si racconta a Sportweek in un’intervista in cui non si parla solo di calcio nonostante tra meno di una settimana ci sarà l’inizio di Euro2020. A novembre il CT compirà 57 anni e sebbene il suo primo ricordo nitido sia un pallone di cuoio, la cosa che l’ha segnato di più durante l’infanzia è stata la meningite. “Avevo 10 anni e ricordo tutto di quel giorno. E poi quando ho iniziato a capire qualcosa, mi hanno detto che ero stato molto fortunato. Aver avuto una malattia per cui in quegli anni si poteva morire facilmente, è una cosa a cui penso spesso”.

Gli idoli e i rimpianti. Poi parla dei suoi idoli. Anche qui stranamente non si c’entra il calcio: “Ho avuto due idoli. Michael Jordan nello sport e nel mondo Papa Woijtyla”. Dagli idoli si passa ai rimpianti, che si sa, arrivano per tutti prima o poi, e l’allenatore sa bene cosa non rifarebbe tornando indietro: “Rifiutare di andare ai Mondiali del ‘94”. Mondiali che per Mancini sono un po’ un’ossessione: “Ho sognato che l’Italia batteva 1-0 il Brasile. Ma non so dove fossimo. Non può essere l’Europeo”. A Qatar 2022 manca un anno e mezzo, ma questa visione non può far altro che far ben sperare per il futuro prossimo della Nazionale.

Articolo di Serena Gentile per Sportweek-la Gazzetta dello Sport il 5 giugno 2021. La sfida è difficile, quasi impossibile. Parlare mezz’ora col c.t. senza toccare palla. Nel senso: vale tutto, ma è vietato parlare di calcio. «Se ci riesce lei...» è la sua risposta, divertita. Ci proviamo, mister. Della sua Italia sappiamo già: ha preso in mano una squadra distrutta, depressa dopo il flop contro la Svezia e la mancata qualificazione ai Mondiali di Russia. Sprofondata alla ventunesima posizione nel ranking Fifa, l’ha riportata tra le teste di serie. Ha ricostruito da zero un gruppo giovane, forte, motivato. Che ha qualità di gioco, ci mette coraggio, possesso palla, intensità offensiva. Dopo tre anni di lavoro, la sua Italia è bella e concreta, ha il morale alle stelle e un’identità che ci fa tornare a sognare. Lo aspetta, tra 5 giorni, la gara d’apertura dell’Europeo all’Olimpico contro la Turchia. Poi Svizzera e Galles, sempre in casa e di nuovo, finalmente davanti al pubblico, il suo. Il Mancio, per indole, rispetta tutti, ma non teme nessuno. Dà Francia, Inghilterra, Portogallo e Belgio tra i grandi favoriti, ma la sua Italia giocherà come sempre per vincere. Lo intercettiamo in aeroporto a Milano, all’imbarco di un volo per Cagliari. Nello stesso dove 27 anni fa, per orgoglio, fece l’unica cosa che non rifarebbe: sbottare con Sacchi e rinunciare al Mondiale ’94. Era il 23marzo, aveva accettato (anche se a fatica) di fare il vice Baggio, ma a Stoccarda il Codino non c’era. Quella doveva essere la notte del Mancio, che però viene sostituito da Zola. Al ritiro bagagli, Roberto non si tiene: «Non è stato ai patti, non mi chiami più. Con la Nazionale ho chiuso» dice ad Arrigo. Che lo farà. Il carattere l’ha sempre avuto, forte come la fantasia. Ma non poteva finire così. È lui il vero top player di questa Italia e ancora in tempo per prendersi quello che è suo. Intanto, accetta la nostra sfida. Si racconta, fuori dal campo, oltre il4-3-3. Schivo e riservato sempre, ma generoso. Cerca il dribbling, che un tempo era la sua specialità, solo una volta: quando gli parliamo d’amore. Per il resto, non si tira mai indietro. Nonostante il pressing della hostess che chiama l’imbarco. Abbiamo solo 15’, un intervallo senza té caldo. E vince lui anche stavolta: è impossibile parlare col c.t. senza toccare il pallone. Il calcio è il suo mondo.

Il pregio più importante che si riconosce?

«L’onestà».

Il difetto più evidente che non riesce a modificare?

«La troppa sensibilità forse, in certe situazioni avrei dovuto gestirla meglio. Modificarmi un po’». 

Qual è il suo primo ricordo?

«È inutile provarci, mi viene in mente un pallone di cuoio».

E se le chiedo l’ultima gioia?

«La qualificazione alla Nations League... Oh, no giusto: niente calcio. La laurea di mia figlia Camilla».

Un dolore?

«Vedere morire troppe persone al mondo, tutti i giorni, e non solo ora per la pandemia. Sapere che ancora oggi, nel 2021, i bambini in Africa muoiono di fame: questo mi addolora davvero tanto».

La canzone della sua vita?

«Lucio Dalla 1979, L’anno che verrà: quella che faceva “Caro amico ti scrivo così mi distraggo un po’”. Io avevo lasciato Jesi da poco, che avevo 13 anni e mezzo, quasi14.Ero andato via da casa e dai miei amici per trasferirmi a Bologna, da solo, in una città grande e quella canzone lì mi faceva compagnia». 

Tecniche di rilassamento?

«Gioco a paddle, vado a correre, leggo un po’».

Ecco, l’ultimo libro che ha letto?

«Ovviamente La bella stagione, che è appena uscito, dove con Gianluca (Vialli) raccontiamo La nostra storia più bella, lo scudetto con la Samp 1991.E avevo appena letto, Soli al comando di Bruno Vespa». 

Storie di leader. Lei è un leader e anche un idolo, ma ha mai avuto un idolo?

«Due: Michael Jordan nello sport e nel mondo Papa Woijtyla».

Il suo rapporto con la religione?

«Sono cattolico. Sono cresciuto in una parrocchia, all’oratorio San Sebastiano e sono anche cresciuto bene». 

Mancini e la politica.

«A me non piace tanto la politica».

E il politically correct?

«Neanche».

Il suo pensiero sull’omosessualità?

«È come l’eterosessualità. Io sono per la libertà, in tutte le cose della vita. Ho vissuto molto male quest’ultimo anno di limitazioni, malissimo. E oggi penso, ancor più di quanto già pensassi, che le persone debbano essere libere, sempre. Non ho nessun tipo di problema».

Il dono più grande che le ha fatto la vita?

«Essere nato».

Chi la fa più arrabbiare?

«Mio figlio Andrea spesso, anche adesso. Non mi ascolta tanto».

E la sua paura più grande qual è, se c’è?

«Per i miei figli, il mio pensiero è sempre rivolto a loro, perché anche se stanno diventando grandi, per me son sempre giovani. E spero che possano vivere in un mondo migliore di quello che abbiamo ora». 

La persona più importante della sua vita?

«I miei genitori. Mi hanno insegnato tutto, anche se sono andato via di casa che ero un ragazzino. Mio padre Aldo è un uomo esemplare, a lui devo tutto. Come mia madre, Antonella. Il rispetto per gli altri, l’onestà, la semplicità».

L’età migliora o peggiora le persone?

(ride) «Io penso che le peggiori. Perché quando uno è più giovane, è più tranquillo, ha meno problemi. Gli anni appesantiscono l’anima». 

La lezione più importante, quel giorno che le ha cambiato prospettiva?

«Sono sempre stato molto fortunato, ho avuto la meningite da piccolo e me la ricordo come se fosse ieri, non so per quale motivo. Ero giovanissimo, avevo10anni e ricordo tutto di quel giorno. E poi quando ho iniziato a capire qualcosa, mi hanno detto che ero stato molto fortunato. Questa cosa qui me la ricordo benissimo, la ricordo

sempre e ci penso sempre. Aver avuto una malattia per cui in quegli anni lì si poteva morire facilmente, è una cosa a cui penso spesso». 

Se si guarda allo specchio, cosa vede?

«Vedo una persona ancora giovane, fortunatamente. E fortunata in senso assoluto, come dicevo prima. Che ha avuto il dono di poter fare il calciatore, due genitori per bene, tre figli in gamba. Sono felice». 

E il suo rapporto con la bellezza?

«Non la vedo, non ci faccio caso... Sono più felice così. Le persone sono belle tutte, la bellezza non è solo esteriore. Puoi avere un difetto estetico, ma un cuore d’oro e questo può renderti più bello di tanti altri». 

Cosa la colpisce degli altri e cosa detesta?

«Mi piacciono le persone positive, generose, che sanno tendere la mano. E quindi, detesto Al contrario l’indifferenza. Quelle persone, che sono una minoranza per fortuna, che davanti a qualcuno che ha bisogno, si voltano dall’altra parte. Io credo che aiutare chi è in difficoltà sia una cosa davvero importante nella vita». 

Se le dico felicità, a cosa pensa?

«Alla fortuna di aver potuto giocare a calcio da piccolo, era il mio sogno. È il lavoro più bello del mondo. Ed i poter lavorare oggi con i giovani, sempre nel calcio». 

Inutile richiamarla a mollare il pallone, è impossibile. Ha una debolezza?

«Mi piacciono i dolci».

Ha mai fatto una pazzia?

«No, troppo poche, avrei potuto fare di più». 

Cosa la fa piangere?

«Un bambino che perde la mamma. O il papà. Questo mi commuove molto, perché penso che non sia giusto».

Chi è il suo amico e cos’è un amico?

«Gli amici non sono tanti, altrimenti sarebbe troppo semplice. E quei pochi amici che uno ha deve tenerseli stretti. Io ho i miei amici della Sampdoria, che reputo fratelli. E poi ho altri 4/5 amici importanti. Un amico è quello che c’è anche quando non c’è, che non senti per due anni ma sai che è lì e per qualsiasi cosa, in qualsiasi caso lo trovi». 

Mister, si può cambiare idea nella vita?

«Sì, sicuramente. Alle volte si può pensare una cosa, fare una scelta che non è giusta, ma in quel momento pensi che lo sia. Ed è giusto poi cambiare idea». 

Non si può tornare indietro. Una cosa che non rifarebbe?

«Rifiutare di andare ai Mondiale del ’94».

Una cosa che non ha mai detto?

«Devo pensarci. Non la trovo».

Il film preferito?

«Ce ne sono diversi: uno, molto bello, è Il nome della Rosa».

Cosa la mette di malumore?

«Il tempo brutto».

L’amore?

«È una cosa privata, meglio tenerla per sé». 

L’ultimo sogno che ha fatto?

«L’Italia batteva il Brasile 1-0. Ma non so dove fossimo. Non può essere l’Europeo...».

Quel genio di Morfeo s’è portato avanti. Dietro l’angolo, dopo l’Europeo, c’è il Mondiale. E per Il Mancio e la nostra bella Italia, è già un obiettivo. Lo ha ammesso di recente: è concentrato sull’Europeo. Ma l’idea del Qatar gli frulla in testa già da un po’. Il Mondiale è stato un incubo, un’ossessione per lui. on ne ha giocato neanche un minuto, nonostante l’infinito talento. Strano, ma vero. Un’assurdità, disse lui una volta. Messico 1986 lo perse per una bravata: una notte in discoteca, al mitico Studio 54, col bel tenebroso Marco Tardelli, all’epoca Tardellino, che fece imbufalire Bearzot. Era New York 1984. Sei anni dopo, a Italia 1990, Vicini lo tenne settanta giorni in ritiro senza regalargli neanche dieci minuti di gioia. Né una spiegazione. Poi, nel 1994, si fece fuori da solo all’aeroporto di Malpensa, contestando Sacchi e sbattendo la porta. Ora ha una seconda possibilità. E se il sogno è l’infinita ombra del vero, basterà solo aspettare. In bocca al lupo, mister. E forza Italia.

Dagonews il 20 gennaio 2021. Un Roberto Mancini a tutto tondo è quello che si è raccontato a Pierluigi Diaco, nella prima puntata del nuovo programma “Ti sento”, andata in onda ieri, martedì 19 gennaio, in seconda serata su Rai2. Momenti di vita vissuta del ct della nazionale di calcio, emersi attraverso un percorso sonoro, fatto di suoni, suggestioni, rumori: gli esordi calcistici, la famiglia, gli amici, la sua infanzia, la fede, il suo carattere, la musica… Il suono della campanella della scuola ha acceso in Mancini il tenero ricordo della sua maestra delle elementari, svelando un aneddoto di quando era bambino: “Si chiamava Anna Maria Bevilacqua. Io ero un po’ vivace quando ero piccolo e quindi a scuola qualche volta creavo qualche problema, durante le lezioni… Ero poco attento o magari non studiavo molto. (La maestra ndr) parlò con mia mamma e mio papà: «la mattina prima di venire in classe, anziché il latte, dategli la camomilla…» e quindi per un po’ mi diedero la camomilla la mattina… Questa maestra mi voleva veramente bene, era molto affezionata”. Alla domanda “Che cos’è che ti commuove?” Mancini ha risposto “Mi commuovono i bambini o pensare che un bambino possa perdere i genitori da piccolo. Questa è una cosa che mi commuove molto perché penso che non sia giusto. Penso che non sia giusto che un bambino non possa crescere con i propri genitori”. Di grande intensità il racconto del ct sul suo rapporto con la fede ed in particolare con Medjugorje e Vicka, una delle veggenti. “Tu credi nelle apparizioni della Madonna?” ha chiesto Diaco. “Io credo. Si io ci credo”, “Sono andato diverse volte, ho parlato con Vicka, con gli altri veggenti…”. “E’ vero che lei ti è apparsa in sogno, prima che tu la incontrassi? E questo sogno come la rappresentava?” “Ma esattamente com’era. …Mi avevano parlato di Medjugorje tanti anni fa il nostro parroco di Genova, della Samp… lui andava negli anni quando era impossibile quasi andare, quindi stiamo parlando degli anni ’80, ’82-’83, era quando c’era problemi… Io non l’avevo mai vista, cioè non l’avevo mai conosciuta… eppure prima di andare mi è apparsa in sogno, non ho proprio la minima idea… Non lo so, è stata una cosa veramente stranissima. Poi sono andato e gliel’ho anche detto. Ci siamo parlati diverse volte… Io capisco che ci possano essere persone che non credono in questo, io credo che il pensiero vada rispettato…

Roberto Mancini: chi è la seconda moglie Silvia Fortini. Alice Coppa il 31/05/2021 su Notizie.it. Silvia Fortini è la seconda moglie dell'allenatore della Nazionale Italiana Roberto Mancini. Tutto quello che c'è da sapere su di lei. Dal 2018 Roberto Mancini è sposato con Silvia Fortini. Precedentemente l’allenatore è stato sposato con Federica Morelli. Dopo la fine del suo matrimonio con Federica Morelli (madre dei suoi 3 figli) Roberto Mancini si è sposato con Silvia Fortini. Da sempre molto riservati per quanto riguarda la loro vita privata, l’allenatore e sua moglie non hanno rilasciato molte interviste sulla loro vita insieme. Di lei si sa che sia a capo di un importante studio legale a Roma. I due si sono conosciuti nel 2009 proprio quando Mancini ha deciso di farsi assistere legalmente dallo studio di Silvia Fortini. I due, inoltre, avrebbero 14 anni di differenza. Dal 1990 al 2016 Roberto Mancini è stato sposato con Federica Morelli, madre dei suoi tre figli: Filippo e Andrea (che hanno seguito le orme del padre nel mondo del calcio), e Camilla. Il tecnico annunciò la fine del matrimonio con un comunicato stampa, a cui l’ex moglie a sua volta la moglie “rispose” pubblicamente con un comunicato: “Nel prendere atto della sua volontà di avviare le pratiche per la separazione, Federica Morelli non può che esprimere il proprio disagio per il mezzo mediatico prescelto, che rischia di attribuire dimensioni pubbliche ad una vicenda che sarebbe bene affrontare in un ambito strettamente familiare e personale, nel rispetto della riservatezza e dei sentimenti di tutti coloro che, loro malgrado, ne verranno emotivamente toccati. In ogni caso, non comprende come un presunto e non meglio precisato “trauma familiare” che sarebbe accaduto nel lontano 2009 possa porsi in collegamento con la scelta, tutta personale, del marito di interrompere unilateralmente un rapporto matrimoniale che dura ininterrottamente da venticinque anni”, aveva fatto sapere tramite il suo legale. Nonostante il divorzio dalla sua ex moglie Roberto Mancini ha sempre mantenuto un forte legame con i suoi tre figli. Il maggiore dei suoi tre figli, Filippo, ha giocato nelle giovanili dell’ Inter. Il secondo figlio invece, Andrea, ha giocato nelle giovanili dell’Inter e nel City e, dopo aver giocato in serie minori, ha interrotto la sua carriera nel mondo calcistico con i New York Cosmos. Mancini ha sempre espresso il suo orgoglio verso i suoi due figli. 

Fabrizio Bocca per repubblica.it il 9 giugno 2021.

1 - Origini. Mancini nasce a Jesi, città della scherma italiana e degli ori olimpici: Stefano Cerioni, Giovanna Trillini, Valentina Vezzali, Elisa Di Francisca.

2 - Classe 1964. Come Gianluca Vialli, Michael Laudrup, Marco Van Basten, Jurgen Klinsmann, Totò Schillaci...

3 - Testimonial delle Marche. Dopo Dustin Hoffman, Valentina Vezzali, Valentino Rossi, Neri Marcoré, Vincenzo Nibali.

4 - 1500 partite. Roberto Mancini ha giocato 800 partite in squadre di club, 36 in Nazionale, 26 in Under 21. Da allenatore è stato in panchina 730 partite in squadre di club più altre 32 da ct. Fa ben più di 1500 volte in campo in quasi 40 anni di calcio. Togliendo le ferie, i mesi estivi etc, fanno circa una partita ogni 8 giorni.

5 - Gol. 204 con i club (Bologna 9, Samp 171, Lazio 24), 4 in Nazionale.

6 - Piede preferito. Destro. Si contano solo un paio di gol di sinistro ai tempi della Samp.

7 - Trofei da giocatore. 2 scudetti (Samp '91 e Lazio 2000), 6 Coppe Italia (Samp '85, '88, '89, '94; Lazio '98 e 2000), Supercoppa Italiana 2 (Samp '91, Lazio '98), 2 Coppe delle Coppe (Samp '90 e Lazio '99).

8 - Trofei in panchina. 3 scudetti (Inter 2006, '07, '08), 4 Coppe Italia (Fiorentina 2001, Lazio '04, Inter '05, '06), 2 Supercoppe Italiane (Inter '05, '06), 1 Premier League (Manchester City 2011), 1 Coppa d'Inghilterra (Manchester City 2011), 1 Community Shield (Manchester City 2012), 1 Coppa di Turchia (Galatasaray 2014).

9 - Big. Dal 2015 è nella Hall of Fame del calcio italiano, nella categoria allenatori, insieme a Lippi, Sacchi, Trapattoni, Capello, Ancelotti, Ranieri, Bagnoli, Allegri, Mazzone.

10 - Prezzo. 500.000 lire. La sua prima valutazione, la cifra pagata dal Bologna all'Aurora Jesi a 14 anni non ancora compiuti.

11 - Seconda pelle. La prima maglia col numero 10 all'oratorio.

12 - Comunione. Don Roberto Bigo, parroco di San Sebastiano a Jesi, sede anche dell'Aurora, la prima società di Mancini, raccontò di aver visto Roberto giocare con la maglia numero 10 la stessa mattina della prima comunione. Per la cronaca fece i due gol del pareggio dell'Aurora.

13 - Italia Unita. Don Bigo, dopo aver sposato i genitori di Roberto, Aldo e Marianna, sposò Roberto e la prima moglie Federica Morelli a Quarto, nella Chiesa del quartiere prospiciente lo scoglio da cui partì la spedizione dei Mille garibaldini.

14 - Essenza del numero 10. "La magia del numero 10 è quella che nasce dai piedi del trequartista, il giocatore di fantasia, quello capace di spiazzare tutti con un gesto atletico di cui forse neppure lui ha piena consapevolezza". Roberto Mancini nella sua tesi al Supercorso.

15 - Laurea. Al numero 10 e al ruolo di trequartista è dedicata la sua tesi di fine studio al Supercorso 2000/2001 a Coverciano. Nell'evoluzione del ruolo sono citati Platini, Maradona, Baggio, Pirlo, Rui Costa, Veron, Seedorf, Zidane. Non lui...

16 - Doti del numero 10.

"-Capacità eccelse di smarcamento;

- Grandi qualità tecniche di base e buona qualità di tecnica applicata;

- Imprevedibilità;

- Capacità di mandare in gol con disinvoltura gli attaccanti in vari modi;

- Predisposizione al dribbling e alla giocata individuale;

- Scarsa attitudine alla fase difensiva."

Sempre dalla sua tesi al Supercorso. Da notare l'ultima voce, quella del 10 che corre dietro agli avversari... 

17 - Talento precoce. Il suo esordio in Serie A (dopo un'apparizione in Coppa Italia) in Bologna-Cagliari 1-1 il 13 settembre 1981 a 16 anni, 9 mesi e 17 giorni. Mancini entra al 73' al posto di Fiorini. Formazione: Zinetti, Benedetti, Fabbri, Paris, Mozzini, Zuccheri, Chiorri (89' Chiodi), Pileggi, Fiorini (73' Mancini), Baldini, Colomba. Allenatore: Burgnich.

18 - Il primo stipendio. Al Bologna, da ragazzino, novanta mila lire al mese come rimborso spese.

19 - Il primo gol. È del 4 ottobre 1981. Como-Bologna, 4a giornata di campionato, 2-2. Mancini, subentrato a Chiorri, su lancio di Neumann fa il gol del 2-2. Di sinistro a Giuliani in uscita.

20 - La squadra della vita. Paolo Mantovani, presidente della Samp, superando la Juventus, lo ingaggiò dal Bologna nel 1982 per due miliardi e mezzo di lire e i cartellini di Galdiolo, Logozzo e Roselli, più il prestito di Brondi. L'alta cifra spesa, e il contratto quadriennale a crescere (40 milioni, poi 60, 80, 100) sollevarono molte polemiche.

21 - Secondo padre. Paolo Mantovani sosteneva che Vialli e Mancini guadagnassero la stessa cifra, ciò nonostante ognuno sospettava che l'altro avesse ottenuto di più con accordi sottobanco.

22 - Guardiani. A guardia della sua villa Paolo Mantovani aveva due cani: Luca e Roberto. 

23 - I gol più belli (anche secondo lui).

18 novembre 1990, stagione dello scudetto, Napoli-Sampdoria 1-4. La Sampdoria batte il Napoli di Maradona al San Paolo con due gol di Vialli e due di Mancini. Il gol dell'1-4 è di destro forte al volo da poco dentro l'area, su cross in velocità di Lombardo da destra.

17 gennaio 1999, Parma-Lazio 1-3. Angolo da sinistra di Mihajlovic, Mancini dal vertice sinistro dell'area piccola, spalle alla porta, d'istinto fa gol di tacco (e suola...) spedendo il pallone sotto la traversa della porta difesa da Gigi Buffon.

24 - Night Fever. L'intera sua esperienza da giocatore in Nazionale è stata condizionata da una falsa partenza. Convocato per una tournée negli Usa da Bearzot, a New York esce dal ritiro e va con Tardelli e Gentile allo Studio 54 rimanendoci fino alle 6 del mattino. Bearzot se ne accorge non gliela perdona e non lo chiama più. Lo stesso però non farà con Tardelli e Gentile...

25 - Rimpianti. Talento cristallino e geniale, brillante nell'Under 21, in nazionale non è mai riuscito a esplodere. Fino a tutto il 1988 segna un solo gol in azzurro, agli Europei a Dusseldorf contro la Germania. Fatto il gol corre contro la tribuna a inveire contro i giornalisti.

26 - Notti magiche. Pupillo di Vicini, ma poi sceso nella considerazione e rapporti deteriorati col ct. Finito nel tira e molla tra Giannini, Baggio, Schillaci & C non giocherà un solo minuto di Italia 90'. Le notti magiche arriveranno un anno dopo con lo scudetto della Samp.

27 - Pentimenti. Rifiuta la convocazione di Sacchi per Usa '94, poi ammetterà l'errore.

28 - Tifo. Su pressione del magazziniere Claudio Bosotin, voleva chiedere il cambio del nome dello stadio Luigi Ferraris, essendo lo stadio di Marassi intitolato al capitano del Genoa agli albori del secolo, caduto poi al fronte durante la prima guerra mondiale. Scoppiò il caos e una grana diplomatica che fece andare su tutte le furie  il presidente Mantovani.

29 - Litigio. In allenamento Vialli e Mancini si lamentano reciprocamente di passaggi e movimenti chiamandosi "Mancini" e "Vialli" anziché "Roberto" e "Luca". Seguiranno due settimane di litigio e di comunicazioni per interposta persona. Dovette intervenire Zenga con uno stratagemma in nazionale, facendoli incontrare al bar di Coverciano, per riappacificarli.

30 - Senza freni. "Dovrebbero aprire i cancelli e far entrare gli ultrà per andare a picchiare gli arbitri". La sua prima famigerata uscita da mangia arbitri resta sempre la più sconvolgente. Atalanta-Samp 1-0, obiettivo l'arbitro Boschi, domenica 18 gennaio 1987. Vicini è costretto a rimangiarsi la convocazione in nazionale.

31 - Furia. "Vieni a giocare tu!" lo dice Mancini a Paolo Mantovani in tribuna da bordo campo, togliendosi la fascia di capitano, dopo aver inveito per almeno tre minuti contro l'arbitro Nicchi per un rigore negato ed essere stato espulso al 34'. 5 novembre 1995 in Sampdoria-Inter 0-0. Sei giornate di squalifica poi ridotte a quattro.

32 - Intemperanze. Nella finale di Champions League Sampdoria-Barcellona 0-1 (20 maggio 1992), al termine insegue e insulta l'arbitro Schmidhuber e si becca 5 giornate di squalifica.

33 - Imparzialità. "Ma vai ad arbitrare Juve e Milan!". Da allenatore dell'Inter all'arbitro Trefoloni, dopo Lazio-Inter 1-1, stagione 2004-2005. Due giornate.

34 - Apprezzamenti. "Doveri con noi non ne sbaglia una". Da allenatore dell'Inter dopo Inter-Sassuolo 0-1, stagione 2015-2016.

35 - I suoi allenatori. Gli allenatori di Roberto Mancini in 20 anni da calciatore (1981-2001): Marino Perani, Romano Fogli, Tarcisio Burgnich, Franco Liguori, Renzo Ulivieri, Azeglio Vicini, Enzo Bearzot, Eugenio Bersellini, Vujadin Boskov, Narciso Pezzotti, Sven Goran Eriksson, Arrigo Sacchi.

36 - Rapporti umani. "Eravamo abituati alla caserma del sergente Bersellini. Con Boskov ci è sembrato di rinascere, ci divertivamo allenandoci e giocando". Se non fosse arrivato Boskov (1986), Mancini aveva già chiesto di essere ceduto.

37 - Pause. "Roberto fa mezzora da fenomeno, quindi un sonnellino. Poi, ops, si sveglia e gioca altri 20 minuti da brividi". Vujadin Boskov.

38 - Manager. Mancini intraprende una carriera dirigenziale un anno prima di smettere, lavorando per Cragnotti e la Lazio. In giacca, cravatta e valigetta conduce lui nell'estate '99 la trattativa col Piacenza per portare Simone Inzaghi alla Lazio. Poi però decide di continuare a giocare e vince lo scudetto con la Lazio nel 2000.

39 - Spintarelle. Uomo di potere, vicino alla famosa agenzia di procuratori Gea, ottimi rapporti col banchiere Cesare Geronzi, per il suo salto direttamente sulla panchina della Fiorentina dopo l'addio di Terim, intervengono i massimi poteri del calcio, e in particolare il commissario della Figc Gianni Petrucci, con una deroga ad hoc nonostante nella stessa stagione sia stato anche "secondo" di Eriksson. Da Vicini stesso a Lippi fino a Ulivieri molti allenatori si espressero contro, Agroppi lo bollò come "il raccomandato".

40 - Senza tregua. A differenza di molti suoi colleghi, specializzati nella pratica del contratto lungo e poi interrotto godendone per intero i benefici, stipendio compreso, Mancini da allenatore non è quasi mai rimasto fermo o ha fatto anni sabbatici - tranne una lunga pausa dopo la prima esperienza all'Inter -  passando da una squadra all'altra senza mai lunghe interruzioni. "Fermo non so stare", lo disse anche nel pur rapido passaggio dal campo alla panchina.

41 - Ha giocato con...Bologna ('81-'82), Sampdoria ('82-'97), Lazio ('97-2000), Leicester City (2001).

42 - Tramonto. Al Leicester City a inizio 2001 ha giocato solo 4 partite (senza fare un gol), dopo aver già dato l'addio al calcio giocato in Italia e  interrompendo l'esperienza come secondo di Eriksson alla Lazio. Da lì passa direttamente ad allenare la Fiorentina.

43 - Giocatore/Allenatore. Mancini oltre al talento è sempre stato etichettato come "allenatore in campo". Ci sono numerosi episodi di lui che discute con i suoi allenatori in panchina. Forse il più famoso è Bari-Sampdoria 1-1, stagione 91-92. Mancini discute animatamente con Boskov davanti alla panchina, protesta, discute la disposizione tattica e i cambi, finché Boskov non lo sostituisce facendolo infuriare ancora di più.

44 - Ha allenato...Fiorentina (2001-02), Lazio (02-04), Inter (04-08), Manchester City (09-13), Galatasaray (13-14), Inter (14-16), Zenit San Pietroburgo (17-18), Nazionale italiana (da maggio 2018). E' il 53° ct della Nazionale italiana. Venti anni da calciatore e 20 da allenatore.

45 - Apprezzamenti. "Sarri è un razzista, uomini come lui non devono stare nel calcio. Ha usato parole razziste, ha inveito contro di me poi mi ha urlato frocio e finocchio, sono orgoglioso di esserlo se lui è un uomo. Da uno come lui che ha 60 anni non lo accetto, si deve vergognare". Mancini a Sarri al termine di Napoli-Inter 0-2, quarto di finale di Coppa Italia, gennaio 2016.

46 - Eredità. "Io per Totti ho sempre avuto un debole, abbiamo portato sulle spalle lo stesso numero, le sue giocate erano le mie. Appena ha iniziato vedevo in lui me stesso". Mancini dopo l'addio di Totti al calcio.

47 - Informazione. "Io non guardo nulla, non leggo i giornali, non sento le radio e non guardo i canali privati. Se non qualche porno...". Mancini rispondendo a una domanda sui problemi dell'Inter con Icardi.

48 - Sciarpa. La sciarpa è diventata un simbolo dell'eleganza di Mancini. Tra le tante indossate se ne segnala una interista con il "Padre Nostro" in dieci lingue diverse. Ai tempi del City si registrò un boom di vendite delle sciarpe bianche e celesti del club. Ai tempi dello Zenit San Pietroburgo scrissero che la sciarpa non è solo un "modello di eleganza, ma anche una precisa scelta politica per ingraziarsi i tifosi".

49 - Oops! "La nazionale italiana deve essere italiana. Magari ci troviamo in nazionale un giocatore che non è italiano ma che ha solo dei parenti qui. Ma questa è solo la mia opinione. Io penso che un giocatore italiano meriti di giocare in Nazionale, mentre chi non è nato in Italia, anche se ha dei parenti, credo non lo meriti. Se le regole sono queste Conte fa bene ad applicarle, ma io resto della mia opinione". Roberto Mancini - che da ct ha chiamato per l'Europeo i naturalizzati Jorginho, Palmieri e Toloi - il 23 marzo 2015 da allenatore dell'Inter all'incontro a Fiumicino tra arbitri, capitani e tecnici di Serie A.

50 - Rock & Roll. "Mancini è decisamente uno con gli attributi, si agita, grida, combatte. Un po' mi manca. È più facile che Mancini torni al Chelsea, che gli Oasis si riuniscano". Noel Gallagher, tifoso del City.

A lezione da... noi. Se l'Italian Job ha istruito gli inglesi. Benny Casadei Lucchi il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Merito dei nostri allenatori "emigrati" se il loro calcio è ora internazionale e moderno. Loro hanno inventato il calcio, noi abbiamo inventato loro. Nel calcio. Questo è l'italian job, questo è il colpo all'italiana. Però non lo sanno e visto che sono suscettibili, meglio non dirglielo, meglio lasciare Sua Maestà del football nella supponente nebbia di convinzioni sbagliate che da sempre l'avvolge. Prima, sul campo, i Tre Leoni ruggivano molte nobili parole autoreferenziali e molta poca sostanza, adesso parlano sempre troppo però alla porta avversaria ci arrivano non solo con il bomber abbandonato in mezzo all'area come una particella di sodio. Il gol di Shaw nella finale, centoventi secondi dopo il fischio, è lì a dimostrare che una delle prime lezioni italiane è stata mandata a memoria, fasce, ali, terzini, bene così. L'altra, ancora più importante, quella del prima non prenderle, è l'abc di chi nel calcio desideri vincere qualcosa in campo internazionale anche senza gol fantasma. E pure in questo stanno migliorando, per fortuna nostra non troppo. Se questi insegnamenti sono stati assimilati dagli inglesi, il merito va a quel popolo di santi, poeti, navigatori, e non camerieri come credono loro, che li ha pacificamente invasi senza che se ne accorgessero; un popolo di allenatori capace di avviare una silenziosa colonizzazione calcistica. Per farlo è bastato un gesto semplice, un colpetto all'italiana, raccogliere da terra il pallone, poco più di venti anni fa e, listen, please..., mostrargli i molti modi di farlo rotolare, non solo il loro. L'Italian Job è racchiuso nella paziente calata pacifica e ben retribuita del made in Italy pallonaro che si è insinuato nei loro stadi, bellissimi, nei loro campi, curatissimi, nelle loro tifoserie, bevutissime, senza usare armi, spintoni e prepotenze bensì la forza di uomini preparati seduti in panchina. L'ultima lezione domenica sera, perché è stato chiaro fin dall'inizio che se i ragazzi di Southgate erano giunti in finale al posto di tedeschi e danesi era, sì, il tempio di Wembley che aiuta, ma anche merito dell'Italian job dei nostri allenatori emigrati che avevano vistosamente cambiato la mentalità calcistica d'Oltre Manica. Certo, poi è arrivato l'altro colpetto, il nostro, per ribadire che sul tema restiamo avanti. E oggi commuove e fa pensare che la prima lezione, il primo lavoretto sia stato opera di uno degli eroi azzurri di domenica sera. Perché il vero Italian job sull'isola inizia un freddo giorno di febbraio del 1998 quando Gianluca Vialli dice sì alla proposta di un Chelsea non ancora grande Chelsea. È l'anno zero della colonizzazione a insaputa, il D-Day di uno sbarco incruento e al contrario con cui gli uomini che siedono in panchina prendono per mano gli smarriti inventori del calcio. Vialli vince subito, poi si dedicherà ad altro. In ordine sparso emigrano dall'Italia ad ondate altri professionisti del gioco e degli schemi. L'elenco è lungo e autorevole, sulla panchina dei Tre Leoni Sven Göran Eriksson dopo 15 anni d'Italia e Fabio Capello, nei club sono molti, da Zola a Guidolin, da Ancelotti a Conte e Sarri. Ognuno emigrato con il proprio bagaglio di competenze e di favole: su tutte, quella di Roberto Di Matteo, vice al Chelsea scaraventato a vincere, italian job, Fa Cup e Champions; e di Claudio Ranieri, altro colpo all'italiana. Il suo è addirittura meraviglioso perché si confonde, invece di accompagnare il piccolo Leicester alla salvezza lo porta dritto dritto a conquistare il titolo Premier mai vinto in 132 anni di storia. Lavoretti all'italiana dunque, come quello dello stesso Mancini, per noi oggi santo subito ma anche a Manchester, sponda City, discretamente beato nelle stagioni 2011-12, prima la FA Cup dopo 35 anni poi la Premier dopo 44 anni. Però guai a pensar male, gli inventori del calcio qualcosa hanno voluto darci in cambio. Loro li chiamano hooligans. Noi English job. Benny Casadei Lucchi

Vialli e gli eroi che hanno vinto restando seduti. I campioni del mondo e Meret mai in campo. Elia Pagnoni il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Un'altra festa per De Rossi e Oriali, stavolta restando un passo indietro. E poi il terzo portiere, l'unico a non aver mai giocato in questo Europeo. Forse valeva la pena di vincere questo Europeo solo per vedere quell'abbraccio. Vialli e Mancini in lacrime di gioia sullo stesso prato dove trent'anni fa uscirono piangendo di delusione. Dalla finale di Champions persa dalla Samp col Barcellona alla finale di Euro 2020 vinta in casa degli inglesi, c'è tutta la storia di questi due uomini che si sono legati a doppio filo con un'amicizia profonda che va al di là del calcio e fa da esempio a tutti quanti hanno festeggiato ubriachi nella notte azzurra. Perché l'abbraccio del ct al suo vecchio compagno ti riporta con i piedi per terra e ti fa capire che non c'è solo la felicità per un rigore segnato o parato, che una coppa Europa non può nascondere i guai della vita e i valori veri che solo lo sport può trasmettere. Mancini e Vialli, Mancini e il suo cerchio magico, quello che si stringeva attorno agli azzurri ad ogni pausa degli infiniti prolungamenti delle partite di questo Europeo. L'importanza di capire che non si vince solo stando in campo, ma anche stando seduti dietro le quinte, sapendo dare tutto pur rimanendo al proprio posto. Perché dietro quei rigori segnati e parati c'è l'altra Italia, quella dei vecchi compagni di ventura blucerchiati del ct, che Mancio ha voluto al suo fianco nella costruzione e nella gestione di questa squadra. Non solo il Vialli capodelegazione, ma anche Chicco Evani, il vice che ha sostituito degnamente il ct quando ha attraversato problemi di quarantena, e poi Salsano, Lombardo, Nuciari, fino al preparatore dei portieri Massimo Battara (che di blucerchiato ha il padre Piero, numero uno della Samp anni Sessanta). E poi tutti gli altri che hanno vinto stando seduti, come Daniele De Rossi, l'ultimo arrivato nella corte del ct, ma preziosissimo per il suo carisma di campione del mondo, così come ha dato la carica anche un altro che sa come si fa a vincere i Mondiali, il team manager Lele Oriali, che a dire il vero a sedere ci è stato poco: era talmente agitato che durante la partita con il Belgio si è ferito a un sopracciglio. L'importanza di quelli che hanno vinto da seduti come Salvatore Sirigu, fondamentale nello spogliatoio, e Alex Meret, il terzo portiere, l'unico dei 26 a non aver giocato nemmeno un minuto. Ma da seduti, tifando per questa Italia, hanno vinto anche Matteo Berrettini e Sergio Mattarella, la strana coppia seduta quasi affiancata in tribuna a Wembley, il primo reduce dalla straordinaria finale raggiunta a Wimbledon, il secondo incredibilmente esuberante nel suo impermeabile scuro. E alla fine è balzato in piedi anche lui. Elia Pagnoni

Dario Freccero per “La Stampa” il 14 luglio 2021. Alberico "Chicco" Evani, 58 anni, è il vice di Mancini in panchina e fa parte della pattuglia blucerchiata che tutta Europa sta celebrando per il successo azzurro a Wembley. Non era nella «Sampd'Oro» e neppure nella finale di Wembley del 1992 contro il Barcellona, ma dal 1993-1997 ha vestito la maglia della Samp 116 volte e sa che cosa significa fare parte della famiglia blucerchiata. È uno degli stretti consiglieri del ct, come Vialli, Lombardo, Salsano. In particolare, ha aggiunto una dote che nessun altro aveva spiccata come lui: l'esperienza con i ragazzi, forte degli anni da tecnico delle Nazionali azzurre giovanili. Mourinho ha detto che la vittoria dell'Italia è dipesa dalla cattiva gestione dei rigoristi inglesi: ha detto che i big come Sterling e Shaw si sono eclissati e tutto il peso è rimasto sul giovanissimo Saka che ha sbagliato. Voi i tiratori come li avete decisi?

«Io vi garantisco che nessuno dei nostri si è tirato indietro, anzi semmai abbiamo avuto il problema contrario: li volevano tirare tutti. Tutti volevano prendersi la responsabilità, è stata una bellissima prova di coraggio, io lì ho capito che ce l'avremmo fatta». 

E chi ha deciso alla fine?

«Beh, naturalmente Roberto, è lui il ct ed è lui che alla fine ha l'ultima parola. Ha deciso bene direi, d'altra parte lui è sia un ex campione sia un tecnico intelligente e sensibile e in quei frangenti conta molto la psicologia, più che la tecnica. E Roberto sa leggerla».

Lei che ne ha fatto parte, cosa pensa del valore aggiunto di questo staff dal passato comune nella Samp?

«Che è servito moltissimo, soprattutto sul clima trasmesso alla squadra, ai ragazzi. Oggi i giocatori hanno bisogno di un ambiente molto sereno in cui poter dare il meglio, lo dico perché avendo lavorato per anni con le Nazionali giovanili so che l'atmosfera dello spogliatoio fa la differenza».

Sono giocatori un po' fragili?

«Non necessariamente, però se i ragazzi sentono che intorno hanno un ct e un gruppo di lavoro unito, che ha feeling ed empatia, si sentono nelle condizioni ideali per dare il meglio. Una battuta, un sorriso, uno scherzo alleggeriscono molto le tensioni che naturalmente si creano in momenti così importanti». 

Chi era, di voi dello staff, il deputato ad "alleggerire" la tensione?

«Direi Attilio (Lombardo, ndr), lui anche da giocatore era uno scherzoso, sempre allegro e ironico. Ed è servito. Toccava soprattutto a lui scherzare ed essere anche un po' preso in giro. Sto parlando sempre di cose simpatiche, con affetto e rispetto, ruoli maturati in tanti anni di carriera e un po' rimasti anche oggi. In generale il clima in questa Nazionale era magnifico, ve lo garantisco, e penso si sia percepito anche dall'esterno». 

Ora è finita la festa o, vista l'unità del gruppo, siete ancora tutti insieme?

«No, io sono arrivato a casa, finalmente, e mi posso rilassare (ride). Va bene la festa ma sono stati due giorni faticosissimi di viaggi, premiazioni, celebrazioni. Fantastico, eh! Ma faticoso. Io pensavo che al fischio finale fosse finito tutto lo sforzo, ma non è stato così, con ancora due giorni di fatiche». 

Lei, Vialli, Lombardo, Salsano, naturalmente Mancini. Ma chi ha deciso le mosse, le formazioni, le strategie?

«È stato sempre Roberto a prendere la decisioni finali, ovvio. Ma il suo grande pregio è essere uno che coinvolge tutti nelle decisioni e ascolta il parere di tutti. Sia prima della partite, per prepararle, sia durante, noi tutti facevamo continui summit per portare ciascuno il proprio contributo e dire la nostra.

Roberto è uno molto intelligente e senza preconcetti e se qualcuno suggeriva qualcosa di giusto, anche se magari non era stata la sua idea iniziale, ti seguiva. È stato un lavoro di équipe ma non vorrei sminuire il valore di Roberto, che non a caso è colui che questa équipe l'ha messa insieme. I meriti più grandi oggettivamente sono i suoi». 

Quindi è davvero una vittoria di Mancini?

«Lui ha quella sensibilità del grande giocatore e del grande allenatore, due ruoli diversi che ha saputo fondere. Non tutti lo sanno fare, anzi direi pochissimi. Infatti è pieno di ex grandi campioni che non sono riusciti ad avere i suoi risultati come tecnici. Io penso che sia stato perfetto nel suo ruolo, come sono stati perfetti i ragazzi e le circostanze. È una vittoria di tutti in cui tanti possono dire, chi più chi meno, di aver contribuito».

Andrea Santoni per il "Corriere dello Sport" il 14 luglio 2021.  Un’impresa è un’impresa, c’è poco da fare. E i cavalieri che la compiono, belli o brutti che siano, più o meno nobili, hanno il sacro diritto di essere celebrati. Mancini, molto Artù adesso quanto Lancillotto nel tempo giovanile, alla sua tavola rotonda ama far sedere da sempre i suoi fedelissimi. E’ stato giustamente detto e ripetuto più volte in queste settimane di gloria che senza il suo fraterno sodalizio a coté forse tutto questo non sarebbe accaduto. La sua squadra tecnica azzurroblucerchiata è stata ed è parte integrante della sua gestione: dal capodelegazione Vialli al vice Evani, dagli assistenti tecnici Lombardo e Salsano ai preparatori dei portieri Nuciari e Battara. A loro si sono aggiunti, in tempi diversi, due altri elementi fondamentali, non solo nell’avventura europea: Lele Oriali e Daniele De Rossi. SITUAZIONE Otto uomini d’oro per la buona riuscita dell’Operazione Europeo. Se il bello è già arrivato, adesso viene il bellissimo, ovvero, il Mondiale 2022, già piuttosto vicino, data la sua collocazione autunnale (21 novembre-18 dicembre). In questa chiave è possibile già stabilire che squadra vincente non si cambia? Solo in parte, nel senso che un paio di pedine importanti sono adesso da riposizionare. Si tratta di Oriali e DDR, gli unici ad avere il contratto appena scaduto. Lo staff tecnico propriamente detto ha infatti un legame con la Figc fino al dicembre 2022. Lo stesso dicasi per Vialli. La situazione del team manager azzurro e quella del collaboratore tecnico ex campione del mondo e bandiera romanista invece sono diverse. 

IL CASO Prendiamo Oriali. L’attuale first team technical manager dell’Inter svolge un simile ruolo anche in Nazionale, a partire dall’agosto 2014, sostituendo Gigi Riva, accanto ad Antonio Conte prima, a Ventura e a Mancini poi. Dall’1 luglio 2019 è tornato da dirigente all’Inter, voluto da Conte, svolgendo un doppio ruolo. Lo scorso anno, in piena pandemia ha rescisso il contratto con la Federazione, salvo poi essere di nuovo assunto con un contratto annuale su richiesta del ct. Questa nuova intesa è appena scaduta. A breve Oriali, che ha ancora un anno di contratto con l’Inter, incontrerà Marotta. Il nuovo assetto, anche sul piano tecnico, della società, riserva per lui uno scenario mutato. Si profila una sorta di caso Antognoni in nerazzurro, con la società intenzionata a proporgli un ruolo diverso, sostituendolo in quello attuale con Riccardo Ferri. Dovesse rescindere con l’Inter resta però l’opzione Italia. E’ chiaro che Mancini ne sosterrebbe la conferma, almeno fino a dicembre 2022. Dopo lo showdown milanese ci sarà l’incontro decisivo col presidente Gravina.

OPZIONE Per quanto riguarda De Rossi, anche in questo senso tra breve sarà chiarita la situazione. Come è noto DDR sta concludendo (a settembre) il corso speciale per allenatore Uefa A-B. In questo quadro ha svolto (gratuitamente) il ruolo di assistente tecnico di Mancini all’Europeo. Nella prossima stagione potrebbe allenare in C o da vice in B e in A. Per iscriversi al Master dovranno passare 8 mesi (maggio 2022), durante i quali dovrà essere tesserato per un club o per la Federazione. Il corso annuale partirà a settembre 2022. A questo punto potrebbe essere la cosa più logica per lui proseguire il percorso azzurro in parallelo al Master fino al Qatar. A quel punto poi sarebbe libero di scegliere il proprio futuro tecnico. Da tener conto che Mancini ha sì un contratto fino al 2024. Ma dall’11 luglio è diventato ancor di più il tecnico dei sogni di molti top club. Tornando a De Rossi, che pure è entrato nel cuore del gruppo azzurro, non solo dello staff e di Mancini (anche per il suo modo riservato di ricoprire il ruolo), un colloquio con Gravina nei prossimi giorni chiarirà la questione.

Alessandro Angeloni per "il Messaggero" il 13 luglio 2021. Così, all'improvviso. Come il tottiano mo je faccio er cucchiaio, che tutti ha sorpreso in lungo pomeriggio di Amsterdam nel 2000. Daniele De Rossi, che dell'Italia è ora un giovane (grande) tecnico ma è rimasto un uomo spogliatoio, dopo la semifinale contro la Spagna ha proposto di fare il bowling. Ma come il bowling? Un lettino da spogliatoio, pieno di bottigliette di plastica, qualcuna vuota, altre piene. Daniele prende la mira, parte, si tuffa e fa strike: tipo palla da bowling, le bottiglie cadono. Risate, il gesto è divertente, anche perché improvviso. Spontaneo. Ma certe situazioni, in uno spogliatoio che funziona, vivono di repliche. Si devono ripetere, stavolta a richiesta. De Rossi sì, se l'Italia vince in finale, lo rifà. Stavolta sul lettino non ci sono solo le bottiglie di plastica, ma pure quelle di vetro, c'è un caos tremendo. C'è acqua e si scivola. Pulire, please, altrimenti De Rossi non parte, ci sono i vetri, ci si fa male. Lettino pulito dai giocatori interessati all'evento e via, la scena si replica, con l'ex giallorosso che vola, atterra sulla panca e finisce per terra. Un bel volo, ancora risate di tutti, amici, ex compagni di squadra, nemici di derby. Ma che importa, lo spogliatoio ha un colore solo: azzurro. I ritiri son fatti anche di momenti ludici, scaramantici, di riti (Manuel Locatelli ed Alessandro Bastoni, in qualità di nuovi con la Nazionale maggiore, a inizio avventura sono saliti su una sedia per cantare davanti a tutti: il primo ha intonato Azzurro di Celentano, il secondo 50 special dei Lunapop.). De Rossi è uno che traina, così come lo è Vialli, che insieme ai suoi amici della Samp, è stato davvero l'elemento collante. E' quello che si occupava di omaggiare i giovani appena entrati in nazionale, consegnando loro la maglia con il numero della convocazione, davanti a tutti, e spiegando loro il significato di vestire la maglia dell'Italia. Ora lo avranno capito meglio. Vialli è quello che scendeva per ultimo dal pullman e per ultimo saliva. Iniziativa nata per un ritardo vero di Gianluca e poi è diventata rito scaramantico. Come lo era diventata la partita di padel prima di ogni trasferta, tra la coppia De Rossi-Mancini contro due dello staff azzurro a rotazione. Rito è stato per qualche giorno l'esultanza suggerita da Lino Banfi, con quel porca puttena dopo i gol. 

FRATELLI Immancabili le famose grigliate al ritorno dalle partite in giro per Europa. Coverciano profumava di carne e/o di pizza, che piace a tutti e in questi ambienti non manca mai. A che serve tutto questo? A molto, a tutto, forse. Determinante. «Una grigliata o una pizza e vengono fuori le individualità, nascono amicizie, gli scherzi e i tormentoni. Ma una delle cose più belle di questo gruppo è che davvero rispecchia quelle splendide parole che urliamo dal nostro cuore prima di ogni partita: Fratelli d'Italia», concetto spiegato bene da Matteo Pessina, che in questo mese ha tenuto una specie di diario di bordo. Che i suoi compagni hanno apprezzato, perché spesso proprio loro venivano raccontati sui social. La narrazione dei canti napoletani, poi. Che hanno accompagnato il gruppo per tutto il periodo. Parole cantate anche da chi di Napoli non è, e questo rendeva tutto più divertente. La musica da urlare la decideva, ovviamente, Insigne, con il compare Immobile, demolito dai suoi scherzi e da quel tubo rumoroso che Frank Matano usava in LOL, chi ride è fuori. Pessina scrive, è il poeta intellettuale del gruppo. Usa i social con discrezione, e ora Bastoni lo vuole come media manager. E magari anche il suo amico Locatelli lo richiederà. Loro sono tra i più giovani ma hanno fatto da traino come gli altri, perché là dentro non conta il peso della Juventus, ma pure quello del Sassuolo e dell'Atalanta. Il gruppo si è unito ancor di più quando Spinazzola si è rotto.

Quelle lacrime di dolore hanno sconvolto tutti. Spina era a Wembley, ha gioito, ballato, sempre con una gamba sola. Avrebbe tirato anche un rigore, la forza gliel'hanno data i suoi compagni, quando lo hanno salutato il giorno dopo l'incidente e gli hanno strappato la promessa di rivederlo per la finale. Detto, fatto. E qui la scaramanzia c'entra poco. E' in preparazione un nuovo film sugli azzurri, che racconterà proprio questi attimi di amore e amicizia. Una quarantina di giorni di fatica e sorrisi. Con la gioia finale. Una conseguenza, forse.

Salvatore Sirigu. Stefano Agresti per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. Quando hanno guardato il video che Salvatore Sirigu ha spedito sulla chat whatsapp alla vigilia della finale, a molti azzurri sono venuti gli occhi lucidi. Racchiudeva le immagini (raccolte in segreto) di mogli, fidanzate, genitori, soprattutto figli, e tutti dicevano più o meno: «Vinci per noi». È stata l'ultima idea del portiere di riserva per spingere i compagni verso il trionfo, «perché quando non giochi hai due strade: o aspetti il tuo turno in silenzio, oppure cerchi di essere prezioso in altro modo». È quanto ha fatto questo campione atipico, orgogliosamente sardo, uno che odia i social e ama leggere, una passione trasmessa dalla mamma, professoressa di lettere. Un messaggio alla squadra prima di ogni partita, poi quel video. 

Sirigu, come le è venuto in mente di inviare i messaggi motivazionali?

«È cominciata quasi per caso, alla vigilia della gara con la Turchia. Ci stavamo cambiando e non sapevamo a cosa saremmo andati incontro. Ho scritto alcune frasi sul telefono, le ho salvate. E poi ho deciso di inviarle».

Cosa c'era scritto?

«Veniamo da un anno e mezzo durante il quale il calcio non è stato più lo stesso, per noi è già una vittoria entrare in uno stadio con i tifosi. Ricordiamoci che uniti si è più forti, e che più si è uniti e più si è forti. E godiamocela, perché tanti vorrebbero essere al nostro posto». 

È diventato un leader.

«Ho cercato di tramandare principi e valori che mi sono stati trasmessi dai campioni frequentati in Nazionale». 

A chi pensa?

«Quando ti trovi davanti uno come Cannavaro, osservi e ascolti. Poi Buffon: ho un'ammirazione totale per Gigi. E De Rossi: ha dato anima e cuore per la Nazionale, averlo con noi è stato speciale». 

Cos' ha detto a Donnarumma prima dei rigori?

«Resterà per sempre un segreto tra me, lui e Meret, un altro giovane serio e sereno. Io sono più vecchio, mi ascoltano. Gigio ha umiltà e testa sulle spalle, perciò mi piace: i calciatori passano, gli uomini restano». 

È l'erede di Buffon?

«Manteniamo toni soft. Gigi è l'unico che ha attraversato le generazioni al top». 

Cerca di trasmettere ai compagni la sua cultura?

«Se posso, volentieri. Senza forzature, però: ognuno è diverso, perché ha una sua storia. Sa cos' è bello in questo gruppo? Che discutiamo tutti assieme, giovani e vecchi, di cose serie e di stupidaggini». 

Avete parlato del Black Lives Matter? È stato strano vedervi in ginocchio solo quando lo facevano gli altri

«Ci hanno dato dei razzisti: non si può. Qui c'è gente impegnata nel sociale, Nkoulou per me è un fratello». 

Ma non era meglio decidere se inginocchiarsi a prescindere dagli avversari?

«Abbiamo dimostrato di rispettare chi lo fa, è un gesto anglosassone. Però solo noi siamo stati criticati».

Perché non ha i social?

«Non ne avverto l'utilità. Ma Bonucci ha lanciato una petizione su Instagram per convincermi: dovrò cedere». 

È salito sul podio con la bandiera sarda

«Ho un legame viscerale con la mia terra. Il simbolo dei quattro mori è un modo per stare vicino agli emigrati». 

Cos' ha scritto ai suoi compagni prima della finale?

«Un messaggio spero toccante, ma anche libero e positivo. Giochiamocela con il sorriso perché è un privilegio esserci, ho detto. E ancora: siamo arrivati fin qui, non può che andare in un certo modo. Avevo ragione».

Leonardo Bonucci. Giulia Zonca per "La Stampa" il 12 luglio 2021. Il primo a rimettersi in gioco dopo la bambola che stravolge l'Italia è anche quello che firma il pareggio e mette il rigore che scaccia la paura, la palla che entra nella rete dopo l'errore. Il sollievo. Leonardo Bonucci, è sempre lui che rimette in pista l'Italia nella prima notte in cui scivola. Una rete nel mischione e poi le braccia che si aprono proprio come quelle di Mattarella, c'è un attimo, giusto un istante, in cui si potrebbero sovrapporre i due profili e il gesto risulterebbe identico, solo che Bonucci è aggrappato alla balaustra davanti allo spicchio di Italia che salta mentre Wembley sta in silenzio e il capo dello stato è in tribuna e blocca lì lo sfogo, si risiede subito, presidenziale. Bonucci no. Mostra i bicipiti e lì parte il gesto con cui festeggia i gol. Non piace a tutti, quel dito che gira sulla bocca a mulinello e zittisce gli altri viene spesso considerato aggressivo, ma nella notte in cui partono i buu prima dell'inno italiano, poi domati da gran parte dello stadio, in cui Wembley ruggisce invasa dai senza biglietto, in cui si sente solo l'Inghilterra e la voglia compressa per 55 anni che schiuma senza alcuna possibilità di essere gestita, ci sta. Funziona. Si incastra in questa storia iniziata male e strattonata verso il meglio proprio da questo difensore che di finale europea ne ha già persa una e si è ribellato per tutto il tempo all'idea di doverne salutare una seconda. Il primo ad abbracciarlo è Chiellini che ha la sua stessa faccia, identica convinzione, uguali pensieri. Del resto la strada è simile, deviazione più, deviazione meno. Il secondo a volargli addosso è Di Lorenzo che ha sbagliato sul gol subito al secondo minuto e solo quando si ritrova avvolto alla schiena di Bonucci torna sulla terra. Sblocca chi ha strappato di più, chi da subito ha dato peso a una squadra spiazzata e si è mosso sicuro in mezzo ai minuti di caos. L'ha messa sulla grinta e sulla prestanza ancora prima di iniziare, quando si è scaldato vicino all'infiltrato De Rossi, un dirigente accompagnatore che fa gli scatti. Anche questa è Italia. Così come un difensore che piazza il gol numero 13 e non è quello della superstizione, è quello che non si era mai visto perché l'Italia al massimo si è fermata a 12 in una grande competizione e le è riuscito nel 1982 e nel 2006, non proprio due annate qualsiasi. Il 2006 poi porta una sorta di déjà vu a Londra, anche allora, a Berlino, l'Italia è andata in svantaggio e anche allora ha pareggiato un difensore, Materazzi, altro non certo amatissimo fino a lì e poi trasfigurato. Bonucci è solo il secondo juventino capace di segnare nella finale di un Europeo, il primo si chiama Platini e lo ha fatto nel 1984, però Bonucci, a 34 anni e 71 giorni, si prende il record del gol più vecchio e in effetti dentro c'è tutta l'esperienza, il vissuto, il passato, le presenze, gli sbagli e le convinzioni. C'è tutto lui. Bisogna essere concreti e il suo carattere è fondamentale: gli azzurri ritrovano il loro gioco solo dopo aver trovato un equilibrio nella transizione che va dalla depressione totale al riassetto lui e Chiellini hanno avuto una grande parte. Comandano, evitano altri danni, proteggono e hanno due modi opposti di portare lo scudo. Bonucci è tutto bronci e aria da duro, Chiellini si muove in sincrono sulla linea che chiude gli avversari ma si propone con un'altra faccia. Il capitano, a 36 il più vecchio di una finale, scalzato Buffon, cala la carta della serenità anche stavolta, scende dal pullman sorridente, rilassato, scherza con Harry Maguire, agita i pugni per mostrare la carica e rientra in azione con lo stesso sorriso, fedele allo stile che si è scelto: «Non serve aumentare la tensione, chi porta la fascia deve farla scendere». Ha ragione solo che Wembley gioca brutti scherzi, pronti via è la paralisi e allora tra il poliziotto buono e quello cattivo è il secondo che spinge tutti fuori dall'apnea. È lui che oscura Kane, che gli intercetta i rifornimenti, lo tiene a stecchetto fino ai rigori. Poi deve dare un altro strattone, l'ultimo prima di sollevare Mancini. Da campione.

Da fanpage.it il 15 luglio 2021. Zitti tutti, adesso parlo io. Riccardo Bonucci ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa per esaltare, come non ha mai fatto fino ad ora, il fratello Leo protagonista di un Europeo letteralmente eccezionale. L'ex calciatore della Viterbese ha risposto per le rime a tutti coloro che spesso e volentieri hanno criticato il centrale della Nazionale e della Juventus, che non ha perso tempo per commentare il post, gonfiando il petto. Riccardo Bonucci se la prende con i "leoni da tastiera", con quelli che nel corso di questi anni non hanno lesinato critiche, feroci, sul giocatore della Juventus, spesso esagerate e gratuite: "Ne ho lette tante in questi anni, forse troppe. Commenti di una superficialità disarmante scritti con una presunzione che tante volte mi ha lasciato interdetto. Avete sicuramente ragione quando dite che nella mia posizione dovrei fare finta di niente ma a volte è più forte di me: forse perché piace anche a me guardare le partite con gli occhi del tifoso, oppure perché mi diverto anch'io a criticare mio fratello ricordandomi di come interpretavo io il ruolo davanti a quelle 200 persone occasionali".  Riccardo Bonucci poi ha tirato in ballo anche l'ormai ex Sky Daniele Adani, facendo riferimento alla voglia di molti di emularlo, senza però avere le stesse competenze: "Commenti tecnici degni del miglior Adani che però almeno sa di cosa parla". Il maggiore dei fratelli Bonucci non ha dimenticato le accuse principali mosse a Leonardo: ""Non adatto alla difesa a 4", "Scarso nell'1 contro 1", "Sempre sovrastato di testa", "La sua fortuna Chiellini e Barzagli". Ora però è arrivato il momento di dire basta e di rispondere a tutti: "Adesso mi tolgo per un attimo i panni del fratello protettivo e indosso quelli del tifoso, o del giocatore di pallone che ancora ricordate per quell'esordio con goal con la maglia della Viterbese: Leonardo Bonucci è stato pazzesco in questo Europeo e ha spazzato via, uno a uno, ogni vostro illustrissimo pensiero. Chissà se avete esultato ieri sera quando Sterling è stato sbattuto letteralmente fuori dal campo quando ha puntato Bonucci in area di rigore. Quando Kane più di una volta ha rinunciato a saltare di testa visto che non la prendeva mai". Tanto forte in campo, quando carismatico nell’aiutare i più giovani e guidare con il gemello Chiellini il reparto arretrato: "Quando guidava due ragazzi (Spinazzola e Di Lorenzo) che non si sono mai affacciati a palcoscenici così importanti a giocarsi una finale di un campionato Europeo o quando solo a guardarlo trasmetteva sicurezza e tranquillità. Giocare qualche partita tra i professionisti o al campetto dell'oratorio non è il lasciapassare per "sparare" la prima cosa che vi passa per la mente. Come è possibile criticare un calciatore che ha vinto: 9 Campionati italiani; 5 Supercoppe italiane; 4 Coppe Italia; 1 CAMPIONATO EUROPEO. Questo era il commento da tifoso e da ex "pallonaro", ora ritorno ad indossare i panni del fratello maggiore: grazie Leo per averci resi orgogliosi di essere parte di te". Ed ecco che pochi minuti più tardi è arrivata la risposta di Leo Bonucci, sulla stella lunghezza d'onda: "Shhhhh…non raccontarla, non ci crederanno ancora che sia vero…e tu lasciaglielo credere. La Storia è scritta. Dovranno avere solo la forza, il coraggio di leggerla. Sempre che siano così coraggiosi. Grazie Fratellone. Ti voglio bene. Come ai tempi, quando venivo allo stadio Enrico Rocchi e ti vedevo segnare e difendere da campione quale sei".

Scoppia l'ira del fratello di Bonucci: "Cosa dite...?" Antonio Prisco il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Lungo sfogo sui social di Riccardo Bonucci contro i detrattori del difensore della Juve e della Nazionale. Il fratello di Leonardo Bonucci, Riccardo, in un lungo post su Instagram, si è tolto qualche sassolino nei confronti dei detrattori del difensore della Juventus e della Nazionale. È stato protagonista di un Europeo letteralmente eccezionale e ha formato insieme al compagno bianconero Chiellini, la migliore coppia centrale del torneo. A quel punto Riccardo Bonucci ha deciso di togliersi qualche sassolino dalla scarpa per esaltare, come non ha mai fatto fino ad ora il fratello, rispondendo per le rime a tutti coloro che spesso e volentieri hanno criticato il centrale della Nazionale. Lo sfogo è rivolto ai "leoni da tastiera", quelli che troppe volte non hanno lesinato critiche, spesso esagerate e gratuite: "Ne ho lette tante in questi anni, forse troppe. Commenti di una superficialità disarmante scritti con una presunzione che tante volte mi ha lasciato interdetto. Avete sicuramente ragione quando dite che nella mia posizione dovrei fare finta di niente ma a volte è più forte di me: forse perché piace anche a me guardare le partite con gli occhi del tifoso, oppure perché mi diverto anch'io a criticare mio fratello ricordandomi di come interpretavo io il ruolo davanti a quelle 200 persone occasionali". Insomma: "Commenti tecnici degni del miglior Adani che però almeno sa di cosa parla". Ecco le accuse principali mosse a Leonardo: "Non adatto alla difesa a 4, scarso nell'1 contro 1, sempre sovrastato di testa, la sua fortuna Chiellini e Barzagli". Ora però è arrivato il momento di rispondere a tutti: "Adesso mi tolgo per un attimo i panni del fratello protettivo e indosso quelli del tifoso, o del giocatore di pallone che ancora ricordate per quell'esordio con goal con la maglia della Viterbese: Leonardo Bonucci è stato pazzesco in questo Europeo e ha spazzato via, uno a uno, ogni vostro illustrissimo pensiero. Chissà se avete esultato ieri sera quando Sterling è stato sbattuto letteralmente fuori dal campo quando ha puntato Bonucci in area di rigore. Quando Kane più di una volta ha rinunciato a saltare di testa visto che non la prendeva mai". Una guida carismatica anche per i calciatori meno esperti del reparto difensivo: "Quando guidava due ragazzi (Spinazzola e Di Lorenzo) che non si sono mai affacciati a palcoscenici così importanti a giocarsi una finale di un campionato Europeo o quando solo a guardarlo trasmetteva sicurezza e tranquillità. Giocare qualche partita tra i professionisti o al campetto dell'oratorio non è il lasciapassare per "sparare" la prima cosa che vi passa per la mente. Come è possibile criticare un calciatore che ha vinto: 9 Campionati italiani; 5 Supercoppe italiane; 4 Coppe Italia; 1 Campionato Europeo. Questo era il commento da tifoso e da ex "pallonaro", ora ritorno ad indossare i panni del fratello maggiore: grazie Leo per averci resi orgogliosi di essere parte di te". Ed ecco che pochi minuti più tardi è arrivata la risposta di Leonardo, sulla stella lunghezza d'onda: "Shhhhh…non raccontarla, non ci crederanno ancora che sia vero…e tu lasciaglielo credere. La Storia è scritta. Dovranno avere solo la forza, il coraggio di leggerla. Sempre che siano così coraggiosi. Grazie Fratellone. Ti voglio bene. Come ai tempi, quando venivo allo stadio Enrico Rocchi e ti vedevo segnare e difendere da campione quale sei".

Nazionale di calcio dell'Italia. richybonny82: ORA METTETEVI COMODI CHE VI RACCONTO UNA STORIA:

Il bello del calcio è che permette a tutti di improvvisarsi allenatori o esperti in materia.

Ne ho lette tante in questi anni, forse troppe. Commenti di una superficialità disarmante scritti con una presunzione che tante volte mi ha lasciato interdetto.

Avete sicuramente ragione quando dite che nella mia posizione dovrei fare finta di niente ma a volte è più forte di me: forse perché piace anche a me guardare le partite con gli occhi del tifoso, oppure perché mi diverto anch'io a criticare mio fratello ricordandomi di come interpretavo io il ruolo davanti a quelle 200 persone occasionali.

Commenti tecnici degni del miglior Adani che però almeno sa di cosa parla.

"Non adatto alla difesa a 4", "Scarso nell'1 contro 1", "Sempre sovrastato di testa", "La sua fortuna Chiellini e Barzagli".

Chissá quante ne dimentico ancora...

Adesso mi tolgo per un attimo i panni del fratello protettivo e indosso quelli del tifoso, o del giocatore di pallone che ancora ricordate per quell'esordio con goal con la maglia della Viterbese: Leonardo Bonucci è stato pazzesco in questo Europeo e ha spazzato via, uno a uno, ogni vostro illustrissimo pensiero.

Chissà se avete esultato ieri sera quando Sterling è stato sbattuto letteralmente fuori dal campo quando ha puntato Bonucci in area di rigore. Quando Kane più di una volta ha rinunciato a saltare di testa visto che non la prendeva mai. Quando guidava due ragazzi (Spinazzola e Di Lorenzo) che non si sono mai affacciati a palcoscenici così importanti a giocarsi una finale di un campionato Europeo o quando solo a guardarlo trasmetteva sicurezza e tranquillità.

Giocare qualche partita tra i professionisti o al campetto dell'oratorio non è il lasciapassare per "sparare" la prima cosa che vi passa per la mente.

Come è possibile criticare un calciatore che ha vinto:

- 9 Campionati italiani;

- 5 Supercoppe italiane;

- 4 Coppe Italia;

- 1 CAMPIONATO EUROPEO.

Questo era il commento da tifoso e da ex "pallonaro", ora ritorno ad indossare i panni del fratello maggiore: grazie Leo per averci resi orgogliosi di essere parte di te.

La Viterbo NOSTRA ti porta in trionfo e ti rende onore...

12 luglio 2021

Giorgio Chiellini. Giorgio Chiellini per "la Stampa" l'11 agosto 2021. Europei. Un mese dopo. Di quell'impresa mi porto appresso una serie di ricordi. Riaffiorano come flash. Si accavallano come onde. E sono talmente tanti (e tutti talmente belli) che l'ultimo prende il sopravvento sul precedente. Come sfogliare un album dei ricordi ed esclamare ad ogni foto: «ma ti ricordi questa?» «no, no, ma questa?» «no ma questa le supera tutte» «aspetta, questa è la migliore». I giorni in Sardegna, l'esordio a Roma, i sorrisi delle cene a Coverciano, l'abbraccio di Vialli e Mancini, l'inno cantato a squarciagola, la vittoria contro il Belgio, 'o tir a giro, Wembley, la finale in casa loro, i messaggi di Salva, la conquista «centimetro dopo centimetro», Donnarumma che para, l'esplosione di gioia, gli abbracci con Manu, la Coppa in cielo e poi nel letto con Bonnie, Mattarella, Draghi, la gente in strada, il rumore dell'amore, un MEME che mi accompagna ormai ovunque, ma soprattutto le facce di ogni mio compagno e di tutto il team azzurro: timorose, coraggiose, consapevoli, incredule, in estasi. Me le porto tutte dentro. Perché vincere un Europeo è qualcosa che va oltre l'ordinario e in ogni flash ringrazio queste persone straordinarie che mi hanno accompagnato in questo incredibile viaggio che non dimenticherò mai.

Stefano Agresti per il “Corriere della Sera” il 24 luglio 2021. Quando ha alzato la coppa al cielo, nella notte di Wembley, l'Italia è impazzita di gioia: il gladiatore Chiellini, capitano della brigata Mancini, era l'eroe di tutti. A distanza di quasi due settimane, non è cambiato nulla: Giorgio continua a essere ammirato ovunque e, nello stesso tempo, continua a essere disoccupato. Non ha firmato il nuovo contratto con la Juve, dal 30 giugno è a tutti gli effetti senza squadra. È in bianconero dal 2005 e ovviamente non gli era mai capitato nulla di simile. Alla soglia dei 37 anni - li compirà alla vigilia di Ferragosto - sta trascorrendo le sue vacanze sereno, ma non può fare a meno di chiedersi: perché? Il problema non è il contratto, ma il telefono. Chiellini, campione d'Europa a spasso, non è mai stato chiamato dalla Juve per cominciare a discutere il nuovo accordo, né è stato contattato il suo procuratore, Davide Lippi, uno che a Torino conoscono bene per mille motivi e con il quale hanno un buon rapporto. Nemmeno uno squillo, giusto per dire: quando torni a casa ne parliamo, vedrai che va tutto a posto. Solo qualche giorno fa, Lippi jr pubblicamente dichiarava: «Dopo quanto abbiamo visto all'Europeo, è folle anche solo pensare a Giorgio lontano dal campo. Ma in Italia per lui non ci sarà mai un'altra squadra oltre a quella bianconera». I messaggi sono chiari: Chiellini continuerà a giocare, se possibile nella Juve, in alternativa all'estero. Chiellini tornerà a Torino all'inizio della settimana, lunedì o al più tardi martedì. Da quel momento ci saranno altri cinque o sei giorni prima che debba cominciare la preparazione. Sarà allora, presumibilmente, che la Juve lo contatterà per discutere del suo futuro. Il difensore non avrà pretese esose, è difficile immaginare che possa nascere un problema per trovare l'accordo economico. La questione da dibattere con attenzione e nel dettaglio riguarderà le prospettive del capitano azzurro all'interno del mondo Juve. Quanto credono la società e Allegri alla possibilità che sia protagonista e leader anche nella prossima stagione? Il rapporto tra Chiellini e l'allenatore è eccellente, però Max è anche noto per avere chiuso la carriera di campioni celebrati, da Inzaghi al Milan a Marchisio alla Juve, sfidando l'impopolarità. Chiellini chiederà la possibilità di giocarsi il posto alla pari con i compagni e, guardando oltre, di rimanere alla Juve come calciatore anche per la stagione successiva, ovviamente se il campo dimostrerà che è ancora in condizione di competere ai livelli più alti. Dopo il trionfo di Wembley vuole provare a resistere fino ai Mondiali in Qatar, in programma tra sedici mesi. Quello che qualche settimana fa era un sogno, adesso è un obiettivo.

Michele Antonelli per gazzetta.it il 17 luglio 2021. Una vita in bianconero e ricordi quasi sfumati. Classe ’84, Giorgio Chiellini esordisce in campionato il 12 settembre 2004 con la maglia della Fiorentina, nel match perso dalla Viola contro la Roma all’Olimpico (1-0). La lunga avventura con la Juventus inizia l’anno successivo, dopo la risoluzione della comproprietà con i toscani. Difensore fisico (187 cm x 85 kg) e maestro in fase di marcatura e lettura del gioco avversario, è un’arma in più nelle palle inattive. Il 17 novembre 2004 la prima volta in Nazionale da subentrato, nell’amichevole contro la Finlandia. Le presenze in azzurro sono 112, con 8 gol. Quanto basta per mettere al braccio la fascia da capitano e sollevare al cielo la Coppa Henri Delaunay (questo il nome ufficiale del trofeo continentale, in onore del primo segretario generale dell'Uefa e promotore dell’edizione d’esordio della manifestazione). Gli idoli sportivi sono un paio di leggende, Paolo Maldini per il calcio e Kobe Bryant per il basket. Perché Chiellini è anche un grande appassionato di pallacanestro. Come raccontato in un’intervista del novembre 2014 ai canali ufficiali della Nazionale, da piccolo si appassionò al canestro grazie a un compagno di classe. Poi si iscrisse a una scuola calcio insieme a suo fratello, virando sul pallone. Calcolatrice alla mano e numeri nel sangue. Il difensore bianconero ha frequentato il Liceo Scientifico Federigo Enriques di Livorno, iscrivendosi in seguito all’Università di Torino. Ottenuta una prima laurea in Economia e Commercio (con una votazione di 109/110), nel 2017 si è specializzato con lode in Business Administration. "Lo studio mi ha aiutato in tutto, nella vita e anche nello sport" spiegò in un’intervista a FifPro. "Quando ero da solo o ero fidanzato mi allenavo la mattina, tornavo a casa, mi riposavo e poi studiavo un paio d'ore nel pomeriggio. Poi, eventualmente, sotto esame portavo i libri anche in ritiro. Mi servivano a staccare e a non pensare alle pressioni". Nato a Pisa, Chiellini è cresciuto con la sua famiglia a Livorno. Ha una sorella e due fratelli, tra cui il gemello Claudio (dirigente sportivo e suo procuratore). Sua moglie è Carolina Bonistalli, che ha sposato nel 2014 e con cui ha avuto due figlie, Nina e Olivia. Nel gennaio 2019 il capitano azzurro è stato ospite - con Leonardo Bonucci e Andrea Barzagli - di Maria De Filippi a "C’è posta per te". Il 2020 ha visto l’uscita di "Io, Giorgio", l’autobiografia in cui il difensore ha raccontato la propria storia (con ricavato devoluto alla Onlus "Insuperabili", che promuove il calcio tra i disabili, di cui è testimonial). Dopo il trionfo di Wembley, il difensore ha pubblicato su Twitter un simpatico video in stile "Superquark" in cui viene paragonato a un gorilla, animale che da anni caratterizza le sue iconiche esultanze con pugni sul petto. Dallo "schiaffetto" a Jordi Alba alla tirata di maglia a Saka (che ha scatenato non poche polemiche tra i tifosi inglesi), passando per gli abbracci ai compagni di squadra e i riti scaramantici, il capitano azzurro è diventato un giocatore cult dell’Europeo, guadagnando la simpatia anche di tanti non juventini. 

Daniele Mencarelli per ilfoglio.it il 13 luglio 2021. Con quella faccia un po’ così, quell’espressione un po’ così, Giorgio Chiellini non sfigurerebbe in un confronto all’americana. Non bello. Antipatico anche quando vuole fare il simpatico. Diciamolo. Esteticamente rivedibile. Il naso ingombrante, la testa povera di capelli, gli occhi piccoli, troppo piccoli. Chiellini sta alla bellezza italiana come il caffè solubile all’espresso. Anche sul piano del glamour, stendiamo un velo di silenzio. Anzi no. I suoi colleghi calciatori ostentano tatuaggi ovunque, acconciature dadaiste, stili di vita da rockstar sull’onda. Spendono e spandono, tutto a favore di macchina fotografica. Lui nulla di tutto questo. Visto per strada, senza sapere che Chiellini è Chiellini, lo potremmo prendere per un magazziniere a fine turno, un macellaio oppure un muratore. Al massimo un impiegato d’azienda che sogna un’altra vita. Anche calcisticamente non ha l’eleganza del grande difensore, la tecnica è ampiamente rivedibile, sul campo da calcio non spicca di certo per eleganza. Diciamocelo, in franchezza, e che il Chiello non se n’abbia a male, parliamo di un marcatore di quelli di una volta. Un canaccio che s’attacca al suo avversario e gli ruba anche l’aria che respira. Un canaccio. Chiellini è tutto quello che separa la narrazione del calcio dal calcio in carne e ossa, spesso rotte. È rude, battagliero, sa usare ogni strumento che madre natura gli ha concesso a suo favore. È rabbia fatta takle, è l’anticipo che supera la soglia dell’ossessione. Quando entra in campo vuole solo una cosa, una soltanto, che l’attaccante che gli è toccato in sorte esca dal campo a fine partita senza aver capito come e perché gli fa male ogni parte del corpo senza aver mai toccato un pallone. Chiellini è il Giacomo Leopardi dei marcatori. Ma il nulla infinito è quello che tocca alle punte avversarie. Mentre lui, con il suo sorriso banditesco, la faccia da pugile suonato e risuonato, sorride e ti abbraccia, con le mani ancora sporche di vasellina. Perché dove non ci arriva con il gioco, la tecnica, ci arriva con l’astuzia, perché il calcio è e sarà per sempre ben più di uno sport e per vincere la mente conta come i piedi. Chiellini è italiano come Garibaldi. Più di Garibaldi. È la prova vivente che se ci mettiamo in testa una cosa ti puoi chiamare anche Lukaku o Kane ma da questo rettangolo verde uscirai con zero, zero, da raccontare ai tuoi nipoti. A parte gli incubi. Marcare come Giorgio Chiellini è un’arte in via d’estinzione. Oggi si marca a zona, il difensore più che difendere deve saper costruire, perché il gioco si costruisce dal basso. Tutto vero. Bellissimo. Poi c’è la realtà e senza Giorgio Chiellini non staremmo qui a scrivere pezzi su pezzi, a festeggiare da italiani che si fregiano di esserlo solo quando si vince qualcosa. Perché il tiro a giro di Insigne, le sassate precise di Chiesa, senza guardiani della porta servono a poco. Senza sentinelle pronte a sputare anche l’anima. E Chiellini è proprio questo, una sentinella pronta a morire per la porta che protegge. Niente bellezza da ostentare, niente taglio o colore di capelli diversi a ogni partita. Giorgio Chiellini fa quello che fanno meglio gli italiani quando amano veramente qualcosa. Proteggono. Con la bava alla bocca.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 luglio 2021. Bukayo Saka è stato cinicamente trascinato a terra da Giorgio Chiellini durante la finale tra Italia e Inghilterra a Euro 2020, e il tiro sulla maglia di Saka ha scatenato una reazione esilarante sui social media con una raffica di meme. L'adolescente ha scavalcato il difensore veterano e sembrava lanciato nell’azione per l'Inghilterra nei momenti finali della partita. Ma è stato fermato dal difensore che lo ha trascinato con forza indietro e giù a terra per la collottola della camicia. Il 36enne italiano ha offerto la sua mano a Saka, che inizialmente era indifferente, ma alla fine ha abbracciato il suo avversario. La maggior parte dei meme mostra Chiellini che salva l'ala inglese da varie situazioni, in uno di questi vola in aria come Superman e impedisce a Saka di cadere a terra. Un utente ha postato la didascalia «Le vite salvate da Chiellini», con immagini dell'italiano nei panni di Superman che impedisce a Saka di cadere da una scogliera o di finire nella lava. Altri hanno adottato un approccio diverso: Saka con la camicia impigliata nella maniglia di una porta, oppure ritratto come avrebbe fatto Vincent van Gogh. Per alcuni Chiellini ha impedito al calcio (Saka) di «tornare a casa» oppure a Saka di afferrare la Coppa del Campionato europeo.

Euro 2020, Chiellini strattona in modo brutale Saka? Ciò che vi era sfuggito: clamoroso, cosa gli ha urlato. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Siamo al 95esimo minuto della finalissima di Wembley, Italia-Inghilterra, ultimo atto di Euro 2020. Siamo al quinto dei sei minuti di recupero, il risultato è sull'1-1. Ed ecco che Saka si invola sulla fascia. Ma ci pensa Giorgio Chiellini, che non ci va tanto per il sottile. Anzi: afferra la maglia dell'avversario, lo strattona in modo vistoso e lo ferma. Anzi, lo stende. Senza violenza, sia chiaro. Semplicemente un gesto doveroso, a quel punto della partita: di pericoli non se ne possono correre. Cartellino giallo, ovvio, per il capitano della Nazionale. E il resto è storia. I due tempi supplementari e il supplizio dei rigori, che diventa il godimento totale: Gigio Donnarumma para e si scatena il delirio, Italia campione d'Europa. E tra le tante immagini, tra le tante cartoline di questa notte magica, un posto di diritto lo guadagna proprio la strattonata di Chiellini a Saka. È subito meme, è subito virale. E quel gesto del capitano non è sfuggito neppure a Osho, il vignettista, che lo rilancia sui social condito dal solito irresistibile commento: "Aspè che te levo l'etichetta", si legge nella reinterpretazione di Osho. Niente da dire, azzeccatissimo...

Da liberoquotidiano.it il 13 luglio 2021. E mentre tutta Italia e l'intera Inghilterra rimaneva con il fiato sospeso in attesa di sapere le sorti degli Europei di Wembley, ecco che Giorgio Chiellini sfoderava la sua arma migliore. Nel momento in cui il giocatore inglese Bukayo Saka stava per calciare il pallone poi parato da Donnarumma, il capitano della Nazionale gridava "Kiricocho". Di cosa si tratta? Una vera e propria maledizione, una sorta di leggenda metropolitana calcistica che ha preso piede 40 anni fa. Tutto iniziò in Argentina nel 1982. Kiricocho era un tifoso argentino (considerato menagramo) dell’Estudiantes, squadra all’epoca allenata dallo scaramantico Carlos Bilardo. Secondo Bilardo e il suo staff, ogni volta che Kiricocho si presentava all’allenamento della sua squadra del cuore, puntualmente arrivava un infortunio. E così l'allenatore decise di trasformare quella sua sfortuna in una sfortuna altrui. La leggenda vuole che Bilardo pagò Kiricocho per mandarlo a seguire tutte le squadre rivali. E così in quel 1982 l’Estudiantes vinse il campionato perdendo una sola partita in tutta la stagione, contro il Boca Juniors, l’unico club non "visionato" da Kiricocho. Ed ecco che il suo nome divenne per molti un modo per portare sfortuna. Il dubbio però su chi abbia trasmesso a Chiellini la superstizione sudamericana resta. Molti sospetti ricadono su Paulo Dybala che usò il termine maledetto nel 2019 o su Arturo Vidal che nella Juventus ha giocato dal 2011 al 2015.

Euro 2020, Giorgio Chiellini: "Dedichiamo la vittoria agli Europei a Davide Astori". Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Giorgio Chiellini: "Vogliamo dedicare la vittoria a tutti i tifosi dell'Italia nel mondo, ma anche a Davide Astori, che avremmo voluto oggi qui con noi e che è sempre presente nei nostri pensieri, nel cuore di chi lo ha conosciuto e anche nei giovani che ne hanno sentito parlare". E ancora, rivolgendosi a Sergio Mattarella: "Questo gruppo non si è mai perso d’animo, anteponendo sempre all’interesse del singolo il bene del collettivo. Solo attraverso il gioco di squadra si possono ottenere risultati così prestigiosi e se oggi siamo qui non è per aver segnato un rigore in più ma perché lo abbiamo trasformando condividendo un valore come l’amicizia".

Euro 2020, il fratello di Astori: “Davide ha corso al fianco della Nazionale agli Europei”. Riccardo Castrichini il 13/07/2021 su Notizie.it. Il fratello di Davide Astori, Bruno, ringrazia la Nazionale italiana di calcio per il pensiero rivolto alla sua famiglia. La Nazionale di calcio ha vinto Euro 2020 al termine di una traversata bella quanto inaspettata. A guidare il team Roberto Mancini è il capitano Giorgio Chiellini che nel discorso tenuto nella cerimonia istituzionale al Quirinale ha voluto ricordare Davide Astori, calciatore della Fiorentina e della Nazionale scomparso il 4 marzo del 2018. “Vorremmo dedicare questa vittoria a Davide Astori – ha detto il capitano azzurro – che ho conosciuto e che avremmo voluto qui con noi oggi”. Pronta è arrivata la risposta della famiglia del ragazzo, attraverso le parole sui social del fratello, Bruno Astori. “Penso che Davide – ha scritto Bruno Astori su Instagram a commento della vittoria ad Euro 2020 degli azzurri – abbia corso al fianco di Giorgio e dei ragazzi durante ogni passo di questo Europeo. La loro dedica va oltre ogni circostanza e le lacrime di Giorgio sono quelle di un gruppo di ragazzi che hanno condiviso gioie, dolori, difficoltà, emozioni”. “Hanno passato anni insieme nelle camere dei ritiri in maglia azzurra – ha aggiunto – fin dai tempi delle giovanili: quei ritiri inseguiti con tutte le loro energie, tra convocazioni mancate e qualificazioni sfumate, ma senza mai darsi per vinti!”. Oltre al ricordo del fratello e al sentito ringraziamento nei confronti del pensiero di vicinanza espresso dalla Nazionale, Bruno Astori si è anche complimentato con gli azzurri per essere riusciti a riportare la coppa di Euro 2020 in Italia. “Spesso si pensa a questi ragazzi come a degli eroi ultraterreni – ha scritto il fratello di Astori – perché dal fuori li vediamo così perfetti e inavvicinabili. Ma quello che li rende davvero degli eroi è la loro passione, la dedizione e l’amore per quello che fanno, nell’interesse di quel gruppo che spesso si sostituisce alla loro famiglia”. “In realtà – ha proseguito – loro sono ragazzi, padri, compagni, figli e fratelli come tutti noi. Solo che a volte hanno il dono di poterci fare sognare e di lasciare dei ricordi che resteranno per sempre! Questi ragazzi lo hanno fatto – ha precisato – ci hanno fatto sognare, soffrire, emozionare e piangere. La loro enorme impresa resterà per sempre indelebile nei cuori di tutti noi!!!”. Il messaggio di solidarietà personale mescolato all’orgoglio di un tifoso della Nazionale italiana di Bruno Astrori si conclude con un semplice, ma quanto mai indicativo grazie. “A nome di tutta la nostra famiglia – scrive il fratello di Astori – grazie ragazzi, con tutto il cuore!”.

Euro 2020: non avevo capito di aver vinto. Donnarumma spiega la mancata esultanza per il rigore decisivo parato. La spiegazione del portierone. Firenze post.it il 13/7/2021. «Non ho esultato subito perchè non avevo capito… Ero già a giù per il rigore di Jorginho perchè pensavo avessimo perso, ho guardato l’arbitro per capire se era tutto ok, poi quando ho visto i compagni venire verso di me non ho capito più niente…». Gianluigi Donnarumma spiega così la mancata gioia immediata per aver parato il rigore che ha deciso la finale di Euro2020 tra Italia ed Inghilterra. «Devo ancora realizzare tutto, la mia forza è sempre stata questa – ha aggiunto il portiere della Nazionale a Skysport24 – E i complimenti di Mattarella e Draghi mi hanno imbarazzato».

Euro 2020, Gigio Donnarumma smentisce il cognato sul rigore: un grosso caso in famiglia, cosa proprio non torna. Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Più realisti del re. Quando si parla di Gigio Donnarumma, l'Italia si divide in tre: ci sono i milanisti, che si sentono traditi e non riescono a esultare per le paratone del 22enne "ingrato". C'è il resto dei tifosi, in visibilio per la prima vera dimostrazione di forza dell'erede designato di Gigi Buffon (un titolo affibbiatogli ormai da 6 anni). E poi c'è la famiglia di Donnarumma, anzi il "clan", che insieme all'agente del portiere Mino Raiola pare abbia giocato un ruolo determinante prima nel rinnovo a peso d'oro con i rossoneri nel 2017, 6 milioni di euro quando aveva appena 18 anni, e poi nel divorzio chiacchieratissimo di questa estate, prima di Euro 2020, e nell'approdo al Psg a 12 milioni di euro. Mezza Italia, dopo aver trattenuto per qualche secondo l'esultanza, si è domandata perché Donnarumma non abbia esultato una volta respinto il rigore decisivo del giovane Saka. Anche i suoi compagni fermi al centro del campo, scattati come una molla, hanno dimostrato qualche momento di incertezza guardando chi a bordo campo chi in direzione dell'arbitro, aspettando il segno della fine della partita. Per 5 secondi abbondanti, Gigio ha semplicemente camminato, con passo lento, senza nemmeno un cenno di esultanza per la parata appena effettuata. Massima concentrazione, ha pensato poi qualcuno. Altri avevano intravisto, sbagliando clamorosamente, anche un atteggiamento polemico nei confronti degli avversari e dei tifosi di Wembley. Secondo Carmine Paoletti, cognato di Gigio avendone sposato la sorella, la reazione di Donnarumma era invece studiata: "Non ha esultato perché lui rende facile l'impossibile". Come dire: è troppo forte, queste sono bazzecole. A smentirlo è stato però lo stesso Donnarumma, che a bocce ferme ai microfoni di Sky Sport ha rivelato: "Sul rigore non ho esultato perché non avevo capito. Ero già a terra al rigore di Jorginho. Pensavo fosse finita". Insomma, per un attimo avevano tutti, ma proprio tutti perso il conto e la testa. Cognato di Donnarumma compreso.

Estratto di un articolo di Emanuele Gamba per "la Repubblica" il 12 luglio 2021. «Io come Buffon? Gigione è il più forte di tutti, io cerco di dare il massimo». Gianluigi Donnarumma mostra umiltà ma la Coppa è anche, se non soprattutto sua. L'uomo grande come un mulino e che mulina le braccia come gigantesche pale ha ormai un suo repertorio di classici. Sono sempre gli stessi ma non vengono mai a noia, sono implacabili repliche ma sembra sempre la prima volta: c'è uno che va sul dischetto con la faccia di chi va al patibolo, ci riflette un po' e poi decide di tirare da quella parte là, perché prima o poi vorrà o no buttarsi dall'altra parte, quel gigante vestito di giallo? E invece no, Gigionissimo Donnarumma vola alla sua sinistra e prende il rigore. Ne prende uno a Sancho e vuoi che non ne prenda uno pure a Saka, come lo prenderebbe a tutti quelli che osassero provare a fregarlo dalla "sua" parte. Donnarummissimo, se si va ai rigori vince lui: cinque su cinque, tre volte con il Milan e due con l'Italia. Adesso è in corsa con Messi per il Pallone d'oro, e intanto si è preso il premio di miglior giocatore del torneo. A Parigi troverà altre coppe da alzare. Le Moulin Jaune. «Il gol preso a freddo poteva ammazzarci ma noi non molliamo mai, nemmeno un centimetro. Sapete tutti da dove siamo partiti. Ora siamo arrivati qui. Non è stato facile, ma siamo stati grandiosi». Alla fine è andata come con la Spagna, stessa porta stesso eroe, anche se stavolta al sorteggio Chiellini non se la sente di scherzare con Kane. Comincia Berardi, spiazza Pickford ed è un sollievo, visto che un paio d'anni fa non azzeccava un rigore. Poi Kane, freddo e implacabile, castiga Donnarumma. Belotti prende una lunghissima rincorsa ma stavolta non stanga con sbrigativa rabbia come mercoledì, stavolta ha la faccia con l'ansia tra i lineamenti e si fa intuire il tiro da Pickford. Maguire, l'idolo di Wembley (cantano di continuo una canzoncina dicendo che lo adorano perché beve tanta vodka e ha la testa grossissima), calcia benissimo così come Bonucci, perché questi sono difensori di classe. Rashford fa una corsetta di passetti, si ferma, tira un tiro furbetto, spiazza Donnarumma ma prende la base del palo. Sembrava Zaza in Francia.

Gianluigi Donnarumma. Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport” il 19 agosto 2021. Dicevano che non fosse forte nelle uscite. Ne ha compiuta una che potrebbe passare alla storia: a ventidue anni - senza contratto, né certezze d’altro tipo, se non la consapevolezza del proprio talento e le relazioni mercantili di Mino Raiola - ha lasciato il club che l’ha lanciato e nel quale si è affermato, il Milan, per inseguire un (bi)sogno personale che prevedeva momenti di notevole impopolarità. Un patto con se stesso, ma anche un originale salto nel buio, vista l’età dell’acrobata. La forza dei milioni - si è scritto - la tipica avidità del calciatore. Di un “giovane vecchio” il cui motto potrebbe essere riassunto da un aforisma di Bierce: “speranza: fusione tra avidità e aspettativa”. Per la seconda volta nel giro di pochi anni il suo cognome è stato così storpiato in “Dollarumma”. E ci sono voluti uno strepitoso Europeo e il titolo di miglior giocatore del torneo per attenuare le irritazioni tifose e ridurre la quota delle offese.  Gigio Donnarumma ora è a Parigi, «dove oggi piove», mi dice. È a Parigi insieme a tanti pezzi di serie A - Hakimi, Marquinhos, Verratti, Paredes, Icardi - e ai gioielli più preziosi del calcio mondiale: Sergio Ramos, Wijnaldum, Di Maria, Neymar, Mbappé. E Messi. «È incredibile, un autentico colpo di teatro: quando si è saputo del suo addio al Barcellona non potevo immaginare che me lo sarei ritrovato qui, questa è una squadra di fenomeni. Messi si allena già con noi, scarso eh? Sinistro discreto, dovrebbe migliorare col destro». Capelli più corti del solito, fisico asciutto, maglietta bianca, Donnarumma è in totale leggerezza. Gli ricordo che la serie dei rigori è finita da un pezzo. Lui si apre a un sorrisone.

«Cinquanta giorni fantastici dall’inizio del ritiro alla finale di Wembley. I ragazzi, quei momenti mi mancano. Ogni tanto vado su youtube, rivivo alcune tappe del nostro percorso e mi emoziono. Con i compagni di Nazionale ci sentiamo spesso o ci scriviamo, abbiamo una chat azzurra».  

Quando e quale, lo scatto decisivo?  

«Quella vittoria è il frutto del lavoro del Mancio, un allenatore incredibile, e di un gruppo che provava piacere a stare insieme. Nessuna pesantezza, zero noia, facevamo le cose di sempre ma con un gusto diverso. Respiravamo unità, e ogni partita, anche se da casa potevate non notarlo, la vivevamo come se fosse l’ultima. E poi Ciro, Lorenzo, io, noi terroni siamo matti e sappiamo come fare gruppo. Sul pullman partivamo con “Ma quale dieta, me piacen ‘e purpett” e ci trascinavamo dietro anche i più timidi. Jorge (Jorginho, nda) mi chiedeva continuamente di ricordargli il ritornello, soltanto quello, ed era tra i più attivi».  

Quella la favola. Prima, però, avevi subìto gli effetti di un addio doloroso.  

«Un ricordo spiacevole quando sono uscito la prima volta dall’Olimpico. Quella contestazione, ho cercato di non pensarci troppo».   

Cosa ti ha spinto a chiudere col Milan?  

«Non vorrei parlare dell’ultima stagione, non avrebbe senso oggi, cambiamo discorso. Al Milan sono stato otto anni, era casa mia, lì ho vissuto momenti bellissimi. Il Milan ancora oggi mi emoziona, ho grande rispetto per le persone che vi lavorano e per i tifosi. Quando ho saputo che il direttore (Gazidis, nda) stava male gli ho scritto augurandogli di tornare in fretta a Milanello, il suo luogo… Ma la vita è fatta di scelte, avevamo ambizioni diverse. Del Milan resterò per sempre tifoso».  

Non fare il Lukaku.  

«Otto anni non si dimenticano, ma avevo bisogno di cambiare per crescere, per migliorare e diventare il più forte. Avvertivo la necessità di nuovi spazi, di nuove realtà».   

Già nel 2017, durante gli Europei Under 21, ti ribattezzarono “Dollarumma”: se hai sfidato nuovamente l’impopolarità significa che la motivazione era forte.  

«Ci sono decisioni che hanno un tempo di maturazione più lungo. Le scelte professionali le ho sempre prese da solo, la mia famiglia - tutti sportivi praticanti - mi ha sempre lasciato campo libero e mi ha sostenuto. La stessa cosa ha fatto Mino. Lui rispetta la volontà dei suoi assistiti al cento per cento, poi naturalmente fa di tutto per soddisfarne le richieste. Me ne sono andato dal Milan e non avevo contatti con altre squadre, lo giuro, ma ero sicuro che con un buon Europeo qualcuno si sarebbe fatto vivo. 

Un lungo inseguimento.  

«Quando ho firmato il presidente mi ha detto “Finalmente siamo insieme”. Ora sto benissimo, sono molto rilassato, l’anno scorso la squadra non ha vinto la Ligue1, ma il vero obiettivo è un altro, la Champions».   

Quattro anni fa, per restare a Milano, rifiutasti tanto il Psg quanto la Juve e le cifre non erano differenti.  

«Parigi mi ha sempre cercato, ma in quel momento la priorità era il Milan. Oggi anche grazie al Milan mi sento più sicuro, maturo, e sono migliorato tecnicamente. Gigi Ragno e Nelson (Dida, nda) hanno insistito parecchio sul lavoro con i piedi e su particolari che tengo per me». 

Ambizioni, crescita: ma hai solo ventidue anni.  

«Ho il vissuto di uno di trenta». Adesso la risata è grassa.   

Mi tornano in mente le parole di Ravanelli, il suo recente ricordo di quando provasti per la Juve: «Già allora era mostruoso». L’anno il 2011, ne avevi soltanto dodici.  

«A Vinovo, è vero. Ma non me la sentii di lasciare casa, i miei genitori. Era troppo presto».  

Rischiamo di doverti sopportare per altri vent’anni, se tra i tuoi obiettivi c’è anche quello di fare come Buffon.  

«Gigi è una forza della natura. L’ho sentito tante volte nei giorni scorsi, ci siamo scritti. Non molla di un centimetro, l’ho visto col Sassuolo, in porta sta ancora benissimo, ha fatto due grandi parate. Fisicamente è una meraviglia».   

Il narcisismo può fare miracoli.  

Sorride. «Gigi è un modello inimitabile».  

La sfida con Navas, che ha rinnovato per altri tre anni, è reale o una barzelletta?  

«È uno stimolo in più, e mi affascina».  

La serie A ha perso in poche settimane te, Lukaku, Hakimi e potrebbe salutare anche Ronaldo, se il Psg non si ritenesse ancora appagato. Dobbiamo cominciare a preoccuparci?  

«La serie A è ancora uno dei primi tre tornei europei ed è super competitiva. Ricordo a tutti che il calcio italiano è campione d’Europa con Bonucci, Chiellini, Insigne, Di Lorenzo, Locatelli, Pessina, Ciro, Barella e insomma gente che sarà protagonista anche quest’anno. Mancini ha dimostrato che facendo star bene mentalmente e fisicamente i giocatori si possono ottenere spettacolo e risultati».  

Gigi, ma si può essere ancora giocatori-bandiera in questo calcio?  

«Certo. Ma club e giocatore devono condividere gli stessi programmi, avere ambizioni e prospettive simili».   

Condò ha scritto che se fossi stato alla Juve, non ti avrebbero lasciato andare.  

«Ho preso altre strade» 

Gianluigi Donnarumma, bufera in arrivo? Ecco quanto guadagnerà al Psg, clamoroso colpo di scena. Libero Quotidiano il 24 luglio 2021. L'Equipe rivela che Gianluigi Donnarumma, fresco di passaggio al Psg, guadagnerà 7 milioni di euro netti come parte fissa, meno degli 8 che gli aveva proposto il club rossonero per rinnovare. Grazie ai bonus personali e di squadra l'ingaggio di Gigio potrà facilmente lievitare, ma senza arrivare a toccare quei 12 milioni di cui si era parlato nelle scorse settimane. Donnarumma guadagnerà meno di Keylor Navas, che è stato il portiere titolare dei parigini nelle ultime stagioni e che solo pochi mesi fa ha rinnovato "fino al 2024 per 12 milioni lordi (circa 8,2 netti grazie al regime fiscale agevolato di cui beneficia come neo residente in Francia, cosa che ancora non può fare l'italiano)", ricorda Sportmediaset. Ovvio che se la squadra dovesse imporsi in Ligue 1 e andare fino in fondo in Champions League, anche il conto in banca di Gigio ne trarrebbe beneficio. L'Equipe spiega che in casa Paris Saint Germain è previsto anche un bonus di tipo "etico" più semplice da attivare, legato a una serie di norme comportamentali che il club impone ai propri tesserati e che riguardano il rapporto con media e tifosi e gli atteggiamenti fuori dal campo. In caso di stagione trionfante, tra competizioni nazionali e internazionali, Donnarumma quindi potrebbe facilmente guadagnare intorno ai 10 milioni. Soprattutto se si imponesse come titolare tra i pali.

Da corrieredellosport.it il 18 luglio 2021. Silvio Berlusconi e Gianluigi Donnarumma, due grandi ex milanisti insieme infiammano i social. L'ex presidente rossonero, oggi proprietario del Monza, si incontra con l'ex portiere trasferitosi pochi giorni fa al Psg a parametro zero. Per celebrare l'incontro, il neo campione d'Europa con la Nazionale italiana ha postato su Instagram una foto dell'evento: "É sempre un privilegio incontrare il Presidente Berlusconi".

Da calciomercato.com il 18 luglio 2021. Un retroscena, l'ennesimo sull'esordio di Donnarumma. A raccontarlo è stato Sinisa Mihajlovic, ovvero chi Gigio ha deciso di farlo esordire in Serie A. "Durante la settimana precedente, Berlusconi è venuto due volte a Milanello per convincermi a mettere Diego Lopez - racconta a Il Corriere della Sera -. Io gli ho detto che aveva due possibilità: mandarmi via e mettere Diego Lopez o tenermi e vedere in porta Donnarumma. Lui mi ha tenuto. Per fortuna. Sua". 

Gigio, il fratellone d'Italia riscrive la legge del gol. Riccardo Signori il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Donnarumma ribalta l'essenza del calcio: una parata e non un tiro regalano il trionfo europeo. È tornato il tempo del portiere di notte. Una volta andava associato ad una Charlotte Rampling niente male. Oggi ce lo rappresentiamo con un gigantone, dove tutto è one, anche in senso inglese: Gigione, le manone, il vocione, il temperamentone che lo lascia tranquillo, al limite dell'indifferenza, anche davanti alla parata che fa storia e, infine, certo, il pallone: l'inesauribile oggetto del suo desiderio. Gigio Donnarumma in una sera ha tramortito tutti i luoghi comuni del calcio: serve più il portiere che para o il goleador in rete? Il goleador, ma non stavolta. Conta più la palla in gol o quella parata? E lui ha risposto a modo suo. Un Europeo vinto sminando rigori, l'ultimo tocco è una parata. Ovvero l'antitesi di tutto quanto si è sempre raccontato sul calcio. Ma lo sport esprime il meglio quando smentisce i luoghi comuni. E la tradizione italiana, Zoff e Buffon che hanno vinto un mondiale, o anche Toldo migliore dell'europeo 2000, ci dice che i numero uno sanno tenere il palco del protagonismo e la porta ben chiusa. Donnarumma ha rappresentato e recitato la grande rivincita dei portieri, soli più che mai sulla linea bianca. Un po' come gli uomini nel ring: solo due mani per difendersi o per uscirne vincitori. La sua storia è ancora più intima e ripercorre le vicende personali di quest'ultimo anno: marchiato come mercenario perché ha deciso che il futuro sarebbe stato a Parigi e non più a Milano, ha scelto un club ambizioso e che, forse, nell'immediato potrebbe farlo tornare a vincere in Europa. Chissà! Se questo successo nazionale fosse arrivato prima, anche Donnarumma si sarebbe evitato il fastidioso marchio del Dollarumma. Magari avrebbe avuto meno fame di successo. Se, invece, la fame è solo quella del milione in più, nulla mai potrà soddisfarlo. Ciascuno ha diritto di migliorare il suo status, di cambiare azienda se non si trova a suo agio: una squadra ormai è un'azienda, più che un affare di cuore. Probabilmente lo show di 7 partite cambierà anche l'umore tifoso, che accuserà il Milan di incompetenza o incapacità nel tenersi stretto il portiere dal grande futuro davanti agli occhi e non dietro le spalle, come capita a tanti. Tutti dimentichi che il calcio è cambiato, le favole non si raccontano più, i soldi non corrono così facili e gli sceicchi non hanno avversari nel trattare a suon di milioni. Poi, certo, c'è la maglia azzurra e qui il nostro ha lottato con il cuore, con la freddezza del portiere di classe, con la determinazione. Cuore e batticuore per gli altri. Per Gigio la voglia di dire: ecco qui, io difendo l'Italia. Alla faccia dei fischi indecenti che gli sono arrivati solo perché ha deciso di andare in Francia. Con la maglia della nazionale non c'è fazione, non c'è distinguo di club. Non a caso il presidente della Repubblica, ieri, gli ha dedicato un ringraziamento particolare. Lo aveva detto in diretta: «Siamo nelle manone di Donnarumma». Profetico. E Gigio si è meritato il titolo di miglior giocatore del torneo. Premio in mano, gli occhi si sono fatti lucenti, non lucidi. «Mi rende molto orgoglioso» ha tuonato il vocione tenuto a lungo nascosto. L'albo d'oro espone la buona compagnia: toccò a Sammer e Zidane, Xavi, Iniesta e Griezmann, oltre al greco Zagorakis. Invece nelle parate che si sono susseguite, in un crescendo a ricordare il Vincerò dell'indimenticato tifoso Pavarotti, c'era tutto il senso di una rivincita: dopo le prime tre partite da spettatore, Donnarumma ha cominciato a dire «Ci penso io» nel supplementare contro l'Austria, poi davanti ai colpi di Lukaku e De Bruyne. Infine lo show del portiere di notte nel tempio: Wembley guarda e lui annichilisce Morata con la Spagna, distrugge l'Inghilterra intera deviando i palloni tremolanti di Jadon Sancho e Bukayo Sacha. Magia e bravura: di tutto un po'. Poi i numeri: 5 volte si è giocato le partite ai rigori e 5 volte Gigio ha vinto. Ragazzo fortunato se, poi, a qualche toppata in campo ha rimediato soddisfacendosi nella vita. Raccontò: «Dopo Sassuolo-Milan, una partita che non andò bene, sono uscito con una ragazza: c'è scappato il bacio». Bello come un rigore parato. Oggi lei, Alessia, è la fidanzata. E la storia di successo continua: a 16 anni e 8 mesi esordio in serie A, a 22 anni e 5 mesi campione d'Europa. Comunque vada a Parigi, Gigione resterà un fratellone d'Italia. Riccardo Signori

Immobile al veleno: "Io vinco ancora e voi...". Parte l'insulto. Marco Gentile il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Ciro Immobile si è tolto qualche sassolino dalla scarpa e ha esultato polemicamente sui social: "Siamo Campioni d'Europa e Scarpa d'Oro, si attaccano al c...o tutti". Ciro Immobile si è laureato campione d'Europa con l'Italia e sinceramente l'ha fatto da protagonista nonostante non abbia brillato, soprattutto in finale dove non si è praticamente mai visto. L'attaccante della Lazio ha chiuso con due reti la sua rassegna europea e sui social network si è voluto togliere qualche sassolino dalla scarpa: "Vita mia i sogni si avverano contro tutto e tutti", rispondendo ad un commento della moglie Jessica Melena. "Siamo Campioni d'Europa e Scarpa d'Oro, si attaccano al c...o tutti", un'altra frase riportata da Sportmediaset in merito ad una delle tante stories pubbliacate dal centravanti campano. E ancora: "Continuate a parlare, nel frattempo continuo a vincere. Magnatev' u limone!". Immobile, dopo la polemica, ha poi trovato il modo di esultare felice con la coppa in mano e con un post carico di sentimenti, profondo: "Dalle strade di una piccola cittadina in provincia di Napoli al tetto d’Europa. Quando devi sognare fallo in grande, a volte si avvera tutto quello che desideri con tutto te stesso". L'attaccante della Lazio ora si potrà godere il meritato riposo in vista della nuova stagione con la Lazio che vorrà fare una stagione di livello nonostante l'addio di Simone Inzaghi e l'approdo di Maurizio Sarri. Il 31enne ex Genoa, Juventus e Borussia Dortmund, inoltre, vuole continuare a restare nel giro della nazionale anche perché presumibilmente Qatar 2022 sarà una delle ultime chance per vederlo in azzurro anche se non sembra un'utopia poterlo vedere anche ad Euro 2024 ma in questo momento ci si sta spingendo già troppo in là dato che dietro c'è il nuovo che avanza.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo. Collaboro con ilgiornale.it dall'aprile del 2016.

Federico Bernardeschi. Bernardeschi festeggia ancora: ha sposato Veronica. Antonio Prisco il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. La coppia si è sposata al Duomo di Carrara con un piccolo imprevisto: l'esterno della Juve è arrivato in chiesa con quaranta minuti di ritardo. Dopo appena 48 ore dalla vittoria agli Europei di calcio, Federico Bernardeschi e Veronica Ciardi si sono sposati nel Duomo di Carrara. L'esterno della Juventus è convolato a nozze con la compagna, ex concorrente del Grande Fratello e con all'attivo altre apparizioni nei programmi televisivi, che proprio oggi ha compiuto 36 anni. Continua dunque il periodo d'oro per il calciatore bianconero. Le nozze erano fissate da mesi ma il caso ha voluto che arrivassero soltanto due giorni dopo il trionfo azzurro, a cui Bernardeschi ha dato il suo contributo fondamentale con i due rigori siglati contro Spagna e Inghilterra. La coppia si è sposata al Duomo di Carrara, ma a dispetto della corposa folla in attesa, compresi fotografi e giornalisti, un piccolo imprevisto c'è stato. Il calciatore, che secondo cerimoniale sarebbe dovuto arrivare prima della sposa per attenderla all'interno della chiesa, è arrivato in ritardo. Non a caso, come documentato in diretta Tv dal programma di Rai1 Estate in Diretta, l'auto con Veronica Ciardi era arrivata davanti alla chiesa prima del fuoristrada con cui Bernardeschi è giunto all'esterno del duomo di Carrara. La macchina con la sposa è stata quindi costretta a fare un nuovo giro attorno alla chiesa in attesa di quella con il calciatore. La cerimonia, (guarda la gallery) che era inizialmente prevista per le 17, è stata giocoforza posticipata alle 17,40. Il ritardo non pare aver urtato Veronica la quale, con entusiasmo, ha commentato questa giornata prima di fare il suo ingresso in chiesa: "Sono felicissima e emozionatissima", ha detto ai giornalisti. Poi, con il suo abito bianco, ha voltato le spalle in attesa dell'arrivo della sua dolce metà. Bernardeschi si è presentato in chiesa con quaranta minuti di ritardo, in abito grigio chiaro e gli ormai consueti capelli corti e platinati. Per la coppia il matrimonio non è stata la sola celebrazione della giornata, visto che durante la cerimonia è stata anche battezzata la seconda figlia di Bernardeschi e Ciardi, la piccola Lena, nata lo scorso maggio. Si tratta della seconda figlia nata dal loro amore, arrivata dopo la primogenita Deva di due anni. Conclusa la cerimonia religiosa, Bernardeschi ha voluto ringraziare la folla presente intonando alcuni cori che hanno accompagnato l'avventura azzurra a Euro 2020, ricreando la splendida atmosfera di festa, vista ieri per le strade di Roma. La coppia, insieme alle due bimbe e a parenti ed amici, ha poi festeggiato nello stabilimento balneare Il Principe della Fossa Maestra di Marina di Carrara, che Bernardeschi ha recentemente acquistato. 

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Euro 2020, Federico Bernardeschi arriva tardi al matrimonio e Veronica Ciardi va via. Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Effetto indesiderato di Euro 2020? Federico Bernardeschi sposa la compagna Veronica Ciardi, ex del Grande Fratello 10, ma il centrocampista della Nazionale e della Juventus arriva in ritardo al Duomo di Carrara e così l'ex gieffina, che ha compiuto proprio oggi 36 anni, ha deciso di andarsene. Niente paura, piccoli contrattempi comuni a matrimoni vip e non. La differenza è che la scena, un po' imbarazzante e molto divertente, è stata ripresa dalle telecamere di Estate in Diretta e mandata in onda in diretta nazionale. "Speriamo che ripeta i successi sportivi ma che dopo queste nozze non ce ne siano altre… visti i tanti divorzi in giro", ha scaldato il clima il padre del giocatore, che domenica sera a Wembley ha segnato uno dei rigori che hanno dato la vittoria all'Italia sull'Inghilterra nella finale degli Europei. I conduttori Gianluca Semprini e Roberta Capua sorridono, ma non sanno ancora quello che sta per accadere. Bernardeschi arriva in chiesa con tre quarti d’ora di ritardo, giungendo alle 17,40 anziché all'orario previsto, le 17, in abito grigio chiaro e gli ormai consueti capelli corti e platinati. Veronica Ciardi era arrivata in Chiesa in abito bianco, con lungo e romantico strascico, velo e cerchietto argentato. Scesa dall'auto d'epoca, sembrava tutto pronto per la cerimonia ma quando si è resa conto che mancava l'ospite più atteso, cioè il suo sposo, ha deciso di risalire sull'auto e andarsene. Tradizione, ha spiegato la Capua: se la sposa arriva all'altare prima dello sposo, porta male. "Se n'è andata a fare un giro", ha ironizzato la conduttrice, prima del lieto evento. "Sono felicissima e emozionatissima", ha commentato Veronica una volta sicura della presenza del futuro consorte. Auguri e altri mille di questi... Euro 2020.

Bernardeschi sposa Veronica, ma spunta la ex di lei: "Non ti ho mai capita". Novella Toloni il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Federico Bernardeschi e Veronica Ciardi si sono sposati a 48 ore dalla vittoria degli Azzurri a Wembley. E intanto c'è chi ancora critica l'Italia e non solo per il trionfo a Euro 2020. Non poteva che concludersi con un matrimonio la lunga festa degli Azzurri campioni di Euro 2020. A 48 ore dal trionfo a Wembley, Federico Bernardeschi ha sposato la sua compagna, Veronica Ciardi. Un nome, quello della sposa, non nuovo ai gossip. La Ciardi, infatti, è stata una delle protagoniste più chiacchierate della decima edizione del Grande Fratello 10, soprattutto per il bacio saffico che si scambiò con l'altra gieffina, Sarah Nile. La coppia, che ha una figlia, ha celebrato le nozze nel duomo di Carrara. Per loro bagno di folla inatteso, cori da stadio e tanto clamore. Unica nota stonata della bellissima giornata? Il messaggio social scritto dalla Nile contro Veronica Ciardi. La sposa non l'ha invitata alle nozze e la replica è stata durissima: "Non ti ho mai capita e resterai per me un mistero. Ogni volta che mi avvicino a te vengo ferita e delusa. Ti chiedo di scomparire dalla mia vita perché arrechi solo dolore gratuito". Uscite dalla casa del Grande Fratello le due avevano detto di non essere lesbiche, ma di voler approfondire la loro intesa andando a vivere insieme. Per alcuni mesi il loro feeling tenne banco in televisione e sui social, ma dopo l'incontro tra Veronica e Federico qualcosa si sarebbe incrinato. "Lui è geloso di Sarah Nile", si vociferava sul web e tra le due gieffine ci sarebbero state molte incomprensioni. La Nile alle sue nozze ha voluto la Ciardi al suo fianco. Ma l'invito, a quanto pare, non è stato ricambiato. Gli inglesi non smettono di rosicare per la sconfitta subita nella finale di Wembley contro gli Azzurri, dove l'Italia ha conquistato Euro 2020. L'ultimo a provocare gli italiani è stato uno dei cantanti simbolo del Regno Unito, Zayn Malik. L'ex componente della boy band One Direction ha offeso l'Italia su Twitter, cinguettando: "Perché l'Italia è così sporcacciona?". E i vip nostrani non hanno tardato a rispondergli a tono. Lapidaria Stefania Orlando, alla quale è bastato un "Tiè" (con tanto di foto del Tricolore) per zittire il cantante britannico. Più sottile Salvatore Esposito, attore protagonista della serie tv Gomorra, che ha cinguettato: "One Direction Rome". Simbolica la replica di Fedez che, per mettere a tacere Zayn, ha pubblicato su Twitter una foto del figlio Leone con la mano alzata come a voler zittire l'interlocutore. Tagliente invece la replica della conduttrice Andrea Delogu: "Senti sei stato il primo ad abbandonare la barca dei tuoi amici 1D. Non prendiamo lezioni dai traditori". Non c'è che dire. Anche in quanto a repliche vinciamo noi. Polemiche contro l'Italia anche dalla Polonia, ma questa volta il calcio e la vittoria dell'Europeo non c'entrano. A denigrare l'Italia è stata la scrittrice polacca Blanka Lipinska, autrice della trilogia erotica 365 dni, dalla quale è stato tratto l'omonimo film con protagonista l'attore italiano Michele Morrone. La scrittrice, rientrata da una vacanza in Italia, ha duramente criticato il nostro Paese sui social network: "Ci stiamo avvicinando al nostro ritorno in patria e ne sono dannatamente grata perché odio l'Italia. Purtroppo odio l'Italia per tutto. L'attesa è quattro volte più lunga di quanto dovrebbe essere e gli hotel hanno uno standard inferiore a quello dovuto. È semplicemente sbagliato. L’unica cosa buona in questo Paese è il vino e i miei bellissimi attori. Spero di non dover più tornare in Italia". Parole che hanno scatenato la dura reazione del web, compresa quella di Michele Morrone che ha preso le distanze dalla Lipinska. Attraverso la sua pagina Instagram l'attore non si è trattenuto: "Mi dissocio da quello che Blanka Lipinska ha scritto sull'Italia. Amo il mio Paese come il resto del mondo. Non voglio essere nemmeno per un secondo associato allo schifo che ha detto sull'Italia". A buon intenditor poche parole.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

Da gossip.fanpage.it il 14 luglio 2021. Matrimonio particolare quello che ha visto protagonisti il calciatore della Juventus Federico Bernardeschi e Veronica Ciardi, insieme da più di quattro anni. Un evento trasmesso in diretta tv sulla Rai dal Duomo di Carrara, che più che celebrare le nozze tra i due ha suggellato l'unione del calciatore della Nazionale italiana con i tifosi accorsi ad acclamarlo per la vittoria agli Europei 2021. Tant'è che la vera star della giornata è stata senza dubbio lui e non la sposa, arrivata prima e costretta a fare doppio giro dell'isolato per aspettare lo sposo in netto ritardo. Lui che è stato apprezzato nel look, che ha catalizzato l'attenzione appena arrivato in Chiesa, che ha scatenato i cori appena uscito senza avere il tempo nemmeno di gettare due pugni di riso. E nemmeno il battesimo della secondogenita Lena ha distratto il racconto dei media, nonostante la bellissima iniziativa dei genitori, che hanno voluto dire sì nello stesso giorno. Giorno in cui si festeggiava anche il compleanno di Veronica Ciardi, come se non bastassero i motivi per stappare una bottiglia. 

Il prete ironizza sul ritardo di Bernardeschi. I racconti del matrimonio si susseguono di ora in ora sui social grazie ai tantissimi spettatori nel momento della cerimonia e uno in particolare ha suscitato grande ilarità: sembra che il ritardo di Federico Bernardeschi sia stato accolto con ‘sportività' dalla sposa, che fuori il Duomo ha riservato le migliori parole per le sue prestazioni in campo agli Europei: "È stato bravissimo, ho sempre creduto nella tenacia della squadra" ha dichiarato tra la folla che le impediva il passaggio. Il prete, forse per sciogliere la tensione stando a quanto riporta calciomercato.com, ad un certo punto avrebbe chiesto al giocatore: "Sei più emozionato oggi o quando stavi per battere il rigore in finale?". La risposta non è stata, come ci si sarebbe aspettato, poi così scontata.

Federico Bernardeschi e Veronica Ciardi si sono sposati: battezzata anche la figlia. Ilaria Minucci il 13/07/2021 su Notizie.it. Il giocatore della nazionale italiana, Federico Bernardeschi, si è sposato con la compagna Veronica Ciardi presso il Duomo di Carrara. Il calciatore italiano Federico Bernardeschi, reduce della vittoria con la nazionale azzurra di Euro 2020, si è sposato con la compagna Veronica Ciardi. Nella giornata di martedì 13 luglio, il centrocampista Federico Bernardeschi, appena tornato in Italia dopo la vittoria della nazionale conquistata durante la finale di Euro 2020 disputata contro l’Inghilterra, si è sposato con Veronica Ciardi. Dopo quattro anni di relazione, infatti, la coppia ha deciso di convolare a nozze: l’evento è stato celebrato a Carrara, in provincia di Massa-Carrara, in Toscana. Sulla base delle informazioni diffuse dal giornalista di “Estate in diretta” Giuseppe di Tommaso, inoltre, nel corso della cerimonia pare sia stato celebrato anche il battesimo della piccola Deva, di soli due anni, figlia di Federico Bernardeschi e di Veronica Ciardi. In seguito all’ufficializzazione delle nozze, la coppia di sposi si è recata presso uno stabilimento balneare per festeggiare con gli invitati. Lo stabilimento balneare, infatti, ha ospitato il ricevimento organizzato dalla coppia. Tra gli invitati, inoltre, vi erano anche tutti i giocatori della nazionale azzurra, compagni di squadra di Bernardeschi. Nella giornata delle nozze, il giornalista di Rai Uno Giuseppe Di Tommaso è riuscito a intercettare la sposa, Veronica Ciardi, poco prima della celebrazione della cerimonia. In questa circostanza, l’attuale moglie di Bernardeschi ha ammesso: “Ciao a tutti. Prima di fare il proprio ingresso nel Duomo di Carrara, poi, la donna si è soffermata sulla vittoria dell’Italia a Wembley e ha aggiunto: “Soprattutto sono felice per lui. A parte per questo giorno, ovviamente. Ero sicura, ma non della vittoria, della loro grinta e forza”. Il matrimonio del calciatore Federico Bernardeschi e di Veronica Ciardi, ex concorrente del Grande Fratello, si sono celebrate al Duomo di Carrara, alle ore 17:40 circa di martedì 13 luglio. Inizialmente, le nozze erano state programmate per le ore 17:00: il ritardo di quaranta minuti registrato dal centrocampista e attaccante italiano è stato documentato in tempo reale dalla regia di Estate in Diretta, programma di Rai Uno incaricato di seguire l’evento in modo esclusivo. A questo proposito, è apparso estremamente singolare che la sposa sia arrivata in chiesa, a bordo di un’auto d’epoca, prima dello sposo, contravvenendo a ogni usanza descritta dal galateo. Notando l’assenza del compagno, tuttavia, Veronica Ciardi ha deciso di andare via, voltando le spalle all’ingresso della chiesa e aspettando l’arrivo di Bernardeschi.

Nozze Bernardeschi, il calciatore sale in piedi sull’auto e intona cori con la folla. Ilaria Minucci il 13/07/2021 su Notizie.it. Il calciatore Federico Bernardeschi, dopo il suo matrimonio, è salito in piedi sull’auto e ha intonato cori da stadio insieme alla folla. Nel pomeriggio di martedì 13 luglio, nel Duomo di Carrara sono state celebrate le nozze tra il calciatore Federico Bernardeschi e l’ex concorrente del Grande Fratello Veronica Ciardi. All’uscita dalla chiesa, il 27enne è stato accolto da una folla di tifosi, con i quali ha dato vita a cori da stadio. L’estate del 2021 sta regalando enormi emozioni al centrocampista e attaccante Federico Bernardeschi che, due giorni dopo aver vinto gli Europei con la nazionale azzurra, è convolato a nozze con la compagna Veronica Ciardo. In questo contesto, la cerimonia si è distaccata considerevolmente dalle tradizionali scene che caratterizzano anche i più eccentrici matrimoni. Lasciando la chiesa, infatti, Bernardeschi ha dimostrato di avere una energia prorompente e di essere ancora estremamente entusiasta in seguito alla vittoria degli Europei. Pertanto, dopo essere uscito dal Duomo di Carrara in compagnia della moglie Veronica Ciardi, ha deciso di alzarsi in piedi sull’auto che lo trasportava e di cimentarsi con il ruolo di capo ultrà mentre la folla lo acclamava. Conclusa la celebrazione delle nozze, Federico Bernardeschi e Veronica Ciardi sono saliti a bordo di una jeep scura decappottabile, la medesima auto con la quale il calciatore aveva raggiunto il Duomo di Carrara. Non appena lasciata la chiesa, tuttavia, il giocatore della Nazionale e della Juventus è stato accolto da una folla adorante intenda a lodarlo e a fargli video insieme alla moglie, per immortalare il lieto evento vissuto da uno dei campioni che ha portato l’Italia a vincere gli Europei. Rivestendo il ruolo di capo ultrà, il coro con il quale Federico Bernardeschi ha incitato la folla accalcatasi in prossimità del Duomo di Carrara coincide con quello intonato a partire dal trionfo dell’Italia agli Euro 2020, sancito con la vittoria della finale disputata contro l’Inghilterra presso lo stadio di Wembley di Londra. Prima, infatti, il 27enne ha iniziato a intonare il classico “Popopopopopopo” per poi continuare cantando a squarcia gola: “Siamo noi, siamo noi… i campioni dell’Europa siamo noi”.

Leonardo Spinazzola. Luca Valdiserri per corriere.it l'11 settembre 2021.

«Peggio il ginocchio. Il legamento crociato ti fa male anche dopo. Dicono invece che il tendine di Achille, una volta guarito, addirittura si rafforzi». 

Allora è vero, Leonardo Spinazzola: lei trova sempre il modo di essere positivo. Come diceva Jovanotti: sono un ragazzo fortunato...

«Ho tutto, sono felice. Anche io passo i miei momenti tristi, ma poi guardo avanti e non mi piango addosso». 

È nel suo Dna?

«No, ci sono arrivato con le batoste. Un giorno, però, ho detto a mia moglie Miriam: se mi lamento ancora per qualcosa che riguarda il calcio, dammi uno schiaffo». 

Ne ha presi molti?

«Nemmeno uno».

Quel giorno era quando l’Inter si rifiutò di tesserarla, adducendo problemi fisici?

«C’è un’altra domanda?».

Tornato alla Roma, però, da quel giorno è stato una locomotiva sulla fascia...

«Vede che non tutti i mali vengono per nuocere?».

La pandemia ha fatto rinviare l’Euro di un anno. L’Italia avrebbe vinto nel 2020?

«Abbiamo vinto quello che c’è stato e questo basta. Ci sentivamo forti anche un anno prima. La pandemia è stata un dramma tale che cancella ogni altro discorso. Penso alla gente che è morta, a chi ha perso i propri cari, ai ragazzi che non hanno potuto vivere appieno gli anni più belli. Da piccolo ero sempre a giocare a pallone, mia mamma doveva portarmi via dal campo dopo avermi rincorso a lungo».

E lei, che ha un bambino di 3 anni e una bambina di pochi mesi, che tipo di papà è?

«Con Mattia sono giocoso e presente, ma so essere esigente: voglio che cresca con l’educazione giusta. Con Sofia è ancora troppo presto, vedremo, ma credo che sarà la principessa che mi mangerà». 

Il rapporto di Mattia con il calcio?

«È impazzito durante l’Europeo. Gioca a tutte le ore, si rivede gli highlights delle partite, rifà i gol e le esultanze».

È vero che il suo idolo è Chiesa e che dice che è più forte di lei?

«Vero. Ho chiesto a Federico di mandarmi un video per Mattia. La prima cosa che ha detto è stata: bello, ma domani viene a casa nostra?». 

L’Europeo vinto e il suo cammino di gioia e dolore sono diventati un libro. Ha ambizioni letterarie?

«Non scherziamo. È stato bravissimo Alessandro Alciato a rendere sulle pagine la storia che io gli ho raccontato. Dirò di più: rileggerla attraverso un punto di vista diverso che ha appassionato anche me». 

Il libro si apre con una domanda, quella che si è fatto subito dopo l’infortunio contro il Belgio: perché proprio a me? Ha trovato la risposta?

«La trovo lavorando per tornare quello di prima. Se riesco, anche meglio». 

Il vostro Europeo, gli ori di Tokyo: è stata un’estate di azzurro intenso...

«Ho visto tutte le Olimpiadi, tifavo dal divano. Jacobs, Tamberi, Pellegrini: in casa si esultava tutti insieme come se avessi vinto io».

Nel libro si parla della colonna sonora che vi ha accompagnato: avete fatto cantare Belotti in napoletano.

«Quaranta giorni tra ritiro e partite senza mai un litigio. Un gruppo così non lo avevo mai visto. Non basta per vincere, ma aiuta. Aiuta molto».

Sarà facile o difficile, in campionato, affrontare quei compagni da avversari?

«Abbracci prima e dopo, ma non durante la partita». 

Se capita, insomma, a Insigne può arrivare anche un «calciaggiro»?

«Di calci, in verità, nella mia carriera ne ho sempre dati pochi».

Troppo tenero? Piacerà a Mourinho? Che impressione ha avuto del suo nuovo allenatore che ha già conquistato Roma e la Roma?

«Mi ha telefonato prima di Italia-Turchia e mi ha detto: te la fai sotto o sei forte? Hai paura o sei pronto? E io: sono prontissimo, mister, e non vedo l’ora di incominciare».

Adesso non vede l’ora di tornare in campo o c’è il timore di affrettare i tempi e rischiare una ricaduta?

«Mi sono fatto una mia tabella di recupero perché devo tenere la testa sempre sul pezzo. Mi aiuta. Sentirò cosa dice il mio corpo, ma è chiaro che darò retta ai medici». 

Lo ha fatto anche con il vaccino contro il Covid?

«Sono vaccinato, convinto. Come mia moglie. Mi fido della scienza».

E si fida di se stesso? Ha sempre pensato che avrebbe fatto il calciatore?

«Le doti, sinceramente, le avevo da subito. Forse ne avevo anche troppe. A volte sono stato un po’ presuntuoso, come quando alcuni allenatori nelle giovanili mi vedevano già in una posizione di campo più arretrata e io invece volevo giocare più avanti e fare gol. Poi i gol sono diventati sempre di meno e io sono diventato un terzino. Forse ho perso tempo e qualche occasione. Forse era soltanto la mia strada e dovevo percorrerla fino in fondo».

Ugo Trani per "il Messaggero" il 14 luglio 2021. Il riconoscimento della Roma arriva all'ora della pennichella, meritatissima, della Freccia Azzurra. Subito dopo pranzo e prima della pioggia. La foto in vetrina, al momento di ufficializzare la nuova maglia, è quella di Leonardo Spinazzola. È la più grande, in copertina. Poi arriveranno anche le altre dei titolari a disposizione di Mourinho. Ma il primo pensiero del club giallorosso è per il suo campione d'Europa. «Sono giorni fantastici per me», ammette Spina anche se già smania da convalescente. È ancora nella Capitale, nella villa di Casal Palocco. Accanto ha la moglie Miriam, pugliese conosciuta da ragazzino nella sua Foligno e sempre presente all'Olimpico per le tre partite della prima fase dell'Europeo, il primogenito Mattia, 3 anni e la maglia azzurra numero 4 del papà sempre addosso, e Sofia che è nata solo quattro mesi e mezzo fa. C'è anche Yago, il golden retriever che sta spesso sdraiato vicino al difensore. In campo a Wembley per prendere la sua medaglia e sulle spalle di De Rossi per salutare i tifosi.

Come sta Spina?

«Distrutto. La gamba non c'entra. Sono state ore pesantissime. Emozione, ma anche tanta fatica. Sempre con le stampelle. Non so di quanti giorni ho bisogno per riprendermi. Non esco di casa, penso solo a riposarmi. Ma quel viaggio a Londra non potevo certo perdermelo e nemmeno il lunedì con il Quirinale, Palazzo Chigi e i festeggiamenti». 

Ha rispettato la promessa fatta ai compagni. Disse che sarebbe tornato per la finale. Dove ha trovato questa sicurezza?

«A Coverciano. So come abbiamo lavorato. In ritiro e anche prima. La nostra nazionale ha giocato meglio delle altre dall'inizio del torneo, confermando le vittorie e soprattutto le prestazioni delle qualificazioni. Successo meritato, dunque. Lo hanno riconosciuto pure gli avversari».

Tra le bellissime immagini dell'Europeo c'è l'abbraccio di Mancini nel ristorante di Coverciano prima del suo ritorno a Roma per andare a operarsi in Finlandia. Una stretta intensa e significativa del ct. Che rapporto si è creato tra voi?

«Mancini è quello che avete visto in quella foto e in tante altre. È successo con me che ho partecipato a questa impresa, ma si è comportato così pure con chi ha dovuto lasciare Coverciano, uscendo dalla lista dei ventisei convocati. Lo stesso affetto il nostro ct lo ha dedicato a loro, rendendoli comunque partecipi».

Il legame con Mancini, ma anche quello tra voi giocatori. Scherzi, canti e vittorie. Come è stata la vita di gruppo, vista da dentro?

«Ho parlato del ct proprio per sottolineare l'importanza di aver creato l'ambiente ideale per arrivare al risultato. La nostra è una famiglia più che un gruppo. Legatissimi. In campo e fuori. Coinvolti pure quelli che sono rimasti a casa. Li abbiamo spesso sentiti, hanno tifato».

Bernardeschi, sul charter che vi ha riportato da Monaco a Firenze, ha preso il microfono e ha cominciato a intonare il coro «Spina-Spina». Che cosa ha provato?

«Sono state ore in cui la commozione è stata grande. Non mi ricordo se ho pianto. Ho finito le lacrime all'Allianz Arena». 

Il suo Europeo è durato fino al 2 luglio, al minuto 32 della ripresa nel quarto contro il Belgio. Che cosa le viene in mente se ripensa a quell'ennesima corsa sulla fascia dopo aver tra l'altro evitato il pari di Lukaku con il salvataggio di coscia?

«La gravità dell'infortunio. Me ne sono subito reso conto. Ho pianto perché sicuro di dovermi arrendere sul più bello. Più del dolore mi ha fatto male sentirmi fuori dalla competizione. Ho continuato a piangere negli spogliatoi. E quando sono rientrati anche i compagni, hanno pianto con me invece che festeggiare la vittoria».

Poi che cosa è successo?

«Ho detto basta e ho sorriso. Del resto con l'allegria, dal primo giorno del ritiro, siamo arrivati al successo finale. Il nostro segreto per vincere il trofeo. È andata proprio così». 

Nel messaggio che ha dedicato al gruppo dopo l'infortunio, ha scritto che avrebbe ripetuto quello scatto. Davvero così convinto?

«Sì, mi ripeto: lo farei altre centro volte per prendere un metro in più all'avversario. È lo spirito della nostra nazionale: bisogna dare l'anima per i tuoi compagni se si vuole arrivare fino in fondo».

Pensa che l'Europeo sia stato il momento chic della sua carriera?

«Il più bello sì, non il migliore. Da quando gioco, a cominciare dalla mia esperienza all'Atalanta, cerco di dare il massimo. In questo caso la differenza la fa il palcoscenico. Ho avuto più consenso a livello internazionale».

È stato inserito nella top 11 del torneo ed eletto in 2 delle 4 partite come man of the match. Sono solo premi di consolazione?

«Sono trofei personali che ho portato a casa con l'infortunio al tendine d'Achille. Non contano le mie prestazioni, ma il risultato della Nazionale. Che non è solo del ct e dei giocatori. Dai magazzinieri ai cuochi, il titolo è merito di tutti».

Quando va in ferie?

«Non credo prima di fine mese. Ancora non posso iniziare la fisioterapia. Devo aspettare una settimana, quando mi leveranno il gesso e i punti. Sono qui con me anche i miei bambini e mia moglie. Aspettano me per le vacanze, non mi togliete anche loro». 

Come è andato il primo incontro con Mourinho?

«Mi ha fatto piacere conoscerlo. È stato carino, mi ha detto che lui e la squadra mi aspettano in campo. Gli ho risposto che dovrà avere pazienza, la stessa che ho io».

Domenico Berardi. «Mio cugino Domenico Berardi campione d’Europa e orgoglio della nostra “razza”». Patrizia Siciliani su Il Quotidiano del Sud il 13 luglio 2021. CIRO’ MARINA (CROTONE) – Si scopre che il neo campione d’Europa, Domenico Berardi, ha un cugino cirotano. «Mio padre e la nonna materna di Domenico erano fratello e sorella», chiarisce il signor Raffaele Vulcano, un cittadino conosciuto in loco soprattutto per la sua passione per la caccia. Non a caso, è il presidente della sezione comunale della Federazione italiana della caccia. Detto per inciso, lui ci tiene ad essere considerato un cacciatore con un animo ambientalista. La sua parentela con l’attaccante del Sassuolo e della nazionale italiana è venuta alla luce, quindi, appena la squadra italiana ha vinto gli Europei. Lasciandosi contagiare dall’entusiasmo collettivo, Raffaele Vulcano ha, infatti, scritto sui social: «Nostro cugino Domenico Berardi, campione d’Europa, orgoglio di Bocchigliero e di tutta la Calabria e orgoglio della nostra razza». La nonna materna di Berardi si chiamava Maria Vulcano e, come detto, era la sorella di Salvatore Giuseppe Vulcano, il padre del nostro interlocutore. Il signor Raffaele racconta un aneddoto: «Domenico ha un fratello più grande, andò a trovarlo a Modena, nella città in cui abitava, il fratello gli chiese di giocare una partita di calcetto, sostituendo un calciatore assente, un osservatore del Sassuolo era lì, e da lì è iniziata la sua carriera».  L’episodio della partita giocata per caso (era una partitella del circuito Uisp) risale al 2010. L’osservatore, che notò Domenico, si chiama Pantaleo Corvino. Cos’altro sa il cugino cirotano del grande campione di calcio? «La famiglia è originaria di Bocchigliero, si è poi trasferita a Mirto Crosia, Domenico ha regalato al padre Luigi, dipendente dell’Anas oggi in pensione, una villa bellissima, lui arriva di notte a Mirto, se no l’assalgono i tifosi, e va via subito».  Raffaele Vulcano non conosce personalmente perciò il neo campione d’Europa. «E’ stato sempre fuori», sottolinea. Certo, gli piacerebbe conoscerlo. «Al di là del legame di parentela- aggiunge- io sono contento della bravura e dei risultati sportivi di Domenico, perché è un ragazzo del sud, con i nostri valori». Ma, a questo punto, il signor Raffaele rivela di avere un altro parente famoso: «Luciano Vulcano, il collaboratore tecnico del Milan, è mio nipote, è stato due anni all’Inter con mister Roberto Mancini, dal 2019 è al Milan, fa parte dello staff tecnico della prima squadra e lavora nel centro sportivo rossonero, è anche analista video della squadra, mister Pioli lo tiene in grandissima considerazione». Insomma, due indizi fanno una prova: sembra proprio che il talento Domenico Berardi lo abbia ereditato dai suoi avi Vulcano.   

Gianluca Scamacca. Da gazzetta.it il 19 novembre 2021. Scamacca ha rotto il silenzio: con un post, pubblicato sul proprio profilo social, ha preso le distanze dalla vicenda relativa a suo nonno, arrestato per aver minacciato un uomo con un coltello. Nel maggio scorso, invece, il padre dell'attaccante del Sassuolo si era introdotto a Trigoria, danneggiando diverse macchine con una mazza da baseball. "Per la seconda volta nel giro di mesi mi trovo nuovamente a dover prendere le massime distanze da episodi violenti e inqualificabili commessi da persone ricollegabili al mio cognome ma con le quali da moltissimi anni ormai ho chiuso ogni tipo di rapporto - ha scritto Scamacca su Instagram -. Ribadisco ancora una volta che io sono cresciuto con mia madre e mia sorella e che sono loro per me la mia famiglia. Nessun altro. Spero quindi di non dover più essere collegato in futuro a notizie e resoconti che riguardano persone esterne al ristretto nucleo familiare formato da me, mia madre e mia sorella. Vorrei essere giudicato per quello che faccio in campo e fuori senza dover pagare, a livello di immagine e di considerazione dell’uomo che sono, per comportamenti irresponsabili di persone che io non riconosco più da tempo come facenti parte dei miei affetti e della mia famiglia". 

Marco De Risi per "il Messaggero" il 18 novembre 2021. Terrore in un bar di Fidene, un individuo vi ha fatto irruzione armato di coltello. E non ne ha voluto sapere di ritornare alla calma. Anzi, si è messo a girare per il bar minacciando i presenti. Si tratta di Sandro Scamacca, 66 anni, nonno del calciatore Gianluca che milita nel Sassuolo. Probabilmente l'uomo era ubriaco oppure alterato psicologicamente. Fatto sta che ha minacciato di morte un cliente seduto ad un tavolo che si è trovato con il coltello a pochi centimetri dalla gola. Uno spavento terribile per lui che era entrato al bar solo per consumare una birra. L'aggressione è avvenuta in un bar di via Don Giustino Maria Russolillo. a Fermarlo sono stati gli agenti delle volanti e del distretto di Fidene Serpentara che sono accorsi a sirene spiegate al bar. L'allarme era arrivato al 112 da più clienti e passanti. Quando sono arrivati i poliziotti hanno messo mano alle pistole d'ordinanza, pronti a tutto considerato il tenore delle segnalazioni. Appena entrati sono stati avvicinati da un dipendente terrorizzato. Gli agenti prima hanno cercato di calmare il sessantaseienne a parole poi lo hanno bloccato con la forza. Ci sono stati attimi di tensione fino a quando i poliziotti sono riusciti a disarmare Sandro Scamacca. L'individuo è stato ammanettato e portato al distretto di Fidene. L'uomo è stato arrestato per minacce aggravate, detenzione di un'arma e resistenza a pubblico ufficiale. Circa un anno fa, il padre del calciatore, Emiliano Scamacca era finito sulle cronache per un raid a Trigoria nella sede della AS Roma: armato di una spranga di ferro era riuscito ad entrare nel centro sportivo e, dopo aver minacciato i presenti, aveva danneggiato alcune vetture che si trovavano al Fulvio Bernardini, compresa la volante della polizia intervenuta dopo la richiesta d'intervento al 112. All'epoca dei fatti era stato denunciato per danneggiamento. Non si seppero le motivazioni del raid.

Ivan Perisic. Perisic e l’Inter nuova vita: il rinnovo difficile, la lite con Icardi, la boxe, gli orologi rubati (e la multa per il beach volley). Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 26 Novembre 2021. L’Inter vuole rinnovargli il contratto in scadenza a giugno, ma il nodo è lo stipendio: per il club nerazzurro i 5 milioni netti di adesso sono troppi. E lui si guarda in giro...

Un caso da studiare

Travolgente al punto da sembrare bionico. Ivan Perisic è una delle inaspettate certezze dell’Inter. Migliore in campo anche contro lo Shakhtar, nella partita che ha portato in dote il pass per gli ottavi di finale di Champions League. Il croato è un caso da studiare, completamente trasformato rispetto al calciatore indolente dell’era pre Conte. L’anno scorso è cresciuto, plasmato dall’ex c.t., adesso ara la fascia sinistra come un trattore, per i compagni è divenuto una sorta di macchina spara assist. Per Inzaghi è uno degli irrinunciabili, lo ha ripetuto di recente spiegando che «Ivan sta facendo cose straordinarie». Non abbastanza, almeno ad oggi, per convincere l’Inter a rinnovargli il contratto in scadenza a fine giugno: lui è tentato da una nuova esperienza in giro per l’Europa e non vuole abbassarsi lo stipendio di 5 milioni a stagione, il club per un (quasi) 33enne non vuole pagare tanto. Ma intanto se lo gode.

Capelli colorati di rosso e di bianco

Nato a Spalato, Ivan è legatissimo al suo Paese e alla Nazionale, con cui ha scavallato quota 100 presenze (è a 111, quarto di sempre). Ha partecipato ai Mondiali del 2014 e del 2018 (in cui la Croazia ha raggiunto la sua prima storica finale), ad Euro 2020 e all’Europeo del 2016. In quest’ultimo, per scaramanzia ha cambiato look, colorandosi i capelli con la scacchiera biancorossa, simbolo della bandiera croata, prima dell’ottavo di finale contro il Portogallo. Partita alla fine persa 1-0 ai supplementari con annesso palo del giocatore dell’Inter.

Il triplete col Bayern

Arrivato all’Inter Antonio Conte lo prova in ritiro, lo vede timido e dice alla società: «Non può giocare da quinto di sinistra, possiamo cederlo». Ivan va così in prestito al Bayern Monaco con cui in un anno mette insieme il famigerato Triplete. Tradotto, vince tutto il possibile: Bundesliga, Coppa di Germania (con assist in finale) e Champions League. In totale somma 35 presenze a cui aggiunge 8 gol e 10 assist. Rientra all’Inter, si riprende la fascia sinistra e arriva lo scudetto.

La moglie e la famiglia

Tra i banchi di scuola, a Spalato, ha conosciuto Josipa. Non l’ha più lasciata, sposandola nel 2012. Moglie riservata, Josipa: il massimo della mondanità che si concede è una passeggiata in centro. A volte però segue Ivan a San Siro, dove fa coppia sugli spalti con la signora Dzeko o con Leonardo, il primo figlio (avuto nel 2012). La famiglia Perisic è composta anche da Manuela (arrivata nel luglio del 2014) e Ruby, un labrador di poco più di un anno.

Passione basket

Poteva giocare a pallacanestro, da ragazzo. Sceglie il calcio, ma la passione per la palla a spicchi gli è rimasta. Gioca spesso, soprattutto in estate, e segue il Cedevita Zagabria, l’Olimpia Milano (capita di vederlo al Forum per le gare di Eurolega) e il basket Nba. Il suo idolo è LeBron James, per lui ha iniziato a tifare i Cleveland Cavaliers dove per tre anni, dal 2017 al 2020, ha giocato anche l’amico e connazionale Ante Zizic.

La boxe

Ivan il bionico, dicevamo. «Avrei potuto eccellere in ogni sport» dice con poca modestia. Non solo il basket, dove con la sua elevazione riesce tranquillamente a schiacciare. Perisic corre (ha valori atletici da runner professionista), gioca a tennis e da qualche mese, fa pugilato. Si è allenato pure d’estate, in una palestra di Spalato, la Pit bull Gym, e con sé portava anche il figlio Leonardo.

La multa per il beach volley

C’è anche il beach volley tra gli sport praticati dal croato. Non solo da amatore. Nell’estate del 2017 l’Inter lo multa perché Ivan si iscrive a una tappa delle Major Series, a Porec, con il connazionale Niksa Dell’Orco. Perde all’esordio ma, fosse arrivato in finale, avrebbe saltato i primi giorni di ritiro estivo. Spalletti e la società nerazzurra non la presero bene.

Non sa il regolamento

Perisic è sempre corretto in campo, almeno quando conosce il regolamento. Nel 2017, Inter-Roma, in area di rigore si alza il pallone da solo e lo passa di testa ad Handanovic, per permettergli di prenderlo con le mani. Il problema è che questa cosa non si può fare. L’arbitro concede una punizione alla Roma e lo ammonisce, nonostante la sua faccia attonita e le proteste di Icardi, all’epoca capitano.

La lite con Icardi

Ecco, Icardi. Nell’ultima stagione con Spalletti in panchina (2018/19) tra l’attaccante argentino e Perisic succede di tutto. Ivan è a capo della rivolta contro Maurito, che viene degradato e salta diverse partite pur se in condizione. Il motivo? La moglie di Icardi, Wanda Nara: «Dille di smetterla di parlare di me in tv», avrebbe detto in quel periodo il croato al centravanti. Che al termine di quella stagione lascia l’Inter e va al Psg.

I tre orologi

A giugno del 2019 la moglie, rientrando a Milano dopo qualche settimana fuori, si accorge che dai cassetti di casa mancano tre orologi. Oggetti di un valore complessivo di poco superiore agli 80 mila euro, rubati dall’appartamento familiare nel Bosco Verticale, in zona Isola. La refurtiva? Un orologio da donna marca Rolex, in oro e acciaio, da circa 20 mila euro. Un più sportivo «Hublot» da uomo, modello «Big bang steel Ceramic», preso in Germania. E infine il pezzo più pregiato dei tre: un Audemars Piguet da signora, edizione limitata «Carolina Bucci», un autentico gioiello in oro da ben 50 mila euro.

La crioterapia

Anche lui, come fanno sempre più calciatori, per recuperare più velocemente le energie si affida alla crioterapia. Durante l’Europeo del 2016, lo stesso dei capelli colorati, si immergeva in questi simil contenitori con temperatura di -160 gradi. «Rigenerante», il suo commento alla foto condivisa all’epoca su Instagram.

Game of thrones

Daenerys e Jon Snow, Cersei e Tyrion: Perisic è un grande appassionato del «Trono di Spade». Ha visto tutte le stagioni della premiata serie televisiva che prende spunto dai libri di George R. R. Martin «Le cronache del ghiaccio e del fuoco».

Manuel Locatelli. Paolo Tomaselli per il "Corriere della Sera" il 18 giugno 2021. Per continuare a fare sogni d' oro assieme a questa Italia, cosa c' è di meglio di un romanzo di formazione prima di spegnere la luce? O magari una serie tv. «Il gioco del Loca» potrebbe essere un buon titolo, anche se «La Vida Loca» ha quella vena di follia estiva che sta innervando anche la Nazionale di Mancini. La carriera ancora giovane di Manuel Locatelli ha toccato mercoledì il suo punto più alto - per adesso - grazie alla formidabile doppietta alla Svizzera: una scena madre che è rimasta negli occhi, tra echi tardelliani («ha dimostrato di essere un campione» dice l'eroe del Mundial e speranze per un futuro brillante, all' Europeo e oltre. Tra le pagine chiare e le pagine scure che hanno portato fino a qui, ci sono però anche dubbi, un'autocritica profonda e tante lacrime. Più da telenovela vecchio stile, per la verità. Ma in fondo Manuel, giocatore moderno e ancora da esplorare in tutte le sue potenzialità, è un ragazzo all' antica, che viene da quel ramo del lago di Como ed è cresciuto a Pescate, paesino citato anche nel 37° capitolo dei Promessi Sposi, come luogo di passaggio di Renzo. Locatelli, o come dicevan tutti Loca, non si fece molto aspettare, parafrasando Manzoni: non si è mosso da casa prima dei 17 anni, quando è andato nel convitto del Milan, che lo ha strappato dodicenne all' Atalanta, non senza frizioni tra i club. Prima c'era stato l'oratorio, con il padre bancario-allenatore e il fratello maggiore Mattia. Un quadro ideale per crescere, completato da una mamma casalinga e da una sorella con due lauree, in russo e pedagogia. Il quadro però viene battuto subito come un capolavoro d' autore, all' asta delle grandi illusioni: 22 ottobre 2016, Manuel a San Siro segna un gol bellissimo e decisivo alla Juve, incassa i complimenti di Buffon e finisce su una nuvola. Nessuno lo tira giù, la caduta fa male, ma la rivincita adesso ha un sapore speciale, perché dopo l'esplosione in azzurro c' è all' orizzonte il grande salto, probabilmente alla Juve. Nel calcio italiano - ultimo fra i grandi campionati per numero di ragazzi che giocano nel club nel quale sono cresciuti - Locatelli sembrava l'eccezione che conferma la regola. Ma si fa presto a dire predestinato, soprattutto se c' è l'investitura di Silvio Berlusconi, che allo sbarbato di Lecco, quando era ancora nelle giovanili, aveva dedicato parole precise: «Mi hanno parlato molto bene di te. Complimenti, ma sappi che noi ti vogliamo prima ottimo studente e bravo figliuolo e poi calciatore di Serie A». «Le aspettative erano alle stelle, non ero pronto anche per demeriti miei. Avevo vissuto tutto troppo velocemente» ha raccontato Manuel alla Gazzetta. Dopo la terza stagione in prima squadra (e solo un altro gol segnato) il Milan non crede in lui e lo cede al Sassuolo, per un totale di 14 milioni. Il ragazzo non nasconde le lacrime, condivise con la fidanzata storica Thessa Lacovich, laureata in Media Advertising. Non sono però le prime in famiglia, perché quando il padre vede arrivare i primi stipendi si mette a piangere, ma non di gioia: «Questi soldi possono essere la tua rovina». Le fondamenta in casa Locatelli sono molto solide. E l'ex predestinato con il mito di Pirlo e Kroos rinasce in una provincia ricca, tranquilla e competente. Manuel si fortifica nel fisico e nella forza mentale e trova un allenatore giovane con le idee chiare e tanta personalità. Una guida, insomma: «De Zerbi mi ha cambiato la vita: grazie a lui mi sono staccato di dosso l'etichetta di incompiuto». Però non è stata una procedura indolore: «Mi ha fatto fare delle panchine di fila reagivo male, stavo col muso, mi allenavo male. Sbagliavo». Insomma, come ha sintetizzato un altro maestro come Arrigo Sacchi tempo fa: «Locatelli ci ha messo due anni a recuperare la modestia dopo il bel gol alla Juve all' esordio nel Milan». Il c.t. Mancini, esperto di giovani purosangue da esaltare, puntava su Manuel dopo l'Europeo. La pandemia ha fatto slittare di un anno la manifestazione e a settembre contro l'Olanda ad Amsterdam «Loca» ha debuttato in azzurro, mostrando la personalità di un veterano. Poi il gol alla Bulgaria a marzo e la notte magica con la Svizzera: era dai tempi di Bulgarelli a Cile 1962, che un centrocampista azzurro non segnava una doppietta in un grande torneo. Nel ritiro di fine maggio in Sardegna, Manuel ha ricevuto il premio intitolato al vecchio campione. Perché alla fine, nel gioco del Loca, tutto torna.

Jorge Luiz Frello Filho: Jorginho. Alessandro Bocci per il “Corriere della Sera”  l'1 settembre 2021. Racconta di non pensare al Pallone d'Oro forse perché ci pensa moltissimo e nel suo cuore di campione umile sa che è bene non farci troppo la bocca. Jorginho è nato in Brasile, gioca nella Premier League, il campionato più importante del mondo, ma è l'anima e la coscienza della squadra salita sul tetto d'Europa. La sua estate è stata da sballo con la Champions e la Supercoppa insieme al Chelsea, il premio della Uefa come miglior giocatore europeo dell'anno e i complimenti di Pelè, che in un post ha scritto parole incancellabili: «Sono un tuo fan». Ce n'è quanto basta per perdere la testa. Jorginho, invece, ce l'ha ben piantata sulle spalle perché non ha dimenticato le bocciature rimediate negli anni: «Sono state tante, soprattutto in Brasile. Ho dovuto combattere lo scetticismo e tapparmi le orecchie davanti alle critiche».  Così in ogni intervista sente il bisogno di ringraziare Mauro Bertacchini, che a 13 anni lo ha trasformato da trequartista in regista cambiando la sua vita: «Ho cominciato studiando Pirlo e Xavi» e adesso che è il migliore del mondo nel suo ruolo e gli chiedono chi può essere il suo erede, promuove un po' a sorpresa Sandro Tonali. «Mi rivedo in lui», dice presentandosi con i capelli biondo ossigenati, tributo alla pubblicità di una birra lanciata in Brasile dove l'azzurro sta cercando di recuperare un po' di quella visibilità mancata che è il suo cruccio. Jorginho si presenta anche con la gamba sinistra fasciata dal ginocchio alla caviglia «colpa di una botta fortissima presa domenica contro il Liverpool, ma sono pronto. Per non giocare la gamba me la devono tagliare», dice con il piglio di chi non è per niente appagato. La maglia dell'Italia, ormai, è una seconda pelle e dopo aver vinto l'Europeo, il centrocampista dei Blues non ha voglia di abbassare la guardia. «Siamo tornati al posto che ci compete. Ma il difficile arriva adesso perché non siamo più una sorpresa. Tutti studieranno il modo per batterci e ogni partita ce la dovremo sudare. Bisognerà avere fame, restando umili, senza dimenticare che la nostra vera forza è l'unità del gruppo. Ci sono tante Nazionali che hanno giocatori bravi, ma non ne vedo neppure una con il nostro spirito».  Il futuro è oggi, anzi domani: «Penso una partita alla volta. Ora sono concentrato sulla Bulgaria e so già che non sarà facile». Anche perché le ripartenze per l'Italia sono sempre complicate. Mancini ne ha vinta solo una in tre anni con l'Armenia, pareggiando due volte in casa con Polonia e Bosnia. Adesso bisognerà vincere per il Mondiale. Le prossime tre partite, soprattutto con lo scontro diretto con la Svizzera, assomigliano a una sentenza. Il gruppo si sta completando. Ieri è arrivato Lele Oriali, il team manager che ha rinnovato sino al Mondiale del 2022. Oggi sarà la volta di Vialli. Nella Nazionale del Mancio trova posto anche Zaniolo, che torna a un anno di distanza e sembra aver capito gli sbagli del passato: «Questo è un nuovo inizio - dice nell'esclusiva Rai -. Dopo i due gravi infortuni sono diverso come uomo e calciatore. Ho imparato la cultura del lavoro e spero di poter dare il mio contributo. La paternità mi ha fatto crescere e non ho paura di prendermi le mie responsabilità». 

Mauricìo Cannone per gazzetta.it il 13 luglio 2021. Jorginho, uno degli eroi azzurri di Wembley, ha rilasciato un'intervista a una tv brasiliana in auto mentre andava all'aeroporto di Fiumicino, a Roma, prima di imbarcarsi per le vacanze che trascorrerà in Grecia. E ha scherzato sul rigore sbagliato: "Era tutto sistemato. Sapevo che Donnarumma l'avrebbe parato - . Io do sempre tutto quello che ho per la squadra, ma purtroppo a volte non basta. Ho finito per sbagliare il rigore, e in quel momento mi è caduto il mondo addosso, perché volevo regalare la vittoria all'Italia. Per fortuna abbiamo questo fenomeno in porta (Donnarumma, ndr) che mi ha salvato". L'italo-brasiliano Jorginho, nato a Imbituba nello Stato di Santa Catarina ma con cittadinanza italiana dal 2012 per via di un trisavolo paterno, Giacomo Frello, torna a spiegare la scelta di giocare la nazionale azzurra: "Ho anche giocato nell'U21 per l'Italia. Non appena mi è arrivata la chiamata, ho accettato subito. Onestamente vedevo la nazionale brasiliana come qualcosa di lontano. Sono cresciuto in Italia (nelle giovanili del Verona, ndr) e l'Italia mi ha aperto delle porte. Insomma, onestamente non ci ho pensato due volte. Dopo l'Under 21, avevo giocato con la Nazionale maggiore azzurra solo amichevoli.” “A novembre 2017 arrivò la convocazione per lo 'spareggio' mondiale con la Svezia ma in quel periodo mi aveva cercato anche il Brasile. Edu Gaspar, ex coordinatore della nazionale verdeoro, mi aveva detto: 'Jorge, stiamo pensando di chiamarti, ma non posso garantire nulla. So che è difficile, parla con la tua famiglia'. E tutto si è complicato. Era il mio sogno d'infanzia giocare col Brasile. Ma sentivo che l'Italia aveva bisogno di aiuto, si giocava quella partita fondamentale con la Svezia. E quando ho avuto bisogno di aiuto, l'Italia mi ha aiutato, mi ha abbracciato e mi ha aperto le porte. Non mi sentivo a mio agio a voltarle le spalle. Il mio cuore ha detto “No, l'Italia ha bisogno di te”. Quindi ho fatto quella scelta e sinceramente ne sono molto contento.” Jorginho ha parlato anche della possibilità che possa vincere il Pallone d'oro: "Viviamo per i sogni. Ma sarò abbastanza onesto: dipende dai criteri che portano ad assegnarlo. Se parliamo di talento, sono consapevole di non essere il migliore al mondo. Se invece si sceglie in base ai titoli, be', nessuno ha vinto più di me in questa stagione. Come mi confronterò con Messi, Cristiano Ronaldo o Neymar? Loro hanno caratteristiche completamente diverse dalle mie, ma ripeto, dipende dai criteri". Il centrocampista del Chelsea ha poi confessato quelli che secondo lui sono i punti di forza della Nazionale azzurra, il gioco ma anche il gruppo: "Mancini ha adattato il gioco della squadra alle caratteristiche dei giocatori. C'è la sua mano. Se mi caricava l'inno italiano? L'inno toccava nel profondo tutti noi, perché il nostro è un gruppo molto speciale. Sapevamo che l'Europeo era molto importante per la rinascita della Nazionale dopo la mancata qualificazione del mondiale in Russia. E l'Italia stava soffrendo per la pandemia. Insomma, non ho un modo di spiegare l'energia della nostra squadra". Jorginho commenta pure la mancata vittoria del Brasile in Coppa America: "Con i giocatori che ha, la nazionale verdeoro sarà sempre una delle migliori al mondo. Se guardi i numeri, sono chiari. Subisce pochi gol, domina le partite. Purtroppo non ha vinto la Coppa America. Ma la squadra ha tutte le carte in regola per tornare a brillare, per vincere titoli, speriamo non contro di noi (ride, ndr)...".

Guido De Carolis per il “Corriere della Sera” il 13 luglio 2021. Nello spogliatoio del Chelsea lo chiamavano «Sarri's son». Nello stesso giorno in cui il club di Roman Abramovich mise sotto contratto il tecnico italiano, Jorginho firmò il suo con i Blues. Gli altri giocatori non intendevano certo insultarlo chiamandolo così, piuttosto prenderlo a esempio come l'uomo che più di tutti aveva capito il sistema di gioco del tecnico italiano, il «Sarri-ball», prima lodato poi diventato così noioso e odioso per i tifosi inglesi. Nel settembre 2018 Jorginho riuscì a completare 180 passaggi in una partita, un record per la Premier League. La domanda per tutti però era una sola: a che servono così tanti passaggi se non si riesce a segnare? Per la cronaca quel match, contro il West Ham, finì 0-0. Quando Sarri andò via, dopo una sola stagione coronata con la vittoria dell'Europa League, in tanti pensavano all'addio di Jorginho come qualcosa di naturale. Nessuno scommetteva sul centrocampista, tutti pensavano venisse emarginato dal nuovo coach Frank Lampard. Successe l'opposto. I tifosi, che non lo amavano perché testimonial del gioco di Sarri, lo rivalutano, gli riconoscono l'impegno e il grande lavoro a centrocampo, ammirano la capacità di giocare in un modo diverso, non solo con passaggi orizzontali, ma con lanci lunghi. Stamford Bridge da ostile si trasforma nella sua arena, con i fans sulle tribune a cantare il suo nome. Jorginho ha saputo reinventare se stesso, anche come rigorista, dopo tre penalty pesanti falliti contro Liverpool, Krasnodar in Champions e Arsenal. Tuchel, il tecnico del Chelsea, non ha voluto farne a meno e gli ha affidato le chiavi del centrocampo nella finale di Champions League vinta contro il Manchester City. La parabola di Jorginho non è quella del figliol prodigo, il centrocampista brasiliano non se n'è mai andato, c'è sempre stato, diventando un inamovibile della Nazionale di Mancini. Senza di lui non si va in campo. I compagni lo chiamano il professore, lui, timido com' è, ribatte: «Ma professore di cosa?». In campo però Jorginho è un maestro per davvero. In questo mese di certo è stato il brasiliano più amato d'Italia e non solo perché ha scelto la Nazionale azzurra facendo arrabbiate Tite, il c.t. della Seleçao, ma anche per quello che alla squadra di Mancini è riuscito a restituire. È insostituibile. La mente di sicuro, spesso anche il braccio, gentile ma potente e decisivo. Come nella semifinale contro la Spagna, quando si è caricato il peso del rigore decisivo con cui ha spedito l'Italia in finale, dove poi ha fallito il penalty, un errore indolore alla fine. L'orchestra azzurra suonava per l'Europa e le suonava agli avversari, seguendo le indicazioni del direttore Jorginho, l'allenatore in campo di Mancini. Oltre a far girare il pallone è stato lui a guidare i movimenti, anche senza palla, della squadra. I compagni lo hanno soprannominato il vigile urbano. Quasi naturale chiedergli se da grande farà l'allenatore? «Non ci ho pensato però mi sembra troppo stressante», ha risposto con sincerità. È stato il miglior regista del torneo, ma forse del Continente e ora che l'Italia ha vinto l'Europeo, potrebbe portarsi a casa il prossimo Pallone d'Oro. Jorginho è l'essenzialità del centrocampista, preciso e lucido, eccezionale nei movimenti senza palla. Saper leggere lo sviluppo dell'azione in anticipo è la qualità che lo fa spiccare. Il suo Europeo è stato sontuoso. Sì, con la Spagna è andato un po' in difficoltà, è stata la partita più difficile, si è riscattato tirando con freddezza e maestria l'ultimo rigore, il più difficile. «Dopo che hai calciato la palla senti come se ti fossi liberato da un peso. Ho cercato di isolarmi dal mondo e dimenticare tutto quello che stava succedendo intorno a me», ha raccontando, spiegando quei momenti così carichi di apprensione e adrenalina. La sua è una favola da raccontare ai bambini, soprattutto a chi intende cominciare a giocare a calcio. Cresciuto nel Verona, vivendo in convento, è arrivato sino a Londra, città che ha imparato ad amare con il tempo. E ora, proprio a Londra, casa sua, si è preso qualcosa di impensabile. Vederlo festeggiare felice a Wembley, come ha fatto a Oporto per la finale di Champions, è stato il giusto riconoscimento. Una sorta di oscar per il regista del trionfo, perché questo è stato Jorginho, l'uomo che più di altri ha scritto una storia inaspettata e diversa, un film di successo che si è fatto strada tra i kolossal per scrivere una favola azzurra.

Salvatore Riggio per corriere.it l'8 luglio 2021. Glaciale. L’esecuzione perfetta di Jorginho dagli 11 metri ha fatto il giro del mondo. Il centrocampista, oggi al Chelsea, ha realizzato il rigore decisivo che ha eliminato la Spagna dagli Europei e regalato alla Nazionale la quarta finale dopo quelle del 1968, 2000 e 2012. Il gioco di Roberto Mancini passa dai suoi piedi, dalla sua tecnica. Ha già vinto la Champions con il Chelsea (e assieme a lui anche Emerson Palmieri) e prova a conquistare la vetta d’Europa pure con l’Italia. Chiuderà la sua stagione con 56 partite, mica male. Scopriamo i segreti di uno dei giocatori simbolo della rosa del c.t. Mancini.

Il trisnonno di Vicenza, la mamma calciatrice. Jorginho è nato a Imbituba, Santa Catarina, Brasile, il 20 dicembre 1991. Ha la cittadinanza italiana «iure sanguinis» per il suo trisavolo paterno, Giacomo Frello, che ha lasciato Santa Caterina di Lusiana Conco, in provincia di Vicenza, per cercare fortuna in Brasile. È figlio di un’ex calciatrice. Sì è trasferito in Italia all’età di 15 anni.

Gli inizi al Verona. Inizia a giocare a calcio nelle giovanili del Verona. Conquista il centrocampo degli scaligeri nel 2011, in serie B. Nel 2013 gioca 41 gare in campionato e guida l’Hellas alla promozione in A. Il 24 agosto 2013 contro il Milan fa il debutto nella massima serie, poi a gennaio 2014 passa al Napoli e ci resta fino al 2018 (160 presenze, sei gol). Quell’estate si trasferisce in Premier, al Chelsea. Vincendo un’Europa League con Maurizio Sarri (che lo aveva allenato a Napoli) e una Champions con Thomas Tuchel. Il suo soprannome è il «Professore».

Jorginho in Nazionale. Con la Nazionale fino a questo momento ha collezionato 34 presenze, segnando cinque reti. Curiosità: il suo debutto in azzurro risale al 24 marzo 2016 nell’amichevole di Udine giocata proprio contro la Spagna. Che in semifinale ha cercato di governare in una gara davvero difficile. Fino al rigore decisivo.

La sua passione: la pasta. Ha una grande passione: la pasta (e la pizza). A Londra ha un ristorante preferito, Gola. C’è andato nei giorni di riposo post finale di Champions vinta contro il Manchester City, prima di sbarcare a Coverciano e iniziare l’avventura europea.

I problemi di ambientamento a Londra. Per Jorginho non è stato facile ambientarsi a Londra. In fin dei conti, è nato in Brasile e ha vissuto in una città come Napoli, baciata dal sole. Ma dopo tre anni, la capitale inglese ha conquistato il cuore (anche se magari non completamente) del regista della Nazionale.

La vita privata. In passato è finito al centro del gossip per il matrimonio in crisi con Natalia (mamma dei primi due figli, Victor e Alicia). Non solo. Anche per il presunto flirt con una traduttrice del Chelsea e la storia con Catherine Harding, ex dell’attore Jude Law, mamma del suo terzo figlio, Jax. I due ora stanno insieme. Inoltre, Jorginho sul proprio profilo Instagram ha poco più di 1,8 milioni di follower.

Il rapporto con la madre. Jorginho ha un rapporto speciale con sua madre, Maria Tereza, ex calciatrice dilettante. Quando era in attesa, nel 1991, la donna aveva promesso a se stessa che – se fosse stato un maschio (come poi è stato) – gli avrebbe trasmesso la passione per il calcio. E così è stato. Oggi Jorginho è uno dei giocatori più forti in Europa.

Il Verona e il monastero. Quando i genitori hanno divorziato, Jorginho con la madre ha lasciato il Brasile per raggiungere i nonni in Italia, vicino Verona. È stata lei a comprargli il pallone, i primi scarpini e anche a insegnargli i primi fondamentali. Il Verona gli trova posto in un monastero: «Eravamo in sei in una stanza, ci siamo stati per un anno e mezzo, e ci pagavano 20 euro a settimana. I monaci ci trattavano benissimo, erano sempre molto rispettosi. Si prendevano cura di noi e il cibo era eccellente», ha raccontato il centrocampista del Chelsea.

La crisi e l’incitamento di mamma. A un certo punto Jorginho sembra voler lasciare tutto. Arriva a un punto che non ama più il calcio. O almeno crede così. Invece, la madre interviene: «Se lasci, a casa non torni. Devi resistere». Mai consiglio, nella vita del centrocampista della Nazionale, è stato migliore di questo.

Il rapporto con Maurizio Sarri. Al Napoli Jorginho ha conosciuto Maurizio Sarri, suo allenatore. Il tecnico, oggi alla Lazio, gli ha insegnato a prendersi cura del suo corpo anche con particolare attenzione all’alimentazione. Dettagli importanti nella vita di un giocatore. Anche perché Jorginho ha una grande passione, la pasta appunto. Oggi Jorginho ha un’ottima visione di gioco, imposta ed è bravo anche in fase difensiva. Fa tutto quello che un regista arretrato dovrebbe fare in campo.

Hobby e moda. Tra calcio e cucina, Jorginho ha un’altra grande passione: la moda (veste Dolce e Gabbana). Il giocatore del Chelsea ha una passione per i marchi italiani ma non ha uno stile eccentrico, anzi piuttosto classico è ricercato.

Da tuttonapoli.net l'8 luglio 2021. "L’altro giorno ho sentito un giornalista chiedere a Jorginho se stesse pensando al Pallone d’Oro. A uno del genere gli strapperei il patentino, come si fa a fare certe domande o a pensare che Jorginho possa vincere il Pallone d’Oro? Pura follia”. Questa la frase pronunciata nei giorni scorsi da Antonio Cassano ai microfoni della BoboTv, esternazione che puntualmente è stata ripresa dai social per ironizzare su Cassano, finito nel bersaglio dell'ironia social dopo il rigore decisivo calciato da Jorginho contro la Spagna. 

Ivan Zazzaroni per il "Corriere dello Sport" l'8 luglio 2021. Il rigore di Jorginho-Giorgino me lo sono goduto un paio di volte anche con la telecronaca araba, trovando tremendamente divertente il momento in cui il Caressa di Riyad, l’agitatissimo e coinvolgente Fab Al Karess, improvvisa un “Bella ciao, bella ciao, ciao ciao». Se avesse aggiunto «andiamo a Londra, Hassan!» l’avrei abbracciato. A distanza. Jorginho è nella favola, esaltato - oggi - anche da inglesi, francesi e arabi, e rimpianto dai brasiliani. «Parliamo di un calciatore raffinato, se vincesse l’Europeo meriterebbe il Pallone d’oro» così l’ha incoronato nei giorni scorsi Maurizio Sarri. «Deve essere capito bene, bisogna guardarlo attentamente, è un grandissimo calciatore. Stava firmando per il City, ma grazie a un intermediario riuscimmo a portarlo al Chelsea (l’episodio è all’origine della rottura dei rapporti tra i Citizens e il Napoli, nda). Non fu capito subito, ma in seguito venne molto apprezzato. Sono felicissimo per quello che sta facendo». E felicissimi anche noi, che martedì sera siamo rimasti incantati dalla freddezza dell’azzurro quando si è incaricato di decidere la semifinale con la Spagna: Unai Simon da una parte, il pallone lento, beffardo e preciso dall’altra, e poi l’urlo dell’Italia, e i caroselli per le strade, e il collega bloccato - ma felice e rassegnato - intorno all’una e mezza sotto il Muro torto, e la sinfonia dei clacson, e le bandiere. A quasi trent’anni Jorge Luiz Frello Filho è nella piena maturità: meriterebbe il Pallone d’oro - e di interrompere il dominio di Ronaldo e Messi - anche se non dovesse vincerla, la finale di Wembley: nella stagione della consacrazione internazionale ha portato a casa la Champions League battendo proprio il City di Guardiola, raggiunto la finale di FA Cup, persa con il Leicester, e si è imposto nel ruolo di “Professor Play” della sorprendente Italia di Mancini. Non sono mai stato un fan del Pallone d’oro, essendo cresciuto professionalmente nei primi anni Ottanta con il Guerino d’oro che è considerato il padre di tutti i premi individuali del calcio mondiale. Tuttavia mi rendo conto che, anche se negli anni non si è mai capito quale fosse il criterio di assegnazione seguito da una giuria fin troppo eterogenea e fantasiosa (i titoli stagionali?, la popolarità?, la simpatia?, il conto in banca?, lo standing?, i follower?, l’alito?) per i calciatori ha un valore enorme e ne certifica il successo - per Ronaldo è da sempre un’ossessione. Nei giorni scorsi Andrea Santoni ha ricordato i nove giocatori che sono riusciti a centrare il double Champions-Europeo nello stesso anno: Luisito Suarez nel ’64, Van Breukelen, Ronald Koeman, van Aerle e Vanenburg nell’88, Torres e Mata nel 2012, Ronaldo e Pepe nel 2016. In realtà hanno realizzato la doppietta anche Kieft (’88) e Anelka (2000), ma senza giocare la finale. Il Pallone d’oro a Jorginho lo considero inevitabile, anche per l’assenza di una concorrenza all’altezza e per l’esclusività del repertorio: lui è il centrocampista che inquadra e prevede, rimonta e connette tutti gli snodi del gioco. E sempre più di rado perde di concretezza. Oltre a Sarri, anche Tuchel e Mancini sono disposti a sostenerne la candidatura. Ripensando agli “oriundi” del passato, spesso incapaci per natura o per scelta, di togliersi di dosso l’identità calcistica del Paese natale, rilevo che Jorginho si è scoperto espressione compiuta del più raffinato calcio italiano, come quel Cesarini da Senigallia che nel 1931 inaugurò la zona dei sogni. 

(ANSA il 12 luglio 2021) - Dall'Ue e dalla Germania arrivano le congratulazioni per la vittoria dell'Italia agli Europei di calcio, con la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, "molto contenta" per la vittoria degli Azzurri, mentre la cancelliera tedesca Angela Merkel ha fatto i suoi "auguri" alla squadra e al Paese. Von der Leyen "aveva detto prima della partita che tifava per la squadra italiana ed è ovviamente molto contenta di questo risultato", ha detto il portavoce dell'esecutivo comunitario, Eric Mamer. Interrogato su quale sia la vera dimora del calcio - giocando sul motto inglese "It's coming home", diventato "It's coming Rome" dopo la vittoria italiana - Mamer si è limitato a dire che "spetta a ciascuno di noi rispondere a questa domanda nella propria anima e nella propria coscienza" ma "non esiste una posizione ufficiale della Commissione Ue". "Posso esprimere da parte della cancelliera e del governo tedesco gli auguri alla squadra e a tutto il Paese, per questo favoloso torneo", ha detto il portavoce del governo tedesco, Steffen Seibert, rispondendo a una domanda in conferenza stampa a Berlino, sulla vittoria degli Italiani ieri agli europei. 

Euro2020, l'impresa azzurra vista dai giornali stranieri: in Scozia Mancini diventa "re Bruce". Francesco Cofano su La Repubblica il 12 luglio 2021. L'impresa dell'Italia viene celebrata anche all’estero. I giornali scozzesi e irlandesi esaltano gli azzurri. Vista la rivalità con l'Inghilterra, alla vigilia della finale si erano schierati apertamente con l’Italia. Sul "The National", giornale indipendentista scozzese, il ct Roberto Mancini viene paragonato prima all’eroe nazionale William Wallace, interpretato da Mel Gibson in "Braveheart", e poi al re di Scozia, Roberto I Bruce. Solo complimenti, invece, per l'Italia sui giornali "neutrali": l'Equipe, quotidiano sportivo francese, definisce "invincibili" gli azzurri mentre per lo spagnolo As la nazionale è "bravissima".

Dall’Huffington Post il 12 luglio 2021. “Invincibili” secondo il francese l’Equipe, “Bravissima” titola lo spagnolo As, “I nuovi imperatori” per il portoghese A Bola. L’Italia viene celebrata dai principali quotidiani sportivi europei dopo la vittoria sull’Inghilterra nella finale di euro 2020. Marca titola “Wembleyazo” per sottolineare la sconfitta in casa dell’Inghilterra, riecheggiando il “Maracanazo” del 1950 quando il Brasile perse in patria contro l’Uruguay. Subito dopo la vittoria di Donnarumma e compagni, sui siti dei quotidiani sono apparsi titoli che hanno descritto il trionfo azzurro. Si va dalla felicità de L’Equipe, sullo sfondo della comitiva azzurra con la coppa al cielo di Londra, alla Bbc, che scrive: “Italia campione di euro 2020 mentre l’Inghilterra subisce il dolore dei rigori”. In Spagna, As evidenzia la prova del portiere azzurro scrivendo “Donnarummazo en Wembley’. Per Marca, invece, è stata una “Eterna Italia”. E poi la Bild. Più che celebrare l’Italia, il quotidiano tedesco critica l’Inghilterra: “Calci di rigore! Inghilterra, ancora una volta niente!”. I quotidiani inglesi invece scelgono la parola “orgoglio” per i Leoni d’Inghilterra guidato da Gareth Southgate, ancora una volta a secco in una competizione internazionale. “Il mondiale è solo fra un anno e mezzo” scrive in prima pagina The Sun.

Da ansa.it il 12 luglio 2021. Bagno di folla per gli azzurri del calcio campioni d'Europa e Matteo Berrettini, ieri protagonista della finale di Wimbledon. I giocatori della Nazionale di Roberto Mancini, usciti da Palazzo Chigi, sono saliti a bordo del bus scoperto che attraverserà Roma, non prima di essersi goduti il calore dei tifosi concedendosi con alcuni per i selfie. Dal livello superiore del bus gli azzurri hanno issato al cielo il trofeo, scatenando l'ovazione delle centinaia di persone raccolte attorno a piazza Colonna. Poi assieme alla gente hanno cantato l'inno nazionale. Secondo quanto previsto, il bus percorrerà via del Corso, piazza Venezia, e risalirà via del Tritone verso via Veneto fino all'albergo del ritiro. Gli Azzurri e Berrettini da da Draghi a Palazzo Chigi. Il premier Mario Draghi ha accolto davanti al portone di Palazzo Chigi gli azzurri del calcio campioni d'Europa. In piazza Colonna, Draghi ha stretto la mano al capitano Giorgio Chiellini, che portava il trofeo, e poi anche a Matteo Berrettini, il primo tennista italiano in finale a Wimbledon. Poi il premier e i suoi ospiti sono entrati nel cortile di Palazzo Chigi. "Un saluto collettivo e un ringraziamento profondo dal governo, e anche da tutto lo staff di Palazzo Chigi che è affacciato alle finestre e vi guarda qui da sopra. I vostri successi sono stati straordinari". Lo dice il premier Mario Draghi parlando alla Nazionale azzurra e a Matteo Berrettini a Palazzo Chigi. "Oggi lo sport segna in maniera indelebile la storia delle nazioni. Oggi siete voi a essere entrati nella storia, con i vostri sprint, i vostri servizi, i vostri gol e le vostre parate". Lo dice il premier Mario Draghi parlando alla Nazionale e a Matteo Berrettini. Quindi il premier si interrompe e guardando Gigio Donnarumma sottolinea: "e che parate...". E subito scatta l'applauso di tutti i presenti. "Ci avete messo al centro dell'Europa, come dimostrano i messaggi di ringraziamento arrivati anche a me in queste ore". "Ci avete fatto emozionare, commuovere, gioire, abbracciare. Io sono sempre stato orgoglioso di essere italiano. Quello di cui ci avete reso orgogliosi è di essere uniti in queste celebrazioni in nome dell'Italia", dice il premier Draghi parlando alla Nazionale di calcio e al tennista Matteo Berrettini. "Il calcio e la Nazionale concorrono a fare il nostro Paese più credibile, stimato, inclusivo e ricco: tutte le maggiori ricerche stimano l'impatto della grande vittoria di ieri nello 0,7% del Pil". Lo ha detto il presidente della Figc, Gabriele Gravina, al premier Mario Draghi che ha ricevuto gli azzurri campioni d'Europa a Palazzo Chigi: "Gli azzurri rappresentano un esempio positivo, un messaggio di bellezza che fa bene all'Italia, in termini di passione e fiducia per il futuro, ma anche economici: la vittoria, attraverso bel gioco e identità ben definita, è un incentivo a dare sempre il meglio di noi stessi in ogni settore".

UN ACCOGLIENZA DA BRIVIDI PER LA NAZIONALE DI CALCIO RIENTRATA A ROMA. Il Corriere del Giorno il 12 Luglio 2021. I campioni d’Europa sono stati accolti da un maxi striscione di Aeroporti di Roma con la scritta “Grazie azzurri”. L’Italia nel pomeriggio sarà ricevuta alle 17 al Quirinale dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ed alle 18 a Palazzo Chigi dal premier Mario Draghi. La Nazionale italiana è atterrata questa mattina alle 6:06 a Roma all’aeroporto di Fiumicino con il volo AZ 9001, proveniente da Londra Luton dopo il trionfo nella finale dei campionati europei di calcio a Wembley contro l’Inghilterra. Un boato tributato dalle decine di operatori aeroportuali di Fiumicino che si sono radunati sotto il velivolo con applausi e cori ha accolto Mancini e Chiellini quando sono apparsi in cima alle scalette dell’aereo. Bonucci il più scatenato, ha intonato “I campioni dell’Europa siamo noi”. Foto ricordo e ringraziamenti a tutti gli azzurri, apparsi entusiasti e commossi. I campioni d’Europa sono stati accolti da un maxi striscione di Aeroporti di Roma con la scritta “Grazie azzurri”. Dopo l’atterraggio all’aeroporto di Fiumicino la nazionale italiana campione d’Europa è arrivata all’hotel Parco dei Principi quartier generale azzurro nella Capitale. Ad attendere Chiellini, che è sceso dal bus con una corona in testa, e compagni un nutrito gruppo di tifosi.  Da lontano fino alla piazzola del velivolo arrivava il suono delle trombe delle centinaia di tifosi radunatisi nella zona arrivi, i quali però non hanno potuto accogliere gli azzurri. Sono ragazzi con bandiere tricolori che cantano: “I campioni dell’Europa siamo noi” e “Po po po po”. La coppa portata trionfalmente da Chiellini con la divertente corona in testa, Bonucci avvolto dal tricolore, Spinazzola che roteava le stampelle in segno di vittoria. Chiesa felicissimo e Donnarumma premiato come miglior giocatore del torneo e uomo decisivo nella lotteria dei rigor acclamato come un trionfatore. Ma a sfilare con il sorriso intriso di gioia sono stati anche tutti gli altri: Jorginho, Insigne, Immobile, Florenzi Pessina e Locatelli. “Bellissimo tornare a Roma con la Coppa”, le poche ma chiare parole di Gabriele Gravina, presidente FIGC, al momento del rientro della Nazionale a Roma. Il c.t. Mancini ne ha approfittato per andare a casa e poter passare qualche ora in famiglia, per poi rientrare in albergo per il pranzo ufficiale con la squadra, staff e dirigenti. La FIGC sta cercando di capire se ci possa essere la possibilità di festeggiare nella Capitale con i tifosi il trionfo europeo, ovviamente nel rispetto delle normative attuali in materia di Covid. L’Italia nel pomeriggio sarà ricevuta alle 17 al Quirinale dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ed alle 18.30 a Palazzo Chigi dal premier Mario Draghi. La vittoria dell’Italia è stata celebrata dai più importanti giornali stranieri. ‘La felicità‘ titola il francese l’Equipe, sullo sfondo della comitiva azzurra con la coppa al cielo di londra. In Spagna, As sottolinea le prodezze del portiere azzurro “Donnarummazo en Wembley‘. Per Marca è ‘eterna Italia‘. In Germania, la Bild, critica gli avversari degli Azzurri in finale: “Inghilterra, ancora una volta niente!”. E poi la Scozia. Il quotidiano the National, alla vigilia, aveva trasformato Roberto Mancini in Braveheart e titolato “salvaci Roberto, sei la nostra… Speranza finale!". Dopo la finale scrive: "il calcio va a Roma, continuano 55 anni di dolore per l’Inghilterra".

Euro 2020, Mario Draghi ringrazia la Nazionale: "Siete voi ad essere entrati nella storia" e poi cerca Gigio Donnarrumma: "Che parate..." Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. "Oggi siete entrati nella storia con i vostri sprint le vostre parate e che parate...". Così il presidente del Consiglio Mario Draghi si è rivolto ai calciatori della Nazionale e poi, in particolare, a Gigio Donnarumma ("'Ndo stai"), portiere dell'Italia, durante la cerimonia a palazzo Chigi. Le parole di Draghi sono state salutate da un boato e da un lungo applauso dei dipendenti di palazzo Chigi e degli stessi calciatori della Nazionale dopo i complimenti a Donnarumma. Applausi a scena aperta per il portiere dell'Italia e tante risate per la battuta, fuori protocollo, alla Alberto Sordi del premier che così si fa anche perdonare l'errore, quando nel ricordare Mennea lo chiama Piero e non Pietro.

Da sport.sky.it il 12 luglio 2021.

Mattarella a Berrettini: "Quel primo set vale come una vittoria". Ancora Mattarella. "Avete meritato il tifo dell'Italia, così come lo ha meritato Matteo Berrettini. Nel nostro tennis ci sono sempre più protagonisti e nuove energie che crescono. Arrivare alla finale di Wimbledon è un grande traguardo e la conquista del primo set equivale a un grande traguardo. Ho seguito il match con speranze, prima di partire per Londra".

Mattarella: "Vittoria meritata ben prima dei rigori". Parla Mattarella, dopo aver ricevuto in dono un gagliardetto dalla Nazionale e una maglietta. "Oggi è il giorno degli applausi. Ieri abbiamo seguito con il presidente Gravina la vittoria della Nazionale. Ieri sera avete meritato di vincere ben aldilà dei rigori: perché avete disputato la partita con due handicap, il tifo a sfavore e il gol subito a freddo. E' stata un'impresa meritata"

Berrettini: "Spero un giorno di tornare qui con il trofeo di Wimbledon". "Per me è un sogno essere qui e un sogno aver partecipato alla finale con Djokovic. Spero di tornare qui con un trofeo più importante per rendere ancora più orgogliosi tutti voi". Così Berrettini al Quirinale prima di consegnare la sua racchetta in dono a Sergio Mattarella.

Chiellini a Berrettini: "Non smettere mai di sognare". Chiellini ha parole al miele anche per Berrettini. "Ti abbiamo tifato come un fratello, non smettere mai di sognare".

Chiellini: "Vittoria dedicata ad Astori". Parla il capitano Chiellini: "Vogliamo dedicare la vittoria al presidente Mattarella, a tutti gli italiani e a Davide Astori. Davide è sempre presente nei nostri pensieri. Questo successo è una vittoria di gruppo, di chi è riuscito ad anteporre il bene collettivo al singolo. Non siamo qui perché abbiamo segnato un rigore in più, ma perché abbiamo creduto nei valori dell'amicizia".

Mancini: "Vittoria dedicata agli italiani". "Abbiamo costruito una delle più belle pagine della storia del calcio. Dedichiamo la vittoria agli italiani e faccio i complimenti anche a Berrettini. Sono sicuro che tornerà a Wimbledon e vincerà un giorno". Così Mancini in chiusura del suo intervento al Quirinale.

Mancini: "Grazie Mattarella, lei nostro primo tifoso". Parola al ct Mancini. "Siamo orgogliosi di essere qui al Quirinale. Ringrazio Mattarella per essere stato il primo tifoso della Nazionale".

Binaghi: "Berrettini ragazzo qualunque cresciuto nel nostro Paese". "Noi del tennis non siamo abituati a questi straordinari successi. Lo strepitoso successo della Nazionale di calcio è il coronamento di un sogno, ma per noi Wimbledon no: siamo 144 anni che proviamo a raggiungere la finale e siamo emozionati perché impreparati. Berrettini era un ragazzo qualunque, che si è costruito ogni giorno nel nostro Paese". Così il presidente della Federtennis Angelo Binaghi.

Gravina. "Nazionale grande bellezza, nel gioco e nei valori". "Il più grande lascito di questa nazionale è non solo la grande bellezza del gioco, ma anche dei valori. E' animata da sentimenti veri che comunicano un senso di coesione e sentimenti veri. Oggi siamo ancora più fieri di essere italiani". Lo ha detto Gravina, a conclusione del suo discorso al Quirinale.

Gravina: "Questa Nazionale è il simbolo dell'Italia". "Questa Nazionale è l'Italia. Gli Azzurri sono il simbolo di un Paese ferito ma caratterizzato da una grande voglia di ripresa. La pandemia ci ha messo a dura prova, ma grazie alla guida del presidente Mattarella abbiamo intrapreso un percorso di rinascita come la nostra Nazionale". Così Gabriele Gravina durante la cerimonia al Quirinale.

Gravina: "Un onore essere ricevuti al Quirinale". Ora parola a Gabriele Gravina, presidente della Figc. "E' un onore essere ricevuti al Quirinale come lo è stato ieri, quando abbiamo condiviso una notte indimenticabile. Wembley è già nella storia del nostro Paese e ci ha consentito di alzare il trofeo dopo 53 anni. A nome di tutta la delegazione italiana la ringrazio per essere intervenuto, dimostrando sensibilità umana e istituzionale".

Malagò: "Sport italiano forte come mai prima". Ancora Malagò. "E' stato straordinario il comportamento dei nostri ragazzi. Ci hanno fatto sentire tutti orgogliosi di essere italiani. Sono fiero di rappresentare oggi tennis e calcio. Lo sport italiano, oggi come mai, è forte e apprezzato come mai".

Malagò: "Grazie Mattarella, sensibilità encomiabile per lo sport". Il primo a parlare è il presidente del Coni Giovanni Malagò. "Grazie al presidente Mattarella per questa iniziativa organizzata con immediatezza delle vicende sportive. Con la sua proverbiale sensibilità nei confronti del nostro mondo ha voluto pensare ai nostri protagonisti a prescindere da come sarebbero andate le due finali"

LA NAZIONALE E MATTEO BERRETTINI RICEVUTI AL QUIRINALE E PALAZZO CHIGI. POI LA FESTA PER LE STRADE DI ROMA. Il Corriere del Giorno il 12 Luglio 2021. Il pullman dell’Italia è stato bloccato dalla folla nel centro di Roma mentre cerca di raggiungere Palazzo Chigi dal Quirinale, che dista appena 700 metri. Il centro paralizzato dai tifosi. Dopo il trionfo di Wembley l’Italia di Mancini oggi pomeriggio è stata ricevuta al Quirinale dal presidente della Repubblica. Il pranzo in hotel. La notte del capitano con il trofeo e il grazie di Cannavaro: “Grazie a voi oggi è più bello essere italiani” . Gli azzurri sono arrivati in pullman e i primi a scendere sono stati il capitano Giorgio Chiellini e il ct Roberto Mancini, tenendo in mano il trofeo. La piazza antistante il Quirinale è stata chiusa e sono giunti alla spicciolata diversi tifosi con bandierine tricolore, magliette dei calciatori azzurri e trombette, per accogliere il pullman degli azzurri. All’inizio della cerimonia gli azzurri campioni d’Europa hanno cantato, senza risparmiare la voce, l’inno nazionale. Anche il capo dello Stato ha scandito le parole dell’inno, suonato da una banda militare nei giardini del Quirinale. Dopo l’esecuzione dell’Inno Nazionale e la proiezione di un breve filmato realizzato dalla Rai, sono intervenuti: Giovanni Malagò, Presidente del Comitato Olimpico Nazionale Italiano, Gabriele Gravina, Presidente della Federazione Italiana Giuoco Calcio, Angelo Binaghi, Presidente della Federazione Italiana Tennis, Roberto Mancini, Commissario tecnico, Giorgio Chiellini, Capitano della Nazionale e Matteo Berrettini. “Vorremmo dedicare questa vittoria a Davide Astori, che ho conosciuto e che avremmo voluto qui con noi oggi. Questa vittoria è per lei, che è stato il nostro primo tifoso – ha aggiunto Chiellini rivolgendosi a Mattarella – e ai milioni di italiani nel mondo che non ci hanno mai fatto sentire soli. Non abbiamo vinto l’Europeo per un rigore in più, ma per l’amicizia che ci ha legato in questa avventura: abbiamo tifato Matteo Berrettini, ci siamo sacrificati e aiutati. Ci siamo sentiti fratelli d’Italia, rispondendo a quanto ci aveva chiamato il nostro Paese”. “Siamo orgogliosi di essere qui al Quirinale – le dichiarazioni di Mancini – Grazie al presidente per essere stato il nostro primo tifoso, insieme ai tanti italiani che a Londra, Monaco, Firenze e Roma ci hanno incitato. Il Paese è finalmente tornato a festeggiare, siamo soddisfatti di aver dato emozioni, scrivendo una delle pagine più belle del nostro calcio. La vittoria la dedichiamo agli italiani. Faccio i complimenti a Matteo Berrettini, abbiamo sofferto con lui, siamo convinti che tornerà a vincere a Wimbledon. Questa vittoria è la dimostrazione che quando si crede fermamente in ciò che si fa, è possibile inseguire un sogno apparentemente irrealizzabile”. Il pullman dell’Italia è stato bloccato dalla folla nel centro di Roma mentre cerca di raggiungere Palazzo Chigi dal Quirinale, che dista appena 700 metri. Il centro paralizzato dai tifosi. Il capo dello Stato, Sergio Mattarella, nel suo discorso rivolto alla Nazionale italiana e a Matteo Berrettini ha ringraziato in modo particolare Gianluca Vialli: “In TV ha espresso sentimenti ed emotività che tutti avvertivamo. Questo non è giorno di discorsi ma di applausi e ringraziamenti. Complimenti! Ieri sera avete meritato di vincere ben al di là dei rigori perchè avete avuto due pesanti handicap: giocare in casa degli avversari in uno stadio come Wembley e il gol a freddo che avrebbe messo in ginocchio chiunque. Siete stati accompagnati e circondati dall’affetto degli italiani e li avete ricambiati rendendo onore allo sport. Così come ha fatto Matteo Berrettini, la rimonta del primo set equivale a una vittoria. Negli Europei avete reso onore allo sport per diversi motivi, avete vinto esprimendo un magnifico gioco che ha fatto divertire tutti. Avete reso onore allo sport, avete manifestato il legame comune che vi ha unito e armonia di squadra e questo è di straordinario valore. Un ringraziamento a Roberto Mancini: la fiducia che ha sempre manifestato, la rivoluzione nell’impostazione del gioco, l’accurata preparazione di ogni partita. Grazie, grazie davvero Mancini. Faccio anche i complimenti a Donnarumma per essere il miglior giocatore del torneo. E voglio far mio il ricordo di Davide Astori. E poi Spinazzola che con le stampelle è riuscito a precedere tutti alla premiazione”. Dopo gli incontri istituzionali finalmente il bagno di folla per le vie della Capitale sul pullman scoperto, con i calciatori azzurri scatenati e pazzi di gioia. Bonucci e Chiellini in marcatura stretta sulla coppa, Bernardeschi tra i più sfrenati, con Berrettini che si è unito ai festeggiamenti sul bus italiano. Il bus della Nazionale è stato accompagnato dai tifosi che hanno invaso le strade di Roma, con Roberto Mancini ed i suoi giocatori che filmano tutto con il cellulare, un entusiasmo generale incontenibile. Un muro di italiani ha abbracciato la Nazionale, sventolando le bandiere tricolori. Un vero e proprio delirio azzurro. Il premier Mario Draghi nel suo intervento ha detto: “Ci avete fatto emozionare e commuovere, gioire, abbracciare. lo sono sempre stato orgoglioso di essere italiano, sempre. Ma questa volta noi abbiamo festeggiato insieme le vostre vittorie e quello di cui ci avete resi orgogliosi è di essere uniti in questa celebrazione, in nome anche dell’Italia. Oggi lo sport segna in maniera indelebile la storia delle nazioni. Ogni generazione ha i suoi ricordi. La Coppa Davis del ’76. L’urlo di Marco Tardelli nella finale dell’82. Il record del mondo a Città del Messico di Pietro Mennea sui 200 metri piani. Francesca Schiavone e Flavia Pennetta che vincono sui campi del Roland Garros e di Flushing Meadows. I secondi posti della nazionale di calcio ai Mondiali del ’94 e agli Europei del 2000, fino al trionfo nella notte di Berlino”. “Oggi siete voi a essere entrati nella storia – ha aggiunto il premier Draghi – Con i vostri sprint, i vostri servizi, i vostri gol e le vostre parate – e che parate! Con lo spirito di squadra, il gioco di squadra forgiato dal Commissario Tecnico, Roberto Mancini. Con i vostri sforzi e i vostri sacrifici – penso tra l’altro alle lacrime di Leonardo Spinazzola.  E non sono qui, ma voglio ringraziare tutte le vostre famiglie che vi hanno sostenuto. Si parlava prima della famiglia di Matteo, ma tutti voi avete una famiglia che vi ha sostenuto, vi ha incoraggiato, è stata paziente. Tutti noi abbiamo avuto questa famiglia, ma nel caso vostro devono essere state molto più pazienti. Quindi brave mogli, brave famiglie e bravi nonni anche”. “Avete rafforzato in tutti noi il senso di appartenenza all’Italia – ha continuato il Presidente del Consiglio – E ci avete messo al centro dell’Europa, come dimostrano i tanti messaggi di congratulazioni arrivati in queste ore, anche a me personalmente. Lo sport insegna, unisce e fa sognare.  È – si dice una parola un po’ così, però è vero – un grande ascensore sociale, è un argine al razzismo, è uno strumento di coesione, soprattutto in periodi difficili come quello che abbiamo vissuto. Il Governo ha deciso di investire nell’attività sportiva – molto – specialmente e soprattutto in quella per i più giovani e anche nelle scuole. E per questo voglio ringraziare la Sottosegretaria Vezzali che ha fatto molto per dirigere l’investimento anche in questo settore. Ma vogliamo anche aiutare la prossima generazione di campioni, come diceva il presidente Binaghi “nel tennis c’è molto, già”, occorre coltivare”. “Quella che cresce oggi vede in voi il proprio modello. Voi siete dei modelli, pensavo per più generazioni. Siete dei modelli anche per noi. Concludo facendo i miei più sentiti auguri a tutti gli atleti e le atlete che parteciperanno alle Olimpiadi di Tokyo.  L’Italia vi accompagna nella vostra rincorsa verso la gloria delle Olimpiadi. Abbiamo voglia, tanta voglia, di vivere altre notti magiche come quelle che abbiamo vissuto in questi giorni, soprattutto naturalmente anche ieri. Grazie” ha concluso Draghi nel suo intervento.

Piergiorgio Odifreddi per "la Stampa" il 14 luglio 2021. Nel suo editoriale di domenica il direttore non ha voluto scomodare lo scrittore Albert Camus, che sosteneva: «tutto quello che so della vita l'ho imparato su un campo di calcio». Vorrei però provare a scomodarlo io, per due motivi. Anzitutto, per ricordare che Camus ha imparato la vita in un paesino algerino, vergognandosi della sua povertà e della sua famiglia di coloni francesi: è ovvio che potesse trovare sui campi di calcio, in particolare, e tra la gente del luogo, in generale, ispirazioni migliori di quelle che poteva dargli una malintesa grandeur francese insegnatagli dalle donne di casa (quando lui aveva un anno il padre era morto in guerra, «per servire un paese che non era il suo»). A proposito di algerini, il filosofo Jacques Derrida andò anche oltre Camus, e voleva addirittura diventare un calciatore professionista. Di nuovo, per un bambino di una famiglia algerina ebrea naturalizzata francese, che venne espulso da scuola a dodici anni dai provvedimenti antisemiti della repubblica di Vichy, anche il calcio poteva essere una scuola di vita: magari l'unica. Tra l'altro, ricordo che ancora cinquant' anni dopo il filosofo si divertiva a giocare a calcio, e ci giocai io stesso una volta, nella casa di campagna del suo amico e collega Maurizio Ferraris. Tutto questo per dire che un secolo fa, nella sottosviluppata Algeria, il calcio poteva certamente insegnare qualcosa di buono e utile. Il problema è se possa continuare a farlo oggi, nella sviluppata Italia: a giudicare dalle reazioni selvagge che esso scatena, dentro e fuori gli stadi, sembrerebbe proprio di no. Semmai, è diventato una scuola di regressione alla giungla, e se tra i giovani che abbiamo visto comportarsi come scimpanzé nelle strade e sulle piazze ci sono i futuri Camus o Derrida, certo si mimetizzano bene, e faticheranno non poco a tagliare il cordone ombelicale che li lega al branco. Il secondo motivo per il quale volevo scomodare Camus è che, comunque, lui diceva che giocare a calcio poteva essere una scuola di vita: non certo guardarlo allo stadio, e meno che mai in televisione! Che fare sport possa essere una scuola di vita è ovvio, ci mancherebbe! Lo stesso vale per giocare a calcio, anche se si tratta solo di uno sport dimezzato: per l'altra metà è un gioco, e le mentalità dello sportivo e del giocatore non sono affatto le stesse. In ogni caso, guardare in televisione i calciatori che giocano non è diverso dal guardare gli attori che fanno all'amore: costituisce cioè una forma di voyeurismo, nel caso migliore, e di pornografia, in quello peggiore. Intendiamoci, con quello che succede al giorno d'oggi, e che leggiamo sui giornali, guardare film porno o partite, invece di fare l'amore o giocare, non è forse il male peggiore, ma certo non costituisce un atteggiamento sano e maturo verso il sesso o lo sport. Lasciamo perdere poi gli orgasmi collettivi che gli spettatori esibiscono nelle strade e sulle piazze, che farebbero ridere se avvenissero letteralmente dopo la visione di un film porno, ma fanno piangere se avvengono metaforicamente dopo una partita. Poiché tra i tifosi ci sono sicuramente anche degli psicanalisti, vorrei evitare loro di andare a scandagliare nel mio "inconscio", alla ricerca dei motivi reconditi della mia avversione per il calcio: anche perché sono perfettamente consci, e posso dichiararli senza problemi. Il fatto è che il pallone da calcio è un meraviglioso oggetto, costituito di venti esagoni e dodici pentagoni, scoperto niente meno che da Archimede, e realizzato dalla natura nella molecola di fullerene C60, costituita di sessanta atomi di carbonio messi ai vertici del solido: il cuore di un matematico sanguina, quando lo vede preso a calci, come sanguinava il cuore dei fedeli quando gli anarchici prendevano a fucilate la statua della Madonna nella guerra di Spagna. Un matematico potrebbe al massimo accettare che col pallone si giocasse di testa, ma purtroppo giocare coi piedi è più remunerativo e onorevole. Ad esempio, oltre a guadagnare molto più dei premi Nobel, i calciatori della nazionale sono stati subito ricevuti al Quirinale e a Palazzo Chigi, mentre Rubbia ha dovuto attendere trent' anni per diventare senatore a vita. Così va il mondo, e c'è poco da fare, ma almeno permettete a quelli come me di lamentarsene.

Maurizio Costanzo per “La Stampa” il 15 luglio 2021. Ho letto con molto interesse quanto ha scritto ieri Piergiorgio Odifreddi che sulla "Stampa" di ieri ha parlato di calcio, di filosofia, di cose intelligenti, insomma, come è abituato a fare. Voglio dire subito che mi dispiace che Rubbia abbia dovuto attendere trent' anni per diventare Senatore a vita, ma si consoli pensando che Chiellini non lo diventerà mai. Capisco lo stupore di Odifreddi per quanto è accaduto con il Campionato Europeo di calcio, con la vittoria dell'Italia, con quanto è successo per le strade. Lui, Odifreddi, è un grande matematico e la matematica non è un'opinione, ma il calcio è invece tifo e per molti addirittura una fede. Detto questo, capisco le sue considerazioni e in parte le condivido, ma faccio un altro ragionamento: veniamo da mesi di restrizioni, di impossibilità, di divieti. Veniamo da titoli calcistici non vinti e quando, sotto la guida del nostro nuovo "Garibaldi", che è Roberto Mancini, abbiamo cominciato a vincere la prima delle sette partite, abbiamo sentito che qualcosa cambiava, che anche per noi cominciava un gioco. Nessuno vuole scendere in campo a giocare, ma tutti vogliono vivere l'entusiasmo del tifo. Di più: la libertà del tifo. Non mi nascondo dietro i problemi che questo "tana libera tutti" può provocare riguardo alla pandemia. Ho paura dell'aumento dei ricoveri, ho paura di come questo entusiasmo di piazza possa essere fastidiosamente tramutato in contagio. Però, diciamolo: avevamo bisogno di vittorie, avevamo bisogno di far casino per le strade, avevamo bisogno di far finta che tutto andava bene. C'è una canzone di tanti anni fa cantata da Ombretta Colli, che diceva proprio "Facciamo finta che tutto va ben tutto va ben". Sì, per qualche notte e principalmente per la notte del trionfo, abbiamo fatto finta che tutto andava bene. Io continuo a trarre grande soddisfazione se penso alla faccia del Principe William, che, scuro in volto, non ha nemmeno salutato il Presidente della Repubblica italiana Sergio Mattarella. È andato via, il figlio di Carlo d'Inghilterra, convinto che la Corona aveva subito un sopruso con la vittoria di questi italiani, con un portiere che ha il cognome di una soubrette di teatro (Donnarumma) ma che è straordinariamente bravo. Caro Principe William, dovrebbe saperlo: nella vita si può vincere o perdere e in questo caso avete perso. Però, ripeto, il Presidente Mattarella lo poteva salutare. Mi ha fatto piacere che i calciatori italiani, Mancini in testa, siano stati ricevuti prima al Quirinale da Mattarella e poi a Palazzo Chigi da Draghi. Non si è voluto rendere omaggio a calciatori provetti protagonisti di una partita di pallone, ma si è voluto ringraziare chi, dopo tante malinconie, ci aveva riportato il sorriso.

MATTARELLA HA CONFERITO ONORIFICENZE ALLO STAFF ED AI GIOCATORI DELLA NAZIONALE VINCITRICE DEGLI EUROPEI DI CALCIO. Il Corriere del Giorno il 17 Luglio 2021. Il Capo dello Stato ha conferito l’onorificenza di Grande Ufficiale a Gravina e a Mancini, per Oriali e Vialli il titolo di Commendatore, Chiellini Ufficiale, cavalieri tutti i giocatori. Il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, ha conferito “motu proprio” onorificenze dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana ai giocatori e allo staff della Nazionale in segno di riconoscimento dei valori sportivi e dello spirito nazionale che hanno animato la vittoria italiana al campionato europeo di calcio UEFA Euro 2020. In particolare, il Capo dello Stato ha conferito l’onorificenza di Grande Ufficiale al Presidente della FIGC, Gabriele Gravina e al Commissario Tecnico, Roberto Mancini, di Commendatore al Team Manager, Gabriele Oriali e al Capo Delegazione, Gianluca Vialli, di Ufficiale al capitano della squadra, Giorgio Chiellini e di Cavaliere a tutti i giocatori della Nazionale.

Euro 2020, Bonucci e Chiellini e la telefonata decisiva. "Aiutaci tu". Pullman, Speranza ignorato: il caso arriva fino a Palazzo Chigi. Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. Volevano a tutti i costi sfilare sul pullman scoperto e mostrare ai tifosi la coppa, così Giorgio Chiellini e Leonardo BonucciChiellini e Leonardo Bonucci  hanno pensato di rivolgersi a Valentina Vezzali, che poteva non solo aiutarli ma soprattutto capirli. Così quando erano al Quirinale i due calciatori si sono avvicinati alla  sottosegretaria allo Sport del governo Draghi, nonché campionessa olimpica nella scherma con sei medaglie d'oro.  "Valentina aiutaci", hanno chiesto i due juventini, "tu sei stata un'atleta, tu puoi capire: questa coppa appartiene alla gente". E Valentina Vezzali, rivela La Repubblica in un retroscena, ha quindi deciso di farsi portavoce dell'istanza dei giocatori con la collega del Viminale Luciana Lamorgese. La quale dopo una prima telefonata andata a vuoto, ha risposto spiegando che da giorni Questura e Prefettura avevano deciso di negare l'assenso a questo tipo di manifestazione. La Vezzali ha dovuto così dare la brutta notizia a Bonucci e Chiellini, definendosi "non competente" per questo tipo di decisione. Poi però la sorpresa: all'uscita da Palazzo Chigi ha trovato il pullman scoperto che attendeva i giocatori in piazza Colonna. Solo più tardi alla televisione ha scoperto che la sfilata con la coppa era in corso. Dunque chi ha dato l'autorizzazione? "L'operato delle Forze di Polizia e delle Autorità provinciali di Pubblica sicurezza è stato ineccepibile", spiega il segretario generale del sindacato di polizia Siulp Felice Romano, che parla di un pullman "con tanto di livrea che, richiedendo un cospicuo tempo per l'allestimento, lascia pensare ad una cosa preordinata". Il presidente Gabriele Gravina non vuole saperne di polemiche: "Non posso pensare che la vittoria all'Europeo possa generare tensioni". E guarda già al prossimo campionato: "Vogliamo arrivare a utilizzare il green pass in modo rapido e renderlo efficace anche nei nostri stadi. La capienza? Chiediamo gradualità e accompagnamento. Le società sono in grande difficoltà". 

Da ilnapolista.it il 16 luglio 2021. Il Fatto Quotidiano regala altri dettagli della questione della sfilata della Nazionale italiana al centro di Roma sul bus scoperto, per festeggiare la vittoria dell’Europeo. Al Quirinale, durante l’incontro con Mattarella, Bonucci ha già iniziato a pressare la Vezzali, sottosegretaria allo Sport. Le ha chiesto aiuto e comprensione in quanto atleta. Anche in modo un po’ aggressivo, scrive il quotidiano. La Vezzali, allora, ha contattato il ministro Lamorgese, che ha ribadito il no di Questura e Prefettura alla sfilata. Ma il bus è partito lo stesso. “Al Quirinale Bonucci ne aveva discusso con la sottosegretaria allo Sport Valentina Vezzali, olimpionica di scherma delle Fiamme Oro. “Lei è un’atleta, ci aiuti. Ci tengono in gabbia come animali”, le ha detto il calciatore, un po’ aggressivo come spesso gli capita in campo e fuori. E la Vezzali ha chiamato in diretta la ministra Lamorgese, poi ha detto a Bonucci: “No, non si può fare, lo dicono Questura e Prefettura”. Pochi minuti dopo erano tutti sul pullman scoperto per il bagno di folla che ha imbarazzato il governo e irritato i virologi. Nella speranza che i contagi non aumentino troppo e soprattutto che non aumentino i malati gravi”.

Euro 2020, Leonardo Bonucci e il faccia a faccia con la polizia: perché questa foto segna la sconfitta di Roberto Speranza. Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Irritazione degli Azzurri che tornati in Patria dopo aver vinto gli Europei si sono trovati a fare i conti con le limitazioni imposte da Roberto Speranza. Già Dagospia aveva svelato un retroscena che vedeva protagonista Giorgio Chiellini, ora invece è Il Corriere dello Sport a fare un altro nome: quello di Leonardo Bonucci. Entrambi infatti hanno avuto da ridire proprio nel giorno del loro ritorno, nonché della cerimonia al Quirinale alla presenza di Sergio Mattarella e Mario Draghi. Per l'occasione la Nazionale avrebbe dovuto raggiungere nuovamente l'Hotel Parco dei Principi a bordo del pullman scoperto. Una sfilata negata inizialmente dalla Questura in quanto gli assembramenti sarebbero stati inevitabili. E così Bonucci ha deciso di farsi portavoce e convincere i responsabili della sicurezza ad autorizzare la sfilata del bus scoperto per le vie della Capitale. Dopo vari consulti con le autorità, la Questura ha autorizzato la sfilata e a Roma è partita la festa. "Abbiamo vinto la trattativa per il pullman scoperto per dedicare la coppa ai tifosi, glielo dovevamo. Il loro sostegno da casa è stato fondamentale per noi", sono state le parole del difensore della Nazionale. Dello stesso parere anche il capitano della squadra. Stando a Dago tra Chiellini e il ministro della Salute Roberto Speranza ci sarebbe stato "un braccio di ferro così intenso che a un certo punto Chiellini ha perso le staffe: 'O ci concedete il permesso, oppure non veniamo'". E ad averla vinta sono stati proprio gli Azzurri, facilitati dalla mediazione di Mario Draghi che ha preso le difese dei calciatori. Dal premier è arrivato il rimprovero a Speranza con l'obiettivo di convincerlo ad accettare la richiesta.

Dagonews il 13 luglio 2021. Ieri c’è mancato poco che saltasse la festa degli azzurri a Palazzo Chigi. Per tutta la giornata Roberto Speranza ha rimbalzato la richiesta della nazionale di noleggiare un pullman scoperto per festeggiare la vittoria agli europei. Il ministero aveva paura che un pullman scoperto favorisse nuovi assembramenti in città (come dargli torto!). Il braccio di ferro è stato così intenso che a un certo punto Chiellini ha perso le staffe: “O ci concedete il permesso, oppure non veniamo”. È dovuta arrivare la tirata d’orecchie di SuperMario al suo ministro per convincerlo ad accettare la richiesta, mentre i casi covid tornano a salire...

 Festa per vittoria Europei, il bus scoperto era stato vietato: “Figc non ha rispettato i patti”.  Enrico Tata il 14 luglio 2021 su Fanpage.it. Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, ha dichiarato che la festa sul pullman scoperto per la vittoria agli Europei non era stata autorizzata: “Avevamo negato il permesso per il bus, ma i patti non sono stati rispettati. Si doveva festeggiare, ma con modalità diverse. La Figc chiedeva di consentire agli atleti della Nazionale di fare un giro per Roma su un autobus scoperto, ma è stato spiegato chiaramente che non era possibile”. Non era stato autorizzato, come avevamo riportato, l'autobus della Nazionale che ha sfilato per la Capitale insieme a un fiume di romani. Una festa, quella per la vittoria dell'Italia agli Europei di calcio, che era stata negata dalla prefettura per motivi di ordine pubblico. E invece i patti non sono stati rispettati dalla Federcalcio: il bus scoperto con a bordo la coppa e tutti i giocatori azzurri è comparso praticamente all'improvviso. E molti esperti sono oggi preoccupati per le conseguenze che la festa potrebbe avere dal punto di vista epidemiologico.

Il prefetto: "I patti non sono stati rispettati". In un'intervista rilasciata a Fiorenza Sarzanini il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, è esplicito: "Avevamo negato il permesso per il bus, ma i patti non sono stati rispettati. Si doveva festeggiare, ma con modalità diverse. La Figc chiedeva di consentire agli atleti della Nazionale di fare un giro per Roma su un autobus scoperto, ma è stato spiegato chiaramente che non era possibile. Abbiamo detto che non potevamo autorizzarli". Questo, spiega ancora il prefetto, "perché dovevamo gestire il passaggio dal Quirinale a palazzo Chigi cercando di conciliarlo con le esigenze di sicurezza legate alla pandemia e dunque evitare in ogni modo assembramenti. Lunedì mattina la Figc ha riproposto diverse soluzioni ultima delle quali quella di utilizzare una pedana da montare in piazza del Popolo, in pieno centro a Roma, dove far salire i giocatori che in questo modo potevano festeggiare con i tifosi. L'abbiamo autorizzato, ritenendo che potesse essere una mediazione praticabile perché ci consentiva di tenere sotto controllo la folla in un unico luogo, verificando anche che le persone indossassero le mascherine come prevede il decreto in vigore quando ci sono gli assembramenti".

Il prefetto di Roma: "C'erano migliaia di persone in attesa del bus, vietarlo poteva creare problemi". Nel primo pomeriggio di lunedì c'è stato un nuovo contatto con lo staff della Figc, che ha rinnovato la richiesta di poter utilizzare un bus scoperto: "Abbiamo spiegato a tutti che le valutazioni non erano cambiate. Abbiamo pensato che avrebbero fatto fermare i giocatori davanti a palazzo Chigi dopo l’incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi. Ci avevano assicurato che il trasferimento sarebbe avvenuto con un autobus coperto. Invece poco dopo l’uscita dal Quirinale si è aggregato un autobus scoperto con la livrea e le scritte dedicate ai campioni d’Europa". La Federcalcio si sarebbe giustificata così: "Hanno sostenuto che c’era comunque già molta folla per le strade ed era forte intenzione dei calciatori di proseguire i festeggiamenti con l’effettuazione di un giro su un autobus scoperto. C’erano migliaia di persone in attesa del giro in autobus, vietarlo avrebbe potuto creare problemi di ordine pubblico".

La ricostruzione del prefetto di Roma. Il giallo della Nazionale sul bus scoperto: “Non era autorizzato, hanno deciso Chiellini e Bonucci”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 14 Luglio 2021. La passerella della Nazionale per le strade di Roma sul bus scoperto, per festeggiare il trionfo all’Europeo contro l’Inghilterra? Non era autorizzata, anzi, ha creato un incidente diplomatico. A dirlo è il prefetto di Roma Matteo Piantedosi, che ricostruisce in una intervista al Corriere della Sera le falle nel sistema di autorizzazioni che hanno portato all’evento, con migliaia di persone che, spesso senza mascherina e creando assembramenti, hanno seguito il bus scoperto degli Azzurri. La Figc, la Federazione Gioco Calcio, aveva chiesto l’autorizzazione a fare un giro per Roma un autobus scoperto, “ma è stato spiegato chiaramente che non era possibile e che non potevamo autorizzarli. Lunedì mattina la federazione ha riproposto diverse soluzioni, ultima delle quali quella di utilizzare una pedana da montare in piazza del Popolo, in pieno centro a Roma, dove far salire i giocatori per festeggiare con i tifosi”, racconta Piantedosi. Qui arriva l’accusa al presidente della Figc Gravina: “Abbiamo pensato che avrebbero fatto fermare i giocatori davanti a Palazzo Chigi dopo l’incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi. Ci avevano assicurato che il trasferimento sarebbe avvenuto con un autobus coperto. Invece poco dopo l’uscita dal Quirinale si è aggregato un autobus scoperto con la livrea e le scritte dedicate ai campioni d’Europa”. Ma a quel punto pensare di fermare tutto era impossibile, col rischio di creare problemi d’ordine pubblico. Quindi Piantedosi rivela il ruolo di Giorgio Chiellini, capitano della Nazionale, e del suo ‘sodale’ di difesa Bonucci: “Mi risulta che Chiellini e Bonucci hanno rappresentato con determinazione il loro intendimento al personale in servizio d’ordine; a quel punto non si è potuto far altro che prendere atto della situazione e gestirla nel miglior modo possibile”. Secondo il Fatto Quotidiano Bonucci avrebbe anche discusso con alcuni responsabili della sicurezza che ribadivano il “no” al pullman scoperto: “Se è così non fateci andare neanche da Draghi e riportateci in albergo”. Quindi l’ultima frase di Piantedosi, che suona quasi come un avvertimento: “Mi auguro che l’Italia l’anno prossimo vinca i Mondiali per avere gli stessi festeggiamenti: tratteremo direttamente con i calciatori”.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Il Prefetto di Roma: “La festa sul bus era vietata ma la Figc non ha rispettato i patti”. Giampiero Casoni il 14/07/2021 su Notizie.it. Il Prefetto di Roma: “La festa sul bus era vietata, e in sede di Comitato per ordine e sicurezza è stato spiegato chiaramente che non era possibile”. Il Prefetto di Roma Matteo Piantedosi interviene sulla sfilata con festa del bus degli Azzurri vincitori di Euro 2020 e al Corriere della Sera spiega che quell’iniziativa non ha mai goduto del beneplacito del suo Ufficio di Governo: “La festa sul bus era vietata ma la Figc non ha rispettato i patti”. In che senso dunque, anche a contare che la Prefettura in questo senso do ordini e non consigli? Spiega Piantedosi: “Avevamo negato il permesso a festeggiare la vittoria dell’Italia agli Europei sull’autobus scoperto ma i patti non sono stati rispettati”.

Il Prefetto, festa sul bus vietata: “Ci saranno possibili conseguenze”. E l’amarezza di Piantedosi fa il paio con la preoccupazione “per le possibili conseguenze che potrebbero verificarsi nelle prossime settimane, nonostante il grandissimo lavoro svolto”. Insomma, c’è il rischio che su quell’evento possa poggiare un’impennata di casi covid. Secondo il Prefetto si doveva si festeggiare ma “con modalità diverse”. Poi lo spiega: “Venerdì scorso abbiamo convocato un comitato per l’ordine e la sicurezza. Lo avevo concordato la linea con la ministra dell’Interno Luciana Lamorgese e con il capo della polizia Lamberto Giannini”.

Il Prefetto Piantedosi e la festa sul bus vietata: “Abbiano detto di no alla Figc”. E ancora: “La riunione era proprio per decidere che cosa fare e per questo abbiamo coinvolto direttamente anche la Figc. Quest’ultima chiedeva di consentire agli atleti della Nazionale di fare un giro per Roma su un autobus scoperto, ma è stato spiegato chiaramente che non era possibile. Abbiamo detto che non potevamo autorizzarli”. E c’erano altre incombenze da gestire, come “il passaggio dal Quirinale a palazzo Chigi”. Il tutto cercando di evitare assembramenti. Poi Piantedosi spiega che La Figc “ha riproposto diverse soluzioni ultima delle quali quella di utilizzare una pedana da montare in piazza del Popolo, in pieno centro a Roma, dove far salire i giocatori che in questo modo potevano festeggiare con i tifosi”, soluzione questa ritenuta praticabile perché mediata fra le esigenze di festeggiare e quella di concentrare il controllo della folla in un unico spot.

Il Prefetto: festa sul bus vietata e mezzo comparso all’improvviso. Poi però Piantedosi racconta che la Figc sarebbe tornata alla carica per l’autobus scoperto, ricevendo un secondo no dalla Prefettura. E spiega: “Ci avevano assicurato che il trasferimento sarebbe avvenuto con un autobus coperto. Invece poco dopo l’uscita dal Quirinale si è aggregato un autobus scoperto con la livrea e le scritte dedicate ai campioni d’Europa”. A detta del Prefetto lo staff del presidente Gravina avrebbe sostenuto “che c’era comunque già molta folla per le strade ed era forte intenzione dei calciatori di proseguire i festeggiamenti con l’effettuazione di un giro su un autobus scoperto”.

Il Prefetto di Roma, festa sul bus vietata. “Chiellini e Bonucci hanno spinto molto per quella soluzione”. E di fermarlo a quel punto non se ne è neanche parlato, perché “c’erano migliaia di persone in attesa del giro in autobus, vietarlo avrebbe potuto creare problemi di ordine pubblico”. E alla domanda su chi abbia spinto fra i giocatori per quella soluzione Piantedosi ha risposto: “Mi risulta che Chiellini e Bonucci hanno rappresentato con determinazione il loro intendimento al personale in servizio d’ordine”.

Claudio Rinaldi e Giuseppe Toti per il "Corriere della Sera" il 15 luglio 2021. «Abbiamo ricevuto una chiamata dalla Federazione intorno alle 16.30 con la quale ci veniva chiesto di muoverci dal deposito verso il centro della città. Solo dopo, quando eravamo ormai lungo la strada, ci hanno chiamato una seconda volta e ci hanno comunicato di andare verso Palazzo Chigi». A parlare è una fonte interna alla Big Bus Tours, la società proprietaria dell'autobus scoperto che lunedì ha accompagnato i giocatori della Nazionale per le strade della Capitale. Così emergono nuovi particolari su quello che è accaduto e su chi ha dato l'okay «alla sfilata non autorizzata», come ha rivelato ieri al Corriere della Sera Matteo Piantedosi, prefetto di Roma. La Big Bus Tours, da ciò che traspare, è stata avvertita solo all'ultimo momento. La squadra infatti era già al Quirinale, quando il pullman ha lasciato il deposito di Tor Cervara, quartiere periferico a est della città. E l'autorizzazione a partire e a dirigersi verso gli azzurri è arrivata direttamente dalla Federcalcio: non dall'Ufficio acquisti ma probabilmente dal Cerimoniale. La decisione di allestire il pullman scoperto è successiva alla semifinale contro la Spagna: «Dopo quella vittoria ci hanno contattato, dicendoci che tra le varie ipotesi sul tavolo, in caso di trionfo con l'Inghilterra, c'era anche questa. Così abbiamo messo a disposizione uno dei nostri mezzi e ci siamo accordati su come operare». A occuparsi dell'allestimento è stata la Federcalcio: «Hanno fatto tutto in tempi record, l'autobus è stato preparato lunedì mattina in poche ore». E in effetti un dettaglio conferma questa versione: l'immagine scelta per la fiancata è di Chiellini mentre alza la coppa. Quando il pullman scoperto è arrivato davanti a Palazzo Chigi, i calciatori erano già seduti all'interno del cortile. Anche la folla non sapeva cosa sarebbe poi successo, ma le forze dell'ordine erano sorprese di vedere l'autobus? Sapevano del suo arrivo?

«La polizia ci ha scortato da via Nazionale, passando per il Traforo e per via del Tritone». A sentire le risposte della Big Bus Tours sembrerebbe di sì: «Ci hanno aiutato a passare tra la folla, evidentemente erano state avvisate altrimenti ci avrebbero bloccato». Il mezzo ha poi fatto manovra all'interno di piazza Colonna e ha aspettato la fine della cerimonia: «Una volta giunti fin lì, eravamo certi che i giocatori sarebbero saliti, nessuno ci sembrava si ponesse più il problema. La decisione era sicuramente già stata presa prima, nel momento in cui ci hanno avvisato di lasciare il deposito per raggiungere centro città». Anche la scelta di quale percorso compiere per ritornare poi all'hotel Parco dei Principi, dove ha alloggiato la Nazionale e dove poi c'è stata la festa privata, è arrivata in extremis intorno alle 19. «Eravamo un pochino preoccupati per la folla, la polizia però sapeva esattamente cosa dovevamo fare. Ci hanno comunicato quali strade avremmo attraversato e questo ci ha tranquillizzato, tanto è vero che non ci sono stati problemi di ordine pubblico». Mentre Mancini e gli azzurri ascoltavano il discorso del presidente del Consiglio Mario Draghi, le forze dell'ordine erano infatti radunate a cerchio per capire come muoversi e, soprattutto, come consentire al pullman di passare tra le migliaia di persone già assiepate tra via del Corso e piazza Venezia. «C'era un fiume di gente, tutti si aspettavano di vedere i campioni d'Europa. Non si poteva più tornare indietro, sarebbe stata una delusione troppo grande per tutti».

Fiorenza Sarzanini per "il Corriere della Sera" il 14 luglio 2021. «Avevamo negato il permesso a festeggiare la vittoria dell'Italia agli Europei sull'autobus scoperto, ma i patti non sono stati rispettati». Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, non nasconde l'amarezza per quanto accaduto lunedì e «per le possibili conseguenze che potrebbero verificarsi nelle prossime settimane, nonostante il grandissimo lavoro svolto».

Non si doveva festeggiare?

«Certamente sì. Ma con modalità diverse». 

Come?

«Venerdì scorso abbiamo convocato un comitato per l'ordine e la sicurezza. Io avevo concordato la linea con la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese e con il capo della polizia Lamberto Giannini. La riunione era proprio per decidere che cosa fare e per questo abbiamo coinvolto direttamente anche la Figc».

Quali erano le intese?

«La Figc chiedeva di consentire agli atleti della Nazionale di fare un giro per Roma su un autobus scoperto, ma è stato spiegato chiaramente che non era possibile e che non potevamo autorizzarli». 

Perché?

«Dovevamo gestire il passaggio dal Quirinale a Palazzo Chigi cercando di conciliarlo con le esigenze di sicurezza legate alla pandemia e dunque evitare in ogni modo assembramenti».

C'erano alternative?

«Lunedì mattina la Figc ha riproposto diverse soluzioni, ultima delle quali quella di utilizzare una pedana da montare in piazza del Popolo, in pieno centro a Roma, dove far salire i giocatori per festeggiare con i tifosi».

L'avete autorizzato?

«Sì, abbiamo ritenuto che potesse essere una mediazione praticabile perché ci consentiva di tenere sotto controllo la folla in un unico luogo, verificando anche che le persone indossassero le mascherine come prevede il decreto in vigore quando ci sono gli assembramenti». 

E invece?

«Nel primo pomeriggio di lunedì abbiamo avuto altri contatti diretti con lo staff della Figc che ha rinnovato la richiesta di poter utilizzare l'autobus scoperto. Abbiamo spiegato a tutti che le valutazioni non erano cambiate». 

Però la pedana non era stata montata.

«Abbiamo pensato che avrebbero fatto fermare i giocatori davanti a Palazzo Chigi dopo l'incontro con il presidente del Consiglio Mario Draghi. Ci avevano assicurato che il trasferimento sarebbe avvenuto con un autobus coperto. Invece poco dopo l'uscita dal Quirinale si è aggregato un autobus scoperto con la livrea e le scritte dedicate ai campioni d'Europa». 

Lei ha parlato con lo staff del presidente Gravina?

«Certo e hanno sostenuto che c'era comunque già molta folla per le strade ed era forte intenzione dei calciatori di proseguire i festeggiamenti con l'effettuazione di un giro su un autobus scoperto». 

Non potevate fermarlo?

«C'erano migliaia di persone in attesa del giro in autobus, vietarlo avrebbe potuto creare problemi di ordine pubblico».

È vero che sono stati i calciatori a volerlo?

«Mi risulta che Chiellini e Bonucci hanno rappresentato con determinazione il loro intendimento al personale in servizio d'ordine; a quel punto non si è potuto far altro che prendere atto della situazione e gestirla nel miglior modo possibile. La complessità e la delicatezza è testimoniata dalle immagini da cui si può vedere che praticamente solo le forze di polizia indossavano la mascherina. Tutto quello che è successo ci ha profondamente amareggiati; da un anno, anche nei periodi più difficili, a Roma abbiamo sempre cercato di applicare le misure anti-Covid stimolando la collaborazione dei cittadini e delle categorie produttive piuttosto che imporre misure draconiane». 

Ha più sentito Gravina o qualcuno della Figc?

«No, perché sono ancora amareggiato dalla mancanza di rispetto che c'è stata per il grande impegno della questura e di tutte le forze di polizia durante tutto il periodo degli europei e per la preparazione di questa festa. Mi auguro che l'Italia l'anno prossimo vinca i Mondiali per avere gli stessi festeggiamenti: tratteremo direttamente con i calciatori».

In Onda, Paolo Mieli sul pullman dell'Italia: "Andate tutti a quel Paese". L'indiscrezione: chi (e cosa) c'è davvero dietro la scelta. Libero Quotidiano il 14 luglio 2021. Il tema del giorno, quello del pullman scoperto con cui l'Italia ha celebrato a Roma il trionfo a Wembley ad Euro 2020 dopo la finalissima contro l'Inghilterra. Il caso del giorno perché si cerca di capire chi lo abbia autorizzato, chi abbia ceduto alle pressioni degli azzurri, guidate da Giorgio Chiellini e Leonardo Bonucci. E del caso se ne parla anche a In Onda, il programma condotto su La7 da David Parenzo e Concita De Gregorio, dove a dire la sua c'è Paolo Mieli. "Mi ha colpito molto perché noi eravamo qui in diretta a raccontare quei momenti. Ci siamo chiesti chi la ha gestita, chi la ha autorizzata? Ci è sembrato subito che qualcosa non funzionasse. Siamo di fronte al classico scaricabarile italiano in cui il calcio ha le proprie regole?", chiede Parenzo. "È successo esattamente questo - replica tranchant l'ex direttore del Corriere della Sera -. Tacitamente in tutta Europa e in Italia soprattutto, vincendo, si è stabilito che le regole restavano tali. Ma siccome il tifo era incontenibile si faceva finta che le regole non esistessero. Il risultato si vedrà tra 15 giorni: se non ci sarà stata una esplosione di contagi malefici, tutti ce ne dimenticheremo. Ovvio però che un prefetto che ha visto quel tipo di gestione...  Non è detto che si debba andare come unni in giro per le strade a ululare", rimarca poi Mieli. E imbeccato da Parenzo, aggiunge: "Unni educati, sì. Il problema non sono i cori, all'aperto. Ma come unni, dappertutto, soprattutto in Inghilterra. Dovesse esserci una conseguenza dobbiamo prenderne atto e dire che lo abbiamo voluto tutti. Lode al prefetto che ha detto la verità: le regole erano altre, abbiamo deciso di trasgredirle, andate tutti a quel paese...", conclude Paolo Mieli. Secondo lui, insomma, la scelta è stata di tutti. E ora è inutile andare a caccia di responsabili, sperando però di non doverlo fare tra 15 giorni.

Euro 2020, Bonucci come la mafia? "Trattativa con lo Stato", lo sconcertante titolo del Fatto quotidiano. Libero Quotidiano il 14 luglio 2021. Dalla "trattativa Stato-mafia" a quella "Stato-Bonucci". A pensar male, come spesso fanno in redazione al Fatto quotidiano, si potrebbe pensare a un sillogismo molto velenoso: il centrale della Nazionale è come i boss di Cosa Nostra. Nella redazione diretta da Marco Travaglio, dove tra Papelli e pentiti la teoria della trattativa sulle stragi di mafia da anni è un dato di fatto, non hanno preso bene né la vittoria dell'Italia ad Euro 2020 né quanto accaduto nelle ore successive al ritorno degli Azzurri in patria. Già martedì sul giornale filo-contiano (e dunque anti-Draghi per antonomasia) campeggiavano titoli di dubbio gusto come questi: "Notti magiche inseguendo il Covid" o "Siam pronti alla morte", parafrasando l'Inno di Mameli in versione danza macabra. Il ragionamento non fa una grinza: dopo le folle negli stadi inglesi sinonimo di focolai di Coronavirus, la parata sul pullman per le strade di Roma dei giocatori del ct Mancini, unite alle migliaia di tifosi adoranti (a distanziamento zero), è garanzia di curva del virus in rapida risalita. Alla profezia nefasta si aggiunge ora il retroscena sulla rabbiosa reazione di Bonucci, autore del gol dell'1-1 a Wembley contro l'Inghilterra, che venuto a conoscenza della volontà del ministro della Salute Roberto Speranza di annullare i festeggiamenti pubblici proprio per timore di situazioni a rischio avrebbe minacciato, a colloquio con le autorità di pubblica sicurezza, di far saltare la visita istituzionale della comitiva azzurra al Quirinale. Niente sfilata per i tifosi, niente incontro "photo-opportunity" con Draghi e Mattarella. Sarebbe stata necessaria la mediazione della polizia e l'intervento dello stesso premier a ricucire. Con gran scorno del Fatto quotidiano, che ovviamente se la prende con il presidente del Consiglio legando due vicende differenti: da un lato il corteo sul pullman scoperto, dall'altro i timori per la crescita della curva del contagio (già in atto) a causa della variante Delta. Si parla già di zone gialle e possibili lockdown, e la gente in strada a Roma non c'entra nulla. Ma per il Fatto val bene il titolo "Sarà ancora emergenza, con Draghi non è dittatura", proprio a corredo della "Trattativa Stato-Bonucci", cronaca di una "resa incondizionata". Più che tackle duro, una entrata a gamba tesissima.

Estratto dell'articolo di Alessandro Mantovani e Lorenzo Vendemiale per il "Fatto quotidiano" il 14 luglio 2021. Il pasticcio l'hanno fatto e ora a Palazzo Chigi si rendono conto che le immagini della folla attorno al pullman scoperto della nazionale italiana sono "allucinanti", dicono "con quale coraggio andremo a chiedere alla gente di evitare assembramenti". Fino a lunedì mattina Questura e Prefettura, su indicazione del ministro dell'Interno Luciana Lamorgese, erano stati categorici: "Niente pullman scoperto, motivi di ordine pubblico". (...) Leonardo Bonucci all'uscita dal Quirinale ha discusso animatamente con alcuni responsabili della sicurezza che ribadivano il "no" al pullman scoperto, il difensore viterbese della Juventus non è uno che le manda a dire e gli sarebbe scappato: "Se è così non fateci andare neanche da Draghi e riportateci in albergo". Erano felici ma stanchi, gli eroi di Wembley. Erano sbarcati all'alba a Fiumicino dopo una notte di festeggiamenti, non capivano perché gli fosse negato il bagno di folla. Così Bonucci e gli altri sono risaliti sul pullman, quello coperto, che ha impiegato 45 minuti per percorrere, a passo d'uomo, via IV Novembre e via del Corso, cioè i due chilometri fino a Palazzo Chigi tra migliaia di persone in festa. In quei 45 minuti si è chiusa la partita. Perché quando è sceso a Largo Chigi lo stesso Bonucci ha detto ai giornalisti: "Abbiamo vinto la trattativa, poi saliremo sul pullman scoperto, lo dovevamo ai tifosi ". Il secondo pullman, infatti, era già lì, portato di nascosto. Trattativa di chi? Con chi? C'è chi racconta che a cedere è stato il prefetto Matteo Piantedosi, chi dice invece che l'ok alla Federcalcio l'ha dato la ministra Luciana Lamorgese. Al Viminale dicono che i due e il capo della polizia, Lamberto Giannini, si sono sentiti mille volte e hanno gestito tutto insieme. "Nessuno ha dato l'ok , abbiamo solo preso atto".

Estratto dell'intervista di Antonello Caporale a Marco Revelli per “il Fatto quotidiano” il 15 luglio 2021. Bonucci prefetto e Chiellini ministro dell'Interno. Hanno deciso il corteo e imposto la deroga universale alla pandemia. È il segno di quel che purtroppo siamo, uno Stato che subisce […] del vuoto di sovranità. Il vincente di turno occupa il potere e sostituisce il governo.

L'Italia era nel pallone, professor Marco Revelli.

[…] l'assembramento - cattivo fino all'altro ieri - è divenuto atto dovuto, anzi dispiegamento dell'energia creativa, insomma il legittimo coronamento della virtù conquistata. […] In gioco c'era la sanità pubblica. […] […] E sì che Draghi aveva detto di togliere a Londra le partite europee. Aveva fatto intendere di più: che giocare in uno stadio pieno di una città dove corre la variante Delta non gli pareva né un rischio calcolato né, come ama dire, ragionato. 

L'assembramento a Londra no, a Roma sì?

Ecco, e se la diciamo tutta dobbiamo aggiungere: dopo quel che ha detto il premier è stata opportuna la presenza del presidente della Repubblica a Wembley? […] 

Lei non ama il pop. Intellettuale di sinistra, dunque l'élite saccente

Basta con la dittatura del pop. L'adorazione di ciò che è popolare, a prescindere, è il segno di una società ignorante e di una cultura approssimata. Quel pop è spesso costruito dalla pubblicità. Inodore e incolore: pappa da consumare. 

L'Italia questa è. A lei manca il principio di realtà.

Lo so! Tutti i grandi pensatori, da Leopardi a Gobetti, erano addolorati per la scarsa grana civile dei compatrioti. Siamo […] un popolo dal peso piuma. 

Infatti Bonucci per una mezz' oretta ha preso il potere.

Lamorgese si è arresa, il governo si è appisolato, anche Draghi si è distratto. […] Una domanda: adesso chi avrà la faccia tosta di dire che gli assembramenti sono pericolosi?  […]

Massimiliano Nerozzi per corriere.it il 15 luglio 2021. Come da professione, Leonardo Bonucci difende gli Azzurri (e sé stesso): «Le autorità hanno acconsentito all’utilizzo del pullman scoperto, dicendo che sarebbero state in grado di gestire la situazione». E attacca, come da chi ha segnato nella finale degli Europei: «A ognuno il suo compito e il suo ruolo, è davvero semplicistico e molto italiano scaricare le colpe». Quella è stata la sensazione, sua e di altri giocatori, alle parole del prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, sul Corriere: ovvero, Bonucci e Chiellini avrebbero fatto pressioni sul servizio d’ordine per l’utilizzo del pullman cabriolet, poi usato per salutare le migliaia di tifosi riversatisi nel centro di Roma (qui la ricostruzione dei fatti secondo una fonte interna all’azienda proprietaria del bus, ndr). 

La versione di Bonucci. Il difensore ci mette insomma faccia e parole, come spesso fa, pure in arene nemiche, anche prima che la Federcalcio metta per iscritto la propria posizione, così: «All’arrivo davanti a Palazzo Chigi, ritenuto che la situazione non fosse più gestibile in quanto il bus coperto non aveva dissuaso i tifosi dal cingere in tutti i modi la delegazione, reiteravamo ancora la richiesta, a questo punto condivisa dalle istituzioni». 

La posizione della Nazionale. Che Bonucci abbia fatto presente la posizione dell’Italia, nel senso di squadra, lo si è visto nelle immagini, e ora spiega: «L’intera delegazione ha chiesto il pullman scoperto e siccome quello coperto, a prescindere era stato bloccato dalla folla già in strada e sarebbe comunque stato limitato nel passaggio a seguire, le autorità hanno acconsentito». Come lui sorveglia gli ingressi in area, sul prato, ad altri tocca fare lo stesso tra vie e piazze: «Noi non ci permetteremmo mai e poi mai di sostituirci alle autorità competenti, che immagino abbiano fatto le loro dovute valutazioni, prima di quanto avvenuto in piazza del Popolo la sera prima, e poi con il nostro passaggio in città». Morale: noi, giocatori, non potevamo dare un ok che spetta ad altri.

Il dibattito all’interno della squadra. Dopodiché, chiacchiere e dibattito sul pullman, esulla sfilata, c’è stato anche all’interno della squadra: tant’è che altri hanno riflettuto sulla stessa scelta di andare a Roma, immaginando cosa sarebbe successo. Ma non si poteva dire di no, nonostante fosse già stato programmato il rientro a Coverciano: «Il rientro su Roma è stato previsto solo dopo aver ricevuto i graditi inviti da parte del capo dello Stato e del presidente del Consiglio dei Ministri», ricorda Gabriele Gravina, presidente della Figc, in una nota caldeggiata anche da alcuni giocatori, compreso Chiellini, il capitano. E nella quale la Figc rivendica la propria correttezza — «sempre stati responsabili, ma soprattutto rispettosi delle istituzioni e dei tifosi italiani» — e smorza le polemiche, ringraziando «i rappresentanti delle forze dell’ordine, che hanno accompagnato la Nazionale con grande spirito di servizio ed encomiabile professionalità».

La folla a Roma e gli assembramenti. Ma che non ci sta a prendersi colpe, di fronte a una situazione già ingestibile: «Nel tragitto per arrivare a piazza Colonna, il bus coperto che trasportava la squadra è stato ripetutamente rallentato, poi bloccato e letteralmente travolto dall’affetto della gente ormai numerosissima, che comunque già non indossava strumenti di protezione individuale (cosiddette “mascherine”)». A quel punto, con o senza tetto, sarebbe cambiato poco.

Se Bonucci e Chiellini sono davvero più potenti di Prefetto e Questore di Roma. Giulio Cavalli il 14/07/2021 su Notizie.it. E chissà che qualcuno non osi perfino ricordare che in tutta questa storia ci sono 130mila morti che avrebbero voluto tanto festeggiare. Sì, è vero, avete ragione, fate tutti bene voi che da giorni sbavate tutta la retorica che c’è a disposizione per vedere nella vittoria di una partita di finale dell’Europeo di calcio le stigmate di un’interna nazione, tutti a strizzare le penne per dirci che se hanno vinto loro vinceremo noi, che ci dovrebbe bastare questo, che è inutile preoccuparsi perché figurati: abbiamo vinto gli Europei, cos’altro potrebbe andare storto? E fate bene anche oggi a difendere la coppia di difensori centrali, quelli che hanno così pugnacemente difeso la nostra porta dagli assalti dei nemici (è una narrazione che va forte da queste parti, anche questa è facile per assonanza, c’è perfino la difesa dei confini e il sovranismo), dagli attacchi di quei poveri illusi che vorrebbero un secondo fermarsi a discutere delle regole, del rispetto delle regole, di come dovrebbe funzionare e di come invece non funziona mai. Sia chiaro, che il pullman scoperto della nazionale italiana abbia marciato su Roma come miele di tifosi a grappoli che si sono accatastati per leccargli la fiancata, non è certo responsabilità di Bonucci e Chiellini. I calciatori fanno i calciatori e solo una Meloni o un Salvini potrebbero assurgerli a maestri di pensiero di società e di politica (tranne poi invocare che “giochino solo a calcio” quando si tratta di diritti civili, ovviamente): Bonucci e Chiellini hanno fatto i Bonucci e Chiellini chiedendo di gustarsi la (strameritata) vittoria con i loro tifosi. Loro fanno quello, si occupano di quello e lo fanno bene: difendono, fanno ripartire l’azione e rendono fieri i loro tifosi. Figurarsi se possano mai avere voglia di essere allontanati dai tifosi o di allontanarli. Il pantano in realtà è tutto quello che si sta intorno, la credibilità di un sistema-Stato composto da tutte le sue istituzioni che poi sono le stesse che vorrebbero avere l’autorevolezza per imporre misure sanitarie, sacrifici economici, nuove regole per gli spostamenti e stili di vita che non possano resuscitare un virus che ora sembra essere arroccato nella sua area. L’avete letto bene il Prefetto di Roma? Dice testualmente “mi risulta che Chiellini e Bonucci hanno rappresentato con determinazione il loro intendimento al personale in servizio d’ordine; a quel punto non si è potuto far altro che prendere atto della situazione e gestirla nel miglior modo possibile. La complessità e la delicatezza è testimoniata dalle immagini da cui si può vedere che praticamente solo le forze di polizia indossavano la mascherina. Tutto quello che è successo ci ha profondamente amareggiati; da un anno a questa parte, anche nei periodi più difficili, a Roma abbiamo sempre cercato di applicare le misure anti-Covid stimolando la collaborazione dei cittadini e delle categorie produttive piuttosto che imporre misure draconiane”. Tradotto: signori, noi ci eravamo messi d’accordo con il capo della Polizia, con la FIGC sulle misure di sicurezza di una squadra fresca campione d’Europa rientrata nella capitale d’Italia per incontrare le massime cariche dello Stato e due calciatori ci hanno messo con le spalle al muro. Roba da brividi se non fosse che ancora una volta la questione sembra essersi diluita in questioni di tifo. Anche questo articolo, ci scommetto, passerà per essere un pezzo contro “la nostra Nazionale” senza nemmeno quel minimo di capacità di comprensione del testo che servirebbe per farsene un’idea. E la FIGC, badate bene, è la stessa vigliacco FIGC che è riuscita a farsi ridere dietro da tutta Europa per il balletto del “mi inginocchio o no anzi mi inginocchio per solidarietà nei confronti degli avversari che si inginocchiano”. Con un semplice esercizio di memoria si potrebbe anche ricordare quando Mancini sul suo account Instagram ci tenne a dirci che per fare smettere la pandemia sarebbe bastato spegnere il televisore (ve lo ricordate? Basta una veloce ricerca su Internet per trovare ancora tutto). Il Prefetto dice che si augura “che l’Italia l’anno prossimo vinca i Mondiali per avere gli stessi festeggiamenti: in quell’occasione tratteremo direttamente con i calciatori”. Che è un modo elegante per dire che le istituzioni, quelle che dovrebbero garantire il rispetto delle regole e la credibilità del gioco, fanno davvero schifo. E chissà che qualcuno non osi perfino ricordare che in tutta questa storia ci sono 130mila morti che avrebbero voluto tanto festeggiare.

DAGONEWS il 14 luglio 2021. Chi esce malissimo dalla "trattativa Stato-Bonucci" (l'autorizzazione al tour nel centro di Roma della Nazionale di calcio) è il ministro dell'Interno, Luciana Lamorgese. Mario Draghi, infatti, non s'è occupato personalmente della faccenda: ha lasciato che fosse il Viminale a gestire il piano di sicurezza. E i risultati sono stati pessimi. Il prefetto di Roma, Matteo Piantedosi, ha rivelato: "Venerdì scorso abbiamo convocato un comitato per l'ordine e la sicurezza. Io avevo concordato la linea con la ministra dell'Interno Luciana Lamorgese e con il capo della polizia Lamberto Giannini. La riunione era proprio per decidere che cosa fare e per questo abbiamo coinvolto direttamente anche la Figc. Avevamo negato il permesso a festeggiare la vittoria dell'Italia agli Europei sull'autobus scoperto, ma i patti non sono stati rispettati". Nella ricostruzione di Piantedosi, l'accordo con la Federcalcio era stato trovato sull'utilizzo di una pedana da montare in piazza del Popolo: "Era una mediazione praticabile perché ci consentiva di tenere sotto controllo la folla in un unico luogo". Pero' non solo la pedana non è stata montata ma gli uomini del Viminale si sono fatti fregare come polli: "Ci avevano assicurato che il trasferimento sarebbe avvenuto con un autobus coperto. Invece poco dopo l'uscita dal Quirinale si è aggregato un autobus scoperto con la livrea e le scritte dedicate ai campioni d'Europa". A quel punto il prefetto certifica la calata di braghe delle forze dell'ordine davanti alle pretese dei giocatori della Nazionale: "Mi risulta che Chiellini e Bonucci hanno rappresentato con determinazione il loro intendimento al personale in servizio d'ordine; a quel punto non si è potuto far altro che prendere atto della situazione e gestirla nel miglior modo possibile". Ora che sono campioni d'Europa, i calciatori si occupano anche di ordine pubblico? E quel che decide il ministro dell'Interno finisce in vacca perché nessuno è in grado di far rispettare le misure di sicurezza? Poi dici che non hanno ragione a incazzarsi i gestori di ristoranti, palestre, discoteche: "Noi non possiamo lavorare o siamo costretti a farlo con molte limitazioni invece, per il calcio, si permette un assembramento di quel tipo nel centro di Roma?". E' finita qui? Assolutamente no, perché la Figc ha rispedito al mittente le accuse di aver forzato la mano sul pullman scoperto: "Dopo la cerimonia al Quirinale, su richiesta della squadra, che ha visto in pochi minuti aumentare la folla nel percorso fino a Palazzo Chigi, è stata reiterata l'istanza per poter utilizzare il bus scoperto, preparato preventivamente per ogni evenienza, al fine di condividere l'immensa felicità per un successo sportivo di questa portata con le migliaia di persone già ammassate per le strade. La scelta finale è stata condivisa dalle istituzioni". Ok, ma quali "istituzioni" hanno dato l'ok visto che il prefetto ha negato ogni assenso? E il Viminale dov'era? Si rimangia una decisione - come spiega la nota della Figc - solo per "non deludere le migliaia di persone che si erano già riversate nel centro della Capitale"? Un bel chissenefrega al rischio contagio?

(ANSA il 14 luglio 2021) - "Non è nostra intenzione alimentare ulteriori polemiche, perché non vogliamo trasformare un momento di gioia nazionale in un argomento di divisione". Lo afferma il presidente della Figc, Gabriele Gravina, in una nota che sta per essere pubblicata sul sito, replicando alle dichiarazioni del prefetto di Roma Matteo Piantedosi. La Figc è "sempre stata responsabile, ma soprattutto rispettosa delle istituzioni e dei tifosi italiani", aggiunge Gravina. Nella nota si spiega che "all'arrivo davanti Palazzo Chigi" la Figc ha reiterato "la richiesta, a questo punto condivisa dalle istituzioni, per un breve tragitto con il bus scoperto". Nel comunicato la Federcalcio ricostruisce le vicende legate ai festeggiamenti avvenuti lunedì a Roma per la vittoria azzurra all'Europeo. "Interpretando il sentimento popolare, nei giorni che hanno preceduto la finale di Wembley", la Figc spiega di aver "chiesto l'autorizzazione, sempre negata, per i festeggiamenti di un eventuale successo europeo, individuando diverse location (tra cui Piazza del Popolo) dove si potesse svolgere con numeri contingentati e nel rispetto di tutte le prescrizioni del momento una cerimonia in tutta sicurezza". "Senza alternative percorribili - prosegue la nota -, la Figc ha organizzato il ritorno della squadra a Firenze presso il Centro Tecnico di Coverciano per l'immediato scioglimento della delegazione. Il rientro su Roma è stato previsto solo dopo aver ricevuto i graditi inviti da parte del Capo dello Stato e dal Presidente del Consiglio dei Ministri". A quel punto, prosegue la ricostruzione della Figc, "dopo la cerimonia al Quirinale, su richiesta della squadra, che ha visto in pochi minuti aumentare la folla nel percorso fino a Palazzo Chigi, è stata reiterata l'istanza per poter utilizzare il bus scoperto, preparato preventivamente per ogni evenienza, al fine di condividere l'immensa felicità per un successo sportivo di questa portata con le migliaia di persone già ammassate per le strade". "Nel tragitto per arrivare a Piazza Colonna, il bus coperto che trasportava la squadra è stato ripetutamente rallentato, poi bloccato e letteralmente travolto dall'affetto della gente ormai numerosissima che comunque già non indossava strumenti di protezione individuale (cosiddette 'mascherine')", scrive la Federcalcio. E infine, "all'arrivo davanti Palazzo Chigi, ritenuto che la situazione non fosse più gestibile in quanto il bus coperto non aveva dissuaso i tifosi dal cingere in tutti i modi la delegazione italiana, reiteravamo ancora la richiesta, a questo punto condivisa dalle istituzioni, per un breve tragitto con il bus scoperto, anche nell'ottica di tutela dell'incolumità dei calciatori e per non deludere le migliaia di persone che si erano già riversate nel centro della Capitale nelle ore precedenti a questo incontro". "Per come sono stati gestiti quei momenti concitati di grande partecipazione popolare - è la conclusione della nota -, la Figc ringrazia i rappresentanti delle Forza dell'Ordine che hanno accompagnato la Nazionale con grande spirito di servizio e encomiabile professionalità". 

Da video.repubblica.it il 13 luglio 2021. Grande festa azzurra, ieri sera all'Hotel Parco dei Principi di Roma dove, terminata la sfilata per le vie della capitale della Nazionale di calcio, si è svolta la cena insieme ai Negramaro per celebrare la squadra che ha appena vinto gli Europei. La band ha festeggiato la squadra con un concerto unplugged in cui anche i giocatori hanno cantato con Giuliano Sangiorgi alcuni grandi successi del gruppo come 'Estate', 'Nuvole e lenzuola' e 'Un amore così grande'. Vero mattatore tra gli azzurri è stato Ciro Immobile che ha duettato con Sangiorgi sulle note di 'Meraviglioso' e 'Napule è'.

Da ansa.it il 13 luglio 2021. "Siamo tutti fratelli d'Italia" il brindisi di Bonucci con i calici rivolti al cielo. Le battute poi si moltiplicano quando Ciro Immobile si affianca a Sangiorgi iniziando a cantare e coinvolgendo i compagni. Il primo che chiama è Jorginho con il quale canta 'Malafemmena' di Totò, e 'Napul'è' e 'Je so pazz' di Pino Daniele. Poi è il turno di Bernardeschi con "Azzurro" di Celentano. Immancabile 'Notti magiche', con tanto di collegamento zoom insieme a Edoardo Bennato e cantata a squarciagola da tutti i presenti. Sirigu svela anche un aneddoto sulla canzone che ha accompagnato l'avventura azzurra agli Europei perché prima di ogni partita durante il riscaldamento cantava il ritornello con Donnarumma: un rito scaramantico durato fino alla finale con l'Inghilterra. La serata si conclude con la foto assieme alla coppa e la canzone 'Estate' dei Negramaro perché tutti vorrebbero che 'l'estate non finisse mai', soprattutto dopo notti magiche come queste. Ora il rompete le righe e l'appuntamento dato da Mancini a Qatar 2022.

Dagospia il 13 luglio 2021. IL VERO TORMENTONE DELL'ESTATE ITALIANA DI EURO 2020 È "MA QUALE DIETA", UNA CANZONE NAPOLETANA DI "LUCA IL SOLE DI NOTTE" E PORTATA DA INSIGNE NELLO SPOGLIATOIO DELLA NAZIONALE - I GIOCATORI HANNO COMINCIATO A CANTARLA PER LA PRIMA VOLTA IN PUBBLICO DOPO LA VITTORIA COL GALLES: POI IL CORO È STATO INTONATO SULL'AEREO, DURANTE L'ALLENAMENTO DAVANTI AGLI INCREDULI GIORNALISTI SPAGNOLI, SUL PULLMAN…  

La nazionale italiana canta Ma quale dieta - a thread:

Iniziamo conoscendo un po’ meglio l’inno della nazionale: il titolo è Ma quale dieta e porta la firma di Luca il sole di notte. Il brano è stato rilasciato a ottobre 2020.

Il suo autore, Luca il sole di notte, lavora in un ristorante di Sant’Antimo. Quando ha saputo che la nazionale cantava la sua canzone ne è stato felicissimo, ha rilasciato anche una breve intervista, leggendo le sue parole è impossibile non volergli bene 

Ceo di questa canzone è l’unico, inimitabile, immenso Lorenzo Insigne detto il magnifico che a quanto sembra ha fatto conoscere l’inno ai propri compagni di squadra sin dai primi ritiri facendolo risuonare negli spogliatoi e insegnandolo ai compagni 

Gli azzurri la cantano per la prima volta in pubblico il 20 giugno, dal ritorno dopo la vittoria col Galles 

È il 2 luglio, sul pullman dopo la vittoria contro il Belgio gli azzurri si scatenano su Ma quale dieta mentre Federico Chiesa viene preso a cuscinate 

Arriviamo al 6 luglio: è il giorno di Italia - Spagna, la nazionale si allena sulle note di Ma quale dieta rigorosamente riprodotta dalla cassa di Insigne mentre i telecronisti spagnoli commentano le prestazioni tecniche degli azzurri 

È la notte del 12 luglio: l’Italia è campione d’Europa, dopo i primi pazzi festeggiamenti in campo e negli spogliatoi gli azzurri salgono sul pullman per rientrare a casa. Come di rito cantano il loro portafortuna, questa volta se possibile urlandolo ancora di più 

It’s coming Rome! Giunti finalmente alla casa giusta la nazionale canta ancora una volta la canzone che ha accompagnato tutte le vittorie ma questa volta, sul tetto d’Europa, Ma quale dieta assume un sapore diverso. Insigne capo villaggio dirige mentre tutti la cantano 

L’Italia ormai da ore campione d’Europa, resta da chiederci solo una cosa: avremmo vinto senza Ma quale dieta? Probabilmente non lo sapremo mai ma una cosa è certa: da scaramantici quali siamo quest’inno continuerà ad essere cantato dopo ogni partita.

Articolo del "New York Times" dalla rassegna stampa di "Epr Comunicazione" il 12 luglio 2021. L'eruzione di gioia pura - e il clacson delle auto e l'esplosione dei fuochi d'artificio e gli abbracci, così tanti abbracci - in tutta Italia domenica dopo che la sua nazionale di calcio maschile ha sconfitto l'Inghilterra per vincere il torneo Euro 2020 ha segnato una svolta straordinaria, non solo per una squadra recentemente bistrattata, ma anche per un paese vessato. Ma se la squadra nazionale italiana, in grado di lottare, instancabile e imbattuta, ha sollevato il morale del paese dopo molteplici chiusure e incalcolabili sofferenze causate da una brutale pandemia, è stato solo l'ultimo segnale di una rinascita nazionale – scrive il NYT. Sempre domenica, Matteo Berrettini è diventato il primo italiano a giocare la finale di singolare maschile a Wimbledon. Poco prima di scendere in campo, Papa Francesco ha mostrato il suo volto per la prima volta dopo aver subito un importante intervento chirurgico al colon. A maggio, il gruppo rock romano dei Maneskin ha vinto il concorso canoro Eurovision. E Khaby Lame, un 21enne di Torino, ha uno degli account più seguiti al mondo su TikTok. Anche le sorti dell'Italia si stanno risollevando in modo reale, e non solo simbolico. A febbraio, una crisi politica ha portato il paese a lasciare il suo primo ministro in difficoltà e permettere la nomina di Mario Draghi, un ex presidente della Banca centrale europea il cui status internazionale elevato ha contribuito a portare l'Italia da piccolo giocatore sulla scena europea a una forza trainante. Più della metà del paese ha ricevuto una dose di vaccinazione; ristoranti, bar, parchi e spiagge hanno riaperto. Miliardi di euro sono diretti verso il paese come parte di un enorme salvataggio europeo del coronavirus. Riforme una volta ritenute inimmaginabili, compresa la riduzione di una burocrazia paralizzante, sembrano ora plausibili. Questi cambiamenti sostanziali possono aver messo l'Italia in una posizione più forte rispetto ai vicini europei in cui l'incertezza e la tensione politica abbondano, ma niente unisce il paese, o tocca un nervo comune, estatico, come una grande vittoria nazionale di calcio. Le urla inarticolate di domenica sera, il tifo per il gol del pareggio di Leonardo Bonucci nel secondo tempo e le due parate di Gianluigi Donnarumma ai rigori, le strilla dai balconi romani, dalle piazze di Bergamo e dalle spiagge siciliane si sono tradotti in espressioni di sollievo e di vita restituita. Anche prima della partita, il paese era eccitato. La finale di Wimbledon, in cui Berrettini è riuscito a strappare un set a Novak Djokovic, era un riscaldamento all'evento principale. Camerieri e cameriere, i loro volti dipinti con i colori italiani, hanno servito copiose quantità di birra ai fan che sventolavano bandiere italiane. Il cinema all'aperto nella sezione Trastevere di Roma ha interrotto la sua programmazione regolare ("Un giorno perfetto" di Ferzan Ozpetek) per la partita, e l'affluenza è stata notevolmente maggiore, con migliaia di persone che hanno riempito la piazza. I tifosi si sono riversati nelle grandi piazze, le suore si sono messe davanti ai televisori e le famiglie hanno fatto scorta di bandiere e trombe da stadio. (...) Ma non hanno perso, e se qualcuno si aspettava di dormire nei prossimi giorni, può praticamente dimenticarsene. Se le celebrazioni passate, come la vittoria della Coppa del Mondo nel 2006, hanno eguagliato la baldoria di domenica notte nel livello di decibel, non hanno avuto il sottofondo emotivo e la frustrazione repressa. "La squadra nazionale è il simbolo di un paese che nei momenti difficili ha sempre saputo rialzarsi", ha detto Roberto Mancini, l'allenatore della squadra, prima dell'inizio del torneo e mentre l'Italia era ancora in isolamento. Che la squadra di calcio dell'Italia abbia dimostrato al paese di potersi rialzare, rispolverare e superare il resto d'Europa è notevole. Alla fine del 2017, l'Italia non è riuscita per la prima volta in 60 anni a qualificarsi per la Coppa del Mondo, che ha vinto quattro volte. "Vergogna nazionale" e "Apocalisse", si leggevano i titoli dei giornali in un paese dove il gioco è così centrale per la sua identità nazionale e dove l'umiliazione ha provocato una crisi esistenziale. Mesi dopo, una coalizione anti-europea del partito nazionalista Lega di Matteo Salvini e del populista e anti-establishment Movimento Cinque Stelle ha scelto Giuseppe Conte, un professore di legge poco conosciuto, per guidare il paese. Sono seguiti anni di drammi politici, di incompetenza spesso sbalorditiva, di amicizia con Donald Trump e di minacce all'Unione europea. Le coalizioni sono cambiate, ma Conte è rimasto e poi, nel febbraio 2020, la prima grave epidemia di coronavirus in Occidente è esplosa nel nord Italia, trasformando parti del paese in un campo di morte, paralizzando l'economia e costringendo vaste sezioni della vita quotidiana - compresi gli stadi di calcio - a chiudere. Con Draghi, circa il 58% degli italiani ha ricevuto almeno una dose di vaccino, e i nazionalisti del paese e le forze anti-establishment si sono uniti al suo governo. Prima che la squadra portasse il titolo a casa, Draghi aveva cercato di portare la finale proprio a Roma. Il mese scorso, ha cercato di spostare la partita dallo stadio di Wembley a Londra, a causa dello scoppio della variante Delta. In una frecciatina non troppo sottile al primo ministro britannico Boris Johnson, che ha sostenuto la Brexit, Draghi ha suggerito di spostare la finale in "un paese dove le nuove infezioni da coronavirus non sono in aumento". Ma nessuno si aspettava davvero che l'Italia e la sua squadra per lo più giovane e inesperta avrebbe giocato la finale a Wembley, dove Mancini, durante i suoi anni da giocatore, ha perso la finale della Coppa dei campioni del 1992 con la sua Sampdoria contro il Barcellona. Tuttavia, il capitano della squadra, il difensore veterano Giorgio Chiellini, aveva notato che la squadra aveva una "chimica" che era "una specie di magia". E mentre la squadra continuava a vincere, sempre più italiani hanno cominciato a crederci. La squadra inglese non vinceva un campionato importante o anche solo raggiungeva una finale importante in 55 anni, ma questa squadra aveva promesse e gioventù e diversità e una coscienza sociale e sembrava riflettere un'Inghilterra complessa e multiculturale che a volte si perdeva nei dibattiti tribali sulla Brexit. La squadra ha unito un paese che ha trascorso gran parte degli ultimi quattro anni e mezzo a discutere con se stesso sulla sua divisione con l'Unione europea, e gran parte degli ultimi 15 mesi sotto le chiusure dettate dal coronavirus. La regina Elisabetta II, che ha 95 anni, ha ricordato al manager della squadra in una lettera che era presente 55 anni fa per presentare la Coppa del Mondo al suo predecessore. Più del 70% della popolazione del Regno Unito è nata dopo quel campionato. E molti altri nasceranno prima di interrompere la serie di sconfitte. (...) I tifosi di Roma non hanno avuto bisogno di essere consolati. Si sono strappati le magliette, esponendo le bandiere italiane sul petto. "Siamo noi. Siamo noi", hanno cantato in cerchio, "i campioni d'Europa siamo noi". Un fiume di tifosi scorreva per le strade di Roma, con molti che si arrampicavano sui semafori, sui cassonetti e sulle spalle degli altri. Le auto suonavano il clacson e intasavano le strade come se si trattasse di un gioioso ingorgo. I fuochi d'artificio illuminavano una città che non voleva dormire. "È la cosa più bella della mia vita", ha detto Daniele Pace, 20 anni, con la maglia azzurra dell'Italia e una bandiera intorno ai fianchi. "È la cosa migliore che ci potesse capitare dopo COVID". Ha detto che vincere contro l'Inghilterra è stato "ancora meglio. Non fanno nemmeno parte dell'Unione Europea". Il governo è stato un po' più diplomatico. L'ufficio stampa del premier Draghi, solitamente sobrio, ha inviato una dichiarazione con i colori verdi, bianchi e rossi italiani, dicendo che il primo ministro avrebbe ricevuto la squadra domani nel suo ufficio "per ringraziarli a nome di tutto il governo". Mentre tutta l'Italia festeggiava, la squadra si è esaltata sul campo, dove è stata raggiunta da Matteo Berrettini, il finalista di Wimbledon. Bonucci ha definito la vittoria "un sogno che si avvera". Ha detto che l'Inghilterra pensava che il trofeo stesse tornando a casa, ma invece stava andando a Roma. "Mi dispiace per loro", ha detto alla televisione italiana dopo la partita. "Ma ancora una volta l'Italia dà una lezione".

Da tuttonapoli.net il 13 luglio 2021. A Radio Punto Nuovo, nel corso di Punto Nuovo Sport Show è intervenuto Francesco Repice, Radio Rai: "Ho l'impressione degli occhi persi nel vuoto di Donnarumma ci fosse molto altro, si era reso conto di aver vinto l'Europeo. Questa storia del passaggio al PSG non è facile per lui. Cercava qualcosa con lo sguardo che non incontrava, me ne sono reso conto nelle interviste del post gara. Io racconto pallone, non racconto calcio. Grealish 110 milioni di euro? Mi diverto di più a vedere Ceravolo. Per Bonucci e Chiellini ci vuole il PIL del Canada se Stones e Maguire valgono quello che sono stati pagati. Non ho questa genuflessione per la Premier. La vera finale l'abbiamo giocata con la Spagna e con il Belgio. Southgate? l'Inghilterra senza di lui non sarebbe mai arrivata fin lì. Il football is coming home? Il calcio è nato in Italia, a Firenze nel 400. Gli inglesi hanno mostrato poco fair play in campo. Per non parlare del comportamento dei tifosi. Onore del raccontare questa Italia? Io sono un tifoso di curva e spero di trasmettere le mie emozioni. A me piacerebbe che Roma-Napoli torni ad essere una festa, è una ferita per me. Questo odio deve finire". (…) “Siamo… siamo… siamo campioni d’Europa! 23, 54 minuti. E l’Italia… l’Italia è campione d’Europa per la seconda volta nella sua storia! L’ha parata Donnarumma! Un Tricolore sventola sul tetto d’Europa! Le lacrime degli azzurri! Che hanno raggiunto il massimo risultato! Abbiamo vinto noi! Siamo avanti noi! E lo siamo definitivamente stavolta! Siamo i campioni d’Europa! Dopo che non siamo riusciti a partecipare a un Mondiale! Gentili ascoltatori, possiamo finalmente piangere di gioia! […] Il calcio torna a casa! Il calcio torna dov’è nato! Tra le piazze di Firenze la Magnifica! E l’entusiasmo che dilaga a Roma, la città Eterna. Prima di scendere a bagnare la sua gioia in quello specchio di mare del golfo, che va a bagnare anche le falde del Vesuvio. Nella meravigliosa Napoli. E scende, come una spada, verso la superba Trinacria, che si affaccia sulla madre Africa è […]. E poi ancora un’isola: un’isola cristallina come la Sardegna. Per salire verso un triangolo di sudore, di fatica, di sguardo verso il futuro e di lavoro di tante generazioni tra Genova, Milano e Torino. Fino a culminare… in Laguna, dove l’acqua accarezza la sinuosissima Venezia. E, consentitelo, gentili ascoltatori, al vostro cronista: anche adesso, questo entusiasmo dilaghi nel borgo dei borghi. Nella meravigliosa Tropea. Adesso bagnamo, disegniamo il Tricolore sull’isola che va ad affacciarsi, a precipitare in un mare cristallino. È una gioia incontenibile, gentili ascoltatori! Siamo campioni d’Europa! Siamo campioni d’Europa! Dopo il ’68, vinciamo a Wembley! Vinciamo ai calci di rigore! Vinciamo con sofferenza, come solo noi sappiamo fare!”. 

Alessandro Bocci per il “Corriere della Sera” il 14 luglio 2021. La coppa è nell'ufficio del presidente Gravina in via Allegri, nel cuore di Roma, la casa della Federcalcio. Dopo gli incontri istituzionali e l'abbraccio con la gente che è durato sino a notte inoltrata fuori dall'albergo che ospitava la squadra, è il tempo della raccolta. L'Italia del sorriso, che ha vinto il secondo Europeo a 53 anni dal primo, è una spinta entusiasta ma anche economica al nostro movimento. Una specie di onda lunga azzurra. La Figc incassa 28 milioni dall'Uefa e a gennaio 2023, dopo il Mondiale in Qatar, l'Adidas, futuro sponsor tecnico, ne verserà altri 40 all'anno e a quel punto solo Francia e Germania guadagneranno più di noi. Gravina, sottotraccia, sta lavorando anche all'idea di organizzare un grande evento. Roma ha superato l'esame a pieni voti e la Figc sta meditando se non sia il caso di presentare la candidatura a Euro 2028. Ma anche i club beneficeranno di questa spinta emotiva. Ora che le luci di Wembley si sono spente, riparte il mercato e l'Inghilterra diventa una nuova minaccia o, magari, in certi casi un'opportunità per sistemare i bilanci. Il calcio d'Oltre Manica non vince niente dal Mondiale del '66, ma la Premier resta la terra promessa. All'inizio del torneo l'Italia aveva un valore intorno ai 750 milioni di euro, ora sfiora i 900 e molti giocatori sono partiti per le vacanze senza poter spegnere il telefono. La lista degli azzurri corteggiati è lunga e le situazioni complesse. L'Arsenal ha cercato di insinuarsi tra Locatelli e la Juventus ma il centrocampista per adesso sorride solo ad Allegri e ha bocciato la proposta dei Gunners, che erano pronti a offrire ben più dei 40 milioni su cui stanno trattando i bianconeri. In ogni caso 10 più di quelli che Madama aveva preventivato a inizio di Europeo. I top di questa speciale classifica sono due intoccabili, Gigio Donnarumma e Federico Chiesa. I loro cartellini si sono rivalutati. Oggi valgono almeno 80 milioni ciascuno. E se Gigio si è appena trasferito al Psg e oggi potrebbe essere a Parigi per firmare il contratto quinquennale, sull'ala che la Juventus ha preso solo un'estate fa dalla Fiorentina per 60 milioni, pagabili in comode rate, è fortissimo l'interessamento del Bayern Monaco. Ma il corteggiamento tedesco è destinato a cadere nel vuoto: Agnelli non lo cede. Il Sassuolo, invece, potrebbe cambiare idea su Domenico Berardi, che prima dell'Europeo aveva una valutazione intorno ai 30 milioni e adesso è schizzato a 50: si è fatto sotto il Milan e soprattutto il Liverpool, che è rimasto affascinato dai movimenti e dalla capacità offensiva dell'esterno calabrese. Raspadori, che all'Europeo ha fatto la comparsa, piace alle milanesi ma il Sassuolo vorrebbe confermarlo almeno per un'altra stagione, convinto di ricavarne di più la prossima estate dopo un'altra stagione in Emilia. Anche perché Mancini ripartirà a settembre con lo stesso problema di sempre: il centravanti. Uno di questi, Belotti, ha il contratto in scadenza e deve chiarire la sua posizione con il Torino. Il presidente Cairo ha sfiorato l'argomento in Lega: «Vorrei tenerlo, vediamo...». Lo stesso discorso vale per Insigne. Nel caso del napoletano, pure lui a scadenza nel 2022, è una questione di soldi. Il Napoli non ha fatto proposte ufficiali. De Laurentiis ha la necessità di tagliare il monte ingaggio. Lorenzo chiede, invece, un aumento: guadagna 4,5 e vorrebbe guadagnare 6 come Koulibaly. Anche Di Lorenzo, Bastoni e Pessina sono ragazzi da Premier. E Barella, che prima dell'Europeo aveva il prezzo più alto tra gli azzurri, è finito nei piani del Chelsea. Marotta però non cede. Nella testa dell'Inter il centrocampista non si tocca. In ballo ci sono pure Sirigu, Florenzi e Emerson Palmieri, che vorrebbe tornare in Italia e aspetta il Napoli. Insomma, l'estate dei rampolli azzurri è tutt' altro che finita.

Vito Lamorte per fanpage.it il 14 luglio 2021. Federico Chiesa ha stupito l'Europa e la Juventus gongola. Il giovane esterno d'attacco della Nazionale Italiana è stato uno dei calciatori più attenzionati nel corso di EURO 2020 e la sua crescita dirompente ha destato un certo clamore: nessuno si sarebbe aspettato un impatto così forte da parte del calciatore classe 1997 e le sue ottime prestazioni gli hanno permesso di entrare nel tridente d’attacco della top 11 del torneo continentale. Insieme ai compagni della selezione azzurra ha vinto un Europeo che mancava all'Italia da 53 anni e le reti contro l'Austria, negli ottavi di finale, e Spagna, in semifinale, gli hanno regalato una vetrina di primo piano. Il23enne esterno d’attacco arrivato lo scorso in bianconero dalla Fiorentina ha saputo ritagliarsi in fretta un posto in una big come la Juve e il suo percorso di crescita durante l'anno è stato evidente: Chiesa era stato l'ultimo ad arrendersi nella notte in cui la squadra di Pirlo è stata eliminata dalla Champions League per mano del Porto e in tutti i momenti cruciali dell'anno c'è sempre stato il suo zampino, dalle vittorie determinanti per il quarto posto alla rete decisiva nella finale di Coppa Italia. Intorno al suo nome circolano rumors e voci di mercato da diverse settimane e il figlio d'arte è stato accostato solo a top club del Vecchio Continente: se nei giorni scorsi si era parlato di un possibile interesse da parte del Bayern Monaco, nelle ultime ore sarebbe spuntata una offerta mostruosa che la Juventus avrebbe subito rispedito al mittente. Secondo il giornalista del giornale tedesco Bild, Christian Falk, il Chelsea avrebbe proposto 100 milioni di euro come base di partenza della trattativa per portare Federico Chiesa a Londra: una proposta indecente vista la situazione economica causata dalla pandemia da Covid-19 ma la Vecchia Signora considera il calciatore incedibile e pezzo importante della scacchiere futuro del club di Massimiliano Allegri. L'attaccante esterno della Juve è arrivato a Torino lo scorso mercato estivo-autunnale con la formula del prestito biennale, da 10 milioni di euro, e  l'obbligo di riscatto fissato a quota 40 milioni più altri 10 di bonus. La Juventus, come già anticipato, non ha nessuna intenzione di privarsi del classe 1997 perché viene ritenuto un calciatore fondamentale per il prossimo futuro del club: dal canto loro, i Blues vorrebbero festeggiare la vittoria della Champions con un grande colpo sul mercato, sarebbe forte l'interesse per Haaland del Borussia Dortmund, ma dopo questo tentativo il nome di Chiesa dovrebbe essere depennato dal loro taccuino. 

Euro 2020, non solo Rebic e Rodriguez: flop e paradossi, quelli che si sono svalutati. Federico Strumolo su Libero Quotidiano il 16 luglio 2021. L'Europeo per alcuni calciatori rappresenta la svolta della carriera. Per quella giocata indimenticabile, o quel bellissimo gol realizzato. A volte, però, una manifestazione così importante può produrre l'effetto contrario: prendere un grande calciatore con enormi speranze e lasciarlo con le ossa rotte. Quello itinerante appena concluso ha svalutato tanti protagonisti del nostro campionato. Ne sa qualcosa la Juventus, che se è vero che accoglierà quattro campioni d'Europa (Leonardo Bonucci, Giorgio Chiellini, Federico Bernardeschi e Federico Chiesa), dovrà anche fare i conti con tanti delusi di lusso. 

Primo fra tutti Matthijs De Ligt, tra i più grandi responsabili della clamorosa eliminazione dell'Olanda agli ottavi di finale contro la Repubblica Ceca. La goffa espulsione dell'olandese (per fermare Patrik Schick dopo essere caduto mentre marcava l'attaccante ceco) all'inizio della ripresa sullo 0-0 (poi è finita 0-2), infatti, resterà nella mente di tutti gli appassionati del pallone. Ma alla Continassa De Ligt è in buona compagnia. Aaron Ramsey sperava che l'Europeo con il suo Galles potesse rappresentare una rivincita dopo la stagione difficile con la Vecchia Signora, ed invece- tolto il gol contro la Turchia - non ha entusiasmato. Poi ci sono quelli che si sono fatti conoscere per i gol, ma nella propria porta: Merih Demiral con la sua Turchia (per nostra fortuna) nel debutto contro l'Italia, il portiere Wojciech Szczesny con la sua Polonia contro la Slovacchia. 

Restando a Torino, ma guardando ai granata, un altro deluso dell'Europeo è Ricardo Rodriguez. Sebbene la sua Svizzera abbia fatto una bellissima figura- eliminando la Francia ai rigori negli ottavi ed arrendendosi solo alla lotteria dal dischetto nei quarti contro la Spagna - di lui si ricordano tutti il rigore fallito contro i francesi e la pessima marcatura sul momentaneo vantaggio di Karim Benzema. Si rammenta poco o nulla, invece, dell'estate europea del croato Ante Rebic: quattro presenze (tre da titolare, in cui poi è stato sostituito nella ripresa, ed una da subentrato) e zero gol. Un bottino anonimo per l'attaccante del Milan. E parlando di rossoneri, c'è il paradosso di Hakan Calhanoglu. Tra le più grandi delusioni della competizione con la sua Turchia, ma capace comunque di firmare un ricco accordo da sei milioni a stagione (cinque fissi, uno di bonus) con l'Inter dopo aver lasciato il Diavolo a zero. Ovviamente tra i flop dell'estate ci sono anche tante stelle di altri campionati. 

Chi ha abbandonato i sogni di Pallone d'Oro è Kylian Mbappé, rimasto a secco nelle quattro partite giocate con la sua Francia. Solo un gol in più per il compagno di nazionale Antoine Griezmann. E come la squadra di Didier Deschamps, è stata eliminata agli ottavi la Germania (contro l'Inghilterra), con due attaccanti che più di tutti hanno fatto disperare i tifosi tedeschi: Thomas Muller e Timo Werner. Entrambi senza reti e protagonisti di clamorosi gol falliti. Impossibile, poi, non citare gli inglesi Marcus Rashford e Jadon Sancho, protagonisti di due dei tre rigori falliti dall'Inghilterra in finale (l'altro di Bukayo Saka) dopo un Europeo anonimo (cinque presenze per Rashford, tre per Sancho, entrambi senza reti). Ma anche il belga Eden Hazard (quattro presenze e zero gol), il portoghese Bruno Fernandes (quattro apparizioni senza gol) o l'austriaco Marcel Sabitzer (quattro partite e zero reti). Tutti partiti con l'idea di conquistare l'Europa e che invece sono tornati a casa con la coda tra le gambe.

Tra contratti e ingaggi adesso gli azzurri passano all'incasso. Nicolò Schira il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. Schizzano in alto le quotazioni: caccia a talenti e rinnovi. Ma c'è anche chi è crollato...Il boom degli azzurri a Euro 2020 fa impennare il made in Italy con le valutazioni dei calciatori della nazionale schizzate alle stelle dopo il trionfo di Wembley. A partire dall'eroe della notte londinese Gigio Donnarumma, che dopo il premio di miglior giocatore dell'Europeo ha visto il suo valore di mercato scollinare i 100 milioni di euro. A Parigi, dove oggi il portierone firmerà ufficialmente col PSG fino al 2026 (stipendio da 12 milioni a stagione bonus compresi), già si fregano le mani, sapendo di essersi assicurati - oltre che il miglior estremo difensore europeo - anche un assegno circolare. Tra coloro che hanno sfruttato al massimo la ribalta internazionale Leonardo Spinazzola, che - nonostante il grave infortunio - ha raddoppiato il suo valore tanto da essere stato corteggiato pure dal Real Madrid prima del crack col Belgio. Volano le quotazioni pure di Federico Chiesa, pagato un anno fa 60 milioni: oggi non ne bastano 80 - come sa bene il Bayern - per strapparlo alla Juventus che lo ritiene incedibile. I bianconeri, in attesa di annunciare il rinnovo fino al 2022 di capitan Chiellini, preparano l'affondo decisivo per Locarelli, il cui prezzo è salito del 30% dopo le notti magiche. Nel borsino del mercato quotazioni in netto rialzo anche per Jorginho e Berardi, balzati rispettivamente a 70 e 45 milioni di valutazione. Per il metronomo italobrasiliano pronto il rinnovo fino al 2024 col Chelsea, mentre il talento del Sassuolo potrebbe presto raggiungerlo Oltremanica visto che fa gola a Leicester e Tottenham. Percorso inverso per Emerson Palmieri, che spera di riabbracciare il mentore Spalletti al Napoli anche se i 20 milioni chiesti dai Blues sono ritenuti eccessivi da De Laurentiis che ha già l'accordo per blindare Di Lorenzo fino al 2026. Più complessa la questione Insigne: il diez è in scadenza nel 2022 e vorrebbe rinnovare senza però ridurre il proprio ingaggio (4,6 milioni) come palesato dal club. Il rischio di un infuocato braccio di ferro è assai concreto all'ombra del Vesuvio. Freccia all'insù ovviamente pure per altri 2 totem azzurri come Bonucci e Barella (in odore di prolungamento con l'Inter fino al 2024), mentre Pessina rimarrà all'Atalanta prolungando il contratto per altri 3 anni. La Dea si gode la conferma a livelli top del tedesco Gosens e soprattutto la crescita di Maehle, impostosi come uno dei migliori laterali del torneo a suon di gol e assist. L'exploit della Danimarca fa sorridere anche Ferrero: serviranno infatti 40 milioni per strappare alla Samp il gioiellino Damsgaard. La rassegna di Euro 2020 però allontana possibili obiettivi di mercato: Dumfries costava 15 milioni a maggio, mentre ora il PSV ne chiede 25. Con l'Inter costretta a dirottare altrove le proprie mire per il post Hakimi. Quotazioni invece in calo per Fabian Ruiz (panchinaro fisso nella Spagna semifinalista) e Belotti: il Gallo è rimasto a secco di gol e per il Torino sarà difficile ottenere i 30 milioni richiesti nelle scorse settimane. Nicolò Schira

Euro 2020, l'ultima parata di Gigio Donnarumma vale 12 miliardi di euro: perché quel tuffo per l'Italia vale oro. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021.  L'ultima parata di Gianluigi Donnarumma potrebbe valere la bellezza di 12 miliardi di euro. Dodici miliardi di crescita in più della ricchezza nazionale. I vari esperti della Soccer-nomics concordano sul fatto che vincere i mondiali o anche ai campionati europei di calcio "costituisce sempre un volano straordinario per l'economia del Paese vincitore, il cui prodotto interno aumenta in media dello 0,7% in più", ricorda la Stampa. L'unico cauto è Mariano Bella, capo economista di Confcommercio: "In questa fase molto particolare della nostra economia, in cui già ci attendiamo un rimbalzo forte del Pil, è difficile dire quale giovamento possa portare una vittoria del genere. E' chiaro che poi tutto fa brodo, ma anche i riferimenti al passato sono forzati: negli anni 80 andava bene perché anche a colpi di debito pubblico crescevamo, il 2006 invece era l'anno prima della crisi...". Simona Caricasulo, docente di Economia aziendale dello sport, "l'Italia dopo il Covid aveva bisogno di questa vittoria perché significa ripresa, che diventa immediatamente fiducia se la vogliamo raccontarla in termini economici, però è anche un grandissimo messaggio di speranza. Che è quella di cui tutti quanti hanno bisogno. Tutti avevano bisogno in termini emotivi di questa vittoria. L'impatto sul Pil? Difficile fare delle stime in questo momento - risponde - però è chiaro che gli Europei rappresentano per il nostro Paese una vetrina straordinaria sul mondo, che rafforza sicuramente la brand identity dell'Italia. E questo sicuramente andrà a dare una ulteriore sferzata positiva a tutto il made in Italy. E poi ci sarà un ritorno in termini di turismo, di valorizzazione dei territori e vantaggi per tutti gli sponsor della nostra nazionale", svelando nel dettaglio cosa potrebbe succedere ai nostri conti. "L'anno successivo all'ultima grande vittoria degli azzurri a mondiali del 2006 in Germania - segnala ad esempio Coldiretti - l'economia nazionale è cresciuta in modo sostenuto con un aumento record del 4,1% del Pil, mentre il numero di disoccupati è diminuito del 10%. E di un altro 10% sono poi aumentate le vendite nazionali all'estero spinte dal successo di immagine dell'Italia che ha avuto un effetto traino anche sui prodotti made in Italy e sul turismo con un aumento 2,36 milioni di stranieri che sono venuti in Italia in vacanza nell'anno successivo alla memorabile vittoria". Sono questi i dati che fanno ben sperare. "Tra il 1986 ed il 2014 tutte le 8 nazioni che hanno vinto hanno sempre migliorato la loro crescita. Difficile però per l'Italia quest' anno fare più del 5% già preventivato. A meno di un miracolo alla Mancini", conclude la Stampa.

Euro 2020, Matteo Salvini contro Travaglio: "L'Italia ha battuto squadre da oratorio? Vedovo, prenditi un Maalox". Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. "L'Italia ha battuto squadre da oratorio". Ad oggi le parole di Marco Travaglio suonano come un terribile scivolone. Sì perché nonostante le gufate del giornalista gli Azzurri hanno vinto la finale degli Europei contro l'Inghilterra. E pensare che solo il 21 giugno il direttore del Fatto Quotidiano se ne usciva così: "C'è un grande entusiasmo per la Nazionale? Sì, c'è lo stesso entusiasmo che c'è per i numeri delle partecipanti alle primarie del Pd. Sono sempre numeri importanti perché è sempre meglio far decidere i cittadini e non le ristrette stanze dei partiti, però non esageriamo", aveva detto a Otto e Mezzo dopo tre vittorie italiane agli Euro 2020. E ancora, sempre nel salotto di Lilli Gruber su La7: "Finora abbiamo incontrato avversari da oratorio, spero che lo stesso bel gioco indubbiamente sciorinato dalla nostra Nazionale possa essere mostrato contro avversari di maggiore consistenza. Noi di solito le prestazioni migliori le facciamo sul finale. Quando andiamo molto bene nelle eliminatorie, di solito non andiamo bene nel prosieguo", aveva aggiunto per poi confessare che il "Mondiale del 1982, rimane il più grande Mondiale di tutti i tempi per me, lo abbiamo vinto dopo una pessima prova nelle eliminatorie quando rischiammo di essere sbattuti fuori. Diamoci una calmata: esultiamo per le vittorie ma teniamo presente che abbiamo battuto Svizzera, Turchia e Galles". Anche l'Inghilterra. E a ricordarglielo ci pensa Matteo Salvini con un tweet arrivato puntualissimo il giorno dopo la finale di domenica 11 luglio, quella in cui la Nazionale ha dato il meglio di sè: "Dose doppia di Maalox per il vedovo Marco Travaglio". In effetti il giornalista deve fare i conti con due sconfitte in pochi giorni: Giuseppe Conte che accantona il partito personale per il M5s e gli italiani che vincono gli Euro 2020.

Dai travaglisti ai progressisti, come rosicano gli anti-italiani. Marco Gervasoni il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Domenica notte a festeggiare per la vittoria della Nazionale non c'erano proprio tutti. C'era qualcuno che, come diciamo a Roma, "stava a rosicà". Domenica notte a festeggiare per la vittoria della Nazionale non c'erano proprio tutti. C'era qualcuno che, come diciamo a Roma, «stava a rosicà». Sono quelli che avevano puntato sulla sconfitta della Italia, un po' per alterigia verso il nostro Paese un po' per simpatia verso altri. Il più tenace anti italiano, nel senso della Nazionale, è stato il direttore del Fatto, Travaglio per cui un eventuale trionfo agli Europei sarebbe stata l'apoteosi di Figliuolo e di Draghi. Ora l'incubo del Fatto ha preso vita. Si tratta di un atteggiamento non nuovo: durante la guerra fredda i militanti comunisti tifavano per la Ddr o per la Cecoslovacchia e gli ex parlamentari di sinistra inveivano contro il calcio, oppio per le masse obnubilate dal «regime democristiano». Ma che una vittoria della Nazionale rafforzi un esecutivo non è affatto detto: pochi giorni dopo la vittoria del 1982 il governo Spadolini cadde, mentre nel 2006 il podio degli Azzurri non diede molto respiro al nuovo e però già claudicante esecutivo Prodi. Il fatto è che politicizzare lo sport è sempre operazione inutile, prima ancora che stupida. Proprio come quella di alcuni deputati Pd per i quali domenica avrebbe vinto meno l'Italia e più l'Unione europea. Una sciocchezza sesquipedale. E qui veniamo alla seconda tipologia dei rosicatori, annidati questa volta dalla parte del Pd e dei giornali vicini a quel partito. Fin da subito, a cominciare dal segretario Letta, hanno stalkerizzato gli Azzurri, chiedendo di inginocchiarsi contro il razzismo subito dagli afro americani. Poi hanno continuato a lamentare che gli Azzurri erano troppo bianchi (di pelle), troppo italiani etnicamente, mentre a loro dire le squadre migliori erano multi etniche (cioè con tanti calciatori di colore). A quel punto restavano solo due squadre diversamente politicamente scorrette: quella italiana, troppo bianca, e quella inglese, multi etnica si, ma emblema della Brexit. Su Repubblica abbiamo letto tuttavia che si trattava di «squadra progressista» (e quindi si presume da tifare). Se i rosicatori contiani in strada non c'erano, quelli piddini li abbiamo comunque individuati: si erano dimenticati di togliersi la mascherina della Francia. Marco Gervasoni

Dagospia il 13 luglio 2021. FERMI TUTTI! “IL FATTO” ANNUNCIA CHE NON ABBIAMO VINTO L’EUROPEO MA LA COPPA DEL COVID, DELLA RETORICA E DELLA VIOLENZA

Giampiero Calapà per il "Fatto quotidiano" - Estratto il 13 luglio 2021. Siam pronti alla morte, l'Italia chiamò. Una festa di popolo per celebrare una vittoria sportiva si trasforma in un delirio collettivo di violenze mentre la variante Delta del SarsCov2 dilaga da Londra a Barcellona e, chissà, fra qualche giorno come sarà la situazione di contagi e ospedalizzazioni in Italia viste le scene della notte e di ieri attorno all'autobus scoperto della Nazionale di calcio in trionfo per le strade di Roma. Nel frattempo, dall'ultimo rigore parato da Gigio Donnarumma all'alba è successo di tutto, come in un film distopico di qualche regista visionario. A San Severo, nel Foggiano, la criminalità ha approfittato dei festeggiamenti per compiere un delitto odioso nella confusione degli spari: un 42enne è stato ucciso a colpi di pistola mentre viaggiava su uno scooter, con lui c'era un bambino di sei anni, colpito all'addome e ricoverato: grave, ieri sera ancora in prognosi riservata. Dal profondo Sud alla laguna di Venezia. Cadavere in acqua. Giovane, senza documenti, non identificato. Segnalato intorno alle due e quaranta nel mezzo dei festeggiamenti. Milano, piazza Duomo affollata. Si sente un botto. Paura. Almeno dodici feriti per una bomba carta. A Caserta, qualche ora prima, mentre Italia e Inghilterra ancora si sfidavano a Wembley un 27enne sottoposto all'affidamento in prova ai servizi sociali andava in giro minacciando di farsi esplodere con un ordigno pirotecnico allacciato alla cintura: questo e altri episodi non c'entrano magari nulla con la notte dei festeggiamenti ma s' iscrivono in un delirio collettivo che contabilizza anche morti per incidenti stradali, strade devastate, risse e fioriere lanciate, a Napoli, contro poliziotti in assetto antisommossa.

Fabrizio d'Esposito per il "Fatto quotidiano" - Estratto il 13 luglio 2021. L'Italia del Mancio da sovrapporre a quella di Mario Draghi. Il mainstream in auge su tv e giornaloni che dapprima premette "questa non è retorica" e poi sbrodola nella felicità da luogocomunismo, senza alcun guizzo originale. Tutti uguali. Non solo. Ieri si sono sentite persino queste domande: "Qual è il significato geopolitico di questa vittoria?", "Come cambia la posizione dell'Italia sullo scacchiere internazionale". Giusto. Tocca mandare a trattare in Cina (dossier 5G) e poi alla Nato le nostre due colonne d'Ercole, Bonucci & Chiellini.

I COGNATI. A proposito di vita. L'enfasi fantozziana di Fabio Caressa, telecronista Sky, è stata un continuo invito ad abbracciarsi, baciarsi e festeggiare senza precauzioni, rivolto persino a Bergamo, la nostra città martire del Covid, dove sindaco è il cognato di Caressa. "Uno stadio pieno ci riporta alla vita". E a nuovi focolai a causa della variante Delta, probabilmente. 

RIMPASTO. Dunque, Donnarumma ministro dell'Economia, quantomeno del Turismo (comunque meglio dell'anonimo leghista Garavaglia). Indi Bonucci& Chiellini per Viminale, Difesa ed Esteri. Dopo la passerella un po' cheap di ieri a Palazzo Chigi (non bastava quella al Quirinale, peraltro più sobria?) non è da escludere un rimpasto.

Roberto Beccantini: “Nazione e Nazionale, filosofia e demagogia: che barba. L'anno del Cagliari campione, un inviato della Rai chiese a un pastore sardo cosa gli sarebbe venuto in tasca dallo scudetto. Il pastore lo sbirciò, seccato: "Scusi, cosa mi verrebbe se non lo vincesse?". Ripartiamo da qui”.

Euro 2020, Travaglio e la crisi di nervi: "Il noto leccapiedi dal nome volatile". Insulti alla penna di Repubblica. Libero Quotidiano il 14 luglio 2021. "Ma fatevi una vita". Marco Travaglio perde il controllo e dedica un intero editoriale a difendersi dall'accusa di essere anti-italiano. Dopo aver sparato a zero per anni contro la Nazionale a ogni occasione buona, accusandola di trasformarsi in un mezzo di propaganda politica e finendo per augurarsi una sua sconfitta a Mondiali o Europei per qualsivoglia motivo, il direttore del Fatto quotidiano incassa (malissimo) il successo degli Azzurri a Euro 2020 e in tutta risposta rifila insulti alla "congrega di spostati e pipparoli da Twitter e da cartastraccia" che se la sono presi col Fatto "come se avessimo perso noi". "I due maggiori cazz***i della politica non hanno nulla di meglio da fare che commentare ciò che non ho mai detto - scrive il direttore, accusando senza citarli Renzi e Salvini -. E svariati 'colleghi', un istante dopo il rigore sbagliato da Saka, anziché gioire per l'Italia già twittavano contro di me (ma come siete messi? ma fatevi una vita)". Certo, il tono inquisitorio di Travaglio non aiuta mai: "Rispondendo alla Gruber, avevo solo detto che nelle eliminatorie avevamo battuto tre squadrette ed era presto per esultare". Vero, ma sembrava più una gufata compiaciuta che una analisi tecnica. Come del resto non era "tecnico" il suo tifo contro l'Italia ai Mondiali 2006. "Ai tempi del doping e di Calciopoli - riconosce -, tifai contro la mia Juve finita nelle grinfie del clan Moggi e contro la Nazionale di Lippi &C. che ne era la legittima erede, nell'illusione di una bonifica. Ma il calcio restò marcio. E il tifo è roba di pancia: dalla mia non sale più nulla". In realtà qualcosa sale, eccome. E non è affatto piacevole. Domenica "ho assistito alla finale di Wembley nella più assoluta indifferenza: come se giocassero Malta e Lussemburgo". Travaglio guardava già altrove, cioè al governo Draghi che "prima profittando della distrazione generale per infilare il Salvaladri, come B. il 13 luglio '94 (semifinale mondiale); poi calandosi le brache dinanzi agli azzurri per il bagno di folla in pullman contro il parere dei ministri della Salute e dell'Interno". Per finire, lo schiaffo a Francesco Merlo di Repubblica, "noto leccapiedi dal nome volatile che distribuisce patenti di 'cretino anti-tifoso' a chi non lecca come lui". Campioni d'Europa anche in rosicamento.

L'Italia vince ma Fedez e la Ferragni non se ne accorgono. Francesca Galici il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Hanno guardato la partita sul divano insieme agli amici come tantissimi italiani ma ci hanno messo un po' a capire che l'Italia aveva vinto: il video è virale. Alle 23.52 dell'11 luglio 2021, sulla maggior parte dei divani delle case degli italiani, la scena è stata pressoché la stessa. Gigio Donnarumma che para il rigore a Saka e l'urlo all'unisono che invade le città e scuote i palazzi da Trieste in giù e anche più su. Quasi un intero Paese, l'83.5% degli italiani, dirà stamattina il responso auditel, è rimasto davanti alla tv per assistere al trionfo dell'Italia, con punte vicine al 90% durante i rigori. Tra loro c'erano anche vip, sportivi e politici, perché niente come il calcio sa unire gli italiani e funzionare da livella. Davanti alla tv c'era anche la famiglia Ferragni. Fedez e Chiara, col piccolo Leone, hanno assistito con pathos a tutta la partita insieme ad alcuni amici, senza accorgersi alla fine che avevamo vinto il campionato d'Europa. Ovviamente, i Ferragnez hanno seguito la partita con grande attenzione all'aspetto social. Vestiti con i colori del Tricolore, così Chiara Ferragni, Fedez e Leone si sono presentati ai loro follower pochi minuti prima dell'inizio della partita. Con un completo verde l'influencer, bianco il piccolo e rosso il rapper, hanno iniziato a tifare per gli Azzurri non prima che Leone spernacchiasse Baby George, il figlio di William e Kate, nonché terzo in linea di successione al trono d'Inghilterra. Primo tempo di sofferenza anche per i Ferragnez ma soprattutto per Leone, che è scoppiato a piangere quando, ad appena due minuti dall'inizio del primo tempo, Luke Shaw ha sorpreso la formazione italiana infilando la palla in rete. In quel momento sull'Italia è caduto un silenzio surreale per qualche secondo. I giocatori in campo sono apparsi tramortiti al pari dei tifosi sugli spalti e sui divani. È servita più di un'ora affinché Leonardo Bonucci pareggiasse i conti con gli inglesi, probabilmente anche spinto dalla voglia di festeggiare la vittoria insieme a sua moglie che, poche ore prima, gli aveva scritto una dedica hot via social. Nel frattempo, ironizzando sulla forza mediatica e social di Chiara Ferragni che, sia al festival di Sanremo che all'Eurovision, ha spostato decine di migliaia di voti, i Ferragnez invocavano il televoto. Il pathos crescente dei tempi supplementari ha poi portato alla lotteria dei rigori e sarà stata la freddezza di Gigio Donnarumma, sara stata l'emozione e l'incredulità, ma Chiara Ferragni e Fedez ci hanno messo qualche secondo a capire che sì, l'Italia era salita sul tetto d'Europa vincendo contro l'Inghilterra. D'altronde, ognuno ha i suoi tempi. Ma a quel punto anche in casa Ferragnez è scoppiata la festa azzurra.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Dal "Corriere della Sera" il 12 luglio 2021. Bufera social sull'astronauta italiano dell'Esa Luca Parmitano che, al gol di Shaw, si è fatto prendere dall'entusiasmo sui social: «Che gol! Ben fatto Inghilterra». Alle risposte più o meno piccate dei tifosi su Twitter («La prossima volta nello spazio ti ci lasciamo», uno dei tanti commenti), Parmitano ha replicato: «Per info: ovvio che tifo Italia. Ma lo sport deve essere rispetto per l'avversario. E lo spettacolo è da entrambe le parti. Adesso tocca agli Azzurri continuare a giocare!». Una spiegazione che non ha convinto del tutto il popolo dei social. 

Marco Travaglio per il "Fatto quotidiano" il 15 luglio 2021. Da quando la Nazionale ha vinto con merito l'Europeo, una congrega di spostati e pipparoli da Twitter e da cartastraccia se la prende col Fatto come se avessimo perso noi. Tutto, come sempre accade nell'"informazione" all'italiana, si basa su una fake news: e cioè che noi tifassimo Inghilterra. Cosa che nessuno ha mai detto o scritto, anche se non ci sarebbe stato nulla di male: ciascuno ha il diritto di tifare per chi gli pare o di non tifare per nulla. L'unico articolo uscito sul Fatto contro la vittoria della Nazionale l'ha firmato Massimo Fini che, prevedendo al dettaglio l'uso politico della vittoria da parte di Draghi&C. (come in passato con Spadolini, Pertini e altri papaveri), confessava di tifare Belgio. Ma i due maggiori cazzari della politica non hanno nulla di meglio da fare che commentare ciò che non ho mai detto. E svariati "colleghi", un istante dopo il rigore sbagliato da Saka, anziché gioire per l'Italia già twittavano contro di me (ma come siete messi? ma fatevi una vita). "Travaglio non ne azzecca una": peccato che non avessi fatto alcun pronostico. Rispondendo alla Gruber, avevo solo detto che nelle eliminatorie avevamo battuto tre squadrette ed era presto per esultare. Peraltro, diversamente da chi vive in diretta social h 24, anche quando va al cesso, convinto che le sue gesta appassionino i più, non ho mai pensato che il mio tifo interessi a qualcuno. Ma c'è sempre chi me lo chiede. Ai tempi del doping e di Calciopoli, tifai contro la mia Juve finita nelle grinfie del clan Moggi e contro la Nazionale di Lippi &C. che ne era la legittima erede, nell'illusione di una bonifica. Ma il calcio restò marcio. E il tifo è roba di pancia: dalla mia non sale più nulla. Domenica ho sofferto per Berrettini, poi ho assistito alla finale di Wembley nella più assoluta indifferenza: come se giocassero Malta e Lussemburgo. Meno indifferente mi lascia l'uso politico che il governo Draghi e i suoi trombettieri, molto più populisti di chi fingono di combattere, fanno della vittoria: prima profittando della distrazione generale per infilare il Salvaladri, come B. il 13 luglio '94 (semifinale mondiale); poi calandosi le brache dinanzi agli azzurri per il bagno di folla in pullman contro il parere dei ministri della Salute e dell'Interno, in una "trattativa Stato-Bonucci" che ha coperto di ridicolo le istituzioni, oltre ad aggiungere focolai di Covid a quelli delle "notti magiche" con ammucchiate di piazza. Un discorso a parte meriterebbe un noto leccapiedi dal nome volatile che su Rep distribuisce patenti di "cretino anti-tifoso" a chi non lecca con e come lui. Ma, diceva La Rochefoucauld, "in questi tempi difficili è opportuno concedere il nostro disprezzo con parsimonia, tanto numerosi sono i bisognosi".

Euro 2020, Filippo Facci contro Marco Travaglio: "Schadenfreude", basta una parola per demolire il rosicone ossessionato. Filippo Facci su Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. È difficile distinguere tra coerenza morale e voler fare i bastiancontrari a tutti i costi: forse è il caso del collega Massimo Fini, che peraltro scrive su un giornale che ha messo in relazione l'approvazione della Riforma Cartabia con i successi dell'Italia agli Europei, come se fosse stata una furbata per far ingoiare l'indigeribile pillola. Ma prima rileggiamo Massimo Fini: «Draghi si approprierebbe della vittoria come fecero nel 1982 il presidente Pertini e persino Giovanni Spadolini... Il generale Figliuolo, prendendo da Berlusconi, direbbe che l'Italia vince perché adotta la sua logistica». In sostanza - nostra traduzione - non si può vincere né tifare (mai) perché al potere c'è sempre qualcuno che si beccherebbe riflessi vincenti. «Non posso tifare Italia perché è un Paese di corrotti, a tutti i livelli, anche i più infimi (alla Canottieri, prestigioso Circolo meneghino per la cui iscrizione si pagano circa 1.300 euro, dove vado a nuotare, mi hanno rubato anche le mutande sporche)». E qui diciamo che Fini ha i suoi sporchi motivi. «Vogliamo ricordare Cirano, lo spettacolo televisivo dove, per la prima volta, a 60 anni suonati avevo il ruolo nemmeno di conduttore ma solo di commentatore, bloccato il giorno prima che andasse in onda... Vogliamo ricordare che quando Guglielmo Zucconi mi propose per la vice direzione del Giorno si mise di traverso il mio ex compagno di banco Claudio Martelli... Vogliamo ricordare l'ostracismo, costante, continuo, capillare, che mi è stato fatto per anni da tutti i principali network televisivi e radiofonici... ?». Vogliamo ricordare tutto questo? No, sinceramente: la biografia di Massimo Fini resta una somma di cazzi suoi (in parte cercati, come sa benissimo, e che molto gli hanno dato, oltreché togliergli) ma che sarebbero replicabili per qualsiasi nazione, ciascuna delle quali è sicuramente peggiore di un'altra ma anche migliore di un'altra ancora.

RICORSI STORICI

Poi vabbeh, dobbiamo nominarlo: Travaglio. Marco. Il calcio gli è sempre piaciuto (negli anni Novanta scrisse «stupidario del calcio» e soprattutto «Palle mondiali», il suo testo più autobiografico) ma nel 1994, il 13 luglio, mise in reazione il nascituro Decreto Biondi (per arginare l'abuso della custodia cautelare) con un Paese «paralizzato dall'attesa per Italia-Bulgaria, semifinale dei mondiali di calcio a New York. Chi vince va in finale con il Brasile... approfittando della distrazione generale, sono in discussione provvedimenti che faranno epoca». Fortuna che Roberto Baggio sbagliò il rigore in finale: forse, il Decreto, non l'approvarono per questo. Ma quello di Travaglio era un modus vivendi: «Io non tifo Italia, tifo Germania», disse nel 2012. «Se dovessimo vincere a questi Europei ci dimenticheremmo subito dello scandalo scommesse, come nel 2006 ai mondiali. Insomma, spero che l'Italia venga eliminata subito, immediatamente». Poi non andò male, ma neanche benissimo.

IL TOTEM

E arriviamo all'oggi, articolo dell'8 luglio: «La controriforma Cartabia, presentata mentre l'Italia è distratta dagli Europei, è un salvaladri molto più grave del decreto Biondi votato (e poi ritirato a furor di popolo) dal governo B. il 13 luglio '94 mentre l'Italia era distratta dai Mondiali». Però, questa volta, non ce l'ha fatta aportare storicamente sfiga: l'Italia ha vinto i campionati europei ed era addirittura già passata la Riforma Cartabia. E visto che Travaglio tifava Germania, capirà questo termine: «Schadenfreude». È quel sottile fremito di piacere che si prova quando ad altri sta andando male, soprattutto se il partito di riferimento (o movimento) pare sereno e pacificato più o meno come lo sono i tifosi inglesi. Ultima nota sul Fatto: sul giornale di oggi (da anticipazioni di ieri) si demonizzano i festeggiamenti calcistici quali fonte di contagio, e c'è l'infettivologo Massimo Galli nella parte della Cassandra: «In capo a una settimana-10 giorni vedremo gli effetti sui contagi», ma tranquilli, «nuove misure sembrano allo studio». Forse vieteranno di vincere gli europei e costringeranno a festeggiare in tinello, con mascherina a distanziamento. Ultima notarella, invece, per Beppe Severgnini, che non ha propriamente gufato la nazionale (è sempre un uomo di marketing) ma ha rilanciato una vignetta su Twitter dove si evidenziava che la squadra inglese, senza immigrati, l'Inghilterra avrebbe avuto solo tre giocatori propriamente inglesi, mentre l'Italia ne aveva nove decisamente di origine italiana. E questa laincassiamo perché ci pare un merito: per i campionati multiculturali ci sono già le squadre di club, laddove essere italiani ormai è retroguardia. 

Euro 2020, Antonio Socci e il cortocircuito a sinistra: ci volevano in ginocchio e ora sventolano il tricolore. Antonio Socci su Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Ha vinto l'Italia, il popolo è esploso gioiosamente cantando l'inno nazionale e sventolando il tricolore. Così nei salotti snob è suonato l'allarme: che fare? Contrordine compagni. Quelli che fanno sempre professione di cosmopolitismo, che tuonano contro le identità, le nazioni, le frontiere, quelli che si sentono «cittadini del mondo» e accusano gli avversari di «sovranismo», si sono rapidamente adeguati. D'improvviso tutti patrioti (per qualche ora). Non più bandiera della Ue, bandiere rosse o bandiere arcobaleno, ma tutti a sventolare il tricolore, perfino su quel giornale che da mesi, sotto la testata, come sfida ideologica, ha collocato la bandiera della Ue (e solo quella). E perfino sulla prima pagina di Repubblica dove l'editoriale di ieri, firmato da Ezio Mauro, era intitolato addirittura «La passione tricolore». Bella espressione che - se fosse il titolo di una manifestazione del centrodestra - verrebbe immediatamente bombardata come un segnale di rozzo sovranismo, di sciovinismo e di pericoloso nazionalismo nostalgico. Perché il vero sport prediletto di certe élite progressiste non è il calcio, ma è sempre stato l'auto denigrazione nazionale, il sentirsi anti-italiani, è il vincolo esterno, la cessione di sovranità, è la cittadinanza Ue, è la filippica contro "l'Italia alle vongole" che rappresentano plebea, provinciale, rozza, corrotta, mentre gli altri popoli europei, loro sì che sono civili e seri (infatti abbiamo visto ieri come si sono comportati civilmente molti tifosi dell'Inghilterra, da decenni esaltata come esempio di fair play, di signorilità e virtù civiche).

NARRAZIONE IN CRISI

Domenica c'è stato il cortocircuito. Tutta la narrazione anti-italiana è andata a ramengo. La nostra nazionale ha vinto meritatamente, con maestria, lealtà e spirito sportivo. Ma soprattutto gli azzurri hanno con sé l'entusiasmo di tutto un popolo. Il fatto è che la gente comune ha ancora il forte orgoglio della propria identità italiana. I nostri concittadini in gran parte sentono la grandezza della nostra storia e dell'esserne parte. Così è il nostro popolo. E allora sorge il problema - per i salotti illuminati - di non mostrarsi lontani da un sentimento popolare così forte in circostanze come queste. Perciò giornali e intellettuali del mondo progressista sono corsi ai ripari sventolando anch' essi il tricolore e ripetendo che per il tifo calcistico va bene l'orgoglio patriottico e pure l'inno nazionale, ma - sia chiaro - solo per il calcio (o gli altri sport). Insomma, è ammesso sentirsi fieramente italiani, ma solo per gioco. Solo nello sport. Non nella vita reale. Lì, nella realtà, è il centrodestra che interpreta questo profondo animo popolare, trovandosi in perfetta sintonia con la gente. Perfino negli slogan (Forza Italia, Fratelli d'Italia) e nei simboli (il tricolore sventolato sempre da Salvini e il suo «prima gli italiani»). Non si tratta ovviamente solo di richiami sentimentali al patriottismo, ma di un'offerta politica - quella del centrodestra - basata sulla difesa degli interessi nazionali italiani (in Europa e nel mondo), sulla difesa dell'identità culturale e spirituale del Paese e pure delle sue frontiere. Sono da considerare idee aggressive, di inimicizia verso gli altri popoli? Sottintendono razzismo e odio verso gli stranieri? Obiettivamente no. Tutt' altro. La civiltà italiana del resto è sempre stata universale, al mondo ha dato per secoli una ricchezza che è oggi patrimonio dell'umanità. Il centrodestra vuole difendere - insieme alle nostre radici culturali - gli interessi economici degli italiani alla maniera di Enrico Mattei (padre dell'Eni), difenderli specialmente nella Ue dove in questi anni siamo stati vasi di coccio fra vasi di ferro. Del resto oggi lo stesso Draghi prova a fare così (Germania, Francia e gli altri lo fanno da sempre). Ma non importa. Quelle idee "identitarie" del centrodestra, di promozione dell'Italia e difesa degli italiani, sembra che facciano venire l'orticaria agli ambienti progressisti. Forse perché il problema vero della cultura progressista non è (solo) l'esistenza del centrodestra. Il problema inconfessato è l'Italia, l'esistenza di una identità italiana. Si potrebbero citare libri e interventi in proposito. Tempo fa uscì un significativo articolo di Ernesto Galli della Loggia, sul Corriere della sera, intitolato: «L'identità esiste (ma a sinistra c'è chi dice no)». 

QUANTO FASTIDIO

In fondo, che il calcio la faccia tornare fuori così festosamente nelle piazze e negli animi, dà molto fastidio a certi "salotti illuminati". Lo scrittore Alessandro Baricco, che è «un grandissimo tifoso di calcio», ha raccontato, quando è morto Paolo Rossi, come visse la sera della gloriosa finale dei Mondiali del 1982: «Ero ospite nell'entroterra ligure di intellettuali comunisti che non sapevano assolutamente nulla di calcio. Mi sono ritrovato per tutta la partita a dover spiegare persino le regole base del gioco... E quando abbiamo vinto, intorno c'era il silenzio più totale, esultare sembrava così inelegante... Dal terrazzo vedevo le luci della costa e la gente, lontano, che festeggiava. Insomma, quel Mondiale me lo sono perso alla grandissima». Quella sinistra stavolta si è interessata al Campionato europeo solo perché voleva che i giocatori si inginocchiassero in omaggio a BLM. Quella sinistra è tuttora lontana dalla gente che festeggia la vittoria italiana.

Giampiero Mughini per Dagospia il 12 luglio 2021. Caro Dago, quando nel 1938 in Italia il fascismo mussoliniano dominava incontrastato e a Parigi stavano per cominciare i campionati del mondo di calcio (che la nazionale italiana guidata da Vittorio Pozzo aveva già vinto nel 1934, e vincerà nuovamente nel 1938), un gruppo di italiani esuli antifascisti in Francia promosse il boicottaggio degli azzurri, ossia di tifare contro di loro. Solo che Leo Valiani, uno dei più grandi intellettuali del Novecento (uno il cui nome pochi di voi hanno mai sentito pronunciare), ribatté che questa era una sciocchezza, una cosa era il regime fascista un’altra cosa erano gli atleti che portavano la maglia italiana la cui identità era cara alla gran parte del popolo italiano e che perciò andavano sostenuti e applauditi. Ho pensato a Valiani e a questo antefatto quando nei giorni scorsi qualcuno ha invitato a non tifare per la nazionale italiana pur di non giovare al destino politico del governo presieduto da Mario Draghi. Inauditi cazzoni. Così come mi divertivo alle immagini di un qualche giornalista che a Cannes interrogava il mio vecchio amico Nanni Moretti stuzzicandolo se sì o no lui avesse tifato per la nazionale italiana che ieri si apprestava a vincere il titolo europeo, e lui rispondeva a denti stretti che aveva avuto solo il tempo di guardare il cerimoniale dei rigori. Nanni pur di andare contro il sentimento diffuso è disposto a tutto, ciò che a me lo rende irresistibilmente simpatico; nel 1982 lui e suo fratello Franco, altro grande mio amico di un’epoca lontana, tifavano per la “grande bellezza” del Brasile contro un’Italia formidabile in difesa e che poi avrebbe annichilito tutti fino alla conquista del titolo di campione del mondo. Anch’io non amo i sentimenti “diffusi” e talmente maggioritari, in qualche caso li disprezzo. Tutt’altra cosa nello sport, la contesa la più leale e la più teatrale di tutte, dove la posta in gioco è talmente palese e talmente evidente, e dove nel 90 per cento dei casi vince chi ha meritato di più, chi ha saputo durare e soffrire sino all’ultimo. Come ieri nel titanico scontro con gli inglesi sul loro campo londinese per eccellenza e mentre 50/60 mila sulle gradinate erano dalla loro parte e laddove i tifosi italiani erano 7/8mila. Una sfida tanto titanica quanto leale, e in fatto di lealtà mi colpisce che i giocatori inglesi si siano comportati tutto fuorché da gentlemen col togliersi dal petto la medaglia d’argento che avevano meritato sul campo.  Mi direte che è ben strano un Paese in cui cittadini si riuniscono e si sentono solidali e acclamano i loro beniamini solo quando si tratta del pallone. Avete cento e una ragione. Detto questo, se il pallone ha questa forza suasivamente simbolica ed elettrizzante perché dire di no. Accadono meraviglie sul campo verde del football, esplosioni di italianità nelle prestazioni dei vari Donnarumma Spinazzola Chiellini Verratti Chiesa, meraviglie di italianità in giocatori che il più delle volte sono alti la metà degli atleti del nord nelle cui famiglie la carne si mangiava da secoli e non da una cinquantina d’anni come da noi. Non è proprio possibile tenere il nasino sprezzantemente in su innanzi alle immagini delle piazze festanti, e ditemi voi se dopo questi ultimi due anni cupissimi non era davvero il caso di vedere delle piazze festanti dopo i 127mila morti che la pandemia ci ha appioppato. Purché la festa non attenga solo al pallone, mi direte. Certo, certo, certo. Ma per intanto godiamocela questa festa che ci è venuta dalle parate di Donnarumma, dalle incursioni sulla sinistra di Spinazzola, dal Jorginho che in una partita su 73 passaggi ne azzecca 72. Non è forse anche questa una “grande bellezza” come la storia italiana ne vanta in tutti i campi dell’arte?

Fabio Licari per "la Gazzetta dello Sport" il 12 luglio 2021. Sì, è un successo anche per la casse della Figc. Vincendo l'Europeo l'Italia ha incassato il massimo possibile, 28,25 milioni di euro, grazie ai tre successi su tre nella fase a gruppi. Uno "score" con il quale gli azzurri diventano la squadra che ha messo nelle casse più milioni di premi Uefa nella storia dell'Europeo: 99,25. Superato il Portogallo che era al comando e adesso è un milione sotto (98,2). Una percentuale di questa somma andrà in premi ai giocatori: l'accordo tra gli azzurri e il presidente Gravina prevede 250mila euro a testa per i campioni (sarebbero stati 200mila per il secondo posto, 150mila per la semifinale e 80mila per i quarti). Premi Uefa Quelli Uefa non sono premi da Champions, ma una bella ricchezza. Tenendo anche conto del fatto che il Covid ha bruciato parte del fatturato del torneo (lo spostamento di un anno ha fatto perdere il 25-30% del totale) e, di conseguenza, il montepremi per le 24 finaliste. Adesso le squadre si dividono 331 milioni, -11% rispetto al montepremi previsto di 371 milioni. Comunque un record. Nel 2016 la somma totale era stata 301 milioni. La prima volta che furono distribuiti premi Uefa, nel 1996, alle 16 finaliste andarono appena 55 milioni: il calcio è cambiato da allora. Il Portogallo campione 2016 ne aveva presi 25,5. Guadagnano anche i club, a titolo di "partecipazione agli utili" del torneo, in base al periodo in cui saranno impegnati i loro giocatori. Circa 200 milioni da dividere tra i 624 convocati. Premi federali Nel 1982 i campioni di Spagna avevano guadagnato 180 milioni di lire (circa 90mila euro). Nel 2006, dopo il trionfo di Berlino, gli azzurri avevano ricevuto 250mila euro (sarebbero stati 180mila per il secondo posto). Anche all' Europeo 2012 il secondo posto era valso 200mila euro. L' Inghilterra è la nazionale che aveva promesso di più nel torneo: 540mila euro a giocatore (al cambio con la sterlina). Il Belgio avrebbe pagato 435mila euro, poco più di Germania e Spagna (400mila). Francia e Portogallo inseguivano 340mila euro, più o meno la stessa cifra promessa dalla Danimarca. Gli olandesi, parchi, 200mila euro in caso di vittoria finale. In tanti hanno risparmiato...

Paolo Baroni per "La Stampa" il 12 luglio 2021. L'ultima parata di Donnarumma, che ha condannato l'Inghilterra alla sconfitta al termine dei calci di rigore, potrebbe valere la bellezza di 12 miliardi di euro. Dodici miliardi di crescita in più della ricchezza nazionale. Non da oggi, infatti, i vari esperti di quella che potremmo chiamare la «Soccer-nomics» si sono prodotti in previsioni sugli effetti che vittorie come quelle di ieri sera dell'Italia possono avere sul Pil. E molte ricerche concordano sul fatto che vincere i mondiali o anche ai campionati europei di calcio costituisce sempre un volano straordinario per l'economia del Paese vincitore, il cui prodotto interno aumenta in media dello 0,7% in più. L'effetto dei gol «Male non fa!» commenta sintetico un economista, e grande esperto di calcio, come Carlo Cottarelli prima che le squadre scendano in campo. Più cauto Mariano Bella, capo economista di Confcommercio: «In questa fase molto particolare della nostra economia, in cui già ci attendiamo un rimbalzo forte del Pil, è difficile dire quale giovamento possa portare una vittoria del genere. È chiaro che poi tutto fa brodo, ma anche i riferimenti al passato sono forzati: negli anni 80 andava bene perché anche a colpi di debito pubblico crescevamo, il 2006 invece era l'anno prima della crisi...». Per Simona Caricasulo, che alla Luiss di Roma insegna Economia aziendale dello sport, «l'Italia dopo il Covid aveva bisogno di questa vittoria perché significa ripresa, che diventa immediatamente fiducia se la vogliamo raccontarla in termini economici, però è anche un grandissimo messaggio di speranza. Che è quella di cui tutti quanti hanno bisogno. Tutti avevano bisogno in termini emotivi di questa vittoria. L'impatto sul Pil? Difficile fare delle stime in questo momento - risponde - però è chiaro che gli Europei rappresentano per il nostro Paese una vetrina straordinaria sul mondo, che rafforza sicuramente la brand identity dell'Italia. E questo sicuramente andrà a dare una ulteriore sferzata positiva a tutto il made in Italy. E poi ci sarà un ritorno in termini di turismo, di valorizzazione dei territori e vantaggi per tutti gli sponsor della nostra nazionale».

I precedenti. Se si guarda agli episodi del passato qualche conferma sull'«effetto football» lo si ritrova. «L'anno successivo all'ultima grande vittoria degli azzurri a mondiali del 2006 in Germania - segnala ad esempio Coldiretti - l'economia nazionale è cresciuta in modo sostenuto con un aumento record del 4,1% del Pil, mentre il numero di disoccupati è diminuito del 10%». E di un altro 10% sono poi aumentate le vendite nazionali all'estero «spinte dal successo di immagine dell'Italia che ha avuto un effetto traino anche sui prodotti made in Italy e sul turismo con un aumento 2,36 milioni di stranieri che sono venuti in Italia in vacanza nell'anno successivo alla memorabile vittoria». Se si analizzano le ultime tredici edizioni dei mondiali, da Messico 1970 a Russia 2018, secondo un modello economico messo a punto negli anni passati da Abn Amro, balza all'occhio una crescita media del Pil dello 0,77% a favore dei vincitori. Praticamente inalterata (-0,05%), invece, la crescita reale dei secondi classificati. A vittoria sul campo, comunque, non sempre corrisponde automaticamente un rimbalzo del Pil. Su 13 coppe del mondo, infatti, in ben 4 casi (poco meno di un terzo del totale) la nazione vincitrice ha visto calare la propria ricchezza nazionale. È successo nel 1974 alla Germania e nel 1978 all'Argentina che addirittura finì in recessione. Di contro però tra il 1986 ed il 2014 tutte le 8 nazioni che hanno vinto hanno sempre migliorato la loro crescita. Difficile per l'Italia quest'anno fare più del 5% già preventivato. A meno di un miracolo «alla Mancini». 

Tifare contro la nazionale di calcio significa tifare anche contro la ripresa della nazione. Andrea Viola, Avvocato e consigliere comunale, Italia Viva, su ilfattoquotidiano.it il 22 giugno 2021. Oramai siamo alla follia. Le vedove di Conte e Casalino pur di gettare pessimismo e negatività sono disposte a tifare anche contro la Nazionale di calcio. Il motivo? Altrimenti Draghi e Figliuolo potrebbero appropriarsi della vittoria della Nazionale di Roberto Mancini. Così ad esempio scrive oggi Massimo Fini in un suo articolo. Non so se ironico o meno ma l’articolo in questione rappresenta uno specchio di una parte della nostra società odierna. Sempre piena di pregiudizi e di saccenza. Mai imparziale ma sempre pronta a mantenere un atteggiamento da tifoso nel vero senso letterale del termine. Addirittura talmente tifoso politico da andare contro anche la propria Nazione e Nazionale. Quelli che si credono sempre i più bravi, i più colti, i più rivoluzionari, i più furbi, i più di sinistra. Come diceva nell’antica Roma “Er più”. Insomma, questo modo di fare ha francamente stufato. Non si può essere italiani e tifare contro se stessi. E’ il classico atteggiamento di chi preferisce che le cose vadano male per dire: “ve lo avevo detto” o implicitamente dire: “il migliore sono io”. Ed è questo che sta accedendo in questa fase politica. Una buona parte del solito sistema aveva deciso di sposare il duo Conte e Casalino. Senza se e senza ma. Potevano fare tutto. Potevano gestire la pandemia con la finzione organizzata da Casalino e Arcuri senza che nessuno potesse alzare la testa e svelare i veri problemi. Tutti stretti al sistema di potere a negare l’evidenza e ad accusare chi voleva semplicemente migliorare le cose nell’esclusivo interesse generale. Oggi grazie a queste persone coraggiose e capaci di andare contro corrente senza timore abbiano il governo Draghi. I risultati sulla gestione della pandemia e del Recovery Plan sono talmente forti ed evidenti che i nostalgici di Conte sono appollaiati come avvoltoi: basta un piccolo pretesto e il solito gruppetto di vedove inconsolabili esce fuori a sparare contro draghi e figliuolo. Discorsi deliranti e privi di fondamento. Ma la cosa grave è che queste persone sperano e tifano veramente non solo contro la nazionale di calcio ma contro la ripresa della nostra nazione. Ed è questo il fatto ancor più grave. Pur di andare contro i politici che si odiano si va contro gli interessi generali della società. Perché non è possibile che non si possa essere onesti intellettualmente e gioire se l’Italia esce velocemente e bene dalla pandemia. Non è possibile sperare nel fallimento del governo solo per poter dire che era meglio Conte. Non è possibile tifare sempre contro a prescindere. E questo atteggiamento è ancora più assurdo se si fa il mestiere del giornalista. E’ impossibile che non si riconoscano mai i meriti degli altri solo perché di un partito odiato. Si parla di odio perché altri modi per descrivere certi comportamenti e certe ossessioni non ci sono. E’ tutto abominevole. Queste persone e questi professionisti hanno veramente la variante del “tifo politico”. Non riescono ad essere obiettivi mai neanche quando dovrebbero farlo per lavoro. E quindi basta con questo stile di vita. Fa male soprattutto a loro stessi. Vederli difendere l’indifendibile solo per andare contro Draghi è penoso e fa anche un pochino di tenerezza e pena. Quindi un consiglio: se proprio dovete sempre tifare, tifate Italia. Italia calcistica, Italia politica, Italia cantanti, Italia come volete voi ma gioite quando le cose vanno bene. Provate a sorridere e vedrete che proverete anche un pochino di allegria che forse vi manca. Viva l’Italia. Viva gli italiani che ci credono, che hanno coraggio, che lottano contro il qualunquismo, che non si adeguano al populismo e che gioiscono per difendere gli interessi di tutti, anche di quelli che remano contro le sorti della nostra nazione. speriamo di vincere gli Europei nonostante i gufi e pessimisti.

Francesco Verderami per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. La vittoria all'Europeo è una dose supplementare di vaccino contro la pandemia, perché ha un effetto di massa che genera ottimismo, ha un valore economico e sociale. Perciò poche ore prima della finale, in una telefonata di lavoro con Salvini, Draghi faceva gli scongiuri: «Speriamo che... Meglio non dirlo. Ma farebbe gran bene all'Italia». «Serve un presidente del Consiglio fortunato oltre che bravo», commentava ieri il leader della Lega. Per certi versi di questa fortuna Draghi non avrebbe politicamente bisogno, dato che non deve candidarsi alle elezioni. Non è come Berlusconi, che ai Mondiali del '94 vide gli azzurri perdere ai rigori dai brasiliani a un passo dalla Coppa. Non è come Prodi, che ai Mondiali del 2006 festeggiò il successo ai rigori della Nazionale contro i francesi. Il calcio è un fenomeno da stadio capace di impattare sul Pil e sulle urne, se è vero che nell'82 persino Spadolini arrivò ad affacciarsi da un balcone di Palazzo Chigi per inneggiare ai ragazzi di Bearzot. L'attuale premier invece non ha motivi di preoccupazione nella gestione del governo e ha un forte rapporto con il Paese, che da tempo gli accredita stabilmente il 60% di gradimento. Ma la partita di Wembley ha un valore politico più importante, che Draghi ha voluto sottolineare incontrando la squadra di Mancini: «Ci avete messo al centro dell'Europa». È soprattutto oltre confine che può essere sfruttata questa vittoria. Nella sfida agli inglesi, infatti, gli azzurri rappresentavano l'intera Unione: così era stata presentata mediaticamente dai vertici dell'Ue. E allora non è un caso se Mattarella - ricevendo la Nazionale al Quirinale - ha detto alla squadra che «avete fatto felici milioni di persone. E non solo in Italia». Lo sport è un vettore formidabile per l'immagine di un Paese. Ecco perché, oltre a festeggiare i calciatori, il presidente della Repubblica e il presidente del Consiglio hanno voluto valorizzare anche il primo posto nel medagliere degli azzurri under 23 agli Europei di atletica, e la finale a Wimbledon di Berrettini, punta di lancia di un movimento che vanta dieci tennisti nei primi cento posti del ranking mondiale. Ecco perché nei giorni scorsi, in un colloquio riservato, il presidente del Coni Malagò aveva ribadito al premier quanto fosse «preziosa e da salvaguardare l'autonomia del Comitato olimpico». Ed ecco perché Draghi ieri ha tenuto a ricordare come il governo stia investendo molte risorse sullo sport, «che è un grande ascensore sociale, un argine al razzismo e uno strumento di coesione». A livello nazionale l'impatto politico dell'Europeo non avrà riflessi sui partiti, che peraltro stanno (quasi) tutti in maggioranza. Semmai l'esecutivo spera che la vittoria nel calcio contribuisca alla vittoria della campagna vaccinale. Ieri infatti il Commissario all'emergenza Figliuolo ha usato gli azzurri in visita all'ospedale militare del Celio come testimonial: «Vaccinati e vincenti». Insomma la battaglia di Wembley porta dividendi a Palazzo Chigi, ed è chiaro perché Renzi abbia attaccato quanti «meschinamente avevano tifato contro la Nazionale, perché altrimenti avrebbe vinto l'Italia di Draghi». Ma tutte queste considerazioni non erano le priorità del premier a poche ore dall'inizio della partita. Lui, che avrebbe voluto andare a Wembley, ricevendo la telefonata di Salvini, ha esordito: «Se mi avesse chiamato più tardi non le avrei risposto». Come milioni di italiani stava per entrare in trance agonistica. La stessa che si è colta negli occhi di Mattarella, quando Bonucci ha segnato. Quel lampo nello sguardo del capo dello Stato vale un trattato di psicologia che fa giustizia del politically correct : è sentimento tribale, è tifo. Ed è da tifoso che Draghi si è interrotto mentre leggeva il suo discorso sulle gesta degli azzurri: «... I vostri scatti, i vostri gol, le vostre parate...». Una pausa, lo sguardo a cercare Donnarumma, un'espressione romanesca: « 'Ndo stai ? E che parate...». 

Il vaccino psicologico. Augusto Minzolini il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. A volte la retorica è stucchevole e spesso in queste occasioni si spreca, ma la serata magica di domenica, in cui gli Azzurri hanno espugnato Wembley, resterà negli annali. A volte la retorica è stucchevole e spesso in queste occasioni si spreca, ma la serata magica di domenica, in cui gli Azzurri hanno espugnato Wembley dimostrando che l'Italian job è superiore allo stile inglese che ha perso il fascino di una volta e l'etichetta (il primo ministro Boris Johnson ha dovuto chiedere scusa per gli insulti razzisti dei suoi connazionali), resterà negli annali. E non solo come un fatto sportivo. Sarebbe riduttivo e sbagliato interpretarlo così. Ci sono dei momenti nella Storia, infatti, in cui un avvenimento agonistico, un'immagine trionfale o un singolo gesto atletico segnano un'epoca. Ciò che è accaduto a Londra e, contemporaneamente, sulle strade d'Italia nel momento in cui Donnarumma si è esaltato parando il rigore di Bukayo Saka (con l'83,5% degli italiani bloccati davanti alle tv, se si somma lo share di Rai e di Sky), ha segnato la fine di un incubo. È saltato il tappo delle nostre ansie e paure, abbiamo ritrovato il coraggio e ci siamo sentiti - questo è il dato più importante - nuovamente liberi. Liberi di festeggiare, di sognare, di rischiare, di scommettere sul futuro e su di noi, perché la Nazionale di calcio ha dimostrato - è stato il «sentiment» di quel momento - che nulla è impossibile, nessun traguardo è irraggiungibile. Era la medicina, o meglio il vaccino «psicologico», che ci voleva per scacciare via quella sensazione di impotenza che ci ha lasciato addosso il virus. Tant'è che al netto degli episodi di violenza che hanno caratterizzato i festeggiamenti (da condannare senza attenuanti), delle ripercussioni che avremo nell'indice di contagio per l'incoscienza di molti (troppi) che hanno già riposto nel cassetto la mascherina anche nelle occasioni particolari, c'è stato un impulso, un moto collettivo che ha spinto centinaia di migliaia di persone a scendere per strada. Un moto, appunto, di liberazione, come dopo una guerra o un'emergenza che ha cambiato le vite di una comunità. Un moto che ha coinvolto non solo noi italiani, ma, complice la Brexit, l'intera Europa. E il paradosso è che tra Mario Draghi, che sembra aver preso il posto di Angela Merkel come riferimento degli altri Paesi europei, e il trionfo degli azzurri nella competizione che mette a confronto tutti i team nazionali dalle sponde portoghesi dell'Atlantico fino agli Urali, dalle Highlands scozzesi fino al Bosforo, la maltrattata Italia, la cosiddetta Italietta, è salita sul podio più alto del continente. È diventata, insomma, il simbolo della Rinascita, non solo nazionale ma europea, dopo la tragedia del Covid. E pensare che fino a qualche anno fa si teorizzava nel Belpaese l'Italexit. Ora, invece, abbiamo più di una chance per insegnare agli altri non solo come si gioca a calcio, ma come dovrebbe essere l'Europa. Quella che sogniamo. Augusto Minzolini

Maurizio De Giovanni per “La Stampa” il 13 luglio 2021. Avviso ai benaltristi di passaggio: qui si parla di effimero. Siamo pienamente consapevoli, cioè, che le cose importanti con le quali ci dobbiamo purtroppo confrontare sono appunto ben altre: emergenza sanitaria, emergenza economica, emergenza sociale, emergenza lavorativa e via così di emergenza in emergenza, ognuna più che degna di lamento e lacrime e di fiumi di parole. E tuttavia per una volta vorremmo invitare tutti a venire alla festa, lasciando i brutti pensieri per un fuggevole intenso attimo al di fuori della porta e a godersi il momento: salvo poi scoprire, immaginiamo con qualche meraviglia, che l'argomento potrebbe essere tutt' altro che superficiale. E che anzi questa vittoria contro pronostico e contro pessimismi che ci è un po' piovuta sulla testa ben si innesta nella sequenza pressoché ininterrotta di altre e più nere condivisioni che hanno segnato quest' ultimo anno e mezzo, tanto da far pensare che possa non trattarsi di ingannevole raggio di sole prima e dopo una tempesta, ma di una nuova e migliore alba di cielo sereno. Secondo quanto sembrava scritto negli astri, questa finale si doveva perdere. Gli avversari solidi, forti e organizzati trafitti una sola volta e su casuale calcio piazzato; uno stadio pieno come non si vedeva, giustamente, da un biennio o giù di lì, situato casualmente al centro della capitale avversaria; un'insistita persistente narrazione di un trionfo annunciato, birra a fiumi e cori assordanti; una politica sovranista che era sicura di sancire, con una squillante vittoria, la superiorità di chi era uscito rispetto a chiunque fosse rimasto. Come quando il Times titolò: nebbia sulla Manica, continente isolato. It's coming home, ripetevano ossessivamente. Un ritorno piuttosto ritardato, visto che l'unico trionfo inglese a livello di nazionali risale all'appunto nebbioso mondiale del '66, dove il VAR sarebbe servito eccome. Questa finale si doveva perdere, sì. Il gol subito al minuto due, le parate del portiere, i tentativi fuori di un soffio. E si doveva perdere anche ai rigori, una volta approdati, se l'infallibile Jorginho infallibile non è stato. Ma si è vinto, e confessiamo subito che una quota di maligna soddisfazione ci è stata aggiunta dalle facce dei reali presenti immortalati nella tristezza, e assenti alla premiazione; dall'istintivo fastidioso gesto di rimozione delle medaglie d'argento dal collo dei calciatori sull'orlo di una crisi di pianto; dagli spalti precipitosamente liberati da barcollanti ubriachi seminudi in cerca di ulteriore alcolico conforto. Cosa c'è di più bello di vincere contro chi non sa perdere? Ne abbiamo sentite tante: eravamo l'unica repubblica semifinalista contro tre monarchie; l'europea contro una fiera recente extracomunitaria; la nazione più indebitata contro quella più ricca. Mancavano celti e romani e protestanti e cattolici, poi c'erano tutte le rivalità possibili. Ma poco o nulla conta questo, come poco o nulla conta tutto quanto precede. Conta che oggi siamo felici. Irrazionalmente, impropriamente e illegalmente felici. Condizione umanamente perseguibile e transitoriamente realizzabile, certo: ma oggi noi siamo felici insieme. Qualcosa di profondamente diverso da quanto recentemente rilevabile, diciamo la verità. Sono stati mesi di dolore e sofferenza, di perdite e di sgomento. Abbiamo avuto paura, siamo stati preoccupati. Ci hanno separati e distanziati, privati di ogni forma di svago e di sostegno. Abbiamo lasciato andare una generazione di padri e madri e nonne e nonni, senza una carezza o un abbraccio, senza neanche poter piangere dietro una bara. Abbiamo imparato a seguire curve su grafici comprendendone il significato come una sentenza, e abbiamo visto scienziati dire tutto e il contrario di tutto, brancolando in un buio di dati e statistiche contraddittorie. Abbiamo dovuto imparare a non sorridere perché dietro le mascherine non si vede, a rinunciare a teatri e cinema. Abbiamo cantato dai balconi, guardandoci da lontano come detenuti in celle contigue, che condividono la mancanza della libertà e trattengono il pianto per non mostrarsi disperati a se stessi e agli altri. Abbiamo dovuto spiegare ai bambini che sarebbero tornati a giocare sotto il cielo, e ci tremava la voce perché non ne eravamo affatto sicuri. Siamo stati licenziati in contumacia, o siamo stati salvati nel nostro lavoro da imprenditori eroici che per mantenere l'azienda hanno ipotecato casa. E ancora abbiamo paura, per carità. Le varianti perfide, gli errori della politica, la validità sub iudice dei vaccini; e il traballante lavoro, la lepre meccanica del recovery plan dietro al quale corriamo come assetati in un deserto sperando non si tratti di un miraggio. Cari benaltristi, come vedete ne siamo perfettamente coscienti. Sappiamo che no, non tornerà tutto come prima. Che lo smart working, una volta avviato, diventerà una prassi come l'e-commerce e il cibo a domicilio, e le piattaforme digitali sostituiranno pian piano le vecchie care sale cinematografiche, perché gli investimenti che sono stati fatti nel frattempo non potranno andare perduti. Che cambierà per sempre e di conseguenza la geografia delle città, con negozi e magazzini sostituiti da show room e fast food. E facciamo caso al fatto che tutto questo nuovo che avanza, e che fa un po' paura, ha nomi inglesi e questo aggiunge un ulteriore colore alla vittoria di domenica. Ma siamo felici. E siamo felici insieme, senza paura di mostrarlo agli altri perché sono appunto felici come noi. Anche senza fare tornei imbandierati attorno alle fontane, anche senza strombazzare ad aria compressa o a sparare fuochi d'artificio, siamo felici. E lo mostriamo, e vediamo e rivediamo rigori segnati e rigori sbagliati, lo splendido gigantesco abbraccio pieno di lacrime di due vecchi ragazzi che altre lacrime avevano pianto in quello stesso stadio in un maggio di trent' anni fa, spigolose facce da terzino che diventano quasi dolci nell'alzare una coppa, un enorme ragazzo stabiese che non sa che cosa dire perché gli hanno già parlato le manone guantate, e va bene così. Siamo felici, e vediamo e rivediamo un presidente anziano e felice e composto mentre sorride un po' abbandonato a se stesso, e camerieri italiani diventati per un giorno padroni, e undici diseguali ragazzi sardi, campani, lombardi e toscani che urlano a squarciagola una allegra marcetta che gli fa dichiarare di essere pronti alla morte. Istantanee dell'effimero, frammenti di superficialità in mezzo a tante cose serie, d'accordo. Ma se ci affacciamo alla finestra per una volta non vediamo soffiare il vento della paura, perché i colori che sventolano non sono quelli delle zone dell'isolamento e del terrore ma altri tre. Ecco perché questi sono i giorni della gioia estroflessa, e non c'è niente di effimero in questo. Sono i giorni in cui è lecito urlare e ridere, e rotolarsi abbracciati sul divano. E' lecito anche farsi insegnare qualcosa da questi ragazzi, che non hanno avuto un campione simbolo al quale aggrapparsi, che non hanno un blocco di una sola squadra abituato a giocare insieme, che hanno mandato per primo a prendersi la medaglia (per primo!) un compagno sfortunato che saltellava su un solo piede, che non si sono mai persi d'animo, che si sono stretti attorno a uno più grande di loro che hanno ascoltato sempre, facendo quello che gli diceva senza nutrire dubbi o remare contro per invidia o gelosia. Capito adesso, cari benaltristi, perché forse valeva la pena di dare un'occhiata a questo effimero prato londinese dove i cuori si sono aperti? Perché forse il segreto della futura speranza risiede nell'inconsapevole dolce lezione dell'Italia di Mancini. Forse. O solo perché la felicità condivisa non ha bisogno di ragioni, ma solo di durare il più possibile.

Italia-Inghilterra: scozzesi, gallesi e irlandesi del Nord faranno il tifo per gli azzurri. Paola De Carolis su  Il Corriere della Sera l'11 luglio 2021. «Salvaci Roberto, sei la nostra ultima speranza». E’ un che nel tredicesimo secolo sconfisse le forze inglesi nella battaglia di Stirling Bridge, quello che troneggia stamattina sulla prima pagina di «The National», quotidiano indipendentista di Glasgow. Il giornale ha una tiratura di circa 5.000 copie e se i caratteri cubitali e l’enfasi sono sicuramente da tabloid il messaggio ha più di un filo di verità. L’Inghilterra di Gareth Southgate non è che una delle nazionali del Regno Unito. Boris Johnson è il primo ministro di tutto il Paese, ma nel suo cuore, come dimostrano le dozzine di bandiere che decorano la facciata del numero 10 di Downing Street, i Tre Leoni hanno un posto speciale. Ed ecco, così, che la finale di Wimbley assume una dimensione politica. Chi ha visto il premier sfoggiare la maglietta del Galles o della Scozia? O sventolarne le bandiere? Per chi è nato oltre il vallo d’Adriano, ai piedi del monte Snowdon o nell’Irlanda del Nord, la partita di domenica, il tifo sfegatato di Johnson nonché della maggior parte dei suoi ministri, l’attenzione spasmodica e trionfalista dei media per le gesta di Harry Kane e compagni rappresentano l’ennesima dimostrazione che Londra e l’Inghilterra contano per l’esecutivo così come per l’establishment più del resto del Paese. È un’antipatia che ha radici storiche e profonde e che, per quanto riguarda Scozia e Irlanda del Nord, si è manifestata anche in occasione della Brexit: nel referendum del 2016 la maggioranza votò per rimanere nell’Unione europea. Costrette ad accettare il risultato confermato dall’elettorato di tutto il Regno Unito, Scozia e Ulster oggi toccano con mano i risultati economici del divorzio. In Scozia cresce il movimento che chiede un nuovo referendum sull’indipendenza e un’eventuale riammissione nell’Ue. L’Inghilterra è the Auld Enemy, il vecchio nemico, e anche tra i moderati tifare per la nazionale di Southgate è una scelta difficile, come ha spiegato all’Independent Stephen Wray, 42 anni, di Barrhead, nell’East Renfrewshire. Se l’antipatia naturale per l’Inghilterra del pallone negli anni si è affievolita, spiega, «Non potrei in nessuna circostanza tifare per loro. Per me l’Inghilterra è un rivale e non vuoi mai che sia il tuo rivale a vincere». In Galles esistono le stesse problematiche. «La prima regola del calcio gallese è chiara», racconta con un tocco d’ironia Iestyn Davies, insegnante di musica di Cardiff. ‘»Quando gioca l’Inghilterra tifi per l’altra squadra. Qualunque squadra sia, non importa, ma non si tifa mai per l’Inghilterra».

 L'Italia in finale è meno sola: «Tutta l'Europa tifa per noi». Gli azzurri guidano la rivalsa contro l’Inghilterra della Brexit. Marco Ventura Domenica 11 Luglio 2021 su ilmessaggero.it. Chi poteva immaginare che il Tricolore diventasse la bandiera dell’Europa, e la squadra azzurra la punta di diamante di una rivalsa continentale contro l’Inghilterra della Brexit? Persino la Francia che mai ha tifato Italia, oggi si scopre azzurra con percentuali quasi del 70 per cento in un sondaggio de L’Èquipe. E i portavoce dei presidenti di Commissione e Consiglio Ue, Ursula Von der Leyen e Charles Michel, fanno sapere che i cuori dei due leader, tedesco e belga, di un’Europa che ha gestito il divorzio britannico, battono per lo Stivale. 

Gli sfregi di Londra contro il resto d'Europa. Niente più spaghetti e P38. L’immagine-choc non viene stavolta da Berlino ma da Londra, lo sfregio della pizza con l’ananas sul tabloid Daily Star. Un pugno nello stomaco degli italiani, mentre il ct inglese, Gareth Southgate, galvanizzato dalla lettera di incoraggiamento della Regina, stuzzica l’orgoglio nazionale prendendola alla lontana, dal «coraggio di respingere chi ha cercato di invaderci». Ma ancor più sorprendente del riferimento alla Seconda guerra mondiale, è quello al “decoro”, la decency, che il “Daily Mirror” affianca nelle parole di Gareth all’esaltazione «per la nostra storia, la nostra forza nelle avversità, il nostro rispetto per gli avi e il futuro». Arringa da coach nazionale, che induce gli oppositori laburisti a Westminster a consigliare a Boris Johnson di andare a scuola di leadership proprio da Southgate. BoJo risponde ipotizzando un giorno di festa nazionale in caso di vittoria.

Le insegne. E se perfino all’aeroporto di Heathrow le insegne luminose ai cancelli moltiplicano il tormentone di tutti, “It’s coming home” (“sta tornando a casa”, in patria, il football che gli inglesi hanno regalato al mondo), l’afflato europeo verso l’Italia si sposa con l’ansia indipendentista di Scozia e Galles. Lo scozzesissimo “The National” sforna una copertina da urlo, col nostro Mancini che ha sulla faccia il blu e il bianco della Scozia, condottiero dei guerrieri di fine ‘200 contro gli inglesi, nella trasposizione cinematografica dell’eroe William Wallace interpretato da Mel Gibson in “Braveheart”, Cuore Impavido. Il titolo, “Final Hope”, è l’ultima speranza affidata al Ct dell’Italia. «Salvaci Roberto, non possiamo prenderci altri 55 anni di loro che insistono su questo». Cinquantacinque anni dalla vittoria mondiale dell’Inghilterra nel 1966. Non a caso, a Edimburgo le pedane dei bar all’aperto ieri erano tutte decorate di bandierine tricolori e le botteghe di souvenir vendevano stock di maglie azzurre davanti a vetrine di whisky. Stando a un sondaggio di “Good morning Britain”, il 63 per cento dei tifosi di Scozia, Galles e pure Irlanda del Nord sosterrebbero l’Italia. Laura Kemp, giornalista del “Wales Online” evoca i secoli di oppressione inglese sul Galles, attacca Johnson, punta l’indice sulla «arroganza e presunzione» degli hooligans. E ancora. Il Sud Europa è con l’Italia, a cominciare dagli spagnoli coi quali c’è sempre stata una sintonia “latina” ma che abbiamo eliminato nei quarti ai rigori. Il loro Ct Luis Enrique ha aperto il cuore degli italiani promettendo, a caldo, che tiferà azzurro, mentre José Mourinho si è limitato a augurarsi la «finale perfetta» Italia-Inghilterra, ma i portoghesi comunque vestiranno tricolore. E il fronte nordico si lecca la ferita per l’eliminazione della Danimarca con un rigore dubbio su Sterling. Certo, sullo scontro finale di oggi si riversano gli umori di un continente attraversato dalla falce del Covid e da una crisi economica che negli stadi cerca il suo momento di catarsi e rinascita. La Brexit ha spaccato il Regno Unito, che detiene il primato di morti per il virus (oltre 128mila). Eppure, l’Inghilterra di oggi non è quella tutta bianca del 1966: poggia il ginocchio a terra per i diritti LGBT e ha calciatori figli di nazioni diverse (Kane ha padre irlandese, Rashford madre di Saint Kitts, Sterling è nato in Giamaica). Ma è pure un’Inghilterra che sconta la scelta “egoista” e arroccata della Brexit, mentre l’Europa si riscopre finalmente unita sotto un cielo azzurro.

Estratto di un articolo di Claudio Tito per “la Repubblica” il 13 luglio 2021. Per capire quanto la vittoria della Nazionale italiana agli Europei di calcio contro l'Inghilterra abbia assunto un significato che va ben oltre il valore sportivo della Coppa, bisogna descrivere la scena che ieri si è materializzata a Bruxelles. Palazzo Justus Lipsius. Riunione dell'Eurogruppo. Con tutti i ministri finanziari dell'Unione, ospite la segretaria americana al Tesoro, Janet Yellen. Dopo una serie di interventi, la parola passa al titolare italiano dell'Economia, Daniele Franco. Ma quella parola non riesce a prenderla. Il discorso nemmeno parte. I partecipanti all'incontro, solitamente molto ordinato e per certi versi burocratico, si alzano in piedi come in una curva da stadio. Scatta un applauso lungo più di un minuto. E, ovviamente, non è rivolto a Franco, ma all'Italia campione d'Europa. Congratulazioni, braccia alzate. Un episodio che raramente capita nelle sedi ovattate dell'Ue. Dove ogni gesto segue un protocollo preciso. Tanto che lo stesso ministro italiano per qualche momento non sa cosa fare. Sorpreso da quell'applauso e in una certa misura impreparato a gestire una situazione più emotiva che "tecnica". Del resto, per tutto il giorno e in tutti gli uffici delle tre principali istituzioni comunitarie non si è parlato d'altro. Dai commessi ai commissari, dai ministri agli autisti dei ministri. Come se, appunto, non si trattasse semplicemente di una partita. O almeno non solo di una partita di "football", come direbbero gli inglesi. E in effetti non era solo un confronto calcistico. Perché dietro la vittoria tricolore a Wembley sono emersi almeno due fattori, entrambi extracalcistici ed entrambi appartenenti alla geopolitica degli ultimi anni. Il primo riguarda la Brexit. I governi dell'Unione hanno sofferto l'uscita britannica. La trattativa condotta da Boris Johnson è stata lunga ed estenuante. Ha lasciato un segno. E tutti - dalla Francia alla Germania, dalla Spagna al Belgio - davanti ad una finale con l'Inghilterra non aspettavano altro che assestare una bella sberla all'arroganza del Regno Unito. Arroganza politica e nell'ultima settimana arroganza sportiva. Bastava legge il titolo dell'Irish Times per comprendere quanto la rivalsa nei confronti dei "Brexiteer" avesse avvolto il podio londinese sul quale sono stati premiati i calciatori di Mancini. È stata dunque vissuta come una rivincita. Esplosa, appunto, al vertice dell'Eurogruppo. Con l'americana Yellen, l'unica che forse non coglieva fino in fondo il senso di quel che stesse davvero accadendo. Il secondo fattore. Riguarda direttamente il nostro Paese. La sensazione vissuta ai vertici dell'Ue è che il campionato europeo abbia di fatto intercettato e suggellato una sorta di «rinascita nazionale». Il New York Times l'ha definita proprio così. Si tratta di quella miscela spesso inspiegabile che forma un'aura. L'autorevole giornale statunitense fa il paragone con la crisi pandemica vissuta negli ultimi diciotto mesi e la riconquista di un ruolo con l'insediamento del governo Draghi, «il cui elevato status internazionale ha contribuito a trasformare l'Italia da piccolo attore sulla scena europea a forza trainante». Il punto è che il trionfo azzurro a Londra sembra quasi aver allungato i suoi effetti sulla politica. Ha trasferito carisma. Il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e quello del Consiglio, Mario Draghi, diventano così i volti istituzionali di una vittoria sportiva. Non è la prima volta. Spesso è anche capitato il contrario. Come accadde nel 2010 in Sudafrica e in una certa misura Silvio Berlusconi ne subì il peso. Soprattutto per il confronto con la vittoria di quattro anni prima quando a palazzo Chigi sedeva Romano Prodi.

Luca Cirillo per areanapoli.it il 16 luglio 2021. La vittoria dell’Italia a Euro 2020 ha tra i protagonisti principali il CT Roberto Mancini, autore di una vera e propria impresa. In questi giorni di festa, però, all'occhio attento del web non è sfuggito un post del giornalista Paolo Bargiggia, del lontano 2018. Dopo la mancata qualificazione ai Mondiali in Russia (all'epoca il CT era Ventura), quello compiuto dal tecnico della Nazionale Italiana è un autentico miracolo. Bargiggia, quando fu scelto Mancini, commentò così: "Dunque per rilanciare l’Italia, la Figc ha preso Roberto Mancini, un tecnico che brucia giocatori in un nanosecondo se gli stanno anticipatici, che sta sulle palle a quasi tutti i colleghi, ricambiando. E che non parla ai giornalisti che lo criticano. Io non tifo Italia”, scrisse il giornalista. Immediate le critiche: “Sempre sul pezzo. Scrivilo anche quest’anno un post del genere, così magari vinciamo anche i Mondiali”. Oppure: “Grande Bargiggia, dalla parte sbagliata. Sempre”. La replica di Bargiggia è arrivata: “Qualcuno, stamane, ha ripescato un mio tweet di tre anni fa, quando criticavo la scelta di prendere il Mancio. All’epoca era un altro Mancini, molto frettoloso nel bruciare calciatori e poco simpatico nei confronti della stampa. Non mi sono tirato indietro, durante il suo percorso, nell’elogiare il commissario tecnico e la sua evoluzione” – le parole di Paolo Bargiggia nel corso della trasmissione “Il Sogno Nel Cuore”, su 1 Station Radio -. "Mancini in finale è stato geniale, quando si è accorto che non riuscivamo a sfondare con l’attaccante, ha tolto Immobile e ha messo il falso nove. Bisogna riconoscergli i meriti di questa vittoria con le scelte che ha fatto nel corso della competizione. Roberto è completamente cambiato, maturato, lavorare in Nazionale gli ha portato tranquillità, soprattutto nelle scelte, che in un club non può avere. Le nostre società partono dei gradini sotto rispetto a quelle degli altri campionati, causa risorse economiche inferiori, ma con la Nazionale siamo riusciti ad essere alla pari. Il loro successo è dovuto ad un cambio di mentalità, di strategia, di progetto che c’è in Federcalcio. Non dimentichiamo la caciara che c’era con Tavecchio, Gravina ha restituito credibilità”.

La stagione dei rampanti: sta nascendo un nuovo modello tricolore? Vncenti, arrembanti, perfino simpatici: a sorpresa gli italiani si portano, come un abito alla moda. Uno scrittore racconta la strana estate della rivalsa. Diego De Silva su L'Espresso il 16 luglio 2021. In fila al supermercato, il giorno dopo la vittoria degli Azzurri a Wembley, intercetto un memorabile scambio di battute fra un cassiere di quelli proprio loquaci e una cliente pure votatissima alla chiacchiera (è in questi rituali che si conserva l’identità di un quartiere). Fin dalla prima battuta sento odore di perla di saggezza, così tendo l’orecchio e memorizzo (una delle mie occupazioni preferite è rubacchiare siparietti spontanei quando mi capita d’incrociarli andando in giro: un rubacchio che pratico sempre in modalità colposa, mai intenzionale, perché le storie non ti vengono incontro se esci di casa per cercarle).

Ecco di seguito il dialogo, che riporto nel modo più fedele possibile. 

CASSIERE «Aòh, ce lo sai che m’ha detto stamattina un cliente?».

SIGNORA «E no che nu lo so. Mica m’hai mannato un messaggetto».

Il cassiere bypassa la battuta (non si capisce se per darle ragione o per non darle soddisfazione: amo questi mancati riscontri, queste omissioni ambigue che lasciano l’interlocutore nell’ignoto, inibendo l’interpretazione), e va a recitare il Verbo del saggio cliente che chissà poi se esiste.

CASSIERE «Da quanno c’avemo l’euri è ’a prima vorta che so’ contento de paga’ co’ l’euri».

Qui va in stallo (addirittura depone la pistola sospendendo la sparatoria sui codici a barre delle merci posate dalla signora sul tappetino rotante) e la guarda negli occhi annuendo ripetutamente per richiamarla a un momentaneo silenzio di meditazione.

Per un attimo, la fila va in pausa. Noialtri che veniamo dopo la signora ci freeziamo, e per un pelo non parte un coro di: “Oooh!”, europeissimi come ci sentiamo dalla sera precedente. E sì che, nell’arco di qualche ora, la vittoria dell’Italia ora ha scatenato una pandemia d’orgoglio nazionale a cui è impossibile restare immuni, tranne rare eccezioni, tra cui appunto la signora, che chiaramente non ha visto la partita e dunque non ha idea di cosa stia parlando il cassiere (o meglio, il cliente per bocca del cassiere). Allora che fa? Chiude a ciuffetto le dita della mano e gli offre un carciofo immaginario, agitandolo nello spazio aereo che li separa. «Ma che stai a di’?», è la battuta che lampeggia in sovraimpressione virtuale. Al che, come un cambio drastico di temperatura, si percepisce un moto collettivo che sa di blando rimprovero, dato che tutti vorremmo intervenire per aggiornare la signora sulla vittoria della Nazionale (anzi: sulla sconfitta dell’Inghilterra) e sollecitare in lei il rigurgito patriottico che ci ha avviluppati quasi come ai tempi indimenticati dei mondiali del 1982 (l’associazione fra Mattarella - presente nello stadio di Wembley - e Pertini al Santiago Bernabéu la sera della vittoria sulla Germania, è scattata di default all’ultima, spettacolare parata di Donnarumma). Da un punto imprecisato della fila, infatti, parte un: «A signò, se ’nformi: semo campioni d’Europaa!».

Ci voltiamo tutti alla ricerca del suggeritore (ma è impossibile: le voci delle file rimangono sempre senza faccia ed è inutile cercare di identificarle), mentre il cassiere solleva le braccia esibendosi in un altro gesto favolosamente ambiguo (non è chiaro se stia ringraziando il volontario per l’intervento chiarificatore o inneggi alla vittoria dell’Italia), quindi abbassa il capo, inchinandosi simbolicamente alla coppa (questa si capisce).

«Aah, ecco», fa la signora voltandosi anche lei verso la voce senza volto; quindi torna a rivolgersi al cassiere, interdetta (altro che «Ah, ecco»). 

SIGNORA - «E che c’entra cor fatto de paga’ co’ l’euri?».

Il cassiere scuote paternalisticamente la testa, disarmato dall’ingenuità della domanda.

CASSIERE «Che se sentimo più europei, no? Anzi, semo i più europei de tutti, visto che ormai l’Europa aavemo vinta».

SIGNORA (perplessa) – «Ah». 

A quel punto, così com’era iniziato, il dialogo termina bruscamente. La signora accetta la spiegazione anche se, con tutta evidenza, non la capisce (nel senso che non la coglie sul piano emotivo), ma la recepisce nella sua accezione dogmatica (perché i dogmi sono fatti anzitutto per chi non capisce), quindi paga la merce e si avvia verso l’uscita, con una lentezza nel passo che pare andare a tempo con i suoi tentativi di comprensione della frase appena ascoltata. La seguo con gli occhi e penso che probabilmente si sta interrogando sul concetto dell’aver vinto l’Europa, che ovviamente non ne ha nessuno ma accidenti se fa ridere.

Il fatto è che da un po’ l’Italia sta vivendo una stagione rampante. Si porta, come si dice comunemente. E siamo tutti un po’ vanitosi dei successi che riscuote, specie sul piano internazionale. Soprattutto sulla scena di quell’Europa così chiacchierata e spettegolata dalla politica degli ultimi anni (forse è questo che intendeva il cassiere parlando di vincere l’Europa, che detto così ricorda il Monopoli ma interpretando estensivamente il concetto demenziale potrebbe alludere alla conquista metaforica di una regione del mondo).

Capitano, i periodi di grazia. Un po’ a tutti. Anche alle persone comuni (per quelle però durano pochissimo, in pratica sono la versione psicologica del quarto d’ora warholiano, infatti c’è chi va ancora in analisi e chi a Lourdes, dalla fine improvvisa di quell’intervallo fatato). Quando capitano su vasta scala, generano un accredito d’interessi a cascata, come se un fondo d’investimento che non ha mai superato la sufficienza (con qualche buona, occasionale performance), quasi da un giorno all’altro iniziasse a produrre ricavi elevatissimi, e quella che sembrava una prestazione casuale si rivela il meritato raccolto di una semina ostinata, fiduciosa e paziente (il successo - quello meritato - è sempre un aver ragione in seguito), che grazie a una perfetta geometria delle circostanze riproduce i suoi successi in più campi.

L’Italia, da un po’, sta vivendo questa stagione. Va bene un po’ ovunque (okay, non è vero, ma per capirci). Di più: vince. E il mondo si riaccorge di lei, riscattando un popolo troppo a lungo gravato da una quota di sfiga autoimmune che ne ha sempre compromesso le potenzialità, unita a una tendenza masochistica alla svalutazione. Ed ecco che quando i Maneskin trionfano all’Eurovision Rock Contest (dopo aver vinto il festival di Sanremo con un pezzo per nulla sanremese), la Nazionale straccia l’Inghilterra agli Europei scrivendo un’implicita, involontaria recensione alla Brexit, e Matteo Berrettini arriva alla finale del torneo di Wimbledon (unico tennista italiano nella storia ad aver finora raggiunto un simile obiettivo), il risveglio identitario di un popolo orgoglioso e finalmente consapevole dei propri meriti, diventa il portato logico di un’affermazione sul campo (mai metafora fu più azzeccata). E se a questo aggiungiamo (ma così, en passant) che il presidente del Consiglio italiano è annoverato fra le personalità più stimate e influenti della scena politica attuale, già presidente (anche) della Bce e - soprattutto - fra i pochissimi politici al mondo che disertano i social (che bello), il quadretto dell’Italia leader d’Europa (quella che l’avrebbe vinta, per riprendere la perla comica del cassiere) diventa il curriculum da sbattere dispettosamente in faccia a chiunque abbia fatto l’errore di sottovalutarci. Rosicate, gente, rosicate. Tiè. 

«Tiè», non inteso in accezione scaramantica ma nel suo senso infantilistico di rivalsa, di compiacimento maligno per qualcosa di spiacevole capitato ad altri, è l’interiezione che ben riassume lo stato d’animo procurato da una vittoria piena, soddisfacente e meritata, cioè oggettivamente riconosciuta (perché il merito vuole la maggioranza assoluta, è tale quando reprime sul nascere qualsiasi critica).

Non sono un fan dei Maneskin (anche se ho trovato bellissimo il loro live act al Song Contest: un’esplosione di giovinezza, talento, ambizione, armonia e arroganza dei corpi in scena), ma quando hanno vinto sono stato felice come una Pasqua. Non vedevo una partita di calcio (di cui nulla so e nulla capisco) non so neanche più da quanti anni, ma l’altra sera, che chissà perché m’è venuta voglia di vedere la finale degli europei, quando Donnarumma ha parato l’ultimo rigore sono saltato sulla poltrona e ho urlato un Vaffanculo a 200 watt (è quella la parola che accompagna un’esplosione di felicità). Ero entusiasta, avevo voglia di uscire e andare alla ricerca di estranei da abbracciare. Ho scaricato adrenalina per un buon quarto d’ora, tanto ero stato in apprensione durante i rigori. Il bello di questo tipo di gioia (che, da non tifoso, ho provato pochissime volte: l’ultima forse proprio alla vittoria dei Mondiali dell’82) è il sollievo, che, paradossalmente, ha una carica esplosiva fortissima. È bello, saltare dal sollievo. Forse è quella, l’emozione a cui aspira il tifoso. 

Non so quanto durerà questa stagione vincente dell’Italia. Non sono affatto contento di pagare in euro, come diceva il saggio cliente del supermercato, perché penso ancora in lire, e patisco la sensazione del raddoppio dei prezzi. Non sono un tifoso. Non sono un amante della musica di questo tempo. Però sono contento. Per l’Italia, per Berrettini, per i Maneskin. Ho sofferto, come tanti, per la morte della Carrà, che nel lutto collettivo ha confermato l’importanza di una biografia artistica, anche quella italianissima (una Madonna ante litteram come lei, il mondo se la sogna, Madonna compresa). E nel riconoscere in me i sintomi di questa italianità compiaciuta e un po’ stupida (perché chiunque si compiaccia di sé è inevitabilmente stupido), penso a quanto avesse ragione (come al solito) Gaber, quando cantava: «Io non mi sento italiano / ma per fortuna o purtroppo lo sono». 

Giovane stil novo, la carica dei nuovi italiani. Dai Maneskin ai ragazzi di Mancini, dall’arte alla lirica al cinema. Cittadini del mondo, rappresentano una generazione che non ha politici né narratori. Sabina Minardi su L'Espresso il 16 luglio 2021. Con sfrontatezza: come una band di rockettari, impavidi e coi lividi sui gomiti, che dalle vie di Roma dà l’assalto all’Eurovision Song, lo vince, e svetta al primo posto al mondo di Spotify. Senza paura: come un ragazzo di venticinque anni che, primo italiano a Wimbledon, combatte sino all’ultimo per il trofeo, con uno stile e una potenza che conquistano il mondo del tennis. Con la contagiosa simpatia di un film di animazione che, tra un giro in Vespa e un gelato, guida la riscossa del turismo in Italia, a partire dai borghi colorati delle Cinque terre. 

Con la grinta, il furore, la magia della nazionale di calcio: it’s coming Rome, la coppa non è rimasta a casa (loro), ma è tornata nella Capitale. Ed è tornata anche quell’Italia che il mondo ama, ispira e fa tendenza. Anzi, era già sotto gli occhi di molti: gli azzurri, espugnando Wembley e addensando in una notte la nazione intorno al tricolore, l’hanno certificata e rilanciata nel mondo intero. Ribaltando uno stato d’animo collettivo. E rinnovando l’immagine di un made in Italy inconfondibile e nuovo al tempo stesso.

Visionario, non a caso, è l’aggettivo più usato per descrivere la fiducia del ct Roberto Mancini verso i suoi ragazzi. Stile profetico e persino mistico, tradizione agiografica reinterpretata nei campi più diversi da emblemi di contemporaneità assoluta: Alessandro Michele di Gucci, astro dello stile delle celebrità di ogni latitudine; Cecilia Alemani, mente dell’High Line Art di New York, tra le curatrici più influenti al mondo; Beatrice Rana, la ventottenne pianista salentina che ha conquistato le più prestigiose sale da concerto. 

Stile spigliatissimo, come quello di Matilda De Angelis, la giovane attrice che in “The Undoing” tiene testa a Nicole Kidman. Con la faccia cattiva e talentuosa di Marco D’Amore e Salvatore Esposito, gli antieroi di “Gomorra” che calamitano il mercato americano della serialità tv. E pure con la grinta romagnola di una veterana dei palchi, Laura Pausini, che però, vincendo il Golden Globe e dedicandolo alla sua Italia, ha scosso via per prima la polvere dalla rinascita nazionale. E la passione per l’Italia, ora, corre, accumula segnali concreti, non solo retaggi di vecchie glorie.

E sono i più giovani, smarcandosi da mesi di restrizioni, ad andare dritti al sogno per prenderselo: senza indugiare su quanto questi “cinque anni in uno”, come sostiene Alessandro Baricco, ci abbiano sottratto. L’Italia dei ragazzi fragili ma protesi oltre il buio, ritratti da “Futura”, l’inchiesta di Pietro Marcello, Francesco Munzi e Alice Rohrwacher, portata alla Quinzaine des Réalisateurs. Quella rappresentata dalla regista Maura Delpero, che sempre a Cannes vince, prima autrice italiana, lo Young Talent Award di Women in Motion dopo aver conquistato, con “Maternal”, la critica di mezzo mondo.

L’Italia dei giovani che finalmente padroneggiano l’inglese come mai nessuna generazione prima. E degli adolescenti pazzi per Harry Styles, ex membro della band One Direction: che prima li inorgoglisce annunciando di aver cominciato a studiare l’italiano, la lingua più bella del mondo; poi ambienta “Golden” in Costiera amalfitana, ed elogia di continuo l’Italia. E, come lui, una sfilza di influencer europei e americani che sognano, seguono, diffondono sui social, a colpi di hashtag, l’italian style. Involontaria, spontanea rimonta di un’identità che, fuori dalla politica, senza uno storytelling programmato, a dispetto persino di egoismi da boomer e miopie partitiche, si fa strada e si impone.

Ce lo riconoscono le testate straniere. The New York Times: la vittoria calcistica fa da eco a un più diffuso rinascimento italiano (“Italy’s Victory at Euro 2020 Echoes a Broader Resurgence”). “Torna la Dolce Vita”, titola in prima pagina il Frankfurter Allgemeine Zeitung, celebrando la ritrovata libertà e il gusto di stare insieme, all’aperto, per l’aperitivo. E il quotidiano El País nota come lo stile calcistico così alegre y ofensivo sia la dimostrazione del neostato d’animo del Paese. Dove all’improvviso si legge persino di più, come annunciano per la prima volta dopo molti anni i dati Aie: con un incremento delle vendite, nei primi sei mesi del 2021, che aggiunge 15 milioni di copie di libri a stampa in più rispetto al 2020 (+44 per cento), per un incremento che vale 207 milioni di euro. E non c’è soltanto Elena Ferrante a trainare il turismo letterario verso l’Italia: Stefania Auci, 700 mila copie vendute in Italia, sta conquistando l’estero con “I Leoni di Sicilia”. Dopo l’editore De Bezige Bij che per primo l’ha pubblicato in Olanda, dopo gli spagnoli di Grijalbo e gli americani di HarperCollins, il volume è sbarcato in Israele, in Germania, in Portogallo, in Francia: con splendide recensioni all’unica italiana in classifica.

Racconto di un’Italia fatta di passioni e valori forti. E del piacere di cose semplici, di un’infanzia che ci accomuna. Proprio come quelle vacanze in Liguria trascorse da bambino dal regista Enrico Casarosa, che ritornano nel film “Luca”, da lui diretto per Disney e Pixar: una favola in un’immaginaria Portorosso, e in un’Italia anni Cinquanta-Sessanta, dove due ragazzini, Luca e Alberto, scorrazzano a bordo di una Vespa - proprio mentre lo scooter celebra 75 anni - tenendo ben stretto il segreto della loro amicizia: un’identità da mostri marini. Allegoria di una diversità e di una relazione sentimentale, forse, che di certo fa tornare in mente il libro di André Aciman e il film di un altro Luca, il regista Guadagnino di “Chiamami col tuo nome”, ambientato nel Nord Italia. Un dubbio lecito, in un Paese sì dai colori caldi e saturi, borghi incantati che affiorano direttamente dal mare, biciclettate tra i carrugi, e quel gusto un po’ vintage che tanto piace all’estero, ma che di strada ne ha fatta, coi suoi ragazzi in piazza a sostegno dell’inclusione, contro le discriminazioni, per i diritti di tutti. 

Potenzialmente formidabile l’effetto marketing di “Luca”. Colta al volo a Monterosso, dove due statue subacquee con le sembianze dei protagonisti sono state collocate nei fondali, ad attrarre patiti di snorkeling e di Disney. «Grazie ragazzi, sul tetto d’Europa, insieme!», esulta non a caso la produzione di “Luca”, all’indomani della vittoria azzurra. Perché questa Italia vincente, «ribelle, grintosa e talentuosa» come la addita The Guardian, significa soldi, non solo pioggia di coriandoli nella notte di Euro2020, lacrime liberatorie e fiumi di retorica. Quanto pesa l’ottimismo? Dodici miliardi euro di Pil in più, ha previsto subito Coldiretti. E il presidente della Figc, Gabriele Gravina, l’ha ripetuto a Mario Draghi: «Tutte le maggiori ricerche stimano l’impatto della vittoria calcistica nello 0,7 per cento del Pil».

S’è desta, l’Italia, assieme al suo inno sul campo di calcio. L’Italia degli italiani che si riconoscono lontano un miglio, strapaese che però oggi rivendica persino gli stereotipi, capace come mai prima di anestetizzarne le velenosità, con ironia: italiani mammoni? «Ciao, mamma», salutano uno dopo l’altro gli azzurri. E giù le mani dall’ananas sulla pizza, guai a chi tocca gli spaghetti per sfottò: conviene più all’influencer belga incollarli, che cuocerli spezzati e rosolare sui social.

Perché è l’Italia che sa ridere, che si diverte, con l’aria scanzonata di quel Khaby Lame, che con video senza voce si ritrova ad essere il secondo account più seguito al mondo di Tik Tok. «Divertitevi», ammoniscono a inizio partita i commentatori tv, come se davvero contasse solo quello; «Avete fatto divertire tutta l’Italia», ripete il presidente Mattarella che per gli azzurri fa ciò che non concede a nessuno: lasciarsi andare, all’esultanza, ai sorrisi, al romanesco. L’Italia degli infiniti meme, dello sberleffo che diventa arte: come quel coro da stadio, “Poo-po-popopopooò”, geniale appropriazione e adattamento del riff di “Seven Nation Army” dei White Stripes, che tutti vogliono ora fare proprio, come inno globale di vittoria.

L’Italia del talento dei singoli: Vittorio Grigolo, per il Metropolitan di New York il nuovo Pavarotti; Jorit, street-artist campano tra i più apprezzati al mondo; Daniel Blanga Gubbay, che dopo gli studi a Venezia ha viaggiato per Palermo, Valencia, Berlino, ed è codirettore del Kustenfestival des Arts di Bruxelles; il drammaturgo Davide Carnevali, le cui opere sono messe in scena a Nancy, Barcellona, Berlino; la violinista Francesca Dego; gli sportivi vincenti di oggi ma anche quelli che ci hanno fatto sognare poche settimane fa: il diciannovenne Jannik Sinner, tra i migliori tennisti under 20 del mondo, il torinese Lorenzo Sonego-Guerriero Sonny, Lorenzo Musetti, la nazionale di basket, la nuotatrice Benedetta Pialto, le atlete Gaia Sabbatini, Dalia Kaddari, Nadia Battocletti e tutti gli altri sul podio più alto agli Europei di atletica under 23 di Tallinn. 

Perché è la forza del gruppo, dell’amicizia esibita, e convintamente riconosciuta, che torna a circolare: quella che interpretano sul palco e nella vita Damiano, Victoria, Thomas ed Ethan dei Maneskin. Che si parlano con gli occhi e col loro seducente impasto di malinconia e combattività emozionano, trascinano in Italia, dopo 31 anni, grazie alla loro vittoria, il prossimo Eurovision, collezionano 7 milioni e mezzo di stream in sole 24 ore (“Beggin”). Ed esplodono sui palchi per gridare che l’amore non è mai sbagliato, come ha fatto Damiano in Polonia. O danno lezione di sportività, come Matteo Berrettini, che trattiene le reazioni in campo, e ringrazia e sorride dopo la sconfitta, entrando nel cuore di tutti. Civiltà di questa Italia che sul campo di calcio smaschera l’ormai morto e sepolto british style. E ribadisce la convinzione dello sport, ben prima che la pandemia lo ricordasse a tutti, dell’importanza del gioco di squadra: persino Nanni Moretti l’ha dovuto accettare, facendo un passo indietro – nelle battute, nelle apparizioni, nell’egocentrismo - a vantaggio del cast di “Tre piani”, il film che ha conquistato Cannes con lunghissimi minuti di applausi.

Si spezza il maleficio, ultrà del tricolore escono allo scoperto da tutto il mondo. Questa Italia, sempre in bilico tra futuro e nostalgia, tra enfasi e disfattismo, riconquista il suo carisma. “Zitti e buoni” ai suoi ragazzi non deve dirlo più. 

Italiani sospesi. Marco Damilano su L'Espresso il 16 luglio 2021. Passata la festa di una notte d’estate il Paese resta appeso alla capacità di costruire la democrazia come tessuto collettivo. Ma è un filo fragile. L’Italia è una donna sospesa sul filo, la disegna così poeticamente Mauro Biani in copertina. La sospensione è lo stato d’animo del Paese da molti anni. Il Paese sospeso fu l’immagine scelta da Ilvo Diamanti per raccontare la vigilia pre-elettorale del 2018. Seguì il voto a sorpresa, l’impossibilità di fare un governo con due mesi di crisi e le consultazioni al Quirinale che non finivano mai. E poi la pazza legislatura, i gialloverdi per isolare il Pd, i giallorossi per contenere la Lega, il governo di tutti i partiti per mettere in mora se stessi. E la pandemia, la più grave emergenza sanitaria, economica e sociale del dopoguerra. In una notte d’estate, per qualche ora, la sospensione si colora di azzurro. E il Paese si divide, di nuovo, tra apocalittici e integrati. Tra chi accetta tutto, ma proprio tutto, con entusiasmo infantile e chi nega tutto, ma proprio tutto, con immutabile rancore. «E un giorno, un giorno o due dopo il 18 aprile, / lo vidi errare da una piazza all’altra / dall’uno all’altro caffè di Milano / inseguito dalla radio. / “Porca - vociferando - porca.” Lo guardava / stupefatta la gente. / Lo diceva all’Italia. Di schianto, come a una donna / che ignara o no a morte ci ha ferito». Così Vittorio Sereni raccontò la reazione di Umberto Saba alla vittoria della Democrazia cristiana sul Fronte popolare socialcomunista alle prime elezioni repubblicane il 18 aprile 1948. I versi mi sono tornati in mente la notte dell’11 luglio, tra il suono dei clacson e i caroselli delle macchine e i tricolori tornati a sventolare, solo per una notte che a una settimana di distanza appare già lontana. Tutto è diventato veloce, effimero, nella dimensione collettiva, anche il dolore lo è, così come la gioia. Al posto del corteo dei camion con le bare di Bergamo nel marzo 2020 della grande paura del Covid-19 si è sostituita la folla che accompagnava il bus scoperto della Nazionale azzurra, dove ogni regola di distanziamento è colpevolmente saltata: i simpatici neo-campioni d’Europa hanno imparato subito la lezione dell’arroganza del potere che scavalca le regole fuori dal campo. E via con i fiumi di retorica nazionale, l’Italia trasformata in un unico grande terrazzo da cui cantare l’inno, come durante il primo lockdown di sedici mesi fa, quando lo fecero soprattutto nei quartieri in cui non c’erano problemi di spazio. A Roma, ad esempio, nei quartieri più ricchi le case presentano una superficie media di 108 mq, 50 mq per abitante, nelle periferie del disagio, come l’hanno definite Keti Lelo, Salvatore Monni e Federico Tomassi in “Le sette Rome” (Donzelli), le abitazioni hanno la minore superficie media (84 mq) e per residente (34 mq) di tutta la città, con conseguenze drammatiche. In queste zone il virus ha colpito più duro: maggiore contagio, più mortalità. La pandemia, scrivono i tre ricercatori, è in realtà una sindemia, che aggrava le difficoltà e le disuguaglianze già esistenti. Anche cantare l’inno nazionale dai balconi non era la stessa cosa, e neppure vedere insieme la partita. Forza Italia, che divenne il nome di un partito, e Porca Italia a volte convivono nella stessa formazione, nella stessa persona, nello stesso leader. Silvio Berlusconi, Matteo Renzi, Beppe Grillo e anche Matteo Salvini, divisi da mille cose, sono uniti da questo spirito che è insieme anti-italiano (ma non nel senso di Giorgio Bocca, Roberto Saviano e oggi Michela Murgia!) e arci-italiano, due dimensioni che nella storia nazionale e nel segmento più recente, la storia repubblicana, spesso si tengono insieme. A ciascuno di questi leader è toccata la volontà di incarnare un nuovo tipo di italiano, diverso da quello precedente. Berlusconi vinceva proponendosi come modello di un nuovo italiano, «se fate come me vi arricchirete», il Renzi del quaranta per cento del Pd voleva restituire un’identità all’Italia del centro e addirittura ri-fare gli italiani. «Dante ha fatto l’Italia. O perlomeno l’italiano», scriveva da sindaco di Firenze. Sognava un italiano nuovo, anzi, alla fiorentina, novo. Un Dolce Italiano Novo da costruire dall’alto della sua leadership. Il Grillo delle origini invitava il pubblico a spedire un sonoro Vaffa contro se stesso. «Il fanculamento dei politici è un mero pretesto per fanculare la gente. Perché è colpa nostra se siamo ancora comandati da questa gente. E i partiti nuovi fanno ancora più schifo di quelli vecchi», spiegava quando di mestiere faceva ancora il comico. Poi, da leader politico, se n’è dimenticato. E si è prodigato per carezzare la gente dal verso del pelo: voi siete i buoni, nonostante i condoni edilizi e l’evasione fiscale, i politici, loro, sono i cattivi, il bersaglio da abbattere, un obiettivo sempre più debole e screditato. Salvo poi trasformarsi nel primo dei capi partito, impegnato in una lotta intestina con Giuseppe Conte per mantenere la sua egemonia. E lasciare la bandiera dell’anti-politica ai nuovi profeti del i-politici-che-fanno-schifo, gli influencer, i Ferragnez. Con lo sbalorditivo plauso dei politici del Pd. I populisti e i sovranisti alla Orban sono ossessionati dall’idea del tradimento della patria, vedono nemici dappertutto: una volta sono i comunisti, poi gli islamici, gli immigrati. Gli omosessuali che attentano ai valori della tradizione. Le burocrazie di Bruxelles che annullano le nazioni. E poi le autorità e le agenzie indipendenti, la magistratura e il giornalismo. Sono le istituzioni che fanno la qualità di una democrazia, lo ha ripetuto domenica scorsa la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, ecco una politica di professione, una democristiana moderata che sa emozionarsi e conosce i luoghi dove si trova, visitando il campo di concentramento di Fossoli da cui viaggiavano i treni verso l’Est, anche quello che portò Primo Levi ad Auschwitz partì da lì. Non si può ammettere alcuna discriminazione in Europa, contro le università, l’informazione, le persone di colore, gli ebrei, le persone Lgbtq. Nello stesso luogo il presidente del Parlamento europeo David Sassoli e Pierluigi Castagnetti, eredi della cultura cattolico- democratica da cui proviene Sergio Mattarella, hanno ricordato che le radici della costruzione europea affondano lì, nell’orrore dei lager, nella guerra tra nazionalismi nel cuore dell’Europa. Tutto quello che i sovranisti dimenticano: il Mediterraneo tomba dei migranti, la Libia che cancella i diritti. Il segretario del Pd Enrico Letta, finalmente, rilancia la sfida: i delitti contro l’umanità sono una questione europea, non italiana. Anche la visita di Draghi e della ministra della Giustizia Marta Cartabia nel carcere della vergogna di Santa Maria Capua Vetere è il tratto di un cammino di civiltà, lento e frammentato. Sono appunti ancora imperfetti per una nuova identità italiana e europea, alternativa a quella di Salvini e Meloni che appaiono appena più moderati dei loro alleati di Ungheria e Polonia. Ma è una costruzione fragile, se non diventa senso comune, se non diventa una canzone popolare. Un tecnico come Mario Monti da presidente del Consiglio dichiarò a Time nel 2012 di «voler cambiare le abitudini degli italiani»: «La politica ha diseducato per anni gli italiani. Senza un cambiamento le riforme strutturali sarebbero effimere». Il premier Draghi, per fortuna, non ha mai dichiarato di voler costruire un nuovo modello di italiano. Si accontenta di spendere bene i fondi europei per la ripresa. Ma c’è da chiedersi se le riforme del Piano nazionale di Ripresa e di Resilienza serviranno a fare un passo anche nella direzione di una identità nazionale contemporanea, quella che ad esempio incarnano i ragazzi expat, i nuovi italiani nel mondo: un’identità molteplice, pluralista, aperta sul mondo. E se la partecipazione esibita senza freni alla gioia collettiva calcistica del premier Draghi sia il sintomo della necessità di un nuovo consenso nel Paese, non soltanto di tipo razionale o emergenziale. Le emozioni sono un fatto sociale, non privato, ha scritto lo psicologo americano Adam Grant (New York Times, 13 luglio), a proposito di «un’effervescenza collettiva» perduta durante il lockdown e che ora va recuperata. In questo anno e mezzo l’Italia ha perso 750mila posti di lavoro e la fine del blocco dei licenziamenti ha portato a situazioni vergognose e incivili come quella della Gkn di Campi Bisenzio, nelle stesse ore in cui si scendeva in piazza per esultare. Hanno retto all’onda d’urto drammatica del Covid-19 le strutture portanti del Paese come le famiglie, il bene-rifugio nazionale in tempi di smartworking e di didattica a distanza, e le imprese manifatturiere non travolte dalla crisi. Ma altre strutture sono entrare in allarme. Per quasi la metà degli studenti la didattica a distanza è stata quasi impossibile, con gravi conseguenze psicologiche. Ancora, le mappe sulle sette Rome ci dicono che in un quartiere come Tor Bella Monaca 30mila abitanti su 73mila vivono di un qualche sussidio (reddito di cittadinanza, reddito di emergenza, Naspi, bonus covid). Il volontariato e l’associazionismo che sono il capitale sociale del Paese sono entrati in difficoltà. Dietro i discorsi sull’identità nazionale da ricostruire ci sono i dati materiali. L’immagine di una ripresa e di un rilancio impossibili da attuare senza una partecipazione collettiva della comunità nazionale. Tutto quello che manca, senza un’impresa politica. Il Draghismo, se esiste, è una pratica di governo, pragmatismo al servizio della ricostruzione post-covid, si identifica con il presidente del Consiglio e con la sua squadra di tecnici. La politica, al confronto, sembra incapace di decidere, che si tratti di disegno di legge Zan, con il dibattito arcaico e inconcludente nell’aula del Senato, o di nomine Rai. È una situazione che può rallegrare quel pezzo di Paese che cresce e progredisce senza politica, o addirittura contro la politica, ma che deve allarmare chi vede in questo deserto di rappresentanza un pericolo per la coesione sociale e un potenziale moltiplicatore di disuguaglianze. Quel filo su cui si regge l’Italia sospesa non è il prestigio internazionale e l’autorevolezza morale di un pezzo di classe dirigente, il presidente Mattarella, il premier Draghi, ma è la capacità di costruire la democrazia come tessuto collettivo del Paese. Per questo il filo è fragile e la scommessa va oltre la gioia di una notte d’estate che è una bella parentesi nella crisi in cui ci troviamo.

Dagli Eurovision agli Europei, l’Italia è meglio di quello che lei stessa pensa di essere. Giampiero Casoni il 12/07/2021 su Notizie.it. Siamo figli del melodramma e di mille contraddizioni, ma se decidiamo di corteggiare l’eccellenza siamo i più bravi del mondo a portarla a nozze. Chi dice di non averci pensato è birbaccione e mente, anche a considerare che Damiano dei Maneskin in autoreggenti che ulula sul palco e Chiellini con la corona in capoccia che bramisce a Wembley non sono proprio immagini omologhe, non in estetica almeno. Eppure sono uguali a voler contare una cosa basica e bellissima: che gli italiani sono molto più di quello che essi sanno di essere. Perché noi siamo fatti così e non è proprio colpa nostra: figli del melodramma e delle mille contraddizioni che partoriamo nella nostra quotidianità di popolo arrangione tendiamo a dimenticarci che se decidiamo di corteggiare l’eccellenza siamo i più bravi del mondo a portarla a nozze. E allora, in una sorta di domino della sfiga compiaciuta cadiamo nel trappolone dei piagnistei e permettiamo agli altri di farci a brandelli. Il che non sarebbe neanche male, se solo avessimo consapevolezza di quanto effimere siano le critiche di chi sta peggio di noi (vero Maestà?). Solo che alla lunga l’Italia si è fidanzata con il luogocomunismo che la vuole Paese da sei politico e quando poi svetta in pagella pare che sia accaduto un miracolo. E invece non è così e ce lo dice la cronaca prima ancora che sedimenti in storia: dagli Eurovision agli Europei e facendo pure una tappa solenne a Wimbledon e in decine di altri ambiti meno mainstream l’essere Italia è arrivato a coincidere con l’essere il Fattore Dominante, quella che se non la batti o se non ci fai i conti non sei nessuno, quella che se blatera e si sbraccia e urla nelle strade lo fa dopo averne acquisito diritto e merito sul campo, qualunque campo dove un italiano singolo o in gruppo decida di mettersi la tigna fra i denti e che è ora di fare sul serio. Ora, a contare che siamo andati a meta proprio su cose dove qualcun altro si sentiva leader, la faccenda dovrebbe farci riflettere ancora di più. Il rock è per antonomasia e genetica da pentagramma faccenda British e i Maneskin stanno polverizzando ogni record. Il calcio, ma qui entriamo nel vespaio delle opinioni, è invenzione British e proprio in un contenitore britannico e contro i britannici abbiamo menato la Scoppola Definitiva e datemi un amen grosso come la torre di Londra dove pure i corvi oggi sono più neri. Insomma, l’antico mantra che faceva noi mediterranei dionisiaci inconcludenti e i nipotini della Riforma concreti attuatori di cose pare diventato una favoletta. Una cosina blanda da raccontare ai bambini in pre sonno quando mettono il broncio e li vuoi far ridere sennò addio serata marpiona con la moglie. Perché se l’Italia è diventata meglio di ciò che gli italiani pensavano che fosse forse il merito è proprio di quegli italiani che ci hanno cominciato a credere. Perciò prendiamo esempio e, che siano parastinchi o chitarre, che sia cantando “Zitti e buoni” o ululando “Ne dovete mangiare di pastasciutta”, andiamo a prenderci il mondo.

Ignazio Stagno per ilgiornale.it il 13 luglio 2021. Meritiamo rispetto. Lo meritiamo come Paese, come Nazione e anche nel calcio. Diciamoci la verità: lo spettacolo vergognoso che ha preceduto Italia-Inghilterra ha ferito e non poco l'orgoglio Azzurro. L'odio, le prese in giro e quel "It's coming home" dei britannici ha di fatto caricato la squadra per arrivare fino in fondo a quei maledetti 120 minuti sfociati poi nella dolce lotteria dei rigori. Il clima velenoso attorno all'Italia non è certo merito dei cronisti di casa nostra. Anche in questo abbiamo dato una lezione di stile. Mai una riga fuori posto sull'Inghilterra ne un commento capace di aggiungere superbia a quella abbondantemente presente nei barili di Londra. La stessa cosa non si può dire da parte dei commentatori d'Oltralpe e d'Oltremanica. Ed è per questo motivo che oggi, con la Coppa in bacheca, è giusto ricordare le parole di chi ha cercato di avvelenare il Sogno Azzurro. Cominciamo da una vecchia conoscenza: Fabien Barthez. Lo ricordiamo per i baci ricevuti sulla testa da Blanc a Francia '98 e per quei rigori amari nei quarti di finale. Lui sull'Italia a Euro 2020 aveva le idee fin troppo chiare. Leggere per credere: "Non mi piace. Ha giocato contro squadre non all’altezza in un girone semplice. Non ha nulla. Non farà molta strada...". Mentre si lecca le ferite, noi continuiamo a suonare il clacson. E che dire poi del suo sodale amico, Patrick Viera? Anche lui rischierebbe il posto se lavorasse nel mondo dei bookmakers: "Credo che le prime due partite che hanno giocato siano state semplici – ha affermato l’ex centrocampista -. Ovviamente devi battere chi ti ritrovi davanti, ma continuo ad avere dubbi sul fatto che l’Italia possa arrivare fino alla fine". Non disturbiamolo, lo vediamo ancora lì a cercare una spiegazione all'eliminazione dei galletti. Ma è sul fronte inglese che si sono scatenati i veleni più fastidiosi per i giocatori azzurri. A guidare la pattuglia dei gufi d'Albione c'è Gary Linker che dovrà di certo rivisitare la sua frase più celebre: "Il calcio è un gioco semplice: 22 uomini rincorrono un pallone per 90 minuti, e alla fine la Germania vince". Ora dirà "...alla fine vince l'Italia". Ma lasciando stare le citazioni, è bene ricordare cosa ha detto dopo il match degli Azzurri con l'Austria: "Italy have turned into Italy" (L'Italia è diventata/si è trasformata nell'Italia). Un riferimento preciso al nostro gioco all'italiana, il catenaccio. Ieri sera la sua Inghilterra non ha certo mostrato un calcio-spettacolo, chiusa a riccio fino al pareggio di Bonucci. A chiudere questa carrellata di gufi c'è Rio Ferdinand, roccioso ex difensore del Manchester United. A lui non interessava conoscere gli avversari dell'Inghilterra seguendo ad esempio Italia-Spagna. Ha spiegato il perché con poche parole: "All’Inghilterra non interessava chi potesse uscire vincitore perché è superiore". Non gli resta che correggere una consonante al motto inglese che ha frantumato la testa dei tifosi italiani e degli Azzurri: It's coming Rome...

“Perdiamo l’Europeo 2020 ai rigori con l’Italia”, l’incredibile profezia inglese del 2013! Nel clamore dei social, tra la gioia degli azzurri e la disperazione degli inglesi, è diventato virale un tweet di otto anni fa che ha azzeccato il risultato finale di Euro 2020. Il corrieredellosport.it del 12.07.2021. Dopo la finale di Euro 2020, i social si sono scatenati con la gioia dei tifosi azzurri e la disperazione di quelli inglesi. Tra i tantissimi commenti e post però uno ha attirato l'attenzione di tantissime persone. Il tweet dell'utente lawseyitfc recita: "L'Inghilterra ha appena perso la finale di Euro 2020 contro l'Italia ai rigori. Nulla è cambiato allora!". A primo impatto sembra un normalissimo post sulla finale, ma la peculiarità è la data di quando è stato scritto: 22 febbraio del 2013. Cameron, questo il nome dell'utente, ha predetto la finale dell'Europeo con ben otto anni di anticipo.

L'incredibile profezia del tifoso inglese. Il tweet del tifoso inglese è diventato virale, con moltissime persone che sono rimaste sbalordite dall'incredibile profezia. Cameron ha predetto i rigori fatali per l'Inghilterra, con l'errore di Rashford e le parate decisive di Donnarumma su Sancho e Saka. In molti si sono chiesti se il tifoso abbia scommesso sul risultato finale: "Si l'ho fatto, ma ho scommesso solo 6 sterline, vincendone infine 61.". 

Fabio Rovazzi a Wembley nella curva degli inglesi: “Ho dovuto soffrire in silenzio”. Federica Palman il 13/07/2021 su Notizie.it. Fabio Rovazzi ha raccontato la finale di Euro 2020, vissuta a Wembley, ma nella curva dei tifosi inglesi: "Se avessi esultato sarei morto". Anche Fabio Rovazzi, cantante e youtuber classe 1994, era allo stadio di Wembley domenica 11 luglio a tifare per gli Azzurri: “Fino all’ultimo non sapevo se sarei riuscito ad andare a Wembley, in questi giorni ho pubblicato il video del nuovo singolo (La mia felicità, con Eros Ramazzotti), avevo in scaletta una serie di impegni. Non appena ho capito che potevo andare mi sono imbarcato, nonostante il biglietto per il posto allo stadio: pensavo a una tribuna, mi sono ritrovato in curva con gli inglesi. Se avessi esultato sarei stato un uomo morto. Mi è toccato soffrire in silenzio”. In un’intervista al Corriere della Sera, Fabio Rovazzi ha raccontato la sua esperienza londinese: “C’era un tempo orribile, come sempre. Un meteo in linea con il morale dei tifosi inglesi”, tra i quali “si respirava un’aria di vittoria assoluta. Con la parata di Donnarumma hanno visto la coppa sfumare. Non potevano crederci”. Del resto, anche il portiere italiano ci ha messo un po’ a capire che quello parato a Saka era stato il rigore decisivo. Il migliore in campo secondo il cantante non è stato però il portiere di Castellammare di Stabia, bensì il giocatore della Juventus “Federico Chiesa, è stato un mostro. Incredibile. Pazzesco”. Fabio Rovazzi non ha negato i meritati complimenti alla formazione inglese: “La nostra è stata una vittoria presa al millimetro, si sono fronteggiate due squadre fortissime e nei supplementari l’Inghilterra ci ha fatto soffrire. Abbiamo avuto degli avversari molto bravi”. Il cantante si è lasciato però andare anche ad alcune critiche: al ct inglese Gareth Southgate, secondo Rovazzi incapace di motivare adeguatamente la squadra: “Nel secondo tempo il possesso di palla è stato al cento per cento degli Azzurri”; ai suoi giocatori, che si sono tolti la medaglia: “Non è stato un bel gesto”; e ai tifosi di casa: “Sono stati abbastanza scandalosi a fischiare l’inno di Mameli mentre dagli spalti gettavano in campo di tutto e di più. C’è stata scarsa sportività, potevano impartire una lezione di eleganza invece abbiamo assistito a un “rosicamento” che ci ha fatto molto godere. Vederli perdere proprio mentre ero in mezzo a loro è stato fantastico”. Parlando della sua esperienza tra i tifosi dei Tre Leoni, Fabio Rovazzi si è definito “una bomba inesplosa”: “Dopo dieci minuti lo stadio si è svuotato e solo a quel punto ho potuto lasciarmi andare. Ho ripreso i seggiolini vuoti e ho lanciato un urlo liberatore, come si vede nelle stories che ho pubblicato su Instagram”. “È stata la partita più incredibile della mia vita”, ha proseguito Rovazzi, che ha raccontato anche cos’è successo dopo la parata decisiva di Gianluigi Donnarumma: “Sullo stadio è sceso un silenzio totale, mai sentito prima, e i cartelloni degli inglesi con la scritta It’s coming home (sta venendo a casa, riferito alla coppa) sono diventati It didn’t. Sessantamila cuori si sono spezzati all’unisono”.

Inglesi e padani. Quello che sono e quello che appaiono.

Oggi 12 luglio 2021. All’indomani dello spettacolo indegno del razzismo inglese contro gli italiani, ma ancor più grave, contro i loro neri che hanno sbagliato i rigori.

I tifosi inglesi hanno dileggiato l’inno e la bandiera italiana e picchiato gli italiani allo stadio.

I giocatori hanno rifiutato la medaglia ed i reali hanno rifiutato di premiare gli avversari.

Gli arroganti se ne fottono se gli altri del Regno Unito tifavano contro di loro.

Così era in tutta Europa.

Essere Razzisti significa essere coglioni (cafoni ignoranti).

La mia constatazione: gli italiani ed in special modo i meridionali nel ‘900 erano poveri, ignoranti e cafoni. E ci stava sopportare le angherie.

La mia domanda è: nel 2021 cosa costringe la gente italiana e meridionale scolarizzata ed emancipata ad essere sfruttata e votata ad arricchire dei coglioni?

Per poi diventare come loro?

Return Home- tornate a casa. Create ricchezza nel vostro paese. Lì, al nord o all'estero, sarete sempre dei profughi.

Hanno solo i media che li esaltano e per questo si decantano. Ma la loro natura la si conosce quando perdono: non sanno perdere, perché si sentono superiori. Peccato che non lo sono. Forse nel ‘900. Non nel 2021.

Ricordate: da loro si va solo per lavorare e non per visitare. Per questo sono cattivi.

Da noi si viene (forse in troppi) per vivere bene e conoscere la bellezza che loro non hanno. Per questo siamo buoni.

Da video.corriere.it il 12 luglio 2021. Leonardo Bonucci festeggia la vittoria dell’Italia agli Europei e subito dopo il trionfo si lascia andare e rivolgendosi ai tifosi inglesi presenti a Wembley urla la frase: «Ne dovete mangiare ancora di pastasciutta». «È un sogno che si avvera, un grande gruppo, abbiamo iniziato a crederci dalla Sardegna. Mano a mano abbiamo acquisito sicurezza. Stasera siamo diventati leggenda - ha poi spiegato Bonucci ai microfoni della Rai - . Stiamo vedendo 58mila persone che se ne vanno via....è una grande nazionale l’Inghilterra. I tifosi ci sono rimasti male ma l’Italia gli ha dato una lezione. Quello che succedeva intorno quando abbiamo fatto il riscaldamento era solo contorno, ci siamo detti questo mentre ci fischiavano».

Dal "Corriere della Sera" il 12 luglio 2021. Bufera social sull'astronauta italiano dell'Esa Luca Parmitano che, al gol di Shaw, si è fatto prendere dall'entusiasmo sui social: «Che gol! Ben fatto Inghilterra». Alle risposte più o meno piccate dei tifosi su Twitter («La prossima volta nello spazio ti ci lasciamo», uno dei tanti commenti), Parmitano ha replicato: «Per info: ovvio che tifo Italia. Ma lo sport deve essere rispetto per l'avversario. E lo spettacolo è da entrambe le parti. Adesso tocca agli Azzurri continuare a giocare!». Una spiegazione che non ha convinto del tutto il popolo dei social. 

Vittorio Sabadin per "la Stampa" il 12 luglio 2021. L'Inghilterra ha perso, ma niente paura: nessuno come gli inglesi sa trasformare le sconfitte in vittorie. Nonostante l'amarezza e la pioggia, la gente ha affollato le strade di Londra fino a notte fonda, e molti hanno facilmente annegato nella birra la delusione. Toccherà oggi al premier Boris Johnson rappresentare con parole adeguate il cordoglio della nazione: lo farà con moderazione e senza rancori, com' è nello stile britannico. Però, questa è la vera Brexit. Johnson aveva già messo le mani avanti nel messaggio inviato all' allenatore Gareth Southgate prima della partita. «Avete comunque fatto la storia», aveva scritto, «e sollevato lo spirito dell'intero Paese. Non stiamo solo pregando o sperando: crediamo in voi e nella vostra incredibile squadra». Anche questa sconfitta diventerà dunque una vittoria, com' è quasi sempre stato nella storia inglese. La giornata di ieri ha rappresentato una catarsi collettiva, è stata la festa della libertà ritrovata e del totale rifiuto di ogni restrizione, com' è avvenuto fin dal mattino con la folla che si è radunata a King' s Cross, in Leicester Square, davanti allo stadio di Wembley e davanti a ogni pub, con i soliti hooligans mai sazi di birra e devastazioni. Mentre in Italia i tifosi riempivano la notte di feste e di grida, anche gli inglesi avevano buone ragioni per concedersi comunque una notte liberatoria: il Covid li ha massacrati più di quanto abbia fatto in altri Paesi e comunque essere arrivati alla finale è un buon risultato, visto che da 55 anni non accadeva più. Certo sarebbe stato bello dare uno schiaffone all' Europa battendo anche l'Italia, dopo che francesi e tedeschi, quelli che volevano insegnare loro come si fa a vivere, se ne erano già tornati a casa. Sarebbe stato bello salire sul tetto dell'Europa, in una posizione che agli inglesi è sempre piaciuta, perché consente di guardare tutti dall' alto in basso. Charles Dickens, in Racconto di due città, scriveva che ogni inglese è convinto di poter avere la meglio su qualunque straniero che incontra. È una convinzione più profonda di quello che si crede. E comunque, se talvolta si perde, si può sempre trasformare la sconfitta in una vittoria, come successe per Gordon a Khartum o per i 600 di Balaclava, eroi celebrati ancora oggi. Ma questa vittoria per gli inglesi sarebbe stata importante anche perché, se la loro squadra non è la migliore di tutte sul campo, lo è certamente sul piano etico, grazie all' impegno dei suoi giocatori contro le diseguaglianze, il razzismo, le incomprensioni e le divisioni. Sterling, Rashford, Kane non sono giocatori come gli altri, che pensano solo all' ingaggio e a come fare stare in garage la nuova Lamborghini tra le due Ferrari. I tifosi non li adorano solo perché giocano bene, ma anche per il loro impegno in cause che li riguardano. Se avessero vinto l'Europeo, avrebbero dato ancora più visibilità e spazio ai temi che sostengono in prima persona, sarebbero stati più ascoltati, avrebbero rappresentato meglio le istanze della società multietnica inglese. Ma vanno ringraziati e applauditi comunque. Il premier Boris Johnson sperava di utilizzare la vittoria per rafforzare ancora di più la sua posizione. Oggi confermerà il 19 luglio come la data di fine delle restrizioni per il Covid, il giorno della libertà. Ma la libertà gli inglesi se la sono già ripresa ieri da soli, e non torneranno indietro. Avrebbe voluto anche proclamare una nuova festa nazionale a ricordo imperituro dell'impresa, ma dovrà rinunciare. Dirà che essere arrivati in finale è una grande cosa, che la squadra è superiore alle altre nel suo impegno etico e che di questo l'Inghilterra deve essere fiera. La lunga notte della partita e della ritrovata libertà è stata così frenetica e interminabile che le scuole hanno autorizzato gli studenti ad arrivare un po' più tardi in aula. Anche negli uffici ci saranno parecchie assenze, ma tutti chiuderanno un occhio. Si è calcolato che solo nel giorno della partita siano stati consumati 3,5 milioni di litri di birra e che 3,4 miliardi di sterline siano stati spesi in feste, bevande, oggetti ricordo, merchandise e tv a grande schermo. Anche un pallone può fare ripartire l'economia, riportando la fiducia tra la gente. La regina Elisabetta ha seguito l'incontro in tv, in compagnia di qualche vecchio amico. La vittoria inglese sarebbe stata una delle poche cose positive di un anno davvero terribile, ma va bene anche così. Prima dell'incontro aveva mandato un messaggio di auguri alla squadra e preparato due onorificenze per l'allenatore Gareth Southgate: l'Ordine della Giarrettiera in caso di vittoria, o l'Ordine di Comandante dell'Impero Britannico (Cbe) in caso di sconfitta. Southgate non sarà dunque baronetto come Alfred Ramsey, l'ultimo allenatore dell'Inghilterra ad avere vinto un titolo importante: la Coppa del Mondo del 1966, quando la maggior parte dei tifosi di oggi non era neppure nata. Allora in campo nessun giocatore aveva la barba, e a Wimbledon vinceva Billie-Jean King, che doveva nascondere di essere lesbica. Al governo c' era Harold Wilson, che mai avrebbe indossato una maglia con il numero 10 sulla schiena, come ha fatto Johnson. La squadra sconfitta si chiamava Germania «Ovest» e il guardalinee che convalidò uno dei gol decisivi era Tofik Bakhramov, un sovietico che parlava solo il russo. Era tempo, come dice la canzone della nazionale inglese, che il football tornasse a casa, ma sarà per un'altra volta. La nazionale inglese, come ultimo gesto, durante la premiazione si è tolta la medaglia del secondo posto. Come dire: questa sconfitta non la accettiamo. 

L’Italia ha vinto, l’Inghilterra ha perso due volte.   Rec News il 12 Luglio 2021. Quelli bravi la davano per sconfitta, e invece la Nazionale si è ripresa dopo 53 anni quello che era suo. Gli Azzurri di Mancini portano a casa gli Europei: non è solo un trofeo, ma una vittoria colma di un’umanità che ad altri manca uelli bravi la davano per sconfitta, e invece la Nazionale italiana si è ripresa dopo 53 anni quello che era suo. L’Italia di Mancini porta a casa gli Europei: non è solo un trofeo, ma una vittoria morale ed umana. Per il Tricolore da stanotte si scende in piazza insieme, uniti e sorridenti. Niente mascherine, distanziamenti, fobie. Si esulta e si gioisce, semplicemente e umanamente, dopo aver assistito dal vivo, dai maxi-schermi o da casa alle prodezze degli Azzurri e al ritorno agli stadi gremiti di gente. Perché il calcio senza i tifosi e senza un momento che tradisca il nostro essere fatti di carne non è nulla, ma è mero calciomercato e prese di posizione politiche. Così il desiderio di rivalsa di Bonucci, le lacrime di Bernardeschi e le stampelle esultanti di Spinazzola hanno fatto dimenticare in un colpo solo le inginocchiature, le simbologie e i motti fanatici stampati sulle fasce dei capitani e ripetute a mò di mantra nelle pubblicità, oltre che i tentativi di strumentalizzare in tutti i modi la competizione. Ovviamente, la Rai non ha perso l’occasione per propinare la valletta di colore e la cronista della nazionale femminile, così come la UEFA ha pensato bene di far portare la coppa a un ragazzo di colore. Il cortocircuito è palese, la caduta di stile anche: anziché far passare l’idea di integrazione, è stato riesumato il vecchio e per fortuna superato concetto di servilismo etnico, con il “nero” maggiordomo e la “nera” dama di compagnia. Poi però si censura Via Col Vento. Succede anche questo, a voler essere troppo politicamente (e ipocritamente) “corretti”. Perché, ovviamente, scardinare quelli che alcuni considerano consuetudini superate non può significare instillarne di altre, altrettanto confuse e di visione limitata. Il calcio non è questo, ma è coinvolgimento. Eppure gli stadi chiusi per mesi, le rimostranze dei giornalisti sportivi e la tv pubblica che si fa monopolista diventando Host Broadcasting raccontano un’altra storia. Calcio (e sport) è anche accettare la sconfitta consapevoli del fatto che l’avversario questa volta è stato migliore, lavorando per eguagliarlo al prossimo giro. Non è calcio e non è sport l’assenza totale di fair play dimostrata dai tifosi e dai calciatori inglesi, con i primi che hanno fischiato anche l’Inno di Mameli e sono scappati dallo stadio a partita conclusa per evitare i festeggiamenti. Che dire dei secondi, allergici alle strette di mano e alle medaglie del secondo posto, quasi si ritenessero invincibili. Così, l’Italia “umana” ha vinto, l’Inghilterra ha perso due volte.  

Giulia Zonca per “la Stampa” il 16 ottobre 2021.  Lilian Thuram entra al Salone di Torino con un libro rosso che si intitola «Il pensiero bianco» e prova a ridare un senso ai colori.  

Dovremmo smettere di definirci bianchi o neri? 

«Non è necessario eliminare i termini, ma vanno spiegati. L'identità ha una storia, dentro il nostro modo di definirci c'è anche una gerarchia e dal momento in cui lo capiremo le useremo sempre meno. I bambini non le usano affatto».  

Nel libro però si chiede come mai alle elementari i compagni bianchi la trattassero già diversamente. 

«Sì ma avevo nove anni. Quando ero ancora a Torino e il mio figlio più piccolo Khéphren aveva 4 o 5 anni gli ho chiesto "Sei l'unico nero nella tua classe?". Ha risposto: "Non sono nero, sono marrone e gli altri sono rosa"». 

Oltre i 5 anni che si fa? 

«Bisogna conoscere il passato. Le ultime generazioni si definiscono sempre meno per il sesso, chiamarsi uomo o donna non è mai stato un fattore neutro. Ora, dopo 60 anni di lotte e proteste quell'etichetta ha sempre meno significato».  

Quanto ci vuole per strappare le etichette bianco e nero? 

«Ce ne vuole. Siamo all'inizio della demolizione». 

Le hanno dato del razzista perché ha definito un modo di pensare bianco? 

«È successo. Normale, anche quando molte donne hanno iniziato a dire che certi film o romanzi hanno una percezione maschile, la maggioranza si è stranita e infastidita. Era uno sguardo nuovo e quindi destabilizzante».  

Qualcuno si è offeso per il suo libro? 

«Certi politici, quelli che difendono la supremazia bianca e sono tanti, ma non mi interessano loro, mi importa chi non è cosciente della gerarchia del colore. Considerarsi neutro significa rifiutare ogni responsabilità e non mettersi in discussione».  

In Italia come in Francia ci sono ondate di populismo. 

«In tutte le società ci sono persone che amano la violenza e oggi fanno meno fatica a farsi sentire».  

L'aggressività aumenta. 

«Veniamo da anni di crisi economica e in politica trovare un nemico è una soluzione. Il razzismo si perpetua nel tempo perché l'ideologia fascista si basa sul fatto che esiste un vincitore: tu sei meglio di lui e hai diritto a stare meglio».  

Eric Zemmour, opinionista e giornalista di ultra destra, cresce nei sondaggi per la presidenza francese senza neanche essere ufficialmente candidato. 

«Candidato o no lui rivela il razzismo del mio Paese. Fa discorsi violenti e c'è chi lo accetta. Lui fomenta l'odio e glielo lasciano fare perché tanti non sono toccati dai suoi discorsi. Sono bianchi». 

È legittimo che Zemmour possa tenere certi discorsi pubblici? 

«per i non bianchi no. Noi ci sentiamo minacciati. Quell'uomo invita a umiliare i non bianchi, i miei figli, i miei amici e invece di inorridirsi troppa gente ci fa sopra dell'ironia. In più mi dicono, "ma rappresenta il 10 per cento dei francesi". Pensiero bianco, i suoi discorsi sono un appello all'odio. Per accettarli bisogna essere bianchi». 

In Italia certi appelli all'odio hanno portato i no-vax a sfasciare la sede della Cgil. 

«Non sono sorpreso. Il problema sono quelli che legittimano questi appelli dandogli spazio».  

La sorprende almeno che ci sia qualcuno più a destra di Le Pen? 

«No, ho 49 anni e nulla mi sorprende». 

Quanti pensieri bianchi ha incontrato quando viveva in Italia? 

«Quando giocavo capitavano cori razzisti e i compagni bianchi mi davano pacche sulle spalle per dirmi che non era grave. Volevano farmi stare meglio ed era uno sbaglio clamoroso. Un pensiero bianco. In Italia, a ogni singolo problema di razzismo sembra che sia la prima volta. Mi fa impazzire quando dite: quelli che fanno buu non sono veri tifosi».  

Lo sono? 

«Certo: seguono una squadra, vanno allo stadio, si mettono la sciarpa. Sono tifosi. Leviamo di mezzo l'ipocrisia». Ne parlava con i compagni del Parma e della Juve? «Di tanto in tanto, ma non c'era troppa voglia di capire». 

Che si fa allora negli stadi? Due settimane fa, a Firenze, un gruppetto ha dato delle scimmie ai giocatori neri del Napoli. 

«Se vogliamo cambiare le cose la rivolta deve partire dai giocatori bianchi. Le donne hanno protestato per avere il diritto di voto, ma poi la legge chi l'ha riscritta? Gli uomini. Ed è uguale. Non si può chiedere ai giocatori neri che cosa bisogna fare, chiediamolo ai bianchi». 

Quando suo figlio Marcus ha iniziato a giocare ad alto livello gli ha fatto il discorso che si vede nei film su come reagire agli insulti? 

«Non ho aspettato che i miei figli iniziassero a giocare a calcio. Ho spiegato che cosa era successo quando erano bambini. Mi dicevano: "ma dai papà". Mi hanno dato ragione». 

Consiglierebbe a Marcus di giocare in Italia o c'è troppo razzismo qui? 

«Lui vuole una grande squadra e se la trova in serie A non c'è problema».  

Il portiere del Milan Maignan ha scritto su Instagram "Perché ci trattate come bestie?". 

«Quando lo scrive un giocatore bianco ne riparliamo».  

L'Italia agli Europei ha scelto di inginocchiarsi solo davanti alle squadre che avevano adottato quel gesto. 

«Ho vissuto qui, non mi aspettavo nulla di diverso. Vuol dire che la maggioranza di quei giocatori non si preoccupano di chi soffre le conseguenze del razzismo. Però non dicano che scelgono questo comportamento per non fare politica. Il calcio è politica. Non inginocchiarsi è politica».  

La Francia non si inginocchia mai. 

«E mi dispiace perché conosco il potere del calcio, io cresco con l'esempio di Muhammad Ali. Loro hanno deciso come squadra, non tutti avevano lo stesso pensiero».  

Come se ne esce? 

«Il razzismo è una trappola bisogna svegliarci: finisce così il mio libro. Invece di confrontarci sul colore della pelle smettiamo di lasciarci condizionare dai pochi che pensano di andare a vivere su un altro pianeta. Pensano: "Esauriamo pure le materie prime poi lasciamo le masse qui e noi super ricchi andiamo su Marte". La politica li asseconda invece di rispettare persone e natura». 

Vedrà Juve-Roma? 

«No, non ho visto mai la Juve quest' anno. So che va un po' meglio adesso, è una grande squadra e si riprenderà. Se si mette in discussione Allegri è il calcio, non la Juve, ad avere dei problemi».  

Il Psg con Messi, Neymar, Mbappé è doping finanziario? 

«Non è la prima volta che una squadra riunisce il meglio che c'è». 

La sua Juve era così? 

«Era fortissima. E da giovane ho visto il Milan di Gullit, Van Basten, Rijkaard, Baresi, Maldini. Vincono quasi sempre i più ricchi, per questo il calcio può influenzare la società: è uno specchio». 

Il Razzismo degli Inglesi. Euro 2020, alta tensione a Wembley: tifosi inglesi provano a entrare senza biglietto, guerriglia con la polizia. Libero Quotidiano l'11 luglio 2021. Alta tensione a Wembley, quando un gruppo di tifosi inglesi ha provato a fare irruzione allo stadio, sfondando il cordone di sicurezza schierato all’ingresso dello stadio. È da stamattina che gli inglesi sono decisamente su di giri, e non c’entra solo il fiume di alcool consumato: i sudditi di Sua Maestà sentono di avere in tasca la vittoria di Euro 2020, prima ancora di disputare la finalissima con l’Italia. D’altronde i padroni di casa partono col favore dei pronostici, ma allo stesso tempo va ricordato che hanno vinto un solo Mondiale 53 anni fa e mai un Europeo: gli azzurri hanno ben altra storia alle spalle e non si faranno intimorire da questo clima. A circa due ore dal calcio d’inizio si è registrato però un episodio di alta tensione: i tifosi inglesi hanno invaso le strade tra cori, fumogeni e anche qualche rissa, però un gruppo si è spinto addirittura oltre, cercando di fare irruzione nello stadio. Le forze di polizia hanno fatto gran fatica a domare questo gruppo di tifosi, ma alla fine è stato impedito loro di raggiungere l’intento folle che si erano prefissi. A Wembley ci saranno circa 70mila spettatori, nonostante la variante Delta abbia determinato un importante aumento dei contagi: sono arrivati a circa 40mila al giorno. La maggior parte delle persone ammesse allo stadio saranno tifosi inglesi: oltre 60mila. 

Gli inglesi rosicano: il gesto con la medaglia. Antonio Prisco il 12 Luglio 2021 su Il Giornale. Non poteva sfuggire l'atteggiamento dei giocatori inglesi al momento della premiazione dopo la sconfitta ai rigori contro l'Italia. Uno dopo l'altro si sfilano via la medaglia dal collo dopo averle ricevute dal presidente della Uefa Aleksander Ceferin. Lo hanno fatto i giocatori inglesi, durante la premiazione dopo la finale degli Europei 2020, Inghilterra-Italia. Una delusione troppo grande, per i i calciatori dell'Inghilterra, che avevano cullato a lungo il sogno di conquistare l'Europeo davanti al proprio pubblico nello storico stadio di Wembley. Il gol del terzino del Manchester United, Luke Shaw si dimostra soltanto illusorio. Gli Azzurri con un grande secondo tempo recuperano lo svantaggio grazie ad un gol di Leonardo Bonucci. Si decide tutto alla lotteria dei calci di rigore, che si dimostra emozionante come non mai. All'errore iniziale di Belotti, segue il palo di Rashford. L'Italia segna prima con Bonucci poi con Bernardeschi. Poi spreca un incredibile match point con Jorginho ma gli inglesi non segnano più e l'ultimo errore di Saka, respinto da Donnarumma, regala all'Italia la vittoria finale. Un epilogo crudele, evidentemente troppo difficile da accettare per i calciatori inglesi, che hanno mostrato tutta la loro delusione al momento della premiazione. Al momento di ricevere la medaglia del secondo posto dal presidente della Uefa, Aleksander Ceferin hanno preferito sfilarsi il riconoscimento dal collo. Un gesto innanzitutto anti-sportivo, uno dei tanti visti nella giornata di ieri, che non rende onore al merito dei vincitori e che soprattutto non rende merito agli inglesi stessi. I ragazzi di Southgate sono stati protagonista di un grande Europeo e dovrebbero essere fieri del loro cammino. Del tutto diverso invece quanto accaduto nei giorni scorsi in Coppa America. Tutti i componenti del Perù hanno tenuto al collo la medaglia del quarto posto nel corso della premiazione della ''finalina'' vinta dalla Colombia per 3-2. Questa sì che è una bellissima lezione di sportività.

La delusione degli inglesi. Il ct inglese Gareth Southgate, parla dopo la sconfitta contro l'Italia: "Hanno dato tutto in questa gara e in tutto il torneo. Sono una squadra che hanno dato alla Nazione grandi emozione. Siamo devastati da come è andata, è difficile trovare parole adesso ma abbiamo dato tutto. Chi ha sbagliato i rigori? Li abbiamo provati in allenamento, è una mia decisione, i rigori si segnano o sbagliano. Abbiamo tirato coi migliori rigoristi in campo". Gli fa eco dopo poco Harry Kane, raggiunto dai microfoni della Bbc: "Non avremmo potuto fare di più. Perdere ai rigori è la sensazione peggiore del mondo, ma abbiamo fatto un gran torneo e dobbiamo uscirne a testa alta. Farà male per un po', ma siamo sulla strada giusta".

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Finale euro 2020, tifosi inglesi sputano sulla bandiera italiana. Valentina Mericio l'11/07/2021 su Notizie.it. Il clima della finale inglese non è preceduto da buoni auspici. Alcuni tifosi inglesi hanno sputato e calpestato la bandiera italiana. Il clima di questa finalissima di euro 2020 non si è aperto sotto i buoni auspici. A poche ore dalla grande sfida alcuni tifosi inglesi in condizioni visibilmente alterate hanno sputato e arrecato oltraggio al tricolore. Il tutto grottescamente accompagnato da salti, calpestii e urla. Non certamente un comportamento segnato dal fairplay quello di parte della tifoseria di casa che ha dimostrato in questo modo un chiaro poco rispetto verso la tifoseria italiana. Sempre nelle ore che hanno preceduto la partita, nei pressi del Wembley Stadium si sono scatenati una serie di scontri. Nel frattempo le strade si stanno gradualmente riempiendo di sporcizia, bicchieri e rifiuti. Stando a quanto riportano alcuni media non si tratterebbe di un caso isolato. Una donna danese residente nella capitale inglese da circa 15 anni ha denunciato una situazione simile durante la semifinale contro la Danimarca. La donna infatti in quell’occasione aveva messo in guardia gli italiani dicendosi preoccupata per quello che sarebbe potuto accadere. “Mentre tornavamo indietro a piedi a fine partita, gli inglesi hanno iniziato a insultarci”, ha raccontato. “Ci dicevano di tornare a casa nostra e hanno cercato di strapparmi di mano la bandiera della Danimarca. Siccome ho resistito al tentativo, hanno iniziato a tirarmi anche i capelli. Non mi sembrava vero che stesse accadendo: è stato terrificante”, le parole di Jeannette Jorgensen. A raccontare un episodio analogo anche Sigrun Matthiesen Campbell che al sito Danese DR ha parlato di come anche i suoi figli fossero terrorizzati per la situazione che si era venuta a creare i quella occasione: “I miei figli, di 14 e 11 anni, non hanno osato mostrare le loro magliette e cappellini della Danimarca perché erano terrorizzati dagli inglesi. All’ingresso allo stadio ci hanno sputato addosso e ci hanno insultati”. Nel frattempo anche la piazza di Leicester Square è diventata scenario di scontri con tanto di lancio di bottiglie e lattine. Nelle immagini diffuse sul web si osserva chiaramente come le strade siano diventate stracolme di rifiuti gettati per terra.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 13 luglio 2021. Domenica sera l'anarchia è scesa su Wembley. E io ero al centro del caos che si è sviluppato prima della partita.  L'atmosfera intorno allo stadio era stata abbastanza minacciosa, ma più mi avvicinavo all'ingresso in campo, più la situazione diventava pericolosa. Stavo per consegnare il mio biglietto quando dietro di me ho sentito una presenza. Uno tra i delinquenti radunati intorno ai tornelli ha scansato mio suocero 70enne, con me per quella che credevamo uno delle più belle serate calcistiche della nostra mano, per buttarsi dentro, senza biglietto. Mi sono girato e ci siamo scambiati parole brusche. Se ne è andato e, per fortuna, siamo stati dentro. Altri non sono stati così fortunati. Ho visto un tifoso pagante scansionare il suo biglietto e poi essere schiacciato contro il tornello di metallo da uno degli esagitati. Il fan ha coraggiosamente rifiutato di entrare insieme al suo passeggero indesiderato. Ma purtroppo, quando ha cercato di entrare di nuovo, gli è stato negato l’accesso: il suo biglietto era stato già scansionato. Disperato, si è diretto a un ingresso per disabili a spiegare l’incidente e, per sua fortuna, gli hanno creduto. Mentre ci avvicinavano allo stadio, i segnali di pericolo erano tutti lì: traffico fermo; alcol che volava ovunque, insieme a bottiglie e lattine; vetro frantumato come colonna sonora della serata. Senza anello d'acciaio, senza controlli sui biglietti, coloro che non avevano pagato per il privilegio potevano avvicinarsi così tanto allo stadio da poterlo toccare e provare ad abbatterne le porte. Il pandemonio regnava in fondo ai gradini iconici dove il primo checkpoint rischiava di essere travolto. Il distanziamento sociale è andato fuori dalla finestra mentre migliaia di persone si stringevano l'una contro l'altra, spingendosi per una posizione. Si può solo immaginare la ricaduta del Covid. L'ingresso verso cui stavamo andando era stato costretto a chiudere ma molti stavano saltando oltre il cancello d'acciaio e correndo verso i tornelli. Ho pregato uno steward di farci entrare, indicando l'età di mio suocero. Altri non sono stati così fortunati. Ci è stato chiesto di mostrare il nostro passaporto e i biglietti Covid. Amici hanno detto che non sono stati controllati. Tornati ai tornelli, gruppi di predoni stavano sfacciatamente tentando di farsi strada mentre ci avvicinavamo. Una volta finito, ho chiesto a uno steward chiaramente in preda al panico perché non c'era la polizia nella zona. Ha alzato le spalle e mi ha detto che il personale si sentiva deluso. Quelli con i giubbotti fluorescenti si sono rifiutati di uscire da dietro la sicurezza dei cancelli e affrontare la folla itinerante. Era simile a una scena di una prigione in cui i detenuti si sono ribellati e le guardie hanno perso il controllo. Gli invasori premevano il viso contro la rete incontrastati e urlavano: «Ti do 50 sterline per farmi entrare». Nel nostro settore, il 102, i tifosi avevano pagato 812 sterline per un biglietto: tifosi normali per i quali giustificare quella cifra sarebbe stata una grande sfida. Non sorprende che alcuni abbiano preso in mano la situazione. Il video condiviso online dal Gate C10 ha mostrato che quando una porta è stata forzata, alcuni hanno tirato pugni e hanno cercato di inciampare su coloro che erano entrati. Ancora una volta, non un ufficiale di polizia in vista. «Fai il tuo fottuto lavoro!» ha urlato uno spettatore a uno steward. Ci siamo diretti ai nostri posti, grati di essere lontani dalla carneficina. Ma in pochi minuti c’è stata un'ondata giù per i gradini al nostro fianco. Un gruppo sfacciato di circa 50 persone era riuscito a violare la sottile linea di difesa, aveva superato di corsa un assistente solitario e si era diretto verso varie parti dello stadio. Molti erano aggressivi. Alcuni con i biglietti avevano troppa paura per andare ai loro posti e affrontare gli intrusi. Ancora una volta, non un ufficiale di polizia in vista. Dopo il crepacuore dei calci di rigore persi, fuori c’era l’inferno. Wembley Way, una scena di devastazione.

Trasporto inesistente. Altro caos Covid a Wembley Park, dove abbiamo dovuto schivare tre poliziotti armati, con le loro armi automatiche sguainate, che inseguivano un uomo che alla fine è stato investito da un'auto. Tre ore dopo, dopo due viaggi in autobus e una richiesta di Uber, siamo tornati al nostro hotel a Richmond chiedendoci cosa ci fosse successo. Stamattina mi è stato detto che a Wembley c'erano 300 agenti di polizia, una cifra che alla fine era salita a 450. Ho chiamato un alto ufficiale della polizia calcistica di un'altra forza e ho chiesto se era abbastanza. Ha riso. «Se ci fossero state 60.000 persone, sì», ha detto. Le stime prudenti erano a nord di 100.000. L'ufficiale credeva che andasse inviata il doppio – e potenzialmente anche il triplo – rispetto ai poliziotti presenti. Adesso bisogna porsi domande serie. Perché non c'era un anello d'acciaio? Perché quelli senza biglietto hanno potuto radunarsi dalle 11 all'ombra dell'arco di Wembley? Perché al più grande evento sportivo degli ultimi anni è stato permesso di trasformarsi in un free-for-all senza legge? Perché i segnali di allarme della semifinale non sono stati ascoltati? Resta da vedere cosa questo significhi per la finale di Champions League 2024, o per la candidatura congiunta di Regno Unito e Irlanda alla Coppa del Mondo 2030. Quello che è indubbio è che questo è stato un giorno triste per il calcio inglese, reso ancora più sconvolgente dalla straziante perdita sul campo.

Testo di Geoff Andrews, *Senior Lecturer in Politics alla Open University e manager di Philosophy Football FC, pubblicato da "La Stampa" il 13 luglio 2021. Traduzione di Carla Reschia. Le bottiglie rotte, i rifiuti, gli ubriachi e le risse erano immagini già da tempo associate alla squadra inglese (e occasionalmente ricollegabili alla sbornia del venerdì sera delle città più vivaci della Gran Bretagna). Tuttavia, i fischi alla nazionale italiana, gli attacchi ai tifosi e il disprezzo per la medaglia da secondi classificati (in un campionato dove l'Inghilterra aveva giocato bene, arrivando alla sua prima finale dopo 55 anni), possono avere rappresentato uno choc per gli italiani che ammirano ancora il fair play inglese. È anche un'immagine in contrasto con quella coltivata dal manager inglese Gareth Southgate. Quest' uomo modesto e mite, a volte paragonato a un insegnante di geografia, ha instillato nella sua squadra un forte cameratismo, una maggiore consapevolezza tattica e ha combattuto il culto dell'ego che aveva afflitto la squadra in passato. La sua squadra rifletteva la diversità dell'Inghilterra multiculturale. Cosa non del tutto comune, alcuni dei suoi giovani giocatori avevano imparato a giocare nella Bundesliga e nella Liga ed erano più aperti alla cultura europea. Si sono inginocchiati e hanno tenuto testa ai razzisti (che purtroppo sono tornati nelle ultime ore a bullizzare i giocatori di colore dell'Inghilterra). Ma il compito di Southgate era davvero gravoso. Questa è un'Inghilterra al centro di un regno molto disunito. Le divisioni seguite alla Brexit continuano a definirne la politica e la cultura (compreso il calcio). Ciò ha portato un maggiore sostegno all'indipendenza della Scozia (che ha votato contro la Brexit) e del Galles (che ha votato a favore). Molti scozzesi e gallesi hanno sostenuto l'Italia sulla base del fatto che Boris Johnson (come Silvio Berlusconi in Italia) avrebbe sfruttato una vittoria per ragioni politiche. Allo stesso tempo, l'Inghilterra ha faticato a contenere l'ultima variante del Covid-19. La decisione di Boris Johnson di allentare le restrizioni alla fine di questo mese è stata controversa e condannata da alcuni medici e politici. Anche la vista dei tifosi inglesi che corrono per strada a Wembley e nello stadio deve essere interpretata in quel contesto. Una libertà senza regole né restrizioni e che non ha riguardo per la sicurezza. È stato imprudente. Per molti, l'Inghilterra di Southgate è stata un esempio di un altro Paese, di ciò che l'Inghilterra potrebbe aspirare ad essere. Molti politici, a sinistra come a destra, hanno sfruttato la situazione. Un membro conservatore del Parlamento ha rifiutato di sostenere la squadra se avesse continuato a «mettersi in ginocchio», mentre altri hanno esagerato le dichiarazioni alla stampa di Gareth Southgate per sottintendere che stesse attaccando il governo. Eppure la vera forza della lettera «Cara Inghilterra» indirizzata da Southgate alla nazione, e composta prima della partita d'inizio contro la Croazia, consisteva nell'appello al di là di ogni divario politico. Era un riconoscimento del sacrificio e dell'eroismo dei medici e degli infermieri durante la pandemia, della «fragilità della vita» e dell'orgoglio di rappresentare il suo Paese. Al di là del contesto abbracciava i valori patriottici e offriva una visione - o forse uno sguardo - di un Paese più unito. Nel merito, suggeriva un'Inghilterra diversa. Finiti i lanci lunghi e l'immutabile formazione 4-4-2, dove individui di talento erano costretti a prestazioni inadatte. C'è stata invece più enfasi sulla tattica, con Southgate che ha cambiato la squadra per adattarsi all'avversario. Kalvin Phillips e Declan Rice, i due centrocampisti difensivi (posizione a lungo trascurata dall'Inghilterra), sono diventati più importanti. Qualcuno ha anche azzardato che i giocatori inglesi «si tuffassero». Un importante giornalista sportivo ha sostenuto che vincendo facili rigori morbidi, fossero diventati «scafati» come gli italiani. La sconfitta dell'Inghilterra è stata persino attribuita alla squadra che è diventata troppo italiana, ovvero è rimasta troppo bassa e ha giocato a catenaccio. Nella sua conferenza stampa post-partita Gareth Southgate appariva esausto. Come gli italiani capiscono meglio di chiunque altro, il calcio ha la capacità di riflettere valori, divisioni, speranze e aspirazioni che vanno oltre il gioco. Questo non è mai stato così evidente come nel caso della nazionale inglese nell'era post-Brexit di una pandemia. Southgate ha fatto del suo meglio. Non è bastato, alla fine, per vincere il torneo o per unire il Paese. Il suo desiderio dichiarato (in «Cara Inghilterra») che «ogni partita, indipendentemente dall'avversario, abbia il potenziale per creare da qualche parte un ricordo indimenticabile per un tifoso inglese», nella finale non è stato realizzato. Il dopo partita ha mostrato il volto arrabbiato e amaro della vecchia Inghilterra. Il futuro del Regno Unito ha bisogno di un'Inghilterra più saggia e più forte per sopravvivere. Forse più di qualsiasi figura politica nel Regno Unito, per qualche settimana estiva, ha ispirato a molti una nuova idea di nazione. 

DA repubblica.it il 13 luglio 2021. Chiusura totale o parziale dello stadio per le prossime partite della nazionale. Dopo la multa rimediata in semifinale, la Federazione inglese rischia una punizione severa per le violenze da parte dei propri tifosi. L'Uefa ha aperto una inchiesta sugli scontri dei tifosi inglesi in occasione della finale di Euro 2020 e sul tentativo di almeno un centinaio di persone di entrare allo stadio di Wembley senza biglietto. La Federcalcio inglese è stata accusata di una serie lunghissima di incidenti da parte dei suoi tifosi prima e durante la sconfitta contro l'Italia ai calci di rigore. Le accuse riguardano i fischi dell'inno nazionale italiano, l'invasione di campo di un tifoso, il lancio di oggetti in campo e l'accensione di fuochi d'artificio. Ma soprattutto lo sfondamento delle barriere di alcuni checkpoint: esterni allo stadio o ai varchi di accesso. Prima della partita contro l'Italia, un gruppo di tifosi inglesi senza biglietto ha sfondato le barriere di sicurezza e i tornelli per entrare a vedere la finale dell'Inghilterra, la prima in un grande torneo dopo 55 anni. La partecipazione ufficiale è stata di circa 67.000 spettatori sui 90.000 posti dello stadio, una limitazione che era stata posta per garantire il distanziamento vista la pandemia di COVID-19. La FA inglese è già stata multata di 30.000 euro per gli incidenti provocati dai suoi tifosi dopo la semifinale contro la Danimarca sempre a Wembley la scorsa settimana, compresi i fischi dell'inno danese.

DA tuttosport.it il 13 luglio 2021. Che la Ferrari esultasse più della Mercedes in queste ultime stagioni è capitato ben raramente. Una delle poche volte fa riferimento a ieri sera, seppur non per merito della stessa scuderia di Maranello. Un botta e risposta divertente è andato in scena sui social, precisamente su Twitter, tra il team tedesco, ma con sede a Brackley, e la Rossa che ha ovviamente festeggiato il successo dell'Italia di Roberto Mancini a Euro 2020, con la vittoria ai rigori ai danni dell'Inghilterra. 

"Sta arrivando a Roma, anzi..." "It’s coming Rome or it’s coming home, what do you think?", recitava il tweet della Mercedes prima della finale, come a stuzzicare anche la Ferrari a dare una risposta sul pronostico. La risposta è arrivata, ma solamente a fine partita con tutta la gioia della scuderia di Maranello: “Sta arrivando a Roma. Anzi, è appena arrivata!”, la replica oltre la mezzanotte. Chi è causa del suo male pianga se stesso, è il caso di dire. A iniziare lo sfottò social era stata proprio la Mercedes, postando ieri su Twitter un video in cui attaccava lo stemma dei Leoni vicino a quello del Cavallino di uno dei camion del paddock. Gesto poco scaramantico che non ha decisamente portato bene alla squadra di Southgate. E chissà che questo risultato non possa portare fortuna a Leclerc e Sainz nel prossimo weekend di gara a Silverstone.

Da napolitoday.it il 12 luglio 2021. Maurizio De Giovanni non le manda a dire, e sui social punta il dito contro gli inglesi dopo la finale di Euro 2020 vinta ieri dall'Italia. "Principe, principessa e principino che scappano per non premiare i vincitori – spiega lo scrittore innanzitutto attaccando la famiglia reale – Giocatori che si tolgono sprezzanti le medaglie dal collo prima ancora di scendere dal palco. Centinaia di vigliacchi che aspettano i tifosi italiani all’uscita per aggredirli, col favore degli addetti alla sicurezza". Dopo il quadro, l'affondo: "È allora che avete perso, non sul campo. Sapete che c’è? Ben usciti, signori. Voi e il vostro simpatico giullare pazzo dai capelli ignobili – conclude con uno sfottò su Boris Johnson e sottolineando la Brexit – Non sentiremo la vostra mancanza". Dello stesso tenore anche il commento di un altro scrittore partenopeo, Angelo Forgione. Gli inglesi, scrive Forgione, "lo stile lo imparassero da Luis Enrique e da Guardiola. Sfilarsi immediatamente le medaglie dei finalisti, come se puzzassero, è un gesto di una volgarità enorme. E poi i tifosi inglesi, che la loro frustrazione l'hanno sfogata picchiando gli italiani ai varchi dello stadio".

Fabrizio Roncone per il "Corriere della Sera" il 13 luglio 2021. Wembley, la nostra notte. Restano alcune scene. Tutte viste da vicino. Nella prima ci sono i tifosi inglesi che, a migliaia, ubriachi, barcollanti, certi mezzi nudi e davvero osceni nei gesti, vagano dentro il quartiere addirittura cinque ore prima l'inizio della partita. Una bolgia minacciosa. Con bottiglie vuote e lattine di birra ancora piene lanciate in aria. Mischioni furibondi (parecchi - sghignazzando - si gonfiano di botte tra di loro, boh). Violentissimi tornei di stampo medievale organizzati con i carrelli di un supermercato. Alberghi assediati.

Transenne rovesciate. Bagni chimici distrutti. Tricolori incendiati e calpestati (e, di lì a poco, pure i fischi all'Inno di Mameli). Si entra allo stadio camminando muro muro, i cocci di vetro per tappeto. Dentro, i reali in ghingheri. Molto sorridenti, all'inizio. Kate, come sempre chicchissima. William con il solito sguardo buono. In mezzo, il principino George (la creatura combinata così: i capelli biondi lisci pettinati con il riporto a destra, giacca blu e cravatta regimental, vestito bello e pronto per una prima comunione, più che per andare ad assistere alla finale di un torneo). Costante, sul palco d'onore, almeno fino ai tempi supplementari, colpisce poi una certa malcelata euforia. La meravigliosa sobrietà del nostro presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, e - tutt' intorno - quel miscuglio di occhiate e smorfie ammiccanti, come se qualcosa di grandioso fosse imminente. Del resto, per giorni, tutti i principali mezzi di informazione britannici - evitando accuratamente di citare gli avversari, cioè gli Azzurri, cioè l'Italia - hanno annunciato la sicura vittoria del campionato d'Europa, la conquista della coppa, non a caso ricreata con una gigantesca struttura gonfiabile, fatta sfilare sul terreno di gioco nella pacchianissima cerimonia di apertura. Boris Johnson, che dopo aver portato il suo Paese fuori dall'Europa, vorrebbe rientrarci con un trionfo non solo calcistico, annusando un probabile bagno di popolarità, ha addirittura tappezzato Downing Street con centinaia di bandiere britanniche. Insomma, sì, è chiaro: pensano di averci cucinato. Per essere esplicito, quel gran simpaticone di Gary Lineker, ex calciatore britannico, ora commentatore Bbc , posta su Twitter un piatto di pasta all'amatriciana, confondendo i rigatoni con le penne. Già questo sembra un bel picco di banale cattivo gusto. Poi, sul prato, i calciatori inglesi riescono però a esibirsi in qualcosa di assolutamente peggiore. Avendo perso, come impone il cerimoniale, sono premiati per primi, con la medaglia dei secondi. Ma dopo pochi passi, dopo aver sfilato davanti alle autorità dell'Uefa (Aleksander Ceferin appare sinceramente dispiaciuto), ecco che se la sfilano, la medaglia, ecco quello che la mette nei calzoncini, quell'altro che se la guarda con aria sprezzante, e scuote la testa. Che elegantoni. E la sportività? E il famoso british style ? Sparito. Restano, forti, solo i filmati, ormai virali nel web, dei tifosi italiani pestati negli androni dello stadio, all'uscita. Li aspettano in branco e gli si avventato addosso, davanti all'indifferenza di steward e poliziotti. Pugni e calci, e sputi, e sangue. All'aeroporto di Heathrow, all'imbarco per il volo 0203 dell'Alitalia con destinazione Roma, un giovane ingegnere mostra il labbro spaccato, un livido sullo zigomo, graffi sul costato. Ma non si lamenta. Cosa è successo? Sorride: «Niente, due de' passaggio» (geniale citazione di Mario Brega, nel film Borotalco di Carlo Verdone).

Da liberoquotidiano.it il 17 luglio 2021. Brutta disavventura per il padre del difensore dell’Inghilterra, Harry Maguire, prima della finalissima degli Europei contro l’Italia. L’uomo, 56 anni, si è trovato coinvolto suo malgrado nei tafferugli alimentati dai tifosi inglesi all’ingresso dello stadio di Wembley e ha riportato una sospetta frattura alle costole. "L’incidente è avvenuto quando centinaia di tifosi inglesi senza biglietto hanno sfondato le barriere di sicurezza per entrare allo stadio di Wembley", rivela il Fatto quotidiano. Lo stesso giocatore ne ha parlato al Sun. "Mio papà non ha cercato cure mediche perché non è uno che fa grandi storie ed è è andato avanti nonostante stia lottando con il dolore alle costole”, ha spiegato il capitano del Manchester United, dichiarandosi contento che i suoi figli non siano andati alla partita, viste le conseguenze di quello che è successo. "Lo hanno lasciato a terra a lottare con il respiro a causa delle sue costole rotte, ma non è uno che fa grandi storie ed è andato avanti – ha spiegato Maguire -. Papà mi supporterà sempre e continuerà a seguire le mie partite, ma sarà un po’ più consapevole di ciò che accade intorno. Le cose sarebbero potute andare molto peggio, ma dobbiamo assicurarci che non accada di nuovo”, ha spiegato ancora il difensore della Nazionale, Harry Maguire che durante la finalissima persa contro l'Italia ha realizzato uno dei due rigori messi a segno dalla Nazionale dei Tre Leoni.

Chiara Bruschi per "il Messaggero" il 13 luglio 2021. Spavaldi prima del match, volti annichiliti alla fine. Può sintetizzarsi così la storia della finale vissuta dagli inglesi, che alla fine si sono anche tolti dal collo la medaglia d'argento. «Football's coming home», celebre ritornello che significa il calcio sta per tornare a casa, ha imperversato per settimane durante Euro 2020. Cantato per le strade, urlato dai finestrini delle auto addobbate con le bandiere con la croce di San Giorgio. La vittoria era nell'aria, secondo i sudditi di Sua Maestà, e la si poteva respirare ovunque. La delusione è stata quindi ancor più dolorosa quando un gioco di parole ideato dagli italiani diffuso nell'ultima settimana è diventato realtà. Nella sera della semifinale contro la Spagna e soprattutto nella finale contro la stessa Inghilterra, infatti, i tifosi del tricolore hanno ironizzato sulla frase The Football is coming home sostituendo semplicemente la H di home con la R di Rome. Un'allusione al fatto che la vittoria sarebbe andata proprio agli Azzurri. A 55 anni dall'ultima coppa tutte le circostanze sembravano favorevoli a una vittoria e gli inglesi sono stati a lungo convinti che questa fosse la volta buona: un girone particolarmente fortunato, una squadra determinata e un allenatore, Gareth Southgate desideroso di riscatto, la possibilità di giocare in casa quasi tutte le partite nel tempio del calcio, Wembley, e l'opportunità di scendere in campo per sfidare la finalista sotto la spinta di uno stadio gremito, per la maggior parte, di tifosi inglesi.

LA REGINA «Ho mandato i miei auguri con la speranza che la storia non registri solo il vostro successo ma anche lo spirito, l'impegno e l'orgoglio che ha caratterizzato la vostra impresa», aveva twittato alla vigilia del match la regina Elisabetta citando quel giorno in cui, 55 anni fa, consegnava la coppa del Mondo a Bobby Moore. E se la squadra fosse riuscita a espugnare la squadra di Roberto Mancini per l'allenatore Gareth Southgate era già pronto un titolo nobiliare di baronetto. Al quale tuttavia ora dovrà rinunciare, con amarezza, soprattutto perché la sconfitta è arrivata a causa della maledizione dei rigori. Lo stesso Southgate, infatti, aveva infranto il sogno dei tifosi inglesi alla semifinale del 26 giugno 1996 tenutasi a Wembley tra Inghilterra e Germania. Un'altra partita persa ai rigori proprio a causa di un suo tiro parato da Kopke. Boris Johnson, che ha difeso dai tentativi dell'Europa di Mario Draghi di spostare la finale altrove, aveva condiviso una foto con indosso la divisa della Nazionale e aveva lodato i calciatori così: «Questa squadra ha già fatto la storia e ha elevato lo spirito della Nazione. Stanotte potranno alzare anche la coppa. In rappresentanza dell'intera Nazione, buona fortuna. E portatela a casa». «Questo risultato con cui si è concluso Euro 2020 ci ha spezzato il cuore ha twittato il primo ministro - ma Gareth Southgate e la sua Inghilterra hanno giocato da eroi. Hanno reso la nostra Nazione orgogliosa e meritano tutta la nostra considerazione». Anche il principe William ha lodato la loro impresa: «Cuore a pezzi, ma testa alta. Siete arrivati tutti così lontano, ma purtroppo questa volta non è stata la nostra giornata. Potete tenere la testa alta ed essere orgogliosi di voi stessi. So che c'è altro in arrivo». Lo stesso principe, come Boris Johnson, ha invece condannato il vergognoso razzismo da parte dei tifosi inglesi nei confronti dei calciatori di colore della squadra che hanno fallito i calci di rigore decisivi. L'Inghilterra ora guarda al futuro, ai Mondiali del 2022 quando ripartirà il ritornello e la speranza che il calcio, ancora una volta, possa tornare a casa.

L'ultima follia inglese: "Campioni? Senza giocatori neri…". Marco Gentile il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. The Economist sgancia la bomba contro l'Italia: "L'aspetto più sorprendente della squadra azzurra è che è l'unica tra le concorrenti che non include un solo giocatore di colore". In Inghilterra, qualcuno o molti, non hanno ancora accettato di aver perso meritatamente la finale di Euro 2020 contro l'Italia di Roberto Mancini ma ora si sta arrivando al delirio. Dopo i vari tentativi di far rigiocare la finale per non si sa quale motivo con petizioni sui social, ecco l'affondo di The Economist secondo cui la nostra nazionale non sarebbe in realtà campione. L'assurda motivazione? Il fatto di non aver alcun giocatore di colore nella rosa dei 26 scelti dal commissario tecnico Mancini.

Delirio inglese. Secondo i il quotidiano, infatti, "l'aspetto più sorprendente della squadra italiana è che è l'unica tra le concorrenti che non include un solo giocatore di colore". Per questa assurda ragione, dunque, la vittoria dell'Italia non sarebbe considerata valida. The Economist continua affermando: "Circa 5 milioni di persone che parlano italiano come lingua dominante continuano a essere considerate straniere. La grande notte del calcio europeo non è stata un grande momento per il multiculturalismo". Ovviamente questo tweet ha scatenato l'ilarità sui social network con molti tifosi italiani ma anche tanti inglesi che hanno ironizzato su questo assurdo argomento anche perché all'interno della rosa dei 26 giocatori scelti da Mancini erano presenti ben tre oriundi: Emerson Palmieri, Rafael Toloi e Jorginho (tutti e tre italiani di origine brasiliana). Non solo, perché Moise Kean è stato vicinissimo alla convocazione ed essendo un classe 2000 con un futuro si spera per lui radioso davanti a sè ci saranno ancora tante chance per essere convocato. Prima di lui anche Mario Balotelli che è stato per diversi anni nel giro della nazionale. La cosa sorprendente, però, è come The Economist abbia tirato fuori un argomento del tutto privo di senso, privo di fondamento. Un commissario tecnico, infatti, è libero di convocare chi vuole per europei e mondiali e di certo non dirama delle convocazioni guardando il colore della pelle del giocatore stesso. Questa ennesima caduta di stile dimostra come Oltremanica qualcuno non abbia ancora digerito la sconfitta meritata e invece di meditare sugli errori commessi da Southgate e i suoi ragazzi si punta il dito sugli azzurri che stanno invece ancora festeggiando a distanza di 5 giorni dalla conquista di Euro 2020.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambi..

“Italia del calcio è razzista”. Dopo l’Economist, il New York Times. Una storia ridicola. Leopoldo Gasbarro il 17 Luglio 2021 su Nicolaporro.it e su Il Giornale. Ieri The Economist, oggi è The New York Times a dipingere l’Italia come un covo di serpi razziste. E come The Economist anche The New York Times guarda al mondo del calcio come la fucina di questo presunto movimento. L’Italia, insomma, secondo il mondo anglosassone, che usa scuse impossibili da accettare, sarebbe la depositaria sportiva di un coacervo di pessimi comportamenti anti razziali. Insomma, se una rondine non fa primavera, due testate anglosassoni invece possono trasformare una nazionale, come quella italiana, appena vincitrice dell’Europeo in un viatico per sottolineare quanto l’Italia sia, a loro modo di vedere, assurdo se mi consentite, un Paese razzista. Nell’articolo a firma di Alan Burdik è riportato lo studio di tre docenti che asserirebbero (docenti economisti non hanno niente di meglio e di più importante da studiare, soprattutto in questo periodo?) che i giocatori di colore che partecipano al campionato italiano di serie A sarebbero riusciti a giocar meglio durante la stagione appena conclusasi, perché con gli stadi vuoti causa Covid, non avrebbero subito le solite pressioni negative e razziali provenienti dagli spalti dei nostri stadi. In Italia e non solo – scrive Burdik nel suo articolo- anche i giocatori di colore di livello mondiale sono stati sottoposti a cori ed epiteti razzisti. Burdik parla persino di lanci in campo di banane. Poi racconta la storia, intervistandolo, del professor Paolo Falco, economista del lavoro presso l’Università di Copenhagen. “A dicembre – racconta il New York Times, lui e due colleghi, Mauro Caselli e Gianpiero Mattera, economisti rispettivamente dell’Università di Trento, in Italia, e dell’OCSE a Parigi, hanno pubblicato uno dei primi studi che cercano di misurare l’impatto dei cori dei tifosi sul gioco e sui calciatori. Io invece mi chiedo: ma nessuno controlla mai dove finiscano i soldi dei contribuenti? Pensate, in piena Pandemia, con il Mondo sottosopra, tre economisti che avrebbero potuto dedicare le loro energie a studi utili al Mondo a cui appartengono, quello economico, appunto, hanno misurato, invece, cosa??? Hanno misurato le prestazioni di circa 500 giocatori di Serie A nella prima metà della stagione 2019-2020 , prima della pandemia di Covid-19, quando gli stadi erano pieni e rumorosi con quelle delle partite della seconda fase del campionato, quando, proprio a causa della pandemia, le partite sono state giocate negli stadi vuoti. I loro risultati evidenzierebbero che: un sottogruppo di giocatori, e uno solo, ha giocato notevolmente meglio in assenza di folla. “Troviamo che i giocatori africani, che sono più comunemente presi di mira dalle molestie razziali, sperimentano un significativo miglioramento delle prestazioni quando i tifosi non sono più allo stadio”, hanno scritto gli autori. L’articolo racconta come Falco ha avuto l’idea di studiare il fenomeno: “Stavo guardando una partita di calcio dopo l’inizio del Lockdown – racconta Paolo Falco al The NewYork Times – e sono rimasto colpito da quanto fosse diversa l’esperienza che stavo vivendo, anche in TV, semplicemente non sentendo tutti i rumori e tutti i canti che di solito fanno da sottofondo a una partita di calcio. Così ho iniziato a chiedermi: gli effetti del “silenzio da stadio” sono uguali per tutti i giocatori? Così abbiamo scoperto che, in effetti, i giocatori sono colpiti in modo diverso. Quelli che sono più soggetti ad abusi  sembrano sperimentare un miglioramento delle loro prestazioni rispetto al momento in cui non hanno più questa pressione su di loro. Abbiamo scoperto che i giocatori africani hanno ottenuto prestazioni migliori del 3% nella seconda parte della stagione rispetto alla prima, insomma, nella seconda parte della stagione sono stati più produttivi”. Mi chiedo. Ma vi sembra normale che è un giornale così autorevole come il The New York Times pubblichi uno studio che sembra davvero privo di ogni fondamento logico e che grazie a questo studio parli dell’Italia come di un paese razzista? Perché lo studio non ha valutato le prestazioni dei giocatori meno coraggiosi, quelli che ogni volta che giocano in trasferta subiscono l’effetto stadio delle tifoserie avversarie sparendo dal campo? E di quelli che hanno paura del cosiddetto “rumore degli stadi” a prescindere dalla loro appartenenza etnica e del colore della loro pelle? Forse l’unica cosa sensata, scritta nell’articolo è questa: il documento di lavoro dei tre docenti è in attesa di pubblicazione su una rivista Peer-Reviewed. La Peer Review è una valutazione di un lavoro presentato per la pubblicazione, effettuata da parte di esperti del settore di cui tratta la pubblicazione stessa. Il Peer Review è un importante strumento per garantire la qualità delle pubblicazioni scientifiche e viene effettuata da tutte le riviste scientifiche di alto livello.  Insomma non sarebbe stato meglio attendere una valutazione più professionale dello studio? Per il New York time non sarebbe stato meglio aspettare che qualcuno di autorevole desse valore a questo studio? L’unico appunto vero è che forse dall’altra parte dell’Oceano, o dall’altra parte della Manica, ancora non hanno ingoiato la pillola: l’Italia è campione d’Europa, e da fastidio ed allora sembra che si voglia a tutti i costi trovare il modo di “SPORCARNE IL SUCCESSO”.

L’Italia ha dato dimostrazione di stile, di coraggio, di capacità uniche, di ecletticità ed autorevolezza. Sarà un caso che negli ultimi importanti mondiali giocati all’estero, l’Italia che fosse di Bearzot o di Mancini abbia vinto in Argentina con l’Argentina, in Germania con la Germania in Inghilterra con  l’Inghilterra? Un dato è certo: saremo piccoli, rappresenteremo il 2,5% della superficie terrestre, ma siamo unici, unici al mondo in tanti campi, anche nello sport, soprattutto nel calcio. “Tutto il resto è noia” come canterebbe Franco Califano. 

Dagotraduzione da Bloomberg il 16 luglio 2021. L’ondata di razzismo che si è diffusa online contro i calciatori inglesi di colore ha fatto emergere le carenze dei social media sull’uso degli emoji. Dopo la finale dell’Europeo tra Italia e Inghilterra, i tre giocatori che hanno sbagliato i calci di rigore, Marcus Rashford, Jadon Sancho e Bukayo Saka, sono stati sommersi di messaggi su Twitter, Facebook e Instagram con emoji di scimmie e banane. Ieri su Twitter Saka ha ringraziato i fan per il supporto, ma ha anche accusato le aziende tecnologiche di non essere state in grado di fermare gli abusi. «Per le piattaforme di social media Instagram, Twitter e Facebook, non voglio che nessun bambino o adulto debba ricevere i messaggi odiosi e offensivi che io, Marcus e Jadon abbiamo ricevuto questa settimana», ha detto. «Ho capito immediatamente il tipo di odio che stavo per ricevere e la triste realtà è che le vostre potenti piattaforme non stanno facendo abbastanza per fermare questi messaggi». L'abuso digitale non è un fenomeno nuovo. L'Associazione dei calciatori professionisti e la società di scienza dei dati Signify hanno analizzato i tweet inviati nel 2020 ad alcuni giocatori e hanno scoperto che quelli esplicitamente offensivi erano più di 3.000, e tra questi il 29% erano post razzisti con emoji. «Gli algoritmi di Twitter non intercettano efficacemente i post razzisti che vengono inviati utilizzando gli emoji», ha rilevato lo studio. «Si tratta di una svista lampante». Ma nonostante il problema sia di vecchia data, l'abuso tramite emoji è proseguito. Lunedì è stata pubblicata un’analisi più recente, che ha bollato come potenzialmente offensivi 2.000 tweet pubblicati durante gli Europei. Anche se i post sono stati cancellati, Twitter non ha sospeso in modo permanente gli account. Facebook Inc., Twitter e Google, proprietaria di YouTube, hanno impiegato anni a sviluppare algoritmi per rilevare i discorsi offensivi in modo da rimuoverli prontamente. Ma gli esperti sostengono sul linguaggio delle emoji è stato fatto uno sforzo minore, lasciando aperta una porta. Per i social «puoi inviare un'emoji scimmia a qualcuno, ma se lo chiami scimmia vieni bandito. È la contraddizione», ha detto Vyvyan Evans, un esperto di linguistica che ha scritto un libro sull'argomento. «Finora gli sforzi, insufficienti, si sono concentrati sugli emoji di polizia». I portavoce di Twitter e Facebook hanno affermato che le società hanno rimosso i post e disabilitato gli account della finale di domenica. Twitter ha affermato che la rete è stata proattiva e ha rimosso più di 1.000 tweet e sospeso account in modo permanente nelle ore successive alla partita. «Usare emoji, come quelli di scimmie o banane, per abusare razzialmente di qualcuno è completamente contro le nostre regole», ha affermato un portavoce della società di Facebook. «Utilizziamo la tecnologia per aiutarci a rivedere e rimuovere i contenuti dannosi, ma sappiamo che questi sistemi non sono perfetti e lavoriamo costantemente per migliorare». I leader del Regno Unito hanno condannato i discorsi di odio. Boris Johnson ha avvisato i dirigenti delle società: devono reprimere questi abusi.

Inghilterra-Italia non è finita: arriva la decisione della Uefa. Antonio Prisco il 3 Agosto 2021 su Il Giornale. La Federcalcio inglese ancora sotto accusa. La Uefa ha aperto un procedimento disciplinare dopo le indagini su quanto accaduto nella notte di Wembley. La Uefa ha aperto un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese per "mancanza di ordine e disciplina da parte dei suoi tifosi". Lo comunica lo stesso organismo europeo attraverso un comunicato ufficiale. Gli strascichi dopo la finale degli Europei 2020, Inghilterra-Italia non sono ancora terminati. D'altronde sono stati troppi gli episodi spiacevoli, che hanno avuto come protagonista la parte peggiore del tifo inglese. Proprio per questo appena dopo l'ultimo atto di Wembley, la Uefa aveva subito aperto ufficialmente un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese (FA - Football association) per fare chiarezza circa quanto avvenuto, prima e dopo la finale dell'Europeo. L'indagine era stata successiva a quella, costata già 30mila euro alla FA per il comportamento scorretto durante la semifinale che la Nazionale dei Tre Leoni aveva vinto contro la Danimarca. In quell'occasione, la Uefa ha sanzionato il laser puntato su Kasper Schmeichel al momento del rigore di Harry Kane che decise la sfida. In quest'ultimo caso i capi d'accusa però sono molti di più. Entrando nel dettaglio, l'Organo di Controllo, Etica e Disciplina della Uefa (Cedb) ha voluto chiarire i fatti che hanno portato agli incidenti causati dal supporter inglesi: tra l'irruzione senza biglietto allo stadio, ai comportamenti poco corretti durante il match con l'Italia. Nel comunicato, la Uefa aveva sottolineato infatti come tra i capi di accusa rientrino anche l'invasione di campo, il lancio di oggetti contro i sostenitori italiani, i fischi durante l'esecuzione dell'inno nazionale e l'utilizzo improprio di fuochi d'artificio. Dopo la necessaria fase istruttoria, sugli eventi che videro coinvolti i tifosi all'interno e nei pressi dello stadio durante la finale di Euro2020, la Uefa ha aperto un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese per una potenziale violazione dell’Articolo 16(2)(h) del Regolamento. Nello specifico il procedimento disciplinare contro la FA riguarda una potenziale violazione dell'articolo 16 delle regole disciplinari della Uefa in merito alla sicurezza in occasione delle partite per "mancanza di ordine e disciplina da parte dei suoi tifosi". Insomma la finale di Euro 2020 tra Italia e Inghilterra, vinta dagli Azzurri di Mancini ai calci di rigore è ancora lontana dall'essere terminata.

Il comunicato. "A seguito di un’indagine condotta da un Ispettore di Etica e Disciplina Uefa sugli eventi che hanno coinvolto i tifosi avvenuti all'interno e intorno allo stadio durante la finale di UEFA EURO 2020 tra le Nazionali di Italia e Inghilterra, giocata l’11 luglio allo stadio di Wembley, Londra, è stato aperto un procedimento disciplinare contro la Federcalcio inglese per una potenziale violazione dell’Articolo 16(2)(h) del Regolamento Disciplinare Uefa per mancanza di ordine o disciplina da parte dei suoi tifosi. Ulteriori informazioni in merito saranno rese disponibili a tempo debito".

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Agli inglesi brucia ancora: ora boicottano i ristoranti italiani. Francesca Galici il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Agli inglesi non va giù la vittoria italiana a Wembley e così a farne le spese sono i ristoranti dei nostri connazionali in Inghilterra. Gli inglesi che boicottano i ristoranti italiani dopo la sconfitta a Wembley sono quasi peggio dei francesi che non hanno accettato quella dei Maneskin all'Eurofestival. Nel regno di Elisabetta II non sembra che la sconfitta al Campionato europeo di calcio possa essere accettata, per lo meno non a breve. Gli inglesi erano troppo sicuri di vincere, di riportare la coppa a Londra. Il coro "It's coming home", diventato un tormentone tra i sudditi della Regina è il principale sfottò degli italiani che, in faccia ai 70mila inglesi di Wembley e al mondo intero, hanno urlato che no, la coppa non sarebbe rimasta a Londra ma sarebbe andata a Roma. La sconfitta di Wembley brucia troppo agli inglesi, per la seconda volta fermati a un passo dall'alzare la coppa, come quando fu la Germania nel 1996 a prendersi la coppa per portarla a Berlino. Sempre ai rigori e sempre a Wembley. Gli inglesi hanno dimostrato di non essere superstiziosi, è vero, ma il risultato è stato quello che sappiamo. Quindi, non sarebbe il caso di cambiare stadio se mai in un prossimo futuro l'Inghilterra dovesse avere l'occasione di giocare una finale in casa? Al di là di questo, la vittoria degli Azzurri ha causato un terremoto economico per i nostri connazionali in Inghilterra, perché dall'11 luglio i ristoranti italiani sono pressoché deserti. E non sono pochi, soprattutto a Londra. Stando alle ultime stime di TheFork Uk, pare che il trionfo di Wembley abbia causato un calo del 55% nelle prenotazioni. Un contraccolpo non da poco per un'economia che stava cercando di ripartire dopo i lockdown e che stava riscuotendo i favori degli inglesi ancor più che in passato. La cucina italiana tradizionale a Londra ultimamente era stata trasformata in cucina regionale: ristoranti siciliani, calabresi, laziali e campani, solo per citare alcuni dei più diffusi, stanno pian piano sostituendo quelli generici di matrice tricolore, con riscontri molto positivi. Al boicottaggio dei ristoranti italiani in Inghilterra, ma non nel resto del Regno Unito, si accompagna una riduzione delle prenotazioni degli inglesi per i viaggi in Italia, soprattutto a Roma. Il coro "It's coming Rome" non dev'essere piaciuto ai sudditi di Elisabetta II. È un peccato, perché Leonardo Bonucci a fine partita a Wembley aveva dato un buon suggerimento agli inglesi nel caso in cui volessero riprovarci, un giorno, a portare la coppa a Londra. "Ne dovete mangiare ancora di pastasciutta", ha urlato il campione azzurro. Ma forse preferiscono mangiare fish and chips e ammirare la coppa a casa nostra. D'altronde, Roma è stupenda.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio. 

Da ilgiorno.it il 15 luglio 2021. “Ne dovete mangiare ancora di pastasciutta”. Le parole di Leo Bonucci rivolte ai tifosi inglesi al termine della finalissima di Wembely riecheggiano ancora più forti dopo un’analisi di mercato della Coldiretti: sulla base di dati Istat, gli acquisti di pasta dei cittadini britannici sono crollati del 25% nel 2021, con quantitativi che non sono mai stati così bassi negli ultimi cinque anni. Una carenza alimentare che forse, secondo la Coldiretti, ha pesato sulle performance sportive della squadra inglese che non ha potuto contare sulle qualità nutrizionali della dieta mediterranea. In questo senso non è un caso che l’Italia campione d’Europa sia il paese con il maggior consumo di pasta, 23 kg a persona, ma in buona posizione si attesta anche l’Argentina, campione della Coppa America, con 8,7 kg. La pasta, però, non è l’unico prodotto made in Italy che, dopo la Brexit e le relative limitazioni imposte, ha registrato un forte rallentamento. Il calo è quantificabile intorno al 10,5% e in controtendenza rispetto alle esportazioni verso il resto del mondo che hanno segnato un +19,8% nel primo quadrimestre del 2021. A pesare sull’export alimentare nazionale in Uk sono infatti le difficoltà burocratiche ed amministrative legate all’uscita degli inglesi dell’Unione Europea, in particolare le procedure doganali e l’aumento dei costi di trasporto dovuti a ritardi e maggiori controlli. In crisi anche altre eccellenze italiane come vino (Prosecco su tutti), derivati del pomodoro, formaggi (Grana Padano e Parmigiano Reggiano in particolare), salumi e olio d’oliva che mettono a rischio i 3,4 miliardi di esportazione annua oltremanica. Ma “l’effetto Wembley” non si limita al settore agroalimentare. Infatti nei due giorni successivi alla finale persa dall’Inghilterra, c’è stato un boom di disdette ricevute dagli alberghi di Roma (intorno al 40% del totale dei turisti Uk). Gli inglesi che avevano prenotato un soggiorno nella capitale, hanno preferito rinunciare alla vacanza, un po’ per l’obbligo di quarantena di cinque giorni imposto dal ministro Speranza per provare ad arginare la variante Delta, un po’ per paura degli sfottò. Tutto questo, a conferma della scarsa sportività dei connazionali della Regina, dimostrata dai fischi all'inno di Mameli e dalle medaglie tolte subito dal collo. Da it’s coming home a they aren’t coming to Rome, a quanto pare, il passo è molto breve.

Salvatore Riggio per corriere.it il 16 luglio 2021. Non si sono ancora rassegnati e non si rassegneranno mai. La sconfitta, per loro inattesa, contro l’Italia a Wembley, nella patria del calcio, non è andata giù agli inglesi, che ancora rosicano per quell’ennesima maledizione ai rigori. Come quella di 25 anni fa negli Europei organizzati in casa nel 1996, finiti con il k.o. dagli 11 metri contro la Germania. E sempre a Wembley. Il Corriere ha creato uno speciale sugli Europei 2021 con partite, squadre, protagonisti e risultati in tempo reale. Passano gli anni, ma certe cose restano sempre. E allora ora gli inglesi iniziano a prendersela con la cucina italica. Dati alla mano, dopo la finale di domenica 11 luglio, le prenotazioni nei ristoranti italiani presenti nel Regno Unito sono crollate del 55%. La notizia la riporta «TheFork UK», leader nella prenotazione di ristoranti. Niente pastasciutta (ignorando l’invito di Bonucci a fine match), pizza, focaccia e tante altre nostre prelibatezze. Al momento, i sudditi di Sua Maestà preferiscono il famoso «fish and chips». Certo, conoscendo la nostra cucina, difficilmente Oltremanica continueranno questo tipo di protesta. Più facile, e qui davvero non si arrendono, continuare la petizione per rigiocare la finalissima. È stata lanciata all’indomani del trionfo dell’Italia a Wembley e ora vola verso le 150mila firme e non accenna a fermarsi: «Il match non è stato corretto – hanno spiegato i promotori dell’iniziativa, sottolineando soprattutto l’episodio della mancata espulsione di Chiellini per il fallo su Saka al 95’ .– La rivincita dovrebbe avere luogo con un arbitro non di parte». Insomma, da quelle parti il coraggio per una richiesta simile non manca proprio: «Stiamo lavorando per inviare il maggior numero di email ad agenzie e persone che saranno in grado di aiutarci. Continuate a condividere e commentare, a firmare, a fare tutto il possibile. Facciamo del nostro meglio per dare al nostro paese una giusta possibilità». Con un’iniziativa in più rispetto a qualche giorno fa. Quello di una raccolta fondi con l’obiettivo di «comprare una coppa personalizzata da inviare alla squadra». Insomma, l’idea è quella di regalare una copia del trofeo alla Nazionale del c.t. Gareth Southgate. Ma in questo caso, forse, sarà meglio allenarsi dagli 11 metri, viste le tante sconfitte dal dischetto. Come suggerisce, tra l’altro, qualche tifoso dei Tre Leoni, riconoscendo la forza degli azzurri di Roberto Mancini.

Elena Stancanelli per "la Stampa" il 13 luglio 2021. Partiamo dall'alto. Subito sotto Dio per la precisione: la famiglia reale inglese. Il loro compito politico è dare l'esempio, indicare comportamenti corretti, essere guardati. Sono il simbolico per eccellenza, e di simboli si è parlato molto in questi europei di calcio. Inginocchiarsi o rimanere in piedi prima della partita ha creato intorcinamenti ideologici nei poveri calciatori e nella Federazione calcio. Dilemma morale che è stato risolto adeguandosi a quello che facevano gli avversari. È un criterio come un altro, inutile giudicare. E comunque il simbolico chiede il simbolo, non le sue motivazioni. Per questa ragione la famiglia reale ha commesso il primo degli errori di fair play lasciandosi sorprendere, alla fine della partita, nell'atteggiamento dolente di chi sembrava stesse presenziando a un funerale. William, Kate e il principino George stretti in un abbraccio, i volti scuri, affranti. Per quel paio di persone al mondo che non sapessero dove si trovavano, sembravano testimoniare lo strazio davanti a una morte. E invece erano allo stadio di Wembley, a guardare una partita di calcio. Importante, importantissima, ma sempre una partita di calcio. La regina non avrebbe mai fatto un errore simile. Né avrebbe permesso che il piccolo George fosse fotografato mentre ride come un pazzo dopo il primo goal dell'Inghilterra. È solo un bambino, si è detto. No, è l'erede al trono e a lui è concesso tutto tranne la naturalezza. O meglio: la sua naturalezza non può essere concessa alle telecamere, ed Elisabetta lo sa bene. Spiace per lui, ma, come tutti noi, vive nel reame del simbolico. Facesse quello che vuole quando è lontano dalla nostra vista, ma allo stadio deve comportarsi come ci si aspetta che si comportino le persone sportive. I suoi avi erano più fortunati, non c'era internet, non c'erano i social, non c'erano neanche i telefonini. Ci si poteva nascondere ed essere bambini anche in casa Windsor. Così come si poteva essere calciatori e non avere nessuna idea di un movimento nato nella comunità afroamericana, contro la violenza della polizia americana, dopo la morte di un cittadino americano, George Floyd. Quel tempo è finito, ma il problema del simbolico è che mentre ti arrovelli se sia il caso di inginocchiarti o no, ti dimentichi di quello che stai facendo, cioè che sei un calciatore e devi almeno seguire le regole elementari del tuo stare in campo. Calciare un pallone e comportarti con sportività, perché quello che stai facendo è praticare uno sport, non combattere una guerra che lascia sul campo morti e feriti davanti ai quali la famiglia reale deve mostrare cordoglio. Dunque subito sotto la Corona, nella scala dell'esemplarità, c'erano ieri sera allo stadio di Wembley, i calciatori. I quali durante la partita si sono comportati nella media del calcio: qualche tuffo, qualche fallo, qualche recriminazione. Né più né meno della squadra italiana. Poi, durante la premiazione hanno sbracato. Qualche volta si vince e qualche volta si perde e quando si perde bisogna farlo con classe. Soprattutto perché quei giocatori che uno dopo l'altro si sfilavano dal collo la medaglia del secondo classificato - cupi, offesi di essere stati sconfitti sul proprio campo - in quel momento rappresentavano la loro nazione, e non un club o l'altro. Nazione che infatti, in parte, ha reagito secondo le indicazioni ricevute. Abbiamo perso la guerra, non è giusto, non potremmo mai accettarlo e dunque spacchiamo tutto. Queste sono le indicazioni simboliche che i tifosi hanno visto. I quali - questo non è uno sport per signorine, direbbe Nanni Moretti - erano reduci dall'aver fischiato l'inno nazionale italiano, l'uscita dal campo di Chiesa azzoppato in uno scontro, e soprattutto i poveri Marcus Rashford, Bukayo Saka e Jadon Sancho che non hanno segnato i loro rigori. Tre calciatori neri, sfortunatamente. Per cui l'aggressione si è trasformata in un linciaggio razziale. È orribile, ma prima di tutto ridicolo. Così i reali inglesi e i calciatori si sono dovuti schierare, tentando di arginare questa pazzesca e insensata ondata di razzismo. Hanno rilasciato dichiarazioni, chiesto razionalità, calma, ribadendo che si tratta soltanto di una partita di calcio. Forse è un po' tardi. Per essere chiari: se vuoi dare l'idea che si tratta soltanto di un gioco, devi fare quello che ha fatto l'allenatore della Spagna, Luis Enrique. Ridere, abbracciare gli avversari, alleggerire la tensione. Non il giorno dopo, ma subito, appena finita la partita. La partita, non la guerra.

Euro 2020, "William voleva ma Kate Middleton ha detto no". George prima di Inghilterra-Italia, il dramma in questa foto. Libero Quotidiano il 13 luglio 2021. Prima di Inghilterra-Italia ci è scappato quasi il litigio in famiglia (reale). Tutta colpa del principino George: l'erede al trono britannico ha chiesto a mamma e papà, i Duchi di Cambridge, di poter indossare l'amata maglietta bianca della Nazionale dei Tre leoni. Stando alle indiscrezioni trapelate sui tabloid inglesi, papà William avrebbe acconsentito. D'altronde, l'animo da tifoso (il figlio di Carlo e Diana è fan sfegatato dell'Aston Villa, una passione che ha tramandato al rampollo) a volte prevale anche sull'etichetta. Mamma Kate Middleton però avrebbe protestato con forza, e avrebbe vinto. Così George, emozionato ma un po' troppo "imbalsamato" nel su completino in giacca e cravatta, ha assistito dal palco reale di Wembley alla tanto attesa finalissima di Euro 2020 contro gli azzurri, senza poter sfoggiare la maglietta di Harry Kane e compagni. La serata, iniziata alla grande con il bel gol di Shaw dopo appena 3 minuti, si è trasformata in incubo prima con il pareggio di Bonucci nella ripresa e poi nell'agonia dei calci di rigore, con le parate decisive di Gigio Donnarumma. Papà William, come i sudditi inglesi, ormai ci sono abituati: da Euro 1996 in avanti, dal dischetto è sempre sciagura per la Nazionale della Regina Elisabetta. Per George, invece, la prima delusione che, immaginiamo, non dimenticherà mai. Commentando la finale di Wimbledon tra Novak Djokovic e Matteo Berrettini per la Bbc, è stata l’ex campionessa di tennis Marion Bartoli a rivelare il dettaglio su George: "Ieri pomeriggio ho preso un tè con la duchessa e mi ha detto che George stasera a Wembley vuole indossare la maglietta della nazionale. In famiglia c’è stata molta discussione, William è d’accordo, Kate non è così entusiasta, quindi vedremo". Dietro il "no" secco di Kate, al di là dell'eleganza formale che si impone a un principino erede al trono, anche una questione di molto più seria attualità: mentre l'Inghilterra sognava il trionfo, il resto del Regno Unito (si fa per dire), dalla Scozia all'Irlanda, gufava selvaggiamente. George schierato apertamente per l'Inghilterra, a discapito degli altri territori che un giorno governerà. avrebbe potuto rappresentare un precedente imbarazzante. Ancora più di un rigore sbagliato.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 12 luglio 2021. Dopo la gioia iniziale, la disperazione. L’umore dell’Inghilterra si è rispecchiato in quello del principe George ieri sera a Wembley. Il piccolo reale, 7 anni, ha assistito alla finale tra Inghilterra e Italia seduto tra i suoi genitori, il principe William e Kate. La serata non poteva cominciare meglio per il piccolo principe, autorizzato a partecipare alla finale. Così, vestito in giacca, camicia e cravatta a righe, ha raggiunto i genitori a Wembley. L’ex campionessa di tennis Marion Bartoli ha rivelato che in realtà George avrebbe desiderato indossare la maglia dell’Inghilterra, e William era d’accordo, ma Kate «non ne era entusiasta». La gioia è esplosa dopo il gol di Shaw: George ha gridato e alzato le braccia al cielo, poi ha abbracciato la madre. Ma a fine gara il piccolo aveva ormai l’aria triste, sua madre si copriva il volto con le mani per non guardare i rigori, e il padre, il principe William, posava se le sue mani sulle sue spalle in segno di conforto.

"George è in pericolo": la paura di William e Kate. Francesca Rossi il 19 Luglio 2021 su Il Giornale. Dopo la finale Inghilterra-Italia il principe George è stato preso di mira dagli hater e ora i suoi genitori vorrebbero tenerlo lontano dai riflettori, evitando persino di pubblicare un nuovo ritratto ufficiale del bimbo per il suo compleanno. Le polemiche che hanno accompagnato la finale degli Europei di calcio 2020 non accennano a placarsi, anzi, si arricchiscono di un nuovo capitolo che ha per protagonista il principe George. Il bambino, che compirà 8 anni il prossimo 22 luglio, è diventato il bersaglio degli hater sui social durante l’ultima partita che ha visto trionfare l’Italia. William e Kate, impauriti e furibondi per i commenti aggressivi rivolti al loro primogenito, avrebbero preso delle decisioni drastiche, una delle quali inedita, perché rompe una tradizione consolidata.

I troll contro il principe George. Il principe George è stato vittima di frasi poco lusinghiere per aver indossato giacca e cravatta, proprio come suo padre, ma anche per le sue espressioni di trionfo al gol dell’Inghilterra e di sconforto e delusione a partita finita. Non sono stati risparmiati neppure William e Kate, il primo accusato di aver voluto creare una sorta di “mini me”, cioè di copia in miniatura di se stesso. La seconda, invece, presa di mira per non aver consentito al primogenito di indossare la maglia della Nazionale inglese. Tra i censori del web, poi, ci sono stati perfino gli estremisti della sveglia, che hanno rimproverato i Cambridge per aver consentito al principe George di rimanere in piedi fino a tarda notte. Per esempio su Twitter Rebecca English, editor del Daily Mail, ha condiviso alcuni scatti del bimbo deluso dopo la fine del match e nella didascalia ha scritto: “Il principe George riassume l’umore della nazione”. Purtroppo questo post è stato intercettato da alcuni troll che si sono lasciati andare a insulti contro il futuro re. Uno ha commentato: “Spero che il piccolo idiota si asciughi le lacrime con la sua cravatta”. Un altro ha virato verso la politica: “[George] non riassume il sentimento della Scozia. Questi reali dovrebbero convincere la Scozia a restare nell’Unione? Assolutamente no”.

La rabbia e la paura di William e Kate. I duchi di Cambridge non sarebbero rimasti a guardare in silenzio. Anzi, sarebbero talmente infuriati e spaventati dalla mole di commenti negativi contro il piccolo principe, da aver deciso di ridurne al minimo indispensabile l’esposizione mediatica in due modi. Per prima cosa la coppia avrebbe già stabilito di trasferirsi per l’estate ad Anmer Hall, nel Norfolk e subito dopo a Balmoral, in Scozia. In questo modo, forse, le acque si calmeranno. Il secondo provvedimento, invece, lo ha rivelato l’esperta Angela Levin al Daily Mail: “Mi è arrivata voce che quest’anno i Cambridge potrebbero non pubblicare un nuovo ritratto di George in occasione del suo ottavo compleanno. Perché sono molto infastiditi dalla maleducazione della gente che si burla di un bambino di soli 7 anni”. Bisogna sottolineare, comunque, che si tratta di un’indiscrezione. Per ora non c’è niente di confermato. Non ci resta che attendere il prossimo 22 luglio per saperne di più. Non è escluso che nei pochi giorni che mancano al compleanno del bambino William e Kate ci ripensino. La scelta di non diffondere nuove foto ufficiali del principe George in un’occasione del genere sarebbe un fatto del tutto inusuale per i duchi, che hanno sempre rispettato la tradizione di postare sui social le fotografie dei loro figli per i loro compleanni. Purtroppo i social network hanno un lato oscuro fin troppo sviluppato e i Cambridge, per il loro ruolo istituzionale tanto in vista, sanno che è meglio non sottovalutare nulla.

L'Inghilterra crolla: Kate, William e George reagiscono così. L’esperto Robert Jobson è stato molto chiaro per quel che riguarda la sicurezza di baby George e all’Expressha dichiarato: “George ha avuto una grande attenzione da parte dei social media. Alcuni sono stati critici per il fatto che [George] abbia indossato una camicia e una cravatta come il padre. Ho pensato che ciò sia stato molto sgradevole. [George] è molto popolare, ma penso che [William e Kate] proveranno a tenerlo lontano dai riflettori per un po’. Sono consapevoli di tutto questo…”. Già al compimento dei suoi 3 anni il principino venne preso di mira sui social per uno scatto in cui dava da mangiare del gelato a Lupo, il cane dei genitori. In quel caso la polemica su quanto i dolci fossero nocivi per gli animali travolse i Cambridge, costringendoli a tenere il primogenito lontano dagli obiettivi fotografici per un po’. William e Kate saranno sempre al centro dell’attenzione, esaminati e scrutati a ogni uscita pubblica o privata. Così sarà per i loro figli a cui di certo, però, i duchi cercheranno di insegnare a non far dipendere la loro vita dai “tribunali del web”.

Francesca Rossi. Sono nata a Roma, ma vivo a Latina. Sono laureata e specializzata in Lingue e Civiltà Orientali a La Sapienza di Roma (curriculum di lingua e letteratura araba). Ho vissuto in Egitto per approfondire lo studio della lingua araba. Per la casa editrice Genesis Publishing ho pubblicato due romanzi, "Livia e Laura", sull'assassinio della Baronessa di Carini e "Toussaint. Inganno a Mosca", la storia di una principessa araba detective. Ho un blog che affronta temi politici e culturali del mondo arabo su HuffingtonPost. Sono appassionata di archeologia, astronomia e dinastie reali nel mondo.

Nessun saluto, poi la fuga: cosa è successo tra William e Mattarella. Francesca Rossi il 16 Luglio 2021 su Il Giornale. Il mancato saluto al presidente Mattarella, la fuga dallo stadio per non assistere alla premiazione della squadra italiana, questa volta il principe William avrebbe infranto tutte le regole del protocollo. La partita tra Inghilterra e Italia ha tirato fuori il peggio degli inglesi. L’aplomb britannico è morto lo scorso 11 luglio, portandosi dietro il senso di civiltà. Vale la pena fermarsi un momento a riflettere sul rigurgito razzista e antitaliano dimostrato da alcuni inglesi, sul presunto, mancato saluto di William al presidente Mattarella, sull’incredibile fuga dei Cambridge dallo stadio, pur di non subire “l’onta della premiazione allo straniero”, su quelle medaglie messe e tolte in un gesto di stizza dai calciatori inglesi, sulla “caccia all’italiano” scatenatasi durante il match. Cosa è successo all’Inghilterra? All’improvviso era irriconoscibile e selvaggia. In fondo non si trattava di vincere o perdere una guerra, ma gli inglesi sembrano aver ricevuto un colpo al loro onore.

William e l'Inghilterra credevano di avere la vittoria in mano. L’Inghilterra era certa di vincere gli Europei di calcio. Così convinta da dimenticare non solo la sportività, ma addirittura le regole di comportamento civile. Purtroppo neanche i duchi di Cambridge avrebbero dato il buon esempio. Pare che William, Kate e George abbiano abbandonato lo stadio prima della premiazione dell’Italia, gesto deprecabile. Sì, William si è poi scagliato (con ritardo) contro gli insulti razzisti destinati ai giocatori inglesi che hanno fallito i rigori, ma si è “dimenticato” che anche gli italiani in Inghilterra, la notte dell’11 luglio 2021, hanno ricevuto vergognose invettive discriminatorie e addirittura agguati di stampo criminale dagli hooligans. Una triste caduta di stile in mondovisione che nessuno si aspettava da un’intera nazione famosa per il suo savoir-faire come l’Inghilterra. Il principe, in quanto presidente onorario della Federcalcio inglese, avrebbe anche dovuto redarguire i giocatori britannici che, senza alcuna sportività, hanno tolto le medaglie che erano state loro assegnate dopo il match. Li ha chiamati “eroi”, ma forse bisognerebbe dare il giusto peso alle parole (e alle partite).

William non ha salutato il presidente Mattarella? Nessuno può mettere Sergio Mattarella in un angolo (per dirla con Dirty Dancing). Scherzi a parte, in queste ore sta facendo discutere un altro presunto gesto inqualificabile del principe William. Il duca non solo sarebbe letteralmente fuggito dallo stadio dopo la vittoria dell’Italia contro l’Inghilterra, per non partecipare alla premiazione della nostra Nazionale, ma addirittura se ne sarebbe andato senza nemmeno stringere la mano al presidente della Repubblica Mattarella, seduto a pochi metri da lui. Lo avrebbe ignorato per tutta la partita. Possibile? La vicenda è diventata un giallo italo-inglese. Secondo un'altra ipotesi, invece, al termine del match William avrebbe provato a raggiungere il presidente italiano, ma sarebbe stato bloccato da Gianni Infantino, presidente della Fifa, per motivi di precauzione legati al Covid. Ci sarebbe anche un filmato che lo proverebbe. In realtà, però, non si vede granché. Possiamo solo osservare William che parla con un uomo e poi se ne va, ma ciò non prova nulla né contro né a favore del principe. In un primo momento, tra l'altro, era trapelata la voce secondo cui William sarebbe stato bloccato da Raffaele Trombetta, ambasciatore italiano a Londra. Ricostruzione, questa, smentita dalla Farnesina, che ha chiarito: "Circola da alcune ore sui siti web di diversi organi di stampa nazionali un video che ritrae i momenti successivi al termine della partita finale dei Campionati Europei di calcio 2020 a Wembley e fa riferimento all'Ambasciatore d'Italia nel Regno Unito. Si precisa a beneficio di tutti gli organi di stampa interessati che quel documento video non ritrae l'Ambasciatore Raffaele Trombetta ma un componente della delegazione della Fifa". Tuttavia, se pure fosse questa la dinamica con cui si sono svolti i fatti, William non sarebbe "assolto". Forte del peso del suo ruolo, il duca avrebbe dovuto tentare comunque di raggiungere Sergio Mattarella, magari mantenendo le distanze sociali (e ricordiamo che entrambi sono vaccinati). Una simile (presunta) maleducazione non è solo uno strappo al protocollo, ma anche una figuraccia internazionale.

Il principe George vuole andare allo stadio. Quando gli esperti hanno visto Baby George a Wembley con i genitori, in occasione della partita Inghilterra-Germania e poi per la finale Inghilterra Italia, sono rimasti un po’ sorpresi. William e Kate tengono molto alla privacy dei figli e non li espongono ai media se non è strettamente necessario. Per le partite, però, sarebbe stata fatta un’eccezione a causa delle insistenti richieste di Baby George. Scrive il Daily Mail: “Alla vigilia del match contro la Germania il piccolo George ha implorato i genitori affinché lo portassero allo stadio”. E pare che lo stesso sia accaduto per il match di domenica 11 luglio. Se, poi, vi ha stupito anche l’outfit elegantissimo del bimbo, sappiate che c’è un mistero in merito. Sempre il Mail rivela: “[George] ha voluto pure un vestito uguale a quello di suo padre” . Può darsi che ciò sia vero per quel che riguarda la partita Inghilterra-Germania. Ma per quel che riguarda il look sfoggiato dal bambino per la finale contro l’Italia l’ex campionessa di tennis Marion Bartoli ha un’altra versione dei fatti. Bartoli ha riferito che per la finale di Wembley George avrebbe voluto indossare la maglia della sua nazionale, ma Kate glielo avrebbe impedito. E pare non siano indiscrezioni. Sarebbe stata la stessa duchessa di Cambridge, durante un tè, a raccontare l’aneddoto all’ex tennista. Forse il principe George non ha ereditato dal padre il senso dell’eleganza, ma di sicuro ha preso la passione per il calcio. Tale padre, tale figlio. 

Francesca Rossi. Sono nata a Roma, ma vivo a Latina. Sono laureata e specializzata in Lingue e Civiltà Orientali a La Sapienza di Roma (curriculum di lingua e letteratura araba). Ho vissuto in Egitto per approfondire lo studio della lingua araba. Per la casa editrice Genesis Publishing ho pubblicato due romanzi, "Livia e Laura", sull'assassinio della Baronessa di Carini e "Toussaint. Inganno a Mosca", la storia di una principessa araba detective. Ho un blog che affronta temi politici e culturali del mondo arabo su HuffingtonPost. Sono appassionata di archeologia, astron 

Euro 2020, la vergognosa fuga del principe William da Wembley: sfregio all'Italia, ecco chi sono gli inglesi. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. Maurizio De Giovanni non le manda a dire, e sui social punta il dito contro gli inglesi dopo la finale di Euro 2020 vinta ieri dall'Italia. "Principe, principessa e principino che scappano per non premiare i vincitori – spiega lo scrittore innanzitutto attaccando la famiglia reale – Giocatori che si tolgono sprezzanti le medaglie dal collo prima ancora di scendere dal palco. Centinaia di vigliacchi che aspettano i tifosi italiani all’uscita per aggredirli, col favore degli addetti alla sicurezza", scrive l'autore de I Bastardi di Pizzofalcone. Poi  l'affondo: "È allora che avete perso, non sul campo. Sapete che c’è? Ben usciti, signori. Voi e il vostro simpatico giullare pazzo dai capelli ignobili – conclude con uno sfottò su Boris Johnson e sottolineando la Brexit – Non sentiremo la vostra mancanza". Dello stesso tenore anche il commento di un altro scrittore partenopeo, Angelo Forgione. Gli inglesi, scrive Forgione, "lo stile lo imparassero da Luis Enrique e da Guardiola. Sfilarsi immediatamente le medaglie dei finalisti, come se puzzassero, è un gesto di una volgarità enorme. E poi i tifosi inglesi, che la loro frustrazione l'hanno sfogata picchiando gli italiani ai varchi dello stadio". Insomma una vera figuraccia in eurovisione. Anche il comportamento dei calciatori inglesi che alla cerimonia si sono tolti la medaglia dal collo assegnata alla squadra sconfitta non ha lasciato indifferenti i tanti tifosi che si sono riversati poi sui social per criticare questo atteggiamento che è sembrato irrispettoso.

Da liberoquotidiano.it il 14 luglio 2021. Il principe William non è riuscito a salutare Sergio Mattarella. Quanto accaduto nello stadio di Wembley dopo la vittoria dell'Italia agli Europei ha indignato parecchio, se non fosse che a giorni di distanza spunta un video che mostrerebbe gli attimi sotto accusa. Dopo la parata di Gigio Donnarumma e la sconfitta dell'Inghilterra, il capo dello Stato si lascia andare all'esultanza. E con lui anche chi gli sta intorno. È in quel momento che il principe erede al trono ha tentato di salutare il presidente della Repubblica, venendo però fermato prima. Rispetto alle prime indiscrezioni il Quirinale smentisce che sia stato l'ambasciatore italiano a Londra, Raffaele Trombetta, a chiedere al marito di Kate Middleton di allontanarsi. Nel video infatti si vede Gianni Infantino, presidente della FIFA, recarsi da William che a quel punto gira i tacchi e se ne va. Un tentativo tutto inglese per screditare l'Italia? Chissà. Certo è che la fuga della famiglia Reale ha destato parecchie critiche. Tra queste quella di Maurizio De Giovanni, l'autore de I Bastardi di Pizzofalcone: "Principe, principessa e principino che scappano per non premiare i vincitori. Giocatori che si tolgono sprezzanti le medaglie dal collo prima ancora di scendere dal palco. Centinaia di vigliacchi che aspettano i tifosi italiani all’uscita per aggredirli, col favore degli addetti alla sicurezza". E ancora: "Allora che avete perso, non sul campo. Sapete che c’è? Ben usciti, signori. Voi e il vostro simpatico giullare pazzo dai capelli ignobili". Molti come lui hanno notato alquanto strana l'uscita "in velocità" del principe e consorte. Anche se, visti i tafferugli andati in scena fuori dallo stadio, la motivazione più plausibile è quella di una ragione di sicurezza.

La figuraccia di William con Mattarella (e l'Italia). Francesca Rossi il 14 Luglio 2021 su Il Giornale. A Wembley per la finale Inghilterra-Italia il principe William ha fallito miseramente nel suo ruolo di futuro re d’Inghilterra. Inghilterra inqualificabile. Non stiamo parlando di selezioni e classifiche per il prossimo Mondiale di calcio, ma di un comportamento deplorevole tenuto, durante e dopo la finale Inghilterra-Italia dello scorso 11 luglio, non solo da una nazione tra le più importanti al mondo, ma addirittura da un rappresentante delle sue istituzioni, il principe William. Ovvero dal futuro, giovane re che mai avremmo pensato potesse inanellare una serie di errori grossolani e deprecabili. Fa male ammetterlo, ma il duca di Cambridge, incredibilmente, ha gettato alle ortiche le più elementari regole dell’educazione e del protocollo, oltre che secoli di gloriosa storia inglese. C’è da sperare che il figlio di Lady Diana, donna sempre molto attenta al prossimo, riesca a realizzare la portata delle sue sorprendenti gaffe.

Una spocchia tutta inglese. Ripercorriamo i fatti avvenuti prima, durante e dopo la finale degli Europei a Wembley. L’Inghilterra sentiva di avere la vittoria in pugno. Ne era talmente certa che qualche incauto tifoso si è fatto addirittura tatuare la coppa prima del match. Per giorni gli inglesi davano gli italiani per perdenti e umiliati, benché, per dirla tutta, da un punto di vista tecnico tra le due squadre non vi fosse questa grande differenza. L’Inghilterra, forse un po’ troppo abituata a vincere dentro e fuori dai campi da gioco a qualunque costo (la Storia insegna), non è riuscita a concepire un finale alternativo assolutamente possibile. Una certa superbia mista a spocchia incontrollata con una spruzzata di immotivato senso di superiorità ha fatto il resto. Qui entra in gioco il principe William. Forse un po’ troppo galvanizzato da una presunta imbattibilità della sua Nazionale avrebbe compiuto, secondo quanto riportato dai giornali, tre azioni disgraziate: avrebbe abbandonato lo stadio in fretta furia con Kate e George, pur di non presenziare alla proclamazione dei vincitori italiani. Non avrebbe salutato il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Non avrebbe battuto ciglio quando al nostro presidente sarebbe stata assegnata una postazione non in linea con il suo rango di capo dello Stato e ospite in un altro Paese. Un'altra versione dei fatti sostiene che il principe William, a fine partita, abbia tentato di avvicinarsi al presidente italiano e in effetti esiste un filmato in merito che, però, non chiarisce la dinamica dei fatti. Il duca sarebbe stato bloccato da un delegato della FIFA, prima di raggiungere Mattarella, a causa delle norme anti-Covid. Però c'è da segnalare che entrambi sono vaccinati, l’evento è stato pianificato (come già accaduto per altri incontri tra rappresentanti di Stati diversi durante il periodo di pandemia) e che il duca aveva l'autorità per tentare di imporsi su questa decisione. Tra l'altro il principe William e Sergio Mattarella non erano neanche così distanti l’uno dall’altro. Dov'è la verità? Ci sono parecchie zone d'ombra su questo evento. Il principe William rappresenta il casato regnante britannico. Pertanto se decide di andare allo stadio per assistere a una finale che coinvolge la Nazionale inglese, la sua visita non può che essere ufficiale e, di conseguenza, rispettare tutti i crismi dell’evento pubblico. Ciò significa che il principe William, in quanto “padrone di casa”, avrebbe dovuto scendere dagli spalti e congratularsi con tutti i giocatori e gli allenatori di entrambi gli schieramenti e assistere alla premiazione. Per dirla in parole povere, doveva fare il suo dovere e tenersi la rosicata per sé. “Never complain, never explain”.

Inghilterra razzista? L’Inghilterra ha aspettato per 55 anni di alzare la coppa degli Europei. Non è accaduto, ma sono cose che capitano. Certo, l’allenatore inglese Gareth Southgate ci ha rimesso il titolo di baronetto, ma nella vita c’è di peggio. Invece è sembrato di trovarsi di fronte a una nazione incattivita, che pretendeva la vittoria come fosse un diritto divino. Ciò che è successo lo scorso 11 luglio non dovrebbe essere sottovalutato, anche perché coinvolge persino un futuro leader, il principe William e addirittura il sempre spettinato primo Ministro Boris Johnson, che ha dichiarato: “Questa squadra ha già fatto la storia e ha elevato lo spirito della Nazione. Stanotte potranno alzare anche la coppa. In rappresentanza della Nazione, buona fortuna. E portatela a casa”. Eppure la vittoria inglese non era scolpita sulla pietra. Tuttavia perfino le istituzioni si sono sentite investite di una sacra missione in stile Giovanna D’Arco. Il principe William, poi, ha giustamente difeso dalle accuse razziste i calciatori linciati per aver sbagliato i rigori, ma ha precisato che l’intero team è composto da “eroi” . Non sarà un tantino esagerato? Era una partita, benché gli inglesi, per parafrasare Churchill, l'abbiano persa quasi si fosse trattato di una guerra. Ridimensioniamo. Forse il duca si è fatto prendere la mano, tralasciando tutti gli insulti ricevuti dagli italiani durante il match e gli atti violenti e criminali perpetrati dagli hooligans ai danni dei nostri connazionali. Alla fine rimane una domanda: perché è accaduto tutto questo? La bella Inghilterra trasformata in una megera, una parte del suo popolo, famoso per l’aplomb, stravolto da una rabbia animalesca. Figuraccia mondiale. Cosa ha da dire Kensington Palace?

Francesca Rossi. Sono nata a Roma, ma vivo a Latina. Sono laureata e specializzata in Lingue e Civiltà Orientali a La Sapienza di Roma (curriculum di lingua e letteratura araba). Ho vissuto in Egitto per approfondire lo studio della lingua araba. Per la casa editrice Genesis Publishing ho pubblicato due romanzi, "Livia e Laura", sull'assassinio della Baronessa di Carini e "Toussaint. Inganno a Mosca", la storia di una principessa araba detective. Ho un blog che affronta temi politici e culturali del mondo arabo su HuffingtonPost. Sono appassionata di archeologia, astronomia e dinastie reali nel mondo.

“Arbitro di parte”, accusano da Londra. Petizione per rigiocare la finale con l’Italia, i tifosi inglesi non ci stanno: “Trascinati come schiavi”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 12 Luglio 2021. L’Europeo delle parate di Gigio Donnarumma ai rigori, del gol da fantascienza di Patrik Schick, ma anche delle petizioni online. Strano da dirsi, ma la competizione termina domenica sera allo stadio di Wembley col trionfo degli Azzurri del ct Roberto Mancini sarà ricordata anche per il lancio di ben tre petizioni sul web per rigiocare alcuni match. L’ultima in ordine di tempo è quella promossa su Change.org da alcuni tifosi di Sua Maestà, reduci dalla devastante sconfitta interna. Troppa l’amarezza da sopportare per chi da settimane ormai andava ripetendo “Football it’s coming home”, così dopo la lotteria dei rigori che ha premiato Donnarumma e compagni è nata una petizione per chiedere di rigiocare la finale. La motivazione? La finale, secondo i promotori della petizione, “non è stata affatto corretta. L’Italia ha ricevuto un solo cartellino giallo per aver trascinato i giocatori dell’Inghilterra come se fossero schiavi. Dopo tutte quelle spinte, gli strattonamenti e quei colpi non regolati come ha potuto vincere l’Italia?”, è la recriminazione postando come immagine il fallo del capitano azzurro Giorgio Chiellini su Saka, involato in rete sul finire del secondo tempo. Italia che invece “avrebbe dovuto ricevere un cartellino rosso per il suo gioco e la rivincita dovrebbe avvenire con un arbitro non di parte. Non è stato affatto giusto”, si lamentano i tifosi inglesi. Una petizione che, ovviamente, non verrà presa in considerazione dai vertici della UEFA. Ma non è l’unica, come dicevamo. I primi a pensare a questo tipo di protesta erano stati i tifosi francesi, che avevano chiesto di rigiocare l’ottavo di finale contro la Svizzera, perso clamorosamente ai rigori: il motivo sarebbe una irregolarità nel rigore decisivo parato dal portiere elvetico Sommer, che secondo i firmatari non avrebbe avuto almeno un piede sulla riga di porta come da regolamento, allegando un fermo immagine. Peccato che Var e immagini ufficiali abbiano stabilito direttamente sul campo l’esatto opposto. Così nei giorni successivi una seconda petizione, questa volta a firma dei tifosi del Belgio, sconfitti dall’Italia ai quarti. Più che una petizione, in realtà, si tratta di una provocazione nei confronti proprio dei tifosi francesi: “Rigiocare il quarto contro l’Italia per perderlo di nuovo. Abbiamo perso contro i più forti, l’obiettivo è dimostrare quanto fossero davvero più forti”, si legge infatti nelle motivazioni.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Enrico Chillé per leggo.it il 31 luglio 2021. Euro 2020, it's (not) coming home e agli inglesi brucia ancora aver perso la finale in casa. Solo che, in alcuni casi, gli strascichi di Italia-Inghilterra possono essere esilaranti e coinvolgere, addirittura, l'ambasciata italiana a Londra. Lo dimostra una lettera ricevuta e poi pubblicata su Twitter da Alessandro Motta, vicecapo della missione diplomatica italiana nel Regno Unito. Il contenuto della lettera è una serie incredibile di insulti e recriminazioni per il risultato della finale dell'Europeo. «F******i, sporchi bastardi, quella partita è stata f********e truccata, voi c******i avete vinto con la violenza, l'inganno e l'intimidazione; voi s*****i non sapete fare un gioco corretto, noi abbiamo perso con onore e voi f*****i p*******i non sapete neanche il significato di questa parola» - si legge nel testo - «Siete solo un mucchio di f*****i teppisti, ecco cos'è la vostra f*****a squadra, non sono in grado neanche di mettere piede in un campo di calcio... F*****o loro e f*****o voi!». Il diplomatico italiano, spiazzato ma tutto sommato divertito, ha pubblicato una foto della lettera ricevuta, ironizzando non poco (con tanto di risata finale) sul tifoso che l'ha scritta e inviata in ambasciata: «Il fair play è un concetto conosciuto in tutto il mondo, che trova le sue origini nello sport moderno della Gran Bretagna...». Non mancano i commenti ironici, come quello di un utente scozzese: «Be', quella lettera sicuramente non è stata spedita dalla Scozia». Ma anche risposte molto stizzite, come quella di un tifoso inglese che ha commentato: «Ma almeno non abbiamo cacciato i giocatori italiani nel nostro campionato, come avete fatto voi nel 2002». Il riferimento è al sudcoreano Ahn Jung-hwan, che militava nel Perugia e si vide rescindere il contratto dopo aver eliminato l'Italia ai Mondiali in patria. A quel commento ha replicato un tifoso italiano: «Voi invece avete fatto insulti razzisti ai vostri giocatori neri, decisamente meglio!».

Scorretti e antisportivi. Se Sua Maestà perde anche nello stile. Tony Damascelli il 13 Luglio 2021 su Il Giornale. Scontri fuori e dentro il campo. La squadra non rende onore agli azzurri. La fuga dei reali. Correggere Winston Churchill, please: «Gli inglesi perdono le partite di calcio come fossero guerre, perdono le guerre come fossero partite di calcio». Li abbiamo visti in azione, i cari sudditi, mentre bruciavano le bandiere italiane, li abbiamo visti mentre distruggevano le transenne e attaccavano la polizia a cavallo, li abbiamo sentiti mentre fischiavano l'inno di Mameli, li abbiamo ascoltati mentre berciavano contro i calciatori di colore, colpevoli di avere sbagliato i rigori finali. È il popolo maleodorante dei pub, è la ciurma facilmente riconoscibile, nessun ragazzo di colore tra gli hooligans, bianca e rosea la pelle di questa razza violenta, gonfia di birra, di repressione e di ignoranza. Li abbiamo visti i calciatori della nazionale inginocchiarsi in memoria dell'americano Floyd ma, dopo un contrasto di gioco, rifiutare la stretta di mano dell'avversario. Ipocriti e screanzati. Li abbiamo visti mentre ci deridevano, loro ex maestri di fair play e oggi cascatori di lusso, provocatori di censo. Li abbiamo visti mentre sfilavano sul podio per ritirare la medaglia d'argento e, un secondo dopo, se la toglievano dal collo, con disprezzo massimo di quell'onorificenza (lo stesso hanno fatto i brasiliani sconfitti dagli argentini nella finale della copa America). Abbiamo visto la famigliola Windsor, il principe duca, la duchessa e l'erede George, svignarsela al momento delle premiazioni. Eppure lui, William è il presidente della Football Association ma che gli fosse venuto in mente di scendere dal trono e di omaggiare i vincitori?, oh my God (impegnato, questo, a salvare la nonna). Abbiamo visto David Beckham, Kate Moss and Tom Cruise, ghignare al gol di Shaw, come a dire «elementare Watson») e poi nascondersi nel canneto della tribuna autorità, nel ruolo di comparse silenziose. Abbiamo visto il premier Boris Johnson (che sta al calcio come Beppe Grillo alla tragedia greca), indossare la giacca sulla maglietta dei tre leoni e mantenere il comportamento istituzionale però tra strilli volgari dei suoi compatrioti, per poi svegliarsi dalla sbornia chiassosa e reagire con parole dure contro il razzismo, così anche il principe di cui sopra che si è detto disgustato dai cori. Ma né Boris, né William si sono degnati di pronunciare una sola parola sui fischi a Mameli e nemmeno hanno provato vergogna per le bandiere date alle fiamme e l'assalto nelle strade attorno a Wembley. È l'Inghilterra che continua a vivere sulla sua isola, è il Paese fiero di essere uscito dall'Europa e che si merita di stare lontano dallo stesso continente, non perché ci sia di mezzo la Manica ma proprio per il modo inurbano di vivere, di agire e di pensare. L'impero non è più al centro del mondo, resistono i Windsor, rischiando spesso di finire in caricatura, come memorabilia da collezionisti o personaggi da cartoon. L'attesa di questa finale è stata il simbolo di un popolo che ritiene ancora di essere superiore al resto del mondo, considerato un'enorme colonia che usa, per l'appunto, l'inglese come koiné e lingua universale. Hanno pensato che l'Unione Europea fosse come il Commonwealth, hanno rifiutato l'euro, hanno conservato la guida a destra, non hanno modificato lo stampo di fabbrica che il football illustra al meglio, saccenti e razzisti, quarantatré anni dopo l'esordio in nazionale del primo ragazzo nero, Viv Anderson. La forma sopra la sostanza, i riti di corte, i cani di Elisabetta II, il the alle cinque, la sbronza alle sette, le elezioni al giovedì, la paga al venerdì, Wembley abbattuto e ricostruito. Se hanno voglia di vedere e toccare la coppa dei campioni d'Europa, li aspettiamo a Roma. Necessaria la quarantena e l'ovvio pagamento del biglietto di ingresso. Oh yes. Tony Damascelli

Gli inglesi antisportivi? Giusto così, i moralisti lascino in pace il calcio! Hanno fatto benissimo i calciatori inglesi a togliersi dal collo quell’inutile pizza di fango. Quando perdi una partita così nel tuo giardino di casa dopo che l’hai aspettata per cinquantacinque anni, vorresti solo mettere la testa sotto il cuscino e dimenticarti di tutto.  Daniele Zaccaria su Il Dubbio il 12 luglio 2021. Hanno fatto benissimo i calciatori inglesi a togliersi dal collo quell’inutile pizza di fango. Quando perdi una partita così nel tuo giardino di casa dopo che l’hai aspettata per cinquantacinque anni, vorresti solo mettere la testa sotto il cuscino e dimenticarti di tutto. Altro che celebrare gli avversari sfoggiando sorrisi di plastica davanti al mondo che si gode la tua ennesima capitolazione. Quella patetica medaglietta di consolazione è una gratuita crudeltà, il marchio beffardo della sconfitta che, per i sudditi di sua maestà sembra un eterno ritorno; come se avessero inventato il pallone al solo scopo di destinarlo ad altro e ad altri, costretti a vederlo rotolare su e giù per il mondo senza mai che torni a casa.È una frustrazione unica e domenica sera la potevi vedere benissimo la nuvoletta immaginaria con i «fuck you!» che volteggiava sopra i volti sfranti dei vari, Shaw, Mountt, Foden, Grealish. In fondo la disfatta è l’unica cosa che gli resta, che se la vivano come vogliono, tanto i cocci sono i loro. «È un gesto bruttissimo, che non avremmo mai voluto vedere» ha esclamato durante la premiazione dell’Europeo l’improvvisata coppia di commentatori da sacrestia della Rai Bizzotto-Serra, più indignata dal comportamento dei nostri avversari che contenta per la vittoria finale della squadra di Mancini. E con loro la quasi totalità dei commentatori sportivi e non, tutti a spiegare quanto sono brutti, sporchi e cattivi questi inglesi, quanta mancanza di fair play nel loro rifiuto, quanta somma maleducazione, alcuni evocano sanzioni, multe e retrocessioni per manifesta antisportività. Altri invece ci ammorbano con i soliti, scontatissimi riferimenti alla Brexit e alla giusta vendetta che ha colpito la perfida Albione. C’è persino chi paragona la cafonaggine inglese all’eleganza del tennista Matteo Berrettini che aveva accettato con serenità il vassoio riservato al finalista sconfitto di Wimbledon, dimenticando che tra il tennis e il pallone ci sono differenze ontologiche e che lo stesso Wimbledon si disputa in un clima da Inghilterra vittoriana in cui i giocatori si devono tutti vestire di bianco e i poliziotti in tribuna controllano che i tifosi facciano silenzio. Questo coretto ipocrita e moralista è conforme alla retorica farlocca dell’Uefa e della Fifa che da anni provano a vendere il calcio come un teatrino edificante di “valori” dove i suoi interpreti sono asettici testimonial di messaggi positivi da “trasmettere ai giovani”. Proprio la stessa Uefa che fece giocare la finale di Coppa dei Campioni dell’85 nel fatiscente stadio Heysel con decine di tifosi juventini morti sugli spalti o che non fermò la giostra nemmeno dopo gli attentati dell’11 settembre 2001. La stessa Fifa che ha assegnato i prossimi Mondiali al Qatar, ammaliata dai fiumi di petroldollari degli emiri, e pazienza se nei cantieri degli stadi i migranti asiatici muoiono come mosche lavorando in condizioni di autentica schiavitù (almeno 6500 le vittime). E pazienza se il Qatar è quello un tempo si sarebbe detto “Stato canaglia” con le sue reti tentacolari di finanziamento al terrorismo jihadista.

Quel che conta è sorridere ai fotografi, magari inginocchiarsi prima del fischio di inizio per “combattere il razzismo” oppure mettersi al collo una medaglietta. Insomma, vendere un mondo che non c’è, una realtà parallela confezionata come uno spot pubblicitario in cui tutti sono buoni, uniti e rispettosi, in cui tutti rendono onore al nemico e si felicitano con lui. E se qualcosa interviene a sporcare il quadretto? Semplice: basta nasconderla. Come è accaduto nel secondo tempo della finale di Wembley con l’invasione di campo di un tifoso inglese rigorosamente oscurata dalle telecamere internazionali. La policy che impone di censurare quelle immagini (riprese da migliaia di smartphone e in pochi minuti diventate virali sul web) è la rappresentazione plastica di un mondo del calcio completamente scollato dalla realtà, governato da tromboni e baroni che ogni giorno mandano in onda il loro Truman show con la sola, ossessiva idea di generare profitti. Ma chi conosce e ama il calcio sa che la realtà è ben diversa, che mica siamo alle Olimpiadi dove l’importante è partecipare, che non esiste nessuna medaglia d’argento da incorniciare in salotto, che arrivare secondi dopo aver annusato la gloria ti può far impazzire di rabbia. Il calcio è una cosa ben poco sportiva che genera passioni a volte malsane e rivalità esasperate e in fondo questo è il suo bello, il suo elemento irriducibile alla propaganda di chi vorrebbe trasformarlo in una specie di giochi senza frontiere. Quel che conta non è il rispetto, non è la lealtà, ma la competizione: la sconfitta è sempre una ferita bruciante, mentre la vittoria porta con sé il gusto ferino dell’umiliazione altrui. È una metafora catartica della guerra, un carnevale dello spirito in cui far correre libere le nostre pulsioni primordiali. Italiani contro inglesi, francesi contro tedeschi, argentini contro brasiliani, e ancora milanesi contro romani, parigini contro marsigliesi, Liverpool contro Manchester, Barcellona contro Madrid, derby infuocati, cartellini rossi, polemiche che si trascinano per giorni, mesi e anni, ma anche partite truccate, sudditanze psicologiche, insulti grossolani. Il calcio non è solo un bel gol, pressing e tiki-taka, catenaccio e “giochismo”, esso risplende anche nella testata di Zidane sul petto di Materazzi, nello sputo di Totti all’urticante Paulsen, sono le corna di Cassano all’arbitro Rossetti, la corsa inferocita di Carletto Mazzone sotto la curva dei tifosi atalantini, è la mano de Dios di Maradona a Città del Messico (sempre agli inglesi tocca, poveretti), è il sublime colpo di karate di Eric Cantona che manda al tappetto il tifoso razzista che lo stava insultando: «È stato il momento più bello della mia carriera», confessò poi il fantasista francese. Come dargli torto.

Il rovescio della medaglia. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13/7/2021. Che l’inglese medio assomigliasse poco a Sherlock Holmes e moltissimo al cugino attaccabrighe di Harry Potter è una certezza che i fischi all’inno di Mameli hanno simpaticamente confermato. (Per tacere delle frasacce razziste indirizzate sui social agli imberbi rigoristi accalappiati dalle manone di Donnarumma). Ma quando abbiamo visto quasi tutti i calciatori sfilarsi platealmente dal collo la medaglia d’argento appena ricevuta, è stato come se secoli di letteratura sulla sportività britannica fossero andati in frantumi. Uno pensa alla frase di Kipling che troneggia negli spogliatoi di Wimbledon: «Se saprai trattare la Vittoria e la Sconfitta, questi due impostori, allo stesso modo… sarai un Uomo». Evidentemente di Uomini in quella squadra ce n’erano pochini. Ovvio che perdere ai rigori, e per giunta in casa, faccia girare le scatole. Ma il capriccio infantile di togliersi la medaglia è una mancanza di rispetto nei confronti di chi te l’ha data, degli avversari e, in fondo, di te stesso. Meriterebbe una lunga squalifica, non foss’altro che per l’esempio offerto ai bambini di mezzo mondo. Lo si può in parte giustificare quando si tratta della reazione impulsiva a un’ingiustizia: un arbitraggio scandaloso, una sconfitta immeritata. Al termine di una sfida dal verdetto cristallino è solo l’atto di arroganza compiuto da gente che si vanta continuamente (e ormai pateticamente) di avere inventato il football, ma ha dimenticato che anche fair play è una espressione inglese.

Da leggo.it il 12 luglio 2021. Violenza inaudita. Senza senso. Assurda. La rabbia dei tifosi inglesi si tramuta in follia: gli hoolingan inglesi hanno dato vita ad una vera e propria caccia all'italiano fuori dallo stadio di Wembley. Come dimostrano le immagini di questo video, alcuni di loro si sono posizionati davanti all'uscita dello stadio di Wembley dove erano sistemati i tifosi italiani, e hanno iniziato a colpire i nostri connazionali che avevano bandiere tricolore o sciarpe azzurre. Un tifoso azzurro è stato sgambettato e poi preso a calci mentre era per terra, davanti ad alcuni steward che - impotenti - guardavano le scene di violenza barbara senza muovere un dito.

Da open.online il 12 luglio 2021. Ci sono stati già alcune decine di fermi tra i tifosi dell’Inghilterra, accusati di aver assaltato lo stadio prima e dopo la finale di Euro 2020 vinta dagli Azzurri sulla selezione di casa. La polizia di Londra ha confermato che ci sono stati anche attacchi mirati a italiani. Già durante tutto l’arco della giornata si erano seguiti diversi episodi di scontri in città che avevano portato complessivamente a oltre 40 arresti in 24 ore. Tuttavia, la delusione dei tifosi dei Tre Leoni è sfociata anche in scontri con gli agenti di polizia e le forze dell’ordine, come precisato dalla stessa Metropolitan Police, incrementata di personale per controllare il deflusso dei tifosi dal quartiere. Problemi si sono registrati anche prima dell’inizio del match, sia nei pub della città che davanti lo stadio, con il tentativo di sfondamento di alcuni gruppi che, sprovvisti di biglietto di ingresso, hanno fatto irruzione nell’impianto.

Euro 2020, gli inglesi sconfitti aprono la caccia agli italiani: "Calci e sgambetti", tifosi azzurri ridotti così. Libero Quotidiano il 12 luglio 2021. La sconfitta da parte dell'Inghilterra nella giornata dell'11 luglio e in occasione degli Europei contro l'Italia non è andata giù agli inglesi. Circolano sul web filmati da brividi, in cui si vedono i tifosi che a Wembley danno letteralmente la caccia agli italiani. Gli hoolingans inglesi atteso la nostra tifoseria davanti all'uscita dello stadio, dove erano sistemati i tifosi italiani, e hanno iniziato a colpire i nostri connazionali che avevano bandiere tricolore o sciarpe azzurre. A un tifoso azzurro è stato addirittura fatto uno sgambetto e poi preso a calci mentre era per terra, davanti ad alcuni steward che - impotenti - guardavano le scene. A prendere provvedimenti è stata poi la polizia inglese che ha arrestato 45 persone per aver provocato scontri con altri tifosi e con la polizia nei pressi dello stadio. Gli agenti sono rimasti a presidiare la zona per aiutare i tifosi a tornare a casa senza incidenti. Una situazione che le forze dell'ordine avevano previsto, tanto che prima della finalissima già centinaia di agenti erano schierati per evitare il peggio. La tensione era dunque già altissima, figuriamoci dopo la vittoria degli Azzurri ai rigori. Inghilterra e Italia si sono infatti sfidate fino all'ultimo secondo, salvo poi la parata clamorosa del nostro Donnarumma. 

Vergogna inglese: agguato ai tifosi all’interno di Wembley. Sui Social insulti razziali ai rigoristi neri. Penelope Corrado lunedì 12 Luglio 2021 su Il Secolo d'Italia. E’ di 49 persone arrestate e 19 poliziotti feriti il bilancio degli incidenti e dei disordini a Londra nell’ambito di una serie di operazione condotte in occasione della finale Italia-Inghilterra a Wembley ieri sera. Lo ha reso noto la polizia metropolitana. Le 49 persone fermate sono state arrestate per “una serie di reati”, mentre, “purtroppo, 19 dei nostro agenti sono stati feriti nel confronto con la folla e questo è totalmente inaccettabile”. La polizia ha allo stesso tempo ringraziato “le decine di migliaia di fan che si sono comportate in modo responsabile”. Sui Social circolano anche immagini impressionanti di aggressioni ai tifosi all’interno dello stadio di Wembley. Il tutto sotto gli occhi degli steward, che lasciano che le aggressioni avvengano senza muovere un dito. Molti riportano il video come una aggressione ai tifosi azzurri. Secondo i media locali, invece, l’agguato sarebbe avvenuto prima della partita nei confronti dei tifosi che cercano di entrare nello stadio all’ingresso senza biglietto. In ogni caso, immagini molto violente che sconcertano. Infatti, le misure di sicurezza annunciate vanno in contraddizione con quanto poi effettivamente accaduto. Londra, in queste ore, si interroga anche sulla questione razziale. La Federazione di calcio inglese si è detta “disgustata” per gli insulti razzisti sui social nei confronti dei tre giocatori di colore della nazionale che hanno sbagliato i rigori nella finale contro l’Italia, Marcus Rashford, Jadon Sancho e Bukayo Saka. “Siamo disgustati di vedere che membri del nostro team, che hanno dato tutto, sono stati sottoposti ad aggressione discriminatorie sul web dopo il match di ieri sera – ha scritto la Fa sul suo account twitter – I giocatori hanno il nostro sostegno”. In un comunicato, la Federazione ha poi ribadito “la condanna di ogni forma di discriminazione” e si è detta “preoccupata per il razzismo diffuso sui social contro alcuni giocatori inglesi: noi diciamo nel modo più chiaro che chiunque sia dietro questi comportamenti così ripugnanti non è il benvenuto tra i fan di questa squadra”. E sul tema è intervenuto in prima persona il premier Boris Johnson. Gli inglesi che hanno coperto di “insulti razzisti sui social media” i tre giocatori della nazionale britannica che hanno sbagliato i rigori contro l’Italia dovrebbero “vergognarsi di se stessi”. A dirlo è stato il premier britannico, spiegando che i calciatori dell’Inghilterra “meritano di essere trattati da eroi”, e che gli insulti sono invece “spaventosi abusi”.

(ANSA il 12 luglio 2021) - Gli insulti razzisti contro i calciatori dell'Inghilterra "sono imperdonabili". Lo ha detto il ct inglese Gareth Southgate, all'indomani della finale di Euro 2020 persa contro l'Italia. "Mi è stato detto che alcuni di questi insulti arrivano dall'estero, ma altri vengono dal nostro Paese, che deve essere solo orgoglioso di questi ragazzi", ha aggiunto Southgate in una conferenza stampa.

 (ANSA il 12 luglio 2021) - Anche il principe William, secondo in linea di successione alla corona britannica e presidente d'onore della Federcalcio inglese, si unisce - dopo il premier Boris Johnson - alla denuncia degli insulti razzisti contro i calciatori dell'Inghilterra che hanno sbagliato i rigori decisivi con l'Italia nella finale di Euro2020. "Sono nauseato", scrive William, "è totalmente inaccettabile che alcuni giocatori debbano questi simili comportamenti abominevoli". Questi episodi di razzismo - conclude dal suo profilo ufficiale reale di Kensington Palace - "devono finire ora e tutti coloro che ne sono responsabili devono risponderne".

 (ANSA il 12 luglio 2021) - "La Uefa condanna con forza i disgustanti insulti razzisti rivolti a diversi calciatori dell'Inghilterra sui social media dopo la finale dell'Europeo, per i quali non c'è spazio nel calcio né nella società. Sosteniamo la richiesta dei giocatori e della Federazione inglese per punizioni dure il più possibile". È quanto afferma la Uefa sul proprio profilo Twitter.

Da liberoquotidiano.it il 12 luglio 2021. A cosa è servito inginocchiarsi prima dell'inizio delle partite degli Europei in nome del Black lives matter se poi gli stessi inglesi insultano i propri giocatori di colore colpevoli di aver sbagliato i rigori? "Questa squadra inglese merita di essere lodata come eroi, non insultata razzialmente sui social media. I responsabili di questi terrificanti insulti dovrebbero vergognarsi di sé stessi", ha tuonato su Twitter il premier britannico, Boris Johnson, dopo la rabbia social con insulti razzisti esplosa nei confronti di Rashford, Sancho e Saka, i tre calciatori inglesi che hanno fallito i rigori decisivi nella finale di ieri sera 11 luglio contro l'Italia. Il rigore di Marcus Rashford ha colpito il palo e i tiri dal dischetto di Bukayo Saka e Jadon Sancho sono stati parati da Donnarumma. Il diciannovenne Saka ha sbagliato il rigore decisivo, che ha dato il titolo all'Italia e ha negato all'Inghilterra il suo primo grande trofeo internazionale di calcio dai Mondiali del 1966. Tutti e tre i giocatori hanno subito iniziato a ricevere insulti razzisti sui social media.  La Federcalcio inglese ha rilasciato una dichiarazione dicendo di essere "sconvolta" dal "comportamento disgustoso" di chi lancia in rete questi messaggi. La polizia di Londra ha condannato l'abuso "inaccettabile", aggiungendo che indagherà sui post sui social media "offensivi e razzisti". Condanna durissima anche da parte del principe William: "Sono nauseato dagli insulti razzisti rivolti ai giocatori dell'Inghilterra dopo la partita di ieri sera", scrive su Twitter. "È assolutamente inaccettabile che i giocatori debbano sopportare questo comportamento abominevole. Deve fermarsi ora e tutti coloro che sono coinvolti dovrebbero risponderne". Il sindaco di Londra Sadiq Khan ha invitato le società di social media a fare di più per perseguire i trasgressori responsabili. "Non c'è assolutamente posto per il razzismo nel calcio o altrove", ha scritto in un post su Twitter. "I responsabili del disgustoso abuso online che abbiamo visto devono essere ritenuti responsabili - e le società di social media devono agire immediatamente per rimuovere e prevenire questo odio". 

(ANSA il 12 luglio 2021) Il primo ministro britannico Boris Johnson ha denunciato oggi gli "insulti razzisti" nei confronti dei giocatori inglesi dopo la sconfitta contro l'Italia nella finale europea di eri a Wembley. I giocatori della nazionale inglese "meritano di essere trattati da eroi", non coperti da "insulti razzisti sui social media", ha twittato il leader conservatore sottolineando che i "responsabili di questi spaventosi abusi dovrebbero vergognarsi di se stessi". 

Dagonews il 12 luglio 2021. La delusione degli inglesi è tutta sulla prime pagine dei quotidiani in edicola stamattina. L’Inghilterra ha mancato quello che sarebbe potuto diventare il primo titolo dopo il Mondiale del 1966, quando aveva alzato la Coppa del Mondo proprio a Wembley sconfiggendo la Germania Ovest per 4-2. Il Daily Mail apre con un laconico «It all ends in tears», The Independent si accoda con «Tears for heroes» e il Daily Mirror riassume la partita di ieri con un «Heartbreak». Il Daily Telegraph spinge sull'orgoglio nazionale: "Lions did us proud". La nazionale italiana può contare invece sul sostegno dei giornali sportivi di Francia e Spagna. L’Equipe ha in copertina una foto degli azzurri trionfanti e un solo titolo «Invincibles», As invece dopo il noto «Porca miseria» titola «Bravissima!». E anche il quotidiano scozzese, che ieri aveva affidato le sue speranze a un Mancini-Braveheart, apre con: "It's coming Rome". 

Roberto D’Agostino per VanityFair.it l'11 luglio 2021. Fatta l’Italia, bisognava curare gli italiani: nel corso del tempo, la medicina che ha attecchito più facilmente si chiama calcio. Lo vediamo in questi giorni: dopo un anno e mezzo di vita sospesa, grazie a undici ragazzi in mutande e scarpini alle prese con le partite dell’Europeo, che vengono chiamati "Italia", sebbene non abbiano la caratteristica forma della penisola, e costituiscano un paesaggio irrilevante, abbiamo l’impressione di vivere una cosa bella. Un paese nel pallone al punto che si riscopre persino la patria. Lo osservava già nell'Ottocento lo studioso svizzero Jakob Burckhardt: il centro della civiltà greca non è il teatro, non è il tribunale, non è la piazza; al centro della civiltà greca c'è la pulsione agonistica. Secondo, e fondamentalissimo motivo: ci piace il gioco, ma molto di più ci piace la "vittoria". Si ha nostalgia di una situazione trionfale, di una situazione di successo; l'unica capace di ridar sapore ai sentimenti del cazzo della nostra vita. Ci sentiamo frustrati, intimiditi, impotenti. La fatica del vivere è incomprensibile, i giochi della politica sono tabù, l'economia un giorno dice “crescita” e il giorno dopo riceviamo la lettera di licenziamento. Il sesso, poi, ha preso la brutta piega di rimare con violenza. Viviamo "l'età dell'ansia", ci dicono gli esperti. Così abbiamo bisogno di emozioni forti, per farci tornare la voglia di vivere. E poiché nessuno di noi vince, poiché ci mancano gli strumenti di una qualsiasi vittoria privata, deleghiamo ad altri il compito di conseguire quella cosa strepitosa e liberatoria che è la "vittoria". Se noi siamo l'Italia e quelli sono l'Italia, quando quelli vincono noi vinciamo. Lo sportivo è un mistico che ha capito che "il football è la maniera migliore di essere eroi stando seduti" (Gianni Brera); quindi non dice "hanno vinto", ma dice "abbiamo vinto". Perché lo sport è un “fatto sociale totale”, una sorta di lente attraverso cui guardare per capire come si esprimono i caratteri nazionali. Il capocannoniere, diceva Pasolini, è sempre "il miglior poeta dell'anno". Antropologicamente, poi, è il nostro richiamo della foresta. Quindi, non è vero che si diventa aggressivi guardando la partita. E' vero che i tifosi hanno bisogno di fantasticare, anche in termini aggressivi. Si sentono frustrati, intimiditi, impotenti. Hanno bisogno di rifare i conti, a loro modo, con il mondo “malato” che li circonda. Il calcio è l’ultimo orgasmo garantito e deve la sua funzionalità, anche culturale, anche sociale, al fatto di essere un mondo a parte. Diverso, ma anche migliore del nostro. Un mondo nel quale (sovente) vince il migliore, senza trucchi e senza imbrogli, senza raccomandazioni e senza lottizzazioni. Un contromodello di vita. Per tutti: è l’unica cosa intelligente che possono fare anche gli imbecilli. Siamo tutti ostaggi del calcio, gentil sesso compreso. Una volta, degli uomini tifosi le donne ne avevano le scatole piene: “Se un uomo guarda tre partite di calcio di fila dovrebbe essere legalmente morto”. Acqua passata. Oggi dentro gli schermi sono dilaganti le giornaliste, davanti gli schermi le tifose sono in prima fila: circa il 50 per cento del pubblico della nazionale. Un vero attacco al fortilizio della Mascolinità. Le ragazze nutrite a pane e ‘’Corriere dello sport’’ con contorno di Diletta Leotta e Paola Ferrari, non si accontentano più del tifo accademico e svagato che caratterizzava le loro mamme, ma discutono di schemi e di formazione, di fuori gioco e Var. Anche per la femmina moderna, la partita diventa partecipazione comunitaria festevole, come prima era la processione del quartiere, la festa patronale, la fiera del paese, i quattro salti in casa. E' una liturgia che ha preso il posto della messa in chiesa e dell’aperitivo con le amiche del cuore.  

Se permettete parliamo di calcio: religione vera, profana e senza dei. Augé è stato il primo a individuare il carattere sacrale simile a una fede. Umberto Pagano su Il Quotidiano del Sud il 20 giugno 2021. Marc Augé, il famoso antropologo “padre” dei non-luoghi – categoria abusata che pure ha avuto il merito di stimolare il dibattito sullo sfilacciamento identitario e di radicamento storico sociale degli spazi e delle relazioni nell’epoca post-industiale – in un suo breve saggio proponeva di interpretare il calcio alla stregua di un fenomeno religioso (Augé M., Il Calcio come fenomeno religioso, EDB, 2016). Degli ipotetici etnologi extraterrestri – fantastica Augé – osservando dinamiche e rituali del fenomeno calcistico umano, senz’altro avanzerebbero l’ipotesi che si tratti di una peculiare religione degli umani, una religione senza Dei, ma pur sempre una religione. Ad essere chiamata in causa è la visione durkheimiana della religione come proiezione delle caratteristiche della comunità su un apparato simbolico-rituale condiviso che consente rappresentazioni collettive e celebrazioni che consolidano i legami sociali, i valori e l’armonia del gruppo. È una prospettiva affascinante quella di Augé, ancorché non del tutto convincente. Per Durkheim la religione attiene al sacro e si separa nettamente da ciò che è profano. Il calcio è invece profondamente intrecciato agli aspetti quotidiani e profani. Invece, all’opposto, si potrebbe affermare che il brodo rimedializzato della imagosfera in cui siamo immersi mischiando e “contaminando” ogni cosa, continuamente, erode il concetto stesso di sacro. Scimmiottando la stessa celebre locuzione di Augé, potremmo perfino dire che andiamo sempre più verso un depotenziamento e una diluizione del sacro, verso una società del non-sacro. Ma religioso o non religioso, il fenomeno calcio ha senz’altro una forte dimensione ritualistica, sprigiona una strapotente energia di generazione di un NOI, di un qualcosa di collettivo, di condiviso. Basti pensare alla Nazionale e a come ricchi e poveri, giovani e anziani, borghesi e proletari (per i nostalgici marxisti), guardie e ladri, destra e sinistra, carnivori e vegani, Nord e Sud, fiorentini e juventini… improvvisamente e “magicamente” si fondano in una unità pronta a vibrare all’unisono per un’accelerazione di Chiesa (giusto per rimanere in ambito religioso…) o per un goal di Immobile. Su una cosa Augé ha ragione: il calcio costituisce un fatto sociale totale. Sia perché finisce per riguardare una molteplicità di dimensioni, eventi, istituzioni, dinamiche, soggetti, business etc., sia perché è particolarmente permeabile all’analisi sociologica da diverse e interessanti prospettive. Tanto per cominciare è, in sé stesso, “doppio”: spettacolo di massa e pratica. Come forma spettacolare, inoltre, vede germogliare al suo interno una ulteriore dualità, in quanto gli spettatori e i tifosi sono parte dello spettacolo stesso e contribuiscono a co-generarlo. Come “pratica” dilettantistica, invece, esso è sufficientemente diffuso da essere classificato e analizzato come fenomeno di massa. Se ci pensate, non accade per molti altri fatti sociali. Dal mio punto di vista, l’aspetto più affascinante del calcio è che, a vari livelli e con dinamiche curiosamente sincretistiche (es. i tifosi di squadre fortemente antagoniste che improvvisamente si ritrovano a soffrire e gioire per la Nazionale che li accomuna), esso è fonte di una emotività forte, convergente e plateale. Nell’ambito di una società che progressivamente ha represso le dinamiche di espressività incontrollata, perché fattore di destabilizzazione dell’ordine costituito, il fenomeno calcistico costituisce – per usare le parole di Alessandro Cavalli – “una sorta di enclave in cui è socialmente consentito, a certe condizioni, conservare un comportamento moderatamente eccitato”; insomma un “controllato decontrollo dei controlli”, come sintetizzò magnificamente Norbert Elias. Maurizio De Giovanni è più noto come giallista che come esperto di calcio (è il creatore del Commissario Ricciardi e dei Bastardi di Pizzofalcone), ma uno dei suoi libri più interessanti è dedicato al calcio, al tifo e, ovviamente, al “suo” Napoli (Il resto della settimana, BUR, 2016). È un meta-testo sulla gestazione di un testo, in cui si narra di un professore universitario appena pensionato che decide di scrivere un saggio divulgativo sul tifo calcistico, a partire dalla raccolta delle “chiacchiere da bar” (bar e pub sono da sempre luoghi chiave di celebrazione dei rituali dialettico-calcistici) e delle narrazioni di tifosi di ogni età e ceto. Vuole finalmente capire il professore, andare a fondo, superare la sua incapacità di comprendere a pieno il senso del tifo, il suo scetticismo agnostico e un po’ snob nei confronti del coinvolgimento viscerale dei tifosi, del loro subbuglio emotivo di fronte a cose in fondo banali, come una vittoria o una sconfitta in una partita di pallone. In una delle sue conversazioni col proprietario del bar che ha scelto per la sua indagine il professore dirà: «Io una cosa continuo a non capire. Molti di questi sono colti, raffinati (i tifosi, N.d.A.). Gente intelligente, che fa lavori impegnativi e di alta responsabilità. Non possono non rendersi conto di quanto non valga la pena di soffrire tanto, nel tessuto di un’esistenza che riserva comunque avversità nella professione, nei rapporti sociali, nelle relazioni familiari. Il passatempo, perché di passatempo si tratta, dovrebbe essere un’isola felice, un luogo dell’anima in cui ci si rifugia proprio per non soffrire. Ma perché offrirsi a qualcosa che ti può far stare male?».

E Peppe, il barista, dopo averci pensato un po’ risponde: «Ma tu, Professo’, proprio tu che hai tanto studiato le persone e quello che provano, non puoi sottovalutare la passione».

«In che senso?».

«Nel senso che secondo me è sbagliata la prospettiva. Tu non devi guardare quello che la gente ha nella vita, quindi i dolori, le avversità, le sofferenze, ma quello che non ha. O che non ha abbastanza».

«Cioè?».

«L’entusiasmo. Lo scoppio di una gioia imprevista e improvvisa. E soprattutto la condivisione: abbracciarsi urlando, saltellare tenendosi per mano, inveire insieme, perfino scoppiare a piangere uno sulla spalla dell’altro. Tu citami quante volte, nella normale vita di un adulto contemporaneo, ti può capitare, se escludi il pallone».

Bill Shankly, il leggendario allenatore del Liverpool degli anni ’60, disse una volta: “Alcune persone credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Sono basito da questa cosa. Posso assicurarvi che il calcio è molto molto di più di questo”.

Decisione storica. Cosa cambia con l’addio alla regola del gol in trasferta abolita dall’Uefa dopo 56 anni. Giovanni Pisano su Il Riformista il 24 Giugno 2021. Semifinale Champions League 2008.09: il gol di Iniesta nei minuti finali di Chelsea-Barcellona consente ai blaugrana di pareggiare (1-1) e ottenere il pass per la finale dopo lo 0-0 dell’andata. Sarà l’effetto Superlega (poi sfumata) e l’esigenza di portare novità nelle competizioni europee, fatto sta che la Uefa ha abolito dopo ben 56 anni la regola del gol in trasferta. Una decisione storica con il Comitato Esecutivo Uefa che ha approvato la proposta a partire dalle qualificazioni alle competizioni europee (Champions League ed Europa League) della stagione 2021/22.

Cosa cambia con l’abolizione della regola del gol in trasferta. Con la decisione di eliminare la regola del gol segnato fuori casa, i pareggi tra due squadre che segnano lo stesso numero di gol nelle due sfide non verrebbero decisi sul numero di reti segnati in trasferta, ma alla fine si giocherebbero due tempi supplementari di 15 minuti. Nel caso in cui le squadre segnino lo stesso numero di gol o nessun gol durante i supplementari, i calci di rigore determinerebbero la squadra che si qualifica alla fase successiva della competizione. Poiché i gol in trasferta non avrebbero più un peso aggiuntivo per decidere un pareggio, verrebbero rimossi anche dai criteri utilizzati per determinare la classifica quando due o più squadre sono a parità di punti nella fase a gironi, ovvero i criteri applicati alle partite giocate dalle squadre in questione. Non verrebbero rimossi dai criteri aggiuntivi applicati a tutte le partite del girone se le squadre rimangono con gli stessi punti (maggiore numero di gol in trasferta segnati in tutte le partite del girone), al fine di mantenere un numero massimo di criteri sportivi. “È giusto dire che il vantaggio in casa oggi non è più così significativo come una volta”, ha dichiarato Aleksander Ceferin, presidente Uefa. “Prendendo in considerazione la coerenza in tutta Europa in termini di stili di gioco e molti fattori diversi che hanno portato a un calo del vantaggio casalingo, il Comitato Esecutivo Uefa ha preso la decisione corretta nell’adottare l’opinione che non sia più appropriato per un gol in trasferta per portare più peso di uno segnato in casa. La regola dei gol in trasferta -aggiunge – è stata una parte intrinseca delle competizioni Uefa da quando è stata introdotta nel 1965. Tuttavia, la questione della sua abolizione è stata dibattuta in vari incontri negli ultimi anni. Sebbene non ci sia stata unanimità di opinioni, molti allenatori, tifosi e altri attori del calcio hanno messo in dubbio la sua correttezza e hanno espresso la preferenza per l’abolizione della regola”. “L’impatto della regola ora va contro il suo scopo originale in quanto, di fatto, ora dissuade le squadre di casa – specialmente nell’andata – dall’attaccare, perché temono di subire un gol che darebbe agli avversari un vantaggio cruciale. Si critica anche l’ingiustizia, soprattutto nei tempi supplementari, di obbligare la squadra di casa a segnare due volte quando ha segnato la squadra ospite”, ha aggiunto.

Come funziona(va) la regola del gol in trasferta. La regola dei gol in trasferta è stata applicata per determinare il vincitore di un doppio pareggio a eliminazione diretta nei casi in cui le due squadre avessero segnato lo stesso numero di gol complessivamente nelle due partite. In tali casi, la squadra che aveva segnato il maggior numero di gol fuori casa veniva considerata la vincitrice e si qualificava al turno successivo della competizione. Se le due squadre avevano segnato lo stesso numero di gol in casa e in trasferta al termine dei tempi regolamentari del ritorno, si giocavano i tempi supplementari, seguiti dai calci di rigore se non veniva segnato alcun gol. Le statistiche dalla metà degli anni ’70 ad oggi mostrano una chiara tendenza alla continua riduzione del divario tra il numero di vittorie in casa/fuori (dal 61%/19% al 47%/30%) e il numero medio di gol a partita segnati casa/trasferta (da 2.02/0.95 a 1.58/1.15) nelle competizioni maschili, mentre dal 2009/10 la media gol a partita è rimasta molto stabile nella Champions League femminile con la media complessiva di 1.92 per le squadre di casa e 1.6 per squadre in trasferta. Si può ritenere, sottolinea la Uefa, che molti fattori diversi abbiano un impatto su questo calo del vantaggio nelle partite casalinghe. Migliore qualità del campo e dimensioni del campo standardizzate, migliore infrastruttura dello stadio, condizioni di sicurezza più elevate, maggiore cura dell’arbitraggio (e più recentemente l’introduzione di supporti tecnologici come GLT e VAR), copertura televisiva delle partite più ampia e sofisticata, condizioni di viaggio più confortevoli, un calendario compresso che favorisce il turnover della squadra e cambiamenti nei format delle competizioni sono tutti elementi che hanno influenzato la scelta e cancellato l’idea del vantaggio di giocare in casa e in trasferta.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Michel Platini. Tony Damascelli per "il Giornale" il 9 giugno 2021.  

Michel Platini, venerdì parte l'Europeo, il Suo europeo.

«Sì, spero sia bello, con un calcio divertente che piaccia alla gente». 

Nessuna malinconia? Nessun rancore? Nessuna rabbia?

«No, non ho quel tipo di problemi, non vivo di risentimento e di vendette. Ho voluto questa formula quando ero presidente dell'Uefa, ho cercato di accontentare tutti i tifosi». 

Ha ricevuto un invito dall' Uefa per presenziare alle partite?

«No».

Strano, per non dire vergognoso.

«Non sono stato invitato da nessuna federazione alla quale avevo riservato una sede del torneo».

Tra l'altro lei ha vinto l'edizione dell'Europeo in Francia, nel 1984.

«Se è per questo sono ancora il massimo goleador». 

Ma c' è un motivo per questa dimenticanza?

«Non lo so, non mi interessa più».

A pochi giorni dalla prima partita, è stata cambiata la regola del fallo di mano. Quale è la sua opinione?

«Per me il fallo di mano o è volontario o è involontario. Nessuna moviola, nessun Var può capire questo. C' è un arbitro, sta a lui vedere e decidere». 

Che cosa pensa della lotta tra Uefa e i membri della SuperLega?

Ride più volte: «Sì, mi fa ridere davvero. Da cinquant' anni i club vogliono cambiare la formula. I dirigenti c' erano quasi riusciti, poi c' è stata una reazione forte, dei tifosi e dei media e così il progetto è rientrato, per il momento. La gente e la stampa hanno fatto quello che l'Uefa non ha saputo fare, cioè tenere assieme tutti i club». 

Che idea si è fatto del progetto della SuperLega?

«Che i club hanno tutti i diritti di organizzarsi un loro torneo e di non partecipare alla champions o ad altre manifestazioni gestite da Uefa o Fifa. Del resto era stata l'Equipe ad avere avuto, sessant' anni fa, l'idea della coppa dei campioni che gli fu tolta appunto dall' Uefa». 

Ma è possibile un torneo ristretto a poche squadre?

«Io sono per la meritocrazia e non mi piace dunque che si possa giocare non per meriti ottenuti sul campo. Però è anche vero che quando venne proposta l'attuale nuova formula della champions league io votai contro, era il 1992». 

A proposito di contrasti tra Uefa e club: Ceferin ha detto che per lui Agnelli non esiste più. Può un presidente dell'Uefa fare una dichiarazione così grave?

«No. So che Agnelli e la Juventus esistono e continueranno ad esistere sempre. Ceferin passa». 

Il futuro del calcio dovrà fare i conti ancora con Uefa e Fifa?

«Questo sarà un argomento per un bel dibattito». 

Quale è il ruolo dei calciatori nel calcio di oggi?

«Accettano le regole, dovrebbero partecipare alla formulazione delle stesse». 

Perché sono scomparsi i registi alla Platini?

«Con il 4-4-2, il ruolo è lentamente svanito, si è persa la creatività del gioco». 

Non le piace, dunque, questo calcio?

«Mi piace moltissimo, oggi si gioca bene, la qualità generale è superiore a quella dei miei tempi, maggiore è la velocità ma, al tempo stesso, tutto è cristallizzato, quasi stereotipato, omologato, la tattica è importante, il tatticismo no». 

La Francia campione del mondo è favorita. Mourinho ha detto che avete almeno tre formazioni di alto livello.

«È una nazionale completa in ogni reparto. Mai visti, prima d' ora, otto attaccanti di tale livello a disposizione del cittì». 

Avete completato la maturazione, ventitré convocati di Deschamps giocano all' estero, ai suoi tempi questo non era immaginabile.

«Non esiste più l'estero, esiste l'Europa. È vero che giocando in campionati differenti si completa la propria esperienza». 

Quale è il suo pronostico, Francia a parte?

«Mi piace il Belgio, poi l'Italia mi sembra interessante, quindi l'Inghilterra». 

Prevede qualche sorpresa?

«Non posso prevedere nulla ma so che calciatori come Mbappé, Ronaldo, Hazard, possono cambiare, da soli, le sorti di una partita».

C' è una cosa che non rifarebbe?

«Rifarei tutto o forse, rifletterei su una sola cosa». 

Quale?

«Nel 1991 mi fu offerta la panchina del Real Madrid, mi ricoprivano di soldi. Non sentivo totalmente dentro di me l'amore per il ruolo di allenatore. Scelsi di assumere il ruolo di copresidente del comitato organizzatore del campionato del mondo». 

In verità provò a fare l'allenatore della nazionale francese.

«Lo feci per dovere nei confronti della federazione che mi chiese di occuparmi della squadra». 

Che cosa farà da grande?

«Voglio continuare a prendere il tempo. Dai sedici ai sessant' anni ho girato il mondo, sono stato sempre in movimento, attorniato da tifosi e compagni di squadra e dirigenti. Oggi faccio quello che desidero, vivo una vita normale, passeggio, frequento gli amici, non sono ossessionato da nulla». 

Cassis, il mare, la vita dolce.

«No, amo il sole più del mare, sono tornato nella mia casa di sempre, da quarant' anni Cassis è la mia dimora». 

Sente ancora l'affetto della gente?

«In Francia sicuramente, verrò in Italia nei prossimi mesi e so di ritrovare le stesse passioni di sempre».

A parte la nostalgia, il mondo del calcio l'aspetta ancora.

«Lo so, molti ex compagni e colleghi e presidenti, mi chiedono di tornare. Mi aspettano».

Non come Godot..

«Devo pensarci, ho il tempo per riflettere e fare poi qualcosa che possa servire al calcio».

Fabiana Della Valle per gazzetta.it il 4 giugno 2021. “La Superlega non è stato un tentativo di un colpo di stato, semmai un grido d’allarme disperato di un sistema che s’indirizza verso l’insolvenza”. Andrea Agnelli parla per la prima volta di Superlega e lo fa senza giri di parole, ribadendo la necessità di riforme delle competizioni ma lasciando aperta la porta per un dialogo con Uefa e Fifa. L’occasione è l’addio di Fabio Paratici, che il presidente della Juventus ha voluto salutare con una conferenza stampa in grande stile, ma l’argomento è troppo importante e d’attualità per non essere affrontato. “Vorrei affrontare tre temi importanti ma senza rispondere ad alcuna domanda - esordisce -. Per molti anni ho cercato di cambiare le competizioni dall’interno, con la Uefa e con l’Eca, anche perché i segnali di crisi erano evidenti prima del COVID. Quella Eca-Uefa del 2019 era già un’ottima proposta, sostenuta da club di Subvision 2,3 e 4. Il sistema attuale riserva alla Uefa un’esclusiva ormai inefficiente. Il progetto Superlega è stato fin da subito condizionato alla preventiva approvazione da parte della Uefa. Da subito i club hanno cercato un dialogo e la collaborazione, ma la risposta è stata di totale chiusura, con dichiarazioni arroganti che hanno esercitato indebite pressioni su alcuni e con richieste di esclusioni per i tre club che non si sono voluti piegare. Peraltro in totale spregio del tribunale di Madrid. Non è con questi comportamenti e con questi esponenti che si riforma il calcio. Conosco tanta gente in Uefa e so che non tutti la pensano così. Le basi legali dei ricorsi sono fondate ma il desiderio di dialogo con Uefa e Fifa è immutato. Gli altri sport ci indicano la via, come il basket. Juventus, Real Madrid e Barcellona sono determinate a raggiungere una riforma delle competizioni, lo facciamo anche per i club che ci hanno mostrato solidarietà”.

ANNO POSITIVO—   Agnelli ha parlato anche dell’ultima stagione: “Vorrei ringraziare Pirlo e tutto il suo staff, Baronio, Gagliardi, Tudor e Bertelli perché io non vedo come un fallimento una stagione con due trofei e l’accesso Champions. Se così è, siamo disposti a fallire spesso. E’ stato un positivo ma difficile da cui tutti dobbiamo saper imparare per gli errori che sono stati commessi”.

MAX A LUNGO TERMINE—   Infine il ritorno di Allegri: “Voglio sottolineare la determinazione e la voglia che hanno lui e lo staff di ributtarsi sul campo, che ci rende estremamente felici. E’ un’avventura di lungo periodo, di programmazione e crescita continua. Quanto all’area sportiva, quando la riorganizzazione sarà completata ci vedremo per una nuova conferenza”.

COME HA FATTO INFANTINO A DIVENTARE PRESIDENTE DELLA FIFA? Da ilnapolista.it il 15 dicembre 2021. “Come ha fatto Gianni Infantino a diventare presidente della Fifa?”. È una domanda che la Süddeutsche Zeitung si pone da un bel po’. Il giornale tedesco non molla, indaga da mesi sulla repentina ascesa al vertice del potere del calcio di Infantino. E scrive del legame evidente tra Infantino e l’inchiesta che ha di fatto decapitato il ticket Blatter-Platini. In un lungo articolo, frutto di un’inchiesta in combinata con Le Monde, oggi scrive di una lettera-chiave. “Alla fine di maggio 2015, il vecchio sistema calcistico è esploso a Zurigo quando i pubblici ministeri federali e la magistratura statunitense stavano indagando sulla corruzione della Fifa. Il successore di Blatter era già stato concordato: sarebbe subentrato Michel Platini. Era dato per scontato. Ma una lettera del procuratore federale svizzero ha segnato l’inizio della fine di Platini, e l’inizio dell’ascesa di Infantino”. “Come suggeriscono più che mai i nuovi documenti, questa riorganizzazione è strettamente collegata a un avventuroso pasticcio giudiziario”. “Da più di tre anni, il misterioso rapporto tra la Procura di Berna e la Fifa solleva nuovi interrogativi. Sono ormai famosi i tre incontri segreti tra Infantino e Michael Lauber, all’epoca capo del procuratore federale Thormann, nel 2016 e nel 2017. La continuazione di quella bizzarra vicenda è costata al procuratore federale Lauber il suo lavoro nel 2020”. Secondo la Süddeutsche nel 2015, quando l’addio di Blatter e l’ascesa di Platini erano certi, ogni funzionario di federazione nel mondo del calcio sapeva cosa avrebbe significato la salita di Platini per Infantino. All’epoca era segretario generale dell’Uefa sotto Platini: il suo capo ai vertici della Fifa avrebbe significato la fine dei suoi sogni di carriera. “Platini aveva pianificato una Fifa senza Infantino, era diventato sospettoso”. Ma improvvisamente, il 25 settembre 2015, esce fuori l’indagine svizzera che coinvolge Blatter e Platini. La BA di Berna ha aperto un procedimento penale e il comitato etico della Fifa ha immediatamente bandito i due boss del calcio. “La carriera di Blatter era comunque finita: il vero perdente era Platini”. “Nel febbraio 2016 ha vinto le elezioni Fifa, anche attraverso una costosa campagna che è stata finanziata dalle casse dell’Uefa. Quello che nessuno sospettava all’epoca è che un vecchio amico d’infanzia di Infantino aveva lavorato a lungo in background al BA di Berna: Rinaldo Arnold, pubblico ministero nel Vallese, il cantone di origine di Infantino. Fu Arnold che organizzò il suo primo incontro con Lauber dopo l’elezione di Infantino”. I pezzi del puzzle – scrive il giornale tedesco – sono stati messi insieme pezzo per pezzo per mesi. “E’ stato Infantino a far esplodere la bomba Blatter-Platini attraverso il suo amico d’infanzia alla Procura di Berna? Entrambi hanno sempre negato con veemenza”.

Da ilnapolista.it il 23 giugno 2021. Per capire chi è Ceferin “basta guardare la pubblicità sui tabelloni che circondano i terreni di gioco del Campionato Europeo”. Nel pieno della crisi diplomatica sullo stadio arcobaleno negato dalla Uefa a Monaco “perché il calcio deve restare neutrale”, anche l’Ungheria (avversario su quel campo della Germania) ha appena votato una legge dichiaratamente discriminatoria e omofoba, la stampa tedesca torna sul ruolo del presidente dell’Uefa. Per mettere un po’ di puntini sulle i, mentre per il resto della stampa continentale in questi mesi Ceferin è passato come il salvatore del calcio tradizionale. La Faz gli dedica un pezzo nel quale lo definisce “uno squalo che nuota tra gli squali”. Il che è una nota abbastanza palese, ma sono in pochi a ricordarlo. “Quando è finita la finale degli Europei nel 2016 a Parigi, Aleksander Ceferin, avvocato di Lubiana, era presidente della Federcalcio slovena – scrive il giornale tedesco -. Nel mondo del business calcistico mondiale, non proprio povero di personaggi coloriti, di lui non si parlava. Ben altri hanno giocato per anni nella Superlega dei dirigenti: Joseph Blatter, Michel Platini, Franz Beckenbauer, Witali Mutko, Gianni Infantino. Nell’autunno 2016, tuttavia, quando l’Uefa stava cercando un successore di Platini, Ceferin, all’epoca 49 anni, è entrato in scena. Chi si chiedeva quanto sarebbe durato al timone della Uefa nuotando tra gli squali, ha avuto la sua risposta”. La Faz sottolinea che Ceferin “ha soppresso la Superlega, l’ha sfilettata secondo tutte le regole dell’arte della politica associativa. Il capolavoro di Ceferin è culminato nel suo autoritratto come il salvatore del gioco. Un monopolio miliardario spacciato per attivismo di base. Chiunque conosca il business ha compreso la farsa. È diventato chiaro che uno squalo nuota tra gli squali. Il Campionato Europeo di calcio, in cui non passa giorno senza che la Uefa non prenda decisioni quantomeno discutibili, mostra quali alleanze Ceferin sta forgiando per rimanere in gioco”. “Sta corteggiando Vladimir Putin, Viktor Orbán e Ilham Aliyev, e la Uefa ora sta facendo una parte importante dei suoi affari in Cina. Con Ceferin, la Uefa è in una posizione comoda per comandare il suo gioco di potere contro gli inglesi e il loro graal calcistico a Wembley”. In soldoni, Ceferin ha messo sotto pressione Boris Johnson e infatti ieri Londra ha detto che ci saranno 60mila spettatori a Wembley per la finale, altrimenti c’è sempre Budapest pronta. La Faz scrive anche il listino dei “prodotti” Uefa è in concorrenza a quello altrettanto ricco della Fifa di Infantino. La quale sta pensando ad un Mondiale ogni due anni. “Uno scenario allarmante quasi quanto la Superlega. Aleksander Ceferin reagirà. E quando lo farà… farà molto male”.

Da gazzetta.it il 6 giugno 2021. In un’intervista rilasciata al sito sofoot.com, il presidente della Uefa Aleksander Ceferin è tornato sul caso Superlega, attaccando nuovamente Andrea Agnelli: “Ai miei occhi, quest’uomo non esiste più. Pensavo fossimo amici, ma mi ha mentito in faccia fino all’ultimo minuto dell’ultimo giorno, assicurandosi che non ci fosse nulla di cui preoccuparsi. Mentre il giorno prima aveva già firmato tutti i documenti necessari per il lancio della Superleague” ha detto Ceferin. “Onestamente, non sapevamo esattamente cosa stesse succedendo - ha proseguito il n.1 della Uefa -. Di tanto in tanto abbiamo ricevuto minacce di scissione, documenti sull’argomento trapelati... Ma non l’abbiamo preso molto sul serio. Agnelli, allora presidente di ECA, era un membro del nostro comitato esecutivo e ci assicurava continuamente che non c’era davvero nulla di cui preoccuparsi. Tanto più che da parte nostra avevamo organizzato diversi incontri con i club per presentare loro la nuova riforma della Champions, riforma votata dai dodici club ribelli. Tranne che il giorno dopo, hanno rivelato il loro progetto spettrale. Se non avevo sospetti? Quando le persone nel tuo ufficio ti giurano: “No, no, sono tutte stronzate”, è difficile non credergli...”. “E’ stata una lotta sociale ed è proprio per questo che le reazioni sono state così brutali - ha concluso Ceferin -. Dodici miliardari hanno il diritto di privarci del nostro sport? I soldi comprano tutto? Il calcio è più di un semplice gioco, è parte integrante delle nostre nazioni, culture e società. Ecco perché la loro lettura della situazione era completamente sbagliata. Dopo gli ho chiesto: “Come avete fatto a non capire che stavate camminando nella merda?” Voglio dire, con tutti i loro consiglieri, tutti i soldi che questi club possono raccogliere... Infine, penso che sia una buona cosa che sia successo tutto questo, perché la minaccia che aleggiava nell’aria è scomparsa e ora sarà più facile parlare di meccanismi di solidarietà con questi club. Abbiamo avuto una dura lotta, sono state 48 ore pazze, ma ora è chiaro: non ci riproveranno. Per i prossimi 10-15 anni stiamo tranquilli. Poi, non si sa mai. Ma a quel punto io non sarò più nel calcio”.

Alessio Pediglieri per fanpage.it il 9 giugno 2021. Il Paris Saint Germain è al centro delle manovre di mercato come nessun altro top team europeo. A Parigi sembra non esserci stata pandemia, nessun rimbalzo negativo sulle casse e sulle entrare, il deficit e i problemi riscontrati da tutti gli altri club continentali, non ha casa nel Psg. Lo dice il calciomercato attuale in cui ci si appresta ad un investimento ulteriore plurimilionario pur di prelevare i giocatori ritenuti più congrui al progetto che resta in mano a Mauricio Pochettino. I nomi sono importanti e tra i più costosi in circolazione: da Hakimi, a Donnarumma e Wijnaldum. Senza dimenticare i movimenti interni, al rialzo, di giocatori che non si vogliono perdere come il nostro Moise Keane ma soprattutto come la stella Kylian Mbappè.

Donnarumma, affare da 80 milioni. Il PSG sarebbe pronto a compiere l'affondo decisivo per Donnarumma per una trattativa che sulla carta costerebbe 80 milioni di euro. Un contratto faraonico al portiere della Nazionale italiana, da 12 milioni l'anno per cinque stagioni. In più il pagamento delle commissioni di Mino Raiola, l'agente che ha messo sul piatto un rendiconto personale da 20 milioni di euro.

Per Wijnaldum, stipendio da 9 milioni. Cifre che oggi nessun altro club d'Europa può sostenere dopo la pandemia e il crollo delle entrate da oramai due stagioni. Ma il presidente del PSG, Al Khelaifi, sembra godere di finanze inesauribili, anche a fronte dello stop del FFP da parte dell'Uefa di Ceferin causa Covid, e non ci si ferma solamente a Donnarumma. In porto dovrebbe arrivare anche l'acquisto di un altro giocatore costoso: Georgino Wijnaldum che oramai è un nuovo giocatore di Pochettino. Per il 30enne olandese dal Barcellona, un biennale da 9 milioni a stagione (il doppio di quanto prendesse in Catalogna).

La trattativa con l'Inter per Hakimi. Si tratta anche sul fronte difensivo, con Akhraf Hakimi sempre sul taccuino dei parigini: la trattativa con l'Inter è aperta e le cifre si conoscono: 70 milioni la richiesta dei nerazzurri. Un importo che non sembra spaventare il PSG attratto dall'idea di inserire nel proprio scacchiere l'esterno marocchino, tra i migliori in assoluto in Serie A.

Neymar ha rinnovato, si lavora per Kean. Il discorso cambia di poco per Neymar: la stella brasiliana resterà al centro del programma con un rinnovo già concordato che vedrà il brasiliano incassare 36 milioni all'anno (in confronto agli attuali 28,5) fino al prossimo giugno 2025. Un accordo ratificato e concluso nei giorni scorsi e nei prossimi potrebbe arrivare anche quello di Moise Keane che tanto bene ha fatto in stagione: al momento guadagna "solamente" 3 milioni, è in prestito dall'Everton ma l'intenzione è riscattarlo.

Obiettivo blindare Mbappè con una super Team. L'obiettivo è preparare una squadra che non abbia più punti deboli, si possa ulteriormente rinforzare e che sia da garanzia al vero obiettivo di Leonardo e di Al Khelaifi: trattenere la stella delle stelle, Mbappè, evitando possibili mosse esterne e offerte importanti. Per il campione del Mondo della Francia l'attuale termine è giugno 2022 ma subito dopo gli Europei ci sarà il confronto. La volontà del giocatore è restare in Patria, con il più titolato club nazionale e per farlo ci sarà un rilancio importante: il Psg è pronto a pagarlo fino a 40 milioni a stagione per strappare il rinnovo.

Da goal.com il 9 giugno 2021. Il presidente del massimo organo continentale, Aleksander Ceferin, ha tessuto le lodi di Nasser Al-Khelaifi, numero uno del PSG che non ha aderito alla Superlega. "Siamo sostenuti dalla grande maggioranza dei club, compresi dei giganti che rispettano il calcio, la sua storia e i suoi principi. Io li ringrazio. Nasser in primis, grazie dal profondo del mio cuore. Dimostri di essere un grande uomo, rispetti il calcio e i valori". Ringraziamenti estesi ai rappresentanti di Bayern Monaco, Lione e Siviglia. "Gli stessi complimenti vanno a Karl-Heinz Rummenigge, un fantastico presidente onorario dell'ECA, e a Jean-Michel Aulas che è arrivato oggi. Grazie anche a Jose (presidente del Siviglia, ndr). I vostri tifosi sono fortunati ad avervi".

Matteo Spaziante per calcioefinanza.it il 9 giugno 2021. L’Uefa ha ufficialmente sospeso il procedimento sanzionatorio contro Juventus, Real Madrid e Barcellona per il progetto Superlega. “A seguito dell’apertura di un procedimento disciplinare contro FC Barcelona, Juventus FC e Real Madrid CF per una potenziale violazione del quadro normativo UEFA in relazione al progetto della cosiddetta “Superlega”, la Commissione di Appello UEFA ha deciso di sospendere il procedimento fino a nuovo avviso”. Lo ha reso noto l’Uefa. Lo scorso 25 maggio, infatti, la federcalcio continentale aveva spiegato: “A seguito di un’indagine condotta dagli ispettori Ethics e Disciplinary della UEFA in relazione al cosiddetto progetto “Superlega”, è stato avviato un procedimento disciplinare contro Real Madrid CF, FC Barcelona e Juventus FC per una potenziale violazione del quadro giuridico della UEFA”. Nei giorni scorsi, UEFA e FIFA hanno ricevuto una notifica ufficiale da parte del Ministero di Giustizia svizzero che impedirebbe alle due federazioni di emettere sanzioni contro i club “ribelli”. Una situazione che nasce dalla decisione del Tribunale di Madrid che si era espresso, lo scorso 20 aprile (subito dopo il lancio del progetto Superlega) con una misura cautelare che proibiva a Uefa e Fifa di bloccare il lancio della Superlega. Inoltre, Uefa e Fifa, secondo il tribunale di Madrid, non potranno imporre sanzioni a club e giocatori fino a quando il caso non sarà preso interamente in considerazione.

L'Uefa scrive alla Juventus: "Siete ammessi alla Champions". Domenico Marchese su La Repubblica il 15 giugno 2021. Il massimo organismo europeo ha comunicato al club bianconero la partecipazione alla prossima edizione della coppa più prestigiosa, chiudendo un contenzioso che si preannunciava lungo e ricco di insidie per entrambe le parti in causa. La Juventus prenderà parte alla prossima edizione della Champions League. La lettera ufficiale inviata dalla Uefa lo scorso 14 giugno, e che ha di fatto ammesso la società bianconera alla competizione 2021/22, chiude un contenzioso che si preannunciava lungo e ricco di insidie per entrambe le parti in causa. La lunga querelle iniziata con la creazione della Superlega, e proseguita con le posizioni intransigenti delle parti in causa, da un lato Juventus, Barcellona e Real Madrid (la lettera è arrivata anche alle due spagnole) e dall'altra la Uefa e Ceferin, è finalmente conclusa: il dialogo, passo successivo dopo le schermaglie delle ultime settimane, sarà la strada che percorreranno tutti per arrivate alla conclusione definitiva del "conflitto".

Procedimento bloccato. Il 9 giugno la Uefa aveva bloccato il procedimento in corso contro le tre società "ribelli", Juventus, Barcellona e Real Madrid, con una nota pubblicata sul sito del massimo organismo europeo, garantendo di fatto la partecipazione delle tre squadre alla prossima Champions League. Inizialmente era sembrata una scelta dettata dall'attesa sul giudizio del Tribunale di Madrid, che aveva intimato la sospensione di qualunque procedimento disciplinare contro le tre società ancora dentro la Superlega: con l'ammissione è stata disinnescata anche la minaccia di sanzioni quali l'esclusione dalle prossime edizioni della massima competizione europea per club.

Spazio al dialogo. Non solo, visto che con l'ammissione viene a cadere anche il pressing della Figc, che attraverso le parole del presidente Gravina aveva chiesto alla Juventus, come condizione per l'iscrizione al campionato, l'addio alla Superlega: impossibile, secondo il regolamento, consentire la partecipazione alla Champions e l'esclusione dal campionato nazionale. Spazio quindi al dialogo, alle trattative per una riforma del calcio necessaria per garantire la continuità anche nei prossimi anni, nonostante il duro colpo subito dalla pandemia e dalle spese spesso incontrollate da parte delle società. 

Da gazzetta.it. Una multa da 20 milioni di sterline complessive, circa 23 milioni di euro, da pagare alla Premier League per cancellare la parentesi Superlega. È l’intesa che sarebbe stata raggiunta dai sei club inglesi che avevano aderito alla nuova competizione internazionale -Arsenal, Chelsea, Liverpool, Manchester City, Manchester Utd e Tottenham - equivalente a una media di meno di 4 milioni di euro per ogni società, anticipata da Sky News Uk. Una sorta di “patteggiamento” rispetto a sanzioni che secondo le fonti riportate sarebbero potute arrivare a oltre 20 milioni di sterline e 30 punti di penalizzazione in Premier League, attenendosi piuttosto al livello fissato dalle sanzioni già imposte dalla Uefa, che ha annunciato un pacchetto di “misure di reintegrazione” per i nove club che si sono ritirati dalla Superlega, compresi Inter e Milan, che avevano accettato di pagare un totale di 15 milioni di euro da investire nel calcio infantile, giovanile e di base, con il 5 per cento dei loro ricavi dalle competizioni Uefa per club trattenuto per una stagione. Avevano anche accettato sanzioni future molto superiori fino a 150 milioni di euro in caso di recidiva. A differenza delle multe Uefa, le sanzioni della Premier League sono in contanti e non una percentuale degli introiti televisivi della prossima stagione: non è noto se queste sanzioni pecuniarie verranno ridistribuite o meno tra gli altri 14 club di massima serie. A differenza dei nove club pentiti, formalmente Juventus, Real Madrid e Barcellona non si sono ancora ritirati dalla Superlega e sono sotto investigazione da parte delle istituzioni calcistiche col rischio di esclusione dalle coppe.

Fabio Pavesi per ilfattoquotidiano.it il 7 giugno 2021. Debiti che superano costantemente i ricavi; perdite plurimilionarie che si susseguono anno dopo anno; flussi di cassa azzerati. Se fosse un’azienda normale avrebbe già portato i soldi in Tribunale. Non è così per l’industria del calcio italiano che vive da anni sul filo del rasoio. Bilanci scassati (con pochissime eccezioni, Atalanta e Napoli in particolare) affidati alle magie del calciomercato e delle plusvalenze sullo scambio dei giocatori come unico salvagente a rattoppare in parte i conti disastrati. Con in mezzo il ruolo opaco di quel manipolo di agenti e procuratori di allenatori e calciatori che fanno il bello e il cattivo tempo nel gioco ambiguo del calciomercato. Di tutto questo si occupa Report in un’inchiesta sull’affaire miliardario di quell’industria particolare che è il calcio professionistico nella puntata che andrà in onda lunedì sera su RaiTre. Basta sfogliare i bilanci delle squadre per capire che si è di fronte a un enorme gigante dai piedi d’argilla. Un’azienda malata, da anni, con il Covid che ha solo aggravato una situazione da punto di non ritorno. Come documenta l’ultimo report annuale della Figc e di Pwc sul calcio italiano professionistico (serie A B e C) nelle ultime 5 annate dal 2014 al 2019, quindi pre-Covid, le perdite cumulate sono state di 1,6 miliardi. L’ultima annata, il 2018-2019, ha visto perdite per le tre serie professionistiche di 395 milioni su ricavi totali di 3,85 miliardi. Ogni 100 euro incassati 10 diventano perdite secche. Solo i ricchi stipendi di calciatori e allenatori si mangiano in media il 60% dei ricavi, e gli ammortamenti annui dei calciatori sono costi per quasi un miliardo. Dai diritti tv arriva il grosso del fatturato, circa 1,4 miliardi l’anno. Con i ricavi da biglietti che anche in era pre-Covid valgono ormai meno del 10% delle entrate, l’altra gamba dei ricavi dopo i diritti televisivi sono proprio le plusvalenze da calciomercato che solo nel 2018-2019 sono state di ben 753 milioni. Spesso solo numeri contabili dato che con gli incroci di scambio tra club su valori spesso artificiosi, soldi veri in cassa non entrano. Sono, in virtù degli acquisti e cessioni concordate tra club, solo numeri scritti a bilancio. Transazioni figurative che gonfiano i ricavi in modo fittizio, quel tanto che basta a evitare una Caporetto definitiva. Senza quei ricavi aggiuntivi lo sprofondo del calcio italiano varrebbe ogni anno oltre un miliardo di euro, rendendo la situazione debitoria ancora più grave. Già, i debiti: l’altro macigno che incombe sulle squadre. I debiti cumulati, saliti a quota 4,6 miliardi nella stagione 2018-2019 superano ampiamente i ricavi complessivi fermi a 3,8 miliardi. Poche aziende si possono permettere debiti superiori ai fatturati senza fallire. E la stagione che si è appena chiusa ha visto i debiti salire ancora verso quota 5 miliardi. Un peso insostenibile, dato che non ci sono utili e flussi di cassa tali da poter pensare a un futuro rimborso di così tanta esposizione finanziaria. Sono tra l’altro proprio i grandi club ad avere i bilanci peggiori. E non a caso la suggestione SuperLega con una torta più ricca di ricavi da spartire su pochi club in un circolo chiuso, ha subito ammaliato le regine storiche del campionato Juve, Inter e Milan. I tre ex-scissionisti più la Roma vedono un saldo delle perdite complessive della stagione pre-Covid che sfiora i 600 milioni con debiti netti finanziari che valgono quasi 1,4 miliardi. L’Inter ha sì vinto lo scudetto, ma ha a che fare con una proprietà che continua a indebitarsi pur di mantenere il controllo della squadra. Il fondo Oaktree ha appena prestato 275 milioni alla controllante del club Great Horizon che li girerà all’Inter. Buoni solo per sanare il pregresso (leggi stipendi arretrati) e per tentare di chiudere il bilancio della stagione 20/21 con perdite minori dei 102 milioni di passivo della stagione 19/20. Da quei 275 milioni del prestito del fondo californiano, che ha in pegno tutte le azioni di Great Horizon, la scatola lussemburghese che governa con il 68% del capitale sul club nerazzurro, vanno tolti i 33 milioni per liquidare LionRock. Ne restano 240 che servono a tappare i buchi contabili del recente passato. A forza di indebitarsi per restare al timone dell’Inter Suning si è cacciata in un cul de sac. I cinesi si sono imbottiti di debiti che devono essere onorati. Tra soli 3 anni dovranno reperire 275 milioni di liquidità per rimborsare il debito con Oaktree, cui si aggiungono nel frattempo gli interessi da capogiro. Si parla di un 9% annuo che fa lievitare la sola spesa per interessi nel triennio a oltre 72 milioni. E così per non farsi pignorare l’Inter dal fondo Usa gli Zhang devono reperire da oggi e in soli 36 mesi una provvista liquida di 340 milioni di euro. Ma non finisce qui. Sotto Great Horizon c’è il club nerazzurro strozzato da quei 2 bond da 375 milioni totali che vanno ripagati entro dicembre 2022. Il totale dell’esposizione debitoria che Suning deve fronteggiare sopra e sotto il suo piccolo impero calcistico supera i 700 milioni. O l’intera conglomerata Suning in Cina esce inaspettatamente dalla sua crisi finanziaria e allora provvede a sanare il debito, oppure ci deve pensare l’Inter con i suoi flussi di cassa che non ci sono. Pensare che gli Zhang vadano a nuovi investimenti per rafforzare la squadra e aprire a un ciclo vincente duraturo in queste condizioni è dura. La prima esigenza del proprietario cinese sarà fare cassa il più possibile per fronteggiare i debiti. E tenere botta un altro po’ solo per passare la mano ai nuovi proprietari. Lo schema probabile è quello visto con il Milan, dove il fondo Elliot da prestatore di denaro è divenuto azionista dopo aver escusso il pegno sulle azioni. È l’exit strategy per gli Zhang che nell’avventura con l’Inter tra costi d’acquisizione, finanziamenti soci e aumenti di capitale hanno finora sborsato una cifra di gran lunga superiore ai 600 milioni. Soldi bruciati sull’altare della megalomania del calcio che da anni (non solo l’Inter) spende e spande accumulando debiti mostruosi. Per l’Inter i soli costi del personale (su cui regnano i fantastici stipendi di calciatori e allenatori) si mangiano tutti i ricavi. Nella stagione ’19-’20 il club nerazzurro ha speso in stipendi 198 milioni cui si aggiungono costi operativi per ben 118 milioni. Morale solo i costi diretti spesano 316 milioni, più del fatturato netto. Poi vanno tolti gli ammortamenti dei costosi cartellini che nella stagione scorsa per l’Inter hanno voluto dire altri 123 milioni di spese. Ecco che la voragine nei conti è servita. Se non da ieri e non solo per l’Inter la dinamica è quella, cioè costi che superano immancabilmente i ricavi, la striscia delle perdite è assicurata. Perdite che mangiano il capitale che nel caso dell’Inter è negativo e debiti a coprire i fabbisogni di cassa. Alla fine resta il calciomercato con la droga delle plusvalenze a mettere una pezza ai malandati conti. Ma è un circolo vizioso. Se vendi i migliori dopo una stagione vincente, solo per tamponare le perdite, poi tocca ricominciare daccapo. E l’addio di Conte (liquidato con 7,5 milioni di buonuscita) la dice lunga su quello che potrà accadere al club. La Juve chiude una stagione fallimentare. Niente scudetto dopo 9 anni e niente successi in campo internazionale, nonostante il fuoriclasse Ronaldo, costato tra prezzo d’acquisto e stipendi oltre 300 milioni, quasi l’intero fatturato di una stagione. I bianconeri chiuderanno quasi sicuramente ancora in perdita per il quarto anno consecutivo. La semestrale di fine anno evidenziava perdite nette per 113 milioni su 258 milioni di ricavi. Difficile ribaltare il risultato in sei mesi. Sul versante del player trading, il saldo della gestione calciatori è stato negativo per 52 milioni nell’ultima annata. Le plusvalenze nette da 140 milioni non sono bastate a coprire i costi di ammortamento dei cartellini pari a 193 milioni. La Juve siede su un debito finanziario netto di 357 milioni. Il Milan con la perdita attesa, secondo indiscrezioni attorno ai 100 milioni nella stagione appena conclusa, porta il suo passivo cumulato negli ultimi 4 anni a mezzo miliardo. I ricavi negli ultimi anni non sono mai bastati a contenere i costi. Quanto ai debiti netti nella stagione precedente c’era un’esposizione verso società di factoring per poco più di 100 milioni, cui però vanno sommati quelli verso il socio di controllo. L’indebitamento finanziario netto, come recita l’ultima relazione di bilancio disponibile, è di 250 milioni. La Roma sorvegliata speciale della Consob deve ogni mese comunicare al mercato la sua posizione debitoria. Ebbene ad aprile di quest’anno il debito finanziario netto era di ben 288 milioni di euro. Il club ha poi debiti commerciali scaduti saliti a 20 milioni. Per il nuovo socio l’americano Friedkin che ha rilevato il club da Pallotta le cose non si mettono bene. La semestrale della squadra chiusa a dicembre 2020 vede una perdita per 74 milioni su ricavi di soli 98 milioni. Di fatto la società AS Roma perde una cifra pari a quasi l’intero fatturato. I costi per 118 milio mandano in rosso i conti già a livello di margine lordo. Lo spaccato dei primi sei mesi non si discosta molto dall’andamento dei conti dell’ultimo anno. La Roma nella stagione scorsa ha chiuso il bilancio annuale con perdite per 200 milioni su soli 140 milioni di fatturato. Sostenere quasi 300 milioni di debito finanziario per una società che ha margine operativo lordo già negativo è impresa titanica. Vedremo cosa si inventerà il nuovo patron americano del club. Per ora gioca la carta dello Special One. Mourinho chiederà una squadra rinforzata e questo vorrà dire nuovi costi in più. In fondo il calcio è un’azienda alla rovescia. Prima spende e spande poi si preoccupa di cercare ricavi. Che sono aleatori. Davvero un mondo alla rovescia per l’intero industria del pallone e la Roma non fa eccezione.

(ANSA il 30 luglio 2021) Il tribunale di Madrid ha confermato l'obbligo dell'Uefa di cessare le azioni intraprese nei confronti dei club fondatori della European Super League, inclusi il procedimento disciplinare nei confronti di Juventus, Barcellona e Real Madrid e la rimozione delle penali e delle restrizioni imposte agli altri nove club per evitare il procedimento disciplinare di Uefa. Lo comunicano, in una nota congiunta, Barcellona, Juventus e Real Madrid, che si dicono "felici che, da ora in avanti, non saremo più oggetto delle attuali minacce della Uefa". E "fiduciosi nel successo di questo progetto, sempre rispettoso della normativa dell'Ue". Il Tribunale, informano Barca, Juve e Real, ha accolto la richiesta formulata dai promotori di European Super League, ha respinto il ricorso di Uefa e confermato l'intimazione a Uefa che, qualora quest'ultima non si conformasse alla decisione, ne scaturirebbero ammende e responsabilità penali. Il caso sarà valutato dalla Corte di Giustizia Europea, che analizzerà la posizione monopolistica dell'Uefa sul calcio europeo. "È nostro dovere occuparci dei gravi problemi che affliggono il calcio - sostengono Barca, Juve e Real -. Uefa si è accreditata come legislatore, operatore esclusivo e unico titolare riconosciuto dei diritti delle competizioni europee, nonché organizzatore. Questa posizione monopolistica e in conflitto d'interessi danneggia il calcio e il suo equilibrio competitivo. Come dimostrato ampiamente, i controlli finanziari sono inadeguati e sono stati applicati impropriamente. Ai club partecipanti alle competizioni europee dovrebbe essere garantito di governare le competizioni". "Siamo felici - si legge ancora nella nota congiunta - che, da ora in avanti, non saremo più oggetto delle attuali minacce della Uefa. Il nostro obiettivo è di continuare a sviluppare il Progetto di Super League in modo costruttivo e collaborativo, contando sul contributo di tutti gli stakeholders del calcio: tifosi, calciatori, allenatori, club, leghe e federazioni nazionali e internazionali. Siamo consapevoli del fatto che alcuni elementi della nostra proposta potrebbero essere rivisti e, naturalmente, potranno essere implementati attraverso il dialogo e il consenso. Rimaniamo fiduciosi nel successo di questo progetto che sarà sempre rispettoso della normativa dell'Unione Europea".

LA SUPER LEGA. DA ilnapolista.it il 2 settembre 2021. “Un mercato dei trasferimenti da paese calcisticamente marginale. Con un passato di gloria ormai remoto almeno quanto un futuro di ripresa. Con un presente di mediocrità trasformata in comfort zone”. E’ il giudizio tranchant che sul Domani Pippo Russo dà del calciomercato estivo condotto dai club italiani. Una finestra chiusa “mestamente”. “Poco denaro in circolazione, un fitto intreccio di scambi e prestiti, e gli ultimi pezzi di argenteria alienati come se fosse la stagione dei saldi. Una condizione che vista dall’esterno risulterebbe umiliante. E invece, da dentro la bolla d’irrealtà in cui la Serie A si è rinserrata, è percepita come la premessa di un rilancio. Che in queste condizioni non avverrà mai”. Russo parla anche di Mino Raiola: “che nell’estate della grande crisi ha rafforzato la propria morsa sul boccheggiante calcio italiano”. Di Cristiano Ronaldo scrive: “Se n’è andato via in modo persino offensivo. (…) L’atteggiamento scelto per congedarsi dalla Juventus e dal calcio italiano ha rasentato il disprezzo”.

Giulio Cardone per “la Repubblica”  l'1 settembre 2021. Il nostro è il campionato dei campioni d'Europa, d'accordo, ma il mercato finito ieri ci ha portato via tesori come Donnarumma - un'altra Gioconda che finisce a Parigi - e Lukaku, Hakimi e Ronaldo (alla Juve 15 milioni più 8 di bonus dallo United). In cambio, stelle non sono arrivate e abbiamo trattenuto a forza Vlahovic e Lautaro. È stato, anche, il mercato dei parametri zero di lusso (Alaba al Real è costato 30 milioni solo di commissioni) e dei prestiti biennali, in cui si inizia a pagare con calma, magari un anno dopo, come farà l'Inter per Correa, o addirittura due, come la Juve per Locatelli. In Europa si temeva un'estate povera, è successo di tutto: Messi che dopo 20 anni lascia il Barcellona, CR7 che torna allo United, lo sceicco del Psg che s' impunta e - pur di godersi Mbappé con Leo e Neymar - rifiuta i 200 milioni del Real per l'asso francese. Che a Madrid andrà gratis l'estate prossima: anche questo "no" è un record, insomma. I club inglesi hanno speso 1,3 miliardi di euro in trasferimenti (ieri l'Arsenal si è portato via Tomiyasu, al Bologna 20 milioni più di 3 di bonus) contro i 545 della Serie A, seconda tra i 5 campionati più importanti d'Europa. Terza la Bundesliga a circa 400, poi la Ligue 1 con 350, ultima la Spagna, in modalità austerity rigorosa, dal Barcellona in giù, con 250 milioni. Dopo le corazzate della Premier, dal Manchester City - suo l'acquisto record dell'anno, 117 milioni per Grealish - allo United, dal Chelsea di Lukaku alla sorpresa Aston Villa, il club che ha speso di è stata la Roma con 97 milioni, compresi i riscatti per Ibañez e Reynold. E Abraham, 40 milioni più 2 di bonus, è il colpo più caro in Italia. Subito dopo c'è il Milan, che ha comprato una squadra intera: 11 calciatori (c'è anche il riscatto di Tonali) per 80 milioni. L'ultimo, Elliott non l'avrebbe voluto per ragioni d'età: ha vinto Maldini, convinto che il trentenne Messias fosse il tassello mancante per lo scudetto. Che storia, quella del brasiliano: dalla D alla Champions in tre anni, da brividi. È stato un mercato complicato per l'Inter, costretta a vendere Lukaku e Hakimi. Marotta però ne è uscito benissimo: ha incassato 183 milioni e ne ha girati 45 per Correa - già decisivo appena arrivato dalla Lazio - e Dumfries. Con Dzeko e Çalhanoglu - grande idea per sostituire Eriksen - presi a zero, ha consegnato a Inzaghi un organico in grado di difendere il titolo. Come sempre da applausi l'Atalanta, capace di chiudere il mercato con un attivo di 21 milioni nell'estate in cui ne spende 20 per Musso e altri 27 totali per Lovato, Demiral, Zappacosta e Koopmeiners. Il segreto? Vendere Romero al Tottenham per 50 milioni. Nelle ultime ore, la Juve ha provato ad accontentare Allegri su Pjanic, niente da fare. Aveva ragione Chiellini, durante la partita con l'Empoli: «Questi sono». C'è un Kean in più, ma Allegri ha solo un modo per sopperire all'addio di Ronaldo: creare una Squadra con la "s" maiuscola. Il Napoli ha cambiato soltanto l'allenatore, in pratica, e non ha sciolto il nodo del rinnovo di Insigne, in scadenza 2022. Nell'ultimo giorno, la Lazio ha tenuto fede alla sua tradizione: la rincorsa quasi drammatica del colpo finale. Serviva un attaccante esterno, è arrivato Zaccagni in extremis dal Verona, dopo una trattativa più volte sul filo della rottura. È stato l'acquisto last minute che ha chiuso il mercato più sorprendente degli ultimi anni: Messi che lascia il Barcellona a costo zero, incredibile.

La notte che cambia il calcio europeo. Nasce la SuperLega: cosa può succedere adesso. Lucio Luca su La Repubblica il 19 aprile 2021. Florentino Perez e Andrea Agnelli, presidente e vicepresidente della SuperLeague. Il comunicato delle 12 squadre fondatrici diramato poco dopo la mezzanotte, Andrea Agnelli sarà vice presidente e si dimette dall'Eca. Uefa e Fifa: "Chi aderisce è fuori dai campionati nazionali e dai Mondiali". Il comunicato ufficiale arriva pochi minuti dopo la mezzanotte: "Dodici club europei di calcio annunciano congiuntamente un accordo per costituire una nuova competizione calcistica infrasettimanale, la Super League, governata dai Club Fondatori”. Una lunga nota che chiude – ma soltanto per ragioni di orario – una giornata a dir poco incandescente per lo sport più popolare del mondo. Quello che potrebbe sancire una spaccatura tra alcuni dei club più prestigiosi d’Europa, Uefa, Fifa e leghe nazionali.

Il comunicato: "AC Milan, Arsenal FC, Atlético de Madrid, Chelsea FC, FC Barcelona, FC Internazionale Milano, Juventus FC, Liverpool FC, Manchester City, Manchester United, Real Madrid CF e Tottenham Hotspur hanno tutti aderito in qualità di Club Fondatori – si legge nel comunicato notturno – È previsto che altri tre club aderiranno come Club Fondatori prima della stagione inaugurale, che dovrebbe iniziare non appena possibile. In futuro i Club Fondatori auspicano l'avvio di consultazioni con UEFA e FIFA al fine di lavorare insieme cooperando per il raggiungimento dei migliori risultati possibili per la nuova Lega e per il calcio nel suo complesso. La creazione della Super League arriva in un momento in cui la pandemia globale ha accelerato l'instabilità dell'attuale modello economico del calcio europeo. Inoltre, già da diversi anni, i Club Fondatori si sono posti l'obiettivo di migliorare la qualità e l'intensità delle attuali competizioni europee nel corso di ogni stagione, e di creare un formato che consenta ai top club e ai loro giocatori di affrontarsi regolarmente". Nella nota viene sottolineato che "la pandemia ha evidenziato la necessità di una visione strategica e di un approccio sostenibile dal punto di vista commerciale per accrescere valore e sostegno a beneficio dell'intera piramide calcistica europea. In questi ultimi mesi ha avuto luogo un ampio dialogo con gli stakeholders del calcio riguardo al futuro formato delle competizioni europee. I Club Fondatori credono che le misure proposte a seguito di questi colloqui non rappresentino una soluzione per le questioni fondamentali, tra cui la necessità di offrire partite di migliore qualità e risorse finanziarie aggiuntive per l'intera piramide calcistica".

Il progetto. Il format della competizione prevede "20 club partecipanti di cui 15 Club Fondatori e un meccanismo di qualificazione per altre 5 squadre, che verranno selezionate ogni anno in base ai risultati conseguiti nella stagione precedente; partite infrasettimanali con tutti i club partecipanti che continuano a competere nei loro rispettivi campionati nazionali, preservando il tradizionale calendario di incontri a livello nazionale che rimarrà il cuore delle competizioni tra club. "Il nuovo torneo annuale fornirà una crescita economica significativamente più elevata - prosegue la nota - ed un supporto al calcio europeo tramite un impegno di lungo termine a versare dei contributi di solidarietà senza tetto massimo, che cresceranno in linea con i ricavi della lega. Questi contributi di solidarietà saranno sostanzialmente più alti di quelli generati dall'attuale competizione europea e si prevede che superino i 10 miliardi di euro durante il corso del periodo iniziale di impegno dei club. Inoltre, il torneo sarà costruito su una base finanziaria sostenibile con tutti i Club Fondatori che aderiscono ad un quadro di spesa. In cambio del loro impegno, i Club Fondatori riceveranno un contributo una tantum pari a 3,5 miliardi di euro a supporto dei loro piani d'investimento in infrastrutture e per bilanciare l'impatto della pandemia Covid-19.

Le dichiarazioni dei promotori. Florentino Pérez, presidente del Real Madrid CF e primo presidente della Super League, dichiara: "Aiuteremo il calcio ad ogni livello e lo porteremo ad occupare il posto che a ragione gli spetta nel mondo. Il calcio è l'unico sport davvero globale con più di quattro miliardi di appassionati e la responsabilità di noi grandi club è di rispondere ai loro desideri". Sostenendo la nuova lega europea, Andrea Agnelli, presidente della Juventus e vicepresidente della Super League, ha detto: "I 12 Club Fondatori hanno una fanbase che supera il miliardo di persone in tutto il mondo e un palmares di 99 trofei a livello continentale. In questo momento critico ci siamo riuniti per consentire la trasformazione della competizione europea, mettendo il gioco che amiamo su un percorso di sviluppo sostenibile a lungo termine, con un meccanismo di solidarietà fortemente aumentato, garantendo a tifosi e appassionati un programma di partite che sappia alimentare il loro desiderio di calcio e, al contempo, fornisca un esempio positivo e coinvolgente". Joel Glazer, co-chairman del Manchester United e vicepresidente della Super League, ha aggiunto: "Mettendo insieme i più grandi club e giocatori del mondo ad affrontarsi per tutta la stagione, la Super League aprirà un nuovo capitolo per il calcio europeo, assicurando una competizione e strutture di prim'ordine a livello mondiale, oltre a un cresciuto supporto finanziario per la piramide calcistica nel suo complesso".

Il comunicato della Juventus: Andrea Agnelli si dimette dall’Eca. La Juventus, con una nota, ha confermato di aver aderito al progetto della Superlega. Nel comunicato, tra l'altro, la società bianconera precisa che "i club fondatori continueranno a partecipare alle rispettive competizioni nazionali e, fino all'avvio effettivo della Super League, Juventus ritiene di partecipare alle competizioni europee alle quali ha titolo di accedere". "I 12 club fondatori rappresentano milioni di tifosi in tutto il mondo – spiega il presidente della Juventus Andrea Agnelli - Ci siamo uniti in questo momento critico affinché la competizione europea si trasformi, dando allo sport che amiamo basi che siano sostenibili per il futuro, aumentando sostanzialmente la solidarietà e dando a tifosi e giocatori dilettanti un sogno e partite di massima qualità per alimentare la passione per il calcio". Andrea Agnelli è il vicepresidente della neonata Superlega. La Juventus, nel frattempo, è uscita dall'Eca, l'organismo che rappresenta 246 club leader in tutta Europa. Lo ha ufficializzato la società bianconera che precisa anche che "Andrea Agnelli si è dimesso dal ruolo di presidente dell'Eca e dall'esecutivo Uefa".

Le reazioni. Uefa, Federcalcio inglese e Premier League, Federcalcio spagnola reale (RFEF) e LaLiga, Federcalcio italiana (FIGC) e la Lega Serie A si schierano contro il progetto della Superlega. "Resteremo uniti nei nostri sforzi per fermare questo cinico progetto - si legge in una nota congiunta, e prenderemo in considerazione tutte le misure a nostra disposizione, a tutti i livelli, sia giudiziario che sportivo, al fine di evitare che ciò accada", minacciando i club e i giocatori di vietargli di partecipare alle competizioni internazionali. "Questo persistente interesse personale di pochi va avanti da troppo tempo. Quando è troppo è troppo". L'Uefa, le leghe e le federazioni "hanno appreso che alcuni club inglesi, spagnoli e italiani potrebbero aver intenzione di annunciare la loro creazione di una cosiddetta Superlega chiusa", si legge nella nota congiunta. "Se ciò dovesse accadere, ci teniamo a ribadire che noi - UEFA, FA inglese, RFEF, FIGC, Premier League, LaLiga, Lega Serie A, ma anche FIFA e tutte le nostre federazioni affiliate - resteremo uniti nei nostri sforzi per fermare questo cinico progetto, un progetto che si fonda sull'interesse personale di pochi club in un momento in cui la società ha più che mai bisogno di solidarietà". "Prenderemo in considerazione tutte le misure a nostra disposizione, a tutti i livelli, sia giudiziario che sportivo, al fine di evitare che ciò accada. Il calcio si basa su competizioni aperte e meriti sportivi; non può essere altrimenti", proseguono nel comunicato. "Come annunciato in precedenza dalla FIFA e dalle sei Federazioni, ai club interessati sarà vietato giocare in qualsiasi altra competizione a livello nazionale, europeo o mondiale, e ai loro giocatori potrebbe essere negata l'opportunità di rappresentare le loro squadre nazionali.  "Ringraziamo quei club di altri paesi, in particolare i club francese e tedesco, che si sono rifiutati di iscriversi a questo. Chiediamo a tutti gli amanti del calcio, tifosi e politici, di unirsi a noi nella lotta contro un progetto del genere se dovesse essere annunciato. Questo persistente interesse personale di pochi va avanti da troppo tempo. Quando è troppo è troppo", concludono Uefa, leghe e federazioni.

Cosa rischiano squadre e tesserati. I club che dovessero prendere parte alla Superlega verrebbero subito esclusi da tutti i tornei, campionati nazionali inclusi. Lo ha spiegato la Uefa, nella nota con Federcalcio inglese, Premier League, Federcalcio spagnola, Liga, Figc e Lega Serie A.C ome annunciato dalla Fifa e dalle sei federazioni, ai club interessati "sarà vietato di giocare in qualsiasi altra competizione a livello nazionale, europeo o mondiale e ai loro giocatori potrebbe essere negata la possibilità di rappresentare le loro squadre nazionali. Ringraziamo i club di altri paesi, in particolare i club francese e tedesco, che si sono rifiutati di sottoscriverlo. Esortiamo tutti gli amanti del calcio, dei tifosi e dei politici, a unirsi a noi nella lotta contro un progetto del genere, se dovesse essere annunciato. Questo persistente interesse personale di pochi va avanti da troppo tempo. Quando è troppo, è troppo".

Superlega: la Fifa "disapprova una lega separatista e chiusa". La  Fifa "non può che esprimere la sua disapprovazione per una 'lega separatista europea chiusa' al di fuori delle strutture calcistiche internazionali": lo afferma la Federazione internazionale del calcio commentando la decisione di 12 club europei di prima grandezza di costituire una nuova competizione calcistica, la Super League. "Qualsiasi competizione calcistica, nazionale, regionale o globale, dovrebbe sempre riflettere i principi fondamentali di solidarietà, inclusività, integrità ed equa ridistribuzione finanziaria", aggiunge la nota della Fifa, principi che la nuova iniziativa, a suo giudizio, "non rispetta". "Alla luce delle numerose richieste dei media e come già affermato più volte - si legge nella nota della Federazione - la Fifa desidera chiarire che resta fermamente a favore di un calcio solidale e di un modello di ridistribuzione equa delle risorse che possa aiutare a sviluppare il calcio come sport, in particolare a livello globale, dato che lo sviluppo del calcio globale è la missione primaria della Fifa". "A nostro avviso, e in conformità con i nostri statuti, qualsiasi competizione calcistica, nazionale, regionale o globale, dovrebbe sempre riflettere i principi fondamentali di solidarietà, inclusività, integrità ed equa ridistribuzione finanziaria. Inoltre, gli organi di governo del calcio - aggiunge la Federazione - dovrebbero impiegare tutti i mezzi legali, sportivi e diplomatici per garantire che rimanga così. In questo contesto, la Fifa non può che esprimere la sua disapprovazione per una 'lega separatista europea chiusa al di fuori delle strutture calcistiche internazionali e che non rispetti i principi sopra menzionati". "La Fifa è sempre sinonimo di unità nel calcio mondiale - conclude - e invita tutte le parti coinvolte in accese discussioni a impegnarsi in un dialogo calmo, costruttivo ed equilibrato per il bene del gioco e nello spirito di solidarietà e correttezza. La Fifa, ovviamente, farà tutto il necessario per contribuire ad un cammino armonioso verso il futuro nell'interesse del calcio".

ECA: no a SuperLega, lavoriamo per sviluppo competizioni UEFA. "Alla luce delle relazioni odierne sul tema di una cosiddetta lega separatista, l'ECA, in quanto organismo che rappresenta 246 club leader in tutta Europa, ribadisce il proprio impegno a lavorare allo sviluppo delle competizioni per club UEFA (UCC) modello con UEFA per il ciclo che inizia nel 2024 e che un modello chiuso di super lega a cui si riferiscono gli articoli dei media sarebbe fortemente avversato da ECA". E' quanto si legge in un comunicato apparso in serata sul sito dell'ECA, l'associazione dei principali club europei che fino a poche ore fa era presieduta da Andrea Agnelli.

Superlega: no di Boris Johnson "molto dannosa per il calcio.  Anche Boris Johnson condanna l'ipotesi della Superlega europea, che - secondo il Premier britannico - sarebbe "molto dannosa per il calcio". Come già i vertici della Federcalcio inglese, così come quelli della Premier League, anche il Primo ministro britannico boccia senza appello la nuova competizione. "I club coinvolti devono rispondere ai loro tifosi e alla più ampia comunità del calcio prima di fare nuovi passi", il pensiero del Premier affidato ad un tweet.

Anche Macron contro SuperLega: Francia al fianco di UEFA e FIFA. "Lo Stato francese sosterrà tutti gli sforzi di LFP (lega francese), FFF (federazione francese), UEFA e FIFA per proteggere l'integrità delle competizioni federali, nazionali o europee". Anche il presidente francese Emmanuel Macron, in una dichiarazione a RMC Sport, prende una posizione netta contro l'ipotesi di una SuperLega dei top club europei. Per il momento le squadre francesi, su tutte il Psg, non avrebbero aderito al progetto.

 (ANSA il 19 aprile 2021) - La Juventus, tra i 12 club europei di calcio che danno vita alla Super League, corre in Borsa e apre in rialzo dell'8,54% a 0,83 euro. Non c'è per ora effetto domino sugli altri titoli quotati e la Roma contiene il rialzo dello 0,52%, la Lazio non scambia.

 (ANSA-AFP il 19 aprile 2021.) - La banca americana JPMorgan ha confermato che finanzierà il progetto di Superlega europea del calcio, portato avanti da un gruppo di club tra i più ricchi e che scuote il mondo del calcio. "Posso confermare che stiamo finanziando l'operazione", ha detto un portavoce londinese della banca all'Afp, aggiungendo di non avere ulteriori commenti in questa fase. 

Da areanapoli.it il 19 aprile 2021. Aleksander Ceferin, presidente della UEFA, attacca pesantemente Andrea Agnelli, presidente della Juventus, per la costituzione della SuperLega: "Ne ho viste tante, in vita mia; ma mai avevo visto persone del genere. Mai visto un uomo che potesse mentire così di continuo. Ho parlato con lui sabato. Sono stato un avvocato di criminali di guerra per anni, ma non ho mai visto niente di simile", ha tuonato il numero uno della federazione europea, puntando il dito contro il patron bianconero. Ceferin ha poi aggiunto: "Agnelli è la delusione più grossa. Mai visto un tale bugiardo seriale mentire così insistentemente. Sabato, alle 15:00, mi ha detto che quelle sulla SuperLega erano semplici rumour, che si trattava solo di voci, che non c'era nulla. Ha detto che mi avrebbe richiamato e poi ha spento il telefono". Stoccata anche contro Ed Woodward, vice-presidente del Manchester United: "Giovedì sera, mi ha chiamato dicendo che era molto soddisfatto e sosteneva pienamente le riforme UEFA. L'unica cosa di cui voleva parlare era il Fair Play Finanziario, quando ovviamente aveva già firmato qualcos'altro".

Da fanpage.it il 19 aprile 2021. “Avidità illimitata". Risuonano anche nelle orecchie di tutti le parole scritte nel comunicato di alcuni tifosi ed indirizzate all'ECA solo pochi giorni fa. Andrea Agnelli, presidente della Juventus, ma anche dell'Associazione dei Club Europei (fino a poche ore fa prima del comunicato della stessa Juventus), era stato accusato di voler favorire, attraverso il cambiamento del format della Champions League, un "manipolo di club già ricchi". Agnelli è sempre stato infatti uno dei principali artefici del cambiamento per dare il via alla nuova struttura della competizione europea più importante per i club. "Spero vivamente che la nuova Champions possa essere ufficializzata nelle ultime due settimane", dichiarò soltanto un mese fa il presidente della Juventus, anche membro del comitato esecutivo dell'Uefa. Il New York Times, dopo la nascita della nuova Superlega, ha sottolineato come tempo fa lo stesso Agnelli definiva la possibilità della creazione di una nuova competizione come "una voce". Fa specie oggi che proprio l'attuale presidente bianconero sia stato indicato come uno dei principali promotori della nuova Superlega. Proprio lui che era stato inserito all'interno dell'Uefa come uomo di fiducia del presidente Ceferin: quest'ultimo è anche il padrino dell'ultima figlia del numero dei bianconeri.

Il rapporto tra Ceferin e Andrea Agnelli. Inspiegabile e forse anche incomprensibile. Ma sta di fatto che Agnelli, quasi improvvisamente, ha deciso di voltare le spalle all'Uefa. Il coinvolgimento totale della Juventus nella Superlega ha smascherato le reali intenzioni del numero uno bianconero. Dalla presidenza dell'ECA a membro del comitato esecutivo del massimo organo governativo del calcio europeo, Agnelli è stato sempre molto vicino al presidente Ceferin fin dal primo giorno della sua elezione. "Con questa mossa l'ha accoltellato", si legge tra le righe del New York Times che spiega nei dettagli il rapporto tra i due. Viaggi in jet privati sull'aereo del presidente Agnelli, una Ferrari messa a disposizione. Ciò che emerge è un quadro di un rapporto davvero molto stretto tra due massimi esponenti del calcio europeo. Ceferin definì un ‘onore' il fatto di essere stato scelto come padrino della figlia del presidente bianconero. E nonostante i mugugni dei vari club, vista l'enorme posta in gioco sul nuovo format della Champions, il presidente dell'Uefa ha sempre respinto al mittente ogni tipo di supposizione su presenti favoritismi nei confronti del patron bianconero. Ma sta di fatto che solo a metà dello scorso mese di marzo, Andrea Agnelli, in qualità di presidente dell'ECA (l'ente europeo dei principali club) aveva trovato l'intesa con l'UEFA per poter gestire la nuova Champions League che prenderebbe il via dal 2024. "Credo che se alcuni club abbiano lavorato da soli su qualche progetto, credo che per il momento si fermino qui" spiegava Agnelli, sostenendo invece con forza un nuovo torneo come la Champions League 2024, che avrebbe garantito 10 partite a stagione a tutti i club e 36 partecipanti. In questo modo invece, oggi, Agnelli sembra aver messo in atto il suo vero tradimento verso l'Eca ma, in parallelo, anche verso la stessa Uefa e al grande amico Ceferin. Un segnale che avrebbe dovuto far dubitare subito sulle intenzioni reali del patron bianconero, era quello relativo all'approvazione dei fondi in Serie A Cvc-Advent-Fsi. Un ingresso per l'acquisizione del fondo per il 10% del campionato avrebbe garantito 1,7 miliardi di euro. Tutti d'accordo fin quando Agnelli non ha deciso di tornare sui suoi passi per via di una clausola all'interno del contratto che vietava l'appoggio ad altri progetti simili alla Superlega per 10 anni. Ma non è tutto. Lo scorso mese di gennaio inoltre, Florentino Perez, presidente del Real Madrid e oggi anche della Superlega, si era recato alla Continassa per un incontro con Andrea Agnelli durato tre ore. Ovviamente furono oscuri gli argomenti trattati in occasione di quell'incontro, ma ad oggi è chiaro come quello sia stato il momento in cui erano ufficialmente andate avanti e probabilmente consolidate tutte le questione per l'avvio ad una nuova competizione come la Superlega.

Le ore precedenti all'annuncio della Superlega: Agnelli non rispondeva al telefono. Le ore precedenti all'annuncio ufficiale della Superlega, arrivato in tarda notte, è stato contrassegnato dal caos. La Gazzetta dello Sport racconta di un sabato di ordinaria follia a poche ore dalla riunione dell'Esecutivo dell'Uefa che avrebbe dovuto approvare la nuova Champions a 36 squadre. Prima di stilare il comunicato congiunto però, Andrea Agnelli non ha più risposto al telefono. È stato proprio in quel momento che il massimo organo calcistico europeo ha cominciato a pensare al peggio.

L'ECA e il comunicato in tarda notte assenza del "suo presidente". Agnelli non era in Svizzera e l'idea che da lì a breve potesse essere ufficializzata la Superlega, si faceva sempre più concreta. La nota pubblicata in tarda serata ha costretto anche la stessa ECA, di cui Agnelli era presidente fino a poco prima, a svolgere una riunione in sua assenza per prendere le distanze da un progetto, quello della Superlega, di cui proprio il suo presidente era stato promotore e per il quale l'ente europeo dei principali club aveva sempre preso le distanze. "Ribadiamo il proprio impegno a lavorare allo sviluppo delle competizioni per club UEFA (UCC,) modello con UEFA per il ciclo che inizia nel 2024 e che un modello chiuso di super lega a cui si riferiscono gli articoli dei media sarebbe fortemente avversato da ECA". Il comunicato ufficiale della Superlega, arrivato solo poche ore prima, ha comunque cambiato in una notte il mondo del calcio…

Da gazzetta.it il 19 aprile 2021. L’Uefa non sta certo con le mani in mano nel giorno dell’annuncio della nuova Superlega. Ecco allora che è stato ufficializzato il nuovo format della Champions League, che scatterà nel 2024-25. Si passerà da 32 a 36 partecipanti, con un girone unico all’italiana che prevede 10 partite (5 in casa e 5 in trasferta) per tutte. Le prime 8 della classifica generale si qualificheranno direttamente per gli ottavi di finale a eliminazione diretta. Le classificate dal 9° al 24° posto invece si giocheranno gli altri 8 posti in sfide di andata e ritorno, sempre ad eliminazione diretta. L’accesso dipenderà sempre dal piazzamento nel campionato nazionale. Un posto sarà riservato alla terza classificata nel campionato con il 5° ranking Uefa, mentre un altro sarà assegnato ai campioni nazionali che si qualificheranno nel “Champions Path” che passerà da 4 a 5 partecipanti. Gli ultimi due andranno ai club col più alto coefficiente Uefa negli ultimi 5 anni che non hanno preso parte alla fase a gironi della Champions ma hanno disputato le qualificazioni, o giocato in Europa League o Conference League. Tutte le partite resteranno programmate per metà settimana, riconoscendo l’importanza dei campionati nazionali. Simile il nuovo format dell’Europa League, con 8 partite nella prima fase, e della neonata Conference League (con 6 match nel girone). Anche per queste due coppe si potrebbe passare a 36 squadre, ma in questo caso manca ancora l’ufficialità. Il presidente Uefa, Aleksander Ceferin, ha così commentato la nuova formula: “E’ un formato che supporta e sostiene i campionati nazionali in tutta Europa, mantenendo saldo il principio della meritocrazia e al tempo stesso riconferma i principi di solidarietà di una competizione aperta a tutti. E’ una formula che permette a tutti di sognare di poter un giorno arrivare in Champions”.

Daniele Dallera e Fabio Savelli per il "Corriere della Sera" il 19 aprile 2021. L' ideologo della Superlega è Andrea Agnelli, il capitano della Juve in questo fronte italiano di ribelli. Sul suo carro sono saliti Inter e Milan, Marotta e Gazidis. Ma il pilota in questo Gran premio della follia calcistica è Andrea Agnelli che studia questo progetto da anni. Nell' ultima stagione ha lavorato in tanti campi, forse in troppi. Con la Juve ha cercato scudetto e Champions, li ha persi entrambi. Nella Lega serie A si è schierato subito a favore dei fondi, della Media Company, il progetto innovativo del presidente Paolo Dal Pino, per poi sfilarsi, nonostante facesse parte della Commissione che studiava e portava avanti la trattativa con i nuovi finanziatori, e scaricare lo stesso numero 1 della serie A. Una partita a tutto campo per sé e pochi altri, per i ricchi, ai danni del campionato. È così che nasce la Superlega europea. Nel comunicato di ieri sera, pronto da ore, preparato nei minimi particolari, la Juventus fa sapere di aver aderito al progetto della Superlega. Il bello è che si precisa che «i club fondatori continueranno a partecipare alle rispettive competizioni nazionali e, fino all' avvio effettivo della Superlega, la Juventus ritiene di partecipare alle competizioni europee alle quali ha titolo di accedere». Ingordigia? Una cosa è certa: Andrea Agnelli punta a tutto, oltre a far saltare il tavolo del calcio internazionale. Vuole partecipare alla Champions, ma fonda un campionato europeo per nababbi. Si disinteressa dell'annunciata presa di posizione della Uefa che intende squalificare, sospendere, forse radiare, le società che hanno fondato la nuova competizione. Così fa spallucce all' opposizione della Federcalcio che giustamente difende, vuole tutelare il campionato nazionale. Nel mirino di Agnelli, sostenuto da Lotito e De Laurentiis, oltre a Dal Pino, c'è anche il presidente federale Gravina, tanto per cambiare. Quanto a battaglie non si risparmia. Tattiche le sue dimissioni da presidente dell' Eca e dall' esecutivo Uefa. Per ora l' Uefa ha annunciato cause miliardarie. Suo grande alleato è Florentino Perez, grande capo del Real Madrid. Anche lui vuole terremotare il calcio europeo, è il presidente della Superlega. In pratica si è autonominato. È abituato a vincere soprattutto contro la Juve. Tanto è vero che il Real è in semifinale di Champions contro il Chelsea, sempre che l' Uefa adesso gliela faccia giocare questa semifinale. Vince anche nella vita, ha appena messo nel mirino Autostrade per l'Italia dicendosi convinto che valga 10 miliardi, più dell' offerta concorrente per il gestore formulata dallo Stato italiano (e i fondi esteri) per interposta Cassa Depositi e Prestiti, che vuol dire ministero del Tesoro. E si è dimostrato abilissimo nel dribblare i cronisti - soprattutto se si pensa che, a quanto risulta, sul concessionario non ha fatto alcunché, neanche un' accurata due diligence. Per tornare al calcio Perez ha già promesso l' arrivo tra i Galacticos di Haaland e Mbappé, due fuoriclasse assoluti, e il restyling in pompa magna del santuario del calcio, il mitico Bernabeu. Come farà? Perez sostiene con il denaro che il Real Madrid promette di incassare dalla vendita dei diritti tv della Superlega ai quattro angoli del mondo. Fa niente se l' altra parte del mondo del calcio si impoverisce: qui conta stare bene e mangiare in pochi.

Alessandra Gozzini per "la Gazzetta dello Sport" il 19 aprile 2021. «I dodici fondatori della Super Lega hanno una fanbase che supera il miliardo di persone in tutto il mondo: in questo momento critico ci siamo riuniti per mettere il gioco che amiamo su un percorso di sviluppo sostenibile a lungo termine con un meccanismo di solidarietà fortemente aumentato». Sono parole di Andrea Agnelli, presidente della Juventus e nuovo vice presidente della Super Lega. Ieri il progetto e i suoi rappresentanti sono usciti allo scoperto. Ma in passato c'era stato ben altro. Era il 19 novembre scorso quando la Serie A votava, con favore unanime, l' ingresso dei private equity in Lega: Cvc, Advent e Fsi, interessati alla partnership, avrebbero garantito ai club un miliardo e settecento milioni di euro. Una ricchezza inaspettata e utilissima ai conti di tutte le società: compresi quella della Juventus di Agnelli, gravati dal post pandemia. Dalle trattative nell' interesse generale della Lega (anche come membro della commissione interna che negozia con i fondi), il numero uno Juve si è staccato poco dopo: fino ad arrivare a una posizione dichiaratamente ostile ai fondi. Nella lettera con cui, insieme ad altri sei rappresentanti di club, ha sfiduciato il presidente di Lega Dal Pino (ideatore dell' affare in favore della comunità della A) scrive che il tema relativo ai private «era manifestamente esaurito in occasione dell' assemblea del 4 febbraio». I fondi avrebbero dovuto gestire i diritti tv della A e una clausola dell' accordo preliminare prevedeva che le società si impegnassero per dieci anni a non appoggiare nuove manifestazioni come la Super Lega: il campionato avrebbe di conseguenza perso appeal. Così si spiega il dietrofront di Agnelli: la Super Lega che sta sponsorizzando aiuterebbe gli interessi del suo club (la Juve) più che quelli comuni della Serie A. Un torneo parallelo tra alcune delle squadre più blasonate d' Europa porterebbe soldi solo nelle casse delle società coinvolte. La Super Lega contrasta con il tentativo di restituire valore al campionato italiano e ancora di più è in opposizione al progetto della nuova Champions che a partire dal 2024 si propone di allargare la competizione a 36 squadre, «un modello ideale» aveva detto Agnelli soltanto a marzo scorso, in apertura dell' assemblea generale dell' ECA, di cui è presidente (da ieri dimissionario): l' associazione delle società del continente ha come scopo proteggere e promuovere il calcio dei club europei. Tutti. In serata ha diffuso una nota: «Il modello chiuso di Super Lega sarebbe fortemente avversato da ECA». Proprio come massimo riferimento dell' organismo, Andrea Agnelli aveva lavorato a stretto contatto con Aleksander Ceferin, numero uno Uefa e amico personale, per la realizzazione della nuova Champions. «La Super Lega? Spero che questo chiuda le speculazioni che ci sono da vent' anni - parole di un mese fa - . Se dei club hanno lavorato da soli su qualche progetto, credo che per il momento si fermino qui». In realtà, non si erano mai fermati. Per Ceferin quello di Agnelli è stato un tradimento.

L'attacco di Perez alla Uefa: "Ceferin impresentabile, non ci minacci. Lo facciamo solo per salvare il calcio". Lucio Luca su La Repubblica il 20 aprile 2021. Il presidente della Super League parla in tv in Spagna: "Pensano che il calcio sia cosa loro, ma non è così. Pronti a partire ad agosto". Ha aspettato che si facesse sera prima di apparire in tv e spiegare il progetto che ha spaccato il calcio europeo. Più che una spiegazione, un lungo monologo nel quale Florentino Perez, già presidente del Real Madrid e prossimo presidente della Super League parla a raffica respingendo tutte le accuse e rilanciando quel campionato di stelle che, al momento, ha raccolto l’adesione di tre squadre spagnole, tre italiane e sei britanniche. "Facendo  al Superlega al posto della Champions potremo coprire le ingenti perdite dovute alla crisi" dice Perez a tarda sera a Chiringuito tv. "Quando non hai entrate all'infuori della televisione, dici che la soluzione è fare partite più attraenti che i tifosi nel mondo possano vedere con tutti i grandi club e siamo arrivati alla conclusione che se invece di fare una Champions League facciamo una Super League saremmo in grado di coprire le perdite che abbiamo subito", afferma.

Florentino continua con il suo discorso per salvare club modesti: "Non è un campionato per ricchi, è un campionato per salvare il calcio. Se dici che i ricchi saranno più ricchi e i poveri saranno più poveri e lo spieghi così... Domani partirà Laporta e andremo a spiegare questa competizione che vuole salvare il calcio e salvare le squadre più modeste, perché il calcio sparirà”. Poi il presidente della Super League sottolinea che il cambio di formato della Champions League è in ritardo: "Dicono che il nuovo formato entrerà nel 2024, ma noi nel 2024 siamo morti". E attacca il presidente Uefa Ceferin per le sue dure parole nei confronti di Andrea Agnelli, vice presidente della neonata SuperLega: "Quello che il presidente Uefa non può fare è insultare, come ha fatto con Agnelli. Ceferin è impresentabile, la Uefa deve cambiare, non vogliamo un presidente che insulti, vogliamo trasparenza. Cambiamo tutti e cambiamo in meglio. Nell'Europa democratica questo, queste cose non si dicono, per il bene della società ". "Per il momento non abbiamo invitato il PSG, né i due tedeschi – riprende Perez - Potremmo essere 15 e altre cinque che si alternano. Dicono che vogliamo uccidere i campionati: ma finirà la Bundesliga in Germania? E la Premier in Inghilterra? La serie A in Italia? Assolutamente no. E poi, per esempio, anche Roma e Napoli avranno il diritto di entrare se ne avranno merito. Non è un campionato chiuso, crediamo nel merito di tutte le squadre". Perez è un fiume in piena e fa il paragone con la pallacanestro: “Nel basket si gioca il campionato e poi l'Eurolega e non succede nulla. Ma perché andrà peggio, chi lo dice? Il calcio in questo momento ha abbassato il suo appeal tra i giovani e vogliamo creare una competizione per farli uscire dal tablet, hanno altre piattaforme, ma il calcio è divertente. Migliori sono le partite, più sarà divertente. La Champions League è attraente solo dagli ottavi di finale, dai quarti. Prima dobbiamo giocare con squadre modeste che non hanno appeal…". Quanto alle minacce, il presidente del Real non sembra affatto intimorito: “La Uefa non è stata trasparente. I monopoli sono finiti e tutti diciamo che il calcio sta per essere rovinato. Ma figuratevi se ci cacciano dalla Champions League o dalla Liga. Non ci cacciano proprio da niente, niente. Il nostro gruppo, le dodici squadre della Super League rappresentano due miliardi di tifosi nel mondo, bisogna rispettare la gente. Quello che dobbiamo fare è mettere ordine nel calcio, non vogliamo confrontarci con nessuno. Ma ci sono persone che credono che queste istituzioni siano loro. E non sono loro". Quanto ai giocatori, Perez dice che le istituzioni del calcio “li minacciano. Ma i ragazzi devono stare calmi perché non succederà nulla. Ci sono club che hanno perso centinaia di milioni e l’Uefa minaccia i giocatori di non farli giocare, è inaudito”. Quindi una rassicurazione sui tempi di partenza: "Cercheremo di iniziare il prima possibile. Parleremo con Uefa e Fifa, non so perché devono arrabbiarsi. La Uefa ha lavorato per un altro formato che, prima, non ho capito e poi non produce il reddito necessario per salvare il calcio. Quando dico salvare il calcio è salvare tutti. Quello che vogliamo è salvare il calcio in modo che per i prossimi 20 anni almeno possa vivere in pace. La situazione è molto drammatica. I soldi sono per tutti, questa è una piramide. Lo capiranno anche le altre squadre". "Ogni volta che c'è un cambiamento – conclude Perez - ci sono sempre persone che si oppongono. E’ successo a Bernabéu e la storia del calcio è cambiata. Cosa c'è di così attraente? Che giochiamo tra i grandi, la competitività, si generano più risorse. I ricchi? Io? Non possediamo il Real Madrid, siamo una squadra di calcio e lo facciamo per salvare il calcio, che è un momento critico”.

La mente dietro il progetto. Chi è Florentino Pérez, il presidente del Real Madrid e della Superlega. Vito Califano su Il Riformista il 19 Aprile 2021. Florentino Pérez è la mente della Superlega Europea: la nuova competizione che ha sconvolto il mondo del calcio. “I migliori dovrebbero sempre giocare con i migliori”, diceva nel 2009. Un progetto a 20 squadre, 12 le fondatrici, il finanziamento di JP Morgan, un’idea che ha spaccato il calcio. È stata definita un golpe, ai danni delle federazioni nazionali e della UEFA soprattutto. Pérez è una delle personalità più vincenti e influenti nel mondo del calcio. È nato nel marzo 1947 a Madrid. Laureato in Ingegneria all’Universidad Politécnica. In politica con l’Unione del Centro Democratico, con la quale ha ricoperto diverse cariche al comune della capitale spagnola e nel governo nazionale. È stato anche candidato del Partito Riformista Democratico. È considerato un self-made man: dal 1983 divenne amministratore delegato di Construcciones Padrós, S.A.; dal 1997 dirige la società di ingegneria ACS, Actividades de Construccion y Servicios. Il gruppo ha inviato anche delle lettere ad Atlantia manifestando il proprio interesse per Aspi. Il suo patrimonio, nel 2021, è stato stimato da Forbes in 2,2 miliardi di dollari. La sua notorietà, soprattutto all’estero, è dovuta alla sua presidenza del Real Madrid, tra le squadre di calcio più titolate e blasonate del mondo. Ha vinto in tutto 47 titoli, 21 nel basket e 26 nel calcio: 5 Champions, 5 Mondiali per club, 4 Supercoppe europee, 5 Liga, 2 Coppe del Re e 5 Supercoppe di Spagna. Oltre 17 anni alla guida delle merengues. La prima direzione dal 2000 al 2006, la seconda dal 2009 a oggi. Lo scorso 13 aprile, non essendosi presentato nessun rivale, è stata rinnovata la sua presidenza fino al 2025. È stato sempre rieletto senza opposizione. Il 3 aprile, con la partita contro l’Eibar è arrivato a mille partite da Presidente. Il suo primo mandato è ricordato come il Real Madrid dei galacticos: Ronaldo Luis Nazario de Lima, Luis Figo, Zinedine Zidane, Roberto Carlos, Raul Gonzalez Blanco, Michael Owen, David Beckham. La seconda parte cominciò con la grande sfida all’egemonia del Barcellona dell’allenatore Pep Guardiola. Gli exploit con Carlo Ancelotti e Zinedine Zidane in panchina hanno portato la società a vincere 13 Champions League, come nessun altro club. Adesso i blancos stanno giocando al centro sportivo di Val de Bebas. Lo stadio Santiago Bernabeu sta affrontando una storica ristrutturazione. “Aiuteremo il calcio ad ogni livello e lo porteremo ad occupare il posto che a ragione gli spetta nel mondo. Il calcio è l’unico sport davvero globale con più di quattro miliardi di appassionati e la responsabilità di noi grandi club è di rispondere ai loro desideri”, ha detto dopo l’annuncio della costituzione della Superlega.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Ecco chi c'è davvero dietro alla bomba sul calcio. Antonio Prisco il 19 Aprile 2021 su Il Giornale. Sarà il colosso JP Morgan a finanziare l’avvio della Superlega con 3,5 miliardi di euro destinati subito ai club fondatori. La banca americana JP Morgan finanzierà il progetto di Superlega europea del calcio, portato avanti dai club di èlite del campionato italiano, inglese e spagnolo. I 12 club "ribelli" dimostrano di fare sul serio: dopo l'annuncio ufficiale e l'uscita dall'Eca, i club membri hanno già trovato, nel colosso finanziario a stelle strisce, il loro finanziatore. Secondo quanto raccolto dall’agenzia di stampa Reuters, il colosso finanziario del Ceo Jamie Dimon ha scelto di partecipare attivamente a questo nuovo e criticato progetto sportivo. Lo ha reso noto un portavoce della società con un breve comunicato. Le motivazioni della partecipazione di JP Morgan riguardano ovviamente questioni finanziarie, di crescita e sviluppo attraverso un piano specifico. "Il nuovo torneo annuale fornirà una crescita economica significativamente più elevata ed un supporto al calcio europeo tramite un impegno di lungo termine a versare dei contributi di solidarietà senza tetto massimo, che cresceranno in linea con i ricavi della lega". "Inoltre - prosegue il comunicato - il torneo sarà costruito su una base finanziaria sostenibile con tutti i Club Fondatori che aderiscono ad un quadro di spesa. In cambio del loro impegno, i Club Fondatori riceveranno un contributo una tantum pari a 3.5 miliardi di euro a supporto dei loro piani d’investimento in infrastrutture e per bilanciare l’impatto della pandemia Covid-19".

Il Piano. La nuova Superlega europea prevede un totale di 20 squadre, con 12 membri permanenti che potrebbero salire fino ad un massimo di 15. Tra le italiane che hanno aderito Juventus, Inter e Milan, insieme a sei club inglesi (Arsenal, Tottenham, Manchester City e United, Liverpool, Chelsea) e tre spagnoli (Real Madrid, Barcellona e Atletico Madrid). Al momento non ci sono squadre tedesche, Bayern Monaco e Borussia Dortmund hanno declinato l'invito. Mentre secondo indiscrezioni almeno due club francesi sarebbero pronti a partecipare. JP Morgan finanzierà l'avvio della Superlega con 3,5 miliardi di euro, che verranno divisi tra i club fondatori. Nella nota si fa proprio riferimento alle cifre dei contributi di solidarietà che verranno elargiti una tantum: "Saranno sostanzialmente più alti di quelli generati dall’attuale competizione europea e si prevede che superino i 10 miliardi di euro durante il corso del periodo iniziale di impegno dei club''. I ricavi saranno dunque ben superiori a quelli che la Uefa è in grado di generare nell’attuale Champions League. Il gigante americano della finanza fornirebbe il capotale iniziale che andrebbe ai 15 club fondatori, soldi che però non potrebbero essere utilizzati sul calciomercato ma sarebbero destinati agli investimenti sulle infrastrutture e per ridare fiato ai bilanci provati dagli effetti economici della pandemia.

(ANSA il 19 aprile 2021) - "La scalata degli Usa al calcio mondiale". Così The Indipendent, quotidiano britannico, inquadra la vicenda della Superlega, una sorta di "punto di non ritorno". Dopo l'ufficializzazione del progetto con sei squadre della Premier League e la bocciatura del primo ministro britannico, Boris Johnson, i media inglesi danno ovviamente ampio risalto al progetto divisivo, confermando in sostanza il giudizio fortemente negativo delle settimane scorse. "Molti aspetti sul progetto rimangono incerti - scrive Indipendent - e ci si prepara a un'enorme battaglia legale: ma i vertici del calcio mondiale sono concordi nella convinzione che in sostanza si tratti di un “takeover” americano sullo sport più diffuso al mondo, frutto dell' "avidità sfrenata" del capitalismo Usa". Dunque, l'abbattimento della piramide sociale del calcio e' "un punto di non ritorno, un atto di guerra".

(ANSA il 19 aprile 2021) - I 12 club aderenti alla Superlega hanno già pronta una risposta legale alla minaccia di causa per danni avanzata dalla Uefa. Secondo Le Parisien, i club avrebbero inviato una lettera al presidente della Fifa, Gianni Infantino, e a quello dell'Uefa, Aleksander Ceferin, nella quale li avvisano di aver depositato il loro 'dossier' presso diversi tribunali, senza specificare quali e con quali contenuti

(ANSA il 19 aprile 2021) - Le tifoserie organizzate dei sei club inglesi firmatari dell'atto di fondazione della SuperLega hanno espresso una ferma e unanime condanna al controverso progetto, definito "sconcertante", "egoista" e "contrario ai valori dello sport" tramite un comunicato congiunto. Da Londra a Manchester, passando da Liverpool, non si è fatta attendere la reazione dei tifosi, "contrari con tutto il cuore alla creazione di una competizione destinata a separarsi dalla Champions League", nel commento del Chelsea Supporters Trust. Altrettanto dura e perentoria la censura dei tifosi del Tottenham's Supporters Trust: "Quando è troppo è troppo".

(ANSA-AFP il 19 aprile 2021) - Il Bayern Monaco e il Dortmund, i due club tedeschi presenti nel consiglio di amministrazione della European Club Association (ECA), si sono espressi nettamente contro il piano di creare una Super League. Lo dichiarato il Ceo del Borussia Dortmund Hans- Joachim Watzke. "Ci siamo riuniti domenica sera per una conferenza virtuale domenica e abbiamo confermato la volontà dei club coinvolti di appoggiare la prevista riforma della Champions League, respingendo i piani per formare una Superlega. Entrambi i club tedeschi rappresentati (Bayern Monaco e Borussia Dortmund) hanno espresso lo stesso punto di vista"

(ANSA il 19 aprile 2021) - Boris Johnson alza i toni, confermando non solo la ferma opposizione del governo britannico alla Superlega, ma anche di essere pronto a collaborare "con le autorità del calcio perché il progetto non vada avanti nella maniera attualmente proposta". Dopo la netta censura espressa ieri sera, oggi il Premier britannico è tornato a parlare del nuovo torneo continentale, al quale parteciperebbero anche sei club inglesi, bocciandolo come "una notizia non buona per i tifosi". "Valuteremo tutto ciò che potremo fare assieme alle autorità del calcio perché questo piano non si avveri", ha dichiarato il primo ministro. "Questi club - ha aggiunto Johnson riferendosi a Manchester City, Manchester United, Chelsea, Arsenal, Tottenham e Liverpool - non sono solo brand globali, ma anche club con un forte radicamento nelle proprie città di origine, nelle comunità locali, e dovrebbero mantenere questi legami con la loro base di tifosi. E' molto importante che rimanga così. Non mi piace questa proposta, ci consulteremo per vedere cosa possiamo fare".

(ANSA il 19 aprile 2021) - Anche la Fifa, il governo del calcio mondiale, boccia l'idea della Super Lega annunciata dai 12 principali club europei, compresi Juventus, Milan e Inter. "In questo contesto - annuncia in un comunicato - la Fifa non può che esprimere la sua disapprovazione per una "lega separatista europea chiusa" al di fuori delle strutture calcistiche internazionali e che non rispetti i nostri principi, a favore della solidarietà nel calcio e di un modello di ridistribuzione equa che può aiutare a sviluppare il calcio come sport, in particolare a livello globale". "La Fifa - aggiunge l'organo di governo del calcio mondiale - è a favore della solidarietà del calcio e di un modello equo di ridistribuzione della ricchezza che possa aiutare la crescita del calcio come sport, particolarmente a livello globale: la crescita del calcio a livello mondiale è la missione primaria della Fifa. Nella nostra visione, secondo i nostri statuti, ogni competizione nazionale, regionale o globale deve sempre riflettere i principi chiave di solidarietà, inclusività, integrità e equa ridistribuzione finanziaria. I governi del calcio dovrebbero impiegare ogni mezzo, legale, sportivo e diplomatico, per assicurarsi che i principi rimangano quelli. La Fifa sostiene - conclude il comunicato - l'unità del mondo del calcio e richiama tutte le parti coinvolte in questa accesa discussione ad un dialogo calmo, costruttivo ed equilibrato per il bene del gioco, nello spirito della solidarietà e del fair play. La Fifa farà ovviamente tutto il necessario per contribuire ad andare avanti con armonia, nell'interesse generale del calcio".

(ANSA il 19 aprile 2021) - "Dobbiamo difendere un modello di sport europeo basato sui valori, basato sulla diversità e l'inclusione. Non c'è spazio per riservarlo ai pochi club ricchi e potenti che vogliono legami stretti con tutto ciò che le associazioni rappresentano: campionati nazionali, promozione e retrocessione e sostegno al calcio dilettantistico di base". Così su Twitter il vicepresidente della Commissione europea Margaritis Schinas commentando le notizie sulla nascita della Superlega. "Universalità, inclusione e diversità sono elementi chiave dello sport europeo e del nostro stile di vita europeo", aggiunge Schinas.

Dal "Corriere dello Sport" il 19 aprile 2021. Ecco il comunicato congiunto diffuso ieri dall’Uefa con altre istituzioni del calcio europeo: «La Uefa, la Federcalcio inglese e la Premier League, la Federcalcio spagnola (Rfef) e La Liga, la Federcalcio italiana (Figc) e la Lega Serie A hanno appreso che alcuni club inglesi, spagnoli e italiani potrebbero aver intenzione di annunciare la creazione di una cosiddetta Super League chiusa. Se ciò dovesse accadere, teniamo a ribadire che resteremo uniti nei nostri sforzi per fermare questo cinico progetto, un progetto che si fonda sull’interesse personale di pochi club in un momento in cui la società ha più che mai bisogno di solidarietà. Prenderemo in considerazione tutte le misure a nostra disposizione, a tutti i livelli, sia giudiziario che sportivo, al fine di evitare che ciò accada. Il calcio si basa su competizioni aperte e meriti sportivi; non può essere altrimenti. Come annunciato in precedenza dalla Fifa e dalle sei Federazioni, ai club in questione sarà vietato giocare in qualsiasi altra competizione a livello nazionale, europeo o mondiale, e ai loro giocatori potrebbe essere negata l’opportunità di rappresentare le loro squadre nazionali. Ringraziamo quei club di altri Paesi, in particolare i club francesi e tedeschi, che hanno rifiutato di iscriversi. Chiediamo a tutti gli amanti del calcio, tifosi e politici, di unirsi a noi nella lotta contro un progetto del genere se dovesse essere annunciato. Questo persistente interesse personale di pochi va avanti da troppo tempo. Quando è troppo è troppo». 

Monica Colombo per il "Corriere della Sera" il 19 aprile 2021. Un coro di no. Sdegnato, furioso, incredulo. Dal campo alla politica, da chi è tifoso o ha rappresentato una squadra in procinto di aderire al progetto della Superlega, e da chi si erge a portavoce di club che hanno declinato l' invito a parteciparvi. Una competizione chiusa per ricchi, destinati a diventare straricchi, diventa un caso di politica internazionale. Ieri all' ora di cena l' Eliseo ha diffuso una nota nella quale il presidente della Repubblica francese, Emmanuel Macron, ha precisato di appoggiare la posizione dei club transalpini di rifiutare di aderire a un «progetto che minaccia il principio di solidarietà e il merito sportivo». Il Psg, pur invitato, ha declinato la proposta. «Lo Stato francese appoggerà tutte le mosse di Federazione e Lega francesi, di Uefa e Fifa per proteggere l' integrità delle competizioni federali che siano nazionali o europee». Trascorrono i minuti e Boris Johnson, premier di una nazione pronta a fornire sei squadre firmatarie del progetto che va contro la tradizione, twitta: «Il piano per una Superlega europea sarebbe molto dannoso per il football: supportiamo le autorità del calcio nelle loro decisioni, questi progetti colpirebbero al cuore i campionati nazionali e preoccuperanno i tifosi in tutto il Paese». Quindi l' inquilino di Downing Street lancia un monito: «I club coinvolti devono rispondere ai loro fan e a tutta la comunità calcistica prima di intraprendere ulteriori passi». Tra i politici di casa nostra è Enrico Letta, segretario del Pd e noto tifoso del Milan, a mostrare contrarietà al piano rivoluzionario. «L' idea di una Superlega per i più ricchi club europei di calcio? Sbagliata e decisamente intempestiva. In Europa il modello NBA non può funzionare. Nel calcio e nello sport la forza sta nella diffusione, non nella concentrazione. E nelle belle storie tipo Atalanta, Ajax, Leicester». Gary Neville, storico ex capitano del Manchester United, definisce l' idea «un atto criminale». Poi argomenta: «Sulla scia del Covid, è uno scandalo assoluto. Se annunciano che un pre-contratto è stato firmato, punite quei club. Togliete loro punti, multateli, levate i titoli che hanno vinto». Alex Ferguson che a Old Trafford è considerato più di una divinità aggiunge: «È l' idea più lontana che ci sia da quella formatasi in 70 anni di calcio europeo». Il Manchester United è con il Real il club ideatore del folle progetto: chi glielo spiega a sir Alex Ferguson che la tradizione ha ceduto il passo al business?

Da gazzetta.it il 19 aprile 2021. Sir Alex fatica a capire. Alex Ferguson, 79 anni, scozzese, storico manager dello United con il quale ha vinto 13 Premier League, 2 Champions League, 2 Mondiali per club e Coppe Intercontinentali, e tanto altro, sulla panchina dei Red Devils dal 1986 al 2013, non si riconosce in una Superlega che forse sta per nascere : «Tutti questi discorsi sono una rottura netta con i settant' anni di storia del calcio europeo per club. Non so se lo United è coinvolto (sì, ndr ), io non ne sapevo niente». Ferguson viene da un calcio più umile e popolare in cui i sogni erano possibili: «Sono stato giocatore di una provinciale come il Dunfermline negli anni 60 e allenatore dell' Aberdeen che ha vinto una Coppa delle Coppe. Per un piccolo club scozzese era un' impresa come scalare l' Everest». Oggi tutto questo non sarà più possibile se il calcio passerà nelle mani di pochi ricchi interessati a una Superlega privata: «L' Everton sta spendendo 500 milioni di sterline per costruire un nuovo stadio con l' ambizione di giocare la Champions. I tifosi di tutto il mondo amano il torneo così com' è. Quando allenavo io lo United abbiamo giocato quattro finali di Champions e sono state le notti più speciali».

(ANSA il 19 aprile 2021) - "Sono pensieri questi che a noi non piacciono, rischiano di uccidere il nostro campionato. Si prospettano cose non piacevoli e probabilmente siamo stati presi in giro". Così ai microfoni di Radio Anch'io sport Giovanni Carnevali ad del Sassuolo: "era un'iniziativa che covava da tempo, dobbiamo aspettare per capire bene. Oggi abbiamo una riunione in Lega e speriamo che i diretti interessati ci facciano capire bene cosa si intende per Superlega. Fare calcio oggi è molto difficile, le squadre più grandi hanno più perdite e il sistema va rivisto. Ma nello sport ci deve essere meritocrazia, a volte essere troppo avidi è una brutta storia. "Stravolgere la storia del campionato non è facile - aggiunge Carnevali - Nasceranno delle grandi problematiche e andremo per vie legali. Sarebbe un peccato. Speriamo che si possa rivedere tutto. Il campionato perderebbe di interesse sotto tutti gli aspetti. Ci sono investimenti inferiori che noi dobbiamo andare a fare. Penso che il calcio deve essere visto come passione e come amore. Oggi ci mancano i tifosi, il cuore, la rivalità. Se pensiamo solo all'aspetto economico è meglio che il calcio lo faccia qualcun altro. Noi del Sassuolo così non siamo interessati".

Superlega, da Serra a Mentana, da Lerner a Salvatores: lettera aperta dei tifosi interisti a Javier Zanetti. La Repubblica il 19 aprile 2021. Il dissenso per la scelta della squadra di partecipare al progetto della Superlega espresso da un gruppo di tifosi famosi in una lettera indirizzata al vicepresidente dell'Inter. "In nome della lealtà sportiva che hai incarnato nei campi di tutto il mondo, ti chiediamo di fare quanto è nelle tue possibilità per dissuadere la società da un passo falso così grave". Caro Capitano, secondo notizie ormai ufficiali dodici club europei, tra i quali l'Internazionale FC, hanno intenzione di dare vita a una Superlega (presidente Florentino Perez, Real Madrid, vicepresidente Andrea Agnelli, Juventus) a circuito chiuso: a quanto se ne sa, i membri permanenti sarebbero quindici, soci a vita di un circolo davvero molto esclusivo, considerando che ogni anno solo altre cinque squadre europee sarebbero ammesse al confronto sportivo con questi super-club. Nel caso andasse in porto, è un'iniziativa che sovverte in modo brutale i criteri di ammissione ai tornei continentali fino a qui conosciuti, e seguiti con passione da un pubblico tanto vasto quanto vasta è la base sportiva interessata: centinaia di squadre di club di ogni Paese europeo. Trentadue squadre partecipano alla Champions League, 184 alla Europa League, e quello che più conta è che ognuna di queste squadre, anno dopo anno, deve conquistare sul campo, con i risultati, il diritto di partecipare; nessuna può considerarsi automaticamente ammessa per diritto divino, o meglio perché economicamente più potente. Caro Capitano, di un Campionato per soli ricchi, con una piccola fettina riservata di anno in anno, a turno, agli esclusi, non si sentiva davvero la mancanza. L'iniquità di questo progetto era evidente anche prima che le autorità sportive europee, con una durissima presa di posizione, richiamassero i club ai loro vincoli di lealtà, e alle regole comuni: che valgono per tutti. È nel nome della lealtà sportiva, che tu hai incarnato per tanti anni nei campi di tutto il mondo, che noi, tifosi interisti firmatari di questa lettera aperta, ti chiediamo di fare quanto è nelle tue possibilità per dissuadere la società Internazionale FC da un passo falso così grave. Il calcio è di tutti. E quando una squadra piccola e sfavorita sconfigge una squadra forte e potente (per fortuna càpita), lo spirito dello sport ne esce esaltato. Se i ricchi si frequentano solo tra loro, in genere è perché hanno paura di perdere qualcosa.

Aiuta l'Inter, caro Capitano, a rimanere nel calcio di tutti. Grazie.

Michele Serra, Gad Lerner, Enrico Mentana, Paolo Rossi, Roberto Zaccaria, Gino Vignali, Michele Mozzati, Gabriele Salvatores, Riccardo Milani, Carlo Arturo Sigon, Alberto Crespi, Davide Corritore, Alessandro Marina, Nico Colonna, Riccardo Rocco, Bruno Ambrosi, Rudi Rezzoli, Riccardo Lorenzi, Roberto Alajmo, Francesca Alfano Miglietti, Luchino Visconti.

(ANSA il 19 aprile 2021) - "Ne ho viste tante nella nostra vita, non ho mai visto persone del genere. Non parlerò molto di Agnelli, è una delle più grandi delusione, anzi la più grande delusione". Lo ha detto il presidente dell'Uefa Aleksander Ceferin, dopo la riunione del Comitato Esecutivo dell'Uefa. "Non ho mai visto una persona che potesse mentire così di continuo, è veramente incredibile. Ho parlato con lui sabato pomeriggio, ha detto che si trattava solo di voci, che non c'era nulla sotto. Ha detto che mi avrebbe richiamato e poi ha spento il telefono. Ovviamente l'avidità è così forte che sconfigge tutti i giusti valori umani". "Il presidente dell'Eca è fuggito dall'associazione che presiedeva, non ho mai visto nulla così nella mia vita. Non c'è niente di personale, forse con Agnelli sì ma non voglio che tornino in ginocchio", ha proseguito Ceferin. Non solo il presidente della Juventus nel mirino del numero uno dell'Uefa. "Con Ed Woodward (ceo del Manchester United, ndr) non abbiamo parlato molto - ha detto ancora il presidente dell'Uefa -, però mi ha chiamato giovedì scorso dicendomi che era soddisfatto di queste riforme, e che le sosteneva, l'unica cosa di cui voleva parlare era il FPF ma aveva già firmato per la Superlega. Avevano sostenuto la nostra riforma venerdì, Woodward, Agnelli, Gazidis (ad del Milan, ndr) e Lopez (vicepresidente del Real Madrid, ndr): non so so se devo veramente dire cosa penso di loro", ha concluso Ceferin.

(ANSA il 19 aprile 2021) - "Stiamo ancora valutando la situazione con la squadra legale. È ancora presto, l'annuncio è arrivato ieri notte, non abbiamo ancora una soluzione ma cercheremo di applicare tutte le sanzioni che potremo. Ovviamente il prima possibile dovremo sospendere tutti dalle nostre competizioni". Lo ha detto il presidente dell'Uefa Aleksander Ceferin, dopo la riunione del Comitato Esecutivo dell'Uefa. "I giocatori che parteciperanno e giocheranno con le squadre nella Superlega non potranno giocare né ai Mondiali né agli Europei né in nessuna partita delle nazionali", ha aggiunto.

Da sport.sky.it il 19 aprile 2021.

Ceferin: "Uno sputo in faccia a chi ama il calcio, ma non ce lo porteranno via". "Vorrei ringraziate tutta la famiglia del calcio, anche i club, tranne quei 12. E grazie ai governi. Questa idea è uno sputo sul viso di quelli che amano il calcio. Non lasceremo che ci portino via il calcio"

Ceferin: "Per qualcuno esiste solo il denaro". "Uefa distribuisce il 90% dei ricavi reinvestendoli nel calcio. Uefa non è solo una questione di soldi, la Superlega sì. Sono gli interessi di una dozzina, non vorrei chiamarli quella sporca dozzina. Il principio di base non può cambiare, la solidarietà è qualcosa di eterno. Ma per qualche persona la solidarietà non esiste, l’unica cosa che esiste è il denaro nelle loro tasche"

Ceferin: "Chi fa la Superlega non giocherà Mondiali e Europei". I calciatori che parteciperanno alla Superlega non giocheranno né il Mondiale né in Europa. Non potranno rappresentare le squadre nazionali

Ceferin: "Squadre competono per merito nelle nostre competizioni e non per merito di pochi avidi". “La Uefa e il mondo del calcio sono uniti contro questa proposta orribile che è stata portata avanti da pochi club europei che seguono soltanto idea dell’avidità. Il mondo del calcio unito, governi uniti, tutti uniti contro questo progetto senza senso.

(ANSA il 19 aprile 2021) "Ribadisco il nostro no alla Superlega": così il presidente della Figc, Gabriele Gravina, da Montreaux, dove domani si celebrerà il Congresso elettivo Uefa, commenta il progetto annunciato nella notte da 12 club che vogliono dar vita ad un nuovo torneo internazionale, in luogo delle attuali competizioni continentali. "Il calcio è dei tifosi", dice Gravina. "L'unica riforma percorribile - aggiunge il n.1 Figc - è quella nata dalla proposta Uefa sulla Champions, ogni tentativo di fuga in avanti è irricevibile e dannoso per il calcio europeo l'adesione a questo progetto pone gli stessi club fuori dal contesto riconosciuto dalla FIFA". Il presidente della FIGC ribadisce anche l'importanza dei campionati nazionali: "Il patrimonio sportivo e culturale delle singole competizioni rappresenta un valore aggiunto per qualsiasi torneo internazionale, vogliamo difendere il merito sportivo e la possibilità di per ogni squadra di inseguire un grande sogno, insieme ai propri sostenitori. Il calcio è dei tifosi, va modernizzato, ma non snaturato. Il calcio è partecipazione e condivisione, non è un club elitario".

Mario Sconcerti per il "Corriere della Sera" il 19 aprile 2021. La Superlega ha fatto diventare Andrea Agnelli uno dei personaggi meno popolari del calcio europeo. Appena venerdì scorso ha ricevuto le lettere di 17 associazioni internazionali di tifosi che lo invitavano a non andare avanti. L' Equipe lo ha messo da tempo al centro di una campagna anche troppo cattiva. Agnelli ha il diritto di fare quello che vuole per cercare di incassare sempre più soldi e portare più avanti la sua azienda, ma deve fare attenzione a qualche particolare che per adesso nel calcio è rimasto silenzioso. Il tifoso, che ormai è vera, vasta, classe media, è un cliente dei club e un consumatore di prodotti sul mercato. Florentino Perez, Singer, Zhang, non hanno prodotti da vendere su questi mercati. Perez è un costruttore, Singer un finanziere, Zhang ha un mercato lontano. La Juve no, rappresenta una multinazionale che vende auto in Europa e in Italia. Risponde al gradimento della propria clientela. Ribaltare il calcio e le sue tradizioni per un puro scopo personale danneggiando decine e decine di grandi piazze nel continente, avere milioni di persone contro in ogni parte d' Europa, non è un' operazione di marketing consigliabile. Non solo per la Juve, soprattutto per Fca. È lei che vende. Il calcio è sentimento, colpito alle spalle diventa rancore. È un affare? Facilita la vendita di prodotti Fiat? Assolutamente no. Sarebbe interessante conoscere il parere di John Elkann, sulle cui spalle cadrebbero le conseguenze industriali. Per il resto il disegno è rozzo ma convincente: gestire in pochi la ricchezza di molti. Non una grande idea, non una novità almeno, è stata tentata molte volte in passato da regimi autarchici perché prepotente, quindi forte, avida. Che nell' euforia dimentica un altro particolare: quale sarebbe il piazzamento della Juve in questo super campionato? La storia dice tra il 6° e il 9° posto. Cioè il prodromo della noia. Auguri. Per il resto la giornata è del Milan che adesso è ormai dentro la Champions. L' Inter ha avuto quello che ha cercato, dentro una partita strana perché lenta, quindi con improvvisazioni individuali più facili anche per il Napoli.

Dagonews il 19 aprile 2021. “Qualcuno sta facendo una brutta figura, per non dire di….”. Zibi Boniek, presidente della Federcalcio polacca, su Twitter stronca la Superlega e si schiera dalla parte dell’Uefa. “Il calcio è di tutti. Noi siamo europei e non abbiamo la mentalità americana”, il Bello di Notte caro all’Avvocato, ai microfoni di Sky Sport, ribadisce l’opposizione al progetto di Andrea Agnelli e Florentino Perez: “Non c'è bisogno di una competizione tra i 15-20 club più ricchi del mondo. Anche perché poi le squadre più ricche del mondo non riescono a vincere nemmeno contro l’Atalanta”. Boniek non aveva lesinato critiche alla Juve a Campioni del Mondo, la trasmissione condotta da Marco Lollobrigida su Radio 2: “Non può vincere per 20 anni. Già con Sarri aveva avuto qualche segnale di flessione. È una squadra che in fase offensiva si poggia tutto su Ronaldo che vuole fare gol e giocare sempre. Lui vuole essere sempre il migliore ma non lo è più. Resterà un realizzatore ma non fa più reparto da solo. Poi ci sono le questioni di spogliatoio che non conosciamo ma un giocatore che guadagna sette volte più degli altri può scatenare gelosie…”

Da tuttomercatoweb.com il 19 aprile 2021. Tra gli allenatori storicamente contrari alla SuperLega, nata ufficialmente ieri sera, c’è sempre stato Jurgen Klopp, tecnico del Liverpool che pure figura tra i club fondatori. “Spero che non accada mai - dichiarò il tedesco nel 2019 - per me la Champions è già una Superlega, nella quale però non giochi ogni volta contro gli stessi avversari. Capisco l’impatto finanziario, ma perché dovremmo creare un sistema nel quale il Liverpool affronta il Real Madrid per 10 anni di fila? Chi mai vorrebbe vedere la stessa sfida ogni anno?”.

Da gazzetta.it il 19 aprile 2021. Il dibattito sulla Superlega, come prevedibile (in piena pandemia e crisi economica oggi sia Tg5 che Tg1 hanno aperto le rispettive edizioni delle ore 13 e 13.30 con la notizia sul terremoto nel mondo del calcio) coinvolge anche la politica. Con riferimento al progetto, è intervenuto anche il Presidente del Consiglio, Mario Draghi, che ha affermato: “Il Governo segue con attenzione il dibattito intorno al progetto della Superlega calcio e sostiene con determinazione le posizioni delle autorità calcistiche italiane ed europee per preservare le competizioni nazionali, i valori meritocratici e la funzione sociale dello sport”. Una voce importante quindi che si esprime contro la nuova lega europea voluta dalle big. Sulla vicenda Superlega è intervenuta con una nota anche Valentina Vezzali, sottosegretaria con delega allo Sport: "Sto seguendo con attenzione la vicenda della Superlega di calcio" ha commentato "sono molto preoccupata per le conseguenze che uno scontro istituzionale potrebbe portare alla filiera dello sport, che ricordo, comincia con i campionati giovanili e porta, poi, fino ai campionati internazionali e ai Giochi Olimpici". Vezzali ha proseguito: "Non entro nel merito della questione per il rispetto dovuto all'autonomia dello sport" si legge nella nota "ma non posso non sottolineare che lo sport è in grado di coinvolgere miliardi di persone in ogni angolo del pianeta, perché rappresenta i sogni di ogni bambina e bambino e non certo per la pur importante industria economica che lo anima", ha concluso la sottosegretaria.

Luca Beatrice per mowmag.com il 19 aprile 2021. Da vent’anni esatti lo scudetto in serie A non si muove dalla direttrice Torino – Milano. 140 chilometri o poco più, compresi i campionati contestati di calciopoli, distribuiti tra Juventus, Milan e Inter. E gli altri stanno a guardare, accontentandosi appena delle briciole rappresentate dalla Coppa Italia. Non che all’estero il panorama sia tanto diverso. In Bundesliga, il Bayern sta vincendo il suo nono titolo di fila. In Ligue 1 domina il Paris St Germain dopo il periodo del Lione. Nella Liga se lo spartiscono in due, Real e Barcellona, con il terzo incomodo dell’Atletico che già è un fatto eccezionale. Unico torneo davvero incerto la Premier, sei vincitori diversi negli ultimi vent’anni, compresa la sorpresa Leicester che nel 2016 diede speranza a tutti gli outsider d’Europa. Inghilterra a parte, dunque, i campionati nazionali sono troppo sbilanciati e stanno perdendo interesse; già prima del Covid in Italia si assisteva al mesto spettacolo di stadi semivuoti. I biglietti e gli abbonamenti costano cari, gli orari delle partite spesso punitivi incoraggiano a scegliere la tv soprattutto per quei tifosi che un tempo si sarebbero spostati ovunque per seguire la squadra. Ora, non da ora, non è più così e alla fine non sono più di una manciata i match davvero imperdibili (i derby, le classiche, gli scontri tra le prime 5-6 in classifica), il resto ben poco spettacolare e piuttosto noioso. Continuando di questo passo, il calcio è destinato a fallire. Alla ripresa dello sport vero, quello con il pubblico sugli spalti, bisognerà offrire qualcosa di attraente soprattutto ai giovani perché, rispetto alle generazioni di oggi, i ragazzi sono poco innamorati del pallone, un’altissima percentuale non lo segue e comunque non impiega tempo e denaro per andare regolarmente allo stadio. Come in altri mondi, anche il calcio si divide tra nostalgia del passato e rischio verso il futuro, probabilmente la verità sta in mezzo ma intanto bisogna ricordare che il calcio di oggi non è uguale a quello degli anni ’70 di quando ero bambino. Ecco alcune differenze: una sostituzione più il portiere e oggi fino a cinque. Si poteva passare la palla indietro al portiere che la raccoglieva con le mani, ora no. Nessuna tecnologia era permessa in campo, a sbagliare era l’arbitro e i due guardialinee, oggi la Var vede un’altra partita e decide. La Coppa dei Campioni era destinata solo a chi vinceva il titolo, oggi è un torneo che include fino a quattro partecipazioni dai campionati più importanti. Senza considerare aspetti più marginali, ma economicamente significativi, come le magliette personalizzate che cambiano colori e design a ogni stagione. Ogni volta che c’è stato un cambiamento si è alzata la critica dei puristi. Criticare è legittimo ma ininfluente perché il mondo va sempre avanti, anche e soprattutto per via degli intoppi e dei traumi. Come tanti altri settori dell’industria dello spettacolo, il calcio post-pandemico ha bisogno di uno scossone importante e come sempre accade qualcuno si deve prendere dei rischi forti. Del progetto di una Superlega europea si parla da anni, il tema non è neppure così nuovo ma urgente ne è diventata ora l’attuazione. E così il pallone si spacca, coinvolgendo la politica, presidenti e ministri degli Stati nazionali oltre ai vertici dirigenziali di Uefa, Fifa e federazioni. Da una parte un gruppo di dodici squadre tra le più forti e potenti d’Europa, sei inglesi, tre spagnole e tre italiane, Juventus, Inter e Milan, dall’altra tutte le altre, al momento compatte, comprese Bayern e PSG. Già, ma per quanto? Forse troveranno un compromesso per salvare capra e cavoli, forse studieranno un meccanismo di attuazione meno traumatico, in ogni caso la strada è tracciata. In non troppo tempo il calcio è destinato a cambiare volto dal localismo dei campionati a un torneo europeo per venti squadre con valori tecnici e bacino d’utenza molto elevati (sennò è inutile invidiare le belle partite di Champions quando quelle che vediamo in Italia nel fine settimana sono di bassissima caratura), un’audience televisiva molto più ampia rispetto a un Sassuolo – Parma o Benevento – Fiorentina, una strategia per tornare a riempire gli stadi e far girare di nuovo più soldi. C’è qualcuno che si lamenta per la scomparsa dello spirito di una volta ridotto a mero business. Spiegategli che il calcio si regge sui quattrini. Il politico smanioso di palcoscenico ritrovato, Enrico Letta, afferma che un meccanismo del genere farebbe scomparire belle storie come il Leicester, l’Atalanta (che non ha vinto niente), l’Ajax (che ha vinto quasi tutti i campionati in Olanda e diversi trofei europei dagli anni ’70). Il sistema si protegge, resiste, cercherà un accomodamento pur sapendo che Andrea Agnelli, Florentino Perez e gli altri “presidenti ribelli” hanno ragione loro. D’altra parte, il calcio è ancora fenomeno da bar e come tale si basa su visioni opposte. Discutere della partita, che bello, solo che io preferisco accapigliarmi su Manchester City – Juventus piuttosto che su Juventus – Verona, senza offesa per nessuno.

Diario del virus: Superlega. Ragù di capra di Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 19 aprile 2021. La prima guerra generata dal Covid-19 è la guerra del calcio. La pandemia e i suoi danni economici figurano alla base delle motivazioni della Superlega annunciata poco dopo la mezzanotte del 18 aprile. Come in tutte le guerre, si attendeva soltanto un pretesto. I dodici club all'origine della spaccatura con le rimanente autorità del football (Uefa, Fifa e federazioni nazionali) sono gli stessi che da anni spingono per creare un campionato continentale “vip only” come unica via d'uscita a una serie ininterrotta di catastrofi finanziarie che la chiusura degli stadi ha accentuato. Le tre italiane (Juventus, Milan, Inter), le tre spagnole (Real Madrid, Barcellona, Atlético Madrid) e le sei inglesi (Chelsea, Tottenham, Liverpool, Arsenal e i due club di Manchester) aspettano altri tre soci fondatori (Psg, Borussia Dortmund e quel Bayern che finora si è sempre pronunciato contro la Superlega) più cinque meritevoli da selezionare di anno in anno come pura foglia di fico per respingere le accuse di avere organizzato un torneo che prescinde dai risultati sportivi. Alla guida della Superlega ci sono i due più convinti assertori del modello superleghista, il madridista Florentino Pérez, che si è appena ritirato dalla corsa ad Aspi (Autostrade per l'Italia), e lo juventino Andrea Agnelli, rispettivamente presidente e numero due della nuova organizzazione. Ci sarebbe da inserire qui l'abituale predicozzo sulla contrapposizione fra meritocrazia e timocrazia, come nell'antica Grecia si chiamava il potere del censo. Ci sarà tempo. Intanto sono incominciate le consultazioni diplomatiche fra gli emergenti scissionisti e quei poteri costituiti che, calendario alla mano, oggi avrebbero dovuto occuparsi di Euro 2021, con la revisione delle proposte mandate dalle federazioni locali sulla riapertura degli stadi almeno al 25% della capienza per il torneo continentale a dodici sedi. In verità, non sembra ci siano punti di mediazione. Un nuovo campionato a venti squadre con turni da giocare a metà settimana può forse essere compatibile con i campionati nazionali, per il poco che conterebbero, ma è antagonistico rispetto alla Champions, all'Europa league, alle coppe nazionali e pone un serio problema di convivenza con le manifestazioni per squadre nazionali già compresse oltre ogni limite, prima che dalla pandemia, dalla ricerca ossessiva di nuovi eventi per aumentare i ricavi. I risultati di un muro contro muro fra i dodici e il blocco, non si sa quanto compatto, Uefa-Fifa potrebbero riportare a una polverizzazione di sigle come quella che ha distrutto la boxe professionistica. In quanto al modello delle leghe Usa (Nba, Nfl, Nhl, Mlb) non sembra riproducibile in Europa ed è basato su premesse imprenditoriali e sportive totalmente diverse. La Superlega, e questa è una delle poche cose chiare fin dall'inizio, si propone come un nuovo cartello che ambisce a distruggere l'esistente. Può darsi che l'esistente non meriti di esistere ma, con tutte le sue ipocrisie, il sistema in vigore garantiva un minimo di vincolo con la parte sana dell'attività sportiva, quella che arriva dal basso, da migliaia di piccole società dilettantistiche che assicurano un diritto diffuso attraverso una politica di vasi comunicanti, anche se magari comunicanti alla lontana. La Superlega è la bolla sanificata da ogni circolazione alto-basso del sogno sportivo con una discriminazione netta anche dei tifosi tra vip e appassionati di calcio minore. È un meccanismo oligarchico di cooptazione che fa a meno di elezioni. È la distruzione del sogno calcistico che funziona da 150 anni e così bene da avere portato il football al vertice fra le competizioni sportive del mondo. Per questo, ma non solo per questo, la Superlega è un progetto nocivo e autolesionistico. E tirare in ballo la pandemia per motivare una scelta che cova da vent'anni è una finezza che non ha bisogno di commenti. La parola passa agli eserciti, di avvocati.

Da corrieredellosport.it il 20 aprile 2021. Toni Kroos, nel podcast “Einfach mal Luppen” che condivide con il fratello Felix, ha respinto categoricamente il progetto Superlega, sebbene non abbia lesinato critiche anche alla Uefa e alle organizzazioni che vi si oppongono, come riportato dal media tedesco 'Sport1': "Purtroppo non spetta a noi giocatori decidere. Siamo burattini della FIFA e della UEFA. Se ci fosse un'unione di giocatori, non giocheremmo una Nations League o una Supercoppa spagnola in Arabia Saudita". "Queste competizioni devono giovare economicamente per tutti. Quando le cose vanno bene dovrebbero rimanere come sono - sostiene il centrocampista del Real Madrid- Insieme alla Champions League, ai Mondiali e alle Euro Cup, i campionati sono un prodotto di prim'ordine. Il divario tra grandi e piccoli club sta purtroppo aumentando. Super League? Fosse per noi non parteciperemmo. Anzi, sarebbe un buon momento per smettere di giocare".

(ANSA il 20 aprile 2021) - "La Super League può partire anche tra cinque mesi. Siamo pronti a sederci e parlare con la Uefa. Le loro minacce di esclusioni non sono comunque legali". Anas Laghrari, segretario generale della Superlega, parla del nuovo progetto in un'intervista a Le Parisien. "Non sarà una lega chiusa, un quarto delle squadre sarà rinnovata ogni anno - spiega -. Vogliamo creare il miglior calcio, abbiamo il desiderio di organizzare una competizione che tutti vogliono vedere, che fa sognare la gente, i giovani per rinnovare un calcio che è entrato nella follia dei trasferimenti e dei soldi". "Le giovani generazioni sono meno interessate al calcio - sottolinea Laghrari -, si concentrano sulla console o su altro e si collegano solo per le grandi partite. Ma questi big match ci sono raramente". E come esempio, cita la prossima semifinale di Champions League tra Real Madrid e Chelsea, "il primo incontro in assoluto tra questi due giganti del calcio europeo". "C'è anche una frustrazione tra i giocatori che vogliono giocare queste grandi sfide. aggiunge il segretario generale della Superlega - contro questi grandi giocatori, Neymar sognava di giocare contro Messi negli ottavi di Champions ma era infortunato e forse non giocherà mai contro Messi". Quanto alla nuova formula della Champions, Laghrari la boccia: "Difficilmente comprensibile".

(ANSA il 20 aprile 2021) - "Se alcuni "eletti" scelgono di andare per la loro strada, devono pagare le conseguenze delle proprie scelte. Sono responsabili delle loro scelte. Concretamente vuol dire, siete dentro o siete fuori? Non si può stare a metà. Pensateci bene, tutti devono pensarci". Lo ha detto il presidente della Fifa Gianni Infantino, intervenendo durante il Congresso Uefa a Montreux in Svizzera. "C'è molto da buttare via per un gioco finanziario a breve termine di qualcuno. Le persone devono pensare davvero attentamente, devono assumersi la responsabilità". "Tutti devono pensare soprattutto ai tifosi e a tutti coloro che hanno contribuito a creare quello che il calcio europeo è oggi. Dobbiamo proteggerlo, è nostro compito proteggere il sistema sportivo europeo", ha aggiunto Infantino. "Come l'Uefa, la Fifa è una organizzazione democratica, aperta. Tutti possono portare idee e proposte, ma con il giusto rispetto delle istituzioni, della storia e della passione di così tante persone. Spero che tutto torni alla normalità, che tutto venga sistemato, ma sempre con il rispetto, sempre agendo responsabilmente e sempre con solidarietà e nell'interesse di tutto il calcio", ha concluso il numero uno della Fifa.

(ANSA il 20 aprile 2021) - "Voglio essere estremamente chiaro: la Fifa è una organizzazione costruita sui valori, i veri valori dello sport. Come Fifa non possiamo che fortemente condannare la creazione di una Superlega, che è un qualcosa di chiuso, che è una fuga dalle attuali istituzioni calcistiche. Non c'è nessun dubbio che la Fifa disapprovi questo progetto". Lo ha detto il presidente della Fifa Gianni Infantino, intervenendo durante il Congresso Uefa a Montreux in Svizzera. "Ieri abbiamo letto e ascoltato parole come guerra e crimini, parole terribili se associate allo sport che amiamo", ha proseguito Infantino durante il discorso in apertura del Congresso Uefa. "La Fifa è qui per dare totale supporto al calcio europeo, all'Uefa, alle federazioni, alle leghe, alle squadre e a tutti i tifosi. Guardate al calcio europeo e al suo successo - le parole del presidente della Fifa -. Sono stato all'Uefa 16 anni, ho lavorato davvero duramente per difendere i principi e i valori che hanno portato il calcio europeo al successo. Il modello del calcio europeo, basato su un sistema aperto, promozioni, retrocessioni. Un modello che ha funzionato e che ho difeso a lungo".

(ANSA il 20 aprile 2021) - "I giocatori non hanno preso parte ad alcun colloquio, non hanno avuto voce in capitolo negli eventi di questa settimana e tuttavia vengono utilizzati in questa discussione, ma è indubbio ciò che diciamo da anni: il sistema attuale non è sostenibile, è tempo di cambiare in un modo che abbia senso per tutti i membri del mondo del calcio". Si esprime così sul progetto di Superlega The Football Forum (Tff), movimento internazionale di procuratori e calciatori e a capo del quale ci sono, tra gli altri, Mino Raiola e Jorge Mendes, quest'ultimo agente di Cristiano Ronaldo.

Da ilnapolista.itl'8 giugno 2021. La Sueddeutsche Zeitung lo chiama “golpe”. L’autorevole quotidiano tedesco è da sempre molto informato e attento sulle questioni riguardanti la Fifa di Infantino. E secondo le informazioni in suo possesso, condivise col francese Le Monde la Fifa sta per trasferirsi armi e bagagli da Zurigo a Parigi, farà sede all’Hôtel de la Marine, uno splendido edificio del XVIII secolo, ristrutturato nell’arco di quattro anni, in affitto alla famiglia reale del Qatar. Sono “coincidenze”, scrive il giornale tedesco, suggerendo che invece non lo sono affatto. “Il golpe dovrebbe essere annunciato solo giovedì dal capo di Stato Emmanuel Macron in persona, appena prima che sabato il palazzo nobiliare sia reso nuovamente accessibile al pubblico”. Il punto è strategico, politico. I rapporti tra la Fifa e Paese ospitante dei prossimi Mondiali di calcio del 2022 sono sempre più fitti. “A Parigi si dice che l’emirato paghi un milione di euro di affitto l’anno per l’edificio, per un periodo di 20 anni. A Parigi restano anche i proventi della mostra d’arte dello sceicco Hamad bin Abdullah Al Thani, che comprende più di 6000 gioielli e dipinti dall’antichità ad oggi. Il Qatar finanzia anche l’orgoglio calcistico nazionale: il Psg”. “Sotto il tetto del Qatar, il boss della Fifa Infantino si sente evidentemente sempre più a suo agio. Ha tenuto i suoi incontri segreti con il procuratore capo svizzero Michael Lauber nel lussuoso hotel bernese Schweizerhof, che appartiene all’emirato e ospita comodamente la propria ambasciata proprio accanto alla sala conferenze. I pubblici ministeri in Germania e altrove si sono spesso lamentati del fatto che la Fifa non stia esercitando la pressione desiderata su Doha in nessun procedimento preliminare sulle accuse di corruzione: come è potuto accadere che il consiglio di amministrazione della Fifa abbia votato per una Coppa del Mondo di calcio nella sabbia del deserto di un emirato delle dimensioni dell’Assia settentrionale alla fine del 2010?”. I conflitti di interesse sono ovunque. “La famiglia Fifa si annida in un magnifico edificio cofinanziato da Doha, mentre in alcuni arrondissement la Procura Nazionale delle Finanze (PNF) sta conducendo un’inchiesta sulla corruzione privata e “associazione criminale” sulla controversa assegnazione del Mondiale in Qatar. Ci sono due giudici istruttori al lavoro”. L’intera faccenda influirà sulla Fifa in termini di tassazione. “A Zurigo, in quanto associazione di diritto privato svizzero, gode di vantaggi fiscali: paga solo il 12% di tasse. In Francia non sarà più così. Ufficialmente, la Fifa di Parigi vuole migliorare i suoi legami con il mondo del calcio francofono, ma anche con istituzioni come l’Unesco. Gli amici influenti, come ha dimostrato il controverso Infantino, non sono mai abbastanza per il capo della Fifa”.

Monica Colombo per il "Corriere della Sera" il 20 aprile 2021. «Se il tono è questo, allora me ne vado». Andrea Agnelli minaccia di scollegarsi dalla riunione quando i toni si alzano e il presidente del Torino, Urbano Cairo, gli ha appena rinfacciato di essere «Giuda, Giuda, Giuda». Nell' assemblea in cui i club di A si sono ritrovati per la prima volta dopo la presentazione del patto vincolante dei 12 club aderenti alla Superlega, le accuse si sono sprecate. Preziosi e Ferrero hanno invitato Marotta ad abbandonare la carica federale. «È un attentato alla salute di un' associazione come la Lega: se uno come Marotta fa una cosa del genere si deve dimettere dalla Figc subito e deve vergognarsi» ha aggiunto poi all' Ansa il presidente Cairo. «Tu sei ad dell' Inter, società che ha concepito con altre undici il progetto della Superlega, non puoi rappresentare la A in Figc perché stai attentando alla vita di un' associazione. E lo stesso vale per Agnelli» aggiunge il presidente del Torino. «Sembra che il progetto l' abbiano depositato il 10 gennaio, quindi durante la riunione gli ho detto "come puoi venir qui a parlare di solidarietà quando hai sabotato la trattativa con i fondi, sapendo già che avresti abbracciato la Superlega?" È un tradimento, è da Giuda». Inter, Juventus e Milan - anche a Scaroni è stato intimato di lasciare l' incarico di consigliere di Lega - vorrebbero restare in serie A, ma Parma e Cagliari oltre alle genovesi hanno mostrato parere avverso. Del resto le proiezioni di ricavi mostrati dall' ad De Siervo certificano che con la Superlega si avrebbe un calo degli introiti per i club fra il 30 e il 50 per cento. Eppure il terremoto che ha sconvolto il mondo del calcio nelle ultime 48 ore, non è frutto di una scossa tellurica improvvisa. Le grandi manovre fra i club di casa nostra, con i conti devastati dalla pandemia, sono iniziate il 28 settembre quando Andrea Agnelli e Steven Zhang furono invitati a Casa Milan da Ivan Gazidis. All' epoca le tre big del campionato erano in prima fila per costituire la media company con l' ingresso dei fondi che avrebbero garantito l' iniezione di 1,7 miliardi. Il 19 novembre la Lega accetta con voto unanime la proposta del consorzio, spalancando le porte all' inizio di una nuova era. Nelle settimane successive sono proseguiti, anche attraverso Agnelli, i colloqui con i fondi finché il 19 gennaio alla Continassa compare il presidente del Real per un vertice di tre ore con l' omologo bianconero. Non è un caso che nei giorni seguenti da Casa Milan parta una telefonata sul cellulare del presidente juventino: l' indomani il club rossonero avrebbe portato in cda il piano fondi. Agnelli dà l' ok, nonostante i dubbi, visto che nella bozza di accordo le società si sarebbero dovute impegnare per dieci anni a non abbracciare progetti come quello della Superlega. Uno squillo da Madrid induce Agnelli a fare dietrofront. Il 4 febbraio la Juventus e l' Inter compiono una giravolta e abbandonano il progetto della media company. Il dado è tratto. Poi la fuga di notizie e l' annuncio della Uefa previsto per ieri della riforma della Champions ha accelerato l' ufficialità di una svolta che probabilmente sarebbe stata resa nota più avanti.

Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 20 aprile 2021. Cento minuti. Tanto è durata l’apparizione del presidente del Real Madrid e della Superlega Florentino Perez nello studio del "Chiringuito de Jugones", trasmissione notturna del canale spagnolo Mega. Da mezzanotte all’1.40. Perez ha detto che vuole salvare il calcio, che altrimenti morirà. Ha promesso una redistribuzione equa e democratica degli introiti per tutto il calcio. Ha attaccato frontalmente la Uefa e la Liga e in particolare i due presidenti Ceferin e Tebas, ha ripetuto che tratterà e che non romperà, che proverà a far partire il suo progetto in agosto e se non sarà possibile tra un anno, o al limite mai, accettando l’idea di una possibile sconfitta. Ha difeso Agnelli e dato una stoccata a Cairo. Ha parlato anche di mercato: Cristiano Ronaldo non tornerà al Real Madrid, farà di tutto per far felice i madridisti, leggi proverà a prendere Mbappé, Sergio Ramos resterà se accetterà l’offerta al ribasso del club.

LA SITUAZIONE—   “Siamo in un momento di enorme difficoltà. Il calcio per colpa della pandemia ha perso 5 miliardi di euro. Noi 100 milioni in tre mesi un anno fa e 300 in questa stagione. Bisogna far qualcosa, bisogna cambiare. I giovani stanno perdendo interesse nella competizione e bisogna far si che si riaggancino al prodotto. Per farlo bisogna cambiare, così come si fece negli anni 50 quando Santiago Bernabeu ideò la Coppa d’Europa e ha cambiato la storia del calcio, ora succederà lo stesso. Sono tre anni che lavoriamo a questo progetto, la pandemia ci ha costretti ad accelerare i tempi”.

IL CAMBIO—   “L’unico modo per sopravvivere è generare nuovi introiti, che al momento possono arrivare solo dal mercato televisivo. L’attuale Champions League non è attrattiva, lo diventa solo in marzo, la gente non vuole vedere partite contro squadre modeste. Ci sono 4 miliardi di potenziali tifosi che vogliono veder giocare i grandi club. Se questi grandi club vanno bene e incassano possono poi condividere quanto incassato con i club modesti, perché noi ragioniamo in termini di valori e di solidarietà. Hanno detto che è un progetto da ricchi per ricchi che renderà i poveri più poveri e non è vero. Ho sentito il Primo Ministro inglese Boris Johnson dire che vuole proteggere la Premier League ed evidentemente è stato informato male da persone che ora hanno dei privilegi che non vogliono perdere. Noi non vogliamo farla finita con la Premier, che è un’istituzione del calcio, né con gli altri campionati. Però se noi non guadagniamo moriremo, e con noi il calcio, che è in rovina”.

I CLUB E LA FORMULA—   “Siamo amici, ci conosciamo da tempo e abbiamo pensato la cosa più semplice, giocare tra grandi club. Per capirsi, il modello è quello del basket, con la sua Eurolega. Noi col Madrid nella pallacanestro partecipiamo alla Liga e alla Eurolega. Bisogna puntare sulla competitività del prodotto: una cosa che piace costa di più e genera maggiori introiti. Io non sono mosso da interessi personali, sono il presidente di un club in mano ai soci. Mi muovo per l’interesse del calcio, che voglio salvare. Hanno detto che la nostra è una Liga chiusa e non è così, ci sono 5 posti liberi per chi li merita. Ancora non abbiamo stabilito i criteri di qualificazione, ma lo faremo. Il nostro non è un progetto chiuso. È una piramide: noi generiamo entrate e le redistribuiamo più in basso. E poi se noi abbiamo più soldi possiamo comprare i giocatori degli altri, così i club che vendono incasseranno”.

LA CHAMPIONS ATTUALE—   “Quanto guadagnano i club con la Champions attuale? La Uefa incassa 130 milioni, noi ne incasseremo 400, più soldi per tuti. Generemo introiti per salvare il calcio. Oggi hanno presentato la nuova Champions. Per prima cosa nessuno ci capisce nulla, non si capisce come sarà e come funziona. E poi non genera denaro a sufficienza e parlano del 2024: se continuiamo col modello attuale saremo tutti morti nel 2024, la situazione è molto drammatica”.

I TEMPI E LA MANO TESA—   “Vogliamo partire il prima possibile, ma non ci sarà nessuno strappo. Noi cerchiamo il dialogo e a quello lavoreremo. Se si può, si parte, altrimenti aspettiamo un anno. E magari non troveremo un accordo e non si farà. Ma io spero di si, perché altrimenti moriremo tutti”.

LA UEFA E LA TRASPARENZA—   “Chi gestisce in regime di monopolio come la Uefa dev’essere trasparente, e la Uefa non lo è. Com’è possibile che io sappia quanto guadagna Lebron James e non quanto guadagna il presidente della Uefa? Nel Real Madrid i dirigenti si sono tagliati lo stipendio, e anche nella mia impresa. Non penso che l’abbiano fatto alla Uefa. La Uefa storicamente non ha una buona immagine, e non voglio citare qui cose successe in passato. Non possono minacciarci solo per aver pubblicato un documento che dice che vogliamo parlare con loro. Le minacce di Jesper Moller di escluderci dalla Champions attuale? Uno che confonde il monopolio con la proprietà. Bisogna dialogare, parlare per salvare il calcio, come fece Bernabeu negli anni 50”.

NESSUN TIMORE—   “Non ci cacceranno dall’attuale Champions e nemmeno dall’attuale Liga. Sono completamente sicuro di questo. Non ci sono le basi legali per farlo”.

LA LIGA E LA TRASPARENZA—   “Ho letto il tweet di Tebas, ripete questa cosa che la nostra idea è stata partorita al bancone di un bar alle 5 di mattina, ma io non frequento bar notturni e sono astemio. Non si può parlare in questo modo: il calcio è una cosa molto seria che interessa a 4 miliardi di persone nel mondo. Non possiamo continuare a perdere tanti soldi: noi non vogliamo entrare in conflitto ma solo mettere ordine. Di fronte però abbiamo gente che crede che le istituzioni siano sue, e non è così. Ci vuole trasparenza”.

GLI ALTRI—   “Pensavamo che il Psg potesse venire, però al momento non è così. Come i club tedeschi: hanno detto loro che vogliamo farla finita con i campionati locali e non è così. La meritocrazia non può esserci per 50 squadre, però ci sono club come Roma, Napoli e molti altri che hanno diritto di partecipare e studieremo la formula perché possano qualificarsi. Ma chi genera denaro sono i 15 membri fondatori, quelli sono quelli che creano il miglior spettacolo del mondo. Non posso dire chi arriverà, stiamo trattando, però ora ci prendiamo una pausa per spiegare le nostre intenzioni, poi si vedrà chi potrà unirsi”.

CEFERIN E AGNELLI—   “Non si può insultare un nostro collega. Il presidente della Uefa ha usato termini pessimi per rivolgersi al presidente di un club storico come la Juve. È un impresentabile. Un presidente Uefa non può comportarsi così, queste sono cose che devono cambiare. La Uefa dev’essere diversa, non vogliamo un presidente che insulta un presidente di un grande club, non si possono dire certe cose. Il presidente ha parlato in maniera viscerale e ora bisognerà chiarire”.

NIENTE MONOTONIA—   “Le partite tra i grandi club sono sempre attrattive, sono quelle che generano soldi, non credo che i 4 miliardi di tifosi vogliano vedere incontri tra rivali sconosciuti”.

TIFOSI PREOCCUPATI—   “Se me lo chiede cedo il posto di presidente a Laporta anche domani. O ad Agnelli, a chiunque. E poi sceglieremo gli arbitri migliori secondo criteri di professionalità. Questa è la parola chiave, un concetto al quale non siamo più abituati nel calcio”.

LE NAZIONALI—   “Bisogna cambiare tante cose, tante. Si giocano troppe partite, le nazionali partecipano a competizioni che la gente non sa nemmeno come si chiamano. Usare i giocatori dei club così non ha molto senso. Il calcio così non ha molto senso e va cambiato. Non ci saranno abbandoni in Superlega, perché abbiamo firmato un accordo vincolante e chi è dentro non può uscire. Tratterremo tutti”.

I DIRITTI TV—   “Va ripensata la distribuzione. Ci sono club piccoli che ora economicamente stanno bene perché dipendono quasi esclusivamente dalla divisione della torta televisiva. Non può essere che club piccoli stiano bene e il Barça perda denaro. Lo stesso vale per la Premier: con l’attuale redistribuzione le 6 grandi soffrono e club modesti no. L’attuale divisione dei diritti tv va rivista”.

PARTITE PIÙ CORTE—   “I giovani trovano le attuali partite troppo lunghe. Va ripensato il sistema, e magari vanno accorciate. Il mondo sta cambiando continuamente e non possiamo voltare le spalle ai giovani, trascurare i loro interessi. Dobbiamo staccarli dai tablet. Le nuove generazioni non ci capiscono e dobbiamo far si che lo facciano”.

TORNEO PARALLELO—   “Si, ci vorrà un torneo parallelo, come già esiste nel basket a livello europeo. E da li saliranno in Superlega, dove non possono giocare tutti. I tempi cambiano: gli scandinavi vogliono fare un campionato congiunto, così come quelli del Benelux o i Paesi dei Balcani.

MARCA E CAIRO—   Mostrano a Florentino Perez la prima pagina di Marca che dice: “Clamore contro la Superlega”. Il commento: “Dico solo una cosa, sapete chi è il padrone di questo giornale? È il presidente del Torino, che è un rivale della Juventus. Mi fa piacere darvi queste informazioni”.

MERCATO —   “Mi fermano per strada, nonostante abbia la mascherina, e mi dicono: ‘Presidente, prendi Mbappé!’. Cosa rispondo? ‘Tranquillo’. Il Madrid ha bisogno di un cambio. Abbiamo vinto tanto e finché si vinceva non si poteva cambiare, però ora sono successe tante cose e c’è bisogno di una sferzata, di recuperare la voglia perduta. Lavoro per questo. Non dico altro al tifoso. Cristiano Ronaldo? Non torna, perché ha un contratto con la Juve. Gli voglio molto bene ma non ha senso che torni. Anche a Sergio Ramos voglio molto bene ma al Madrid stiamo vivendo una situazione molto negativa economicamente e dobbiamo essere realisti: le cose vanno male per tutti. Non ho detto che non resta, assolutamente. Chiudiamo la stagione poi vediamo. Vinicius non si vende, e non si tocca. Non accettiamo nessuno scambio per lui”.

IL NUOVO BERNABEU—   “Sarà pronto per l’autunno del 2022 o alla fine dello stesso anno. Noi li giochiamo 25-27 partite all’anno, col tetto lo useremo tutti i giorni e ci permetterà d’incassare molto di più. Se ci saranno le condizioni per far tornare i tifosi lo faremo prima, anche coi lavori in corso. Era la nostra idea, poi la pandemia ha cambiato tutto. Sinceramente però non penso che in settembre potremo avere tifosi allo stadio”.

ZIDANE—   “È il miglior allenatore che abbiamo avuto, una leggenda. Non dice nulla, penso sia contento ma con lui non si sa mai. Il contratto ce l’ha, poi decide lui”.

(ANSA il 20 aprile 2021) "Sono molto toccato e arrabbiato di questa cosa a tal punto che ne abbiamo parlato con la squadra per una mezz'ora. E' giusto fermarsi come ogni tanto accadeva a scuola. Sono arrabbiato perché è stato fatto un colpo di stato nel calcio". Alla vigilia della sfida di campionato con il Milan, il tecnico del Sassuolo Roberto De Zerbi è durissimo sulla Superlega. "E' un comportamento che va a ledere il diritto che il più debole possa farsi strada - dice -, come se un figlio di un operaio non possa sognare di fare il chirurgo o l'avvocato. Domani non avrei piacere a giocare la partita perché il Milan fa parte di queste tre squadre".

Matteo Basile per "il Giornale" il 20 aprile 2021. Che il calcio sia un business molto più che un gioco lo sanno oramai tutti, anche i più nostalgici tra i tifosi, quelli che evocano le partite alle 14.30 della domenica, che odiano le pay tv e che rivorrebbero i numeri dall’1 all’11. Ma quando è troppo è troppo. E così dalle gradinate, vuote, la protesta dei tifosi contrari alla superlega e al calcio dei ricchi, si è spostata sui social ma non solo. Anche grazie ad alcuni capipopolo d’eccezione. «Il calcio non è niente senza i suoi tifosi. Se i tifosi si oppongono a questo schema piramidale anti-calcio, può essere fermato sul nascere», ha scritto su Twitter Gary Lineker, ex stella della nazionale inglese e ora influente commentatore tv. E se non è blocco unico tra tifoserie poco ci manca. Già dalla scorsa notte, quando i 12 club hanno comunicato la loro adesione alla Superlega anche tramite gli account social, sono piovuti centinaia e centinaia di commenti contrari, critiche, insulti e minacce di disertare gli stadi anche quando saranno riaperti, a fronte delle poche decine di supporter felici per la novità. «Rimuoveremo le nostre bandiere dallo stadio. Riteniamo di non poter dare più sostegno a un club che pone l’avidità finanziaria al di sopra dell’integrità del gioco», scrivono i caldissimi tifosi del Liverpool in un comunicato di fuoco. Ieri sera, in Leeds-Liverpool, i giocatori del Leeds sono scesi in campo con una maglia con scritto: «Il calcio è dei tifosi». E anche quelli di Arsenal, Chelsea, Manchester United, City e Tottenham hanno definito «sconcertante», «egoista», «contraria ai valori dello sport» la scelta Superlega tramite un comunicato congiunto. «Odio eterno al calcio moderno», tuonano anche i sostenitori più caldi del Real Madrid che dicono: «Così finisce il football come lo conosciamo». Anche in Italia tantissimi tifosi sono già sul piede di guerra. Quelli esclusi, ovviamente, dagli atalantini in giù, con la provocazione degli ultras della Sampdoria che dicono «Fatevi la vostra lega e andatevene in fretta». Ma anche quelli “eletti” di Juventus, Inter e Milan, in larga maggioranza sono contrari al progetto. Anche loro hanno vergato comunicati e si sono affidati ai social, con tanto di minacce di appendere le sciarpe al chiodo. Clamorosa anche la protesta di alcuni tifosi nerazzurri vip, da Gad Lerner a Enrico Mentana, fino a Gabriele Salvatores e Paolo Rossi, che hanno scritto una lettera all’ex capitano e vicepresidente dell’Inter Javier Zanetti chiedendo di «fare quanto è nelle possibilità per dissuadere la società Internazionale FC da un passo falso così grave». «È un’iniziativa che sovverte in modo brutale i criteri di ammissione ai tornei continentali fino a qui conosciuti», scrivono. Un calcio senza tifosi, nell’ultimo anno di pandemia, non è piaciuto a nessuno. Inimmaginabile dunque, una Superlega con stadi semivuoti, senza tifosi appassionati che rifiutano il ruolo di semplici “clienti”. A meno che anche le gradinate non vengano riempite ad inviti. La protesta è partita, il fronte sembra compatto. E se alla fine avesse davvero ragione Lineker?

Da corriere.it il 20 aprile 2021. "È difficile credere al livello di immoralità di alcune persone. Sono molto sorpreso e tutti i miei colleghi sono sorpresi, e quando parliamo ai club, questi sono scioccati. Il calcio non sarà venduto a, io li chiamo la sporca dozzina", così il presidente della UEFA Aleksander Ceferin mentre commenta la decisione di alcune società di calcio di unirsi in una competizione al di fuori dell'Unione Europea delle Federazioni Calcistiche. "È irrispettoso per i tifosi. È chiaro che quei club non si preoccupano dei tifosi. Pensano che i fan siano consumatori e clienti, e non si preoccupano della tradizione. Non si preoccupano di niente tranne che dei loro portafogli. A lungo termine non può avere successo. Non avrà mai successo una cosa così", ha dichiarato Ceferin. "Penseremo alle cause legali e a tutto il resto, ma è troppo lontano per parlarne. Come ti ho detto prima, abbiamo ricevuto le informazioni forse 20 ore fa, quindi non abbiamo avuto molto tempo per discuterne. Ma penseremo a ogni tipo di sanzione e perseguiremo tutte le vie legali possibili", ha concluso il presidente della Uefa.

Da gazzetta.it il 20 aprile 2021. "Vorrei rivolgermi ai presidenti di alcuni club, inglesi principalmente: signori, avete fatto un grande errore. Alcuni dicono per avarizia, ignoranza del calcio inglese, altro, ma ora non importa. Tutti fanno errori. Però è il tempo di cambiare idea. I tifosi lo meritano. Se non per l’amore del calcio, che immagino alcuni di voi non sentono, per il rispetto di chi si dissangua per poter andare allo stadio a tifare la propria squadra e volere che il sogno si mantenga vivo. Fatelo per il popolo inglese, fatelo per il calcio". È l’appello del presidente della Uefa, Aleksander Ceferin, durante il suo intervento in apertura dei lavori del Congresso Uefa a Montreux, in Svizzera, riferendosi ai club che hanno aderito alla Superlega. E ancora: "L'egoismo sta sostituendo la solidarietà. Il denaro è diventato più importante della gloria, l'avidità più importante della lealtà e i dividendi più importanti della passione. Per alcuni, i tifosi sono diventati clienti e le competizioni sono diventate prodotti. Con queste riforme stiamo costruendo il calcio del futuro, mentre alcune persone egoiste stanno cercando di uccidere questo gioco bellissimo". Ceferin prosegue: "Dove era il Manchester United prima che arrivasse Sir Alex Ferguson? E dove era la Juventus quindici anni fa? Per quanto ne so era in Serie B. Il calcio cambia, il calcio non appartiene a nessuno. O meglio, appartiene a tutti, perché il calcio fa parte del nostro patrimonio. Ci vuole rispetto per la storia, per la tradizioni e per tutti i club. Il calcio è dinamico e imprevedibile. Questo lo rende così bello. Noi abbiamo bisogno dell'Atalanta, del Celtic, dei Rangers, della Dinamo Zagabria e del Galatasaray. Abbiamo bisogno di questi club, perché le persone hanno bisogno di sapere che ognuno può sognare. Dobbiamo tenere il sogno vivo".

Giulia Zonca per "la Stampa" il 20 aprile 2021. Ora che il calcio scopre di potersi dire tutto in faccia forse smetterà di fingere. Mai stato un mondo troppo pacifico, ma sempre molto ambiguo: convenevoli, mezze frasi, sottintesi, battute, attese e in una sola notte i fronti opposti hanno spazzato via secoli di abitudini, cambiato il vocabolario e fatto entrare gli avvocati nella stanza dei bottoni. Per capire che cosa succede ora, al solito, bisogna vedere chi vince. E chi gioca con chi. Da una parte la Super Lega che si oppone al sistema con una competizione fatta su misura e dall' altra il calcio istituzionale che si sente tradito e reagisce con minacce pesanti. Al momento è difficile capire se le due realtà possono davvero esistere l' una senza l' altra, entrambe scommettono sul fatto di essere essenziali ed entrambe sostengono che non faranno un passo indietro. Lo facciamo noi per tentare di comprendere che cosa c' è dietro questa faida del pallone, dietro ai tre giorni del condor che potrebbero rivoluzionare il gioco più seguito al mondo. È Alexander Ceferin, il presidente Uefa, che racconta con una certa amarezza il sabato in cui ha scoperto «la sporca dozzina, anche se vorrei evitare di chiamarli così», ma non ci riesce e poi aggiunge «serpenti che hanno sputato in faccia ai tifosi», «avidi che dimenticano il proprio passato», «società animate solo dall' egoismo e dal narcisismo». Sono i 12 club che hanno firmato la scissione e se il presidente del gruppo, Florentino Perez, padrone dell' onnipotente Real Madrid, non viene mai nominato perché non ha mai avuto rapporti troppo felici con l' Uefa, Andrea Agnelli, vicepresidente della nuova organizzazione, è definito «la più grande delusione». I due avevano rapporti personali. Ceferin è il padrino della figlia di Agnelli «io sono stato avvocato penalista, ne ho incrociata di gente strana ma non ho mai visto qualcuno mentire così tanto e ripetutamente, sabato sera il presidente della Juventus mi ha garantito "sono solo voci" e qualche ora dopo, quando tutto ormai era evidente, ha spento il telefono». Agnelli era anche a capo dell' Eca, l' associazione per club che le dodici sorelle o «sporca dozzina», dipende dai punti di vista, hanno lasciato in blocco. Insomma ha fatto il doppio gioco, sono anche le accuse di Urbano Cairo che fa uguali rimostranze in Lega: «Agnelli si è comportato da Giuda così come Marotta (ad dell' Inter), lui non può più essere il nostro rappresentante in federazione, deve dimettersi». Fronti contro fronti a ogni angolo perché questa storia interagisce con i campionati di Italia, Inghilterra e Spagna, con il lavoro delle nazionali, con i format dei tornei, con i diritti televisivi, con gli sponsor, con i tifosi sedotti e abbandonati e ancora coinvolti o delusi: di certo non il centro delle attenzioni. Juventus, Inter, Milan, Real Madrid, Barcellona, Atletico Madrid, Manchester United, Manchester City, Liverpool, Arsenal, Chelsea, Tottenham è la storia della Champions ed è anche la fronda. L' Uefa vuole tutte fuori, senza più un posto nel calcio conosciuto fino a qui: «Non so in che tempi ma spero il prima possibile. Bandire i loro giocatori fin dagli Europei? I legali sono al lavoro, anche se i tempi sono stretti». Le dodici ribelli cercano altre tre consociate per far partire il progetto, «la cosidetta Super Lega», come ripete sprezzante Ceferin che dice di aver serrato i ranghi «non mi aspetto che altri li raggiungano». Ha mobilitato tutti con un appello «ai governi, alla società, alla cultura perché il calcio è una comunità». Vero e, come ogni strappo, l' azione della Super Lega è stata brutale, ma la contrapposizione tra calcio felice e solidale e calcio interessato solo agli introiti continua a reggere poco. Ceferin ribadisce che «l'Uefa non fa e non vuole profitti, ridistribuisce tutto in fondi per i giovani, per le cause meritevoli, per far crescere il movimento», tutte cose reali però basta prendere la figura di Nasser Al-Khelaïfi, capo del Psg e nuovo frontman dell' Eca dopo le dimissioni di Agnelli, per capire quante ombre resistano nello scricchiolante schema buoni e cativi. Lui è stato dipinto per anni come sinonimo del calcio in vendita, l' uomo del Qatar con la borsa piena di soldi, quello che ha fatto leva sui potenti di Francia per offrire consensi al Mondiale del Qatar. Ora che ha deciso di stare lontano dalla SuperLega, proprio perché i Mondiali sono in Qatar, è degno di fiducia. Bizzarro. Anche continuare a usare le minacce ai calciatori (non giocherai mai più un Mondiale) non è poi così nobile. Il calcio non si è venduto l' anima due giorni fa, ma quel che sorprende è che continui ad averne una che si rinnova e regge gli scossoni. Questa è particolarmente violenta: «La Champions andrà avanti anche senza la dozzina», garantisce Ceferin ma è difficile pensare che davvero i contratti abbiano poi lo stesso peso. «Noi andiamo dritti per la nostra strada», fanno sapere più voci della Super Lega, però che questa realtà stia in piedi e trovi un mercato in grado di sostenere l' investimento è tutto da dimostrare. Si va al muro contro muro in attesa di capire quale pezzo viene giù e se condividere qualche mattone è obbligatorio. Senza più ambiguità.

Daniele Dallera per il "Corriere della Sera" il 21 aprile 2021. L' intervista si interrompe un attimo, quanto basta per sentire una voce: «Presidente ha ragione lei, questo non è calcio, non è più sport, ma solo ricerca di denaro, un affare, vada avanti per la sua strada e difenda il calcio...». «Grazie, grazie», la risposta di Urbano Cairo, presidente del Torino, editore di questo giornale, disgustato per il progetto pomposamente battezzato Super League. «Non ha idea - precisa Cairo - di quante testimonianze di solidarietà, di sostegno, stia ricevendo: appassionati che sono addirittura spaventati da questa competizione che si vuole far nascere».

Il suo stato d' animo qual è?

«Di indignazione».

Perché?

«Partiamo dal calcio italiano, questa Superlega è un attentato alla sua salute, all' interesse collettivo. Tre società, Juve, Inter e Milan, hanno pensato esclusivamente alla loro salute economica, ai loro interessi. Non si preoccupano minimamente degli altri club, delle loro esigenze, dei loro problemi. Attenzione, società che pagano regolarmente gli stipendi, che faticano, lavorano, programmano con coscienza l' attività. E non mi pare proprio che in quel gruppo di 12 club, destinati a diventare magari 15, che promuovono la Superlega si rispettino certe regole virtuose, di sana gestione finanziaria, anzi tutt' altro».

Una Superlega forte di una base finanziaria di partenza da 3,5 miliardi. È questa l' attrazione fatale.

«Proprio così, con questo fondo iniziale si intende superare il momento di difficoltà economica che stanno vivendo tutti, chi più chi meno, disinteressandosi però totalmente del bene comune, delle sofferenze altrui. Non c' è alcun senso di responsabilità, bensì una mancanza totale di rispetto, nonostante si faccia parte per esempio di una Lega di serie A che ha cercato di affrontare il momento reso ancora più delicato dalla tremenda pandemia».

Perché ha urlato al «tradimento»? Soprattutto nei confronti di Andrea Agnelli, presidente della Juve, leader della Superlega.

«Il progetto che prevedeva l' ingresso in Lega di serie A dei fondi in una media company aveva una base di 1,7-1,8 miliardi, soldi utili al bene comune, anche a superare le gravi difficoltà, un finanziamento importante per il rilancio della stessa serie A, che in questi anni ha perso competitività nei confronti di altre leghe europee. Agnelli faceva parte del comitato interno delegato a trattare con i fondi, aveva un ruolo importante, di primus inter pares. Il tutto necessitava di un cambio della governance stessa della Lega. Era in atto un' operazione laboriosa. Il comitato dei 5, che attenzione nasce il 13 ottobre 2020, aveva ricevuto la delega di tutte le altre società. Improvvisamente il cambio di scena, nonostante il voto assembleare che aveva sostenuto l' operazione dei fondi: Agnelli e la proprietà dell' Inter prendono le distanze dai fondi. Adesso si capisce il perché».

Il perché è l' interesse supremo di Juve, Inter e Milan per la Superlega.

«Si viene a sapere di trattative tra questi 12 club europei, quasi tutti indebitati, di incontri segreti tra Agnelli e Perez. Questa è malafede, concorrenza sleale. Hai una delega della serie A e intanto tratti su un altro fronte, per superare i tuoi gravi problemi economici, i tuoi bilanci in sofferenza, danneggiando le società che ti hanno dato un mandato ben preciso».

Presidente Cairo, ha attaccato anche Marotta.

«È consigliere federale, con la delega della serie A: si deve dimettere. Agnelli ha lasciato l' Eca. Mi aspetto da Marotta un atto analogo per la Figc. Così anche Scaroni, presidente del Milan, coerente però sul versante fondi, perché ha continuato ad appoggiarli, deve dimettersi da consigliere di Lega. Stimo Scaroni, ma occorre un passo indietro».

Si aspettava un dissenso così unanime dai tifosi, dalle istituzioni sportive internazionali, Uefa, Fifa, Eca, in tutta Europa, rispetto alla Superlega?

«Sono sincero: sì. Già due anni fa, nella fase embrionale di questo progetto, i tifosi avevano manifestato la loro opposizione».

Perché? Dovrebbero essere attratti dalle grandi sfide.

«Non è così. Questa è una competizione che stravolge l' idea di calcio, di sport, non riconosce la passione. Il calcio regala emozioni, va vissuto seguendo questo spirito. Il calcio è partecipazione. Ribadisco: lo vedo, lo sento, lo percepisco dai messaggi della gente che critica la nascita di questa Superlega».

Dure anche le prese di posizione da parte della politica. Sono scesi in campo premier come Draghi, Johnson, Macron che hanno espresso giudizi negativi.

«Mi stupisco che i presidenti, le proprietà di queste 12 società che vogliono dare vita alla Superlega non abbiano interpretato il fastidio che genera una operazione simile, nata e immaginata sulla spinta di motivazioni biecamente finanziarie».

Una manovra per superare in bellezza, senza dare spazio ai valori dello sport, i problemi economici delle loro società.

«Momenti critici che vivono tutti, soprattutto in questa fase pandemica. Guardi, nella mia vita imprenditoriale ho acquistato aziende in sofferenza, ma non ho mai fatto operazioni spregiudicate ai danni di altri gruppi e concorrenti. Abbiamo pensato a ridurre i costi, a cercare altre fonti di ricavo, sempre badando alla correttezza, ripianando i debiti e oltretutto pagando sempre gli stipendi. Così nel calcio, dove è inutile negare le difficoltà che sono generali. Leggo di plusvalenze fantasiose di centinaia di milioni, rimandando al futuro i problemi».

L' Uefa è stata durissima con le società della Superlega. Ceferin implacabile con Agnelli. La Federcalcio di Gravina altrettanto minacciosa con Juve, Inter e Milan. Ma ora come si deve procedere?

«Ci vogliono sanzioni esemplari. Ciò che hanno fatto è molto grave. Stanno minando la vita delle Leghe, compresa quella italiana».

Nelle ultime ore segnali di sgretolamento del castello (di sabbia) chiamato Super League: cinque squadre inglesi hanno già abbandonato.

«Mi sembra abbiano fatto la cosa giusta, non ho mai creduto che un progetto simile potesse andare avanti».

Cosa la spinge a restare nel mondo del calcio?

«La passione, le emozioni che una partita regala, tra queste ci metto anche le sofferenze. È così da sempre, fin da bambino. Interpreto dentro di me, nel cuore e nella testa, quella fantastica creazione di George Bernard Shaw che ha scritto: "Il calcio è l' arte di comprimere la storia universale in 90 minuti". Questo è il bello del pallone, non è certo partecipare seguendo criteri finanziari».

Quando vedremo il Toro in Europa?

«La stagione è iniziata male, ora abbiamo ritrovato un cammino più sicuro, armonioso, sono tornate le vittorie. Noi andiamo avanti con le nostre forze, rispettando le regole e i valori dello sport. Non abbiamo Superleghe da tirare fuori dal cilindro».

Paolo Tomaselli per il "Corriere della Sera" il 20 aprile 2021.

Kalle Rummenigge, Ceo del Bayern Monaco e predecessore di Agnelli alla guida dell' Eca: perché si è arrivati a tutto questo?

«Se ne parlava da dieci anni e abbiamo sempre deciso di mantenere il modello esistente. Poi il coronavirus ha danneggiato tutto il calcio europeo, soprattutto le grandi squadre, che senza tifosi allo stadio hanno perso tanto. Alcuni club hanno pensato che fosse quindi il momento buono per fare una Superlega. Ed è nato un grande casino...».

Le modalità colpiscono. Il presidente Ceferin ha avuto parole molto dure contro Agnelli, che ne pensa?

«Mi dispiace che sia successo quel che è successo, perché hanno sempre avuto un rapporto amichevole e hanno collaborato bene. L' importante adesso è riprendere un certo dialogo. La mia speranza è quella di trovare ancora una soluzione, perché la Superlega danneggia tutto il calcio europeo. E dobbiamo evitarlo».

La soluzione qual è?

«La soluzione è ridurre i costi. Con la Superlega i club cercano di risolvere il problema dei debiti, peggiorati con la pandemia. Ma la strada non può essere quella di incassare sempre di più e pagare sempre di più giocatori e agenti. Dobbiamo ridurre un po' le cose, non metterne altre sul tavolo. Abbiamo esagerato con le spese: tutti, nessuno escluso. È il momento di fare un calcio meno arrogante».

Anticipare la Super Champions è una possibilità?

«No, quella del 2024 non si può anticipare, perché i diritti del marketing sono stati venduti. Le riforme sono confermate dal 2024: venerdì anche Agnelli era d' accordo».

Un presidente che fa gli interessi contrari dell' associazione che rappresenta non le sembra grave?

«Purtroppo volevo parlare con lui, ma non sono riuscito a trovarlo al telefono. Non so le sue motivazioni e senza saperle non voglio criticarlo.

Forse c' è una motivazione che non conosco: magari riesco a parlarci e a capire meglio».

Il fatto che oltre a Juve e Milan aderisca anche l' Inter alla Superlega la sorprende?

«Si dice che anche l' Inter abbia grossi problemi finanziari e magari pensa di risolverli così. L' incasso di cui parlano per la Superlega sembra enorme, ma non so se alla lunga i problemi saranno risolti. Io non ci credo. Non si può incassare sempre di più per compensare le spese».

Anche l' Uefa ha fatto i suoi errori, non trova?

«Il mercato è esploso nell' anno di Neymar, ma eravamo già sulla via sbagliata e non è colpa di Uefa e Fifa. Adesso abbiamo la grande chance di trovare soluzioni per tornare a un calcio più razionale. Tutte le aziende in Italia, Giappone, Germania o Usa pensano a ridurre i costi: solo nel calcio si pensa di risolvere tutto con l' aumento dei ricavi».

Lei ad agosto si aspetta di giocare la Champions senza Real, Juventus, Liverpool?

«Sinceramente spero di no, fatico ad immaginarlo. È un danno, su questo non si discute: senza dodici grandi squadre la competizione è danneggiata».

Conferma che il Bayern non entra nella Superlega?

«Non siamo dentro perché non vogliamo farne parte. Siamo contenti di giocare in Bundesliga, un business 'pane e burro', come dicono gli inglesi. Siamo contenti di fare la Champions e non dimentichiamo la responsabilità verso i nostri tifosi, che sono generalmente contro una riforma del genere. E sentiamo anche la responsabilità verso il calcio in generale».

Con un miliardo di debiti come il Barcellona è più difficile fare certe scelte?

«Noi fortunatamente non abbiamo questi debiti».

La scelta delle squadre inglesi è dovuta alle proprietà americane?

«Sì, perché in Europa si spende tanto e magari non si vince. Negli Usa si pensa per prima cosa a guadagnare».

Klopp, tecnico del Liverpool, è nemico storico della Superlega. Se venisse al Bayern sarebbe un colpo anche simbolico, non trova?

«Non abbiamo ancora deciso sull' allenatore, prima vinciamo il campionato e poi decidiamo cosa fare. Certo lui ha parlato pesantemente contro la sua società».

Paolo Tomaselli per corriere.it il 21 aprile 2021. Rudi Voeller, indimenticato attaccante della Germania campione del mondo a Italia 90 e della Roma, adesso è direttore esecutivo del Bayer Leverkusen e non usa giri di parole contro la Superlega: «È un crimine contro il calcio. Il fatto che Bayern Monaco e Borussia Dortmund non partecipino dimostra che hanno una spina dorsale». La Germania quindi è l’ultimo vero baluardo del calcio popolare? I tanti tifosi, anche italiani, che negli ultimi anni – ovviamente prima della pandemia — frequentano gli stadi della Bundesliga possono testimoniarlo: i club pensano al fatturato, come è giusto che sia, ma non dimenticano mai la passione della «base», mantenendo ad esempio prezzi accessibili per le partite. Una forma di rispetto e attenzione del tifoso che viene ripagata in termini commerciali e di fedeltà vecchio stile. A ricordare l’unicità del calcio in Germania, per statuto, c’è dal 1998 la regola del «50 % più 1» che garantisce ai soci del club di averne il controllo, attraverso l’elezione diretta del consiglio: anche se volessero, Bayern e Borussia devono quindi fare i conti con la composizione interna delle rispettive società. E, nonostante ci siano elementi e sponsor favorevoli alla Superlega anche in Bundesliga, i grandi club sanno che la maggioranza dei tifosi tedeschi sono contro il calcio moderno: questo non impedisce al Bayern di avere Qatar Airways come sponsor o di pagare il terzino francese Lucas Hernandez 80 milioni all’Atletico Madrid, ma di sicuro sconsiglia fughe in avanti a dei club che tra l’altro non sono indebitati a differenza di tanti soci fondatori della nuova organizzazione. E sono virtuosi anche come gestione. Solo il contestatissimo Lipsia targato Red Bull, non a caso osteggiato dalle altre tifoserie fin dai primi tempi della sua ascesa nel grande calcio tedesco, tecnicamente potrebbe affacciarsi alla Superliga senza pensare a troppi ostacoli: del resto diventare soci del Bayern costa meno di 100 euro, dieci volte di meno rispetto alla membership del Lipsia. Le due squadre che non seguono la regola del 50+1 sono Wolfsburg e Bayer Leverkusen, emanazione diretta delle aziende che le controllano. Ma a giudicare dalle parole di Voeller, uomo forte della squadra delle aspirine, anche le idee di questi club sulla Superlega sono molto chiare.

L'annuncio della Superlega: "Il progetto è da riconsiderare". Marcia indietro dell'Inter: "Noi non più interessati". Lucio Luca su La Repubblica il 21 aprile 2021. Comunicato ufficiale nella notte: dopo l'addio delle sei squadre inglesi, tutto viene sospeso. Appello della Roma alle tre italiane: "Uscite e chiedete scusa ai tifosi". La SuperLega si ferma dopo appena 48 ore dall'annuncio della partenza. Poco prima delle due di notte arriva un breve comunicato che - di fatto - sospende, almeno per il momento, il progetto che ha spaccato il calcio europeo. "La Super League europea è convinta che l'attuale status quo del calcio europeo debba cambiare - si legge nella nota - Proponiamo un nuovo progetto europeo perché il sistema esistente non funziona. La nostra proposta mira a consentire allo sport di evolversi generando risorse e stabilità per l'intera piramide del calcio, anche aiutando a superare le difficoltà finanziarie incontrate dall'intera comunità calcistica a causa della pandemia. Fornirebbe anche pagamenti di solidarietà a tutte le parti interessate del calcio". "Nonostante l'annunciata partenza dei club inglesi, costretti a prendere tali decisioni a causa delle pressioni esercitate su di loro, siamo convinti che la nostra proposta sia pienamente in linea con le leggi e le normative europee come è stato dimostrato da una decisione del tribunale per proteggere la Super League da azioni di terzi". "Date le circostanze attuali - concludono i vertici della Super League - riconsidereremo i passaggi più appropriati per rimodellare il progetto, avendo sempre in mente i nostri obiettivi di offrire ai tifosi la migliore esperienza possibile, migliorando i pagamenti di solidarietà per l'intera comunità calcistica". Dunque, in attesa che il progetto venga "rimodellato", l'esperienza della SuperLega europea può dirsi temporaneamente sospeso. Del resto, dopo l'addio delle sei squadre inglesi - Manchester City, Manchester United, Chelsea, Totttenham, Arsenal e Liverpool - anche un paio di spagnole avevano già fatto sapere che stavano meditando di sfilarsi. Restavano dunque solo il Real Madrid e le tre italiane. Ma, pochi minuti prima che venisse diffuso il comunicato ufficiale, anche l'Inter aveva fatto un passo indietro. "Il progetto della Superlega allo stato attuale non è più ritenuto di nostro interesse" avevano spiegato fonti nerazzurre all'Ansa già alla fine della riunione d'urgenza dei 12 club fondatori del progetto. E nella notte anche la As Roma è intervenuta ufficialmente sulla vicenda con una breve dichiarazione diffusa dai vertici della società: "Chiediamo ufficialmente alle tre società italiane - Juventus, Inter e Milan - di uscire dalla SuperLega e di chiedere scusa ai tifosi italiani". L'Inter lo avrebbe già fatto, si attendono le reazioni degli altri due club.

Il progetto perde pezzi. Si squaglia la Superlega, addio dell’Inter ma Agnelli fuori tempo massimo: “Patto di sangue tra club fondatori”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Perde i pezzi la Superlega di calcio europea che era stata annunciata soltanto domenica scorsa. A raggiungere l’accordo erano state dodici squadre. Sei di queste, tutte le inglesi, hanno fatto marcia indietro. A valutare il ritiro anche le spagnole Real Madrid e Barcellona. L’Inter è la prima delle tre italiane – con Juventus e Milan – a fare dietrofront. Tutto ciò dopo la riunione straordinaria delle 12 squadre fondatrici che avevano annunciato la nuova competizione. Suona già vecchia l’intervista di Andrea Agnelli al quotidiano Repubblica. Il Presidente della Juventus e vicepresidente della Superlega parla di “patto di sangue” tra i club fondatori. Il progetto prevedeva 15 club fissi, 12 di questi fondatori, sei inglesi, tre italiani e tre spagnoli. A essere criticato il criterio del merito, annullato dalla partecipazione fissa dei grandi club. Opposizione totale dell’UEFA che ha minacciato multe salate per le società e l’esclusione dai campionati nazionali e dalle competizioni con le nazionali dei calciatori. Dall’inizio contrarie Bayern Monaco, Borussia Dortmund e Paris Saint Germain. Particolarmente duro Aleksander Ceferin, Presidente UEFA, con Andrea Agnelli. Ha parlato di una persona “falsa”. Opposizione durissima da parte delle tifoserie dei club. Non solo quelli esclusi dal progetto. Mentre le sei inglesi salutano dopo le vibranti proteste delle tifoserie e i dietrofront delle stesse società – Manchester United, Manchester City, Arsenal, Chelsea, Tottenham, Liverpool – suonano fuori tempo massimo le dichiarazioni di Andrea Agnelli a Repubblica. “Fra i nostri club c’è un patto di sangue, il progetto della Superleague ha il 100 per cento di possibilità di successo, andiamo avanti – ha detto il numero uno bianconero – creare la competizione più bella al mondo capace di portare benefici all’intera piramide del calcio, aumentando la distribuzione delle risorse agli altri club e rimanendo aperta con cinque posti disponibili ogni anno per gli altri da definire attraverso il dialogo con le istituzioni del calcio”. Agnelli ha ribadito che le squadre avrebbero continuato a giocare nei campionati nazionali e ha smentito il bonus da 350 milioni all’anno. “Ogni settimana daremo ai tifosi le partite dei campionati nazionali e di una nuova competizione, capace di avvicinare le generazioni più giovani che si stanno allontanando dal calcio” anche perché “il calcio sta vivendo una crisi enorme di appetibilità verso le nuove generazioni”. Agnelli ha aggiunto di prendere in considerazione proposte con le vigenti istituzioni sportive. Mentre le dichiarazioni venivano rilasciate il torneo perdeva però pezzi: “Il progetto della Superlega allo stato attuale non è più ritenuto di interesse dall’Inter“, ha appreso intanto l’Ansa da fonti neroazzurre alla fine della riunione d’urgenza di ieri sera dei 12 club fondatori del progetto. “La Premier League, insieme alla FA, ha incontrato oggi i club per discutere le implicazioni immediate alla proposta della Super League. I 14 club presenti alla riunione hanno respinto all’unanimità e con vigore i piani per la nuova competizione”, si leggeva intanto in una nota della Premier League. Il vice-presidente del Manchester United Ed Woodward ha annunciato che lascerà il club a fine anno. Secondo il Guardian il premier britannico Boris Johnson era pronto a una “bomba legislativa” per fermare i club fondatori. Il premier era stato tra i primi con il Presidente francese Emmanuel Macron, seguiti dal Presidente del Consiglio Italiano Mario Draghi a bocciare il progetto. Florentino Perez, presidente del Real Madrid e presidente della Superlega in un’intervista aveva dichiarato: “Non lo faccio per salvare il Real, ma per salvare il calcio. Questo sport è in un momento critico, quello che stiamo facendo è solo per il bene del pallone. Se noi generiamo profitti, ne beneficiano tutti, anche quelli che stanno più in basso”. Sempre durissime le repliche del Presidente UEFA e del Presidente della FIFA Gianni Infantino. Rischia quindi di restare lettera morta la bozza di una nota della Superlega circolata nella notte e arrivata all’Ansa: “La situazione attuale nel calcio europeo necessita di un cambiamento. Una nuova competizione serve perché il sistema non funziona, la nostra proposta è pienamente conforme alle leggi. Ma alla luce delle circostanze attuali valuteremo i passi opportuni per rimodellare il progetto”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Roberta Amoruso per "il Messaggero" il 20 aprile 2021. Prendi i quasi 6,5 miliardi di euro di debiti certificati dopo la pandemia dalle 12 società fondatrici della Superlega e sommali agli 800 milioni di ricavi che hanno bruciato nell' anno del Covid. Ci vuole poco per intuire che il fallimento non è più solo una prospettiva teorica. E allora la ricerca di un paracadute è quasi obbligata. Non importa quanto elegante. In gioco c' è la sopravvivenza. C' è tutto questo dietro la strada imboccata a sorpresa dalle principali squadre europee per dire addio alla Champions League e farsi un campionato europeo tutto loro, la Superlega. Sono i club più ricchi d' Europa, ma solo a parole perchè anche nel 2021 si troveranno a dover tamponare una voragine. Secondo la 24esima edizione della Football Money League, pubblicata dallo Sports Business Group di Deloitte a gennaio, i club top 20 (per fatturato) del calcio mondiale perderanno ben oltre 2 miliardi di ricavi entro la fine della stagione 2020/21, il doppio dell' anno prima in cui erano sfumati 1,1 miliardi. In due anni i dodici club avranno bruciato da soli qualcosa come 2,2 miliardi di euro. Del resto certi debiti sono diventati insostenibili tra crollo dei diritti televisivi e azzeramento dei ricavi da stadio, solo minimamente compensati dalla crescita dei ricavi commerciali. In altre parole, la strada dell' addio a Fifa e Uefa con la creazione della Superlega è un modo per buttarsi alle spalle certi problemi. Non solo il famoso tetto su debiti che proprio Fifa e Uefa hanno già chiesto da tempo di ridurre. La stessa Uefa ha fatto sapere che sarebbe proprio il fatto che l' associazione europea non vuole concedere un maggiore controllo sulla vendita di diritti televisivi e commerciali ad aver fatto scattare la reazione. Non a caso, secondo quanto riportato dal Financial Times, gli organizzatori della Superlega avrebbero già tenuto colloqui preliminari con alcune emittenti tv sulla competizione, cercando di assicurarsi accordi con Amazon, Facebook, Disney e Sky. Contratti che porterebbero le entrate annuali della competizione a un valore di 4 miliardi, secondo alcune stime, di fatto il doppio dei premi distribuiti dalla Champions League, la principale competizione continentale per club. Incassi certi e garantiti di diritto a pochi eletti aiuterebbe i club a sostenere investimenti e programmazione. E addio volatilità dei ricavi, visto che la partecipazione alla top League Ue non sarebbe legata al raggiungimento della performance sportiva nel campionato nazionale. Senza considerare le potenzialità per sfruttare, senza troppi paletti, i brand dei club più seguiti. Un tesoro prezioso tra sponsorizzazioni e merchandising. Funzionerà così, se davvero il progetto andrà in porto. I 15 club fondatori avranno circa 3,5 miliardi come prestito-contributo una tantum a supporto dei loro piani di investimento e per blindare l' impatto della pandemia Covid 19. Ed è Jp Morgan a finanziare il capitale iniziale. Ma in cabina di regia ci sarebbero anche altri fondi americani in arrivo, pronti a mettere a frutto un mercato del calcio europeo che può valere molto di più se rivisto su modello dello show business americano. Le risorse non potranno essere utilizzate sul calciomercato, ma dovranno essere destinate agli investimenti sulle infrastrutture (quindi stadi) e per ridare fiato ai bilanci. Ai primi sei club fondatori andranno 350 milioni a testa, con importi progressivamente limati fino ad arrivare agli ultimi tre club, a cui sarebbero riservati 100 milioni. Passando invece alla distribuzione dei ricavi, il 65% sarebbe equamente distribuito, per metà alle società fondatrici e per l' altra metà a tutti i partecipanti alla Superlega. Un altro 20% è destinato ai meriti sul campo in base ad uno schema preciso, con il restante 15% distribuito sulla base del peso commerciale. Infine, il piano prevede anche contributi di solidarietà al calcio Ue, con l' obiettivo è di raccogliere 10 miliardi. Una consolazione che non piace praticamente a nessuno, tra le istituzioni del calcio, i tifosi, e anche la politica. Il progetto piace invece alle Borse: ieri il titolo Juventus ha guadagnato a Piazza Affari il 17,8% mentre il progresso del Manchester United quotato a Wall Street ha sfiorato il 10%.

(ANSA il 21 aprile 2021) - Il progetto Superlega è diventato un autogol per la Juventus in Piazza Affari. Sul listino di Borsa milanese il titolo cede l'11,75% a 0,77 euro, ampliando il già forte rialzo segnato in apertura. Un crollo che segue le prime difficoltà del progetto Superlega, con l'abbandono annunciato delle squadre di calcio inglesi.

Giuliano Balestreri Stefano Scacchi per "la Stampa" il 20 aprile 2021. Un calcio ai debiti e un altro al Covid. L' accelerazione verso la Super Lega delle dodici big europee, capitanate da Juventus e Real Madrid, è tutta nei numeri: dal miliardo e 100 milioni di minori ricavi a causa del Covid nella scorsa stagione ai 750 milioni di perdite nette; da 5,7 miliardi di debiti complessivi ai 3,5 miliardi di euro messi sul piatto da Jp Morgan per far partire la competizione il prima possibile con una sorta di bonus di benvenuto da 250/300 milioni di euro a tutte le squadre. Una cifra a cui potrebbero aggiungersi altri 3 miliardi di ricavi anticipati. Abbastanza per far saltare il banco e mandare in soffitta la "vecchia" Champions League. D' altra parte Juventus, Milan, Inter, Arsenal, Atletico Madrid, Chelsea, Barcellona, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Real Madrid e Tottenham valgono da sole, secondo le stime di Forbes, 29 miliardi di euro e qualcosa come 5 miliardi di potenziali appassionati (secondo la ricerca Fan Potential di Nielsen in 45 Paesi). Un patrimonio che fondi d' investimento e banche d' affari vogliono capitalizzare tra diritti tv e merchandising: un progetto che ricalca su larga scala quello per cui poco più di un anno fa, Paolo Dal Pino era stato chiamato al vertice della Serie A. Il presidente della Lega aveva messo in piedi un piano che prevedeva la creazione di una media company a cui conferire la gestione dei diritti tv, sfilando - di fatto - la governance economica del pallone alla squadre. Nella compagine azionaria sarebbe entrato il consorzio composto da Cvc, Advent e Fsi, il fondo strategico italiano, che, in cambio del 10% della media company (e quindi dei diritti tv) avrebbe investito 1,7 miliardi di euro. A far saltare il banco, affossando il progetto del canale di Serie A, fu proprio la clausola fatta mettere nero su bianco dagli investitori che vietava qualunque modifica al perimetro del calcio italiano. Tradotto: avendo subodorato il piano di una Super Lega internazionale, i fondi avevano preteso che nessuna squadra lasciasse la Serie A per un' altra competizione. Una richiesta motivata dalla necessità di difendere il valore di un'operazione miliardaria che senza Juve, Inter e Milan avrebbe un peso economico inferiore. La Super Lega replica il progetto di Dal Pino su larga scala, ma con una differenza cruciale: la proprietà della competizione resta alle squadre. Dal punto di vista finanziario quello di Jp Morgan è un prestito a lungo termine che garantisce ossigeno immediato alle casse dei società e che verrà ripagato con le maggiori entrare garantite dalla competizione. Oggi, chi vince la Champions League guadagna circa 100 milioni di euro, una cifra che nei piani dei club fondatori dovrebbe andare a tutti i partecipanti alla nuova competizione. Il conto è presto fatto: i diritti tv dell' ex Coppa Campioni valgono circa 2,4 miliardi di euro a cui si aggiungono altri 400 miliardi di diritti commerciali. Una cifra che viene poi divisa tra 32 squadre; gli analisti, invece, sono convinti che le televisioni e gli Ott da Dazn ad Amazon potrebbero spendere molto di più per trasmettere una competizioni di soli dei big match. E di conseguenza i fondatori potrebbero essere costretti a rinegoziare i contratti dei calciatori: aumenteranno il numero delle partite e delle trasferte internazionali. Quindi partiranno i primi rinnovi verso l'alto, generando spese che annulleranno in parte gli effetti delle nuove entrate. Ma Uefa, Federazioni e Leghe potrebbero accordarsi per dichiarare risolti i contratti dei calciatori dei 12 club ai fini dei loro ordinamenti. Così in teoria club come Psg e Bayern Monaco, rimasti fuori dalla Super Lega, potrebbero assicurarseli a parametro zero aprendo contenziosi infiniti.

Da ilbianconero.com il 20 aprile 2021. "Ma dove si avviano Agnelli e soci? Riescono a malapena a garantirsi un tetto sopra la testa". Titola così il The Guardian a proposito della vicenda Superlega. Nel suo editoriale Jonathan Liew, prima firma del quotidiano, attacca: “Come siamo arrivati a questo punto? Come sono riusciti i club d’élite a progettare uno scenario in cui un’acquisizione ostile è diventata inevitabile, persino irresistibile. Come ha fatto lo sport più popolare al mondo a cedere così tanto del suo potere, ricchezza e influenza a persone che lo disprezzano? Questa è un’idea che poteva essere ideata solo da qualcuno che odia davvero il calcio fino alle ossa. Chi odia così tanto il calcio da volerlo potare, sventrare, smembrarlo, dal calcio di base ai Mondiali? Che trova offensiva l’idea stessa di sport agonistico, una malsana distrazione dall’obiettivo principale, che in un certo senso è sempre stato l’obiettivo principale del capitalismo. Incontrollato e indiscusso, il capitale non si è mai limitato ad accontentarsi di un posto a tavola, ma invariabilmente chiederà il potere di stabilire le proprie regole. Questo, in gran parte, è quello che sembra essere successo”.

LA DURA OFFENSIVA - “Vale la capire notare perché i top club d’Europa hanno deciso di farlo adesso. Il Barcellona ha un debito di 1 miliardo di sterline e deve affrontare una delle più grandi crisi finanziarie della sua storia. Il Real Madrid non è stato in grado di permettersi un solo grande acquisto la scorsa estate. La Juventus deve trovare circa 100 milioni di sterline entro la fine di giugno. I proprietari dell’Inter hanno cercato finanziamenti di emergenza a febbraio. Questi sono i club più redditizi nello sport più redditizio del mondo: le menti più acute, i ragazzi più intelligenti nella stanza. Dobbiamo davvero credere che questi cervelli galattici possano lavorare insieme o organizzare una lega separatista quando riescono a malapena a tenere un tetto sopra la testa?”.

Superlega, "no" di Vittorio Feltri e affondo contro Andrea Agnelli: "Il calcio non è quello che sognano i meccanici di auto". Vittorio Feltri su Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. Non ho ben capito cosa stia succedendo nel mondo del calcio, ma la sensazione è che i grandi club, sprecando troppe risorse in una gestione manicomiale, intendano sistemare i loro conti fallimentari sfasciando un giocattolo che attualmente funziona alla perfezione. La rivoluzione annunciata consiste nell'istituire un super campionato europeo accessibile soltanto agli squadroni, per esempio la Juventus, l'Inter e il Milan per quanto riguarda l'Italia. Ogni Nazione potrebbe iscrivere al super torneo tre o quattro formazioni al massimo, in modo da creare l'élite continentale del pallone. Tutte le altre equipe, Roma, Lazio, Fiorentina, Atalanta, Torino eccetera dovrebbero accontentarsi della serie A ridotta a pattumiera. I particolari tecnici Libero li svela nelle pagine dedicate allo sport, leggendole vi renderete conto che si tratta di una fregatura per quasi tutte le società che non siano le due milanesi e quella del signor Fiat. Una coltellata alla schiena dell'Italia della pelota che pure ha espresso ed esprime valori di alto significato agonistico. In poche e brutali parole, se ora c'è qualcosa da noi che funziona a meraviglia sono proprio le partite della massima serie, disputate anche e soprattutto da sodalizi provinciali e regionali, e non si comprende perché occorra distruggere una organizzazione perfetta soltanto per andare incontro ai desiderata di Agnelli e di pochi altri ex signorotti, i quali hanno speso talmente tanti milioni che ora sono a secco e tentano di sfruttare la possibilità di riempirsi le tasche disputando un campionato per soli fighetti strapagati grazie ai diritti televisivi. L'idea venne fuori circa un anno fa e fu il presidente bianconero a divulgarla domandando: «Che ci fa l'Atalanta in Champions accanto a noi?». Dichiarazione volgare e improntata a stoltezza, tanto è vero che domenica scorsa i nerazzurri hanno battuto e superato in classifica gli juventini pieni di boria. Questa è la realtà, che si completa aggiungendo che il bilancio della società bergamasca, ai primi posti della graduatoria, è il migliore - in forte attivo - della serie A. Tuttavia ciò non conta agli occhi degli sciuponi torinesi che, allorché non sanno amministrarsi, cercano di raccattare quattrini con azioni scorrette a danno dei piccoli più oculati di loro, capaci unicamente di scialacquare una fortuna per comprare Ronaldo e di farsi buttar fuori dalla principale competizione europea.

Complimenti. Non sono convinto che il progetto ammazzacalcio annunciato vada in porto. Mi auguro di no. Penso che le numerose ottime squadre escluse dal consesso ristretto dei bulli citati siano in grado di esercitare il loro potere ostativo. A noi il calcio piace com'è. Non come lo sognano i meccanici di automobili.

Estratto dell'articolo di Matteo Pinci per "la Repubblica" il 20 aprile 2021.  […] Zibi Boniek […] È anche presidente della Federcalcio polacca […]

Boniek, che idea ha di quel progetto? «È la guerra mondiale del calcio […] Chi vuol giocare la Superlega non potrà giocare le competizioni nazionali. C'è un sistema di licenze: per partecipare al campionato nazionale di una federazione devi rispettare le regole Uefa e giocare solo competizioni organizzate dalla Uefa».

[…] A proposito: lei ha parlato spesso con Agnelli della riforma della Champions: che idea si è fatto della sua retromarcia?

«Non riesco a capire il suo comportamento. Abbiamo fatto almeno 20 riunioni, la riforma con la Champions a 36 squadre era frutto di uno schema proposto anche da Andrea Agnelli. Per un anno intero l' ho sentito parlare di questo. Io credo ne esca devastata la sua immagine. Venerdì l'Eca era unanime sul progetto della nuova Champions e lui ne era a capo. Due giorni dopo, è stato tutto rinnegato o comunque superato dal lavoro su un progetto opposto. Dopo aver lavorato lui stesso al piano della Uefa».

Le sembra un modello applicabile quello che hanno scelto?

«È un principio molto americano. Ma negli Stati Uniti è tutto diverso: sapete come funziona la Major League Soccer di calcio? Una squadra ha il proprio budget, lo versa alla federazione che poi gestisce e paga i giocatori. Non puoi sforare. Mai. Qui le squadre non sono abituate a quel sistema. Qui se hai 300 milioni di incassi ne spendi 400». […]

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 20 aprile 2021. La mia prima reazione è stata esortare Uefa e federazioni a escludere immediatamente dai campionati e dalle coppe i dodici club (af)fondatori. Le norme sono chiare: per partecipare alle competizioni nazionali e internazionali bisogna accettare - al momento dell’iscrizione, che avviene ogni anno - le regole delle istituzioni di riferimento. Quando i 12 club affondatori sostengono di non poter essere esclusi, sbagliano: sono loro che hanno preso la porta e se ne sono andati da casa, sbattendola. Lo scorso 10 gennaio fu depositato il logo della Superlega, a conferma che i Dodici stavano lavorando da tempo al progetto. In seguito hanno incaricato Heidrick & Struggles di individuare una società in grado di aprire e seguire il sito dedicato. La comunicazione è stata poi affidata a professionisti del fondo Elliott. Tutto apparecchiatissimo, insomma, prima di approdare alle firme vincolanti. Il punto di non ritorno. In sostanza hanno preso in giro il loro mondo. Juve, Inter e Milan, per restare alle nostre, si sono fatti gioco della Lega e delle società che ne fanno parte. Allora il problema non era Dal Pino, che voleva portare i fondi, ma il fatto che l’ingresso degli investitori avrebbe impedito la creazione della Superlega. A proposito delle altre 17 squadre della serie A - il discorso ovviamente può essere esteso a Spagna e Inghilterra -, mi chiedo come possano accettare di competere a livello nazionale con avversarie i cui ricavi aumenteranno di 300-350 milioni l’anno, ben sapendo che queste ultime non punteranno a un posto in Champions, avendo già un supertorneo di proprietà. La seconda reazione, meno di pancia, mi ha portato a individuare le responsabilità, enormi, di Fifa e Uefa: nella fase della crisi più disperante, a partire dallo scorso mese di maggio fino a ieri, non hanno fatto interventi economici sostanziali per aiutare i club in difficoltà. I ricavi di Fifa e Uefa, lo ricordo, derivano in massima parte da coppe e tornei, i cui protagonisti sono i giocatori pagati dai club: se avessero versato, che so, due miliardi di “ristori”, come più volte sollecitato, sarebbero oggi inattaccabili. Invece la coda di paglia fa più debole la loro reazione. Ha ragione Andrea Agnelli quando lamenta per i club la perdita di incassi di 6,5-8,5 miliardi in due stagioni, quando denuncia il calo di interesse e il cambiamento dei gusti dei tifosi, quando sostiene che troppe partite non sono competitive, quando avverte che l’interesse dei fondi stranieri è legato non alla solidarietà, ma ai ritorni degli investimenti, e da ultimo quando chiede al calcio di cambiare formula e geografia dei campionati. Ma c’è una differenza sostanziale tra una Champions che diventa un campionato europeo, mantenendo una circolarità di squadre ammesse o escluse unicamente in base al merito sportivo nei rispettivi tornei, e una Superlega intesa come una monade, dove si accede unicamente sulla base del primato finanziario delle società. Nel primo caso si promuove lo spettacolo, tutelando il primato della componente sportiva. Nel secondo si difende unicamente il rischio di impresa, trasformando il calcio in una corporazione finanziaria. Sarebbe la morte di questo sport, per come l’abbiamo conosciuto da oltre un secolo. Per quanto rilevante sia il peso finanziario dei club, deve essere garantito al Leicester come all’Atalanta il diritto di ribaltare i rapporti di forza e di concorrere a parità di condizioni con le più grandi. Perché la leggenda di Davide che batte Golia è l’alchemica formula di qualunque sport. È singolare che un calcio che si è andato sempre più “finanziarizzando” cada nella tentazione di azzerare il rischio d’impresa, tentazione tipica di quegli industriali abituati per cultura e formazione a rischiare con i soldi dello Stato. Ma è la prova che i cartelli dei monopoli e lo statalismo sono la stessa cosa, e cioè sono nemici della libera concorrenza, la sola capace di promuovere lo sviluppo di un sistema. I 12 club hanno fatto male i calcoli: un sistema chiuso non protegge un’egemonia finanziaria, né copre gli errori di manager che hanno sbagliato investimenti e aperto voragini nei bilanci, male o mai controllati. Ci ripensino e accettino un dialogo con le istituzioni del calcio, per aiutarle a cambiare e a migliorarsi, non per pugnalarle alle spalle.

(ANSA il 20 aprile 2021) Di fronte alle crescenti proteste del mondo del calcio contro il progetto della Superlega due club inglesi, probabilmente Chelsea e Manchester City, starebbero pensando di riconsiderare il proprio coinvolgimento. Secondo i rumors raccolti dal Times e dal Guardian, che citano fonti interne alla Federcalcio inglese, i dirigenti di due club inglesi nelle ultime ore avrebbero manifestato dubbi e preoccupazioni sulla scelta di andare allo scontro con le autorità calcistiche. Non escludendo una clamorosa retromarcia. Un'ipotesi, quest'ultima, smentita dalla Bbc, che - citando fonti interne ai club - liquida le indiscrezioni circolate come tentativi di destabilizzare il fronte ribelle.

(ANSA il 20 aprile 2021) "Riteniamo che qualsiasi proposta senza il supporto della UEFA non risolva i problemi che attualmente la comunità calcistica deve affrontare, ma è invece guidata dall'interesse personale". Così il presidente del Paris Saint-Germain, Nasser Ghanim Al-Khelaifi, in una nota sulla Superlega. ''Il Paris Saint-Germain è fermamente convinto che il calcio sia un gioco per tutti. Sono stato coerente su questo fin dall'inizio. Come squadra di calcio, siamo una famiglia e una comunità, il cui tessuto sono i nostri fan, credo che non dovremmo dimenticarlo - prosegue il numero uno del club francese -. C'è una chiara necessità di far avanzare il modello di competizioni UEFA esistente, presentato ieri dalla UEFA e che conclude 24 mesi di ampia e collaborativa consultazione in tutto il panorama calcistico europeo. Il Paris Saint-Germain continuerà a lavorare con la UEFA, la European Club Association e tutte le parti interessate della famiglia calcistica, sulla base dei principi di buona fede, dignità e rispetto per tutti ".

(ANSA il 20 aprile 2021) "La Superlega non è sport": così Pep Guardiola, manager del Manchester City, ha bocciato il progetto di Superlega, criticando il sistema chiuso ad inviti che caratterizza la nuova controversa competizione. "Quando non esiste relazione tra l'impego e il risultato, non è più sport - ha dichiarato il tecnico catalano alla vigilia della partita contro l'Aston Villa -. Ma stiamo parlando solo di un comunicato. Sono altre le persone che devono chiarire, che hanno l'obbligo e il dovere di uscire allo scoperto al più presto e di spiegare a tutto il mondo quale è la situazione e il perché della loro decisione. L'Ajax ha vinto quattro o cinque Coppe dei Campioni e non c'è? Devono spiegarlo a tutti noi".

(ANSA il 20 aprile 2021) Anche i rappresentanti delle tifoserie dei sei club inglesi coinvolti nella Superlega hanno preso parte questa mattina alla riunione convocata dal Premier Boris Johnson con i vertici del calcio inglese. L'Arsenal Supporters Trust (Ast), che riunisce i tifosi dei Gunners, si è detto "felice di aver sentito il Primo ministro promettere che farà il possibile per bloccare la Superlega", contro cui si è già schierata "la stragrande maggioranza dei tifosi". Dopo l'incontro con Johnson, l'Ast e le altre tifoserie si confronteranno anche con il leader dell'opposizione Sir Keir Starmer, a dimostrazione - spiega lo stesso Ast - "che il sostegno da parte di tutta la politica è benvenuto e dimostra che la nazione è unita contro questi club avidi".

Superlega, "Chelsea e Manchester City si ritirano": crollato il piano in tempo record. Libero Quotidiano il 20 aprile 2021. Il Chelsea si prepara a ritirarsi dalla Superlega e il Manchester City è pronto a seguirlo a ruota. In più il Barcellona ha fatto sapere che ne farà parte soltanto se tutti i soci del club voteranno all'unanimità l'ingresso. Ma intanto i palazzi di giustizia cominciano a muoversi in difesa della nuova competizione. Un tribunale di Madrid ha infatti emesso una misura cautelare che impedisce alla Fifa, alla Uefa, alla Liga spagnola e alle federazioni calcistiche nazionali di prendere provvedimenti contro i club che hanno annunciato la fondazione della nuova competizione e contro i loro tesserati. La decisione è arrivata a seguito di un sollecito della stessa Superlega. L'organo in questione si è mosso per vietare alla Fifa, alla Uefa e a tutte le federazioni o leghe associate di adottare qualsiasi misura che proibisca, restringa, limiti o condizioni in qualsiasi modo, direttamente o indirettamente, l'avvio. Allo stesso modo, queste misure vietano l'adozione di qualsiasi sanzione o misura disciplinare nei confronti delle società partecipanti, dei loro giocatori e dirigenti. Una decisione importante, dopo le minacce arrivate dagli organismi di governo del calcio europeo e mondiale nei confronti dei 12 club "scissionisti" riguardanti possibili esclusioni dalle competizioni in corso e da quelle future, tanto delle società quanto dei loro tesserati. Ma adesso arriva anche la notizia che il club di Stamford Bridge è deciso a ritirarsi dalla competizione. Una decisione che minerebbe già le prime certezze per una competizione che ha in serbo di sovvertire il potere di Uefa e Fifa e di cambiare le regole del calcio mondiale. Una notizia che darebbe credito proprio a chi vede la Superlega solo un torneo per club ricchi, ma pieni di debiti.

(ANSA il 21 aprile 2021) - Protesta dei tifosi della Juventus contro la Superlega. "La nostra storia non va infangata, barattata e commercializzata", si legge su uno striscione del Viking, gruppo ultrà bianconero, comparso sui cancelli dell'Allianz Stadium di Torino nella notte. "Noi siamo la Juventus Fc. No alla Superlega...Vergognati!", si legge ancora sullo striscione, che in queste ore sta facendo il giro dei social e che sembra riferito al presidente del club Andrea Agnelli.

Massimo Falcioni per "tvblog.it" il 18 maggio 2021. Fabio Fazio e la superstizione. “Da quando sono diventata presidente del Museo Egizio non mi invita più da nessuna parte, non vuole neanche parlarne”, ha rivelato Evelina Christillin a Tiki Taka. La dirigente torinese, tifosissima juventina e oggi membro femminile del consiglio della Fifa, è stata ospite nella trasmissione di Piero Chiambretti svelando un curioso aneddoto, tutto da verificare, sul padrone di casa di Che tempo che fa. “La voce che gira a Torino è che la Juve non vinca la coppa per colpa del museo che porterebbe sfiga”, ha ironizzato Chiambretti. Una battuta, che però è stata sfruttata dalla Christillin per mandare un messaggio al conduttore di Rai 3: “Intervengo magistralmente dall’alto della mia posizione apicale. In effetti, il tuo collega Fabio Fazio, grande mio amico dei tempi che furono, pensa veramente che gli egizi portino male”. Non si è fatta attendere a quel punto la frecciata dello stesso Chiambretti: “Non la invita? Credo che questa sia una sua fortuna”. Il Museo Egizio di Torino è il più antico museo a livello mondiale interamente dedicato alla civiltà nilotica e la Christillin ne è la presidente dal 2012. Della scaramanzia di Fazio si è scritto molto nel corso degli anni, con il diretto interessato che non ha mai smentito le voci. Anzi, in un’intervista rilasciata a Tv, Sorrisi e Canzoni, le confermò, elencando una serie di rituali a cui non rinuncia mai: Percorro sempre la stessa strada dai camerini allo studio, in scena devono entrare prima le signore, mi faccio microfonare sempre nello stesso identico posto e guai a nominare i colori innominabili. Il veto sull’antico Egitto potrebbe essere una eredità raccolta da Mike Bongiorno. Tempo fa, Ludovico Peregrini, il signor No del Rischiatutto che nel 2016 affiancò pure Fazio nell’edizione rinnovata del gioco, spiegò come nei quiz di Bongiorno fossero bandite le domande sull’argomento in questione.

Antonello Caporale per "il Fatto Quotidiano" il 26 aprile 2021.

Non cucina, non stira, non lava. Nossignore. Juventina affluente ma attualmente a lutto.

La figura è stata purtroppo planetaria. Enormemente contigua alla famiglia Agnelli. Chi mi odiava o soltanto antipatizzava mi chiamava "la signora degli Agnelli", per segnalare la mia eccessiva familiarità e adombrare, come si usa, il favore immeritato. Le malelingue non hanno età, hanno invece tempo libero e svolgono ottimamente il loro compito. Le posso dire? Me ne sono sempre infischiata!

Ora di Evelina Christillin si parla come della futura presidente della Juventus. 

Assolutamente infondata la notizia e già plurismentita. Nessuno mi ha chiamata e se vuole la mia opinione penso che Andrea Agnelli continuerà nel ruolo.

Bah, tutto potrebbe cambiare.

Con la Juve è un amore infinito, inesauribile, totale. Ed è già un orgoglio il solo fatto di poter essere annoverata tra le possibilità.

Non ha fondamento l'ipotesi ma fa immenso piacere per la stima che immagino la sostiene. Anche dopo questa figura planetaria resta orgogliosa, sfacciatamente fan bianconera?

Anche ora.

Invece la moltitudine dei tifosi è senza guida e la fede vacilla. Il presidente della Lega Paolo Dal Pino non riesce nemmeno più a pronunciare il nome, figurarsi a fare il tifo a cui era abituato.

Beh, conta anche il fatto di essere stato sfiduciato, tra gli altri, dal presidente della Juve. Ma è un caro amico, e bravissimo. Vedrà che resisterà. La ruota gira, lo ricordi.

Dica una parola compassionevole al popolo bianconero addolorato e sfibrato.

Dobbiamo avere una visione diacronica del fenomeno Juve. Resistere alle pulsioni del presente, alla figuraccia patita, all'impellenza di un giudizio e confortarci con la storia più che centenaria di questa grande squadra. È sempre stata in mano a una sola famiglia mentre le altre compagini sono barattoli che viaggiano tra gli Emirati, la Cina e fondi americani. La nostra è una storia vittoriosa, ineguagliata.

Christillin, lei parla già da presidente.

Ma che dice?

È membro della società affluente e decidente. E dunque le piacerà sicuramente Draghi.

Ha una reputazione internazionale invidiabile, una rete di relazioni unica. Non avevo dubbi. Ma anche Conte mi pare una persona ben assestata, con una presenza di tutto rilievo.

Non avevo dubbi.

Rispetto al naif leghista è lord Brummel.

Lei è commendatore della Repubblica.

E Stella d'oro.

Anche Grand'Ufficiale.

Anche Collare d'oro.

Nel cda della banca Carige?

Non più.

Dunque: teatro Regio.

No.

Anche Presidente della fondazione del Museo Egizio.

Quello sì. Ed è un impegno che mi dà tante soddisfazioni. A maggio Einaudi pubblica un mio libro sulla necessità della memoria per guardare al futuro.

Ora in Credit Agricole.

Membro del cda e presidente del comitato remunerazioni. Dimentica qualcosa? Milan&Partners. Si occupa dell'immagine di Milano nel mondo. Designata da Beppe Sala, il sindaco.

E poi l'Uefa.

Un vero orgoglio.

Ma questo presidente Ceferin sembra un buttafuori.

Non commento il suo giudizio e non parlo della politica dell'Uefa.

Ha modi gangsteristici.

Non commento. So che è un abile e competente presidente.

Comunque se non era per gli inglesi voi dell'Uefa eravate fritti.

Questo è abbastanza vero.

Gli italiani tutti accucciati.

Alcuni aspettavano la chiamata evidentemente.

Evelina Christillin, la più grande scalatrice d'Italia.

Non ho ricevuto calci nel sedere, non sono raccomandata. Sono arrivata dove sono grazie al mio lavoro.

Ah, stavamo dimenticando che è stata presidente dell'Enit, l'ente nazionale del turismo.

Ah, stavamo dimenticando che sono stata nominata dal sindaco di Genova presidente dello steering committee della The Ocean Race, la regata velica intorno al mondo che arriverà a Genova a giugno 2023.

Finito? 

Finito.

G. Zon. per "la Stampa" il 21 aprile 2021. Appena rieletta nell' esecutivo Uefa in quota Fifa Council, Evelina Christillin ironizza un po' sulla Super Lega della discordia.

Si aspettava questo tentativo di scissione?

«Proprio no. Il nuovo corso della Champions è stato discusso per mesi, rivisto più volte e si è atteso fino all' ultimo l' accordo di tutte le parti. Non c' erano avvisaglie per un voltafaccia così».

Che effetto le ha fatto vedere la sua Juve tra le 12 ribelli?

«Mi è spiaciuto. Ho vissuto tutta la vita legata a questa squadra e oro scopro che vorrebbe diventare un'altra creatura. Per me non è solo tifo, è vita e ricordi: io e mio zio al vecchio Comunale. La Juve è Torino, è la memoria di tanti che come me l'hanno nel cuore e non questa immagine planetaria proiettata dalla Super Lega».

Si è data un motivo dello strappo?

«Immagino che chi ha optato per quella strada cercasse un modello americano. Tipo Nba, ma quello nasce come sport e show business. Non è solo un altro sistema, è un'altra cultura. Non la nostra. Le franchigie Usa cambiano proprietà di continuo, persino città, non ci sono retrocessioni è tutto in salsa circense. Non funziona qui. Poi magari la generazione zeta si appassionerebbe, ma non ne sono così sicura».

Juventina, frequentatrice di casa Agnelli e carica Uefa. Si è sentita a disagio?

«Per cosa, per essere juventina? In questa storia non ho dubbi, l'idea della Super Lega, così come si è presentata, non mi piace, travalica qualsiasi ordinamento sportivo nazionale e internazionale e "il modo ancor m'offende" come dice Dante. Più del cosa e il come che mi ha lasciato senza parole».

Resta juventina?

«Sicuro, chiedermi di cancellare il mio tifo sarebbe pretendere troppo».

Se mai dovesse esistere una Super Lega guarderà le partite della Juve?

«Se mai esisterà una Super Lega la Juve la potrò guardare soli lì, perché non potrà giocare da nessuna altra parte».

Cosa avrebbe detto l'Avvocato?

«Mi ricorda una storia che va indietro nel tempo, quando la società voleva vendere Vieri e l'Avocato ha detto "È come Brigitte Nielsen, fuori mercato" e in una notte lo hanno ceduto.

C' era la triade allora. Si sarebbe sentito più o meno così».

Ha parlato con Andrea Agnelli in questi giorni.

«No».

L'Uefa avrebbe potuto fare qualcosa per evitare questa situazione?

«No, abbiamo interagito con le società, modificato una competizione ascoltando le loro ragioni. Comunque fa male fare questi discorsi e proprio adesso, con milioni di morti, milioni di disoccupati discutere sui miliardi del pallone. Sarà retorica ma se c' era un momento in cui non farlo era questo. Così il calcio diventa odioso».

Dal "Corriere della Sera" il 21 aprile 2021. «La decisione di Chelsea e Manchester City è, se confermata, assolutamente quella giusta e per questo li elogio. Spero che gli altri club coinvolti nella European Super League seguano il loro esempio». Con questo messaggio su twitter il primo ministro britannico, Boris Johnson, ha accolto ieri sera la notizia della retromarcia dei due club inglesi. Fin da domenica notte aveva esplicitato il proprio netto dissenso nei confronti del nuovo progetto. Estraneo a qualunque passione calcistica personale, il premier britannico non ha esitato fin dal primo minuto a fidarsi del proprio fiuto e a cogliere i sentimenti della sua gente. Sfidando a viso aperto («inorridito» ha detto) i 12 club più ricchi e titolati d' Europa che avevano deciso di dare vita alla Superlega, inclusi i 6 d' Inghilterra. «Questo progetto» aveva dichiarato già domenica sera - è dannoso per il calcio -. Non si è però solo limitato alle parole: ieri mattina ha convocato a Downing Street i vertici della FA (la Federcalcio inglese), della Premier League e i rappresentanti delle tifoserie per ribadire di essere «irremovibilmente» dalla loro parte, pronto a tutto per fermare il progetto dei 12. «Il governo non starà a guardare mentre un piccolo gruppo di miliardari crea un club chiuso» aveva avvertito, minacciando una «bomba legislativa» di «soluzioni normative» in grado di mettere i bastoni fra le ruote alla Superlega. Forse non ce ne sarà bisogno. Per Boris, intanto, si profila una grande vittoria d' immagine.

Emiliano Bernardini per "il Messaggero" il 21 aprile 2021. Il grande imbarazzo dopo l' illusione. La Superlega rischia di finire prima ancora di essere iniziata. Numeri, cifre, guadagni astronomici promessi e rischio d' impresa azzerato. Peccato che il tutto poi si sia scontrato con la passione. Quella dei tifosi. Il motore di tutto il movimento. Il fronte si è incrinato in Inghilterra. Proprio con la protesta del pubblico del Chelsea. Poi anche quello spagnolo ha mostrato le prime crepe. E l' Italia? Nessun dietrofront. Anzi. L' ad del Milan Ivan Gazidis nel pomeriggio di ieri aveva dichiarato: «Superlega, inizia un nuovo capitolo. Così daremo stabilità al calcio. Ma saremo orgogliosi di giocare la Serie A nel weekend». Dal fronte Juventus erano, invece, arrivate le parole del tecnico Andrea Pirlo che nella conferenza della sfida contro il Parma aveva sottolineato: «La Superlega è un progetto futuro. Siamo sereni e sappiamo che il presidente ci sta lavorando. È uno sviluppo per il mondo del calcio».

STRAPPI E DIMISSIONI Gli unici coinvolti a schierarsi apertamente contro sono stati i presidenti di Roma e Napoli, tirati in ballo dal numero uno del Real Madrid che le aveva indicate come possibili invitate. Il secco no dei giallorossi è arrivato con un comunicato del presidente Dan Friedkin che recita così: «L' AS Roma è fortemente contraria a questo modello chiuso, perché totalmente in contrasto con lo spirito del gioco che tutti noi amiamo. Certe cose sono più importanti del denaro e noi restiamo assolutamente impegnati nel calcio italiano e nelle competizioni europee aperte a tutti. Non vediamo l' ora di continuare a lavorare con la Lega Serie A, la Federazione Italiana, l' ECA e l' UEFA per far crescere e sviluppare il gioco del calcio in Italia e in tutto il mondo. I tifosi e un calcio accessibile a tutti sono al centro del nostro sport e questo non deve essere mai dimenticato». Usa l' ironia, invece, Aurelio De Laurentiis che dal suo profilo twitter scrive: «JP...chi ? La scorsa notte dormivo». Riferendosi all' indiscrezione secondo la quale JP Morgan, banca finanziatrice della Super League, aveva contattato nella notte tra lunedì e martedì invitandolo ad unirsi alla nuova competizione. Le tre separatiste ostentavano calma. Calma solo apparente perché in serata è arrivato il terremoto che ha fatto crollare il castello. All' ora di cena si sono rincorse voci, mai confermate ufficialmente, di dimissioni di Agnelli e Gazidis. I telefoni dei presidenti di Juventus, Inter e Milan sono squillati per tutto il giorno. In particolar modo quello del numero uno bianconero, Andrea Agnelli alfiere italiano e vice presidente della Superlega.

SPALLE AL MURO Ora che la Superlega è naufragata resta solo l' imbarazzo a livello nazionale e non solo. Indiscrezioni parlano di un ad Marotta irritato per la gestione della comunicazione. Il lancio a sorpresa alla vigilia della presentazione della nuova Champions league ha avuto un effetto boomerang. Si sarebbe dovuta preparare l' opinione pubblica alla rivoluzione che i 12 club avevano in mente. Perché alla fine l' unico concetto che è passato è che la Superlega era un torneo per ricchi. Addio al merito sportivo. Distrutti i sogni di milioni di appassionati. Resta da capire come Juve, Inter e Milan si presenteranno alle nuove assemblee di Lega. In programma c' è quella di venerdì. Ma già domani c' è una commissione sui diritti tv. La riunione straordinaria andata in scena lunedì aveva alternato momenti di forti tensioni a silenzi. Laconico Agnelli con quel suo «se il tono è questo vado via subito». Salvo poi essere apostrofato come «Giuda» dal collega Cairo del Torino. Figc e Lega avevano chiesto un passo indietro ma è chiaro che lo strappo c' è. Ed è pure grosso. Juve, Inter e Milan sole contro le altre.

Nicolò Schira per "il Giornale" il 21 aprile 2021. Mai silenzio fu più opportuno. Perché a lungo si è riflettuto su Aurelio De Laurentiis e Claudio Lotito che, almeno per ora, non avevano preso alcuna posizione ufficiale in merito alla nascita della SuperLega. Il primo pensiero è che dietro questa mossa si nascondesse il desiderio di entrarvi a farne parte? Possibile. Certamente non è passata inosservata la loro presenza anonima e quasi silente nell' ultima assemblea della Lega di Serie A. Due come loro sono abituati a schierarsi apertamente e a salire in cattedra nelle dispute calcistiche. E invece lunedì pomeriggio sono rimasti entrambi in disparte, mentre molti altri presidenti inveivano contro Agnelli, Marotta e Scaroni. A testimonianza di come i due - a differenza dei colleghi Cairo, Preziosi e Ferrero non siano affatto sul piede di guerra con le 3 grandi storiche del nostro calcio. E poi nella notte di lunedì era arrivata pure l' apertura di Florentino Perez al possibile ingresso di nuovi club italiani all' interno della neonata competizione europea. Il presidente del Real Madrid, nonché principale deus ex machina dello strappo con l' Uefa che ha dato vita al clamoroso tentativo di scisma all' interno del calcio europeo, ha ammiccato a Napoli e Roma (ma non alla Lazio di Lotito) ai microfoni di El Chiringuito Tv: «Avranno anche loro diritto di partecipare». Ma mentre il club giallorosso si è subito chiamato fuori, il silenzio di ADL ha provocato un susseguirsi di voci, tra le quali quella relativa a un contatto la scorsa notte tra la JP Morgan, istituto bancario finanziatore della Super Lega, e il patron del club azzurro. Sussurri, in realtà, spenti sul nascere dallo stesso De Laurentiis con un tweet provocatorio: JP chi? La scorsa notte dormivo. Ovviamente fanno fede le parole ufficiali, anche se non bisogna affatto dimenticare i propositi di ADL, che in tempi non sospetti si era detto entusiasta e favorevole alla nascita di una Super League. Nel 2015, infatti, l' imprenditore cinematografico era stato tra i principali sostenitori della rivoluzione del calcio europeo e in merito ai progetti dell' Uefa aveva apertamente attaccato il sistema, definendolo vecchio e da rifondare. Ma il precipitare della fondazione potrebbe far dire che per una volta il silenzio è stato d' oro, decisamente fortunato.

Superlega, salta tutto. Riunione nella notte, lasciano i club inglesi. Il tam tam su Andrea Agnelli: "Si dimette". Libero Quotidiano il 21 aprile 2021. La Superlega è già finita, la rivoluzione-farsa è durata appena 48 ore. Dopo una drammatica riunione d'emergenza notturna con i rappresentanti dei top club che hanno sfidato l'Uefa, si parla già di "rimodellamento". E a rischiare ripercussioni devastanti sono ora i due leader della manovra politico-sportiva, il presidente del Real Madrid Florentino Perez e quello della Juventus Andrea Agnelli. L'accelerazione è arrivata nella serata di martedì. I primi a rinunciare al progetto di una Superlega europea stile Nba, con 15 "club fondatori" a presenza fissa e 5 inviti a stagione, al di fuori dei vincoli dell'Uefa, sono stati i club inglesi. A pesare le bordate politiche di Boris Johnson, la rivolta massiccia dei tifosi, arrivati a minacciare rappresaglie contro le proprietà (spesso straniere) degli storici club coinvolti, ma soprattutto la borsa allargata dalla Uefa: si parla di una nuova Champions Leage da 7 miliardi, soldi freschi che si aggiungeranno alla pioggia di introiti già garantiti dalla Premier League. Insomma, Arsenal, Chelsea, Liverpool, Tottenham e i due club di Manchester avevano poco da guadagnare e quasi tutto da perdere. Chelsea e City sono stati i primi a sfilarsi (non a caso, fa notare qualcuno, sono anche due semifinaliste dell'attuale Champions League, le altre sono il Real e il Psg che non aveva aderito alla Superlega), l'Arsenal addirittura ha ammesso sui social: "Abbiamo sbagliato, chiediamo scusa". Una resa incondizionata, insomma. E nella nota in cui si annuncia il "rimodellamento" della Superlega si sottolinea proprio di "pressioni per fare uscire" le inglesi dal lotto. A ruota, è arrivato il mezzo passo indietro del Barcellona, che ha dichiarato di voler far ratificare la scelta ai soci. Trattandosi di azionariato popolare, con il 95% dei tifosi contrari, il no era scontato. Una mossa alla M5s-Rousseau che ha fatto definitivamente saltare il banco. E le italiane? Resta in silenzio solo la Juve. Dalla riunione iniziata alle 23.30 filtravano voci di una rinuncia del Milan, ma è l'Inter la prima ad ufficializzarla: "Il progetto allo stato attuale non è più ritenuto interessante", si legge in una nota di Suning. Colpi devastanti alla Juve, di fatto, che si ritrova sola a combattere una guerra iniziata con la quasi certezza di vincerla e finita prima ancora di cominciare. Una  Waterloo sportiva con pochissimi precedenti e dalle conseguenze, societarie ed economiche, difficilmente immaginabili. Un tam tam impazzito riferiva di Agnelli pronto a dimettersi, per "salvare" i bianconeri. Per ora, tutto smentito Quel che è certo è che come suggerisce Andrea Di Caro della Gazzetta dello Sport, era "difficile immaginare uno tsunami simile in casa bianconera con la zona Champions ancora da conquistare". Più che la figuraccia epocale, sono i timori di ripercussioni sportive ed economiche (occhio alla Borsa, dove ieri mattina le azioni bianconere erano schizzate alle stelle a dispetto delle critiche ricevute da tutti, tifosi, club esclusi, presidenti e Figc) sui già critici conti della Signora a far prevedere un passo indietro del presidente.

Francesco Verderami per il "Corriere della Sera" il 21 aprile 2021. «Un'operazione preparata così male non si è mai vista: in un solo colpo i promotori della Superlega si sono messi contro capi di stato e di governo e istituzioni comunitarie». Il commento di fonti europee qualificate coincideva ieri con l' analisi di un autorevole ministro del governo italiano, secondo il quale «il modo in cui è stato presentato il progetto, simile a un golpe, sta facendo passare l' Uefa - colpevole di una pessima gestione del calcio - come paladina morale dei piccoli». Tanto basta per capire il motivo della veemente reazione politica in Europa rispetto al disegno di chi mira a rivoluzionare il calcio: a fronte di un problema reale si è scelta una via elitaria, a metà strada tra le «brioche» di Maria Antonietta e il «motto» del marchese del Grillo. È stata insomma sottovalutata la dimensione sociale del fenomeno calcistico e ciò che la Super League potrebbe provocare in Europa, perché - come dice il titolare della Pubblica amministrazione Brunetta - «se è vero che il pallone è una fede, questo scontro rischia di produrre nel Vecchio Continente gli stessi effetti dello scisma tra cattolici e protestanti». Allora si intuisce come mai l'iniziale ottimismo manifestato dagli ideatori del progetto si sia tramutato in preoccupazione. Se dal «siamo in una botte di ferro», con cui il presidente del Milan Scaroni definiva lunedì l'operazione, si è passati a un preoccupato «la situazione si è incancrenita», sussurrato ieri da una personalità vicina alle società italiane coinvolte nella Super League. Perché è vero che sponsor e banche continuano a sostenere l'idea della nuova competizione, ed è vero che a livello politico non tutti sono contrari, ma c'è un motivo se - dinnanzi alle crepe che si sono aperte nel «club dei dodici» in Inghilterra e Spagna - tra i fautori dell' operazione si è già iniziato ad analizzare il tipo di approccio scelto, scaricando sul presidente del Real l'«errore» nella strategia di comunicazione. La grave esposizione finanziaria del mondo del pallone - raccontano fonti istituzionali europee - avrebbe portato Real e Barcellona a far pressione sul governo iberico per far inserire le società calcistiche nel Recovery plan come «settore in difficoltà da sostenere». La voce è arrivata fino alla Commissione a Bruxelles, dove peraltro si stanno confrontando due diverse scuole di pensiero: da una parte chi sostiene che la Super lega non confligge con le regole dell'Unione, visto che c'è il precedente dell' Eurolega di basket; dall' altra chi sta valutando come intervenire, considerando (appunto) la diversa portata sociale del calcio. L'intenzione era e resta quella di spingere il «club dei dodici» a un accordo con la Uefa, modificando radicalmente il progetto della nuova Champions League che è all' esame. Il premier Draghi - spiega un rappresentante del governo - al pari degli altri suoi colleghi è «in attesa di capire se e come si troverà l'intesa» per una «riforma necessaria» del sistema calcistico europeo, «che a sua volta aprirà in Italia una discussione sull' inevitabile riduzione del numero di squadre in Serie A, così da garantire maggiori spazi alle competizioni europee». Perché il problema sollevato dalla Super League esiste, ma la Ue non può accettare «uno scisma».

Andrea Di Caro per gazzetta.it il 21 aprile 2021. La Superlega è durata lo spazio di 48 ore, in cui ha raggiunto un singolare record: unire nella contrarietà leader politici, il parlamento Europeo, istituzioni sportive, tutti i media internazionali, tifosi, allenatori e giocatori, persino delle società che avevano aderito al progetto. E che non immaginavano si sarebbero trovate di fronte questo scenario. Ci piacerebbe pensare che a far naufragare il «piano criminale» sia stata l’opinione pubblica, soprattutto quella inglese, con le tifoserie dei club ribelli compatte nel contestare la scelta, ma da troppo tempo ormai i tifosi vengono trattati solo come clienti per lasciarsi andare al romanticismo. È stato invece innanzitutto il pugno duro della politica - con Boris Johnson che ha “spaventato” le proprietà straniere dei club inglesi, i primi a cedere - e poi l’aut-aut “chi aderisce è fuori da tutto” urlato da Uefa, Fifa, e Federazioni: un muro contro il quale è finita la corsa appena cominciata. Come fossero ciliegie, nel giro di pochi minuti ieri sera prima si è saputo che, dal City allo United, i club inglesi stavano preparando la Brexit dalla Superlega. Intanto in Spagna il presidente del Barcellona Laporta demandava la decisione ai soci, mentre l’Atletico vacillava. La diga è apparsa di cartone, un tragico Vajont politico-sportivo, interrotto dalla scelta di una riunione di urgenza per cercare di arginare la figuraccia planetaria. Tutto inutile. In nottata è arrivata la conferma dell'uscita dei club inglesi e le scuse dell'Arsenal: «Abbiamo sbagliato, ci dispiace». Solo dopo la disgregazione, ecco la prima italiana, l'Inter: «Non siamo più interessati». Nell’era della tecnologia esasperata però i social non hanno perdonato: “Da Superlega a Superfuga”. “Il progetto è durato come un gatto in tangenziale”. Nelle ultime 24 ore, oltre alle minacce delle istituzioni, erano partiti anche gli ambasciatori dell’Uefa per convincere i club ribelli a ripensarci. Tutti tranne uno: la Juventus di Agnelli. Con lui non deve trattare nessuno, ordine di Ceferin. Dopo avergli dato pubblicamente del bugiardo e del serpente, ora il numero uno dell’Uefa cova vendetta e vuole la sua testa. I tre club italiani hanno resistito insieme fino all'1.30 di notte. Ma sarebbe meglio dire, visto come è avvenuta l'uscita di scena interista, che hanno aspettato gli eventi e le ufficialità altrui. Perché nella resistenza c’è una forma di coraggio e di difesa delle proprie posizioni, che non abbiamo mai percepito soprattutto nei due silenti club milanesi, poco incalzati anche dalle rispettive tifoserie. Se, come tutto lascia prevedere, siamo a un passo dal rompete le righe, quella di Agnelli sarà una debacle clamorosa. È passato in pochi battiti di ciglia da uomo forte a livello europeo, gonfio della tirannia di nove scudetti consecutivi della Juve e del suo ruolo di presidente Eca, a dirigente inviso a quel potere che aveva abbracciato fino a tre giorni fa, prima del grande tradimento. Tra accuse che gli sono state rivolte in Uefa e quelle ricevute in Lega per la gestione della trattativa poi fatta naufragare con i fondi, ce ne sarebbe abbastanza per farsi da parte. Come ripresentarsi nel consesso europeo, senza danneggiare la Juve, con la propria immagine screditata? Già ieri circolavano voci, smentite, di sue imminenti dimissioni. Difficile immaginare uno tsunami simile in casa bianconera con la zona Champions ancora da conquistare. Dalla Superlega all’Europa League, sarebbe un colpo inimmaginabile per il già critico bilancio del club. Se il futuro dell’era Andrea Agnelli appare appeso a un filo, la figura di Inter e Milan, sempre in seconda fila senza esporsi, non è stata certo da top club. Le scelte finali di aderire alla Superlega debbono essere addebitate alle due proprietà: Suning ed Elliott. A rappresentare le società c’erano i dirigenti nerazzurri Marotta, Antonello e Cappellini, che hanno certo influenzato la decisione del giovane e ancora inesperto Zhang, e quelli rossoneri il potente Gazidis e Scaroni. La loro posizione è ovviamente molto diversa da quella di Agnelli, ma anche nel caso di Marotta e Scaroni risulta difficile immaginare come possano ancora mantenere i loro posti nel consiglio federale e in quello di Lega.

(ANSA il 21 aprile 2021) - "Ieri ho detto che è ammirabile ammettere di aver sbagliato e questi club hanno fatto un grande errore". In una nota ufficiale, il presidente della Uefa Ceferin commenta la notizia delle squadre ritiratesi dal progetto della Superlega: "Ma adesso sono tornati in gruppo e so che hanno tanto da offrire, non solo alle nostre competizioni, ma all'intero calcio europeo. La cosa importante adesso è andare avanti insieme e ricostruire l'unità di cui godeva prima questo sport".

Da corrieredellosport.it il 21 aprile 2021. Durissima anche la presa di posizione di Boris Johnson. "Il primo ministro - si legge in una nota - ha confermato il suo irremovibile sostegno" ai tifosi e che "il governo non resterà a guardare che un pugno di proprietari crei un negozio chiuso" agli altri club. E' stato inoltre "chiaro sul fatto che nessuna misura è esclusa, comprese le opzioni legislative per assicurare che questa proposta sia fermata". Johnson ha poi appoggiato la scelta del City. "Se confermata è  assolutamente giusta e mi complimento con loro per questo" - ha ribadito  il premier britannico via Twitter, auspicando che anche United, Liverpool, Arsenal e Tottenham seguano questo esempio. "Spero che anche gli altri club coinvolti nella Superlega europea ne seguano le orme del City".

Alessandro Grandesso per gazzetta.it il 21 aprile 2021. Dopo l'attacco delle 12 ribelli con l’annuncio della nascita della Superlega, arriva la controffensiva dell'Uefa. E non solo sul fronte giuridico. Il massimo organo calcistico europeo preparerebbe infatti il contrattacco, usando la stessa arma finanziaria delle sfidanti, pianificando una nuova Champions League con un budget che potrebbe salire fino a 7 miliardi di euro, in collaborazione con un fondo inglese e mettendo in vetrina Psg e Bayern Monaco che alla Superlega hanno detto di no. Questo il retroscena svelato da RmcSport, in Francia. "Da qualche settimana – scrive il portale di informazione sportiva francese – l'Uefa lavora con un fondo inglese basato a Londra per proporre una nuova Champions. Una nuova versione ancora più prestigiosa che avrebbe un budget minimo di 4,5 miliardi di euro che potrebbe salire fino a 7 miliardi". Ossia il doppio di quanto la banca Jp Morgan ha promesso di investire nella competizione nata dalla secessione di ieri. Secondo RmcSport, la nuova Champions che garantirebbe più introiti alle partecipanti, viene elaborata anche in collaborazione con le squadre che rifiutano la Superlega, in primis Bayern Monaco e Psg. Ma resterebbe aperto uno spiraglio pure per quei club che alla fine decidessero di abbandonare il progetto affidato alla presidenza di Florentino Perez. 

(ANSA il 21 aprile 2021) - "La situazione attuale nel calcio europeo necessita di un cambiamento. Una nuova competizione serve perchè il sistema non funziona, la nostra proposta è pienamente conforme alle leggi. Ma alla luce delle circostanze attuali valuteremo i passi opportuni per rimodellare il progetto". Lo afferma, in sintesi, la Superlega nella bozza di una nota ufficiale circolata in nottata e di cui l'ANSA ha preso visione. "La European Super League - si legge nella bozza di cui l'ANSA ha preso visione - è convinta che l'attuale status quo del calcio europeo necessiti di un cambiamento. Proponiamo una nuova competizione europea perché il sistema esistente non funziona. L'obiettivo della nostra proposta è quello di permettere allo sport di evolvere e allo stesso tempo generare risorse e stabilità per l'intera piramide calcistica, compresi gli aiuti per superare le difficoltà finanziarie a cui è andata incontro l'intera comunità calcistica a causa della pandemia. Inoltre, la nostra proposta fornirebbe agli stakeholder del calcio contributi di solidarietà significativamente migliorati". "Nonostante l'annunciata uscita dei club inglesi, costretti a prendere tali decisioni a causa delle pressioni esercitate su di loro - aggiunge la nota -, siamo convinti che la nostra proposta sia pienamente conforme alle leggi e ai regolamenti europei, come è stato dimostrato oggi da una decisione del tribunale che tutela la Super League dalle azioni di terzi". "Alla luce delle circostanze attuali - conclude -, valuteremo i passi più opportuni per rimodellare il progetto, avendo sempre in mente i nostri obiettivi di offrire ai tifosi la migliore esperienza possibile, migliorando i contributi di solidarietà per l'intera comunità calcistica".

Monica Colombo per il "Corriere della Sera" il 21 aprile 2021. Partite più corte, divise in tre tempi. Nel progetto della Superlega anche il gioco e le regole del gioco sono (erano) in discussione. Lo scopo: compiacere i gusti dei tifosi-clienti a cominciare dai più giovani che, dicono le ricerche, considerano troppi i 90 canonici minuti di una partita di calcio. Ambizioni di modernità probabilmente eccessive a giudicare dalle defezioni clamorose maturate ieri sera. Per dire, tra le linee guida dell'organizzazione spiccava una nuova modalità di distribuzione dei diritti televisivi: non più la partita ma gli highlight, il concentrato delle emozioni, la raffica dei gol e le acrobazie dei campioni. Il desiderio delle big del continente è (era) creare una partita show, uno spettacolo con in campo i migliori giocatori. Perciò, se i millennials distratti dai social faticano a reggere per l'intera durata della sfida, perché non vendere anche i pacchetti relativi ai diritti televisivi degli highlight, o del livestreaming? Non solo: è ancora la tv il mezzo più usato per assistere a una partita? Sì, ma le nuove generazioni preferiscono smartphone e tablet. Altri obiettivi: scardinare l'atavica lentezza che accompagna la Uefa a prendere decisioni che riguardano il sistema. E se le partite sono troppo lunghe, basta diminuirne la durata o frazionarle in tre tempi.

L'avvocato nato in Slovenia. Chi è Aleksander Ceferin, il Presidente UEFA che ha affossato Agnelli e la Superlega. Vito Califano su Il Riformista il 21 Aprile 2021. Il vincitore assoluto del caso della Superlega si chiama Aleksander Ceferin. La secessione in un torneo elitario, sorta di una nuova ed estrema Champions League, ipotizzato da 12 club fondatori e naufragato nel giro di 48 ore ha fatto passare l’UEFA e la FIFA come custodi di un calcio più morale anche se infine caratterizzato da quelle stesse brutture esplicitate ed estremizzate dalla fantasmagorica Superleague. Ecco, il Presidente dell’UEFA, il settimo nella storia dell’associazione continentale, è lui, avvocato e dirigente sportivo sloveno, eletto nel settembre 2016. Ceferin è anche vicepresidente della FIFA. Precedentemente era stato per cinque anni Presidente della Federazione calcistica della Slovenia, dov’è nato, nella capitale Lubiana. Laureato in giurisprudenza, avvocato, ha lavorato nello studio legale del padre rappresentando anche atleti professionisti e società sportive. Quando aveva 19 anni si è arruolato nell’Armata popolare jugoslava per militare in seguito nella divisione della Difesa territoriale delle Forze armate slovene nella guerra dei 10 giorni, scoppiata nel 1991 in seguito alla dichiarazione d’indipendenza della Slovenia. Ha difeso anche criminali di guerra. Il primo incarico nel mondo del calcio nel comitato esecutivo del KMN Svea Lesna Litija, squadra slovena di calcio a cinque. In seguito con la NK Olimpija Ljubjana fino al 2011. Quindi l’elezione alla Federazione calcistica della Slovenia. Al Congresso Straordinario convocato ad Atene nel settembre 2016 ha superato al primo scrutinio la concorrenza dell’olandese Michael Van Praag per 42 preferenze a 12 ed è diventato Presidente dell’UEFA. Ad appoggiarlo anche la Figc italiana presieduta allora da Carlo Tavecchio. È stato rieletto da candidato unico il 7 febbraio 2019. Durante la sua gestione ha approvato una serie di riforme di good governance come l’introduzione dei limiti di mandato per il presidente e i membri del Comitato Esecutivo dell’UEFA e la condizione che i candidati al Comitato Esecutivo detengano una carica attiva da presidente, vicepresidente, segretario generale o CEO nella federazione nazionale. Sostanzialmente fallita l’idea di riformare e implementare il Fair Play Finanziario introdotto nel 2009 che si è fatto valere con realtà meno centrali e di cartello e ha chiuso più di un occhio con realtà come Manchester City e Paris Saint Germain. Ceferin è stato successore del ex campione francese Michel Platini. Quando è stato eletto ha dichiarato che “non sarebbe stato la marionetta di nessuno” e quindi “al massimo dei miei figli”. Parla tre lingue: serbo-croato, inglese e italiano. È appassionato di auto e moto: ha attraversato il deserto del Sahara cinque volte, quattro in auto e tre in moto. È cintura nera di karate stile Shotokan. È sposato e ha tre figli. Ha fatto e sta facendo molto discutere il suo rapporto con Andrea Agnelli. Ceferin ha fatto da padrino al battesimo della figlia del Presidente della Juventus, Vera Nil. Deve essersi sentito tradito dall’amico. Agnelli, secondo il comunicato pubblicato domenica, sarebbe diventato vice presidente della Superlega. Presidente il numero uno del Real Madrid Florentino Perez. “Non ho mai visto una persona mentire così tante volte e in maniera così persistente come ha fatto lui – ha detto Ceferin di Agnelli – Ho parlato con lui sabato pomeriggio e ha detto che erano tutte bugie. Ho cercato di chiamarlo successivamente e ha spento il telefono. Ho visto così tante bugie, ma questa è una situazione che non avevo mai visto. L’avarizia fa sì che tutti i valori umani svaniscano”. La Superlega intanto è naufragata. Tutte e sei le squadre inglesi hanno fatto marcia indietro. La Juventus “pur rimanendo convinta della fondatezza dei presupposti sportivi, commerciali e legali del progetto, ritiene che esso presenti allo stato attuale ridotte possibilità di essere portato a compimento nella forma in cui è stato inizialmente concepito”. Alla luce di tali sconvolgimenti Ceferin ha esultato: “È ammirevole ammettere un errore e questi club hanno commesso un grande errore. La cosa più importante adesso è ricostruire l’unità che c’era prima e andare avanti insieme”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Da tpi.it il 21 aprile 2021. “Il calcio è salvo”, urlano gli ingenui. “La Superlega è morta”. Come se la Superlega, nauseante progetto aristocratico, fosse la malattia del “business che rotola” e non uno dei suoi naturali effetti. Sì, naturali. Che i sepolcri imbiancati dell’Uefa, bramosi di denaro e potere tanto quanto i promotori della Superlega dei campioni (molti dei quali campioni, sì, ma di debiti), parlino del “calcio che appartiene ai tifosi” fa ridere i polli. Fino a ieri erano uomini d’affari senza scrupoli, ma oggi fanno i romantici. Fino a ieri il “calcio moderno” andava bene, oggi che a rischio ci sono i loro guadagni si tolgono i completi firmati e indossano maglie di lana anni ’70 sporche di fango. Ipocriti! Il calcio, l’unico sport che assomiglia alla religione, è malato da tempo. “En qué se parece el fútbol a Dios?”, si domandava Eduardo Galeano (“in cosa il calcio assomiglia a Dio?”, ndr). “En la devoción que le tienen muchos creyentes y en la desconfianza que le tienen muchos intelectuales”. Verissimo: devozione da parte di miliardi di persone e puzza sotto il naso di molti intellettuali. Quegli intellettuali sempre pronti a stracciarsi le vesti quando c’è una scazzottata in curva (sia chiaro, io detesto gli scontri) ma pavidamente silenti di fronte ai reati finanziari, ai trucchi di bilancio, allo sperpero di denaro che caratterizza i padroni del pallone che poi, in tutto il mondo, sono spesso padroni di molto altro, dalle banche alle TV, passando dalle autostrade ai giornali. Il calcio si è ammalato quando si è deciso di accettare stipendi immorali. Il calcio si è ammalato quando si è scelto di giustificare i trucchetti delle plusvalenze. Robe da furbi per qualcuno. Oscenità per chi crede nell’etica. Il calcio si è ammalato quando si è accettato che, nel campionato italiano, i calciatori italiani siano minoranza. Il calcio si è ammalato quando il capitalismo finanziario ha fatto irruzione. Oggi si parla di JP Morgan, banca d’affari tra le più grandi al mondo, disposta a finanziare la Superlega con una pioggia di miliardi che avrebbe permesso a molti top club di appianare i propri debiti. JP Morgan fu la banca che pubblicò nel maggio del 2013 un documento critico verso le costituzioni europee nate dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale. Costituzioni troppo soggette, secondo i banchieri newyorkesi, ad “idee socialiste” tra le quali “la tutela dei diritti dei lavoratori”. È giusto ricordarlo, ancor di più fino a quando la commistione tra politica, sport e finanza non verrà contrastata per legge. Ma fino a ieri calcio e banche non erano legati? Tra i principali sponsor della Uefa Champions League c’è, d’altronde, Banco Santander, quella banca che rifilò il pacco Antonveneta al Monte dei Paschi dando il la alla tragedia senese pagata con i soldi nostri. Come dimenticare poi la “mescolanza” tra banche e calcio nel bel Paese. Do you remember Capitalia? Il calcio è marcio da tempo. Lo è da quando la “massoneria” dei procuratori detta legge o da quando i morti in Qatar hanno smesso di indignare. Il 2 marzo scorso il Guardian ha pubblicato un’inchiesta sui lavoratori che hanno perso la vita nei cantieri in Qatar, paese che ospiterà i mondiali del 2022. Il Guardian ne ha calcolati oltre 6.500. Tutti migranti provenienti da India, Bangladesh, Pakistan, Nepal e Sri Lanka. Pare, tuttavia, che la cifra possa essere più alta. Non sono stati calcolati, infatti, i decessi degli ultimi mesi, nonché migranti morti provenienti da altri Paesi. C’è chi ritiene che da qui alla cerimonia di apertura del mondiale, i morti potrebbero salire ad un numero sconvolgente: 14.000. Più o meno gli spettatori che trovavano posto tra gli spalti del vecchio Filadelfia di Torino, a proposito di romanticismo. Qualcuno ha letto prese di posizioni da parte della Uefa al riguardo? Magari i soliti moniti. Ma non certo parole dure come quelle pronunciate contro la Superlega. Gli affari contano più dei diritti umani, e questo, ahimè, riguarda anche il calcio. E questo avviene anche dalle nostre parti. Le edizioni della Supercoppa del 2018 e del 2019, d’altro canto, sono state disputate la prima a Gedda, la seconda a Riad. Arabia Saudita, per intenderci, paese tanto caro a Renzi e a chi reputa le libertà negate, danni collaterali del capitalismo mondiale. Ora per ripulire il gioco che più assomiglia alla religione – sempre Galeano ricorda che “ci sono alcuni paesi e villaggi del Brasile che non hanno una chiesa, ma non ne esiste neanche uno senza un campo di calcio” – si può far qualcosa. Sia in Parlamento che in casa propria. E lo si deve fare alla svelta, prima che il paziente moribondo muoia definitivamente. Si possono aggravare i reati finanziari, si può e si deve approvare una legge sul conflitto di interessi per limitare il potere “politico” delle banche su tutto lo scibile umano. Si può introdurre un tetto agli stipendi nonché agli stranieri in campo, questo per rilanciare i vivai in crisi. L’etica passa anche da qui. Ognuno, poi, sceglierà cosa sia meglio fare in casa propria con i propri figli. Noi spegniamo la tv e portiamo i bimbi al parco appena possibile. Io mi assicuro che nel portabagagli, oltre alla ruota di scorta, ci sia il pallone. Con la scusa di far giocare mio figlio torno a giocare io. E ripenso ai campetti di periferia, a quanto era bello aspettare 90° minuto, ai panini con la frittata, ai bruscolini e a quel goal di Fiorini. Sebbene non abbia la fortuna di vederlo dal vivo, quel goal mi emoziona più dello scudetto del 2000 e non vedo l’ora di raccontarlo a mio figlio come mio papà l’ha raccontato a me. P.S. Ad ogni modo facciamo tutti i complimenti ad Andrea Agnelli che ha allestito una squadra favolosa capace di vincere in 48 ore la Superlega eliminando tutti gli avversari. E chi non lo riconosce ha un bidone della spazzatura al posto del cuore".

Superlega, si avvera la previsione di Maradona: “Mi anticipò tutto, era inferocito”. Redazione su Il Riformista il 20 Aprile 2021. Nel dibattito sulla Superlega, sponda nostalgica, si inserisce anche lo storico avvocato di Maradona in Italia Angelo Pisani, che rivela il rapporto del Pibe de Oro con il calcio inteso come business. “Ricordo quando Maradona mi anticipò tutto quello che oggi sta accadendo – afferma il legale – era inferocito per come stavano sfruttando il pallone, lo aveva dichiarato pubblicamente attaccando tutti i poteri forti anche quelli che oggi sembrano vittime di speculazioni ma che invece tramite strategie e accordi faranno digerire a tutti nuove piattaforme del calcio controllate da regie occulte”. Uno come Maradona, in sintesi, si sarebbe fatto sentire – forte e chiaro – contro il nuovo format. “Tutti sapevamo che dopo Maradona il calcio era finito, sportivi e tifosi intellettualmente onesti, come me, avevano dichiarato che il 25 novembre 2020 era morto il calcio vero, quello che ha fatto battere i cuori e divertire il mondo con Diego Armando Maradona, ma oggi, con la presentazione del business Superlega e l’arroganza dei super debiti di società quotate in borsa, arriva la conferma ufficiale ed internazionale che lo sport più amato del mondo viene sequestrato e violentato per vergognose e discriminatorie speculazioni economiche”. Non sarebbe andato morbido neanche con Uefa e Fifa, visto il suo rapporto con le istituzioni calcistiche sovranazionali, esasperato quando sulla poltrona di Nyon sedeva Michel Platini e su quella di Zurigo Joseph Blatter. L’argentino non ha in simpatia neanche l’attuale presidente Fifa, Gianni Infantino, che si è espresso in difesa dello status quo ed era stato “traditore” nel 2016 per aver continuato a lavorare “come se nulla fosse accaduto” dopo lo scandalo che travolse il suo predecessore. “Oggi assistiamo al caos – ricorda Pisani – ma ancora non si è visto nulla di quello che è il progetto e il disegno dei poteri finanziari per fare e disfare, incassare e spendere, organizzare e aggiustare bilanci, non far fallire e sistemare interessi economici. I 12 club più ricchi di debiti d’Europa hanno tolto la maschera e deciso di creare la nuova competizione non per esaltare i valori dello sport ma per discriminazione economica, per soldi che riceverebbero subito dai sistemi finanziari e per gestire in house introiti e potere, per far sì che d’ora in poi una sconfitta sportiva non sia più anche una perdita economica”.

Marco Lobasso per leggo.it il 20 aprile 2021. Un terremoto annunciato. Il calcio europeo è andato in frantumi sotto i colpi di piccone di 12 grandi club che hanno dato vita alla Superlega del futuro, ma i segnali e i rischi di questa gigantesca frattura tra società sportive miliardarie, Uefa e Fifa c’erano tutti. Lo aveva previsto Riccardo Silva, manager italiano, maxi esperto dei diritti televisivi e presidente della squadra di calcio Miami FC. Proprio lui aveva portato nel 2020 la Fifa fino al Tribunale sportivo internazionale di Losanna per dimostrare quanto anti-sportiva fosse la MLS, la massima lega del soccer americano che non rispetta le regole valide nel resto del mondo non prevedendo promozioni e retrocessioni. Ma il Tas gli ha dato torto, con la Fifa che avvalorava così la MLS privata, commettendo un clamoroso autogol che ha aperto un clamoroso varco legale proprio in favore della superlega europea.

La Superlega assomiglia incredibilmente alla MLS americana. L’inizio della fine per il calcio europeo?

«Un colpo durissimo. In questa sfida con i 12 grandi club europei, Fifa e Uefa si presentano con le armi spuntate proprio da quella sentenza del Tas contro il Miami FC. Hanno legittimato che per anni esistesse in America una Lega privata, chiusa, e senza regole sportive. E ora vogliono fare la guerra alla Superlega europea. Non sono credibili. A livello giuridico sono già perdenti, sarà molto complicato poter fermare la nascita di questo torneo».

Non è un caso, quindi, che 5 club su 12 siano di proprietà americana: Liverpool, Arsenal, Tottenham, Manchester United e Milan.

«Non lo è. Questi club sono forti delle decisioni passate prese dal Tas verso la MLS, poi la crisi del Covid che ha messo in ginocchio le società minori ha dato una accelerata al loro progetto. In più, sembra esserci un ottimo vantaggio economico, con il finanziamento di una grande banca come JP Morgan».

Senza retrocessioni scompare il merito sportivo.

«Un assurdo. Stanno cancellando il principio su cui si basa il calcio nel mondo: la meritocrazia dei valori sportivi. Negli Usa, le decisioni del Tas e della Fifa hanno danneggiato centinaia di club. E in Europa saranno migliaia gli scontenti».

E’ deluso dal comportamento del presidente Fifa Gianni Infantino?

«La Fifa con il Miami ha detto delle cose, poi di fatto ne ha fatte altre. Sono confuso oltre che deluso. Resta evidente che la storia della MLS non ha insegnato nulla alle istituzioni internazionali. Adesso sarà molto difficile uscirne fuori, complicato sanzionare club e giocatori quando c’è una sentenza al Tas che in pratica dice il contrario».

Negli Stati Uniti c’è il sistema NBA che ricorda molto quello della Superlega europea.

«In realtà sono due campionati completamente diversi, sbagliato paragonarli tra loro. Sotto la lega NBA negli Usa c’è il sistema delle università che funziona molto bene. La Superlega, invece, non avrebbe nulla di tutto questo: c’è solo un torneo senza retrocessioni e promozioni».

L’impatto con il mondo dei tifosi non è stato dei migliori. Tante critiche e scetticismo.

«Lo capisco. Questo tipo di evento nasce contro il vero spirito del calcio, che ha le sue regole, le sue tradizioni e che ci accomuna. Acquisire il diritto a partecipare alla Superlega senza averlo conquistato sul campo è contro le leggi di questo sport, non ha nulla di morale. Tutti devono avere le stesse possibilità e credo che queste cose i tifosi le capiscano bene, per questo non sono contenti. Pensate ai Mondiali di calcio e pensate se avessero le regole della Superlega europea che disastro sarebbe; nazioni qualificate per blasone e non per criteri sportivi. Una follia».

Per non parlare dei tantissimi club di medio-alto livello in Europa esclusi.

«L’amarezza di questi club europei è anche la mia. Con il mio Miami ho vissuto situazioni analoghe. Un disagio assurdo. I valori sportivi dei club non sono considerati. Noi abbiamo battuto in Coppa tante grandi squadre della MSL, ma senza mai possibilità di promozione. Non è servito a nulla».

Giampiero Mughini per Dagospia il 21 aprile 2021. Caro Dago, appartato come me ne sto in un angoletto di casa mia non mi era mai successo che nello spazio di 48 ore parecchi amici mi sollecitassero a dire la mia su questo fattaccio della Superlega per club di calcio ricchi e tutti i suoi annessi e connessi. Me ne sono stato zitto, perché non avevo le idee chiare. Adesso sono contento che quel progetto sia rientrato. Detto questo io temo che il bellissimo giocattolo del calcio per come noi lo conosciamo stia per andare in malora. Vengo e mi spiego. Vedo che anche il mio amico Marco Tardelli, per chi non se lo ricordasse il più grande calciatore moderno italiano, era un avversario di quel progetto e me ha scritto sulla “Stampa”. Bene. I fatti. I fatti sono che al tempo di Tardelli, che a 19 anni era uno dei giocatori italiani più promettenti, la Juve poté accaparrarselo per la non piccola cifra di un miliardo di lire. Per un Tardelli odierno ci vorrebbero non meno di 35 milioni di euro più una decina per l’agente che lubrifica l’affare. In termini reali sono cifre dieci volte più grandi di quelle dei tempi di Tardelli. Ebbene sono cifre che il giocattolo del calcio non può reggere alla lunga. Tanto è vero che i club più ricchi, cioè quelli che assicurano più spettacolo e dunque più gioie ai loro tifosi, hanno un monte debiti di cui è talmente evidente che non possono rientrare. E il fatto è che se vuoi continuare a primeggiare, questi debiti è più facile che li aumenti che non il contrario. Vuoi Haaland, vuoi Mbappé? Devi avere il petrolio che sgorga fuori dal tuo giardino, altrimenti te li sogni. Già adesso il potere del danaro è totale su quel che accade sui campi di calcio. Le bellissime storie dell’Atalanta, dell’Ajax e del Leicester di Ranieri sono un’eccezione piccola piccola nel globo terracqueo del football. Nessuna industria può reggere al ritmo ricavi/costi che è quello del football moderno. E a proposito dei conti (luminosi) dell’Atalanta, vale quello che ha scritto intelligentemente Alessandro F. Giudice sul “Foglio” di oggi. Che l’Atalanta ha venduto un ragazzo di 18 anni al Manchester United per la bellezza di 40 milioni traendone una plusvalenza immensa. Ma che  questo è stato possibile solo perché la forza economica e tutto del Manchester gli permette di farli fruttare quei 40 milioni. Denaro denaro denaro. Se non è zuppa è pan bagnato, e non se ne esce. Il romanticismo dei tifosi che esultano in curva? Se ti va bene, ti ci puoi friggere le uova.

Da ilnapolista.it il 21 aprile 2021. Al di là del merito della questione, uno degli aspetti più sorprendenti del fallimento della Superlega è l’approssimazione amatoriale con cui dodici tra le società più ricche del mondo dello sport abbiano portato avanti il “golpe” dal punto di vista comunicativo. Se lo sono chiesti in tanti, riducendo il quesito allo stupore generico: ma come è possibile? Come è possibile che in un mondo in cui anche la casalinga annoiata “produce contenuti” i 12 club ribelli non siano riusciti a preparare una media strategy degna di questo nome? Senza un marketing adeguato, testimonial di livello, campagne social e di comunicazione di massa? Come hanno potuto pensare che bastasse improvvisare un “lancio” con un comunicato e un sito tanto basic da lasciare documenti “segreti” intellegibili nel codice? Possibile che non avessero fatto indagini di mercato per verificare prima il grado di possibile accoglimento di una rivoluzione del genere? E’ il punto che coglie anche un’editoriale del New York Times: “Non c’è stato alcun tentativo di vendere l’idea, nessun tentativo di delinearne i vantaggi così come li vedevano. Una società di pubbliche relazioni di alto profilo a Londra è stata assunta per gestire il lancio, e tuttavia mentre le critiche si facevano più volubili, più acute e più feroci, non c’è stata alcuna risposta, nessun tentativo di plasmare una narrativa più favorevole“. “Con tutto il lavoro che avevano fatto, con tutti i milioni che avevano speso, con tutti i documenti legali che avevano presentato, nulla di questo progetto sembrava comunque completo. Gli architetti non sono riusciti nemmeno a trovare un modo per far produrre a ciascun proprietario una dichiarazione da pubblicare dal proprio club in cui spiegasse il motivo per cui si erano uniti alla lega separatista. Era tutto, in qualche modo, poco serio: un sito web messo insieme un po’ così, un logo poco interessante e un banchiere americano, ma nessuna emittente, nessuna suite di sponsor e, alla fine, nessun impegno a farcela per davvero”. “Questo non è certo un bel tratto distintivo per i custodi di istituzioni che sono, sebbene gestite come imprese e trattate come complessi di intrattenimento, anche pietre di paragone culturali e sociali. Se sono così sleali verso le loro stesse idee , pensa quanto sarebbe preoccupante se fossero responsabili di cose di cui, in fondo, non frega niente“. L’unica cosa positiva di questa esperienza, scrive il NYT è che ora questo manipolo di miliardari dilettanti “ha mostrato la mano. Hanno giocato le loro carte. La reazione non dovrebbe essere ‘quel che troppo è troppo’. È chiederci se, dopo tutto questo complotto, dopo anni e anni passati a piegare, plasmare e rompere il gioco in modo che si adatti di più a loro, quello che alla fine hanno prodotto è un sito web, un marchio e un cascata di acrimonia e disprezzo che non hanno nemmeno il coraggio di cercare di arginare. È davvero tutto ciò che hanno?“.

Dagonews il 21 aprile 2021. La figura di merda planetaria del progetto Superlega, annunciato e affondato in 48 ore, è stato un gancio al mento per Florentino Perez, Andrea Agnelli e la loro strategia salva-bilanci. Come e quando è nata l'idea? La proposta è stata avanzata al presidente del Real Madrid, nell'estate 2020, dal suo amico e advisor Borja Prado. L'imprenditore, conoscendo la delicata situazione debitoria del Real (esposizione per 900 milioni), ha stuzzicato Perez con il progetto Superlega. Gli sono bastate poche paroline magiche per convincerlo: "Farai più soldi". I due hanno contattato la banca d'affari JP Morgan per verificare la disponibilità a finanziare l'operazione e, a inizio settembre 2020, hanno agganciato Andrea Agnelli. Il presidente della Juventus, allettato all'idea di riempire le casse vuote del club, ha contattato il presidente del Milan, Paolo Scaroni. Entrambi di casa a Londra, i due hanno fatto da tramite con le società inglesi. Solo a dicembre 2020, Agnelli ha condiviso le sue intenzioni con il cugino dante-causa John Elkann. Il presidente di Stellantis e grande finanziatore della Juventus ha dato il suo via libera all'adesione alla Superlega a una condizione: "Purché non danneggi o comprometta le attività del gruppo". Per Elkann, uno scenario win-win: se l'operazione fosse andata in porto, la Juventus avrebbe beneficiato di maggiori introiti, dando ossigeno al disastrato bilancio. In caso di fallimento, il detestato cugino - come poi è avvenuto - sarebbe andato incontro a una pubblica spernacchiata, con danno d'immagine quasi irreversibile. Come già dago-rivelato, Yaki non vede l'ora di portare l'altro cugino, Alessandro Nasi, alla guida dei bianconeri. Liberarsi di Andrea (e dei suoi sodali Nedved e Paratici) non è semplice: dargli il benservito con una prova di forza significherebbe spaccare la famiglia. Meglio trovare una onorevole via d'uscita, magari con il vecchio metodo della promozione-rimozione…Dopo averne discusso con John Elkann, Andrea Agnelli ha tirato dentro anche l'ad dell'Inter, Beppe Marotta, mentre Florentino Perez convinceva il Barcellona e JP Morgan seduceva le squadre inglesi evocando cascate di dollari. Da subito il gruppo di "rivoltosi" ha trovato l'opposizione del germanico Bayern e del Paris Saint Germain. I qatarini proprietari della squadra francese avendo ottenuto il discusso mondiale del 2022, su cui pendono sospetti di tangenti e corruzione, devono stare buoni e a cuccia ai piedi della Fifa senza fiatare. E adesso? Ci saranno le trattative di pace per ripristinare una parvenza di concordia. Ma il conto verrà presentato in seguito: le squadre inglesi, che per prime hanno ripudiato lo scellerato patto della Superlega, avranno il condono e il perdono dell'Uefa. Le spagnole e le italiane, Juventus in testa, dovranno pagare dazio. Come? La vendetta va servita fredda e chissà che qualche arbitro con "un bidone d'immondizia al posto del cuore" non vada prima o poi a presentare il conto…

(ANSA il 21 aprile 2021) - "La voce e le preoccupazioni dei tifosi in tutto il mondo rispetto al progetto di Super League sono state forti e chiare, e il nostro Club deve rimanere sensibile e attento all'opinione di chi ama questo meraviglioso sport": lo scrive il Milan in un comunicato in cui fa un passo indietro nella sua partecipazione alla Superlega. Il Milan spiega di aver "accettato l'invito con genuina intenzione" per creare migliore competizione possibile e "tutelare gli interessi del club". "Il cambiamento non è facile - si legge nella nota - ma l'evoluzione è necessaria per progredire". Di seguito il testo integrale del comunicato del Milan sulla Superlega: "Abbiamo accettato l'invito a partecipare al progetto di Super League con la genuina intenzione di creare la migliore possibile competizione Europea per i fan di tutto il mondo, per tutelare gli interessi del Club e della nostra tifoseria. Il cambiamento non è facile, ma l'evoluzione è necessaria per progredire, e anche la struttura del calcio Europeo si è evoluta e modificata negli anni. Ma la voce e le preoccupazioni dei tifosi in tutto il mondo rispetto al progetto di Super League sono state forti e chiare, e il nostro Club deve rimanere sensibile e attento all'opinione di chi ama questo meraviglioso sport. Continueremo comunque ad impegnarci attivamente per definire un modello sostenibile per il mondo del calcio".

Da alfredopedulla.com il 21 aprile 2021. Calderon: È oltraggioso e folle. Penso che sia una pugnalata al calcio. È una brutta notizia e arriva nel momento peggiore perché adesso il calcio dovrebbe essere più unito. Ci sono molti club che stanno soffrendo e hanno bisogno del contrario di ciò che questo torneo solleva. Le parole di Florentino Perez? Penso che ieri Florentino scherzasse o avesse bevuto un paio di bicchieri di vino in più perché dire che questo progetto viene a salvare il calcio mi sembra uno scherzo. Lui stesso ha coinvolto il Real Madrid in un progetto multimilionario di cui non sappiamo nemmeno quanto costerà lo stadio, il che non era certo necessario farlo. Quello che risolverà è un problema economico a favore solo di alcuni, ma a scapito degli altri”.

Da calciomercato.com il 21 aprile 2021. Durissimo attacco di Fernando Roig, presidente del Villarreal, a Florentino Perez, patron del Real Madrid sul progetto Superlega: “È un egoista, egoista e poi ... egoista. Pensa solo al Real Madrid. Inoltre, non c’è bisogno che Florentino venga a salvare il Villarreal. Tutto ciò che non si ottiene per meriti sportivi non ha alcun senso".

Da tuttojuve.com il 21 aprile 2021.

L'Equipe riporta una intervista a Florentino Perez, presidente della neonata e già in bilico Superlega. Possibile che sia di qualche ora fa, perché il presidente non sembra affatto preoccupato. "La situazione è così grave che siamo tutti d'accordo a portare avanti questo progetto e cercare una soluzione. Nessuno è stato messo sotto pressione. Sono convinto che PSG e Bayern si uniranno a noi. Siamo disponibili a parlare con tutti per salvare il calcio".

DAGONOTA il 21 aprile 2021. L’ira di John Elkann. La cortigianeria del direttore della “Repubblica” che consegna ai lettori un’intervista al Calimero (bianco)nero già superata dai fatti (rinuncia dei club inglesi alla Superlega). Il titolo della Juventus che crolla in Borsa facendo piangere gli investitori istituzionali compresi i fondi dei pensionati (16,20% del capitale). La ribellione di allenatori e giocatori. Le proteste dei tifosi. Le federazioni che annunciano ritorsioni senza precedenti (esclusione dai campionati, dalle coppe e dalle nazionali). Infine, il mondo dei ricchi pallonari che va in tilt di fronte a quelle che sin dall’inizio appariva un ballon d’essai, sia pure azzardato, destinato a sgonfiarsi…Andrea Agnelli, l’ultimo rampollo della dinastia a portare il cognome dell’Avvocato, a lungo ricorderà le ultime ventiquattr’ore. Il piccolo principe del football dei migliori, infatti, assisterà basito al naufragio del suo progetto (miliardario) trascinando nell’impresa azzardata anche la Jp Morgan. La banca d’affari che dopo la rinuncia al progetto potrebbe chiedere di riparare ai guai (finanziari e d’immagine) arrecatigli dal precipitoso arretramento della Sporca dozzina in fuga. E altri danni hanno subito gli attuali proprietari dei diritti televisivi (Dazn-Tim, Sky, Bt, Telefonica, Amazon, Eurosport). Ma prima d’interpretare i giorni più lunghi (e tragici) del presidente del club bianconero un merito Andrea Agnelli ce l’ha: dopo la Brexit è riuscito a rimettere insieme i cocci della Gran Bretagna con quelli della comunità Europa. Tornate unite con i loro leader impegnati, con una sola voce, a far fallire il golpe pallonaro guidato dallo spagnolo Florentino Pérez, presidente del Real Madrid. “Tra i nostri club c’è un patto di sangue e ha 100 per cento di possibilità di successo”, dichiara Andrea Agnelli con un linguaggio più consono tra convenenti a clan mafiosi e non tra partner pallonari. Tant’è. L’istituzione calcio è riuscita così in un piccolo miracolo lì dove da anni hanno fallito le cancellerie del Vecchio Continente. Dall’annuncio roboante di lunedì: la torta della Superleague è servita e ai voi club esclusi restano le briciole (dei diritti televisivi, fino alla resa delle armi (senza alcun onore neppure a Torino) da parte del nipote dell’Avvocato. A lungo ad Andrea Agnelli continueranno a fischiare le orecchie dopo la telefonata del cugino John Elkann, così raccontano dal quartiere generale dell’ex Fiat, a dir poco sconcertato se non incazzato per la sua improvvida sortita. E tra i due i rapporti non sono idilliaci potrebbero pure sfociare, non subito ma a fine campionato, con le dimissioni del presidente bianconero che, intanto, gli ha sbarrato la strada che portava alla Ferrari, occupando la poltrona di presidente del Cavallino rosso, lasciata libera dopo la morte di Marchionne. A seguire le reazioni politiche ostili, compreso il capo del governo Mario Draghi, suscitate dal suo progetto. Un annuncio seguito a poche ore dalla sconfitta della Juventus con l’Atalanta che potrebbe pregiudicare il suo ingresso nella prossima Champions League. Il numero uno di Exor - con il 63,8 per cento primo azionista del club bianconero seguono i fondi istituzionali con il 16,20% dell’inglese Lindsell Trai-, “apparecchiava” un’intervista riparatrice del cugino con il direttore della “Repubblica” (giornale della casa con Gedi), Maurizio Molinari, che - una volta letta -, si è trasformata in un altro clamoroso autogoal. Mentre in serata i media di mezzo mondo annunciavano il ritiro di Manchester United e City, Liverpool, Chelsea, Arsenal e Tottenham dalla competizione dopo lo stop auspicato anche dal premier Johnson, il Calimero bianconero, invece, sosteneva impenitente “che ha il cento per cento di possibilità di successo”. Già, “il progetto va avanti” ma a noi viene da ridere. 

Estratto dell'articolo di Enrico Currò, Matteo Pinci e Franco Vanni per "la Repubblica" il 21 aprile 2021. Una mossa disperata. Che rischia di finire come peggio non si potrebbe. Dodici squadre, unite da un indebitamento mostruoso, che complessivamente sfiora gli 8 miliardi, hanno tenuto in scacco il calcio europeo per 48 ore. Un piano nato anni fa, formalizzato a gennaio depositando il marchio della Super League, la Superlega europea, un sito internet registrato già da ottobre, un ufficio stampa blindato da clausole di non divulgazione assunto da Elliott, i padroni del Milan e parte essenziale del progetto insieme a Florentino Perez e Andrea Agnelli. La struttura organizzativa era pronta (arbitri, dirigenti). Era già pronto un editoriale firmato dai 12 club da pubblicare sulla stampa inglese per presentare il progetto. Ma la fuga dall' Uefa ieri a tarda sera pareva diventata un bluff. […] […] Chi vince è l'Uefa e il suo presidente, Aleksander Ceferin. […] La strategia della Uefa è stata efficace. […] Da domenica l'ufficio legale studiava sanzioni da presentare venerdì al Comitato esecutivo straordinario (dove invece si parlerà solo dell' Europeo), mentre lo stesso Ceferin incendiava il dibattito con accuse durissime. […] alla fine Ceferin ha potuto recitare il ruolo del padre buono di fronte al figliol prodigo: «Sono lieto di dare il bentornato al City nella famiglia del calcio europeo, ci vuole coraggio per ammettere un errore». Alle altre, per ora, non arriverà nessuna sanzione: al comunicato della mezzanotte di domenica sulla nascita del nuovo torneo non sono seguiti fatti meritevoli di punizione. Insomma, è stata solo una dichiarazione d' intenti. […] 

Andrea Agnelli alla "Reuters" il 21 aprile 2021: “Se il progetto SuperLeague può proseguire? A essere franchi e sinceri no, non si può fare un torneo a sei squadre”.

Da ansa.it il 21 aprile 2021. Il progetto va avanti; sì al dialogo con l'Uefa e la Fifa. Così il presidente della Juventus Andrea Agnelli parla della Superlega su la Repubblica; "tra i nostri club c'è un patto di sangue, il progetto della Superleague ha il 100% di possibilità di successo". Non è calcio per ricchi, dice: "Vogliamo creare la competizione più bella al mondo capace di portare benefici all'intera piramide del calcio, aumentando la distribuzione delle risorse agli altri club e rimanendo aperta con cinque posti disponibili ogni anno. Il prossimo passaggio sono i marchi globali: possono garantire entrate per garantire alla piramide del calcio ritorni davvero fiorenti. Per questo nasce la Superleague. Mi rassicura il progetto di creare il campionato più bello del mondo, mi preoccupa il populismo che ostacola il dialogo su questa iniziativa". E i giocatori della Juventus "mi hanno chiesto quando si comincia". "Il nostro lavoro - spiega - resterà intrinsecamente legato alle competizioni domestiche". Il modello Nba e le squadre della Ncaa (i college): "L'alimentazione dei settori giovanili viene mantenuta. Ogni settimana daremo ai tifosi le partite dei campionati nazionali e di una nuova competizione, capace di avvicinare le generazioni più giovani che si stanno allontanando dal calcio. Andare a creare una competizione che simuli ciò che fanno sulle piattaforme digitali - come Fifa - significa andargli incontro e fronteggiare la competizione di Fortnite o Call of Duty". Non teme l'isolamento ma "molto di più una situazione di monopolio di fatto con il tentativo di impedire a società e giocatori di esercitare le proprie libertà sancite dal Trattato dell'Ue. Bisogna uscire da questa situazione di monopolio dove i nostri regolatori sono i nostri principali rivali. È un esercizio delle libertà. L'iniziativa intrapresa, come previsto dal Trattato Ue, porterà a veder riconoscere un nostro diritto - rileva Agnelli - per questo teniamo il dialogo aperto con istituzioni, Fifa e Uefa. La Superleague affronta il maggior problema dell'industria del calcio che è la carenza di stabilità. È il momento di agire"; una trattativa con Fifa e Uefa è "il nostro auspicio. Abbiamo scritto ai presidenti di Fifa e Uefa per dialogare. La Superleague va avanti comunque. Se ci faranno una proposta, la valuteremo". Resteremo nella Serie A, "la tradizione del calcio risiede nei campionati domestici". Non saremo espulsi dai campionati, "se avvenisse sarebbe un grave abuso, non solo un monopolio ma una dittatura. Quanto stanno minacciando è illegale". "La posizione di Draghi è di grande buon senso. Lo sport è da sempre contro le ingerenze della politica - dice - se i leader politici vogliono intervenire sul fronte economico - dove stimiamo perdite fra i 6,5 e gli 8,5 miliardi di euro - sarà positivo, soprattutto sul fronte con la Uefa".

Maurizio Molinari per "la Repubblica" il 21 aprile 2021.

Presidente Agnelli, la Superlega perde pezzi, il progetto rischia di affondare?

«Fra i nostri club c' è un patto di sangue, andiamo avanti».

Ritiene che il progetto possa ancora avere successo?

«Sì, ha il cento per cento di possibilità di successo». (…)

Come è possibile che tre squadre italiane della Superlega, prendendo ogni anno un bonus di 350 milioni, non alterino l' equilibrio della Serie A a cui partecipano?

«Il bonus di 350 milioni l' anno è falso. Noi rimaniamo nelle competizioni domestiche, andremo a giocare in ogni stadio d' Italia, di Spagna e d' Inghilterra. Il nostro lavoro resterà intrinsecamente legato alle competizioni domestiche».

Il modello Nba negli Stati Uniti si alimenta grazie alle squadre dei college. Che legame avrete con le squadre giovanili, locali?

«L' alimentazione dei settori giovanili viene mantenuta. Ogni settimana daremo ai tifosi le partite dei campionati nazionali e di una nuova competizione, capace di avvicinare le generazioni più giovani che si stanno allontanando dal calcio». (...)

La vostra sfida punta in realtà proprio alla Uefa. Perché?

«Bisogna tener presente che l' Uefa gestisce i nostri diritti, li vende, decide quanti che ce ne redistribuisce e ci regola pure. Senza affrontare alcun rischio economico. Ed inoltre è un nostro rivale. Mi pare un aspetto di grande valore per un' industria da 25 miliardi di euro. Fifa e Uefa fanno grandi ricavi con i nostri giocatori ma non ci hanno aiutato nei momenti di crisi. Devono scegliere: o fanno i regolatori o i promotori commerciali». (..)

Ma il problema è che queste regole impediranno ad una squadra minore, in Lituania o in Italia, di sfidare un grande club: il duello fra Davide e Golia non ci sarà più e lo sport ne uscirà indebolito.

«Allora partiamo dai dati: nei quarti di Champions abbiamo tutte le squadre che dovevano essere lì, in Germania il Bayern ha vinto 8 campionati di fila, in Francia c' è un' egemonia, in Spagna un duopolio e in Italia negli ultimi cento anni di storia 80 campionati sono stati vinti da Juventus, Milan e Inter. Dunque l' ambizione delle piccole è legittima ma dall' altra parte abbiamo una statistica lunga un secolo». (...)

SUPERLEGA, PERCHÉ È FALLITA: I CALCOLI SBAGLIATI, LA RIVOLTA DAL BASSO E GLI STOP DELLA POLITICA. MA NON FINISCE QUI. Paolo Tomaselli per corriere.it il 21 aprile 2021. Petr Cech è alto due metri, è stato il portierone del Chelsea, quello con il caschetto. Adesso fa il direttore tecnico del club londinese e quando viene inghiottito dalla folla di tifosi che bloccano il pullman dei Blues all’ingresso di Stamford Bridge, ha l’aria stravolta. Qualcuno gli urla «traditore!», altri sventolano cartelloni improvvisati, dove la rabbia verso la Superlega è messa nero su bianco: «Cancellatela!», «Orgoglio di Londra», «Super-avidità». L’età media dei partecipanti sembra bassa, la rabbia è concreta. Cech urla di far entrare il pullman per la sfida contro il Brighton, che viene giocata regolarmente. Il Guardian parla di «choc e smarrimento tra i giocatori»: per la Superlega, prima ancora che per la reazione dei tifosi della squadra del miliardario russo Abramovich. Una mobilitazione, che si era già estesa più a Nord, tra i custodi dell’ortodossia del Liverpool (che ha visto anche qualche sponsor prendere le distanze) e del Manchester United. Le parole, pesantissime, di protagonisti come Klopp e Guardiola, il malessere dei calciatori e le prese di posizione della politica hanno fatto da carburante per la protesta: gli scissionisti hanno sottovalutato questa doppia pressione, dal basso e dall’alto, forse per la distanza di certe proprietà, soprattutto quelle americane, dall’anima dei loro tifosi. Così, la paura dell’ignoto ha il suo peso nel disfacimento dell’accordo tra i club che volevano «salvare il calcio» secondo le parole di Florentino Perez, presidente del Real Madrid. Il primo a salutare la compagnia è Ed Woodward, vicepresidente esecutivo del Manchester United per conto della proprietà dei Glazer. Le voci delle dimissioni di Andrea Agnelli, presidente della Juventus, vengono subito smentite: ma la bufera che ha travolto uno dei principali promotori della Superlega sembra all’inizio, più che alla fine. Perché i calcoli sono stati tutti sbagliati. E le voragini nei bilanci restano. Per questo è difficile pensare che tutto si esaurisca così, presto e male. La situazione debitoria delle big è in alcuni casi disperata, gli interventi della politica possono essere considerati come ingerenze, gli studi legali promettono battaglia: comunque vada a finire, il calcio non sarà più come prima. Forse nemmeno la Juve: Alessandro Nasi è il primo nome per l’eventuale successione di Agnelli. Tifoseria e politica, cuore e ragione, romanticismo e visione globale: tutto questo ha un peso nello sgambetto al gigante dai piedi di argilla, come un vento improvviso, violento. Ma non può essere tutto qui, non è il caso di farsi troppe illusioni sulla forza motrice del pallone come sentimento. Il terreno che viene a mancare rapidamente sotto ai piedi degli scissionisti è fatto di soldi, politica, interessi forse ancora più alti di quelli della Superlega stessa. In un certo senso si può dire che la creatura di Perez e Agnelli, prigioniera di una comunicazione disastrosa, è rimasta schiacciata dal basso. Ma soprattutto dall’alto, con geopolitica ed economia strettamente intrecciate. L’asse franco-tedesco è stato decisivo, perché pensare di fare una Superlega senza le ultime due finaliste — Psg e Bayern — è un rebus senza soluzione. Non perché Neymar o Lewandowski sono giocatori straordinari, ma perché quello tedesco è il secondo mercato del calcio dopo quello inglese, con sponsor pesantissimi che investono anche nella Uefa: i club principali non hanno debiti e grazie alla loro composizione societaria hanno il polso della loro tifoseria. Il Psg dei qatarioti non può, nemmeno volendolo, andare contro Uefa e Fifa, dato che Doha ospiterà il (discusso) Mondiale 2022. A questo si aggiunge la composizione dei fondi che avrebbero finanziato la Superlega: sarebbe coinvolta l’Arabia Saudita, con la quale lo stesso Qatar è in cattive relazioni. Il romanticismo può attendere, insomma. O al massimo fare da sfondo. Se la Superlega non si farà, è a causa dei numerosi calcoli sbagliati da parte dei suoi ideatori. Troppi per non ipotizzare un colpo di coda disperato. Almeno di Perez e Agnelli.

Dieci cose da sapere sul fallimento della Superlega. A due giorni dal lancio del nuovo torneo i dodici scissionisti hanno capitolato e l’intero progetto è saltato. Ecco dove hanno sbagliato. Gianfrancesco Turano su L'Espresso il 21 aprile 2021. Se era un colpo di Stato, è fallito in poche ore. Quanto resta della Superlega ha dovuto abbandonare le sue posizioni “non negoziali” per aprire una trattativa con le federazioni nazionali e internazionali che governano il calcio. Mentre si fa la conta dei superstiti e si passa alla fase due, il negoziato appunto, protagonisti e spettatori di questa guerra lampo cercano di capire che cosa è andato storto. Ecco un breve elenco. Florentino Pérez, presidente della Superlega, si è nominato salvatore del calcio. È un fenomeno simile al greenwashing per cui i principali inquinatori globali si dichiarano in prima fila nella lotta all'emergenza climatica. Il Real Madrid di Pérez è cresciuto in ricavi, Covid a parte, ma non ha smesso di aggravare il suo indebitamento insostenibile (1,2 miliardi di euro). I compagni di avventura hanno fatto lo stesso per un totale stimato in 8 miliardi di euro. La corsa ai gusti del pubblico giovane, che sarebbe disamorato del football attuale, passerebbe per una riforma radicale delle regole Fifa. Si sente parlare di partite di Superlega più brevi e di altre novità più o meno fantasiose. Pérez ha lamentato la noia di troppe partite di calcio. Forse ha vinto troppo. Il calcio è fatto di tifosi che non si annoiano nemmeno a seguire Juve Stabia-Ternana. Si chiama passione ed è quello che tiene in piedi la baracca, Florentino incluso, da oltre un secolo e mezzo. Un calcio fatto solo di big match inflaziona il prodotto. Andrea Agnelli dice che i ragazzi di 10-15 anni si interessano ad altro e nella fascia fra i 16-24 il 40% se ne fregano di Ibra e Cr7. Meno male, viene da dire. Ma se quarant'anni fa si fossero applicati al football gli strumenti di marketing analysis odierni, si sarebbe scoperto che gli interessati erano molto meno di oggi, in Asia, in America del nord, fra le donne. A proposito di America del Nord, i richiami ispirazionali al professionismo Usa sono infondati. Il sistema della pallacanestro, con la filiera college-Nba, non ha nulla a che vedere con il sistema vivai-serie A. Il basket studentesco negli Stati Uniti è una religione che nel momento conclusivo, la cosiddetta March madness, richiama decine di migliaia di spettatori nei palazzetti, milioni davanti alla tv, pubblicità, e così via. Alla fase finale del campionato Primavera ci vanno, pandemia a parte, i parenti non oltre il terzo grado dei ragazzi in campo. Il piagnisteo scissionista sulla libertà d'impresa privata è privo di fondamento. I presidenti di tutto il mondo sono stati e saranno sostenuti finanziariamente dagli stati, dunque dai contribuenti, in mille modi. L'elenco storico sarebbe troppo lungo ma basta citare la legge che dal 2018 consente a campioni stranieri come CR7 di pagare una tassa flat di 100 mila euro all'anno su 31 milioni di euro di stipendio (3,2% di imposizione). Pérez e i club spagnoli hanno goduto per decenni di vantaggi fiscali scandalosi, denunciati dai loro stessi colleghi. Fifa e Uefa sono una Tortuga di banditi, affermano i superleghisti con l'elenco degli scandali alla mano. Chissà perché gli organi del calcio non dovrebbero avere la loro quota ragionevole di ladri e corrotti. Ma gli alti papaveri di Uefa e Fifa sono stati spesso castigati in modo più pesante rispetto ai presidenti delle squadre di calcio, non sempre ispirati al modello gandhiano. Forse perché non hanno l'immunità de facto offerta dal tifo? Fra i non moltissimi sostenitori della Superlega si è fatto notare che suona ridicolo contrapporsi ai ricchissimi per sostenere i diritti dei ricchi. Ridicolo ma poi non troppo. Nella storia del capitalismo esiste un momento in cui la lotta contro i cartelli imprenditoriali parte dall'interno del sistema e non da istanze bolsceviche. Una delle cose meno comprensibili del tentato golpe Superlega è la tempistica. Perché proprio adesso? A poche settimane dalla fine dei tornei nazionali e internazionali e dall'inizio di Euro 2021, la Uefa ha in mano il massimo del potere sanzionatorio. L'Inter può vedere uno scudetto in nerazzurro ma sarebbe quello dell'Atalanta. Cinque semifinaliste su otto tra Champions ed Europa League sarebbero escluse dalla vittoria, con la coppa dalle grandi orecchie che andrebbe automaticamente al Psg. I calciatori di maggiore richiamo non verrebbero convocati all'Europeo per nazioni. Non era meglio luglio? Le proteste dei tifosi non hanno prevalso quasi mai sul calcio-business. Stavolta i primi a scendere in campo contro la Superlega sono stati proprio i fan dei dodici scissionisti o, più esattamente, dei sei fondatori inglesi. Anche se le marketing analysis li considerano consumatori e indicano che molti giovani – i soliti giovani – tifano per il campione e non per il club, il tifo per la maglia tiene in piedi il football e continua a essere radicato localmente. Poi essere milanista non ha mai impedito di ammirare Totti o Falcão e CR7 è uscito dallo Stadium di Torino fra gli applausi quando aveva la maglia del Real, dopo un leggendario gol in rovesciata. L'insistenza sul predominio dei soliti Bayern in Bundesliga, Real-Barça in Spagna, Psg in Francia, Juve in Italia, come fattore di noia e fuga del consumatore è un falso problema. Il calcio vive sull'underdog, la squadra che vince contro pronostico. Succede di rado ma eliminare la possibilità che accada è un suicidio.

Super League o della libertà. Gian Maria De Francesco il 20 aprile 2021 su Il Giornale.

Premessa. In questo post si parlerà di libertà e questo eticamente richiede di dichiarare la propria posizione. Sono liberale. Sono tifoso del Bari (società controllata dalla Filmauro che a sua volta controlla il Napoli di cui parleremo più avanti) e simpatizzo per il Milan. Ciò di cui scriverò non mi vede pertanto neutrale né sportivamente né politicamente.

La nuova formula. Questo post, ovviamente tratterà della Super League, il sistema a franchigie sostitutivo della Uefa Champions League che avrebbe dovuto vedere partecipanti fissi indipendentemente dal piazzamento nei rispettivi campionati: Arsenal, Atlético Madrid, Barcellona, Chelsea, Inter, Juventus, Liverpool, Manchester City, Manchester United, Milan e Tottenham. La formula avrebbe dovuto prevedere due gironi all’inglese di dieci squadre con partite di andata e ritorno. Le prime quattro classificate di ciascun girone avrebbero dato vita a quarti, semifinali e finalissima a partita unica a differenza dei due turni precedenti. Un totale di 193 partite ad alto tasso tecnico che la banca americana Jp Morgan valutava già in partenza 3,5 miliardi di euro da dividersi in massima parte tra i fondatori con possibilità di incrementare ulteriormente i ricavi derivanti da diritti tv, sponsor e merchandising. A regime non sarebbe stato difficile prevedere per le 12 «sorelle» ricavi di default compresi tra 200 e 250 milioni di euro con la possibilità di incrementarli procedendo nella competizione. Questa era, infatti, l’equazione: ricavi stabili → aumento investimenti → ulteriore incremento dei ricavi → utili prospettici.

Le condizioni iniziali. L’idea di una «Superlega» già da qualche anno era oggetto di discussione tra i top team europei visto che la Uefa non riesce attualmente a garantire introiti in grado di compensare i massicci investimenti necessari per allestire squadre vincenti a livello continentale e globale. Ecco perché è necesario vedere quale sia la disproporzione tra ricavi e indebitamento lordo dei 12 top team cui ho aggiunto il Napoli che probabilmente sarebbe stata la quarta squadra italiana invitata in alternanza con la Roma. Tutti i top team hanno un indebitamento mostruoso al 30 giugno 2020 (7,866 miliardi di euro) se confrontato con i ricavi (5,767 miliardi), peraltro tagliati dalla chiusura degli stadi a causa della pandemia. Un impatto che Deloitte ha calcolato in 800 milioni complessivamente  per i 20 top team europei. Gli 1,25 miliardi di indebitamento del Tottenham sono legati in buona parte alla ristrutturazione dello stadio di White Hart Lane, una spesa che finora non ha fruttato risultati causa eventi a porte chiuse. Gli 1,17 miliardi del Barcellona hanno per metà un nome e un cognome Lionel Messi e per l’altra metà il trading di calciatori costosi che però non hanno portato Champions League come Antoine Griezmann. Lo stesso discorso vale per la Juventus che ha tratto giovamento limitato da Cristiano Ronaldo. L’Inter, che guida il campionato italiano, aveva un debito complessivo di 871 milioni a fine giugno 2020 perché l’ingaggio di stelle come Romelu Lukaku, Niccolò Barella, Alexis Sánchez e Christian Eriksen ha comportato esborsi notevoli. Il supporto dell’azionista principale Suning sta per terminare perché il governo cinese ha deciso di frenare l’esportazione di valuta all’estero. I 115 milioni del Milan sono legati al ripianamento dell’azionista, l’hedge fund Elliott che ha coperto la perdita monstre di 194 milioni di euro dell’anno scorso, stagione tra l’altro caratterizzata dall’esclusione dall’Europa League per mancato rispetto del fair play finanziario. L’unica che non fa parte del club è l’unica a non aver debiti perché il Napoli con la partecipazione alla Champions e una gestione oculata è riuscito ad autofinanziarsi. A discapito, ovviamente, dei risultati sportivi. Quest’anno non ha partecipato alla massima competizione continentale.

Una struttura costi non sostenibile. Come si vede da questo grafico del Financial Times i top team spendono troppo per gli stipendi dei calciatori. Quella del Milan è un’anomalia legata al calo dei ricavi. Nella stagione corrente (90 milioni di euro) spende meno dell’Inter (149 milioni) e della Juve (236 milioni) con un monte ingaggi di circa 90 milioni di euro. Ma la mancanza dall’Europa che conta negli ultimi otto anni ha svilito l’appeal del «diavolo». Tutte le altre viaggiano su una media stipendi compresa tra il 60 e il 70% degli introiti. Valori che per una qualsiasi società industriale non sarebbero compatibili con una sana e prudente gestione. Ma il calcio è così: se non si spende, difficilmente si riesce a vincere. Sebbene, come dimostra l’Atalanta (42,6 milioni di stipendi), le spese non sempre significhino vittoria. Comunque, per farla breve, un margine operativo lordo (differenza ricavi-costi) positivo è spesso un miraggio visti questi parametri. La crescita dei debiti dei top team ci dice che bruciano cassa, ossia che non riescono a essere sostenibili finanziariamente. Vi risparmio la litania sulle plusvalenze di bilancio con gli scambi di calciatori perché sicuramente vi hanno già ammorbato sul tema. Prendo solo la Juve come esempio solo perché è quotata e dunque i bilanci hanno ampia pubblicità: gli scambi Cancelo-Danilo col Manchester City e Pjanic-Arthur col Barcellona hanno comportato una sovrastima del valore di mercato dei rispettivi calciatori per far emergere plusvalenze in grado di limare il rosso di bilancio. È una prassi, così fan tutti.

La necessità della Super League. Il modello a franchigie della Nba o dell’Eurolega di basket avrebbe risolto queste problematiche. La vittoria della Champions League non è una panacea di tutti i mali. Il massimo torneo continentale di calcio vale tra gli 1,5 e i 2 miliardi di euro che si spartiscono tra le 32 squadre partecipanti accontentando anche i piccoli come gli ungheresi del Ferencvaros o gli svizzeri dello Young Boys quando riescono a parteciparvi qualificandosi da i turni preliminari. Come ha fatto notare il presidente della Juve ed ex presidente dell’Eca (l’associazione dei top club europei), Andrea Agnelli, la Nfl di football americano mobilita 5 miliardi di euro ma ha un bacino di utenza globale pari a un decimo di quello del calcio. Dunque è palese che lo sport più popolare al mondo non sappia valorizzarsi adeguatamente, non riesca a essere un vero business se non per le società che proliferano sui settori giovanili come l’Ajax. La Super League avrebbe risolto i problemi dei top club, quelli che ci fanno divertire quando guardiamo una partita di calcio o quando andiamo allo stadio. Real, Barcellona, Atlético e City avrebbero incrementato ulteriormente gli introiti. Tutte le altre sarebbero state sicure della partecipazione alla massima competizione continentale. Inter e Milan con quel denaro avrebbero potuto pianificare la ristrutturazione di San Siro o, in caso contrario, costruire lo stadio di proprietà. L’Italia, inoltre, avrebbe avuto la migliore rappresentanza possibile in Europa con le tre vincitrici della Champions presenti di diritto senza dover maledire il pareggio col Crotone o la sconfitta col Benevento e con lo Spezia.

La demagogia nemica della libertà. Come avrete letto se siete arrivati fin qui di questa vicenda ho scritto al passato. La Super League è morta prima di nascere. Poco dopo la mezzanotte di oggi 21 aprile le sei squadre inglesi si sono ritirate dal progetto. Il presidente del Real Madrid, Florentino Pérez, le ha accusato di aver intascato soldi dall’Uefa per rinunciare al progetto, mentre analoga offerta non sarebbe stata rivolta ai team spagnoli. I team italiani non ne escono benissimo, hanno caldeggiato la proposta ma hanno beccato solo le critiche di Uefa, Fifa e di tutto il mondo politico italiano ed europeo. Le forti pressioni politico-mediatiche, non ultime quelle dei tifosi inglesi adirati per lo svilimento della Premiership sono stati determinanti. L’iniziativa individuale è stata un’altra volta svilita dalla sovrastruttura marxista-statalista-europeista secondo cui è sempre meglio dividere le povertà che moltiplicare le ricchezze. La Super League sarebbe stata moderatamente generosa con i campionati nazionali dei singoli partecipanti. Chiaramente le competizioni domestiche avrebbero perso un po’ di appeal giacché la vittoria non avrebbe significato automaticamente partecipazione alla super League come già accade oggi nel basket. Anche perché, diciamocelo, Juve, Milan e Inter rappresentano il 65% della fan base calcistica italiana e con le partecipazioni alternate di Roma e Napoli, più di tre quarti dei tifosi italiani avrebbero avuto soddisfazione. C’è solo da sperare che economicamente sappiano trarne qualche vantaggio perché politicamente è stata una débâcle: dall’essere riconosciute come imprescindibili per una competizione europea di alto livello a cornute e mazziate senza passare dal via. La demagogia del finto merito sportivo ha prevalso. Senza Super League, infatti, ci rimettono quelli che tengono su la baracca consentendo ai cosiddetti «poveri» di proseguire la loro attività. Ecco, non illudetevi che abbia vinto la possibilità per tutti di vivere la «favola del ChievoVerona». Ha vinto la burocrazia, hanno vinto i funzionari, hanno vinto i localismi cioè la piccola politica che consente a Alexander Ceferin della Uefa e a Gianni Infantino della Fifa di prosperare legandosi alle microcordate che poi a livello europeo e mondiale diventano via via grandi serbatoi di interessi particolari. Ha vinto quel modello che ogni giorno vediamo plasticamente incarnato nell’Unione Europea, questa volta con la rentrée della Gran Bretagna.

Il colpo di Stato al contrario. È stato fatto un colpo di Stato. Si va a ledere il diritto che il più debole possa farsi strada, è come se un figlio di un operaio non possa sognare di fare il chirurgo o l’avvocato. L’allenatore del Sassuolo, Roberto De Zerbi, ci è andato giù pesante. Il tweet del nostro collega del Giornale, Franco Ordine, vale più di qualsiasi altra risposta. Questi piccoli miracoli sono possibili proprio grazie alla presenza delle big che, nel bene e nel male, movimentano il mercato, creano attenzione e danno la possibilità ai piccoli club di lanciare e rilanciare calciatori che nelle grandi non hanno fatto benissimo come l’ex Milan Manuel Locatelli, ad esempio. Che grazie a De Zerbi ora vale 40 milioni di euro. La dipartita delle tre big, ovviamente, avrebbe fatto collassare tutto il «giocattolo». Immaginatevi sempre la solita Juve che non deve preoccuparsi di perdere col Sassuolo per centrare l’obiettivo Champions. In una serie A siffatta prima o poi qualcuno si domanderebbe se valga la pena di continuare a tenere in posizioni top nobili club ma che non garantiscono stadi pieni e fan base. In una Serie A dove il Milan sia finalmente liberato dall’incubo della «fatal Verona», magari ci si chiederebbe che senso abbia rinunciare a piazze importanti come Bari, Palermo, Catania, Brescia e Padova. Ma a noi piace raccontare la storiella del merito sportivo. Ci inebriamo con il terzomondismo alla Osvaldo Soriano o alla Eduardo Galeano. Ci piace sporcarci con il calcio proletario di Nick Hornby. E allora beccatevi questo. Da sinistra verso destra: Jamie Vardy, centravanti del Leicester ultimo campione «povero» d’Inghilterra, Josip Ilicic, da scarto di Firenze a re delle notti Champions dell’Atalanta e infine Mislav Orsic della Dinamo Zagabria, tripletta al Tottenham e giustiziere di José Mourinho. Questo è il calcio che vi piace, quello in cui la Cavese vince a San Siro col Milan in serie B. Beh, sappiate che il calcio che vi piace è quello che dietro la finta moralizzazione del fair play finanziario ha consentito a Manchester City e Paris Saint Germain degli sceicchi di farsi beffe delle regole e che invece ha tenuto Inter e Milan a stecchetto. Il calcio che vi piace è quello in cui la Juve rischia di non fare la Champions perché ha perso in casa col Benevento. Il calcio che vi piace è quello della Lazio umiliata dal Bayern Monaco o della magica Atalanta annichilita dal Real Madrid. Però, l’importante è che Carpi e Treviso possano fare una gita in Serie A, magari sotto lo sguardo compiaciuto di Ceferin e Infantino. Perché il calcio funziona al contrario del tennis: nel nostro caso sono Djokovic, Nadal e Federer a dover pagare per giocare… Gian Maria De Francesco

Dagonews il 22 aprile 2021.

SUPERLEGA, AU REVOIR – Cantona stronca il progetto di Perez&Agnelli: “I tifosi sono la cosa più importante nel calcio e devono essere rispettati. Questi club hanno chiesto ai loro tifosi cosa ne pensassero di questa idea? No, sfortunatamente. Ed è una vergogna". Non male detto da uno che i tifosi li prendeva a calci…

PARADISO E INFERNO – L’ex frontman dei “Thegiornalisti” Tommaso Paradiso, tifosissimo della Lazio, verga su Instagram un post apocalittico per bocciare il progetto Superlega: "Un atto vandalico, la separazione finale del mondo tra poveri e ricchi, una coscienza sporca, la macchia della tirannide, la supremazia del più forte, l'inciviltà, il futuro distopico, il fallimento di ogni valore legato allo sport, il sopruso, la violenza, la fine dello sport più popolare al mondo, la fine della passione, la fine del tifo, la morte delle domeniche in famiglia e delle aste al Fantacalcio con gli amici di una vita, la fine dei giochi e del divertimento, la tomba delle piccole realtà, i potenti che diventano sempre più potenti, il nostro calcio che non sarà più il nostro, bambini che cresceranno senza la squadra del cuore, quella vera, non quella imposta. La deriva del giusto: questo e anche molto di più è la Superlega". 

SPLENDORI E MISERIE DI COSMI – Il mitologico Serse per dire no alla Superlega ondeggia tra Galeano e le Sacre Scritture: “Si prendono il pallone e lo vendono al migliore offerente. Le emozioni non sono in vendita, anche perché appartengono “solo” al popolo, non ai mercanti. E adesso daspate loro!!". 

Boris Johnson. Superlega, le pressioni di Johnson sugli Emirati: "Il City abbandoni il progetto o sarà crisi diplomatica". Antonello Guerrera su La Repubblica il 22 aprile 2021. La rivelazione del "Times" di Londra: "Lo storico consigliere del primo ministro britannico Eddie Lister era a Dubai in questi giorni e ha messo subito in chiaro: se il club dello sceicco Mansour non si fosse ritirato dal progetto, ci sarebbero state ripercussioni nelle relazioni tra Londra e gli Emirati Arabi". "Il governo di Boris Johnson ha esercitato forti pressioni sugli Emirati Arabi Uniti affinché il Manchester City abbandonasse la Superlega". La rivelazione arriva dall'autorevole Times di Londra e aggiunge un retroscena importante allo sforzo massimo del primo ministro britannico per far deragliare immediatamente il maxi-progetto calcistico europeo di 16 top team. La Superlega, difatti, era una minaccia, secondo Johnson, alla Premier League, il campionato più bello e ricco del mondo e brand da proteggere nella sua Global Britain del dopo Brexit. E per preservarlo, Boris Johnson era disposto a tutto: anche a una crisi diplomatico-internazionale con gli sceicchi. 

Le pressioni di Lister. A esercitare le pressioni sugli arabi sarebbe stato nientemeno che Eddie Lister, anzi Lord Udny-Lister come si chiama adesso dopo che Johnson lo ha omaggiato con il parruccone e l'ingresso nella camera dei Lord. Lister, 71 anni, è lo storico e il più fidato consigliere del primo ministro, sin da quando Johnson era sindaco di Londra oltre un decennio fa. Da qualche tempo, poi, Lister è anche l'inviato speciale del governo britannico in Medio Oriente. Domenica sera, quando è arrivato l'esplosivo annuncio della creazione della Superlega, Lord Lister si trovava guardacaso proprio a Dubai per una missione di politica estera. Appena saputa la notizia, il diplomatico si sarebbe attivato subito per intimare agli esponenti del governo emiratino di convincere il City ad abbandonare immediatamente il progetto: "Altrimenti, come Lister ha messo subito in chiaro, ci sarebbero state ripercussioni sulle relazioni con Londra". Questo perché la squadra allenata da Pep Guardiola è di proprietà del 50enne e ricchissimo sceicco Mansour bin Zayed Al Nahyan, che è anche il vicepremier degli Emirati Arabi Uniti oltre che fratellastro del presidente del Paese, Khalifa bin Zayed Al Nahyan.

Manchester City primo a mollare. Sottolinea il Times: "La discesa in campo nella questione di uno dei consiglieri più storici e fidati di Johnson fa capire quanta pressione il governo Johnson abbia scatenato per far fallire la Superlega. Una dura presa di posizione che ha sorpreso persino gli stessi presidenti delle squadre di Premier League coinvolte". Curiosamente, martedì sera, il Manchester City sarebbe stata la prima squadra a mollare e annunciare il clamoroso dietrofront della Superlega. Sin dal primo annuncio di SuperLeague, oltre alle rivolte dei tifosi, Boris Johnson ha scatenato una pressione enorme sui club inglesi, minacciando punizioni "bomba" contro di loro. E non è finita. Perché Johnson, schivata la minaccia Superlega, ora vuole distruggere ogni simile velleità futura facendo approvare leggi ad hoc. "Una cosa del genere non dovrà accadere mai più", giurano a Downing Street.

Modello tedesco. C'è una commissione governativa già al lavoro con associazioni dei tifosi e tra qualche settimana proporrà soluzioni che potrebbero essere adottate dal governo: modello tedesco con il 51% delle quote del club ai tifosi; una sorta di ente regolatore/"antitrust" del calcio inglese che scongiuri ogni campionato europeo; soldi dei diritti tv revocabili (le emittenti sarebbero già d'accordo), eccetera. Il primo ministro l'aveva promesso ai suoi: "Non permetterò che distruggano la Premier. Farò di tutto contro la Superlega". I sei club ribelli inglesi hanno sottovalutato - come molti altri in passato - Boris Johnson e il suo potere. Ma hanno sottovalutato anche i tifosi inglesi. Nonostante la Premier sia il campionato più ricco del mondo, in Inghilterra il calcio è comunità, tradizione e soprattutto l'unico collante rimasto tra generazioni, molto più che in Italia. La Superlega minacciava tutto questo e anche la loro ribellione, sostenuta persino dalla Casa Reale e dal Principe William, è stata decisiva.

Giulia Zonca per "la Stampa" il 22 aprile 2021. I ragazzi erano in strada con i cartelli di cartone scritti a pennarello. I ventenni, i trentenni e gli adolescenti erano davanti allo stadio del Chelsea a fare massa critica contro la Super League. Davanti alla sede del Tottenham, a chiedere di essere rispettati. Non erano tutti alla playstation e facevano un gran rumore. Il rumore dell' Inghilterra. Sei squadre di Premier League si sono unite alla Super Lega e sono le sei che l' hanno affondata, le sei a capitale straniero che hanno ragionato su schemi globali e sbagliato su scala locale perché il calcio in Inghilterra sa ancora di fish and chips, per quanto retorico sia, per quanto lunare sia diventato il pallone. Anni a puntare al sistema Premier che ora sogna di diventare tedesco. Boris Johnson ci ha preso gusto e dopo aver fatto discorsi alla Churchill contro il campionato dei ricchi che strappano i valori ai giovani vorrebbe introdurre la regola del 50 più uno, quella che mantiene la Bundesliga fuori dai guai: le quote del club devono restare in maggioranza assoluta a un consiglio di membri eletti direttamente dai tifosi. Gli innamorati che resistono persino ai capricci di chi governa il loro cuore, la squadra senza la quale non possono vivere. Sono rimasti con il caro biglietti, sono rimasti con i fondi americani, con presidenti che si rivolgono al mercato asiatico e poi a quello del Golfo e va bene, ci si può allargare purché non si rompa l' oggetto del desiderio. La vena di contestazione La Super Lega non è saltata per romanticismo, ma quella vena di contestazione così netta l' ha crepata. Poi è arrivata la politica. Boris, la furia Boris: dopo essere riuscito a vaccinare quasi l' intero Paese, lo ha anche sostenuto nella sua passionale contestazione. Ha ipotizzato leggi promosse per fermare la fuga, ha fatto pressione per proteggere un mondo che ha mescolato capitali, idolatrato le plusvalenze, dimenticato pezzi per strada ma ha ancora lo spirito da Fa Cup. L' Inghilterra dei dopolavoristi di provincia che sognano solo quei 90 minuti in cui sfidare i campioni, i campetti di quartiere con i festoni nel giorno in cui arrivano club di Premier. Quelli che a un certo punto si sono trasformati nei più ricchi e pazienza, il calcio cambia, certo, ma non deve per forza inseguire un tifoso che non ha mai guardato una partita. Così, il proprietario del Liverpool, John Henry, ha registrato un video per dire: «Mi dispiace, sono il solo responsabile di questa ondata di negatività». Tutte le società hanno chiesto scusa a chi veste le loro maglie. È vero che le nuove generazioni si appassionano a Fornite, ma ogni tre anni ne nasce uno diverso, con un altro nome, un' altra piattaforma, un' altra natura mentre il Manchester United c' è dal 1878, il Liverpool dal 1892, così come le squadre italiane in circolazione da più di un secolo. Ma qui era più difficile avvertire il dissenso. In Inghilterra è stato evidente, dirompente: hanno di nuovo difeso le spiagge. Per carità, non da brutali invasori, ma da chi voleva soffiargli un bene prezioso, l' identità.

DAGOTRADUZIONE DA theguardian.com il 22 aprile 2021. I sostenitori dei club inglesi che si uniranno alla Super League europea hanno reso nota la loro opposizione al controverso progetto, con i tifosi del Chelsea che hanno protestato fuori dallo Stamford Bridge prima della partita casalinga del club contro il Brighton. Il Chelsea Supporters 'Trust ha denunciato la scissione proposta come il "tradimento finale" e "imperdonabile". Con sentimenti simili echeggiati dai gruppi di fan nei cosiddetti "Rich Six" d’Inghilterra, forse non sorprende che Manchester City e Chelsea stiano avendo dei ripensamenti sull’abbandono della Champions League per la nuova competizione ampiamente condannata. I tifosi del Chelsea si sono riuniti fuori Stamford Bridge con cartelli che esprimevano opposizione alla Super League e che esortavano il proprietario Roman Abramovich a "fare la cosa giusta". Una parte fondamentale della pressione a Stamford Bridge viene esercitata dal Chelsea Supporters Trust. "I nostri membri e tifosi in tutto il mondo hanno subito il tradimento finale", ha detto in una nota. “Questa è una decisione avida per riempire le tasche di chi è al vertice ed è stata presa senza considerare i tifosi, la nostra storia, il nostro futuro o il futuro del calcio in questo paese. “È probabile che questa proposta non verrà mai realizzata, tuttavia, la dice lunga sul fatto che il Chelsea sia pronto a rischiare la propria esistenza in Premier League e FA Cup. Questo è imperdonabile. Quando è troppo è troppo." L' Arsenal Supporters' Trust la pensa in modo simile:"Questo rappresenta la morte di tutto ciò che il calcio dovrebbe rappresentare", hanno detto in un comunicato, sottolineando la minaccia alla meritocrazia rappresentata dalla ESL. “Come tifosi, vogliamo vedere l'Arsenal giocare in competizioni in base al merito sportivo e l'equilibrio competitivo. Faremo tutto il possibile per opporci a questo ". Questi sentimenti sono stati rispecchiati dal gruppo dei tifosi del Liverpool ‘’Spirit of Shankly’’: "Imbarazzante", è stata la loro sintesi quando i funzionari del club hanno rimosso gli striscioni di protesta dai recinti di Anfield. “In qualità di rappresentanti dei tifosi siamo sconvolti e ci opponiamo completamente a questa decisione. L'FSG [Fenway Sports Group] ha ignorato i fan nella loro implacabile e avida ricerca del denaro. Il calcio è nostro, non loro. La squadra di calcio è nostra, non loro." In un gesto simbolico che sarà sicuramente ripreso dalle telecamere del giorno della partita, altri gruppi di tifosi del Liverpool, tra cui ‘’Spion Kop 1906’’, hanno detto che ritireranno le bandiere che hanno adornato la Kop in assenza di fan a causa della pandemia:"Noi, insieme ad altri gruppi, rimuoveremo le nostre bandiere dalla Kop", ha twittato Spion Kop 1906. "Riteniamo di non poter più dare il nostro sostegno a un club che pone l'avidità finanziaria al di sopra dell'integrità del gioco". Il club dei tifosi ufficiali del Manchester City è stato altrettanto schietto. "Questa nuova competizione proposta non ha alcun valore sportivo e sembrerebbe essere motivata dall'avidità", ha detto. “Questi proprietari, indipendentemente da dove vengono, pensano che il calcio appartenga a loro; non è vero, appartiene a noi - i tifosi - indipendentemente dalla squadra che tifiamo ". Per una volta, la metà rossa del Manchester sembra in pieno accordo con la metà blu. "Una 'Super' League basata su un circuito chiuso di ricchi club auto selezionati va contro tutto ciò che il calcio e il Manchester United dovrebbe rappresentare", ha detto il Manchester United Supporters Trust. "Esortiamo tutte le persone coinvolte nella proposta, compreso il Manchester United, a ritirarsi immediatamente". Il Tottenham Hotspur Supporters 'Trust ha trasmesso lo stesso messaggio ai proprietari del club, Enic (English National Investment Company). "Chiediamo a Enic, i custodi temporanei del nostro club, di prendere le distanze da qualsiasi gruppo ribelle", ha detto. "E considerare appieno le conseguenze prima di prendere decisioni che cambierebbero radicalmente il corso della storia del Tottenham Hotspur per sempre".

DA sport.sky.it il 22 aprile 2021. Le sei inglesi si sono ritirate dalla Superlega. A quarantotto ore di distanza dalla nascita, con nuovi comunicati ufficiali arrivati intorno alla mezzanotte tra martedì e mercoledì (dopo le 10 di sera italiane il City e verso le 2 di notte il Chelsea) tutte le "big six" del calcio britannico hanno annunciato di aver avviato le procedure per ritirarsi dalla neonata Superlega. I gunners - nel tweet ufficiale - avevano aggiunto: "Abbiamo fatto un errore, ci scusiamo per questo". E anche il Liverpool ha deciso di rilasciare un lungo messaggio ai tifosi nelle parole del proprietario John W Henry: "Voglio scusarmi con tutti i tifosi del Liverpool per il disagio che ho causato nelle ultime 48 ore. Va da sé, ma va detto che il progetto presentato non sarebbe mai durato senza il supporto dei fan - sono le sue parole nel videomessaggio postato sui canali social -. Nessuno la pensava diversamente in Inghilterra. In queste 48 ore sei stato molto chiaro - dice rivolgendosi direttamente ad ogni singolo tifoso - che tutto questo non sarebbe stato in piedi. Ti abbiamo sentito. Ti ho sentito. Voglio scusarmi con Jürgen (Klopp, ndr), Billy (Hogan, l'amministratore delegato del club, ndr), i giocatori e tutti coloro che lavorano così duramente al Liverpool per rendere orgogliosi i nostri fan. Non hanno assolutamente alcuna responsabilità". E ancora: "Da dieci anni sogniamo quello che tu sognavi. E spero che capirai che anche quando commettiamo errori, stiamo cercando di lavorare nel migliore interesse del tuo club. In questo sforzo ti ho deluso. Ancora una volta, mi dispiace e solo io sono responsabile della negatività inutile portata avanti negli ultimi due giorni. Questo mostra il potere che oggi hanno, e giustamente continueranno ad avere, i tifosi". Poi conclude: "Se c'è una cosa che questa orribile pandemia ha mostrato chiaramente, è quanto siano cruciali i tifosi per il nostro sport e per ogni sport. È importante che la famiglia calcistica del Liverpool rimanga intatta. Posso prometterti che farò tutto il possibile per promuoverlo".

Boris Johnson: "Risultato giusto per i tifosi". Inglesi out. E anche il premier britannico - che già all'inizio della nascita della Superlega si era espresso contrario al progetto ("Superlega molto dannosa per il calcio, pronti a collaborare con le autorità del calcio perché questo piano non si avveri") - ha commentato la scelta dei club inglesi: "Accolgo con favore l'annuncio di ieri sera - ha scritto su Twitter Boris Johnson -. Questo è il risultato giusto per i tifosi, i club e le comunità di tutto il paese. Dobbiamo continuare a proteggere il nostro amato gioco nazionale".

Il racconto della serata di martedì. I sei club inglesi hanno deciso tutti di sfilarsi dalla Superlega: è successo nella tarda serata di martedì. Il Manchester City era stato il primo a comunicarlo ufficialmente, con una nota sui propri canali verso le 22.30 ora italiana. Ceferin aveva immediatamente commentato: "Un piacere poter riaccogliere il City". Sky Sports UK aveva già rilanciato la forte intenzione anche del ritiro da parte del Chelsea. Cinque minuti prima della mezzanotte escono quasi contemporaneamente i comunicati di Arsenal, Manchester United, Liverpool e Tottenham. Il Chelsea arriva verso le 2 di notte (sempre ora italiana). Tutte le inglesi sono out. E dunque ecco anche il messaggio della stessa Superlega: "Siamo convinti che la nostra proposta sia pienamente allineata alla legge e ai regolamenti europei. Date le circostanze attuali, riconsidereremo i passaggi più appropriati per rimodellare il progetto".

Le reazioni che hanno portato alla decisione: dai tifosi agli allenatori. Una giornata intensa quella di martedì. Conclusasi coi comunicati e costellata di messaggi. Di segnali. In campo, in Premier, c'era solo il Chelsea, nel match casalingo contro il Brighton. Tanti tifosi si sono riuniti fuori da Stamford Bridge per protestare contro l'iniziativa della Superlega, tra striscioni e cori. Fino al paradosso: la squadra di Tuchel pareggia (0-0) ma loro esultano. Si alza un boato: è quando inizia a diffondersi la notizia che proprio i blues (oltre al City) avrebbero deciso di abbandonare la nuova competizione. Come accadrà. Della coppa ne aveva parlato anche Tuchel nel pre match: "Posso dire che noi abbiamo lottato e dato tutto per raggiungere la semifinale di Champions League e la finale di FA Cup, tornei storici che fanno parte della storia del calcio". Nel pomeriggio non era stato da meno Pep Guardiola, in conferenza: "Non è sport quando non esiste la relazione tra lo sforzo e il successo. Non è sport se non importa che hai perso".

I giocatori del Liverpool già schierati: "Non ci piace". Non solo allenatori (lunedì lo stesso Klopp aveva detto: "Non siamo stati coinvolti in questo progetto, né io né i giocatori. Mi piace l’aspetto competitivo, mi piace l’idea che il West Ham possa arrivare quarto in Premier e andare in Champions"). Anche i giocatori avevano preso una posizione. Poi determinante nella decisione. Il capitano Jordan Henderson aveva riunito i compagni e poi pubblicato un breve ma incisivo messaggio sui social: "Non vogliamo che succeda, il nostro impegno per questo club e per i suoi tifosi è incondizionato". Firmato da tutta la squadra.

Andrea Agnelli. Roberta Amoruso per "il Messaggero" il 22 aprile 2021. Sono bastate 48 ore di critiche, tra governi, tifosi, organismi sportivi e club avversari, a far sciogliere come neve al sole il progetto della Superlega dei dodici club europei. Ma una manovra così rivoluzionaria per il mercato del calcio, seppure rientrata, non poteva non lasciare degli effetti, tra reazioni in Borsa, richieste di rotonde penali, non ancora ben precisate, per violazione degli accordi vincolanti e contromosse dell' Uefa per avviare un piano B. Intanto, Standard Ethics ha anche messo nel mirino Jp Morgan, principale finanziatore della Superlega, tagliando il corporate rating ad E+. Il progetto, dice, è «in contrasto con le migliori pratiche di sostenibilità», Onu, Ocse ed Ue, «tenendo conto degli interessi degli stakeholder».

TRIPLO CHOC Il primo segno tangibile, tutto economico, è quello lasciato sui mercati finanziari. Il titolo della Juventus, che due giorni fa sull' onda dell' annuncio aveva segnato a Piazza Affari un +18%, ieri ha chiuso in calo del 13,7%, a quota 0,75 euro, praticamente sui livelli precedenti al lancio dell' alleanza. Più cauta la reazione del Manchester United a Wall Street (+1%), che già martedì aveva perso quasi tutto l' exploit legato all' annuncio. Ùn saliscendi, di cui qualche fortunato può avere anche approfittato positivamente. Ma altri, tra azionisti-tifosi. potrebbero essere rimasti bruciati affrettandosi a vendere titoli coinvolti in un accordo vincolante firmato, non dietro semplici rumors. Anche di questo, di eventuali movimenti anomali, si starebbe occupando in queste ore la Consob italiana sollecitata a intervenire anche dal Codacons, sul piede di guerra come Federconsumatori. L' Associazione ha presentato un esposto proprio alla Authority di controllo del mercato affinché indaghi per la possibile fattispecie di turbativa di mercato, spiega una nota del Codacons che punta a tutelare «tifosi ed azionisti danneggiati». Il progetto della Superlega sebbene definitivamente tramontato, «lascia dietro di sè strascichi per tifosi e investitori e danni per i quali i club dovranno ora rispondere - spiega il Codacons che continua- la gravità del comportamento di Juventus, Milan e Inter Superlega non può rimanere impunito, e deve portare a sanzioni e penalizzazioni per le tre squadre». L' invito a mobilitarsi è rivolto alle istituzioni sportive nazionali ed Ue. Non solo. Il Codacons «sta studiando le opportune azioni legali da intraprendere a tutela degli investitori che risulteranno danneggiati».

LE CONTROMOSSE Il secondo effetto, di questa clamorosa retromarcia - almeno quanto l' annuncio - sono le contromosse di chi rappresenta oggi il mondo del calcio Ue. In risposta alla sfida della Superlega calcio europea, affiancata da Jp Morgan e dai suoi 3,5 miliardi di euro, la Uefa sarebbe infatti pronta a contrattaccare con un progetto da 6 miliardi di euro da investire per rivedere e riformulare il torneo della Champions League. Secondo quanto riportato da Bloomberg, i 6 miliardi di finanziamento sarebbero messi a disposizione da fondi di Centricus Asset Management, con cui la stessa Uefa sarebbe in realtà in trattative già da mesi. L' affondo sulla Superlega avrebbe, però, fatto lievitare la scommessa rispetto ai 4,2 miliardi di euro immaginati inizialmente. È ancora da capire, invece, fino dove arriva il rischio che la società spagnola promotrice della Superlega, con la regia di Florentino Perez, il patron del Real Madrid, possa chiedere il pagamento di una penale ai 12 club, tra i quali Inter, Milan e Juve, che avevano firmato un' intesa vincolante per procedere al nuovo schema di competizione europea, senza Francia e Germania. Pare invece assodato che l' accordo prevedesse una clausola specifica, con il pagamento di sostanziose penali in caso di ripensamento delle dodici società prima del 2025 una volta avviata la competizione della Superlega. Con tanto di obbligo di preavviso di almeno un anno, anche dopo questa data, riferisce il Financial Times, che parla di centinaia di milioni di euro.

Monica Colombo per il "Corriere della Sera" il 22 aprile 2021. «Sono fortunati perché gli stadi sono chiusi, sennò chissà che fischi». C' è chi la butta sul ridere, nelle ore successive alla notte più pazza del calcio, quella in cui i rivoluzionari si sono dovuti arrendere e dopo due giorni hanno ripiegato sulla ritirata. Il rientro nei ranghi dei tre club scissionisti non potrà avvenire però in maniera naturale, senza conseguenze, come se fosse la semplice ricomparsa del figliol prodigo. Perché se è vero che dalla sede della Uefa trapela un messaggio distensivo - nessuno in questo momento desidera guerre tanto meno mediatiche e si attende dai ribelli un ritorno al rispetto del calcio, della sua storia e delle sue istituzioni -, dal contesto rissoso della Lega provengono altri segnali. Ieri le telefonate fra i presidenti si sono moltiplicate, fra commenti, propositi e qualche minaccia. Più di un presidente non ha dimenticato il dietro-front operato da Andrea Agnelli e da Beppe Marotta nella vicenda che ha riguardato l' ingresso dei fondi di private equity. Operazione che è sempre utile ricordare avrebbe garantito 1,7 miliardi alle moribonde casse delle società. Con il senno di poi non può non destare sospetto la retromarcia del presidente della Juventus sulla vicenda, dopo lo sbarco a Torino nel gennaio scorso di Florentino Perez. Ciò che aggrava la posizione del n.1 bianconero, rispetto all' ad interista, è che Agnelli al contempo rappresentava tutti e 20 i club nel comitato dei cinque manager incaricati di trattare con il consorzio. Ecco perché più di un presidente, pur consapevole che il comitato non è un organo istituzionale della Lega, sta ora valutando l' ipotesi di far causa per danni ad Agnelli, considerato come il principale colpevole del fallimento dell' operazione. I più agguerriti vorrebbero rivalersi anche su Marotta, a cui si imputa il voltafaccia effettuato solo quando è spuntata nell' accordo preliminare con i fondi la clausola che imponeva ai club di non costituire la Superlega nei dieci anni successivi. Di certo lo scisma tentato produrrà effetti collaterali: fra questi, Beppe Marotta lunedì rimetterà il mandato di consigliere federale. Se le dimissioni saranno accettate, chissà se al suo posto verrà ripescato Claudio Fenucci del Bologna che dopo essersi proposto aveva poi ritirato la candidatura. La nota positiva del terremoto degli ultimi giorni è aver indotto i presidenti nei contatti di ieri a valutare l' ipotesi di introdurre il salary cap, per contenere i costi e accompagnare le società su un percorso di calcio sostenibile.

Da ilnapolista.it il 22 aprile 2021. Il presidente del Lione Aulas ha concesso un’intervista a L’Equipe e ha raccontato che venerdì si è svolto un consiglio dell’Eca che ha approvato la nuova Champions senza alcun oppositore. Poi, tra venerdì e domenica Agnelli è scomparso. Ne ho discusso con il presidente Aleksander Ceferin a Montreux. Gli ho detto che ho provato a chiamare Andrea Agnelli domenica e non mi ha risposto. Aleksander Ceferin mi ha detto che lui stesso non è riuscito a parlargli. Ci ha messo a disagio perché Andrea Agnelli aveva tutta la nostra fiducia. C’era un rapporto personale e professionale. Il modo sorprende ancor più del fatto in sé. La delusione per l’uomo è immensa. Almeno avrei voluto che dicesse sabato o domenica che sarebbe successo qualcosa. Probabilmente aveva buone ragioni, ma non le conoscevamo…  Mi sento come se fossi stato ingannato. A proposito di eventuali azioni legali contro Agnelli, dice: "La storia è finita bene. Non vi è alcun danno reale. Ma eravamo confusi e furiosi per come è successo. Questi dodici club non possono rientrare come se nulla fosse accaduto, questo no! Ho letto attentamente quel che ha detto Rummenigge. Ha parlato di ponti che sono più importanti dei muri. Ma nulla sarà più come prima. Se ritornano, dobbiamo garantire che ci sia un impegno a lungo termine a non vederli nuovamente impegnati in questo tipo di iniziative. Sono rimasto molto sorpreso nel vedere il castello crollare alla stessa velocità con cui era stato costruito. Improvvisazione? È ciò che mi sorprende perché conosco bene Florentino Pérez e lo apprezzo pure. Il fatto che JP Morgan abbia comunicato molto rapidamente, lunedì mattina, il proprio impegno per oltre 6 miliardi di euro, dimostra che c’era un lavoro. Poi, sono sopraggiunti elementi che lo hanno indebolito".

"Vi dico chi è davvero Agnelli": il lato segreto di Mr. Juve. Evi Crotti il 23 Aprile 2021 su Il Giornale. Il presidente della Juventus possiede un carattere introverso e minuzioso: cosa rivela la sua grafia. Il presidente della Juventus possiede un carattere introverso e minuzioso che sa da un lato gli permette di analizzare ogni cosa anche nel dettaglio, dall’altro gli impedisce di procedere con sicurezza a causa della forte emotività e di una notevole sensibilità. Può presentare qualche momento d’indecisione che va ad incidere sulla determinazione facendogli rasentare la cocciutaggine. È proprio questa logica ferrea che può fargli commettere errori specie nelle decisioni di cui può sottovalutare gli effetti. Infatti, per certi versi può essere assalito dal dubbio, ma per altri egli è assolutamente consapevole della propria emotività e, riallacciandosi al suo passato, trova personaggi che gli fanno da esempio e stimoli a mettere in atto tattiche manipolatorie che ha imparato in tanti anni e che gli servono per tenere alto il proprio prestigio da conservare e difendere con tutte le sue forze. In questo senso sembra assomigliare molto all’Avvocato il quale viveva quasi esclusivamente per la sua Juventus. Per non perdere l’immagine di tale “bandiera” è disposto a fare scelte anche rischiose e al limite dell’impossibile. È però nella firma  dove troviamo la vera forza e la volontà combattiva di Andrea Agnelli che gli permettono di tenere ben stretto il successo, facendogli persino assumere atteggiamenti e comportamenti, anche ostentati, ma non per questo privi di una logica consapevole e determinata.

Ettore Boffano per il "Fatto quotidiano" il 22 aprile 2021. Che brutti scherzi può giocare un titolo di giornale. Soprattutto se riguarda un'intervista firmata dal direttore e, soprattutto, se fatta a un cugino del suo editore che presiede la squadra di calcio di famiglia. Un pasticcio finito nel tritacarne della Superlega del calcio, proprio a due giorni dal primo anniversario del passaggio di Repubblica alla galassia Agnelli, il 23 aprile 2020, allorché Maurizio Molinari si insediò come direttore, scalzando Carlo Verdelli: defenestrato senza neppure poter firmare l' editoriale d' addio e mentre subiva le minacce dei nemici-social del giornale. È accaduto tutto nella serata di martedì scorso, quando Molinari ha deciso di intestarsi il colloquio con Andrea Agnelli, figlio di Umberto e cugino di secondo grado dell' editore di Gedi, John Jaki Elkann (nipote di Gianni), e anche "cattivo ragazzo" del peggiore oltraggio alla storia sociale del nostro Calcio. La prima edizione del quotidiano è così uscita con un richiamo in prima pagina, riportando la rivendicazione del presidente della Juventus: "Patto di sangue, la Superlega va avanti". Una situazione inedita per il quotidiano che fu di Eugenio Scalfari e di Ezio Mauro, secondo una vecchia "etichetta giornalistica" che non aveva ma visto impegnata la firma del direttore per interviste non strategiche. Poco più tardi però - quasi a conferma del vecchio detto "il diavolo fa le pentole, ma non i coperchi" - , lo stesso Agnelli è stato costretto ad ammettere che il progetto era tramontato, dopo le notizie serali sulla rinuncia delle squadre inglesi: una novità già ampiamente rilanciata da tutti i siti d' informazione. In quel momento, di fronte all' impossibilità di ritirare le copie già stampate, nella seconda edizione il titolo è diventato: "La Superlega andrà avanti, trattiamo con l' Uefa". Un infortunio giornalistico che, purtroppo, può capitare a tutti, ma che diventa ancora più dannoso per l' immagine di Repubblica perché legato agli interessi e agli affari della proprietà. Un problema che Molinari ha provato a esorcizzare, nella riunione di ieri mattina, con una valutazione un po' ardita: "Siamo davanti ai rivali sugli argomenti del 'caso Grillo' e della Superlega. Su quest' ultima, ottima corrispondenza da Londra di Francesco Guerrera". Dunque, la débâcle sul calcio fa del male agli eredi Agnelli e anche a uno dei più prestigiosi giornali italiani, da 12 mesi nel recinto degli ex padroni di Fiat-Fca, ora nelle mani di Peugeot in Stellantis. Qualcosa che, per quanto riguarda il quotidiano, da tempo ha attirato a proprietà e direzione critiche per nulla velate: su una mutazione genetica di quel suo dna che veniva definito con la formula gobettiana e orgogliosa di "Una certa idea dell' Italia". Ma il cortocircuito di Molinari apre adesso anche altri interrogativi e proprio sugli effetti del pasticcio-Superlega. Quelli sulla permanenza di Agnelli alla guida della Juve, reduce sì da nove scudetti consecutivi e due finali di Champions (perse, però), ma anche da due stagioni deludenti e oggi, con lo scudetto quasi vinto dall' Inter, un forte dissesto di bilancio (oltre 400 milioni di euro) e infine l' avanspettacolo della Superlega. Interrogativi accentuati per paradosso dalla linea non fiancheggiatrice, in questi giorni, del quotidiano storico degli Agnelli, La Stampa di Torino, diretta da Massimo Giannini che ha fatto intervistare Evelina Christillin, amica e beniamina dell' Avvocato e membra dell' Uefa. La supertifosa juventina non si è tirata indietro: "Che cosa avrebbe detto Gianni Agnelli? Si sarebbe sentito male, come quando Giraudo e Moggi gli vendettero Bobo Vieri a sua insaputa". In prima, invece, un fondo dell' ex campione bianconero (e campione del mondo in Spagna) Marco Tardelli, intitolato "Ma l' Avvocato avrebbe detto no". Che farà ora Elkann: confermerà il cugino mantenendo gli equilibri tra i discendenti di Gianni Agnelli e quelli del fratello Umberto? O farà tabula rasa, per porre rimedio a una situazione finanziaria che Exor non vuole più ripianare? Una scelta non facile, visto che Andrea Agnelli e sua madre Allegra detengono l' 11,32%nella "Giovanni Agnelli BV ", la cassaforte di famiglia, e lo stesso Andrea è nel cda di Stellantis: ruolo e pacchetti azionari sempre lealmente gestiti nei momenti più difficili di Fiat-Fca e durante lo scontro ereditario tra Margherita Agnelli, i suoi figli e la madre Marella. Non semplice, dunque, per Jaki, congedare Andrea, ma ancora di più per quest' ultimo restare in sella e risanare il bilancio della squadra. E adesso, per di più, azzoppato dalla figuraccia su quella Superlega che poteva essere il mezzo per recuperare milioni, trasformando la Juve in una sorta di Harlem Globetrotters per un calcio capitalistico e disneyano o, come sostengono alcuni, per realizzare il suo antico sogno di rilevare la Juventus dalla Famiglia, magari con i capitali di un "re del petrolio" extraeuropeo. Ma, come avrebbe detto Indro Montanelli, "i sogni (e anche i titoli di un giornale) muoiono all' alba".

Gabriele Gambini per "la Verità" il 22 aprile 2021. La Superlega somiglia a Umberto II di Savoia, il «re di maggio», ma il suo ruolo di regina del pallone è durato solo 48 ore. Prima si sono defilate le squadre inglesi, poi qualche spagnola, poi Milan e Inter, lasciando col cerino in mano la Juventus e il Real Madrid, cerimoniere dell' idea. L' effetto domino è preludio a una resa dei conti tutta italiana. I blasoni piccoli fanno la voce grossa. In casa bianconera le impellenze sono legate al crollo del titolo in Borsa (-13%) e al confronto tra Andrea Agnelli, John Elkann e Alessandro Nasi. L' Inter ha giocato d' astuzia, ora dovrà riposizionarsi. Con un comunicato di rito la famiglia Zhang ha annunciato la sua uscita di scena dal progetto da cui era stata allettata per godere di entrate abbondanti che ne ripianassero le finanze dissestate. Dopodiché, tornando all' ovile, ha lasciato intendere di aspettarsi dall' Uefa una diversa ridistribuzione degli utili in gioco. Se l' ex patron Massimo Moratti commenta la vicenda con un «Tentativo malfatto, non c' erano le basi», il nodo da sciogliere riguarda l' ad Beppe Marotta e i suoi rapporti con gli omologhi di campionato. Marotta in Figc è consigliere da febbraio e settimana scorsa era stato tra i firmatari della mozione di sfiducia verso Paolo Dal Pino, presidente di Lega Serie A. Dal Pino era stato accusato di aver tentato di favorire l' ingresso di fondi privati esteri al 10% nella costituzione di MediaCo, media company per la Serie A. La condizione affinché ciò si realizzasse era quella di legare al campionato nazionale per almeno dieci anni le tre grandi, Milan, Inter e Juve, vanificando sul nascere il golpe Superlega. Nel frattempo, il Milan giocava su due tavoli separati, aspettando di assaggiare la minestra prima di lanciarsi dalla finestra. Nell' assemblea di Lega, il presidente Paolo Scaroni aveva confermato la sua fiducia a Dal Pino: «Ho votato per lui e non cambio idea», mentre l' ad Ivan Gazidis iscriveva i rossoneri al maxi torneo continentale per ricchi. Pure il Diavolo è tornato nei ranghi canonici, e c' è chi mormora che ora Gazidis sia pronto a dimettersi. Ma c' è chi chiede la testa di Scaroni, oltre che di Agnelli e Marotta. È Urbano Cairo, che capeggia la fazione dei «lealisti» contro i club scissonisti: «Agnelli faceva parte del comitato di Lega delegato a trattare con i fondi, la sua è concorrenza sleale. Stimo Scaroni, ma anche lui deve fare un passo indietro. Marotta è un consigliere federale con delega della Serie A. Se Agnelli ha lasciato l' Eca, mi aspetto da Marotta un atto analogo per la Figc», tuona il patron del Torino al Corriere. Cairo guida la riscossa degli esclusi, tra i quali si registra il silenzio sornione di Aurelio De Laurentiis. «Superlega? Dormivo...», avrebbe ironizzato il presidente del Napoli. La sua posizione in realtà è nota: avrebbe avallato la nascita di un nuovo torneo continentale per grandi società solo sotto l' egida Uefa. Ora, assieme a Claudio Lotito della Lazio (fino a oggi rimasto in silenzio strategico, ma nel 2019 aveva detto: «Non esiste che un club ricco conti più di un altro», suggerendo una cabina di regia per il dialogo tra leghe nazionali, federazioni e Uefa) passerà all' incasso, rafforzando il suo peso politico nelle assemblee. Quel potere di influenza che fa ruggire Luca Percassi, ceo della virtuosa Atalanta: «La Superlega era sbagliata, lo sport è meritocratico, ma ben venga uno scossone che ci consenta di raccogliere opportunità. Eravamo contro l' operazione dei fondi perché illogica, ora dobbiamo tornare a parlare davvero di calcio».

Napoli, De Laurentiis non boccia la Superlega: "Hanno solo sbagliato a non aprirla a tutti". La Repubblica il 15 giugno 2021. Il numero uno partenopeo torna sul progetto di Agnelli e Perez: "Dobbiamo stabilire un’altra competizione togliendola alla Uefa, dando noi a loro una percentuale e non il contrario". Poi annuncia una serie tv sulla storia del club. "Agnelli, Perez e gli altri hanno sbagliato, ma non a dichiarare che il calcio è diventato fallimentare per colpa delle istituzioni". Il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ospite al Passepartout Festival, è tornato sulla vicenda Superlega e, pur non schierandosi apertamente con i 'ribelli', condivide le motivazioni che hanno spinto i club a dar vita a un progetto franato su se stesso nel giro di pochi giorni. "Dobbiamo stabilire un'altra competizione togliendola alla Uefa, tenendo la Uefa come segretariato generale, dando noi alla Uefa una percentuale sulle revenues e non facendoci pagare noi dalla Uefa".

"Superlega sbagliata perché chiusa". "Sono riuscito a smascherare Blatter quando stava alla Fifa, Platini quando era alla Uefa. Adesso non sono riuscito ancora a dedicarmi a fondo al ripianamento totale del calcio a livello mondiale. La Superlega - spiega il numero uno azzurro - è figlia del fatto che le organizzazioni del calcio, le istituzioni, pensano di fare loro gli istituzionalisti con i soldi nostri, con i nostri investimenti. Che interesse ha un Real Madrid, una Juve, un Napoli a fare la Champions indebitandosi per poter fatturare 70-80-90-100 milioni in più se ne sono spesi 200-300? Non quadra. Io faccio parte dell'Eca, ho sempre detto ad Agnelli che stava sbagliando con la Superlega perché loro volevano diventare gli attori principali del sistema, ma invece democraticamente bisogna lasciare la porta aperta a tutti".

Riformare il calcio. "Io adesso - prosegue De Laurentiis - ho 18 calciatori del Napoli gli Europei: se qualcuno si rompe e non mi torna sano per sei mesi, chi mi ripiana quei 100 o 50 milioni? La Uefa? No, e io perché ho dovuto prestare il mio calciatore? Per prendere degli spiccioli? Gravina, persona rispettabilissima, ha annunciato grandi cambiamenti, ma come mai sono due anni e mezzo che sta lì e non ha fatto abolire la legge 91 che è di 40 anni fa? Perché non ha fatto abolire la legge Bossi-Fini sulla libera circolazione degli extracomunitari che costerebbero di meno e agevolerebbero le squadre meno importanti, che è del 2001? Perché non ha dato un calcio alla legge Melandri? Il calcio cambia, va modificato di anno in anno, è questo che non si vuol capire. Loro rispondono da istituzionalisti. Le loro risposte sono sempre sì, no, va bene vediamo, ci pensiamo".

Allo stadio con la scorta. Poi De Laurentiis si sofferma anche sul suo Napoli e sui problemi che deve affrontare ogni volta che va a vedere la partita: "Quando vado allo stadio devo usare la scorta, ma quando sono a Napoli da solo mi rifiuto di averla, perché mi sento un uomo libero anche se qualcuno mi scrive 'ti uccidiamo', 'sei una merda', perché magari l'ho fatto arrestare. Loro sanno che con me il compromesso non esisterà mai, perché quando vado a dormire spengo la luce e non mi devo portare dietro i problemi, infatti mi addormento subito. Se muoio domani, non ho problemi di coscienza da portarmi dietro".

"Maradona angelo del paradiso e della morte insieme". De Laurentiis ha poi parlato di Diego Armando Maradona: "È stato unico e irripetibile. La fortuna e la sfortuna è che lo hanno avuto i napoletani. I napoletani non hanno capito che con un calcio malato e viziato dalle istituzioni non si può sempre vincere lo scudetto. Maradona gli ha portato due scudetti, perché era un angelo del paradiso e della morte messo insieme. Faremo una serie tv in tre stagioni sulla storia del Napoli, la prima dal 1984 al 2001, dove c'è Maradona. La stessa operazione fatta sulla pallacanestro, con interviste a chi ha giocato in quel Napoli, ci saranno 150 intervistati calciatori e la storia del Napoli, con le partite e ciò che ci è stato dietro, in 10 puntate. Poi la storia del Napoli dal 1924, prima della sua nascita, con la storia del ciuccio, fino al 1984. Questa sarà la seconda stagione. La terza stagione saranno gli anni della mia gestione".

"Non ce l'ho con i giornalisti". Chiusura sul suo rapporto con la stampa: "Non ce l'ho a morte con i giornalisti. Le mie conferenze stampa sono animate, perché fanno delle domande del piffero. Non è che non le voglio sentire, è che sono banali. Io li chiamo i pennivendoli, perché quando leggi quello che c'è scritto sul Corriere dello Sport, sulla Gazzetta, su Tuttosport, gli articoli sembrano fatti con la carta carbone. Ti pare che mentre un calciatore sta nello spogliatoio a concentrarsi, che c'è Manolas che dice le sue preghiere, bacia i santini, un altro con le mani giunte verso il cielo, arrivano loro con le telecamere e dicono di avere il contratto con Sky?  Purtroppo quando ha cominciato, Sky era una signora televisione, di stile anglosassone, fortissima, oggi  - conclude - la Rai o Mediaset sono addirittura meglio, perché hanno imparato da quel modello e si sono migliorate".

Da ilnapolista.it il 15 giugno 2021. Il presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, ha preso parte, come ospite, al Passepartout Festival. Un’intervista a tutto tondo, dal cinema alla politica fino ad arrivare al calcio.

Che rapporto ha con gli altri industriali a Napoli e Roma?

«C’è un grande industriale napoletano che si chiama Aponte, ha Msc. È un uomo che spende un miliardo e mezzo a nave solo per crociere e altri per le navi da trasporto, per i container. Vive e opera a Ginevra. Come mai non a Napoli? Eppure a Napoli ha tutta la flotta dei collegamenti con le isole. Io ho la scorta quando vado alla partita, ma quando sono a Napoli da solo mi rifiuto di avere la scorta, perché mi sento un uomo libero anche se qualcuno mi scrive ti uccidiamo, sei una merda perché magari l’ho fatto arrestare. Loro sanno che con me il compromesso non esisterà mai perché quando vado a dormire spengo la luce e non mi devo portare dietro i problemi, infatti mi addormento subito. Se muoio domani, non ho problemi di coscienza da portarmi dietro».

La Superlega. «Sono riuscito a smascherare Blatter quando stava alla Fifa, Platini quando era alla Uefa. Adesso non sono riuscito ancora a dedicarmi a fondo al ripianamento totale del calcio a livello mondiale. La Superlega è figlia del fatto che le organizzazioni del calcio, le istituzioni, pensano di fare loro gli istituzionalisti con i soldi nostri, con i nostri investimenti. Che interesse ha un Real Madrid, una Juve, un Napoli a fare la Champions indebitandosi per poter fatturare 70-80-90-100 milioni in più se se ne sono spesi 200-300? Non quadra. Io faccio parte dell’Eca, ho sempre detto ad Agnelli che stava sbagliando con la Superlega perché loro volevano diventare gli attori principali del sistema, ma invece democraticamente bisogna lasciare la porta aperta a tutti. Dobbiamo stabilire un’altra competizione togliendola alla Uefa, tenendo la Uefa come segretariato generale, dando noi alla Uefa un x% sulle revenues e non facendoci pagare noi dalla Uefa. Io adesso ho 18 calciatori del Napoli in giro per campionati europei: se qualcuno si rompe e non mi torna sano per sei mesi, chi mi ripiana quei 100 o 50 milioni? La Uefa? No, e io perché ho dovuto prestare il mio calciatore? Per prendere degli spiccioli? Tu fatturi 3 miliardi e mezzo in 15 giorni? Allora ti devi sedere a tavolino e dobbiamo rivedere la situazione. Agnelli, Perez e gli altri hanno sbagliato ma non a dichiarare che il calcio è diventato fallimentare per colpa delle istituzioni. Gravina, persona rispettabilissima, ha annunciato grandi cambiamenti, ma come mai sono due anni e mezzo che sta lì e non ha fatto abolire la legge 91 che è di 40 anni fa? Perché non ha fatto abolire la legge Bossi-Fini sulla libera circolazione degli extracomunitari che costerebbero di meno e agevolerebbero le squadre meno importanti, che è del 2001? Perché non ha dato un calcio alla legge Melandri? Il calcio cambia, va modificato di anno in anno, è questo che non si vuol capire. Loro rispondono da istituzionalisti. Le loro risposte sono sempre sì, no, va bene vediamo, ci pensiamo».

De Laurentiis torna ad elogiare il premier Draghi. «Ora per fortuna abbiamo Draghi, perché senza economia non possiamo fare politica e lui è un grande economista».

E continua: «Di Draghi ho parlato a marzo dell’anno scorso, a Radio Capital. Mi aveva fatto i complimenti dopo la vittoria del ricorso contro la Juventus. Pur essendo juventini, quelli della radio mi chiesero che ne pensassi. Dissi che era un gentiluomo, un amico e quello che ci vorrebbe in Italia. Non bisogna solo avere i famosi 250 miliardi del Recovery, bisogna riuscire a indebitarsi per migliaia di miliardi, aprire cantieri, unificare un territorio che non è mai stato unificato. I problemi dell’Italia sono la malavita organizzata, che lo Stato non riesce a sconfiggere, e la mancata unità del territorio. Napoli era capitale nel ‘600 e nel ‘700, era una capitale europea terza solo a Parigi e Londra e da lì molti venivano a Napoli. Napoli nel ‘700 aveva il sistema fognario, pensi che ci sono alcune città in Sicilia che lo hanno avuto solo un decennio fa. Napoli è stata la prima nel mondo ad avere l’acqua corrente nelle case. Non voglio diventare borbonico ma Cavour è stato un gran paraculo a mandare Garibaldi a fare manfrina con la mafia in Sicilia per poter fare l’Italia unita. La ricchezza dei Borboni a Napoli era gigantesca, loro si sono portati via tutte le riserve d’oro e l’unificazione non è avvenuta sul piano territoriale. Quando ho visto l’Italia giocare e i calciatori cantare tutti insieme l’inno, rispetto ai turchi, con passionalità, mi ha fatto piacere. Al Sud non si sono mai fatte opere su scuole, infrastrutture, manca tutto. Se io fossi un politico comincerei a levare i sindaci dalle città, perché non sono capaci di gestire la res publica dal punto di vista imprenditoriale e manageriale. Se si danno 9mila euro lordi al mese a una persona, quella ruba o sta lì per fare la carriera politica a Roma. Non sono capaci. Si rende conto di cosa significa amministrare una città? O si è un genio o un impostore, e poiché sono contro gli impostori dico che per Napoli dovremmo prendere il miglior manager tedesco. Infatti a Capodimonte abbiamo un bravissimo gestore francese, formidabile, straordinario. I cittadini che ne sanno di gestione di res publica? Finiscono per votare il colore politico per cui tengono, a parte i brogli che ci sono sempre stati. Ci vorrebbe una commissione di saggi di 20 persone che scelgono l’amministratore più giusto».

A De Laurentiis vengono fatti i complimenti per i calciatori del Napoli in Nazionale. Gli viene chiesto se la loro prestazione lo ha rincuorato rispetto alla stagione appena conclusa. Risponde: «Sì, mi hanno rincuorato. Se continuano così, mi chiederanno l’aumento. Speriamo che pesino un po’ di meno sull’economia della Nazionale».

Come giudica De Luca? Con lui ha sempre avuto un buon rapporto. «Con De Luca ho un buon rapporto perché andai a Salerno per motivi cinematografici quando ancora non mi interessavo di calcio. La trovai bellissima e ne volli conoscere il sindaco. Per quanto De Luca possa essere contestato da qualcuno, è una persona che ci mette la faccia e sta sul pezzo. Bisogna decidere: se siamo in ritardo di un secolo, se non decidiamo, quando recuperiamo? La sua gestione è una gestione ingiudicabile, come è ingiudicabile tutto il territorio italiano, visto che da due anni c’è il Covid, che è come una terza guerra mondiale anche se meno cruenta. Mi angosciano i bambini e i giovani, le scuole e i professori non all’altezza, i professori sottopagati e pochi numericamente, gente che non ha girato il mondo e non sa cosa insegnare a questi ragazzini. Mancano anche le strutture, i computer, inutile che ci fanno vedere i banchi comprati per le fregnacce, il problema è sostanziale: cosa gli insegniamo? Come facciamo a essere competitivi? Siamo al penultimo posto per consumo dei finanziamenti europei perché c’è una burocratizzazione del sistema con la possibilità di essere bloccati e denunciati e allora nessuno si muove».

Polito ha scritto che il modello del Napoli di De Laurentiis è migliore di quello della città. Che ne pensa?

«Sono arrivato a Napoli che la conoscevo poco, perché la mia famiglia era napoletana, ma non conoscevo la trasformazione dei napoletani, che si erano un po’ avviliti, intristiti, abbandonati. Qualcuno mi diceva di non farlo, decisi di fare di testa mia. Sono un visionario, ma non sono un pazzo. Nella baia di Napoli ci sono una serie di yacht alla fonda ma non si possono tuffare in acqua perché l’acqua è una merda. La gente usa i porti di Fondi e Civitavecchia perché il fondale del porto di Napoli è troppo basso. Ho dato tante idee. Ci vogliono vent’anni per fare una metropolitana. Perché De Luca è antipatico ai politici? Perché è un uomo del fare e chi fa diventa sgradevole perché per fare a volte devi sfanculare e questo alla gente non piace. Io lo posso fare perché non ho cadaveri nell’armadio, molti stanno zitti perché ce li hanno».

Ha trovato alleanze?

«Mio padre era un grande filosofo e diplomatico, laureato in lettere, giurisprudenza, filosofia, era molto amico dei russi all’epoca di Kruscev. Diceva sempre: tu Aurelio sei un guerriero. Io dicevo sì, mi piacerebbe essere un cavaliere della tavola rotonda. Purtroppo la gente è provocatrice e questi tornei cavallereschi si trasformano in vere battaglie, ma io non mi stanco mai. Mi porto dietro pochissime persone. La gente ti dice che hai ragione, ma poi scende nel compromesso perché è più facile». 

Cosa farebbe per prima cosa a Napoli?

«Convincerei lo Stato a prendere misure importanti sul piano infrastrutturale. C’è una grande cultura partenopea, anche cultura di strada, che non va abbandonata, ma mutuata come attrattore sui visitatori. Alla città manca una classe dirigente con le palle, che abbia coraggio, e il coraggio viene se hai dei miliardi da investire. Il problema riguarda tutto il Sud. Se per andare a Reggio ci metto 5 ore e posso morire perché mi lanciano i sassi, vuol dire che il territorio non funziona. Se ancora stanno facendo la ferrovia per Bari su un progetto del 2011… Ha mai parlato con un soprintendente? Ce ne sono alcuni straordinari e colti, ma quando sento che a Firenze c’è un signore come Commisso che ha già speso milioni e lo stadio non glielo fanno toccare perché è un monumento… ma monumento de che? La gente ogni giorno è vessata e vuole andare allo stadio per sfogare e tu gli impedisci di modernizzarlo perché non si può toccare? La sovrintendenza è straburocratizzata e politicizzata quindi magari è contro Commisso perché è americano e rappresenta un potere da annientare». 

Sta smantellando lo Stato.

«Certo, perché lo Stato è perdente, vince perché siamo tutti silenti e appecoronati. Ci siamo accontentati della tv, della lavatrice, poi è venuta l’amante, poi ci siamo addormentati, non siamo capaci di prendere i figli a calci in culo e buttarli fuori casa, io i miei li ho buttati fuori a 18 anni. Ci sono due schiere di personaggi: gli imprenditori che fanno impresa e poi i prenditori, che sono la maggior parte, manovalanza negativa, non creativa. Vorrei che lei mi seguisse per un mese e vedesse come si affrontano i problemi dall’avere l’idea di un film a realizzarla, tra ricerca degli attori, dei registi, fare il budget, in Italia e nel resto del mondo». 

Ha avuto un mentore che le ha insegnato?

«Ho avuto due mentori: uno è l’umiltà, che pure essendo figlio e nipote di, a 19 anni alle 4 del mattino caricavo i camion aiutando macchinisti ed elettricisti sul set prima di passare nel mondo della produzione creativa e distributiva. Dovevo imparare, stavo andando all’Università, avevo bisogno di lavorare. L’altro mentore è stato il vero amico incontestabile e senza pretese di riscontro è stato mio padre». 

È vero che suo padre le ha fatto crescere il suo rapporto con Napoli?

«Papà è andato via da Napoli negli anni ’30 per andare in Bulgaria e fondare un giornale. Mio zio Dino, che invece non aveva voglia di studiare, veniva mandato al Nord a riscuotere le cambiali dell’industria della pasta. Mio nonno lo vide arrivare dicendo che non gli piaceva quel lavoro, che voleva fare l’attore. Allora lo mandò a Roma al centro sperimentale, gli disse che se entro un anno non avesse avuto successo sarebbe dovuto tornare in azienda. Dino ci andò, ma come attore non ebbe successo, capì che il suo futuro era dietro la macchina da presa. Quando Mario Soldati fece due film importanti sul Lago di Como, Dino illuminò tutto il lago su Piccolo mondo antico, anche se c’era l’obbligo di non illuminare, e divenne famoso. Ponti se lo chiamò e nacque la Ponti-De Laurentiis. Mio padre è sempre stato la parte intellettuale del gruppo. Quando Dino volle andare in America stufo della legge Corona, noi abbiamo ricominciato daccapo con Renato Pozzetto. Pensi la vision di mio padre».

Lei ha un bel rapporto con Carlo Verdone.

«Con Verdone c’è un’esclusiva che va avanti dal 2002, un’intesa profonda perché Carlo è un grande professionista, grande autore e grande amico. Mi diverte moltissimo perché è uno che anche sul piano della medicina sa tutto, è un malato immaginario, si inventa le cure, ha la pasticca per respirare, quella per fare pipì. Ci prende. È anche un po’ permaloso, quando lo prendi in giro su questo». 

Come vede il futuro del cinema?

«Bene, perché vedo bene l’industria dell’audiovisivo. Se poi parliamo del cinema nelle sale lo vedo meno bene. E io ho le sale cinematografiche. Pur essendo un esercente non sono mai andato d’accordo con l’esercizio. Si sta alimentando la pirateria. Non si può immaginare. In America si spendono 50-60 milioni di dollari di pubblicità per il primo weekend di uscita, rincretinisco il mondo con la pubblicità. È antidemocratico non dare la possibilità a tutti di vedere un’opera dell’ingegno come un film. Ho detto che in parallelo bisogna uscire in televisione, mettendo un prezzo virtuale più alto del cinema, in modo che l’esercente cinematografico non si veda discriminato. Ho detto: prendiamo lo 0,50% dell’incasso e lo diamo all’esercente per limitare le perdite. L’ho sempre detto. Ci è voluto il Covid per iniziare a farlo. Le serie tv sono diventate così importanti perché sono film che durano 10 ore e possono sviluppare i secondi e terzi personaggi». 

Cosa c’è in Maradona che convince Pennac a fare uno spettacolo su di lui?

«Maradona è stato unico e irripetibile. La fortuna e la sfortuna è che lo hanno avuto i napoletani. I  napoletani non hanno capito che con un calcio malato e viziato dalle istituzioni non si può sempre vincere lo scudetto. Maradona gli ha portato due scudetti perché era un angelo del paradiso e della morte messo insieme. Faremo una serie tv in tre stagioni sulla storia del Napoli, la prima dal 1984 al 2001, dove c’è Maradona. La stessa operazione fatta sulla pallacanestro, con interviste a chi ha giocato in quel Napoli, ci saranno 150 intervistati calciatori e la storia del Napoli, con le partite e ciò che ci è stato dietro, in 10 puntate. Poi la storia del Napoli dal 1924, prima della sua nascita, con la storia del ciuccio, fino al 1984. Questa sarà la seconda stagione. La terza stagione saranno i 17 anni della mia presidenza». 

Vi siete presi anche il Bari. Il futuro è sempre più calcio o tv?

«Siamo entrati nel mondo dei gelati, delle costruzioni, delle automobili. Purtroppo sono un po’ bulimico sul piano della mia attività creativa. Quando mi viene un’idea sono attratto come con un’amante da accontentare. Il Bari è nato perché Decaro, del Pd di Bari, è un mio amico, mi ha chiamato e mi ha chiesto di interessarmene quando è fallito, visto che lo avevo fatto con il Napoli. Mi aveva chiesto un paio di pagine con la mia idea, me ne sono venute 30, e lui mi ha bombardato per prendere il Bari. Allora l’ho proposto a mio figlio, che però mi disse che del calcio non voleva sapere nulla. Poi dopo due ore mi disse che aveva cambiato idea. Disse: in fondo calcio e cinema sono nel nostro Dna, se tu mi lasci fare dopo che hai avviato la cosa va bene. Lo rassicurai e così è stato e oggi è contentissimo. Se la gente sa fare io la lascio fare. Intervengo e non mi vergogno di farlo solo quando la gente non lo sa fare. Puoi fare anche lo scopino, ma devi essere il primo della città per trarne appagamento».

Chi è il re di Napoli, oggi?

«La simbiosi della città con tutto ciò che è bello, commestibile, mangiabile, odorabile, touchable. A Napoli c’è tutto questo. Napoli ce la può fare, ma non è Napoli, ripeto, è l’Italia che ce la deve fare, che è seduta ancora su se stessa, impaurita. Il Covid gli ha dato un bello schiaffone, mi auguro che l’abbia svegliata. Andate a votare, dico a tutti, e quando si vota nel weekend incazzatevi sapendo che andrete fuori, lo fanno apposta. Dobbiamo arrivare al 95% dei votanti, la res publica è nostra, è vostra, ma se la lasciamo gestire a degli idioti che se ne approfittano, penseranno di noi che siamo dormienti e che ci accontentiamo di un bicchiere di vino, di un’automobile e di un’amante. Ma non è così. Il Covid ci ha dato una sferzata che mi auguro che diventi trasformabile in positivo. Ormai anche i social sono abitati da gente che sono sa quello che dice. Poiché la gente legge sempre meno i giornali, perché sono in decadenza…». 

Lei ce l’ha a morte con i giornalisti.

«Io non ce l’ho a morte con i giornalisti. Le mie conferenze stampa sono animate perché fanno delle domande del piffero. Non è che non le voglio sentire, è che sono banali. Io li chiamo i pennivendoli, perché quando lei legge quello che c’è scritto sul Corriere dello Sport, sulla Gazzetta, su Tuttosport, gli articoli sembrano fatti con la carta carbone, possibile che nessun ai si inventi qualcosa? Ti pare che mentre un calciatore sta nello spogliatoio a concentrarsi, che c’è Manolas che dice le sue preghiere, bacia i santini, un altro con le mani giunte verso il cielo, chi ha la palla scesa, il pisello a destra, arrivano loro con le telecamere e dicono di avere il contratto con Sky? Quando dico che il calcio non funziona, è perché siamo vecchi. A me danno del visionario, preferisco avere una vision. Purtroppo quando ha cominciato Sky, era una signora televisione, di stile anglosassone, fortissima, oggi se vede la Rai o Mediaset sono addirittura meglio, perché hanno imparato da quel modello e si sono migliorate. Hanno anche il coraggio di fare un programma controcorrente con Pio e Amedeo e arrivare quasi a farsi fare causa».

Luca Bianchin per "la Gazzetta dello Sport" il 22 aprile 2021. La domanda martedì sera è arrivata diretta, istintiva: Andrea Agnelli, dopo lo shock Superlega, può continuare a essere il presidente della Juventus? Agnelli nell'intervista alla Reuters ha risposto (indirettamente) anche a questa domanda: «Quanto è successo (parlava delle dimissioni dagli incarichi internazionali, ndr) mi darà il tempo per concentrarmi al 110% sulla Juventus. Continuerò a farlo con la passione che ho sempre avuto». Al momento, quindi, niente dimissioni, ipotesi rimbalzata già martedì e smentita a tutti i livelli. La questione però a medio termine resta. Agnelli ha rotto le relazioni con la Fifa, con la Uefa e i presidenti di A, si è esposto in prima persona ed è stato identificato da Ceferin come nemico numero 1 dopo il tradimento. Può ancora guidare la Juve in un momento così difficile per rapporti internazionali e situazione economica? Possibile, ma certo non sarebbe semplice tornare a occupare un posto in un sistema che lui stesso ha provato a far saltare e ha giudicato superato. La Juve rischierebbe di essere, almeno per un periodo, isolata in Italia e in Europa, nonostante l'alleanza con il Real. Non solo, per Agnelli sarebbe un ritorno al passato in una carriera in cui ha sempre accresciuto l'influenza. Dopo anni da presidente Eca, l'organismo che riunisce i club europei, e da membro dell'Esecutivo Uefa, tornerebbe a occuparsi solo della sua Juve. Per questo ieri tutti gli addetti ai lavori si sono chiesti se il presidente della Juventus possa cambiare. Maggio in particolare, il mese in cui termina il campionato, è al centro dei rumor. Logico che, per arrivare a una risposta, sarà decisivo il ruolo di John Elkann, cugino di Agnelli, soprattutto presidente e a.d. di Exor, società che detiene il 63,8% del capitale della Juve. Elkann non può non aver valutato il progetto Superlega con Agnelli - troppo importante, troppo incisivo sui conti - e probabilmente in queste ore sta ragionando sul futuro. La decisione naturalmente non sarà semplice - Agnelli è nel cda di Exor e una figura importante nella famiglia - e si baserà, oltre che sull'attualità da Superlega, sulla situazione economica. Agnelli da un lato ha portato il valore di mercato del club (capitalizzazione in Borsa) dai 160 milioni del 2010 a oltre un miliardo, dall'altro vive il suo momento più difficile, a causa delle spese dell'ultimo triennio (Ronaldo su tutti) e dei danni da Covid: la semestrale di febbraio ha registrato la perdita record di 113,7 milioni. Le possibili soluzioni alternative non mancano. Alessandro Nasi, cugino di Andrea Agnelli, vice presidente di Exor, è emerso come il primo candidato naturale. Evelina Christillin, appena rieletta nel Consiglio Fifa, sarebbe perfetta per il dialogo internazionale. E una soluzione differente, ma già presente nella storia juventina, sarebbe un presidente di estrazione calcistica, magari Marcello Lippi che sarebbe onorato di tornare a occuparsi della Juve. Al momento, la certezza è una sola: Andrea Agnelli si sente ancora presidente.

Gigi Moncalvo per "la Verità" il 22 aprile 2021. Ma chi gliel'ha fatto fare? Come si può dichiarare la guerra e ritrovarsi senza truppe nel giro di poche ore? Come è possibile giocarsi la propria credibilità (e la propria faccia) facendo una figura di m di dimensioni planetarie? Come si può essere così sprovveduti da non prevedere, intuire, capire, il tipo, la quantità, la qualità, la forza delle reazioni che si sarebbero determinate nel giro di poche ore? Solo chi vive lontano dalla realtà e non ha contatti con l'ambiente (vero) del calcio, chi è abituato alla vicinanza solo dei suoi numerosi yes men, solo chi è troppo pieno di sé stesso per il cognome che porta, può arrivare a commettere una sequela di simili e inconcepibili errori. Che hanno reso lui e la sua squadra ancora più «antipatici» di quello che erano, portando tale dimensione a livello non più solo italiano ma planetario. Solo chi ha una scarsa considerazione dei mass media e dei tifosi, solo chi non sa comunicare e invece è convinto di saperlo fare, può finire in un baratro del genere e non essersene ancora reso conto. Quel «genio» dell'ufficio stampa che in questi anni, con la complicità di giornali e soprattutto tv, crede di essere diventato ed è di fatto l' oracolo del presidente della Juve, capace di condizionarlo con i suoi «consigli» catastrofici, in meno di due giorni - con la gestione e i tempi della notizia sulla Superlega - è riuscito a battere i tre precedenti casi mondiali di comunicazione sbagliata in caso di crisi o di emergenza: l' ondata di accuse al vaccino Astrazeneca, il comportamento dei Benetton dopo il crollo del ponte Morandi, la vicenda della Costa Concordia. Andrea Agnelli deve (forse) aver cominciato a capire qualcosa quando ha visto che, dopo il primo ministro britannico Boris Johnson, perfino Mario Draghi interveniva sulla vicenda. E pensare che Andrea contava sulla pavidità dei politici e non li riteneva un ostacolo: e infatti, ne avete visto uno italiano entrare con decisione sull' argomento fin dalle prime ore? Temevano di inimicarsi Andrea, o meglio John e i suoi giornali? Persino l'Evelina (Christillin) martedì gli ha votato contro a Montreux in sede Uefa. Nei corridoi dell'Hotel Fairmont era la più scatenata contro Andrea (lontano da Torino il coraggio cresce). In tal modo, ha posto la sua autocandidatura addirittura alla presidenza della Juve. E non è detto che non ci riesca. Persino il logorroico Lapo da giorni ha smesso di twittare. E John, pur nella sua abituale compostezza, mai lo avevano visto ridere e divertirsi così tanto. È un peccato che non si possa sapere ciò che gli passa per la testa e quanta soddisfazione abbia nel cuore. Ma in ogni caso dev'essere tanta la gioia per essersi tolto di torno lo sgomitante cugino di cui non ha avuto alcuna stima. Non ha nemmeno dovuto muovere un dito per «farlo fuori», come era nei suoi auspici (non solo dalla Juve, ma da Exor, mentre è un peccato che la nomina nel cda di Stellantis sia troppo recente). Ha fatto tutto lui, il cugino «di panna montata», la deliziosa bontà pasticcera resa celebre da Eugenio Scalfari in una famosa definizione di Gianni Agnelli, e che racchiude molti significati: superbo, borioso, megalomane, gonfiato e, in una parola, appunto montato. E chissà se il vetusto e venerabile «fondatore» di Repubblica domenica prossima ci delizierà con una delle sue «omelie», esecrando pubblicamente che due preziose pagine e l'apertura del suo ex glorioso giornale siano state «sporcate» da un'intervista del direttore (di fiducia elkanniana, che è furibondo per tanto spazio riservato al cuginetto), in cui il presidente della Juve mentiva spudoratamente («il progetto va avanti» a ogni costo, c' è «un patto di sangue» tra i club) e, poche ore dopo l' uscita del giornale, diceva tutto il contrario alla tv della Reuters: «Il progetto non può andare avanti». Altro che dibattiti sulle fake news che tanto piacciono a John, quando si diverte a giocare all' editore a Bagnaia con Andrea Ceccherini di fronte ai big del giornalismo mondiale! Altro che considerazione per le giovani generazioni, che nell'intervista di Agnelli sembrano trattate come polli in batteria da usare e spremere a uso del consumismo sportivo (la Fondazione Agnelli, con Valeria Fedeli, ex rifondarola incredibilmente messa al posto che fu di Sergio Marchionne, non ha nulla da obiettare?). A chi dovesse stupirsi o indignarsi per tali aggettivazioni nei confronti di Andrea Agnelli, ne vanno ricordate altre ben più pesanti e offensive: «Una serpe. Alla guida di "una sporca dozzina". È un bugiardo. Non ho mai visto una persona che potesse mentire così di continuo. L' avidità è così forte che sconfigge tutti i valori umani», parola di Aleksandr Ceferin, sloveno, presidente dell' Uefa e scelto da Andrea come padrino di Vera Nil, la sua quarta figlia, la seconda nata dall'unione con Deniz Akalin, la donna turca che - a proposito di «tradimenti» di Andrea - il presidente della Juve portò via al suo grande (ex) amico Francesco Calvo che li scoprì mentre il presidente baciava sua moglie nel parco della villa dove si stava svolgendo il ricevimento di un matrimonio. Calvo, poi, dignitosamente se ne andò dal club e Agnelli lo ostacolò nel trovare un nuovo lavoro: solo grazie ad Ariedo Braida venne assunto al Barcellona (e poi andò alla Roma). Andrea, in occasione dei lutti della Casa, si rende autore di un altro gesto irriguardoso nei confronti di Calvo: enumera i nomi di cinque figli (mentre in realtà i suoi sono quattro) inserendo anche la figlia dell'ex amico, Mila Calvo, come se fosse una Agnelli. Ma gli epiteti non sono ancora finiti: «Sei un Giuda, Giuda, Giuda. Sei un traditore» (copyright Urbano Cairo, lunedì pomeriggio nella sede della Lega calcio alla presenza di molti presidenti di squadre di serie A). «Sono sempre stato juventino ma, dopo aver visto all' opera Agnelli, non riesco nemmeno più a tifare la Juve», ha aggiunto Paolo Del Pino, vicepresidente vicario della Federcalcio, che si è visto «tradire» sulla trattativa per far entrare i fondi d'investimento nel calcio. Il giornale della Casa, La Stampa, ha perfino tirato in ballo la Buonanima facendo scrivere a Marco Tardelli (non c'era nessuno che avesse il coraggio di intervistarlo?) che «l'Avvocato direbbe di no». E, quando in casa Fiat, si invoca «Manitou», nell'alto dei cieli, e il suo grande spirito è un gran brutto segno. Ora Andrea Agnelli è chiuso in un vicolo cieco. Con quale credibilità può restare presidente della Juventus? Il meccanismo di fiducia si è rotto non solo con John, il vero «padrone» del vapore, ma anche con i tifosi e le istituzioni calcistiche europee e mondiali. I danni che si potrebbero riverberare sul club sono enormi e facilmente intuibili. Ancor più deleteria è stata questa ostinazione nell' accodarsi a Florentino Perez, il presidente del Real Madrid, al quale interessa di più portarsi a casa le Autostrada italiane, tramite Abertis e Atlantia dei Benetton, piuttosto che parare le terga ad Andrea Agnelli. Il quale, alle spalle, non ha né il denaro, né il potere, né le risorse, né i 93.267 soci della «Casa Blanca». E se la deve vedere con una inchiesta della Covisoc, che la Figc ora renderà più pesante, rapida e irta di conseguenze, sui conti della Juve: come è stato possibile, con un solo milione di cash, realizzare plusvalenze per 250 milioni di euro? A dare risposte non bastano i «cervelli» finanziari (detestati da John) di cui Andrea si serve con fiducia cieca e assoluta: Francesco Roncaglio e i Ginatta, sia Roberto che Matteo. Ora diventa urgente per John resettare la situazione e non è facile. Il prossimo futuro, che fino a qualche settimana fa riguardava solo il destino di Andrea Pirlo e Cristiano Ronaldo, ora ha ben altre incognite. Intanto Andrea può scordarsi ciò cui ambiva: il vertice della Ferrari, più potere in Exor, la certezza che John riaprisse il portafoglio di Exor per il sesto aumento di capitale a favore della Juve. Alessandro Nasi? Perché no, magari con Evelina come sua vice per via delle quote rosa. Sarebbe una bella rivincita anche per Alena Seredova, compagna di Alessandro, che diventerebbe meritatamente la vera first lady, mentre l' eterna aspirante a quel ruolo, Ilaria D' Amico, si ritroverebbe ridimensionata: senza programma Sky, con il marito in casa tutto il giorno in ciabatte, e, quel che è peggio, con Alena che da apparente sconfitta è diventata vera vincitrice.

ECA, dimissioni Agnelli: Nasser Al-Khelaifi nominato presidente. Ilaria Minucci il 21/04/2021 su Notizie.it.. L’ECA ha nominato come suo nuovo presidente l’imprenditore qatariano Nasser Al-Khelaifi che sostituirà il dirigente calcistico Andrea Agnelli. In seguito alle dimissioni di Andrea Agnelli, l’ECA ha provveduto a nominare un nuovo presidente, individuato nella figura di Nasser Al-Khelaifi. L’imprenditore e dirigente sportivo Andrea Agnelli aveva recentemente deciso di abbandonare l’Associazione dei Club Europei per assumere la carica di vicepresidente della Superlega Europea, progetto revocato a pochi giorni dalla sua proclamazione. Le dimissioni del presidente della Juventus erano state rassegnate nella notte tra domenica 18 e lunedì 19 aprile ed erano state giustificate come una scelta obbligata a causa del suo ruolo da protagonista svolto nell’organizzazione e nella fallita promozione della tanto contestata Superlega. Per sopperire all’assenza di Agnelli, quindi, l’ECA si è rapidamente attivata e, dopo aver nominato Karl-Heinz Rummenigge in qualità di presidente onorario, ha organizzato delle elezioni che hanno portato alla nomina di Nasser Al-Khelaifi, presidente del Paris Saint-Germain. Le elezioni, tenutesi nella giornata di martedì 21 aprile, hanno decretato il trionfo di Al-Khelaifi, noto nel mondo del calcio come uno degli uomini più ricchi e potenti dell’ambiente. Nasser Al-Khelaifi, nato a Doha nel 1973, è un imprenditore, ex tennista e politico del Qatar. Nel 2011, ha iniziato a inserirsi nel contesto del calcio europeo, acquistando la squadra francese del Paris Saint-Germain, sfruttando il fondo sovrano QIA (Qatar Investment Authority). Nel momento in cui Nasser Al-Khelaifi ha comprato la squadra, contribuendo con sostanziosi e significativi investimenti finanziari, il club francese si è gradualmente trasformato in una delle realtà calcistiche più competitive attualmente esistenti in Europa. Tra gli acquisti più famosi e prestigiosi effettuati dal neopresidente dell’Associazione dei Club Europei a sostegno del Paris Saint-Germain, ad esempio, possono essere annoverati quelli di Neymar e Mbappé. La potenza economica e imprenditoriale di Nasser Al-Khelaifi, inoltre, non si limita al mondo del calcio ma si estende anche in altri ambiti. L’uomo, infatti, possiede non solo numerose proprietà disseminate a livello internazionale, tra le quali figurano anche eleganti e lussuosi hotel in Italia, ma anche quote di brand rinomati come Walt Disney, Sainsbury, Siemens, Volkswagen, Heathrow Airport, Barclays o, ancora, Harrods.

Ilaria Minucci. Nata a Napoli il 16 marzo 1992, consegue una laurea triennale in Lettere Moderne, una magistrale in Scienze storiche indirizzo contemporaneo presso l'università "Federico II" di Napoli e il diploma ILAS da Graphic Designer. Ha partecipato a stage di editoria e all’allestimento di fiere del libro con l’associazione "Un'Altra Galassia". Attualmente collabora con Notizie.it.

Beppe Marotta. Arianna Ravelli per corriere.it il 22 aprile 2021. Un passo indietro rispetto alla Juventus di Andrea Agnelli ma comunque coinvolti nel progetto della Superlega. Non da fondatori, non da promotori, ma da semplici «invitati» e anche all’ultimo — come si affrettano a precisare i due club —, perché i meno ricchi nel club dei ricchi. E anche se non fa bene all’orgoglio di due società che in altre circostanze amano definirsi top, in queste ore di burrasca consente di schivare un po’ di schizzi. Come escono Inter e Milan dalle 48 ore che hanno travolto il calcio (e che non lo lasceranno uguale a prima)? Con le ossa un po’ rotte. E forse anche un po’ divise al proprio interno se è vero che Paolo Maldini, dt del Milan, ai microfoni di Sky prima della partita con il Sassuolo ha provato a uscirne immacolato: «Vorrei precisare che non sono mai stato coinvolto nelle discussioni sulla Superlega. Ho saputo domenica sera di questa cosa decisa a un livello dirigenziale più alto. Ma questo non mi esenta dallo scusarmi con i tifosi, che si sono sentiti traditi nei principi fondamentali dello sport che al Milan abbiamo sempre rispettato. Ricavi e sostenibilità sono importanti, ma senza rinunciare a meritocrazia e sogni». Una presa di distanza dall’ad Gazidis? In realtà è Gordon Singer, proprietario del fondo Elliott, che ha gestito direttamente il tema Superlega. Perché è chiaro che la decisione di aderire (così come quella di uscirne nella notte tra martedì e mercoledì, dopo aver incassato la ritirata di tutte le inglesi) è stata presa non dai dirigenti, ma dalle proprietà di Milan e Inter. Speranzose di salire sulla zattera della Superlega per aumentare i ricavi in un momento di estrema difficoltà (anche se l’Inter ha comunque bisogno di una soluzione più vicina, pare già trovata nel famoso prestito ponte). L’ad dell’Inter Marotta almeno era informato: «Un’azione gestita, come giusto, dalla proprietà. Magari scoordinata, ma in buona fede per evitare il default e alla fine fare il bene di tutti», la sua sintesi. Ma questo non impedisce che lo stesso Marotta sia al centro delle critiche e che la prima conseguenza è che lunedì in consiglio federale farà un passo indietro: «Per me è una carica di servizio, ma rimetterò il mandato nelle mani dell’assemblea». Che accetterà. È in questa veste di consigliere federale, infatti, che siede in consiglio di Lega. Ed è per le decisioni prese in Lega che è nel mirino, soprattutto per la famosa retromarcia sull’ingresso dei fondi, abbandonati dopo l’adesione alla Superlega (ovviamente inaccettabile per i fondi che volevano tenere alto il valore della A). «Ma le due cose non c’entrano niente — ribatte Marotta —, capisco le critiche, non gli attacchi violenti, come quello del presidente del Torino Urbano Cairo (Qui la sua intervista). Poi ho ricevuto anche minacce. Io non ho tradito nessuno». Ma la questione fondi resta dirimente. Ed è per la ragione opposta che invece su Paolo Scaroni, presidente del Milan, le critiche sono state meno accese: perché è rimasto favorevole ai fondi, anche dopo l’adesione alla Superlega, considerata «obbligatoria». Adesso però che è naufragata sotto una marea di (giusta) indignazione, a Inter e Milan restano i problemi. Elliott negli ultimi tre anni ha immesso nel Milan 400 milioni, l’Inter ha 600 milioni di debiti. «Gli stipendi sono al 65-70%, nessuna azienda può sopravvivere così», ricorda Marotta. Le strade sono due: aumentare i ricavi, non più con i soldi della Superlega, ma magari con il tormentato progetto stadio. Su questo le due società hanno proposto al sindaco Sala di andare avanti, dando al Comune la possibilità di verificare lo stato finanziario dei club da qui alla costruzione (nel frattempo gli assetti societari dell’Inter saranno definiti). L’altra è tagliare i costi: significa fare sacrifici (una corrente di pensiero al Milan non vede per esempio favorevolmente gli aumenti di ingaggi chiesti da Donnarumma e Calhanoglu, con cui le trattative comunque proseguono). Ed è per questo che i due club sono d’accordo nell’avviare una discussione su norme come il salary cap. Da oggi inizia una nuova partita.

Da sport.virgilio.it il 22 aprile 2021. Il silenzio degli innocenti o l’ipocrisia dei colpevoli? Nuove polemiche sull’intricata vicenda SuperLega arrivano dopo le parole dette da Paolo Maldini prima di Milan-Sassuolo. Il dirigente rossonero ha chiesto scusa a tutti i tifosi, sostenendo di aver appreso del progetto solo domenica sera come tutti e che non era stato informato. Un boomerang per l’ex capitano milanista: il popolo del web per metà non crede alle sue parole e per l’altra metà ritiene che se tutto fosse vero dovrebbe dimettersi. Paolo Maldini detto Socrate” o anche: “Almeno Agnelli ci ha messo la faccia a differenza di altri. Maldini e Zhang”, oppure: “Maldini “non ne sapeva niente della SuperLega” viene direttamente dalla scuola del Ruby nipote Mubarak” e ancora: “Maldini :” non sapevo che il Milan giocasse con la maglia a strisce rossonere, chiedo scusa ai tifosi…”. Il mondo del web non ha pietà: “Non sapeva niente? Va beh allora davvero imbarazzante, fuori da qualunque decisione e mi spiace per lui che non conti nulla nella sua società, è lì giusto di facciata, altro che dirigente. Sapeva? Ha usato la scusa “io non sapevo nulla” per uscirne pulito” o anche: “O Maldini vale quanto il 2 a briscola, o è falso!” e infine: “Le scuse di Maldini ai tifosi con l’aggravante della giustificazione “non ne sapevo nulla” sono di un ridicolo a dir poco imbarazzante . Perchè o sei un bugiardo vergognoso, oppure sei un dirigente che conta ZERO”.

Florentino Perez. Da corrieredellosport.it il 15 luglio 2021. Hanno scatenato un putiferio mediatico gli audio pubblicati dal quotidiano spagnolo 'El Confidencial', con l'attuale presidente del Real Madrid protagonista. In queste conversazioni private Florentino Perez parla in termini non proprio positivi di Cristiano Ronaldo, Mourinho, Casillas, Raul e molti altri. 

Real Madrid, Perez e il ricatto da 10 milioni. Dura la presa di posizione del patron dei Blancos e attraverso il profilo Twitter del club è stato anche rivelato che nel 2011 il giornalista Jose Antonio Abellan avrebbe ricattato il vicepresidente Eduardo Fernádez de Blas, chiedendogli 10 milioni di euro in cambio della "sparizione" di questi audio registrati in maniera illegale e successivamente manipolati: “Il Transistor di Onda Zero rivela che Abellán ha avuto nel 2011 un incontro con il vicepresidente del Real Madrid, Eduardo Fernández de Blas, al ristorante Combarro, dove lo ha ricattato chiedendogli 10 milioni di euro per far sparire gli audio registrati in modo illegale e manipolato“.

Da tuttomercatoweb.com il 15 luglio 2021. Florentino Perez sotto attacco? El Confidencial ha pubblicato stamattina alcuni file audio di conversazioni private dell'attuale presidente del Real Madrid risalenti al lontano 2006, pochi mesi dopo le sue dimissioni (tornò in carica tre mesi dopo). In queste registrazioni, Perez spara a zero su Raul e Iker Casillas, leggende del club e oggi dipendenti con ruoli diversi (l'ex attaccante è il tecnico della seconda squadra): "Casillas non è un portiere da Real Madrid, cosa vuoi che ti dica. Non lo è mai stato. È stato l'errore più grande che abbiamo fatto. Però tutti lo difendono. Poi c'è Raul: sono le due grandi truffe del Real Madrid. Raúl è cattivo, pensa che il Real Madrid sia di sua proprietà e usa tutto a proprio vantaggio. Lo stesso fa il suo agente. È per colpa sua che il Madrid sta male... Sono andato via a causa sua, tra l'altro". Il Real Madrid ha fatto sapere che è in atto un tentativo di screditare la reputazione di Florentino Perez dopo le polemiche relative alla Superlega.

Da fanpage.it il 17 luglio 2021. Florentino Perez sta facendo discutere. Non un colpo di mercato, non dichiarazioni sulla "famigerata" Superlega, ma i suoi audio al vetriolo rivelati dalla rivista El Confidencial. Un polverone incredibile, che ha spinto il patron del Real Madrid a prendere provvedimenti immediati, con azioni legali contro i protagonisti delle pubblicazioni. Le ultime, riguardano ancora una volta un ex tecnico delle merengues ovvero José Mourinho definito da Perez un idiota. In una conversazione telefonica il presidente ha raccontato un aneddoto piccante su Mesut Ozil. In un audio di una telefonata tra Florentino Perez e un amico, per Madrid Zone, il numero uno madrileno ha parlato dell'esperienza di Mesut Ozil in Spagna. L'allora giovane talento reduce da una fortunata esperienza al Werder Brema e in nazionale, ha avuto un colloquio molto particolare con l'allenatore dell'epoca José Mourinho. Quest'ultimo, preoccupato dalla vita personale del suo giocatore, è "entrato in tackle" rivelandogli dei particolari piccanti sulla sua ultima fidanzata dell'epoca. Questo il racconto di Perez: "Quando Ozil è arrivato a Madrid ha sostituito la fidanzata con una modella, finché Mourinho non gli disse che quella modella era andata a letto con tutta l'Inter e il Milan e anche con gli staff tecnici di entrambe le squadre (ride). Ozil è arrivato da noi a 21 anni, ma dopo aver scoperto Madrid, ha cambiato stile di vita. Disse alla sua ragazza di andar via, preferendole una modella italiana. Andava da lei con il suo jet, ci andava a letto e tornava. Dopo le parole di Mourinho la lasciò".

Matteo Oneto per calciotoday.it il 19 luglio 2021. Ne ha avuto per tutti Florentino Perez, presidente di uno dei Real Madrid più vincenti di sempre. Dai Galacticos alla decima, l’uomo che ha contribuito a far entrare sempre di più il club nella leggenda ora è al centro della scena per degli audio sconvolgenti. L’ultimo, pubblicato da El Confidencial, riguarda Mesut Ozil, trequartista tedesco arrivato nel 2018 in Spagna come uno dei tanti grandi colpi di mercato di Florentino Perez. L’audio pubblicato però non riguarda trattative o scelte tecniche, bensì la vita amorosa del giocatore. Mesut Ozil prima di arrivare a Madrid aveva preso una decisione importante nella sua vita extracalcistica: “Ha lasciato la sua fidanzata – spiega Florentino Perez – per un’altra donna, una modella di Milano” che secondo alcune indiscrezioni sarebbe Aida Yespica. La vera rivelazione arriva però quando inizia ad essere coinvolto Josè Mourinho, allora tecnico delle merengues. Perez spiega: “Mourinho si avvicinò a Ozil e gli disse che quella ragazza se l’erano fatta tutti i giocatori dell’Inter, quelli del Milan e pure i rispettivi staff tecnici”. Parole forti che adesso sono diventate di pubblico dominio e di sicuro non faranno piacere ai diretti interessati. Così come di sicuro non possono essere stati raccolti in maniera positiva gli insulti a Luis Figo e Raul, che in campo sono stati trascinatori del super Real dei galacticos. Negli ultimi audio c’è spazio anche per Guti: “E’un idiota che sta lì come una capra”. Per ora da diretti interessati non sono arrivate risposte ufficiale al presidente del Real Madrid.

Dagospia il 19 luglio 2021. Da leichic.it - 11 Settembre 2013. Aida Yespica, recentemente protagonista delle cronache sportive per il suo presunto coinvolgimento nella separazione tra il Real Madrid e il calciatore tedesco Mesut Özil, ha rilasciato un’intervista al sito internet Sport Mediaset, nella quale ha voluto raccontare la sua versione dei fatti. Ecco che cosa ha dichiarato. “Ho conosciuto Mesut Özil due anni fa. Prima ci siamo incontrati a Madrid in discoteca, poi lui è venuto a Milano una sola volta. Non c’entro nulla con la sua separazione dal Real Madrid. Respingo qualunque coinvolgimento e qualunque notizia relativa a spese folli che il calciatore abbia sostenuto per me”. Aida Yespica si sfoga in esclusiva con Sport Mediaset e lo fa direttamente da Malibu dove, da otto mesi, si è trasferita e vive con il nuovo fidanzato, l’esperto di finanza Roger Jenkis (ex di Elle McPherson) che vanta un patrimonio di circa 350 milioni di euro. Aida, suo malgrado, si è trovata sui media di tutto il mondo dopo rivelazioni di “El Mundo” che ha raccontato quanto i “blancos” avessero voglia di disfarsi del centrocampista turco, ora all’Arsenal, dato che le sue prestazioni ormai incidevano in modo negativo sulla squadra. Motivo, appunto, i continui viaggi a Milano e a Parigi che Özil faceva per passare anche una sola notte con Aida (prenotava un volo privato ogni due settimane, spendendo quasi 18mila euro per volta). Poi la mattina si presentava agli allenamenti distrutto e da qui la rottura con il Real. “Di vero c’è che io e Mesut dopo l’incontro a Madrid, ci siamo scambiati i numeri di telefono. Poi una sera a sorpresa mi chiama e mi dice: “Sono a Milano, ci vediamo?”. Così l’ho raggiunto e siamo andati a cena in uno dei locali più rinomati della città, senza nasconderci. Un locale dove all’esterno è sempre pieno di fotografi. Poi se ha usato l’aereo privato per raggiungermi, io che cosa ne posso sapere”, dice la showgirl. “Abbiamo trascorso la serata in allegria, ci siamo divertiti, poi ci siamo persi di vista. Oggi so che lui è felicemente fidanzato, io idem”.  Si è trattato di un semplice flirt? “La chiamerei bella amicizia e poi lui è più giovane di me e anche più basso! Concretamente ci siamo visti poche volte non capisco perché tirar fuori questa notizia così poco attuale o meglio direi vecchia”. Perché si è ritrovata al centro di questo gossip? “Perché il mio nome fa notizia. Pensi che il mio fidanzato stava scattando un servizio per GQ America quando lo hanno chiamato due giornalisti da Londra per chiedergli se fosse vera la storia tra me e Ozil. Lui mi ha guardato scioccato. Da otto mesi siamo inseparabili ventiquattro ore su ventiquattro. Di certo queste notizie danno fastidio”.

Aida Yespica, la modella è una furia: l’accusa che circola è pesantissima: “Ho denunciato”. Caffemagazine.it il 22/7/2021. Respinge con forza ogni accusa Aida Yespica che di certo non percorre la strada del silenzio. Non ignora le brutte voci che girano su di lei e decide di affrontarle a muso duro, senza paura. Vi starete chiedendo: “Ma cosa è successo?”, ve lo spieghiamo subito. Sembra che nel mondo del calcio di altissimo livello, girino degli audio dell’attuale presidente del Real Madrid, Perez, in cui raccontava una situazione imbarazzante. La stessa vedeva protagonista anche Jose Mourinho, attuale allenatore della Roma e all’epoca tecnico del Real e il calciatore tedesco Mesut Ozil. Il presidente Perez raccontava che Ozil aveva lasciato la fidanzata per un’altra donna, “una modella di Milano”, che secondo alcuni media era proprio Aida Yespica: “Mourinho – raccontava Florentino Perez negli audio oramai pubblici – disse a Ozil che quella ragazza se l’erano fatta tutti i giocatori dell’Inter e del Milan”.

Aida Yespica, l’accusa di Perez. Secondo il presidente infatti Mou non vedeva di buon occhio la relazione, perché il trequartista turco-tedesco volava spesso in Italia per stare con la sua nuova ‘fiamma’, trascurando la squadra. Naturalmente il presidente Florentino Perez non faceva il nome della modella, ma su parecchi media, italiani e spagnoli, si è fatto il nome di Aida Yespica, in un contesto certamente non piacevole per la stessa showgirl venezuelana. Non sappiamo quali prove abbiano questi giornali per associare il nome di Aida Yespica alla donna degli audio, fatto sta che dopo il fatto divenuto di dominio pubblico, la modella venezuelana ha deciso di contrattaccare. Tramite lo studio legale degli avvocati Luca Simioni del Foro di Treviso e Karen Raffa del Foro di Bologna fa sapere di aver dato mandato “affinché tutelino i miei diritti nelle sedi opportune”. E ancora Aida Yespica: “Le infamanti notizie sulla mia persona pubblicate in questi giorni su numerose testate nazionali e internazionali sono totalmente false, oltreché gravemente lesive del mio onore e della mia immagine di donna e, soprattutto, di madre”, si legge in una nota.

Aida Yespica furiosa per gli audio di Perez: “Su di me notizie infamanti”. Alice Coppa il 22/07/2021 su Notizie.it. Aida Yespica ha minacciato azioni legali per via dello scandalo che l'ha travolta a causa degli audio attribuiti a Perez. Aida Yespica ha fatto sapere che intraprenderà le vie legali per i contenuti audio – attribuiti al presidente del Real Madrid Perez – contenenti informazioni infamanti su di lei. Attraverso i suoi legali Aida Yespica ha duramente replicato contro la vicenda che la vede coinvolta nelle ultime ore. In rete sono emersi infatti alcuni file audio attribuiti al presidente del Real Madrid, dove si sente parlare Perez di alcuni fatti riguardanti il calciatore Mourinho. “Ha lasciato la sua fidanzata per un’altra donna, una modella di Milano”, si sente dire al presidente nei contenuti audio, e ancora: “Mourinho si avvicinò a Ozil e gli disse che quella ragazza se l’erano fatta tutti i giocatori dell’Inter, quelli del Milan e pure i rispettivi staff tecnici”. In rete si è rapidamente sparsa la voce che la “modella di Milano” altri non fosse che Aida Yespica, la quale ha replicato smentendo categoricamente la vicenda: “Le suddette notizie non corrispondono alla verità, ed hanno contenuto gravemente offensivo e diffamatorio. Depositerò anche denuncia- querela innanzi la competente procura della Repubblica chiedendo la punizione di tutti i soggetti che verranno ritenuti responsabili”, ha fatto sapere la modella in una lettera resa pubblica dai suoi legali.

Aida Yespica: la vita privata. La vita privata di Aida Yespica è stata piuttosto travagliata: dal 2007 al 2009 è stata sposata con il calciatore Matteo Ferrari, padre di suo figlio Aron. In seguito, nel 2012, la modella ha sposato a Las Vegas l’avvocato Leonardo Gonzales e nel 2013, una volta ottenuta la separazione, si è legata sentimentalmente al finanziere Roger Jenkins, da cui si è separata nel 2016. Dopo una lunga e importante storia con Geppi Lama nel 2020 Aida Yespica ha svelato di essere legata ad una donna famosa nel modno dello spettacolo, ma non ha svelato la sua identità.

Aida Yespica: il figlio. Aida Yespica è estremamente legata a suo figlio Aron, rimasto per molto tempo a vivere con suo padre Matteo Ferrari negli States. “Ho fatto molti errori nei confronti di mio figlio. Nel corso degli anni mi sono accerchiata di persone cattive, mi fido troppo delle persone. Ho subito delle truffe e ho dovuto lasciarlo a suo padre perché era l’unica persona di cui mi fidavo”, ha raccontato la modella in merito a suo figlio. 

Guido De Carolis per il "Corriere della Sera" il 22 aprile 2021. Fallito l'attentato al calcio, è tempo di ricostruzione. La Superlega è naufragata in una notte. I club inglesi hanno guidato la Brexit dal campionato europeo chiuso, ispirato soprattutto da Florentino Perez e Andrea Agnelli, i presidenti di Real Madrid e Juve usciti da sconfitti della guerra lampo. Non è stata però solo la spinta di tifosi e governi o le minacce di squalifica di Uefa e Fifa a portare alla dissoluzione di un progetto mal strutturato e ancor peggio presentato. Martedì notte, i 12 proprietari dei club fondatori della Superlega e firmatari del contratto da 3,5 miliardi con Jp Morgan si sono ritrovati in conference call. Il Chelsea, ultimo a formalizzare l'uscita, è stato il primo ad aprire la crepa, le altre inglesi (Manchester City, Manchester United, Liverpool, Arsenal e Tottenham) hanno seguito e via via sono arrivati i comunicati di addio, cui poi si sono accodate Inter, Milan, Juve, Atletico Madrid. Agnelli, capofila della rivolta, ha gettato la spugna: «Senza di loro il torneo non si può fare». Oltre a tanti soldi, il contratto della Superlega prevedeva anche sanzioni relative alle clausole d' uscita, legate al versamento di denaro: nessuno però aveva ancora ricevuto nulla. L' adesione invece era legata a due condizioni, che ci fosse l'adesione di Uefa e Fifa oppure che si dimostrasse all' antitrust la posizione dominante dell'Uefa. I fuoriusciti hanno fatto leva su questo per sfilarsi. Le scuse ai tifosi sono arrivate da tutti i club. L' Arsenal si è consegnato subito, oltre è andato il 71enne proprietario del Liverpool, John W. Henry. Quasi con le lacrime agli occhi, in un video ha implorato perdono: «Chiedo scusa a tutti: tifosi, giocatori, squadra. Il colpevole sono io». In Italia l'Inter è stata la prima a salutare, a ruota Milan e Juve. Il presidente della Uefa, Aleksander Ceferin, esce vincitore e dopo le minacce ha mostrato comprensione. «È ammirabile ammettere di aver sbagliato e questi club hanno fatto un grande errore. Adesso sono tornati e so che hanno tanto da offrire, alle nostre competizioni e al calcio europeo. L' importante ora è andare avanti insieme». Quelle del presidente non sono le parole di chi è deciso a punire, anzi. Domani il Comitato esecutivo Uefa si riunirà, valuterà il da farsi, difficile pensare di espellere dalle coppe i top club, sarebbe un danno per il movimento. La sanzione peggiore è il grave danno di immagine subito dai 12 club. Bisognerà invece trovare un punto di incontro sulla nuova Champions. Il restyling appena approvato, con partenza nel 2024, è una risposta parziale: una revisione è possibile. Sulla stessa linea dell'Uefa il presidente della Figc, Gabriele Gravina. «Non ci sono forme di processi, condanne o vendette trasversali. Sanzioni? No, non si può sanzionare un'idea che non si è concretizzata». La Federcalcio però pensa a correttivi e rafforzerà un vincolo già esistente: si potrà iscrivere ai campionati solo chi si impegnerà a giocare le coppe Uefa. Spingerà poi sulla sostenibilità economica: i club potranno spendere solo una percentuale fissa del loro fatturato, chi eccederà dovrà fornire immediate garanzie di copertura. Un freno alle spese folli del calcio. Dopo il grande spavento è tempo di cambiare. Ricostruire si può.

Filippo Maria Ricci per gazzetta.it il 22 aprile 2021. "Presidente della Superlega? No presidente del Madrid”. Florentino Perez è tornato a parlare, sempre dopo mezzanotte, stavolta in radio, a El Larguero della Cadena Ser, la trasmissione sportiva di punta della notte radiofonica spagnola. E ha fatto diversi passi indietro. Ha detto che la Superlega non è morta ma è parcheggiata. E parso incredibilmente provato e si è messo nei panni della vittima lamentandosi per il trattamento ricevuto: “Ci hanno voluto uccidere, come se avessimo tirato una bomba atomica. In vita mia non avevo mai visto tanta aggressività. Aggressività di gente che non vuole perdere i propri privilegi”. Il riferimento è a Uefa e Liga, a Ceferin e Tebas, i grandi nemici. Lunedì notte nell’apparizione televisiva al circense ‘Chiringuito’ Perez era pimpante e, ieri in radio era mogio, triste, abbattuto. Questi due giorni l’hanno prostrato, le durissime critiche ricevute hanno lasciato il segno. “La Superlega non è morta. Dicono che la Juventus se n’è andata, e non è così. Dicono che il Milan se n’è andato, e non è così. Anche gli inglesi sono ancora dentro, come il Barça. Siamo ancora tutti dentro perché per uscire bisogna pagare una penalizzazione. Abbiamo deciso di prenderci una pausa per cercare di spiegare un progetto al quale abbiamo lavorato per tre anni. E che forse abbiamo illustrato male. Ma non ce ne hanno dato il tempo, ci hanno attaccato con un’aggressività incredibile”. Florentino ha provato a spiegare cos’è successo, e ha puntato il dito su un club. Non ha detto il nome ma si è capito che parlava del Manchester City: “Tra noi 12 c’è sempre stata una società inglese meno convinta degli altri, e che ha contagiato negativamente il gruppo. Tra le altre società inglesi ci sono diverse persone in là con gli anni, si sono spaventati. Ci sono tanti americani che hanno club in Nfl, in Nba, hanno altri interessi, non si aspettavano questa aggressività, si sono preoccupati. Avevamo un accordo vincolante ma abbiamo preferito farci da parte”. Ecco, l’accordo vincolante. Lunedì in tv Perez era stato chiaro: “Abbiamo firmato un accordo vincolante e chi è dentro non può uscire. Tratterremo tutti”. Ora invece usa parole diverse: “No, non possiamo intraprendere azioni legali però si, tra noi c’è un accordo vincolante”. Poca chiarezza, di nuovo. E tante parole che restano nell’aria, mezze vuote: “Il nostro non è un campionato chiuso, può entrare chiunque; non vogliamo uccidere i campionati; i giovani non guardano più il calcio, vogliono vedere un Nadal-Federer tutte le settimane; il calcio è asfissiato dalla crisi, non arriveremo al 2024 se non troviamo più soldi”. Però sempre facendo l’occhiolino all’acquisto di Mbappé. Contraddizioni che restano nell’aria, come la Superlega.

G. Zon. per "la Stampa" il 22 aprile 2021. Ora che la Super Lega è evaporata non la si può più usare come minaccia. E in Uefa cambiano gli equilibri. Uno dei vicepresidenti, Karl-Erik Nilsson, della federazione svedese, fa sapere che ci possono essere sanzioni per i club che hanno provato a smontare il sistema. Sarebbe eccessivo, affrontano già i problemi di immagine, non pochi, e sarebbe un guaio per tutti reggere le conseguenze di eventuali multe o penalizzazioni. Il calcio deve ancora trovare risposte, tentare di essere più sostenibile, sanare le voragini lasciate dal Covid, raddrizzare i bilanci quindi è inutile far partire una faida. Proprio la reiterata paura di una Super Lega ha spinto l' Europa a riformare le sue coppe e al progetto presentato mancano ancora dei pezzi. La struttura della Champions è chiara, allargata a 36 squadre, la data di partenza è il 2024: mancano però il budget e la modalità di ripartizione. Quindi la trattativa non è finita. Ora le squadre che hanno accettato modifiche per quietare le necessità delle più grandi tentano di rinegoziare: a molti non piacciono i due posti riservati al merito storico che fanno da paracadute ai club più blasonati negli anni storti. Erano una concessione, ora suonano come un regalo a chi ha cercato un' altra strada. Torna tutto in discussione, ma altri punti della Super Lega invece potrebbero rientrare nello schema. Un sistema di fondi è allo studio per alzare il montepremi e le cifre che circolano non sono tanto diverse da quelle che stavano dietro il campionato alternativo. La Super Lega è naufragata ed è un fallimento che lascerà traccia: se ne parlava, in modo sempre più concreto, da una decina di anni, ma almeno da quattro era un fattore in grado di incidere sui rapporti di forza. Il fantasma non esiste più, il presidente Ceferin si sente più stabile e i problemi sul fronte interno lo hanno anche spinto a un' alleanza con Gianni Infantino, il capo della Fifa. Bisogna capire se i secessionisti rientreranno nell' Eca, l' associazione per club abbandonata in gran fretta. Domani c' è l' esecutivo Uefa, il giorno zero in cui capire che strada vuole prendere adesso il calcio.

Da ilposticipo.it il 22 aprile 2021. Critiche e ancora critiche per Florentino Perez. Il presidente del Real Madrid, principale promotore della Superlega, non si arrende e stavolta va in radio a spiegare quello che prevedeva (e prevede tuttora di fare) creando un campionato d'elite per venti squadre ricche e famose. El Presi ce l'ha con tutti, dalle inglesi che si sono sfilate alla UEFA, ma sa benissimo che sono altrettanti quelli che ce l'hanno con lui. La comunicazione del progetto Superlega non è stata poi così ben curata e il numero uno del Santiago Bernabeu ne è uscito abbastanza male, soprattutto per l'intervista a El Chiringuito a notte fonda in cui ha dato l'impressione di considerarsi un po'...il padrone del pallone.

MESSIA - E tra i tantissimi rimproveri, non può mancare quello di chi è stato un grande ex del Real, ma che soprattutto è un apprezzatissimo uomo di calcio: Jorge Valdano. L'ex direttore generale dei Blancos conosce bene Perez, considerando che è stato proprio l'attuale presidente a inserire l'argentino nei quadri societari del Bernabeu. Eppure, parlando a El Transistor di Onda Cero, Valdano non risparmia frecciate al numero uno del Real. “Credo che tu non ti possa presentare al Chiringuito come se fossi il Messia, mettendo lo stesso calcio al di sotto di te". Comunque, ce n'è anche per il presidente della Juventus, che si becca del traditore...anche in Spagna. "Agnelli era il rappresentante di 200 club e li ha traditi. Non è stato un qualcosa di rispettabile!".

TIFOSI - Per Valdano, comunque, quello che va sottolineato è come sia stato il pubblico, la gente comune, a causare quel no diffuso che poi ha convinto le inglesi a lasciar stare il progetto. Un qualcosa che, chiosa l'argentino, non poteva che succedere oltremanica. "La guerra non l'ha vinta la UEFA, ma l'ha vinta la gente, i tifosi inglesi. C'è una differenza culturale molto ampia quando si parla di calcio in Spagna e quando lo si fa in Inghilterra. Ma la caduta della Superlega non mi ha sorpreso. E questa storia ci dice che non possiamo sottovalutare i tifosi". Un qualcosa che Florentino Perez farà meglio ad appuntarsi, se ha intenzione di provare di nuovo la secessione.

Aleksander Ceferin. Da corrieredellosport.it il 22 aprile 2021. Aleksander Ceferin continua la sua battaglia, neanche troppo velata, contro il Real Madrid, tra i principali promotori della Superlega europea. In un'intervista rilasciata in Slovenia, il presidente della Uefa ha puntato il dito contro il club di Florentino Perez, alludendo anche alla remota possibilità di una sua esclusione dalla semifinale di Champions League contro il Chelsea (in programma martedì prossimo).

Ceferin contro Perez. "Il punto - ha detto Ceferin - è che la stagione è già iniziata e le televisioni chiederebbero danni se non la giocassimo. Quindi c'è una possibilità relativamente piccola che questa gara non venga giocata la prossima settimana". Poi ha replicato alle parole del presidente del Real Madrid, che aveva detto di non volere un rappresentate dell'Uefa come lui: "È un incentivo ancora più grande a restare. Vuole un presidente che gli obbedisca, lo ascolti e faccia quello che pensa. E io invece cerco di fare quello che penso sia un bene per il calcio europeo e mondiale".

Da gazzetta.it il 22 aprile 2021. Dopo il fallimento della Superlega, è arrivato il momento della riappacificazione? Sì, no, forse. Perché prima di un'eventuale tregua Aleksander Ceferin vuole forse togliersi qualche sassolino dagli scarpini. "Io troppo ingenuo alle promesse di Agnelli? Potrei essere stato ingenuo, ma dico sempre che è meglio essere ingenuo che bugiardo". Così il presidente della Uefa in un'intervista al media sloveno 24ur. "Quando l'ho sentito? Sabato ho ricevuto chiamate da 5 dei 12 club, mi hanno detto che avrebbero firmato. Allora ho chiamato Agnelli e mi ha detto che non era vero, che erano "stronzate", che era tutto inventato. Gli ho detto che se era così avremmo potuto uscire con una dichiarazione pubblica. Mi ha detto: 'Perfetto, prepara una bozza'. Quando l'ha vista ha detto che non gli piaceva molto la bozza, che l'avrebbe cambiata un po' e mi avrebbe richiamato. Ma non ha più chiamato e ha spento il telefono", ha aggiunto Ceferin.

LEGA DEI RICCHI—   "Secondo me, non c'è mai stata una Super League. Era un tentativo di stabilire una fantomatica lega dei ricchi che non seguisse alcun sistema, che non avrebbe tenuto conto della piramide del calcio in Europa, della sua tradizione e cultura", ha continuato Ceferin. E ancora: "Ci hanno tutti sottovalutato. È tipico delle persone che sono per lo più circondate da chi annuisce e dice loro di essere il migliore, il più bello e il più intelligente. Probabilmente hanno sottovalutato me e l'intera situazione, mi sorprende che non sapessero in quale situazione si trovassero. Ma ora mi aspetto che in futuro nessuno nel mondo del calcio mi sottovaluti", ha detto Ceferin che è uno dei veri vincitori di questa battaglia.

ECA E L'ELOGIO A AL-KHELAIFI—   "Mi congratulo con l'Eca per aver scelto Nasser Al-Khelaifi per il ruolo di presidente - ha aggiunto il Presidente dell'Uefa -. Il calcio necessita di brave persone nei ruoli importanti e lui sa prendersi cura degli interessi di più società e non solo della sua. Questo deve essere un requisito indispensabile per svolgere tale compito. Non vedo l'ora di lavorare con lui per plasmare il futuro del calcio per club a livello europeo. È un uomo di cui mi posso fidare".

ROMA E MARSIGLIA—   "Ho parlato con il proprietario della Roma e il proprietario del Marsiglia, che sono miliardari americani e hanno dichiarato pubblicamente che non si sarebbero mai iscritti a un campionato del genere - ha rivelato Ceferein - perché rispettano i tifosi e la tradizione dei loro club. È ingiusto dire che i proprietari americani sono diversi, anche se è vero che il loro sistema sportivo è diverso".

"VALUTEREMO"—   "Parleremo di calcio, ma nelle riunioni deciderò chi far sedere vicino a me - ha proseguito -. Così posso mettere qualcuno un po' più lontano. Se questi club vorranno giocare ancora nelle nostre competizioni, dovranno avvicinarsi a noi e dovremo valutare cosa è successo, ma non voglio entrare nei dettagli, poiché stiamo ancora parlando con il nostro team legale".

RIPERCUSSIONI—   "Non sto dicendo che non parleremo, ma penso che dovremo valutare quale sia la situazione per un determinato club e poi vedere come va a finire, ma prima devi dimostrare di avere una certa onestà per poterti aspettare un dialogo dall'altra parte". E poi: "Se qualche club vuole giocare nelle nostre competizioni, dovrà avvicinarsi a noi. Sicuramente terremo conto del fatto che i club inglesi hanno ammesso di aver sbagliato", ha proseguito Ceferin. "Sono tutti con noi. Ora ci aspettiamo che tutti si rendano conto del loro errore e ne subiscano le conseguenze. Ne parleremo la prossima settimana", ha ribadito. E sull'ipotesi di una clamorosa esclusione del Real Madrid dalle semifinali di Champions League, Ceferin ha ammesso: "C'è una probabilità relativamente piccola, rischiamo che le tv ci presentino una richiesta di risarcimento se non si giocano le semifinali. Ma in futuro sarà un po' diverso".

PORTE APERTE—   "Le porte della Uefa sono aperte e allo stesso tempo tutti dovranno subire le conseguenze delle proprie azioni. Di certo non avrò mai più un rapporto personale con certe persone", ha concluso Ceferin.

Alessandra Gozzini per gazzetta.it il 23 aprile 2021. L'ordine del giorno indica nei diritti televisivi il tema centrale della discussione dell’assemblea di Lega di oggi: l’attualità però è travolgente e indirizzerà l’incontro (scontro) su Superlega e gli altri conflitti interni alla Serie A. Per la prima volta in video collegamento le società si ritroveranno dopo l’annuncio della creazione (e immediata abolizione) di un torneo europeo alternativo e riservato esclusivamente all’elite. È molto probabile che i club chiedano conto ai tre ex scissionisti (ieri si è espresso Commisso, Fiorentina: "Perché non hanno detto niente? Voglio assicurarmi che una cosa del genere non accada mai più"), con la battaglia destinata ad accendersi soprattutto sul (doppio) ruolo di Andrea Agnelli. Il numero uno bianconero è stato co-ideatore, con Florentino Perez, della Superlega; e allo stesso tempo resta uno dei membri della commissione interna (con lui De Laurentiis, Fienga, Fenucci e Campoccia) impegnata a negoziare con i fondi interessati a una quota di minoranza della Lega. Peccato che le due posizioni siano in netto contrasto tra loro: una clausola dell’accordo preliminare con i private equity prevedeva che le società si impegnassero per dieci anni a non appoggiare nuove manifestazioni, il campionato italiano ne sarebbe di conseguenza uscito svilito. Il dietrofront di Agnelli ormai è noto e le ragioni della retromarcia evidenti: è per questo motivo che molti presidenti valutano l’ipotesi di una causa per danni al collega juventino, considerato dalla maggioranza il primo colpevole del fallimento dell’operazione che avrebbe portato nella casse della A un miliardo e settecento milioni di euro, e una linea di credito da 1,2 miliardi. Un’offensiva che partirà dalle parole del presidente di Lega Dal Pino.

PASSO INDIETRO—   Lo stesso vertice Lega da cui è previsto un duro attacco al blocco dei 7, le sette società (Inter, Juve, Napoli, Atalanta, Lazio, Fiorentina e Verona) unite in una comune visione strategica, compresa l’ultima lettera di sfiducia allo stesso Dal Pino: la Superlega non ha rotto il fronte, che però si trova ora messo all’angolo. L’Inter, qui rappresentata da Marotta, era ugualmente coinvolta nel progetto Superlega (ma senza rappresentanti nel comitato interno sui fondi): se l’assemblea presenterà la sfiducia all’a.d. nerazzurro, farà un passo indietro dalla carica di consigliere federale. Lo stesso vale per Scaroni, presidente del Milan: rifletterà sul proprio ruolo (consigliere di Lega) di fronte alla posizione degli altri club. Sui rossoneri va fatta una seconda precisazione: sono sempre rimasti a favore della partnership con i fondi.

RICORSO SKY—   I diritti tv avranno spazio: verrà approvato il pacchetto 2 (3 gare in co-esclusiva) per essere poi rimesso all’asta. L’offerta di Sky da 87,5 milioni all’anno era stata rifiutata. Proprio Sky ha presentato ricorso al Tribunale contro l’assegnazione degli altri pacchetti a Dazn: contesta la presunta violazione della Legge Melandri, che vieta a un singolo operatore di acquistare tutti i diritti. Questione che non preoccupa la Lega: filtra serenità per aver sempre agito nel rispetto delle norme, tanto che è ancora in corso il procedimento per l’assegnazione di un pacchetto che non coinvolgerà Dazn, ma un altro licenziatario.

Deficit di racconto e di coinvolgimento. Gigliuto: Così è naufragata la SuperLega. Domenico Bonaventura, Giornalista, comunicatore, fondatore di Velocitamedia.it, su Il Riformista il 23 Aprile 2021. Un non-progetto imposto ai “prosumer”, anziché un’idea proposta, raccontata e comunicata in maniera coinvolgente. C’è sicuramente qualche ragione, se la SuperLega è naufragata in soli due giorni. Congelata, quantomeno. Livio Gigliuto, vicepresidente di Istituto Piepoli, lo spiega come sempre in maniera efficace. “Il nostro sondaggio, effettuato tra lunedì e martedì scorso – afferma -, ha evidenziato che tra i tifosi prevalgono coloro a cui quest’idea non piace affatto. La forbice, però, non è così ampia: 45% di contrari e 36% di favorevoli. Dunque, qualcosa che ha sollecitato i tifosi c’era, anche se in maniera differente. Tra quelli delle squadre italiane, i fan della Juve erano quelli che maggiormente vedevano di buon occhio la proposta, forse perché la vedevano come una cosa che li riguardasse direttamente. Poi quelli del Milan, che da sempre si considerano meritevoli di un palcoscenico europeo, e infine gli interisti”. “Le tifoserie non sono simili tra loro – prosegue Gigliuto -, ad esempio si può dire che quella dell’Inter è più ‘di rivincita’ rispetto alle altre. Le tifoserie di Roma e Napoli, invece, hanno reagito in maniera più agnostica, per così dire, forse per l’ipotesi di una utura partecipazione. Le altre, invece, contrarie”. A differenza delle tifoserie inglesi, ferocemente contrarie all’idea. “Lì c’è una cultura del tifo molto diversa. Da noi sono tantissimi i casi di doppio tifo: per la squadra della propria città e per una squadra maggiore. In Inghilterra, se sei del Norwich e lotti nella Seconda Divisione, resti del Norwich a lottare in Seconda Divisione, non ti fai prendere da simpatie per il City o per il Chelsea”. Intanto, però, il progetto Agnelli-Perez sembra essere sfumato. Pare evidente che la ragione alla base di tutto sia stata una falla comunicativa anche piuttosto chiara. “Proprio i dati che abbiamo raccolto nel nostro studio – è l’opinione di Gigliuto – confermano che un certo appeal ci fosse. Quindi il tema è comunicativo, non si sfugge. Il prodotto è stato presentato in maniera del tutto asettica, senza quelle modalità classiche che fanno venire l’acquolina in bocca”. Sembra strano, insomma, che in tempi in cui non si fa che parlare di storytelling quello che è mancato sia proprio una narrazione coinvolgente. “Eppure è così. Hanno fallito in quella dinamica che ti consente di creare un legame con la “clientela”. Magari un annuncio delle prime due partite, col fine di creare l’attesa, o un calendario ben specifico, il coinvolgimento di calciatori, allenatori, figure iconiche. Non c’è stato nulla di tutto questo”. Anzi, molti allenatori di forte impatto anche mediatico (Klopp, Guardiola) hanno fatto dichiarazioni in senso opposto, mentre i capitani delle squadre di Premier hanno addirittura diffuso una nota congiunta. Il concetto dovrebbe essere chiaro. Sottovalutare la potenza e le conseguenze del modo in cui si comunica (o non si comunica) può essere devastante, anche per chi può contare su un mare di consenso e di tifo.

Da ilnapolista.it il 23 aprile 2021. Ormai della Superlega fallita si sa praticamente tutto. Nel minimo dettaglio, quasi. Anche perché il presidente dell’Uefa Ceferin ha raccontato per filo e per segno il tradimento del suo ex amico Andrea Agnelli, pubblicamente. Il New York Times ricostruisce tutta la faccenda, raccontandola come una spy story. Con Ceferin protagonista. Molto interessante la parte riguardante il presidente dalla Juventus, che ne esce come un doppiogiochista senza remore. Dal pezzo è abbastanza palese che la fonte principale del racconto sia lo stesso presidente dell’Uefa. La storia comincia a tavola, il 15 aprile, in Spagna, col boss della Liga Tebas e il neopresidente del Barcellona Laporta. Lì vien fuori per la prima volta l’imminenza della rivolta. Tebas avverte Ceferin. “Il tam tam delle voci continua, e Ceferin sente di dover essere sicuro che non stia avvenendo davvero. Così, sabato scivola sul sedile anteriore della sua Audi Q8 per parte per un viaggio di otto ore da casa sua a Lubiana, al suo ufficio in Svizzera. Ha deciso di andare a fondo. Chiama Agnelli. Il suo amico non risponde“. “Ceferin – il padrino del figlio più piccolo di Agnelli – manda un messaggio alla moglie dell’italiano e le chiede se può convincerlo a richiamarlo con urgenza. E’ in viaggio da tre ore quando squilla il cellulare. Con disinvoltura, Agnelli rassicura Ceferin, ancora una volta, che va tutto bene. Ceferin suggerisce di emettere un comunicato congiunto che ponga fine alle voci. Agnelli acconsente. Ceferin redige il comunicato della sua macchina e lo invia ad Agnelli. Un’ora dopo, Agnelli chiede tempo per rispedire una versione modificata. Passarono le ore. I due si scambiano più telefonate. Alla fine, Agnelli dice a Ceferin che ha bisogno di altri 30 minuti. E poi spegne il telefono“. “Al suo arrivo in Svizzera, Ceferin fa altre due chiamate che gli chiariscono quanto è diventata reale la minaccia. Due squadre, una inglese e una spagnola, lo informano di essere state pressate per iscriversi al campionato separatista. Hanno deciso di accettare, ma vogliono rimanere in buoni rapporti con l’organo di governo del calcio europeo. La risposta di Ceferin è gentile, ma schietta. Se si sono alleati con i ribelli, devono prepararsi a un attacco a tutto campo”. “Con la sua cerchia ristretta, Ceferin si mette al lavoro. Danno la notizia ad alcuni membri del consiglio della European Club Association, il gruppo ombrello di circa 250 squadre europee. Il suo presidente, Agnelli, e alti dirigenti come Ed Woodward del Manchester United li hanno fregati”. “Erano indignati, non potevano crederci”, racconta Ceferin in un’intervista. “Anche le organizzazioni mafiose hanno una sorta di codice…”. Entra in gioco l’asse franco-tedesco. Il ruolo di Bayern Monaco e Paris St.-Germain è fondamentale. Forniscono alla Uefa alcune delle informazioni che permettono di pianificare il contrattacco. La sequela di pressappochismo ed errori strategici dei 12 club ribelli innesca il fallimento. Il New York Times sottolinea stupito che “il co-presidente del Manchester United Joel Glazer, il miliardario russo del Chelsea Roman Abramovich, e Stan Kroenke dell’Arsenal, che controlla quasi una dozzina di squadre professionistiche, non parlano mai pubblicamente. Il proprietario del Manchester City, lo sceicco Mansour bin Zayed al-Nahyan, membro della famiglia reale di Abu Dhabi, non parla”. “La strategia di comunicazione dei ribelli – guidata da Katie Perrior, vicina a Boris Johnson – è troppo concentrata sull’ottenere il sostegno del governo, piuttosto che quello popolare. Nessuno sforzo per consultare, coinvolgere o conquistare tifosi, giocatori o allenatori”. “Agnelli, teoricamente rappresentante di tutti i club europei e amico intimo di Ceferin, sente la tensione di essere un doppiogiochista. Ha protetto il segreto dei ribelli per settimane, oscurando la verità – o peggio – nei colloqui con amici e alleati”. “Era già tutto finito alle 11:10 di lunedì”, dice un dirigente coinvolto nel piano. E’ stato subito chiaro che il golpe dei 12 non aveva quasi nessun supporto. Il New York Times racconta di Ceferin che “nel frattempo è tornato a consumare i telefoni per radunare l’opposizione. Ha cercato e ottenuto l’appoggio di Gianni Infantino, il presidente della FIFA col quale non ha ottimi rapporti. Ha anche avuto una lunga telefonata con Oliver Dowden, il legislatore responsabile dello sport e della cultura in Gran Bretagna. Dowden gli dice che il governo britannico farà tutto quanto in suo potere per impedire ai club separatisti di “prendersi” il calcio”. Il resto è la storia di un fallimento precipitoso. Dopo sole 48 ore dall’inizio della tempesta “Ceferin torna in Slovenia. Resta sveglio fino alle 2 del mattino circa. Inizia a rispondere alle migliaia di messaggi che avevano sommerso il suo telefono nei due giorni precedenti. Quindi chiude il portatile e si serve un doppio whisky”.

Daniele Sparisci e Mario Gerevini per il “Corriere della Sera” il 23 aprile 2021. Divisi da una rivalità sportiva e politica, uniti dal richiamo dei soldi. Real Madrid e Barcellona, irriducibili, il presidente blaugrana Joan Laporta fa da megafono a Florentino Perez. «La Superlega è una necessità. L' ultima parola spetta ai soci: investiamo, abbiamo ingaggi molti alti e di questo, pur salvaguardando il merito sportivo, si deve tenere conto». Il Barcellona è il numero uno per ricavi in Europa: 715 milioni, ma con il peso degli stipendi - il contratto di Messi da mezzo miliardo è la sintesi di un' epoca di follie - è in grave crisi. La Superlega come patto di mutuo soccorso fra club, per chiudere i buchi finanziari provocati dal Covid senza dover cambiare stile e tenore di vita. Ecco cos' era. Basta qualche dato a capire: il numero uno per debiti è il Tottenham: 685 milioni. Il numero uno per perdite è il Milan: 195 milioni. Il numero uno e basta si chiama Chelsea: ha cassa per 19 milioni; ha chiuso con 45 milioni di utile l' ultimo bilancio e in più il proprietario si chiama Roman Abramovich, patrimonio da 14,8 miliardi di dollari. A mettere insieme bilanci e statistiche si capisce che il denominatore comune tra i 12 club non è un indebitamento insostenibile. Per alcuni sì, per altri no: il totale fa 2,7 miliardi ma un quarto è del solo Tottenham. E non sono le perdite di bilancio devastanti: il Real, per esempio ha un piccolo utile e l' Atletico è in sostanziale pareggio. A unire tutti è stata l' idea commerciale e la prospettiva opportunistica di vendere un prodotto più attraente per le tv e quindi ottenere maggiori ricavi concentrandoli nel perimetro della presunta élite calcistica senza «disperderli» nei rivoli dei club «minori». Era anche, implicitamente, una sorta di sostegno alle società del gruppo che sono in difficoltà finanziaria: Tottenham, Inter e in parte anche Barcellona e Milan. Il Tottenham, che in due esercizi ha perso 220 milioni, l' anno scorso aveva ottenuto un prestito da 200 milioni dalla Banca d' Inghilterra e ora il debito netto è salito a 685 milioni. È la situazione più delicata insieme a quella dell' Inter dove però oltre al debito (322 milioni) pesano la debolezza di un azionista, la famiglia Zhang, azzoppata in patria, e il nodo contabile delle sponsorizzazioni cinesi che negli anni hanno sostenuto i conti. «Con il solo gettone d' entrata della Superlega (290 milioni circa ndr ), Suning avrebbe risolto subito i problemi finanziari» fa notare Andrea Sartori, responsabile dello sport di Kpmg. L' Arsenal, come il Tottenham, ha ottenuto a gennaio un prestito da 130 milioni dalla Banca centrale e lo rimborserà entro maggio ma ha una struttura patrimoniale solida: è in mano al miliardario americano Stan Kroenke, che colleziona squadre in Nba e Nfl, possiede cantine nella Napa Valley per una ricchezza personale di oltre 8 miliardi di dollari. La fotografia dei bilanci dei dodici club che hanno tentato il golpe non tiene conto di due fattori che fanno la differenza. Il primo è l' effetto Covid che a giugno 2020 (data di riferimento dei numeri qui riportati) era ancora solo parzialmente registrato. Chiudere i consuntivi quest' anno, per la maggior parte al 30 giugno, costerà a tutti i club, a ogni livello, lacrime e sangue. E qui interviene il secondo fattore che fa la differenza tra una società e l' altra e tra un conto economico e l' altro: la proprietà. I 12 del «Super flop», a differenza della gran parte delle società del calcio professionistico, hanno alle spalle i miliardi di paperoni americani (Manchester United, Arsenal, Liverpool) o arabi (Manchester City), russi (Chelsea), imperi industriali e familiari (Juventus, Tottenham, Inter, Milan, Atletico), mentre il Barcellona è una polisportiva da 180 mila associati e anche il Real un' associazione privata senza scopo di lucro. Ora che c' è da chiudere i bilanci, gli azionisti che hanno indirizzato le scelte di gestione (quindi anche sui costi) dovranno garantire la stabilità e continuità delle aziende. Cioè mettendoci il denaro dove è necessario, che vuol dire ricapitalizzare. E per chi ha riserve miliardarie, dai 3 di John Henry del Liverpool ai 23 dello sceicco arabo Mansour del Manchester City, sarà un fastidio ma non un problema. Del resto il Chelsea insegna che si può far calcio ai massimi livelli con bilanci in utile. Fallito il golpe, si dovrà ripartire da altri numeri, che fotografano lo squilibrio: le dieci società con il fatturato più alto in Europa hanno un giro d' affari superiore alle oltre 600 dei campionati al di fuori di Inghilterra, Spagna, Italia, Francia e Germania. Negli ultimi 20 anni soltanto tre squadre non appartenenti ai «big five» (Ajax, Porto e Psv) hanno raggiunto le semifinali di Champions: «Il grande errore è stato non intervenire sui costi del calcio, completamente fuori-controllo, un problema ingigantito dalla pandemia- sottolinea Sartori-. Nessuna azienda può reggere se un terzo del fatturato serve a coprire gli stipendi, basta un leggero calo dei ricavi ed è crisi. Serve un "salary cap" a livello nazionale ed europeo, più soft rispetto al modello americano: sarebbe comunque efficace». Dopo la Superlega una cosa è certa: i prossimi Messi e Ronaldo guadagneranno meno, molto meno.

Gabriele De Stefani per “la Stampa” il 23 aprile 2021. «La nobiltà per diritto di nascita al posto del merito. Volevano riportarci a prima della Rivoluzione francese, ma hanno fatto male i calcoli, perché i tifosi, che poi sono i loro clienti, vogliono altro. Il libero mercato nel calcio non funziona». A dirlo non è un nostalgico dei tempi della radiolina e di «Tutto il calcio minuto per minuto», ma Carlo Cottarelli, che in vita sua è stato direttore esecutivo del board del Fondo monetario internazionale. In testa ha un modello diverso di calcio, a cui sta lavorando con Interspac, l' associazione con cui sogna di fare della sua Inter il primo grande club italiano ad azionariato almeno parzialmente popolare.

Che idea si è fatto del progetto Super Lega?

«Un atto arrogante da parte di club che pensavano di controllare il calcio a loro piacimento, senza fare nessuna altra considerazione. Né emozionale, né culturale. E direi nemmeno economica: la reazione popolare che si è scatenata ci dice che a non volere quel prodotto è prima di tutti chi avrebbe poi dovuto acquistarlo. Se cent' anni fa avessimo fatto la Super League, ora vedremmo ogni settimana Genoa-Pro Vercelli».

Il calcio però sta implodendo. Florentino Perez, presidente del Real Madrid, dice che non c' è tempo per una riforma che parta fra tre anni: non ci arrivano vivi. E dice che i giovani chiedono grandi eventi e non sanno cosa siano i campanilismi.

«Il tema generazionale c' è, del resto i giovani hanno meno ricordi. Ma se ogni settimana offri Milan-Real, dopo un po' si stancano anche loro. Quindi il tema è ridisegnare il sistema. Ma una risposta che scontenta la stragrande maggioranza dei tifosi è evidentemente inefficace».

E come si ridisegna un settore così particolare?

«C' è un problema congiunturale, il Covid. E poi c' è quello strutturale. Il calcio da sempre perde soldi e vive grazie ai mecenati che però non bastano più. Io credo che l' urgenza sia il tetto salariale per i giocatori».

Tutte operazioni difficili se comandano gli agenti. Lo scorso anno i due procuratori più importanti, Jorge Mendes e Mino Raiola, hanno intascato quasi 200 milioni di dollari secondo Forbes. Non producono valore, anzi ne sottraggono, e spingono gli stipendi a livelli insostenibili. A chi tocca limitarli?

«Vede perché nel calcio il libero mercato non regge e il tentativo di trasformarlo in un' azienda come le altre è fallito? In qualunque altro settore, nessuna aziende pagherebbe stipendi che non può permettersi: altrimenti secondo un principio di mercato fallirebbe, cosa che invece nel calcio non accade. Qui subentrano la passione, il sogno di vincere e acquistare le star. E così si accumulano i debiti. Per questo il calcio deve darsi delle regole: tetto agli stipendi e alle commissioni degli agenti. E scommettere sull' azionariato popolare».

Andrea Agnelli nei mesi scorsi aveva detto: "La Serie A deve affidarsi a fondi di investimento privati perché noi dirigenti abbiamo fallito".

«Il modello da copiare c' è: il Bayern Monaco vince e ha i conti in ordine. Non a caso non è a fine di lucro e non ha una proprietà americana che bada al profitto come quasi tutti i promotori della Super Lega. Il Bayern è controllato dai tifosi attraverso l' azionariato popolare: è la strada per tenere insieme gli aspetti emozionali e la sostenibilità. Il mecenate da solo non ce la fa più, allora facciamo comandare davvero i tifosi».

Real Madrid e Barcellona hanno l'azionariato popolare eppure sono a pezzi.

«Oltre ai modelli conta chi li gestisce: Perez, ad esempio, ha alimentato la corsa degli stipendi anziché governare il club in modo virtuoso».

In questi giorni Uefa e Fifa hanno imbracciato la bandiera del «calcio dei tifosi» contro quello del profitto. Il pulpito da cui viene la predica non è particolarmente credibile: sono due organizzazioni ricchissime, attraversate dagli scandali, vivono grazie agli investimenti dei club e giocano al tempo stesso da regolatrici e player del settore. Non è un' ingiustizia?

«Sì, infatti il senso dell' operazione Super Lega mi sembra soprattutto un riequilibrio tra club, Fifa e Uefa. Ma dubito che il modo per ottenerlo sia un comunicato stampa a mezzanotte con cui si annuncia che si smonta l' impianto del calcio mondiale e l' eliminazione della meritocrazia. Anche i governi di tutta Europa si sono messi di traverso.

Perché?

«Non hanno nemmeno concordato una linea, è stato spontaneo. Era troppo evidente la distruzione di valori condivisi dall' opinione pubblica».

Un' industria europea da 30 miliardi sta saltando, i governi dovranno occuparsene oltre a dire "no".

«Andrà fatto, con spirito di collaborazione. Tutti devono rimettersi in discussione, a partire dai club per la gestione e dai calciatori per gli stipendi. Ma la lezione è chiara: il calcio è dei tifosi, senza di loro non si decide. Mia figlia tifa West Ham. L' inno dice: "I' m forever blowing bubbles", cioè "soffio sempre bolle di sapone per aria". Il calcio europeo è questo. Se pensi che sia un' azienda normale, vai a sbattere».

Dagotraduzione dal DailyMail il 23 aprile 2021. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha pubblicato online alcune pagine del contratto sottoscritto da 12 club per la creazione della Super Lega, la competizione sportiva che domenica sera ha rotto gli equilibri del calcio facendo scendere in piazza i tifosi, soprattutto inglesi. Tra gli accordi sottoscritti dai club, spicca la clausola che costringe chi rinuncia alla competizione a pagare una «tassa di scioglimento» di 130 milioni di euro. Altri dettagli trapelati: la formazione a 15 (Paris Saint Germain, Borussia Dortmund e Bayern Monaco dovevano essere invitati in un secondo momento), si era distribuita così i soldi iniziali versati ai membri fondatori: il 7,7% ad Arsenal, Bayern, Chelsea, Barcellona, Juventus, Liverpool, Manchester City, Man United, PSG, Real Madrid e Tottenham; il 3,8% a AC Milan, Atletico Madrid, Dortmund e Inter. Inoltre a Barcellona e Real Madrid venivano riconosciuti 60 milioni di euro extra per i primi due anni: «Barcellona e Real Madrid riceveranno l'importo fisso aggiuntivo di 60 milioni di euro ciascuno, pagabile in due rate uguali. A tale scopo, alla fine della prima stagione di Super League e alla fine della seconda stagione di Super League, a ciascuno dei due verranno pagati 30 milioni di euro». Forse è per questo che le due squadre. Ancora: ogni club s'era accaparrato il diritto a trasmettere 4 partite in diretta ma solo sulle sue piattaforme - sito web, tv, e app - il che avrebbe garantito entrate extra.

(ANSA il 24 aprile 2021) "La società esiste e anche i partner che compongono la Superlega. Quello che abbiamo fatto è stato concederci qualche settimana per riflettere sulla virulenza con cui alcune persone che non vogliono perdere i propri privilegi hanno manipolato il progetto": Florentino Perez insiste e in un'intervista al quotidiano sportivo spagnolo As torna sul tema che agita da giorni il mondo del calcio. E ribadisce di non avere paura delle "minacce" del Presidente dell'Uefa Aleksander Cerein, che lui ritiene armi spuntate: " Siamo stati costretti ad andare in tribunale (a Madrid, ndr), che ha emesso un provvedimento cautelare che dice tutto. Ordina a Uefa e Fifa, nonché alle leghe e federazioni nazionali, di astenersi dall'adottare qualsiasi misura o azione, dichiarazione o comunicazione che impedisca la preparazione della Superlega. A mio parere, quella sentenza pone fine al monopolio dell'UEFA" spiega Perez. A proposito del contratto vincolante formato dai 12 club con la Superlega e di eventuali penali, Perez ha detto di non voler fornire dettagli, limitandosi ad aggiungere che " i club non possono uscire. Alcuni, sotto pressione, hanno dovuto dire che se ne stanno andando. Ma questo progetto o un altro molto simile andrà avanti, e spero presto". Secondo il presidente del Real Madrid il calcio non può aspettare "fino al 2024. Forse la soluzione sarebbe coinvolgere le prime quattro di ogni Paese, di certo c'è che 4 miliardi di persone seguono il calcio e la metà di loro tifano per club della Superlega". Poco prima, in risposta a un'altra domanda, aveva detto che "nei tre mesi di pandemia che ha colpito la scorsa stagione, i 12 club della Superlega hanno perso 650 milioni. Quest'anno, con la piena stagione della pandemia, le perdite andranno tra i 2.000 e i 2.500".

Giulia Zonca per “La Stampa” il 24 aprile 2021. È il giorno delle clausole. Quelle che l'Uefa studia per vincolare ogni singola società a uno statuto a prova di fuga. Quelle che Florentino Perez rinfaccia a chi ha affondato la Superlega e che secondo lui varrebbero 300 milioni. Quelle che la Jp Morgan, la banca che era pronta a finanziare il progetto con 3, 5 miliardi, ormai rifiuta di riconoscere: «Abbiamo calcolato male le conseguenze nella comunità del calcio». Ancora ieri centinaia di tifosi dell'Arsenal dimostravano davanti allo stadio chiedendo all'attuale proprietà di andarsene. Il pallone torna sulla terra e il primo esecutivo Uefa dopo la tormenta ha toni molto più bassi di quelli annunciati. Non è finita proprio qui, ma gli strascichi non possono trasformarsi in un contrasto che paralizzi il sistema. Rummenigge, rappresentante dell'Eca, l'associazione dei club, è il più convinto portatore di pace. Lui ha il coraggio di dire che i problemi economici restano, che le grandi squadre indebitate non fanno bene a nessuno e bisogna dialogare. In realtà non ci sono falchi a contrastare la sua posizione, sono tutti in attesa di cambiare lo statuto in modo da bloccare definitivamente le smanie espansionistiche. I legali sono al lavoro e il risultato di questi nuovi legami giuridici sarebbero la vera punizione per i ribelli: addio sogni di golpe.

«Conseguenze per i dirigenti». Circolano ancora frasi del presidente Ceferin contro i club che non si arrendono «o dentro o fuori e chi non si vede dentro l'Uefa rischia la Champions, i dirigenti potrebbero subire alcune conseguenze», più che altro un promemoria a Barcellona e Real Madrid, ancora formalmente nella Super Lega fantasma e a Juve e Milan uscite ripetendo che il progetto resta valido. Qui si inserisce la frustrazione del gran capo del Real. Perez sostiene che le sei inglesi venendo meno al patto hanno impedito ai fondi di arrivare e chiede penali. In realtà l'accordo firmato dipendeva da diverse condizioni che non hanno avuto materialmente il tempo di concretizzarsi. La disputa può andare avanti per sempre. Capire chi ha staccato la spina ormai non sposta la prospettiva. Rimane uno sprofondo rosso nei bilanci e per rendere virtuoso uno schema allo sbando serve ristabilire l'equilibrio. Magari evitando le ipocrisie del passato. Lo sanno tutti, aldilà delle minacce che restano nell'aria.

Stefano Scacchi per “La Stampa” il 24 aprile 2021. La ramanzina è stata durissima, ma le punizioni sono state rimandate alla prossima interrogazione. È andata così la prima assemblea formale della Serie A dopo la baraonda continentale della Super Lega. Il presidente Paolo Dal Pino ha avuto parole molte severe per Inter e Juve: «Ci sono state figure che di giorno tessevano la tela nell'interesse della Lega e di notte la smontavano», ha detto il manager lombardo riferendosi ad Andrea Agnelli, che ieri non era nemmeno collegato alla riunione. Il proprietario bianconero è finito sul banco degli imputati perché ha lavorato alla nascita della Super Lega, nonostante fosse componente della commissione della Serie A per trattare con i fondi Cvc, Advent e Fsi. Un'operazione inizialmente appoggiata dalla Juventus, poi passata all'opposizione a causa della clausola decennale anti-Super Lega voluta dal consorzio finanziario. La stessa retromarcia innestata dall'Inter. Bianconeri e nerazzurri hanno sottoscritto anche la richiesta di dimissioni di Dal Pino, assieme a Napoli, Fiorentina, Lazio, Verona e Atalanta. Più sfumate le critiche alla terza italiana presente tra i fondatori della Super Lega, il Milan, proprio per la mancata partecipazione a queste due manovre. Ma i club più arrabbiati hanno chiesto le dimissioni di Paolo Scaroni da consigliere di Lega (tra i firmatari della creazione del torneo separatista in qualità di presidente rossonero), oltre che quelle di Beppe Marotta da consigliere federale. Lo hanno fatto Sampdoria, Genoa, Roma e Torino. Vogliono tornare sull'argomento anche Napoli e Udinese. Sarà fatto in una prossima assemblea con la questione all'ordine del giorno. Assente il patron bianconero Intanto JP Morgan, l'anima finanziaria della Super Lega, ammette di «aver chiaramente valutato male come questo accordo sarebbe stato considerato dalla comunità calcistica. Impareremo da tutto questo». Uno sconcertante errore strategico, condiviso dagli stessi fondatori nelle analisi successive al fallimento. Secondo alcuni dirigenti della dozzina scissionista, l'autogol fatale è stato quello di non anticipare il progetto nemmeno ai politici. Curioso notare che, secondo il settimanale tedesco Der Spiegel, la Juventus avrebbe incassato il doppio di Inter e Milan: 7,7% dei ricavi per i bianconeri, 3,8% per le due milanesi, le meno remunerate al pari dell'Atletico Madrid. E per le prime due stagioni Barcellona e Real Madrid avrebbero ricevuto più soldi delle altre dieci. Non a caso sono i due club che non si arrendono.

Dagotraduzione da Axios il 26 aprile 2021. Una delle risposte popolari alla spettacolare fine della Super League europea è stata quella di incolpare gli americani. Quattro delle 12 squadre fondatrici, infatti, sono di proprietà di americani, la banca americana JPMorgan è stata coinvolta per finanziare il progetto e il formato «chiuso» ricorda i campionati sportivi americani. I giornali poi hanno titolato così: «Le origini sportive statunitensi della Super League europea» (Wall Street Journal); «La Super League ha fallito perché ha spinto il sistema socialista americano» (Business Insider); «Rovinare il calcio, in stile americano» (New York Times). Sì, ma: mentre Stan Kroenke (Arsenal), John Henry (Liverpool), Paul Singer (AC Milan) e i Glazers (Manchester United) meritano la stessa colpa degli altri miliardari che hanno covato questo epico fallimento, il concetto stesso di Super League è in realtà abbastanza antiamericano. La Super League è più analoga a un torneo post-stagione che a un campionato. La proposta non avrebbe eliminato promozione e retrocessione; semplicemente avrebbe cambiato chi fa il torneo. Come l'attuale Champions League, la Super League avrebbe piazzato i migliori club europei in una competizione con fasi a gironi/eliminazione diretta ogni anno. A differenza della Champions League, avrebbe garantito posti alle squadre più ricche e dominanti d'Europa, piuttosto che farle qualificare come tutte le altre finendo vicino alla vetta dei loro campionati nazionali. Tra le righe: conosci qualche importante campionato sportivo statunitense che garantisce posti per i playoff alle sue squadre più ricche e di maggior successo senza che debbano guadagnarselo ogni stagione? Neanche io. In effetti, uno degli elementi distintivi del gioiello della corona americana, la NFL, è la difficoltà per le squadre di fare costantemente la postseason. March Madness, un altro fenomeno americano, è sinonimo di miracoli e disastri, due cose che il modello della Super League avrebbe sostanzialmente eliminato. Mettiamola così: lo sport statunitense è abbastanza socialista, mentre il calcio europeo è puro capitalismo. Dieci club diversi hanno vinto la Coppa MLS negli ultimi 15 anni, il tipo di parità che gli americani amano. Il modello della Super League era fondamentalmente contrario a quel concetto e raramente si trova nel calcio europeo. «Siamo la versione nordamericana del gioco globale», mi ha detto all'inizio di questo mese il commissario della MLS Don Garber. «All'inizio siamo stati criticati per questo, ma penso che ora le persone accettino che questa sia la strada per il successo qui». «Non puoi comprare il successo in MLS - devi guadagnartelo. E penso che sia la quintessenza del modo americano. Il fatto che all'inizio di ogni stagione, ogni tifoso e ogni giocatore creda di poter vincere il campionato». Il quadro generale: la quantità di influenza americana sulla Super League europea è discutibile. Ciò che non è discutibile è che gli americani hanno, sempre più, influenza in Europa. Secondo Bloomberg, gli americani possiedono circa un quinto delle migliori squadre nel Regno Unito, in Francia e in Italia. MLS gioca un ruolo più importante nell'ecosistema calcistico globale ora che è un campionato di vendita legittimo (cioè le squadre sviluppano giovani talenti e vendono quei giocatori a club ricchi all'estero per un profitto). Garber fa parte del Football Stakeholders Committee della FIFA e co-presiede il World Leagues Forum , che rappresenta i campionati nazionali. Conclusione: non incolpare l'America per la Super League. Incolpare i proprietari avidi, un terzo dei quali è americano.

Massimo M. Veronese per “il Giornale” il 26 aprile 2021. Superlega o Superflop le resistenze al nuovo che avanza, va detto, ci sono sempre state, anche ai limiti del comico. Quando ai tempi delle maglie rigorosamente dall'uno all'undici, senza nome, senza sponsor e con le squadre senza panchinari, venne proposta la novità del portiere di riserva i portieri titolari la presero come un gol sotto le gambe. «Così sarà un campionato falsato - esagerò Giorgio Ghezzi che insieme a Lorenzo Buffon era il migliore del mazzo - perchè una squadra con due bravi portieri ridurrà al minimo gli effetti della giornata negativa di uno dei due». Spiegazione spericolata come le sue uscite. E Pierluigi Pizzaballa si dichiarava terrorizzato dall'idea di avere un secondo: «Non andremo più in campo tranquilli sapendo di avere alle spalle un collega pronto a rubarti il posto al primo errore» Fanno, con il senno di poi, una certa tenerezza. Ma tutto cambia soprattutto le idee dei calciatori. Se ieri si dichiaravano conservatori e custodi dell'ortodossia, oggi si professano rivoluzionari e sovvertitori di ogni legge. Tranne poi gridare allo scandalo, alla Purezza violentata e alla Passione tradita se metti su una Lega fondata sul denaro e sullo spettacolo che non c'è. Marco Van Basten, per esempio, ha appena proposto di abolire il fuorigioco. «Senza ci sarebbero più gol, emozioni e spettacolo: il calcio sarebbe migliore». Anche Zibi Boniek è convinto che il calcio si migliori per sottrazione: vuole cancellare il valore doppio del gol fuori casa nelle coppe, nato per dare un taglio a doppi confronti che si allungavano con le «belle» e partite decise da una monetina. La proposta: vinca chi segna di più quanto dura dura. In decenni e decenni sono stati tanti i tentativi di «far più bello il calcio» quando il calcio è bello perché è così. E molto si è perso per strada per sostituire alla narrativa il marketing, nell'indifferenza, o nell'interesse, dei Savonarola di oggi. Via per esempio i numeri dall'uno all'undici, ognuno dei quali rappresentava una conquista prima di uno status. Il dieci era il Dieci: Rivera, Platini, Maradona, il ventuno il nulla anche se sulle spalle lo ha messo Ibrahimovic. Via i due punti per la vittoria, anche se le classifiche sono più o meno uguali a prima, via il confortevole passaggio indietro alle mani dei portieri, via i pali quadrati e i loro spigoli così poco democratici sui rimbalzi, via le maglie senza nome, poco disponibili a offrirsi al merchandising. Non contenti abbiamo eliminato la Coppe delle Coppe, che era bellissima, non come la nuova Europa Conference League, e il 13 al Totocalcio che era una fiction mozzafiato a puntate. Soprattutto i campionissimi si sono esibiti nella gara masochista di fare e rifare il lifting al calcio quando ci sarebbe sempre piaciuto acqua e sapone. Franz Beckenbauer propose di giocare in dieci contro dieci: meno giocatori uguale più gol. Poi sul quotidiano tedesco Bild ne sparò un'altra: «Perchè non dare punti ai gol segnati invece che alle vittorie e ai pareggi?». Convennero in molti che trattavasi di idee del Kaiser. Pelé invece accompagnò le sue proposte con un sermone: «Il calcio va a rotoli per la fossilizzazione delle sue regole: è inammissibile che il primo sport del mondo si giochi ancora come quando fu inventato in Inghilterra». E quindi? «Le rimesse laterali facciamole con i piedi e via le barriere dalle punizioni che sono un'aberrazione». Per infierire, con l'allenatore del Cosmos, Julio Mazzei propose di dividere la partita invece che nei tradizionali due tempi di 45 minuti in quattro tempi da venticinque, cioè 100 minuti di gioco al posto dei soliti 90. Per garantire allo sponsor, come fanno gli americani, spazi per pubblicizzare la bottega. Chi le sparava più grosse però era il vecchio Blatter: «Allarghiamo i pali delle porte e alziamo la traversa» buttò lì una volta. Poi propose di non suonare più gli inni nazionali perché fomentavano sugli spalti, secondo lui, disordini sovranisti che non ci sono mai stati. E basta con i pareggi: «Se c'è parità si vada ai rigori» tuonò. Rigori che il presidente dell'Uefa Johansson vedeva come fumo negli occhi, tanto da sostituirli per un po' con il Golden gol, la rete assassina che uccideva le partite. Regola che Berti Vogts, con l'eleganza che gli era nota, definì una «totale idiozia». All'International Board della Fifa, cioè i custodi del Calcio che tanto si sono indignati per la sovversiva Superlega, ne hanno inventate di ogni tipo: dalla proposta di sostituire i rigori dopo i supplementari con una punizione dal limite senza barriera al rigore corto con dischetto a 9 metri; dal doppio arbitro in campo all'arbitro elettronico che tutto vede e tutto sa; dal corner corto alle punizioni sempre dirette. E via i supplementari: cioè partita e subito rigori. Tutte idee spedite in tribuna con un calcio. E cosa dire del Brasile che con il Clube 13, l'associazione dei 13 maggiori club, puntò a costruire un campionato senza retrocessioni, cioè quello che Peres e Agnelli volevano in Europa, e della vecchia Unione Sovietica che cercò di eliminare per sempre i pareggi? Gli indignados ora cambieranno ancora le regole su falli di mano e fuorigioco. Sempre, ovvio, per rendere bello ciò che è bello così. E che, da sempre, avrebbe un'unica regola, la regola Boskov: «Per vincere partita, bisogna solo fare più gol...»

Da ilnapoilsta.it il 26 aprile 2021. El Paìs dedica un articolo ad Andrea Agnelli, titolo: “Una macchia sulla leggenda Agnelli”. Il corrispondente del quotidiano spagnolo, Daniel Verdù, si sofferma su uno dei principali protagonisti del disastro Superlega. E ricorda che ci sono dubbi sulla pazienza di John Elkann nei suoi confronti. È l’unico della sua generazione che è riuscito a perpetuare il nobile cognome, ma le sue imprese – né il suo fisico – non sono mai state le più straordinarie della famiglia. La Superliga, in cui Florentino Pérez si è imbarcato, è stata l’occasione per lasciare il segno con un progetto che avrebbe rivoluzionato lo sport. El Paìs lo definisce “un personaggio minore della dinastia”, messo alla Juventus anche perché "all’inizio del secolo la famiglia si era stancata dei manager esterni e aveva scommesso sulla linea di sangue per riportare la squadra in alto. Fino a questa settimana, Andrea aveva credito. Ha preso la Juve in Serie B per le colpe di Luciano Moggi, oggi è il presidente più vittorioso nella storia del club con 18 trofei in 10 anni. Nove scudetti di fila e due finali di Champions. Al di là del trauma di non aver vinto le due finali, le cose stavano andando ragionevolmente bene. Ma lui voleva di più. E ora la situazione si è fatta difficile". Sembra difficile – ricorda El Paìs – che la Juve possa svolgere un ruolo nell’evoluzione del calcio fin quando ci sarà Ceferin alla presidenza della Uefa. "Andrea Agnelli ha sempre desiderato essere all’altezza della leggenda del suo cognome. La Super League è stata la grande occasione per lasciare il segno. Anche per il prossimo aumento di capitale del club. Coloro che lo conoscono dicono che la famiglia era stata informata dell’operazione e l’aveva approvata. Non ci dovrebbero essere avvicendamenti". Il quotidiano scrive che "l’idea generale in Italia è che Agnelli, che da tempo cospirava segretamente, sia entrato in un’impresa troppo grande anche per il suo cognome. Mentre Florentino Pérez non è stato nemmeno spettinato da quel che è accaduto, al presidente della Juventus potrebbe costare la carriera". E cita l’intervista a Repubblica in cui Agnelli ha sottolineato che c’era un “patto di sangue” tra tutte le squadre della Superliga quando invece in sei (su dodici) avevano già abbandonato. “Un’intervista che compromette la leggenda”.

DAGOREPORT il 24 aprile 2021. Milano. Davanti alla storica sala da the “Sant Ambroeus”, Urbano Cairo può festeggiare con un caffè all’aperto il fallito golpe della sporca dozzina capeggiata da Florentino Peréz e Andrea Agnelli. Anche il sogno della superlega dei ricchi svanisce nelle ombre notturne di un martedì che ha trasformato il principino azzurro della pedata sabauda, il nipote dell’Avvocato, in un triste Calimero bianco-nero. Il presidente del Torino calcio è stato tra i primi a salire sulle barricate per impedire che a pagare i danni dell’operazione fosse il campionato di serie A. Mettendo a disposizione tutta l’artiglieria del “Corriere della Sera” di cui è l’amministratore delegato. Compreso il generale degli editorialisti, Ernesto Galli della Loggia, che ha sguainato la sciabola dell’identità italica dei tifosi in difesa degli interessi dei piccoli club (e di Urbanetto, of course). Sempre nella città del Duomo, in piazza del Carmine l’amministratore delegato dell’Inter, Beppe Marotta (Giuda), parla al telefono con Adriano Galliani, smagrito dopo l’infezione da Covid, per confermargli che si dimetterà da consigliere della Federcalcio dove rappresenta la serie A. Forse i due si vedranno a colazione al ristorante “il Consolare” in via Ciovasso ch’è la mensa del senatore di Forza Italia nonché patron con Berlusconi del Monza calcio. Paolo Scaroni, l’altro golpista di sponda milanista, manda messaggini di riconoscenza ad Urbano Cairo - che comunque ne chiede le dimissioni da consigliere della Lega retta dal contestato Paolo Dal Pino -, che sulla partita dei fondi, almeno rispetto al giovane Agnelli, non avrebbe “sabotato” l’operazione (dubbia) che avrebbe portato nelle casse del calcio (malato) quasi 2 miliardi di euro. A Milanello, Paolo Maldini, direttore tecnico del Milan, tenuto all’oscuro dell’operazione boomerang, chiede scusa ai tifosi. In Piazza Affari, il finanziere di lungo corso cita Carlo Marx per commentare lo “sputtanamento” di JP-Morgan dopo la Caporetto dei protagonisti della Superlega:” Vabbè, come sostiene l’economista di Treviri, che il denaro è la fusione delle cose impossibili, ma la banca d’affari americana ha agito come un mediatore di bestiame che al momento dell’acquisto ha visto le bestie fuggire dalla stalla”. Poi aggiunge: “Per capire che si trattava solo di una arrischiata operazione finanziaria e non di un aiuto al sistema calcio, bastava sfogliare i nomi dei suoi improvvidi protagonisti. Tutti legati al mondo dei soldi mordi&fuggi in cui operano i fondi speculativi d’investimento sulle piazze straniere: da Andrea Agnelli a Paolo Scaroni”. “Scaroni – aggiunge il nostro interlocutore - è un ex McKinsey con incarichi alla Rothschild il quale, attraverso la Elliot di Paul Singer, ha prestato i denari ai cinesi per acquistare a caro prezzo dalla Fininvest di Berlusconi il Milan. Un intervento-carambola dai lati oscuri se ancora non conosciamo qual è la vera proprietà del club. Inoltre – conclude – anche l’amministratore dell’Inter, Ivan Gazidis, è un ex legale di punta dello studio Latham&Watkins” che ha lavorato a Londra con gli americani della Kroenke Sports&Entertaiment. Si tratta dei multimiliardari Josh e Stan Kroenke, che hanno acquistato l’Arsenal affidandolo nelle mani dell’avvocato Gazidis. Tutta gente che non conosce per missione cos’è la beneficenza o la filantropia…”. Con immaginabili conflitti d’interesse? “Sicuramente. A guidare la Superlega è stato nominato segretario generale il banchiere Anas Laghrari, che viene da Key Capital ed è socio in affari di Florentino Peréz…”. Lo smacco mondiale subito da JP-Morgan, dopo la Caporetto della Superlega e in attesa di probabili cause milionarie hanno avuto come effetto immediato il suo declassamento dalla Standard Ethics. L’ agenzia di rating indipendente sulla sostenibilità con sede a Londra da un eccellente “E+” la retrocessa a “EE- “. E in piazza Affari e nelle law firm tutti si domandano cosa accadrà per effetto a catena del naufragio della Superlega. Le federazioni calcistiche hanno già minacciato di citare in giudizio per 50-60 miliardi i club scissionisti. E anche le società che hanno i diritti televisivi potrebbero chiedere i danni economici e d’immagine dopo l’affondamento del Titanic pilotato da Perèz e Agnelli contro un iceberg ben visibile prima ancora del suo varo in mare. Al Royal Golf “I Roveri”, immerso nel parco di Venaria, amato anche dai Savoia per le loro battute di caccia, i soci non svelano meraviglia per la caduta dell’ultimo rampollo della dinastia che sul blasone ha inciso il cognome degli Agnelli. “Povera Allegra, quel suo figliolo Andrea continua a dargli più dispiaceri che gioie”, sospira la madamin sfiorando la pallina con il suo ferro sul green de “La Mandria”. Allegra Caracciolo di Castagneto oltre che presidente del club di famiglia (attraverso la Newco Roveri srl in cui da azionista è entrato Michele, il figlio di Antonio Giraudo) è anche la mamma di Andrea dopo il matrimonio in seconde nozze con Umberto Agnelli. “Sa qual è il peggior difetto del giovane Andrea? Pensare di avere lui generato i propri antenati”, mi congeda gentile e perfida la madamin. Nell’anno horribilis del Calimero bianco-nero (naufragio della Superlega, uscita dalla Champions, fallimento del settimo scudetto, “caso” dell’acquisto di Suarez con pendenza penale a Perugia, crollo in borsa della Juve), la chioccia Allegra continua a difenderlo dalle maldicenti annidate anche nel suo club. Qui alle “Mandrie” tutti ricordano, sia pure sottovoce, le cattive amicizie di Andrea, che per tutori-custodi, raccontano alzando il ciglio di raccapriccio alcuni soci, ha avuto Antonio Giraudo e Luciano Moggi. L’ex presidente della Juventus e il direttore sportivo del club sanzionati pesantemente e interdetti dopo lo scandalo Calciopoli. Per non dire delle sue frequentazioni con Matteo e Mario Ginatta, con il maggiore condannato a 8 mesi nello scandalo delle baby prostitute. Ma a finire nei guai (e in carcere) c’è Roberto Ginatta il capostipite della che sin dai tempi di Umberto è legato a doppio filo agli Agnelli. E anche nel crac Bluetec, per riconvertire a Termine Imerese in elettrico lo stabilimento della Fiat, hanno unito i loro destini (economici) attraverso la Investimenti industriali spa condotta da Francesco Roncaglia, che siede anche nel cda della Juventus. Ma i soldi concessi dallo stato attraverso Invitalia di Arcuri (16,5 miliardi), per i magistrati sarebbero stati distratti. Dei rapporti tesi tra Andrea e il cugino John Elkann, che l’ha scavalcato nella successione alla poltrona dell’Avvocato, a Torino si sprecano le voci. E molti s’interrogano se anche nell’intervista-bidone, quando già era data per seppellita la Superliga dei ricchi e famosi, rilasciata da Andrea alla “Repubblica” (su imput di Yaki al direttore Molinari?) - quella per intenderci del “patto di sangue -, non ci sia lo zampino del numero uno di Exor. C’è chi giura che sia stata una trappola. Come mai il giornale di famiglia (gruppo Gedi) non l’ha “ribattuta”, cioè aggiornata e modificata, dopo la fuga dei club inglesi? La risposta si tinge di giallo: “Yaki si è reso irreperibile e il tapino Molinari si è ritrovato con il cerino acceso in mano esponendosi a una figuraccia, quella sì memorabile”. Del resto, non è la prima volta che Andrea resta vittima delle sue interviste. Nel 2005 alla vigilia dell’assemblea dell’accomandita che controllava la Fiat (Ifil) per riportare gli Agnelli sopra il 30%, il figlio di Umberto espresse alla “Stampa” la sua contrarietà all’operazione suggerendo la costituzione di una public company che avrebbe, di fatto, sbarrato la strada alla successione al vertice di John Elkann. Ma il giorno dopo il quotidiano torinese con un gelido comunicato sottolineava che “Andrea Agnelli aveva espresso posizioni personali e che all’Ifil era in carico come stagista”.

Atalanta, la vera storia: così la Dea è diventata grande con i soldi facili delle "ribelli". Alessandro Dell'Orto su Libero Quotidiano il 24 aprile 2021. L'impresa più straordinaria dell'Atalanta non è essersi qualificata due volte di fila in Champions League né poi essere arrivata ai quarti e agli ottavi, non è giocarsi la finale di Coppa Italia per la seconda volta in tre stagioni e non lo è nemmeno essere considerata - dai tecnici delle big europee - una squadra da evitare e da Ceferin - presidente dell'Uefa - una squadra modello. No. L'impresa più straordinaria dell'Atalanta è aver fatto tutto ciò in sole cinque stagioni. Cin-que. Già, nel campionato 2015-16 - praticamente l'altro giorno, non una vita fa - il club nerazzurro, allora guidato da Reja e con in rosa dieci giocatori poi diventati importanti nel boom (tra loro quattro titolari della super Dea di adesso: Toloi, Freuler, de Roon e Djimsiti) si classificava al tredicesimo posto e festeggiava il raggiungimento dell'obiettivo di quel momento: la salvezza. Pazzesco. Ma cosa è cambiato da allora a Bergamo? Cosa è successo? Come è nata questa Atalanta esaltante? La scintilla magica è stato l'incontro tra due geni del football: Antonio Percassi e Gian Piero Gasperini. Il primo, imprenditore sempre avanti nel tempo, si è completato con il secondo, un allenatore rivoluzionario e d'attacco. Ne è nato un mix di idee, progetti, coraggio che ha trasformato il provincialotto calcio bergamasco di quegli anni in una filosofia pallonara europea - la più europea d'Italia - e vincente. Il modello di lavoro è fin troppo semplice da raccontare e banale da pensare: giocare bene, puntare su calciatori del vivaio e sconosciuti potenzialmente bravi, valorizzarli, rivenderli a cifre altissime e poi, con i soldi incassati, ripartire da capo alzando sempre più il livello degli acquisti e di conseguenza della squadra. Con un piccolo particolare: nel frattempo bisogna vincere e divertire, stupire e crescere in personalità e mentalità. A Bergamo è andata - e sta ancora andando - più o meno così ed è per questo che il club nerazzurro sta entrando nella storia (bergamasca e non solo). E sta facendo scuola. Sì, perché i grandi club hanno qualcosa da imparare da questa gestione che dimostra come sia possibile ottenere risultati e fare quattrini. Se ci pensate bene, la fortuna dell'Atalanta sono stati proprio quei club che - messi alle strette dai debiti e dai bilanci soffocanti - hanno cercato di rifugiarsi nella Superlega, società che forse avrebbero potuto evitare la figuraccia se avessero investito meglio prima, senza sperperare troppo.  Tradotto: se l'Atalanta è una grande realtà, in salute e vincente, il merito è proprio di chi l'hanno fatta crescere economicamente strapagando, spesso più del dovuto, i giocatori nerazzurri. Il Milan dalla Dea ha acquistato Kessie (24 milioni) e Conti (24), la Juve ha preso Caldara (19) e Kulusevski (35), l'Inter si è accaparrata prima Gagliardini (20) e poi Bastoni (31), il Manchester United ha scommesso su Diallo (21). Tutti bravi calciatori, alcuni bravissimi. Ma che forse, in certi casi, i grandi club avrebbero potuto scovare prima e poi crescere in casa. Proprio come fanno da cinque anni quei geni di Percassi e Gasperini. 

Marco Guidi per gazzetta.it il 18 agosto 2021. Papu Gomez rompe il silenzio sulle ragioni che lo hanno portato a dire addio all’Atalanta, il suo paradiso da capitano e leader della squadra. L’argentino lo fa in una lunga intervista a "La Nacion", in cui tesse le lodi di tanti amici e compagni, da Messi ("Un capitano vero e la persona più semplice che conosca") al Cuti Romero ("Un fenomeno, un autentico crack"). La nota dolente arriva quando si parla della Dea e di Gian Piero Gasperini. Il Papu ricostruisce la dinamica della separazione, passo per passo, partendo da ciò che successe nella partita di Champions a Bergamo contro il Midtyjlland. "Sbagliai anche io, perché non obbedii a una consegna tattica. Mancavano 10 minuti alla fine del primo tempo, Gasperini mi chiese di spostarmi sulla destra, ma io stavo giocando benissimo a sinistra. Così gli risposi di no. Immaginate che significa, sul campo oggi, con tutte le telecamere. Sapevo che l’allenatore si sarebbe arrabbiato, che mi avrebbe tolto all’intervallo e in effetti fu così. Ma quello che successe poi nello spogliatoio valicò ogni limite". Gomez lo racconta dal suo punto di vista, senza peli sulla lingua, per la prima volta. "Gasperini tentò di picchiarmi. Ok discutere, ma un’aggressione fisica non la posso accettare. Così, dopo questo fatto, chiesi ad Antonio Percassi un incontro e gli spiegai che per me non c’erano problemi a continuare assieme, ammettendo anche le mie colpe: come capitano non mi ero comportato a modo, ero stato un cattivo esempio non obbedendo a un’indicazione dell’allenatore. Però chiesi al presidente che per andare avanti avevo bisogno delle scuse di Gasperini. Una società non può tollerare che il tecnico provi ad aggredire un calciatore". Insomma, c’erano elementi per riportare la pace. Ma non fu così. Il Papu continua nel suo racconto: "Il giorno dopo ci fu una riunione di tutta la squadra. Io mi feci avanti e chiesi scusa a tutti: allenatore e compagni. Gasperini, però, non proferì parola. Ma come? Io riconosco di essermi comportato male e quello che ha fatto lui? Andava bene, nessuna scusa? Dopo qualche giorno comunicai a Percassi che non volevo più stare all’Atalanta e lavorare con Gasperini, se le cose stavano così. Il presidente mi rispose che non mi avrebbe lasciato andare via così a cuor leggero. Cominciò il tira e molla, le cui conseguenze le ho pagate sulla mia pelle: mi misero fuori squadra, ad allenarmi da solo o con le riserve". Da capitano a separato in casa, il Papu Gomez ha vissuto un momento di buio che mai si sarebbe immaginato dopo 7 anni a Bergamo. "Dopo tutto quello che avevo fatto per il club… Sì, si comportarono male e non posso negarlo. Percassi non ha avuto le palle di chiedere a Gasperini di porgermi le sue scuse. Si sarebbe risolto tutto. Poi mi chiusero le porte del calcio italiano: ero il miglior centrocampista della Serie A e non volevano cedermi a una rivale diretta. Avevo offerte dall’Arabia e dagli Stati Uniti, volevano mandarmi per forza là. Grazie a Dio, alla fine spuntò il Siviglia. E’ stato fondamentale per me, perché volevo a tutti i costi giocare la Coppa America con l’Argentina e così è stato possibile". Ma chi tra Gasperini e i Percassi ha deluso di più l’ex capitano nerazzurro? "La proprietà del club. Dopo tanti anni insieme, con il bel rapporto che avevamo: i miei figli andavano a scuola con i bambini della famiglia Percassi, condividevamo un sacco di cose. Poi mi hanno gettato nella spazzatura. Una cosa che mi fa male ancora adesso. Con un allenatore è normale si possa litigare, sono cose che succedono spesso, anche in altri lavori capita. Ma la reazione della società mi fece soffrire sul serio". Gomez ha una sua ragione sul perché i Percassi si comportarono così: "Motivi economici. Gasperini è uno dei migliori allenatori d’Europa, che con il suo lavoro fa crescere il valore dei calciatori della rosa. Scelsero lui e non me, perché sapevano che avrebbe continuato a garantire loro soldi dalle cessioni dei calciatori". Il Papu ha però un ultimo pensiero per la gente di Bergamo: "Si merita di sapere la verità, per questo oggi ho voluto raccontarla. Ed è giusto anche per me. Da un giorno all’altro mi fecero sparire e l’intenzione era quella di addossarmi tutte le colpe. Volevano far credere che me ne andassi a Siviglia per i soldi. E’ ora che i tifosi dell’Atalanta sappiano come è andata".

LA RISPOSTA DI GASPERINI. DA gazzetta.it il 18 agosto 2021. Dopo le durissime parole del Papu Gomez a "La Nacion" ("Gasperini ha cercato di picchiarmi e Percassi ha scelto lui e non me"), ecco la replica del tecnico dell'Atalanta in esclusiva a Gazzetta.it. "I comportamenti - dichiara Gasperini - e gli atteggiamenti di Gomez, in campo e fuori, erano diventati inaccettabili per l’allenatore e per i compagni. L’aggressione fisica è stata sua, non mia, ma il vero motivo per cui è andato via da Bergamo è per aver gravemente mancato di rispetto ai proprietari del club. Mi auguro che Gomez possa continuare a far parlare di sè con le prestazioni, come faceva all’Atalanta".

Gasperini e l’Atalanta: le cose da sapere. Le scarpe di Causio, la lite col Papu Gomez, la moglie, lo sci e la meditazione. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 26 Dicembre 2021. Il tecnico nerazzurro ha cambiato il club e il modo di vedere il calcio in Italia, diventando un modello anche in Europa. Ecco i segreti dell’uomo partito dalle giovanili della Juve e arrivato al successo superando un fallimento pesante come quello con l’Inter post Triplete

Gasperini e la rivoluzione Atalanta

Ha rovesciato l’Atalanta, ha cambiato il modo di vedere il calcio a Bergamo, ne è divenuto il punto d’incontro di tutte le sue diversità. Gian Piero Gasperini e una rivoluzione, quella di un calcio diverso, aggressivo, asfissiante nella sua complessa perfezione. In Europa il Gasp ha sorpreso tutti come forse il primo Guardiola. Ma chi è l’allenatore che ha portato l’Atalanta nella cerchia delle grandi, allo stesso tavolo di Inter, Milan e Juventus? Quali sono i segreti dell’uomo partito dalle giovanili del club bianconero, che ha superato un fallimento pesante come quello con l’Inter post Triplete? 

Gasperini e il legame a Grugliasco

Gasperini è nato a Grugliasco, cinque chilometri da Torino. Tuttora ci torna ogni volta che può. È legatissimo al suo paese, alle cascine, ai vecchi amici. Ha ancora la casa di via Don Caustico, dove è cresciuto e ha tirato i primi calci al pallone, nel prato lì accanto, e dove è andato alle scuole elementari, al villaggio Leumann, fondato dall’imprenditore tessile svizzero Napoleone Leumann. I genitori di Gian Piero — il papà Giuseppe lavorava in una fabbrica dell’indotto Fiat dove si producono freni e frizioni, la mamma Antonietta era commerciante — non ci sono più, ma a Grugliasco vivono ancora la sorella Susanna e alcuni zii.

Il mito Anastasi

Da bambino, a 10 anni, va con il papà allo stadio a vedere la Juventus e si innamora di Pietro Anastasi: decide di voler diventare come lui, da grande. A notarlo, giovanissimo e talentuoso, è Mario Pedrale, che lo porta nel settore giovanile dei bianconeri, in cui rimane fino all’età di 19 anni.

La leggenda delle scarpe di Causio

Gasperini, raccontano, ai tempi della Juve aveva lo stesso numero di scarpe di Franco Causio. Così leggenda vuole che fosse obbligato a portare al piede le scarpe del Nazionale azzurro, in modo da fargli prendere la giusta forma. Come calciatore non sfonda, lui stesso si è definito in seguito «un centrocampista rapido e tecnico, oggi si direbbe con buoni tempi di inserimento. Ma per arrivare ad altissimi livelli mi mancava una certa fisicità».

La moglie che lavora a scuola

Si è sposato nel 1980 con Cristina. Hanno avuto due figli, Davide e Andrea, che oggi vivono a Torino, lontani dal mondo del calcio. Lei, Cristina, lavora a scuola ed è la perfetta metà di Gian Piero: lo segue ovunque, sempre tranquilla, parla poco. Stempera il fuoco del marito.

Appassionato di montagna

Gasperini è un appassionato della montagna ed è un ottimo sciatore. Ci va soprattutto d’inverno, spesso vicino Bergamo, a Montecampione o Ponte di Legno.

La sua Bergamo

Vive molto la città, Gasp. Lo si trova spesso a cena fuori, o al bar per un aperitivo. Quando non è a Zingonia, il centro sportivo dell’Atalanta, una sorta di seconda casa, Gian Piero frequenta Bergamo bassa, zona Piazza Pontida, e in città alta il Caffè del Tasso, il suo preferito. Se non con la moglie, spesso va a cena fuori con il vice Tullio Gritti, che oltre a lavorare con lui è suo grande amico.

Il modello Ajax

La difesa a 3, un mantra per Gasp. Ispirato dall’Ajax, da sempre per lui un modello da seguire, anche per come lancia e valorizza i giovani. «Anni fa vidi gli allenamenti dell’Ajax e il loro 3-4-3. Resta un punto di riferimento — ha raccontato in un’intervista di qualche anno fa al Corriere— ma sui numeri ci si sofferma troppo: il problema è che i giocatori si muovono…». E ancora: «L’Olanda e l’Ajax hanno sicuramente influenzato il mio modo di vedere il calcio, a un certo punto non ci si inventa più niente — ha detto a Sky —. Si può fare tutto e giocando insieme più anni diventa più semplice. Le soluzioni le vedo in campo con i giocatori. Per esempio Demiral ha fatto un gol da centravanti, ovviamente bisogna portarlo lì davanti con i modi giusti».

Il branco di lupi

Innovativo e unico non solo dal punto di vista tattico. Gasperini lavora molto sulla testa dei suoi calciatori. Le pareti dello spogliatoio dell’Atalanta sono piene di aforismi, proverbi e frasi motivazionali. Gasp ne ripete spesso una di Michael Jordan: «Ventisei volte mi sono preso la responsabilità dell’ultimo tiro e ho sbagliato. Ho fallito più e più volte nella mia vita. Ed è per questo che ho avuto successo». Poi una metafora, legata ai lupi: «Ho appeso nello spogliatoio una foto di un branco di lupi. Ce ne sono un po’ più avanti, altri nel mezzo e uno in fondo, solo — ha raccontato in una recente intervista al Guardian —. Quelli in primo piano sono quelli che dettano il ritmo, che impostano il gioco. Quelli appena dietro sono quelli più forti, che difendono il gruppo dagli attacchi, così che quelli in mezzo siano sempre protetti. L’ultimo, invece, è il capo e si assicura che nessuno venga lasciato indietro. Tiene il gruppo unito e corre sempre ovunque. Il messaggio è che un leader non si limita a stare in prima linea, ma è quello che si prende cura della squadra. È questo che voglio dai miei giocatori».

Commentatore in tv

C’è anche un Gasperini per i più inedito, commentatore in televisione. Nel 2010, Mondiale in Sudafrica, l’attuale allenatore dell’Atalanta è opinionista in studio a Johannesburg per la Rai. Un’esperienza che ripete per gli Europei 2012, sempre con la Rai. In quel periodo lo si trova anche in telecronaca, voce tecnica, per la partita di Champions League tra Milan e Barcellona.

I litigi e il caso Papu Gomez

Gasperini esalta i propri calciatori, li valorizza. Ma chiede loro impegno e sacrificio in allenamento. Anche per questo, negli anni, ha litigato con alcuni di essi. Nell’estate del 2019 a Bergamo arriva l’ex Liverpool Martin Skrtel: il difensore slovacco dura poche settimane, non regge i ritmi di Gasp, con cui si becca diverse volte. Alla fine rescinde il contratto. Poi il Papu Gomez, che ha lasciato il club nerazzurro in fretta e furia, lo scorso inverno. Una volta al Siviglia, l’argentino ha raccontato di essere stato aggredito fisicamente da Gasperini dopo una partita di Champions League, quella contro il Midtjylland. Il tecnico ha risposto dandogli del bugiardo.

La meditazione

Anche in panchina difficilmente Gasperini riesce a contenere il suo fuoco. Spesso si arrabbia con i suoi giocatori, a volte con gli arbitri. «Riconosco il mio difetto, ma il calcio è il nostro Colosseo, tira fuori istinti eccessivi e a volte ti fa sclerare. Lo vedi anche in tribuna con gente insospettabile. Perciò dobbiamo lavorare tutti per ritrovare serenità». Così Gasp medita: «Cerco mezz’ora al giorno di introspezione: mi guardo da fuori, rallento la mia vita e magari riesco a trovare soluzioni cui non avevo pensato».

Mario Sconcerti per il "Corriere della Sera" il 22 aprile 2021. C'è una morale, una conseguenza gestibile, nel grande fallimento della Superlega? Qualcosa da cui si possa ripartire per un traguardo che possa costruire un futuro comune migliore? Direi di sì. La discussione, vista a posteriori, ha detto tre cose: la prima è che un accordo su qualcosa d' importante e meno grossolano tra grandi società europee si può comunque trovare. La seconda, è che siamo davanti alla conferma che i giovani si stanno interessando del calcio molto meno delle generazioni dei loro padri. La terza è che la Superlega è crollata in due giorni perché alla base non aveva un' idea industriale corretta, ma era spinta soprattutto dalla disperazione. Questa disperazione va usata perché è di tutti e dimostra che nel calcio c' è un errore non più sostenibile. La soluzione non è fare un club privato di lusso e lasciare buone mance ai camerieri, la soluzione è rendere gestibile l' azienda collettiva. Lo sproposito è negli stipendi dei calciatori, cresciuti all' infinito per la voglia delle squadre di farsi concorrenza. L' asta continua provoca squilibri e necessita di mediazioni altrettanto costose. Si sono tentati accordi, nessuno ha retto. Ora si può riprovare, la situazione è matura, la disperazione aiuta, la gente ha capito. Serve il tavolo di una ventina di società, non di più, le altre centinaia operano su altri livelli. Organizzarlo sotto il mantello dell' Uefa sarebbe un ottimo nuovo inizio. Per trovare soluzioni al disincanto giovanile, bisogna rendersi conto che siamo davanti a un grande equivoco. Fino a 25 anni fa, si poteva vedere calcio solo negli stadi e solo quello della nostra squadra. Oggi tutti vedono tutto, il risultato elementare è l' inflazione. Più prodotto dai, più quel prodotto si svaluta. Il calcio vive da 20 anni solo dei soldi di chi lo inflaziona. È un giro vizioso che dobbiamo finalmente imparare a gestire. Detto questo non si può chiudere questa storia con un' intervista. Agnelli, Marotta, Gazidis, sono tesserati di un' associazione a cui sono affiliati e hanno lavorato per danneggiarla. Non si può fare. Non serve un processo dei vincitori, ma il rispetto del regolamento dove si parla di lealtà e correttezza, questo mi sembra necessario.

Monica Colombo per il “Corriere della Sera” il 25 aprile 2021. Fuori sarà anche primavera, ma sopra la Lega si scatenano tuoni e fulmini. L'abbassamento dei toni nell'assemblea di venerdì non sia fuorviante: l'effetto deflagrante della costituzione della Superlega e le mosse dei tre club scissionisti, Juventus, Inter e Milan, non sono state dimenticate dalla maggioranza dei presidenti. Così ieri undici società hanno preparato una lettera da inviare al presidente Paolo Dal Pino per chiedere la convocazione d'urgenza di una nuova assemblea. L'obiettivo è analizzare «i gravi fatti posti in essere» dalle tre società separatiste, «dai loro amministratori, e le relative conseguenze».  Si accusano i tre club di aver sviluppato il piano della Superlega «agendo di nascosto dalle altre associate e dai massimi organi istituzionali del nostro sport» causando «grave danno» alla Lega e al sistema del calcio italiano. Nella lettera, ispirata dalla Roma, e firmata anche da Benevento, Bologna, Cagliari, Crotone, Genoa, Parma, Sampdoria, Sassuolo, Spezia e Torino si ricorda che i ribelli non hanno ancora formalmente comunicato il ritiro dal progetto, «con l'evidenza di un possibile ed inaccettabile riavvio della sua creazione». Fino a ieri sera i presidenti stavano raccogliendo le firme, oggi la lettera sarà inviata a Dal Pino. La prima finalità dei club che l'hanno siglata è votare la sollevazione dall'incarico da consigliere federale di Beppe Marotta, amministratore delegato dell'Inter, e dal ruolo di consigliere di Lega di Paolo Scaroni, presidente del Milan. L'argomento era stato solo sfiorato nella riunione di venerdì, introdotto da Massimo Ferrero ma non approfondito a causa dell'ostracismo di Aurelio De Laurentiis e Joe Barone. Non è un caso che l'asse dei sette club, capeggiati da Juventus e Inter, in prima linea negli ultimi mesi per indirizzare la partita dei fondi e sfiduciare Dal Pino, resista: Lazio, Napoli, Verona, Fiorentina e Atalanta non si sono aggiunti come co-firmatari della lettera e stesso comportamento ha avuto l'Udinese. Gli undici club sono peraltro gli stessi che con azioni individuali meditano di chiedere i danni ad Andrea Agnelli, considerato il principale colpevole della mancata chiusura dell'operazione con il consorzio dei fondi. Il clima è elettrico, Dal Pino venerdì ha confortato i tredici che lo sostengono ricordando loro di non essere disposto a lasciarsi intimidire. Mai come in questo momento il ribaltamento degli equilibri in via Rosellini è un'ipotesi concreta. Intanto con cinque voti a favore e uno contrario (Giulini dei Cagliari), il Consiglio di Lega ha deliberato la data per il recupero di Lazio-Torino: si disputerà il 18 maggio, aspettando il verdetto del Collegio di Garanzia del Coni previsto il 13. La sfida, in calendario il 2 marzo, non si giocò dopo che l'Asl di Torino impedì ai granata, tra cui era scoppiato un focolaio, di partire per Roma. Il presidente Lotito nel ricorso ha chiesto il 3-0 a tavolino. Il Cagliari, invocando la regolarità del campionato, anche ieri ha spinto (invano) per il recupero al 29 aprile.

Superlega? Moggi: la versione dell'Uefa non racconta la verità sul calcio. Luciano Moggi su Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Amici lettori, il calcio è veramente in crisi di idee e di quattrini: il virus sembra aver influito negativamente in entrambi i casi, ma soprattutto sulla testa di chi dirige una baracca che sembra stare in piedi perché tira vento da quattro parti. Sissignori è proprio così, e purtroppo l'ipocrisia è entrata di prepotenza nel mondo del pallone. Pensate al caso Superlega. I primi a contestare la propria società sono stati giocatori e l'allenatore del Liverpool, e adesso anche Guardiola (mister del Manchester City) ha criticato il suo club al grido che «il calcio è dei tifosi e io li seguo». Belle parole indubbiamente, piene di romanticismo che fa presa, ma solo parole. Secondo noi Pep è più innamorato dei 30 milioni annui che percepisce, il resto è poesia. Infatti, nonostante sappia che gli stipendi di giocatori e allenatore gravano sulla società per il 70% degli introiti annui, ha avuto il coraggio di criticare i suoi dirigenti perché vanno alla ricerca di maggiori ricavi per fronteggiare le maggiori spese. Un romantico un po' sui generis questo Guardiola. Forse potrebbe essere il momento di mettere un tetto agli stipendi per evitare che gente come lui si innamori perdutamente di questo sport solo perché gli permette adesso di prendere cifre che in altri tempi erano impensate. A proposito della Superlega, Andrea Agnelli è ancora sulla graticola, mentre il rossonero Maldini ha detto «Non sapevo niente», come se fosse stato by-passato nell'occasione da altri dirigenti. Siamo stati poi informati che non era stato possibile intervistare Gazidis perché impegnato in colloqui di alta strategia con Joe Biden (si era nascosto sotto il tavolo per non farsi trovare). Meglio sicuramente Marotta, che ha avuto modo di esprimersi. Piano quindi conle critiche: sarebbe forse più utile immaginare cosa potrebbe essere il calcio in Italia senza Inter, Juve e Milan. Che, tra l’altro, hanno avuto il coraggio di scoperchiare un pentola maleodorante (tutti lo sapevano ma nessuno lo diceva), mettendo in mutande Infantino e Ceferin che sanno solo ripetere come nella maggior parte dei casi il dissesto avvenga per il pressappochismo di alcuni dirigenti impreparati: può anche essere vero, ma solo in qualche caso. Poi però, nell’enfasi di dar forza ai loro concetti, incorrono in gravi errori di merito citando tra l’altro Atalanta, Lazio, Napoli, assurte ai vertici del nostro calcio perché parsimoniose e sane nei bilanci. Giudizio che ci trova d’accordo ma solo nel confermare come esse siano effettivamente gestite oculatamente. Però i due dovrebbero anche dirci la differenza che esiste tra le tre che citano rispetto a Inter, Juve e Milan. Perché quest’ultime sono condannate a vincere, non possono vendere i pezzi migliori per far cassa, devono anzi acquistare campioni là dove difettano in qualche ruolo. Mentre Atalanta, Lazio e Napoli se riescono a qualificarsi in Champions è come se vincessero un campionato, e possono vendere i migliori e far cassa. Obiettivi opposti. Oggi intanto l’Inter riceverà il Verona, reduce da tre ko. Favoriti i nerazzurri che vedono sempre più da vicino il tricolore. Impazza la Milan che ha comandato la classifica per metà campionato. Sembra in gioco finanche la Lazio, se domani dovesse battere proprio il Milan all’Olimpico e sempre che faccia i tre punti nel recupero col Toro. Sulla carta più facile l’impegno dell’Atalanta contro il Bologna, più duro il compito del Napoli sul campo del Torino: entrambe in forma, dovrebbero dare vita ad un incontro combattuto e il pari sembra il risultato più probabile. Sarà tosta per la Juve al Franchi contro la Fiorentina: i bianconeri non possono permettersi di fallire la qualificazione Champions e sono favoriti.

Estratto dell'articolo di Paolo Ziliani per il "Fatto quotidiano" il 25 ottobre 2021. Tutto è cominciato nel 2009, negli anni caldi di Calciopoli, di cui mi sono occupato, che hanno portato la Juventus in serie B e i suoi dirigenti Moggi e Giraudo alla radiazione. […] 12 anni dopo, a parte le innumerevoli querele piovutemi addosso dal mondo "Juve-Moggi-amici di Moggi-arbitri" […], la richiesta di licenziamento che Andrea Agnelli avanzò sul mio conto al direttore di SportMediaset Claudio Brachino nell'estate 2013, la chiusura nel 2014 del programma La Tribù del Calcio che curavo da 5 anni […] e altri simpatici ammennicoli, se oggi digitate il mio nome e cognome su Google vi compariranno le ricerche più comuni fatte dalla gente: "Paolo Ziliani moglie" e "Paolo Ziliani corna". Il primo risultato proposto è "Paolo Montero andava a letto con la moglie di Paolo Ziliani". […] Poi i profili Facebook, Instagram e Twitter che offrono finte interviste dell'ignaro Montero, di 20 anni più giovane di me e mia moglie, con tanto di citazione di giornali che mai hanno pubblicato idiozie simili tipo "Tra me e la moglie di Ziliani c'era molto più che del sesso selvaggio. Per molto tempo siamo stati innamorati". Paolo Montero, marca.com. O ancora: "Lasciamo perdere Ziliani, non voglio dire niente su di lui. Sarebbero cose troppo pesanti". P. Montero per Marca.com. Questo, perché lo sappiate, è lo stile Juve e il mondo Juve. Questo è ciò che capita a chi prova a fare il giornalista oggi, 2021, ficcando il naso nella tana più brutta del calcio italiano.

Da spazioj.it il 25 ottobre 2021. A poche ore dal big match tra Inter e Juventus continua l’attacco di Moggi all’ex presidente nerazzurro Moratti. Luciano Moggi, su Libero, rincara la dose nel battibecco scoppiato tra i due i giorni scorsi: “Peccato che i media, nell’imminenza dell’incontro, trovino sempre il tempo di dare voce a qualcuno per rievocare tempi passati al solo scopo di alimentare polemiche. Questa volta, in mancanza di meglio, è stato il turno dell’ex presidente Moratti, famoso per aver ceduto Seedorf (scambiandolo alla pari con Coco) e Pirlo (in cambio di Guglielminpietro) al Milan e per aver scambiato alla pari Cannavaro alla Juve per Carini all’Inter. E magari comprava Vampeta, Farinos, Gresko, Hakam Sukur etc, esonerando ben 25 allenatori in 12 anni. Sembrava insomma, di giocare al Fantacalcio, per cui meglio vederlo al Meazza in veste di tifoso della sua amata Inter, diretta da un professionista vero come Beppe Marotta, di cui la Juve sente ancora la mancanza. Facile poi rispondere alle sue accuse: basterebbe dire che i suoi dirigenti hanno tesserato da comunitario un extracomunitario (Recoba), contrabbandando carte false per un passaporto falso, oltre ad incassare la sentenza del Tribunale di Milano che stabiliva come il presidente dell’Inter di quel tempo facesse lobbying con gli arbitri

Luciano Moggi per “Libero quotidiano” l'11 maggio 2021. In una serata di primavera, davanti al tracollo della Juventus, Lapo Elkann si racconta mettendo l'accento sulla storia della società e la maglia fatta a brandelli da un buon Milan, che ha saputo giocare da squadra più dei bianconeri, ma niente più. E da innamorato della Juve quale è si lascia scappare che la maglia e la storia della società meritano più amore, rispetto, passione e professionalità. Prerogative tutte esistenti al momento, ma ci corre l'obbligo di ribattere al buon Lapo che non sempre sono sufficienti a vincere. Quello che sta cercando Lapo adesso c'era sicuramente fino alla Juve del 2006 e magari con maggiore qualità, tanto da permettersi di vincere 7 campionati, una Champions, fino a diventare campione del mondo di club, etc. Purtroppo, a quel tempo, e soprattutto dopo la morte dell'Avvocato Agnelli, del dottor Umberto e dell'avvocato Chiusano, qualcuno, infischiandosi proprio della storia e della maglia, intese porre fine a quella Juve che avrebbe fatto gioire per tanto tempo i tifosi e, in primis, la Famiglia. Costringendo tra l'altro quei dirigenti a passare la loro via crucis attraverso due processi. Un primo, quello sportivo in cui , il difensore (?), l'avvocato Zaccone, patteggiò la retrocessione in B in contrasto con la sentenza finale che raccontava: «Campionato regolare, nessuna partita alterata». Tra l'altro in questi giorni il presidente di quel Tribunale, dottor Sandulli, ha precisato (chissà perché?) che i giudici prendono in esame le carte che vengono loro poste sul tavolo e le carte di quel processo raccontavano di un tentativo di illecito, peraltro (lo dice Sandulli) mai potuto provare in udienza. A seguire il processo ordinario di Napoli, con sentenza finale che parlava addirittura di «reato "a consumazione anticipata"», ma anche in questo caso non potuto provare in udienza (lo dice la sentenza ). Un insieme quindi di reati mai potuti provare perché mai commessi, visto che gli arbitri vennero tutti assolti e quell'associazione fu stranamente di due persone anziché tre come prevede il Codice penale. E Giraudo e Moggi, incolpevoli e indifesi, furono banditi dal calcio senza che qualcuno abbia mai provato rimorso. Di conseguenza prendeva il via la Juve del nuovo corso con la presidenza di Cobolli Gigli e tutti sappiamo come è andata a finire, tanto da portare la proprietà a cambiare nuovamente con l'arrivo di Conte, allenatore, e Andrea Agnelli, presidente. Da quel momento la Juve ricominciò a vincere: nove volte di seguito campione d'Italia, oltre a Coppe Italia, Supercoppe e due finali di Champions. Un percorso eccellente che, secondo noi, almeno questa volta non dovrebbe essere  interrotto, visto che sono già stati acquistati i migliori giovani sul mercato, con i quali poter costruire un nuovo ciclo: Chiesa, De Ligt, Rovella e Kulusevski. Magari con qualche opportuna correzione, tenendo presente che, al momento, la Juve sta rifacendosi la faccia con questi giovani di talento, visto che alcuni veterani, che hanno costituito per tanto tempo la forza della squadra, sono arrivati a fine carriera. Per ridiventare competitiva sarà sufficiente riattrezzare meglio il centrocampo e prendere un difensore: con in panchina Pirlo, che intanto ha fatto gavetta; o senza Pirlo, magari ancora con Allegri al quale andrebbe il compito di raddrizzare uno spogliatoio che sembra alquanto in disordine. Ci suggeriscono queste riflessioni le ultime partite con Fiorentina e Udinese prima, e Milan adesso. Ce lo conferma una Juve vuota nella testa, senza mordente, che contro il Milan ha dato qualche cenno di ripresa soltanto dopo il rigore parato da Szczesny, poi nulla più. Nei novanta minuti, Donnarumma ha dovuto compiere una sola parata. 

Marco Sacchi per calcioefinanza.it il 20 maggio 2021. Tra i documenti parte del contratto costitutivo della tanto discussa Superlega c’è un riferimento a una condizione “necessaria” per lo sviluppo del nuovo progetto che avrebbe coinvolto anche Milan, Inter e Juventus. Lo riporta il New York Times in un lungo articolo, spiegando che nelle pagine dell’accordo si evidenzia la necessità di un’intesa con la FIFA – inserita nel contratto con un nome in codice, ma chiaramente identificabile – per portare avanti il nuovo torneo “separatista”. Se pubblicamente anche il presidente della FIFA, Gianni Infantino, si è schierato contro la Superlega, privatamente – stando a fonti molto vicine al progetto e sentite dal NYT – il dirigente svizzero era a conoscenza dei piani e i suoi sottoposti hanno tenuto diversi colloqui sul tema nei mesi precedenti. Secondo il quotidiano le discussioni con la FIFA sulla Superlega sarebbero iniziate nel 2019 e avrebbero coinvolto un consorzio di advisor chiamato A22 e uomini vicini a Infantino, tra i quali il segretario generale FIFA Mattias Grafstrom. In alcuni di questi incontri, il gruppo “separatista” avrebbe proposto in cambio del benestare della FIFA al nuovo torneo, la partecipazione di molti dei club coinvolti nel progetto anche al nuovo Mondiale per Club voluto dallo stesso Infantino. Il supporto della FIFA era necessario per avere un certo livello di protezione su eventuali cause o punizioni, ma anche per rassicurare i calciatori che avrebbero preso parte alla Superlega, spaventati dalla possibilità di un’esclusione dalle rispettive nazionali. Insomma, Florentino Perez e gli altri attori coinvolti trovarono in Infantino una persona aperta a nuove proposte. Forti di questo sostegno, fu allora che la banca d’affari statunitense JP Morgan si convinse della bontà dell’operazione e decise di finanziare il progetto. Quando però iniziarono a girare le prime voci sul torneo, il presidente della UEFA Ceferin convocò Infantino per chiedergli se fosse coinvolto nel progetto. Il presidente della FIFA disse “no” e di lì a poco un comunicato congiunto di UEFA e FIFA sottolineò come un eventuale competizione chiusa non sarebbe mai stata riconosciuta dalle due Federazioni. Una reazione che si trasformò in un vero e proprio shock per i club coinvolti, sicuri di avere il sostegno della FIFA. Non è chiaro – conclude il New York Times – se ci siano stati altri colloqui tra la FIFA e i club della Superlega nelle settimane prima che i club rivelassero il loro progetto. Ma la FIFA è stata l’ultimo dei principali organi di governo del calcio a rilasciare un comunicato ufficiale sul nuovo progetto dopo che i club lo hanno reso pubblico, e lo ha fatto solo dopo che la UEFA, i massimi campionati nazionali e la politica hanno chiarito la loro opposizione. Il tutto, utilizzando un linguaggio molto più sfumato e conciliante rispetto a quello duro della UEFA. La FIFA ha affermato di essere «fermamente a favore della solidarietà nel calcio e di un modello di ridistribuzione equo che può aiutare a sviluppare il calcio come sport, in particolare a livello globale». «Possiamo solo disapprovare fortemente la creazione della Superlega. Una Superlega che sia un torneo chiuso. Una fuga dalle istituzioni attuali, dai campionati, dalle federazioni, dalla UEFA e dalla FIFA. C’è molto da perdere per il guadagno di pochi. Devono riflettere e devono assumersi la responsabilità», furono invece le parole di Infantino, esortato da Ceferin a prendere posizione. A questo punto, rendendosi conto che il requisito “essenziale” di un supporto della FIFA sarebbe venuto meno, i primi club hanno iniziato a ritirarsi. Al calar della notte, tutti e sei i club inglesi avevano annunciato di essere fuori dal progetto. A mezzanotte, altri tre fondatori lo avevano seguito. Oggi solo tre squadre – Real Madrid, Juventus e Barcellona – rimangono in attesa, rifiutandosi di firmare una lettera di scuse richiesta dalla UEFA come condizione per il loro reinserimento nel calcio europeo. Se non firmeranno, tutte e tre dovranno affrontare sanzioni significative, inclusa una potenziale squalifica dalla Champions League. Infantino, nel frattempo, affronta pressioni e accuse di tradimento. Il presidente della Liga spagnola, Javier Tebas, lo ha apertamente definito una delle menti dietro la Superlega europea. «È lui che sta dietro alla Superlega, e gliel’ho già detto di persona. L’ho già detto e lo ripeto: dietro a tutto questo c’è il presidente della FIFA Gianni Infantino», le parole del dirigente spagnolo.

Da Lastampa.it il 21 maggio 2021. I motivi della Super Lega in un unico report. Il calcio sanguina, messo a dura prova dalle conseguenze della pandemia su stadi, sponsorizzazioni, costo dei cartellini. A dimostrarlo è la stessa Uefa che ha pubblicato la dodicesima edizione di “The European Club Footballing Landscape”, l'annuale relazione comparativa sul calcio europeo. Si tratta del primo esame autorevole e approfondito di come la pandemia abbia colpito il calcio europeo. Il bilancio è catastrofico: i club del calcio europeo hanno perso complessivamente 9 miliardi di euro di entrate negli anni finanziari 2019/2020 e 2020/2021. Nella prefazione, il presidente Uefa Aleksander Ceferin scrive: «Nella relazione dell'anno scorso avevo detto che il calcio europeo era forte, unito, resiliente e pronto a nuove sfide. Ma nessuno prevedeva che avremmo dovuto affrontare la più grande sfida dei tempi moderni nello sport e nella società. Tuttavia, grazie a quasi un decennio di fair play finanziario, difficilmente il calcio europeo avrebbe potuto trovarsi in una condizione finanziaria migliore». Un messaggio di speranza, ma i numeri dicono altro. Come mostra il rapporto, i ricavi dei club delle massime serie prima del Covid avevano subito un'impennata. Con una crescita annuale dell'8,2%, i 711 club dei massimi campionati hanno infatti aggiunto 1,9 milioni di euro ai loro ricavi nel 2019, mentre i profitti operativi sono stati i secondi più alti mai registrati. Le riserve di cassa e i bilanci dei club sono stati i più cospicui mai registrati. Il rapporto, però, mostra nei minimi dettagli quanto la pandemia sia stata devastante per le finanze dei club. Il calcio europeo ha provato a lavorare unito per evitare una crisi più ancora grande: la Uefa, congiuntamente ai campionati e alle coppe nazionali, ha completamente ristrutturato il calendario delle competizioni nel 2020. Con il rinvio dell’Europeo e delle competizioni UEFA per club, 38 massime divisioni europee sono state in grado di concludere la stagione 2019/2020 e tutti i campionati sono riusciti a ripartire nel 2020/21. Questo ha fatto risparmiare ai club circa 2 miliardi di euro in penali e rimborsi sui contratti televisivi nazionali. Il successo del protocollo Return to Play ha permesso alla UEFA di organizzare 1.432 partite con 163.844 test COVID effettuati dall'inizio della pandemia. Più del 99% delle partite sono state giocate come previsto. Ma non è bastato per evitare il grosso delle perdite, probabilmente inevitabili. Il presente, come dimostrato dalle notizie che gravitano intorno ai maggiori club italiani ed Europei, racconta un calcio non in salute. E la proiezione dei mancati introiti nel periodo 2019-21 è di 7,2 miliardi di euro per il calcio professionistico di alto livello e 1,5 miliardi di euro per quello delle categorie inferiori. Ogni livello e ogni settore del calcio professionistico è stato colpito duramente. I club che dipendono fortemente dalla presenza dei tifosi sono stati particolarmente colpiti dalla pandemia. Inoltre, il rapporto esplora in dettaglio anche l'impatto della pandemia sui trasferimenti e mostra che la spesa dei club europei nell'estate del 2020 è diminuita del 39% rispetto al record dell'estate 2019 e del 30% rispetto alla media delle tre estati precedenti. Per la ripresa, nonostante la pandemia che ha ridotto di 210 milioni i tifosi negli stadi, il dato incoraggiante è quello sull'interesse generale per il calcio europeo che rimane più alto che mai. La relazione si sofferma anche sui record di telespettatori, sui record di nuovi investitori e sugli investimenti nei club, analizzando anche l'incremento del traffico web in relazione alle varie squadre. Non tutto è perduto, anzi, ma la ferita nel mondo del calcio è aperta. «L'intero ecosistema del calcio professionistico, amatoriale e giovanile è stato pesantemente sconvolto dalla pandemia. Questo richiede un'intensa collaborazione e una risposta coordinata in tutta la piramide del calcio. Per uscirne vittoriosi deve prevalere la solidarietà, non l'interesse personale», ha dichiarato il presidente dell'Uefa, Aleksander Ceferin, alla presentazione del report. Ricordando: «Questo rapporto mostra chiaramente che stiamo operando in una nuova realtà finanziaria, ed è chiaro che il Fair Play Finanziario debba essere adattato e aggiornato. La sostenibilità finanziaria rimane il nostro obiettivo. La UEFA e il calcio europeo lavoreranno come una squadra per dotare il nostro sport di nuove regole per un futuro nuovo». Una rivoluzione è necessaria. Anche senza Super Lega.

Giorgio Gandola per “la Verità” il 23 aprile 2021. «L' Uefa spreme i giocatori come limoni, il sistema deve cambiare». Osservando le macerie della Superlega, Antonio Conte tocca il cuore del problema. Lui ha il calcio pane e salame nel dna e dopo averlo sperimentato in lungo e in largo nel suo passato al Sud, boccia la rivoluzione per deficit meritocratico ma osserva l' orizzonte con lucidità. Va oltre i violini della retorica e le trombonate di Roberto De Zerbi («È un colpo di Statoooo») perché sa che la tempesta è passata ma il giocattolo è rotto. Il day after è un giorno strano. Mentre lo sconfitto Andrea Agnelli teme di doversi dimettere anche dalla Juventus, il vincitore Aleksander Ceferin passeggia con i pettorali gonfi sul campo di battaglia. «Mi hanno sottovalutato. Da ora in poi nelle riunioni deciderò chi far sedere vicino a me», spiega al network sloveno «24ur» il padrone del calcio europeo. «Così potrò mettere qualcuno più lontano». Un' uscita manzoniana da don Rodrigo, l' anticipazione di vendette, un atteggiamento poco incline a capire i motivi della ribellione della sporca dozzina. Più avveduto l' approccio del presidente della Federcalcio, Gabriele Gravina: «Non esistono forme di processi o vendette trasversali. Non si può sanzionare un' idea che non si è concretizzata». L' Uefa ha grandi responsabilità per ciò che è accaduto. Al netto del Covid-19 il giocattolo è rotto e la radiografia mostra in modo evidente i punti di frattura.

1 Bilanci in rosso. La voragine è antica e il giorno zero non è lontano. Se il 65% delle entrate viene mangiato dai costi dei calciatori il fallimento è già realtà. La corsa ad aumentare i fatturati invece che a ridurre i costi di gestione diventa inevitabile se la pressione verso il gigantismo arriva anche dal governo del pallone, del tutto disinteressato a calmierare la corsa. Anzi interessato a moltiplicare le fonti di guadagno per sé.

2 Stipendi fuori controllo. Mentre i club si indebitano per ingaggiare i campioni, l' Uefa si arricchisce facendoli giocare in tornei sempre più lunghi. E ne inventa di improbabili (come la Nations league) per incamerare più profitti, con una redistribuzione ai top club tendente alle briciole. Oggi dei 3 miliardi di giro d' affari annuale, alle società arriva meno del 15%.

3 Procuratori bulimici. Sono il punto di rottura del sistema, le loro commissioni sono a livelli assurdi. Un esempio. Quando Paul Pogba è passato dalla Juventus al Manchester United, l' agente del calciatore (Mino Raiola) ha incassato tre percentuali: due dai club e una terza dal giocatore. Totale: 41 milioni per un' operazione da 120. Con l' Uefa in religioso silenzio. Nel 2019 la Premier League ha versato 263 milioni di sterline ai procuratori e la Serie A 180.

4 Plusvalenze fasulle. Sono la coperta di Linus dei club più titolati, un autentico maquillage dei bilanci, esempio di finanza creativa che si concretizza nello scambiarsi giocatori a cifre fuori mercato o valutare milioni mezzi brocchi. Operazioni che gli stessi giornalisti eccitati dai colpi di mercato fingono di non vedere.

5 Fair play a orologeria. Il Fair play finanziario fu l' invenzione dell' ente regolatore, l' Uefa, per moralizzare il circo. Ma ha funzionato solo per alcuni, vessati dal settlement agrement e controllati con il microscopio (Inter, Roma, Milan, Galatasaray) e non per altri. Manchester City e Paris Saint Germain - in generale i club gestiti dagli sceicchi arabi - hanno continuato a operare fuori dalle regole senza alcuno stop, al massimo un buffetto di richiamo.

La realtà è sempre meno aulica della letteratura e l' Uefa ha sempre guardato altrove, guadagnando marginalità importanti. Sul pianeta del pallone sgonfio la metafora è al contrario: «I frati impoveriscono ma il convento è ricco». La spallata tentata dai 12 era un modo per svegliare l' abate avaro, quel Ceferin che oggi esulta perché (dopo le dimissioni di Agnelli) a guidare l' Eca - il circolo della caccia delle società del continente - è arrivato Nasser Al Khelaifi, proprietario qatariota del Psg, titolare dei cartellini di Neymar e Kylian Mbappè, improbabile difensore dei piccoli club virtuosi. L' unica soluzione per frenare la corriera lanciata verso il burrone è il salary cap, il tetto salariale degli stipendi che funziona nello sport americano. La Nba di basket e la Nfl di football lo adottano da decenni, chi sfora viene sanzionato. Basterebbe che l' Uefa lo introducesse oggi per adottarlo fra cinque anni. Con un problema per i calciatori oggi indignati: ogni richiesta di bonus o di aumento di stipendio troverebbe la porta chiusa. E un cartello con scritto sopra: «I sogni non si pagano». «Questo è il fallimento di tutti», ha scritto Mario Sconcerti sul Corriere della Sera. Sagge parole. In Italia bisogna prendere atto di una realtà anche più dura: Juventus, Inter, Milan e Roma rappresentano insieme il 60% del fatturato di tutta la Serie A. Se i quattro pilastri non tengono più, il tendone del circo crolla su tutti gli altri. Anche sulle meravigliose piccole che parcheggiano il pullman sulla linea di porta (tranne Atalanta e Sassuolo) quando giocano allo Stadium, a San Siro o all' Olimpico per lucrare uno 0-0. C' è una foto stupenda che simboleggia il corto circuito. È quella in cui Boris Johnson, vincitore politico del braccio di ferro, palleggia in un campetto di periferia con una decina di bambini. Indossano tutti le maglie di Chelsea, Arsenal, Tottenham, Liverpool. Piangono se falliscono, non se giocano fra loro.

Superlega, 10 ragioni per cui è una pessima idea. Lo streaming non può uccidere la storia. Non si mischiano mele e pere. Questo strappo sa un po’ di bluff. Ecco perché la Super League non ci convince. Francesco Prisco il 20 aprile 2021 su Il Sole 24ore. Mazzone che corre sotto la curva, uno dei simboli del calcio «inattuale». Ancora di più dopo l’annuncio della nascita della Superlega.

I punti chiave

1) Il contenitore non può vincere sul contenuto

2) Così il calcio rischia la fine della boxe

3) Il calcio è Juary che balla intorno alla bandierina

4) Non si mischiano le mele con le pere

5) Se l’Ue va d’accordo con Boris Johnson vuol dire che l’hai fatta fuori dal vaso

6) Verranno a comprarti la franchigia (e la porteranno a Caselle in Pittari)

7) Le italiane nobili decadute

8) Non può passare la morale: dato che non vinco, porto via il pallone

9) Serve una Champions più moderna. Ma la modernità si interpreta, non si inventa

10) Tanto è tutto un bluff

Non so voi, ma io tra Bernardo di Chartres e Fiorella Mannoia preferisco tutta la vita il primo. Non mi arrenderò mai alla logica del «Come si cambia per non morire» ma, come il filosofo francese, umilmente devo ammettere: «Siamo nani sulle spalle dei giganti». Se il trofeo della Champions League «pesa» in mano a Neuer è perché, prima di lui, lo hanno sollevato Di Stéfano, Cruijff e Baresi. L’idea della Superlega di calcio - o Super League, competizione con lo stesso originalissimo nome della Serie A svizzera - mi fa inorridire. E ho messo in fila dieci buone ragioni per cui mi sembra una pessima idea. Eccole.

1) Il contenitore non può vincere sul contenuto. Nell’epoca dello streaming, il calcio è un contenuto di pregio: chiarissimo. Non possiamo, tuttavia, rischiare di snaturarlo in nome del «contenitore». Perché, se non lo avete ancora capito, dietro le grandi manovre che hanno portato alla Superlega c’è la guerra tra nuove piattaforme di streaming, come Dazn, e vecchi broadcaster televisivi, come Sky.

2) Così il calcio rischia la fine della boxe. Il bello del calcio è che sai che la Francia è campione del mondo, il Bayern campione d’Europa e la Juventus campione d’Italia. Per determinare «chi vince cosa» ci sono degli specifici tornei riconosciuti da una federazione mondiale (Fifa) e dalle federazioni continentali (come l’Uefa). Lo strappo dei 12 club scissionisti, con la conseguente condanna da parte di Fifa e Uefa, rischia di portare a una nuova competizione non riconosciuta: è l’alba di una nuova federazione, insomma. Così il calcio rischia la fine della boxe. Dove, alla domanda «chi è il campione del mondo», segue un’altra domanda: intendi il campione del mondo Wbc, Wbo, Wba o Ibf?

3) Il calcio è Juary che balla intorno alla bandierina. La finale di Champions League che ricordo con maggiore affetto è quella del 1987. All’epoca si chiamava Coppa dei Campioni. Al Prater di Vienna, il ballo intorno alla bandierina di Juary, uno «scarto» della nostra Serie A, suggellava la rimonta del Porto sul favoritissimo Bayern Monaco. In quel momento ho capito che il bello del calcio è Davide che ha la meglio su Golia, la Danimarca che vince l’Europeo ’92, il Leicester di Ranieri campione d’Inghilterra. Un calcio che riesce a fare a meno di questo, sega il ramo su cui sta seduto.

4) Non si mischiano le mele con le pere. Avete letto la lista dei 12 club fondatori della Superlega? Hanno storie molto diverse, blasoni variabilissimi. Non è il club dei club più titolati perché manca il Bayern che non vuole saperne di iscriversi. E ci sono dentro quattro squadre che non hanno mai vinto una Champions. Non è il club dei club storici, perché potrebbero farne parte parvenu come il Paris Saint Germain, fondato l’anno in cui si sciolsero i Beatles, e il Chelsea di Abramovic che, prima di Vialli e Zola, era poca cosa. Allora: cosa hanno in comune? In molti casi il fatto di appartenere a fondi americani, altre volte a sceicchi. Non fu il blasone, ma il denaro. E allora diciamolo: più che una competizione calcistica, questa lega è un circolo canottieri.

5) Se l’Ue va d’accordo con Boris Johnson, vuol dire che l’hai fatta fuori dal vaso. Le reazioni sono sempre un’ottima cartina di tornasole per comprendere la portata delle «azioni». Se ti arriva la condanna unanime della Commissione europea e di Boris Johnson, allora vuol dire che l’hai davvero fatta fuori dal vaso.

6) Verranno a comprarti la franchigia (e la porteranno a Caselle in Pittari). Chi sostiene il progetto della Superlega guarda al modello delle grandi leghe sportive americane: niente retrocessioni, match all’insegna dello spettacolo, dirette tv e soldi che scorrono a fiumi. Chissà che ne pensano costoro di un altro aspetto centrale di quel modello: un giorno potrebbe arrivare l’ennesimo sceicco, comprarti la franchigia e portarla a Caselle in Pittari, per fare bella figura con una bellezza locale. Già me lo vedo il match di Super League Atletico Caselle in Pittari-Barcellona...

7) Le italiane sarebbero nobili decadute. Chi, in Italia, sostiene il progetto forse dimentica che le italiane in Europa sono ormai nobili decadute. Non era mai successo nella storia delle coppe europee che restassimo a digiuno per 11 anni interi. Persino negli anni Settanta, quando il calcio totale dell’Ajax ci annullò in Coppa Campioni, portammo via una Coppa delle Coppe (Milan) e una Coppa Uefa (Juventus). Dal Triplete di Mourinho a ora, invece, nulla. In Super League faremmo una certa fatica a stare tra le prime cinque. Vincemmo tanto, è vero, ma andati son quei tempi. Juventus, Inter e Milan are the new Torino, Genoa and Bologna.

8) Non può passare la morale: dato che non vinco, porto via il pallone. Tra i principali fautori della Superlega c’è Andrea Agnelli, numero della Juventus e presidente dimissionario dell’Eca. Il suo club, in Italia, ha vinto nove scudetti di fila. Al nono, a quanto pare, non farà seguito il decimo. In Champions, invece, bianconeri non pervenuti dal ’96. Non so a voi, ma a me sembra un po’ che stia passando la morale che accompagnava tante partitelle parrocchiali della nostra giovinezza: dato che non vinco più, il pallone è mio e me lo porto via.

9) Serve una Champions più moderna. Ma la modernità si interpreta, non si inventa. Nessun dubbio sul fatto che serva una Champions League più moderna. Ancora di più dopo che il coronavirus ha inferto un colpo senza precedenti sui bilanci dell’industria calcio. Ma la modernità si interpreta, non si inventa: rinunciare alla storia per esigenze di fatturato può alla lunga rivelarsi un approccio miope. Il calcio è strapaese, anche nei momenti più difficili: la sedia alzata al cielo da Mondonico, la corsa rabbiosa sotto la curva di Mazzone. Un patrimonio che non si può sacrificare con tanta leggerezza per tirare su i ricavi tv.

10) Tanto è tutto un bluff. L’ultima ragione per cui credo che questa Superlega sia una pessima idea è il fatto che sa tanto di bluff. Un nichelino lo scommetterei volentieri sul fatto che questa lite in qualche modo si ricomporrà, i 12 club scissionisti, dopo tanto cancan, torneranno al tavolo con l’Uefa e contratteranno condizioni (a loro) più vantaggiose per le prossime edizioni di Champions. Magari mi sbaglio, ma più che al Boston Tea Party sembra di assistere a un congresso della Dc degli anni Ottanta. Gli strappi che si tirano dietro i titoloni dei giornali, in fondo, fanno parte della dialettica. I teatri saranno pure chiusi, ma il teatro è ovunque.

Superlega, 10 ragioni per cui è una buona idea. Progetto non del tutto sbagliato, perfettibile, qualcosa su cui si può lavorare anche in corso d’opera. Per salvare il calcio dal crack (e da sé stesso). Lello Naso il 20 aprile 2021 su Il Sole 24ore.

I punti chiave

1) Il tempo non si può fermare

2) Le regole sono una cosa seria

3) La Governance è una cosa seria

4) Non esistono più i ricchi di una volta

5) Le categorie sono sempre esistite

6) C’è un modello simile alla Superlega che funziona

7) Le Tv e gli sponsor contano

8) I campionati nazionali rimarranno

9) I Governi farebbero bene a pensare ad altro

10) Alla fine un accordo (per la Superlega) si troverà

Ci sono dieci motivi semiseri, alcuni buoni altri meno, per dire che la Superlega è un’idea non del tutto sbagliata. Magari perfettibile, ma qualcosa su cui si può lavorare, anche in corso d’opera. Per salvare il calcio da sé stesso e dal tracollo finanziario.

1) Il tempo non si può fermare. Nel 1898 il campionato di calcio si giocò in una sola giornata, a Torino. Poi si passò ai gironi regionali del Nord, infine, nel 1929 al campionato unico nazionale, la Serie A. Invochiamo l’Europa a ogni pie’ sospinto come dimensione necessaria per la sopravvivenza del Continente. Il calcio è l’unica industria indiscutibilmente leader globale rimasta in Europa, vogliamo dargli una dimensione consona o vogliamo continuare a baloccarci solo con i campionati delle contrade? Che Boris Johnson, in un comunicato, parli dei danni al calcio domestico, domestico avete letto bene, è un serio indizio che l’idea di Superlega sia giusta. Cambierà opinione, Boris, come sul Covid, quando teorizzava il far nulla per arrivare all’immunità di gregge e poi, invece, ha chiuso i pub e vaccinato tutti.

2) Le regole sono una cosa seria. La serie A è stata un campionato prima a sedici, poi a diciotto, infine a venti squadre. Quando nel 2004 si passò al campionato a venti squadre lo si fece perché il sistema rischiava di saltare per un ricorso del Catania che militava in Serie B e chiedeva la non omologazione di una partita per la squalifica di un calciatore schierato dal Siena nel campionato Primavera, quello dei ragazzi. Il Catania vincendo quella partita sarebbe tornato in Serie A. Fece ricorso, a chi se non al Tar, e costrinse il sistema ad allargare il campionato a venti squadre. Se non vi è venuto il mal di testa e avete capito il garbuglio, sappiate che poi il Catania è fallito e risorto e adesso milita in Lega Pro (la vecchia Serie C). Le regole del calcio italiano, invece, non sono tanto diverse da allora. Per decidere se una squadra con tesserati isolati per Covid può giocare o no, servono tre gradi di giudizio e per recuperare una partita deve trascorrere un intero girone. Juventus-Napoli di quest’anno vi dice qualcosa?

3) La Governance è una cosa seria. Uefa, Fifa, federazioni e leghe nazionali, soprattutto quella italiana, in questi ultimi anni hanno dato un’immagine di sé spesso imbarazzante. Come il comunicato di domenica scorsa in cui fanno la faccia finta feroce del cane Bendicò del Gattopardo, la distruzione che arriva fino al fido animale di famiglia raffigurato nello stemma araldico. Minacce di escludere le squadre dai campionati e i calciatori della Superlega dai Mondiali. Tagliarsi gli attributi per far dispetto alla suocera. Il calcio, poi, ha dato spesso l’immagine di un’armata Brancaleone, governata da presidenti di calcio che non hanno nulla da invidiare al patron del Borgorosso dell’Allenatore nel pallone con Lino Banfi. Il mese scorso, per l’assegnazione dei diritti tv sono servite venti assemblee e i diritti secondari non sono stati ancora assegnati. Esattamente come alla vostra assemblea di condominio quando bisogna decidere da chi comprare i sacchi per la raccolta differenziata.

4) Non esistono più i ricchi di una volta. C’era un tempo in cui i presidenti di calcio erano dei ricchi signori disposti a tutto pur di vedere la propria squadra primeggiare. Angelo e Massimo Moratti, Gianni e Umberto Agnelli, solo per citare i più noti, erano disposti a qualunque cosa per far vincere la propria squadra. Ma erano, si fa per dire, pochi miliardi di vecchie lire. Lo facevano pure gli imprenditori di provincia che anche a causa del calcio hanno perso o rischiato di perdere le loro imprese: Giussi Farina che si svenò per strappare Paolo Rossi alla Juventus, la famiglia Sensi che si indebitò fino al midollo per portare lo scudetto a Roma. Massimo Moratti fu costretto a cedere al gruppo cinese Suning un’Inter sommersa dai debiti e battendo il record di presidente più generoso della storia del calcio (circa un miliardo di euro sacrificato alla causa nerazzurra). Oggi le dimensioni sono ulteriormente cresciute: un anno senza Champions League vuol dire 100-150 milioni di euro di perdite per imprese che hanno 500-600 milioni di euro di fatturato. A vantaggio di chi può permettersi il lusso di dimensioni medie - l’Ajax, il Borussia Dortmund, l’Atalanta - e di anni senza vittorie. Ditelo voi al fondo Elliot, a Exor e Suning, proprietari di Milan, Juventus e Inter, che devono continuare ad arricchire i procuratori proprietari occulti di squadre europee e le formichine che possono arrivare settime in Serie A e vendere ogni anno due-tre pezzi della collezione di calciatori. Il valore della produzione del calcio italiano è di circa quattro miliardi e il debito di oltre cinque. Pensate si possa andare avanti così a lungo?

5) Le categorie sono sempre esistite. Esistono i dilettanti, i professionisti, i professionisti di Serie C (oggi Lega Pro), B e A. Esistono le squadre da Champions League. Adesso esistono le squadre da Superlega. Sono le più titolate, le più strutturate, quelle con più tifosi nel mondo (circa l’80%). Sono anche le più ricche, se la parola non arreca offesa. Faranno un loro campionato perché se continuano a fare il campionato degli altri, l’intero sistema andrà gambe all’aria. Prima loro, a ruota tutto il resto che non godrà più delle elargizioni degli ex ricchi scemi. Certo, l’obiezione che si accede alla categoria Superlega per censo e non per meriti è fondata. In un mondo ideale dovrebbero andarci le squadre che hanno acquisito i meriti sportivi negli anni. Fossero gli ultimi quaranta, quelli del calcio moderno e della tv a colori, dai Mondiali dell’82 in avanti, i conti tornerebbero. Perché se dovessimo scegliere quattro italiane per titoli, la quarta sarebbe il Genoa che vinse nove scudetti tutti prima della Seconda guerra mondiale, quando il campionato a quattro squadre si giocava sopra il Po.

6) C’è un modello simile alla Superlega che funziona. Nel basket europeo, nel 2000, successe qualcosa di simile a quello che sta succedendo adesso nel calcio. Due leghe per la massima competizione europea, con i club più forti che si staccarono dalla federazione e organizzarono un torneo a inviti. Nel 2001 ci furono due campioni d’Europa. Nel 2002 la lega della federazione si arrese e confluì in quella degli scissionisti ricchi e famosi. Una sola competizione, l’Eurolega, a cui partecipano le squadre con licenza, dodici, le squadre vincitrici di cinque campionati nazionali europei e della seconda coppa del basket, le squadre invitate. Il numero dei partecipanti è stato allargato o ristretto in base agli anni, con le dodici squadri titolari di licenza decennale (che si perde per demeriti sportivi) sempre presenti. Il torneo è competitivo, spettacolare e molto sportivo. Come del resto la Nba. O pensate che Boston Celtics, Los Angeles Lakers e compagnia schiacciante non competano? O ci sono dubbi su atleti come Michael Jordan, Kobe Bryant e LeBron James?

7) Le Tv e gli sponsor contano. Non siamo ipocriti. Se un broadcaster spende circa un miliardo all’anno per il campionato di Serie A ed è disposto a spenderne quattro all’anno per la Superlega, in un modo o nell’altro bisogna dargli ascolto. O tornare indietro nel tempo al meraviglioso Tutto il calcio minuto per minuto. Scusa Ameri, Vinazzani ha portato in vantaggio il Napoli con un fendente dalla distanza. Invece, vogliamo vedere tutte le partite più importanti in diretta di tutti i campionati più belli. Qualcosa bisogna sacrificare in nome degli ascolti di chi spende miliardi di euro e vuole un prodotto all’altezza dell'investimento. E in nome degli sponsor che vogliono mettere il loro marchio sulle maglie più prestigiose e più viste nel mondo. Nel 1980 la Nba concesse a un piccolissimo imprenditore milanese, Bruno Bogarelli, i diritti per trasmettere le prime partite Nba fuori dagli Usa. Bogarelli rivendette i diritti a Primo Canale e poi a Fininvest ora Mediaset. Oggi sono 210 i Paesi che trasmettono la Nba nel mondo. Le televisioni contano molto.

8) I campionati nazionali rimarranno. In ogni caso, i campionati nazionali non verranno aboliti. Il Chievo e la Reggina potranno giocare in Serie A contro i plutocrati della Juventus, dell’Inter e del Milan e magari batterli. La palla continuerà a essere rotonda. Se l’Atalanta o la Roma o il Napoli o la Fiorentina arriverà prima nel campionato dei diversamente ricchi, potrebbe partecipare alla Superlega. Una sola squadra per merito. Come si faceva quando il pallone era di cuoio e la Superlega si chiamava Coppa dei campioni. Una squadra per paese. Non si sa se sia previsto dal progetto degli scissionisti, ma se lo fosse sarebbe una buona idea.

9) I Governi farebbero bene a pensare ad altro. I comunicati e le dichiarazioni sparse dei Governi ci fanno pensare che se delle imprese private vogliono levarsi dal calderone e dalle burocrazie, tutti i torti non hanno. Cosa c’entrano Johnson, Macron e financo Orban con il calcio europeo? Lo stitico comunicato del presidente Draghi, fa pensare che l’ex Governatore della Bce non avesse tanta voglia di scendere in campo. Confidiamo ancora, come spesso in questi ultimi anni, nella signora Merkel. Il silenzio vale più di tante parole vane.

10) Alla fine un accordo (per la Superlega) si troverà. Il calcio ufficiale, come ha fatto il basket, sarà costretto ad accettare il modello Superlega. Ma davvero vogliamo pensare che si possano escludere le dodici maggiori squadre di calcio dai tornei nazionali? Davvero pensiamo che la Serie A possa fare a meno di Inter, Juventus e Milan? La Liga di Real Madrid, Barcellona e Atletico Madrid? Davvero pensiamo a Mondiali ed Europei senza Messi e CR7? Sarebbe come il Vaticano senza il Papa. Bayern Monaco e Paris, le uniche big riottose entreranno nella Superlega. Leghe e Federazioni abbozzeranno, magari con qualche spicciolo in più elargito dalla Superlega alle boccheggianti e indebitatissime società di calcio di tutta Europa. Non è difficile capire chi ha il coltello dalla parte del manico.

Da gazzetta.it il 23 aprile 2021. Anche la JP Morgan abbandona il progetto Superlega. In un comunicato la multinazionale americana di servizi finanziari ha ammesso di aver "chiaramente valutato male" l’impatto del progetto. Il progetto dopo il lancio di domenica sera è andato incontro a una serie di defezioni e la banca Usa spiega: "Abbiamo chiaramente valutato male come questa operazione sarebbe stata percepita dal mondo del calcio in generale e l’impatto che avrebbe avuto in futuro. Impareremo da ciò". In un primo tempo era emerso che i club fondatori avrebbero ricevuto complessivamente 3,5 miliardi di euro per supportare i loro piani di investimento infrastrutturale e per fronteggiare l’impatto della pandemia. E ad assicurare la copertura finanziaria sarebbe stata proprio la JP Morgan. Secondo il Financial Times, si sarebbe trattato di un prestito a lungo termine (23 anni) con tasso del 2-3%.

Polemiche, oriundi, caos. E gli azzurri picchiati. 1957: manca l'arbitro, il pubblico assale i nostri. Si rigioca e addio Mondiale. Giovedì l'Italia ritrova l'Irlanda del Nord. Claudio De Carli - Lun, 22/03/2021 - su Il Giornale.

Michelangelo e la Battaglia di Belfast. Prima parte. Anni Cinquanta, viviamo un momento magico, Fiorentina e Milan conquistano la finale di Coppa dei Campioni, brave, ma la spina dorsale dei nostri club è innervata in gran parte da stranieri e la Nazionale paga, forti dietro, mediocri in mezzo, scarsi davanti. Dopo la vergognosa spedizione al mondiale del '54 interviene il ministro degli Interni Giulio Andreotti che con un veto cancella i permessi di soggiorno ai calciatori stranieri ad eccezione di quelli in possesso di doppia nazionalità. È una furbata, in realtà viene data via libera agli oriundi che possono giocare anche in Nazionale. I club si scatenano, piombano in serie A decine di sudamericani con i dirigenti a caccia di un loro parente paisà, molti avanti con l'età e impreparati atleticamente ma arrivano anche fenomenali fuoriclasse, Maschio, Angelillo, Sivori, Grillo, Schiaffino, Vinicio, Pesaola, Ghiggia, alla Fiorentina Julinho, Lojacono e Miguel Angel Montuori. Suo padre Antonino Montuori è emigrato a fine anni '20 a Buenos Aires assieme al fratello Francesco, a Marina di Cassano facevano i pescatori, le cose non vanno subito bene, Francesco torna, Antonino resta, si trasferisce a Rosario, si sposa e nel '32 nasce Miguel Angel che cresce con la pelota fra i piedi nel Racing Avellaneda, straordinario, l'Università Catolica lo ingaggia e lui vince subito il campionato cileno. In Italia ci arriva accompagnato da Padre Volpi che convince i dirigenti della Fiorentina a visionarlo, per 12 milioni e con il numero dieci sulla schiena Montuori vince il primo campionato della Viola, seguito da altri quattro secondi posti, una coppa Italia, una coppa delle Coppe, una Mitropa e va in finale di Coppa dei Campioni. Dipinge, lo chiamano Michelangelo, fenomeno e oriundo, pronto per la maglia azzurra.

Seconda parte. Il problema della Nazionale resta la conduzione tecnica. La Federazione decide di affidarsi ad una bizzarra Commissione, qualcuno spinge per un ritorno di Vittorio Pozzo ma alla fine ai vertici finiscono il dirigente della Lega Calcio Giuseppe Pasquale, il presidente del Novara Luciano Marmo, quello dell'Atalanta Tentorio, l'ex campione del mondo Angiolino Schiavio e il segretario della Roma Aurelio Biancone, con un crogiolo di idee contrarie e confuse. Ad allenare gli azzurri scelti dalla Commissione, l'ex campione del mondo Alfredo Foni che in panchina ha vinto con l'Inter gli scudetti del'53 e del '54 con il famigerato catenaccio. Si arriva all'urna di Zurigo dove vengono decisi i gironi di qualificazione al mondiale in Svezia, l'Italia pesca Portogallo e Irlanda del Nord, la critica li valuta scarsi, passeggiate. Il 25 aprile 1957 all'Olimpico di Roma c'è l'esordio contro i nordirlandesi, in difesa il blocco della Fiorentina, segna subito Sergio Cervato su punizione, l'Irlanda del Nord prende tre pali ma non fa notizia, 1-0 e la Commissione convince Foni a non insistere con il catenaccio, siamo troppo più forti, spazio allo spettacolo. Secondo segnale, sei pere dalla Jugoslavia a Zagabria in Coppa Intercontinentale a maggio, in campo nove giocatori della Fiorentina più Boniperti e il laziale Lovati in porta, Foni si spaventa, cambia tutto e arriva un umiliante 3-0 a Lisbona contro il Portogallo. Finimondo, Pozzo lapidario: Abbiamo toccato il fondo, eravamo i più forti, adesso siamo gli ultimi. Gianni Brera invoca il santo catenaccio con colate di piombo che fanno tremare la Commissione, non basta, il 4 dicembre la Nazionale vola in Irlanda e Foni ripropone il WM, tragedia, è la battaglia di Belfast. Arbitra l'ungherese Istvan Zsolt che non arriva mai. A Bruxelles è bloccato da pratiche burocratiche, manca un visto, gran lavoro delle diplomazie, raggiunta faticosamente Londra a frenarlo è la nebbia, i voli da Heathrow per Belfast sono sospesi. A raccontare l'assurdo è Walter Mitchell: Mio padre è lì in panetteria che sta lavorando quando irrompe la polizia che gli ordina di mollare tutto e dirigersi immediatamente a Windsor Park, deve arbitrare Irlanda del NordItalia alle 14,30. Lo scortano fino a un paio di chilometri dallo stadio, poi le vie sono intasate di tifosi, non si passa, se la fa a piedi. Tommy Mitchell arriva, si gioca? Non se ne parla proprio. La federazione irlandese spinge, lo stadio è colmo, l'Italia non ci sta, parte la ritorsione, loro protestanti, noi cattolici, loro offesi, noi irremovibili a non accettare la direzione di un britannico che consente gioco duro e cariche al portiere, ad aggravare la situazione un'intervista del sudafricano e nazionale azzurro Eddie Firmani che presenta il nostro calcio come malato, drogato e vergognoso. Si decide di disputare comunque un'amichevole, agli irlandesi non piace la nostra nazionale gonfia di oriundi, fischiano il nostro inno, il campo una distesa di fango. Finisce 2-2 con una battuta di caccia agli italiani, i tifosi scavalcano la rete, invadono e picchiano forte, ci battiamo ma sono 50mila contro undici, più di un azzurro sparisce sotto una gragnuola di colpi, la polizia non interviene, sono i nazionali irlandesi a salvarci, l'unico illeso è Chiappella, era espulso. Quel 2-2 non vale. Battiamo il Portogallo a Milano ma con Ghiggia, Schiaffino, Da Costa e Montuori in attacco perdiamo 2-1 nella ripetizione a Windsor Park. Fuori dal Mondiale, quel 2-2 nella battaglia di Belfast ci avrebbe qualificato, dilettanti in tutto, e mentre si cercano papà e nonni di Sivori e Angelillo, tutta la colpa cade sugli oriundi, loro non amano la nostra bandiera. Eppure Miguel Angel Montuori è l'unico che quel giorno durante l'esecuzione dell'inno a Windsor Park si è emozionato e pianto come un bambino. Fa la sua ultima presenza in azzurro a Vienna due mesi dopo, unico oriundo a indossare la nostra fascia di capitano, lui figlio di emigranti napoletani nato lontano, ma più italiano di tanti. Il 25 marzo ore 20,45 Italia-Nord Irlanda qualificazione mondiale.

Estratto dell’articolo di Andrea Santoni per il corrieredellosport.it il 6 aprile 2021. Sull’Italia azzurra dunque si è allungata un’ombra inquietante, quella dei contagi da coronavirus, che si sta riverberando sul campionato italiano, con riflessi anche in Francia e Germania. Dopo Bonucci (Juventus) e Verratti (Psg), già colpiti al loro rientro da Vilnius, ieri sono risultati positivi Florenzi (Psg) e Grifo (Friburgo), oltre a Sirigu (secondo l’Ansa, dato che il club granata non ha dato conferma, come sua consuetudine) e Cragno (Cagliari), mentre a Torino, sponda bianconera, si sussurra di un caso “di debole positività” e a Milano circolano indiscrezioni su un altro nome di peso (milanista) coinvolto. Nel giro di una settimana insomma una quindicina di uomini della Nazionale sono stati aggrediti dal virus (in realtà si può affermare che l’emergenza ha assunto dimensioni ben maggiori, in ambito Figc). Alla mezza dozzina di calciatori bisogna aggiungere gli otto uomini, sei dello staff tecnico (in pratica tutti i collaboratori del ct), due di quello federale, primi a manifestare il contagio all’inizio della scorsa settimana. Una situazione che preoccupa e imbarazza. Il presidente Gravina, negativo e in quarantena (come la maggior parte dei suoi collaboratori), ha annullato tutti i prossimi appuntamenti (compreso uno con la Sottosegretaria allo Sport, Vezzali), seguendo con attenzione l’evolversi della situazione. Intanto all’interno di molti club coinvolti il malumore per l’accaduto è stato fin qui mascherato a stento. Per fortuna il primo gruppo di contagiati sta complessivamente bene, con sintomi contenuti. Un dato confortante, viste anche certe situazioni di grave fragilità. Il timore diffuso è che nelle prossime ore la situazione diventi ancora più “rossa”, dato il maturare dei tempi tristemente canonici per l’emergere di una positività. Come è evidente dagli accadimenti, vista la certa applicazione dei protocolli all’interno del gruppo squadra, non è arbitrario ipotizzare che qualcosa non ha funzionato nei comportamenti dello staff. Pensare a una “leggerezza” da parte di un membro in “libera uscita” prima di Sofia non ci pare esercizio dietrologico. Assistenti tecnici che prima si sono contagiati al loro interno, coinvolgendo poi Bonucci, per molti motivi l’elemento ad aver avuto più contatti con loro. Da escludere però che la bottiglia stappata dal capitano con i compagni per le sue 100 presenze azzurre, abbia potuto provocare alcunché.

Dagonews il 16 aprile 2021. Come nasce il focolaio azzurro? Cosa è successo nella doppia trasferta in Bulgaria e Lituania? Nel giro di una settimana una quindicina di uomini della Nazionale sono stati aggrediti dal virus. Non solo Bonucci, Verratti, Florenzi, Grifo, Sirigu, Cragno, Bernardeschi e Pessina, sono stati infettati diversi collaboratori del ct (tra cui De Rossi finito allo Spallanzani) e due dirigenti federali, i primi ad essere contagiati. Vista la rigorosa applicazione dei protocolli anti-Covid all’interno del gruppo squadra, i sospetti si sono appuntati sui comportamenti leggeri di qualche dirigente Figc. Magari tra Sofia e Vilnius un membro della spedizione azzurra ha approfittato di qualche ora di “libera uscita” per passare una notte allegra? Ah, saperlo…

Dagospia il 18 aprile 2021. RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO. SMENTITA - Spett.le Dagospia Alla cortese attenzione del Direttore Roberto D'Agostino Gentile Direttore, nell’interesse della Federazione Italiana Giuoco Calcio (F.I.G.C.), Le scrivo in merito all’articolo comparso sul suo Giornale nella data di ieri ed avente il titolo “come nasce il focolaio azzurro? una quindicina di uomini della nazionale aggrediti dal virus, De Rossi finito allo Spallanzani. Ma cosa è successo nella doppia trasferta in Bulgaria e Lituania? I sospetti si sono appuntati sulle notti allegre di qualche dirigente della FIGC” (quest’ultima frase, peraltro riportata in rosso). Ebbene, l’insinuazione proposta nel lungo titolo, ripreso poi -seppur brevemente- anche nel corpo del pezzo, è del tutto destituita di fondamento, falsa e altamente lesiva dell’immagine della Federazione, nonché dell’intera Dirigenza. Nessuno dei dirigenti F.I.G.C., infatti, ha in alcun modo violato i protocolli previsti dalla UEFA né dalle altre autorità sanitarie competenti. Con la presente, pertanto, si diffida formalmente la testata a rimuovere l’articolo o, quantomeno a correggerne il contenuto nei termini di cui alla presente smentita. In caso contrario, si provvederà ad adire le vie legali, nelle sedi competenti. Con i migliori saluti

Gianluca Piacentini per il “Corriere della Sera” l'11 aprile 2021.

«Sono venuto perché avevo troppi sintomi che non andavano via, e anzi peggioravano. Mi sono alzato dalla sedia normalmente e ho avuto un mezzo mancamento, mi fischiavano le orecchie, sentivo tutto ovattato, ho mezzo barcollato, mi sono messo paura e ho chiesto di fare un controllo. Sono venuto allo Spallanzani: ho una polmonite interstiziale bilaterale, non a un livello gravissimo ma c'è».

È lo stesso Daniele De Rossi, in un messaggio audio di circa un minuto mandato ad alcuni amici, che direttamente dal letto dell'ospedale romano dove è ricoverato ha spiegato le sue condizioni.

«Certo sarebbe stato meglio che non ce l'avessi avuto - ha proseguito -. Soprattutto, mi hanno detto se non fossi venuto, insomma... Non è uno stadio al limite, ma neanche un Covid da curare a domicilio».

Ad accompagnare l'audio, una foto in cui sotto la mascherina dell'ossigeno si intravede il suo volto sorridente, a testimonianza che lo spavento iniziale è passato. De Rossi è risultato positivo dopo il focolaio Covid nato la scorsa settimana all'interno della Nazionale, e in queste ore ha ricevuto moltissime testimonianze d'affetto da parte di amici, ex compagni di squadra, sportivi, dirigenti (compreso il presidente della Figc, Gabriele Gravina) e tantissimi tifosi, romanisti e non, che soprattutto attraverso i social non gli hanno fatto mancare il loro sostegno. Una conferma del miglioramento delle sue condizioni arriva anche dal professor Francesco Vaia, direttore sanitario dell'istituto che rappresenta un'eccellenza per i casi di Covid.

«Le sue condizioni - ha dichiarato a Radio Kiss Kiss e a Radio Punto Nuovo - sono attualmente buone e posso dire che siamo ottimisti. De Rossi è positivo e sintomatico, ha una polmonite e i motivi per il ricovero c'erano tutti. Ha tanta forza e determinazione, se continua così la settimana prossima potrà lasciare l'ospedale e proseguire la terapia a domicilio».

Fondamentale è stata la tempestività del ricovero.

«Quando si interviene presto e bene con la terapia, la malattia e il virus possono essere battuti e vinti».

Alberto Abbate Alessandro Angeloni per “Il Messaggero” l'11 aprile 2021. Ricoverata perché la tosse era così forte da farle mancare l'aria. Attimi di paura a casa Inzaghi per la moglie Gaia, trasportata nel primo pomeriggio di ieri in ambulanza allo Spallanzani per una sospetta polmonite, con un bruciore allo sterno che si irradiava sino alla gola. L'imprenditrice 38enne romana, nonché first lady del tecnico bianoceleste, aveva contratto il Covid pochi giorni fa e aveva rivelato al Messaggero in un'intervista: «Per cinque giorni, io e il mio piccolo Andrea di 8 mesi ci siamo sottoposti a test risultando negativi, poi il 7 aprile col molecolare ho finalmente scoperto di essere positiva. Sto male, guai a considerarla una banale influenza». Ha contratto il virus tutta la famiglia, ma il marito Simone, i domestici e il primogenito Lorenzo sono asintomatici per fortuna. Ieri invece le condizioni di lady Inzaghi sono peggiorate e lo stesso allenatore, consultandosi con alcuni medici della Lazio, le ha suggerito di sottoporsi ad esami d'urgenza per scongiurare complicanze. Dall'ospedale assicurano che le condizioni non preoccupano, ma è comunque opportuno monitorarla. E qualche ora d'ansia l'ha vissuta anche Daniele De Rossi, ricoverato da giovedì scorso allo Spallanzani. Sta bene, come dichiarato dal direttore sanitario, il prof. Francesco Vaia: «Il suo decorso è buono, risponde alla terapia e la settimana prossima potrebbe anche essere dimesso e proseguire la terapia a domicilio». Ma, come detto, il timore è stata tanto, come ha raccontato lo stesso De Rossi agli amici in un audio: «Sono venuto perché avevo troppi sintomi che non andavano via, ho la polmonite interstiziale bilaterale, non a un livello gravissimo però ce l'ho. Non è uno stadio al limite, ma non è neanche un Covid da curare a casa». Nel vocale, al quale l'ex giallorosso ha aggiunto anche una foto in cui respira con la mascherina dell'ossigeno, e in cui si sentono diversi colpi di tosse, ha spiegato che nei giorni scorsi si è «alzato dalla sedia ma senza farlo in maniera troppo veloce, normale come sempre e ho avuto un mezzo mancamento. Sentivo tutto ovattato, ho barcollato e mi sono messo paura, ho chiesto di fare un controllo. Ho la polmonite interstiziale bilaterale, non a un livello gravissimo però ce l'ho, era meglio se non ce l'avevo. E mi hanno detto soprattutto che se non fossi venuto...» . Il contagio di De Rossi, attuale componente dello staff della Nazionale di Mancini, è stato riscontrato il 31 marzo a Vilnius, subito dopo la conclusione di Lituania-Italia, gara di qualificazione ai mondiali del Qatar del prossimo anno. L'ex capitano della Roma, dopo il tampone positivo, era tornato a Roma su un volo speciale (in aeroambulanza), insieme ad altri due componenti dello staff azzurro positivi. È rimasto isolato nella sua casa davanti a Castel Sant'Angelo e, inizialmente, non ha sviluppato sintomi preoccupanti. Solo dopo avere eseguito la Tac all'ospedale San Camillo, ha deciso, su consiglio dei medici, di ricoverarsi allo Spallanzani, dov'è sotto osservazione costante a causa della polmonite, senza però che al momento le sue condizioni destino preoccupazioni. Resta da capire come il Coronavirus si sia diffuso all'interno del team della Nazionale. In totale sono otto i positivi tra i calciatori: Cragno, Sirigu (non ufficializzato dal Torino), Bonucci, Florenzi, Verratti, Pessina, Bernardeschi e Grifo. A questi si aggiungono sette componenti dello staff di Mancini (assente nelle tre partite di novembre, bloccato proprio dal Covid-19), più dirigenti e dipendenti della Figc. Addirittura venticinque i contagiati.

Dagonews l'1 marzo 2021. La riconferma alla presidenza Figc, gli Europei, la Superlega, l’assenza del ministero dello sport, il rinnovo di Mancini. Gabriele Gravina a “Campioni del Mondo” su Rai Radio2 parla della sua rielezione con percentuali bulgare (73,45% dei voti) e lo fa partendo da una citazione di Seneca: “Non è perché le cose difficili che non osiamo farle, è perché non osiamo farle che diventano difficili”. Sul ritorno negli Stadi, il DPCM non permette fughe in avanti: “Non possiamo vantare un diritto in questo momento rispetto ad altre categorie per quanto riguarda la fruizione dello spettacolo da parte dei tifosi. I tifosi ci mancano, inutile dirlo. Dobbiamo prepararci almeno per il campionato europeo ad avere un po' più di spettatori. Intanto l’'Inghilterra, che è molto più avanti con i vaccini, si è proposta per ospitare la fase finale dell'europeo. “Devo fermarmi ad un riferimento certo che sono le indicazioni che la UEFA ha dato sul fatto che il campionato rimane nella sua struttura organizzativa così come è stato ideato, progettato e organizzato. Noi stiamo andando avanti con i nostri lavori per la fase finale e il 5 aprile avremo un incontro con tutte le altre federazioni e quella sarà la data decisiva”. Le ragazze del calcio si sono qualificate per l'europeo. Quando una riforma che doterà anche le calciatrici del professionismo? “Attualmente c’è un decreto attuativo in cui è previsto l'introduzione del professionismo nel mondo dello sport femminile. Noi siamo stati dei precursori perché abbiamo adottato una delibera in tempi non sospetti che lo ha fissato a partire dal campionato 2022/23". Il presidente della Figc parla anche dei conti del calcio (“a me non preoccupano”), dell’ingresso dei fondi (“Io sono imprenditore e amo più il progetto. Il fondo non è la soluzione al problema”) e chiude le porte alla Superlega: “Penalizzerebbe moltissimo quella dimensione di territorialità, di nazionalità che rende anche molto vivo, molto attivo il nostro campionato e noi su questo non siamo assolutamente d'accordo”. Sul fatto che non sia stato nominato un ministro dello sport e neanche un sottosegretario, Gravina coglie il lato positivo della scelta di Draghi: “Mi avrebbe fatto piacere un ministero con portafoglio, avrebbe restituito dignità allo sport ma il premier considera il mondo dello sport tanto importante da tenerlo per sé, almeno per ora. Sono tranquillo, continueremo a lavorare in sintonia”. Sul rinnovo di Mancini, il numero 1 del calcio italiano si dice sereno: “Con il ct troveremo un accordo nel più breve tempo possibile, per il rinnovo”

Soldi, voti, calcio e presidenze...Gli intrecci tra Lega e Associazione Calciatori: lo strano ritiro del favoritissimo Tardelli e i 2 milioni pubblici ‘regalati’ da Gravina a Calcagno. Giulio Sandri su Il Riformista l'11 Febbraio 2021. C’è una strana storia che riguarda il mondo del calcio. E riguarda anche un tesoretto di parecchie migliaia (e migliaia) di euro. La riassumiamo così. L’associazione calciatori (la mitica Associazione Calciatori che fu fondata quasi mezzo secolo fa da Rivera e da Mazzola) ha un peso elettorale discreto nell’elezione del presidente della Figc (la Federazione Italiana Gioco Calcio). Attualmente il presidente della Federazione si chiama Gabriele Gravina, ed è un tipo che ci sa fare. Il 20 febbraio si voterà per la scelta del nuovo presidente. Gravina è di nuovo candidato. Intanto si è già svolta l’elezione per il nuovo presidente dell’associazione calciatori. Candidati l’uscente Umberto Calcagno e il mitico Marco Tardelli. Però a un certo punto, Tardelli, favoritissimo e che ha già svolto una buona campagna elettorale, si ritira. Calcagno resta solo e vince. Subito dopo aver vinto sottoscrive una scrittura privata con Gravina nella quale la Figc si impegna ad aumentare il contributo che versa all’associazione calciatori. Da un milione a due milioni e trecentomila. Un bel regalo. Calcagno è contento, avrà vita facile. Chissà come volterà l’associazione calciatori il 22 febbraio, quando si deciderà la conferma o no di Gravina… La scrittura privata viene portata il Consiglio federale solo qualche giorno fa, ma in condizioni tali che il consiglio federale non può che ratificare. Attenzione: stiamo parlando di fondi pubblici, non di fondi privati. Vabbè, evidentemente nel calcio le cose vanno così. Rigore, trasparenza, religione dell’interesse pubblico…

Inter - Juventus del 2018, Orsato: “Su Pjanic ho sbagliato”. La nostra inchiesta sul “giallo”. Le iene News l'1 marzo 2021. L’arbitro Daniele Orsato ammette tre anni dopo l’errore della mancata seconda ammonizione, con conseguente espulsione, del bianconero durante Inter - Juventus del 2018, decisiva per lo scudetto vinto poi dai torinesi sul Napoli. Noi de Le Iene, con Filippo Roma e Marco Occhipinti, avevamo indagato su questo episodio parlandovi del mistero dell’audio del Var che sarebbe sparito. L'ex procuratore Figc Pecoraro: "Queste parole non sono una soddisfazione, mi arrivò il video, non l'audio". "Non serve andare a rivederlo dopo tre anni, sicuramente è un errore”. L'arbitro Daniele Orsato lo ha appena ammesso in tv dopo quell’Inter-Juventus del 28 aprile 2018 che ha scatenato tante polemiche. Di questo caso, in particolare della conversazione con il Var che sarebbe sparita, vi abbiamo parlato anche noi de Le Iene con il servizio di Filippo Roma e Marco Occhipinti del 6 ottobre 2020 che potete rivedere qui sopra. Stiamo parlando di una partita, vinta per 3-2 dalla Juventus a San Siro a tre giornate dalla fine della serie A, che risultò decisiva per lo scudetto conquistato poi dai bianconeri dopo un testa a testa con il Napoli. L’episodio per cui Orsato ammette oggi l’errore è quello del mancato secondo giallo per lo juventino Miralem Pjanic per un fallo su Rafinha. La seconda ammonizione avrebbe portato alla sua espulsione, fu chiesta a gran voce dagli interisti e appunto con molte polemiche successive durante negli anni perché questo episodio potrebbe aver influenzato l’esito di quel campionato. “La vicinanza dell'azione non mi ha fatto vedere quanto mostrato dalla tv: per me è stato un contrasto fisico al volo, il Var non poteva intervenire". Daniele Orsato ha risposto così ieri durante la trasmissione Novantesimo Minuto. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti ci siamo chiesti che fine hanno fatto le comunicazioni audio tra Video assistant referee e arbitro di cui parla l'ex procuratore della Figc Giuseppe Pecoraro. "L'ammissione di colpa di Orsato sul caso Pjanic non rappresenta per me una soddisfazione", ha dichiarato Pecoraro a Radio Crc commentando le ultime parole di Orsato. "A distanza di anni non capisco ancora perché di quell'episodio mi arrivò il video, ma non l'audio. A differenza degli altri frame che richiesi... Orsato ieri alla Rai ha detto che il Var non poteva intervenire. Il quarto uomo sì, però".

LA NOSTRA INCHIESTA. Come potete vedere qui sopra, al momento del fallo Orsato, molto vicino, sembra avere il cartellino in mano. Dopo qualche secondo di attesa però non ammonisce Pjanic per il suo intervento scomposto ma l’interista D’Ambrosio. Quell’ammonizione era fin dall’inizio per l’interista o per lo juventino? Durante quei 35 secondi tra il fallo e l’ammonizione il Var ha comunicato qualcosa negli auricolari dell’arbitro Orsato? Sono le domande che si sarebbe fatta all’epoca la procura della Federazione italiana giuoco calcio. L’ex procuratore Pecoraro dice a Filippo Roma a proposito di un'eventuale comunicazione via radio del Var all'arbitro Orsato: "Quel file su Inter-Juve di Orsato è sparito". Pecoraro all'epoca avrebbe chiesto  i file audio-video di quel match, i dialoghi tra il Var e l’arbitro Orsato ricevendoli soltanto sei mesi dopo solo con la parte video, non audio. "La Lega disse che non l'avevano, che non c'era l'audio", sostiene Pecoraro che racconta ancora che quella sua richiesta creò forti tensioni con il mondo arbitrale e che nessuno gli avrebbe mai dato mai una spiegazione chiara del perché mancasse solo l’audio relativo a quell’episodio. Secondo Nicola Rizzoli, designatore degli arbitri di Serie A, non ci sarebbe nessun mistero: "Non è scomparso nulla, non c’è nulla da nascondere. A Pecoraro è arrivato il video, è quello che è arrivato a tutti, nel senso le telecamere normali, le immagini normali, quella evidentemente non è una situazione da Var". Pecoraro però, raggiunto nuovamente al telefono, insiste: "Ritengo che abbiano parlato, però lo ritengo io. Che cosa si siano detti, questo non lo sappiamo. La risposta più semplice è che non me l’abbiano voluto dare, perché mi danno l’audio degli altri episodi e non mi danno questo, quando a me interessava soltanto quell’episodio lì…".

Da corriere.it l'1 giugno 2021. C’è finalmente una verità, forse, su uno dei casi recenti più clamorosi del calcio italiano: il famoso fallo (non punito) di Pjanic su Rafinha in Inter-Juventus 2-3 del 28 aprile 2018, una partita che poi risultò decisiva per la conquista dello scudetto bianconero a spese del Napoli. A proporla, in un servizio che andrà in onda martedì 1 giugno su Italia 1, è il programma «Le Iene», che ha provato a dare finalmente parola al famoso file video senza audio in cui è registrato il colloquio fra l’arbitro Daniele Orsato e il Var Paolo Valeri. Come ha fatto? Affidando la lettura del labiale a due consulenti sordi la cui conclusione è che il Var aveva detto all’arbitro che il contrasto fra Pjanic e Rafinha c’era (come poi lo stesso Orsato ha ammesso lo scorso febbraio). Fallo da giallo, insomma. Che avrebbe significato seconda ammonizione per Pjanic, conseguente espulsione e ripristino della parità numerica saltata nel primo tempo con l’espulsione dell’interista Vecino (un altro episodio, svela il servizio, piuttosto controverso). Ma ripartiamo dall’inizio. Il 28 aprile 2018, a tre giornate alla fine del campionato di serie A, dopo che il Napoli la settimana prima ha battuto 1-0 la Juve a Torino portandosi in classifica a -1 dai bianconeri, si gioca a San Siro Inter-Juve. Al 12’ del secondo tempo, sull’1-1, Pjanic, già ammonito, entra duro su Rafinha e rischia l’espulsione per doppia ammonizione. Subito dopo il fallo — obiettivamente da giallo, senza se e senza ma — l’arbitro Orsato tira fuori il cartellino giallo dalla tasca, ma dopo 35 secondi di attesa decide di non ammonire Pjanic per il suo intervento scomposto, bensì l’interista D’Ambrosio per proteste. Quel cartellino era per l’esterno dell’Inter o per Pjanic? Durante quei 35 secondi tra il fallo e l’ammonizione, il Var ha comunicato qualcosa negli auricolari a Orsato? E, se sì, cosa? Se lo era già domandato l’ex procuratore federale Giuseppe Pecoraro, che nell’ottobre 2020, sempre a «Le Iene», svelò come, subito dopo la partita, chiese i relativi file audio-video dei dialoghi tra il Var e l’arbitro, ma che questi gli sarebbero stati forniti solo sei mesi dopo. Non solo: tra gli episodi ricevuti dalla Lega, l’episodio del fallo di Pjanic aveva il video, ma, appunto, non l’audio dei colloqui tra Var e Orsato. Nel servizio si raccontano molte cose. Storie di versioni cambiate, omissioni, reticenze. I protagonisti (compreso il designatore arbitrale Nicola Rizzoli) contattati dall’autore, Filippo Roma, non hanno voluto parlare, invitando il cronista a rivolgersi agli avvocati, anche perché il programma è già stato querelato dai tre arbitri proprio per il precedente servizio di ottobre con Pecoraro. Querela da cui è partita un’inchiesta della squadra mobile di Bologna. E qui arriviamo al clou del servizio. Le immagini inedite della sala Var, decrittate dai due consulenti non udenti, dovrebbero consentire di rispondere a due domande: arbitro e Var si sono parlati? E, se sì, che cosa si sono detti? La risposta alla prima domanda è un chiaro sì: lo si capisce quando si vede Valeri premere il pulsante rosso che mette in comunicazione la sala con il direttore di gara in campo. La risposta alla seconda è la seguente: «Valeri (affiancato dall’assistente Var, Alessandro Giallatini, ndr) preme il pulsante rosso e dice “ho controllato adesso, il contrasto c’è”», spiega il primo consulente de «Le iene», Giuliano. Da notare che al momento del contatto Pjanic-Rafinha, Valeri esclamerebbe subito: «Uuuh, check!», cioè esaminiamo le immagini. Il sospetto sulla gravità dell’intervento, insomma, gli viene da subito. Osserva Alessandro, il secondo esperto non udente: «Valeri mi sembra che dica “ho controllato adesso, lo riguardo un secondo, ho controllato, un contatto c’è”». E quindi la frase per intero potrebbe essere, con tutto il beneficio del dubbio: «Ho controllato adesso il contatto c’è». Poco dopo — su questo i due consulenti concordano — l’assistente Giallatini dice a Valeri: «Per me è giallo, per me è giallo», e Valeri gli risponde «Sì certo». Secondo «Le Iene» tutto questo confermerebbe due cose: 1. che per il Var Valeri e il suo assistente sembra che non ci siano dubbi sul fatto che il fallo di Pjanic meriterebbe il giallo, che invece Orsato non dà. 2. che ci sono molte differenze fra quanto emerge da queste immagini decrittate e la ricostruzione fatta a suo tempo dai protagonisti. Tre anni dopo insomma le ombre sulla vicenda sembrano ancora più dense. Perché così poca chiarezza? Perché tante versioni contraddittorie? Contattati telefonicamente, sia Orsato che Valeri che Rizzoli si sono rifiutati di parlare. Così l’assistente Giallatini, mentre non è stato possibile parlare con l’Aia, l’Associazione italiana arbitri. Da ultimo Damiano Di Iorio, arbitro che quella sera era in training in sala Var, ha rifiutato di commentare con questa argomentazione: «Non voglio crearmi dei problemi personali, più che altro». Il servizio si conclude coinvolgendo ancora l’ex procuratore Giuseppe Pecoraro: «Per me il mistero non c’è mai stato — dice —. Ero convinto dell’errore dell’arbitro. Queste immagini confermano i pensieri cattivi che avevo...». E tre anni dopo il caso, come l’inchiesta, resta più aperto di prima.

DAGONOTA il 3 giugno 2021. Marco Occhipinti e Filippo Roma, autori dell’inchiesta giornalistica de "le Iene", presentano una nuova istanza e chiedono di essere sentiti dalla Procura di Bologna. I due erano stati querelati a seguito della messa in onda del primo servizio (6 ottobre 2020) sul caso, insieme all’ex Procuratore Giuseppe Pecoraro. Occhipinti e Roma fanno istanza per un'ulteriore indagine alla procura di Bologna, tra cui quella di sentire i tecnici della società che si occupa della parte tecnologica delle registrazioni della sala Var.

Pino Taormina per "il Mattino" il 3 giugno 2021. La prima diffida che viene inviata alla Procura federale la firma l'avvocato napoletano Erich Grimaldi. Viene spedita la sera del 3 maggio 2018, cinque giorni dopo la gara tra Inter e Juventus. È il primo atto che apre il caso (ma arriveranno altri esposti di avvocati e associazioni) che, poi, viene rilanciato sia dall' intervista al Mattino dell' ex prefetto Pecoraro che ammise l' assenza dell' audio che dai servizi delle Iene. «Ma commisi un errore - racconta l' avvocato Grimaldi - e la procura federale mi rispose dicendo che non avrebbe mai potuto rilasciare i file del Var opponendo la circostanza che fossi un soggetto estraneo all' ordinamento federale e quindi a ottobre dello stesso anno, vennero archiviate tutte le denunce, con riferimento all' evento». Ovviamente, l'allora presidente della procura Figc Giuseppe Pecoraro, a sua volta, aveva avviato un procedimento, facendo richiesta sia all' Aia che alla Lega Calcio degli audio e dei video relativi a quei trentacinque secondi. E scoprì, anche lui, quando arrivò il plico che c' era un file video ma senza voci. Racconta ancora l' avvocato Grimaldi: «All' epoca non immaginavo che bisognasse inviare la diffida, via pec, anche alla Ssc Napoli (interessata alla classifica) o all' Inter (che aveva disputato la partita), squadre che avrebbero potuto proporre ricorso, sollecitare la consegna dell' audio della sala Var, secondo quanto previsto dal Codice di Giustizia Sportiva nei termini previsti ex art. 38, compulsando le necessarie indagini e verifiche. Si perse del tempo prezioso. Ma resta la mia domanda: se ho inviato una diffida, perché tutta quella fretta?». In realtà, nel corso delle dichiarazioni rese da Luca Borrelli, manager di Hawk-Eye, alla squadra mobile della questura di Bologna, c' è la spiegazione. Che piaccia o no, i file audio e quelli video vengono archiviati in maniera separata e conservati nella sala Var dello stadio fino alla gara successiva. In questo caso, la gara successiva venne giocata il 5 maggio e fu Milan-Verona. L' avvocato Grimaldi racconta ancora. «Mi ha colpito il silenzio del Napoli. Perché provvidi dopo qualche giorno, a invitare, pubblicamente, De Laurentiis a proporre ricorso per richiedere i file audio delle conversazioni in contestazione. Ma nulla fu fatto, il Napoli non ha mai sollecitato la consegna di audio, almeno a quanto risulta dalla documentazione in mio possesso». In ogni caso, sarebbe stato inutile. Ma Grimaldi, da quel momento, diventa una spina nel fianco: «Nella stagione successiva, ad ogni episodio sospetto come per esempio dopo Sampdoria-Juventus e Juventus-Inter, inviavo la medesima diffida, per chiedere gli audio delle conversazioni degli episodi dubbi, indirizzandola, in questo caso, anche alle squadre direttamente interessate, tra le quali, ovviamente, il Napoli. E ho pure inviato altre diffide come dopo il contatto tra Kjaer e Llorente in Napoli-Atalanta». Fu lo scontro che spinse Carlo Ancelotti ad affrontare faccia a faccia Rizzoli nel corso di un incontro tra arbitri e allenatori a Roma. Il legale allarga le braccia. «Hanno sempre archiviato le mie richieste e mai alcun file audio mi è mai stato consegnato. Però, ricordo ancora che a maggio del 2018 c' era persino chi dubitava dell'esistenza di questi file. Invece ci sono e non dovevano essere archiviati. Non si ferma, Grimaldi. Nei prossimi giorni intende presentare un altro esposto. «Ma questa volta mi rivolgo alla procura della Repubblica, perché il servizio delle Iene mostra delle novità che vanno approfondite, proprio alla luce del mio esposto. Dalla lettura del labiale, Valeri preme il pulsante rosso e dice ho controllato adesso, il contrasto (o il contatto, ndr) c'è, dice questa frase. Ed era evidente, a mio avviso. Perché le immagini dal campo mostrano chiaramente che Orsato mette la mano all' orecchio. Quindi sente qualcosa che arriva dalla Sala Var. Spero che anche Rizzoli voglia chiarire le sue versioni rese in varie circostanze». Ovvio che la messa in onda del servizio delle Iene ha di nuovo portato alla ribalta il fallo di Pjanic su Rafinha. Il video, senza audio, compare nel fascicolo della procura di Bologna che sta indagando dopo la querela presentata da Rizzoli, Orsato e Valeri proprio contro lo storico programma di Italia Uno. Denunciato per diffamazione in seguito al servizio andato in onda a ottobre dello scorso anno. Anche il prefetto Pecoraro è coinvolto nella querela. Qualche settimana fa ha richiesto ai suoi ex colleghi della procura federale, ora guidata da Giuseppe Chiné, l'accesso agli atti. In realtà, i suoi atti, ovvero quelli tra maggio e novembre del 2018 che aveva custodito in cassaforte. E di cui, facile immaginare vista la richiesta, non ne aveva conservato copie. Ma la procura ha negato l'accesso agli atti, proprio perché tutto è stato sequestrato dalla procura di Bologna.

Pino Taormina per "il Mattino" il 3 giugno 2021. L' ex prefetto di Roma non si tira indietro neppure questa volta. Da capo della Procura federale aveva chiesto spiegazioni, sollecitato da vari esposti. E non ne aveva avute. E lo spiegò nella sua intervista al Mattino del maggio 2020: «Volevo sentire l' audio di Orsato e Valeri, ne feci richiesta, mi arrivò e ci fu la sorpresa: non c' era l' audio». Tredici mesi dopo, Giuseppe Pecoraro, rivede le immagini senza voci.

Ma c' è qualcosa che andava tenuta così nascosta dell' audio di Inter-Juve?

«Non ho mai pensato alla malafede di Orsato o di qualsiasi arbitro che era in quella sala Var: se è corretta l'interpretazione data dalle Iene, che non sono certo organo di polizia giudiziaria, del labiale di Valeri, l'accenno al contrasto o al contatto mi sembra rilevante ai fini di un conseguente provvedimento da assumere in campo. Vero che il Var non può chiamare, ma suggerire sì». 

Cosa deve fare il mondo del calcio per uscire fuori da queste ombre?

«Occorre una maggiore collaborazione tra gli organi giudicanti e non. Anche perché la giustizia sportiva concorre al perseguimento dei valori del calcio».

Quanto ha pesato a livello personale questa vicenda?

«Mi ha dato conferma che qualcosa nel sistema calcio va cambiato. Lo pensavo già prima di diventare procuratore federale e lo penso oggi che non lo sono più. Ma certamente non è possibile cambiarlo senza la collaborazione di tutti».

Perché a suo avviso è rimasto il video ma non c'è l'audio?

«Non so che dire, forse ci sono anche delle ragioni tecniche che non conosciamo bene, magari per scongiurare altre polemiche sugli arbitri, per evitare inutili veleni. Perché tanto, insisto, io alla malafede non ho mai pensato che ci fosse. Sempre ammesso che l' audio sia esistito ed esista».

Che senso ha, a suo avviso, quella mail in cui Rizzoli chiede dell' audio quando invece sostiene che questi vengano cancellati quando sono riferiti a episodi di campo irrilevanti?

«Questo non lo so. Ma spero che sia Rizzoli a spiegarlo». 

Cosa la colpisce di più di quel video senza audio mandato in onda dalle Iene?

«Di tutto la ricostruzione, è quando si presume venga pronunciata la parola contrasto o anche contatto. Ecco, in questo caso, la parola sentita avrebbe richiesto una maggiore attenzione da parte dell' arbitro in campo, che avrebbe dovuto sollevare il suo dubbio. Devo dire che in tutto ciò che si vede è questo il passaggio che più mi ha colpito».

Alla fine di tutto, ci sono le risposte alle sue domande?

«Le risposte me le sono già date da tempo: non ho mai creduto che quell' errore abbia influenzato la lotta per quello scudetto. Perché il Napoli il duello con la Juventus lo ha perso il pomeriggio dopo quando ha perso in casa della Fiorentina». 

Orsato che ammette il suo errore mette la parola fine delle vicenda?

«Non ci stava nulla di male se lo avesse detto dal primo istante. Io mi auguro che prima o poi questo audio venga reso noto. Ripeto, se esiste o sia mai esistito». 

Cosa bisogna fare per uscire da queste situazioni?

«È necessaria una riforma complessiva e istituzionale. Una riforma incisiva del mondo arbitrale e non. Il presidente dell' Aia, a mia avviso, deve essere eletto dal consiglio federale». 

L' utilizzo del Var si sperava cacciasse via ogni ombra. Com' è migliorabile questo straordinario strumento tecnologico?

«Secondo me sarebbe interessante che il Var possa essere richiesto dall' allenatore almeno una volta per gara. Per qualunque caso un tecnico lo ritenesse necessario, anche quelli che non sono inseriti dal protocollo Var. D' altronde, credo che qualcosa vada fatto visti anche i tanti errori nel campionato che è appena terminato.

Dagospia il 4 giugno 2021. Il servizio di Filippo Roma de Le Iene  sulla vicenda #Orsato - #Pjanic con il nuovo filmato della sala VAR e la lettura dei labiali merita risposte esaurienti. In tutte le sedi.

Da tuttosport.com il 4 giugno 2021. "Servizio de Le Iene? Pazzesco, il bello è che sono stati anche querelati. Hanno fatto un autogol e forse pure uno. Se sai di essere dalla parte del torto - e lo sai - perché vuoi andare a punzecchiare? Quello poteva essere il terzo Scudetto del Napoli ed è stato letteralmente scippato uno Scudetto già vinto”. […]

Da ilnapolionline.com il 4 giugno 2021. A Radio Marte nel corso della trasmissione “Marte Sport Live” è intervenuto Maurizio Pistocchi, giornalista. “Servizio Le Iene? Il tratto più sconfortante della vicenda è legata proprio al video, cioè che tutto quello che ci avevano raccontato in relazione agli episodi non era vero. Ci è stato detto che non c’era stato colloquio, che non c’era audio e video. In quella partita ci sono stati numerosi errori, anche a vantaggio dell’Inter. Ma non è questo il punto. L’episodio di Pjanic è clamoroso perché avvenuto sotto gli occhi dell’arbitro. Il giudice è l’arbitro ma se mente e viene scoperto a mentire che tipo di credibilità può avere? Io penso che in un Paese serio stamattina Orsato, Rizzoli e Valeri avrebbero dato le dimissioni. Il video è come le intercettazioni, le immagini sono lì e parlano da sole. C’è anche l’indicazione che viene data, cioè di dare il giallo. La cosa che mi ha lasciato esterrefatto riguarda il fatto che gente che fa il nostro lavoro non ha voluto dare un parere. Ma perché, di cosa avevano paura? Che male c’è a dare un parere se quel parere è onesto e corretto? Questo mi fa pensare moltissimo. La FIGC avrebbe dovuto commissariare l’AIA, che a questo punto non è credibile. Anche l’Ordine dei Giornalisti dovrebbe chiedersi come mai chi fa informazione non ha la personalità sufficiente per dire il suo parere in una situazione del genere. Sembra che la nostra Repubblica sia basata sull’omertà e questo non mi piace. E io sono contento di parlare, anche sbagliando, senza fare parte di questa parte di persone. Un’altra cosa che mi ha fatto pensare tantissimo è la questione della mail di Rizzoli a Rosetti: o gliel’ha fornita uno o l’altro, immagino più il secondo. Ma come mai? Non esiste che ci sia un omino vestito di giallo che decide cosa si registra o meno”.

Le Iene, scoop su Inter-Juve del 2018: cartellino rosso? La registrazione in sala-Var è sparita: una bomba, campionato truccato? Libero Quotidiano l'08 giugno 2021. Continuano a emergere nuovi dettagli sul match Inter-Juventus del 28 aprile 2018 valido per il campionato di Serie A e che, di fatto, ha consegnato il titolo nelle mani dei bianconeri. Da ottobre 2020, Le Iene - il programma di Italia 1 - hanno iniziato a occuparsi della vicenda, in seguito alle scottanti rivelazioni dell'ex procuratore federale Pecoraro. In un servizio che andrà in onda stasera, martedì 8 giugno, Le Iene indagano le conversazioni sparite tra il direttore di gara Daniele Orsato e Paolo Valeri, l'Avar responsabile di rivedere gli episodi dubbi in sala Var. Dopo i dubbi attorno alla mancata seconda ammonizione di Pjanic per un fallo sull'interista Rafinha, spunta ora il caso intorno al contatto tra il nerazzurro Vecino e il bianconero Mandzukic. Al 18' del primo tempo, con i bianconeri in vantaggio per 1-0, Vecino commette un fallo su Mandzukic. Daniele Orsato sembra non avere dubbi e mostra il cartellino giallo all'uruguaiano. Tuttavia, il croato continua a rimanere a terra, accennando timide proteste. Orsato inizia quindi a toccarsi l'orecchio per sistemare l'auricolare, iniziando una conversazione a distanza con Paolo Valeri che consiglia all'arbitro della sezione di Schio di andare a rivedere l'intervento al monitor. Bastano pochi secondi a Orsato per ribaltare la sua decisione iniziale: "Ca**o, è rosso questo Paolo". L'arbitro rientra quindi sul terreno di gioco, espellendo Matias Vecino. Il mistero non è tanto il fatto che Orsato abbia cambiato decisione, il Var esiste proprio per questo motivo. Il mistero è come le conversazioni tra Orsato e la sala Var, in entrambi gli episodi cardine dell'incontro, siano completamente spariti dall'archivio. Delle otto cartelle acquisite dalla Procura di Bologna, che ha fatto partire le indagini in seguito alla querela al programma da parte di Orsato, Valeri e del designatore Rizzoli, quella di Vecino presenta diverse anomalie. Mancano infatti le immagini della Var cam, la telecamera che riprende secondo per secondo tutto quello che accade in sala Var. Mancano quindi all'appello il video in cui Var e arbitro discutono la decisione e la spiegazione per cui l'intervento del centrocampista nerazzurro sia da espulsione e non da ammonizione, come inizialmente decretato dall'arbitrato. A gettare ulteriore ombra sulla vicenda le riprese della camera Main, la prima ad essere archiviata dato che riprende il campo dalla tribuna senza le interruzioni di replay o spot pubblicitari. La registrazione è infatti di 30 secondi più breve rispetto a quella delle altre telecamere: 5' invece che 5'30''. Ma i dubbi non si fermano qui: nel filmato della main-cam manca anche la voce del direttore di gara Orsato, presente invece negli altri sette spezzettoni archiviati. L'ipotesi avanzata dalle Iene è che i video siano stati tagliati. Per quale motivo, ancora non si sa. Contattati da Filippo Roma, i diretti interessati non hanno voluto rilasciare alcuna dichiarazione, invitando il giornalista a riferirsi ai loro legali. "Non posso rilasciare dichiarazioni" è il commento di Paolo Valeri. Che cosa si sono detti arbitro e Avar durante quegli importantissimi secondi del match? E per quale motivo anche con la tecnologia in campo, continuano a emergere non pochi dubbi sulle decisioni prese dagli arbitri? "La trasparenza deve essere il primo obiettivo. Il calcio deve ritornare a essere una passione senza lati oscuri. Dobbiamo far diradare le nebbie" ha commentato il magistrato anti-camorra Catello Maresca. 

Andrea Sereni per corriere.it l'8 giugno 2021. Non solo file in cui scorrono le immagini senza voce: è sparito anche un video di una conversazione arbitro-Var della partita Inter-Juventus 2-3 del 28 aprile 2018, quella del fallo (non punito con un cartellino) del già ammonito Pjanic su Rafinha, decisiva per lo scudetto vinto dal club bianconero a spese del Napoli. Un’altra anomalia evidenziata dal programma «Le Iene» —che da ottobre si occupa della vicenda dopo le rivelazioni dell’ex procuratore federale Pecoraro —, in un servizio in onda martedì 8 giugno. L’episodio in questione è l’intervento dell’interista Vecino su Mandzukic: inizialmente ammonito, il centrocampista uruguaiano viene poi espulso dopo un lungo colloquio tra il direttore di gara Daniele Orsato e la sala Var. Ma le immagini di questo momento non ci sono. Andiamo con ordine. Il Napoli ha appena vinto a Torino, portandosi a -1 dalla Juventus. A San Siro la squadra di Allegri gioca contro l’Inter, in corsa per un posto in Champions League. Al 18’ del primo tempo, sull’1-0 per i bianconeri, Mandzukic anticipa in scivolata Vecino, che lo colpisce con il piede sulla tibia. L’arbitro è vicino all’azione e, sicuro, mostra il cartellino giallo all’interista. Ma Mandzukic resta a terra, accenna una protesta, il gioco non riprende. Anche Orsato è fermo, con la mano sinistra sistema l’auricolare sull’orecchio: sta parlando con il Var Paolo Valeri. Decide di rivedere il contrasto al monitor a bordo campo, gli bastano dieci secondi per cambiare idea: «Lo prende dritto sulla tibia, l’intervento non è bellissimo», dice Valeri, e Orsato: «Rallenta adesso (riferendosi al replay, ndr): c…, è rosso questo Paolo». Così torna sui suoi passi, indica Vecino e lo espelle. Ed eccoci al nuovo mistero: delle otto cartelle acquisite dalla Procura di Bologna, che indaga sulla vicenda dopo la querela al programma di Orsato, Valeri e del designatore Rizzoli, quella relativa all’espulsione di Vecino presenta delle anomalie. Sono innanzitutto sparite le immagini della cosiddetta Var Cam, la telecamera che registra ciò che accade all’interno della sala Var. Non c’è quindi il video di Var e arbitro che parlano della decisione da rivedere, di come e perché l’intervento del centrocampista dell’Inter sia da rosso e non da giallo. E ancora: il file della camera Main, la prima ad essere archiviata per ogni episodio in quanto riprende il campo dalla tribuna senza interruzioni per replay o altro, è trenta secondi più corto rispetto a quelli delle altre telecamere (5’ invece che 5’30’’). La durata solitamente è identica, non in questo caso. Non è finita qui. Nel filmato (sempre della Main Cam) non si sente mai la voce dell’arbitro Orsato, presente invece negli altri sette episodi archiviati. Sembra quasi, secondo «Le Iene», che ci siano stati dei tagli ad hoc. Ma perché? Anche stavolta i protagonisti, contattati dall’autore Filippo Roma, non hanno voluto parlare, invitando il giornalista a rivolgersi agli avvocati. A Valeri è stato chiesto un commento anche sul caso Pjanic: cosa si sono detti lui e Orsato nei 35 secondi che hanno preceduto il giallo all’interista D’Ambrosio (per proteste)? Alla Procura l’arbitro al Var ha detto di aver chiesto al collega chi avesse intenzione di ammonire. Una versione smentita da due consulenti non udenti del programma, secondo cui il Var avrebbe detto ad Orsato che il contrasto tra Pjanic e Rafinha c’era, e anzi era un fallo da giallo. Ma la risposta del fischietto romano è sempre la stessa: «Non posso rilasciare dichiarazioni». «Ascoltare i dialoghi tra Var e arbitro? La trasparenza dev’essere il primo obiettivo — le parole del magistrato anti-camorra Catello Maresca, candidato sindaco a Napoli, con cui si chiude il servizio —. Il calcio deve ritornare a essere una passione senza lati oscuri. Dobbiamo far diradare le nebbie». Che invece, a tre anni da quell’Inter-Juventus, sono sempre più minacciose.

Inter-Juve 2018: oltre all'audio della sala Var, è sparito anche un video? Le iene News il 10 giugno 2021. Inter-Juve 2018, non c’è solo il caso Pjanic di cui si discute da anni: ve ne abbiamo già parlato martedì 1 giugno con le prime scoperte clamorose. Con Filippo Roma e Marco Occhipinti ci concentriamo questa volta su un altro episodio decisivo della partita. Dopo l’audio sparito, sembra scomparso anche il video della sala Var nel momento del cartellino rosso a Vecino. E questo, anche secondo tutte le versioni date dal designatore degli arbitri Rizzoli, doveva proprio esserci. Non c’è solo il caso dell’audio della sala Var “sparito” nel momento della mancata espulsione del bianconero Pjanic per quanto riguarda Inter-Juventus del 2018. Sembrano mancare anche le immagini dell’espulsione precedente dell’interista Vecino? Del primo caso vi abbiamo appena parlato in onda martedì 1 giugno (qui il servizio), del secondo vi parliamo ora nel nuovo servizio qui sopra. Siamo andati a parlarne direttamente con l’arbitro presente nella sala Var Paolo Valeri, che siamo riusciti a trovare mentre era dal barbiere, e con il designatore degli arbitri di serie A Nicola Rizzoli. Nel servizio qui sopra potete vedere cosa ci hanno detto. 

IL CASO PJANIC

Facciamo un passo indietro. Nel servizio di martedì scorso siamo tornati sul mancato secondo giallo, e quindi mancata espulsione, dello juventino Pjanic per capire cosa si sono detti arbitro e sala Var in quel momento. Ce ne eravamo occupati per la prima volta in ottobre e siamo stati querelati da tre dei più importanti arbitri italiani (Valeri, Rizzoli e l’arbitro allora in campo Daniele Orsato). Da quella querela è partita un'inchiesta che ci ha permesso di fare scoperte davvero importanti. All'ex procuratore Figc Giuseppe Pecoraro erano arrivate in precedenza solo le immagini e non gli audio della sala Var. Noi vi abbiamo potuto mostrare in onda quel video in esclusiva. Non solo, abbiamo letto i labiali e abbiamo fatto appunto scoperte clamorose, che sembrano non corrispondere a quanto raccontato dagli arbitri finora. C’è anche un’email del designatore degli arbitri di Serie A Nicola Rizzoli che sembra smentire quanto aveva detto lui stesso in precedenza, ovvero che la mancanza di quell’audio della sala Var sarebbe dovuta al fatto che vengono registrati solo i “4 casi previsti da protocollo” (e l’episodio di Pjanic, diceva, non era tra questi). Nell’email Rizzoli dice a Roberto Rosetti, responsabile italiano del progetto Var, che aveva notato la mancanza di quell’audio. Come poteva esistere, e mancare, se non doveva essere archiviato? 

IL CASO VECINO

Ora ci concentriamo sul caso Vecino perché, riguardando i video acquisiti all’epoca dalla Procura Federale Figc, abbiamo scoperto un’altra clamorosa mancanza. I nerazzurri durante quell’Inter-Juventus del 2018 sono con un uomo in meno dal 18° del primo tempo: l’interista Vecino è stato espulso per un fallo ai danni di Mandzukic. Il cartellino rosso, al posto del giallo già deciso, è stato suggerito in un secondo momento all’arbitro Daniele Orsato proprio dal Var. Questo è sicuramente uno degli episodi da protocollo Var che Rizzoli ha assicurato in tutte le sue versioni che vengono sempre registrati e archiviati. Nella cartella dei file mandati alla Procura Federale Figc, e acquisiti dalla procura di Bologna, sembrano mancare però le immagini dell’interno della sala Var del momento in cui Paolo Valeri comunica ad Orsato che la sua decisione sul fallo di Vecino sarebbe da rivedere. Ci chiediamo: com’è possibile che oltre all’audio di un episodio importante e decisivo, sia sparito anche il video di un altro episodio altrettanto importante?

Pino Taormina per “il Mattino” l'1 marzo 2021. Onore a Daniele Orsato. Non si sottrae alla rivoluzione che ha voluto il nuovo capo dell' Aia, Trentalange ed è il primo a mostrare il petto. Arriva preparato al faccia a faccia epocale a Novantesimo minuto, sa bene quale sarà la domanda delle domande che il vice direttore di RaiSport, Enrico Varriale, gli farà. Non si tira indietro. «Il fallo di Pjanic su Rafinha in Inter-Juve? Non serve andarlo a rivedere dopo tre anni, sicuramente è un errore. La vicinanza dell' azione non mi ha portato a vedere quello che poi ha rivisto subito in tv. Io l' ho vista in modo diverso, per me è stato un contrasto in volo fisico e l' ho valutato male. Il Var non è potuto intervenire per cui resta l' errore. Il Var non toglie mica tutti gli errori». Sì, onore a Orsato che ammette, tre anni dopo, quello che già a tutti era piuttosto evidente. Fin da subito. Ovvero che Pjanic andava espulso. Era chiaro a tutti tranne a quelli che pur di difenderlo a spada tratta si erano inventati fantasmagoriche interpretazioni del regolamento. Dunque non erano piagnistei quelli dei tifosi napoletani. Ma le lamentele di chi sapeva quello che stava succedendo. «Un errore», ha detto. Giù il capello. Lo fece anche Concetto Lo Bello, nel 1972, quando ammise alla Domenica Sportiva il suo errore di poche ore prima in Juventus-Milan. «Un errore», ha detto l'arbitro di Schio e forse è stata come una liberazione, come togliersi un peso dallo stomaco ammettere la colossale svista che ha avvelenato lo sprint per lo scudetto del 2018. Poi, magari, la Juventus avrebbe vinto lo stesso anche in 10 uomini contro l'Inter e magari avrebbe pure vinto lo stesso lo scudetto in quell' entusiasmante testa a testa con il Napoli di Sarri. Ma dopo questa ammissione la ferita, fino ad adesso apparentemente anestetizzata, torna a pulsare, e il dolore per i tifosi azzurri si rifà intenso per quello che poteva essere e che invece non è stato. Giù il cappello davanti a Orsato. Poteva anche far andare qualcun altro al suo posto. Ha accettato l'invito. E ha fatto bene. «Lo scudetto lo abbiamo perso in albergo» disse amaro Sarri riferendosi proprio a quello che aveva visto a San Siro. Ma l'ammissione serve a poco, non cambia le cose. Resta però un mistero, quello denunciato dall'ex procuratore federale Pecoraro in una intervista al Mattino, ovvero l'audio del dialogo proprio tra Orsato e il Var Valeri di cui non c'è traccia e che gli fu negato. Ecco, in nome della trasparenza che sembra voler essere il faro della glasnost pretesa da Trentalange, nel futuro si spera non vengano più cancellati i file degli audio. Quei pochi secondi tra Orsato e Valeri che Rizzoli e Nicchi hanno sempre detto che sono stati eliminati perché non era necessario conservarli (dato che su un mancato secondo giallo, il protocollo IFAB non prevede l' intervento del VAR) avrebbero aiutato in questo senso. Ed è uno dei punti che di quella sera ancora non torna. Non cambierà nulla, ma magari è il segnale del cambiamento vero. «Se il confronto arbitri-media verrà fatto per fare chiarezza è quello che l' Aia vuole. Se verrà utilizzato per la polemica non andremo da nessuna parte». Va bene. «Gli audio aperti? Noi non abbiamo nulla da nascondere», risponde Orsato. Tornerà in tv. Ma quello che aveva da dire, lo ha detto. E il passato non può essere riscritto.

Emanuela Gamba per "la Repubblica" l'11 febbraio 2021. Quanto ancora durerà la faida tra Agnelli e Conte, vale a dire tra la Juventus e l' Inter, i due club di riferimento del nostro calcio, quelli che potrebbero giocarsi lo scudetto alla penultima giornata e chissà se sarebbe meglio in uno stadio vuoto, dove l' insulto personale arriva precisamente a destinazione, oppure pieno, dove addosso a Conte s'abbatterebbe un coro di malanimo? È stato per quindici anni lo juventino più amato, la figura di riferimento del popolo bianconero. Oggi invece è il nemico più odiato ed è stata rilanciata una petizione per togliere la sua stella dallo Stadium, dove sono incastonati i nomi di chi ha fatto la storia della Juve. Soprattutto, è stato documentato in video e in voce tutto il livore che separa Agnelli e Conte dall' estate del 2014, quella del voltafaccia di Antonio a ritiro estivo già cominciato e delle frasi sui ristoranti da cento euro che la società non poteva permettersi: i due mai più si riunificheranno, anche se nel 2019 l' allenatore ha fatto di tutto per tornare alla Juve facendo leva sul rapporto d' amicizia con Nedved e Paratici, quello sì sopravvissuto a tutti questi gradi di separazione. Il giorno dopo la semifinale il quadro delle risse da bar dello Stadium ha preso forma: dopo il dito medio di Conte, l' invito di Agnelli (senza la mascherina che almeno avrebbe oscurato il labiale) a ficcarselo là dove non batte il sole, e la lite tra l' allenatore e Bonucci (che ha detto al suo ex capo: «Devi portare rispetto all' arbitro») documentati dalle telecamere, sono arrivate le testimonianze di parte. Secondo la versione dell' Inter, Conte sarebbe stato insultato per tutto il primo tempo («Cogli.., pagliaccio, pensa ad allenare ») da una voce che arrivava dalla zona della tribuna dov' erano sistemati i dirigenti bianconeri: ce l' avevano con le sue continue lamentele nei confronti dell' arbitro, in particolare quella per l' ammonizione di Darmian nel primo tempo. Ma Conte ha sempre fatto così, è la sua cifra stilistica, lo era anche quando allenava la Juve e chiedeva che lo Stadium diventasse una bolgia. Lui si è risentito e ha accusato gli juventini di mancanza d' educazione. Lo Stadium è spesso incandescente: in questa stagione Nedved, Paratici, Baronio e Pinsoglio sono stati sanzionati perché, a vario titolo, insultavano l' arbitro dalla panchina o dalla tribuna. Nell' intervallo, poi, ci sarebbe stata una lita tra Oriali e Paratici, con l' interista che avrebbe intimato al collega di girare alla larga dai suoi giocatori e lo juventino che l' avrebbe minacciato: «Stai buono, sennò è la volta che ti picchio». Qui c' è un retroscena: a Milano circola una voce, non confermata, secondo cui la dirigenza interista sia infuriata con Paratici perché costui avrebbe più volte provato a convincere Barella a mollare l' Inter per la Juve. Dopo il 90', un Conte sempre più nervoso avrebbe inalberato il dito medio una seconda volta, venendo poi a contatto con Agnelli, sceso dalla tribune agli spogliatoi. Lì sarebbe partito un secondo "cogl..", con l' allenatore che avrebbe invitato il presidente a un incontro più ravvicinato: «Vieni a dirmelo in faccia». Gli interisti assicurano che il quarto uomo, Chiffi, abbia visto, sentito e garantito una relazione dettagliata: oggi il giudice sportivo si occuperà del caso ed esaminerà il rapporto anche degli ispettori federali. Nei giorni scorsi, per la precisione a fine gennaio, Agnelli ha invece avuto a che fare con un' altra Procura, quella di Perugia: è stato sentito come testimone nell' inchiesta Suarez, ma la sua deposizione non è stata giudicata significativa: in sostanza, ha spiegato di non essersi mai occupato della vicenda e di averla delegata, come fa sempre per le questioni di mercato, a Paratici e al suo staff.

Da corrieredellosport.it il 12 febbraio 2021. L'ex numero uno dell’Inter Massimo Moratti ha commentato a Radio Kiss kiss Napoli i più importanti temi del momento in Serie A, dalla posizione traballante di Rino Gattuso alla lite tra Andrea Agnelli e Antonio Conte: “Per un patron, valutare un esonero è complicato sotto ogni punto di vista, sia umano che professionale. Fino a pochi giorni prima si parla di progetti, poi la visione cambia. Non so quali siano i rapporti tra Gattuso e De Laurentiis. Ma come uomo nutro simpatia nei confronti di Rino. In fondo dipende tutto dal rapporto tra il tecnico e la sua rosa". Il discorso si sposta poi sullo scontro tra Agnelli e Conte: "Si tratta di vecchie ruggini che saltano fuori. Non è stato bello da vedere, ma può capitare. Con gli spalti vuoti, inoltre la cosa è ancora più evidente. Personalmente, non ho mai mandato a quel paese un allenatore della Juventus". A Moratti viene poi chiesto se in passato ebbe la possibilità di comprare il Napoli: "Il club mi è sempre stato simpatico. C’è stato antagonismo, nel corso degli anni, ma non mi permetto di interferire in una situazione del genere". L'imprenditore esclude poi un ritorno all'Inter: "Non sono pronto a tornare. Se me lo chiedessero, non disturberei i cinesi”.

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport l'11 febbraio 2021. Da labiale è diventato virale. Le telecamere lo inchiodano. Andrea Agnelli ha dato del “coglione” a qualcuno e questo “coglione” sarebbe a tutti gli effetti Antonio Conte, un suo ex dipendente. L’aver pronunciato l’insulto con sincera passione non assolve più di tanto il nipote dell’Avvocato. Anzi, secondo alcuni aggrava la sua posizione perché il fuoriuscire di senno non giustifica mai e poi mai il fuoriuscire di stile. “Coglione”, accompagnato da due, meglio se tre, esclamativi, è l’insulto più diffuso nelle zuffe da strada e da stadio. Il più gettonato nelle risse televisive. Alla fine di un Napoli-Inter di qualche anno fa, sempre di coppa Italia, fu Mancini a dare del “vecchio coglione” a Sarri (in questo caso non si sa se più insultante il “vecchio” o il “coglione”), che a sua volta gli aveva dato del “finocchio”. Perché riscuote tanto successo l’insulto “coglione”? Sale facile alla bocca, ha un suono rotondo, un bell’impasto di vocali e consonanti, e arriva come una fucilata. Una sintesi sprezzante e definitiva. Dà piacere a chi lo pronuncia e deprime chi lo subisce. Dipende anche dal tono. “Sei un coglione”, se te lo dice un amico o tua madre fa male ma non troppo, ti fa sentire un coglione amabile e forse anche amato. Se te lo dice un nemico è una sentenza. Diverso è se il “coglione” te lo dici da solo. “Sono un vero coglione”. In questo caso prevale il piacere sottile dell’autofustigazione. Oltre che l’astuto accorgimento di prevenire il nemico. Stiamo parlando del “coglione” singolare perché, se i coglioni sono due, e quasi sempre lo sono, “avere i coglioni” è un fior di complimento. Indica un’attitudine guerriera. E qui la faccenda si complica. Uno che “ha i coglioni” potrebbe a sua volta essere un “coglione”? Direi di sì. I casi si sprecano. Molti uomini cazzuti (per restare all’apparato genitale maschile) risultano tali per via di una modesta percezione della realtà, sono cioè, obiettivamente, dei coglioni. I coglioni, chi li ha, designano il duro, chi non li ha, il vigliacco. Ma non è così semplice. I coglioni possono essere molto ferrigni, ma anche molto fragili. Si rompono facilmente. Chiedere in giro, anche alle signore che non esitano spesso a farli propri nell’uso gergale, quando ci vuole. “Mi stai sui coglioni” è, invece, una rude sintesi che utilizza i genitali maschili per spiegare al prossimo che non sei nelle sue grazie. C’è poi il “coglioncello”. Il diminutivo in questo caso, a mio avviso, aggrava l’offesa. Nel senso che non ce la fai nemmeno ad essere un coglione. “Coglionazzo” è forse il peggiore di tutti, aggiungendo uno spregiativo che confessa la volontà d’infierire. Ma, dove l’insulto si fa davvero sanguinoso è quando lo accompagni con un aggettivo. “Sei un autentico coglione” o “un perfetto coglione”. O, peggio ancora, “sei un patetico coglione”.  Una combinazione che può risultare micidiale. Molto più di “sei un emerito coglione”, che sa quasi di ammirazione. C’è poi un’accezione più malinconica, quella del “ti sei rincoglionito”, a indicare il  decadimento palese delle tue facoltà cerebrali. Per cui, si dà il caso che un rincoglionito possa essere un coglione che in gioventù ha avuto i coglioni e, ora che la vita non è più sopportabile, non vede l’ora di togliersi dai coglioni. C’è chi dice che il coglione è come il diamante, è per sempre. Una cosa è certa. Chiunque di noi è stato un coglione almeno una volta, agli occhi di qualcuno che, ai nostri occhi, è un vero coglione. Se non lo pensano, ipotesi remotissima, prima o poi lo penseranno. Per capirci, se Antonio Conte è un coglione per Andrea Agnelli, è probabile che sia vero anche il contrario. Non se ne esce. Siamo tutti dei coglioni per qualcun altro che, a sua volta, è un coglione per noi. La conclusione è una sola: è un mondo di coglioni. Il che non è, necessariamente, un male. Da coglione, non sarai mai solo.

Da gazzetta.it il 27 gennaio 2021. La crisi è più grave di quanto si pensi. Ospite del webinar #eThinkSport2021 organizzato da "News Tank Football", Andrea Agnelli manifesta tutta la sua preoccupazione per il calcio post-pandemia. "Non siamo ancora nella posizione di capire pienamente cosa sia successo alla nostra industria e cosa la crisi significhi per i club - l'allarme lanciato dal presidente della Juventus e dell'Eca -. La Deloitte Money League annuncia una perdita di due miliardi di euro per queste due stagioni ma temo sarà di più. Nella scorsa stagione abbiamo avuto solo 3-4 mesi di stadi vuoti, di sconti commerciali, di sconti per le emittenti, mentre quella in corso sarà una stagione intera senza tifosi allo stadio. E per quanto riguarda i diritti tv, in Germania hanno perso il 10% e ci sono a livello internazionale broadcaster che non stanno pagando i loro debiti. Ecco perché penso che questa stagione andrà peggio, riteniamo che la perdita complessiva di questi due anni per la nostra industria sia fra i 6,5 e gli 8,5 miliardi di euro". L'impatto della crisi è evidente anche sul calciomercato. "Quest'anno ci sono stati movimenti per 3,9 miliardi di euro contro i 6,5 dell'anno passato. Significa 2,6 miliardi in meno da un anno all'altro, senza contare gli aspetti della solidarietà dei club. Questo ci dimostra che stiamo navigando in mari molto mossi".

Mauricio Cannone per gazzetta.it il 25 gennaio 2021. Tragedia nel calcio brasiliano. Un piccolo velivolo è precipitato in un campo senza lasciare scampo ai passeggeri. Che erano in volo per una partita di Coppa Verde. A bordo 4 calciatori del Palmas: il terzino sinistro Lucas Praxedes, 23 anni, il difensore Guilherme Noé, 28, il portiere Ranule, 27, la mezzala Marcus Molinari, 23 figlio dell’ex giocatore dell’Atlético Mineiro Marinho, oltre al presidente della società, Lucas Meira, 32, e il pilota del velivolo, di cui al momento è noto solo il nome Wagner. Il Palmas, club della città omonima nello stato di Tocantins nel Brasile settentrionale, stava andando a Goiânia, nel Centro-Ovest del Brasile, dove lunedì 25 era in programma il match col Vila Nova. La Coppa Verde garantisce al vincitore la partecipazione alla Coppa del Brasile entrando in gioco dalla terza fase. Non sono ancora note le cause del disastro. Il piccolo aereo, appena decollato, poco dopo è precipitato in un boschetto vicino alla pista dell’Associazione Tocantinense a Porto Nacional, comune situato a circa 60 km da Palmas, prendendo fuoco. Il drappello viaggiava separatamente dai compagni di squadra in quanto Ranule, Praxedes e Noé erano stati trovati positivi al Covid-19, e dopo aver saltato il match del mercoledì contro il Real Noroeste, erano partiti in attesa di un tampone che garantisse la loro avvenuta negatività. Dopo la tragedia è atteso l'annuncio del rinvio della partita.

Corrado Ferlaino. Nino Materi per "il Giornale" il 19 luglio 2021. Il repubblicano presidente del Calcio Napoli, Corrado Ferlaino, a differenza del suo monarchico predecessore, commendator Achille Lauro (alias 'O Comandante), ai napoletani ha sempre dato tutto e (quasi) subito: due scudetti, una Coppa Uefa, due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana. Trofei palpitanti come i riccioli ribelli di Maradona; vittorie conquistate per lo più nel bel mezzo della profumata (di soldi e scandali) «barberia» calcistica degli anni '80. Ferlaino è stato l'attento «parrucchiere» del giocatore più grande del mondo e ha cercato di proteggerne la chioma finché ha potuto; poi lo scalpo del Pibe de Oro fu tagliato da mani macellaie e il genio del football finì soffocato nella sua stessa lampada. La recente morte di Diego in circostante così angoscianti - isolato da chi gli voleva bene e accerchiato da chi gli voleva male - è una cicatrice indelebile nell'anima di Ferlaino: «Per un vero napoletano è impossibile ricordare Diego senza commuoversi. Lacrime di gioia per i momenti indimenticabili che ci ha regalato, lacrime di dolore per come lo hanno lasciato morire», dice l'uomo che trasformò in realtà il sogno di poggiare la Mano de Dios sulla testa dei napoletani. Nel Pantheon dei «veri napoletani», Ferlaino iscrive di diritto 'O Comandante al quale, con l'aiuto del giornalista Toni Iavarone, ha dedicato il libro Achille Lauro il comandante tradito (Minerva Edizioni). Fu proprio grazie all'appoggio del grande armatore che il giovane e brillante Corrado Ferlaino riuscì, era la fine degli anni '60, a impadronirsi del pacchetto azionario di maggioranza del Napoli che (con l'eccezione di brevi periodi di «pausa», causa vicissitudini giudiziarie) gli consentì di rimanere ai vertici societari per oltre un trentennio. La fine degli anni '90 per il presidente coincisero con l'addio al calcio: la gloria ormai sbiadita come in una vecchia fotografia. Stessa parabola di 'O Comandante, l'alter ego inconfessabile di cui Ferlaino è prigioniero, pur se in una gabbia fatta di ammirazione e gratitudine. Tanto da trasformare un freddo tecnico del cemento come Ferlaino in un caldo narratore pieno di passione. Verità e leggenda si rincorrono. Al pari delle vite di Achille e Corrado. Le loro esistenze si sono incrociate spesso. Esattamente come i loro populismo. Le loro ambizioni. Il loro cinismo. Personalità forti. Dal talento «selvaggio». Da una parte 'O Comandante Lauro che in campagna elettorale regalava al popolo partenopeo la scarpa destra, per poi consegnare la sinistra solo nella fase post-voto; stessa procedura anche con le banconote: metà prima di mettere la scheda nell'urna, l'altra metà a spoglio avvenuto. Do ut des a fiducia limitata. Trionfo della contabilità umana del fifty-fifty, sentimentalmente ripartita tra debito e credito. Dall'altra parte O' Ingegnere Ferlaino che, a 24 ore dalla scadenza del calcio mercato, presentò in Lega una busta che avrebbe dovuto contenere il contratto di Maradona, ma che invece era vuota. Poi, qualche ora dopo, a Barcellona, l'accordo con Diego. Segue il rientro precipitoso in Italia e la sostituzione, nella notte, della busta farlocca con quella vera.

Presidente, ma è vera questa storia della «busta sostituita nella notte»?

«Verissima». 

Vuole dire che l'acquisto del calciatore più importante del mondo avvenne con una modalità degna di un film dell'agente 007, con lei nelle vesti di James Bond?

«Devo ammettere che l'avventura fu abbastanza cinematografica». 

Ci racconti la trama.

«Era il 1984. Maradona giocava nel Barcellona. Nell'ambiente si diceva che tra l'argentino e il club catalano il rapporto fosse tutt' altro che idialliaco. Insomma, non c'era feeling. Ma erano solo voci. Però noi cominciammo a insospettirci».

Sulla base di cosa?

«Il Barcellona doveva fare cassetta. E propose, ovviamente in cambio di un ricco cachet, fare un'amichevole contro il Napoli. Ok - rispondemmo noi - a patto che giochi Maradona. E loro: No, Maradona non scenderà in campo. I sospetti allora divennero quasi una prova». 

Allora lei che fece?

«Spedii il mio braccio destro, Antonio Juliano, a Barcellona con l'incarico di acquistare Diego. Juliano prese casa a Barcellona e trattò per circa un mese. Poi, l'agognata telefonata: Presidente, è fatta!. Ma proprio quel sabato il mercato-calciatori stava per concludersi. Allora mi precipitai in Lega consegnando una busta che avrebbe dovuto contenere il contratto di Maradona. Che però, in realtà, non aveva ancora firmato nulla». 

Fine primo tempo del «film». Inizio del secondo tempo...

«Noleggio immediatamente un volo per Barcellona. Arrivo lì e incontro Diego. Lui firma il contratto e io ritorno immediatamente in Italia. Mi precipito in Lega. Fortunatamente era domenica. Non c'era nessuno. E così, grazie alla collaborazione di un metronotte di guardia all'ingresso, sostituimmo la busta vuota con quella piena». 

E fu l'inizio dell'epopea Ferlaino-Maradona. Napoli vi venerava.

«Maradona miracoloso come San Gennaro. Io, dopo aver visto giocare Diego, mi accontentai di tirare un sospiro di sollievo...». 

Motivo?

«Mi era rimasta nelle orecchie la frase sibillina di un barista catalano che a Barcellona, servendomi un whisky, mi aveva detto: 'Avete preso Maradona? Vi abbiamo rifilato un bel fiasco. Grazie per tutti i miliardi che ci avete dato'». 

Per fortuna del Napoli, e per tutti gli amanti del calcio, le cose andarono diversamente.

«L'affare l'avevamo fatto noi. Il più grande giocatore del mondo giocava nel Napoli. E i risultati si videro». 

Ma lei, da giovane, ha mai giocato a pallone?

«Sì, ero anche bravino». 

Ma un po' «indisciplinato» visto che nel '64 fu squalificato a vita per aver picchiato l'arbitro.

«Cose che capitano. Ma poi fui amnistiato». 

Irruento anche alla guida. Come pilota andava alla grande.

«Le auto sportive erano la mia passione. Ho vinto molte gare a livello agonistico».

Anche come imprenditore pigiava forte sull'acceleratore.

«Dopo la laurea in ingegneria, fondai un'impresa di costruzioni. Era l'epoca del boom. L'Italia appariva un Paese in crescita. A Napoli c'era grande fermento». 

Tentò anche l'avventura come produttore cinematografico, ma non si ricordano risultati esaltanti. Eccetto un lungometraggio dedicato a Che Guevara.

«Non è stata l'unica pellicola. Ma ho capito che non era quella la mia strada. Ognuno deve fare il mestiere per il quale è portato». 

Diciamo che l'attuale è presidente del Napoli, Aurelio De Laurentiis, in fatto di film, ha fatto decisamente meglio di lei.

«Sì, lo ammetto. In questo campo è stato più bravo di me. Ma solo in questo campo». 

Lei segue il Napoli, ha qualche consiglio da dare al suo collega De Laurentiis?

«Resterò sempre il primo tifoso del Napoli. Stimo De Laurentiis. Quando sono d'accordo con lui, lo dichiaro pubblicamente. Se invece sono in disaccordo, me sto zitto». 

I giocatori campani (Insigne, Immobile, Donnarumma) si sono comportati bene all'Europeo.

«Merito di Mancini che è un ottimo CT e li ha trasformati in punti di forza di una grande Nazionale». 

È vero che si fece «raccomandare» dal suo amico Ciriaco De Mita per non essere candidato alle elezioni?

«Ha detto bene: per non essere candidato. De Mita mi voleva capolista per la Dc. Avrei garantito al partito un sacco di voti e sarei stato sicuramente eletto. Ma non ritenevo etico sfruttare la mia popolarità a fini politici. Per questo mi sono tenuto sempre fuori dai partiti. Non so quanti avrebbero fatto lo stesso al mio posto».

È corretto dire che Ferlaino stava ai cantieri edili come Lauro stava alle compagnie di navigazione?

«Due famiglia del Sud che hanno dato dignità a un Mezzogiorno ingiustamente vilipeso da quelli del Nord». 

Eppure Napoli sembra averla rimosso il ricordo di Lauro.

«È vero, a Napoli ci sono strade dedicate a tutti, meno che a qualcuno della dinastia Lauro».

Di qui il titolo del suo libro, Achille Lauro il comandante tradito. Tradito da chi?

«Da troppe persone. Ingiustamente. Ma il mio è un atto d'accusa anche contro le istituzioni. Achille Lauro è stato il primo 'sindaco metropolitano', monarchico convinto, fondatore di un partito personale, creatore della flotta navale più potente d'Europa, editore illuminato». 

E poi il Napoli, serbatoio di voti e passioni.

«I tifosi lo amavano. Ma nel libro racconto anche il Lauro privato: la famiglia, le tante avventure romantiche e non, ed il tenero amore con la vera donna della sua vita, un nome fino ad oggi mai rivelato». 

Il «laurismo» per alcuni storici della politica è, nella migliore delle ipotesi, sinonimo di clientelismo e, in quella peggiore, di commistione col malaffare. Lei, invece, cosa ci vede di buono?

«La possibilità, per noi meridionali, di guardare gli industriali del Settentrione senza più complessi di inferiorità. Orgogliosi del nostro ingegno e della capacità manageriale di gestire aziende leader nel mondo». 

Anche Ferlaino, con il suo Napoli delle meraviglie, ha dato a questa emancipazione culturale un contributo sportivo non indifferente.

«Strappare la leadership calcistica a Milan, Inter e Juventus non era impresa facile. Ma ce l'abbiamo fatta». 

Di recente ha dichiarato: «Prima di diventare presidente del Napoli ero ricco, avevo la barca e fuoriserie. Quando mi sono dimesso dalla carica sono andato via con una Twingo».

«Col Napoli ci ho rimesso un sacco di soldi. Ma le gioie e le soddisfazioni che ho ricevuto non hanno prezzo. Se penso al corteo celestiale che ci accolse a Napoli il 17 maggio 1989 dopo la conquista della Coppa Uefa contro lo Stoccarda e alla gioia di tutti i nostri emigranti in Germania, mi vengono ancora i brividi».

Ha perdonato l'arbitro Sergio Gonella?

«Poverino. È morto tre anni fa». 

Ma per tutto il tempo in cui è stato in vita, lei non lo ha mai perdonato.

«Per colpa sua nel '71 perdemmo lo scudetto. A Milano, contro l'Inter, dette un rigore inesistente contro di noi». 

Sudditanza psicologica verso il grande club di Moratti?

«Aveva espulso l'interista Burnich e chiudemmo il primo tempo in vantaggio 1 a 0. Nell'intervallo Mazzola, figlio di buona donna con un'oratoria da grande avvocato, andò nello spogliatoio di Gonella dicendogli che aveva commesso un grave errore e che stava compromettendo la sua carriera arbitrale. Gonella rientrò in campo e cominciò a fischiare a senso unico. Concesse ai nerazzurri un rigore inesistente. Poi il nostro Zoff fece una papera, tra le poche della sua eccezionale carriera. Perdemmo 2 a 1. E addio scudetto».

Il 18 maggio ha compiuto 90 anni. Teme la morte?

«No. Credo nell'aldilà. Ma sono cristiano per convinzione, non per opportunismo. Il Signore mi ha regalato il dono della fede e la gioia di una vita intensa». 

Riempita, tra l'altro, da 4 matrimoni e cinque figli.

«La luce di una moglie può spegnersi con un colpo di interruttore. Ma quella dei figli rimane sempre abbagliante». 

Ci sveli, in conclusione, un sogno impossibile.

«Andare a Buenos Aires con un investigatore privato e risolvere il giallo della morte del mio Maradona. Ma so bene che la sua fine rimarrà un rebus. Per sempre».

 Maria Chiara Aulisio per ilmattino.it il 5 febbraio 2021. Luca Ferlaino aveva solo 14 anni quando Maradona arrivò in Italia, ma ricorda ancora il primo incontro. «Fu una trattativa assai lunga. Poi venne fuori che tutto era saltato, e anche mio padre cominciò a credere che fosse finito il nostro grande sogno. Invece, dopo la più lunga - e trepidante - delle notti, mi telefonò: Vieni qui, Luca, devo presentarti una persona».

Diego Armando?

«Eravamo a Capri, in vacanza. Per la verità, proprio quel giorno mi trovavo a Positano da mia madre, loro erano già separati. Pensai che mi volesse a Capri per fare compagnia al figlio, quasi sempre un po' noioso, di qualche amico suo».

Invece le aveva riservato una bella sorpresa.

«Fu un momento incredibile».

Un pezzo di storia del calcio mondiale.

«Entrai al Quisisana e lo vidi seduto su un divano nella hall dell'albergo: Oddio, Maradona in carne e ossa. Quando poi ci fu la presentazione ufficiale, tutti pensavano che fosse arrivato direttamente da Barcellona. E invece era a Capri con noi».

Ha parlato di un sogno.

«E insieme di un lampo di genio senza il quale quel sogno probabilmente si sarebbe infranto».

Racconti.

«Per la verità lo raccontò proprio mio padre, qualche anno fa: è un episodio noto, ma straordinario. Una trovata pazzesca. Quel 30 giugno il calciomercato era agli sgoccioli e mancava ancora il contratto firmato da Maradona».

Bisognava fare presto.

«Purtroppo non c'era più tempo. Senza dire niente a nessuno mio padre partì per Milano, andò alla Lega Calcio e consegnò una busta vuota, lasciando immaginare di aver depositato il contratto firmato».

Non era vero?

«Non era ancora vero».

Quindi?

«Volò a Barcellona, raccolse la firma di Diego e in nottata tornò a Milano. A quel punto con un escamotage si fece accompagnare dalla guardia giurata negli uffici e riuscì a sostituire la busta vuota con quella piena».

Possibile?

«Ancora me lo domando. Non posso nascondere che non so più se è leggenda o verità. In ogni caso erano altri tempi, un altro mondo, e va bene lo stesso: Maradona arrivò a Napoli e fu sufficiente per tutti».

Allo stadio con papà Ferlaino. Quanto si divertiva?

«Molto meno che con i miei amici. Avevo sempre il biglietto tribuna autorità e ogni volta litigavo con i controllori ai varchi dello stadio perché non volevano farmi accedere in Curva dove invece avevo appuntamento con i compagni».

Non poteva farsi dare direttamente il biglietto di Curva?

«No, perché mio padre avrebbe voluto vedere la partita con me. Ci provava sempre. Qualche volta per accontentarlo assistevo al primo tempo con lui e all'altro con gli amici. Tanto lo sapevo: papà all'inizio del secondo tempo spariva».

Il presidente, dunque, allo stadio assisteva solo al primo tempo?

«Sempre. Poi si vaporizzava letteralmente».

Una curiosità: dove andava?

«Mai capito fino in fondo. Per anni abbiamo pensato che andasse a pregare sulla tomba di nostro nonno, poi qualcuno ci disse che invece si rintanava nell'ex cinema Ambasciatori, quando abitavamo a via Crispi, a due passi da casa. Alla fine scoprimmo che, in realtà, si tratteneva a casa di un'amica alla quale era molto affezionato».

C'era una ragione in particolare?

«Solo scaramanzia. Mio padre viveva tra riti, amuleti, malocchio... In questo caso si era convinto che la sua amica portasse bene alla squadra e durante il secondo tempo doveva stare assolutamente con lei altrimenti la sconfitta sarebbe stata garantita».

Guai a finire nella categoria iettatori, insomma.

«Per carità. E io, benché fossi il figlio, ci sono andato molto vicino».

Suo padre pensava che portasse male?

«Lui no, ma ci hanno provato a farglielo credere».

In che modo?

«Quando, dopo essermi laureato, iniziai a lavorare nel Calcio Napoli - e mi occupavo di marketing - devo ritenere che qualcuno non mi vedesse di buon occhio. Lo sapevano tutti che papà era fissato con la scaramanzia e, con una buona dose di perfidia, decisero di provare a convincerlo che ero una ciucciuettola».

Non lo era, ovviamente.

«Certo che no. E però accadde che in quell'anno il Napoli cominciò a non andare troppo bene, ricordo che era l'epoca di Gigi Simoni. E così abbinavano le sconfitte della squadra a qualche evento che, se pur vagamente, mi coinvolgeva. Gli scrissero perfino una lettera anonima per dirgli che il menagramo ero io».

Tutto sempre collegato al Napoli, manco a dirlo.

«Per intenderci: papà era tutta una cosa con il Napoli, una vera e propria simbiosi, non concepiva altro e aveva un solo obiettivo, quello di vincere ogni domenica. La partita persa si trasformava in un dramma familiare, un lutto, un evento catastrofico. Rimaneva un giorno intero in pigiama ma senza dormire. Mangiava solamente».

Pure di notte?

«Sempre. Per evitare che esagerasse piazzammo in frigorifero un maialino di plastica che - grazie a luci e sensori - grugniva a più non posso ogni volta che si apriva la porta. E grugniva così forte da svegliare tutta la famiglia. All'inizio protestò, poi non disse più nulla. Aveva scoperto la dispensa».

Arrigo Sacchi. Dagospia il 13 aprile 2021. Da I Lunatici Radio2. Arrigo Sacchi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", programma condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in onda dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei (tra la mezzanotte e cinquanta e le due circa il format viene trasmesso anche in tv su Rai 2). L'ex allenatore di Milan e Nazionale ha parlato un po' di se: "Il mio rapporto con la notte? Da sempre vado a letto molto tardi, anche adesso. So che sbaglio, perché le ore migliori per dormire sarebbero quelle antecedenti all'una, però sbagliare è umano. Da allenatore, non sempre facevo il giro dell'albergo per vedere se i ragazzi erano a letto. Ogni tanto prima delle partite andavo nelle camere per ribadire concetti, dare coraggio e chiarezza. Per risparmiare le visite, avevo messo i due difensori centrali nella stessa camera, i due attaccanti nella stessa camera, e così via". Sugli esordi del mito legato alla sua carriera: "Da bambino se andavo in bicicletta sognavo di essere Coppi, se giocavo a calcio volevo essere un grande giocatore, ma ho sempre amato molto il pallone. Ho amato talmente tanto il calcio, che una volta, a otto anni, mentre ero al mare con la mia famiglia, mi persero. Era il 1954, in Italia non era ancora diffusa la televisione, erano tutti disperati perché ero scomparso, ma mio padre aveva visto che c'era un bar che trasmetteva la partita, e venne al bar sapendo che mi avrebbe trovato lì. Sono diventato un allenatore per caso. Ho giocato a calcio fino a 19 anni. Poi ho smesso. Mi sposai, iniziai a condurre una vita regolare, ma la squadra della cittadina in cui io abito stava retrocedendo e mi chiesero se andavo a giocare. Ci salvammo. Avrei dovuto giocare anche l'anno dopo, ma d'estate mi venne un gran male alla schiena. E allora il dirigente tecnico di questa squadra, il bibliotecario di Fusignano, mi disse di fare l'allenatore. Risposi che non ero capace, lui fu insistente. Dopo un mese parlavo già come gli allenatori. Si chiamava Alfredo Belletti. Andai da lui chiedendogli di comprare un libero. Lui mi rispose che se fossi stato un bravo allenatore, il libero l'avrei costruito con le idee e con il lavoro. Mi fece capire tutto. Vincemmo il campionato, e pensai che vincere fosse la cosa più semplice del mondo. Non è così". Ancora Sacchi: "Non pensavo di entrare nella leggenda, ma dico una cosa che vale per tutti, in ogni ambito. Ci si realizza non solo attraverso la vittoria, ma attraverso l'impegno e il lavoro. Quando uno ha dato tutto quello che può dare è già un vincitore. Purtroppo questo Paese oggi ha una posizione culturale non elevata e lo testimonia il fatto che in Europa le iscrizioni all'università ci vedono al penultimo posto. Noi abbiamo fatto di tutto per non far crescere la cultura in questo Paese. Parlo del calcio, ma anche in generale. C'è una gara a chi cerca sempre di far le cose senza aiutare gli altri. Eroi sono tutti coloro che fanno quello che possono fare. E quante volte facciamo questo?".

L'ex tecnico di Milan e Nazionale è un fiume in piena: "Questo Paese, quando ha fatto squadra, è diventato una forza veramente. Questo Paese, persa la guerra, era distrutto moralmente, economicamente e materialmente. Dopo 25 anni eravamo la quinta potenza economica mondiale. Questa è la forza della squadra. Il nostro Paese ha confuso i valori. Crede che le scorciatoie siano il progresso. E' un Paese che crede che le conoscenze valgano più della conoscenza. E' un Paese purtroppo dove il giornalista se vinci anche non meritando, ma hai vinto, per vendere più giornali dice delle bugie. E' una gara a chi è più scorretto. Cerchiamo sempre di fare delle piccole congreghe per avere un vantaggio. Ma così non si fa squadra".

Sul calcio: "Da ragazzino sentivo tanti stranieri parlare di Italia e dire solo pizza, spaghetti, mafia e catenaccio. Io ho deciso di provare a togliere il catenaccio, nel mio piccolo. Nel dizionario internazionale del calcio c'erano solo due parole italiane, che erano catenaccio e libero. Ma con queste parole vai vicino al passato, non al futuro. Prendere delle scorciatoie ti fa regredire, mentre gli altri avanzano. In nazionale convocai 120 giocatori per sceglierne 20 e mi criticarono. Ma io guardavo per prima cosa la persona, la sua etica, il suo impegno, il suo approccio al collettivo. Pensate sia facile trovarne in Italia 20 su 100?"

Sui mondiali di Usa 94: "Si parla poco del nostro secondo posto ed è un fatto politico. E' una vergogna. Siamo arrivati secondi ai rigori, oltre oceano, dove le squadre europee non hanno mai vinto. Alcuni partiti all'epoca dicevano di parlare male della Nazionale. Noi non siamo cavalieri del lavoro anche per questo. Abbiamo perso ai rigori. Se rifarei giocare Baggio nella finale? Io ero l'allenatore e avevo uno staff di medici. E di preparatori atletici. Se loro mi dicevano che poteva giocare, io lo facevo giocare. Non ho nemmeno un rammarico. Sono stato 27 anni in compagnia dello stress, l'ho governato e mi ha dato un plus valore per 27 anni, quando ho visto che non lo governavo più, e fu dopo una vittoria che non mi fece provare nessuna gioia, capii di essere arrivato. E mi sono ritirato. Ero ancora giovane. Io ho passato 27 anni in cui avrò visto cinque film in tutto. Ho dato la vita al calcio e il calcio mi ha ripagato di emozioni impensabili che io potessi avere. Io e il Milan di Berlusconi siamo andati oltre il sogno. Nessuno di noi aveva mai pensato di poter essere la più grande squadra di club di tutti i tempi". 

Sul Milan: "Abbiamo massacrato le squadre spagnole, il Barcellona, il Real Madrid, in quel momento, dal 1989 al 1999 il calcio italiano sfruttando una società nuova come era il Milan ebbe grandi successi. Sull'esempio del Milan in quegli anni le squadra italiane hanno vinto 16 trofei internazionali. Negli ultimi 20 anni ne abbiamo vinte 3. Dal 2010 al 2021 ne abbiamo vinte zero. Il Milan era stato un esempio di quanto fosse importante essere una squadra dove tutti si muovevano ed erano in posizione attiva. Berlusconi la prima volta che ci incontrammo mi disse che avremmo dovuto diventare la più grande squadra del mondo. Io risposi che era un obiettivo frustrante e limitativo. Quando l'Uefa ci ha riconosciuto che il Milan del 1989 è stata la più grande squadra di tutti i tempi, chiamai Berlusconi e gli spiegai perché quel giorno dissi che l'obiettivo posto poteva essere anche limitativo. Lavoravamo tantissimo. Andammo con gradualità. Ebbi la fortuna che al Milan la società mi ha sempre difeso. Ho avuto degli inizi terribili. Col Fusignano perdemmo tutte le partite amichevoli. Ma quando vuoi costruire una baracca, non servono fondamenta profonde. Se vuoi costruire un castello, invece, il primo passo sono le fondamenta". Sui calciatori allenati: "Al Milan presi Carlo Ancellotti che aveva già subito la rottura di due crociati e tre menischi. Dalle visite mediche fu appurato che aveva il 20 percento di inabilità sul ginocchio sinistro. A Roma dicevano a Berlusconi che ci avevano dato una fregatura, ma lui fu grandissimo a prenderlo". 

Poi Sacchi ha svelato degli aneddoti: "Sono stato quattro anni al Milan, poi mi sono dimesso. Il calcio mi piaceva ancora dopo il quarto anno, ma non riuscivo più a stare a certi ritmi. E mi chiamò la Nazionale. Mi cercò la Juventus, chiesero a Berlusconi di lasciarmi libero, ma non sarei andato. Avevo bisogno di avere altri ritmi, rifiutai il Real Madrid, potevo andare solo in Nazionale. Anni dopo mi cercò Cragnotti della Lazio, dissi di no, ma gli feci prendere Zeman". 

Luigi Garlando per "la Gazzetta dello Sport" il 31 marzo 2021. Tra i bagolari, i lecci e le querce secolari del suo giardino, Arrigo Sacchi si sente un ragazzo. Domani l'allenatore italiano, che più ha inciso nella storia del calcio, compie 75 anni.

Com' era il primo Arrigo?

«Magrolino, figlio della paura. Durante la guerra mio padre pilotava gli aerei siluranti a pelo d'acqua. Gli sparavano le navi dal basso e i caccia dall'alto. Se n'è salvato uno su cento. Mia madre era la Reginetta di Maiano Monti, perché non si voleva spostare dalla frazione dov' era nata. Abitavamo davanti alla casa natale di Vincenzo Monti. Mi sgridava perché da bambino tifavo per l'Ungheria di Puskas: "Arrigo, sono tutti comunisti!" Ma giocano bene, mamma».

Bambino interista, giusto?

«A 14 anni ero all'Appiani per Padova-Inter, novembre '60. Uno spettatore da dietro mi tirò giù il berretto sugli occhi. Primo anno del Mago. Era partito fortissimo: 5 gol all'Atalanta e al Vicenza, 6 all'Udinese... Attaccava sempre, come in Spagna. Attaccò anche a Padova dopo essere passato in vantaggio. Il Padova di Rocco passò la metà campo 5 volte, segnò 2 gol e prese un palo. Il giorno dopo Brera e colleghi gli tolsero la pelle: sprovveduto, minus habens tattico... "Ah sì? Questo volete? E io ve lo do". In quello stesso mese si fece comprare Balleri dal Toro, lo mise dietro e sterzò verso il calcio all'italiana».

Che giovane calciatore era?

«Gli amici mi chiamavano Angelillo, mi piaceva. Gli ho visto fare un gol assurdo a Bologna, dalla linea di fondo. Ho cominciato in attacco, poi una poco gloriosa ritirata: ala destra, mediano, terzino... Quando Pivatelli, pochi mesi dopo aver vinto la Coppa Campioni col Milan a Wembley, mi mise in panchina, ho smesso. Al Baracca Lugo, da numero 4, marcai Capello, 10 della Spal».

Come andò?

«Nel primo tempo mi fece due tunnel a chiamata. Annunciava: "tunnel!" e me la faceva passare tra le gambe. Nell'intervallo giurai: se lo rifà, picchio...»

L'inizio di un amore... Ora le fa i tunnel in tv con Allegri.

«Guardi, con 27 anni di stress mi sono pagato la serenità assoluta oggi. Loro sono bravissimi, io non provo nessun fastidio. Ho solo un paio di dubbi. Dicono che mettono al centro il giocatore. Ma se lo mettono in campo così com' è, non gli vogliono poi tanto bene. Io cercavo di migliorare il giocatore attraverso il gioco. Forse gli volevo più bene io».

Il secondo dubbio?

«Ma se contano solo i giocatori, perché certi allenatori guadagnano così tanto?».

Beatles o Rolling Stones?

«Preferivo gli italiani: Modugno, Mina che venne a cantare nel cinema di Fusignano, dove è cresciuta Lara Saint Paul. Suo padre era del mio paese. Ricordo i ragazzi in piazza attorno alla Jaguar E-Type di Little Tony, quella di Diabolik».

Ha fatto la Contestazione?

«L'ho subita. A 19-20 anni ho sostituito mio padre che aveva grossi problemi al fegato e ha passato 9 mesi in ospedale a Bologna. Era il socio di maggioranza di una fabbrica di scarpe. Allora le condizioni di lavoro erano davvero dure. Le operaie addette alle vulcanizzate lavoravano mezze nude a 70-80 gradi di temperatura».

L'amore?

«A Cesenatico, nel locale di Giorgio Ghezzi, "Il peccato veniale". La Giovanna era bellissima, l'ho vista, ho fatto il cretino e pochi mesi dopo ci siamo sposati. Aveva 22 anni».

Nel '76, a 30 anni, prima panchina fuori Fusignano.

«Ad Alfonsine avevano picchiato quasi tutti gli allenatori precedenti. Io partii male, poi bene, poi male, poi bene... Comunque non mi picchiarono. Avevo preso il patentino a Ravenna da un maestro mica male: Silvio Piola. Mi dissi: se non faccio il salto a fine stagione, smetto. Arrivò l'offerta del Bellaria, in quarta serie».

Nell'86, a 40 anni, da allenatore del Parma, ha fatto innamorare Berlusconi. Lo sente? «Ogni tanto. Una delle ultime volte mi ha detto: "Arrigo, venga a fare il direttore tecnico al Monza. Le do una villa e un maggiordomo..." No, grazie, presidente: è tardi. Sono contento che stia meglio».

Anche Galliani.

«Adriano mi ha fatto spaventare. Mi ha detto che era asintomatico. Qualche giorno dopo mi ha scritto che aveva sempre la febbre, poi ha smesso di rispondermi. Finalmente, una mattina, mi sono arrivate tre faccine gialle con il cuore, tre bacini. Un grande dirigente».

Scelga un momento solo di Milan che la lega a Galliani.

«Per me quattro anni sono stati un momento solo».

Si aspetta gli auguri di compleanno da Van Basten?

«A Natale me li ha fatti. Ricordo Rijkaard seduto sugli scalini del Bernabeu che portavano al campo. Era immerso nel fumo della sua sigaretta, preoccupatissimo, pochi minuti prima del Clasico . Lui allenatore del Barcellona, io direttore tecnico del Real Madrid. Lo calmai: "Tranquillo, Frank. Vincete facile, non siamo competitivi". Florentino Perez ascoltò e mi chiese: "Ma lei sta con noi o con loro?". Il Barça vinse 3-0».

Nel '96, a 50 anni, con l'eliminazione dall'Europeo, finiva la sua Italia.

«Colpa mia, contro la Repubblica Ceca ci misi un quarto d'ora a fare la sostituzione dopo l'espulsione di Apolloni. E loro segnarono il 2-1. Non ero sul pezzo come una volta. Non ero già più quello di prima».

In quei giorni ci fu un sollevamento popolare a favore di Cesare Maldini. Tirava un'aria che in parte tira anche oggi: nostalgia di un calcio più semplice e più italiano.

«Siamo rimasti agli Anni 60-70. Vale quello che mi disse Pelé a Euro 2000: "Avete bravi giocatori, ma vi rifiutate di giocare". Un anno fa rigiocammo la finale del '94. Franco Baresi si sfogò: "Mister, nessuno ricorda più la nostra Nazionale. Eppure perdemmo in finale ai rigori, in un torneo massacrante. Mai una squadra europea era arrivata così vicina a un Mondiale fuori dall'Europa". Ha ragione. La sofferenza di quei ragazzi fu un'impresa etica. Meritavano un riconoscimento di Stato come altri: una nomina a cavaliere, commendatore... A Pasadena c'erano un sacco di politici. Avessimo vinto, sarebbero tornati in aereo e noi a nuoto. Resta il mio più grande rammarico».

Quale?

«Non essere riuscito a far capire quanto vale il merito. Vincere non basta, devi meritarlo».

Un errore tornare al Milan nella stagione '96-97?

«Pensavano di curare un malato grave con l'aspirina. Mancava il gruppo, lo spirito di squadra e perciò mancava tutto. Sbagliai anch' io. Avrei dovuto fare come a Parma nel 2001».

Cioè?

«Ritrovare gli uomini prima dei giocatori. Al primo giorno dissi: "Oggi niente allenamento. Sedetevi sul prato e ognuno mi spieghi perché tanti bravi giocatori faticano a vincere". Parlarono tutti. Thuram, Cannavaro, Buffon... Pareggio a San Siro con l'Inter, pareggio con Lecce su errore di Buffon che venne a chiedermi scusa. Alla terza, vittoria a Verona. Ma lì mi spaventai: non provai la minima gioia. Come bere un bicchiere d'acqua. Ero vuoto. Ero arrivato. Telefonai a mia moglie: "Torno a casa. Smetto"».

Chi guarda per divertirsi?

«Il Bayern gioca bene, anche il Manchester City da quando ha ripreso a pressare. Guardiola mi chiamò a novembre, nel momento più critico. Glielo dissi: "Non pressi più". Pep migliora i campionati in cui gioca, perché trasmette conoscenze e coraggio. Come faceva il mio Milan. Infatti in quegli anni vincevano in Europa anche le altre italiane. Negli ultimi 10 anni non ha vinto nessuno. Atalanta e Milan sono le squadre che giocano meglio. Ammiravo già Pioli, ma non aveva mai trasmesso un'identità così forte a una sua squadra. Lo Spezia, con l'Atalanta, fa il pressing più sistematico. Nessuno ha 11 uomini sempre attivi come Gasperini. Conte è sulla strada giusta, si vede che si sforza e lotta contro qualche vecchia abitudine».

Sacchi, teme la morte?

«Non è un pensiero che mi pressa. Neppure la malattia, neppure il Covid. Faccio quel che devo per evitarlo, a giorni mi vaccino. Curo l'alimentazione e la buona forma. Ogni giorno mountain-bike o passeggiata o cyclette se fa freddo. Tre volte a settimana palestra per addominali e qualche peso. Non sono più in grado di sfidare Davids a chi si tira su più volte alla sbarra con un braccio solo, ma a volte esagero ancora... Un giorno gliel'ho spiegato a Berlusconi: "Presidente, io sono del partito del melius abundare quam deficere".

Lui rispose: "Anch' io, Arrigo. Io e lei siamo uguali". È vero, mi ordinò di conquistare il mondo con un Milan quinto in Italia. Gli altri ridevano, a me stava bene. Avevo la sua visione. Ho la salute, il tempo per fare tante cose, due nipotine dolcissime e un nipote che a 3 anni corre più di Forrest Gump. Ha i capelli rossi. Un mediano. Gliel'ho detto: con 27 anni di stress mi sono guadagnato una bella serenità».

E Dio?

«Lo prego ogni sera, vado in chiesa. So di avere qualcosa da farmi perdonare. E non è il gioco. Vorrei solo avere più fede. Non riesco a credere che possa esserci qualcosa dopo la vita. Ma mi auguro di sbagliarmi».

Dicono che badi al merito.

«Speriamo. Almeno lui».

Buon compleanno, Arrigo.

Cesare Prandelli, tachicardia e attacchi di panico. Le drammatiche ore dopo Fiorentina-Milan. Libero Quotidiano il 24 marzo 2021. Cesare Prandelli ha fatto un passo indietro e ha deciso di rassegnare le dimissioni dal ruolo di allenatore della Fiorentina. "È la seconda volta che lascio la Fiorentina. La prima per volere di altri, oggi per una mia decisione" scrive Prandelli nella più classiche delle lettere d'addio. Dopo quattro mesi e mezzo di duro lavoro, ha dovuto affrontare le sue stesse fragilità, oltre a quelle dei Viola che non sembrano girare sotto la guida di nessuno. La sconfitta interna per 3-2 contro il Milan, la scorsa giornata di campionato, vissuta malissimo con tachicardia e attacchi di panico che gli hanno impedito anche di presentarsi in sala stampa, ha quindi convinto Prandelli a chiudere la sua seconda avventura a Firenze. Firenze avrebbe dovuto dare una svolta alla carriera di Prandelli, che negli ultimi 7 anni ha collezionato soprattutto delusioni, all'estero, ma anche in Italia. Triste risvolto durante la breve permanenza sulla panchina del Genoa, senza parlare della figuraccia in Azzurro ai mondiali del 2014. "Nella vita di ciascuno, oltre alle cose belle, si accumulano scorie e veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento  della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. Per il troppo amore sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa che era esattamente al suo posto dentro di me" scrive uno sconsolato Prandelli. "So che Firenze capirà e sono consapevole che la mia carriera da allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne. Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la vita non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi" continua l'ormai ex allenatore della Fiorentina. La splendida vittoria contro il Benevento sembrava aver fatto cambiare rotta ai Viola, ma la partita al cardiopalma contro il Milan, ha riconfermato il trend discontinuo del club. Nel frattempo, Beppe Iachini è già a Firenze, pronto a guidare la squadra all'uscita dalla pericolosa zona retrocessione. 

Cesare Prandelli. Fiorentina, Prandelli si dimette per la seconda volta: “La mia carriera può finire qui”. Fatale all’ex Ct azzurro la sconfitta casalinga di domenica contro il Milan dopo che la squadra viola era avanti 2-1. Il Quotidiano del Sud il 23 marzo 2021. Cesare Prandelli si è dimesso da allenatore della Fiorentina. Fatale la sconfitta casalinga di domenica contro il Milan dopo che la squadra viola era avanti 2-1. La società viola “ha accolto la richiesta del tecnico comprendendone le ragioni, che vanno oltre il calcio giocato”. E arrivano anche le motivazioni dell’ex ct azzurro, affidate ad una lettera. “E’ la seconda volta che lascio la Fiorentina. La prima per volere di altri, oggi per una mia decisione. Nella vita di ciascuno, oltre che alle cose belle, si accumulano scorie, veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme” le parole del tecnico che non esclude di chiudere con queste dimissioni la sua carriera. “Sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne. Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la mia vita, non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi. Per questo credo che adesso sia arrivato il momento di non farmi più trascinare da questa velocità e di fermarmi per ritrovare chi veramente sono” ha scritto Prandelli. “In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. E’ probabilmente il troppo amore per la città, per il ricordo dei bei momenti di sport che ci ho vissuto che sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa non era esattamente al suo posto dentro di me” le parole di Prandelli. “La mia decisione è dettata dalla responsabilità enorme che prima di tutto ho per i calciatori e per la società, ma non ultimo per il rispetto che devo ai tifosi della Fiorentina. Chi va in campo a questo livello, ha senza dubbio un talento specifico, chi ha talento è sensibile e mai vorrei che il mio disagio fosse percepito e condizionasse le prestazioni della squadra. In questi mesi è cresciuta dentro di me un’ombra che ha cambiato anche il mio modo di vedere le cose. Ringrazio Rocco Commisso e tutta la sua meravigliosa famiglia, Joe Barone e Daniele Pradè, sempre vicini a me e alla squadra, ma soprattutto ringrazio Firenze che so che sarà capace di capire”. In collaborazione con Italpress

Alessandro Bocci per corriere.it il 24 marzo 2021. Un gesto d’amore. «È la seconda volta che lascio la Fiorentina. La prima per volere di altri, oggi per una mia decisione». Cesare Prandelli saluta Firenze, la città che lo ha adottato, un punto fermo della sua vita, con una lettera aperta dura, dolorosa, vera. Dopo quattro mesi e mezzo di lavoro appassionato si è trovato a fare i conti con sé stesso e le sue fragilità. Prandelli ha sempre voluto tornare, sin dal giorno in cui con entusiasmo aveva abbracciato la Nazionale e non ci ha pensato due volte a rispondere all’appello di Rocco Commisso, all’inizio di novembre, forse sottovalutando le difficoltà che avrebbe trovato sulla sua strada.

La lettera di Prandelli. Doveva essere un nuovo inizio per lui e per la Fiorentina e invece si è rivelata una parentesi dolorosa. Centotrentaquattro giorni vissuti sempre sul filo hanno svuotato l’allenatore di Orzinuovi. Per Prandelli la panchina viola non era un semplice lavoro, né l’opportunità di rilanciarsi dopo qualche avventura sbagliata all’estero. Firenze è Firenze, una scelta di cuore. Una specie di favola che non ha avuto il lieto fine. «Nella vita di ciascuno, oltre alle cose belle, si accumulano scorie e veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme. In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. Per il troppo amore sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa che non era esattamente al suo posto dentro di me», scrive sincero.

Le aspettative. I mesi viola sono stati una specie di calvario per i risultati che non sono stati all’altezza delle aspettative, le sue prima ancora di quelle della gente. Ma anche perché si è sentito troppe volte solo a gestire una squadra che squadra non lo è quasi mai stata. Si aspettava anche un aiuto più concreto dalla società e forse da qualche giocatore importante. Ma alla fine dei conti ha pesato soprattutto il fatto di non essere riuscito a ribaltare la situazione e la classifica, a dare ai tifosi viola quello che volevano: una Fiorentina vera. «So che Firenze capirà e sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti e non voglio averne. Probabilmente questo mondo di cui ho fatto parte per tutta la vita non fa più per me e non mi ci riconosco più. Sicuramente sarò cambiato io e il mondo va più veloce di quanto pensassi».

Il calcio litigioso. Il calcio litigioso di oggi, in cui prevale l’arroganza, non gli piace. «Si parla troppo poco di pallone e troppo di tutto il resto», non si stanca mai di ripetere. I primi segnali di difficoltà sono arrivati dopo la sconfitta di Genova contro la Sampdoria lo scorso 14 febbraio e ancora, più forti, la sera della bellissima vittoria a Benevento. Bastava guardare la sua faccia stravolta per capire che qualcosa non andava. Prandelli si è illuso di poter lottare contro i suoi demoni, ma domenica contro il Milan ha capito che doveva fare un passo indietro. La rimonta prima fatta e poi subita, la tensione debordante sotto forma di tachicardia. Momenti duri. Così, dopo un giorno di riflessione, lunedì sera ha chiamato Pradè e Barone per annunciargli le dimissioni. I dirigenti hanno capito. E martedì non è mancato un momento di commozione.

Il ritorno di Iachini. Prandelli si ferma qui. «Per ritrovare chi sono veramente e per non penalizzare la squadra che è ancora in lotta per la salvezza». Da oggi Firenze e la Fiorentina saranno più soli. «In questi mesi è cresciuta un’ombra dentro di me che ha cambiato il mio modo di vedere le cose. Sono venuto per dare il cento per cento, ma quando ho capito che non poteva essere così ho fatto un passo indietro». A Firenze è già tornato Iachini, sino alla fine della stagione. Dopo servirà un altro tecnico e di nomi se ne sono già fatti, forse troppi, da Sarri a Gattuso, passando per Italiano e Simone Inzaghi. Commisso deve pensarci bene: adesso non può sbagliare. Forse in futuro la Fiorentina sarà più forte. Di sicuro meno romantica.

Giancarlo Dotto per il Corriere dello Sport il 24 marzo 2021. Intanto, è una bellissima lettera quella di Cesare Prandelli. La chiamerò così da qui in poi, come fosse un’unica parola. “Bellissima lettera”. Posso dire, senza sembrare quello che probabilmente sono, cioè uno stronzo sprezzante o discriminante, assolutamente inedita in un mondo in cui si masticano palloni rivedibili, cose fatue e cazzate social spacciate per socialità? Lo dico. E lo ripeto. Bellissima. Un bel botto in questo silenzio dove l’alternativa è la parola di polistirolo espanso. La bellissima lettera, voglio dire, non le dimissioni. In principio stava il verbo, e anche in mezzo e alla fine, aggiungo io. Senza questa lettera, sarebbe stato un fatterello, buono per tre o quattro sbuffi di fumo, prima d’essere retrocesso alla velocità del giaguaro nel territorio dell’irrilevante e poi quello della dimenticanza. Assoluto onore delle armi, sempre, agli uomini che hanno la forza di confessare pubblicamente la loro debolezza. C’è dentro questa bellissima lettera un uomo che ha perso il filo. Un uomo che più non riconosce e sempre meno è riconosciuto. Riconoscere ed essere riconosciuti, i due pilastri dello stare al mondo con qualche decenza e frazione di senso, prima di scegliere la strada ancora più decente e sensata dell’isolarsi, antefatto del cancellarsi, togliersi di mezzo. Abbandonare le cose che ti abbandonano, il magistrale dettato di Baltasar Gracian, un gesuita illuminato. “Sono stanco dentro” aveva detto qualche giorno fa, a fine partita, Cesare, provocando qualche briciola di stupefazione negli astanti sparsi tra reale e virtuale e una finestra socchiusa su un “quid” che gli era franato dentro. Un malessere da interpretare per chi avesse voglia di farlo, cioè nessuno, a parte le persone che gli vogliono bene. Un uomo che confessa la sua fragilità è un belvedere solo per chi s’intende di fragilità, magari senza confessarla, magari dissimulandola nel suo contrario, il cinismo ostentato di un Mourinho, le scariche di allegria, come ha fatto Jurgen Klopp per una vita, fino a quando la vita non si è puntualmente vendicata. L’avevo incontrato due anni fa, a Firenze, Cesare, lui e la sua lieta Novella, la compagna attuale. Mi era sembrato un uomo dalla sensibilità acuta. Un allenatore vecchio stampo, di quelli che parlano ai calciatori, come un padre se serve, quando la parola dell’allenatore aveva qualche probabilità di ascolto. Un uomo già minato dentro da troppe storie tossiche. Una sequenza micidiale. Le dimissioni dalla Roma (il lutto per la moglie) e dalla Nazionale (il lutto di una patria), i passaggi a vuoto di Istanbul, la parola di Lotito, i mari e i monti di Valencia, ma solo sulla carta, l’arrivo al Genoa per definizione effimero di Preziosi e, ultimo, il ritorno all’amatissima Viola. “Scorie e veleni che si accumulano e presentano il conto tutto insieme”, scrive Cesare. “L’assurdo disagio”, un’espressione che sembra sfilata da un romanzo di Camus. Stress fulminante, nella vulgata. Era il suo sguardo negli anni ad essere cambiato. Ci sono cani e sguardi bellissimi sui quali proiettiamo le nostre malinconie. Gli occhi di Cesare erano da tempo quelli che trovi addosso a un cocker a cui è morto il padrone e dunque l’ambiente stesso circostante in cui sopravvivere. Ci sono lutti e lutti. Cesare ne ha conosciuti tanti. Ora, forse, ha conosciuto quello peggiore, il lutto dell’esclusione. In questi casi (fu così nei precedenti di Bagnoli, Silvio Baldini, Agroppi, dello stesso Sacchi) il comodo ricorso è la “depressione”, il male oscuro che, in quanto tale, nessuno sa cosa sia, a cominciare dal depresso. Ma quella di Prandelli, più che depressione, è una storia di esclusione, che è anche peggio della reclusione. “Questo mondo non fa più per me…”, la frase chiave nel messaggio che Cesare ha lanciato in una bottiglia che ha una sola chance, quella di essere presto dimenticata. Ai giorni nostri restano a galla solo allenatori sostenuti dalla società o carismatici al punto di farsi credere più di quello che sono, il carisma ribaldo (ma fortemente calante) alla Mourinho, quello stregonesco alla Guardiola o inclusivo alla Klopp, il più raro, perché il carisma di suo esclude, soprattutto quando manipola. Prandelli non aveva il carisma dalla sua e, negli ultimi anni, nemmeno una società forte alle spalle. La sua vulnerabilità fu più che mai evidente nelle ostentazioni di forza. I codici etici con cui pretendeva di regolamentare in Nazionale i comportamenti dei calciatori erano in realtà la confessione di un limite, il tentativo di mettere l’argine della legge là dove non arrivava la parola o la personalità. Troppo facile, in ogni caso, spedire uno che si dimette per “motivi oscuri” (già di suo uno scandalo nel calcio, come nella politica) in un ipotetico reparto psichiatrico. Ad escludere Prandelli, a far crescere “l’ombra” dentro di lui, è stato altro. L’analogia con Arrigo Sacchi non regge. Il deserto non è lo stesso. Sacchi fu prosciugato da se stesso, dal suo fuoco maniacale. Prandelli è stato svuotato da un mondo che ha cambiato in fretta le sue regole, le sue modalità, i suoi accessi alla vita e alle emozioni. Se vogliamo propria dirla depressione, la chiamerei una depressione funzionale. Intelligente. Senza il sostegno di una sana fondatezza biologica, anche gli orsi in letargo sarebbero finiti sul lettino di Freud, quando si trattava invece solo di difendersi con il grande sonno dal grande freddo. Deprimendosi, Prandelli si è difeso da un mondo in cui rischia di sopravvivere come un’ombra. L’ombra che gli cresce dentro. “Sono consapevole che la mia carriera di allenatore possa finire qui, ma non ho rimpianti… Sono stato cieco davanti i primi segnali che qualcosa non andava, che qualcosa non è esattamente al suo posto dentro di me…il mondo va più veloce di quanto pensassi… Per questo credo sia arrivato il momento di fermarmi per ritrovare chi veramente sono”.  Allenatori, politici, giornalisti, scrittori, musicisti, analisti finanziari, latin lover, avventurieri, investigatori, esploratori. Arriva il giorno in cui si sentono inadeguati. Il mondo li sorpassa in tromba. A tripla velocità. Li lascia ammutoliti sul ciglio della strada. Si guardano intorno. Vedono calciatori, studenti, lettori, amanti. Sembrano gli stessi di una volta, ma non è così. I sembianti ingannano. E noi, improvvisamente, a meno di uno sforzo titanico, ci ritroviamo inadeguati. Non all’altezza. Ma questo è un altro capitolo e ha a che fare con l’evidenza che l’umano non ne può più di essere umano. La bellissima e umanissima lettera di Prandelli ha un solo difetto. Troppe allusioni. Troppe vaghezze. Troppe cose che andrebbero spiegate meglio. Magari, un giorno nemmeno lontano lo farà, quando vorrà e con chi vorrà. 

Da lastampa.it il 28 marzo 2021. «Sono passati pochi giorni da una mia decisione sofferta, molto dolorosa, e mi accorgo che probabilmente qualcuno non ha capito il vero senso del mio gesto. Sicuramente una minoranza ma non per questo meno importante, sta riempiendo i canali social di nefandezze, ricostruzioni inventate di fatti mai esistiti». Cesare Prandelli, ex tecnico della Fiorentina, torna a parlare dopo il tormentato addio, esprimendo in una dichiarazione all'Ansa il suo sbigottimento per le ricostruzioni sui dei motivi delle sue dimissioni che corrono sul web. Una scelta, quella di lasciare la panchina dei Viola,  che ha colto di sorpresa quasi tutti. In una lettera di commiato Prandelli ha parlato dell’«assurdo disagio» provato negli ultimi tempi. Di «un'ombra» dentro di sé che lo ha reso sempre più estraneo al mondo del calcio. «Sono consapevole che la mia carriera può finire qui» ha aggiunto l'ex ct azzurro. L'addio molti lo pronosticavano al termine della stagione ma non adesso. Anche se dopo la bella vittoria di Benevento Prandelli aveva sottolineato a fine gara di sentirsi «vuoto dentro». Un passo delicato, soprattutto per lui che con i colori viola, con la città, con i tifosi, ha instaurato da anni un rapporto speciale. Da tifoso della Fiorentina aveva anche comprato due abbonamenti al Franchi. «Bisognerebbe stigmatizzare e non dare risalto alla pochezza di spirito dei cosiddetti “odiatori da tastiera” - dice il tecnico, particolarmente colpito dal gossip spinto che si è scatenato a Firenze - ma c'è un limite e questo limite è stato oltrepassato. Lo devo alla mia famiglia, al club ma soprattutto ai miei calciatori che mai, dico mai, mi hanno mancato di rispetto o hanno avuto comportamenti offensivi nei miei confronti. Mi appello alla responsabilità di tutti credete alle verità e non correte dietro a fenomeni senza moralità e etica del vivere civile».

La lettera. «La mia decisione è dettata dalla responsabilità enorme che prima di tutto ho per i calciatori e per la società, ma non ultimo per il rispetto che devo ai tifosi della Fiorentina» ha scritto già da ex tecnico viola. Parole importanti, difficili da trovare in un mondo del calcio diventato sempre più un frullatore. «È la seconda volta che lascio la Fiorentina. La prima per volere di altri, oggi per una mia decisione. Nella vita di ciascuno, oltre che alle cose belle, si accumulano scorie, veleni che talvolta ti presentano il conto tutto assieme». Tanto amore per la Fiorentina, per Firenze e i tifosi viola che invece di essere la «benzina» giusta per far ripartire bene la squadra all'improvviso sembrano aver fermato tutto. «In questo momento della mia vita mi trovo in un assurdo disagio che non mi permette di essere ciò che sono. Ho intrapreso questa nuova esperienza con gioia e amore, trascinato anche dall'entusiasmo della nuova proprietà. Ed è probabilmente il troppo amore per la città, per il ricordo dei bei momenti di sport che ci ho vissuto che sono stato cieco davanti ai primi segnali che qualcosa non andava, qualcosa non era esattamente al suo posto dentro di me».

Giancarlo Dotto per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. Leoni da tastiera. Scarafaggi da pattumiera. Conigli dell’aerosfera. Non ti curar di loro, ma guarda e passa. Facile a dirsi. Facile a farsi. Non devi essere per forza Houdini per sparire ai loro occhi. Non potendo sparare, almeno sparisci. Sparisci tu, per far sparire loro. Geniale. «Non siete voi che mi cacciate, sono io che vi condanno a rimanere». Nella latrina immonda che vi siete costruiti a vostra immagine e somiglianza, io che c’entro? Non entro. Male che va, esco. Me la batto. Ciao ciao cretini. Dissolversi sul più brutto, in pieno bailamme, chiudere il sipario sul pollaio che chiamano “social” per far finta che un rutto sia un tono, e gustare finalmente, da fantasma realizzato, quel medio della mano destra e l’indice della sinistra che restano sospesi sulla tastiera, scortati a tre palmi sopra l’ombelico dall’occhio bovino e stupefatto che più non identifica il bersaglio da impallinare. «Dove cazzo sei finito? Se tu non esisti, io non esisto!». «Dove tu, non finirai mai lagnoso e insulso frustrato«. Odiatori? Ma per carità! Per odiare ci vuole passione, persino talento. Questi mollano le loro sudicie ditate su una non innocente tastiera (colpevole di non scaricare una scossa da tremila volts ogni volta che il medio o l’indice si posano su qualunque tasto) con la stessa ottusità biologica con cui un attimo prima e un attimo dopo hanno mollato e molleranno altre cose letali. Boccate di ossigeno arrivano, per fortuna. Gente in fuga dallo zoo subumano dei social. L’ultimo Mago, Thierry Henry, insegna. Alla grande Thierry. «Lascio i social, mi cancello da tutto… Sono diventati troppo tossici per essere ignorati». Perfetto, giusto, ignoriamoli. Grande Thierry, grande esempio! Con questa mossa molto istruttiva ti sei redento, per me almeno, da quella mano ladruncola che sappiamo di dodici anni fa. Bleus in festa e Trap l’Irlandese in lacrime. Ti massacrarono, allora, e avevano ragione. Oggi non hanno più bisogno nemmeno di un pretesto. Da quella fogna. Dove non c’è olfatto e non c’è sangue. Non hanno nemmeno bisogno dell’odore del sangue. Lo scandalo è che una materia così, al cuore dell’etica, non sia ancora regolamentata da leggi severe. Insultato anche Cesare Prandelli. La sua colpa? Essere Cesare Prandelli. Un uomo dalla sensibilità acuta che si sente soverchiato. Da cosa? Dalle trame di un mondo in cui non trova più uno strapuntino decente. Lascia, dunque, abbandona una storia che lo sta abbandonando. Scrive anche una bella lettera per raccontarlo. Giusto? Sbagliato? Ammirevole? Deplorevole? Chi sono io, chi siete voi per giudicare? Non vi basta prendere atto di una scelta comunque rispettabile? Cesare sbaglia quando si lascia ferire. La sensibilità è un pregio solo quando sei tu a stabilire da chi farti ferire. Se non sei Gandhi, impara da Houdini, in alternativa impara da Henry. Limitati a sparire. Il mondo è bello, quando non è avariato. In quanto a voi. Contate fino a cinque prima di liberare il fango. Non sapete contare fino a cinque (probabile)? Provate allora a immaginare, leoni, cosa sarebbe della vostra criniera, delle vostre ispirate invettive, se il prezzo da pagare fosse l’amputazione sul posto delle due dita colpevoli di recare infamia (uno se, probabile, gli altri nove sono analfabeti). Un netto e indolore colpo di tronchese. Vi vedete piagnucolare e supplicare perdono? Sì? Siete voi quelli. Patetici. Ma, senza arrivare alla tronchese, la pena esemplare. Scrivere una lettera d’amore. A chi? A chiunque, tranne che a voi. 

Buon vento, Cesare Prandelli. di Luca Bottura su L'Espresso il 29 marzo 2021. Un uomo che è rimasto verticale anche quando la vita ha cercato di stenderlo. E che si è lasciato alle spalle questo calcio così piccino. Cesare Prandelli. Cane sciolto. Non ha mai allenato la squadra per cui inopinatamente tifo, vaso di coccio rossoblù nel Rollerball di porcellana infrangibile in cui il calcio si è da tempo mutato. Cionondimeno ho sempre provato per Cesare Prandelli una stima, quasi un affetto, irredimibili. La sua vicenda umana ai tempi in cui allenava per la prima volta la Fiorentina. I suoi Mondiali 2014 difficilissimi. In generale, la sua dirittura comportamentale sia come giocatore che come tecnico, lo collocano da sempre nel piccolo Pantheon dei diversi, dei cani sciolti, appunto, che per sovrammercato non vanno in giro a rivendicare il guinzaglio strappato. Degli estranei al sistema, vicini al cuore del sistema. Capaci, quando illuminati dalla luce di un fato benigno, e dalla complicità momentanea di qualche altra anima libera, di un rimbalzo felice, di una bomboniera dei sentimenti altrui dentro alla quale muoversi, di raccogliere quanto meritato. Non mancano, nel pallone, figure del genere. Ma fateci caso: sono tutte antiche. E tutte estreme. Oltre che tutte defunte. Era così Gigi Meroni, quello della gallina col collare e del talento gracile e cristallino. Lo era George Best, che considerava sperpero solo i denari non gettati in donne e alcool. Volendo, persino Maradona, coi suoi eccessi leaderistici anche fuori dal campo: riascoltatelo quando giocava nel Napoli, più lucido di molti politici che l’avrebbero imitato malamente, e di tutti i calciatori fatti con la stampante 3D che gli sono succeduti. Con una differenza che non sfuggirà all’occhio: si è trattato di campionissimi. Bruciati financo nella parabola vitale dal loro stesso estro, mentre la sfortuna ne osservava compiaciuta i trionfi più o meno flebili. Prandelli non è stato un fuoriclasse, in campo. E non ha stravinto neppure in panchina. Eppure appartiene alla genia di quelli che hanno pagato una piccola cauzione, in termini di vittorie spicciole, alla loro dirittura morale, alla loro estraneità sussurrata eppure tenace, al loro viaggiare in direzione ostinata e contraria ma senza le quattro frecce accese. Una cauzione che incassano con gli interessi, però, nel momento in cui prendono la porta, sottolineano che forse è per sempre, lo sanno, eppure guardano dritti e aperti nel futuro sapendo che è difficile sconfiggere la propria ombra, come ha scritto Prandelli nella lettera d’addio. Ma che un uomo senza ombra è un uomo fatto di niente. Invece ce l’ha, Cesare, l’ombra. Ben piantata sull’asfalto, nitida, quasi sorridente, mentre il sole di una primavera giovanissima ne illumina da lontano i passi con cui si lascia alle spalle questo calcio così piccino. Così deludente. Senza nulla a pretendere, con ancora molto da dare, col sorriso interiore di un uomo che è rimasto verticale anche quando la vita ha cercato di stenderlo. Personalmente, spero di rivederlo su una panchina. Significherebbe non che è cambiato lui, ma che in questa pedata di plastica c’è ancora spazio per gli uomini veri. Buon vento, Cesare. Giudizio: 3-0 a tavolino

Giampaolo Pozzo. Mario Sconcerti per il "Corriere della Sera" il 25 maggio 2021. Questa è la storia di una differenza, quella di Giampaolo Pozzo, l' uomo che da 36 anni possiede e gestisce l' Udinese. Nessuno in serie A ha un passato più lungo nel mestiere di proprietario. Pozzo è anche l' uomo che per molti ha inventato il calcio moderno. Infine è il signore che oggi compie ottant' anni.

Lei avrebbe portato Zico a Udine?

«No, penso gli affari e il calcio in modo diverso. Ma mi fece piacere vederlo a Udine.

Avevamo voglia di essere guardati, ci sentivamo un po' spersi nel mondo. Eravamo riemersi dopo venti anni di serie C. Poi Sanson se ne andò per colpa di un finto mal di cuore e tutto passò alla Zanussi, la seconda realtà industriale italiana dopo la Fiat. Zico era vecchio, altrimenti non ce lo avrebbero dato a quel prezzo. Ma fu un grande colpo per una città che aveva bisogno di allegria. Si cominciò a parlare di Udinese dovunque, mettemmo il primo maxi schermo, rimase a lungo il più grande del mondo. Erano record che ci inorgoglivano. Poi arrivò il tempo di pagare il lusso. I dirigenti fecero un po' di traffici per rimanere in A e finì che ci dettero 9 punti di penalizzazione quando le vittorie valevano 2 punti e le partite erano solo 30. Impossibile salvarsi».

Lì arriva Pozzo.

«Sì, dovevamo fare una cordata, c' erano dentro Zoppas, Zamparini e altri. Mi chiesero di dare una mano e accettai volentieri. Alla fine erano rimasti solo i miei soldi, gli altri tutti scomparsi. Sono rimasto per salvare l' investimento, mi seccava buttar via soldi così. E divenni presidente. Era il 1986. Naturalmente retrocedemmo, ma da lì cominciò un' altra storia. Sono 26 anni consecutivi che siamo in A e abbiamo partecipato 14 volte alle coppe europee, 3 volte in Champions».

Ha una dedica per i suoi 80 anni?

«Che ho vissuto bene, ho lavorato molto e mi è piaciuto vivere. Nella mia famiglia, in questa città e in buona parte del mondo. Se andiamo nel particolare, i miei dirigenti mi hanno detto che l' Udinese è la squadra che dà più giocatori alla nazionale argentina, quattro: Molina, De Paul, Pereyra e Musso».

Su De Paul dovrà dirci qualcosa. Lo vogliono tutti.

«Noi non abbiamo necessità di vendere. Deciderà lui. Ma se volesse restare sono pronto a rivedere il suo contratto».

Come fece con Di Natale?

«Lui è stato il migliore in assoluto. Mai capitato uno che rinuncia a giocare in una grande squadra per rimanere con noi. Avevo in stanza il suo procuratore, Carpeggiani, che era venuto a portare l' offerta della Juve e a chiudere. Di Natale mi guardò e disse: presidente, se posso resto. E io quasi commosso risposi, avanti!».

Perché da trent' anni anticipate tutti sul mercato? I primi ad avere una videoteca di partite da tutto il mondo. Vi hanno seguito in tanti, sono cambiati i tempi, ma il metodo Udinese è rimasto all' avanguardia.

«Quello è merito di mio figlio Gino e del suo staff. Io mi occupo di mantenere i conti in equilibrio. Posso dirle che abbiamo cinque scout in Italia e cinque nel mondo. Ormai si gira poco, c' è un sito splendido che dà le partite di cinquanta stati, in continuazione. Non solo a noi, sono abbonati tutti i club, anche all' estero. Ma fa di più, sintetizza. Mettiamo che lei cerchi una mezzala mancina sotto i 24 anni di un metro e novanta. Inserisce i dati e il computer sceglie nel mondo i nomi che rispondono al bisogno e mostra tutte le partite che li riguardano. Questa è la prima fase dura, ore e ore davanti alla tv. Poi si affina il concetto andando a vedere il giocatore sul campo, dopo conoscendolo personalmente, capendo chi è, cercando di inquadrarlo nel nostro ambiente. Ci vuole un sacco di tempo, ma i miei mi dicono che è quasi impossibile sbagliare».

L' opinione comune è che lei sia stato il primo imprenditore a mettere insieme il calcio con l' azienda.

«Non mi sento così importante, ho portato con me concetti industriali e di vita in cui credo. Qualunque azienda si gestisca, una famiglia, una bottega o la Fiat, la regola è sempre la stessa, dare e avere devono andare d' accordo. Altrimenti prima o poi finisce male».

È stato il primo anche ad acquistare squadre all' estero.

«Il calcio è l' hobby di famiglia. C' è chi si iscrive a un circolo di golf o gioca a bocce. Ma in casa ci è sempre piaciuto la sensazione di sofferenza e piacere che dà il calcio. Capitò un' occasione in Spagna, il Granada in serie C. Con mio figlio decidemmo di comprarlo. Lo riportammo subito in prima serie, un gran bel lavoro, l' abbiamo tenuto sei anni poi l' abbiamo venduto. L' esperienza ci era piaciuta. Abbiamo continuato a guardarci intorno, a Londra, dove avevamo altri nostri interessi. Così è nato il Watford. Se ne occupa mio figlio, ormai vive a Londra».

Vivendo da dirigente il calcio italiano e quello inglese, qual è la differenza più importante che trova?

«Loro sono più lineari, più coerenti, più imprenditori e meno politici. Decidono, non si dividono. Guardi cosa hanno fatto davanti alla Superlega. In due ore le squadre coinvolte sono state prese a schiaffi. Storia finita. Noi stiamo ancora a discutere cosa fare».

Lei arriva poco prima di Berlusconi e Moratti. Loro dopo vent' anni se ne sono andati. Lei è ancora qui. Perché? Ho visto tante volte il calcio cambiare sotto le sue invenzioni.

«Questo mi fa piacere e devo dire credo ci sia qualcosa di vero. Ho fatto resistenze che alla fine hanno portato vantaggi a tutti. L' ambiente è complesso, ci sono interessi paralleli difficili da controllare. Nella vita si lavora per affermare se stessi e mettersi alle spalle l' avversario. Nel calcio devi conciliare le tue vittorie con le sconfitte degli altri: lo sconfitto ha bisogno del vincitore e viceversa. Da soli non esistiamo. Questo era l' errore della Superlega, che le dodici fondatrici non prevedevano sconfitta: volevano scegliersi da soli l' avversario».

Quindi serve una regola di comportamento?

«Sì ma non voglio dettarla io, vorrei conservare un po' di stile. Anche se, detto tra noi, lei mi dà 250 milioni, io faccio una squadra per vincere lo scudetto. E se non lo vinco devo considerarmi un imbecille, nel senso che avrei sbagliato scelte io, non i soldi. Ma nei debiti delle grandi società ci sono anche responsabilità individuali. Manager pagatissimi, storici, lo stesso tecnico, sono stati protagonisti e partecipi di questa situazione. Dovevano essere anche loro a dire fermiamoci. Gli stipendi, l' Iva, le tasse, vanno pagati nel tempo giusto, non dopo, altrimenti si falsa la gara».

Ha mai giocato a calcio?

«No, mai. Sono sempre stato un tifoso dell' Udinese, capivo, sentivo l' importanza della squadra per l' umore della città. Una cosa distingue Udine: non siamo tanti in generale, centomila persone, ma siamo tanti per il calcio. Nei tempi buoni andiamo in trentamila allo stadio, come se Milano portasse un milione di milanesi a San Siro».

È per questo che è stato sveltissimo a rifare il vecchio stadio Friuli?

«Sì. Non abbiamo cercato l' affare, abbiamo cercato di dare alla gente la possibilità di vedere la partita in modo decente. Prima, con la pista, la distanza minima tra uno spettatore e il campo era di trenta metri. Poi c' era l' esigenza di dare una copertura. Questa è una città piovosa, l' aria è spesso fredda e umida. Dovevamo rendere tutto più fruibile».

In che senso non avete fatto un affare?

«Non l' abbiamo nemmeno cercato. Sarebbero stati troppo alti i costi. Abbiamo pensato di rendere le cose semplici. Abbiamo chiesto un mutuo al Credito sportivo, la proprietà resta del Comune. A noi basta pareggiare nel tempo le spese avute. Ora tutto quello che riguarda l' Udinese è dentro lo stadio. La società, una club house per noi, la squadra e i nostri migliori abbonati, perfino un centro congressi dove facciamo iniziative prima di ogni partita, incontri di affari tra imprenditori locali e nazionali, molte altre cose. Ma è stato tutto fatto a costi possibili. Sento di progetti a Verona tra società e comune per uno stadio da 150 milioni, ma non vedo mai nessuno tirar fuori i soldi. È così dappertutto. Oggi non c' è nessuna base economica, politica, per poter pensare di costruire davvero uno stadio di proprietà. Troppo alto il costo e troppa la burocrazia. Meglio andare per gradi, fare subito bene quello che si può. Anche a Udine siamo stati bloccati. Non abbiamo ancora potuto completare l' opera».

È vero che la Var l' ha inventata lei?

«È vero che nel 2003 chiesi al Cnr di Bari un progetto che portasse chiarezza sul gol non gol e sul fuorigioco. Alla fine si arrivò alla fattibilità di apparecchi identici a quelli che si usano oggi. Lo feci vedere al presidente della Fifa, era Blatter, che mi disse di non essere interessato. Pochi erano interessati ad avere più uguaglianza. Almeno su questo ora va meglio».

Al.Ab. per "il Messaggero" il 21 ottobre 2021. È nell'occhio del ciclone, ma forse non se ne rende nemmeno conto: «Non so perché si sia scatenato tutto questo caos», dice Juan Bernabé, il falconiere spagnolo della Lazio. Era ancora spaesato, frastornato ieri pomeriggio a bordo della sua auto a Formello, il 53enne nato a Cadice. Faceva volare nei cieli l'aquila del Benfica, prima della chiamata di Lotito. Nel 2010 il suo trasferimento nella Capitale: per anni ha vissuto dentro il centro sportivo biancoceleste, poi Bernabé si è trasferito alle porte di Roma insieme all'aquila Olympia, sempre al suo fianco. E al fianco dei laziali, nella buona e nella cattiva sorte.

Dopo l'ultimo derby, l'abbiamo vista sul braccio di Sarri sotto la Curva Nord. Sabato sera, era in braccio a Juan mentre esibiva il saluto romano e inneggiava al duce sotto la Tevere. Bernabé, ma ha capito il putiferio che ha scatenato il suo saluto col braccio teso?

«Innanzitutto, non c'entra nulla con la Lazio e per questo sono dispiaciuto. Per me è un saluto militare, io sono nato dentro l'esercito. Ho una cultura di destra, sono del partito Vox come tanti amici calciatori e ne vado orgoglioso. In Spagna il gesto fascista si fa con il braccio piegato sul cuore a livello del petto. In Italia a quanto pare è anche così, non lo sapevo».

Scusi, se non si sente fascista perché urlare Duce Duce?

«È vero, l'ho fatto e non lo rinnego perché io stimo Mussolini, ha fatto tante grandi cose per l'Italia così come Franco in Spagna. Sono un estimatore di entrambi e ne vado fiero». 

Quindi, lei si dichiara orgogliosamente fascista? Sa che è un reato?

«Sono un uomo che ha rapporti con tutte le razze, che ha girato il mondo, che fa business in tutto il mondo».

Sarà, ma quello che ha fatto rischia di costarle il posto di lavoro. Lo ha capito?

«A me non è ancora arrivato nessun comunicato di sospensione dalla Lazio, ma lo sto aspettando. È nell'aria, lo so già a livello informale ed è giusto». 

Ammette le sue colpe?

«Sono responsabile di ciò che ho fatto. È stato un impulso legato all'euforia del post partita dopo un grande successo. Non sapevo fosse vietato quel modo di esultare nel vostro paese, altrimenti non l'avrei fatto. Non volevo mettere in difficoltà la Lazio. Ma sono qui, sono uomo e come tale pronto a pagarne le conseguenze subito». 

Dopo tanti anni, era diventato un beniamino del tifo.

«Sì, è vero. Tutti i tifosi ormai per strada mi fermano, ma queste cose fanno parte della vita. Ci sono momenti brutti e belli, ma io ho superato anche di peggio». 

Si riferisce alla malattia contro cui ha combattuto e per la quale era sparito dall'Olimpico?

«Certo. E poi anche il Covid ci si è messo di mezzo. Non solo per me, anche per Olympia è stato molto difficile in questi mesi, perché a causa dei blocchi internazionali sono rimasto lontano per molto tempo. Poi ho ottenuto un'autorizzazione per allenarci insieme, ma non posso dimenticare il lavoro di mio genero Matteo, che è anche sceso in campo al mio posto. Quando sono tornato ho vissuto momenti speciali, ogni giorno Olympia cantava sentendo la mia voce ed è qualcosa di forte a livello emotivo».

Non farà più parte dello show.

«Vedremo...»

PEDRO ALLA LAZIO, AFFARE FATTO. Alberto Abbate per “Il Messaggero”. Pedro, Pedro, Pedro, Pe. Fidatevi di Sarri, garantisce: «Alla Roma non ha avuto la possibilità di giocare partite decisive. Ha fatto un campionato strano - aveva spiegato Maurizio lo scorso 5 luglio - ma è uno che non sbaglia mai di fronte a una gara importante. Disponibile, tecnico, rapido. Per questo tipo di giocatori ho un debole. È stato sottovalutato, ma per me è un top player». Un mese e mezzo dopo, il Comandante passa dalle parole all'azione. Si muove quasi da dirigente: alza il telefono, contatta lo spagnolo messo fuori rosa da Mourinho e gli chiede la sua disponibilità al trasloco biancoceleste. C'è già la firma virtuale al biennale ribassato a 2,5 milioni a stagione, da ieri Pedro pressa la Roma per ottenere la rescissione. La Lazio non vuole pagare il cartellino, a Trigoria non fanno certo le barricate, ma a questo punto ne vogliono approfittare sulla buonuscita fra 500mila euro e il milione. Se oggi dovessero esserci resistenze, Pedro potrebbe addirittura rinunciarci per consentire alla Lazio di tesserarlo entro domani alle 12 ed essere disponibile per la prima di campionato a Empoli, anche se resta una corsa contro il tempo difficile. Trentaquattro anni e un contratto giallorosso in scadenza nel 2023. Lotito ha già trovato l'accordo con l'agente Giuffrida per la stessa durata, ma con uno sconto di 500mila euro sullo stipendio biancoceleste. Pedro è a un passo, si è tolto denaro dalla busta paga pur di lasciare Mourinho (2 gol in 17 gare al Chelsea) e raggiungere l'estimatore Sarri, con cui ai tempi dei Blues (e dell'Europa League vinta) aveva sfornato 13 reti e accumulato ben 52 presenze. I numeri con Mau sono dalla sua parte, ora vanno sciolte le riserve dell'ambiente. Dall'altra sponda del Tevere è sempre una catapulta infernale, già a leggere l'accoglienza dei laziali piuttosto glaciale: «Ci fidiamo di Sarri - è il concetto dilagante su radio e web - ma perché fare un favore agli odiati cugini giallorossi che se ne devono liberare?». Perché, senza soldi nelle casse e ormai a pochi giorni dalla fine del mercato, bisognava fare di necessità virtù e cogliere un'occasione. Come su Hysaj e Felipe, Tare ha ascoltato la richiesta di Sarri, pur sapendo le polemiche che si sarebbero scatenate. Qualcuno prova a smorzarle: «Dà fastidio che venga dalla Roma? Io dico no, non ha un passato storico importante. Se arriva e fa la riserva di Correa ci sta come operazione. Se partirà l'argentino, ovvio, ci vorrà un titolare». Ed è in effetti questa, la strategia biancoceleste. Guai poi a non essere ottimisti, visto qualche precedente: «Vedrete con Sarri cosa farà. È motivato. E comunque tecnica e velocità sono ancora al top. A Trigoria non si è trovato, tutto qui. Magari segna pure al derby. E poi parliamo di Petrelli? Nel passaggio dalla Roma alla Lazio vinse pure il tricolore». È un trasferimento storico perché diretto, non accadeva dal 1985 con Malgioglio. Lo scambio di maglie capitolino ha un passato ampio, ma quasi tutti i doppi ex hanno fatto altrove almeno un pit stop. In principio fu Alessandro Ferri con un salto nel 1948. L'ultimo era stato Kolarov, sempre al contrario. In mezzo Selmosson, Perrone, Cordova, Manfredonia, Bernardini, Ferraris IV, Pietro Pastore, Dagianti, Zaglio, D'Amato, Sulfaro, Di Biagio, Mihajlovic, Peruzzi e Zeman, volendoci inserire pure un tecnico. Pedro non è una bandiera e oltretutto era stato già proposto alla Lazio l'anno scorso. Tare ci aveva pensato, poi lo aveva scaricato. Adesso si muove Sarri per riprenderselo. Non sarà un giovanotto, ma nel suo 4-3-3 può essere un rincalzo o una sorpresa di lusso. Conosce il suo gioco, dentro in Premier ci si è già esaltato. Maurizio non ha più tempo, a questo punto ha bisogno di giocatori che rispondano al suo credo. Vedete il lato positivo del tradimento, Pedro è già devoto.

CICCIO CORDOVA: «NON FACCIAMO PARAGONI IO SONO STATO UN SIMBOLO, PER LUI COSA VUOI CHE SIA...» Andrea Sorrentino per “il Messaggero” il 19 agosto 2021.

Quarantacinque estati fa un altro romanista diventò laziale e fu un trasferimento che fece epoca, di sicuro più rumore di adesso. 

«Perché il mio passaggio alla Lazio è stato diverso dagli altri, io ero un simbolo della Roma. Non certo uno come Pedro. Rimasi alla Lazio tre anni e mi trovai a meraviglia. Però il cuore è rimasto sempre dall'altra parte, e ancora sta lì». 

Del resto tutto cambia, caro Ciccio Cordova. In cosa fu diverso il suo caso da quello di Pedro? 

«Lui è spagnolo, giocare nella Roma o nella Lazio è la stessa cosa, è un professionista, va dove pensa che gli diano più spazio, per lui è un problema relativo. Supererà ogni difficoltà, ammesso che ne avrà. Poi è stato solo un anno alla Roma, che vuoi che sia».  

Lei invece nel 1976 era Ciccio Cordova, ovvero? 

«Centrocampista della Roma da dieci anni, capitano, tifoso. Ma fui costretto ad andare alla Lazio, sennò avrei dovuto smettere col calcio a 32 anni».  

Per i più giovani, e per chi ha voglia di ricordare i bei tempi andati: cosa accadde? 

«Che stavo sulle scatole al presidente, Gaetano Anzalone. Dal primo giorno. Perché ero il genero del suo predecessore, Alvaro Marchini: avevo sposato la figlia Simona, con tutti problemi che la cosa rappresentava ai tempi. Fu un rapporto impossibile fin dall'inizio. Ma io non ero uno qualsiasi, ero il capitano e leader della squadra, e fu una guerra. Addirittura all'inizio della stagione 1974-1975 rimasi fuori nelle prime sette partite, la Roma fece 4 punti, era quasi ultima. Mi fecero rientrare a viva forza per il derby, mi convinsi a giocare Vincemmo il derby contro la Lazio campione d'Italia 1-0, gol di De Sisti. A fine anno arrivammo terzi».

Lei era un grande centrocampista, Ciccio. 

«Non so se sono stato un grande. Però ero bravino, dai».  

Ma l'anno dopo ci fu il divorzio. 

«Anzalone mi voleva vendere a tutti i costi per vari motivi, io non volevo muovermi da Roma per vari motivi, poi non potevo certo dargliela vinta. Mi vendette al Verona. Rifiutai. Così per pura ripicca sono andato alla Lazio. All'epoca i giocatori non erano liberi di muoversi: non ci fosse stata la Lazio, avrei rischiato di smettere. La Lazio mi volle, e la Roma fu ben felice di cedermi. Per me fu dolorosissimo, ce l'ho ancora addosso quel dolore. Da romanista e capitano della Roma, a laziale: non fu facile».

Gli inizi, immaginiamo, furono complicati. 

«Le racconto una cosa inedita. Prima amichevole all'Olimpico con la Lazio, in notturna. Sono l'ultimo a entrare in campo e per un motivo: stavo lì nel sottopassaggio, a torso nudo e con la maglietta in mano. Qualcosa mi impediva di indossarla, non riuscivo, anzi non ne avevo alcuna intenzione. Un rifiuto. Un dirigente lì vicino mi implorò, poi sempre più spazientito disse: Ma te la voi mette sta maglietta, che dovemo giocà?'. Alla fine è andata, le cose hanno preso il loro verso. Alla Lazio ho passato tre anni eccellenti, mi hanno trattato benissimo, ho fatto praticamente tutte e 90 le partite di quei tre campionati. Però al cuore non si comanda: lui, era rimasto dall'altra parte».  

Eravate meno liberi di adesso, voi giocatori, e i guadagni poi erano un'altra cosa. 

«Ma anche allora c'erano tanti soldi eh? Rapportati a quelli di adesso magari no, ma gli ingaggi erano alti, alcuni altissimi. Quanto guadagnavo io? Glielo direi volentieri, ma non mi va. La vera differenza è che adesso ti fanno contratti di tre anni, invece allora era solo uno. E ti dovevi guadagnare il rinnovo a ogni stagione. I giocatori normali, intendo. Io no, non avevo di questi problemi». 

Che Roma si aspetta quest' anno? 

«Mi dispiace che sia andato via Dzeko, per me è un fuoriclasse. Ma speriamo che il progetto dei giovani funzioni. E che Mourinho ci metta del suo. Ha una squadra molto buona, lavorandoci bene arriverà tra le prime».  

Per la cronaca, la foto profilo su whatsapp di Ciccio Cordova, tre anni belli alla Lazio, è una maglietta giallorossa. Con sopra il numero 10 . 

Francesco Flachi. Estratto dell’articolo di Giuseppe Calabrese per “la Repubblica” il 19 agosto 2021. La rinascita è una data cerchiata di rosso sul calendario. 12 gennaio 2022, dopo 12 anni, fra cinque mesi, scade la squalifica per doping di Francesco Flachi, uno dei più talentuosi e controversi fantasisti degli anni Novanta. «Finalmente potrò ricominciare».

Giocava nel Brescia, fu trovato positivo alla cocaina dopo la partita con il Modena. Era recidivo, ha rischiato la radiazione. […]

«Ci ho messo cinque anni per ritrovarmi. Dopo la squalifica non volevo più saperne del calcio. Ho aperto una paninoteca, ho provato a inventarmi un'altra vita, ma il pallone quando ce l'hai dentro, prima o poi torna fuori. Così dopo quei cinque anni di vuoto piano piano mi sono riavvicinato».

E ora, a 46 anni, ha deciso di tornare a giocare, con il Signa nel campionato di Eccellenza. Scusi la domanda, ma fisicamente pensa di farcela?

«Certo non ho i novanta minuti nelle gambe e non ho nemmeno lo sprint di una volta, però mancano cinque mesi al mio ritorno in campo e penso di riuscire a rimettermi in forma […]». 

Cosa vuole dimostrare?

«È una sfida con me stesso, una rivincita personale. […]». «[…] non sono stato un buon esempio e ho pagato per quello che ho fatto. Ma tutti hanno diritto a una seconda possibilità». 

[…] «[…] Ora faccio questi sei mesi con il Signa e poi a giugno voglio prendere il patentino di allenatore. È quella la mia strada. Vorrei allenare i bambini».

«[…] Sento di poter dare ancora qualcosa al calcio. I bambini sono spugne, assorbono in fretta, e io non vedo l'ora di trasmettere a loro il mio calcio». 

[…] il talento non invecchia. O sì?

«A calcetto me la cavo ancora bene In un campo da calcio vedremo. Adesso sono come una macchina che ha la batteria scarica, ma ho tempo per riassestarmi. Devo rimettere a posto i muscoli, ritrovare le misure in campo, capire fino a dove mi posso spingere. E quello che manca lo compenserò con l'esperienza e l'entusiasmo. […]». 

Giuseppe Signori. Beppe Signori, dalla Nazionale all'embolia cerebrale: "Colpa dei pm", la drammatica denuncia. Giovanni Terzi su Libero Quotidiano il 20 luglio 2021. Un giovane prende la palla e dribbla, con velocità ed astuzia, il difensore avversario nello stadio Pino Zaccheria di Foggia e con la palla al piede calcia, in modo preciso e violento, nella porta difesa da un grande portiere, quel Claudio Taffarel che pochi anni dopo diventerà campione del mondo con la nazionale brasiliana. «Il mio primo gol in serie A fatto alla quinta giornata di campionato è forse quello che maggiormente mi è rimasto nel cuore». Chi parla è Giuseppe Signori, per tutti Beppe, centottantotto gol nel campionato di serie A italiano e nono marcatore assoluto al pari di Alessandro Del Piero e Alberto Gilardino. Beppe Signori aveva ventun anni e stava segnando in quella squadra allenata da Zdenek Zeman chiamato il "Foggia dei miracoli ", alla cui presidenza c'era un grande imprenditore, purtroppo mancato quest' anno: Pasquale Casillo. Il "Foggia dei miracoli" nasce nel 1989 ed è stato caratterizzato dal modulo (4-3-3, spiccatamente offensivo) e dal gioco spumeggiante. Quella squadra, dopo aver vinto il campionato di serie B nell'anno 1990-91 con il miglior attacco del campionato, si ritrovava a giocare con una squadra impegnativa come il Parma. Il Foggia però, con quello che era considerato il "trio delle meraviglie" dei giovani Baiano, Rambaudi e Signori, non era da meno. 

Beppe, dapprima nel 1991 il tuo primo gol in serie A e poi, tre anni dopo, la chiamata in nazionale da parte di Arrigo Sacchi per i Mondiali in Usa. Hai qualche ricordo?

«Ho il ricordo che purtroppo fummo ad un passo dal vincere i Mondiali. Avevamo iniziato molto male e fummo ripescati dopo il girone di qualificazione ma piano piano la squadra salì fino ad arrivare alla finale con il Brasile».

E lì, ai rigori, perdeste...

«Iniziò Baresi sbagliando ma rimediò Pagliuca parando il rigore successivo ma poi, purtroppo, fallì Massaro, la cui conclusione non irresistibile venne respinta proprio da Taffarel a cui avevo segnato il mio primo gol in serie A. Sul dischetto andò Dunga per il Brasile che non sbagliò, spiazzando Pagliuca ed a questo punto i verdeoro, a un tiro dalla fine, si ritrovarono in vantaggio 3- 2: per vincere, sarebbe bastato che il loro ultimo rigorista facesse gol. Ma non fu necessario arrivare a ciò poiché Roberto Baggio, nonostante fosse uno degli specialisti dagli undici metri, tirò alto il quinto e ultimo penalty degli azzurri. Il Brasile vinse così il mondiale».

Quel mondiale che venne dedicato ad Ayrton Senna, il pilota brasiliano morto ad Imola il 1 maggio di quell'anno. Ci sono analogie tra la nazionale del 1994 e quella di oggi campione d'Europa?

«Secondo me non molte e come ho già detto noi abbiamo iniziato molto male mentre l'Italia campione d'Europa è partita molto bene con la consapevolezza delle proprie forze. Mancini ha avuto la capacità di ricreare e ricostruire un gruppo che dopo Totti e Del Piero si era sfilacciato facendosi male da solo e non solo...».

Cos' altro?

«Mancini ed il suo team fatto dal massaggiatore, dall'accompagnatore, da Lombardo e Salsano passando da Evani e Vialli hanno costruito entusiasmo tra la gente è questa è la cosa più importante. Il nostro Paese, dopo un anno e mezzo di pandemia, aveva bisogno anche di questo momento di leggerezza e condivisione».

Secondo te chi è stato il leader del gruppo?

«Ti rispondo dicendo che il gruppo è stato leader. Mancini ha costruito qualcosa di formidabile con una panchina lunghissima dove ogni giocatore, quando chiamato a rispondere, dava il meglio di se e diventava indispensabile».

Hai voglia di fare qualche esempio?

«Locatelli è entrato ed ha fatto una doppietta decisiva. Stessa cosa Chiesa, Berardi, Pessina. Lo stesso Immobile è stato decisivo anche tornando in difesa e giocando con umiltà. Senza parlare di Spinazzola che fino all'infortunio ho considerato il miglior giocatore degli europei».

Tra un anno ci saranno i mondiali a Dubai. Non credi che le aspettative elevate possano essere un elemento di criticità nel gruppo?

«I mondiali sono un'altra storia a parte. Io credo che nazionali come Germania, Spagna o Francia non siano mai in crisi ed a queste dobbiamo aggiungere le squadre sudamericane come Argentina, Brasile, Colombia: insomma tra un anno sarà tutto diverso ma con questo gruppo credo che potremmo dire sempre la nostra».

Dove hai visto, e con chi, le partite?

«Con qualche amico e sempre con la mia famiglia».

Hai detto, durante la partita Italia-Spagna, "il primo che sbaglia il rigore vince la partita". Ed hai avuto ragione. Come mai questa tua affermazione?

«Statisticamente, anche se sembra paradossale, è così. Questo accade perché cambia, per chi calcia i rigori seguenti, il livello di tensione e concentrazione e subentra la consapevolezza che non possono sbagliare. Così è stato anche per la finale Italia-Inghilterra».

Due date importanti nella tua vita: 1 giugno 2011, il giorno in cui sei stato arrestato, e dieci anni dopo il 1 giugno 2021 in cui sei stato riabilitato dalla Figc con il presidente Gravina. Come sono stati questi anni?

«Durissimi soprattutto all'inizio dove sono entrato mio malgrado in un tritacarne mediatico impressionante. Sono stato molto male perché sapevo della mia totale estraneità ai fatti. Tu pensa che di questa indagine che vedeva 135 imputati hanno fatto prescrivere tutto senza mai andare a processo».

Prescrizione a cui tu hai rinunciato...

«Io, pur conoscendo il rischio, ho voluto che si celebrasse nei tribunali il contraddittorio tra accusa e difesa. Ed abbiamo vinto e questa è stata una grande gioia».

Cosa hai detto ai tuoi familiari, ai tuoi figli riguardo questa vicenda giudiziaria?

«Che se prima mi stimavano come il calciatore Signori adesso dovevano credere in papà Beppe. Così è stato».

Hai avuto delusioni?

«Mi ha deluso chi sapevo già l'avrebbe fatto».

Ed invece chi ti è stato vicino?

«La mia famiglia a partire da mia moglie Tina, i miei figli ed i miei genitori. Tutti loro sono stati la mia vera forza per affrontare ogni criticità e superare gli stress».

Per questo stress hai anche rischiato la vita?

«Due anni fa mi hanno preso all'ultimo momento per una embolia cerebrale. Per fortuna ero già in ospedale a Bologna e si sono accorti immediatamente; ma credimi lo stress di dieci anni di ingiustizia ti fa davvero del male profondamente».

Anni difficili anche per la pandemia visto che tu sei di Alzano Lombardo, l'epicentro del coronavirus?

«I miei genitori abitano lì ancora adesso ed io ero estremamente preoccupato per gli sviluppi del Covid. Per fortuna ne siamo usciti tutti in modo positivo nonostante qualche perdita avuta tra alcuni amici».

Ma vi siete ammalati?

«Sì, tutti, ma per fortuna in modo leggero».

E adesso cosa farà Beppe Signori?

«Intanto faccio il padre di sei bellissimi figli e credimi non è cosa da poco, ma certamente il mio sogno sarebbe quello di riprendere ad allenare una squadra di calcio».

E questo sarebbe il giusto risarcimento per un campione che ingiustamente è dovuto rimanere fuori dalla vita sportiva non per proprie responsabilità.

Daniele Magliocchetti per "il Messaggero" l'1 giugno 2021. Gabriele Gravina concede la grazia a Giuseppe Signori. Sarà ufficiale oggi, con un provvedimento firmato dal presidente federale in persona. A dieci anni esatti dal suo arresto, per la vicenda legata al calcio scommesse, la Figc lo riabilita e da oggi, con effetto immediato, Beppe-Gol potrà tornare nel mondo che gli appartiene e più ama, quello del pallone. E dalla porta principale. Una battaglia durata dieci anni e che il numero uno della federazione, particolarmente coinvolto dalla vicenda, ha voluto fare sua, tanto che ha fatto in modo che l'ufficio legale della Figc fornisse nel più breve tempo possibile il parere preliminare per accelerare l'iter della grazia da poter firmare. Detto, fatto.

LACRIME DI GIOIA Per l'incontenibile gioia dell'ex attaccante di Foggia, Lazio, Bologna e Nazionale, che ieri, appena appresa la notizia dal suo avvocato Patrizia Brandi, si è messo a piangere, commosso come, forse, non è mai stato nella sua vita. Una liberazione. L' ultimo atto, quello più atteso e tanto desiderato. Emozionati tutti e due, l'ex giocatore e il suo legale, che non hanno mai smesso di credere e lottare per l'innocenza a livello penale e sportivo. L'arrivo della grazia è una notizia che farà impazzire due popoli, quello biancoceleste e rossoblù, ma anche la stragrande maggioranza degli italiani che amano il calcio e lo sport. Roma e Bologna, due piazze che, nel tempo, hanno sempre sostenuto Signori, fino a organizzare una raccolta firme per riabilitare Re Beppe direttamente inviata al presidente Gravina. Per lui nel 1995 cinquemila tifosi della Lazio sono scesi in piazza per non farlo andare via, visto che Cragnotti l'aveva ceduto al Parma. Ed erano pronte a rifarlo.

LA RINASCITA Dal primo giugno del 2011, al primo giugno del 2021, dieci anni dove è successo di tutto, a pensarci bene sembra quasi la sceneggiatura di un film. A partire proprio da quella drammatica mattina del 2011, quando l'attaccante venne arrestato e condotto in carcere perché coinvolto nello scandalo del calcio-scommesse. Si diceva fosse il «regista occulto» di una rete internazionale, colui da cui partivano le indicazioni per manipolare i risultati di gare di A e B. Fandonie. Bugie messe in giro da persone poco raccomandabili che l'avevano coinvolto a sua insaputa perché sapevano della sua passione per il gioco. Beppe giocava, sì, ma l'ha sempre fatto in modo onesto e regolare. Più lo urlava, più veniva etichettato come mostro. Ed è stato proprio questo a distruggerlo nell' anima, tanto che, durante gli anni dei processi, in cui non ha saltato nemmeno un'udienza, è stato male, ricoverato in ospedale, il cuore ha rischiato di non reggere. Distrutto, ma, nonostante gli cominciassero a mancare le forze e la speranza, non ha mai mollato. Non aveva pensato di ricorrere alla prescrizione, perché era innocente e voleva dimostrarlo, ma a Cremona, nel processo principale, è arrivata, mentre a Piacenza e a Modena, due procedimenti dove era accusato di aver manipolato tre partite, è stato assolto con formula piena «perché il fatto non sussiste».

Dieci anni di accuse gravissime. Una vita rovinata. Ma adesso la riabilitazione e la possibilità di rimettersi in gioco e fare quello che più gli piace, lavorare sul campo, allenare. Già perché Beppe l'anno prima del disastro aveva ottenuto il patentino d' allenatore, superando brillantemente il Supercorso di Coverciano e, nonostante le lotte legali, non ha mai smesso di aggiornarsi. E chissà che ora, ottenuta la grazia, non ci sia già qualche società interessata alle idee calcistiche di un ragazzo che ha fatto 188 gol in serie A, di un campione che ha fatto sognare tanti. Ma soprattutto di un uomo vero, onesto che vuole solo tornare su un campo di calcio. Libero e felice.

Da gazzetta.it il 15 dicembre 2020. Il procedimento sul calcioscommesse è prescritto: lo hanno deciso i giudici del tribunale di Cremona chiudendo il processo nei confronti degli ultimi cinque imputati tra cui Beppe Signori, vicecampione del mondo con la nazionale italiana nel 1994 e l'unico a essersi presentato in aula questa mattina. "Mi piaceva scommettere ma l'ho sempre fatto in modo leale e non ho mai truccato alcuna partita. Mi hanno rovinato la vita solo perché il mio nome garantiva interesse mediatico": lo ha detto questa mattina, in tribunale a Cremona, Giuseppe Signori, ex bomber di Foggia, Lazio e Bologna oltre che della nazionale. Oltre a Signori, erano imputati l'ex calciatore serbo Almir Gegic, l'ex capitano del Bari Antonio Bellavista, l'ex portiere della Cremonese Marco Paoloni e il corriere Valerio.

Beppegol era innocente: 10 anni di calvario prima della riabilitazione dell’ex calciatore. «Il fatto non sussiste»: Signori non era colpevole di calcio scommesse. Ma il pm bollò come inutili le sue dichiarazioni. Vincenzo Imperitura su Il Dubbio il 3 giugno 2021. Dalla scommessa del Buondì Motta da mangiare in trenta passi in diretta tv, a quelle decise a tavolino dai gestori occulti del totonero anni 2000, il passo – almeno nell’ipotesi degli inquirenti – era stato brevissimo. Un passo accompagnato dai titoli dei giornali che lo indicavano come mente occulta del nuovo calcio scommesse e che è finito per costare a Beppe Signori, lo spietato angelo biondo di Zemanlandia, dieci anni di calvario giudiziario interrotto solo lunedì, con il provvedimento di grazia arrivato dalla giustizia sportiva – che segue le due assoluzioni «perché il fatto non sussiste» della giustizia ordinaria di Piacenza e Modena – per opera del presidente federale Gravina. Una storia giudiziaria dai tratti surreali quella di Beppegol. Una storia che prende il via dalla passione smodata dell’ex calciatore per le scommesse – alcune di quelle architettate durante i ritiri con in compagni di squadra sono diventate patrimonio comune della storia recente del calcio italiano – e che finisce con le manette che scattano il primo giugno del 2011, quando una coppia di agenti lo preleva alla stazione centrale di Bologna per condurlo in Procura. «Mi hanno intercettato, seguito, pedinato – ha detto Signori intervistato a margine dell’udienza che lo ha scagionato –. Fino in Svizzera, fino al Mc Donald, fino allo zoo. Non sono mai riusciti a trovare niente. Anche nelle intercettazioni, il mio nome non saltava mai fuori». Quando l’ennesimo scandalo legato alle scommesse clandestine esplode nell’estate di 10 anni fa, Beppe Signori viene indicato dagli inquirenti come “mente” del gruppo: l’uomo in vista, l’ex calciatore che si portava dietro l’etichetta di “amante delle sfide”, quello in grado di organizzare il sottobosco clandestino di scommettitori e calciatori sul viale del tramonto. «Ho chiesto di essere interrogato dal pm tantissime volte – ha dichiarato Signori all’indomani della riabilitazione sportiva che gli consentirà di rientrare nel calcio dalla porta principale, l’unica adatta ad un vice campione del mondo – ma sono stato sentito solo dal gip, il pm andò via dopo pochi minuti bollando l’interrogatorio come “inutile”». Articoli su articoli, trasmissioni televisive, barzellette feroci: l’arresto di Beppe Signori – che trascorrerà una decina di giorni ai domiciliari prima di essere rimesso in libertà – suscita così tanto scalpore da diventare protagonista di uno dei primi meme virali a imperversare sul web. Poi, dopo la gogna mediatica «che mi ha procurato un sacco di problemi, anche fisici e che ha segnato profondamente la mia famiglia», i processi, le assoluzioni, e ora la riabilitazione anche in quel mondo del calcio che, salomonicamente, un po’ lo ha protetto, un po’ lo ha gettato al fiume. «Sono molto soddisfatto per essere stato assolto con la formula de “il fatto non sussiste” – ha detto Signori ai giornalisti presenti lunedì in Tribunale a Modena in occasione dell’udienza che ha chiuso finalmente il cerchio giudiziario –. Sono andato avanti fino alla fine perché sia io che il mio avvocato abbiamo creduto alla mia innocenza: volevo la verità e volevo uscire a testa alta da questa situazione. Finalmente siamo alla fine, sono passati dieci anni, dieci anni lunghi che non mi restituirà più nessuno, ma io sono un combattente nato e passerò sopra anche a questo. È un risultato importante, perché la prescrizione avrebbe potuto lasciare qualche ombra di dubbio, invece abbiamo lottato e abbiamo ottenuto il massimo, a questo punto guardo avanti con fiducia e ottimismo. Vorrei rientrare nel mondo del calcio». E se Signori, il folletto imprendibile capace di stregare le tifoserie di Foggia, Lazio, Sampdoria e Bologna, può finalmente guardare a un futuro sgombro di sospetti e illazioni per la sua nota passione per il gioco d’azzardo, altrettanto soddisfatta si è dichiarata l’avvocato dell’ex calciatore, Patrizia Brandi: «Non abbiamo dubitato un momento solo dell’innocenza di Beppe, tanto da decidere di rinunciare alla prescrizione. Questa assoluzione chiude la bocca a tutti quelli che a suo tempo lo hanno lapidato. Questo è un finale che non lascia repliche, nessun sorrisetto, nessun ammiccamento. La fine di una storia che dice che Signori non ha fatto niente ma è stato travolto da un tritacarne terrificante per 10 anni».

Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport” il 2 giugno 2021. Proprio come quando scattava sulla fascia ed era quasi impossibile frenarne la corsa. Pallone sul sinistro, la testa bionda e riconoscibilissima leggermente abbassata, la porta, il gol. «Sono passati dieci anni, precisi precisi». Adesso sorride, Beppe Signori, oscillando tra diversi gradi di esistenza. Riesce ad abolire ogni distanza tra realtà e delirio. Perché in un delirio ha vissuto e da un delirio è da poco uscito. «E poi uno non dovrebbe essere scaramantico. Oggi venivo arrestato. Oggi, proprio oggi. Il primo giugno 2011 mi accompagnavano in questura a Bologna, il primo giugno 2021 è finito tutto. La grazia dopo due assoluzioni piene. Né manette né gabbio, grazie a Dio. Ho fatto quattordici giorni ai domiciliari e basta. La galera me l’hanno risparmiata. Ma risparmiare il carcere al boss dei boss non è forse una colpevole incongruenza? Una vicenda nata male, la mia. Sotto tanti aspetti. Mai, ripeto mai sono stato interrogato dal pm che ordinò l’arresto. Ho subìto solo l’interrogatorio di garanzia da parte del gip, e dopo dieci, undici giorni, i tempi naturali, mi spiegarono. Il pm si sedette di fianco a me, il tutto durò quarantotto minuti, il più breve. E dopo tre minuti il pm si alzò e disse: “Vado via, vista l’inutilità di questo interrogatorio”. In seguito ho chiesto decine di volte di essere riascoltato, ma ho sempre ricevuto la stessa risposta. No no, no no. E questo mi ha fatto pensare». 

A cosa? 

«Che ero soprattutto - lo si ricava dall’ordinanza - il volto dell’inchiesta. Duemilaundici, non c’era niente. Non c’erano Mondiali, né Europei. Un nome abbastanza noto in Italia e nel mondo che non fosse tesserato, il mio. C’erano tutte le condizioni per trasformarmi da mente, finanziatore e scommettitore nella faccia da mostrare al pubblico. Carne da macello. Io ho acquisito le intercettazioni, in 70mila registrazioni il mio nome non esce mai... Non ci sono», e lo sottolinea scandendo le tre parole. 

Beppe, al di là dello sputtanamento, della dignità calpestata, del dolore provato… 

«Fermati! Fisici, psicologici, tanti i danni che mi ha procurato questa storia. Cicatrici enormi. Due anni fa mi è partito un trombo dal polpaccio che ha bucato il polmone. Mi sono ritrovato al Sant’Orsola sdraiato, intubato, perché stavo per schiattare. Ovviamente al trombo hanno concorso diversi fattori, però l’inchiesta ha contribuito a debilitarmi, insomma l’ho somatizzata. Le troppe sigarette hanno fatto il resto. Così come mi piaceva scommettere, mi piaceva fumare. Ho pagato, ho pagato tutto e troppo». 

Tu eri un ludopatico, questo non è un segreto. 

«Ludopatico, no. Che mi sia sempre piaciuto scommettere, lo sanno pure i muri. Già da ragazzino vivevo di sfide, ho sempre considerato il mio modo di scommettere un incentivo a migliorare». 

Non capisco. 

«Ricordo che alla Lazio feci una scommessa con Maurizio Neri. Era un periodo in un cui non riuscivo a segnare, mi trovavo in grande difficoltà. Scommisi che a fine stagione avrebbe giocato meno minuti lui rispetto ai gol che avrei segnato io. La vinsi, naturalmente. È un esempio stupido, se vuoi, ma la sfida del Buondì Motta e altre ancora come le vuoi catalogare? Per come sono fatto di carattere, non esiste che io vada da un calciatore per dirgli “ascolta, ti do i soldi se perdi la partita”». 

Hai bruciato tanto denaro nelle scommesse. 

«Leggende metropolitane. La verità è che mi piace il gioco, frequentare il Casinò, vinci, perdi, rivinci, riperdi. Il giocatore non vuol sapere prima come andrà a finire, l’adrenalina è l’accensione, il rischio il senso della puntata. Quando sono entrato in questo vortice la cosa più straniante è stata proprio questa. Se io sono un giocatore e conosco già il risultato finale non sono un giocatore». 

Qual è stato il momento più difficile? 

«L’arresto, sicuramente l’arresto. Mi sembrava di essere finito dentro un film. Fermato, accompagnato in questura… Mi chiamò mia sorella mentre ero sul Frecciarossa per Bologna e chiese in quale carcere mi avessero portato. Che cazzo stai dicendo? le dissi. E lei: Perché sei stato arrestato. Io arrestato? Ma se sono sul Frecciarossa. Arrivato a Bologna domandai ai due poliziotti in borghese che mi vennero a prendere cosa stesse accadendo. Risposero che era per una questione relativa a delle società. Pensai subito a mio padre, avevamo delle società insieme, che cazzo avrà combinato? Mi mostrarono la foto del tg con il lancio “arrestato Beppe Signori per il calcioscommesse”. Ero incredulo, loro che mi guardavano quasi sorpresi. Furono gentilissimi, uno dei due mi spiegò che la procura di Cremona aveva già venduto la notizia… La mia vita è stata completamente stravolta. Dalle situazioni più delicate, i bimbi che andavano a scuola a Roma. Sai, Roma e Lazio - “tuo padre se vende le partite” - ai rapporti con le persone. Nicolò aveva dieci anni. Per loro fu molto pesante. E pesante lo è stato per Tina, mia moglie». 

Non hai mai smesso di lottare, questo sì. 

«Ho avuto dei grossissimi momenti di sconforto, in particolare all’inizio. Non dico che ho pensato a gesti estremi… O meglio, ci ho pensato, ma non ho mai preso in considerazione l’idea di farla finita. C’erano i figli, mia moglie, gli amici più stretti che mi sono stati accanto, alcuni dei quali sono venuti a mancare, i miei familiari, mia sorella. Se entro in un negozio e rubo una mela, mi rivolgo all’avvocato e gli spiego che ho rubato una mela e che dobbiamo trovare un escamotage per uscirne puliti. Il problema sorge quando non entri nemmeno nel negozio e ti accusano di aver rubato la mela. Giustificare una cosa che non hai fatto è assurdo, ci sono momenti in cui non ci stai più con la testa». 

Così come togliere ogni dubbio a certa gente per la quale resti colpevole nonostante due sentenze. 

«Non mi curo di loro. Ho voluto fugare qualsiasi tipo di dubbio, non con la grazia, ma con l’assoluzione piena perché il fatto non sussiste. Dieci anni ci sono voluti, sono questi i tempi della giustizia in Italia. Non ho bisogno di convincere nessuno. Non più. Domando solo: è possibile che in questi dieci anni non abbiano trovato nulla? Sono stato l’unico che ha voluto andare fino in fondo. Io ero già sereno dopo le due assoluzioni, mi han dato grande forza. Ho affrontato vari processi, numerosi interrogatori, sono entrato in un ambiente che non era il mio. Il tribunale. Non so se l’hai mai provato, ma stare davanti a persone che non ti conoscono e sono lì per giudicarti è un’esperienza sconvolgente. Temi che un testimone racconti delle cagate che poi devi smontare. Ringraziando Dio, nei due processi, sia a Modena, sia a Piacenza, i testimoni dell’accusa hanno confermato che io non ero mai stato neppure nominato. Dico Carobbio e Gervasoni, che hanno ammesso di aver combinato delle partite. Il nome di Beppe? Mai sentito: non sono presente nelle intercettazioni perché non parlavo con queste persone e allora come facevo a organizzare e finanziare le puntate? Con i segnali di fumo? Io, il boss dei boss. Mi hanno intercettato, seguito, pedinato. Fino in Svizzera, da McDonald’s, allo zoo. Ho comprato le intercettazioni perché volevo entrare nella testa di chi mi accusava». 

A 53 anni e dopo un’esperienza del genere si può ancora ricominciare? 

«È già una vittoria rivedere il numero del tesserino da allenatore ottenuto nel 2010, pochi mesi prima dell’arresto. Volevo fare l’allenatore. Dietro una scrivania non mi ci vedevo. Oggi mi piacerebbe rimettermi in gioco, faccio la battuta: vorrei scommettere su me stesso».

Nel calcio le scommesse illegali sono all’ordine del giorno e di scandali con i calciatori tra i protagonisti ne abbiamo vissuti più di uno. 

«Ci sono stati processi, condannati, assolti, vittime e carnefici. Non ho mai vissuto in un paradiso e tra gli angeli, solo uomini. Con i loro difetti, debolezze che non giustifico». Fa una lunga pausa. «Ho inseguito la verità. Processuale, non esterna. Ho combattuto da solo e con i miei avvocati. Se non avessi ottenuto l’assoluzione piena avrei pagato di persona. Mi è stato chiesto perché non ho voluto rinunciare al processo di Cremona. Volevo il bianco, non il grigio della prescrizione. Sono contento così, Ivan. Guardo negli occhi i miei figli e Tina, i miei familiari, mia sorella, e li vedo finalmente felici. Tina è stata fondamentale, la perquisizione l’ha subita. Io ero a Roma e hanno perquisito la mia casa a Bologna, quando non c’ero, abbastanza strano. Ma come: il boss dei boss tu non l’arresti? Il Riina della situazione non lo interroghi? Perché non mi hai voluto ascoltare? Da Cremona a Bologna, di nuovo a Cremona, processi rimbalzati da un posto a un altro come palline di gomma. I giornalisti che mi telefonavano, volevano sapere, chiedevo loro soltanto pietà, cosa avrei potuto dire? Alcuni si sono comportati malissimo. C’è una frase che riassume quello che ho patito: il dolore rovescia la vita, ma può determinare il preludio di una rinascita».

Fabio Cannavaro. Monica Scozzafava per il Corriere della Sera il 28 dicembre 2021. In bicicletta da Napoli a Roma in meno di otto ore. Fabio Cannavaro ha celebrato sui propri canali social l'impresa compiuta assieme ad altri nove compagni di pedalata con una foto che lo ritrae sorridente davanti al Colosseo all'imbrunire. La bicicletta è diventata l'inseparabile amica, che il campione del mondo ha ritrovato qualche anno fa, quando ancora allenava in Cina. Gli tiene compagnia, aspettando di riprendere il suo mestiere a bordo campo («Resta questo il mio lavoro», precisa subito). Un rapporto simbiotico, quello con la due ruote, iniziato per caso per ovviare a un problema molto banale e altrettanto comune. 

«Dovevo tenermi in forma - racconta l'ex calciatore -. Quando sali sulla bilancia e vedi che l'ago non si allontana dagli 85 chili, qualcosa devi inventarti. Ho problemi al ginocchio, alla cervicale e alla spalla: sport tipo calcetto o anche paddle non fanno più per me, la bicicletta è stato un toccasana. Sì, mi consente di mangiare e bruciare calorie: oggi peso 79 chili e a Natale mi sono concesso anche i dolci. Soprattutto non mi lascia stremato e pieno di dolori». 

Lo spirito è esattamente questo, e a chi immagina che dietro l'impresa di Natale (250 chilometri da Napoli al Colosseo in sette ore e 43 minuti) ci sia chissà quale ambizione agonistica, Cannavaro chiarisce: «Andare in bicicletta è una passione che ho ritrovato ma non mi interessa come competizione. Mi piace perché mi fa sentire uno come tanti. Mi regala una dimensione di normalità che quando giocavo non ho mai avuto.  

Non c'è allenamento specifico, non faccio levatacce al mattino per allenarmi e coprire percorsi sempre più lunghi. Insomma, un hobby che ho ripreso e che per ora mi sta dando soddisfazioni. Mia moglie dice che la bici è diventata il nostro figlio più piccolo, dobbiamo portarcelo dietro anche quando facciamo un viaggio di piacere. Ha ragione, è il mio primo bagaglio. In treno come in aereo o in auto. Con gli integratori e le barrette proteiche». 

L'allegra brigata con cui Cannavaro organizza passeggiate chilometriche è composta da Valerio Agnoli, ex ciclista professionista, gregario di Ivan Basso e poi di Vincenzo Nibali, ma anche da gente comune come Luigi, Roberto, Enzo, Carmine e Salvatore.  

E ci tiene a citarli tutti: «C'è anche Vincenzo - dice - che di professione fa il carabiniere. Amici e basta. Senza sovrastrutture, senza notorietà. Loro si allenano, qualcuno si prepara a gare di fondo. Io li seguo, senza lo stress di dover arrivare. Di essere il primo, di dover dimostrare. Mi diverto come quando da bambino consumavo la mia mountain bike a forza di fare giri sotto casa. 

Ricordo che per frenare dovevo spingere il piede sul copertone della ruota. Adesso ho una trek, ho il caschetto, la mia tuta sponsorizzata. Ma nulla di quello che faccio ha una finalità di business. La passione per la bici è iniziata in Cina, piccoli percorsi che diventavano sempre più lunghi. «Ero arrivato a coprire 100 chilometri. Una volta a Dubai feci 117 chilometri nel deserto, fu bellissimo».  

Poi l'impresa di Roma. «Francesco Totti, Simone Perrotta, Luca Toni mi hanno contattato sui social: ma sei matto? Quello è il bello: io mi diverto e basta». Prossima tappa? «Il passo dello Stelvio». Se questa non è ambizione, poco ci manca.

Daniela Lauria per blitzquotidiano.it il 27 dicembre 2021. Da Napoli a Roma in bicicletta in meno di otto ore: è l’impresa compiuta da Fabio Cannavaro che, su Instagram, posta una foto sorridente dinanzi al Colosseo illuminato, a testimonianza della titanica pedalata. Nello scatto il capitano dell’Italia campione del mondo nel 2006 posa sorridente con l’elmetto da ciclista e la sua bici ancora “fumante” sullo sfondo. Cannavaro spiega di aver percorso 254 chilometri insieme a “nove compagni di avventura” in un tempo ragguardevole: sette ore e 43 minuti.

Fabio Cannavaro, i commenti degli altri campioni azzurri

Tra i primi a commentare complimentandosi ci sono gli ex compagni azzurri Simone Perrotta e Luca Toni. “Topppp!!! – scrive Toni – Ma appena è finita la ricarica elettrica è stata dura!!! Ahaha”. Incredulo invece Perrotta che domanda: “Ma davvero??”. Mentre Francesco Totti ha messo un like. 

Roberto Baggio. Da corriere.it il 7 maggio 2021. Era il 5 maggio del 1985, esattamente 36 anni. E Roberto Baggio era già una promessa del calcio italiano, ma non ancora il grande campione che avrebbe fatto infiammare di entusiasmo i tifosi di Fiorentina, Juventus e poi Milan, Bologna, Inter, e per finisce Brescia. La sua carriera doveva per la verità ancora cominciare, ma stava già per finire proprio quel giorno: «Avevo diciotto anni, giocavo nel Vicenza e quel giorno giocavamo contro il Rimini di Arrigo Sacchi. Feci una scivolata e sentii un dolore atroce. Durò un secondo, poi sparì.... Un attimo dopo però realizzai che mi ero infortunato seriamente: il riscontro fu lesione al crociato sinistro e al menisco. Si parlava di un anno di stop». Roberto Baggio, con virgolettati riportati da un post dal profilo Calcio Totale, comincia così un lungo racconto di quella giornata poco nota ai più, a cui evidentemente ha più volte pensato nel corso della sua lunga carriera, fino a fissarla in maniera netta nella memoria.

Il rischio. Il rischio serio era che quell’infortunio limitasse la consacrazione di un giovane talento, che a Vicenza, all’epoca impegnata nel campionato di serie C1, aveva già richiamato l’attenzione dei più titolati club di serie A e che anzi da poco aveva firmato con la Fiorentina: «Avevo le graffette su tutta la gamba, il ginocchio era molto gonfio. Mi misero 220 punti interni di sutura — racconta ancora il Divin Codino nel lungo post —. Fu un dramma, mi cadde il mondo addosso. Volevo lasciare perché pensavo di non poter più camminare. A mia madre dissi una cosa assurda: “se mi vuoi bene uccidimi”».

La voglia di morire. La signora Baggio naturalmente gli fece cambiare idea. «Capii che la vita impone di ripartire ogni giorno — conclude l’ex fantasista che oggi ha 54 anni —. Accettare e superare le difficoltà. Molti che avevano avuto il mio stesso infortunio smisero di giocare, e io lì ci andai molto vicino».

Estratto dell’intervista a Roberto Baggio per il Venerdì- la Repubblica il 7 maggio 2021. Roberto Baggio: “non guardo le partite, non mi divertono quasi mai. Dare giudizi sugli altri mi mette a disagio, non vado in tv, vedo ex colleghi che sentenziano da professori, ma me li ricordo incapaci di fare tre palleggi con le mani…”

Emanuela Audisio per il Venerdì - la Repubblica l'8 maggio 2021. «Quelle due acacie sono alte più di venti metri e mi preoccupano. Possono cadere sulla casa, dovrò tagliarle, lo farò io». Vai a casa di Roberto Baggio e ti ritrovi a parlare di giardinaggio e di botanica. «Quelle piante sulla roccia, non hanno radici, la nevicata abbondante dell'inverno ha spezzato molti rami. Ripulire tutto, lì davanti, mi è costato fatica». Lì davanti sono 40 ettari, prati, colline, un bosco. Molta terra, anche per un principe della zolla. I campioni che non esercitano più in genere ti spalancano la porta sul loro grande passato: la camera con vista è sempre quella. Con Baggio no, il panorama cambia. Era così anche con Roger Bannister, mito dell'atletica, l'uomo che nel '54 riuscì nell' impresa titanica: correre il miglio sotto i 4 minuti. Viveva a Oxford e se gli chiedevi del record si infastidiva, ti mostrava l'unico trofeo che gli era caro: un obelisco di vetro, premio dell'Accademia americana di neurologia. Bannister era sir, ma ci teneva a parlare di quello che era diventato (uno stimato dottore) e non di quello che era stato (un grande atleta). Roberto Baggio, l'ultimo attaccante italiano Pallone d' Oro ('93), l' unico azzurro ad aver segnato in tre mondiali ('90, '94, '98), nove gol, dà la stessa impressione. Di uno che è stato capace di uscire dal campo anche con la testa. In uno sport dove le stelle a quarant' anni faticano a lasciare: da Rossi (moto) a Federer (tennis) a Ibrahimovic (calcio) a Valverde (ciclismo), Baggio se n' è andato alla stessa età in cui oggi Cristiano Ronaldo gioca e fa programmi per il futuro. In questo è l' anti-Totti, parafrasando: speravo de lascià prima. «Lui non voleva smettere, io non vedevo l'ora. Lasciare mi ha ridato vita e ossigeno, stavo soffocando, troppo male, dolore fisico, quando da Brescia rientravo a casa, non riuscivo a uscire dall' auto, chiamavo Andreina, mia moglie, che mi aiutava ad aggrapparmi al tetto e poi a far passare il corpo. Ho sempre saputo che il calcio aveva una fine. La gente si stupisce: come, non metti più gli scarpini, non ti viene voglia? No, e allora? Bisogna che ci mettiamo d' accordo: quelli che senza pallone si sentono appagati e felici sono dei falliti?». Le porte si chiudono, le luci si spengono, via la corrente. Baggio a 54 anni non compare in tv, non esiste sui social, non presenzia, non celebra, non siede su una panchina, non è testimonial. Ei fu. Come Mina, si è sottratto. La vita è altro, è splendida normalità, da uomo non illustre. È fare manutenzione, prendersi cura, vivere, non sopravviversi. «Spacco la legna, uso il trattore, l'escavatore, la sera sono così stanco che mi gira la testa». Si pranza con il panorama che entra dentro casa e con lambrusco, prosciutto, pomodori, hummus di ceci preparato dal figlio Mattia, molto bravo in cucina. Il ciak del film Il Divin Codino è in bella mostra su un mobile. «Però quell' erba va tagliata, laggiù ci sono i carpini, querce, olmi, noccioli, e queste azalee sono bellissime. Mi devo ricordare del concime». lettere dal mondo Andreina è appena tornata con il borsone della posta e sparpaglia le buste sul tavolo. Anche oggi le lettere sono tante, vengono dal Giappone, dalla Gran Bretagna, dalla Cina, dalla Polonia, dalla Germania: maglie, figurine, richieste di autografi. Roberto firma tutto personalmente. Sono passati 17 anni dall' addio. Baggio si è reso invisibile, ma per il mondo non ha mai smesso di essere Baggio. Uno diverso. Buddista per caso e poi per scelta. «C' è altro, ci sono gli altri, e c' è il momento in cui non dipendi più dal giudizio di chi ti guarda. Mi sono distaccato dal pallone, ma ci sono cose che fanno male, come la morte di Paolo Rossi. Faccio fatica ad accettarla e non c' entra il valore del personaggio, è per la tristezza e l'amarezza. Si era rifatto una vita, aveva due bimbe, una famiglia, anche lui la passione per la terra, meritava di avere tempo. Invece niente, tutto finito. Se da Maradona ti aspettavi una fine improvvisa, da Paolo no. Penso a quando ai tempi dell'austerity sulla canna della bici di mio padre Florindo andavamo da Caldogno e Vicenza, di sera, a vedere giocare Rossi, io ero piccolo e mi aggrappavo alla recinzione del parterre. Venti chilometri tra andata e ritorno, il sedere che mi faceva male, il corpo paralizzato dal freddo, ma con la fantasia che un giorno avrei giocato in quel campo. Perché io prima di tutto sono stato un tifoso». «Mamma, ammazzami» Florindo, scomparso l'anno scorso, c' è molto in Il Divin Codino in uscita su Netflix: un padre chiuso, introverso, incapace di dimostrare affetto. «Papà era duro, di origini umili, aveva vissuto la povertà e la guerra, a casa con lui non ti potevi confrontare, non ti dava soddisfazione, né avevi modo di dire la tua. Era prigioniero della sua timidezza e di un'educazione che non ammetteva aperture, ma mi ha insegnato a dare tutto e a non avere rimpianti. Mi ha amato, con i suoi modi. Otto figli da crescere, per lui che aveva una piccola azienda di infissi non è stato facile. Da ragazzo non ci vai d' accordo con tuo padre, ti dici mai sarò così, poi ti ritrovi genitore e ti scopri a ripetere le sue stesse parole». Ma è alla madre Matilde che lo assiste in ospedale che Roberto, devastato dal dolore, dice: se mi vuoi bene, ammazzami. E lei in risposta: tu sei matto. «Avevo 18 anni, mi ero rotto crociato anteriore, capsula, menisco e collaterale, per un atleta allora era la fine, mi operò il professor Bousquet a Saint-Étienne: 220 punti interni, bucò la testa della tibia con il trapano, tagliò il tendine, lo fece passare dentro». Se Totti è stato sempre di Roma (e a Roma), Baggio è stato un segno universale.  È arrivato in Nazionale con cinque squadre: Fiorentina, Juventus, Milan, Bologna e Inter. Convocato da quattro allenatori diversi: Vicini, Sacchi, Maldini e Zoff, ma osteggiato e contestato da molti di più. «A tutti sembra strano il mio disinteresse, non guardo le partite, non mi divertono quasi mai. Dare giudizi sugli altri mi mette a disagio, non vado in tv, vedo ex colleghi che sentenziano da professori, ma me li ricordo incapaci di fare tre palleggi con le mani. Ho la fortuna di aver fatto il calciatore e poi di aver trovato qualcosa che mi dà soddisfazione: arare, spalare, piantare. Però capisco chi fa altre scelte. A Totti, quando l'ho incontrato, ho detto: gioca fino a quando puoi. E anche Ibrahimovic è di quel genere. Se sei felice di dare gioia agli altri, quando te ne viene negata la possibilità, stai male. Io ora preferisco il basket, tifo Lakers, mi era simpatico Shaquille O' Neal, tifavo per Kobe, adoro LeBron, e andavo pazzo per Bolt, per la sua leggerezza caraibica e per la musicalità che hanno quei popoli. Mi piace il calcio femminile perché le donne hanno passione e carattere, a Bologna ho fatto riabilitazione con Daniela Tavazzi, ex giocatrice, una fortissima personalità. E poi ho una nipote di 18 anni che gioca. Non parlatemi del golf, non lo capisco, mi annoia, l'ho provato e non cambio idea». Cche pena gli stadi vuoti Squilla il cellulare, molta armonica, la suoneria è di Bruce Springsteen, The Ghost of Tom Joad: "Cercami e ci sarò, ovunque qualcuno lotta per la libertà". Nel salone c' è il biliardo e al primo piano la stanza delle preghiere, Baggio medita mattina e sera, in tutto un'ora al giorno. Anche Andreina è buddista, mentre Valentina, la figlia grande, e gli altri due, Mattia e Leonardo, non sono estranei a questa filosofia, ma non praticano. «La pandemia l'ho vissuta come tutti, a casa, con tristezza per chi ha perso lavoro e affetti e pensando a come ci ha trasformati: prima nel supermercato se entravi con la mascherina eri un ladro, ora sei un cittadino responsabile. Ma gli stadi senza pubblico mi fanno piangere: senza gente che corri a fare? E poi non capisco questa società ipersensibile verso le bestie e indifferente all' umanità. Ho appena visto la pubblicità di un cibo per gatti castrati: ma ci sarà una differenza tra chi muore di fame e non ha da mangiare, 135 milioni persone nel mondo, e l'attenzione agli animali domestici? Lo dico da uomo che ha due cani, Miele, un labrador, e Lady, un bracco tedesco. Mi incolpano di essere un buddista col fucile, di andare a caccia, di togliere la vita, ma voi il pesce lo mangiate e chi uccide il tonno per voi, e i polli e i maiali e i bovini e i conigli e le anatre? Ho querelato per diffamazione il presidente di un'associazione animalista e ho vinto la causa perché sono stato minacciato da un suo gruppo. A me della caccia piace il prima e farei anche a meno dello sparo, ma essere trattato da assassino non mi va». Baggio in campo faceva le sue magìe, ma la sua diversità dava fastidio. «Ero accusato di non essere un leader, ma se devi sbraitare per far finta di comandare, grazie no. Non saltavo gli allenamenti, non andavo in discoteca, né alle feste, eppure i nostri ritiri erano noiosi, solo carte e ping-pong, altro che tablet e playstation, sarei contento se chi mi criticava chiedesse oggi ai miei ex compagni che cosa pensano di me. Va di moda dire: in questo calcio non sarei competitivo. Falso, lo sarei molto di più, perché ora gli attaccanti sono molto più protetti, prima i difensori miravano alle gambe, prendevi anche pugni e gomitate in faccia, le entrate da dietro non erano sanzionate. E sono per la Var, almeno c' è una regola, brutale forse, ma c' è». Prima che arrivassero i premier europei (contro la naufragata Superlega) a spiegare che il calcio è un fenomeno sociale, Firenze - che già aveva fatto scoprire e definire la sindrome di Stendhal, cioè lo stato di allucinazione dovuto alla bellezza dell'arte - nel '90 scese in piazza per non separarsi dal suo capolavoro Baggio. Anche le nonne protestarono dalle terrazze gettando vasi di fiori contro gli agenti. Tanto che uno stupito questore, dopo aver disposto il coprifuoco, parlò della rivolta come di «una psicosi di folla». La città era impazzita. E per cosa poi? Per un bizzarro Michelangelo veneto che dava felicità con un dribbling e un colpo di tacco. Roberto si sistema il codino, ormai argentato, si tocca il pizzetto, nei suoi occhi quella Firenze c' è ancora. «Si chiama riconoscenza e l'ho provata per una città che mi ha aspettato per due anni, anzi tre. Quando io ero rotto, con le ginocchia sfasciate, la città mi ha coccolato e rispettato. Non solo. Una volta torno alle tre di notte da Cesena, dove avevo segnato due gol con la Nazionale, e il viale che porta da me è pieno di gente che vuole festeggiarmi. Come fai a dimenticarti una cosa così? Io non volevo lasciare la Fiorentina, avevo 23 anni, stavo comprando casa, mi ero sposato, aspettavamo una bambina, ma ho scoperto che i proprietari uscenti, i Pontello, mentivano, mi avevano già ceduto agli Agnelli. Sono andato due volte a Roma a parlare con Cecchi Gori e la seconda lui mi dice: se non vai alla Juve non mi fanno comprare la società. E così sono passato per mercenario. Hanno scritto che non avevo carattere perché a Firenze con la Juve mi sono rifiutato di battere un rigore contro la Fiorentina, ma ero già d' accordo con il mio allenatore Maifredi che se ne sarebbe occupato De Agostini, perché il portiere era Mareggini con cui mi ero allenato per anni e che mi conosceva benissimo. Sacchi non mi ha portato agli Europei del '96, dopo la finale mondiale '94, voleva dimostrare che gli schemi sono più importanti dei giocatori, e l'Italia non è arrivata ai quarti. Avevo 29 anni, ero da buttare? No, ma per loro ero svogliato, non rincorrevo il difensore, ero un disubbidiente, non adatto al calcio moderno, quello che oggi vorrebbe decidere chi ha i titoli per giocare la Superlega». Il cielo si annuvola, Baggio controlla le gobbe del terreno, spiega che quel rampicante, gelsomino del Madagascar che si chiama floribunda, è il preferito della moglie, poi ci sono le piante giapponesi. «La natura ti dà le chiavi per poter essere felice, sta a te saperti riempire la vita, saper usare le mani e non solo i piedi, lavorare in campagna è faticoso, ma alle fine sei tu che scegli i colori del tuo quadro». Baggio meritava il quarto Mondiale, Corea-Giappone 2002, ma Trapattoni cambiò idea e decise di no. Nel film quel brutto momento è ben descritto. «A Bologna mi aveva ceduto il legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro. Sono tornato in campo a 70 giorni dall' operazione, 3 gol nelle ultime tre partite. Per recuperare la forma mi sono spinto negli esercizi al di là del limite. Tutto inutile. A fare la mia parte nel film è Andrea Arcangeli, l'ho visto e mi è piaciuto, racconta quella che è stata la mia vita. Non ce l'ho con gli allenatori, credo che una certa gelosia da parte loro ci sarà sempre, noi abbiamo i piedi, loro la lavagna. L' unico con cui mi sono trovato bene è stato Carletto Mazzone, perché era un uomo libero e realizzato, e non si metteva in competizione con i giocatori. Ad ammazzare me e tutti quelli come me è stato il calcio tattico, scendere in campo solo per neutralizzare gli altri. Ma se il gioco diventa solo un affare, che esclude il gioco, non ha più senso. E non può essere normale che uno come Zola sia dovuto andare in Inghilterra perché in Italia non lo voleva nessuno».

Il buddismo non basta. E se invece che di piante che crescono parlassimo di karma che annientano? Di un destino bastardo che sta sempre lì in agguato per fulminarti? In natura c' è un balsamo che non fa più ululare dalla disperazione? «Ah, il rigore di Pasadena, l'unico che nella mia vita ho tirato alto e non so perché, avrei preferito prendere il palo o che me lo parasse il portiere. Ma spararlo così nel cielo, no, ancora non me lo perdono. Non c' è religione, buddismo, non c' è dio che tenga, né l'amore dei tuoi cari, niente ti aiuta. Ho sofferto, mi sono sentito deluso da me stesso, ho pianto tutta la notte tra le braccia della mia famiglia. Fin da bambino speravo di giocare la finale mondiale contro il Brasile, ma non con quel risultato. E poi ho passato sere a sognare che lo buttavo dentro. Ma quel giorno avrebbero potuto uccidermi e non avrei sentito niente». A vederlo bene il prato davanti alla casa ha le misure di un campo da calcio, ma senza righe né porte. E allora, buona primavera al melo dell'Everest e a chi gioca con tutto.

Ivan Zazzaroni per il Corriere dello Sport il 25 maggio 2021. Sabato 25 maggio 1991. Il giorno dopo la Juve avrebbe giocato a Marassi con il Genoa. A Modena Antonio Caliendo era stato arrestato con l’accusa di reati finanziari. Chiamai prima di cena, chiesi al concierge dell’hotel nel quale la Juve era in ritiro di passarmi Roberto Baggio. Dopo pochi secondi, ecco Robi. Gli descrissi quello che era accaduto al suo agente. Fu una telefonata breve, rispettai la sua preoccupazione. Cominciò così la nostra amicizia. Ancora oggi ci sentiamo spesso, ma solo per raccontarci i fatti nostri o farci due risate, puro cazzeggio, prevale la leggerezza. A volte ci scambiamo dei video, di solito sono barzellette raccontate da professionisti della risata, personaggi che vengono reclutati dai locali di provincia per rallegrare gruppi di amici. Raramente lo colgo impreparato. Lui: «Questa ha vent’anni, quest’altra la raccontavo all’asilo». Mercoledì 26 maggio 2021, esattamente trent’anni dopo Netflix trasmetterà “Il Divin Codino”: Robibaggio diventa un film. O forse lo è sempre stato. «Trent’anni fa, madonna» mi dice. «Mi butto sotto il treno. Come passa il tempo, ragazzi».

Ripeto spesso che il calcio che amo è finito il 16 maggio 2004, quando ti sei arreso al dolore.

«Mamma mia, lascia stare. Sono passati troppo velocemente, gli anni. E non mi riferisco a quando giocavo, è volato il dopo. Ci sono già dentro da un pezzo, è una roba allucinante. Sembra che le giornate durino soltanto dodici ore. Brutto segno».

Pensiamo alle cose belle, su, al tuo momento più felice.

«Non saprei». Un lungo respiro, poi: «Forse la semifinale del Mondiale, in America. Il sogno che stava per realizzarsi, il momento che si avvicinava».

Trascinasti l’Italia alla finale di Pasadena.

«Lascia stare quello». Sospira. «Vedevo materializzarsi il sogno che avevo rincorso da bambino. Poi mi sono svegliato. Mi è arrivato addosso un treno a trecento all’ora. Mamma mia, che tranvata».

Dopo ventisette anni se ne parla ancora.

«Madonna santa».

Eppure hai sempre dato la sensazione di vivere tutto con distacco. Ricordo il volo privato da Torino a Lisbona, nel ’93: stavi andando a ritirare il Pallone d’oro, non sembravi emozionato.

«Ma no, ero felicissimo. Spesso quando ti ritrovi in mezzo a queste cose non hai neppure il tempo per fermarti a riflettere, non te le gusti».

Vedendo il film, cosa hai pensato?

«Non era ancora finito quando l’ho visto. Io sono il peggior critico, è una roba troppo personale, faccio fatica a essere obiettivo. Mi ha emozionato, sì. Ma non faccio testo, è strana ‘sta cosa. Quando vedi qualcosa che ti riguarda così profondamente non è semplice giudicare. Quello che hai vissuto viene interpretato da un altro, strana sensazione».

Il calcio ti ha dato tutto quello che cercavi?

«Non lo so, non lo so. Se facessi due conti dovrei sentirmi strafelice perché ho giocato tanti anni contro il parere dei medici e contro la logica del tempo. Già questo è tanto. La cosa più bella è aver compiuto il percorso nonostante le mie strade sembrassero segnate. Il sogno della finale col Brasile avrei dovuto accantonarlo e invece ci sono arrivato. Sono soprattutto orgoglioso, perché so di aver dato tutto. E non ho rimpianti, a non avere mai rimpianti mi ha insegnato mio padre».

Oltre agli ostacoli fisici hai dovuto superare quelli di natura umana, tattica (diciamo così) e societaria. Sei stato obbligato a lasciare Firenze, Torino, Milano. E ti è stato negato anche il Mondiale nel tuo Giappone.

«Mi inviti a una riflessione. C’è un aspetto che viene spesso trascurato, e non parlo soltanto dei miei casi. Succede che ti ritrovi in mezzo a mari in burrasca e hai soltanto venti, ventitré, ventisei anni. Pensi di aver capito delle cose e solo in seguito ti rendi conto che non avevi capito un cazzo».

Spiegati meglio.

«Non è facile gestire certe situazioni quando si è giovani, sono prove complicatissime. Basta una stupidaggine, una parola fuori luogo, un comportamento sbagliato e finisci per essere giudicato. Quel gesto, quella frase ti si incollano addosso e te li porti dietro per tutta la vita. A volte mi metto nei panni di certi ragazzi obbligati a decidere del loro futuro: rischiano di commettere errori dai quali non si libereranno più. Noi parliamo di episodi di trenta, venti, dieci anni fa. Giudichiamo le reazioni di quel tempo. Situazioni professionali, economiche, rapporti con le persone nelle mani e nella testa di poco più che ventenni».

Potrei dirti che così è la vita.

«Se vuoi te la rispiego».

Mi arrendo, Robi. Ti capita ancora di sognarti calciatore?

«Qualche volta, sì. Io sono un sognatore nato, l’Acquario è il sognatore per eccellenza. Sogno di tornare indietro per riscrivere la storia, poi mi sveglio tutto sudato».

È dell’Acquario anche Mourinho.

«Non lo conosco personalmente, non saprei cosa dirti, quel poco che ho visto in televisione non mi basta per giudicarlo».

Sei rimasto in contatto con gente del calcio?

«Potrei non sentire un amico per dieci anni, ma se lo stimo e gli voglio bene quando lo rivedo è come se ci fossimo lasciati da poche ore. L’affetto e la stima per alcune persone non muoiono col passare degli anni, sono dei collanti incredibili. Per dirti, quando ho fatto cinquant’anni ho ricevuto i messaggi di Billy (Costacurta, nda), Ciccio Marocchi, Dino Baggio, Massimo Carrera, i primi che mi vengono in mente, i Filippini. Ne dimentico una montagna».

Tu capivi il gioco un istante prima degli altri.

«Forse perché avevo già vissuto sul campo determinate situazioni e riuscivo ad anticiparle».

C’è oggi un giocatore che porta in campo

qualcosa di tuo?

«Non ho mai amato i paragoni, non ci sarà mai un giocatore uguale ad un altro. Tutti pezzi unici, gli uomini e i calciatori».

Oltre alla Nazionale, qual è stata la squadra di Roberto Baggio?

«Ma no, Ivan, quando indossavo una maglia giocavo per la squadra e per i tifosi di quel momento. Io ho avuto la fortuna di star bene dappertutto, ho sempre avuto un ottimo rapporto con la gente».

Il Brescia ha ritirato la tua maglia nonostante vi avessi giocato soltanto quattro anni.

«È stata un’avventura meravigliosa. Una sfida anche lì, una salvezza che sembrava impensabile. Perché il Brescia non era mai stato per due anni di fila in serie A, andare lì con un sacco di ragazzi e fare quello che abbiamo fatto, arrivando settimi, è stato bellissimo».

Della splendida intervista di Emanuela Audisio per il Venerdì è rimasta solo la battuta su Adani. Che spreco...Mi interrompe.

«Ma io non ho fatto una battuta su Adani, parlavo in generale, poi mi sono pentito. Mi spiace, veramente, non me ne fotte un cazzo di giudicare il prossimo, non sto qui a dare i voti alla gente, il tempo sta volando e mi rendo conto che ogni giorno che passa è uno in meno che vivo, non mi va di sprecare energie in inutili cagate. Ma fatti i cazzi tuoi, Baggio!, mi sono detto dopo. Io voglio sbagliare in silenzio, sarà colpa dell’età, ma l’unica preoccupazione è provare a migliorare me stesso».

Resto convinto che il calcio ti manchi.

«Mi manca il campo, mi piacerebbe giocare sul prato di casa con mio figlio, il problema è che ho paura di tirare una pallonata e di dover poi cercare le rotule nell’erba. Sono rotonde, magari si spostano e fanno 50 metri. Uno può svegliarsi la mattina con la cervicale perché la sera prima ha giocato a tombola?».

Questa me la spieghi, però.

«Arrivaci da solo. Ci sono delle volte in cui mi sveglio dopo aver fatto un lavoro il giorno prima e chiedo alla Andre se per caso ci è passato sopra un camion. Dolori ovunque, il calcio non mi ha risparmiato».

La storia del calcio è piena di talenti che si sono buttati via. Cassano, Balotelli, Cerci.

«Ho sempre vissuto tra mille difficoltà e le difficoltà mi hanno insegnato a viaggiare rasoterra».

Dicevano che, per via dei problemi fisici, ti allenassi poco.

«No, io mi allenavo come i miei compagni. Soltanto a fine carriera, a Brescia, saltavo il lunedì e il martedì perché mi ritrovavo con le ginocchia gonfie come zampogne. Avevo imparato a gestirmi per riuscire ad arrivare vivo alla domenica successiva. A inizio carriera non avevo paura di nulla, se dovevo rompermi mi rompevo. Credo che la capacità di ascoltare il fisico mi abbia consentito di tirare avanti per altri anni. Quando hai male tutti i giorni non ti alleni sempre oppure vai a fare l’arbitro o ti piazzi in panchina e guardi gli altri giocare».

A Guardiola hai trasmesso qualcosa del tuo calcio?

«Ma figurati! Cazzo vuoi insegnare a Pep! È nato con una dose incredibile di passione, era già allenatore quando giocavamo insieme, intelligentissimo, aveva e ha una marcia in più».

Il Baggio spirituale quando nasce?

«Sono semplicemente una persona che prova piacere nel condividere le proprie esperienze con i giovani. Senza arroganza, né presunzione».

Quando hai capito di possedere un talento speciale?

«Non l’ ho mai capito. Avevo un sogno. L’ho realizzato».

L’immagine del tuo profilo whatsapp mi ha colpito: la tua mano stringe quella di tuo padre che ha l’ago della flebo infilata nel dorso.

«Quando mi chiamarono per dirmi che stava male fu davvero un giorno particolare. Quella foto riassume il legame che non si spezza. Penso a lui ogni giorno, mio padre era un uomo duro, di origini umili, come ho raccontato a Repubblica, era prigioniero della sua timidezza e di un’educazione che non ammetteva aperture. Soprattutto quando lavoro è come se lo sentissi dietro di me. Mi osserva e dice: “Robi, fai le cose fatte bene”».

Robi incornicia il calcio secondo le regole che conosciamo a memoria. Mentre sto per salutarlo si inseguono i volti e i luoghi della vita privata di ogni eccesso del Divino. Andreina, Valentina, Mattia, Leonardo, e poi Vittorio, Margherita i loro figli (ai quali han dato i nomi dei mobili dell’Ikea), Antonio, Gianmichele, la Lina, il Peter, Massimo, Caldogno, Casoni Borroni, Altavilla, Grado, l’Argentina, la Scozia, la Romania, l’Ungheria.

Robi, oggi sei felice?

«Sono felice perché vivo di cose semplici. Semplici, ma non vuote».

La fede del Divin Codino. Chi è Daisaku Ikeda, il maestro buddhista di Roberto Baggio. Vito Califano su Il Riformista il 28 Maggio 2021. Roberto Baggio ringrazia la moglie, i figli, la famiglia, i tifosi e il suo maestro Daisaku Ikeda. È il messaggio che compare alla fine del film Il Divin Codino dedicato alla carriera e alla vita del campione italiano, ultimo Pallone d’Oro. Film diretto da Letizia Lamartire e interpretato da Andrea Arcangeli. Baggio ha sempre parlato dell’importanza della sua fede nel superare i momenti più difficili della sua carriera. Ikeda è stato tra i maestri che ha ispirato la sua consapevolezza, una delle figure più influenti del Giappone. Il Divin Codino ha sofferto decine di infortuni. Incidenti che hanno messo più volte in pericolo la sua carriera. Come quello in Lanerossi Vicenza – Rimini, appena due giorni dopo la firma del contratto con la Fiorentina, che compromise il suo futuro. Aveva 18 anni. Tra ricadute e recupero Baggio rimase fuori per quasi due anni. Proprio in quei momenti si avvicinò alla fede buddista. Ikeda è considerato tra i più importanti leader spirituali del buddismo tra fine XX secolo e primi anni duemila. Ha fondato un partito politico. È filosofo, “costruttore di pace”, educatore, scrittore e poeta. È stato terzo Presidente della Soka Gakkai e della Soka Gakkai Internazionale. Si è basato sugli insegnamenti del maestro buddista giapponese del 19esimo secolo Nichiren Daishonin. Ikeda è nato a Tokyo nel 1928 e ha vissuto gli anni del militarismo e della guerra. Abbracciò il buddismo dopo l’incontro con Josei Toda, insegnante e pacifista fondatore con Makiguchi dell’organizzazione buddista laica Soka Gakkai. “Centrale nel suo pensiero è che la chiave per una pace duratura e la felicità degli esseri umani risiede nella trasformazione della vita di ciascun individuo più che nella sola riforma della società. Questo concetto è stato espresso nella frase di apertura del suo famoso romanzo La rivoluzione umana, per cui ‘la rivoluzione umana di un singolo individuo contribuirà al cambiamento nel destino di una nazione e condurrà infine a un cambiamento nel destino di tutta l’umanità’, si legge sul sito dell’Istituto Buddista Italiano Soka Gakkai. Un profilo non esente da controversie: i suoi oppositori lo descrivono come un despota di destra o come un comunista vicino ai leader cinesi. Ha incontrato negli anni Mao Tse Tung, Fidel Castro, Noriega, Ceausescu ma anche Pérez Esquivel, Nelson Mandela, Michail Gorbacev, Rosa Parks. Gli viene criticata una sua opposizione blanda alla questione del Tibet e gli viene attribuito un culto della personalità estremo. Sarebbero circa 12 milioni gli adepti alla sua Soka Gakkai. Dalla moglie Kaneko ha avuto tre figli, Hiromasa, Shirohisa, Takahiro. Ha ricevuto numerosi premi in tutto il mondo e si è sempre espresso contro la pena di morte.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

La carriera del Divin Codino. Tutti gli infortuni di Roberto Baggio: la maledizione delle ginocchia e le ripartenze del Divin Codino. Antonio Lamorte su Il Riformista il 27 Maggio 2021. Quando Roberto Baggio ha smesso di giocare a calcio ha tirato un sospiro di sollievo. Al contrario di Francesco Totti, di Zlatan Ibrahimovic, di Gianluigi Buffon. Di campioni che al contrario non riescono a smettere, che posticipano l’addio. “Lasciare mi ha ridato vita e ossigeno, stavo soffocando, troppo male, dolore fisico, quando da Brescia rientravo a casa, non riuscivo a uscire dall’auto, chiamavo Andreina, mia moglie, che mi aiutava ad aggrapparmi al tetto e poi a far passare il corpo. Ho sempre saputo che il calcio aveva una fine”. Queste le parole de Il Divin Codino in un’intervista a Il Venerdì di Repubblica. Baggio è stato tra gli italiani più forti di sempre, ultimo attaccante a vincere il Pallone d’Oro, il premio individuale più prestigioso nel mondo del calcio. La sua carriera e la sua vita le racconta il film Il Divin Codino, dal suo soprannome, diretto da Letizia Lamartire e interpretato da Andrea Arcangeli. Una carriera costantemente sotto la minaccia di infortuni gravi, spesso drammatici, fin dall’inizio, da quando Baggio aveva solo 18 anni. “La sua era una battaglia quotidiana, settimanale, che non l’ha mai abbandonato. Roberto ha giocato con una gamba sola per tutta la sua carriera. Giocava sostanzialmente senza le ginocchia. Chiunque avrebbe deciso di smettere di giocare, ma non Roberto Baggio”, ha raccontato nella 18esima puntata di Ossi di Seppia – Il rumore della memoria su RaiPlay il suo storico manager Vittorio Petrone. VICENZA – Il Vicenza si è aggiudicato Baggio a 13 anni per 500mila lire. Il primo goal in campionato su rigore contro il Brescia – coincidenza fenomenale: visto che smetterà proprio con le “Rondinelle”.  Baggio contribuisce nella stagione 1984/1985 con 12 reti alla promozione in Serie B del Lanerossi Vicenza. In una delle ultime partire, il 5 maggio 1985, con il Rimini allenato da Arrigo Sacchi – altra coincidenza fenomenale – Baggio rincorre un avversario, scivola, cade male. Si rompe crociato anteriore, capsula, menisco e collaterale della gamba destra. Un incidente che può compromettere una carriera.

FIORENTINA – Solo due giorni prima dell’infortunio la Fiorentina lo aveva acquistato per 2 miliardi e 800 milioni di lire. La Viola si preoccupa della riabilitazione nonostante possa rinunciare all’acquisto da contratto. L’operazione in Francia, dal chirurgo dei fuoriclasse Gilles Bousquet. “Durante l’intervento mi hanno bucato la testa della tibia col trapano, poi hanno tagliato il tendine, lo hanno fatto passare dentro quel buco, lo hanno tirato e lo hanno fissato con 220 punti interni. Quando mi sono svegliato dall’anestesia, ho avuto paura. La gamba destra era diventata così piccola che pareva un braccio”, ha raccontato nella sua autobiografia Una porta nel cielo. 220 punti di sutura. Alla madre, quando si sveglia dice: “Mamma, se mi vuoi bene uccidimi, perché io non ce la faccio più”. Perde 12 chili, fino a 56. A 18 anni è costretto a un anno di assenza.  È in questo periodo che si avvicina alla fede buddhista. Nella stagione 1985/1986 solo cinque presenza in Coppa Italia. Esordisce in Serie A con la Viola il 21 settembre 1986, contro la Sampdoria. Il 28 settembre il ginocchio destro, quello operato, subisce una nuova lesione. Di nuovo in Francia, di nuovo Bousquet. Tornerà in campo soltanto a fine stagione, a quasi due anni dal primo infortunio. Il 10 maggio 1987 il primo goal nella massima Serie, contro il Napoli, il 10 maggio 1987. Su punizione. È la rete che dà la salvezza automatica alla Fiorentina.

JUVENTUS – Firenze è in rivolta quando nel maggio 1990 viene annunciato il passaggio di Baggio alla Juventus per 25 miliardi di lire più Buso, valutato due miliardi. Tifosi in piazza, incidenti, scontri e proteste, arresti. La prima stagione in bianconero del Divin Codino è da dimenticare, la Juventus di Maifredi è deludente. L’anno dopo Baggio segna 18 gol. A settembre 1991 uno stiramento lo tiene fuori tre settimane. Nella stagione 1992/1993 si rompe una costola in una partita contro la Scozia in Nazionale e resta fuori un mese. Alla fine della stagione saranno 21 i gol. Con la Juventus, nel 1993, vince il Pallone d’Oro. Prima dei mondiali negli Stati Uniti nel 1994 – quelli della consacrazione a icona internazionale del Pallone e del rigore sbagliato nella lotteria della finale – una nuova operazione al menisco destro. Un’altra ancora dopo un altro infortunio il 27 novembre 1994 – una specie di maledizione. Torna in campo solo nel marzo 1995.

BRESCIA – Le stagioni al Milan, al Bologna e all’Inter passano senza gravi infortuni o drammatici. “Passava più tempo sul lettino dei massaggi a curare le sue ginocchia che ad allenarsi, così ogni tanto lo lasciavo in panchina”, dice comunque il suo allenatore con i nerazzurri Gigi Simoni. La sua nuova giovinezza, Baggio, la vive al Brescia, dove arriva nel 2000. Alla sua seconda stagione, il 21 ottobre 2001, contro il Piacenza, si scontra con Cristante. Distorsione. La settimana dopo un’altra distorsione con il Venezia. Dopo tre mesi, a febbraio, torna in campo nella semifinale di Coppa Italia contro il Parma. Rottura del legamento crociato anteriore del ginocchio sinistro e lesione del menisco interno. Nuova operazione. La riabilitazione è straordinaria: 81 giorni prima di rientrare, soprattutto per un motivo: il Mondiale in Corea del Sud e Giappone. Un recupero lampo. Quando torna, contro la Fiorentina, fa due goal. Il Brescia è salvo. Giovanni Trapattoni, arrivato sulla panchina degli azzurri al posto di Cesare Maldini, però la pensa diversamente. E sfuma il sogno del quarto Mondiale per Il Divin Codino. “Sarebbe stato il quarto Mondiale, se Trapattoni mi avesse chiamato. E io dovevo esserci. Era giusto, era sacrosanto – dice a Vanity Fair – Per la carriera che avevo avuto ne avevo diritto. Anche se fossi stato in carrozzella mi dovevano portare. E poi avevano appena allargato la rosa dei convocati a 23. E l’avevano fatto perché potessimo partecipare anche io e Ronaldo, che venivamo da infortuni e potevamo essere a rischio. Un uomo in più, che problema c’era? Invece Ronaldo andò, risorse e vinse. Io, a casa”. Baggio smise due anni dopo a 37 anni, l’addio il 16 maggio 2004 a San Siro.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Una storia d'amore lunga 30 anni. Andreina Fabbi, foto della moglie di Roberto Baggio. Elena Del Mastro su Il Riformista il 10 Maggio 2021. Andreina Fabbi è la moglie del mito del calcio Roberto Baggio. Il loro è un matrimonio che dura da 30 anni. Sono coetanei, lei è nata il 30 novembre 1967, lui qualche mese prima, il 18 febbraio. Dal profilo Instagram di Andreina traspare tutta la dolcezza e la complicità del loro rapporto. I due hanno avuto tre figli: Valentina 28 anni, e poi Mattia e Leonardo. La coppia, raramente sotto i riflettori, nonostante la celebrità di lui, dalle foto sembra essere molto innamorata. “Buon compleanno amore, quanta strada insieme #happy family”, scrive Andreina in un post con una tenera foto dei due. E ancora “Buon San Valentino”. La famiglia Baggio vive ad Altavilla Vicentina. Si sono sposati il 1 luglio 1989. Si sarebbero conosciuti a Caldogno, in provincia di Vicenza, dove è nato il calciatore. Era l’estate del 1982: fu amore a prima vista. Da allora non si sono più lasciati. “30 anni di noi, 1 luglio 1989”, scrive Andreina accanto alla foto in bianco e nero del loro matrimonio. Il "Divin Codino", come è conosciuto Roberto Baggio, ha sempre parlato di sua moglie con grande amore. “(Mia moglie e i miei figli, ndr) ci sono sempre stati, con i modi e le parole giuste – ha detto in una recente intervista a Vanity Fair – So che non è stato facile per loro: la condizione del calciatore ti porta spesso lontano da casa per molti giorni, eppure loro c’erano. E ci sono ancora, il nostro rapporto non ha mai smesso di essere intenso. La vita mi ha dato anche questo grande privilegio”. La loro vita scorre serena. Andreina è appassionata di pittura e su Instagram posta alcuni dei suoi disegni ad acquerello. Poi ci sono i viaggi, le vacanze e le risate con gli amici. Il suo amore per Roberto traspare dalle foto del marito e dai meme che ricordano i suoi trionfi. “Che emozione”, scrive accanto al video del marito che palleggia. Andreina è sempre stata accanto al marito anche nei momenti più difficili come il suo addio al calcio. In una recente intervista sul Venerdì, Baggio ha ricordato anche un altro momento molto dolce che lega sua moglie alla sua carriera. “Lasciare (il calcio, ndr) – ha detto il calciatore – mi ha ridato vita e ossigeno, stavo soffocando, troppo male, dolore fisico, quando da Brescia rientravo a casa, non riuscivo ad uscire dall’auto, chiamavo Andreina, mia moglie, che mi aiutava ad aggrapparmi al tetto e poi a far passare il corpo. Ho sempre saputo che il calcio aveva una fine. La gente si stupisce: come, non metti più gli scarpini, non ti viene voglia? No, e allora? Bisogna che ci mettiamo d’accordo: quelli che senza pallone si sentono appagati e felici sono dei falliti?”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da corrieredellosport.it il 29 maggio 2021. Sono trascorsi ormai ventisette anni, ma certe emozioni sono talmente forti che sembra non se ne siano mai andate. Come quelle che ti dà la rincorsa di un sogno al limite dell'impossibile, oppure un rigore sbagliato in finale del Mondiale. La grande delusione di Roberto Baggio, in quel caldo pomeriggio americano del 17 luglio 1994, è stata la stessa di milioni di italiani incollati alla televisione. Bastano poche immagini di un film per rivivere tutto di nuovo. Ma "Il Divin Codino", lungometraggio biografico dedicato al Roby nazionale, non racconta soltanto quel momento ormai diventato iconico nella storia d'Italia. Il film su Roberto Baggio mostra soprattutto il lato umano del grande campione, che ancora oggi non si smentisce mai. È la figlia Valentina a rivelare la grande commozione del papà, che ha rivisto e rivissuto la sua storia attraverso il piccolo schermo di Netflix. "Papà ha pianto per tutto il film... e voi?", scrive in una storia Instagram la primogenita dell'ex attaccante, che anche in foto mostra ancora una volta la grande umanità e sensibilità che lo ha contraddistinto per tutta la sua carriera. Una mano sugli occhi per celare la grande emozione, in molti si saranno rivisti in questa bellissima e commovente immagine di un campione che ha segnato un'epoca.

Chi è la figlia di Roberto Baggio, Valentina: “Sentire l’amore della gente per mio padre è incredibile”. Vito Califano su Il Riformista l'11 Maggio 2021. Roberto Baggio ha tre figli: Valentina, Mattia e Leonardo. Valentina è la prima figlia. È nata nel 1990, ha 30 anni. I genitori, il padre e Andreina Fabbri, si sono sposati ad Altavilla Vicentina. Non sempre facile crescere da figlia del calciatore italiano più famoso al mondo e, secondo alcuni, anche il più forte di sempre. Un aspetto che però non turba affatto Valentina, che ha Cosmopolitan ha detto come sia stato “meraviglioso” essere la figlia del Divin Codino. “Sentire l’amore che le persone hanno per mio papà, anche, appunto, al di là del fatto che sia stato un grande giocatore, è qualcosa di incredibile. Mi sorprendo e mi emoziono ogni volta che qualcuno, e pensa che capita anche con la mascherina addosso perché gli somiglio ogni giorno di più, mi riconosce e mi dice cose belle su ‘Roby’, su quanto sia stato importante. Molto bello, e pure una grande responsabilità, perché i primi tempi a Milano ero abbastanza preoccupata di fare delle cavolate e che qualcuno glielo potesse riferire”. Valentina Baggio attualmente lavora come social media manager presso Renzo Bosso, patron di Diesel. Vive a Milano. È appassionata di Yoga e dal padre ha ereditato la fede buddista. Ha raccontato che l’insegnamento più grande del padre è stato proprio l’insegnamento che lui stesso aveva ricevuto dal maestro Daisaku Ikeda. Non abbattersi mai, lottare, riuscire a preservare la propria felicità. Piuttosto seguita sui social: conta oltre 47mila follower su Instagram. Spesso e volentieri non è stato facile essere figlia del campione, ultimo attaccante Pallone d’Oro tra gli italiani. Da bambina ha dovuto cambiare spesso città e quindi amici, scuola. A 18 anni ha lasciato casa, è andata all’Università a Milano. Per un anno, in estate, ha deciso di mollare tutto ed è andata a Ibiza a fare la barista. Ha raccontato che quando era piccola il padre l’accompagnava in auto a scuola mettendo un cd con i cori del Boca Juniors. E ha raccontato del padre come di un padre amorevole. A differenza del nonno, Florindo Baggio, padre di Roberto, più schivo e rigido. Un uomo di altri tempi. “Duro, di origini umili, aveva vissuto la povertà e la guerra, a casa con lui non ti potevi confrontare, non ti dava soddisfazione, né avevi modo di dire la tua. Era prigioniero della sua timidezza e di un’educazione che non ammetteva aperture, ma mi ha insegnato a dare tutto e a non avere rimpianti – ha raccontato Baggio in un’intervista a Emanuela Audisio su Il Venerdì – Da ragazzo non ci vai d’accordo con tuo padre, ti dici mai sarò così, poi ti ritrovi genitore e ti scopri a ripetere le sue stesse parole”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

La 17enne e lo zio "Divin Codino". Chi è Camilla Gobetti, la nipote di Roberto Baggio che gioca a calcio per il Vicenza. Vito Califano su Il Riformista il 13 Maggio 2021. Roberto Baggio apprezza il calcio femminile. E forse anche perché ci gioca sua nipote, Camilla Gobetti, esterno di centrocampo della Primavera del Vicenza. Ha 17 anni ed è la figlia di Nadia Baggio, penultima dei sette fratelli dell’ultimo attaccante italiano a vincere il Pallone d’Oro. Forse l’italiano più forte di sempre, cui una produzione Netflix e Mediaset hanno dedicato un film, Il Divin Codino, dal suo soprannome, che uscirà il prossimo 26 maggio. Camilla Gobetti preferisce gli assist ai gol e da piccola il pallone alle bambole. “Lo zio dice che noi donne abbiamo passione e carattere, il fatto che io giochi ha attirato la sua attenzione, sarebbe bello che, anche grazie a lui, noi ragazze riuscissimo ad avere un po’ più di visibilità”. Uno zio affettuoso e divertente, ha raccontato la 17enne al Corriere della Sera. Camilla Gobetti al momento studia al liceo economico-sociale. Sogna la maglia della Nazionale ma riconosce il lavoro che ha ancora davanti. “Faccio calcio da quando ho 7 anni. Sarà che in casa se ne è sempre parlato, insomma mi è subito piaciuto. Quando ho detto a mamma che avrei cercato su Internet una squadretta nei dintorni, non si è stupita”, ha raccontato nell’intervista. Le azioni e i gol e le magie dello zio le ha viste tutte, recuperate su su Youtube o Dvd. Baggio si è ritirato a vita privata, più intima rispetto a quella di tanti altri colleghi che non riescono a stare lontani dal campo e dalla televisione. Si dedica al giardinaggio, a lavorare la terra più che al calcio. E preferisce guardare il basket, tiene per i Lakers. “Mi piace il calcio femminile perché le donne hanno passione e carattere”, ha detto in un’intervista a Il Venerdì di Repubblica.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Chi è l’attore che interpreta Roberto Baggio: Andrea Arcangeli, protagonista de “Il divin codino”. Vito Califano su Il Riformista il 13 Maggio 2021. È Andrea Arcangeli a interpretare Roberto Baggio nel film Il Divin Codino. Una produzione di Netflix e Mediaset, ispirata alla vita del campione, ultimo attaccante Pallone d’Oro italiano, che sarà disponibile sulla piattaforma streaming a partire dal 26 maggio. Il racconto della carriera del “Divin Codino”, come venne soprannominato, dagli esordi nelle fila del Lanerossi Vicenza passando per il Mondiale negli Stati Uniti e il rigore di Pasadena nel 2004 fino all’addio al calcio. Diffuso oggi un altro trailer del film. Arcangeli interpreta Baggio, il protagonista, per gran parte della pellicola e quindi dei 22 anni di carriera del calciatore, secondo molti il più forte italiano di sempre. L’attore è nato a Pescara, il 3 agosto del 1993. Ha iniziato con il teatro, frequentando la scuola di recitazione S. M. O. (Spazi Mentali Occupati) per poi seguire un master di recitazione con Ivana Chubbuck. Nel 2012 ha esordito in televisione nella serie Benvenuti a tavola – Nord vs Sud. Ha frequentato l’Università a Roma, La Sapienza, dove ha studiato Arti e Scienze dello Spettacolo. Ha interpretato Benvolio nella miniserie internazionale Romeo e Giulietta diretta da Riccardo Donna nel 2013. E quindi ha partecipato alla serie tv Fuoriclasse nel 2014 e nel 2015. La prima grande esperienza cinematografica in Tempo instabile con probabili schiarite. Quindi ha preso parte a numerose produzioni per la televisione e per il cinema. Ha vestito i panni di Yemos nella serie tv Sky Romulus diretta da Matteo Rovere. È stato fidanzato con la collega attrice Matilda De Angelis. Appassionato di sport, pratica calcio, snowboard, sci, pallacanestro, nuoto e atletica. Suona la batteria e occasionalmente si esibisce da disc jockey. In un’intervista a Il Venerdì di Repubblica lo stesso Baggio ha commentato la sua prova nel film. “A fare la mia parte nel film è Andrea Arcangeli, l’ho visto e mi è piaciuto, racconta quella che è stata la mia vita”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Il film "Il Divin Codino". Chi era Florindo Baggio, il padre di Roberto interpretato da Andrea Pennacchi in “Il Divin Codino”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 26 Maggio 2021. Roberto Baggio è stato l’ultimo attaccante italiano premiato con il Pallone d’Oro. Un’icona del calcio mondiale, tra gli italiani più forti di tutti i tempi. Non ha mai amato i riflettori, non ha mai perso l’umiltà. È nato il 18 febbraio 1967 a Caldogno, provincia di Vicenza, Veneto. Sesto figlio di Florindo Baggio e Matilde Rizzotto. Alla sua vita è stato dedicato il film Il Divin Codino della regista Letizia Lamartire, protagonista l’attore Andrea Arcangeli. E nel ruolo del padre Andrea Pennacchi. Florindo Baggio era un uomo di altri tempi. Umile, coriaceo, riservato. Scelse i nomi dei sui figli – Gianna, Walter, Carla, Giorgio, Anna Maria, Nadia ed Eddy – ispirandosi ai suoi idoli. Roberto per Roberto Boninsegna, attaccante di Cagliari, Inter e Juventus. “Era molto rigido – ha raccontato il campione nell’autobiografia Una porta nel cielo – teneva molto all’educazione, teneva molto al rispetto, teneva molto all’onestà, tutto il tempo che aveva lo passava a lavorare. Perché non aveva tempo di ascoltare o comunque confrontarsi”. L’altro idolo di Florindo era Eddie Merckx – e infatti diede il so nome a un altro figlio – il “cannibale” del ciclismo belga. Preferiva le due ruote al pallone. Aveva fatto il carpentiere. Aveva una ditta di serramenti. “Lavorava 20 ore al giorno”, ha raccontato il figlio Eddy Baggio. Andava con i figli a vedere il Vicenza di Paolo Rossi, venti chilometri tra andata e ritorno, in due in bicicletta. “Papà era duro, di origini umili, aveva vissuto la povertà e la guerra, a casa con lui non ti potevi confrontare – ha raccontato Roberto in una lunga intervista a Il Venerdì di Repubblica – non ti dava soddisfazione, né avevi modo di dire la tua. Era prigioniero della sua timidezza e di un’educazione che non ammetteva aperture, ma mi ha insegnato tutto e a non avere rimpianti. Mi ha amato, con i suoi modi. Otto figli da crescere, per lui che aveva una piccola azienda di infissi non è stato facile”. È morto a Caldogno a 88 anni nell’agosto 2020. Due anni prima aveva sofferto un ictus. Da quel momento viveva in una casa di riposo. “Era l’uomo più importante della mia vita”, ha detto il Divin Codino. Quando il 3 maggio 1985 venne annunciato l’ingaggio di Baggio da parte della Fiorentina dei Pontello per 2 miliardi e 800 milioni di lire – una cifra monstre per l’epoca – il futuro Pallone d’Oro commentò così ai giornali: “Io in Serie A? Continuerò la mia vita, calcio e fabbrica. Spero solo che mio padre mi conceda qualche ora di riposo in più”.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

"Il Divin Codino" incassa un autogol. Luca Beatrice il 30 Maggio 2021 su Il Giornale. La chiave di lettura del Divin Codino la offre una frase attribuita ad Andreina. All'ennesima notte insonne, inseguito dagli incubi per il rigore sbagliato a Pasadena nel 1994, la saggia moglie centra il problema che lo affligge: «Vedi Roberto, la gente ti ama ancora di più proprio perché quella finale l'hai persa». In effetti l'epopea di Roberto Baggio è quella di un magnifico perdente, o quantomeno di un incompiuto, nonostante il suo assoluto e cristallino talento. Dopo l'agiografia di Francesco Totti, arriva sul piccolo schermo per Netflix la particolare biografia di un altro numero 10, non una miniserie ma un film diretto da Letizia Lamartire e interpretato da Andrea Arcangeli. Più che il ritratto di un campione, Divin Codino sembra la seduta psicanalitica di un ragazzo chiuso, cupo e depresso, tormentato dal rapporto con un padre grezzo e ignorante, il signor Florindo, incapace di incoraggiare questo figlio così musone e geniale. Meno male che almeno le donne della famiglia, la mamma e la moglie, gli sono sempre vicine con amore. Altro tema centrale, la conversione al buddismo. E non è un mistero che l'approccio alla spiritualità abbia aiutato il calciatore nei momenti più difficili seguiti agli infortuni. Il film insomma non aggiunge niente a ciò che si conosce, anzi sottrae molto con scelte francamente incomprensibili. Mai citata la Juventus, squadra in cui Baggio vinse gli unici titoli di squadra e personali (il Pallone d'oro), completamente ignorate Milan, Inter e Bologna, tanta Nazionale (unica maglia con la quale si è davvero identificato), abbastanza Fiorentina e Brescia, primo amore e ultimo approdo. Ci sono i rapporti difficili con gli allenatori - Baggio era considerato un lusso nel concetto di gioco di squadra da Sacchi, Lippi e Capello, nonché un vanesio pericoloso che attraeva su di sé tutta l'attenzione mediatica - gli enigmatici silenzi e le numerose contraddizioni. Non so quanto il vero Baggio si sia ritrovato nell'interpretazione pur buona del giovane Arcangeli, mai sorridente, occhi bassi, egocentrico e vittimista. Un taglio criticabile ma comunque accettabile. Invece risultano intollerabili le numerose sviste della regia, vere e proprie perle di sciatteria: si vedono i mondiali del '94 in tinelli e bar che sembrano quelli degli anni '70; Baggio risponde alla telefonata del Trap su un vecchio Nokia in cui non comparivano ancora i nomi; l'auto che guida nel 2003 porta la targa Vicenza quando già dal 1994 erano state eliminate le province. Sembrano dettagli irrilevanti, eppure fanno la differenza tra un lavoro buono e uno modesto, e Divin Codino appartiene a questo secondo nutrito gruppo. La scelta di umanizzare il calciatore, invece di farcene ammirare ancora una volta i dribbling e i fantastici gol, rischia di renderlo ancor più antipatico di quanto fosse. Dicono che i timidi si nascondano dietro ritrosia e distanza, ma io non ci ho mai creduto. Baggio è stato forse il giocatore di maggior classe degli anni '90, ma la storia del calcio non l'ha scritta lui.

Roberto Baggio ha messo d'accordo tutti. Italiani popolo di santi, poeti, navigatori e baggisti. Antonio Lamorte su Il Riformista il 30 Maggio 2021. Avevo un amico che una volta mi ha raccontato che quando era piccolo seguiva chiunque avesse un codino. Solidarietà quindi alla madre, al padre, ai familiari e tutori tutti: non è difficile immaginarli terrorizzati sulla spiaggia o al centro commerciale o in gita quando scoprivano di aver perso il piccolo che usava seguire qualche sconosciuto solo apparentemente a caso. E solidarietà anche a mio padre, fervente interista, che per qualche anno ha dovuto sopportare un figlio juventino in casa. Perché tifavo qualsiasi squadra andasse Roberto Baggio. Un tifo atipico: per niente fedele, e sempre fedele. Solo qualche anno fa ho scoperto che quell’atteggiamento aveva un nome. Baggista, dalla Treccani: “Chi o che fa il tifo per il calciatore Roberto Baggio”. Nessuna monogamia, nessun obbligo di volare di club in club seguendo il Divin Codino, neanche il dogma fanatico dell’Iglesia Maradoniana. Un credo laico, libero culto in libero calcio. Scriveva Gianni Mura su Repubblica in occasione dell’amichevole, Italia-Spagna, in tributo a Baggio a Genova, il 29 aprile 2004: “Tanti striscioni, tante rime ingenue, tanti giochi di parole, alla fine quello che univa tutto era una militanza baggista che è anche un modo di vedere, di sentire il calcio”. E l’interista Nando Dalla Chiesa, qualche anno prima, sui dissidi tra il fantasista e Marcello Lippi, al Corriere della Sera aveva osservato come “su questo punto Lippi non ci senta. E allora io, da baggista convinto, consiglio a Baggio una cosa: vada alla Reggina. Avrebbe un pubblico entusiasta, potrebbe far vedere di nuovo a tutti chi è Baggio, anche quando non gioca con uno squadrone alle spalle. Personalmente, pur di vederlo in campo, andrei in Calabria ad assistere al suo esordio”. Il Divin Codino è riuscito meglio di Cavour a unire l’Italia, nel suo rissoso e campanilistico Bar sport. Quando si litiga su chi sia stato più forte tra Totti e Del Piero, Cannavaro o Nesta, Vieri o Inzaghi, se qualcuno tira fuori Baggio la conversazione si arena; “eh, Baggio …”, e finisce più o meno lì. E nonostante si sia ritirato, lontano dai riflettori, ad Altavilla Vicentina, tutto campagna e famiglia, non se n’è mai andato: il ricordo è vispo. Come ha dimostrato il film Il Divin Codino, uscito su Netflix il 26 maggio, diretto da Letizia Lamartire e interpretato da Andrea Arcangeli. Film che non ha entusiasmato tutti, qualcuno ha preferito l’episodio di Ossi di Seppia – Il rumore della memoria su Raiplay, altri hanno ricordato una memorabile puntata di Sfide. Sempre, con scelte e intreccio diverso, il racconto di un cerchio che non si chiude, il rigore di Pasadena che lo mette un passo indietro ai più grandi di sempre, le discese ardite dei tanti infortuni e le risalite al limite del miracoloso. Una sceneggiatura tragica, con il fallimento e la gloria, provincia profonda e palcoscenico internazionale, spiritualità e ribellione. “Era unico, poetico, gracile e bellissimo”, dice John Foot, storico inglese, Professore di Storia Moderna Italiana all’Università di Bristol, autore di numerosi volumi sulla storia italiana e – in particolare Calcio – Storia dello Sport che ha fatto l’Italia (Rizzoli) – sul pallone. “Era un genio, ma in un modo tutto suo. Ha avuto la sfortuna di giocare nel periodo peggiore per uno come lui, con pressing sacchiano e l’eliminazione della fantasia, e quindi si è trovato molto meglio in provincia. Sono convinto che avrebbe vinto il Mondiale del ‘94 da solo (come ha praticamente portato l’Italia da solo in finale con gol e assist) senza l’infortunio in semifinale. Sempre in lite con gli allenatori, perché doveva essere lasciato libero, è stato il migliore che abbia mai visto”. Baggio non ha consacrato la sua carriera a una maglia come Totti e Del Piero. Non è stato del bomberismo come Bobo Vieri che pare che a Madrid, durante la sua stagione all’Atlético, appendesse l’intimo delle sue conquiste in camera da letto – è invece stato un emblema di probità, buddhismo e famiglia, in un’Italia terremotata da Mani Pulite, e che di onestà e linearità aveva una fame anche rapace. È stato “bomber di provincia” prima che i “bomber di provincia” diventassero un archetipo – e dalla provincia, effetto squadra-simpatia, non ha compromesso le ambizioni delle grandi tifoserie; questo pure conta. È diventato l’uomo comune con il rigore contro il Brasile – centimetri sulla volé contro la Francia nel 1998 e la convocazione saltata nel 2002 gli hanno impedito di recuperare in parte quell’incubo. Non ha litigato con i suoi allenatori per delle “cassanate” (sempre dalla Treccani) come uno dei pochi che avrebbe potuto raccogliere il suo testimone. È stato emblema di spiritualità, forza gentile, ed è stata sottovalutato invece il suo spirito anarchico, in campo e fuori, nel tocco di classe, ribelle in un calcio che si andava facendo sempre più sistema. Non ha avuto dietro il marketing che la sua immagine – così comune nel fisico, con quel codino invece eccentrico – avrebbe meritato e comunque è finito in una puntata di Holly e Benji; e comunque è diventato un’icona mondiale. Forse soltanto Gigi Riva – che invece alla maglia e alla provincia dedicò la sua vita, e che da Cagliari lanciò e riuscì l’assalto allo Scudetto, funestato anche lui dagli infortuni, ma protagonista tuttavia di un calcio troppo lontano, in bianco e nero – aveva raccolto trasversalmente un credito simile presso il tifo italiano. Nessun culto però. Da quando Baggio non gioca più non è più domenica, e non è più arrivato un campione che appartenesse a tutti, o a quasi tutti, come Baggio. Lo ha raccontato bene, meglio di tutti forse, Renzo Ulivieri, che a Bologna, una domenica, lasciò il campione in panchina, e che quando tornò a casa trovò la porta chiusa. “Chi non fa giocare Roberto Baggio, in casa mia non entra!”, lo rimproverò la madre al citofono. Quella sera l’allenatore dormì in albergo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Dagospia il 15 giugno 2021. Da "I Lunatici - Radio2". Vittorio Petrone, storico amico e manager di Roberto Baggio, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei e dalla mezzanotte e trenta alle due circa anche su Rai 2. Il manager del "divin codino" ha raccontato: "Come nasce il mio rapporto con Roberto Baggio? Ottobre 1994, dopo il mondiale, un amico comune ritiene che il mio supporto potesse essere in qualche modo di aiuto a Roberto, che era ancora alla Juventus. Quando poi si è trasferito al Milan la nostra frequentazione è diventata quotidiana. Lui oggi mi definisce nella sua autobiografia il suo più grande amico, ma siamo anche legati da attività professionali. Siamo sempre coesi e compatti, non esiste una linea di demarcazione tra amicizia e business". Sul Roberto Baggio di oggi: "Baggio è sicuramente una persona che non ama la luce dei riflettori, non ama essere tirato in ballo per ergersi a giudice di qualcosa o di qualcuno. Ha fatto della sua intimità e della sua riservatezza uno stile di vita. Vi posso assicurare che Roberto quando è con gli amici veri e sani è inarrivabile. Quanto sia spiritoso, è una dote veramente sconosciuto. Abbiamo provato a rientrare nel calcio giocato, per quasi un triennio è stato a capo della federazione, nel settore tecnico. Io ero il suo vice, nei fatti però non ci è stato consentito di incidere. Dopo questa esperienza Roberto ha capito che fosse arrivato il momento di tirarsi indietro. Ha capito quanto fosse difficile provare a cambiare le cose, ma ha capito che la volontà di cambiare non c'era". Su chi lo vorrebbe come opinionista in tv: "Questo è un tasto che più volte ci ha visto non essere allineati Roberto ed io. Roberto ha declinato sempre, fin dall'inizio, per tutte le tv emergenti dell'epoca piuttosto che le classiche. Ha sempre declinato l'invito a poter in qualche modo essere partecipe di talk show televisivi proprio perché non ha interesse a esprimere dei giudizi se non in profondità. Lui parla solo di cose che conosce". Su come stava Roberto Baggio dopo il mondiale del 1994: "Roberto stava grazie alla sua grandissima forza interiore combattendo una battaglia contro i fantasmi di USA 1994. Ancora oggi non si libera da quell'inferno e da quell'incubo. Un sogno infranto, non raggiunto, desiderato e coltivato dalla tenera età e poi svanito. Era un Baggio capace di rialzarsi, bisogno di tempo per metabolizzare la ferita, ma poi quell'anno portò la Juve a vincere lo scudetto. Poi arrivò al Milan e vinse un altro scudetto". Sul trasferimento al Milan: "Il trasferimento capita quando il Milan dopo una grande abbuffata di coppe e scudetti era in una fase calante. Aveva finito un ciclo e lui è arrivato nella fase terminale del ciclo. Sono cambiati tre allenatori, Baggio aveva bisogno di stabilità, di essere messo al centro di un progetto. La 10 che rimase a Savicevic? Nessuna battaglia, fu Baggio a lasciargliela. Baggio arrivava sempre in punta di piedi". Sull'esperienza di Baggio a Bologna: "Una delle sue migliori esperienze calcistiche e umane della sua vita professionale. Capello era stato chiaro, tornato al Milan disse che Baggio veniva dopo Savicevic. Baggio se ne andò proprio perché voleva andare al Mondiale in Francia. Facemmo con il Bologna il primo contratto di un anno. Gazzoni era un uomo illuminato, un grande industriale, trovammo subito questo accordo. L'Inter dopo mezza stagione lo voleva per giocare la Champions, ma lui disse di no. A Bologna 28.000 persone si erano abbonate per vederlo, lui declinò l'offerta dell'Inter e se ne riparlò dopo i mondiali, quando Moratti lo portò a Milano per provare a vincere la Champions". Baggio è stato vicino alla Roma e alla Lazio: "La Capitale è sempre stata una meta di grandissimo fascino. C'erano presidenti straordinari. Da una parte la famiglia Sensi, dall'altra Cragnotti, uomo certamente con abilità e capacità che nel calcio forse non si erano mai visti. Io personalmente con Cragnotti non ho mai avuto contatti, qualcuno indirettamente mi fece sapere che c'erano degli interessi. Con la Roma ci fu qualcosina di più ma non con la famiglia Sensi. Era invece fatto il suo trasferimento al Parma". Sul capitolo legato a Brescia e a Mazzone: "Credo che purtroppo l'incontro con Mazzone sia avvenuto troppo tardi. Mazzone fece una battuta che fece capire tutto, gli disse caro Roberto se ti avessi conosciuto prima avrei ancora tutti i capelli. Mazzone ormai aveva risolto il problema del protagonismo, cosa che invece accompagnava molti allenatori. Roberto Baggio è amato dalla gente, dovunque lui oscura chi ha accanto, sia i compagni che gli allenatori. I giocatori lo ammirano e lo amano perché sanno com'è nello spogliatoio. Molti allenatori invece questa cosa non l'hanno capita ed hanno perso qualche occasione di relazionarsi con un personaggio straordinario sotto il profilo umano e calcistico".

Gigi Riva. Gigi Riva e il Covid: «La mia governante è stata ricoverata, io ora ho tre dosi. I no vax non li capisco».  Elvira Serra su Il Corriere della Sera l'11 novembre 2021. Il campione del Cagliari: «In famiglia ci siamo immunizzati tutti. La ginnastica? Cammino, ma non più come prima». Il compleanno del bomber: «I miei figli mi hanno fatto una festa a sorpresa: per l’emozione la sera ho fatto fatica a prendere sonno».

Gigi Riva è di buon umore. L’11 novembre ha ricevuto la visita dei nipoti da Varese e da Sesto per il debutto all’Auditorium del Conservatorio di Cagliari dello spettacolo teatrale «Luigi», di Giorgio Pitzianti, con la voce di Luca Ward. E domenica ha festeggiato il 77esimo compleanno in casa, con una bellissima festa organizzata dai figli, Nicola e Mauro. Racconta: «Sono stati eccezionali. Sono venuti e hanno fatto tutto loro, io non mi sono mosso dalla sdraio. C’erano le mie nipotine, c’era anche Gianna, la madre di Nicola e Mauro. E altri miei amici, una grande torta. Sai, quelle cose che fanno piacere. La sera quando sono andato a dormire ho fatto fatica a prendere sonno, tanta era l’emozione. Il regalo più grande è stato averli lì con me».

E come avete fatto per il Covid?

«Eravamo tutti vaccinati, a partire dai miei figli. E poi io ho fatto anche la terza dose, tre settimane fa».

All’ospedale Roberto Binaghi di Cagliari. Una testimonianza importante.

«Io questo non lo so. So che mi hanno chiamato per la terza dose e sono andato. E sì, mi hanno riconosciuto e mi hanno detto che ho fatto bene».

Sui social c’è stato tanto affetto nei suoi confronti. Ma non sono mancate le critiche dei soliti no vax. Su calciocasteddu.it una persona, naturalmente anonima, ha scritto: «Un altro venduto... o un altro manipolato. Meglio pensare la seconda, trattandosi di Riva». C’è chi dice che «la punturina non serve a niente». Il più moderato: «Sarà il pensiero di Gigi, grandissima persona, ma non è legge per fortuna». Le dispiace?

«Io faccio quello che voglio, non dipendo sicuramente da loro: non mi fanno né caldo né freddo. Non ho nessun problema con loro, ma quando vedo le proteste in televisione cambio canale: non si può manifestare creando il caos, picchiandosi. Non voglio neanche commentare chi si comporta così, dopo un anno e mezzo di crisi mondiale dovuta alla pandemia, dopo così tanti morti».

A lei è successo di perdere una persona cara per il coronavirus?

«No, per fortuna i miei familiari e i miei amici stanno bene. Però la mia badante, Zoia, che è ucraina e vive con me, ha preso il Covid ed è stata all’ospedale una ventina di giorni. Qui a casa è tornata dopo un mese. Ora sta bene».

Non ha temuto di essersi contagiato?

«No, per me nessun problema. Zoia, comunque, ha la sua stanza, e poi si è accorta subito di star male».

Ha ricominciato a uscire?

«Poco. La mia ginnastica la faccio andando sul balcone: è bello lungo, di cinquanta metri, e io vado avanti e indietro. Magari esco per andare a cena dai miei figli, ogni tanto. Ma le camminate di un tempo non le faccio più».

Dove vorrebbe tornare?

«Mah, un salto al Poetto lo farei volentieri. Appena mi torna la voglia ci vado».

Ugo Trani per “il Messaggero” il 7 giugno 2021. Le luci, i clacson e le bandiere. Al centro di Roma, in silenzio, si aggira Rombo di Tuono. Di sinistro c'è solo quello che ha fatto la storia del nostro calcio. È dell'uomo solo al comando dell'Italia di Valcareggi. E di sempre. Ancora oggi il miglior marcatore azzurro: 35 gol in 42 partite. «È stata la notte più bella della mia carriera, passeggiando per le vie di una città in festa per la nostra vittoria». Gigi Riva non fatica a ripercorrere quelle strade. Lo fa senza commuoversi. E senza presunzione. Gli scappa, invece, un sorriso divertito perché si gusta ancora le ore successive all'unico campionato europeo vinto dalla Nazionale. 

Riva, che cosa accadde quel 10 giugno del 1968?

«Bellissimo, tutto bellissimo. La gioia dei nostri tifosi all'Olimpico, capaci di accendere i giornali e di illuminare il trionfo dell'Italia. Poi fuori dello stadio, in macchina e a piedi, per la grande voglia di festeggiare il successo contro la Jugoslavia. Indimenticabile». 

Torniamo a quella sera?

«Non mi fermai alla coppa. Decisi subito di stare in mezzo alla gente, senza però farmi vedere». 

Quindi?

«Scappai subito in albergo e feci la valigia. Dovevo partire per Cagliari la mattina presto. Ma sapevo che non avrei dormito. Come dopo ogni partita. In stanza, occhi sgranati e sigarette senza sosta. Meglio uscire, dunque». 

Dove è andato?

«Eravamo in ritiro al Parco dei Principi. Mi sono incamminato verso il centro, scendendo da via Veneto, soffocata dalle auto in fila, fino a Piazza di Spagna. Da solo, come piace a me. E per tutta la notte.. Alle 7 ero all'aeroporto. Tutta una tirata». 

Quanti autografi ha firmato?

«E come? Non ero io in giro per Roma... Mi sono infilato un berretto di lana per non farmi riconoscere».

 Come mai?

«Non cercavo certo il bagno di folla nella Citta Eterna. Ma volevo essere io a guardare i tifosi gioire per il nostro successo. Ero curioso. E felice per loro». 

L'Europeo finì bene per Riva che rischiò di saltare il torneo. Giocò solo la finale bis.

«La ripetizione fu la svolta: ero preoccupato. Non vestivo la maglia azzurra da sei mesi. Qualche infortunio aveva complicato il mio avvicinamento all'Europeo. Non stavo bene». 

Segnò 6 gol in 3 partite nelle qualificazioni e si fermò. Il settimo è quello della finale. Prenda per un momento il posto di Nando Martellini, quella sera telecronista Rai. Come è la sua telecronaca?

«Ho stoppato in area, spalle alla porta, il tiro di Domingo. Mi sono girato e ho incrociato di sinistro. Buono, diciamo così». 

Perfetta. Anzi, quasi. Perché sul sinistro strozzato di Domenghini, ha ricevuto il pallone in posizione di fuorigioco. Lo sa che con il Var quella rete sarebbe stata annullata?

 «Quando si vince, ci vuole sempre un po' di fortuna. Spesso in azzurro mi è mancata, basta pensare ai gravi infortuni contro il Portogallo e l'Austria. Noi, comunque, eravamo un'ottima squadra. Con quel gruppo arrivammo, due anni dopo, alla finale mondiale in Messico. Ci arrendemmo solo al Brasile di Pelè».

L'Europeo è il top della sua carriera?

«No. Meglio le due stagioni successive, la seconda è quella dello scudetto con il Cagliari». 

Nel 1969 finì dietro a Gianni Rivera nella classifica del Pallone d'oro, nel 1970 fu terzo dietro a Gerd Muller e Bobby Moore. È davanti per le reti azzurre, 35. Si sente il numero 1?

«No. Spero solo che il record rimanga... Sono sempre stato umile, io. Ma in quegli anni si segnava molto di meno. Le reti erano quindi pesanti. E i difensori menavano di più. Io all'Olimpico uscii, in azzurro, l'ultima volta in barella prima di tornare per la coppa». 

Da dirigente, lacrime e coppe. Lasciando stare i Mondiali, quello perso a Pasadena contro il Brasile nel 1994 e l'altro vinto a Berlino contro la Francia nel 2006, ha vissuto anche il doppio ko proprio nell'Europeo: a Rotterdam contro la Francia e a Kiev contro la Spagna. Che cosa rimane di quelle esperienze?

«In Olanda: rimonta e golden gol. Sconfitta dolorosa. Andammo bene anche nell'altra esperienza, a parte l'ultima partita. Grandi uomini e grandi giocatori in Nazionale. Come oggi».

L'Italia di Mancini è da finale?

«Parte tra le favorite con la Francia, la Spagna, l'Inghilterra e la Germania, mai darla per finita. Roberto ha lavorato seriamente: l'Italia gioca e segna». 

Manca il Giggirriva. Non lo dirà mai.

«Sono stato sempre vicino ai giocatori nei 23 anni in cui ho accompagnato la Nazionale nel mondo. Da Baggio a Totti e Cassano. Non divido buoni e cattivi proprio ora...»

Gianni Rivera. Maurizio Caverzan per “La Verità” il 21 giugno 2021. Lo dichiaro subito a beneficio dei lettori: sono al telefono con il mio idolo d' infanzia, Gianni Rivera. Perciò, mi concederete un breve ricordo personale. Forse per alleviare il trauma dell'iscrizione alla prima elementare, mio padre, che era maestro, mi consentì d' iniziare a raccogliere le figurine Panini. E lì c'era lui, con i capelli a spazzola. Diventai allora tifoso del Milan, fresco vincitore della Coppa dei campioni, la prima di una squadra italiana. Su Rivera, che nel 1969 sarà il nostro primo Pallone d' oro, non serve aggiungere altro. Se non la sorpresa causata dalle notizie recenti che lo riguardano. 

Gianni Rivera no vax non ce l'aspettavamo.

«Ho sentito molti virologi, di quelli mai invitati in tv, dirsi contrari a questi vaccini perché non sufficientemente testati. I virologi ufficiali dicono che vanno bene, ma a me risulta che non siano stati adeguatamente verificati prima di essere diffusi».

Non ha paura?

«Non particolarmente. Conduco una vita tranquilla sia in casa che fuori, come fossi agli arresti domiciliari». 

Come si definirebbe: coraggioso, temerario o critico verso l'informazione omologata?

«Sono una persona normale che si è fatta le proprie idee. Dopo le mie dichiarazioni a Porta a Porta ho ricevuto molti messaggi di persone che la pensano come me. Tra queste ci sono anche esperti che hanno posizioni diverse rispetto all' ufficialità. Il fatto che non siano state fatte verifiche sufficienti su queste sostanze è risaputo. Non si può dire, ma questo è un altro discorso». 

Non teme di essere imprudente?

«No. Se mi dicono che questi farmaci non sono sperimentati preferisco aspettare che lo siano. Anche Mario Draghi il 28 maggio ha detto che le varianti possono rendere inutili gli effetti dei vaccini. Poi forse si è pentito e non l'ha più ripetuto. Qualcuno gli avrà consigliato di non farlo perché potrebbe saltare per aria tutto. Ma se saltano le cose sbagliate, meglio». 

Non è imprudente non vaccinarsi considerando che la mortalità è più elevata tra le persone anziane?

«Cosa c' entra? Molti morti stavano già male prima e sono deceduti per altre patologie.

L' anno prima del Covid ci sono stati più morti a causa dell'influenza... E poi esistono cure domiciliari che funzionano. Perché non farle e riempire gli ospedali?».

Le notizie di questi giorni dicono che gli ultimi ricoverati in terapia intensiva sono persone non vaccinate.

«Noi conosciamo persone intubate a Milano dopo la seconda iniezione. Lo sappiamo per voce diretta, ma di questi casi nessuno parla o scrive». 

Chi sono i virologi che vorrebbe vedere in televisione?

«Luc Montagnier che ha preso un Nobel per la medicina, magari gliel' hanno dato per sbaglio. O Stefano Montanari. Ma non li invitano, forse perché dissentono dalla versione ufficiale». 

Non crede che le vaccinazioni massicce ci stiano facendo uscire dall' emergenza?

«Lo spero. Preferisco non correre il rischio finché non c' è una sperimentazione più ampia. Se poi funzionano, meglio».

Per lei chi si vaccina è una cavia?

«Questo è il sospetto». 

Da cittadino e potenziale paziente ha la stessa allergia nei confronti dei virologi che aveva da calciatore verso gli arbitri?

«Mai avuto allergie nei confronti di nessuno. Mi infastidivo quando vedevo che gli arbitri avevano un comportamento non indipendente. Come capitano del Milan difendevo i miei compagni e la mia società quando mi accorgevo che inclinavano dall' altra parte». 

Quale altra parte?

«Quella dell'avversario. Allora mi esponevo, se no che capitano sarei stato. Funziona così anche con il vaccino: dico la mia se qualcosa non mi convince». 

Anche allora antisistema?

«No, il sistema funzionava. Erano gli antisistema che agivano nel sistema a inquinarlo.

L' antisistema nel calcio dà fastidio e si spera che qualcuno intervenga».

Nella magistratura «il sistema» è un meccanismo perverso.

«Si sperava che non ci fossero disonesti tra chi deve giudicare gli altri, invece abbiamo capito che ci sono magistrati che dicono di fare un mestiere e ne fanno un altro». 

Sta seguendo gli Europei di calcio?

«Certo. L' Italia sta andando molto bene, come avveniva anche prima degli Europei. Roberto Mancini ha molti meriti. Penso che potremo cavarcela bene anche contro squadre più forti di quelle che abbiamo incontrato finora». 

Quante chance dà all' Italia per la vittoria finale?

«Non ho mai fatto pronostici prima delle partite. Andavo in campo per vincere, ma sapendo che avrei potuto perdere. Mi è capitato di perdere con squadre molto più deboli. La schedina l' ho giocata solo qualche volta con degli amici, ma poi ho smesso perché mi accorgevo che buttavo via i soldi». 

C' è troppa euforia attorno alla Nazionale?

«Quando si vince i tifosi fanno festa perché il calcio trasmette entusiasmo. Il tifo è una malattia che ci si porta dietro. È giusto che i tifosi si sfoghino nella gioia, speriamo che la gioia prevalga sempre». 

Parlando di tifo, cosa pensa delle critiche al fatto che lo stadio di Budapest per Ungheria-Portogallo fosse gremito di pubblico?

«Non le ho molto capite. Come entrano 20.000 persone controllate ne possono entrare anche 80.000, sempre controllate. Se si riesce a fare il tampone a tutti perché non farli entrare? Non credo che dobbiamo stare distanziati se non abbiamo niente. In casa, con mia moglie e i miei figli mica viviamo con la mascherina. Anche con gli amici: se uno sta male va dal medico, ma se sta bene può venire a cena da noi». 

Certe precauzioni sono esagerate?

«A volte ho questa impressione. Io sono un semplice cittadino e capisco che chi ha responsabilità si preoccupi di più. Però leggo che tra poco non ci sarà più l'obbligo della mascherina all' aperto». 

Che cosa l'ha colpita di più del caso Eriksen?

«Bisogna indagare su perché gli è successo. Qualcuno ha detto che potrebbe essere stato a causa del vaccino». 

L' amministratore delegato dell'Inter Beppe Marotta ha smentito, la motivazione sembra di natura cardiaca.

«Indaghino e dicano qual è stata. Bisogna anche chiedere ai medici che gli hanno concesso di giocare finora quali erano le loro conoscenze».

Se dovesse fare una modifica per migliorare il mondo del calcio da cosa comincerebbe?

«Regolamenterei il ruolo dei procuratori. Fino a qualche tempo fa chiunque poteva inventarsi procuratore di giocatori e allenatori. Adesso sostengono un esame ridicolo per iscriversi a un albo. Mi meraviglio che Uefa e Fifa non intervengano su questa situazione». 

Due anni fa ha frequentato il corso allenatori a Coverciano, qualche società l'ha contattata?

«Nessuna perché non ho procuratori. Credo di poter aiutare una squadra di calcio sebbene non sia più giovane. Anche Dino Zoff ha pagato questa situazione. È stato presidente della Lazio, poi allenatore. Ma quando si è interrotto il rapporto non ha più trovato spazio perché si è rifiutato di farsi gestire da un procuratore».

Quand' era calciatore ce l'aveva?

«No. Avevo rapporti diretti con il presidente della società per la quale giocavo e rinnovavo il contratto discutendolo direttamente con lui. Oggi i procuratori cominciano a gestire i bambini da quando hanno 5 o 6 anni. So di genitori nauseati perché vanno avanti i bambini gestiti dal procuratore e non i migliori. Ho suggerito di denunciare questa situazione, ma mi rispondono che i loro figli ne avrebbero più danni che vantaggi. Così tutto rimane com' è. Anche le società non si ribellano».

Il caso di Gianluigi Donnarumma ha mostrato che certi calciatori sono più dei procuratori che delle società?

«Evidentemente Donnarumma si trova bene così e avendo un contratto con Raiola è costretto ad ascoltarlo. Ai miei tempi c' era l' Aic, l' associazione calciatori, che si occupava di aiutarli. Adesso mi chiedo a cosa serva. Abbiamo fatto tante battaglie per liberare i calciatori dalla schiavitù delle società e ora sono ostaggi dei procuratori. Il caso di Donnarumma mi ha molto meravigliato». 

Ha visto che Franck De Bruyne, il capitano belga del Manchester City, ha rinnovato il contratto senza ricorrere a procuratori ma basandosi solo sull' analisi dei dati del suo gioco?

«È la conferma che i procuratori non sono indispensabili. Ai miei tempi facevamo già senza di loro. Non capisco perché ci debba essere un terzo incomodo che è, per altro, una spesa inutile per le società». 

Tra le cose da cambiare ci sono anche gli stipendi dei calciatori?

«In questo particolare momento è una situazione molto pesante per le società. Mi meraviglio che accettino le condizioni imposte dai procuratori». 

Calciatori troppo pagati?

«Non lo so. Se uno chiede 10 e glieli danno, li prende». 

Cosa pensa del Var?

«Mi sembra un'ottima innovazione. Se uno strumento tecnico aiuta l'arbitro a eliminare gli errori, tutti ne traggono vantaggio. Chissà se fosse stato attivo ai miei tempi quante volte mi avrebbe dato ragione». 

Che idea si è fatto della Superlega?

«Mi sono meravigliato che società così importanti si siano imbarcate in quella iniziativa senza preoccuparsi delle conseguenze che avrebbe avuto su tutto il sistema. Credo che i numeri uno debbano sempre misurarsi con i numeri cinque sei o sette. Tutti devono avere l'opportunità di migliorarsi. Magari succede che poi vince la squadra sfavorita.

A me è capitato di perdere uno scudetto all' ultima giornata, sconfitto in casa dal Bari che si era appena salvato». 

In Nazionale fanno faville Berardi e Locatelli del Sassuolo che la Superlega non la giocherebbero.

«Le loro prestazioni sono frutto di un percorso lungimirante. Com' è stato quello dell'Atalanta, altra squadra che non sarebbe iscritta alla Superlega. Un' idea che per fortuna è morta prima di nascere». 

È vero che da bambino era juventino?

«Ad Alessandria arrivavano le notizie da Torino perciò simpatizzavo per la Juventus che vinceva. Poi ho iniziato a giocarle contro con l'Alessandria e il Milan e tutto è cambiato».

Un ricordo di Giampiero Boniperti?

«È stato un ottimo giocatore e un altrettanto ottimo presidente. Una persona seria che ha lasciato un ottimo ricordo di sé a tutti». 

Tolto Gianni Rivera, chi è il più grande giocatore italiano di sempre?

«No, guardi, è difficile fare queste classifiche. Non c' è nessuno, neanche Rivera. Gli unici grandi, superiori a tutti sono Pelè per una ragione e Maradona per un'altra. Se il calcio non fosse esistito, Pelè l'avrebbe insegnato lui a tutti, destro, sinistro, colpo di testa, tutto. Dopo di lui tutti gli altri sono secondi, terzi e quarti».

Pelè. "operato per un tumore": lo svenimento, poi il ricovero e la scoperta choc.  Libero Quotidiano il 06 settembre 2021. Alla fine è crollata la cortina di fumo che proteggeva la reale situazione di Pelè. In giornata era uscita la notizia del suo ricovero all’ospedale Albert Einstein di San Paolo, dove l’ex fuoriclasse brasiliano si trova da martedì scorso. Negli ultimi sei giorni non era però emerso nulla: ufficialmente si era parlato di semplici esami di routine, ma in realtà le indiscrezioni secondo cui si trattava di qualcosa di serio hanno trovato conferma. Pelè è infatti stato operato per sospetto tumore al colon, scoperto durante i controlli medici. A renderlo noto è stato direttamente l’ospedale: “Il tumore è stato identificato durante gli esami cardiovascolari di laboratorio di routine e il materiale è stato inviato al laboratorio per l’analisi istologica”. Poi è arrivato anche il commento dell’ex fuoriclasse brasiliano, che inizialmente aveva smentito le ricostruzioni secondo cui sarebbe svenuto e per questo sarebbe andato in ospedale. “Sabato scorso sono stato operato per rimuovere una lesione sospetta al colon destro - ha dichiarato Pelè - il tumore è stato identificato durante i test di cui ho parlato la scorsa settimana. Sto bene e vincerò anche questa battaglia”. Il post a cui far riferimento è il seguente: “Non sono svenuto. Ci sono andato per esami di routine che non ero riuscito a fare a causa della pandemia. Fate sapere che non potrò giocare domenica prossima”.

Guido De Carolis per corriere.it il 7 settembre 2021. Paura e fiducia. Il più grande di sempre, di tutti. Un nome conosciuto in ogni angolo del pianeta. Il mondo trema per Pelé, eterno re e simbolo del calcio, titolo conteso con l’altro grande da poco scomparso: Diego Armando Maradona. O Rei da sei giorni è ricoverato all’Albert Einstein Israelite Hospital di San Paolo, sabato è stato operato al colon per un sospetto tumore. L’esame istologico chiarirà. A 80 anni il fisico della Perla Nera è provato, da varie operazioni all’anca che gli impediscono da tempo di camminare in sicurezza, dall’ultimo ricovero del 2019 a Parigi per un’infezione alle vie urinarie, da una sospetta depressione di cui parlò il figlio ma che proprio Pelé si affrettò a smentire. Lui, leggero e leggiadro quand’era in campo, misurato fuori, non ha perso l’ironia e la voglia di vincere. «Affronto questa partita con il sorriso sulle labbra, tanto ottimismo e gioia di vivere, circondato dall’amore della mia famiglia e dei miei amici», il messaggio sui social del fuoriclasse, nel tentativo di rassicurare il mondo. Al momento in terapia intensiva, da cui dovrebbe uscire martedì, Pelé è ricoverato dallo scorso martedì. Entrato in ospedale per controlli al cuore e per esami di laboratorio che dovevano essere di routine, è stato operato sabato. Che non stesse bene si era capito subito, il suo entourage aveva tentato di rassicurare con frasi di circostanza, inutili. Si era parlato di uno svenimento, negato dal fuoriclasse sempre via social, ma l’ammissione di dover combattere contro un tumore l’ha data lui stesso. «Sabato sono stato sottoposto a un intervento chirurgico per una lesione sospetta al colon destro. Il tumore è stato identificato durante gli esami di cui ho parlato la settimana scorsa. Amici miei, grazie mille per i gentili messaggi. Ringrazio Dio perché mi sento bene e per aver permesso al Dr. Fabio e al Dr. Miguel di prendersi cura della mia salute». Pelé ha fiducia e con lui il mondo intero, non solo quello del calcio. L’ex fuoriclasse, tre volte campione del mondo con il Brasile, è un’icona intramontabile, resistente al tempo e alle generazioni che passano ma continuano a vivere nel suo mito. «Per fortuna, sono abituato a festeggiare grandi vittorie con voi», l’augurio di Pelé a se stesso e ai tutti i tifosi. Il quotidiano brasiliano O Globo ha un’intera sezione dedicata alle Notícias sobre Pelé, non è difficile capire il perché. La decisione di rendere nota la malattia per tranquillizzare il mondo è un altro colpo di classe di un’infinita carriera, in cui ha incantato con le folle. Il mito di Pelé è cresciuto dentro e fuori dai campi, con film leggendari da Fuga per la vittoria, quello con la mitica rovesciata e il gol in faccia ai nazisti, al biografico Pelé che ha portato sul grande schermo il riscatto di un giovane cresciuto nelle favelas e diventato il dio del calcio. La faccia però è sempre la stessa, sorridente e spensierata. Pure nell’ultima foto postata sui social, quella in cui ha rivelato di avere il tumore. Indossava la maglia verdeoro del Brasile, in mano l’immancabile pallone, compagno di una vita irresistibile, con cui Pelé vuole segnare un altro gran gol. 

Lutz Eigendorf. Il “Beckenbauer dell’Est” che voleva scavalcare il muro. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 13 settembre 2021. Un’auto era ferma sul ciglio della st­rada che unisce Braunschweig e Querum, dalle parti di Brunswick, in Sassonia, Germania Ovest a quei tempi. Era la sera del 5 marzo 1983, verso le undici. L’auto era probabilmente appostata su di una curva a gomito, una curva della morte. In posizione tale che l’uomo al volante avrebbe potuto accendere d’improvviso i fari, gli abbaglianti, ed avrebbe così accecato l’uomo al volante che venisse in direzione contraria facendogli perdere il controllo della sua vettura e portandolo a schiantarsi su uno degli alberi che accompagnavano il disegno della strada. “Abbagliare”: il meccanismo e la parola sono scritti in uno dei rapporti della Stasi, la polizia segreta della Germania Est, a quei tempi: è il “metodo lampo” inventato per eliminare un “nemico del popolo”. Un omicidio che potesse passare per un incidente d’auto. È questa la tesi sostenuta da Herbert Schwan, giornalista d’inchiesta, che sul fatto avvenuto quella sera ha anche diretto un documentario, intitolato “Morte di un traditore”. Il “traditore”, che guidava la sua Alfetta GTV, l’auto che veniva a mano contraria, si chiamava Lutz Eigendorf; era un calciatore di 26 anni, era stato il “Beckenbauer dell’Est”, come lo avevano chiamato gli appassionati del pallone, incantati dallo stile elegante di quel centrocampista nato a Brandeburgo sulla Havel, la città che dà il nome alla celebre Porta di Brandeburgo, simbolo di Berlino. A 14 anni Lutz era stato “arruolato” dalla Dinamo Berlino, la squadra della Stasi, e di Erich Mielke, il capo di quei servizi segreti che invadevano ogni luogo e ogni vita nella Ddr. A 18 anni Eigendorf esordì in prima squadra, a 22 in nazionale. L’anno che la Dinamo Berlino cominciò a vincere scudetti, la stagione ’78-79, e ne avrebbe vinti dieci consecutivi, Lutz era dei loro. Il metodo era dei più semplici e collaudati: arruolare i migliori calciatori del Paese, che non avevano possibilità di rifiutare il trasferimento, e designare per la direzione delle partite gli arbitri più “sensibili”, per non dire compiacenti. Il 19 marzo 1979 la Dinamo Berlino era a Kaiserslautern, nella Germania Ovest, per disputare un’amichevole: la prima di una squadra dell’Est in Occidente. Perse 4 a 1. Lutz Eigendorf aveva giocato un mese prima, l’11 febbraio, quella che sarebbe stata la sua ultima partita in nazionale: a Baghdad, contro l’Iraq, vittoria per 2 a 1. La sera dopo la partita di Kaiserslautern Lutz non riusciva a dormire: si alzò dal letto della sua camera all’Hotel Savoy e scese nella hall e poi nel bar per bere qualcosa. Il suo compagno di birre fu un uomo che si presentò come l’accompagnatore degli arbitri per conto del Kaiserslautern. Conversarono, bevvero. Quando Lutz si alzò dallo sgabello, l’uomo gli dette il suo biglietto da visita. La mattina dopo Eigendorf, i suoi compagni di squadra e lo staff, salirono silenziosi sul pullman della Dinamo che li avrebbe riportati a Berlino Est. Il bus si fermò a una stazione di servizio dalle parti di Giessen, nell’Assia, territorio dell’Ovest, che era anche sede stanziale di soldati americani. La stazione di servizio non distribuiva soltanto carburante e cose da macchina. C’erano un bar e un supermercato. Quelli della Dinamo avrebbero potuto prendersi qualcosa da bere, una birra o un caffellatte secondo i gusti, e anche spendere un po’ di quei marchi che avevano intascato e che all’Est non sarebbero serviti. Jeans, dischi, qualche regaletto per parenti ed amici la mercanzia preferita. Il bar e il negozio erano già in pieno andirivieni. Lutz scese dal bus con i compagni. Approfittò della confusione, forse sgomitò in mezzo ai clienti che entravano e uscivano dal bar, vide un taxi libero, vi salì, si sdraiò sul sedile posteriore e consegnò all’autista il biglietto da visita che aveva ricevuto la sera prima: era il solo aggancio che aveva a Ovest. Aveva scelto la libertà, per dirla all’occidentale; aveva tradito, per dirla all’orientale. Aveva tradito il suo Paese, la sua squadra, i suoi compagni e, soprattutto, la Stasi ed Erich Mielke: avrebbe dovuto pagarla. Aveva lasciato nella Ddr la sua compagna Gabriele e la loro figlia Sandy. Scattarono immediatamente le contromisure. Il Kaiserslautern si offrì di “comprarlo” ma la Dinamo negò l’autorizzazione. Eigendorf fu squalificato per un anno per non aver rispettato il proprio contratto: non poteva giocare da nessuna parte. Gabriele divenne l’oggetto dell’”Operazione Rose” che prevedeva l’impiego degli “agenti Romeo”. Erano reclutati speciali che avevano l’arma della seduzione. E del successivo ricatto sessuale. Gabriele cadde nella rete dell’agente Peter: lo sposò anche e questi adottò Sandy. Scontata la squalifica, Eigendorf giocò per il Kaiserslautern. Ma non riuscì a crescere, fra infortuni e involuzione tecnica, nel “Beckenbauer” che era stato annunciato. Due stagioni dopo era passato all’Eintracht Braunschweig, che non era il massimo. Lì aveva ritrovato un amico dei vecchi tempi della Ddr, Karl Heinz Felgner ex pugile, campione dei pesi leggeri e dei pesi piuma nella Ddr. “Ho avuto il permesso di espatrio perché persona non gradita al regime” gli confessò subito Felgner. Lutz ci credette. Iniziarono a frequentarsi di continuo. Felgner annotava diligente che marca di cioccolato preferisse Lutz, quante confezioni di preservativi comprasse, che latte bevesse e quanti caffè consumasse ogni giorno. Erano l’oggetto dei suoi rapporti dettagliati: era un agente della Stasi, anche uno di quei “Romeo” che avevano tentato, senza fortuna, Gabriele. Tornerà nella storia di Lutz. “Avrei dovuto uccidere io Eigendorf” disse durante un processo nel quale era accusato di rapina nel 2004. “Ma non l’ho fatto”. Lo fece qualcun altro? Eigendord il 5 marzo 1983 era stato in panchina nel match contro il Bochum, perso 2 a 0. Uscì dallo stadio, prese l’Alfetta, si fermò al “Cockpit” a bere un paio di birre. Erano le undici. Salì in macchina. Si avviò verso quella curva. Trentaquattro ore dopo era morto per le ferite riportate schiantandosi contro un albero. Il suo tasso alcolemico nel rapporto della polizia, era di 0,22. Avrebbe dovuto bere tre litri e mezzo di birra. Il caso fu archiviato come “guida in stato di ubriachezza”. Dell’auto misteriosa sul ciglio della strada nessuna traccia. Dell’incidente nessuna nota nei rapporti della Stasi resi pubblici dopo la caduta del Muro. Quelli fra il 1980 e il 1983 erano scomparsi dagli archivi.

Bela Guttman. Quel premio non dato e la maledizione del Benfica. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 6 settembre 2021. Bela si svegliava la mattina di ogni santo giorno nella sua cameretta, nella casa di Budapest dove era nato e cresceva. Si stropicciava gli occhi e si rigirava fra le lenzuola, e sempre quelle voci, quelle parole, “arabesque, arrière, glissade, pirouette, reverence”; sempre quelle musiche che presto avrebbe imparato essere di Tchaikowsky, “Lo schiaccianoci”, “La Bella Addormentata”, “Il lago dei cigni”. Nell’altra stanza Abramo ed Esther Guttman, i suoi genitori, si scaldavano, si allenavano. Erano ballerini classici. Doveva diventarlo anche lui e lo diventò, il che gli tornò comodo più tardi in America: a 16 anni era già istruttore di danza classica. Però in quei minuti di dormiveglia fra il sognare ancora e il non ancora vivere la quotidianità, Bela aveva anche altre visioni: il tackle e il dribbling, l’assist e il gol. Perché Bela Guttman voleva anche diventare calciatore. E lo diventò. Bravo, anche in nazionale. Formidabile e rivoluzionario come allenatore, in giro per tutto il mondo, in 14 Paesi diversi. Eppure la sua fama imperitura rimane legata a una sola e semplicissima frase: “Una squadra portoghese non vincerà una Coppa Europea per 100 anni e il Benfica mai più”. È “la maledizione di Guttman”, pronunciata sbattendo la porta dell’ufficio presidenziale del Benfica stesso, dopo aver vinto per la seconda volta la Coppa dei Campioni, ripetendo il successo dell’anno precedente, quello che aveva interrotto la grande abbuffata del Real Madrid che aveva vinto tutte le prime cinque edizioni del trofeo. Guttman chiedeva un bel premio e un “ritocchino” per l’ingaggio dell’anno dopo. Gli dissero: non hai vinto anche il campionato (secondo) perciò niente. “Non ho due culi per sedermi su due sedie” osservò Guttman. Non sapeva che non ce n’è bisogno, come avrebbe dimostrato anni dopo Josè Mourinho, che al triplete non ne aveva tre; lo stesso Mourinho che allenando il Porto smentì la prima metà della maledizione, vincendo coppe. Resta, ormai sessantenne, quella sul Benfica.  Bela la lanciò nel 1962, i primi di maggio. La squadra portoghese, che l’anno prima aveva sconfitto in finale il Barcellona, si trovò di fronte il Real Madrid: Guttman ritrovava il “vecchio amico” Ferenc Puskas che giocava in coppia con Alfredo Di Stefano, due dei top di sempre. Il match si mise male per il Benfica: sotto di due gol. Pareggiò e ne prese un terzo. Ma, dopo l’intervallo, suonò un’altra musica: il Benfica vinse 5 a 3. Fu allora che l’allenatore ungherese si presentò all’incasso: respinto, si dimise e maledisse. Subito, l’anno successivo, il Benfica raccolse gli effetti di quella frase: perse la terza finale disputata consecutivamente (la coppa fu del Milan). Altre quattro volte i portoghesi hanno disputato quella finale: nel ’65 contro l’Inter, nel ’69 contro il Manchester United, nell’88 contro il Psv Eindhoven (ai rigori) e nel ’90 contro il Milan, a Vienna. I dirigenti del Benfica cercarono di placare gli spiriti maligni e Bela Guttman mandando Eusebio, il più grande giocatore della loro storia, a portare un rigoglioso mazzo di fiori sulla tomba di Guttman, che è sepolto nell’amata Vienna. Se placò quegli interessati, non è dato sapere: di certo non placò Rijkard, che segnò il gol vincente rossonero. Il Benfica è stato anche sconfitto in una finale di Coppa Uefa (nell’83 contro l’Anderlecht) e due dell’Europa League (2013 contro il Chelsea e 2014 contro il Siviglia). Il calciatore ballerino piaceva ai raffinati palati ungheresi innamorati del calcio danubiano, come si cominciò a definire il modo di interpretare questo sport un po’ alla brasiliana tra Vienna e Budapest, contrapposto alla fisicità del calcio delle origini, quello britannico: appena compiuti i 18 anni lo misero in prima squadra. A lui, però, non piaceva quel clima politico e sociale che si respirava anche in quella Ungheria del dopo Grande Guerra che si andava spargendo a Budapest, autoritarismo e antisemitismo che lo colpivano direttamente con il regime instaurato dal reggente (in attesa di un re d’Ungheria che non tornò mai più). Il reggente si chiamava Horthy ed era una specie di Orban del tempo. Bela Guttman si trasferì a Vienna, città che avrebbe amato più di ogni altra in cui visse e lavorò, fossero San Paolo del Brasile o Milano, Madrid o Amsterdam, Atene o Trieste, Montevideo o New York, Lisbona o Budapest dove tornò con successi speciali (la Honved, che era il Barcellona o il Real degli Anni Cinquanta) e andò pure a Nicosia, nell’isola di Cipro per un gesto d’amore: alla moglie malata i medici avevano ordinato di vivere in un clima mediterraneo e lui andò proprio in mezzo al mare consigliato. A Vienna vinse il primo scudetto della sua vita, con la squadra dell’Hakoah, che aveva il supporto della comunità ebraica della capitale austriaca. Qui si laureò: in psicologia. Del resto era la città di Sigmund Freud. Poi “fece un’esperienza” insolita per gli Anni Venti: andò negli Stati Uniti dove, specie gli emigranti europei, cercavano di lanciare il calcio, in un Paese che amava tutti altri sport. Notò Guttman come il pubblico degli States si eccitasse e incitasse i giocatori quando i loro tiri finivano altissimi sulla porta, mentre restavano freddi quando il pallone “s’insaccava” in rete. Questione di punti di vista. I dollari erano pochi, nonostante il sostegno della lobby ebraica che aveva fondato una squadra chiamata Hakoah All Stars, sull’esempio viennese, e con la quale Guttman e altri correligionari giocò dopo una stagione ai New York Giants. Fu allora che il ballo imparato a Budapest gli tornò comodo: aprì con il fratello una scuola di danza, che coinvolgeva specialmente i portuali di New York, che non erano tipi da tutù ma pagavano bene. Mise da parte un buon gruzzolo, ma arrivò il crollo di Wall Street e Bela ha sempre sostenuto di aver perso quel giorno almeno 150 mila dollari. Tornò in Europa per la carriera da allenatore. Scavallò Hitler, il nazismo e le persecuzioni, mentre tutti i suoi familiari finirono in campi di concentramento. Se gli chiedevano “come hai fatto?” si limitava a dire “Dio mi aiutato” senza dilungarsi in racconti: una rimozione da psicologo? Fu un rivoluzionario con il suo calcio offensivo, il papà di Rinus Michels e Arrigo Sacchi, il nonno di Guardiola e Klopp. Anche lui faceva “stranezze”. Come quella di appendere pneumatici a pali e traverse, obbligando i suoi tiratori scelti a insistere finché il pallone non passava attraverso il buco (“migliorano la mira” diceva). O quell’altra, al momento di dare la formazione che sarebbe scesa in campo, di passare in rassegna tutti i disponibili schierati in fila: li obbligava a respirare, perché voleva scegliere quelli che lo facevano a pieni polmoni (“ci vuole aria buona per giocare”, diceva). Era il direttore tecnico della Honved nel ’56, la squadra di Puskas che, in tournée brasiliana, scelse di non tornare a casa a Budapest sotto il tacco dei carri armati sovietici e si sparpagliò per il mondo dispensando grande calcio. Poi venne, tra il tanto altro, il “maledetto” Benfica. Quella frase del ’62 fu anche un autogol: perché anni dopo tornò a Lisbona. Naturalmente senza vincere coppe.

Beppe Furino. Timothy Ormezzano per torino.corriere.it il 29 marzo 2021. Beppe Furino ha perso una parte di sé. E il suo strazio strazia. La gloria della Juventus ha avuto un fisiologico bisogno di qualche giorno per rivisitare il dramma che lo ha sconvolto, tentando di riempire almeno di parole il vuoto che ha invaso la sua esistenza. Furino racconta i tempi (stretti) e i modi (atroci) con cui il Covid ha portato via la moglie, Irene Vercellini: «Sono davvero frastornato, è accaduto tutto troppo in fretta». Pausa. Respiro. E poi un angosciante mea culpa: «Purtroppo credo di avere fatto da untore, portando a casa il virus. Ci ha preso tutti, in famiglia. Ma mentre noi guarivamo lei cominciava ad avere seri problemi di saturazione. Da quando è stata ricoverata non l’ho più vista. Non dimenticherò mai questo dolore tremendo».

Sua moglie era anche una apprezzata politica.

«Tanto da tirare dentro anche me. Se sono entrato nel consiglio comunale di Moncalieri l’ho fatto per lei, che amava la politica quasi quanto la Juve».

Si dice che fosse più tifosa di lei.

«Più di me non è facile, ma era tifosissima, nonché piuttosto accesa nei suoi comportamenti. Era una vera tifosa da stadio, andava nei distinti al Comunale prima che io la convincessi a seguirmi in tribuna. Erano anni meno esasperati di questi, si poteva anche perdere ma non si perdeva il sorriso. Siamo peggiorati, e mi ci metto dentro anche io. Vivo una tensione che non mi apparteneva».

Un’altra epidemia, da piccolissimo, la obbligò a cambiare casa.

«Ci furono dei casi di tifo in Campania, nel paese di mio padre, dalle parti di Nola. Andai a vivere per un anno dai miei nonni materni a Ustica. Avevo tre o quatto anni. Allora non avrei mai pensato di diventare un calciatore, a casa mia l’unico tifoso ero io. Ero juventino ben prima di arrivare a Torino, a dodici anni. I primi calci in piazza d’Armi, qualche torneo all’oratorio di Santa Rita e dopo appena un mesetto l’approdo nella mia squadra del cuore, nel Nucleo Addestramento Giovani diretto dal mitico Pedrale. La mia carriera è stata una cavalcata felice, il calcio mi ha dato tutto».

Nessuno rimpianto? Solo tre presenze in Nazionale...

«Nessun rimpianto. Anche se ai Mondiali in Messico 1970 avrei potuto giocare un po’ di più. Avevamo una signora squadra, con un centrocampo fortissimo: Mazzola, Rivera, De Sisti, Bertini, Cera. Ma avrei potuto far rifiatare qualcuno, in modo da presentarci in finale un po’ meno cotti o addirittura bolliti».

«Inutile prendere Platini se il gioco poi passa dai piedi di Furino», disse l’Avvocato. È vero che il suo rapporto con Le Roi non fu idilliaco?

«Smentisco. Michel era un bravo ragazzo, era l’astro nascente, mentre io andavo per i 38 anni, ero a fine carriera, avevo già fatto tutto quello che dovevo fare. Con personalità, forza morale e carattere».

I suoi derby erano all’insegna del tremendismo. Furino contro Ferrini, per dire.

«Altri tempi, altri derby. Il Toro lottava con noi per lo scudetto. Ma anche l’ultima Juve è cambiata, una sconfitta come quella contro il Benevento non si vedeva da anni. Più che deluso mi ha sbalordito. Non andare in Champions sarebbe un disastro totale. Mi auguro che sabato contro il Toro la squadra ritrovi le motivazioni, anche se non capisco come possano mancare a chi è strapagato per fare il mestiere più bello del mondo: ma di cosa stiamo parlando?».

Lei non ama essere definito una bandiera bianconera perché detesta stare su un piedistallo, vero?

«Confermo. Quel termine non mi è mai piaciuto. E se non ho avuto una seconda vita alla Juve è colpa mia: l’avvocato Chiusano mi tormentava affinché facessi il corso da tecnico a Coverciano. Ma io niente».

Pirlo invece ha accettato.

«Diamogli tempo. Non dipende tutto da lui. Anzi, secondo me l’80% del lavoro, nel bene o nel male, lo fanno i giocatori. Senza togliere niente a Conte o Allegri, anche Pirlo avrebbe vinto facilmente con Pirlo, Marchisio, Pogba e Vidal a centrocampo».

Il nuovo Furino è Barella?

«Mi piace molto. L’avrei voluto alla Juve: ha personalità, qualità e agonismo».

E poi ci sono i suoi due nipotini, gli eredi diretti.

«Già, due maschietti che al momento se ne fregano del calcio. Vedremo più avanti, c’è tempo. Il più grande ha solo 7 anni, lo vedo fare i compiti di seconda elementare con la Dad. In piena pandemia ci siamo riuniti tutti a casa mia, dove però è rimasto un vuoto enorme».

Massimo Gramellini per corriere.it il 31 marzo 2021. Conosco bene il senso di colpa da cui è attraversato l’ex calciatore Beppe Furino, convinto di avere introdotto lui in casa il Covid che gli ha appena portato via la moglie. Quell’ombra l’ho vista per anni nello sguardo di mio padre. Diversi i contesti e le circostanze, analogo il copione. La persona che hai amato tutta la vita è appena scomparsa e tu sei lì, inebetito dal dolore, a chiederti che cosa avresti potuto fare di più, o di meno, per salvarla. Nella mente scatta il gioco perverso dei «se»: rivivi ogni scelta recente, compresi i gesti che hai compiuto senza pensare alle conseguenze, soprattutto quelli. Nel caso di una pandemia esiste già anche una parola per definirti: untore. Gliel’hai attaccato tu, il virus. Non ne hai la certezza scientifica, ma è un verdetto che ti scorre nelle ossa. E serve a poco dirti che, di solito, a sentirsi in colpa sono proprio quelli che non hanno colpe. Dovendo pur dare un bersaglio al tuo dolore, scegli te stesso. Mio padre trascorse i primi anni dopo la morte di mia madre a rimuginare su manchevolezze presunte, o comunque distorte nel ricordo. Un lavorio infernale del cervello che si placava solo la domenica del derby, quando andava allo stadio a tifare, e spesso a godere, contro la Juve di cui Furino era il capitano. Non sembri blasfemo: tutti abbiamo provato sulla nostra pelle come per lenire i dolori dell’anima l’unico balsamo a effetto rapido siano le emozioni futili. Per guarire, invece, serve il tempo. E a volte non basta.

Jonathan Bachini. Dagospia il 29 marzo 2021. La storia di Jonathan Bachini è simile a tante altre storie di separazioni tra genitori e di relazione con i figli. Una differenza nella storia di Jonathan Bachini sta nel fatto che le sue figlie sono andate a rimostrare il loro disappunto in televisione, in un noto programma televisivo. «Nostro padre ci mancava», «la porta per lui sarà sempre aperta» hanno raccontato le due figlie di Bachini. «Anche loro mi mancano e la mia porta è sempre aperta». Ma al netto delle intenzioni sono due anni che non si vedono e sentono: perché? Per quale segreto motivo padri e figli vogliono vedersi ma alla fine non ci riescono mai? Una traccia per comprendere questo è nell’intervista al diretto interessato che forse avrebbe amato maggiore riservatezza per poter, forse, risolvere i problemi pregressi.

Giovanni Terzi per “Libero quotidiano” il 29 marzo 2021. «Sono Zlatan anche senza aver vinto tutte le partite. Sono Zlatan quando vinco e quando perdo. Ho fatto più di 500 gol ma ne ho anche sbagliato qualcuno. Pochi. Qualche rigore è andato male, ma il fallimento non è il contrario del successo, ma è una parte del successo». Queste le parole di Zlatan Ibrahimovic sul palco di Sanremo durante il monologo nell' ultima serata del Festival. Un discorso motivazionale dove una delle parti più importanti, quella in cui molti di noi si sono riconosciuti, è stata quando il campione svedese raccontava come il fallimento fosse una parte e non il contrario del successo. Credo che molti di noi, ognuno nel proprio ambito professionale ed umano, hanno dovuto ricominciare tutto da capo e questo, soprattutto oggi, avviene in una società sempre più fluida dove gli ambiti professionali si sono trasformati in luoghi fragili. Reinventarsi, cambiare lavoro, resistere e trasformarsi sono, soprattutto dopo un anno di pandemia, le parole ricorrenti. Così è successo a Jonathan Bachini, calciatore professionista con un importante passato sportivo in club come la Juventus, il Brescia e l' Udinese. Bachini giocò qualche partita, convocato da Dino Zoff, anche nella Nazionale maggiore; un ottimo calciatore valutato trenta miliardi di vecchie lire. Anche per lui come ha raccontato Ibrahimovic il fallimento diventa parte del successo di aver trovato un nuovo equilibrio. «E poi ho commesso degli errori e sono stato squalificato a vita». La voce di Jonathan Bachini è di una persona che non avrebbe una gran voglia di raccontare nuovamente la sua vita, quella faticosa che l' ha portato a doversi reinventare, ma la cronaca è spietata e l' appello in televisione delle sue due figlie lo obbliga ad una risposta.

Jonathan cosa è accaduto e perché le tue figlie si sono sentite in dovere di andare nel programma di Barbara D' Urso per lamentarsi della tua assenza?

«Credo che in termini di audience parlare delle criticità nelle famiglie serva ad intrattenere il pubblico incollato alla televisione, lo abbiamo visto con l' affaire Zenga; detto questo non mi aspettavo minimamente un comportamento da parte loro di questo tipo».

Però, in qualche modo, ascoltando l' intervista l' obiettivo delle tue figlie era quello di spronarti ad avere un rapporto con loro, cosa ti ha dato fastidio?

«Certe cose, a mio modesto modo di vedere, si risolvono tra le mura domestiche e soprattutto non ridando in pasto la mia vita passata fatta di dolore ad un programma televisivo. Ho rivisto, nel servizio che precedeva l’intervista, gli errori che ho commesso e a cui ho rimediato con umiltà e tenacia. Non c’era nemmeno un tratto di chi sono ora e di quello che faccio perché, come sempre accade , il bene non fa ascolti. Per questomisono sentito umiliato».

Di fatto sono due anni che non vedi e non senti le tue figlie. Perché?

«Io ho commesso errori anche da genitore e come sempre mi assumo la responsabilità di ciò che faccio ma loro sanno che, fino a due anni fa, io ci sono sempre stato. Facevo mille chilometri al giorno per poter stare con loro anche se dovevo farmi prestare i soldi della benzina e dell' autostrada da qualche amico per raggiungerle. Tra noi c' è sempre stato un grande amore e penso che non sia del tutto vera la loro narrazione. Ma questo non toglie che mancano anche a me e che sarei felice di poterle riabbracciare».

E la sua attuale compagna cosa dice?

«È sempre stata favorevole al rivederle e frequentarle. Però mi creda le cose non sono esattamente come raccontate in televisione».

Cosa stai facendo adesso di lavoro?

«Da sei anni lavoro al Porto di Livorno come operaio e prima ho fatto il barista e cameriere. È stata durissima...».

Perché?

«Prima di tutto è stato faticoso affrontare chi mi amava e dovermi giustificare degli errori commessi. Mi vergognavo, sono stato trattato come il Totò Riina del calcio!».

Mi racconti ciò che è accaduto?

«Ho fatto uso di stupefacenti ma non legati alle partite di calcio ma nella vita quotidiana, in modo saltuario e personale. Ad un test antidoping sono stato trovato positivo alla cocaina e sono stato sospeso».

Che anno era?

«Era la stagione 2004/2005 e il 26 novembre 2004 sono stato squalificato per nove mesi e licenziato dal Brescia, la squadra per cui giocavo. La squalifica viene poi aumentata a un anno dalla Commissione d' appello Federale».

Quindi poi dopo la squalifica torna a giocare?

«Nel Siena ma nel gennaio del 2006 ricado nello stesso gorgo della cocaina».

E cosa succede a quel punto?

«Il Siena nel mese successivo rescinde il contratto ed io vengo dapprima sospeso in via cautelativa, era il 3 marzo 2006, e infine squalificato a vita, con conseguente radiazione, il 30 dello stesso mese».

Come ti sei sentito?

«La seconda volta è stata una mazzata terrificante. Sensi di colpa verso la mia famiglia, i miei figli e nei confronti di chiunque mi volesse bene e avesse riposto fiducia in me».

Ma come mai una seconda ricaduta?

«Credimi per delle leggerezze e delle casualità. Non sono mai stato un "tossico" e non ho mai avuto bisogno di andare in un centro per farmi disintossicare. Era veramente e stupidamente casuale».

E adesso fai ancora uso di sostanze?

«Assolutamente no. Ho, ormai da anni una vita normale dove mi spacco la schiena tutti i giorni facendo l' operaio. Però sono contento di questo. La cosa vera è come il mondo del calcio mi ha trattato...».

Cosa vorresti dirmi...

«Senza fare nomi io credo che ci siano stati tanti ex colleghi che facevano uso di cocaina e mai sono stati radiati a vita; questa la trovo una grande ingiustizia. Anche le persone responsabili di aver venduto le partite non sono state radiate!».

Però lei è riuscito a rialzarsi e a ritrovare un suo equilibrio. È contento di questo?

«Sono sempre stato una persona umile con una gran voglia di risolvere e affrontare i miei problemi. Ho anche avuto la fortuna di avere accanto la mia famiglia e qualche amico...».

Amici nel mondo del calcio?

«Quelli no tranne Edoardo Piovani e Antonio Filippini che ancora adesso sento. Quasi tutti gli altri sono scomparsi».

Ciò che è accaduto a te è eclatante ma ci sono tanti ex calciatori che si sono fatto del male. Perché pensi che accada?

«A volte il successo arriva tanto presto. A ventitré anni ero convocato in nazionale e giocavo nella Juventus, spesso alcuni di noi non sono capaci di gestire tutto questo e, anche momentaneamente, si perdono. Penso però che se io avessi sempre e solo fatto l' operaio tutto questo non sarebbe successo».

Cosa vuol dire?

«Che sono sempre i figli di Zenga o di persone famose che sono richiesti in televisione non altri».

E adesso quale è il suo progetto per il futuro?

«Continuare la mia vita e magari fare ricorso alla Figc per essere reintegrato».

E le figlie?

«Per loro le porte sono sempre aperte».

Carlo Mazzone come Trapattoni, "tutto grazie a mio nipote": un impensabile esordio (a 83 anni). Libero Quotidiano il 04 febbraio 2021. Carlo Mazzone sbarca su Twitter. All'età di 83 anni, 84 anni a marzo, grazie all’aiuto del nipote, Alessio Lancianese, l’allenatore di un calcio che non c'è più e che manca a tanti. Il tecnico che oggi molti ricordano per la corsa sotto la curva bergamasca in occasione di Brescia-Atalanta 3-3 del 30 settembre 2001, ha creato un account personale sul social. Si è fatto aiutare dal nipote, un po' come ha fatto recentemente un collega come Giovanni Trapattoni. I post, per ora, sono pochissimi. Una foto di quando era giovane, quando era un giocatore dell’Ascoli squadra allenata poi quando era di proprietà di Costantino Rozzi, una altra che lo ritrae in famiglia, a Natale, un’altra con la nipotina (“Il bello di essere nonno… e bisnonno”). E due video, uno sul rapporto con Francesco Totti e l’altro relativo a Pep Guardiola, due campioni allenati da mister Mazzone che non perdono occasione per omaggiarlo e ringraziarlo per quello che Mazzone ha fatto per loro. Mazzone ha già raggiunto migliaia follower in pochissime ore: in poco più di quindici ore ha già superato i 3000 fan. Non è una novità social quella di Mazzone. L'ex tecnico della Roma aveva già una pagina Instagram. Poche foto pubblicate del passato: l'immagine con Costantino Rozzi e sempre Mazzone in versione nonno, ma anche omaggi a chi non c'è più, come Maradona o Gazzoni Frascara, il presidente del Bologna che con il tecnico romano in panchina arrivò fino alla semifinale di Coppa Uefa. Mazzone oltre a Roma, Bologna ha allenato Ascoli, Fiorentina, Catanzaro, Lecce, Pescara, Cagliari, Napoli, Perugia, Brescia e Livorno.

Guido De Carolis per il “Corriere della Sera” il 21 marzo 2021. Il bisnonno Carlo Mazzone ha avuto sempre un altro passo. Buon difensore, grande allenatore, nuova icona dei social network: Facebook, Twitter, Instagram. Il 19 marzo ha festeggiato gli 84 anni postando una foto davanti a un cabaret di zeppole alla crema, il dolce per la festa del papà. Il web è impazzito. L'immagine, come usa dire, è diventata virale. Il nipote Alessio gestisce i vari profili e forse neppure lui si aspettava tanto. Migliaia, oltre cinquantamila, «Mi piace», commenti, condivisioni, retweet: un successo clamoroso per uno dei tecnici più amati d'Italia. Sor Carletto si è commosso: «Grazie a tutti per gli auguri, grazie per esserci sempre anche a distanza di tanti anni! Il bello di questa pagina è sentire il vostro affetto nei miei confronti! Non smetterò mai di ringraziarvi! Grazie. Vi voglio bene». Affetto sincero verso un uomo capace di unire e lasciare un bel ricordo in ognuna delle 12 squadre allenate in Italia. Un signore pulito, in un calcio spesso torbido. Un mago delle salvezze impossibili, un eccezionale scopritore di talenti. Fu lui a lanciare un Totti appena sedicenne nella Roma, fu lui a spostare Pirlo davanti alla difesa, regalandogli poi una straordinaria carriera. Fu lui a recuperare Baggio, a donargli gli ultimi eccezionali anni di calcio. Un allenatore amato dai più grandi, anche dal miglior tecnico del mondo, Guardiola che mentre vinceva tutto il possibile con il Barcellona, non si è mai dimenticato di invitarlo. Mazzone era a casa, pochi giorni prima della finale di Champions 2009 tra Barça e Manchester United. «Nonno, corri c'è Guardiola al telefono - mi dice mio nipote -. Chi è? Chiedo. "Mister, sono Pep". Sì e io Garibaldi. E invece era lui che mi invitava alla finale a Roma», raccontò anni fa Mazzone. Quello di Guardiola erano affetto e riconoscenza per gli anni insieme a Brescia. Mazzone in tv era andato tante volte, aveva pure interpretato se stesso nel film L'allenatore nel Pallone 2 , con Lino Banfi. La foto di compleanno sui social però ha scatenato tifosi, simpatizzanti, gente comune. Nella casa di Ascoli, la signora Maria Pia non smetteva più di rispondere al telefono e di ringraziare per gli auguri. Baggio, Totti, Guardiola, tutti hanno avuto un pensiero per il loro mister. Un messaggino, una chiamata per omaggiare un grande dello sport italiano, circondato dall'affetto della famiglia e avviato a 84 anni a diventare una nuova star del web. «Il bello di questa pagina è sentire il vostro affetto», ha scritto Mazzone. Ne è stato travolto, anche da chi come i tifosi della Lazio l'hanno vissuto solo da avversario. Il Cagliari, portato da Mazzone fino in Coppa Uefa, gli ha risposto con una serie di cuoricini. Nato a Roma, è sbarcato il 17 ottobre 1960 a Ascoli da giovane calciatore. «Ero un ragazzo, mi chiamò il presidente della Roma, Anacleto Gianni. "Carlo devi andare a giocare a Ascoli, ti servirà per crescere, poi torni alla Roma". Non sapevo neanche dov' era Ascoli. Attraversai Piazza del Popolo, rimasi colpito dalla sua bellezza e tra me e me dissi: "Ahò, ma qui è bello come a Roma"». Così bello che a Ascoli è rimasto. Ha sposato Maria Pia il 7 luglio del 1963. «Facciamo 58 anni di matrimonio in estate, una vita insieme», sottolinea la moglie. Una donna sempre allegra da cui ha avuto Sabrina e Massimo, il figlio che l'accompagnava ovunque in giro per l'Italia: da Lecce a Brescia, passando per gli anni alla Roma e fino all'ultima tappa al Livorno nel 2006. Un'avventura infinita, uno Stakanov della panchina: 795 presenze in serie A, record imbattuto. Mazzone è un padre amato dai suoi figli e da tanti grandi calciatori, poi è diventato nonno con i nipoti Vanessa, Alessio (di fatto il suo social media manager) e Iole. Infine Cristian, l'ultimo arrivato che l'ha reso bisnonno. Un mito di Ascoli, dove gli hanno appena intitolato la Tribuna Est dello stadio, lo stesso in cui firmò un'impresa memorabile portando i bianconeri dalla serie C alla A in appena due stagioni. Non c'era Internet, Mazzone ora ha sbancato anche lì.

Cristiano Ronaldo. Pallone d’Oro, Cristiano Ronaldo a poche ore dall’assegnazione del premio: “Sono tutte menzogne”. Ilaria Minucci il 29/11/2021 su Notizie.it. Cristiano Ronaldo pubblica un post su Instagram, scagliandosi contro l’imminente cerimonia di premiazione del Pallone d’Oro 2021.Nella serata di lunedì 29 novembre, a Parigi si terrà la cerimonia di premiazione del Pallone d’Oro 2021, durante la quale verrà svelata l’identità del vincitore dell’ultima edizione del premio. In questo contesto, il calciatore Cristiano Ronaldo, cinque volte Pallone d’Oro, non sarà presente alla cerimonia e, data la sua assenza, appare certo che non sarà il vincitore dell’ambito riconoscimento. A questo proposito, inoltre, proprio in relazione ad alcune indiscrezioni recentemente diffuse in relazione alla sua mancata presenza a Parigi, Ronaldo ha deciso di sfogarsi con un post pubblicato su Instagram a poche ore dall’inaugurazione della cerimonia di premiazione. Con il messaggio condiviso sul suo account Instagram ufficiale, il campione portoghese ha deciso di rivolgere aspre critiche nei confronti di Pascal Ferré, caporedattore di France Football, e della rivista francese che si configura come l’organizzatrice dell’evento. In particolare, Cristiano Ronaldo ha denunciato quanto segue: “Il risultato di oggi spiega il perché le dichiarazioni di Pascal Ferré della scorsa settimana, quando ha affermato che gli avevo confidato che la mia unica ambizione era finire la mia carriera con più Palloni d’Oro di Lionel Messi. Pascal Ferré ha mentito, ha usato il mio nome per promuovere se stesso e per promuovere la rivista per cui lavora (France Football). È inaccettabile che il responsabile dell’assegnazione di un premio così prestigioso possa mentire in questo modo, in assoluta mancanza di rispetto per chi ha sempre rispettato France Football e il Pallone d’Oro. E ha mentito ancora oggi, giustificando la mia assenza dal Gala con una presunta quarantena che non ha ragione di esistere”. Il messaggio del calciatore, infine, prosegue nel seguente modo: “Voglio sempre fare i complimenti a chi vince, all’interno della sportività e del fair play che hanno guidato la mia carriera sin dall’inizio, e lo faccio perché non sono mai contro nessuno. Vinco sempre per me stesso e per i club che rappresento, vinco per me stesso e per chi mi vuole bene. Non vinco contro nessuno. La più grande ambizione della mia carriera è vincere titoli nazionali e internazionali per i club che rappresento e per la Nazionale del mio Paese. La più grande ambizione della mia carriera è quella di essere un buon esempio per tutti coloro che sono o vogliono essere calciatori professionisti. La più grande ambizione della mia carriera è lasciare il mio nome scritto a lettere d’oro nella storia del calcio mondiale. Concludo dicendo che il mio focus è già sulla prossima partita del Manchester United e su tutto ciò che, insieme ai miei compagni di squadra e ai nostri tifosi, possiamo ancora realizzare in questa stagione. Il resto? Il resto è solo il resto…”.

Carlos Passerini per il "Corriere della Sera" l'1 dicembre 2021. Di buono, per Cristiano Ronaldo, c'è che il 2021 è quasi agli sgoccioli. È il «quasi» il problema, perché nel mese che manca il suo anno orribile potrebbe addirittura peggiorare. Ma di questo ne parleremo dopo. Fin qui l'unica certezza è che la sceneggiata social dell'altra notte se la poteva evitare: si sarebbe per lo meno risparmiato una figuraccia mondiale di cui non aveva affatto bisogno, dopo un'annata calcisticamente modesta come questa. Tutta colpa del Pallone d'oro, che è un po' come il potere secondo Andreotti: logora chi non ce l'ha. E siccome quest' anno Cr7 non ci è andato neanche vicino, quando ha capito che il trofeo sarebbe andato per la settima volta nella bacheca di Leo Messi, la sua nemesi di una vita, è andato fuori dalle grazie e se l'è presa con quelli di France Football, la rivista che organizza il trofeo che lui peraltro ha vinto cinque volte. È successo che il portoghese ha attaccato direttamente il caporedattore del mensile, Pascal Ferré, colpevole d'aver dichiarato che l'obiettivo principale della carriera di CR7 fosse battere Messi nel numero di Palloni d'oro vinti: «Ha mentito, ha usato il mio nome per promuovere se stesso - si legge nel lungo post rivolto ai suoi 371 milioni di seguaci su Instagram -. Ha mentito giustificando la mia assenza dal Gala con una presunta quarantena che non ha ragione di esistere». Fatto sta che al teatro parigino dove s' è svolta la cerimonia dal vivo o collegati c'erano tutti tranne lui. «Vinco sempre per me stesso e per i club che rappresento, vinco per me stesso e per chi mi vuole bene, non vinco contro nessuno - prosegue il post -. La mia ambizione è vincere titoli nazionali e internazionali, essere un buon esempio per chi vuole essere calciatore e lasciare il mio nome scritto a lettere d'oro nella storia del calcio mondiale». Quest' anno però d'oro non ha vinto nulla. E a testimoniarlo non è tanto il sesto posto nella classifica di France Football, sulla quale ognuno è libero di eccepire, è il bello del gioco, quanto i risultati ottenuti sul campo: nella sua ultima e costosissima stagione con la Juve è arrivato quarto in campionato ed è uscito agli ottavi di Champions, vincendo giusto una Coppa Italia e una Supercoppa italiana prima della clamorosa fuga ad agosto. Davvero pochino per uno come lui abituato a vincere tutto. All'Europeo col suo Portogallo non è andata meglio: ha segnato 5 gol, come solo il ceco Schick, ma è uscito agli ottavi. E ora rischia perfino di restare fuori (l'Italia lo spera) dal Mondiale 2022. La verità è che il problema del 36enne Cristiano ormai è chiaro: resta un campione, segna e segnerà sempre, ma col passare degli anni il suo apporto alla causa collettiva è sempre meno decisivo. Anche al Manchester United sta andando così: alla fine lui la butta dentro sempre, 10 volte in 15 partite, ma il rendimento della squadra è lì da vedere. L'ottavo posto in Premier ha costretto il club a licenziare Solskjaer e a ingaggiare il tedesco Rangnick, che nel 2016 - cinque anni fa - disse esattamente queste parole: «Ronaldo è troppo vecchio». Capito perché potrebbe pure andare peggio?

Marco Beltrami per fanpage.it il 27 novembre 2021. Gioie e dolori, entusiasmo e frustrazione. Ogni squadra di calcio è una famiglia e vive momenti, emozioni e sensazioni forti e anche diametralmente opposti nel corso di una stagione. È quello che conferma la docu-serie di Amazon All or Nothing che racconta i retroscena dell'annata 2020-2021 della Juventus di Andrea Pirlo, aprendo a tutti gli spettatori anche le porte dello spogliatoio e mostrando quello che accade al suo interno. La squadra bianconera nella scorsa stagione ha vissuto una serata molto forte, in cui si è passati dal sogno di una rimonta alla delusione per la cocente eliminazione dalla Champions League, per mano del Porto. La Juve sconfitta per 2-1 in Portogallo, arriva al match di ritorno con la fiducia di poter ribaltare tutto e qualificarsi al turno successivo. Le parole di Pirlo nel discorso pre-partita ("Ci vuole coraggio e fiducia perché sappiamo che siamo i più forti") non trovano seguito in campo, con la squadra di casa che dopo il primo tempo si ritrova sotto di un gol. Al rientro negli spogliatoi l'atmosfera è molto tesa, oltre che per il risultato anche per le difficoltà dei bianconeri di fare gioco, contro una compagine almeno sulla carta inferiore. Ad esplodere è il giocatore più rappresentativo, ovvero Cristiano Ronaldo, in preda alla frustrazione.

La furia di Ronaldo all’intervallo di Juve–Porto

Lo sfogo viene immortalato dalle telecamere di Prime Video: "Facciamo qualcosa di più eh, che mer**a. Non giochiamo niente". A quel punto ecco però che qualcuno prova a ricordare a CR7 in maniera pacata ma decisa, il suo ruolo all'interno del gruppo che dev'essere costruttivo e non distruttivo: "Bicho, tranquillo. Devi essere un esempio per tutti!”. Ronaldo però corregge il tiro e spiega che anche lui si sente responsabile per quanto sta accadendo in campo: "Mer**a. Giocavamo una me**a, sempre! Anche io, anche io. Me compreso! Non stiamo giocando affatto, dobbiamo dirci la verità! Questa è una partita di Champions! Dobbiamo avere personalità". A quel punto tocca a Pirlo fare da paciere e cercare di incanalare tutte le energie sul binario giusto: "Basta, basta dai! Basta Cri, basta Juan… Bisogna avere calma e pazienza, continuiamo con lo spirito, senza litigare ma con calma di quelli forti che vogliono vincere. Ci vuole personalità, ma possiamo farlo solo da squadra, uno che aiuta l’altro. Da soli non si va da nessuna parte". E prima di tornare in campo, ecco l'abbraccio di Cuadrado a Ronaldo. Quello che è certo è che la Juventus tornerà in campo poi con un altro piglio, riuscendo a ribaltare lo svantaggio portando la sfida ai supplementari. Qui però la rete di Sergio Oliveira su punizione (con Ronaldo finito nell'occhio del ciclone per il suo piazzamento rivedibile in barriera) taglia di fatto le gambe alla squadra di Pirlo che alla fine viene eliminata dalla Champions. Una delusione enorme per tutti, ma soprattutto per Cristiano che al ritorno negli spogliatoi sembra inconsolabile. È distrutto il portoghese che inizia a piangere a dirotto. Si toglie le maglie, le getta per terra e non si dà pace tra lo stupore di tutti, in un silenzio surreale. Non è mai stato un mistero la sua sconfinata voglia di vincere, ma queste immagini mostrano quanto sia difficile per lui digerire un fallimento.

Da corrieredellosport.it il 27 novembre 2021. A 36 anni suonati, Cristiano Ronaldo continua a sfoggiare una forma fisica invidiabile. Merito anche della dura disciplina che segue giorno dopo giorno senza sgarrare mai. Non è un segreto che il campione portoghese tenga moltissimo al proprio fisico e alla propria linea: il documentario di Amazon Prime Video "All or Nothing: Juventus" ha però svelato qualche trucco del mestiere per essere sempre in forma. "Io sono il mio dottore personale, il mental coach e il nutrizionista di me stesso - spiega CR7 - Se fai le cose giuste, sarai migliore degli altri".

Cristiano Ronaldo svela il segreto della forma perfetta

Ma quali sono le "cose giuste" di cui parla Cristiano Ronaldo? Senza dubbio prendere il sole fa parte della categoria. "Prendo 20 minuti di sole e so che mi aiuterà - svela l'ex Juve - Il sole fa bene al mio corpo. Ma se stessi qui tutto il giorno mi farebbe male, mi verrebbero le rughe. Invece 30 minuti mi fanno stare bene". "Ho 36 anni e sono ancora qui", conclude Ronaldo. E chi può dargli torto.

Da gazzetta.it il 13 settembre 2021. Non ci sono solo gol e gloria nel ritorno all'Old Trafford di Cristiano Ronaldo. Il gruppo femminista "Level Up" è entrato in azione in occasione della prima di CR7 nel Teatro dei Sogni, volendo ricordare a tutti le accuse di stupro contro il portoghese da parte dell'ex modella americana Kathryn Mayorga. Lo striscione "Io credo a Kathryn Mayorga" ha sorvolato i cieli di Manchester nel corso della gara fra United e Newcastle (terminata col punteggio di 4-1 con doppietta di Ronaldo), prendendosi la scena e l'attenzione dell'opinione pubblica. Gli eventi risalgono a 12 anni fa, quando Kathryn Mayorga aveva denunciato una violenza sessuale da parte di Cristiano Ronaldo in un hotel di Las Vegas. Il campione portoghese non ha mai negato il rapporto sessuale avuto con la ragazza, smentendo tuttavia qualsiasi accusa di violenza di ogni genere. Nel 2010 la modella aveva acconsentito di sottoscrivere un accordo da 300mila euro col calciatore, in modo da non portare il caso in tribunale. Tre anni fa, tuttavia, l'ex modella era tornata alla carica, sostenendo che al tempo dell'accordo non fosse "mentalmente in grado" di acconsentire con lucidità all'accordo. Nell'aprile scorso, quindi, aveva avanzato una richiesta di risarcimento danni al portoghese di 62 milioni di euro (65 milioni considerando le spese processuali). Sul sito ufficiale dell'associazione è apparso un comunicato sul caso Ronaldo: "Un impegno di solidarietà: credo a Kathryn Mayorga. Credo a Kathryn Mayorga quando dice che Cristiano Ronaldo l'ha violentata nel 2009. Credo che Ronaldo dovrebbe essere chiamato a rispondere. Credo nella solidarietà, non nel silenzio. È tempo che il calcio affronti la brutta realtà dello stupro". Il co-direttore del gruppo, Janey Starling, ha dichiarato di voler inviare "un messaggio al calcio che le accuse di stupro non possono essere espulse dal campo".

Dagospia il 9 ottobre 2021. IL SEXGATE DI CRISTIANO RONALDO: IL GIUDICE USA CHIEDE DI RESPINGERE L’ACCUSA DI VIOLENZA SESSUALE NEI CONFRONTI DI CR7 PER IRREGOLARITÀ – L’EX MODELLA KATHRYN MAYORGA AVEVA CHIESTO AL CALCIATORE UN RISARCIMENTO FINO A 200 MILIONI DI DOLLARI. LA DONNA HA RACCONTATO DI ESSERE STATA SODOMIZZATA CON LA FORZA DA CR7 (“RONALDO ENTRO' IN BAGNO CON IL SUO PENE CHE PENDEVA DAI PANTALONCINI. MI IMPLORO' DI SUCCHIARGLIELO”, POI... ) – CR7 HA SEMPRE NEGATO LO STUPRO

Da blitzquotidiano.it il 9 ottobre 2021. La denuncia nei confronti di Cristiano Ronaldo presentata dall’ex modella Kathryn Mayorga, che lo accusa di una violenza sessuale nel 2009, in un hotel di Las Vegas, deve essere respinta per irregolarità: è quanto ha chiesto il giudice incaricato nell’ambito della causa civile davanti alla corte federale del Nevada, causa in cui la donna, che oggi ha 37 anni, chiede al calciatore un risarcimento fino a 200 milioni di dollari. Per il magistrato Daniel Albregts l’accusa è in parte basata su documenti piratati di ‘Football leaks’ che non avrebbero dovuto essere in possesso della donna. Così il giudice accusa l’avvocato di Mayorga, Leslie Stovall, di aver agito in “malafede”. “L’archiviazione del caso di Mayorga a causa del comportamento scorretto del suo avvocato è grave. Ma purtroppo è l’unica sanzione appropriata per garantire l’integrità del processo giudiziario”, scrive Albregts. Infatti anche se Mayorga cambiasse legale, “la corte non sarebbe in grado di dire quanto del caso si basi solo sui suoi ricordi o se siano stati influenzati dai documenti di Football Leaks”. Ronaldo ha sempre negato le accuse di stupro, sostenendo di aver avuto una relazione “completamente consenziente”. La giustizia americana aveva annunciato nel luglio 2019 che queste accuse non potevano “essere provate oltre ogni ragionevole dubbio”, rinunciando quindi a perseguirlo. Nel giugno 2009 Mayorga aveva chiamato la polizia di Las Vegas per denunciare uno stupro, ma si era rifiutata di rivelare l’identità del presunto aggressore. Il caso era quindi stato chiuso. Nel 2010 era stata organizzata una transazione privata con i rappresentanti di Ronaldo: 375 mila dollari in cambio di assoluta riservatezza sui presunti fatti e sull’accordo, e la rinuncia ad ogni causa. Ma per gli attuali avvocati di Mayorga questo contratto è nullo a causa del disturbo psicologico che affliggeva la donna in quel momento e delle pressioni (di cui non c’è prova secondo il giudice Albregts) esercitate contro di lei. Di qui la richiesta fino a 200 milioni di dollari. Nell’agosto 2018 Mayorga aveva ripreso i contatti con la polizia di Las Vegas e chiesto la riapertura del suo caso, accusando pubblicamente Ronaldo per la prima volta. 

Da tuttosport.com il 13 settembre 2021. "Era l'una del mattino e gli ho inviato una foto del mio fondoschiena scrivendogli 'un bacio enorme'. Non avrei mai pensato che mi avrebbe risposto". Così la modella Natacha Rodriguez ha raccontato a 'The Sun' il suo approccio con Cristiano Ronaldo, rivelando di aver passato con lui una notte nel 2015 quando stava passando dalla relazione con Irina Shayk a quella con l'attuale compagna Georgina Rodríguez. "Alle 6 del mattino invece mi ha mandato un messaggio - ha aggiunto Natacha - ed è lì che è tutto è iniziato. Tornando indietro, vorrei non averlo fatto".

Una notte da Ronaldo. E invece, stando a quanto ha raccontato al tabloid britannico, alla fine si sarebbe ritrovata in un appartamento di lusso del calciatore a Lisbona: "Non potevo credere che stavo entrando nell'appartamento di Cristiano Ronaldo. Il mio cuore batteva forte ma lui è stato molto gentile e dolce e mi ha detto di comportarmi come se fossi a casa mia. Così ho preso l'iniziativa, mi sono alzata, ho lasciato cadere i pantaloni e mi sono chinata per mostrargli il fondoschiena. L'ha colpito e ha detto che gli piaceva". Tanto che l'ex juventino gli avrebbe poi anche mandato un ulteriore messaggio: "Mi è piaciuto. Ci rivedremo un giorno. Top secret, per favore. Baci".  

Respinta sui social. Una relazione che sembrava sul punto di decollare insomma, prima di venire invece bloccata su tutti i social network dall'asso portoghese: "Avrò sempre la sensazione che poteva esserci di più per noi, anche se non fossimo diventati fidanzati, ma lui mi ha gettata via e potrebbe fare lo stesso con Georgina. Mi ha fatto male il modo in cui mi ha lasciato, bloccandomi su Instagram dopo aver dormito insieme. Fa ancora male". Natacha mette così in guardia la nuova compagna dell'attaccante: "Cristiano sarebbe una grande conquista per chiunque e Georgina dovrebbe fare attenzione. Dicono che i leopardi non cambiano mai posto e  i calciatori ricevono molta attenzione da belle donne pronte a saltar loro addosso. Sarà lo stesso a Manchester. Nonostante quello che ci è successo, spero e prego che continuino insieme. Sembrano formare la coppia perfetta e credo che Cristiano possa essere cambiato: la sua famiglia è cresciuta e ora è più più vecchio e più saggio".

Da corrieredellosport.it il 9 settembre 2021. Secondo lo studio di un importante professore di matematica dell'Università di Oxford, Cristiano Ronaldo è il più grande calciatore di sempre. Lo studioso ha stilato un elenco dei dieci migliori giocatori di sempre considerando sette diversi fattori: obiettivi del club, titoli del club, obiettivi internazionali, titoli internazionali, premi del Pallone d'Oro, record individuali e "stagioni del fattore z" che sono stati assegnati per stagioni particolarmente decisive come quella di Ronaldo che nella Champions League 2013-14 segnò 17 gol. Nel suo video lanciato da LiveScore che spiega il processo, il dottor Crawford ha innanzitutto ristretto la potenziale top ten considerando solo coloro che hanno vinto il Pallone d'Oro almeno due volte. Gli sono poi rimasti 13 giocatori ai quali ha poi applicato le sette categorie per trovare una top ten definitiva. Ed è stato Ronaldo a primeggiare in classifica con un punteggio di 537 su un massimo di 700, 34 davanti alla leggenda del Barcellona e dell'Argentina Messi. Maradona è invece sorprendentemente in nona posizione. Cristiano Ronaldo ha conquistato il primo posto grazie alle sue incredibili statistiche riguardo a titoli di club, gol internazionali e record individuali, con il dottor Crawford che gli ha assegnato un "punteggio indice GOAT [il più grande di tutti i tempi]" del 100% davanti al 94 di Messi. La superstar portoghese ha recentemente battuto il record di gol in nazionale maschile con la sua doppietta contro la Repubblica d'Irlanda, portando il suo bottino a 111. Al terzo posto c'è la leggenda brasiliana Pelé, con l'ungherese Ferenc Puskas al quarto. Il brasiliano Ronaldo completa la top five, seguito da Marco van Basten e Alfredo di Stefano. Il francese Michel Platini all'ottavo posto. Come detto, Maradona al nono posto e l'icona olandese Johan Cruyff a concludere la top ten.

Guido De Carolis per corriere.it il 7 settembre 2021. Il ritorno di Cristiano Ronaldo al Manchester United è stata una scelta tecnica, di cuore e, soprattutto, di portafoglio. Il portoghese è un’azienda con un fatturato mostruoso che non viene alimentato soltanto dai 25 milioni netti l’anno garantiti dai Red Devils o prima ancora dai 31 che gli versava la Juventus. Il cinque volte Pallone d’oro è una miniera d’oro e il grosso dei guadagni arriva dagli sponsor e dai diritti d’immagine. Quando arrivò alla Juve, tre estati fa, beneficiò della Flat Tax introdotta dal governo Gentiloni. In sostanza Ronaldo, come qualunque altro straniero, pagava un forfait di 100 mila euro l’anno su tutti i redditi provenienti dall’estero, appunto le milionarie sponsorizzazioni. Ai tempi fu un incentivo non da poco e anche per questo scelse il club bianconero pur avendo svariate offerte da tutto il mondo. Il trasferimento al Manchester United sarà ancora più conveniente per CR7. Come rivelato da Il Sole 24 Ore, il portoghese non dovrà pagare neppure i 100 mila euro che versava in Italia. In Inghilterra beneficerà di un bonus chiamato «Res non Dom», residenti non domiciliati: qualcuno che vive e lavora in Inghilterra, ma secondo le leggi britanniche ha la sua «casa permanente» in un altro Paese. Un regime fiscale che, a determinate condizioni, permette di non vedersi tassare redditi esteri, che vengono collocati all’estero e non importati nel Regno Unito. È il caso di Ronaldo che aveva beneficiato dello stesso bonus già nel 2003, quando dallo Sporting Lisbona si trasferì per la prima volta al Manchester United. CR7 avrà diritto per i prossimi sette anni a questo speciale regime di tassazione. Il fisco è da sempre il peggior nemico dei vip e Ronaldo non fa differenza. Il portoghese con le tasse ha sempre avuto un cattivo rapporto. Il fisco spagnolo, particolarmente duro con i vip, per le imposte non versate sui diritti d’immagine tra il 2011 e il 2014 sanzionò in modo pesante l’attaccante. Il portoghese patteggiò due anni di reclusione e il pagamento di una sanzione da 18,8 milioni di euro. A Manchester non dovrà più preoccuparsi degli esattori delle tasse. Il trasferimento dalla Juve allo United non è stato solo una questione tecnica. Certo la cifra risparmiata (100 mila euro) rispetto all’Italia non è eccessiva per uno del calibro di Ronaldo che guadagna oltre 2 milioni netti al mese. Ma si sa, i soldi non sono mai abbastanza.

Cristiano Ronaldo, spuntano le chat private: "Da quanto sapeva di tornare a Manchester", depistati tutti. Libero Quotidiano il 27 agosto 2021. Il Manchester United ha ufficializzato il ritorno di Cristiano Ronaldo, che proprio con i Reds aveva mosso i primi passi nel calcio che conta. Poi al Real Madrid è diventato una leggenda vincendo quattro Champions League, mentre alla Juventus ha trascorso un triennio al di sotto di quelle che erano le aspettative. Adesso a 36 anni il portoghese ha deciso di ripartire da Manchester: ai bianconeri andranno 29 milioni, mentre a lui 30 per i prossimi due anni. Un retroscena curioso lo ha svelato Patrice Evra, vecchio compagno di Ronaldo che a cose fatte ha pubblicato sul suo profilo Instagram lo screen della chat di Whatsapp con il portoghese: dopo un messaggio audio in cui Evra verosimilmente gli ha chiesto in quale squadra andrà a giocare, Cristiano ha risposto “nel nostro club”. Allora l’ex calciatore francese ha capito subito che si trattava del Manchester United. Interessante notare l’orario: erano le 11 di stamattina, quando ancora non si parlava minimamente di un possibile ritorno all’Old Trafford. Anzi, sembrava che l’unica squadra interessata a Ronaldo fosse il City. D’altronde appariva un po’ strano che Cristiano lasciasse la Continassa senza avere la garanzia di trovare un’altra squadra: e invece si è imbarcato sul volo privato già sapendo di finire allo United, con il quale probabilmente era stata condotta la trattativa senza che trapelasse niente già la scorsa notte. Conoscere per deliberare (e per disporre le misure cautelari): ecco perché la morte di Vanessa poteva essere evitata

(ANSA il 27 agosto 2021) Cristiano Ronaldo torna al Manchester United. Il club inglese lo ha annunciato con un tweet: 'bentornato Cristiano Ronaldo". (ANSA). I Red Devils hanno diffuso poco dopo anche una nota, in cui si dicono "lieti di confermare che il club ha raggiunto un accordo con la Juventus per il trasferimento di Cristiano Ronaldo, soggetto al superamento delle visite mediche e delle altre condizioni contrattuali e legali previste".  "Tutti al club non vedono l'ora di dare il benvenuto a Cristiano a Manchester", prosegue la nota, in cui si ricorda che il portoghese, cinque volte vincitore del Pallone d'Oro, ha vinto finora oltre 30 importanti trofei in carriera, tra cui cinque Champions League, quattro Mondiali Fifa per club, sette titoli nazionali tra Inghilterra, Spagna e Italia e un Europeo con il Portogallo. Nel suo primo periodo per il Manchester United, ha segnato 118 gol in 292 partite". Nel frattempo, il volo privato col quale Ronaldo aveva lasciato Torino è sbarcato a Lisbona, e alle tv portoghesi che lo hanno raggiunto l'attaccante aveva detto: "Saprete tutto tra un'ora".  

Fabrizio Rinelli per fanpage.it il 27 agosto 2021. Cristiano Ronaldo ha salutato ufficialmente i tifosi della Juventus dopo il suo passaggio al Manchester United. Il portoghese ha pubblicato un lungo messaggio diretto a tutti i supporters bianconeri ringraziandoli per i 3 anni trascorsi insieme. Un post su Instagram in cui ha raccontato i successi, le soddisfazioni e le emozioni di vestire la maglia bianconera. Il post di Cristiano Ronaldo, con qualche errore di battitura, è stato accompagnato da un video dei suoi momenti migliori alla Juventus. "Oggi parto da un club fantastico, il più grande d'Italia e sicuramente uno dei più grandi di tutta Europa. Ho dato il mio cuore e la mia anima per la Juventus e amerò sempre la città di Torino fino ai miei ultimi giorni. I “tiffosi bianconeri” mi hanno sempre rispettato e ho cercato di ringraziare quel rispetto lottando per loro in ogni partita, in ogni stagione, in ogni competizione. Alla fine, possiamo tutti guardare indietro e realizzare che abbiamo ottenuto grandi cose, non tutto quello che volevamo, ma comunque abbiamo scritto una bella storia insieme. “Juve, storia di un grande amore. Bianco che abbraccia il nero. Coro che si alza davvero. Juve per sempre sara…” sarò sempre uno di voi. Ora fai parte della mia storia, come sento di essere parte della tua. Italia, Juve, Torino, tiffosi bianconeri, sarete sempre nel mio cuore". Cristiano Ronaldo è tornato al Manchester United dopo 12 anni. Il portoghese aveva lasciato gli inglesi nel 2009 per sposare il progetto del Real Madrid con il quale ha scritto la storia prima di accettare il corteggiamento della Juventus che nel 2018 è riuscita a portare il portoghese alla corte di Allegri prima dell'addio del tecnico livornese. Ben 101 gol in bianconero per Cristiano Ronaldo prima di lasciare la società di Agnelli un anno prima della naturale scadenza del suo contratto fino al 2022. Al Manchester United il portoghese guadagnerà 25 milioni di euro netti a stagione più bonus firmando un biennale con i Red Devils. Alla Juventus invece sono andati poco più di 25 milioni di euro che era la cifra richiesta dalla società bianconera sin dal primo momento anche al Manchester City (che ha poi deciso di defilarsi).

Benedetto Saccà per “il Messaggero” il 28 agosto 2021. Suo era il regno, sua la potenza e speravano a Torino la gloria nei secoli. E invece. Cristiano Ronaldo aveva tutto e ogni cosa. I tifosi, i dirigenti, mezza città e i compagni guardavano adoranti e anelanti all'uomo atterrato, quasi di soppiatto, all'aeroporto di Caselle durante la finale mondiale del 2018, credendo di aver finalmente accolto un desiderio divenuto vita vera, un sogno convertito in realtà. Avevano pieni gli occhi e le menti, gli juventini per non parlare delle farfalle nello stomaco. Pensavano che Ronaldo potesse strappar via la Juventus da quel destino accanito in Europa piegare la tradizione, renderla una fiaba e colorarla di bianco e nero. «Se non con lui, quando?». Chissà. Ma come canta Guccini ogni storia ha la stessa illusione, sua conclusione; e il peccato fu creder speciale una storia normale. Già, proprio così: il peccato fu creder speciale una storia normale. Come al solito, la fine pone in luce quel che il troppo amore impediva di guardare netto all'inizio. Succede sempre così quasi sempre. E adesso Ronaldo, con una certa coerenza, accentua il tratto del proprio camminare bianconero e manifesta tutta la sua lontananza. A rifletterci freddamente, sempre è apparso lontano, eppure nessuno a Torino voleva confessarselo magari per paura, per amore, per le tonnellate di soldi che dondolavano dietro, e davanti, e sopra, e sotto quel campione. In uno scenario ormai scandalosamente bilioso e allagato da litri di rabbie e tensioni (e banconote), Ronaldo lascia la Juve e forse non è neppure un tradimento perché per tradire bisogna essere in una coppia. Ed ecco, allora: Ronaldo torna in proprio e riannoda i fili dell'azienda ambulante che è, perché negli ultimi tre anni è stato molto più un dipendente della «Cristiano Ronaldo S.p.A.» piuttosto che della Juventus Football Club. Certo, d'accordo, è vero: ha segnato tanto, ha vinto due scudetti, due supercoppe e una Coppa Italia, però in Champions e non soltanto ha lasciato in ricordo una scia di briciole di ridicolo, isterismi di varia natura, istrionismi approssimativamente inutili tipo gli approcci al lockdown (nella migliore delle ipotesi) personalizzati. Nella sua bolla ha danzato e cantato. Ha imparato forse sette parole in italiano, ma non ha mai perso l'occasione di criticare a gesti, pensieri, parole e opere i compagni e gli allenatori. Ma, del resto, lui non dorme: riposa. Non mangia: si nutre. Non dà confidenza: educa. Non incontra gli allenatori: li riceve (vero Sarri, no?). Non prende appuntamenti: li concede. E il suo rispetto non si pretende: si merita. Troppo imbevuta di solenne epopea, la Juventus di Casa Agnelli, per tollerare tutto questo inelegante personalismo. Inammissibile. Troppo smisurato l'ego (e l'eccesso di confidenza) di Ronaldo per nuotare in acque simili. Si lasciano. «Eravamo incompatibili», si chiosa ogni volta. Epperò, nell'aria, a galleggiare rimane un profumo aspro: è la fine, o il fallimento.

Ivan Zazzaroni per il “Corriere dello Sport” il 28 agosto 2021. A differenza di Messi, Ronaldo non ha versato nemmeno una lacrima. Até mais. Ha salutato compagni, dirigenti e impiegati, poi è corso all’aeroporto, è salito sull’aereo - privato, naturalmente - e via, più veloce della luce verso l’infinito e oltre (Lisbona, la nazionale). Nei prossimi giorni tornerà nell’unica Manchester che lo voleva realmente. Riecco, dunque, la macchina da guerra, il Superman di Funchal autoprogrammatosi per uccidere i sentimenti, ma anche alcune ipocrisie di convenienza, oltre che i record. Tanti. Ha chiuso così come aveva aperto. Scappando: la fuga gli è sempre piaciuta. Tre anni fa lasciò Madrid, ieri è stata la volta di Torino. Il convitato di pietra, di nuovo Messi. Nel 2018 Cristiano impose la rottura al Real proprio perché Florentino Perez non l’accontentava con lo stesso stipendio che il Barcellona garantiva all’argentino (54 milioni). Stavolta, dopo che Messi, ancora lui, gli aveva soffiato la destinazione parigina, ha mollato una Juve ridimensionatasi anche per far fronte al superingaggio, oltre che per gli effetti della pandemia. Una Juve che con il ritorno di Allegri e un nuovo progetto avrebbe potuto “umanizzarlo”. Ronaldo era e resta il Marchese del Grillo del calcio mondiale: «Io so’ io e voi non siete un...». È perfezione estetica. A suon di gol e di titoli si è arrogato il diritto di fare esclusivamente gli affari propri: lui viola per ben due volte la bolla durante i lockdown, costringendo la società a firmare le giustificazioni; non si presenta alle premiazioni nelle quali non è il premiato più importante; induce il nuovo allenatore (Sarri) a raggiungerlo in barca per discutere della posizione da tenere in campo e attacca sui social i giornalisti che confermano la sua intenzione di lasciare la Juve. È successo giusto la settimana scorsa. Curiosamente, pochi giorni dopo non ha però postato nulla contro lo sceicco qatariano (a Doha tutti sceicchi) che aveva pubblicato un fotomontaggio con la supercoppia in maglia Psg. Sempre sette giorni fa, ha infine mandato Allegri in conferenza stampa per comunicare al mondo che sarebbe rimasto. Jorge Mendes ha tirato un sospiro di sollievo: ha provato a “regalarlo” ai parigini, al Real (rifiutato a più riprese), infine al City, dove Guardiola non lo voleva e i tifosi non l’avrebbero accolto a braccia aperte, essendo un ex United. Non appena Ferguson, il grande e vecchio padre, e Solskjaer hanno capito che, per esclusione, il “loro” CR7 sarebbe potuto finire ai detestati rivali, hanno tirato fuori 28 milioni e fatto fare bella figura alla Juve, che ottiene così un saldo positivo di quasi 90 e non si è piegata alla volontà del fuggitivo. Ronaldo lo stimi come campionissimo, ma non lo ami. Ricevere l’amore del prossimo gli interessa peraltro poco, si basta: il pubblico lo carica, lo eccita, ma niente di più. Lui si nutre del veleno dei nemici, ai quali riserva gesti di scherno, ne sanno qualcosa i tifosi di Atlético Madrid e Barcellona.   Lo saluto alla sua maniera. Con un «grazzie»: non risparmia sulle auto e neppure sulle zeta.

PS. Per tappare la voragine tecnica creatasi in attacco, la Juve sta pensando a Kean, la soluzione più semplice e risparmiosa. Qualcosa di meglio, no? Io penso di sì.

Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” il 28 agosto 2021. Dal punto di vista umano Cristiano Ronaldo non è una perdita, è qualcuno mai arrivato. Non ha mai parlato se non di se stesso e quando gli serviva, è sempre stato chiuso nel suo mondo-azienda tenendo fuori tutti. Spesso andava anche ad allenarsi da solo. Ci aspettavamo qualcosa del genere, ma non con questa costanza. Ma Ronaldo è pur sempre quello che quando ha sentito il bisogno del primo figlio ha pagato una madre perché lo portasse in grembo e poi sparisse. Non ha normalità, è dovunque un'eccezione. Dal punto di vista tecnico il danno che lascia non è rimediabile, non ci sono sostituzioni possibili. Vengono meno 30/35 gol in un colpo solo. Non c'è un giocatore a questa altezza, va sostituito con più giocatori, quindi un intero gioco diverso. Ci si può riuscire se tutta la squadra capirà che adesso è sola e deve cambiare attitudine, non ha più niente che ne giustifichi il disagio. Ma l'addio di Ronaldo porta con sé anche un significato più profondo. È il primo limite in un secolo di famiglia Agnelli che la Juventus non è riuscita a superare. Ronaldo è diventato il confine della Juve, oltre lui c'è il deserto di Buzzati. La Juve ha cercato di tornare insieme alle due-tre grandi squadre europee del nuovo secolo e per farlo ha compiuto uno sforzo economico che si è rivelato alla fine insostenibile anche per lei. Ronaldo ha fatto tutto quello che gli è stato chiesto, ma non è bastato, ha finito anzi per dissestare l'ordine dell'azienda, l'ha costretto a chiedere aiuto all'azionista e a quelle stesse squadre a cui toglieva i giocatori migliori. È una novità importante che riguarda tutti. Perché è storica e perché i limiti della Juve rappresentano sempre quelli del nostro calcio. Quando la Juve tornerà arrogante vorrà dire che il tempo freddo sarà finito per tutti. Ma ora è una riflessione leggera che porta più dubbi di quanti si possano sopportare. Ronaldo se ne va lasciandoci la coscienza che è stato inutile lui, e inquieta, sbagliata, la nostra dimensione.

Gabriele Romagnoli per "La Stampa" il 28 agosto 2021. Prendere Cristiano Ronaldo è stato un po' come acquistare una barca. È noto che dà due momenti di felicità assoluta: quando arriva e quando te ne liberi. In mezzo: sensazioni contrastanti. Una soddisfazione costante ma raramente incontenibile, frenata dai dubbi ricorrenti sulla validità dell'investimento; una notte sotto le stelle che sembra di incomparabile bellezza, poi scopri che lo era perché non si ripeterà più; una meraviglia iniziale che si muta lentamente in assuefazione, delusione e stizza sopita. Scrisse Piero Ottone: "Se ti chiedi quanto costa mantenere un barca significa che non puoi permettertela". La Juventus poteva, e ancor più voleva, permettersi Cristiano Ronaldo. L'ha avuto per tre anni. Ora che le va via (sarà una brutta espressione, ma non c'è un modo più esatto per dirlo) non ha senso chiedersi il valore di quest' avventura. È stata, appunto, un'avventura, uno sfizio, una logica mancante, ha colmato il silenzio di un desiderio impronunciabile, in quel tempo, non solo dalla Juventus, dal campionato italiano. Si è voluta una luna, ma era una luna calante, non ha illuminato nessuno, non ha svelato niente che non si vedesse o sapesse già. Ogni difetto, immutato. Ogni qualità, non cancellata, ma rimpicciolita. È appartenuta a una stagione finita, quella di grandezze che hanno perso la misura di sé, di universalità frammentate, di piante che hanno già dato frutto e puoi travasare ovunque, ma solo per mostrarle e raccontarne la storia al passato. I tre anni di Cristiano Ronaldo hanno prodotto una felicità marginale decrescente. Al primo la gente guardava le partite per vedere lui. Al secondo era già un fenomeno scontato, in ogni possibile senso. Al terzo una comparazione negativa: insufficiente non solo a produrre un più alto e agognato destino, ma anche a ripetere i precedenti. Si è di fatto confuso, con la sua attiva complicità, un valore aggiunto per un fattore decisivo. Se cambi tre skipper per ritornare al primo, rendi evidente che per te il problema è la barca. Il resto va in porto da sé, a motore spento. Poi dicono: "Hanno perso tutti". Trascurano uno: Beppe Marotta, un uomo per cui ieri dev' essere stato un giorno di allegria pari a quello dello scudetto all'Inter. Bisogna vedere più calcio, tutto il calcio, minuto per minuto. Bisogna aver visto la finale europea del 2016, quando Cristiano Ronaldo esce e tuttavia il Portogallo batte la Francia; bisogna aver seguito la crescita irresistibile dell'Italia di Mancini, senza un totem a farle ombra. Quel che manca a una squadra non lo può dare un solo uomo. Non in questo calcio. Messi è sempre stato un'eccezionalità, non un'eccezione. Anche Cristiano Ronaldo a Madrid aveva la sua banda, sebbene abbia creduto e fatto credere di poterne fare a meno. Finisce come accade alle storie già finite: con una giostrina di bugie, contraddizioni, pretese, rimpianti. Tutto è sempre stato sproporzionato. È solo un gioco e lui solo un giocatore. Non uno qualunque, ma neppure quello che decide l'esito.

Dalla A alla Zeta, il finale di Ronaldo come in Casablanca. Piero Mei su Il Quotidiano del Sud il 29 agosto 2021. CRISTIANO Ronaldo ha detto un semplice e rafforzatissimo “grazzie”, tanto rafforzato da metterci due zeta (l’ha postato proprio così) ed è salito sul primo volo per Lisbona che neanche Ingrid Bergman nel finale romantico di “Casablanca”, il film cult, quello del “suonala ancora, Sam”, “As time goes bye”, “un bacio è ancora un bacio”. CR7 il bacio non lo ha mandato a nessuno. Aveva già provveduto a delocalizzare da Torino la sua collezione di auto di lusso, che neanche la Regina nel garage con passo carrabile e colbacchi d’orso per i custodi di Buckingham Palace; chissà se nei suoi traslochi è anche compresa la raccolta di intimo femminile: la sua fidanzata di un tempo, la bellissima Irina Shayk, confessò di aver avuto una botta di perplessità quando, aprendo un armadio, scoprì che il il campione metteva via perizoma e tanga da lei usati e dismessi. Il distacco dalla Juve è mesto e poco sentimentale: non era un amore, era il brivido della Champions. Per la Juve l’ossessione di vincerla, le sfugge più scivolosa di una saponetta; per CR7 vedere cosa si prova a perderla… Altrove non gli riusciva…Poi se n’è andato, la Juve tira un respiro di sollievo e le banche pure. Torna nella “ridente” Manchester, dove fu di casa. E proprio lì va: allo United, come una volta da ragazzo, mica al City dove, dicono i “boatos” Pep Guardiola non gli avrebbe disteso tappeti rossi, che pure Massimiliano Allegri aveva arrotolato alla Continassa. L’eterno duello con Leo Messi ha vissuto un’altra puntata, da farci una serie su Netflix: la Pulce, è il nomignolo di Messi, se n’è andato in ben altro modo dalla “sua” Barcellona (Torino non è mai stata veramente “sua” per CR7 e viceversa: tanti gol, poco sentimento, che del resto il pop-champion riserva a se stesso, il culto della personalità e il suo commercio). Ha pianto, ha pianto tanto Leo, come una romantica giovinetta all’ultima stazione di un amore. Si è consolato subito, a dire il vero: asciugate le lacrime, sorrideva felice. Parigi val bene un Messi, pensiero di antichi re e di moderni sceicchi e calciatori. Sono le due storie dell’estate del calcio, quella che doveva essere di un mercatino della domenica, abiti in esubero, vecchie croste e bancarelle cinesi. E invece è la Borsa di Wall Street per CR7 e Messi; le italiane e le spagnole perdono i capolavori (ma occhio: Mbappè potrebbe fare la via contraria, da Parigi a Madrid, sgravi fiscali permettendo, perché anche nel calcio l’Europa è una babele di regimi e un buon commercialista sa come navigare sicuro). Perché in questo campionato appena cominciato non ci sono solo Cristiano e Leo, il freddo Cristiano che vive in crioterapia, il tenero Leo che “chiagne e fotte”, come dicono a Napoli. C’è anche Lukaku, il gigante buono, che cambia maglia come i farfalloni cambiano moglie e ogni volta ha amato sempre e solo quella del momento, la sognava da bambino; c’è anche Gigio, il nostro Donnarumma, passato dal Pirellone alla Torre Eyffel (beh, vuoi mettere…); c’è l’Inter che s’è comprata Dzeko e Correa, piedi da gol di Roma e Lazio, tranquilli: i giallorossi hanno un profeta nuovo, Abraham, i biancocelesti si tengono Immobile che non sta mai fermo. Sembrava un mercato solo da “nouveaux philosophes”: Mourinho e Sarri, Inzaghino e Spalletti, Allegri, cinque delle Sette Sorelle con un guru in panchina. La panchina più importante dell’area di rigore. E invece ecco i calciatori riprendere la scena. Salvo poi, in un prossimo futuro, diventare esuberi. E i procuratori si procurano consistenti bonifici. E poi la solita solfa: lo Stato deve aiutarci… I tifosi (“tiffosi” ha scritto il solito CR7) quasi non ci si raccapezzano più e, sulla rete, vanno dall’hater che si sfoga, come quello di Manchester che, essendo pro United, augurava a CR7 il peggiore dei mali quando si parlava del City, al creativo ironico (quanti ce n’è nel web) che, all’insegna del “Cristiano saluta la Juve” ha messo un’immagine del Cristiano autostoppista: solo che non è Ronaldo, è Malgioglio. D’altra parte per la Juve CR7 è stato come il famoso gelato al cioccolato. Dolce un po’ salato…

«Ronaldo? È stato il pacco del millennio e io l’avevo detto». Nelle sue stagioni alla Juventus «ha schiacciato Dybala e fatto schizzare i costi senza centrare l’obiettivo Champions». Gian Paolo Ormezzano su Il Corriere della Sera il 28 agosto 2021. Subito le scuse per l’uso narcisistico della prima persona singolare: è quasi obbligatorio quando si riferisce di cose personali assai. Come quello che dissi quando, estate del 2018, Cristiano Ronaldo venne ingaggiato dalla Juventus che prelevò dal Real Madrid quel portoghese impegnato con l’argentino Messi nella gara a essere il miglior giocatore del mondo. In una intervista rilasciata da me a radio Viola News, trascritta da altre testate, dissi - e le parole furono virate in un testo scritto - che c’era il forte rischio che si trattasse del “pacco” del secolo, anzi del millennio. Pacco, in buon italiano fregatura. Il perché era secondo me legato al costo altissimo (300 milioni fra cartellino e ingaggio), all’età “spinta” per un atleta (33 anni), alla finalità implicita e pesante dell’acquisto: vincere quella Champions League che Ronaldo aveva vinto una volta con il Manchester United e quattro con il Real. Mi astenni da ogni moralismo sui molti soldi spesi: non che il calcio sia superiore a certi esercizi di etica facile, ma di fronte al popolo bianconero entusiasta ed alle alte vette non solo pecuniarie ma anche affettive e nobili frequentate dal club nella sua grande storia, mi parve che l’operazione «ci stesse». Ne discussi la validità, insomma, e non la moralità. Non tifoso della Juventus, ho registrato in tre stagioni calcistiche i molti gol di CR7, grandissimo attaccante, e dunque i molti leciti trionfalismi dei suoi fans. Da parte di amici e colleghi ho subito critiche per la mia previsione rovinologa, magari da tifoso granata invidioso (massì, anche questo «ci stava») e non da giornalista sportivo esperto, onusto e zavorrato da sessantacinque (allora) anni di lavoro. Adesso si sta formando davanti a me una piccola fila di persone che mi chiedono: ma come hai fatto a indovinarla così? Rapidissima infatti è stata la conversione di molti che sino a ieri erano pro CR7, sui social come al Bar Sport, allo stadio come nelle redazioni. Si arriva alla negazione quasi blasfema di sacri principi, quando si accusa il giocatore di non aver fatto vincere alla Juventus la Champions dopo avere sempre sancito che il campione non basta, conta la squadra, il gruppo. Si scopre che in fondo quando lui mancava la Juve giocava meglio. Si ricorda il travaglio di Dybala oscuratello. E c’è pure chi, laicamente e loicamente insieme, rinnega il dio e lo accusa persino di essere all’origine dei problemi finanziari del club, costretto (vero) a spese alte anche per altri giocatori, onde non creare uno divario troppo antipatico. Per me poi sovrasta tutta la vicenda un dispiacere speciale: quello di non averne parlato, per riserbo piemontesardo, con un grande amico che adesso non c ‘è più e che mi avrebbe detto cose interessanti. Sì, Giampiero Boniperti. E se CR7 avesse dato alla Juventus il trofeo decisivo? Giuro che avrei trovato il modo di scrivere da qualche parte che avevo sbagliato. In fondo ne sarebbe uscito un articolo divertente assai. Più di questo, chiaro. 

Cristiano Ronaldo, "l'unico a cui rivolgeva la parola": retroscena dallo spogliatoio Juve, ora è tutto chiaro. Libero Quotidiano il 30 agosto 2021. El Pais affonda la Juventus. Il quotidiano spagnolo pubblica una foto “di mal auspicio”, datata 7 agosto, Andrea Agnelli e Joan Laporta che festeggiano allegri, e Florentino Pérez, un po’ staccato dal centro dell’immagine, che a stento trattiene un gesto di soddisfazione. “Un mese dopo, solo a lui resta quella scintilla negli occhi. Una felicità, in parte, legata alla sfortuna degli altri due. Il Barça ha perso Messi ed è rovinato; La Juventus ha visto partire Cristiano Ronaldo tre anni dopo dopo averlo pagato 117 milioni di euro al Real Madrid”, scrive il quotidiano. Il punto è che “giocare a fare il Madrid è brutto e costoso. E la Juventus ci prova da 15 anni. Stanca di fallire da sola, ha deciso di provare a farlo con un intermediario. Cristiano Ronaldo sembrava la linea più dritta tra quei due punti che univano successo e fallimento. Lui o quello che restava della sua splendida carriera“, continua certificando così il fallimento dell'operazione CR7. “Lo hanno provato tre diversi allenatori in tre anni. Ma non ha funzionato. Ora si può dire: 1.143 giorni dopo, la Juve non ha alzato la Champions League con Ronaldo. Ed è anche un po’ più povera di tre anni fa”. “Ora risparmierà 57 milioni di euro lordi a stagione, e si lascerà alle spalle un tipo un po’ cattivo che si aggirava nello spogliatoio della Continassa (si dice che andasse d’accordo solo con il terzo portiere, Carlo Pinsoglio)“, conclude velenosamente El Pais.

Giampiero Mughini per Dagospia il 30 agosto 2021. Caro Dago, vedo che hai dato rilievo alle quattro chiacchiere che ho fatto ieri sera in casa degli amici che a Mediaset organizzano e gestiscono la nuova edizione di “Pressing”. Siccome una cosa è parlare a voce a come viene viene e altra cosa quando le parole sono messe in fila e per iscritto, per rispetto non certo ai semianalfabeti che sui social mi accusano di “gobbite” e bensì per rispetto ai tuoi lettori preciso meglio il mio pensiero. E’ ovvio che ad annullare un gol in fuorigioco non vale se sia stato un bel gol o un brutto gol. Un fuorigioco è un fuorigioco, punto e basta. Se c’è una regola, quella regola vale in tutti i casi. Appunto, una regola. La regola diceva un tempo che ci dove essere uno spazio visibile che stava favorendo chi attaccava nei confronti di chi difendeva, ci doveva essere una “luce” che misurava oggettivamente il vantaggio illecito che l’attaccante aveva preso sul difensore nel momento in cui batteva la palla. Adesso non è più così. C’è una macchina che trae un riga a vedere se la spalla destra o sinistra dell’attaccante (nel caso del gol di Ronaldo) era andata lassù in alto 4 o 5 centimetri oltre la nuca di chi difendeva. Una troiata bell’e buona e tanto più che in molti casi è difficile dividere a pezzetti i diversi e successivi momenti del balzo in avanti di chi si sta proiettando a colpire di testa o di piede. Quei 4 o 5 centimetri non contano un cazzo ai fini del gesto atletico di chi si appresta a colpire la palla, sono poco più che un’illusione ottica, non toccano minimamente la sostanza del gesto atletico e dunque la validità (e la bellezza) del gol effettivamente realizzato. C’era la “luce” a separare i due corpi, sì o no? Se non c’era, il gol è buonissimo. Ho torto? Può darsi, ma io non credo. Né ovviamente c’entra minimamente la “gobbite”, a differenza di quel che può apparire a un semianalfabeta.

Da sport.virgilio.it il 30 agosto 2021. Dopo una prima puntata in tono soft tornano le polemiche a Pressing Prima serata, il talk show sportivo di Mediaset trasmesso da Rete4. La presenza di Mughini ha dato, come prevedibile, più pepe alla trasmissione condotta da Callegari e Monica Bertini. Il giornalista-tifoso della Juve ha parlato del caso Ronaldo ma soprattutto si è incaponito sul gol annullato a Udine a Cr7 innescando controrepliche dal vivo e sui social.

Mughini furioso per il gol annullato a Ronaldo a Udine. Mughini è entrato a gamba tesa dicendo: “Mi sembra strano che non mettiate al centro di questa riflessione quel caso che a me sembra offensivo della bellezza del calcio, atletica e sportivo, la porcata di quel gol annullato per 6 o 7 millimetri. Per un gomito, per un naso troppo lungo, per una put…del genere: come ci può stare questo nel mondo del calcio? Una volta c’era lo spazio del giocatore, non inficiano quei centimetri quel gesto bellissimo di Ronaldo. E’ una troi… questa regola…, quella dei 5 cm è una tro…”. Una risposta è arrivata dall’attore Salvatore Esposito, che in Gomorra interpretava il camorrista Genny Savastano: “Si son persi scudetti per meno di 5 cm ma anche per tante dinamiche disomogenee quindi auspichiamo che le regole siano uguali per tutti, un campionato così può essere avvincente ed interessante con tanti allenatori bravissimi e bravi giovani che possono fare la differenza” 

I tifosi sui social ironizzano sulle teorie di Mughini. Fioccano reazioni ironiche su twitter: “Mughini è un invasato dove neppure un esorcista riuscirebbe a estirpargli il demone della gobbite” o anche: “La ciliegina però è la “bellezza del gesto tecnico”, praticamente in sala var mettiamo anche una giuria tipo quella della ginnastica artistica e lasciamo decidere a loro cosa annullare e cosa tenere. Geni rivoluzionari” C’è chi scrive: “Quindi al Var non devono più guardare se è davanti o meno ma se il gol è bello o brutto?” o anche “Se il gol è in rovesciata ed è fuorigioco di 10 cm si tiene buono. Se di tacco in fuorigioco di 5 cm, che facciamo, lascio? Se invece rimpallo con 3 cm da annullare ovviamente!” e infine: “Sulla questione del gesto tecnico si può discutere, ma sul fatto che la regola del fuorigioco sia da rivedere no. È ridicolo annullare un gol per un capello o per la punta del piede, non è un vantaggio oggettivo. Si dovrebbe tornare alla vecchia regola, la famosa “luce”…”.

Pierluigi Panza per  giornalistinelpallone.corriere.it il 30 agosto 2021. “Non è una squadra”? Certo che la Juve non è una squadra: lo capisce chiunque a parte i dirigenti della Juve. Vediamo perché si è arrivati a questo e cosa si può fare.

Il NAUFRAGIO – La falla si è aperta tre anni fa con l’addio di Marotta a seguito della scelta di acquistare Cr7, l’avvento di Paratici e la banda dei 40enni che ha distrutto squadra, allenatori, finanze e immagine (caso Suarez). L’anno scorso si è consumato il naufragio al quale sono seguiti dei miracoli: non dovevamo essere in Champions ma il Napoli si è suicidato, Agnelli cacciato dall’Europa e semiaffogato (Superlega) ma salvato dal tribunale di Madrid, i vecchi Chiellini-Bonucci che ti vincono l’Europeo contro l’odiato Ceferin impegnato a favorire gli inglesi e quatarioti di City e Psg…

CRISTIANO RONALDO – Che Cr7 possa andare via un anno prima non è niente di strano: non era su un 37enne che potevi costruire la Juve, lui non meritava di finire la carriera in questa squadra e la società risparmia. Io, che il 6 luglio 2018 scrissi l’articolo “Perché da juventino dico no all’acquisto di Ronaldo” devo, però, sfatare la diceria che i troppi soldi dati a Ronaldo hanno impedito di costruire la squadra per lui. Il giorno in cui prende Ronaldo, un direttore sportivo che capisce di calcio vende Dybala o lo scambia con Icardi o Lukaku (Paratici fece uno dei suoi goffi tentativi l’anno successivo) e con 75 milioni più 12 di stipendio prendi uno o due centrocampisti (da Milinkovic a Luis Alberto) e non un centrale di difesa quando hai Chiellini, Bonucci, Demiral, Rugani e Romero (prestato a Genoa e Atalanta!): se Chiellini e Demiral non si rompono il crociato, De Ligt nemmeno gioca con Sarri! Se poi spendi 40 milioni per Kulusevsky e gli altri per Barella e Haaland, sei peggio di Alessio Secco. 

L’ORGANIGRAMMA – Delegittimato, Andrea Agnelli è stato “salvato” dal cugino John Elkann che ha dato l’ok a 400 milioni di ricapitalizzazione e non l’ha sostituito con l’altro cugino (Nasi). Però ha nominato un tutore al suo fianco: Arrivabene. Questo lo rende totalmente un’anatra zoppa. Sotto di loro c’è l’incomprensibile permanenza di uno che prende a calci le bottigliette dell’acqua (Nedved) e un funzionario (Cherubini): chi comanda? Così non va bene: serve un direttore sportivo e un presidente nel pieno delle funzioni.

LA BONIFICA – Oggi la Juve è un territorio in rovina: i primi soldi vanno spesi per una bonifica. Soprattutto ora che molti giocatori arrivano a zero, la società deve stanziare una parte dei fondi per pianificare minusvalenze e liberarsi così di Ramsey, Rabiot, Bernardeschi, Bentancur ecc ecc: se hai preso un’auto che non va, non è che lasciando lì poi parte e la rivendi al prezzo di Quattroruote! Inutile comprare orchidee da piantare in un campo di ortiche. Magari, altrove, questi ragazzi di Paratici faranno bene: alla Juve non devono stare. 

PAULO DYBALA – Andava venduto tre anni fa e trovo sbagliato che si punti su di lui nella ricostruzione. Ha già fallito quando gli è stata data la squadra in coppia con Higuain: proprio a seguito di ciò si acquistò Cr7. Ha la protezione della stampa e dei tifosi perché tira fuori delle belle giocate, specie quando deve rinnovare il contratto. Ma non ha personalità, è incostante, limitato nel posizionamento in campo e nel tiro (quasi solo tiro a giro di sinistro); solo ricorderò la sua espulsione contro il Barcellona per simulazione! Temo che Allegri (che mi piace e sostengo) punti su di lui perché non ha un buon rapporto (vedi Milan) con i giocatori di forte personalità. Un gap.

GIGIO DONNARUMMA – La nuova direzione è partita con un errore cosmico: Donanrumma a zero era pianificato venisse alla Juve. Incredibile! Tu convochi Szczesny e gli dici: “Da domani sei il terzo portiere”. Sicuro si trova una squadra, tu fai una minusvalenza che controbilancia il fatto che prendi Donnarumma a zero! Non si può ri-iniziare così! Carnevali, Tare, Marino e, ovviamente, Marotta prendono giocatori giusti, che servono alla squadra e a prezzi contenuti! Negli ultimi tre anni abbiamo, e continuiamo ad avere, la peggior direzione sportiva della serie A. E pensare che Paratici (che gli affari suoi mi sembra li sappia fare) è stato congedato con un piatto ricordo e non un piatto in testa! 

Cristiano Ronaldo, la verità di Moggi: Non sparate su Allegri, dove iniziano i problemi della Juventus. Luciano Moggi Libero Quotidiano il 31 agosto 2021.

Luciano Moggi nasce a Monticiano il 10 luglio 1937. Dirigente di Roma, Lazio, Torino, Napoli e Juventus, vince sei scudetti (più uno revocato), tre Coppe Italia, cinque Supercoppe italiane, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, una Supercoppa europea, una Coppa Intertoto e una Coppa Uefa. Dal 2006 collabora con Libero e dal 13 settembre 2015 è giornalista pubblicista.

Vince l'Inter con fatica a Verona contro l'Hellas, lo fa grazie alla doppietta di Correa che diviene il nuovo messia. Nonostante l'errore iniziale di Handanovic (passa la palla a Brozovic ma la prende Ilic, che insacca il vantaggio scaligero) cambia tutto ad inizio ripresa, quando Lautaro pareggia e dà il via ad un'altra partita che l'Inter, alla maniera delle grandi squadre, ribalta mettendo l'Hellas alle corde. Perde invece 1-0 la Juve all'Allianz contro l'Empoli, la partita che segna la fine dell'epoca Ronaldo. I bianconeri sono apparsi come un gregge senza il proprio pastore, disorientati e confusi, anche per via della grande responsabilità piovuta sulle loro spalle: sono apparsi, nella stragrande maggioranza, giocatori impreparati e carenti di carisma. È vero, come dice Allegri a fine gara, che la Juventus ha cominciato bene, ma è anche vero che dopo aver subito il gol ha perso sicurezza, andando addirittura in frenesia, facendo intuire di essere una squadra composta da giovani interessanti che deve però riorganizzarsi dopo la perdita del capobranco. E senza coltivare illusioni di grandi traguardi. Aggiunge Allegri a mo' di incoraggiamento: «Ora che Ronaldo se n'è andato niente alibi: i campioni passano, la Juve resta». Vuole magari far capire che bisogna tirarsi su le maniche e combattere per recuperare una classifica non da Juve. Si può dire che la gara ha segnato la fine di un progetto, sbagliato dall'inizio, quando fu privilegiato l'arrivo di Ronaldo anziché fortificare il centrocampo (che ne aveva urgente bisogno) per proteggere la difesa e alimentare meglio l'attacco. Ci tornano alla memoria anche le parole di Sarri, allora allenatore bianconero, quando disse che la Juve era «difficile da allenare». Forse aveva capito come la squadra rispondesse più a CR7 che alle sue sollecitazioni, badando più alle giocate del portoghese che portavano vittorie e premi a scapito del gioco d'assieme. A sostituire Ronaldo arriverà Moise Kean, prestito biennale dall'Everton che lo aveva acquistato dalla stessa Juve nel 2018/19 più per la bravura del suo procuratore che per meriti suoi. E dovrà prendere il posto di un campione che mediamente segnava un gol a partita. Auguri ad Allegri, a cui tocca l'incombenza di amalgamare un gruppo di giovani, indubbiamente interessanti, ma bisognosi di teste pensanti e carismatiche che al momento non esistono. E non pare giusta la strada di cercare ulteriori giovani come Kean o Mohamed Ihattaren del Psv (19 anni, anche lui della scuderia Raiola: potrebbe esser girato in prestito alla Samp). A Marassi il Napoli batte il Genoa 2-1 in una partita molto combattuta, nonostante il divario di qualità, risolta a sei minuti dalla fine da una zuccata di Petagna. Se Spalletti è a punteggio pieno, il Genoa con questa buona prestazione dimostra che il 4-0 subito a S.Siro dall'Inter può considerarsi un infortunio di percorso, quanto meno abnorme nelle proporzioni. Stravince la Roma a Salerno, 4-0 dopo un primo tempo soporifero e terminato a reti inviolate, in cui la squadra di Mou ha cercato di stancare gli avversari. Piano riuscito, a giudicare dalla ripresa. Vince con merito il Milan a San Siro, 4-1 al Cagliari divertendo il pubblico e facendo capire che può coltivare le ambizioni dichiarate da allenatore e dirigenti. Sblocca una magistrale punizione di Tonali, segue Leao, poi doppietta di Giroud. Spettacolo all'Olimpico, Lazio a raffica contro lo Spezia: 6-1, tre gol di Immobile, Luis Alberto in grande spolvero e Sarria riprendere i suoi appena vede calare la velocità d'esecuzione. Fa 0-0 l'Atalanta in casa con il Bologna, ripetendo l'opaca prestazione di Torino dove, al contrario, era riuscita a prevalere. Bene anche la Fiorentina vincente con merito sul Toro: 2-1 firmato Vlahovic-Gonzalez, con mister Italiano che pregusta un campionato interessante.

Da fanpage.it il 31 agosto 2021. Cristiano Ronaldo non solo ha lasciato la Juventus, ma lo ha fatto praticamente alle proprie condizioni. Si può sintetizzare così, una volta conosciuti ufficialmente tutti i dettagli, l'operazione che porta il campione portoghese al Manchester United. Non alle condizioni del club bianconero, o almeno non a quelle che erano state comunicate a Jorge Mendes nel corso del faccia a faccia di giovedì, il summit di mercato organizzato dalla Juve per mettere ordine intorno al futuro del portoghese, offerto ai top club di mezza Europa dal proprio agente. La Juve non si è mai opposta alla cessione di Cristiano Ronaldo, in considerazione del peso più che gravoso in termini di bilancio. Ma proprio in virtù dell'attenzione da prestare ai conti, la condizione posta a Mendes è stata netta: servivano circa 29 milioni di euro per il via libera alla cessione di CR7, la cifra corrispondente al suo valore a bilancio, da pareggiare per evitare una minusvalenza. Il trasferimento si è invece concretizzato ad una cifra inferiore, il massimo che Mendes è riuscito a strappare al Manchester United, con pagamento spalmato in cinque anni. È tutto nel comunicato ufficiale della Juve: “Juventus Football Club S.p.A. comunica di aver raggiunto l’accordo con la società Manchester United FC Ltd per la cessione a titolo definitivo del diritto alle prestazioni sportive del calciatore Dos Santos Aveiro Cristiano Ronaldo a fronte di un corrispettivo di € 15,0 milioni, pagabile in cinque esercizi, che potrà essere incrementato, nel corso della durata del contratto di prestazione sportiva del calciatore, per un importo non superiore a € 8,0 milioni, al raggiungimento di specifici obiettivi sportivi. Tale operazione genera un impatto economico negativo sull’esercizio 2020/2021 pari a € 14,0 milioni, per effetto dell’adeguamento del valore netto contabile del diritto alle prestazioni sportive del calciatore”. In sintesi: per la cessione di Cristiano Ronaldo la Juventus incasserà tre milioni all'anno per le prossime cinque stagioni. Una cifra che si traduce in una minusvalenza di 14 milioni e che potrà essere incrementata dai bonus per un massimo – qualora tutte le condizioni venissero soddisfatte – di otto milioni. Anche nella migliore delle ipotesi, dunque, la partenza di CR7 produrrà un effetto negativo sul bilancio della Juve. Un ulteriore punto a sfavore nel contesto di un'operazione che si è rivelata sanguinosa sul piano economico.

Pierluigi Panza per giornalistinelpallone.corriere.it il 6 luglio 2018. Juve bravissima nel fiutare l’affare… e, nel calcio, W sognare! Ma poi, pensandoci bene, lasciando stare marketing, magliette, FC Auto e tutto quello che con il tifoso e con lo sport non c’entra nulla, lasciando perdere i fuochi artificiali, gli sfottò al bar… uno si chiede: sarà meglio portar fuori a cena tutta la vita delle belle vicine di casa o una sola sera nella vita Claudia Schiffer? Perché Cristiano Ronaldo, a 33 anni, al calcio ha dato tutto e tutto ha ricevuto. Che pagine deve ancora scrivere? I greci chiamavano il comportamento attuale della Juve un atto di hybris, ovvero di tracotanza, di orgoglio oltremisura che gli dei dell’Olimpo puntualmente punivano nella tragedia. Non sia mai: ma se beffardo, il fato avesse predisposto per noi una serata dove Ronaldo tira un rigore e Buffon lo para come ci si potrebbe riprendere? E poi: sarà amato, Cr7, dai compagni di squadra, con quelle sue tre piscine per villa, Ferrari e Maserati nel box, aereo privato e yacht in rada che lo aspetta? Avrà presente com’è triste Torino d’inverno, le Langhe, il Canavese? Della formazione in campo nemmeno voglio dire. La Juve ha quattro forti esterni d’attacco (Bernardeschi, Douglas Costa, Cuadrado e Pjaca) più Dybala: se arriva Ronaldo, di tutti questi cinque ne potrà scendere in campo uno solo (più Ronaldo e Mandzukic), che senso ha? Ogni anno si stravolge ciò che si è costruito l’anno prima? Stiamo svecchiando la squadra, si diceva fino a ieri, e ora prendiamo Ronaldo? Ultima e più inquietante sensazione: finché perdi la Champions e Ronaldo c’è l’hanno gli altri (e fa quella rovesciata lì) puoi sempre vivere nell’ossessione-mito che tu sei Davide e gli altri hanno il gigante Golia. Ma se adesso Ronaldo c’è l’hai tu e la Champions non la vinci lo stesso (perché ci vuole anche fortuna) cosa potrai raccontare ai bambini bianconeri. 

Mario Sconcerti per calciomercato.com il 28 dicembre 2020. Il calcio premia se stesso appena trova qualcuno che paghi le spese. Così è stato anche a Dubai dove Ronaldo si è portato via il titolo di miglior giocatore del secolo. Secondo è arrivato Messi. Hanno votato i terrestri attraverso il web. Non hanno sbagliato molto, Ronaldo e Messi sono oro puro. Tutta l’architettura cade però su due fattori: primo i votanti. Chi erano, che competenza avevano? Come si partecipava? Qualcuno ne sapeva qualcosa? Secondo problema il titolo, “giocatore del secolo”. Quale secolo? Il millenovecento, quando Cristiano aveva quindici anni? O il Duemila, che però è appena all’anno venti, un quinto della strada? Se un premio è sempre un premio, anche un secolo è un secolo. Cento anni fa il Ronaldo della situazione era un brasiliano che si chiamava Friedenreich, fece vincere al Brasile la prima Coppa America, segnò oltre 1200 reti. Cento anni fa non erano nemmeno in costruzione Pelè e Maradona, non esistevano seriamente perfino Hitler e Mussolini. Non scherziamo. Non permettiamo ai fratelli ricchi di raccontarci la nostra storia. O almeno pretendiamo lo facciano seriamente.

Mario Sconcerti per il "Corriere della Sera" il 9 febbraio 2021. Cristiano Ronaldo ha concluso l' inseguimento a Pelé nella classifica dei marcatori universali ma è una corsa sbagliata. È come chiedersi chi sia stato migliore tra Galileo e Fermi, uno ha inventato la scienza moderna, l' altro parte di quella del futuro. Il tempo cambia tutto: il terreno di gioco, la forma del pallone, la chimica del suo tessuto. Quando giocava Pelé si era ancora ai palloni di cuoio con dentro una camera d' aria. Quando pioveva il peso raddoppiava, da quattro etti e mezzo saliva fino a sfiorare il chilo. Oggi è pelle artificiale, leggera e impermeabile, più veloce, meno prevedibile nella traiettoria. È cambiato il fisico dei giocatori. È aumentato di 10 centimetri in altezza e 10 chili di peso. Pelé fu l' inventore del nuovo gol, lo spettacolo che faceva da cornice alla ricostruzione del mondo, dall' Europa al Giappone. Stupì e vinse nel primo Mondiale trasmesso in televisione, fu una vera e propria apparizione, uno spot universale al dovere di divertirsi. Ha raccontato cose che adesso fanno storia ma non più emozione. Il calcio vive quasi soltanto nel presente. Basta una partita a cancellare l' altra. C' è troppa cronaca per riuscire ad avere memoria. Il passato non conta. Baggio ha smesso da più di 15 anni, tanta gente mi chiede se era bravo davvero. Non lo ricordano più. Detto questo Cristiano Ronaldo è stato a mio parere il miglior attaccante del dopoguerra. Non ricordo altri attaccanti che abbiano avuto la sua costanza nel gol e la sua semplicità di conclusione. Ronaldo non dribbla, evita. Non va oltre l' avversario, lo scansa con la sua finta a rientrare sul destro. La sua differenza comincia lì, ma con la finta prepara soltanto la sua prodezza. Ronaldo è tutto nella precisione del tiro e nel saperlo incrociare con potenza. Il tiro trasversale è sempre un problema per il portiere perché gli toglie indipendenza nell' intervento. Non può decidere dove buttarsi perché non conosce ancora la traiettoria. Può solo andare d' istinto. Ma se il tiro è preciso e forte, è sempre gol. Ronaldo ha questo miracolo, sa farlo. Ci sono stati tanti grandi attaccanti, da Romario a Ronaldo a Eusebio, ma nessuno aveva il suo tempo e la sua forza. Ne ricordo solo uno appena paragonabile come rapidità di coordinazione, velocità, potenza, tiro, Paolino Pulici. Riva era più plastico, ma era bello e dannato, fumava, faceva tardi la notte. Unico. Ma tutto questo con Pelé non c' entra niente. Pelé inventava calcio, Ronaldo lo chiude. Sarebbero stati benissimo insieme. Pelé aveva una classe che Ronaldo non ha, l' ha resa schiava della potenza e del marketing. Ha inventato le sue finte quasi 20 anni fa, non salta l' uomo con quelle, ma fanno parte del suo mercato. Pelé fu dichiarato Bene Nazionale del Brasile, quindi intrasferibile per legge. Ronaldo è il simbolo del grande professionismo degli anni Duemila, vali per te stesso, sei solo tuo, non c' è nessuna nazione da proteggere. Credo sia Messi quello più vicino a Pelé, per il tipo di gioco più vasto del semplice attaccante e perché i suoi gol, come quelli di Pelé, partono sempre da un' idea personale, da un movimento oltre l' avversario. Pelé era più atleta, era agile e massiccio, non lo spostavi. E aveva un senso più ludico, tentava colpi non solo utili, provava quello che lo divertiva. Pelé resta però fuori classifica. Ha avuto la fortuna di inventare il calcio moderno, ma lo ha fatto da lontano, fuori da dove si è svolta la storia reale del calcio. Messi, come lui, ha giocato in una squadra sola e l' ha resa la migliore del mondo. Anche qui non c' è prova, solo opinione. Io ho sempre preferito Messi a Ronaldo, per esempio, perché sono cresciuto dentro il pensiero dominante del numero 10, che poi derivava da Pelé. Questo eterno ritorno è interrotto dalla spinta di due numeri 10, diversi per indole e gioco, assolutamente nuovi e identici per la facilità con cui hanno ribaltato tutto. Maradona e Cruyff. Anche qui sarebbe bello chiedersi davvero chi ha inciso di più. Si scoprirebbe che al di là dei personaggi e delle loro storie, Cruyff ha costruito il calcio olandese e ha istruito direttamente Guardiola per il calcio di domani. Maradona ha costruito lo spettacolo, Cruyff è stato il vero maestro universale del secolo, le doti naturali che accettano quelle necessarie e ne fanno una cosa sola. Istinto e geometria, il calcio completo.

Franck Ribery. Angelica Cardoni per gazzetta.it l'8 settembre 2021. Franck Ribery (38 anni) è uno di quei calciatori di cui non ci si stanca mai. E resta uno dei più forti della sua generazione nel suo ruolo. Ha una carriera importante alle spalle, legata principalmente al Bayern Monaco, dove ha giocato per 12 stagioni, vincendo 9 campionati tedeschi. Numeri da capogiro, se si butta un occhio anche al suo palmares: 6 Coppe di Germania, 1 Champions League, 1 Supercoppa Uefa, 4 Supercoppe di Germania. Dal 2019 al 2021 ha indossato la maglia della Fiorentina e ora si appresa a vivere una nuova stagione sempre in Italia, ma con la Salernitana. Ecco quali sono i suoi segreti. Ribery ha imparato sin da subito a farsi le ossa. E’ stato abbandonato in un convento dai suoi genitori naturali ed ha trovato, fortunatamente, una nuova famiglia pronta a donargli tutto l’amore del mondo. E’ cresciuto a Boulogne-sur-mer, una città industriale, che lo ha messo subito faccia a faccia con tante difficoltà. Il calcio ha salvato lui e i suoi cari. L’incidente che ha subito da bambino non è un segreto, ma sicuramente un episodio che ha condizionato fortemente la sua vita. Aveva soltanto 2 anni quando rimase vittima di un incidente stradale insieme ai genitori. L’impatto fu talmente violento da sbalzarlo fuori dall’abitacolo. Si è salvato, ma la botta gli ha lasciato evidente cicatrici sul viso. E non solo. “Nessuno mi guardava o mi giudicava per le mie qualità tecniche. Tutti, e quando dico tutti non escludo nessuno se non i miei genitori, commentavano il mio aspetto fisico e giudicavano dall’alto delle loro conoscenze la bruttezza del mio viso dovuta ovviamente alla ferita. Le offese degli altri ragazzi erano dolorose, ma quelle che facevano più male erano quelle degli adulti che dall’alto della loro maturità mi giudicavano con lo sguardo", ha raccontato il campione. Nelle difficoltà, però, è riuscito anche a trovare un lato positivo. “Non mi sottoporrò mai alla chirurgia estetica e sapete perché? Perché questa ferita fa parte di me. Mi ha forgiato e reso un uomo migliore e non intendo per nessun motivo al mondo cancellarla", ha detto. Così, Scarface (come lo chiamavano i tifosi del Galatasaray) è entrato nel cuore di tutti. Ribery è un uomo che ha “stravolto” la sua vita per amore. Si è convertito alla fede islamica adottando il nome di Bilal Yusuf Mohammed, dopo il matrimonio con Wahiba Belhami (insieme hanno 5 figli). Di origini algerine, è molto seguita sui social e sta insieme a Ribery da quando erano ragazzini. E’ considerata una donna molto forte: nel 2010 perdonò il marito per lo scandalo con Zahia Dehar e andò in Sudafrica a tifare Franck, impegnato ai Mondiali. Se non è amore questo…Il mondo arabo lo ha colpito totalmente. Anche a tavola. Tra i piatti preferiti del francese, ci sarebbe infatti il cous cous, un alimento tipicamente orientale. Naturalmente, durante il periodo del Ramadan, non mangia e non beve durante il giorno. Ribery cura l’alimentazione, ma anche molto la forma fisica. E sui social testimonia le sue numerose sedute di allenamento. In vacanza, ma anche nella sua palestra personale. L’obiettivo è sempre lo stesso: vietato mollare. Ribery è un uomo che ha “stravolto” la sua vita per amore. Si è convertito alla fede islamica adottando il nome di Bilal Yusuf Mohammed, dopo il matrimonio con Wahiba Belhami (insieme hanno 5 figli). Di origini algerine, è molto seguita sui social e sta insieme a Ribery da quando erano ragazzini. E’ considerata una donna molto forte: nel 2010 perdonò il marito per lo scandalo con Zahia Dehar e andò in Sudafrica a tifare Franck, impegnato ai Mondiali. Se non è amore questo… Il mondo arabo lo ha colpito totalmente. Anche a tavola. Tra i piatti preferiti del francese, ci sarebbe infatti il cous cous, un alimento tipicamente orientale. Naturalmente, durante il periodo del Ramadan, non mangia e non beve durante il giorno. Ribery cura l’alimentazione, ma anche molto la forma fisica. E sui social testimonia le sue numerose sedute di allenamento. In vacanza, ma anche nella sua palestra personale. L’obiettivo è sempre lo stesso: vietato mollare.

Robert Lewandowski. Da tuttosport.com il 13 dicembre 2021. Golden Boy 2021, ci siamo! Oggi pomeriggio a partire dalle 18.30 circa la cerimonia di premiazione in diretta dalla "Nuvola Lavazza" di Torino. Sarà possibile seguire l'evento in diretta streaming sul nostro sito e sul sito ufficiale del premio europeangoldenboy.com.  Di seguito i premiati dell'edizione 2021:

Da tuttosport.com il 13 dicembre 2021.

«È un grande onore e una sensazione stupenda. Questo premio significa molto per me, ringrazio la giuria».

Il Golden Player 2021 ha un valore ancora più grande di quello del 2020 perché stavolta a eleggerla è stata una giuria composta da dirigenti e glorie del calcio: oltre alla Souloukou, direttore generale dell’Olympiacos, Shevchenko, Butragueño, Rui Costa, Nedved, Chapuisat, Toni, Eto’o, Matthäus, Stoichkov, Van der Sar, Verón, Costacurta. 

«I voti di questi campioni straordinari, che conoscono bene la realtà del calcio e del campo, sono molto preziosi. Sono contento che abbiano scelto me come Golden Player: il loro giudizio è affidabile e obiettivo». 

Considera il Golden Player 2021 una consolazione, visto che non le hanno assegnato il Pallone d’Oro neanche quest’anno?

«Non è certamente una consolazione, è un riconoscimento importante. È incredibile essere stato votato da queste leggende che hanno segnato il calcio negli anni in cui sono stati protagonisti». 

Rummenigge ha detto in un’intervista a Tuttosport: «Lewandowski ha meritato il Golden Player perché è stato il migliore nel 2021, battendo un record che pensavo fosse imbattibile: quello dei 40 gol di Gerd Müller». 

Se ripensa a quel giorno?

«La scorsa stagione ho iniziato a sognare di poter superare il record di Müller quando, nonostante il mio infortunio e qualche partita saltata, ho scoperto che il primato sarebbe stato alla mia portata. A volte, quando vuoi davvero qualcosa, non arriva... Penso alla partita contro l’Augsburg: i miei compagni volevano aiutarmi, ma io non riuscivo proprio a segnare. Il 41° gol, quello del nuovo record, è arrivato al novantesimo. Mi sono sentito come in un film d’azione, dove c’è suspense fino alla fine. È un momento eccezionale, che conserverò per sempre nel mio cuore». 

Dopo aver conquistato due edizioni su due del Golden Player (2020, 2021), se lo dovesse vincere anche nel 2022 dovremo chiamare il premio “Golden Lewandowski”...

«Certo che punto a trionfare anche nel 2022! Sarebbe fantastico avere un “Golden Lewa Award” (risata)». 

A quale gol del 2021 è più affezionato?

«Quello contro l’Augsburg è stato il più importante. Ma il più bello è la rovesciata in Champions League contro la Dynamo Kiev: non avevo mai segnato in quel modo. È stato davvero difficile perché faceva piuttosto freddo e c’era la neve». 

Quanti gol vorrebbe segnare in questa stagione?

«Non ho mai un numero preciso di gol nella mia mente. Cerco di dare il meglio di me stesso in ogni partita e cerco di segnarne il più possibile. Ho sempre sognato un gol come quello di Kiev e, ora che l’ho fatto, punto a una rete decisiva in una finale». 

Preferirebbe un’altra Champions League o la decima Bundesliga?

«Voglio entrambi!».

In Champions League quali club teme maggiormente?

«Manchester City, Liverpool, Chelsea, Paris Saint-Germain e Real Madrid. Siamo consapevoli che dovremo batterli per vincere la Champions League. Sarà molto dura, ma nel 2022 ci proveremo». 

Come nascono i suoi gol: più studio, lavoro o istinto?

«È una combinazione di molte abilità: istinto, come senti la palla, ripetizione, duro lavoro, osservazione. Ma più di tutto è amore per quello che si fa». 

Il difensore che soffre maggiormente?

«Ne dico due: Giorgio Chiellini e Sergio Ramos. Sono entrambi duri e fisici. Conoscono tutti i trucchi del mestiere, ma sono sempre corretti e quasi sempre hanno il sorriso sulle labbra. È difficile, ma anche divertente giocare contro di loro». 

A quale compagno del Bayern deve essere più grato per gli assist?

«Con Thomas Müller gioco da molto tempo: ci capiamo anche a occhi chiusi. Lui sa come gioco, i miei movimenti e dove voglio la palla. E lo stesso io di lui». 

Quale obiettivo ha in mente per il 2022?

«Lo stesso degli ultimi anni: vincere più titoli possibili, segnare più gol possibili e rendere felici i tifosi». 

Cosa sta dando in più al Bayern il nuovo allenatore Nagelsmann?

«È molto concentrato su tutte le varianti tattiche e flessibile durante la partita. È in grado di adattarsi molto rapidamente alle situazioni della gara». 

A quali sfizi rinuncia per avere un fisico così?

«A tavola seguo le regole introdotte da mia moglie Ana, che è una nutrizionista. È lei che si occupa della mia forma e di cosa e quando devo mangiare. Evito i pasti malsani e il lattosio: devo dire che i benefici per il mio corpo sono notevoli».

Lionel Messi. Pallone d’oro 2021, a trionfare è Lionel Messi. Secondo Lewandowski. Valentina Mericio il 29/11/2021 su Notizie.it. A trionfare ancora una volta a Parigi è il calciatore argentino Lionel Messi. Secondo Lewandowski. Il pallone d'oro alla miglior calciatrice va ad Alexia Putellas. L’edizione appena volta alla conclusione del pallone d’oro che si è tenuta al Thêatre du Chatelet di Parigi è stata piena di conferme. La prima è senz’altro quella dell’ambita statuetta che ancora una volta è stata consegnata al più forte o meglio a colui che più di tutti ha fatto una carriera straordinaria. Parliamo dell’attaccante argentino Lionel Messi, da poco tra le fila del Paris Saint Germain e che in questa edizione del 2021 è riuscito a raggiungere la settima statuetta. Parziale delusione invece per Lewandowski che è riuscito comunque a portare a casa il premio di miglior realizzatore. Podio italiano con Jorginho che ha ottenuto il terzo posto. Premio attesissimo invece per l’attaccante blaugrana Alexia Putellas che ha vinto il pallone d’oro femminile.

Pallone d’oro 2021 vincitore, la classifica finale

Questa è stata la top 10 finale:

1 – Messi

2 – Lewandowski

3 – Jorginho

4 -Benzema

5 – Kanté

6 – Cristiano Ronaldo

7 – Salah

8 – De Bruyne

9 – Mbappé

10 – Donnarumma

Pallone d’oro 2021 vincitore, gli altri premi

La prima statuetta assegnata è stata al miglior giovane Under 21. Si tratta del 19enne e astro nascente del Barcellona Pedri: “Ho compiuto 19 anni da poco e questo è il miglior modo per festeggiarli accanto ai migliori del mondo.

Devo ringraziare il Barcellona e i miei compagni e anche Leo Messi. Lo dedico alla mia famiglia che ogni giorno mi da supporto e consigli”, sono le parole piene di emozione per la stellina blaugrana.

Il secondo premio è andato invece al goleador del Bayern Monaco Lewandowski che ha vinto il premio come miglior realizzatore della stagione tra club e nazionale.

Nel frattempo c’è un po’ di azzurro sul palco del Pallone d’oro. Il nostro Gigio Donnarumma ha vinto il prestigioso premio Yachine dato al miglior portiere. Visibilmente emozionato ha dichiarato: “Una stagione indimenticabile, il ritorno in Champions col Milan, la vittoria agli Europei, il trasferimento al Psg, che mi ha sempre seguito. Era destino che fossi qui. Spero di vincere tanti trofei con questa maglia. Ringrazio la mia famiglia, mio fratello mi aiuta ogni giorno”.

Il premio per il miglior club dell’anno è stato infine quasi scontato. Il riconoscimento è andato al Chelsea che ha trionfato nell’ultima stagione della Champions League.

Pallone d’oro 2021 vincitore, la cerimonia

Le premiazioni hanno preso il via con l’arrivo dei due piloti della scuderia francese Alpine Fernando Alonso e Esteban Ocon che hanno fatto il loro ingresso trionfale con indosso un casco color nero lucido. L’atmosfera sul palco si è fatta particolarmente emozionante quando alcuni giocatori hanno autografato le maglie dei due piloti.

Nel corso della cerimonia di premiazione c’è stato spazio per gli omaggi alle grandi stelle del panorama calcistico internazionale. Sul palco del pallone d’oro è stato dedicato un omaggio a Diego Armando Maradona e Gerd Muller, quest’ultimo scomparso il 15 agosto 2021. Parlando di vecchie glorie, il Theatre du Chatelet ha ospitato il pallone d’oro 2006 Fabio Cannavaro, ancora l’ultimo italiano in ordine di tempo a vincere la statuetta.

Pallone d’oro 2021 vincitore, Messi: “Un onore aver lottato con Lewandowski”

Il discorso di Lionel Messi sul palco è stato quanto mai ispirato. Il campione argentino ha affermato come per lui sia stato un onore lottare contro Lewandowski: “Ogni volta che ho vinto il Pallone d’Oro mi è sempre mancato qualcosa, questa volta ci sono riuscito e credo che la vittoria con l’Argentina mi abbia portato a vincere questo premio. Ringrazio i miei compagni di squadra del Barcellona e ora del PSG, ringrazio la mia famiglia, mia moglie, i miei figli, i miei fratelli. […] Un onore per me aver lottato con Lewandowski perché credo che avrebbe meritato il Pallone d’Oro perché lo avrebbe vinto lo scorso anno e penso che France Football debba ricompensarlo perché lo merita”, ha affermato Messi.

Da corrieredellosport.it l'1 dicembre 2021. La vittoria del Pallone d'Oro 2021 di Messi ha fatto discutere. In tanti, infatti, sostengono che il premio sarebbe dovuto andare a Lewandowski. Tra questi c'è l'ex terzino dello United e della Juve Patrice Evra che, attraverso un video postato su Instagram, ha mostrato tutto il proprio disappunto per le decisioni di France Football. Sì, perché secondo il francese il Premio Yashin, vinto da Donnarumma, sarebbe dovuto andare all'estremo difensore del Chelsea Edouard Mendy. Evra non ci sta e va subito all'attacco: "Mi dispiace molto per Lewandowski. Quelli di France Football hanno dovuto inventare un trofeo per lui perché si sentivano in colpa. Sanno che questa è corruzione. La gente deve aprire gli occhi! Non sono il tipo di persona che dovrebbe dire chi merita un premio e chi no. Ma tutti scrivono nei commenti: rapina, rapina, rapina. Le persone non sono d'accordo su questa assegnazione. Sono sicuro che se inserisco un sondaggio su chi avrebbe dovuto vincere il Pallone d'Oro tra Messi o Lewandowski, vincerà Lewandowski. Che cos'è l'interesse per il calcio? I fan. Bisogna sentire loro e dare delle spiegazioni". 

Pallone d'Oro, Evra non ci sta e sbotta

L'ex United e Juve ci tiene però a precisare che le sue parole non sono dettate da un "odio" per Messi: "Mi dicono che ho perso tre finali di Champions League contro di lui e quindi lo odio, ma non è così. Non bisogna mancare di rispetto al Barcellona perché io ho perso le finali contro il Barcellona. Xavi e Iniesta avrebbero meritato il Pallone d'Oro, ma è stato dato a Messi. 

Dicono anche: 'Cristiano è tuo amico, ecco perché odi Messi'. Non voglio parlare con voi ragazzi. Se non ti piaccio, non mi interessa. La tua mente non è abbastanza aperta, sei concentrato solo sull'amore per il tuo giocatore. Se ami qualcuno, lo proteggi, così non capirai mai il mio messaggio. Il mio messaggio è contro la massiccia corruzione organizzata nel calcio. Messi ha fatto una grande stagione. Ma Lewandowski è stato il migliore quest'anno e l'ultimo. Quello che mi piace di Messi è che 'uccide' non solo in campo, ma anche fuori. Messi ha preso il Pallone d'Oro e ha detto a Lewandowski: 'Robert, avresti dovuto vincerlo l'anno scorso'. E quest'anno, Leo? Ragazzi, aprite gli occhi. France Football, servono risposte. Robert, mi dispiace che tu sia stato derubato di nuovo". Infine Evra si scaglia anche contro la decisione di assegnare il Premio Yashin a Donnarumma e non al portiere del Chelsea Mendy, ma ha una sua spiegazione: "Non è andato a lui perché è africano. L'Africa ha sempre posto piccolo, ma le cose per fortuna stanno cambiando".

Pallone d’Oro, Cristiano Ronaldo a poche ore dall’assegnazione del premio: “Sono tutte menzogne”. Ilaria Minucci il 29/11/2021 su Notizie.it. Cristiano Ronaldo pubblica un post su Instagram, scagliandosi contro l’imminente cerimonia di premiazione del Pallone d’Oro 2021.Nella serata di lunedì 29 novembre, a Parigi si terrà la cerimonia di premiazione del Pallone d’Oro 2021, durante la quale verrà svelata l’identità del vincitore dell’ultima edizione del premio. In questo contesto, il calciatore Cristiano Ronaldo, cinque volte Pallone d’Oro, non sarà presente alla cerimonia e, data la sua assenza, appare certo che non sarà il vincitore dell’ambito riconoscimento. A questo proposito, inoltre, proprio in relazione ad alcune indiscrezioni recentemente diffuse in relazione alla sua mancata presenza a Parigi, Ronaldo ha deciso di sfogarsi con un post pubblicato su Instagram a poche ore dall’inaugurazione della cerimonia di premiazione. Con il messaggio condiviso sul suo account Instagram ufficiale, il campione portoghese ha deciso di rivolgere aspre critiche nei confronti di Pascal Ferré, caporedattore di France Football, e della rivista francese che si configura come l’organizzatrice dell’evento. In particolare, Cristiano Ronaldo ha denunciato quanto segue: “Il risultato di oggi spiega il perché le dichiarazioni di Pascal Ferré della scorsa settimana, quando ha affermato che gli avevo confidato che la mia unica ambizione era finire la mia carriera con più Palloni d’Oro di Lionel Messi. Pascal Ferré ha mentito, ha usato il mio nome per promuovere se stesso e per promuovere la rivista per cui lavora (France Football). È inaccettabile che il responsabile dell’assegnazione di un premio così prestigioso possa mentire in questo modo, in assoluta mancanza di rispetto per chi ha sempre rispettato France Football e il Pallone d’Oro. E ha mentito ancora oggi, giustificando la mia assenza dal Gala con una presuntaquarantena che non ha ragione di esistere”. Il messaggio del calciatore, infine, prosegue nel seguente modo: “Voglio sempre fare i complimenti a chi vince, all’interno della sportività e del fair play che hanno guidato la mia carriera sin dall’inizio, e lo faccio perché non sono mai contro nessuno. Vinco sempre per me stesso e per i club che rappresento, vinco per me stesso e per chi mi vuole bene. Non vinco contro nessuno. La più grande ambizione della mia carriera è vincere titoli nazionali e internazionali per i club che rappresento e per la Nazionale del mio Paese. La più grande ambizione della mia carriera è quella di essere un buon esempio per tutti coloro che sono o vogliono essere calciatori professionisti. La più grande ambizione della mia carriera è lasciare il mio nome scritto a lettere d’oro nella storia del calcio mondiale. Concludo dicendo che il mio focus è già sulla prossima partita del Manchester United e su tutto ciò che, insieme ai miei compagni di squadra e ai nostri tifosi, possiamo ancora realizzare in questa stagione. Il resto? Il resto è solo il resto…”.

(ANSA l'8 agosto 2021) - Il prolungamento del contratto di Lionel Messi avrebbe rappresentato un "rischio" finanziario per il Barcellona; attualmente in grande difficoltà. Così il presidente, Joan Laporta, in una conferenza stampa, ha spiegato la rinuncia al fuoriclasse argentino, aggiungendo di aver fatto ciò che era "meglio per gli interessi" del club. Messi, che lascia il Barça dopo più di vent'anni insieme, ha "altre proposte", ha aggiunto Laporta, senza rivelare quali club stiano corteggiando il giocatore. 

Salvatore Riggio per "corriere.it" l'8 agosto 2021. «Sono giorni che penso a questo momento, a che cosa dire. La verità è che è difficile trovare le parole dopo avere trascorso tutta la vita qui non sono pronto a questo. Non è come avevo pensato». Così ha esordito, commosso fino alle lacrime, Leo Messi nella storica conferenza stampa da Barcellona che ha segnato il suo addio al club blaugrana. Abito e cravatta scuri, camicia bianca, la moglie Antonella, i figli, il presidente del Barça Laporta, tantissimi compagni e ex compagni (come Xavi) in platea, i 35 trofei vinti in carriera disposti nella stanza, Leo ha proseguito: «A Barcellona è stato bellissimo, ora devo dire addio a tutto questo. Sono arrivato qui che avevo 13 anni e dopo 21 vado via con mia moglie e i miei tre bambini catalano-argentini. Ma questo è solo un arrivederci. Grazie ai miei compagni e a chi è stato qui con me: qui è stata casa mia, sono successe tante cose belle. Avrei voluto dire addio nel campo, con i tifosi. Mi sono mancati molto in questo tempo di pandemia. Grazie». Qui è seguito un lungo, commosso applauso. 

Le ragioni. Poi sono arrivate le domande dei media, per provare capire davvero com’è andata. Pensavi che la cosa fosse risolta positivamente quando sei tornato dalle vacanze a Ibiza? «Il presidente ha fatto tutto il possibile, ho sentito dire tante cose sbagliate, ma io volevo rimanere. Non ho mai finto, né detto bugie. La verità è che la volontà comunque di entrambi era di andare ancora avanti insieme. Ci sono delle regole della Liga che il club ha potuto seguire fino a un certo punto. A Javier Tebas (il presidente della Liga, ndr) non ho niente da dire né ho problemi con lui».

Una vita che cambia. Sul suo stato d’animo, Leo ha spiegato: «Tante cose mi stanno passando per la testa adesso. Sono giorni non semplici, la mia vita cambierà completamente: dopo 16 anni in prima squadra, tutto era routine, sicurezze, ora dovrò ricominciare da zero , così come la mia famiglia. Sarà difficile, ma ci riusciremo». Come vorrei essere ricordato? «Non so. So che sono felice di avere fatto vedere la maglia del Barcellona in tutto il mondo». Ma perché si è chiusa così in fretta una trattativa in cui entrambi avevate la stessa volontà? E, soprattutto, perché leo non ha deciso di restare comunque a qualsiasi condizione? «I debiti del club sono importanti e Laporta si è reso conto che anche per i parametri della Liga sarebbe stato impossibile andare avanti: io ho fatto il possibile, avevo anche accettato di abbassarmi del 50% il mio stipendio ma non è stato sufficiente.». 

L’ipotesi Psg. Il Psg? «Posso solo dire che quando è uscito il comunicato dell’addio al Barcellona molti club si sono informati sulla mia situazione. Al momento non c’è nulla di concluso, ma stiamo parlando. Io voglio continuare a competere a livelli alti e vincere tutto, come Dani Alves che ha appena vinto l’oro olimpico... Io sono fatto così, è scontato che vada in un club che può competere a livelli alti». Sulla foto con i probabili compagni del Psg a Ibiza, spiega: «Ci siamo rivisti con Paredes e Doi Maria, poi si è unito Neymar, che è un amico, e siamo andati a casa sua. Era solo la foto di un momento tra amici... Fa rumore, ma non c’era nulla di strano». Quanto giocherà ancora? «Non lo so ancora, dipenderà anche dal fisico, per fortuna non ho mai avuto incidenti gravi. So che più si va avanti più è complicato, ma fino a quando potrò andrò avanti».

Il momento più difficile. «Questo è il momento più difficile della mia carriera. Le sconfitte ci sono state ma c’è sempre stata la possibilità di rivincita, stavolta invece la situazione è completamente diversa». La notizia, dice ancora Messi, «è stata una secchiata d’acqua gelida in faccia. Sicuramente, quando tornerò a casa sarò scosso. Quello che importa è essere circondato dalla famiglia. E giocando a calcio, la cosa che amo, le cose andranno sicuramente meglio». 

I rimpianti. «Rimpianti? Potevamo vincere più Champions, penso all’eliminazione con Liverpool o con il Chelsea. Ma siamo stati una generazione straordinaria, abbiamo vinto tanto. Abbiamo sempre cercato di dare il massimo. A volte si riesce a volte no. Ma potevamo vincere di più, ecco perché voglio continuare a stare ad alto livello. Mi piacerebbe eguagliare Dani Alves, il recordman di trofei». 

35 milioni l’anno. Si volta pagina, dunque: Leo, nonostante la sua ritrosia a parlarne, giocherà nel Dream Team del Psg di Pochettino con Neymar e Mbappé (per tacere di tutti gli altri). Il suo entourage capeggiato da papà Jorge e il Psg hanno raggiunto un principio di accordo sulla base di un contratto biennale, con opzione per la terza stagione, da circa 35 milioni di euro. Tamim bin Hamad Al Thani, fratello dell’emiro del Qatar proprietario del Psg, aveva già annunciato venerdì notte l’esito positivo dei colloqui. «Le trattative sono ufficialmente concluse. Più tardi l’annuncio». Che è arrivato oggi.

La delusione di Laporta. «Messi voleva restare al Barcellona», aveva spiegato venerdì Joan Laporta, presidente dei blaugrana. Che suo malgrado sarà ricordato come colui che ha fatto fuggire Lionel dalla Catalogna, dopo 17 stagioni, 810 presenze e 683 gol. Oltre a tanti, ma proprio tanti, trofei vinti in ogni angolo del mondo. Il numero uno dei blaugrana aveva spiegato: «Non mi sento affatto in colpa. Abbiamo fatto di tutto perché Messi continuasse al Barça, in questa situazione finanziaria. Avevamo concordato il contratto. Non mi piace ripetere che abbiamo dovuto sostenere un’eredità finanziaria brutta. C’era un budget molto peggiore di quello che sembrava. Si stava procedendo adeguatamente perché sembrava che la Liga stesse per espandere il “fair play” e avevamo raggiunto un accordo con il giocatore. Stavamo aspettando. Ma c’è stato un momento in cui dovevamo prendere una decisione e l’abbiamo fatto. Gli incassi rappresentano una voce importante nel bilancio e noi non abbiamo un margine per i salari che rispettino i limiti de la Liga».

Giovanni Sallusti per "Libero quotidiano" il 9 agosto 2021. Piange, Lionel Andrés Messi Cuccittini, tra le altre cose, piange mentre allude, dice e non dice e si contraddice, e soprattutto si dimentica una verità elementare dell'umano. Aut -aut. Si può percorrere qualunque scelta nella vita, persino quella che porta alla negazione della propria fede, personale, religiosa, calcistica. Non si può, però, far finta di non aver scelto. Non si possono recitare più parti nella tragicommedia dell'esistenza, e non perché sia un comandamento moralistico, ma proprio perché è materialmente impossibile. Angelo o demone, idealista o mondano, vita estetica o vita etica, diceva il filosofo Kierkegaard che intitolò la sua opera fondamentale proprio "Aut-aut". Nel caso di specie: bandiera romantica o miliardario coerente. Un miliardario coerente, per capirci, può benissimo salutare il Barcellona dopo 21 anni (settore giovanile compreso), 10 campionati spagnoli, 4 Champions League, 6 Palloni d'oro e i circa 800 milioni lordi di euro complessivi. Può benissimo farlo perché ritiene inaccettabile per il canone che guida le proprie azioni (il guadagno, detto col massimo rispetto liberista possibile del termine) la stretta economica della Liga e il tetto salariale imposto ai club. Ma non può anche convincersi, e convincerci, di credere allo slogan blaugrana, che appunto scandisce «Més que un club», più di un club. Ennò. Se il Barcellona è «più di un club», se il Barcellona è questione di ragione e sentimento, di anima e di epidermide, allora Messi poteva tranquillamente regolarsi come Franco Baresi e Billy Costacurta, che ad ogni rinnovo si recavano dal "dottor Galliani" e firmavano in bianco, perché la cifra era un corollario dell'essenziale, il Milan. Nessuno può rimproverare a Lionel che non abbia compiuto questo atto temerario e controintuitivo. Nessuno, però, può allora credere alle sue lacrime. I miliardari coerenti non piangono. I miliardari coerenti fanno come ha sempre fatto quello che di Messi poteva essere il gemello del gol e non è stato: Zlatan Ibrahimovic. Imbastiscono una dichiarazione professionale con sobri ringraziamenti e amarcord di titoli vinti, la reggono col proprio carisma, e salutano. Quel che non si può reggere, è la commozione ambigua. «Mi sono abbassato l'ingaggio del 50% e mi sono allungato il contratto, ma non è bastato. Qualcuno ha detto che il club mi aveva chiesto un ulteriore sconto del 30%, ma non è vero». E allora, verrebbe da dire? «Sia io sia il club avevamo la stessa linea: continuare. Sto lasciando il club della mia vita e la mia vita cambierà completamente. Riparto da zero». No, non proprio, da 30, i milioni annui che sarebbe pronto a garantire il Paris Saint Germain, una squadra-Stato in mano agli emiri, che sproloquia ogni giorno di «calcio etico» e poi fa la raccolta di fuoriclasse gettando miliardi dall'elicottero. «Chiaro che penso a un omaggio futuro con il Camp Nou pieno. Per questa gente sono disposto a tutto». No Leo, non vorremmo riecheggiare Nanni Moretti, ma le parole sono importanti. Non sei disposto a tutto. Non sei disposto, ad esempio, alla scelta estrema, a restare gratis "accontentandoti" dei 33 milioni all'anno che secondo Forbes introiti solo dagli sponsor. Se uno non è disposto all'estremo, non è disposto a tutto. È logica, Leo, e la tua è legittima, cristallina e perfino condivisibile. Hai la percezione di te stesso come artista, e la pretendi anche dal mercato (e per favore, lascia stare stare l'alibi sofistico per cui ora sei svincolato e quindi il salary cap vigente rende impossibile nuovi accordi soddisfacenti, perché se eri "pronto a tutto" eri pronto anche a risolvere l'amore della tua vita già a maggio, a gennaio, a priori). Una postura da artista consapevole, che è anche e anzitutto imprenditore di se stesso, da miliardario che dà agli zeri in serie il loro giusto valore. Una scelta che hai fatto molto tempo fa, e che esclude le lacrime. Aut-aut, Lionel, sempre.

Salvatore Riggio per corriere.it il 12 agosto 2021.

Nuova vita al Psg. Un’attesa durata più di 24 ore, ma alla fine Lionel Messi è sbarcato a Parigi martedì 10 agosto per poi pronunciare il giorno dopo le sue prime parole da giocatore del Psg. Indosserà la maglia numero 30, la sua casacca nei primi anni al Barcellona, per poi indossare il numero della fantasia per antonomasia, il 10. Archiviate nel giro di poche ore le lacrime per l’addio al Barça: «Mi sono dimezzato lo stipendio e allungato il contratto, ma non è bastato. Vorrei un omaggio un giorno con lo stadio pieno, per questa gente farei di tutto». Un addio clamoroso, dopo 35 trofei vinti (tra i quali, 10 Liga e quattro Champions). Adesso con una nuova squadra, in una nuova città, in un nuovo campionato, la Pulce insegue altre vittorie. E magari quel settimo Pallone d’Oro…

Il nutrizionista italiano. Sono tanti i segreti di Messi. Tra questi, c’è la dieta. Il suo nutrizionista è italiano: si chiama Giuliano Poser. Ha rivoluzionato la sua alimentazione, dopo avergli consigliato cinque alimenti chiave: acqua, olio d’oliva, cereali integrali, frutta fresca e verdura fresca. Sì alle noci e a una ridotta quantità di zucchero. Sconsigliato, però il consumo eccessivo di carne, cosa fin troppo comune in Sudamerica e in Spagna.

La cotoletta alla milanese. Messi adora il pollo arrosto con le verdure e la cotoletta alla milanese, meglio se cucinata dalla madre. Tuttavia, è passato da qualche anno a un regime alimentare quasi vegano, dopo i problemi di digestione e vomito che lo hanno colpito in più di qualche gara con la maglia del Barcellona e dell’Argentina.

La cura dei dettagli. Un atleta come Messi non può non curare i dettagli. Soprattutto durante i suoi allenamenti. L’argentino punta molto ad allenare la velocità e l’agilità. Nella sua routine, non mancano gli affondi, gli allungamenti dei muscoli posteriori della coscia e lo skip. Per l’agilità, salti di coni e ostacoli. Non solo: alla fine di ogni seduta beve molta acqua per mantenersi idratato e poi fa jogging per 5-10 minuti. È uno stakanovista. 

La casa a Miami. Qualche tempo fa Messi ha acquistato una casa di lusso a Miami. Un immobile dal valore di sette milioni di euro nell’elegante Porsche Design Tower, completata nel 2017, che si trova sul lungomare di Sunny Isles. Brandizzato dall’omonimo produttore tedesco di supercar, l’edificio vanta tre montauto che consentono ai residenti di parcheggiare il proprio veicolo sullo stesso piano della propria suite.

La casa a Barcellona con divieto di sorvolo. Non solo la villa a Miami. Perché Messi a Barcellona ha un casa che vale 6,2 milioni di euro. Con vista mare e in una zona di divieto di volo. È situata nell’esclusivo sobborgo di Castelldefels e ha un piccolo campo da calcio, una piscina, una palestra coperta e un parco giochi per i suoi tre figli. Inoltre, il fuoriclasse argentino ha una stanza intera per la sua collezione di magliette, scambiate con gli avversari in tutti questi anni di carriera.

Il jet privato. Tra le ricchezze di Messi, c’è anche un jet privato che vale 13,7 milioni di euro. È stato realizzato da un’azienda argentina e progettato per la famiglia Messi con i nomi di sua moglie, Antonella, e dei bambini Thiago, Ciro e Mateo che compaiono sui gradini del velivolo. Questo jet praticamente è un mondo a parte: ha una cucina, due bagni, posti a sedere per 16 persone, i sedili possono essere piegati e trasformati in otto letti. Insomma, il massimo dei comfort e anche di più. Nel marzo 2020 il jet fu costretto a un atterraggio d’emergenza a Bruxelles, in Belgio. 

L’hotel. Messi ha comprato anche un albergo da quasi 30 milioni di euro nella città costiera di Sitges, a circa 42 chilometri da Barcellona. L’Hotel «MiM Sitges» ha quattro stelle ed è a soli 100 metri dal mare. Dispone di 77 camere, tra le quali cinque junior suite e una suite, e costa circa 150 euro a notte durante l’alta stagione per soggiornare in una camera standard. Inoltre, c’è lo Sky Bar sul tetto che vanta viste panoramiche sulla città e sul Mar Mediterraneo, nonché una piscina. Oltre a esserci una sauna, un bagno turco, docce sensoriali, vasca immersione fredda e piscina con acqua salata.

Collezione d’auto. La sua collezione d’auto vale, si dice, 3.5 milioni di euro. A partire dalla sua Pagani Zonda da 1,7 milioni di euro. Messi possiede anche una GranTurismo S e una GranTurismo MC Stradale, oltre che essere stato visto con una Ferrari F430 Spider e una Range Rover.

La barca a noleggio. La famiglia Messi ne aveva noleggiata una la scorsa estate per passare delle vacanze da sogno per un giro attorno a Ibiza e Formentera. Si trattava della splendida barca charter Seven C che misura quasi 92 piedi di lunghezza. Il noleggio costa più di 45mila euro a settimana: dotata di interni di lusso, la nave può ospitare 10 ospiti in quattro stanze, tra cui una master suite, una cabina Vip e due cabine doppie.

La famiglia. Antonella Roccuzzo è la compagna di Messi. La donna gli è stato molto vicino in questi giorni di grandi cambiamenti. I due hanno tre figli maschi: Thiago, Mateo e Ciro, nati nel 2012, 2015 e 2018. Messi è di origini italiani da parte dei nonni paterni. Angelo Messi è nato nel 1866 a Recanati e ha vissuto con la moglie Maria Latini a Montefano, provincia di Macerata, prima di partire per l’Argentina.

Il padre. C’è un registra nell’addio di Lionel Messi al Barcellona e nel suo approdo al Psg, in Francia, nella squadra dei sogni. È Jorge Horacio Messi, il temuto padre del fuoriclasse argentino. Messi senior è colui che fa e disfa, pensa e ripensa e riesce a depistare per poi affondare il colpo. Monitora il patrimonio del figlio, dà linfa al «brand Messi» e sono in tanti in Spagna a pensare che sia stato lui a consigliare a Lionel di non abbassare di oltre il 50% l’ingaggio con il Barcellona. Insomma, il padre è lo stratega di tutte le sue iniziative che hanno a che fare con i soldi, dai contratti con il Barcellona (e ora con il Psg) alle succulenti sponsorizzazioni. 

La dedica. Amore grande per la nonna materna, Celia, scomparsa nel 1998. Ogni volta che Lionel esulta, è per lei. Non c’è momento nel quale la Pulce non la ricordi.

I 10 gelati. All’età di nove anni un dirigente della sua società gli propose una scommessa: un gelato ogni 100 palleggi. Una volta superò quota mille e guadagnò 10 gelati.

La musica. Messi è un grande appassionato di cumbia, una musica popolare del Sudamerica. Il suo gruppo preferito? piace il gruppo «La Banda del Tigre Ariel» che gli ha anche dedicato una canzone. Tra i suoi cantanti preferiti però c’è un italiano, Eros Ramazzotti. 

Gigi Garanzini per "la Stampa" l'8 agosto 2021. Farà strano vederlo con un'altra maglia. Farà anche male, a me ne sta già facendo. Perché hai un bell'essere del mestiere, averne viste di tutte e di più, ma quella di Leo prima di essere la straordinaria carriera di un campione è stata la favola di un ragazzino di Rosario che non voleva saperne di crescere - di statura - e il mondo lo ha scalato prima di tutto con gli ormoni cui provarono a ricorrere, dopo averle tentate tutte, i medici del Barcellona. Ecco, almeno per quei pochi che del calcio, del calcio sublime, continuano ad avere una visione romantica, una favola così non doveva finire in una questione di quattrini. Perché è una conclusione miserabile, per lui e per la società. Perché le grandi storie d'amore semmai finiscono dopo, per incomprensioni e incompatibilità assortite, com' è successo per Totti. Non prima. Non finché il giocatore respira, e magari rompe pure le balle perché di star fuori non se ne parla. Ma di Francesco Totti, prima ancora di tutto quel che ai romanisti aveva regalato sul campo, resterà quell'ultima sera, quel giro di campo mentre tutto l'Olimpico piangeva con lui, e noi da casa. Messi no. Quel momento sublime, definitivo, del Camp Nou inzuppato di lacrime non lo vivrà. E un giorno gli mancherà. Con un'altra maglia dunque. Quale? Tutte le strade portano a Parigi, senza del tutto escludere quella di Manchester. Lo sapremo presto, grandi alternative non se ne vedono. Messi ha 34 anni, il grande avvenire è dietro le spalle. Ma che sia ancora un fenomeno è lì da vedere, meno di un mese fa ha guidato l'Argentina, finalmente, alla conquista della Copa America. Con i suoi gol, si capisce, ma prima ancora con i suoi assist, le sue invenzioni, quei passaggi filtranti che passano per la cruna di un ago e lo rimandano direttamente ai più grandi di sempre. Pensate che un malato di football dopo le serate europee potesse perdersi le nottate sudamericane? L'assist a cucchiaio per un gol del Papu Gomez, dopo aver evitato uno dei fallacci di laggiù, sta tra il capolavoro e la fantascienza. Per un paio d'anni, a star leggeri, beato chi se lo piglia. Perché Messi es Maradona cada dìa, ogni giorno. Ed è ancora abbastanza attuale, anche se il grande Jorge Valdano lo scrisse qualche anno fa.

La notizia che ha sconvolto il mondo del calcio. Perché Messi non è più un calciatore del Barcellona: il contratto e gli ostacoli della Liga. Antonio Lamorte su Il Riformista il 5 Agosto 2021. È clamorosa la notizia che arriva nel tardo pomeriggio dalla Spagna: Lionel Messi non è più un calciatore del Barcellona. Il fenomeno argentino, sei volte Pallone d’Oro, fresco vincitore della Copa America, capitano e simbolo della squadra non vestirà più la 10 blaugrana. A confermare l’indiscrezione un comunicato ufficiale della stessa società catalana. “Nonostante si fosse arrivati a un accordo tra l’FC Barcelona e Leo Messi e con la chiara intenzione di entrambe le parti di firmare un nuovo contratto nella giornata di oggi, non si potrà formalizzare a causa di ostacoli economici e strutturali (normativa della Liga spagnola)”, si legge nella nota. “Davanti a questa situazione, Lionel Messi non continuerà all’Fc Barcelona. Le due parti lamentano profondamente che alla fine non si potranno esaudire i desideri sia del giocatore che del club. Il Barça vuole ringraziare con tutto il cuore il contributo del giocatore all’ingrandimento della società e gli augura il meglio nella sua vita personale e professionale”. Il rinnovo fino a oggi pomeriggio sembrava soltanto una formalità. E invece è arrivata la notizia che ha sconvolto il mondo del calcio. Già l’anno scorso le due parti erano arrivate a un faccia a faccia ma poi il campione aveva deciso di restare. El Pais scrive che questo pomeriggio, dopo l’ultima comunicazione via telefono tra il padre e rappresentante del giocatore, Jorge, e il Presidente della società, Joan Laporta, il patto si sarebbe rotto. A impedire il decimo contratto della “Pulce” il tetto salariale imposto dalla Liga: il club aveva speso circa 506 milioni di euro nella passata stagione, La Liga ha imposto un tetto a 347 milioni per quella 2021/2022. Una cifra che sarebbe potuta aumentare dopo l’accordo della Liga con il fondo di investimento internazionale CVC, che avrebbe iniettato nelle casse del club circa 284 milioni. Al Barça, tuttavia, si sono mostrati scettici sul patto. “Si tratta di vendere i diritti televisivi per altri 40 anni. Non sappiamo neanche se saremo nella Superlega o altrove”, hanno detto al primo quotidiano spagnolo fonti vicine alla società. Anche il Real Madrid si è svincolato dal progetto. Questo soltanto ieri. Il 70% di queste nuove entrate sarebbero state destinate a infrastrutture (Espai Barça), il 15% per ridurre il debito di 1.173 milioni e il 15% ai salari della prima squadra. L’ultimo salario di Messi, tra fisso e premi, era arrivato a 138 milioni. Il numero 10 avrebbe anche accettato un ribasso del suo salario del 50% e il club aveva accordato un contratto per cinque stagioni. Secondo altre fonti la “pulga” non avrebbe accettato la soluzione. Il calciatore sarebbe molto colpito dalla notizia e non avrebbe aperto contatti con nessun altro club. Lo ha scritto Reshad Rahman, vicino alle questioni blaugrana. Il giornalista ipotizza che l’annuncio della società sia una maniera per pressare La Liga e il suo presidente Javier Tebas a rivedere la normativa. C’è ipotizza invece contatti con il Manchester City di Pep Guardiola, ex allenatore di Messi; chi invece un arrivo al Paris Saint Germain viste alcune foto del campione sui social. Il calciomercato in Liga finisce comunque il 31 agosto, molti si chiedono perché questa tempistica dunque. L’anno scorso Messi aveva deciso di dire addio al Barcellona per i suoi contrasti con il presidente Josep Maria Bartomeu. Laporta aveva vinto le elezioni promettendo il rinnovo del campione di Rosario. L’ambiente Barcellona è sotto shock.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Mario Sconcerti per il “Corriere della Sera” l'1 febbraio 2021. Messi nel calcio è il simbolo di un' età dell' oro che si sta chiudendo. Lo è nei soldi e nei sentimenti. Ci si può stancare di essere bandiere, non è anzi mai giusto averne, la bandiera è il club, l' unica cosa che resta. Ma si ha il piccolo obbligo di salutarsi meglio. Il Mundo ha rivelato cifre che stanno finendo, non è lì il vero problema. L' arroganza di Messi è andarsene togliendo al Barcellona il prezzo del suo cartellino, intascandolo lui come puro ingaggio. Cioè passare la porta lucrando anche sull' addio. Questo è l' aspetto crudo, venale come il peggiore dei divorzi fra coniugi carogna. Ognuno fa il suo interesse al mondo, anche il Barcellona quando pagava cure mediche costose al bambino Messi per farlo crescere. Per Messi era una malattia, per il Barcellona un investimento, niente di male e niente di ideale. Ma c' è un equilibrio anche nell' egoismo, Messi lo ha superato l' ultimo giorno mettendosi in tasca anche i soldi del taxi. Il contratto rivelato oggi è costoso, già ben conosciuto e quasi nell' ordine delle cose. Sono 138 milioni lordi a stagione. La metà netti. Ronaldo è il più vicino ma la Juve fattura la metà del Barcellona che ancora un anno fa era la società più ricca al mondo. Gli stessi 500 milioni il Barcellona li ha quasi spesi solo per gli acquisti inutili di Dembelè, Griezmann e Coutinho. Messi almeno ha portato risultati che difficilmente si ripeteranno. Non solo, il Barcellona era e resta un modello per il modo in cui arriva ai suoi ricavi. Solo il 35% dai diritti tv, ben il 46% da diritti commerciali, cioè vendendo il proprio marchio. Tutto questo lo ha ottenuto sulle spalle prima di Cruyff, poi di Messi e Guardiola. Insomma non c' è scandalo sui soldi, chi ha dato, ha avuto, da entrambe le parti. Non è per questo che il Barcellona è travolto dai debiti, ma per lunghe, cattive gestioni tecniche e per i limiti terribili che sta portando la gestione delle informazioni all' epoca del web. È in crisi il principio che è alla base del Barcellona, la proprietà divisa tra 150 mila tifosi che prima erano una montagna rosa a guardia di tutto e ora sono diventati un grande social che vuol sapere tutto, poco gradisce e sempre si divide. I giocatori fanno parte di questo gioco perché quando si elegge il presidente si schierano in campagna elettorale. Questo causa divisioni incancellabili, rancori e privilegi anche all' interno della squadra e della società. Lo scoop del Mundo è solo l' ultima conferma. Il caso Messi è uno sgarbo comune, ma è l' intero modello Barcellona che non tiene più.

Da corrieredellosport.it il 31 gennaio 2021. Cinquecentomilaciquantacinque milioni e duecentotrentasettemilaseicentodiciannove euro. Così, scritto per esteso, rende ancora più l'idea quanto abbia guadagnato Leo Messi al Barcellona con il contratto firmato nel novembre 2017, in scadenza questo giugno. Sì, 555.237.619, non c'è un errore di trascrizione. Lo rivela un'esclusiva del quotidiano spagnolo El Mundo, che nella sua edizione di questa domenica pubblica le pagine del documento firmato dall'argentino e da quel presidente Bartomeu con il quale adesso la Pulce è ai ferri corti.

I dettagli del contratto di Messi. Una sottoscrizione che prevede 138 milioni di euro al massimo a stagione tra quota fissa e quota variabile, cui vanno aggiunti due bonus supplementari: il primo già al momento della firma, un cosiddetto "premio rinnovo" di "appena" 115.225.000 euro. Il secondo sarebbe invece il "premio fedeltà", già incassato da Messi, per l'ammontare di 77.929.955 euro. Sempre sulle colonne di "El Mundo" si può leggere che al momento l'argentino - che in estate sembrava a un passo dall'addio - abbia già incassato il 92% di questo contratto, arrivando a una stima di quanto incassato dal 2017 al 2021 fissata appunto a 555.237.619 euro.

Giuseppe Liturri per “la Verità” il 5 marzo 2021. La Corte di giustizia della Ue, a distanza di 48 ore dalla sentenza sul caso Tercas, regala finalmente una soddisfazione al Commissario alla concorrenza, Margrethe Vestager, e rifila un (costoso) dispiacere a quattro club di calcio spagnoli, tra cui i prestigiosi Barcellona e Real Madrid, disponendo il rimborso di diversi milioni di euro di agevolazioni fiscali di cui hanno beneficiato negli ultimi 25 anni. Le specificità della vicenda sono l'occasione per mettere a nudo, senza nemmeno bisogno del controluce, gli esiti contraddittori derivanti dall'applicazione delle regole che dovrebbero consentire un ordinato funzionamento del mercato interno della Ue e impedire comportamenti distorsivi della libera concorrenza. Uno dei totem ideologici dell'Unione che, a dispetto delle buone intenzioni, spesso provoca gli effetti negativi che si prefigge di ridurre. La mannaia nelle mani di Bruxelles questa volta si è abbattuta sui due club di punta del calcio spagnolo (oltre all'Osasuna di Pamplona ed all'Atletico di Bilbao), che congiuntamente si sono aggiudicati ben sei delle ultime dieci Champions league. Per il club catalano si tratta inoltre dell'ultima tegola, dopo l'arresto del suo presidente la settimana scorsa per altre vicende e la perdita record di 100 milioni registrata nell'ultimo bilancio, che ha portato il debito a superare un miliardo di euro. Per ben 25 anni (dal 1990 al 2015) questi 4 club hanno beneficiato di un'agevolazione fiscale, perché hanno sfruttato una speciale esenzione prevista da una legge del 1990, che gli consentiva di conservare lo status giuridico di club sportivi senza fini di lucro (nonostante i loro ricavi fossero nell'ordine delle centinaia di milioni), anziché trasformarsi obbligatoriamente in società sportive per azioni. Questo regime speciale ha consentito loro di avere un'aliquota di tassazione degli utili mediamente più bassa di 5 punti percentuali. È tutto filato liscio fino al 2009, quando l'evidente anomalia è stata portata all'attenzione della direzione Concorrenza della Commissione che, dopo vari approfondimenti, nel 2013 ha aperto una formale istruttoria e nel luglio 2016 ha deciso che si trattava di aiuti di Stato illegittimamente concessi dallo Stato spagnolo, che andavano quindi restituiti dai beneficiari. Tale decisione è stata subito appellata dagli spagnoli ed è stata annullata dal Tribunale Ue a febbraio 2019, riconoscendo quindi le buone ragioni dei club calcistici. A quel punto è stata la Commissione a impugnare la sentenza di primo grado e portare il giudizio di fronte all'organo supremo della giustizia Ue: la Corte che ha sede a Lussemburgo. La sentenza pubblicata ieri ha annullato la decisione del Tribunale Ue del 2019 e ha infine riconosciuto la fondatezza dell'operato della Commissione. Ora non ci sono più dubbi: lo Stato spagnolo dovrà recuperare tutte le minori imposte versate da queste società sportive dal 2000 al 2015, non essendo possibile partire dal 1990 perché la Commissione ha aperto l'indagine solo nel 2009.Sono numerosi gli spunti di riflessione e i punti di confronto col caso Tercas. L'industria del calcio, con tutto il suo vasto e ricchissimo indotto, ha visto prosperare per ben 25 anni due club che nell'ultimo decennio, dall'alto di una schiacciante superiorità su tutti i loro avversari, hanno fatto incetta di trofei, aiutati, certamente non in modo decisivo, da questa agevolazione fiscale.  Sull'argomento, si ricordano gli innumerevoli interventi dell'ex amministratore del Milan Adriano Galliani che ha sempre denunciato anche l'altro vantaggio costituito dalla tassazione agevolata dei calciatori stranieri. Tutto questo è avvenuto in barba all'obbligo di notifica preventiva di queste misure, prevista a carico degli Stati dall'articolo 108(3) del TfUe. La Spagna è andata impunemente per la sua strada per ben 19 anni, prima che la Commissione accendesse un faro sulla vicenda e ci sono voluti altri 12 anni per ottenere una sentenza definitiva. Ma c'è un'aggravante. Nel 2012 la Spagna costituì un fondo (Frob) per la ricapitalizzazione delle banche finite in dissesto a causa dell'esplosione della bolla immobiliare, chiedendo un finanziamento per ben 41,3 miliardi al Mes per ristrutturare il settore bancario spagnolo. Prima del 2012, Bankia aveva prestato 76 milioni al Real Madrid per comprare Cristiano Ronaldo e Kakà. Caixa e Santander non avevano lesinato finanziamenti al Barça. Allo scoppio della bolla, furono anche i contribuenti italiani, attraverso i circa 15 miliardi apportati al capitale del Mes, a pagare il conto degli spagnoli. Il confronto con il quasi contemporaneo caso Tercas è impressionante: la Commissione chiese e ottenne subito la restituzione delle somme considerate, erroneamente, aiuti di Stato, compromettendo così anche i successivi salvataggi. Sapere, dopo 6 anni, che la Commissione aveva torto e Tercas poteva essere legittimamente aiutata, non riuscirà più a far ritornare disponibili le uova dopo aver fatto la frittata. Nel caso spagnolo, sapere, dopo 31 anni in cui quelle uova hanno prodotti ottimi risultati, che una parte di esse avrebbe dovuto essere distrutta subito, è tutta un'altra cosa. Nel frattempo, gli amici spagnoli hanno le bacheche piene di trofei e ora se la caveranno con un rimborso rimediabile, noi abbiamo subito la devastazione del sistema bancario e nessuno ci potrà più restituire i risparmi e le banche andate in fumo senza alcun fondamento giuridico. La tutela della concorrenza nella Ue si rivela sempre più un sistema di regole progettato male e gestito peggio.

Francesco Olivo per "la Stampa" il 2 marzo 2021. Quando Messi fa capire di voler scappare dal Barcellona non spiega i motivi, accenna e allude. Ma non è un azzardo immaginare che il capitano si senta tradito da scene come quelle di ieri. I Mossos d' Esquadra, gli agenti della polizia catalana, hanno arrestato ieri Josep Maria Bartomeu, presidente del Barça, costretto alle dimissioni anche per lo scontro con il più grande giocatore di sempre. I poliziotti sono entrati di mattina presto negli uffici del Camp Nou, cercavano le prove della corruzione della giunta direttiva, i contratti, forse truccati, per una società che aveva il compito di gettare fango sui presunti nemici interni, fossero anche dei monumenti, come Gerard Piqué, Pep Guardiola o persino lo stesso Lionel Messi. Immondizia nel ventilatore per rovinare la reputazione a chi criticava le decisioni dei dirigenti. Bartomeu ha sempre negato e ha cacciato la società esterna. Qualcosa, però, dev' essere stato trovato perché oltre a Bartomeu sono stati arrestati altri tre alti dirigenti di sua fiducia, l' ex capo del personale, Jaume Masferrer, l' attuale direttore generale, Oscar Grau e il capo dell' ufficio legale, Roman Gomez Ponti. Dopo gli interrogatori in commissariato saranno probabilmente rimandati a casa, ma l' inchiesta ha tutta l' aria di non essere finita qui. Gli inquirenti, infatti, sostengono di avere le prove del fatto che la I3 Ventures, la società che monitorava i social del club, fosse stata pagata in piccole tranche per evitare i controlli sui conti e che il prezzo totale fosse lievitato rispetto a quello dichiarato. Dettagli investigativi, da chiarire in un processo che temono in tanti. Lo hanno chiamato Barçagate questo scandalo, venuto alla luce nel 2020, che fa sprofondare il club a sei giorni dalle elezioni che dovranno, a questo punto con enorme urgenza, far cambiare il verso a una storia gloriosa che in poco tempo si è macchiata in tutti i sensi. In questa vicenda i piani si mischiano: la crisi sportiva, quella economica e ora anche quella etica. Resta poco di quel Barça che ha segnato un' epoca indimenticabile nella storia del calcio. La prima si può superare, c' è un ricambio generazionale complesso, che lascerà il club senza titoli per un po' ma con delle prospettive future; la seconda passerà, sono mesi complicati per tutti e certi ingaggi verranno asciugati per forza di cose. Ma la terza, l' abisso etico di una società che pretende di essere «Més que un club», più di un club, come impresso nella tribuna del Camp Nou e nell' immaginario mondiale del calcio, è difficile da recuperare. La prima occasione per farlo, però, è vicina: domenica i soci dovranno scegliere il successore di Bartomeu. Il favorito è Joan Laporta, che tenterà di tornare presidente dopo aver guidato un' era segnata da qualche guaio giudiziario, ma soprattutto da trionfi sportivi nel segno di Guardiola e Messi. La grande domanda che tutti pongono al candidato è: riuscirai a tenere Messi? Pur in campagna elettorale, Laporta non se la sente di promettere, si limita a un «ci proverò» che lascia qualche margine visti i rapporti buoni con l' argentino e il suo clan. Ma prima ancora di Messi, c' è da recuperare il buon nome del club.

Salvatore Riggio per corriere.it il 4 febbraio 2021.

Il contratto da mezzo miliardo. Il contratto faraonico di Lionel Messi non è più un segreto per nessuno, dopo essere stato spiattellato al mondo dal quotidiano spagnolo, El Mundo. Al di là delle polemiche, che non si placano e difficilmente si placheranno in tempi brevi (viste anche le difficoltà economiche nelle quali versa il Barcellona), la Pulce in tutti questi anni ha sempre vissuto come un re in Catalogna. E non avrebbe potuto vivere diversamente con oltre mezzo miliardo di euro in quattro anni. Anzi, per la precisione 555.237.619 euro, ovvero quasi 139 milioni a stagione. Lordi, ovviamente. Quindi, con un ingaggio del genere, non può più fare scalpore la villa di Miami, un appartamento di lusso acquistata poco tempo fa. Un immobile dal valore di sette milioni di euro nell’elegante Porsche Design Tower, completata nel 2017, che si trova sul lungomare di Sunny Isles. Brandizzato dall’omonimo produttore tedesco di supercar, l’edificio vanta tre montauto che consentono ai residenti di parcheggiare il proprio veicolo sullo stesso piano della propria suite. Ma la villa di Miami non è l’unica proprietà di lusso di Messi.

La casa a Barcellona con divieto di sorvolo, una stanza solo per le magliette da calcio. Vista mare e in una zona di divieto di volo, la casa di Messi a Barcellona vale 6,2 milioni di euro. È situata nell’esclusivo sobborgo di Castelldefels e ha un piccolo campo da calcio, una piscina, una palestra coperta e un parco giochi per i suoi tre figli. Inoltre, il fuoriclasse argentino ha una stanza intera per la sua collezione di magliette, scambiate con gli avversari in tutti questi anni di carriera.

L'aereo a lungo raggio. Tra le ricchezze di Messi, c’è anche un jet privato che vale 13,7 milioni di euro. È stato realizzato da un’azienda argentina e progettato per la famiglia Messi con i nomi di sua moglie, Antonella, e dei bambini Thiago, Ciro e Mateo che compaiono sui gradini del velivolo. Questo jet praticamente è un mondo a parte: ha una cucina, due bagni, posti a sedere per 16 persone, i sedili possono essere piegati e trasformati in otto letti. Insomma, il massimo dei comfort e anche di più. Nel marzo 2020 il jet fu costretto a un atterraggio d’emergenza a Bruxelles, in Belgio.

L'hotel. Messi ha comprato anche un albergo da quasi 30 milioni di euro nella città costiera di Sitges, a circa 42 chilometri da Barcellona. L’Hotel «MiM Sitges» ha quattro stelle ed è a soli 100 metri dal mare. Dispone di 77 camere, tra le quali cinque junior suite e una suite, e costa circa 150 euro a notte durante l’alta stagione per soggiornare in una camera standard. Inoltre, c’è lo Sky Bar sul tetto che vanta viste panoramiche sulla città e sul Mar Mediterraneo, nonché una piscina. Oltre a esserci una sauna, un bagno turco, docce sensoriali, vasca immersione fredda e piscina con acqua salata.

Le auto. La sua collezione d’auto vale, si dice, 3.5 milioni di euro. A partire dalla sua Pagani Zonda da 1,7 milioni di euro. Messi possiede anche una GranTurismo S e una GranTurismo MC Stradale, oltre che essere stato visto con una Ferrari F430 Spider e una Range Rover.

La barca a noleggio: 45 mila euro a settimana. La famiglia Messi ne aveva noleggiata una la scorsa estate per passare delle vacanze da sogno per un giro attorno a Ibiza e Formentera. Si trattava della splendida barca charter Seven C che misura quasi 92 piedi di lunghezza. Il noleggio costa più di 45mila euro a settimana: dotata di interni di lusso, la nave può ospitare 10 ospiti in quattro stanze, tra cui una master suite, una cabina Vip e due cabine doppie.

Maurito Icardi. “Ma veramente?”. Wanda Nara e Mauro Icardi, il colpo di scena nella notte. Caffeinamagazine.it il 18/10/2021. E proprio come nei migliori telefilm, arriva il colpo di scena nella notte. Solo ieri parlavamo della rottura di Mauro Icardi e Wanda Nara. L’ex moglie di Maxi Lopez ha condiviso sul suo account social un messaggio che ha fatto tremare i tanti fan della coppia. “Hai rovinato un’altra famiglia per una p…”, ha scritto la Nara su Instagram. Erano le 22:30 ora italiana del 16 ottobre e Wanda aveva appena cancellato tutte le foto di coppia con Mauro Icardi. La Nara aveva inoltre smesso di seguire sui social network l’attaccante del Paris Saint-Germain. Nella lista dei profili seguiti da Wanda Nara era scomparsa anche China Suarez, 29enne cantante, attrice e tiktoker di Buenos Aires. Secondo la stampa argentina sarebbe lei la donna che avrebbe intrapreso in questi mesi una relazione clandestina con Mauro Icardi. Poco dopo la stampa argentina racconta che Wanda avrebbe scritto ad una cara amica, confermando di fatto l’allontanamento dall’ex giocatore interista. “Mi sono separata”, avrebbe detto Wanda Nara, che avrebbe così confermava, di fatto, l’addio a Mauro Icardi, con il quale è convolata a nozze nel 2014 dopo la fine del matrimonio con Maxi Lopez. Ora però, appunto, il colpo di scena in stile Dowson’s Creek: Wanda Nara e Mauro Icardi sono di nuovo insieme, di nuovo abbracciati. L’ultima storia e l’ultimo post Instagram dell’attaccante del Paris Saint-Germain sembrano mettere alle spalle la crisi matrimoniale dovuta alle voci di un presunto tradimento di lui con Eugenia Suarez. Icardi era stato esentato dagli allenamenti del Psg per “motivi familiari”: volato a Milano, dove Wanda Nara si era rifugiata con i figli, i due hanno voluto mostrare che il peggio sembra alle spalle. “Buona festa della mamma” recita il post di Icardi (in Argentina cade oggi la festa delle mamme), che resta comunque in dubbio per la partita di Champions di martedì sera contro il Lipsia. Insomma, Mauro torna dedicandole post e cuori sui social. E così, come la crisi si è manifestata, sui social, la crisi finisce, sui social. Chiaro, no?

Da repubblica.it il 17 ottobre 2021. Un fulmine a ciel sereno. Wanda Nara improvvisamente sembra aver rotto con il marito Mauro Icardi, ex attaccante dell'Inter attualmente al Psg. La moglie e agente del giocatore argentino ha infatti ha pubblicato una storia su Instagram che non lascerebbe spazio a dubbi: "Hai rovinato un'altra famiglia per una troia".

Ai media argentini: "Mi sono separata"

Parole inequivocabili quelle di Wanda Nara, che ha anche eliminato dal suo profilo tutte le foto che la ritraevano insieme a Icardi. Se la storia Instagram è stata subito rimossa, è stata successivamente riposata da Wanda stessa su uno fondo nero lasciando davvero pochi dubbi sulla crisi della coppia. E dall'Argentina arriva la conferma: "Mi sono separata", si legge in uno screenshot in cui Wanda conferma ai media sudamericani la rottura. 

Follow o non follow

Improvvisamente sui social è scoppiato il "corna gate", tutti hanno cominciato a parlarne cercando di ipotizzare possibili futuri scenari. Le parole di Wanda Nara sono state piuttosto chiare: la procuratrice sportiva ha accusato qualcuno di tradimento. E, considerando il gesto del follow tolto a Icardi, il messaggio sembra essere rivolto proprio a lui. Ma quello che davvero ha stranito tutti, è che Wanda dopo aver smesso di seguire Icardi su Instagram e pubblicato quella storia, ha poi cancellato tutto e gli ha rimesso il follow. Pochi minuti più tardi, è tornata a smettere di seguirlo e a ripubblicare quella storia: "Otra familia mas que te cargaste por zorra!". Sempre dall'Argentina trapela il nome della donna causa della rottura: si tratterebbe di Eugenia Suarez, e Wanda avrebbe smesso di seguirla sui social. 

Il matrimonio con Icardi dopo il divorzio con Lopez

Dopo il divorzio con Maxi Lopez nel 2013, Wanda Nara ha sposato il 27 maggio del 2014 Mauro Icardi, amico e compagno di squadra proprio di Maxi Lopez alla Sampdoria. Con Icardi, del quale è anche diventata procuratrice sportiva, ha avuto due figlie femmine: Francesca (19 gennaio 2015) e Isabella (27 ottobre 2016).

Dal “Corriere dello Sport” il 17 ottobre 2021. Un terremoto ha scosso il mondo del calcio: Mauro Icardi e Wanda Nara si sarebbero lasciati. Il rumor ha preso piede in Argentina ma è stato originato da una misteriosa storia, più volte condivisa e poi rimossa dalla stessa Wanda, che ha fatto preoccupare i suoi fan. La pietra dello scandalo, all'origine della rottura tra l'attaccante del Psg e la moglie, sarebbe Maria Eugenia Suarez, detta la China. La China Suarez è un'attrice, cantante e modella argentina. Come attrice ha debuttato all'età di undici anni, recitando nella serie televisiva Rincón de luz. Nel 2015 fa il suo esordio sul grande schermo con l' adattamento cinematografico del libro Abzurdah. Il suo nome è diventato molto chiaccherato anche fuori dall'Argentina proprio a causa della sua presunta relazione con Mauro Icardi. Su Instagram il suo nickname è "sangrejaponesa" e conta 5 mila followers, tra cui anche il Pocho Lavezzi, Antonela Roccuzzo, il Tucu Correa, Oriana Sabatini e la sorella di Wanda, Zaira Nara. María Eugenia Suárez Riveiro - meglio conosciuta come la China Suarez - è nata il 9 marzo 1992 a Buenos Aires, in Argentina. È figlia di Guillermo Suárez e Marcela Riveiro Mitsumori. Ha un fratello maggiore di nome Agustín Suárez. Sua nonna materna, Marta Mitsumori, è nata in Argentina e ha origini giapponesi: nella prefettura di Kochi a Shikoku, la China Suarez ha ancora dei parenti. Dal 2012 al 2013, Suárez ha frequentato l'attore argentino Nicolás Cabré, con cui ha avuto una figlia, Rufina, nata il 18 luglio 2013. Dal 2015 al 2021 ha avuto una relazione con l'attore cileno Benjamín Vicuña, con cui ha avuto due figli: Magnolia, nata il 7 febbraio 2018 e Amancio, nato il 28 luglio 2020. La coppia si è separata lo scorso luglio.

Da gazzetta.it il 18 ottobre 2021. Si arricchisce di un’altra puntata la telenovela che vede protagonisti Mauro Icardi e Wanda Nara. Dopo il presunto tradimento dell’attaccante del Psg, le storie della moglie-agente in cui veniva inquadrata la mano senza anello della stessa Wanda e l’“unfollow” al profilo Instagram del marito, dall’Argentina rilanciano ancora: i due si starebbero separando. Secondo quanto riportato dal programma tv “Los Angeles de la manana”, LAM, l’attrice China Suarez avrebbe scritto per messaggio a Icardi di “incontrarsi in un posto dove nessuno lo conosceva, in discoteca”. Wanda, dal canto suo, avrebbe assunto un investigatore privato per scoprire i movimenti del marito, arrivando addirittura ad hackerargli il cellulare pur di scoprire il tradimento. È poi notizia di questa mattina che Icardi abbia abbandonato l’allenamento del Paris Saint Germain per recarsi a Milano e discutere con la moglie degli sviluppi futuri che la coppia dovrà affrontare. 

LA TENTAZIONE—   Nel frattempo, China Suarez ha pubblicato sul suo profilo Instagram alcune foto del suo viaggio a Madrid: tranquilla e serena, la terza protagonista dell’intricata vicenda aveva già preso le distanze dal conflitto tra (ex) coniugi: “Se la vedano tra loro”. E così sarà...

Salvatore Riggio per corriere.it il 18 ottobre 2021. C’è un nuovo capitolo sulla vicenda (social?) tra Wanda Nara e Mauro Icardi. E ovviamente tutto si racconta su Instagram. In una storia l’argentina ha pubblicato la sua mano senza un particolare importante, con una didascalia inequivocabile: «Buon giorno, mi piace di più la mia mano senza anello». In sostanza, (per ora) pare non ci sia stato nessun perdono per Maurito. Nella mattinata di domenica 17 ottobre Wanda Nara era scappata da Parigi prendendo un volo privato con i cinque figli: i tre maschi avuti con Maxi Lopez e le due femmine avute con l’ex capitano dell’Inter. Ore di bufera nella vita privata di Icardi, che nel frattempo – grazie a un permesso del Psg – ha raggiunto la moglie (e procuratrice, attorno a loro girano affari su affari) a Milano dedicandole post e cuori sui social (naturalmente sui social). Lieto fine? Sì, no, forse. Perché l’ultima giocata è di Wanda Nara, che magari in maniera un po’ provocatoria ha pubblicato la sua mano senza anello. Evidentemente per far capire a Maurito che arrivare al pieno perdono è una strada lunga e tortuosa. In tutto questo Eugenia Suarez «La China» ha risposto al sito di gossip Mdz, assicurando: «Non so da dove sia nato tutto questo, non li conosco nemmeno. Mi sono appena separata, sto pensando ad altro». Chi darà il via al prossimo capitolo?

Da corrieredellosport.it il 18 ottobre 2021. Si sono lasciati, stanno di nuovo insieme, anzi no, "è meglio senza anello". La soap opera Wanda Nara-Mauro Icardi continua e si arricchisce di un nuovo, piccante capitolo. Stavolta al centro del gossip ci sono i messaggi che la presunta amante - Eugenia Suarez, detta la China - avrebbe inviato di nascosto all'attaccante del Psg. A svelarli ci pensa il Clarin: secondo persone vicine alla coppia, ci sarebbe stato uno scambio di messaggi privati tra Icardi e La China Suárez.

Icardi, Eugenia Suarez e quei messaggi privati su Instagram

Wanda sarebbe venuta a sapere dello scambio di messaggi via Instagram e da lì sarebbe scoppiata la crisi. "Vorrei incontrarti in un bar in una parte del mondo dove nessuno ti conosce", avrebbe scritto Eugenia Suarez a Icardi. "I messaggi ci sono stati, ma tra di loro non c'è niente di serio. Non si sono mai visti", fanno sapere gli amici al Clarin. E assicurano: "Wanda e Mauro non si separeranno". La crisi tra la coppia più chiacchierata del momento non sarebbe quindi definitiva e la riconciliazione potrebbe essere vicina.

Wanda Nara e Icardi siamo al lieto fine (forse): «Grazie amore per continuare a credere nella nostra famiglia».  Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Un post dell’attaccante del Psg sembra preludere a una riappacificazione. Lei risponde con una foto di Lady D. È la più grande telenovela dell’era social, seguita da due Continenti e senza cessioni di diritti televisivi. Mauro Icardi e Wanda Nara non smettono di far parlare di loro e della loro crisi sentimentale, causa presunto tradimento dell’attaccante con la donna dai tratti orientali, «La China», alias Eugenia Suarez, modella e attrice argentina di 29 anni. L’ex capitano dell’Inter nella notte ha postato l’ennesimo aggiornamento, facendo capire che l’amore per la famiglia ha vinto su contrasti e diatribe. Sembra abbiano fatto pace (ma lo sembrava anche domenica 17 ottobre, quando lui aveva raggiunto lei a Milano dopo un permesso avuto dal Psg): «Grazie amore mio per continuare a credere nella nostra meravigliosa famiglia, grazie per essere il motore delle nostre vite. Ti amo. Fa male ferire i tuoi cari, guarisci solo quando ti perdonano», ha comunicato al mondo, facendo appunto pensare 

China Suarez: «Icardi mi ha ingannato». E Wanda infuriata la insulta. Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 22 ottobre 2021. L’amante non smentisce la liason, ma in una lettera si difende : «Icardi mi ha detto che erano separati». Wanda esplode: «Della mia famiglia mi occupo io, delle p... la vita»: e posta le foto pubblicate negli ultimi tre mesi di lei con il marito. Guerra dei Roses social, atto terzo. Dopo la denuncia da parte di Wanda di aver subito un tradimento da parte del marito, ad opera di «una poco di buono», la richiesta pubblica di perdono di Mauro che si è cosparso il capo di cenere davanti al tribunale dei 7,4 milioni di followers, stanotte l’intervento a gamba tesa del terzo lato del triangolo. Maria Eugenia Suarez, meglio nota come China ha rotto il silenzio per esporre la versione dei fatti in una lunghissima lettera.

Ecco chi è Eugenia La «China» Suarez

«Non ho iniziato, incoraggiato o causato io questa situazione. Ho sempre pensato che fossero separati» è il succo della lettera. Il tono è di chi sente vittima del Wandagate. «Scrivo questa lettera per spegnere le bugie, i maltrattamenti e gli sguardi che cercano di costruire storie manipolate che mi rendono, ancora una volta, il capro espiatorio della violenza mediatica. Sono stata in silenzio per varie ragioni, le principali sono paura e inesperienza. Non sapevo come definire il livello di bugie e atrocità che si dicono in tv. Quello che sta accadendo ha una storia molto più grande alle sue spalle, e molte donne si sentiranno identificate. Mi sono relazionata con uomini ai quali ho sempre creduto: mi dicevano che erano separati o che si stavano separando, che non c’erano conflitti».

La prova d’amore di Mauro a Wanda: segue solo lei su Instagram

In pratica la signorina Suarez non smentisce la liaison ma attribuisce la responsabilità a Mauro, identificato nella categoria «conquistatore seriale». «Mi risulta curioso che le donne non si rendono conto che gli insulti con i quali mi descrivono, sono gli stessi che la società intera ha usato e continua a usare per riferirsi a loro. Ciò che è accaduto non è iniziato per mia volontà, non l’ho alimentato e non l’ho provocato. Non sono stata io ad insistere e propiziare questa situazione. Ammetto la mia mancanza d’esperienza, ma non voglio prendermi il peso e la responsabilità dei comportamenti da conquistatori seriali che hanno imparato gli uomini e che dopo sanno nascondere molto bene». Pone il focus sull’atteggiamento maschile di bugiardi seriali. «Quello che sta accadendo oggi ha alle spalle una storia molto più grande e profonda, con la quale molte donne sicuramente si identificheranno. Mi è toccato di avere relazioni con uomini alle cui parole ho sempre creduto: che erano separati o si stavano separando e che non c’erano conflitti. In questa situazione sento di vivere un déjà vu infernale, dove pago ancora una volta con la mia reputazione questioni che sono dominio personale di ogni donna. Un ripetersi degli eventi che rivela la mia inesperienza e soprattutto la profonda credibilità che ho dato a questi uomini che poi hanno taciuto, lasciando che i lupi mi mangiassero». Quindi la frecciata finale. «Il costo di sostenere l’immagine di una famiglia felice lo sto pagando solo io, non l’uomo che è stato irrazionale o ha fatto un errore». T anto basta a Wanda per esplodere nella notte con una replica via Instagram, ça va sans dire. «Della mia famiglia mi occupo io. Delle p... la vita stessa» postando altresì foto sorridenti con il marito degli ultimi tre mesi come a voler sottolineare che alla signora Suarez doveva essere chiaro che Mauro non fosse in procinto di separarsi. Ma il quesito più grande è: oggi Mauro tornerà ad allenarsi con il Psg?

Paolo Fiorenza per fanpage.it il 21 ottobre 2021. Finora era rimasta in silenzio Maria Eugenia Suarez, da tutti conosciuta come la ‘China': ovvero l'attrice e modella argentina citata da Wanda Nara come la ‘zorra' – la cagna – che si era viscidamente infiltrata nel suo matrimonio con Mauro Icardi, dando il via sabato scorso ad un drammone dei sentimenti (ma anche dei milioni) che va avanti tuttora, tra post del giocatore che sembrano voler mostrare al mondo che è stato perdonato ed il silenzio orgoglioso della madre delle sue due bambine. Silenzio rotto nella notte, dopo che la sua rivale aveva vuotato il sacco, inguaiando non poco Icardi. La China parla e lo fa in maniera torrentizia, con numerose storie Instagram in cui disegna per sé un ruolo diverso da quello della maliarda seduttrice, della rubamariti, ruolo per il quale peraltro ha alle spalle un discreto curriculum, al punto che in Argentina le attribuiscono una sindrome che spinge a cercare ripetutamente l'amore in uomini sposati. La 29enne riscrive completamente la sceneggiatura della vicenda, attribuendo ad Icardi la parte del maschio predatore, con lei in veste di vittima che si è fidata delle bugie degli uomini, ancora una volta. "Scrivo questa lettera per abbassare il rumore esterno di bugie, maltrattamenti e sguardi protesi a costruire storie manipolate affinché sia io, ancora una volta, il capro espiatorio della violenza mediatica – è l'incipit dello sfogo della showgirl argentina –. Sono stata in silenzio per molto tempo per vari motivi. Il principale è la paura e l'inesperienza, per non saper dare un nome al livello di bugie e atrocità che vengono raccontate per alimentare quello che si dice minuto per minuto in televisione". Poi la China accusa Icardi di essere stato lui il motore primo della vicenda: "Quello che sta accadendo oggi ha alle spalle una storia molto più grande e profonda, con la quale molte donne sicuramente si identificheranno. Mi è toccato di avere relazioni con uomini alle cui parole ho sempre creduto: che erano separati o si stavano separando e che non c'erano conflitti. In questa situazione sento di vivere un dejavu infernale, dove pago ancora una volta con la mia reputazione questioni che sono dominio personale di ogni donna. Un ripetersi degli eventi che rivela la mia inesperienza e soprattutto la profonda credibilità che ho dato a questi uomini che poi hanno taciuto, lasciando che i lupi mi mangiassero". Quest'ultimo è un riferimento alla sua precedente relazione con un noto attore cileno, ugualmente chiacchieratissima in Sudamerica per essersi svolta con un analogo scenario di triangolo amoroso. Insomma la ragazza fa capire che la questione non è limitata a qualche messaggio e qualche foto scambiata sugli smartphone, ma che con Icardi ci sarebbe una storia decisamente più robusta, ma soprattutto spiega che l'attaccante del PSG avrebbe reso fertile il terreno convincendola che il suo matrimonio con Wanda era in crisi se non prossimo alla fine. "Quello che è successo è una situazione che non ho iniziato io, non ho provocato e non ho incoraggiato. Il peso di come vengo giudicata è totalmente asimmetrico, altrimenti si saprebbe che non sono stata io a insistere ed a causare questa situazione. Presumo per colpa della mia inesperienza, dovrò imparare molto d'ora in poi, ma non ho intenzione di farmi carico, per me e per tutte le donne che vengono sempre giudicate, degli atteggiamenti di conquistatori seriali che questi uomini hanno imparato e che poi sanno nascondere bene". Parole durissime nei confronti di Icardi, accusato senza mezzi termini di essere stato lui il seduttore che ha usato tutte le armi a sua disposizione per far crollare la resistenza di una donna che si è fidata ciecamente di lui. Quanto al fatto che adesso Mauro e Wanda non la seguano più sui social e più in generale per tutti coloro che le hanno voltato le spalle in questo frangente, c'è un ultimo messaggio tagliente: "A tutti quelli che ‘cancellano' le persone, siete sicuri che siete in condizione di farlo?". Un fiume in piena al quale Wanda Nara ha risposto dopo neanche un'ora, con una storia Instagram in cui ha postato un collage di foto che la ritraggono innamorata assieme ad Icardi, specificando che sono "foto pubblicate negli ultimi 3 mesi", a voler sottolineare che solo una donna cieca potrebbe pensare – ed affermare a sua discolpa – di avere a che fare con un uomo "separato o che sta per separarsi", come sostenuto dalla China. Alla quale dedica un messaggio non molto difficile da capire: "Della mia famiglia mi occupo io, delle puttane la vita stessa". Se tutto questo significhi anche la pace con Icardi e non solo il veleno rabbioso verso la sua ex amica, lo sapremo alla prossima puntata…  

Monica Colombo per il "Corriere della Sera" il 21 ottobre 2021. Il melodramma che appassiona il Vecchio e il Nuovo continente ha un'audience più elevata di una partita della Nazionale. Una platea di followers da 16,5 milioni di persone aggiorna senza sosta lo smartphone spinta dalla (morbosa) curiosità: Wanda avrà perdonato Mauro (Icardi) dopo il presunto tradimento con la China Suarez? Continuerà a vestire i panni di agente per il consorte-calciatore? I figli maschi torneranno a vivere sotto lo stesso tetto della mamma o continueranno a essere accuditi dall'ex Maxi Lopez, accorso a Parigi per gestire il loro ménage domestico? E soprattutto, Mauro prima o poi si metterà di nuovo a disposizione del Psg? Domande a cui nessuno per ora può fornire risposte certe. Icardi, dopo la scoperta della chat su Telegram con la ventinovenne attrice-modella Maria Eugenia Suarez, a sua volta madre di tre figli, sta percorrendo ogni strada per evitare una separazione da 60 milioni di euro: non solo è volato a Milano domenica, saltando due giorni di allenamenti e rendendosi indisponibile per la sfida di Champions con il Lipsia a causa di malesseri psicologici, ma, atteso il 90' della partita, ha iniziato a mandare messaggi supplichevoli alla moglie via Instagram. «Grazie amore mio per continuare a fidarti di questa bella famiglia e per essere il motore della nostra vita. Ti amo. Quanto fa male ferire i tuoi cari. Ne guarisci solo quando sei perdonato da chi hai ferito». E poi ancora: «Stringimi forte e non lasciarmi mai». Quindi, per convincere tutti che nel mondo conti solo la sua esplosiva consorte ha smesso di seguire ogni account, tranne quello di Wanda Nara. Per contro la signora Icardi, tornata a Parigi, non fa un plissè. Pubblica foto della sua linea di cosmetici, e una enigmatica immagine di Diana Spencer (forse perché anche lei tradita dal principe Carlo? Vai a saperlo). Manda un audio all'amica giornalista Yanina Latorre («sto vivendo un inferno») e si lascia scappare sui social una risposta alla conduttrice Alejandra Maglietti che l'accusava di aver messo in piedi uno show, lasciando che venisse insultata la presunta amante di Mauro, senza mai menzionarla. «Ti servono nomi o una mappa per sapere chi è la p... che manda foto agli uomini sposati?» scrive Wanda. Il plurale però fa drizzare le antenne in Sudamerica e c'è chi avanza sospetti su un affaire fra la Suarez e l'ex giocatore dell'Udinese Rodrigo de Paul, costretto quindi a smentire: «Giuro su mia figlia che non le ho mai parlato». «Credo nell'amore libero» è la versione consegnata da Eugenia sul romanzone dell'anno a «Los angeles de la manana». Chi aspetta di incontrare presto in allenamento Icardi è Leonardo. Il club parigino è infastidito dal clamore della vicenda e da un assenteismo che non può essere a tempo indeterminato. I legali del Psg hanno valutato se multare l'attaccante per l'esposizione social della sua vita privata. Ma si può punire un giocatore per aver pubblicamente esternato l'amore per la moglie? 

Da corrieredellosport.it il 21 ottobre 2021. Spuntano nuovi gossip e retroscena sulla crisi tra Mauro Icardi e Wanda Nara. Stando a quanto spifferato in Argentina da alcuni media i due avrebbero dei problemi da mesi, tanto che l'attaccante sarebbe arrivato a fare una proposta choc alla moglie. 

La richiesta per salvare il matrimonio

"Qualche mese fa Mauro avrebbe proposto a Wanda di avere una relazione aperta perché si sentiva annegato. Non ha mai dubitato dell'amore che prova per lei ma glielo avrebbe proposto per poter vivere altre relazioni senza sensi di colpa", ha spiegato una fonte a Mitre Live. "Wanda avrebbe rifiutato con convinzione la proposta del marito e da lì sarebbe scoppiata la crisi finita poi con un tradimento", ha aggiunto un giornalista a Cronica HD.

Da corrieredellosport.it il 22 ottobre 2021. Il "Wandagate" dilaga e nella torbida storia tra Wanda Nara, Icardi ed Eugenia China Suarez spunta o meglio rispunta la trans Guendalina Rodriguez. Quest'ultima già da tempo millantava di aver avuto una relazione con Maurito, ma la novità è che ha affermato di avere avuto contatti con lui fino al 20 ottobre scorso e poter provare tutto. Le prove, ovvero alcuni screenshot diffusi su Instagram sotto forma di storie, si sono però rivelate dei fake che hanno scatenato la furia di Wanda. La trans infatti aveva ritoccato e pure male l'immagine di una vecchia videochiamata proprio tra Icardi e la moglie.

Il messaggio di Wanda Nara alla trans Guendalina Rodriguez: "Puttana del cazzo che vuoi essere donna ma non lo sarai mai, se vuoi ti insegno io a truccare meglio una foto stronza. Cerca la fama altrove (...) Mauro non sa nemmeno della tua esistenza vai a lavare la tua *** se ce l'hai e poi prova a rovinare una famiglia di puttane a buon mercato proprio come te e China Suarez, forse siete sorelle mmm mi resta il disgustoso dubbio! La *** di tua madre". Ecco il contenuto dei messaggi inviati da Wanda Nara in chat alla trans Guendalina Rodriguez, la quale ha ripostato tutto pubblicamente, scrivendo: "Buongiorno, ora vi faccio vedere con quale eleganza ho ricevuto questo messaggio". 

"Icardi ha messo 3 condizioni per tornare con Wanda". Novella Toloni il 22 Ottobre 2021 su Il Giornale. Secondo i media argentini il calciatore avrebbe negoziato un accordo con la moglie per superare la crisi coniugale: "Addio ai social network e stop ai voli da sola in aereo". Sarebbero tre le condizioni poste sul tavolo della trattativa per una riconciliazione tra Wanda Nara e Mauro Icardi. Le foto strappalacrime e le dichiarazioni d'amore di Maurito non sarebbero riuscite a fare tornare il sereno tra lui e l'imprenditrice argentina. Così, come nei migliori contratti prematrimoniali, la coppia più chiacchierata del momento avrebbe stretto un nuovo accordo per superare la crisi coniugale in corso. A partire dalla chiusura dei rispettivi profili social. Mentre sul web impazza l'indiscrezione secondo la quale Maurito avrebbe chiesto a Wanda una "relazione aperta" prima del tradimento, dall'Argentina arrivano nuove importanti novità sul presunto tentativo di riconciliazione in casa Icardi. A fornire nuovi dettagli è la giornalista Yanina Latorre, colei che per prima avrebbe parlato con Wanda Nara, raccogliendo il suo sfogo di moglie tradita una settimana fa, quando è scoppiato il caso. Intervenuta nel programma della tv argentina Los Angeles Morning, la reporter ha parlato di tre condizioni che Mauro Icardi avrebbe posto per ricucire lo strappo con la moglie e tornare in campo. Uno: l'addio ai social (per entrambi) in modo da tenersi lontani dalle tentazioni. Due: cambio radicale di vita per Wanda, che dovrebbe abbandonare altri lavori, rimanendo solo moglie, mamma e sua manager. Tre: stop ai viaggi e ai rientri in solitaria a Milano per la Nara. Alla base delle condizioni ci sarebbe la presa di posizione di Icardi sul suo futuro professionale. Il calciatore del Psg è assente da allenamenti e partite con la squadra parigina dallo scorso lunedì. Di tornare in campo Maurito però non avrebbe alcuna intenzione, almeno fino a che un accordo con Wanda non sarà raggiunto. Lei, che è anche la sua manager e con il Psg ha stretto un contratto da milioni di euro, ha deciso di ascoltare le sue richieste pur di farlo "tornare a lavorare perché è trincerato in casa", riporta Latorre. La coppia si sarebbe incontrata in un piccolo ristorante di Parigi per discutere le condizioni che, secondo Yanina Latorre, sarebbero drastiche e decisamente limitative, soprattutto per Wanda Nara: "Lui ha chiesto che entrambi chiudano l'account Instagram e che prima di chiuderlo Wanda pubblichi una foto di coppia per la famiglia". Una richiesta che troverebbe conferma nei recenti movimento social della coppia. Da quando la bomba mediatica del tradimento di Icardi con l'attrice China Suarez è esplosa, il calciatore non smette di condividere foto e messaggi d'amore per la moglie. Lei, dal canto suo invece, condivide solo foto di lavoro e dei figli, guardandosi bene dal mostrarsi insieme al marito, come se questa fosse una sorta di punizione. L'addio ai social network non sarebbe però l'unica condizione richiesta da Mauro Icardi: "Dopo la chiusura degli account lui promette di comportarsi bene, fedeltà eterna, ma non vuole che lei lavori al di fuori di quello che è l'ambiente calcistico e non vuole che lei viaggi da sola sull'aereo privato". Muarito avrebbe chiesto dunque un drastico taglio a Wanda, che dovrebbe dire addio a sfilate, eventi e ospitate televisive. "Cioè il pirata è lui e lei deve chiudere il suo Instagram e tutto il resto?", ha ironizzato il conduttore di Lam, sottolineando come l'accordo si starebbe rivelando più una trappola per Wanda Nara, che non un'espiazione di colpa di Icardi. I condizionali sono d'obbligo, ma è chiaro che è atteso un nuovo episodio della telenovela più seguita del momento.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di

Da calciotoday.it il 23 ottobre 2021. L’attaccante del PSG è stato al centro di un triangolo amoroso alquanto intricato che ha messo in subbuglio anche la società transalpina. Nel frattempo Mauro Icardi non demorde e posta una stories su Instagram che spiazza e non poco. Il giocatore sta cercando di recuperare terreno dopo lo scivolone social e i messaggi scambiati in chat con Eugenia Suárez. Tra il giocatore e Wanda Nara è tempo di incontri quasi inaspettati: la scelta dell’ex Inter di postare sui social è immediata. “Quando sei di cattivo umore su instagram ma di notte vieni a chiedere perdono per quello che non ci è chiaro”, ha scritto l’attaccante del Paris Saint Germain postando una foto. Lo scatto nel cuore della notte è stato condiviso dal centravanti che ha voluto mostrare il ritorno della moglie con tanto di scatto intimo. Le immagini hanno come di consueto diviso l’opinione pubblica. Da un lato chi chiede di evitare scatti del genere, dall’altro chi osanna il ritorno della coppia in pianta stabile. Quel che certo è che Icardi e Wanda Nara sanno bene come attirare l’attenzione sui social, a prescindere dagli eventi. La coppia avrebbe scelto di postare questa foto per immortalare il momento e mostrarlo a tutte le persone che seguono la loro quotidianità in Rete. Dopo la tempesta sembrerebbe tornato il sereno tra i due protagonisti.

Salvatore Riggio per corriere.it il 23 ottobre 2021. Dall’Argentina arrivano gli ultimi aggiornamenti sulla telenovela che sta appassionando due Continenti. Si parla della crisi coniugale tra Mauro Icardi e Wanda Nara, esplosa domenica 17 ottobre quando la donna ha scoperto il presunto tradimento del marito con Eugenia Suarez, soprannominata «La China» per i suoi tratti orientali. Da qui l’ira funesta della consorte procuratrice che minaccia il divorzio, scappa a Milano con i cinque figli, venendo raggiunta da Maurito per chiederle perdono, su permesso del Psg. Nel frattempo, dopo giorni davvero turbolenti, con Icardi che minaccia addirittura l’addio al calcio e Wanda Nara che posta la foto della sua mano senza anello, è arrivato il perdono. Però, la storia vive un nuovo sviluppo. La giornalista televisiva Yanina Latorre, in «The Morning Angels» di «Channel 13», ha riferito che i coniugi si sarebbero incontrati in un ristorante a Parigi per cominciare le trattative della rappacificazione, praticamente un rinnovo del contratto. E che addirittura Icardi avrebbe posto condizioni rigidissime per tornare insieme, tra queste postare una foto di coppia e chiudere l’account Instagram di entrambi. Il motivo? Mettersi entrambi al riparo da tentazioni. Non solo, sempre secondo la giornalista argentina, che avrebbe parlato con la sorella di Wanda, Icardi avrebbe promesso di essere fedele sempre, ma la moglie in cambio dovrà cambiare radicalmente vita. In sostanza, Icardi non vuole che Wanda faccia altri lavori a parte la moglie-manager, che smetta di partecipare a eventi e ospitate e soprattutto pretende che smetta di viaggiare da sola sull’aereo privato. Finito qui? Macché. Wanda Nara non dovrà più andare a Milano da sola. Si attendono nuovi sviluppi. Anzi, nuovi post. Anche sulla scena è appena piombato l’ex fidanzato di Eugenia Suarez, Benjamin Vicuña, attore cileno. I due sono stati legati per sei anni e si sono lasciati qualche mese fa. Hanno due figli insieme: Magnolia di tre anni e Amancio di uno: «Non sono io la persona che deve dare spiegazioni. È tutta una vergogna».

Da corrieredellosport.it il 24 ottobre 2021. Nel bel mezzo del conflitto tra Wanda Nara e Mauro Icardi per il flirt con Eugenia China Suárez, non si è intromessa solo la trans Guendalina Rodriguez. È spuntato a sorpresa anche il nome di Eros Ramazzotti. Dall'Argentina sono sicuri che il cantante abbia contattato la moglie del calciatore. Yanina Latorre, nel corso della trasmissione "Los Angeles Morning", ha affermato: "In tanti stanno scrivendo a Wanda in questi giorni; Eros Ramazzotti l'ha contattata per esprimere il suo dispiacere circa la vicenda, tra tutti i corteggiatori è un buon partito, Icardi è arrabbiato e geloso".

Alberto Dandolo per oggi.it il 25 ottobre 2021. Wanda Nara e Mauro Icardi sono ai ferri corti, cortissimi. Lei ha fatto il diavolo a quattro per il (presunto) tradimento di lui. E non uno solo, dicono i proverbiali bene informati. Così come i gossip ora vorrebbero che anche lei si sia data da fare. Nientemeno che con Eros Ramazzotti! Che sceglie Oggi per far conoscere tutti i dettagli della vicenda.  Nelle ultime ore sta serpeggiando un gossip che insinuerebbe un avvicinamento di Eros Ramazzotti a Wanda Nara seguito alla separazione tra quest’ultima e il calciatore Mauro Icardi. Eros Ramazzotti, raggiunto da Oggi, smentisce categoricamente qualsivoglia indiscrezione. Ecco in esclusiva le sue parole: “Ancora una volta mi trovo costretto a dover smentire alcune surreali voci che riguardano la mia sfera privata. Con la signora Wanda Nara ho un rapporto di conoscenza che dura da circa un decennio. Per un periodo abbiamo anche frequentato la stessa palestra a Milano in zona San Siro”. Eros Ramazzotti continua a Oggi: “Lei era ed è una mia fan e tra noi c’è grande stima e rispetto. Mi sono sentito pertanto in dovere nei giorni scorsi di esprimerle privatamente la mia solidarietà in questo momento così doloroso e complesso della sua vita. Le insinuazioni che stanno circolando in Rete e su alcune testate giornalistiche rispetto al mio rapporto con la signora Nara sono totalmente infondate oltre che indelicate e inopportune”.

Da corrieredellosport.it il 25 ottobre 2021. Nuovo colpo di scena nella telenovela Wanda-Icardi. Il calciatore ha condiviso una storia su Instagram in cui intreccia la sua mano con quella della moglie. "Colazione con amore", ha scritto l'attaccante, che sembra aver fatto di tutto in questi giorni per riconquistare la sua procuratrice dopo il flirt con la cantante e attrice argentina China Suarez. Wanda pare pronta a riconciliarsi con il marito ma per il momento ha preferito non rilasciare alcuna dichiarazione ufficiale sulla vicenda.

"Io e Icardi abbiamo divorziato": Wanda Nara rompe il silenzio. Novella Toloni il 25 Ottobre 2021 su Il Giornale. Wanda Nara è tornata sui social e ha rotto il silenzio parlando del futuro del suo matrimonio: l'addio, il divorzio e la lettera per il più scontato dei finali. Non poteva che arrivare alle 20,30, in prima serata, la puntata finale della telenovela argentina più seguita e decisamente trash dell'ultimo mese. Con tanto di colpo di scena finale perché sì, Wanda Nara e Mauro Icardi si sono separati, legalmente, salvo poi ripensarci dopo una lettera strappalacrime scritta dal calciatore, che ha fatto fare marcia indietro a Wanda. E l'epilogo, che ormai tutti aspettavano (anche chi nega) è scontato: e vissero felici e contenti. La storia di come sono andate davvero (?) le cose tra Maurito e sua moglie l'ha raccontata proprio Wanda come sempre sui social network per la gioia degli internauti. Poco fa l'imprenditrice argentina ha condiviso, come da attese, la tanto agognata foto di coppia, quella che Icardi l'avrebbe pregata di pubblicare per far tornare il sereno in famiglia. La Nara ha assolto ai voleri del marito, condividendo uno scatto in cui la coppia si bacia. Ma oltre le foto - da finta copertina - sono le parole a chiarire cosa è successo: "Le foto che ho caricato negli ultimi mesi mostrano quanto eravamo belli e felici. A partire da ciò che è successo resto molto ferita e ogni giorno ho chiesto a Mauro il divorzio". Wanda Nara ha scelto le parole più dure e taglienti per fare capire la rabbia e la gelosia provate per il tradimento subito, ormai evidente anche ai più ciechi. L'ennesima stilettata al marito fedifrago. Delle chat private e del flirt con l'attrice argentina China Suarez, degli investigatori e delle condizioni di Mauro Icardi per farsi perdonare rimarrà solo il dubbio. Pettegolezzi che hanno alimentato una telenovela verso l'inevitabile epilogo. La certezza (a quanto pare) è solo nel racconto fatto da Wanda nel suo ultimo post social, dove spiega di avere divorziato da Icardi: "Quando Mauro ha capito che non avrei ceduto, mi ha detto che non potevamo continuare così, che se separarci era l'unico modo per porre fine a tutto il dolore, allora avremmo dovuto farlo. E siamo andati dagli avvocati". Wanda e Mauro Icardi hanno stretto un accordo patrimoniale in due giorni, firmato le carte davanti ai rispettivi avvocati e si sono detti addio, tutto secondo il racconto della Nara su Instagram. Poi il colpo di scena finale: "Il giorno dopo mi ha scritto una lettera che nessuno mi aveva mai scritto: 'Ti ho dato tutto e hai tutto, spero che tu possa essere felice perché questo farebbe felice me'. E lì ho capito che avendo Tutto non ho Niente se non sono con lui". The End, è la scritta che sarebbe dovuta passare sui titoli di coda appena dopo l'ultima parola strappalacrime. Ma Wanda ha avuto l'accortezza di specificare l'ovvio: i brutti momenti passeranno e la coppia e la famiglia ne usciranno rafforzate (parole sue). "L'unica cosa è che entrambi abbiamo avuto la libertà di mettere fine alla nostra storia di 8 anni scegliendoci di nuovo", ha concluso l'argentina. Tra le lacrime, ha specificato lei, come nelle migliori delle tragedie. E come per magia Icardi è tornato a "seguire" solo due profili su Instagram (sai che divertimento): quello della moglie e quello del Psg, la sua squadra.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di

Da corrieredellosport.it il 27 ottobre 2021. I media argentini hanno rivelato la lettera scritta da Mauro Icardi per Wanda Nara, lettera che sarebbe stata decisiva per far tornare l'amore tra i due. Ormai era finita, lei aveva insistito per il divorzio e il calciatore aveva firmato tutto, ma non si era rassegnato a perderla per "uno stupido errore". Le parole e le scuse sincere avrebbero commosso Wanda fino a spingerla al perdono.

La lettera di Mauro Icardi a Wanda Nara

"Ancora una volta ti ho dimostrato che dico la verità. Non ti ho mai mentito o inventato nulla, ho solo fatto uno stupido errore. Stai facendo anche tu un grosso errore e non te ne rendi conto. Tutto quello che vuoi è il divorzio. Sono una brava persona e mi sono dato completamente a te. Tu lo sai e tutti lo sanno. Sono un grande padre e un grande patrigno, do la vita per i miei figli, per renderli felici. Io sono tutto questo e nessuno ha bisogno di dirlo. È sufficiente che io lo sappia. Come risultato di tutto questo ti dico che non posso continuare a sopportare i tuoi maltrattamenti, il tuo sminuirmi, il tuo prendermi per il culo come fai sempre. Tutto questo e molto di più. Non sono una merda e non me lo merito. Spero che, con tutte le cose materiali, sarai felice. Questo è già in tuo potere. Ora vuoi cazzeggiare, vuoi scrivere ad altri uomini... Spero che il prossimo calciatore sia l'1% di quello che ero io con te. Hai rovinato tutto per una chat di merda che non significava nulla per me. Sei cieca e non riesci a vedere oltre il telefono. Badi solo alle stronzate e mandi cose alla stampa. Non me lo sarei mai aspettato da te, ma io sono realista e so che la gente cambia. Grazie per tutto quello che siamo stati. Grazie per le due figlie che mi hai dato. Grazie per avermi dato il sostegno di cui avevo bisogno e scusami per essere stata la merda che ero e aver perso tutto a causa di un errore. Spero che tu sia felice, te lo meriti, e se non al mio fianco, spero che tu trovi un posto per essere felice".

Da corriere.it il 27 ottobre 2021. «Ci siamo scelti di nuovo. Ti amo». Pace fatta, Mauro Icardi e Wanda Nara insieme, innamorati come prima. Così lunedì sera la showgirl argentina ha scritto, all’apparenza, la parola fine al tira e molla tra lei e il marito, attualmente attaccante del Psg. Dall’Argentina però spuntano alcuni messaggi che Mauro avrebbe inviato alla presunta amante Eugenia Suarez , anche chiamata «La China». «Non voglio più stare con lei – si legge in uno di questi messaggi mandati da Icardi, svelati dal programma tv Lam -. Voglio separarmi da lei e non saperne più niente». L’ex capitano dell’Inter, secondo la ricostruzione del media argentino, non si limita a esplicitare un desiderio di libertà. Va oltre, raccontando alla Suarez particolari del suo rapporto con Wanda: «Ho smesso di amarla», scrive Mauro. E ancora: «La vedo come una sorella o una madre».

Da corrieredellosport.it il 29 ottobre 2021. Ritorno in Argentina per China Suarez. L'attrice e cantante 29enne ha trascorso l'ultimo mese a Madrid, dove è stata impegnata con le riprese di un nuovo film che la vede protagonista accanto ad Alvaro Morte, il famoso Professore della Casa di Carta. Appena atterrata a Buenos Aires China è stata fermata da numerosi giornalisti e paparazzi in cerca di un commento sulla faccenda Wanda-Icardi. La Suarez ha preferito tenere la bocca chiusa fino a quando a un certo punto ha esclamato divertita: "Quanto fa caldo, vero?".

La previsione su Icardi e China

Nonostante la riappacificazione tra Wanda Nara e Mauro Icardi continuano a trapelare teorie e indiscrezioni sul futuro sentimentale del calciatore del Paris Saint-Germain. Durante un programma tv argentino il giornalista Flavio Azzaro si è lasciato andare ad un commento piccante sulle sorti dello sportivo e dell'artista: "Ci sono serie possibilità che Icardi diventi in futuro il nuovo fidanzato di China. È attratto da lei, è legato a lei e vuole separarsi da Wanda da tempo. Quando è successo quello che è successo ha però avuto paura". Il riavvicinamento tra Icardi e la sua procuratrice ha dunque le ore contate?

"Cachet da migliaia di dollari". Wanda parla del tradimento di Icardi? Novella Toloni il 2 Novembre 2021 su Il Giornale. Secondo la stampa sudamericana l'imprenditrice argentina sarebbe in procinto di rilasciare un'intervista alla giornalista e amica Susana Gimenez puntando su alcune condizioni. Wanda Nara sarebbe pronta a concedere un'intervista esclusiva alla star televisiva argentina Susana Gimenez per parlare apertamente della recente crisi vissuta con il marito Mauro Icardi. La stampa locale sembra esserne certa, tanto che si vocifera già di location, domande e compensi. Superato lo scandalo del presunto tradimento di Mauro Icardi, che avrebbe corteggiato via chat l'attrice China Suarez, e la conseguente crisi coniugale che li avrebbe portati addirittura a firmare le carte del divorzio davanti agli avvocati (salvo poi stracciare tutto), Wanda Nara sarebbe disposta a parlare con la giornalista Susana Gimenez, sua amica da anni, in uno dei servizi più attesi dell'anno per la televisione argentina. Per farlo, però, l'imprenditrice avrebbe posto alcune condizioni. La prima sarebbe legata al luogo dell'intervista. "La famiglia Nara-Icardi riceverà Susana nella casa di Parigi", riporta il sito argentino Puntal. Nessuna trasferta oltreoceano dunque per la Nara, che accoglierà le telecamere nella sua villa parigina. Alla chiacchierata intima, la seconda che la Gimenez fa con Wanda dopo il 2017, quando la giornalista arrivò in Italia per intervistarla, non dovrebbe essere presente Maurito, fanno sapere i media argentini. La seconda richiesta sarebbe invece legata al compenso, come riporta il sito di new sudamericano Infobae: "Susana parlerà solo con Wanda oltre a pagarle un alto cachet di migliaia di dollari". A quanto ammonterebbe il compenso di Wanda Nara non è trapelato. Ma gli standard per un'intervista esclusiva di questo tipo non sono certamente bassi. La notizia di un'imminente esclusiva, che Wanda dovrebbe rilasciare al canale Telefe, è iniziata a circolare sui siti di gossip argentini nelle ultime ore e sembrerebbe trovare conferma anche nelle ultime storie pubblicate dalla stessa Nara sulla sua pagina Instagram. La moglie del calciatore del Psg ha condiviso la foto di un mazzo di fiori inviatole dalla giornalista, dove la ringrazia per il sostegno e le parole di conforto nel momento difficile e la saluta con un laconico: "ci vediamo presto". Parole che secondo la stampa sudamericana non lascerebbero dubbi sull'imminente incontro.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perch

Federica Bandirali per corriere.it il 2 novembre 2021. Sembrava pace fatta tra Mauro Icardi e Wanda Nara, e invece il 2 novembre un nuovo colpo di scena: il calciatore è totalmente sparito dai social. Senza apparentemente alcun motivo. Tutte le foto dell'attaccante argentino sono state cancellate e il suo account è scomparso da Instagram. Qualcuno attribuisce la sparizione agli ultimi gossip che sono stati scritti dal portale argentino Paparazzi.com.ar: Mauro Icardi avrebbe infatti provato a sedurre un'altra ragazza ben prima di China Suarez. Si tratterebbe della modella Rocio Guirao Diaz, classe 1984, nata e cresciuta in Argentina attualmente negli Stati Uniti. Rocio è nota anche per alcune partecipazioni televisive negli Stati Uniti e dal 2008 è sposata con Nicolas Paladini da cui ha tre figli. Pare, stando ai gossip, che Icardi abbia provato a corteggiare Rocio proprio tentando un approccio sui social network. Che questo scomparire da Instagram sia legato proprio al nuovo rumor che lo riguarda?

La lettera di Wanda

Dopo la notizia che Icardi aveva scambiato messaggi con la modella argentina China Suarez, l’attaccante del Paris Saint-Germain aveva dapprima cancellato tutti i suoi follow da Instagram tranne la moglie Wanda e poi aveva aggiunto la sua squadra. A placare gli animi dei curiosi c’aveva pensato Wanda Nara che aveva spiegato la situazione con Icardi tramite un post su Instagram: «Le foto che ho caricato negli ultimi mesi - scrive Nara - mostrano quanto eravamo bravi e quanto eravamo felici» aveva scritto «da quello che è successo, sono rimasta molto ferita. Ogni giorno chiedevo a Mauro il divorzio . Quando si è reso conto che non si poteva tornare indietro, mi ha detto che non potevamo continuare così, che se separarci era l'unico modo per porre fine a tanto dolore, allora dovevamo farlo. Siamo andati dall'avvocato. In due giorni Mauro ha accettato tutte le condizioni e abbiamo firmato l'Accordo. Il giorno dopo mi ha scritto una lettera come nessuno mi aveva mai scritto: “Ti ho dato tutto e tu hai tutto, spero che tu possa essere felice perché questo mi renderebbe felice”. E lì ho capito una cosa: che avendo tutto non ho niente se non sono con lui. Sono sicura che questo brutto momento che stiamo attraversando ci rafforzerà come coppia e come famiglia. L'importante è che entrambi abbiamo avuto la libertà di porre fine alla nostra storia di 8 anni, ma con la nostra anima stanca di piangere, ci siamo scelti liberamente di nuovo. Ti voglio bene». Sembrava un lieto fine ma ora spuntano nuovi colpi di scen2. 

Da corrieredellosport.it il 2 novembre 2021. Mentre Wanda Nara e Mauro Icardi provano a ricucire il loro legame sentimentale l'avvocato della prima, Ana Rosenfeld, ha rilasciato interessanti dichiarazioni in un programma tv argentino. "Nessuno vuole vivere sotto lo stesso tetto con una persona che, mentre uno si occupa della casa e della famiglia, trama qualcosa in parallelo. Non è stata solo l'infedeltà virtuale, ma la delusione e la mancanza di protezione. Di fronte a questa situazione, la prima decisione che Wanda ha preso è stata quella di separarsi. All'inizio il dolore era così forte che non è stato facile, ma tra loro ci sono state 24 ore di lavoro personale”, ha spiegato il legale di Wanda nella trasmissione Agarrate Catalina. 

Wanda e Icardi più forti di tutto e tutti

“L'amore, la famiglia e la coppia hanno prevalso. Dovevano attraversare questo momento, capirlo e ritrovare il rispetto, la fiducia, la sicurezza e l'amore che non si erano mai spezzati. L'amore c'è, tutto il resto è recuperabile”, ha aggiunto l'avvocato, che ha anche rivelato di aver avuto dei contatti con un collega italiano ma di fatto, com'è noto, il divorzio tra Wanda e Icardi non è mai diventato realtà.

Roberto D’Agostino per Vanityfair.it il 2 novembre 2021. Da un pezzo dobbiamo fare i conti con la follia social di Wanda Nara, protagonista della più grande telenovela dell’era digitale, seguita da due Continenti (Europa e Sudamerica) e senza cessioni di diritti televisivi. Un melodramma psichico, sboccato, esibizionista, vomitato direttamente dal materasso alla Rete (scopate, tradimenti, botte e coltelli), che incatena al telefonino una platea da 16,5 milioni di followers spinta dalla (morbosa) curiosità: Wanda avrà perdonato il marito pallonaro Mauro Icardi dopo i presunti tradimenti con la modella China Suarez e la trans Guendalina Rodriguez? Quando la vispa argentina risponde su Instagram alle sue rivali di letto, squadernando un magistrale stile da "pescivendola-killer" che toglie la pelle e la voglia di sopravvivere, si comprende che ha intuito al volo lo spirito dei tempi, che senza una bocca che spara a raffica oscenità e sconcezze da vespasiano, la nostra industria dello svago crollerebbe. Dopo aver assunto un investigatore privato, arrivando ad hackerargli il cellulare, la cornuta spara al marito zozzone: "Hai rovinato un'altra famiglia per una troia". Alla trans Guendalina Rodriguez dedica un messaggio non molto difficile da capire: "Puttana del cazzo che vuoi essere donna ma non lo sarai mai, se vuoi ti insegno io a truccare meglio una foto stronza. Cerca la fama altrove (...) Mauro non sa nemmeno della tua esistenza vai a lavare la tua fica se ce l'hai e poi prova a rovinare una famiglia di puttane a buon mercato proprio come te e China Suarez, forse siete sorelle… mmm mi resta il disgustoso dubbio!”. Da parte sua, il poliamoroso Icardi ci prova a mettere una pezza: ”Grazie amore mio per continuare a fidarti di questa bella famiglia e per essere il motore della nostra vita. Ti amo. Quanto fa male ferire i tuoi cari. Ne guarisci solo quando sei perdonato da chi hai ferito”. Una pezza che è peggio del buco: "Della mia famiglia mi occupo io, delle puttane la vita stessa", è la replica della cornuta. Wanda appartiene a quella categoria che mangia il pollo con le mani non per maleducazione, ma per eccesso di carattere, per prepotenza di immaginazione e di volontà. E le sue intemperanze non provengono da un dibattito aperto col destino, ma da un disturbo interno coll’intestino. Così, scambiando Instagram per le pareti di un cesso pubblico, ne è nato un Grand-Guignol per sconfiggere la grande paura di non esistere, di essere irrilevanti, incapaci di stare sul palcoscenico della vita e ricevere “like”. Per Marcel Proust “la vera vita, la vita finalmente scoperta e tratta alla luce, la sola vita realmente vissuta, è la letteratura”. Oggi è sui social dove si forma la consapevolezza di sé. Prima, se uno urlava, lo sentivano giusto nella tromba delle scale: adesso un suo ‘’cinguettio’’ può finire in ogni angolo del mondo. In Italia, una persona su due ha un profilo Facebook. Su Instagram, “privacy” si traduce in “provaci”. Dalla platea al palcoscenico. Così, il Web è diventato il più grandioso incubatore di individualismo, volano di uno sdoppiamento di massa dotato di narcisismo extralarge che avrebbe fatto felice il Pirandello di “Uno, nessuno, centomila” e fatto venire un coccolone a Montaigne che, con la sua penna d’oca, avvertiva: "Di se stessi si parla sempre in perdita". Ma, in un mondo dove si è perso il controllo della realtà, in cui si confonde la televisione con il divertimento, il fast food con il cibo, il pecorino con il Parmigianino e Vittorio Sgarbi con la politica, è evidente che può accadere che si finisca per diventare Wanda Nara. 

Ottavio Cappellani per "La Sicilia" il 24 ottobre 2021. Io non capisco. Siamo in periodo di politically correct, di cancel culture, di body positive, di appena ti muovi trovi qualcuno col ditino alzato che ti deve spiegare cosa si può e cosa non si può fare, e Wanda Nara in un colpo solo dice “puttana” a una, “transessuale” a un’altra e – soprattutto - “sorelle” a entrambe? E nessuno le dice niente? Alla fine vogliono tutti sapere se Wanda Nara e Mauro Icardi torneranno insieme, se effettivamente Icardi ha fottuto con China Suarez o ci sono stati solo i messaggini, Se Icardi davvero ha detto alla Suarez che si era separato dalla moglie, e se Guendalina Rodriguez è davvero una “sorella”. C’è qualcosa che mi sfugge. Il “chi fotte con chi?” era un’arte della conoscenza altissima ed esoterica i cui misteri svelavano ai pochi sapienti futuri e sorti di diplomazie e stati, di eserciti ed equilibri politici, di guerre e intelligence. Quando è qualcuno di veramente potente ad avere fottuto con qualcuno di veramente potente e allora non siamo più dinanzi a una fottuta ma ad una alleanza, o a un tradimento, dietro cui si scorgono trame, si interpretano avvenimenti, si predicono sorti, si costruiscono o si demoliscono carriere. Ma se a fottere sono Mauro Icardi e Massimiliano Allegri cosa cambia a parte, ovviamente, l’umore delle loro partner? Ma soprattutto c’è una cosa che non capisco, ancora meno dei titoli di giornale sugli insulti di Wanda Nara (ma come le è venuto in mente di dare della “sorella” a qualcuno?), o sui dibattiti se i tapiri consegnati da Striscia la Notizia debbano essere accompagnati da un portato etico moralizzatore, o sull’identità della persona con cui Allegri ha tradito Ambra Angiolini. Attestato il fatto che Icardi e Allegri hanno fatto la marachella e sono stati beccati, attestato il fatto che Icardi non sa mettere il pin al suo cellulare, attestato che Allegri fa trovare “più volte” nella sua macchina delle prove schiaccianti della sua infedeltà, attestato che forse, ma forse, Allegri e Icardi proprio volevano farle trovare queste prove, attestato tutto questo insomma, attestato che la faccenda, la querelle, la tragedia, il dramma, la soap, il gossip, la contumelia, nascono, indubbiamente, e dalla distrazione di Allegri e Icardi nella distruzione delle prove, e dalle azioni di Icardi e Allegri nella ricerca della f… insomma nell’arte della seduzione, ma me lo potete spiegare per favore perché è una settimana che tutti non fanno che parlare di Wanda Nara e Ambra Angiolini? E infine, ammetto anche io una mia debolezza. Mi ha colpito in tutto questa storia la figura di Guendalina Rodriguez, che pubblicava sul suo profilo social le foto tarocche insieme a Mauro Icardi e Wanda Nara che al posto di sorridere teneramente di fronte a questa espressione di ingenuo amore per il divo l’ha mandata letteralmente a “lavarsi la f… se ce l’ha”. Ecco, a questo punto io lo voglio sapere: ma Guendalina, dopo il comando imperioso di Wanda Nara, il bidet se lo è fatto? 

Dagospia il 26 ottobre 2021. DALL’ACCOUNT INSTAGRAM DI SELVAGGIA LUCARELLI. Perfetto. Dopo due settimane di sceneggiata a cui non ha creduto nessuno con epiteti rivolti solo all’amante di lui e non a lui, Wanda Nara scrive l’ultima pagina del manuale “Messaggi diseducativi for dummies” annunciando la pace così: “non ho niente se non sono con lui”. E certo. Siamo niente, fuori dalla coppia. Adesso attendo, che so, l’elogio della violenza domestica e poi “sì Mauro è un po’ vivace, ma pure voi, con quelle gonne corte…”.

Selvaggia Lucarelli contro Wanda Nara: "Ora violenza domestica e gonne corte?" Libero Quotidiano il 26 ottobre 2021. L'allarme divorzio per Wanda Nara e Mauro Icardi è già rientrato. Lo ha fatto sapere la stessa showgirl sui social. E così il matrimonio, che sembrava ormai compromesso dal tradimento dell'attaccante del Psg, è salvo. "Avendo tutto non ho niente se non sono con lui. Sono sicura che questo brutto momento che stiamo attraversando ci rafforzerà come coppia e come famiglia", ha fatto sapere la Nara. Che poi ha aggiunto: "Con la nostra anima stanca di piangere, ci siamo scelti liberamente di nuovo. Ti amo Mauro Icardi". Il post, poi, è stato condiviso anche dal calciatore sul suo profilo di Instagram. Questo bel lieto fine, però, non ha convinto del tutto Selvaggia Lucarelli, che sui social infatti ha scritto: "Perfetto. Dopo due settimane di sceneggiata a cui non ha creduto nessuno, con epiteti rivolti solo all’amante di lui e non a lui, Wanda Nara scrive l’ultima pagina del manuale “Messaggi diseducativi for dummies (stupidi)”. Secondo la giornalista, infatti, il messaggio che Wanda avrebbe fatto passare è del tutto sbagliato: "Ha annunciato la pace così: 'non ho niente se non sono con lui'. E certo. Siamo niente, fuori dalla coppia. Adesso attendo, che so, l’elogio della violenza domestica e poi 'sì Mauro è un po’ vivace, ma pure voi, con quelle gonne corte…'”.

Dagospia il 22 ottobre 2021. Dall'account facebook Selvaggia Lucarelli: Mi interessa abbastanza poco capire la dinamica che ha scatenato la crisi tra Wanda Nara e Mauro Icardi, se lui abbia tradito o ci fossero solo scambi di messaggi con la modella argentina China Suarez. Però una cosa la voglio dire: questo continuo dare della puttana alla presunta amante del marito su un account da 9 milioni di follower (anche oggi), con alternanza di foto di figli piccoli e famigliola da favola, è uno dei gesti più diseducativi che una donna con quel seguito possa fare. Non ho letto un insulto all’ex compagno, in compenso, perché il messaggio sottinteso è: lei è una puttan, tu ora -vittima della ammaliatrice- devi sudare un po’ perché ti faccia rientrare in casa. Davvero pessima. Per quel che mi riguarda solidarietà a China Suarez, “l’altra”. Qualunque cosa abbia fatto, lei era una donna libera, quello che doveva dare spiegazioni in casa era lui. E non è dando delle prostitute alle altre che faremo passi in avanti, amiche mie. Cara Wanda, fai la donna libera, emancipata, manager di te stessa e pure del tuo compagno ma resti sempre negli anni ‘20, alla fine. E te lo dice una che ti stimava pure.  

Da corrieredellosport.it il 22 ottobre 2021. Spuntano nuovi dettagli sulla liaison tra Mauro Icardi e China Suarez. Questa volta a parlare è il giornalista Marcelo Polino, che è intervenuto nel programma Flor de equipo. "Tutto è iniziato con un sacco di like da parte di lui su Instagram. Poi è arrivato il primo messaggio, sempre da parte di Icardi", ha spifferato il giornalista, che ha assicurato di aver appreso queste informazioni da una persona molto vicina a China. "Mauro nutre da tempo una profonda stima per China, l'ha vista spesso in televisione. Le ha detto che lei era la donna dei suoi sogni e che era in crisi con la moglie Wanda Nara. Persone vicino alla Suarez mi hanno confermato che i due non si sono mai incontrati dal vivo", ha aggiunto. 

Da corrieredellosport.it il 3 novembre 2021. Non c'è pace per Mauro Icardi e Wanda Nara: proprio quando sembrava essere tornato il sereno tra i due, ecco che emergono nuovi particolari su una nuova crisi. Tutta colpa, ancora una volta, della China Suarez, accusata di aver continuato a scrivere al bomber del Psg e avergli inviato un video hot nonostante la riappacificazione con la moglie-agente. Ma anche di Guendalina Rodriguez, altra presunta amante dell'argentino, che sui social continua a svelare dettagli piccanti della relazione che avrebbe con lui. La famosa transessuale italiana ha confermato alla rivista argentina Gente che presto si recherà a Parigi: merito anche dell'ultimo messaggio che le avrebbe inviato Icardi per convincerla a raggiungerlo in Francia mentre Wanda Nara è a Milano. "Guenda, perché non vieni a Parigi? Wanda è a Milano, possiamo parlare. Dai, fammi sapere". Rodríguez, che non ha ancora risposto al messaggio, ha assicurato che la sua intenzione è quella di accettare la proposta e "avere un nuovo faccia a faccia con Mauro".

Salvatore Riggio per corriere.it il 4 novembre 2021. Sembrava fosse tornato il sereno sull’amore tra Wanda Nara e Mauro Icardi. Non è così. «Sono sola, voglio stare bene, voglio continuare a lavorare e non voglio sapere altro di niente», ha scritto Wanda in un messaggio alla giornalista Yanina Latorre confermando di fatto la separazione definitiva. Il motivo? Un video a luci rosse che China Suarez ha mandato a Icardi. Wanda lo ha trovato e questo ha fatto traboccare il vaso. A rivelarlo in Argentina durante il programma «Los Angeles de la Mañana» su Canal 13 è stata appunto Latorre, da sempre molto informata sulle vicende degli Icardi’s. Prima Latorre ha raccontato che, nonostante le scuse pubbliche, Icardi avrebbe ripreso a sentire la Suarez via Telegram. Poi ha parlato di un filmato erotico dai contenuti inequivocabili che la Suarez ha inviato a Mauro e, pare, anche ad altri giocatori della Nazionale argentina. «China ama riprendersi e inviare tutto ai ragazzi che le piacciono. È una cattiva persona», ha detto Latorre. Un’abitudine che, evidentemente, ha mandato su tutte le furie Wanda Nara. La telenovela era iniziata sabato 16 ottobre, quando la moglie e la procuratrice dell’attaccante del Psg aveva svelato al mondo, a colpi di storie su Instagram, il presunto tradimento del marito con Eugenia Suarez, attrice e modella argentina di 29 anni soprannominata «La China» per via dei suoi occhi a mandorla. Da lì la fuga a Milano con i cinque figli e le continue richieste di perdono di Maurito, che intanto era finito ai margini del Psg, con club, Mauricio Pochettino e compagni di squadra in imbarazzo per tutto quello che stava accadendo. Poi la lettera di Icardi a salvare in extremis il matrimonio e il perdono di Wanda Nara. Tutto finito? Macché. Perché sembra proprio che la consorte sia tornata a Milano, come ha rivelato sempre il programma tv «Los Angeles de la Mañana», che continua a seguire la vicenda con grande passione senza mai tralasciare alcun dettaglio. «Questa volta ha intrapreso il viaggio senza bambini». Non può essere sottovalutato un altro episodio. Icardi è scomparso da Instagram. In Argentina sostengono che avrebbe provato a sedurre un’altra donna ben prima di Eugenia Suarez. Si tratterebbe della modella Rocio Guirao Diaz, classe 1984, connazionale dell’attaccante ma attualmente negli Stati Uniti. Nota anche per alcune partecipazioni televisive negli Usa e dal 2008 sposata con Nicolas Paladini da cui ha avuto tre figli. Vero o non vero, Wanda ha deciso di mettere fine al suo matrimonio.  

Da corrieredellosport.it il 3 novembre 2021. Quando il sereno sembrava tornato, riecco la bufera tra Wanda Nara e Mauro Icardi. Secondo la stampa argentina la cancellazione dell'ultimo post di riconciliazione su Instagram da parte della donna, che è partita improvvisamente per Milano, e la sospensione dell'account social del calciatore, sarebbero la conseguenza di una nuova crisi della coppia. Wanda ha rivelato nelle storie di Instagram il suo viaggio verso il capoluogo lombardo con un emblematico "ciao" e, qualche ora più tardi, ha pubblicato un selfie nella sua casa di Milano. Secondo Olé la rottura sarebbe irreversibile e sarebbe stata causata dalla presenza in un hotel di Parigi di China Suarez, donna che avrebbe avuto il flirt con Icardi alla base della prima crisi. Wanda sarebbe stata avvertita dell'accaduto da un'amica e sospetta che Mauro abbia visto China.

Da corriere.it il 3 novembre 2021. Sembrava fosse tornato il sereno sull’amore tra Wanda Nara e Mauro Icardi. Non è così. Un video a luci rosse che China Suarez ha mandato a Icardi, e che Wanda ha trovato, pare infatti avere chiuso per sempre la storia fra i due. A rivelarlo in Argentina durante il programma «Los Angeles de la Mañana» su Canal 13 è stata la giornalista Yanina Latorre, da sempre molto informata sulle vicende degli Icardi’s. Prima Latorre ha raccontato che, nonostante le scuse pubbliche, Icardi avrebbe ripreso a sentire la Suarez via Telegram. Poi ha parlato di un filmato erotico dai contenuti inequivocabili che la Suarez ha inviato a Mauro e, pare, anche ad altri giocatori della Nazionale argentina. «China ama riprendersi e inviare tutto ai ragazzi che le piacciono. È una cattiva persona», ha detto Latorre. Un’abitudine che, evidentemente, ha mandato su tutte le furie Wanda Nara. La telenovela era iniziata sabato 16 ottobre, quando la moglie e la procuratrice dell’attaccante del Psg aveva svelato al mondo, a colpi di storie su Instagram, il presunto tradimento del marito con Eugenia Suarez, attrice e modella argentina di 29 anni soprannominata «La China» per via dei suoi occhi a mandorla. Da lì la fuga a Milano con i cinque figli e le continue richieste di perdono di Maurito, che intanto era finito ai margini del Psg, con club, Mauricio Pochettino e compagni di squadra in imbarazzo per tutto quello che stava accadendo.

Da gazzetta.it il 3 novembre 2021. (…) Alla base di questo nuovo allontanamento, dopo quello seguitissimo su siti e social sul tradimento di lui svelato da Wanda il 16 ottobre, ci potrebbe essere ancora lei, la China Eugenia Suarez, attrice e modella di 29 anni che aveva una fitta corrispondenza con l'attaccante del Psg. Secondo la giornalista argentina Yanina Latorre di Canal 13 i messaggi tra Icardi e la China sono continuati anche dopo lo scandalo e i due potrebbero addirittura essersi incontrati. C'è poi una mail che Wanda avrebbe ricevuto con i dettagli del tradimento. Oltreoceano circola anche un'altra voce, secondo cui Maurito avrebbe provato a sedurre un’altra donna, la modella, Rocio Guirao Diaz prima di Eugenia Suarez. Di certo ci sono le foto sparite e il viaggio di lavoro dell'agente e imprenditrice a Milano da sola. Appuntamento alle prossime puntate...

Da corrieredellosport.it il 5 novembre 2021. È ufficialmente finita la storia d'amore tra Wanda Nara e Mauro Icardi. Una storia d'amore turbolenta, ricca di passione e sentimento, terminata a quanto pare per un tradimento del calciatore argentino. Ora i due sono pronti a firmare le carte del divorzio e a dividere l'ingente patrimonio accumulato in ben sette anni di matrimonio. Il portale argentino Noticias ha elencato tutti i beni di Wanda e Icardi, senza ombra di dubbio una delle coppie più ricche del mondo del calcio e dello showbiz internazionale.

Il patrimonio di Wanda e Icardi

Wanda Nara è proprietaria al 100% della società World Marketing Football, con la quale gestisce due attività fondamentali: il marchio MI9 di Mauro Icardi e Wan Collection, una linea di abbigliamento e cosmetici con cui ha iniziato a collaborare nel 2017. Da qualche mese la Nara ha aperto un'altra attività, assai sponsorizzata su Instagram, la Wanda Cosmetics. Del patrimonio della coppia fanno parte inoltre sette auto di lusso e cinque case.

Le auto di Wanda e Icardi

Wanda Nara e Mauro Icardi possiedono: una Lamborghini Huracan Spyder blu, valutata circa 230mila euro, una Bentley Bentayga, dal valore di oltre 150mila euro, una Rolls Royce Ghost bianca e nera di quasi 300mila euro, un Hummer H2 personalizzato dotato di una playstation che è valutato all'incirca 110mila. Fanno parte del ricco patrimonio anche una Mercedes Benz Classe G e un Range Rover (entrambi dal valore di 160mila euro) e un camion Cadillac Escalade che supera i 100mila. 

Le case di Wanda e Icardi

Wanda Nara e Mauro Icardi possiedono ben due appartamenti a Milano: uno si trova a pochi passi dallo stadio San Siro e comprende una piscina privata in terrazza; l'altro è situato nel quartiere Porta Nuova. Qualche anno fa la coppia ha acquistato pure una casa in campagna, a Galliate, a 50 minuti dal capuologo meneghino. Il valore della struttura si aggira intorno ai due milioni di euro. Il patrimonio della famiglia Icardi comprende in più una casa sul lago di Como e una a Tigre, in Argentina. Quest'ultima è l'abitazione che Wanda ha condiviso con l'ex marito Maxi Lopez nei primi mesi del loro matrimonio. La casa è rimasta alla Nara come riscatto per tutti gli alimenti che in passato l'ex calciatore non ha mai elargito all'ex moglie e ai tre figli.

Da corrieredellosport.it il 5 novembre 2021. Nuovi dettagli sulla burrascosa rottura tra Wanda Nara e Mauro Icardi. A spifferarli, ancora una volta, la giornalista argentina Yanina Latorre. Contrariamente a quanto si pensava nei giorni scorsi China Suarez sarebbe arrivata a Parigi di sua spontanea volontà e non con un volo pagato dall'attaccante del PSG. Insieme a due amici si sarebbre presentata nell'hotel di lusso dove pare abbia voluto incontrare a tutti i costi Icardi."Quando è finita la partita del Paris Saint-Germain lei era già in albergo e ha chiesto una maglia rosa personalizzata della squadra", ha spifferato Yanina al programma tv Los ángeles de la mañana. 

La reazione di Mauro Icardi

Dopo che Wanda Nara ha scoperto dell'incontro tra il marito e l'attrice tramite una serie di email anonime avrebbe chiesto spiegazioni al calciatore, che inizialmente le aveva parlato di un "flirt virtuale" con China Suarez. In realtà i due avrebbero avuto modo di incontrarsi in un weekend di fine settembre, mentre Wanda era in Italia per seguire la settimana della moda. "Che colpa ne ho se è venuta?": con queste parole si sarebbe giustificato Maurito, che non sarebbe però riuscito a salvare il suo matrimonio. La sua risposta avrebbe indignato ancora di più la moglie, turbata dalle bugie e dagli inganni del compagno. Dopo l'ennesima balla Wanda ha lasciato Parigi ed è volata a Milano. Ufficialmente per impegni di lavoro ma pure per prendere le distanze da Icardi. "È finita per sempre", avrebbe confidato agli amici più cari.

Da corrieredellosport.it il 9 novembre 2021. Pace fatta tra Wanda Nara e Mauro Icardi, o almeno sembrerebbe a giudicare dalle foto pubblicate in questi ultimi giorni sui social. La coppia sembra aver ritrovato serenità: ma come è riuscito Maurito a far breccia nel cuore della moglie-agente e farsi perdonare? Pare che il bomber del Psg abbia dovuto ammettere le sue colpe, rivelando - non solo a Wanda - tutti i dettagli della notte in compagnia di China Suárez nell'ormai famosa suite di un hotel di Parigi. Wanda Nara ormai sa tutto, così come i compagni di Icardi al Psg, che lo avrebbero letteralmente bombardato di domande nello spogliatoio. “Icardi ha detto che lui e China si sono solo baciati, perché lui aveva la febbre - ha raccontato Yanina Latorre - Ma se uno ha il Covid, basta un bacio per trasmetterlo. Lui aveva la febbre e non sarebbe potuto andare ma lo ha fatto lo stesso perché lei già era arrivata. Questa è la versione di Icardi". Sempre secondo il programma tv Los ángeles de la mañana, Wanda si sarebbe arrabbiata proprio perché l'attaccante ex Inter le ha raccontato di essere andato all'hotel solo per non piantare in asso la China. "Tutto questo succede solo perché Icardi è uno sciocco", ha concluso Latorre.

Da fanpage.it il 9 novembre 2021. Wanda Nara continua a tacere riguardo il proprio matrimonio, ma il parallelo delle immagini postate sui profili Instagram suo e di Mauro Icardi indica senza alcun dubbio che i due hanno ripreso quanto meno a condividere lo stesso tetto – come dimostra il breve soggiorno nella tenuta lombarda – ed anche gli spostamenti sul medesimo aereo privato. L'unica certezza è la volontà ferrea di lui di salvare il proprio rapporto coniugale, a dispetto delle ripetute fughe della moglie da Parigi, della voglia di "non saperne più niente" del marito infedele, dei dettagli sempre più crudi che saltano fuori su un tradimento che da virtuale – fatto di chat su WhatsApp e Telegram e di video bollenti inviati da Eugenia ‘China' Suarez ad Icardi – si è scoperto invece essere stato fisico. Ormai non ci sono più dubbi, per ammissione fatta anche dal giocatore del PSG alla moglie, sull'incontro avvenuto con la 29enne attrice argentina in un albergo di Parigi, approfittando della trasferta milanese di Wanda a Milano in un weekend di fine settembre. "Qual è la mia colpa se lei è venuta a Parigi?", si è difeso Icardi quando la moglie lo ha affrontato per chiedergli conto dell'incontro nell'hotel della capitale, spiegandole come avesse fatto tutto la China, avvisandolo che era lì al termine di PSG-Montpellier dello scorso 25 settembre e chiedendogli di portarle in regalo la seconda maglia del club francese, quella con banda rosa su sfondo bianco. Lui però a quel rendez vous ci è andato non certamente per raccontarle come era andata la partita: quell'incontro era il coronamento di uno scambio di messaggi che andava avanti da tempo. "Dietro c'è una storia molto più grande", aveva scritto la China su Instagram accusando Icardi di essere stato lui il diavolo tentatore da cui era nato tutto. Una versione quest'ultima che viene avvalorata da Yanina Latorre, indiscussa regina della vicenda nei programmi televisivi argentini e portavoce della stessa Wanda: secondo la giornalista, sarebbe stato lo stesso calciatore che avrebbe prenotato la camera d'albergo a Parigi dove si è svolto l'incontro con la Suarez. Quindi non se la sarebbe affatto ritrovata tra capo e collo nella capitale francese, ‘casualmente' proprio quando la moglie era a Milano assieme alla sorella Zaira. Le due erano andate a godersi la settimana della moda, portandosi dietro tutti i rispettivi figli: i cinque di Wanda e i due di Zaira. Il marito di quest'ultima – Jakob von Plessen, notissimo giocatore di polo come si vede nel post sotto – era invece rimasto a Parigi assieme ad Icardi. E dopo aver accompagnato il cognato all'incontro in albergo con la Suarez, sarebbe rimasto a dormire tutta la notte in macchina in attesa del ritorno di Maurito. Ma perché lo ha fatto? La mossa era necessaria per reggere il gioco ad Icardi e non farlo scoprire dalla moglie. "Il problema è che la casa della coppia a Parigi ha telecamere, quindi se Jakob fosse tornato da solo, Wanda se ne sarebbe accorta", ha raccontato la Latorre, spiegando perché nessuno dei due cognati sia rincasato quella notte. Il marito di Zaira, dunque, è rimasto addormentato in macchina per evitare che tornando a casa da solo Wanda si chiedesse perché non ci fosse anche Icardi assieme a lui. Una vicenda che ha fatto arrabbiare non poco anche la sorella minore di casa Nara, letteralmente furiosa col marito per aver tenuto bordone al cognato fedifrago. Ogni dettaglio che salta fuori peggiora ulteriormente la situazione di Maurito e rende ancora più difficile farsi perdonare da Wanda. Ma lui davvero non molla: intanto è rientrato nelle stesse foto. È già qualcosa.

Wanda Nara umiliata due volte: "Mauro Icardi a letto con China Suarez, sapete chi l'ha coperto?" Libero Quotidiano il 10 novembre 2021. In Argentina continua a esserci grande interesse sulle vicende private di Mauro Icardi e Wanda Nara. I due stanno divorziando o stanno provando a intraprendere la strada della conciliazione? Ancora non è chiaro del tutto, ma intanto la trasmissione “Los angeles de la manana” continua a tirar fuori indiscrezioni sempre più esclusive. La giornalista Yanina Latorre, che tra l’altro è un’amica di Wanda Nara, ha ricostruito nel dettaglio l’intera vicenda del presunto tradimento di Icardi. Quest’ultimo pare che abbia confermato i suoi incontri clandestini di Eugenia Suarez, in particolare uno avvenuto di notte in hotel e coperto dal cognato Jakob von Plessen (fidanzato di Zaira Nara, sorella di Wanda). “Il giorno in cui si è incontrato con l’attrice ha prenotato la stanza a nome di un giocatore di polo”, è l’indiscrezione che arriva dall’Argentina. Non solo, perché pare che quella notte Icardi avesse la febbre e quindi non si sarebbe riuscito a spingere oltre qualche bacio. Wanda Nara avrebbe scoperto il tutto controllando il telefono di Icardi, ma non solo perché avrebbe cercato e ottenuto conferme anche da parte della Suarez. Le due si sarebbero sentite a telefono, con Eugenia che avrebbe detto: “La verità è che ero con tuo marito, ma stai tranquilla, ci sono stati solo baci. Abbiamo provato in un modo, poi in un altro, ma Mauro non ci è riuscito”.

Il tradimento di Icardi: suo cognato costretto a dormire in macchina per reggergli il gioco. Ogni dettaglio che salta fuori sul tradimento di Mauro Icardi con Eugenia ‘China’ Suarez rende ancora più difficile farsi perdonare dalla moglie Wanda. Il ruolo avuto nella vicenda da suo cognato, il marito di Zaira Nara, mostra come il piano per arrivare finalmente al contatto fisico con l’attrice argentina prevedesse addirittura un pernottamento in macchina del “complice”.. Paolo Fiorenza su Fanpage.it il 9 novembre 2021. Wanda Nara continua a tacere riguardo il proprio matrimonio, ma il parallelo delle immagini postate sui profili Instagram suo e di Mauro Icardi indica senza alcun dubbio che i due hanno ripreso quanto meno a condividere lo stesso tetto – come dimostra il breve soggiorno nella tenuta lombarda – ed anche gli spostamenti sul medesimo aereo privato. L'unica certezza è la volontà ferrea di lui di salvare il proprio rapporto coniugale, a dispetto delle ripetute fughe della moglie da Parigi, della voglia di "non saperne più niente" del marito infedele, dei dettagli sempre più crudi che saltano fuori su un tradimento che da virtuale – fatto di chat su WhatsApp e Telegram e di video bollenti inviati da Eugenia ‘China' Suarez ad Icardi – si è scoperto invece essere stato fisico. Ormai non ci sono più dubbi, per ammissione fatta anche dal giocatore del PSG alla moglie, sull'incontro avvenuto con la 29enne attrice argentina in un albergo di Parigi, approfittando della trasferta milanese di Wanda a Milano in un weekend di fine settembre. "Qual è la mia colpa se lei è venuta a Parigi?", si è difeso Icardi quando la moglie lo ha affrontato per chiedergli conto dell'incontro nell'hotel della capitale, spiegandole come avesse fatto tutto la China, avvisandolo che era lì al termine di PSG-Montpellier dello scorso 25 settembre e chiedendogli di portarle in regalo la seconda maglia del club francese, quella con banda rosa su sfondo bianco. Lui però a quel rendez vous ci è andato non certamente per raccontarle come era andata la partita: quell'incontro era il coronamento di uno scambio di messaggi che andava avanti da tempo. "Dietro c'è una storia molto più grande", aveva scritto la China su Instagram accusando Icardi di essere stato lui il diavolo tentatore da cui era nato tutto. Una versione quest'ultima che viene avvalorata da Yanina Latorre, indiscussa regina della vicenda nei programmi televisivi argentini e portavoce della stessa Wanda: secondo la giornalista, sarebbe stato lo stesso calciatore che avrebbe prenotato la camera d'albergo a Parigi dove si è svolto l'incontro con la Suarez. Quindi non se la sarebbe affatto ritrovata tra capo e collo nella capitale francese, ‘casualmente' proprio quando la moglie era a Milano assieme alla sorella Zaira. Le due erano andate a godersi la settimana della moda, portandosi dietro tutti i rispettivi figli: i cinque di Wanda e i due di Zaira. Il marito di quest'ultima – Jakob von Plessen, notissimo giocatore di polo come si vede nel post sotto – era invece rimasto a Parigi assieme ad Icardi. E dopo aver accompagnato il cognato all'incontro in albergo con la Suarez, sarebbe rimasto a dormire tutta la notte in macchina in attesa del ritorno di Maurito. Ma perché lo ha fatto? La mossa era necessaria per reggere il gioco ad Icardi e non farlo scoprire dalla moglie. "Il problema è che la casa della coppia a Parigi ha telecamere, quindi se Jakob fosse tornato da solo, Wanda se ne sarebbe accorta", ha raccontato la Latorre, spiegando perché nessuno dei due cognati sia rincasato quella notte. Il marito di Zaira, dunque, è rimasto addormentato in macchina per evitare che tornando a casa da solo Wanda si chiedesse perché non ci fosse anche Icardi assieme a lui. Una vicenda che ha fatto arrabbiare non poco anche la sorella minore di casa Nara, letteralmente furiosa col marito per aver tenuto bordone al cognato fedifrago. Ogni dettaglio che salta fuori peggiora ulteriormente la situazione di Maurito e rende ancora più difficile farsi perdonare da Wanda. Ma lui davvero non molla: intanto è rientrato nelle stesse foto. È già qualcosa.

Da corrieredellosport.it l'11 novembre 2021. Due sorelle sull'orlo della crisi. Non solo Wanda, ma anche Zaira Nara sarebbe in crisi con il compagno, Jakob von Plessen. E anche in questo caso, sarebbe tutta colpa di Eugenia Suarez. L'uomo era presente la famosa notte in cui Icardi e la China si sarebbero incontrati nella suite di un albergo di Parigi: sarebbe proprio lui il famoso complice del bomber del Psg, costretto a dormire in macchina per coprire il cognato. Zaira Nara era prossima al matrimonio; fidanzata ufficialmente con Jakob von Plessen, giocatore di polo professionista, sembra che ora i due si siano separati e le nozze saltate. In Argentina hanno notato un indizio che non lascia spazio a dubbi: su Instagram la modella argentina si è mostrata con la mano "nuda", senza l'anello di fidanzamento regalatole da von Plessen. Proprio come aveva fatto sua sorella maggiore prima di lei...

Da corrieredellosport.it l'11 novembre 2021. Nell'infinita crisi amorosa di Wanda Nara e Mauro Icardi spunta l'ennesima indiscrezione dall'Argentina: il calciatore avrebbe ricordato alla moglie lo scandalo che hanno dovuto già affrontare in passato a causa della sua separazione dall'ex marito: "Io ti ho sostenuta, ho mentito per te, tu non lo stai facendo". Questa sarebbe la sintesi dello sfogo del calciatore che (forse) non volendo, però ha svelato anche segreti del passato.

Lo sfogo di Mauro Icardi

Nel fine settimana - racconta Evelyn von Brocke - ci sarebbe stata una discussione nel corso della quale Icardi avrebbe detto a Wanda di smetterla di cazzeggiare, aggiungendo: "Ti ho sostenuta durante tutto lo scandalo per Maxi López, ho sopportato anche delle bugie per te e tu non mi stai sostenendo in questo. Pensavo fossimo uniti, che facessimo blocco, invece stiamo fallendo".

Da corrieredellosport.it l'11 novembre 2021. La vicenda Wanda-Icardi sembra non finire mai e ogni giorni si arricchisce di nuovi particolari. Secondo quanto riportato dalla giornalista argentina Yanina Latorre, Icardi l'avrebbe contattata per rivelare tutta la verità sulla storia con la China. L'attaccante del Psg avrebbe dunque confermato tutti i rumors, raccontando i dettagli della notte trascorsa nella stanza dell'hotel. Verità e particolari che erano già stati rivelati sia a Wanda, ma soprattutto ai compagni del Psg che hanno voluto sapere tutto sul gossip più chiacchierato dell'ultimo mese. È stata la stessa Yanina a svelare cosa avrebbe raccontato Maurito alla squadra: "Icardi ha detto che lui e China si sono solo baciati, perché lui aveva la febbre."  L'attaccante dunque ha ammesso l'incontro, ma ha smentito di esserci andato al letto. E proprio a proposito di questo particolare, ovvero di cosa sia davvero accaduto nella lussuosa suite di Parigi, dall'Argentina giungono altre clamorose rivelazioni che smentiscono la versione raccontata da Icardi a Yanina. Durante la puntata del programma "Intrusos", la conduttrice Paula Varela ha rivelato che ci sarebbe stata un'ennesima discussione tra Wanda e Icardi dopo che quest'ultima ha trovato nuovi messaggi cancellati dall'attaccante. Per questo motivo, secondo una ricostruzione della tv argentina, la procuratrice avrebbe deciso di chiamare la China che a sua volta avrebbe confermato tutto della notte passata con Icardi, aggiungendo però un particolare scioccante: "Stai tranquilla, non abbiamo fatto sesso perché a Mauro non gli si è drizzato", questa la frase sconvolgente che l'attrice avrebbe detto a Wanda. Con queste parole, la China avrebbe dunque smentito quanto raccontato in precedenza da Icardi, ovvero che i due non avrebbero consumato perché l'attaccante del Psg aveva la febbre.

"Non lo farò". Scoppia la lite in un ristorante tra Wanda e Icardi. Novella Toloni l'11 Novembre 2021 su Il Giornale. Un testimone avrebbe assistito alla discussione che la coppia avrebbe avuto in un ristorante argentino in centro a Milano e sono emersi dettagli piccanti. Wanda Nara non perdona. Le ultime indiscrezioni circolate sulla notte, che Mauro Icardi ha trascorso in un hotel di Parigi con China Suarez, avrebbero creato l'ennesima frattura nella coppia. A confermare il periodo nero che Wanda e Maurito stanno vivendo ci sarebbe la litigata, che si sarebbe consumata tra i due in un ristorante di Milano negli scorsi giorni, alla quale ha assistito un testimone.

Secondo quanto riferito dal sito argentino Pronto, Wanda Nara non riuscirebbe a superare il tradimento del marito soprattutto alla luce delle nuove indiscrezioni circolate sulla notte, che Maurito e La China avrebbero trascorso insieme a Parigi. Tra i due ci sarebbero state solo chiacchiere e un bacio. La coppia non si sarebbe spinta oltre perché Icardi, di rientro da un match con il Psg, avrebbe avuto la febbre. Quanto avvenuto nell'albergo della capitale francese sarebbe stato confermato dallo stesso Mauro Icardi alla giornalista Yanina Latorre. Una verità che però non avrebbe placato l'ira di Wanda Nara, che a Milano sarebbe esplosa contro il marito. L'imprenditrice argentina è rientrata nel capoluogo meneghino per motivi di lavoro ed è stata raggiunta da Mauro Icardi e dalle figlie Isabella e Francesca pochi giorni dopo. Le immagini della famiglia riunita, apparse sulla pagina Instagram dello sportivo, hanno fatto pensare che tra i due fosse tornato il sereno dopo le minacce di divorzio e la presunta nuova crisi. Ma un testimone avrebbe assistito a una nuova lite tra Wanda Nara e il marito mentre i due si trovavano a cena nel ristorante argentino El Porteño Arena in centro a Milano. Come riporta il sito sudamericano Porto l'uomo - seduto a un tavolo vicino alla coppia - avrebbe ascoltato parte della conversazione tra il giocatore del Psg e sua moglie. Una discussione i cui toni non sarebbero stati amichevoli, ma decisamente "freddi" e risentiti. "Lo farai di nuovo", avrebbe affermato Wanda a un certo punto rivolgendosi a Mauro, il quale avrebbe cercato di rassicurarla: "Giuro di no". Ma la Nara non sarebbe apparsa convinta del giuramento del compagno sulla sua fedeltà tanto da incalzarlo: "Non ti credo". Il testimone riferisce che Wanda avrebbe preso le distanze da Icardi anche fisicamente, spostandosi sulla sedia e proseguendo con l'accusa: "Lo farai di nuovo". Un confronto che metterebbe in mostra la sfiducia che la Nara nutrirebbe nei confronti del marito dopo le prove della sua infedeltà che si sarebbero accumulate nel corso degli ultimi mesi.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

Da corrieredellosport.it il 9 novembre 2021. Caterina Collovati è una furia contro Wanda Nara e Mauro Icardi, protagonisti di una crisi matrimoniale raccontata sui social da loro stessi nelle ultime settimane. La moglie di Fulvio (ex difensore di Roma, Milan, Inter e campione del mondo nel 1982), ha pubblicato un post al veleno su Instagram, contestando la comunicazione sui social network da parte della coppia e la loro gestione famigliare: "Lui, Mauro Icardi, si fa inviare video hard dalla presunta amante - scrive Caterina Collovati, volto noto della televisione - lei, Wanda Nara, si denuda, così, per il gusto di farsi guardare. Povere creature, i loro figli, ignari di tutto, eppure descritti tra una chiappa e una tetta come ragione di vita". 

Da corrieredellosport.it l'11 novembre 2021. Guendalina Rodriguez non molla. Da tempo la trans brasiliana sostiene di avere una relazione clandestina con Mauro Icardi. Nelle ultime ore l'influencer ha assicurato di aver incontrato l'attaccante anche di recente, a Parigi, mentre Wanda Nara era a Milano per impegni di lavoro. Su Instagram la Rodriguez ha condiviso una storia assai piccante: "Mauro Icardi mi ha succhiato il p***, ora metto i video, visto che ha avuto problemi con diverse donne a letto, sia Wanda Nara che China Suarez".

La confessione hot di Guenda

Il riferimento è al gossip spuntato fuori sulla presunta notte di passione tra Icardi e China: pare che i due non siano andati oltre un casto bacio per via di alcuni problemi di salute del calciatore. Guendalina ha poi postato una foto di Icardi sdraiato sul divano. Stories che hanno fatto prontamente il giro della rete ma che qualche ora dopo sono state rimosse dalla Rodriguez. In precedenza la 24enne aveva spifferato che Maurito è molto passionale sotto le lenzuola. 

Da corrieredellosport.it il 12 novembre 2021. Il futuro di Wanda Nara e Mauro Icardi appare sempre più incerto. Dopo la confessione dell'attaccante del Psg, Eugenia Suarez ha annunciato un imminente viaggio in Europa. Wanda non deve averla presa bene, tanto che ha affidato il suo pensiero e le sue parole a una piccata storia social. "Le persone felici non perdono tempo a fare del male agli altri. Il male è una cosa per le persone infelici, frustrate, mediocri e invidiose", ha pubblicato la procuratrice argentina su Instagram, ricondividendo il post dell'amica Patty la Numerologa. Frecciata alla China? 

Da corrieredellosport.it il 12 novembre 2021. Wanda Nara pubblica un messaggio criptico su Instagram, suscitando la curiosità dei suoi oltre 9 milioni di follower. “Soy lo que soy por como soy…”, ovvero: “Sono ciò che sono per come sono”. Che significa? A chi è indirizzato il messaggio? Inevitabile pensare alla telenovela con Mauro Icardi. Al messaggio, postato da Dubai, Wanda ha affiancato uno scatto hot in reggiseno.

La riposta di Icardi

Non si è fatta attendere la risposta di Mauro, che ha così commentato: “Hermosa”, accompagnato da un cuore viola. Si vocifera di una rappacificazione tra i due dopo che è riapparsa la fede nuziale, che la modella argentina si era sfilata nei giorni scorsi a seguito della scappatella dell'attaccante con l'attrice e cantante sudamericana China Suarez. 

Da tgcom24.mediaset.it il 12 novembre 2021. Si lasciano, si riprendono, litigano e fanno pace... tra Mauro Icardi e Wanda Nara è una continua montagna russa di emozioni. Le ultimi indiscrezioni riguardo ai presunti tradimenti del calciatore sembrano non aver fatto breccia nella serenità ritrovata, visto che la coppia è volata insieme a Dubai. Ma si tratta davvero di una romantica fuga d'amore o al contrario è un estremo tentativo di giocarsi il tutto per tutto?

Wanda ritrova la voglia di sedurre e ammaliare, posando per i follower con il décolleté strabordante in primo piano. Mauro invece preferisce i filmati di coppia, abbracciato a sua moglie mentre la bacia teneramente il collo. "Da Dubai con amore", scrive a commento del video per sottolineare come la crisi sia rientrata. A vederli così sembrano tornati quelli di una volta, ma non è tutto oro quello che luccica...

A ridosso della partenza per gli Emirati Arabi, la Nara e Icardi sarebbero stati avvistati a cena insieme in un noto ristorante milanese e l'atmosfera sembrava tutt'altro che serena. Sono stati sentiti discutere animatamente, con lei che diceva: "Lo farai di nuovo" e lui che assicurava: "Ti giuro di no". Poi la partenza insieme per la meta esotica, alla ricerca di un po' di serenità. La troveranno?

Da corrieredellosport.it il 16 novembre 2021. Una folle fuga d'amore a Dubai: sarebbe stato questo il segreto di Wanda Nara e Mauro Icardi per ricucire il loro matrimonio. Nonostante le dediche romantiche e i baci social, i media argentini continuano però a indagare senza sosta sul rapporto tra il bomber del Psg e Eugenia China Suarez. In particolare, al centro del gossip più recente ci sarebbe la telefonata "brutalmente sincera e tremendamente esplosiva" avvenuta tra Wanda e l'amante del marito: 40 minuti di fuoco il cui contenuto è venuto ora alla luce. Secondo Yanina Latorre di Los Angeles de la Mañana, Wanda Nara avrebbe minacciato la China durante una telefonata al veleno: "Ti avviso!", le avrebbe urlato con rabbia al telefono. La causa scatenante della furia irrefrenabile di Wanda sarebbe stata l'estrema sincerità di Eugenia Suarez che, chiarendo il motivo del suo viaggio a Parigi, avrebbe ammesso con candore: "Per andare a letto con tuo marito, ma non ho potuto".  Al che la moglie di Icardi avrebbe risposto: "Prima o poi ti incontro".

Da corrieredellosport.it il 16 novembre 2021. Tra rose, palloncini e cene eleganti, la mini vacanza a Dubai sembra aver riportato il sereno tra Wanda Nara e Mauro Icardi, che sui social si sono mostrati innamorati e appassionati come non mai. Sembra, appunto, almeno stando alle ultime rivelazioni che arrivano dall'Argentina. "È una coppia nata controversa e quindi finirà in maniera controversa, per come è fatta Wanda e per come è fatto Icardi". "Icardi è stato il carnefice nella situazione con Maxi López - ha commentato il giornalista Flavio Azzaro durante il programma tv argentino Secretos Verdaderos - Ha girato pubblicità, ha partecipato a canzoni. Questo però è costato a Icardi molti problemi nello spogliatoio dell'Inter e la convocazione con la Nazionale argentina". "Icardi vuole separarsi da Wanda Nara tanti mesi fa. Ma la sua più grande paura è quella di aver visto quello che ha sofferto Maxi López", ha concluso. 

Fuga a Dubai per Wanda e Icardi. La riconciliazione vale migliaia di dollari. Novella Toloni il 16 Novembre 2021 su Il Giornale. Per sancire la pace ritrovata, la coppia si è concessa una mini vacanza a Dubai tra ristornati di lusso e resort a cinque stelle. Ma dall'Argentina punzecchiano: "Il fantasma di China riappare". Le ultime foto condivise da Mauro Icardi e Wanda Nara sui social network non lasciano dubbi sulla ritrovata sintonia della coppia. Il matrimonio è salvo, almeno per il momento, e i due argentini si sono concessi una fuga romantica negli Emirati Arabi per ritrovare la serenità. Un viaggio che, secondo i siti sudamericani, sarebbe costato alla coppia oltre 12mila dollari. Wanda e Maurito hanno scelto il lussuosissimo Bvlgari Resort Dubai, uno degli hotel più esclusivi al mondo, per sancire la pace dopo settimane di crisi. La notizia del tradimento, che Icardi ha consumato con l'attrice argentina China Suarez, era stata spiattellata sui social network da una furente Wanda Nara. L'imprenditrice non aveva esitato a lavare i panni sporchi in piazza, dando il via a una girandola di indiscrezioni e rumor sempre più piccanti. Sul triangolo Icardi - Nara - Suarez sono circolate notizie di ogni tipo: dalle chat ai video hot, dagli investigatori privati e alle richieste assurde. Un'ondata di fango che ha travolto la coppia e l'ha portata a un passo dal divorzio. Quando Wanda e Icardi sembravano ormai a un passo dal definitivo addio ecco arrivare la prova della riconciliazione. Una mini luna di miele a Dubai nel prestigioso hotel, che si trova nella baia artificiale di Jumeira. La pace è costata però cara al calciatore del Psg, che per farsi perdonare dalla moglie sembra abbia speso 3800 dollari a notte per soggiornare in una junior suite con affaccio sul mare con confort ed extra di ogni tipo. I dettagli della lussuosa fuga romantica di Wanda e Maurito sono stati riportati durante l'ultima puntata dello show televisivo Los Angeles de la Manana, in onda sulla rete argentina El Trece. Tra cene a lume di candela e trattamenti relax da migliaia di euro, i due non si sarebbero fatti mancare niente pur di concedersi una pausa dopo settimane di crisi. La fuga d'amore sembra avere giovato alla Nara, che su Instagram, di ritorno dal viaggio, ha scritto: "Dopo 4 giorni indimenticabili, torniamo a casa... ci aspettano le 5 persone più importanti della nostra vita". La conferma di una ritrovata armonia di coppia arriva anche da Yanina Latorre, la giornalista che dall'inizio della crisi coniugale di Maurito e Wanda, ha raccolto gli sfoghi della Nara. "Lei è molto felice. Il viaggio è stato positivo per loro, ma sono sicuro che queste cose non durano per sempre", ha affermato Latorre. E immediata è stata la stoccata del conduttore: "Il fantasma di La China riappare". Una provocazione che la dice lunga su quanto ci sia ancora da parlare sul tradimento e sulla crisi tra Wanda e Mauro. Almeno in Argentina.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di

Da corrieredellosport.it il 19 novembre 2021. Dopo le nuove rivelazioni su un altro presunto tradimento di Icardi a Wanda Nara, in Argentina  i media sono tornati nuovamente sull'argomento Maurito-China e più nello specifico del famoso incontro avvenuto nella lussuosa suite di Parigi. La bomba è stata sganciata durante il programma argentino Intrusos: Karina Iavicoli, ospite della trasmissione, ha rivelato che esisterebbe addirittura un video. "Una delle due parti ha filmato l'incontro", ha dichiarato la Iavicoli. "Questo cellullare potrebbe essere finito in Argentina", ha aggiunto, alludendo al fatto che il video in questione potrebbe essere nelle mani della China. La Iavicoli ha inoltre dichiarato di non credere affatto alla versione rilasciata da Icardi e dalla China, secondo la quale i due non avrebbero fatto sesso durante l'incontro segreto avvenuto a Parigi: "È poco credibile la versione che non hanno potuto concludere nulla, anche se il tradimento può concretizzarsi anche in altri modi".

Da corrieredellosport.it il 19 novembre 2021. Nonostante ormai la crisi tra Wanda e Icardi sembra definitivamente archiviata, dall'Argentina continuano ad arrivare nuove rivelazioni sull'infedeltà di Maurito. Nel programma argentino Intrusos, il giornalista Rodrigo Lussich ha svelato che quello con la China non sarebbe il primo tradimento dell'attaccante del Psg: "C'è stato un precedente. E ora viene a galla tutto. Sembra che Icardi sia un demone", ha dichiarato Lussich.

Icardi e il presunto tradimento a Ibiza nel 2018

Secondo le indiscrezioni, Icardi avrebbe tradito Wanda già nel 2018, mentre erano in vacanza a Ibiza. Nello specifico il tutto sarebbe accaduto durante una serata trascorsa in un locale molto frequentato dai calciatori. Ad avvertire la showgirl argentina della situazione sospetta sarebbe stata la fidanzata di un illusionista che lavorava nello stesso posto e che dopo tale episodio è stato addirittura licenziato. Durante il programma, Lussich avrebbe letto il messaggio in cui la donna ha raccontato cosa è successo quella sera: "Mentre Wanda e Mauro stavano guardando lo spettacolo, una ragazza che lavorava nel locale è passata di fianco a Icardi che ha iniziato a guardarla senza mai perderla di vista. Nel frattempo, mentre lei parlava con altri c'è stato uno scambio di sguardi con Maurito. Poco dopo lei si è allontanata e l'attaccante del Psg si è alzato per andare in bagno. Dopo un po' è tornata la ragazza e successivamente anche l'argentino", queste le parole di Sabrina che come rivelato sempre dal giornalista ha anche lasciato un altro piccante messaggio a Wanda

Da corrieredellosport.it il 25 novembre 2021. L'intervista di Wanda Nara a Susana Gimenez ha scosso l'Argentina e il mondo intero. La showgirl ha finalmente rotto il silenzio sullo scandalo che ha investito il suo matrimonio con Mauro Icardi, raccontando per filo e per segno come sono andate le cose. Nel frattempo China Suarez non è rimasta di certo a guardare con le braccia incrociate: mai direttamente nominata nel corso dell'intervista, la modella argentina non avrebbe comunque preso bene le parole di Wanda e minacciato ripercussioni. Sono stati i media argentini a dare conto della rabbia della presunta amante di Icardi. "Nel momento esatto in cui è iniziata l'intervista, Eugenia Suárez ha inviato una lettera a Viacom, Wanda Nara e Susana Giménez - ha rivelato Mariano Iúdica, conduttore del programma tv "Polemica da bar" - Ha inizio il contrattacco giudiziario della China, perché già sono filtrati molti particolari".

Da golssip.it il 25 novembre 2021. China Suárez ha confessato i suoi sentimenti a Mauro Icardi e lo ha fatto nel periodo in cui si messaggiavano. In queste ore stanno emergendo i contenuti delle loro conversazioni. L'attrice, per esempio, gli aveva scritto a proposito delle foto che pubblicava insieme a Wanda: "Mi fa male vederti con lei". A riportarlo è il programma televisivo argentino LAM. Il giornalista Ángel de Brito ha riportato alcuni stralci: "Ti separerai da tua moglie. Non parlo con le persone sposate ma con te mi sono permessa". Ma Mauro Icardi non sarebbe stato l'unico giocatore che China Suárez avrebbe voluto conquistare. "Ho tre nomi di giocatori, uno si saprà presto perché la moglie vuole parlare", ha detto Ángel de Brito. Una delle cose che invece ha profondamente turbato Wanda Nara nella vicenda è aver scoperto che Mauro Icardi ha pagato la camera di China Suarez. "Si è scoperto che alla fine Icardi ha pagato l'hotel in cui ha incontrato la China, non il contrario", ha confermato de Brito.

Da corrieredellosport.it il 24 novembre 2021. Dalla scoperta dei messaggi tra Icardi e la China alla riconciliazione con il marito, Wanda Nara, in un'intervista esclusiva con Susana Gimenez ha raccontato particolari inediti sul wandagate. La showgirl argentina, dopo essere stata travolta dal gossip, ha deciso di rompere il silenzio e dire effettivamente cosa è successo nell'ultimo mese. Durante lo speciale registrato a Parigi, Wanda ha svelato nel dettaglio cosa è accaduto subito dopo che ha scoperto gli screenshot sul cellulare di Maurito. "Quando ho visto il messaggio, ho preso i miei figli e sono salita sul primo aereo per l'Italia", ha esordito Wanda. che ha raccontato anche cosa ha fatto appena arrivata a Milano. "Mi sono confrontata con alcuni amici e loro mi hanno detto che stavo facendo un casino. A quel punto ho chiesto a Mauro: mi perdoneresti se trovassi messaggi del genere sul mio telefono?’E lui ha detto: No, divorzierei. Nel messaggio c’erano cose che una donna con i valori che ho io non avrebbe mai scritto e non si sarebbe aspettata che mi dicessero dall’altra parte. Sono una donna all'antica: per me un piccolo messaggio è il divorzio", ha concluso la showgirl argentina. Wanda ha svelato anche come ha reagito Icardi: "Mi ha seguito per cercarmi, per parlare. Mi ha detto che se ci fossimo separati si sarebbe ritirato dal calcio. È stato lui a dirmi che con la China c'è stato un incontro a Parigi, ma che non è successo niente. Mi ha giurato che è stato l'errore più grande della sua vita". A proposito della China, la showgirl argentina ha raccontato un particolare che finora nessuno sapeva: "L'ho chiamata per scusarmi", ha detto Wanda, "Avevo usato una parola poco elegante nei suoi confronti". E infine Wanda ha chiarito i motivi che l'hanno portata a perdonare Icardi: "Gli dispiace e io credo nel perdono. L'ho guardato negli occhi, eravamo soli e credo nel suo pentimento... Tutto nella vita accade per una ragione, l'importante è l'amore. Entrambi abbiamo avuto la possibilità di sceglierci di nuovo".

Da golssip.it il 24 novembre 2021. Nel maggio del 2008 Wanda Nara e Maxi López si sono giurati amore eterno e dalla loro relazione sono nati Valentino, Constantino e Benedicto. La coppia ha vissuto la maggior parte della loro storia in Europa. Cinque anni dopo è arrivato il divorzio e la storia con Mauro Icardi, con i dettagli che tutti conosciamo piuttosto bene. Quello che non conosciamo è il primo incontro tra Wanda e Maxi Lopez, del quale hanno parlato proprio in questi giorni in Argentina. Estefanía Berardi, ospite del programma Mañanísima (Magazine), ha ricostruito il feeling esploso tra i due: “Questa cosa non è uscita da nessuna parte. Non ha a che fare con China Suárez ma con Wanda. Sapete come Maxi l'ha incontrata all'epoca? Lui voleva incontrarla a tutti i costi, perché Wanda ha una personalità... E ha chiesto per favore di presentarla. Lo ha detto ad un conoscente: "Per favore presentamela. Voglio incontrarla". Il primo appuntamento ha avuto luogo su una barca insieme ad amici. "Una conoscenza in comune le ha detto 'vieni qui, ci divertiremo'. Quel giorno Wanda e Maxi si incontrano, vanno d'accordo, iniziano subito a chiacchierare. E quella stessa notte finiscono a letto insieme. Maxi era pazzo di Wanda nell'intimità, era il commento che faceva ai suoi intimi. Significa che ha fatto l'amore con lei come con nessun altra. Ha detto che c'era una cosa specifica che lo faceva impazzire. Era così preso che l'ha sposata", ha concluso la fonte argentina.

Da corrieredellosport.it il 26 novembre 2021. Nonostante l'intervista-fiume di Wanda Nara alla tv argentina, continua a tenere banco il flirt tra Mauro Icardi e China Suarez. L'ultimo gossip bomba arriva ancora una volta da Buenos Aires dove il caso, ribattezzato dai media Wanda-gate, è diventato uno degli argomenti più discussi. Il giornalista Angel de Brito, da sempre molto aggiornato sulla faccenda, ha svelato al programma Los Angeles de la Manana il vero motivo per il quale il calciatore e l'attrice non avrebbero fatto sesso. I due si sono dati appuntamento in un hotel di Parigi ma non si sono spinti oltre un bacio.

L'incontro a Parigi tra Icardi e China

"Non riusciva a fare sesso perché in quella stanza c'erano degli odori che lo infastidivano", ha spifferato il giornalista. A quanto pare odori che c'entravano poco con la Suarez ma che hanno fermato Icardi. "China non ha un cattivo odore ma gli metteva fretta", ha aggiunto de Brito, che ha poi rivelato la presunta frase che l'attaccante avrebbe pronunciato dopo l'incontro con la 28enne: "Quando l'ho vista volevo morire". Il pettegolezzo è stato confermato da Yanina Latorre, giornalista argentina molto vicina a Wanda Nara.

Da tuttosport.com il 26 novembre 2021. La madre di Wanda, Nora Colosimo, ha avuto una reazione diversa da tutti gli altri. "Quando le ho raccontato ciò che era successo, mi ha risposto che quello che desiderava di più era abbracciare Mauro", ha rivelato la moglie-agente di Icardi scatenando la risata della sua intervistatrice. La signora Nara avrebbe criticato alla figlia di avere "un modo un po' vecchio di pensare alle relazioni". "Queste cose succedono", sarebbe stata la sua imprevedibile reazione.

Da corrieredellosport.it l'1 dicembre 2021. La famosa notte che Mauro Icardi e China Suarez avrebbero passato insieme continua a far parlare l'Argentina. Tra i due non sarebbe successo nulla, come confermato anche da Wanda Nara. "C'è stato un incontro ma lui mi ha detto che non è successo niente - ha rivelato Wanda all'amica Susana Gimenez - Poteva succedere di tutto...". La colpa sarebbe però di un odore molto particolare...  

Icardi-China: "Tutta colpa della marijuana"

L'incontro tra Icardi e la China Suarez è avvenuto a fine settembre, quando Wanda Nara era alla Milano Fashion Week in compagnia della sorella Zaira. All'attaccante del Psg non sarebbe piaciuto un profumo sentito nella stanza d'albergo di Parigi: sì, ma quale? Era stato il conduttore Angel Brito a svelare che Icardi "si era sentito inibito". Sul tema si è espressa anche la presentatrice argentina Estefi Berardi, che sul suo account Instagram è andata oltre. "Qual era l'odore che aveva la Cina e che ha infastidito Mauro?", le ha chiesto uno dei suoi followers. "Hanno lasciato intendere che si riferisse alla marijuana", ha risposto lei.

Da corrieredellosport.it il 7 dicembre 2021. C'è nuovamente la China Suarez al centro del gossip, ma questa volta non c'entrano Wanda e Icardi. L'attrice argentina è finita nella bufera per aver, secondo quanto riportato dalla giornalista Paula Varela, inviato un altro video hot. A chi? Sembrerebbe che il destinatario sia stato Eduardo Cruz, fratello delle attrici Monica e Penelope. "Dicono che la Cina avrebbe mandato un video hot al fratello di Penelope Cruz, Eduardo Cruz, che è sposato con Eva de Dominici. Mi hanno anche detto che la Cina, essendo single, avrebbe avuto altre frequentazioni oltre Icardi. Non è che fosse l'unico uomo sulla terra", ha rivelato la giornalista. Il piccante rumors lanciato dall'inviata durante il programma tv Intrusos ha scatenato la reazione furiosa della China che ha replicato con un post su Instagram. L'attrice argentina ha postato nelle stories uno screen delle dichiarazioni rilasciate dalla giornalista, accusandola di aver mentito: "Fino a quando continuerai a mentire. Ho le p**** per terra. Questo è già abuso", ha scritto la China, che ha poi proseguito con il suo sfogo. "Smentisco categoricamente questa cavolata. Non ho idea di chi sia quest'uomo. Lasciatelo vivere". L'attrice, visibilmente adirata con la Varela, l'ha anche rimproverata di non saper fare il suo lavoro: "Guarda che ci sono giornalisti che si preoccupano di scoprire. Il tuo ruolo qual è? Inventare? Fino a quando?". 

Il duro sfogo della China Suarez

Dopo le accuse lanciate alla giornalista argentina, la China Suarez ha proseguito con il suo sfogo sui social, facendo anche qualche velato riferimento al Wandagate e a ciò che è successo con Icardi. "Questa è persecuzione, molestia, accanimento. Non ho intenzione di spararmi, né di lanciarmi da un edificio perché per ora la mia salute mentale, è stabile", ha scritto indispettita l'attrice che ha poi sottolineato di essere stufa di tutto il clamore mediatico degli ultimi tempi. "Si ostinano a ficcare il naso nelle vite altrui e a rovinarle. Sono i primi a commuoversi parlando di bullismo, ma sono i primi ad esercitarlo", ha concluso la China.

Da golssip.it il 7 dicembre 2021. Marcelo Polino, conduttore argentino, è tornato sull'infedeltà di Mauro Icardi in una conversazione con la sorella di Wanda: "Siete state due sceme, mentre facevate le valigie loro (Mauro e il compagno di Zaira Nara) avevano fatto un altro piano...". Zaira Nara ha ammesso: "Siamo state due sceme. Siamo partite perché a Milano c'era la settimana della moda, dovevamo fare degli incontri per i nostri marchi. Così abbiamo lasciato i ragazzi con Jakob (von Plessen) e Mauro. Siamo andate per lavoro. Come due sceme, per goderci una sola notte... Siamo partite una notte e poi un caos tremendo".

Da corrieredellosport.it il 7 dicembre 2021. Wanda Nara sta programmando un viaggio in grande stile. È stata lei stessa a svelare un dettaglio in una delle sue ultime storie social. "Quale borsa porto come me a Baires?", ha chiesto ai suoi followers su Instagram, lasciando intendere un'imminente gita nella sua Buenos Aires, in Argentina. Come se non bastasse, la sorellina minore Zaira Nara ha fornito qualche particolare in più sul compleanno della showgirl argentina, che cadrà proprio questo weekend. Secondo i media locali, Wanda Nara sarà presente alla festa "Personajes del Año" organizzata dalla rivista argentina "Gente". La serata di gala cade proprio il 9 dicembre, giorno del suo 35esimo compleanno. Zaira ha espresso il desiderio di "essere presente all'evento insieme" per poter trascorrere insieme il suo compleanno. A giudicare dalle ultime storie social pubblicate dalla moglie di Icardi, sembra proprio che il suo desiderio verrà esaudito. Ma che fine farà proprio Maurito? Di certo non potrà assentarsi per tutto il weekend visti i numerosi impegni con il Psg, in campo domenica sera contro il Monaco. Probabilmente all'argentino toccherà restare a Parigi mentre Wanda passerà il fine settimana con la sorella: una scena già vista proprio nel fatidico weekend della Fashion Week milanese e del lussuoso Le Royal Monceau-Raffles Hotel. Wanda lontana, Maurito a Parigi da solo: quasi un deja vù...

Da fanpage.it il 18 dicembre 2021. Tra Mauro Icardi e Wanda Nara è scoppiato di nuovo l'amore dopo la crisi matrimoniale conseguente al tradimento di lui o almeno così sembra dalle ultime immagini postate dalla coppia sui rispettivi profili social. Foto e video ritraggono l'attaccante del PSG e la showgirl argentina avvinghiati sulla neve di Milano, prima di fare ritorno con il loro aereo privato a Parigi. Anche nei cieli i due hanno documentato gesti di affetto reciproci, a voler spazzare le voci che dall'Argentina ancora li danno non del tutto tornati alla situazione antecedente alla sbandata dell'ex interista per l'attrice Eugenia ‘China' Suarez. Già, la China. Di lei ha parlato Wanda nella seconda parte dell'intervista registrata a Parigi qualche giorno fa, e non sono state parole esattamente di apprezzamento, anzi è palese la disistima per quella che aveva chiamato "cagna" nel momento della furia iniziale, quando aveva scoperto la tresca con suo marito.  "Il problema è che stiamo parlando di una persona che già lo ha fatto in passato. Non è il primo caso, la storia si ripete – ha detto la Nara, che compie 35 anni – La tua libertà finisce quando fai del male a un'altra famiglia, ci sono le mie figlie". In Argentina la pressione dei media sulla vicenda è sempre ossessiva e l'ultima novità è di quelle che davvero lasciano senza parole. Siti e talk show televisivi hanno rilanciato la teoria secondo la quale alla base del tradimento di Icardi ci sarebbe un incantesimo d'amore. Al 28enne di Rosario sarebbe stata fatta bere una pozione ottenuta tramite un rito magico, allo scopo di soggiogarlo e farlo cadere in uno stato di fascinazione totale per la China. La rivelazione arriva da un influencer molto noto in Argentina e vicino a Wanda Nara: nel messaggio pubblicato – e ampiamente ripreso sul web e in televisione – si afferma che ad Icardi sarebbe stato fatto un ‘amarre', ovvero un legamento, su richiesta della China Suarez. In una storia successiva viene poi spiegato in cosa consista questa fattura d'amore e come venga realizzata: "Ecco come si prepara l'agua de tanga", si legge, dove non c'è bisogno di spiegare o tradurre cosa significhi la locuzione. "L'idea è di far giacere l'indumento intimo in una ciotola con dell'acqua e poi mettere quel liquido in un infuso. La persona che si sta cercando di sedurre deve berlo. In questo modo la vittima verrà ‘stregata' dalla proprietaria dell'intimo femminile". Insomma il povero Icardi avrebbe perso le proprie capacità di discernimento, cadendo in balia della China, come un pupazzo pronto a cedere alle sue arti maliarde. Reso incapace di intendere e di volere e dimentico – novello Ulisse – del proprio vincolo coniugale, il giocatore avrebbe dunque tradito Wanda, fino ad arrivare al contatto carnale, sembra non del tutto consumato, nell'albergo di Parigi dove la Suarez aveva preso alloggio allo scopo. L'assurdità della teoria è evidente, eppure in Argentina se ne parla come se davvero tutto questo sia possibile: chissà se Wanda Nara se la berrà… non la pozione, ma la storia.

Da corrieredellosport.it il 18 dicembre 2021. Due grandi furgoni dai vetri oscurati hanno atteso Wanda Nara all'aeroporto di Buenos Aires, dove è atterrata alle 11 locali. Ad aspettarla, oltre ai famigliari, c'era anche una nutrita schiera di cronisti, ansiosi di strapparle una dichiarazione. Con lei, anche i cinque figli: Valentino, Constantino e Benedicto, nati dal matrimonio con Maxi Lopez, e Francesca e Isabella, avute da Mauro Icardi. È la prima volta che la showgirl torna in Argentina da quando è scoppiato lo scandalo China Suarez e ovviamente la maggior parte delle domande sono state su questo argomento. Assediata dalle domande dei giornalisti e circondata dalle guardie del corpo, Wanda Nara ha sottolineato che scandali di questo tipo sono molto comuni quando si vive con un calciatore. “A volte queste situazioni accadono - ha ammesso - Di solito succede con ragazze sconosciute, ma succede. Sono tanti quelli che scrivono su Instagram". "Anche a te scrivono gli uomini?", le ha chiesto un cronista. "No, io non scrivo a persone sposate né rispondo. Sono sposata, ho una famiglia", ha detto lanciando una frecciata a China Suarez. "Se ora arrivasse qui la China, che cosa succederebbe?", ha chiesto un altro. Wanda ha colto la palla al balzo: "Ora vado a cercarla...", ha risposto piccata. Prima di salire in macchina, Wanda ci ha tenuto a far sapere che Icardi la raggiungerà tra pochi giorni.

Da corrieredellosport.it il 18 dicembre 2021. Sono passati ormai quasi due mesi dallo scoppio dello scandalo China Suarez e Wanda Nara è finalmente tornata in Argentina. Trentacinque anni appena compiuti, la showgirl è tornata a Buenos Aires dalla sua famiglia, con cui ha festeggiato il compleanno in grande stile. La sorella Zaira ha organizzato per lei un esclusivo party a sorpresa, a cui ha partecipato anche la madre Nora Colosimo. Ha fatto invece molto rumore l'assenza di Mauro Icardi, ancora bloccato in Francia per impegni con il Psg. Questo non ha fermato la showgirl, che si è scatenata come non mai per celebrare alla grande insieme a tutti gli amici. Il video della festa ha ben presto fatto il giro del mondo. Wanda Nara è arrivata ieri pomeriggio in aeroporto a Buenos Aires. Ad aspettarla, oltre ai famigliari, c'era anche una nutrita schiera di cronisti, ansiosi di strapparle una dichiarazione. Non solo. Sembra che appena arrivata lady Icardi abbia rifiutato un regalo milionario da far girare la testa. "Alla porta di casa è arrivato un camion per i traslochi pieno di mobili di una nota marca che lei non aveva chiesto - ha rivelato Yanina Latorre a Lam - E lei li ha presi e li ha restituiti. Ha detto loro che non li voleva". Wanda si dovrà quindi accontentare dei regali che i suoi amici le hanno portato alla festa... 

Da corrieredellosport.it il 17 Dicembre 2021. Con l'affare China Suarez ormai quasi alle spalle, Wanda Nara è tornata in Argentina per lanciare la sua nuova linea di cosmetici. La moglie-agente di Mauro Icardi non si aspettava però di trovare un nuovo scandalo ad attenderla. Stavolta ad essere coinvolta è la società fondata dalla coppia, la World Marketing Football SRL, accusata di "riciclaggio di denaro", "violenza istituzionale" e "corruzione strutturale". Autore della denuncia è Fernando Miguez, titolare della Fundación por la Paz y el Cambio Climático de Argentina. A poche ore dall'apertura del primo negozio di cosmetici a Buenos Aires, il documento presentato al tribunale della Capitale attesta che il riciclaggio di denaro coinvolgerebbe anche "le altre attività di realizzazione di capi di abbigliamento", "il marchio WANDA e la Wanda Nara Cosmetics". Stando a quanto si legge nel documento, la società di Wanda e Icardi "avrebbe l'obiettivo di alloggiare fondi monetari a seguito dell'attività sportiva di un suo socio, quindi con detti fondi consentire l'ingresso di eventuali fondi al mercato dei capitali neri ottenuti al di fuori di ogni accordo contrattuale, pensiamo al fine di evitare esborsi fiscali internazionali”. Secondo quanto asserito dal documento, si tratterebbe di una "pratica comune tra coloro che svolgono la loro attività all'interno del regime sportivo internazionale, i quali riceverebbero il proprio stipendio diviso in denaro tramite bonifici bancari e una percentuale in denaro nero e procedono in questo modo al riciclaggio di denaro per poi trasformarsi in reddito genuino dimostrabile nel tempo in quanto di origine legale”.  Per ora la coppia non avrebbe commentato in alcun modo la notizia, quantomeno sui loro canali ufficiali social.

Da corrieredellosport.it il 22 dicembre 2021. Dopo il caso China Suarez, un nuovo scandalo ha colpito Wanda Nara e Mauro Icardi. La società fondata dalla coppia, la World Marketing Football SRL, sarebbe accusata di "riciclaggio di denaro", "violenza istituzionale" e "corruzione strutturale". Nel bel mezzo del nuovo terremoto che li ha colpiti, i media locali hanno aggiunto nuovi dettagli piccanti sul soggiorno in Argentina della moglie e procuratrice del bomber del Psg. Stavolta la persona coinvolta sarebbe il bodyguard di lei, Agustín Longueira. La teoria dello scandalo appartiene a Rodrigo Lussich, secondo cui ci sarebbe del tenero tra Wanda Nara e il suo bodyguard. “Chi verrà a prenderla in giro per casa? La guardia del corpo Agustín Longueira, che è affascinato da questa fama improvvisa. La porterà su una lettiga", ha detto il conduttore del programma tv Intrusos mentre la musica del film "The Bodyguard" suonava in sottofondo. Il giornalista ha indagato sul passato di Longueira: "Ho scoperto che era un 'granatiere' a cavallo, è nato a San Pedro ed è affascinato da Wanda". “Wanda lo segue su Instagram e a lui lei piace. Certo, è una bella donna; e lei lo guarda avidamente. Svegliati Mauro Icardi, lì in Europa. Va bene, è meglio che dorma perché da sveglio era un disastro", ha concluso Lussich.

Da corrieredellosport.it il 22 dicembre 2021. Proseguono le vacanze argentine di Wanda Nara. In attesa del'arrivo del marito, lady Icardi passa le sue giornate tra lavoro e svago. Dopo l'inaugurazione del suo nuovo negozio di cosmetica, la showgirl si è concessa qualche serata in discoteca in compagnia della sorella Zaira e di alcuni amici. Il tutto, come sempre, è stato documentato sui profili social della Nara, più attivi del solito in questi giorni. Ma a chiarire che tipo di rapporto c'è tra la moglie di Icardi e Longueira ci ha pensato lui stesso  attraverso alcune dichiarazioni rilasciate durante l'intervista concessa al programma Los Angeles de la Manana. "Sono l'unica guardia del corpo che ha al momento e lei è molto tranquilla e educata", ha dichiarato Longueira a proposito di Wanda Nara. Il bodyguard ha poi raccontato di come ha iniziato a lavorare per la showgirl: "Sono arrivato a Wanda tramite un'azienda che mi ha assunto per tutta la durata del suo soggiorno in Argentina, che si protrarrà probabilmente fino al 3 gennaio". Durante l'intervista però, i giornalisti Yanina La Torre e Angel Brito, hanno voluto indagare maggiormente sul rapporto tra Wanda e Augustin, incalzando i bodyguard con domande senza filtri: "Sei andato con lei a ballare al Tequila? L'hai accompagnata al bowling?", ha chiesto Brito. "Sono sempre vicino a lei e sono attento a quello che succede intorno", la risposta di Longueira. "Ma ci sei solo tu vicino a lei? Gli uomini si tirano indietro? Dicci la verità", ha insistito Yanina. "Non solo solo io",  ha concluso il bodyguard senza però aggiungere altri dettagli.

Wanda Nara, accuse-choc della colf: "Sottomissione, vessazione, servitù". Quanti soldi vuole, clamoroso in tribunale. Libero Quotidiano il 21 dicembre 2021. Non solo la denuncia per riciclaggio di denaro, violenza istituzionale e corruzione. Ora nuove accuse si abbattono sulla famiglia Nara-Icardi. Una ex dipendente ha puntato il dito contro Wanda parlando di "sottomissione, vessazione e servitù, oltre a lavoro in nero". Dopo il licenziamento, come riportato dalla Nacion, la donna - Analía Alvarado, 40enne argentina - avrebbe avviato una causa contro la modella raccontando alcuni retroscena sul suo rapporto con entrambi i mariti, Maxi Lopez e Mauro Icardi.  La signora, che ha lavorato per la Nara tra il 2012 e il 2014 come domestica e tata per i bambini, ha rilasciato delle dichiarazioni piuttosto pesanti durante la trasmissione El show de Los Escandalones in onda su América TV. Analía ha iniziato a prestare servizio quando Wanda stava affrontando la separazione dal primo marito, Maxi Lopez. "Si è comportata male con me e con il mio compagno. Non mi maltrattavano, ma avevano atteggiamenti...", ha raccontato l'ex dipendente, che poi ha accusato la manager argentina di averla spinta a rilasciare false dichiarazioni contro l'ex compagno: "Volevano che dicessimo cose brutte su Maxi, che non erano vere. Volevano metterlo in galera e non fargli rivedere i suoi figli". Secondo quanto riferito da Gonzálo Vázquez, giornalista della trasmissione Intrusos, alla Nara sarebbero arrivati adesso i documenti della causa di lavoro, dai quali si evince che "Analía Alvarado parla di lavoro nero, sottomissione, servitù, patto illegale, molestie, persecuzioni e danni morali". La richiesta di risarcimento, inoltre, ammonterebbe a ben 3 milioni di pesos, circa 128mila euro. Per ora la diretta interessata non ha rilasciato nessun commento.

Simonetta Sciandivasci per “la Repubblica” il 21 ottobre 2021. Si dev' essere maschi, maschi biologici e cis e bianchi e analogici e nati assai prima della caduta del muro di Berlino e domiciliati a Craco o a Peshawar, per credere che il tradimento sia un reato di cui pentirsi con ostensione pubblica quotidiana, come ha preso a fare Mauro Icardi da qualche giorno e chissà per quanto tempo ancora continuerà. Il romanzo a puntate, anzi a post, di questa sua espiazione è, nell'idea che tutti se ne fanno inevitabilmente, pilotato e coscritto da Wanda Nara, che ha fatto di lui il più celebre dei "mariti di" di questo tempo e anche il più atipico: mentre gli altri sono dei Fedez, dei mangiacarriere, e dalle mogli ricevono fan base, credibilità, doppie e triple A, stando ben attenti a non sorpassarle mai, lui con Wanda ha fatto l'opposto, s' è offerto in sacrificio per lei, deprezzando il suo talento, sperando così che gli venisse perdonato d'essersi preso tutto, inclusa la moglie di un amico, e ottenendo nient' altro che, appunto, il cartellino di "marito di", al quale tiene, com' è evidente, più che a qualsiasi altra cosa. È la cosa più facile e divertente del mondo immaginare che lei lo abbia riammesso in casa a patto che lui si prostrasse ogni giorno sui social, dichiarandole quell'avvilente sentimento pentimento degli adulteri che sempre consiste nell'elogio delle virtù domestiche del tradito da parte del traditore - "grazie amore mio per aver continuato a fidarti di questa famiglia, sei il motore delle nostre vite", " Feliz Dìa Mamucha ", "Abbracciami forte". Non è ancora chiaro quanto e come Icardi abbia tradito Wanda Nara, ma è assai probabile che lo abbia fatto con una ventinovenne detta China, assai bella e assai madre (ha tre figli e ventinove anni). È la cosa più facile e divertente del mondo immaginare che la tortura cui Nara sta sottoponendo suo marito sia non solo dirgli a ogni minuto scrivi su Instagram quanto mi ami e quanto sei miserabile o ti porto via casa, figli, mutande e quel poco di reputazione che ti resta , ma pure con quale frequenza, con quali virgole, con quali parole, con quali foto - l'alternanza di scatti in cui lei è seminuda con quelli in cui, invece, è circondata da figli, figlie, borse di Gucci, governanti e cani, in effetti, è sospetta. Questa facile e divertente versione dei fatti è rafforzata dalla tortura maxima: Wanda non risponde. Non un cuoricino, non una reazione, non un repost . Niente. Non ha nemmeno ripristinato il follow : tra i 1.078 seguiti del suo profilo Instagram, suo marito non compare. Ieri, qualche giornale ha scritto che lei avrebbe chiesto aiuto a Maxi Lopez, il quale si sarebbe precipitato a Parigi e le starebbe tenendo i figli mentre lei edita i "per grazia ricevuta" del marito. Ricorderete che Maxi Lopez è l'uomo al quale Wanda Nara era sposata quando Icardi s' innamorò di lei, ricambiato nel nanosecondo più denso della storia del calcio. E ricorderete che Lopez trascurava Nara e molto si disse di questo: lei lo aveva lasciato, pur amandolo, per vendetta, la vendetta più atroce poiché Lopez e Icardi erano amici. E ricorderete anche che, tre anni fa, Lopez cercò di trascinarla in tribunale per farla sbattere in galera con l'accusa di aver pubblicato il suo numero di cellulare sui social, causandogli un intasamento del traffico telefonico in giorni cruciali del calciomercato, e lei, anziché presentarsi in aula, passò il pomeriggio a fare shopping e selfie. A questo punto, dopo esserci resi conto che la sceneggiatura di quest' ibrido di Marquez e Señora è troppo articolata per essere vera, e che quindi Mauro e Wanda ci stanno regalando il film che vuole il pubblico che non abbiamo il coraggio di ammettere di essere, e che probabilmente in questo momento sono nudi su un tappeto di pelo di puma a imbastire un finale degno di noi e di loro, la sola cosa che conta, forse, è chiederci se non sia stata anche un po' colpa di tutto il nostro incolpare Wanda Nara di qualsiasi cosa, se adesso ci tocca la soap opera dell'espiazione. Nemmeno il fluid ha ripristinato il perdono dell'adulterio, ma possiamo davvero credere che una come Wanda Nara, una che s' è cucita i figli sulle scarpe, una che ha avuto il fegato di sopportare gli interisti che le davano addosso, di piangere sul divanetto di Tiki Taka , di dire in un microfono «abbiamo fatto l'amore 15 volte in 28 ore», di regalare a suo marito, per i suoi 29 anni, un Labrador e un coltello, ecco, possiamo davvero credere che sia ferita dalla scappatella del marito con una China? Co-sceneggiata o meno che sia, questa di Nara è la vendetta contro suocera, cognata, tifosi, giornalisti, allenatori e spogliatoi: un universo implacabile di calunniatori che non ha mai sopportato la sua invulnerabilità e ai quali adesso può servire il piatto di sempre, il sacrificio di Icardi, senza che nessuno possa fiatare, poiché lei è stata tradita e per i traditi, in questo Paese, c'è sempre l'indulgenza plenaria.

Non solo Icardi e Wanda Nara: amori, gossip, tradimenti da Rooney a Courtois, da Tiger Woods a Ryan Giggs. Lorenzo Nicolao su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. Gli scandali hanno macchiato la vita di molti sportivi: dall’allenatore Nba Derek Fisher licenziato per le amanti al divorzio da 50milioni di Giggs, dalla escort di Rooney alla sauna di Glushakov ai tradimenti seriali di Tiger Woods.

Cuori spezzati

Ci sono campioni che fanno riempire le pagine dei giornali con le loro gesta sportive e altri che intrattengono il pubblico anche con le loro vicende fuori dal campo, affari in teoria privati che spesso diventano scandali pubblici. La lite data in pasto ai social tra Wanda Nara e Mauro Icardi è solo l’ultimo caso di una coppia che ha sempre dato un grande contributo al gossip, ma non mancano i precedenti, nel calcio e non solo, di star sportive al centro delle attenzioni per le vicende sentimentali. Una squadra molto numerosa.

Wayne Rooney e la escort

Di questo club fa parte lo sventurato Wayne Rooney, che in Gran Bretagna non è mai riuscito a stare troppo lontano dai locali e da situazioni scomode. La moglie Coleen e i quattro figli non hanno affievolito la fama di donnaiolo dell’ex attaccante del Manchester United. Tra vari scandali, quello che i tifosi e gli appassionati ricordano è la frequentazione della escort Jennifer Thompson, una serie di incontri dal costo equivalente di 1.500 euro a notte, proprio quando la consorte era incinta del primo figlio.

Ryan Giggs tradimento da 50 milioni

Sempre tra gli ex Red Devils, Ryan Giggs in campo ha avuto una carriera encomiabile, ma non si può dire altrettanto della sua vita privata. La storia che ha generato tanto scalpore Oltremanica è quella con la cognata, un tradimento — durato ben otto anni — che ha portato innumerevoli polemiche ed è costato all’ex ala dello United quasi 50 milioni di euro.

Alex Lacazette e la doppia vita

Beccato dal quotidiano britannico The Sun, l’attaccante dell’Arsenal Alex Lacazette ha di fatto avuto a Londra una doppia vita. Non ha lasciato la sua compagna storica Manon Magovero, ma ha al contempo frequentato Funda Gedik, appariscente hostess di un nightclub. La vicenda non poteva passare inosservata ai quotidiani popolari di un Paese che nelle cronache sportive dà ampio spazio alle vite private degli sportivi. In un’intervista, l’amante ha dichiarato di essere sempre stata trattata come una principessa: «Si comportava come il ragazzo ideale, quando mi ha detto che era fidanzato sono rimasta scioccata».

Ashley Cole preso a pugni

In Gran Bretagna scandalo anche per l’ex terzino di Chelsea e Roma Ashley Cole che anche in Italia non ha mai smesso di fare la bella vita. Dopo la separazione con la popstar Cheryl tantissimi flirt e vita mondana, ma sembra essere stata appurato dai tabloid che la liaison con la modella di Playboy Melissa Howe, fatta di incontri passionali e della frequentazione dei locali di Londra più esclusivi, fosse iniziata quando il difensore era ancora sposato. In una di queste serate, Cole è stato anche preso a pugni in un locale della City, ma non dalla moglie, bensì dalla sorella gemella di Melissa, Carla Howe, anche lei playmate. Quasi certo che avesse anche lei un conto in sospeso con il giocatore.

Thibaut Courtois e la vicina di casa

Neanche il portiere belga Thibaut Courtois è riuscito a evitare guai sentimentali quando giocava nel Chelsea. Al Daily Star Elsa Izac ha confessato la sua storia segreta con il portiere, allora suo vicino di casa. L’estremo difensore sembrerebbe essere anche il padre del figlio di lei, concepito proprio mentre la compagna ufficiale di Courtois era incinta di lui. Un imbarazzo non indifferente rivelato direttamente alla stampa.

Hulk e la nipote della moglie

L’attaccante brasiliano Hulk ha addirittura sposato la nipote della sua ex moglie. La relazione con Camila Angelo, che ha fatto tantissimo parlare i tabloid russi quando la punta giocava per lo Zenit San Pietroburgo, è stata addirittura spiegata dall’addetto stampa del calciatore, nel vano tentativo di superare l’imbarazzo. Ora Hulk fa comunque coppia fissa con la nuova fiamma e i due sarebbero anche in attesa di un bambino.

Denis Glushakov la sauna sui social

Sorpreso in sauna dalla moglie Darya in compagnia della presunta amante nel 2018. Questo il caso scottante di Denis Glushakov, l’ex capitano dello Spartak Mosca e ora centrocampista in forza al Chimki. La vicenda è finita in tribunale. Per la moglie la donna era una prostituta, per il giocatore e gli avvocati difensori solo un’amica di vecchia data, con la quale non c’era stato nulla. Tutta la scena è stata però filmata dalla moglie in diretta e subito diffusa sui social media.

Juan Carlos Osorio

Passando agli allenatori, si ricorda certamente la vicenda di Juan Carlos Osorio, ex c.t. del Messico che ai Mondiali di Russia del 2018 avrebbe accompagnato la squadra con moglie e amante. In patria la relazione con la giovane amante, una celebre giornalista messicana, ha fatto completamente impazzire le cronache rosa. Durante gli ottavi di finale contro il Brasile, sembra che le due donne occupassero posti molto vicini in tribuna, a pochi metri l’una dall’altra, in un silenzioso e omertoso imbarazzo generale.

Derek Fisher

Negli Stati Uniti, anche nel mondo Nba, si bada molto alla reputazione, tanto che l’ex allenatore dei New York Knicks Derek Fisher è stato licenziato perché, da vero latin lover, aveva frequentato diverse amiche dei suoi giocatori e anche l’ex moglie di uno di loro, Matt Barnes. Per quest’ultimo caso il triangolo amoroso è terminato addirittura con una rissa, quanto basta per spaccare lo spogliatoio e costringere il club a liberarsi dello scomodo allenatore.

Tiger Woods

Su tutti gli altri resta però irraggiungibile il caso del campione di golf Tiger Woods, un sexgate che per un periodo ha condizionato anche la sua carriera e ha costretto la leggenda a ricorrere a un centro per disintossicarsi dal sesso. La moglie si è inferocita più volte, ma l’infedeltà del marito è stata scoperta quando lui aveva già collezionato il record di oltre cento frequentazioni clandestine, tra hostess, segretarie, giornaliste e modelle, come la svedese Nordegren, che avrebbe avuto dal campione addirittura due figli. Woods ha promesso di non ricascarci, ma è difficile uscire dall’imbarazzo quando periodicamente un’altra ex amante si fa avanti e racconta alla stampa nuovi particolari.

Gabriele Romagnoli per “la Repubblica” il 18 ottobre 2021. Chi trasforma la propria esistenza in una telenovela deve aspettarsi il colpo di scena, soggiacere alla forza del destino e all'incudine del contrappasso (deus ex machina della recente cronaca) o magari attirarseli come antidoto alla noia di puntate troppo simili: la bellezza, i soldi, la fama, la famiglia larga, ci sarà altro nella vita? Massì, sfasciamo tutto e andiamo a (far) vedere. I film terminavano sul più bello: gli amanti superavano il tormento e partivano verso la felicità sui titoli di coda. Telenovelas e soap opera hanno un difetto: continuano. E così, dopo che Mauro Icardi ha sfilato la moglie a Maxi Lopez, ci ha fatto due figlie, si è consegnato alla storia come "l'uomo che ha portato Wanda Nara a Parigi", tutto finisce. Entra in scena l'ingrediente mancante: l'altra. Eugenia Suarez, attrice, simile all'originale, già sfascista di famiglie diverse, con attori e figli a carico, protagonista di precedenti drammi della realtà trasmessi soltanto in Sudamerica. Lei pure, con più parte che arte. Viene a prendersi non tanto Maurito, quanto i riflettori, le ricerche sui motori di internet, l'onere del dualismo. Yoko Ono è uscita dal gruppo. Wanda abdica, dopo aver recitato la vetusta parte della dama che travia il campione e averci aggiunto la modernità del fattore economico (facendogli da agente) e di quello mediatico (trasmettendo in diretta Instagram la loro relazione e lì annunciando lo strappo). Va in esilio, medita vendetta: tanto materiale per futuri sviluppi. È già tornata a Milano, forse alla ricerca del tapiro di Striscia la notizia, consegnato pochi giorni fa ad Ambra Angiolini. Le due vicende si susseguono e rivelano punti di contatto. Donne di spettacolo, uomini di sport, lui tradisce lei, si lasciano, figli sbigottiti sullo sfondo. E ancora: clamore innescato sui social, pioggia di giudizi da ogni cielo e iperuranio. Il dibattito morale da tempo gioca in trasferta, le sue categorie si adattano ad arene minori. Il pettegolezzo, dopo aver stracciato l'etica, cerca di indossarne le spoglie. C'è un Aristotele in chiunque: a suo tempo perfino Diego Maradona si eresse a censore della condotta di Icardi e con lui tutto lo spogliatoio della nazionale argentina, portavoce di una filosofia da doccia che trasmette il comandamento: non rubare la donna a un amico. Varrà anche l'inverso: non rubare l'uomo a un'amica? S' indigneranno Di Maria e Paredes, compagni argentini di Maurito al Psg? Protesterà il sindacato delle attrici a Buenos Aires? Tra Wanda e Ambra la differenza salta agli occhi. Le due vicende hanno finali simili, ma presupposti diversi. A Wanda è addebitato un peccato originale che altro non era se non un nuovo amore, più grande del precedente, poi sancito da matrimonio e figli. Certo, ha un passato vivace e si è disegnata così: spudorata e interessata, ma in questo assoluta complice del suo uomo. Di Ambra s' è vista la sofferenza, di Wanda lo sdegno. Ha indicato la rivale con un insulto, non è rimasta nella casa vuota, l'ha svuotata della sua presenza. Entrambe madri orgogliose, hanno esposto l'amore dei figli come il loro vero successo. Quello degli uomini va e viene. È sempre il giorno dello zero a zero. Restano un paio di domande ancora senza risposta. Una: ci sarà, se non un'ondata, un sussulto di solidarietà anche per Wanda o esiste una discriminazione caratteriale? E due: se è tutto vero, quando trova Icardi il tempo per pensare al suo lavoro?

Claudio De Carli per “il Giornale” il 22 agosto 2021. Sono un tamarro, lo dicono tutti e me lo dico anch' io, parlo veloce perché sono veloce, il matrimonio non mi ha cambiato, non bacio la maglia e non giuro fedeltà eterna, è il mondo che mi gira attorno, mi date troppi sette in pagella? Non sono affari miei. Data, 3 maggio 2015. Sei anni dopo. Un miliardo e mezzo di debiti, nella scorsa stagione rosso da 481 milioni, monte ingaggi al 103 per cento del fatturato, indebitamento bancario salito a 1,35 miliardi, Josep Bartomeu, il Covid, l'azionariato popolare sbriciolato, l'Fc Barcelona un club fallito, Joan Laporta disperato. E Lionel Messi è a Parigi. Vabbè, abbiamo capito, ma a Maurito adesso chi ci pensa? Li davanti al Psg in quanti sono? Storia all'osso. Rosario, Vecindario, cantera del Barcellona a 15 anni, la Samp lo prende per due soldi. Alla Masia invece lo prendono in giro: Sei in uno dei club più importanti del mondo e te ne vai alla Sampdoria? Tu sei pazzo! Sbarca a Genova, un frontale: Piove sempre, non socializzo, dopo l'allenamento vado a pescare al porto con mio padre, ma poi sfondo, sicuro. Alla Samp gira subito forte se ne accorgono tutti, il papà ha lontani parenti a Carmignola dalle parti di Torino, doppio passaporto assicurato, convocato in maglia azzurra, la Samp ci tiene ad avere un nazionale: Ma a me frega zero, sono argentino e voglio giocare per l'Argentina, più insistono peggio è, quando mi hanno messo in mezzo, e c'erano tutti i dirigenti perfino un autista fuori a motore acceso pronto a portarmi a Coverciano, non c'ho più visto e ho tirato una bottigliata in testa a uno che era lì, ma l'ho mancato. A Bogliasco uguale: Sei convocato per una delle nazionali più titolate del mondo e rifiuti? Tu sei pazzo! Faccia da adolescente, volto bianco più del gesso, sguardo da teppista, Maxi Lopez e la Wanda, estate 2012, gite a tre in barca, l'inevitabile. Casino cosmico. A Genova gioca una stagione in A poi Milano, un fulminato con un via vai di gol da paura, capocannoniere, capitano, nel 2015 e nel 2018 l'Aic lo inserisce nella squadra dell'anno, nella stessa stagione miglior calciatore della A. Ma se fai il bravo figliolo, ti prendi la divorziata con prole al seguito, tatui i loro nomi sull'avambraccio, diventi un papà da libro cuore ma hai lo sguardo da birba prima o poi arriva uno che ti dice non mi piaci, a te ti fulmino. Se poi a dirtelo è Diego Armando Maradona che non è esattamente uno, hai chiuso. L'ostracismo in nazionale è totale, ha rubato la donna a un argentino, frega zero come e perché, l'ha fatto. E poi la Nord. Difende un bambino a cui strappano la maglia, loro lo minacciano, lui non va mai in quei circoli a festeggiare, loro lo bannano, lui promette di presentarsi con la peggio cricca del sud America. Morto. Se vuoi vendere copie piazza due pagine sui coniugi Icardi, lui con le mani dietro le orecchie in piedi sui cartelloni del Meazza che sfida la Nord, e la manager sul web poco castigata. Quando arriva il signor Marotta tutti aspettano il gran finale che arriva con prologo delle peggio schifosate: la Wanda se la fa con Brozovic, Maurito lo mena, poi arriva Perisic che mena Maurito. Fake news vergognosa. Si può scrivere di tutto, lei querela, adesso stanno anche loro a Parigi, proprio dove è appena arrivato Lionel Messi che ha ricevuto il testimone da Maradona: quello deve rimanere fuori perché se non sta fuori hai il permesso di farlo fuori. E adesso chi ci pensa al povero Maurito? Se prima faceva qualche comparsata in Ligue 1 confuso nelle retrovie, ora può anche metterci una croce. Ha messo un like sotto la foto che Messi ha postato con sua moglie Antonella Roccuzzo e la Pulce gli ha subito lanciato il primo messaggio: Hey tu, giù le mani da Antonella! Titolo: Icardi ci ricasca, ecco cosa ha fatto alla moglie di Messi. Il massimo è uscito in settimana sul Daily Star. Un'intervista improbabile sul tabloid delle shampiste, infatti alla domenica non esce ma fa 300mila copie al giorno. Inzigate, pettegolezzi, apolitico, signore a petto in fuori in copertina e l'intervista a Maurito, titolo: Finalmente parla! L'Inter smobilita? Risposta: Non ne posso parlare male, sono ancora innamorato dei suoi colori, Hakimi mi ha raccontato tutto, lui e Lukaku erano già stati venduti al Chelsea per 200 milioni ma loro non volevano. Marotta? È lui che decide, voleva portarmi alla Juventus già al primo anno di Inter, poi è venuto a dirmi che mi rinnovava il contratto ma a gennaio avrei dovuto firmare il trasferimento alla Juventus altrimenti avrei passato brutti momenti. Infatti mi hanno tolto la fascia. Chiamava la Wanda tutti i giorni, loro erano d'accordo, anche Spalletti che poi ha chiesto perdono. Avevo ricevuto minacce di morte, Leonardo mi ha convinto, non avrei mai indossato in Italia una maglia diversa dall'Inter. Adesso c'è Messi? Più siamo e meglio è. Due pagine esilaranti, chissà perché dopo mesi di silenzio avrebbe dovuto scaricare tutto su un tabloid da retrobottega. Ma adesso a lui chi ci pensa? E la signora che posta le foto dei figli con la maglia bianconera e dice che la implorano di tornare in Italia? Ha telefonato ad Agnelli? I tifosi hanno già avvisato che lo scambio con Ronaldo certifica un posto da metà classifica. L'altra sera titolare (senza gol) in Brest-Psg 2-4, uscito a 5 minuti dalla fine per una botta alla spalla. Va alla Juventus? Torna la Wanda in serie A?

Marco Calabresi per corriere.it il 21 gennaio 2021. Ci sono gli sfottò, e poi c’è la vergogna. Gabriele Paparelli, figlio di Vincenzo, tifoso della Lazio ucciso da un razzo lanciato dalla curva Sud prima del derby del 28 ottobre 1979, ha pubblicato sul suo profilo Facebook lo screen di un commento offensivo della memoria del papà. «Il razzo in faccia non sparisce», la frase scritta in risposta a «La Coppa in faccia non sparisce», riferita invece al gol di Lulic che decise la finale 2013. «Non serve più querelare, ormai mi resta solo che farvi vedere chi sono. Non è che quando noi perdiamo ci mettiamo a insultare. Sono fatti così». Ai microfoni di Radio Incontro Olympia, poi, Paparelli (che aveva già lanciato l’allarme in questa lunga intervista al Corriere nel quarantennale) si è ulteriormente sfogato: «Adesso basta, non ne posso più, mi sta ribollendo il sangue. Voglio vivere la morte di mio padre, il mio lutto, in pace con la mia famiglia - dice - Ero tanto felice per il derby vinto dalla Lazio, ma ho dovuto assistere all’ennesima scritta, all’ennesimo post infamante nei confronti di mio padre. Sono 40 anni che giro con la bomboletta in macchina per cancellare scritte su razzi e cose come “10 100 1000 Paparelli». Ho querelato migliaia di persone, denunce che non hanno avuto seguito. A questo punto gradirei che intervenisse l’As Roma, che mi invitasse a parlare, che faccia un appello ufficiale, un comunicato. Basta, non tollero più nulla. Sono arrabbiato, ma anche deluso. I morti vanno lasciati in pace».

Da video.lastampa.it il 4 febbraio 2021. Il calcio sudamericano ha un nuovo fenomeno: si chiama Kauan Basile ed è un giovane brasiliano di soli 8 anni. Il ragazzino, che gioca nelle giovanili del Santos, è diventato il giocatore più giovane a firmare un contratto di sponsorizzazione, nel suo caso con Nike. Il piccolo ha battuto i record di Lionel Messi, che lo ha fatto a 15 anni, e dei suoi connazionali, Neymar (13) e Rodrygo (11). Kauan, che di solito indossa le maglie N ° 10, 9 o 13, è il gioiello della squadra di futsal Peixe U-9, la stessa squadra da cui provenivano Pelé, Neymar e Rodrygo.  Ha già raccolto diversi trofei e premi individuali come miglior giocatore nel campionato di futsal di San Paolo nel 2019. Secondo il quotidiano Estado de Sao Paulo, Kauan ha firmato un contratto con Nike per tre anni con la possibilità di rinnovarlo per altri due.

Roberto Boninsegna. "Una vita da bomber ma feci anche l'attore". "Una vita da bomber ma feci anche l'attore". Roberto Boninsegna, oggi 77enne, ricorda l'arrivo a Milano a 16 anni: "Il procuratore era mia mamma". Roberto Perrone, Sabato 13/02/2021 su Il Giornale. Bomber per sempre. Con quella faccia e quella voce, Roberto «Bonimba» Boninsegna è ancora bomber a 77 anni compiuti il 13 novembre 2020. Ha giocato nell'Inter 1969-1976, 281 presenze e 171 gol, vincendo lo scudetto nel 1971, conquistando la finale di Coppa dei Campioni (persa con l'Ajax) nel 1972; è stato re dei marcatori nel 1971 con (24 reti), nel 1972 (22); nel 1974 con 23 secondo dietro Chinaglia. Poi ha allungato il suo palmares alla Juventus: due scudetti, una Coppa Italia e una Coppa Uefa.

Ma questa è un'altra storia. L'inizio è all'oratorio.

«Mantova, Sant'Egidio. L'oratorio era importante e ora manca un ritrovo, un luogo di aggregazione simile. Dopo la scuola tutti lì, sotto gli occhi del parroco. Si passavano i pomeriggi, non c'erano sbandamenti».

E si diventava campioni. Lei nasce attaccante?

«Ala sinistra, poi, pian piano, centravanti. Mi cercò il Mantova, ma mio padre aveva già dato la parola all'Inter. Feci due test al Redaelli con Peppino Meazza che mi promosse. Però c'era un problema».

La mamma non voleva che lasciasse casa.

«Ero figlio unico. Per due anni salivo a Milano il giovedì per allenarmi e la domenica per giocare. A 16 anni non era più possibile. Le dissi: mamma, questa è la mia carriera. Giocavo la domenica mattina e il pomeriggio andavo a San Siro a vedere i miei idoli. Mi innamorai del trio Nyers-Skoglund-Lorenzi. Vivevo nella foresteria di via Timavo. Le rare volte che uscivo era con gli amici, tra cui Bedin. Avevo paura, da solo: la città enorme mi spaventava, scappavo a Mantova non appena potevo».

L'Inter nel destino, ma ha fatto il giro largo.

«Non credettero in me. Dopo, Herrera accusava Allodi e viceversa. Classico scaricabarile. C'era la Grande Inter e io viaggiavo: Prato, Potenza, Varese. Ebbi più di un momento di tristezza. Dopo Prato, mia madre mi suggerì di chiedere al direttore sportivo di stare vicino a casa. Mi mandò a Potenza. La mamma si infuriò: non ci vai, parlo io con Allodi».

Un procuratore-mamma, che tempi.

«Eh sì, però a Potenza finii lo stesso. Non c'erano alternative. L'ultima tappa del tour fu Cagliari. Tre anni splendidi, mi ero sposato e con mia moglie stavamo benissimo. La squadra cresceva e arrivò seconda. Mi chiama Scopigno: Bobo, dobbiamo allungare la rosa e gli unici per fare cassa siete tu e Riva. Gigi non si tocca. Io volevo solo all'Inter. Il Cagliari vinse lo scudetto e noi dietro. Temetti di fare la fine di Gaetano Belloni, il ciclista eterno secondo».

E invece vinse lo scudetto con l'Inter.

«Una grande rimonta sul Milan. É il mio ricordo più bello: fui anche re dei marcatori. Erano gli ultimi fuochi della grande Inter. Abitavo alla Bovisa, comodo per Appiano. Uscivo spesso con Corso, mi fece conoscere tanti ristoranti. Ma soprattutto mi inorgoglì dicendomi: finalmente abbiamo un centravanti».

Vero, nella Grande Inter il centravanti non brillava.

«Ricordo una vignetta, credo del Guerin Sportivo, dopo il trasferimento dal Cagliari. La didascalia: arriva il decimo attaccante. Si vedeva un camposanto con dieci buche. Nove coperte, la decima, vuota, aveva il mio nome. L'Inter bruciava i centravanti».

Ma ha resistito sette anni. Poi Fraizzoli la cedette alla Juve, il famoso scambio con Anastasi.

«Un gran dispiacere, non ci volevo andare. Però, vedi sopra, c'era il vincolo. E le soddisfazioni me le presi anche lì. La Juve è una grande società, e anche allora aveva una grande squadra. L'unico scarso era Trapattoni, dicevamo, perché come tecnico era all'inizio. E poi c'era l'Avvocato. Un lunedì all'alba mia moglie mi sveglia: c'è uno che dice di essere Gianni Agnelli. La domenica non avevo giocato e la Juve aveva pareggiato. Come sta Boninsegna? Così, così. E lui: non mi interessa, domenica ci deve essere, la Juve ha bisogno di lei. Io, Benetti e il Trap, prendevamo in giro Boniperti dopo la Coppa Uefa, primo trofeo europeo della Juve: per vincere in Europa hai dovuto chiamare quelli di Inter e Milan».

Voleva chiudere nel Mantova.

«Era il mio sogno, ma saltò tutto. Andai a Verona, ma fu un anno infelice. Facevo il pendolare».

Guardando la sua biografia c'è un vuoto.

«Ho fatto nove anni di vacanza. Con mia moglie e i miei figli abbiamo girato il mondo, Brasile, Giappone, Cina. Persi i contatti. Però mi mancava il calcio così sono tornato ad allenare le rappresentative di C1 e C2 dal 1989 al 2002».

Con quella faccia ha fatto anche l'attore.

«Il monatto nei Promessi Sposi di Salvatore Nocita che era interista e propose la parte a Facchetti. Il Cipe chiama me. Gli domando: perché non la fai tu? E lui: io sono alto, bello, biondo e con gli occhi azzurri. L'ho mandato a quel paese, ma poi ho accettato. Terence Hill invece mi chiese se potevo giocare nella partita che conclude il suo "Don Camillo". Per lui "scritturai" Pruzzo, Ancelotti e Spinosi. Finiva a cazzotti. Terence Hill è simpaticissimo».

Ora che fa?

«Il nonno. E la scuola calcio della Canottieri Mincio».

Il difensore che più la disturbava?

«Che battaglie con Rosato nei derby. Mi dava le legnate anche in Nazionale. In Messico gli dissi: ohi, siamo dalla stessa parte. E poi Morini della Juve: abbiamo cominciato a picchiarci da ragazzi al Torneo di Viareggio».

Si rivede in Lukaku?

«Mi assomiglia, ma è un po' troppo altruista. Spero nello scudetto, altrimenti a Mantova non campo più».

Il soprannome Bonimba glielo diede Brera.

«Mi paragonava al nano Bagonghi, quello del circo. Lo affrontai nell'androne di San Siro. Lei corre insaccato con il culo basso, sembra un nano, mi spiegò. Io lo guardavo dall'alto in basso. E lui scrisse: Bonimba mi guarda male, ma sarà sempre un nano, un nano gigante. Sapeva di essere il numero 1. Aveva nomignoli per tutti. In fondo ci faceva piacere, significava far parte di un club esclusivo. Una volta abbiamo litigato sul lambrusco. Per lui non era un vino. A me, invece, piace». Prosit, bomber.

Kalle Rummenigge. Rummenigge: «Ho l’Inter nel cuore, alla Juve non andrei mai. Il mega contratto di Messi? Mi è venuto da ridere...». Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 16/2/2021.

Kalle Rummenigge, Ceo del Bayern Monaco campione in carica della Champions che riparte: avete vinto 6 trofei su 6, impresa riuscita solo al Barcellona nel 2009. Che sapore ha?

«È qualcosa di eccezionale. Siamo contenti, orgogliosi: il rendimento della squadra è stato incredibile».

Flick non faceva il capo allenatore da 15 anni e ha vinto tutto. C’è una morale?

«È arrivato nel novembre 2019 e ha acceso la luce nel buio, non solo tatticamente o nell’allenamento, ma anche nell’empatia e nella gestione del gruppo. Era stato vice della Nazionale campione del mondo e conosceva già molto bene Neuer, Muller e altri: è stato un piccolo vantaggio».

Che momento sta vivendo il pallone in Germania?

«Credo che la situazione sia simile un po’ dappertutto: è difficile, perché la cultura e l’economia del calcio sono in sofferenza. E non solo del calcio ovviamente. Il compito più complicato è quello dei politici e non vorrei essere nei loro panni: la gente è nervosa, forse anche un po’ stufa».

Nella partenza da Berlino verso il Qatar per il Mondiale per club vi hanno davvero chiuso l’aeroporto poco prima del decollo?

«Sì, per due-tre minuti. Non ci è piaciuto e ci sono state delle polemiche».

Non sono mancate critiche per la sua frase sul vaccino da fare ai calciatori.

«Mi hanno capito male: non ho chiesto che i giocatori fossero vaccinati prima degli altri, soprattutto degli anziani. Ho solo detto che vaccinarli poteva essere un buon esempio per convincere a farlo anche quella parte della popolazione più riluttante».

La Champions riprende con due tecnici tedeschi subito contro, Klopp e Nagelsmann, in Liverpool-Lipsia. La scuola tedesca è di grande moda: quale è il segreto?

«Abbiamo guardato sempre un po’ sospirando al calcio inglese e a quello spagnolo. Ma abbiamo tanti tecnici preparati e nella pandemia il nostro calcio è cresciuto ancora di livello».

La Mannschaft di Löw invece è in crisi e ha preso 6 gol dalla Spagna. Perché?

«La Nazionale soffre anche la crisi della federazione: ci sono tanti cambiamenti, problemi all’interno che fanno soffrire anche la squadra».

Martedì c’è anche Barcellona-Psg. Cosa ha pensato di fronte allo stipendio di Messi?

«Ho riso... Posso fargli solo i complimenti, perché è riuscito a fare un contratto così astronomico».

Con la pandemia questo calcio è ancora sostenibile?

«Il problema è di lunga data ed è cominciato con la sentenza Bosman del 1996. Poi negli ultimi dieci anni abbiamo sbagliato tutti, perché abbiamo speso sempre di più a favore di giocatori e agenti. La pandemia ha mostrato che dobbiamo fare marcia indietro e tornare a un modello più razionale. Spero sia possibile, ma non sarà facile».

«La mia impressione è che i prezzi dei cartellini siano scesi in alcuni casi fino al 50%. Per quanto riguarda gli ingaggi dei giocatori top invece gli agenti sono ancora in grado di ottenere soluzioni al rialzo. Dobbiamo trovare una soluzione europea: in Germania ne abbiamo discusso con una task force, che ha coinvolto politici e tifosi. La gente vuole un calcio più razionale».

Con un tetto salariale?

«Sarebbe forse una buona iniziativa, ma nel 2008 con Platini presidente della Uefa e Infantino direttore generale, siamo andati a Bruxelles per capire se fosse una strada percorribile: i politici ci hanno sempre detto che saremmo andati contro la legge europea. Magari adesso è il momento opportuno di fare una nuova iniziativa e correggere quello che abbiamo combinato negli ultimi dieci anni».

La nuova Champions con 36 squadre a girone unico con 10 partite a testa, è davvero così spettacolare?

«Sì. Sarà molto più spettacolare e vivace della fase a gruppi di oggi, che spesso è noiosa nelle ultime giornate. Sarà più complicato qualificarsi e più avvincente».

I campionati nazionali soffriranno?

«Avranno sempre un valore di alto livello. La nuova Champions è la ciliegia sulla torta, ma il valore del campionato non cambia: per il tifoso italiano è importante come finisce il derby di Milano o la partita contro la Juve».

L’Inter ha battuto la Lazio, vostra avversaria in Champions. Senza Coppe è la favorita per lo scudetto?

«Mi sembra la squadra più stabile. Gioca bene, vince e non perde più partite strane come in passato. L’importante è che non siano troppo euforici: la strada è lunga».

Il Bayern con la Lazio è nettamente favorito?

«Siamo favoriti perché siamo campioni in carica, ma non è certo un avversario che sottovaluteremo e ce ne siamo accorti nelle sfide contro il Borussia Dortmund. E anche in quella di domenica».

La Juve è troppo legata a un campione di 36 anni?

«Quando hanno acquistato Ronaldo ero curioso di vedere come funzionava: ha funzionato benissimo. Qualche mese fa sono stato a Torino per una riunione, Agnelli mi ha fatto vedere il nuovo centro sportivo e c’era Ronaldo nello spogliatoio a petto nudo: poche volte ho visto un fisico del genere, mi ha dato l’impressione di essere allenato al 100% per continuare ancora alcuni anni ad alto livello».

A fine anno andrà in pensione: lavorerà mai in Italia?

«Quando ho vissuto da voi ho imparato una cosa molto importante che mi ha cambiato la vita, perché prima facevo programmi a lunga scadenza: si vive oggi e il domani si vedrà. Non so cosa farò, forse mi serve una pausa».

«La mia filosofia è che se hai giocato con l’Inter è impossibile andare alla Juve. Il cuore è uno solo».

A proposito di ex campioni ora dirigenti: Maldini sta riportando in alto il Milan.

«Ha fatto bene a prendersi il suo tempo prima di iniziare, così ha una visione diversa. Sta facendo un ottimo lavoro, il Milan è mancato molto anche a livello internazionale. Ma adesso è rinato».

Cos’è il derby per lei?

«È speciale. Ho fatto anche un gol molto bello e importante nel 2-2 del marzo ‘85. È la partita più importante della stagione e lo è a maggior ragione adesso. Spero che stavolta vinca l’Inter».

Sarebbe la svolta decisiva?

«L’Inter ha le carte migliori per vincere lo scudetto: tocca a lei continuare così».

Victor Osimhen. Osimhen trova Mary Daniel, la ragazza che vende l’acqua ai semafori di Lagos: “Ti aiuterò io”. Elisabetta Panico su Il Riformista il 14 Aprile 2021. Victor Osimhen ha trovato Mary Daniel. Lieto fine per l’appello del calciatore del Napoli che attraverso i social aveva lanciato lanciato la sua ricerca: trovare la ragazza di Lagos, in Nigeria, con una gamba amputata, che vende l’acqua nelle strade, ai semafori. Una condizione che gli ricordava la sua infanzia. “Sono davvero felice di averla trovata, ho parlato con lei e sono contento di aiutarla. So cosa significa spaccarsi la schiena per le strade di Lagos. Ho vissuto anche io questa fase della vita e so come ci si sente”, ha detto l’attaccante al Corriere della Sera. Grazie al “potere della condivisione” dopo neanche 48 ore, Osimhen l’ha trovata, i due si sono videochiamati, lui l’ha rassicurata: da questo momento in poi l’aiuterà lui. Tutto è nato da un appello lanciato su Instagram dal calciatore tramite la pubblicazione di una foto che ritraeva la ragazza, senza una gamba, che con l’aiuto di una stampella di legno vende l’acqua, portandola in una bacinella in equilibrio sulla testa, ai semafori di una strada di Lagos. Sulla maglietta della donna la scritta “No Pain No Gain”, in italiano “Nessun dolore, nessun guadagno”. Una scritta interpretata come una sintesi della sua condizione. L’attaccante ha quindi pubblicato uno screen della foto scrivendo: “È molto scoraggiante e allo stesso tempo una grande motivazione. Ogni informazione utile su come posso trovare questa ragazza, per piacere non esitate a inviare un messaggio in direct”. Due giorni dopo lo stesso calciatore ha pubblicato un’altra story su Instagram, ma questa volta insieme alla giovane ragazza si vede anche Osimhen. I due hanno parlato via FaceTime e l’attaccante ha ringraziato i suoi 450mila follower: “Trovata. Grazie a tutti che avete mostrato preoccupazione per la sua situazione. Dio vi benedica tutti”. Osimhen ha dato appuntamento a Lagos a Mary Daniel. Lei incredula, nella videochiamata con un calciatore della Nazionale. “Sono felice di averti trovata – le ha detto lui – so che non è facile, sono stato anch’io per strada, mi fa troppo male vedere te. Mi sono spaccato la schiena, oggi mi va meglio e sono qui per aiutarti”. L’acquisto più costoso del Napoli, classe 1998, è nato a Olusosun, a nord di Lagos. La sua vita non è stata semplice: a sei anni è rimasto orfano della madre. Il padre, poliziotto, dopo soli tre mesi dalla morte della moglie, si è ritrovato senza lavoro. La famiglia di Osimhen è caduta da un giorno all’altro nella povertà assoluta. Victor, a soli sette anni, vendeva acqua ai semafori della città. Lui, ultimo di sette figli, viveva vicino a una discarica dove un giorno ha trovato delle scarpette da calcio. Da quel momento, il pallone è diventato il suo sogno più grande, che è riuscito a realizzare. Ha cominciato a Lagos, e quindi è arrivato in Germania nel 2017, al Wolfsburg. Poi al Charleroi in Belgio e al Lille in Francia. In Mary Daniel ha rivisto la sua infanzia.

Gonzalo Higuain. Da corrieredellosport.it il 14 aprile 2021. "Sono molto felice perché ho ottenuto ciò che volevo, ovvero uscire da quella bolla di pressione. La stampa parlava sempre di me, delle critiche dei tifosi, qui invece il calcio non è una priorità, ci sono altri sport che sopportano quelle pressioni. Qui le persone per strada non ti giudicano perché hai sbagliato o segnato un gol. E lo stesso accade con la stampa. Quindi vivo con più tranquillità, quello che stavo cercando". Si racconta a 360° Gonzalo Higuain, ora all'Inter Miami di Beckham, a “La Nacion”, senza filtri, ricordando il suo passato, le critiche ricevute, e pensando al futuro, a cosa lo aspetta.

Grasso e barbone, le critiche a Higuain. "Né i media né i tifosi ti giudicano, se sei grasso, se sei magro, se sei calvo... Mi sono fatto crescere la barba lunga e sono diventato una notizia, ma nessuno parla di me di calcio. Prima facevano male le critiche, ora no. E da quando è arrivata mia figlia ho cambiato la mia sensibilità".

Il feeling con Messi e Cristiano Ronaldo. "Se sono stato il calciatore che ha giocato di più con Messi e Cristiano Ronaldo, allora sono stato quello che li ha capiti di più. Capisci Cristiano e capisci Messi, il problema non è loro, il problema è tuo. Se sono stato io a giocare di più con loro, è perché li ho capiti entrambi perfettamente. Sapevo cosa gli piaceva, cosa non gli piaceva, come si sentivano più a loro agio, come si sentivano più a disagio. Potevano contare su di me".

"Lautaro Martinez deve stare calmo". "Lautaro il mio erede in nazionale? Gli direi di stare calmo perché adesso è tutto rose e fiori, ma potrebbe venire il momento, magari in un Mondiale o in Coppa America, in cui avrà la sfortuna di sbagliare un gol fondamentale e allora Lautaro non sarà più Lautaro. Non deve né credere di essere il migliore né credere di essere il peggiore".

"Campione anche all'Inter Miami". "Gioco per vincere. Sono stato campione in tutti i club in cui ho giocato, pensi che sia venuto all'Inter Miami a fare una passeggiata? Non me lo perdonerei mai e poi mai. Voglio essere campione all'Inter Miami per essere campione con tutte le società della mia carriera".

Il futuro nel vino o nella cucina. "Non rimarrò nel calcio. Ho deciso. Quando ho lasciato la nazionale ho iniziato a prepararmi per il futuro e sapevo già che quel futuro non sarebbe stato nel calcio. La mia vita andrà da un'altra parte. Sarei un masochista se decidessi di rimanere in questo ambiente! Innanzitutto starò di più con la mia famiglia. E poi farò qualunque cosa mi piaccia fare. Ma insisto: sono convinto che non sarò nel calcio. Mi piacerebbe studiare cucina, enologia, la materia dei vini mi cattura, sono due attività che mi piacciono. Vorrei giocare a paddle, che adoro e ora chiaramente non posso farlo a causa del calcio. E poi vedremo".

Dino Zoff. Da cronacaqui.it il 17 settembre 2021. Dino Zoff, di norma sempre composto, in pista si scatenava, e con lui tutta la Juve che per decenni in via Barge ci festeggiava gli scudetti. Senza dimenticare le star della musica e della tv. Il Pick-Up, locale storico di Torino, compie 50 anni. I colori ocra, i mosaici, le pareti in legno pregiato, le scale che “avvolgono” i clienti, sono solo alcune delle caratteristiche di un club che ha segnato un’epoca, famoso per la pista completamente libera, senza quelle colonne tipiche di molti altri locali. Pick-Up che è sempre stato “di famiglia”, la famiglia Lunardi. Ivo Lunardi e la moglie Graziella lo hanno aperto nel ‘71. «Avevamo il Voom Voom – ricorda Graziella -, sempre in via Barge, poi abbiamo comprato il terreno di una vecchia cartiera che i proprietari stavano vendendo. Ricordo l’inaugurazione, la fila arrivava in via Di Nanni, c’era così tanta ressa che sono arrivati i carabinieri». La Juve in via Barge celebrava le vittorie, ma arrivavano anche i calciatori del Toro, e poi vip come Walter Chiari, Paolo Villaggio, Gigliola Cinquetti, Massimo Boldi, Umberto Smaila. E persino Beppe Grillo. La serata clou era la domenica. Più recentemente, il locale ha visto ballare Ibrahimovic, Del Piero ed Emerson, solo per citare alcuni grandi calciatori. In questi ultimi decenni, il deus ex machina del Pick-Up era Luca Lunardi, scomparso tre anni fa a 56 anni. Ma questo, per il locale, sarà un compleanno amaro. Chissà che celebrazioni ci sarebbero state, se le discoteche non fossero chiuse da marzo 2020. L’attuale titolare, Davide Gallo, fotografa la situazione: «I ristori se ne sono andati negli affitti. Le banche – racconta – ci hanno aiutato solo all’inizio. E se riaprissi ora dovrei sborsare 10mila euro tra collaudi e dipendenti. Abbiamo un impianto audio che fa invidia ai migliori locali di Ibiza, speriamo di rimetterlo presto in funzione». E festeggiare così le nozze d’oro del Pick-Up.

Da onefootball.com il 17 settembre 2021. In un’intervista rilasciata a La Gazzetta dello Sport, Dino Zoff ha ricordato con affetto lo Scudetto del 1973. Di seguito riportate le sue parole. 

LO SCUDETTO ’72-’73 – «L’ultima giornata del 1973-73 è stata la più emozionante della mia vita: la nostra vittoria con la Roma, le sconfitte del Milan a Verona e della Lazio in casa del Napoli. Fu una soddisfazione violenta, per la rimonta con i gol di Altafini e Cuccureddu e un po’ anche per la mia parata decisiva su un tiro di Spadoni».

I FESTEGGIAMENTI – «In quei tempi si andava in discoteca per festeggiare. Una volta all’anno però, non di più».

Dino Zoff: «Sono proprio io nella foto in discoteca. La partita a carte? Pertini scrisse e si scusò per la sconfitta». Paolo Tomaselli su Il Corriere della Sera il 20 settembre 2021. L'ex campione del mondo: «Mi avete dipinto come uno che non parlava affatto: non era così. Quando c’è da festeggiare qualcosa di importante si fa, basta non farlo sempre. Oggi ricevo più lettere di un tempo e leggo Pasolini» 

Dino Zoff alla discoteca «Pick Up» di Torino: la foto scattata nel 1972 o ‘73 ha entusiasmato i social. Dino Zoff, la foto di lei che balla in discoteca, con un certo stile, spopola sul web: tutti stupiti di vederla in questa veste, che ne pensa?

«Festeggiavamo uno scudetto e non mi tiravo certo indietro. Ma si andava a ballare solo dopo una vittoria del campionato».

La stupisce un po’ la sorpresa della gente?

«Quando c’è da festeggiare qualcosa di importante si festeggia, quel che conta è non farlo sempre, altrimenti perde di significato».

Qualcuno addirittura ha messo in dubbio che fosse lei, nemmeno fosse un monaco?

(Risata) «Buona parte del mio comportamento è sempre stato serioso».

Papa Wojtyla le disse «siamo colleghi»?

«Sì, mi disse che anche lui aveva giocato in porta e capiva le responsabilità che avevo».

È considerato un burbero.

«Mi avete dipinto spesso come uno che non parlava affatto: non era così».

Ma è vero o è leggenda che una volta ha battuto Pietrangeli a golf all’ultimo colpo e ha danzato di gioia?

«Beh, effettivamente è vero. Due campioni di specialità diverse che si sfidavano su un altro terreno: ne andava dell’onore del calcio rispetto al tennis, era qualcosa di autenticamente sportivo».

Gioca sempre a golf?

«Da un po’ non ci vado, però pratico sempre».

Paolo Rossi e i suoi fratelli: che cosa fanno adesso i ragazzi del Mundial 1982

A Napoli ha giocato 5 anni: ci si divertiva più che a Torino?

«Io sono stato bene dappertutto, ma il divertimento di una vittoria del campionato l’ho provato solo a Torino. Però con il Napoli sono andato in Nazionale e sono diventato campione d’Europa, gli ingredienti per vincere c’erano tutti e avevo un rapporto bellissimo con la gente. Da friulano timido l’apertura napoletana mi è servita».

Casinò di Sanremo, 5 settembre 1983, festa di addio di Zoff: aprono 8 ballerine con le lettere del suo nome e cognome sulla schiena. Conferma?

«Non ricordo, ma ricordo che ero attorniato da Jascin che mi portò in regalo un samovar e da Banks: c’erano i migliori portieri della storia».

Invitò solo numeri uno?

«È logico».

Lei era tutto raziocinio o aveva un po’ di follia?

«Un pizzico di follia poteva esserci, ma ero molto severo sul mio lavoro. E diventavo raziocinante».

Oggi ci sono i social, quando giocava lei si usavano le lettere. Ne riceveva tante?

«Incredibile, ma ne ricevo molte di più adesso, con foto da firmare. Arrivano da tutte le parti del mondo: è bello, mi rende orgoglioso».

I giocatori esultano in tutti i modi, il suo massimo di espansività fu il bacio a Bearzot dopo Italia-Brasile?

«Direi di sì. E ci vergognammo un po’, per il pudore che avevamo. L’esasperazione mediatica nei festeggiamenti non mi è mai piaciuta. Anche per rispetto degli avversari».

In quel Mondiale Tardelli chiamava la stanza sua e di Scirea, «la mia Svizzera». Non andaste in discoteca dopo la vittoria più bella: sarebbe stato come rovinarla?

«Sì perché il Mondiale non era possibile rivincerlo, a differenza di un campionato, almeno per me che avevo 40 anni. Era un momento da santificare, più che da ballare».

Nella famosa partita a scopone in aereo contro Bearzot e Causio, ha perso per colpa del presidente Pertini: lui si scusò con un telegramma?

«Certo. Me lo mandò quando smisi di giocare. Dice molto dello stile della persona».

Musicista preferito?

«Francesco Guccini».

Quello rivoluzionario da «Locomotiva» o quello riflessivo-nostalgico da «Il vecchio e il bambino»?

«Più riflessivo».

Un libro che rilegge?

«Da giovane leggevo molto Arpino, di cui ero amico. Ora rileggo un po’ tutto Pasolini, anche le poesie in friulano».

C’è una componente di nostalgia della terra?

«Certamente».

I friulani sono un po’ incompresi dagli altri italiani?

«Il vecchio friulano ha una regola: “Chi parla tanto sa poco”. Magari non è sempre vero, ma a grandi linee è così».

Cosa le strappa un sorriso?

«Una battuta, una barzelletta. O gli sproloqui di gente che crede di sapere tutto».

Salvatore Malfitano per ilnapolista.it il 9 giugno 2021. Quante riflessioni ha suggerito, lo scorrere del tempo. Autori di ogni epoca e luogo ne hanno scritto e discusso, cercando di coglierne l’essenza o magari il modo migliore di impiegarlo. Nel suo piccolo, Dino Zoff ha riscritto tanti di questi concetti volando a bloccare palloni. È l’unico calciatore italiano ad aver vinto un Europeo (1968) e un Mondiale (1982), quest’ultimo all’età di 40 anni. E per poco non riusciva nell’impresa di trionfare anche da allenatore: allenava la Nazionale che nel 2000 fu inchiodata sul pari nel recupero, poi beffata ai tempi supplementari nella finale contro la Francia.

Cosa pensa se le dico che i suoi successi hanno unito più generazioni di tifosi italiani?

«Ho visto tanti cambiamenti nelle varie epoche del calcio e dei calciatori, dei comportamenti, dei media, un po’ di tutto. È stato un bell’excursus.» 

Eppure, ha perso un Mondiale da calciatore e un Europeo da allenatore. Quale le brucia di più?

«Sicuramente l’Europeo, era già vinto e poi il destino ci ha messo lo zampino. Nel 1970 facevo parte del gruppo, ma non l’ho vissuta così intensamente.» 

Nella Nazionale che ha guidato, c’erano dei giovanissimi Del Piero, Totti, Nesta, Cannavaro, Zambrotta, Buffon. Gente che ha formato la base del gruppo che ha trionfato nel 2006. Ha aiutato a superare la delusione?

«Sono stato molto contento che siano riusciti a vincere il Mondiale, insieme a tutti gli altri. Da italiano mi ha fatto piacere.»

L’Italia di oggi che prospettive ha in vista degli Europei?

«Ha fatto cose straordinarie finora e non vedo perché non possa continuare a farle anche in questo torneo. Sono particolarmente ottimista.»

Le sarebbe piaciuto nascere cinque anni più tardi per vivere il fenomeno Maradona in Serie A?

«Mi accontento di averlo affrontato quando ne ho avuto l’occasione. Era sempre bello confrontarsi con lui, anche soltanto guardarlo in campo ma pure fuori.» 

In una carriera così lunga e soddisfacente, c’è qualche rimpianto?

«Sinceramente no. Ho sempre avuto una filosofia di vita molto semplice: ho fatto ciò che ho fatto e non avrei potuto fare di meglio. Quello che ci viene dato, quello siamo tenuti a ricevere. Quindi non mi viene da guardarmi indietro con tristezza.» 

Buffon è sempre stato ritenuto il suo erede naturale, vincente e longevo. Crede che Donnarumma possa proseguire questa successione?

«Sì, perché ha tutte le qualità per imporsi ai livelli più alti. Ha soltanto 22 anni ma con sei anni d’esperienza alle spalle con una grande squadra. Tutto lascia presagire che possa avere un grande avvenire.»

"Ecco chi è il portiere più forte. Questa è stata la mia parata più importante..." Alessandro Ferro il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Non c'è bisogno di presentare un campione mondiale come Dino Zoff: in esclusiva per noi, ha toccato varie tematiche tra le quali aneddoti personali. "Ho sempre combattuto con la paura di non aver coraggio". Dino Zoff, ex portiere della Juventus e dell'Italia campione del mondo 1982 nonché ex ct della Nazionale, è stato uno dei portieri italiani più forti della storia del calcio. Nel corso della sua carriera ha vestito le maglie dell’Udinese, club nel quale è cresciuto, Mantova, Napoli e Juventus. Il 79enne di Mariano del Friuli ha messo in bacheca tantissimi titoli: sei scudetti, due Coppe Italia e una Coppa Uefa con la maglia bianconero ma soprattutto un titolo Europeo nel 1968 e un titolo mondiale nel 1982 con l’Italia con cui in 15 anni, tra il 1968 e il 1973, ha messo insieme 112 presenze. Zoff, in esclusiva per ilgiornale.it, si è raccontato a tutto campo spaziando dai temi più attuali a come vede il futuro del calcio ma raccontandoci anche alcuni aneddoti personali.

Dino Zoff, come vive il fatto di essere una leggenda del calcio?

"La vivo particolarmente bene, non mi ha cambiato e onestamente mi fa anche piacere essere riconosciuto. Vuol dire, presuntuosamente, che ho lavorato e mi sono comportato bene".

Per decenni è stato un leader perfetto sia per i club, sia per la nazionale, spesso il contrario di quanto accade oggi.

"Non so fino a quando o quanto sia stato un leader, so di aver sempre avuto riconoscenze dai compagni e dall'ambiente per il comportamento, per l'esempio, per dire le cose con convinzione ed essere stato onesto con me stesso e con gli altri. Ho sempre creduto nello sport e nel calcio, di conseguenza il comportamento era adeguato al miglioramento dell'uomo al di là delle cose che ne derivano, dallo star bene alla professione che ti piace particolarmente e ti dà degli onori".

Come sono stati quegli anni?

"Non credo che siano particolarmente diversi da quelli attuali, posso dire che adesso i media sono così presenti con la tecnologia che influenzano forse maggiormente il pubblico: dovevano regolarlo ma credo sia successo il contrario, fa parte del mondo moderno così esasperato con la necessità di presenzialismo e tante altre cose".

Qual è la sua paura più grande?

"Ho avuto una carriera molto buona ma ho sempre combattuto con la paura di non aver coraggio, è sempre stata la mia trazione ad esserci sempre, ad essere schivo e scarno e cercare la sostanza, per me soprattutto. Infatti, sono un personaggio silenzioso".

Si sente di aver raggiunto questo obiettivo collegato alla paura?

"Si, mi sembrava forse eccessiva la paura di non aver coraggio ed ho cercato sempre di conquistare le cose con le regole".

Dino Zoff ha paura del Covid?

"Quando si va avanti con gli anni (sorride, ndr), l'avvicinamento ad una soluzione c'è, c'è per forza. È già essere fortunati arrivare lontano, basta vedere quello che succede nel mondo. Certamente non mi sento un eroe ma di sicuro ho qualche pensierino".

Come sta affrontando la pandemia?

"La sto affrontando con le regole, sono un uomo istituzionale e mi adeguo. Sono anche un figlio della guerra, per me i sacrifici odierni non sono una grande cosa. Oltretutto, sono sempre legato alla responsabilità in ogni cosa che faccio, dalla presenza al comportamento ma vedo che nel mondo, invece, non tutti hanno questa responsabilità del ruolo. La responsabilità è una sola in tutte le componenti che si fanno, la responsabilità di far bene il proprio lavoro è una linea guida importante per tutto il resto".

Lei ha fatto il vaccino? Se sì, quale?

"Sì, ho fatto la prima dose del Pfizer e sono in attesa della seconda dose, del richiamo. Tutto è andato bene".

Da cittadino, pensa che come Paese avremmo potuto fare di più per contrastare questa pandemia?

"Parto dal presupposto che si può sempre fare di più. Detto ciò, è stata una cosa nuova ed è capitata all'improvviso ma vedo che tutto il resto del mondo ha numerosi problemi, credo che non possiamo essere severissimi con noi stessi".

Qual è la parata più bella che ricorda?

"Più che bella direi la parata più difficile ed importante è quella contro il Brasile, nel 1982, negli ultimi minuti di gara, sulla linea di porta con gli avversari a zero metri, un'eventuale respinta poteva essere decisiva. Dovevo tenerla e non dovevo oltrepassare la linea".

Invece, qual è l’errore che se potesse tornare indietro non rifarebbe?

"Non mi piace rivedere le partite, anche quelle belle, perché c'è sempre qualcosa che si poteva fare meglio. Ho sempre una filosofia: certamente avrei potuto fare di più in tante cose ma in quel dato momento non ero in grado di farlo. Ci sono stati tantissimi errori, da tutte le parti, sotto questo punto di vista sono sempre stato umile nel mio ambito del lavoro. Non ho recriminazioni, si vede che in quel momento non ero in grado, se ho fatto in quel modo significa che non fossi in grado di far meglio".

Lei ha giocato 330 partite consecutive con la maglia della Juventus, un record incredibile. Mai un raffreddore, mai un infortunio, mai una squalifica. Come è stato possibile?

"È possibile ma certamente in tante partite non ero nelle migliori condizioni. Lo facevo presente all'allenatore e ce ne prendevamo la responsabilità, sapeva che non ero al meglio. Trapattoni mi diceva: 'Ma te la senti di andare in campo?' ed io rispondevo di sì. In genere, quando non stavo bene, ero così attento che riuscivo a cavarmela. Segretamente ci prendevamo le nostre responsabilità, io di andare in campo e lui di mettermi senza dire, come succede oggi, “mi sacrifico” oppure “vado in campo per la maglia”. Se avessimo giocato male ci avrebbero criticato ed avremmo dovuto accettarle".

Ecco le dieci spettacolari parate che hanno fatto la storia del calcio

Chi è il portiere più forte, attualmente, che abbiamo in Italia?

"C'è Handanovic, ci sono i nostri giovani, da Donnarumma a Meret, è un periodo abbastanza buono per la nostra scuola di portieri"

Chi sarà il più forte portiere dei prossimi anni?

"La strada aperta, pur avendo ancora pochi anni, è di Donnarumma che ha già due campionati sulle spalle con una grande squadra. Dipenderà da lui ma le prospettive sono veramente buone".

Considera Buffon ancora più forte di quello che è stato lei?

"Non faccio paragoni con nessuno, certamente gioca ancora ed è giusto che lo faccia. Complimenti a lui ma non stiamo a fare classifiche".

Un’ultima battuta: come vede l’Italia agli Europei? Ha la possibilità di vincere per la seconda volta ed infrangere un tabù che dura dal 1968 quando lei divenne campione d’Europa?

"Vincere non è semplice ma credo che l'Italia possa fare particolarmente bene, fin qui Mancini ha fatto delle grandissime cose, dei risultati straordinari. Possiamo certamente dire la nostra agli Europei. E poi, con la nuova interpretazione dove si gioca nelle capitali delle squadre che partecipano non è più concentrato su un Paese o due, avremo due-tre partite iniziali in casa e credo sia un vantaggio. Ma, al di la di questo, ce la possiamo giocare quasi con tutti".

In chiusura, Dino Zoff cosa si sente di aggiungere?

"Non vorrei che il calcio perdesse la maggior parte del suo aspetto sportivo, vedo che è esasperato. Ci sono tante cose esagerate, un certo grado di semplicità sarebbe opportuno".

Alessandro Ferro. Catanese classe '82, vivo tra Catania e Roma dove esercito la mia professione di giornalista dal 2012. Tifoso del Milan dalla nascita, la mia più grande passione è la meteorologia. Rimarranno indimenticabili gli anni in cui fui autore televisivo dell’unico canale italiano mai dedicato, Skymeteo24. Scrivo per ilGiornale.it dal mese di novembre del 2019

Giuseppe Rossi. Giuseppe Rossi rinasce alla Spal: le tappe, gli infortuni e le maglie indossate nella sua carriera. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 30 ottobre 2021. «Pepito» a 34 anni ci riprova in serie B: le origini abruzzesi, il passaporto Usa, il rapporto con il padre scomparso nel 2010 e la moglie Jenna Lynn.

Pepito

Il ritorno di Giuseppe Rossi, per tutti «Pepito». Non ancora in una gara ufficiale, ma almeno ad assaporare il calcio. Svincolato dallo scorso 1° gennaio dopo la fine della sua avventura in Mls con il Real Salt Lake City, l’attaccante domenica 31 ottobre tornerà in Italia e si allenerà con la Spal, in B, in quella che è una sorta di prova per testare le sue attuali condizioni fisiche. Se tutto andrà bene, Rossi potrebbe essere anche tesserato. Una scelta, quella di far allenare Rossi con la Spal, voluta fortemente da Joe Tacopina che punta sul suo connazionale. Da ricordare, infatti, che «Pepito» è nato negli Stati Uniti – a Teaneck nel 1987 – e ha cittadinanza statunitense. L’obiettivo del club ferrarese è «americanizzare» ancora di più il brand della Spal, magari con una tournée in Usa in futuro.

L’esperienza allo United

Cresciuto nel vivaio del Parma, all’età di 17 anni viene acquistato dal Manchester United di Sir Alex Ferguson, rimasto stupito delle prestazioni messe in mostra dal ragazzino. L’avventura in Inghilterra inizia alla grande per un giovane come lui: cinque presenze e un gol con i Red Devils, che lo mandano in prestito prima al Newcastle e poi proprio al Parma.

Il rapporto con Ranieri

Da gennaio a giugno 2007 ha una missione insieme a Claudio Ranieri: salvare il Parma. E lo fa con nove gol e quattro assist in 19 partite. Che gli valgono il trasferimento in Spagna, al Villarreal, dove resta fino al 2013. Poi il ritorno in Italia, alla Fiorentina, gli infortuni, una grande stagione (16 gol in 21 gare nel 2013-2014); successivamente la parentesi Levante e il passaggio al Celta Vigo. A dicembre 2017 lo sbarco al Genoa dove rimane fino al termine della stagione, prima di trasferirsi in Mls.

Gli infortuni

Il calvario di Rossi inizia a ottobre 2011 al Bernabeu, in un Real Madrid-Villarreal: rottura del legamento crociato e stop di sei mesi. Ad aprile 2012 ancora un infortunio, questa volta in allenamento: lesione al legamento crociato anteriore già precedentemente infortunato e stop di altri quattro mesi. Un incubo vero. Ma a ottobre dello stesso anno si rende necessario un nuovo intervento chirurgico sempre allo stesso ginocchio. Non finisce qui. Perché alla Fiorentina la sua rinascita si infrange davanti al nuovo infortunio: gennaio 2014, contro il Livorno il crociato si rompe. Nel 2017 con la maglia del Celta Vigo il nuovo crack: questa volta è il ginocchio sinistro, quello mai operato, a riportare la rottura del legamento crociato. Un calvario che non gli ha mai permesso di esprimere tutto il suo grande talento.

La moglie

Nell’estate 2019 Giuseppe Rossi si è sposato con la sua fidanzata storica, Jenna Lynn. Il fatidico «sì» due anni prima, nel maggio 2017. Inginocchiato nella spiaggia americana di Southampton, a New York, per chiederle di sposarlo: «Lo abbiamo fatto. Sono la persona più felice al mondo, con la migliore persona al mio fianco. Ti amo», aveva scritto l’attaccante sul proprio profilo Instagram (127 mila followers). I due hanno avuto una figlia nel dicembre 2020, Lyana Sophia.

Il padre

Ogni volta che segna, Giuseppe Rossi alza le dita in cielo. Indimenticabile quando lo fece contro la Juventus, nella straordinaria rimonta della Fiorentina da 0-2 a 4-2 con una sua tripletta (20 ottobre 2013). Il gesto delle dita al cielo sono dedicate al padre Ferdinando, scomparso nel 2011 e suo primo tifoso. Il padre è il trait d’union che lega l’attaccante all’Abruzzo. Infatti, Rossi è figlio di emigranti. Il papà Ferdinando partì da Fraine, un paese dell’Alto Vastese, alla fine degli anni 60 per andare a cercare lavoro e gloria negli States. Dove «Pepito» trascorreva le vacanze estive.

In azzurro

Con la Nazionale azzurra Giuseppe Rossi ha totalizzato 30 presenze segnando sette gol. Un amore che purtroppo si è interrotto a causa dei suoi tanti infortuni. Nella seconda avventura di Marcello Lippi come c.t., Rossi ha debuttato l’11 ottobre 2008 contro la Bulgaria (0-0), partecipando alla Confederations Cup del 2009, ma saltando appunto tutte le manifestazioni più importanti: il Mondiale in Sudafrica nel 2010, Euro 2012 e il Mondiale in Brasile nel 2014. La sua ultima presenza risale al 31 maggio 2014 contro l’Irlanda (0-0).

Il pianto del tifoso

Nel gennaio 2016 Rossi cerca di rinascere in Spagna, al Levante. Si presenta ai suoi nuovi tifosi e mentre salutava il pubblico, è stato fermato da un anziano tifoso, che lo ha abbracciato piangendo. «Sono emozionatissimo di vederti. Ti sosterremo ogni giorno. Grazie per essere venuto e averci scelto», le parole dell’uomo.

Marco Mancosu. Da gazzetta.it il 5 maggio 2021. Non era una banale appendicite. Il capitano del Lecce, Marco Mancosu, ha saltato quattro partite ad aprile dopo essersi sottoposto a un intervento chirurgico. Lo scorso weekend è tornato in campo contro il Cittadella per guidare i suoi verso l'obiettivo promozione. Oggi con un post su Instagram ha fatto chiarezza: "Mi sono operato il 26 marzo. Di tumore. Ho visto un mondo che non avrei mai pensato di conoscere, ho visto il terrore negli occhi delle persone che amo, ho visto il terrore e la preoccupazione di mia moglie che per lo stesso motivo ha perso il padre quest’estate, ho avuto la paura di non poter crescere mia figlia, ho fatto esami nei migliori centri italiani con affianco gente che ad oggi non so nemmeno se sia viva, se sia riuscita a superare la propria malattia". Un lungo post per annunciare la malattia. I medici gli avevano comunicato che la sua stagione era finita. Mancosu non si è arreso: " In quella sala d’aspetto non ci sono ragioni sociali, non conta se sei un avvocato, un calciatore, un presidente o un normalissimo impiegato, là siamo tutti uguali, tutti alle prese con qualcosa che non possiamo controllare. I medici mi hanno detto che la mia stagione era finita e che dovevo pensare all’anno prossimo, dopo due settimane ero in campo a correre. Dopo un mese sarei dovuto tornare a Milano per sapere se dovessi fare la chemio o meno, non ci sono ancora andato perché voglio fare la cosa che amo di più al mondo, giocare a calcio, poi si vedrà a fine campionato. Io ho già vinto. La vita può non essere sempre giusta perché non penso che nè io nè nessun altro a questo mondo meriti di avere un tumore ma penso anche che non debba mai mancare il coraggio, il coraggio di affrontare ogni tipo di avversità che la vita ci mette davanti, il coraggio di prendersi responsabilità, il coraggio di mostrarsi deboli ed essere più forti di quanto si creda".

LE SCUSE—   Il capitano del Lecce ha deciso di accendere una luce sulla sua situazione per scusarsi con tutti quelli a cui aveva dovuto mentire nascondendo la malattia: "Questo per me significa essere UOMO e sinceramente, credetemi, di tutti gli errori che faccio, di un rigore alto o di un errore davanti al portiere, di queste cose non me ne frega un ca... perché sono cose che succedono solo a chi si prende la responsabilità di fare, di avere coraggio, di provare, di sbagliare e riprovare ancora. Ho deciso di parlarne solo ora perché prima non mi sentivo pronto, avevo bisogno di viverla in riservatezza con le persone che amo e per questo mi voglio scusare con chi ho mentito per nascondere il reale motivo del mio problema. Mi sono operato il 26 marzo e da quel giorno sono ancora più orgoglioso di me stesso e di chi ho affianco". Alla fine del campionato mancano due giornate, gli uomini di Corini vogliono la A. Guidati da capitan Mancosu.

Stefano Tacconi. Tacconi: "Ecco cos'è successo davvero all'Heysel". Marco Gentile il 29 Maggio 2021 su Il Giornale. Stefano Tacconi, in esclusiva per il giornale.it, ha toccato diversi temi tra cui la strage dell'Heysel di cui ricorre oggi il triste 36esimo anniversario. Oggi è un giorno importante per la Juventus ma triste per il calcio italiano ed europeo dato che ricorre il 36esimo anniversario della strage dell'Heysel di Bruxelles dove persero la vita 39 persone, di cui 32 tifosi bianconeri, e ne rimasero ferite oltre 600. Stefano Tacconi faceva parte di quella Juventus che vinse in finale contro il Liverpool e in esclusiva per ilgiornale.it, l'ex estremo difensore della Vecchia Signora ha toccato diversi argomenti tra cui quella finale insanguinata di Coppa dei campioni ma anche di attualità con Allegri, Simone Inzaghi e molto altro ancora: Tacconi, oggi ricorre un anniversario agrodolce per la Juventus: la vittoria della coppa campioni nella strage dell'Heysel. Cosa ricorda di quei momenti?

"Ovviamente ricordo tutto. Noi abbiamo dovuto giocare per forza quella partita nonostante fossero morte tante persone. L’importante è che si ricordi non la partita ma le 39 persone che non ce l'hanno fatta. Non è normale andare a tifare per la tua squadra del cuore e tornare a casa in una bara. Nel calcio non può succedere una cosa del genere, non si può essere felici dopo che succede una cosa del genere anche se hai vinto la coppa dei campioni".

Quando avete saputo delle vittime?

"Noi abbiamo saputo dei 39 morti solo dopo mezzanotte. All'inizio sapevamo che fossero solo 1-2 rimasti schiacciati. Dopo ci siamo resi conto della portata e della drammaticità della faccenda. Il giorno dopo io e Platini siamo andati all’ospedale a incontrare i tifosi della Juventus rimasti feriti e nonostante tutto vedevamo la gioia nei loro occhi per la conquista della coppa dei campioni. Purtroppo questa tragedia fa parte della storia ed è importante non dimenticare le persone che sono morte, sarebbe brutto se si ricordasse solo la vittoria della coppa e non quella brutta tragedia".

Tornando all'attualità: la convince il ritorno alla Juventus di Allegri?

"Io speravo in Zidane sinceramente. Di solito le minestre riscaldate non mi piacciono però visto che Trapattoni e Lippi è andata poi bene vediamo cosa succederà (sorride; ndr)".

Si parla di stagione negativa e addirittura fallimentare della Juventus: è d'accordo?

"E le altre allora cosa devono dire? Sono disperate! (Ride; ndr) Vinci due coppe, arrivi in Champions League con un allenatore inesperto. Chiaro che la Juventus vuole sempre il massimo ma non è fallimentare come stagione".

Anche Paratici ha salutato la compagnia: giusto così dopo gli errori commessi negli ultimi due anni?

"Alla Juventus è normale che quando sbagli poi alla fine paghi. Ovviamente non può essere Agnelli a pagare, dunque... Poi oltre agli errori non sappiamo cosa c’è dietro, quando c’è un divorzio c’è sempre qualcosa che non è andata e a pagare questa volta è stato Paratici".

Si aspettava invece l'addio di Conte all'Inter?

"Sì, io l’ho sempre detto che Conte è fatto così, lo conosco molto bene. Anche alla Juventus andò via in pieno ritiro, lui vince e dunque pretende, comanda. Se non ci sono le condizioni per andare avanti in una certa maniera lui va, è normale sia così con Antonio"

Inzaghi come erede la convince?

“A me piace molto Simone Inzaghi, lo vedevo molto bene anche alla Juventus perché è uno che sa di calcio, ha esperienza, mette giù le squadre molto bene secondo me non farà male. Dopo la Juventus è la Lazio che ha vinto di più in Italia negli ultimi dieci anni. Lui sa valorizzare bene i giocatori, ha fatto la gavetta e merita tanto dunque. Dopo 22 anni alla Lazio ha deciso di cambiare e io non lo vedo affatto come un traditore. Per Inzaghi era arrivato momento di scegliere se restare o andare a cercare di vincere qualcosa e penso abbia fatto bene".

L'anno prossimo vede un testa a testa Inter-Juventus per lo scudetto?

"Dopo quest’anno non so più cosa pensare perché ci sono troppe variabili di cui tenere conto. Il covid, se torna o meno il pubblico sugli spalti...Penso sia normale che con lo stadio pieno è tutto diverso dai, questo è un calcio diverso, quest’anno è andata così con tante preoccupazioni e problemi. Devo dire che mi trovo d’accordo con l'Inter sull'idea di tagliare gli stipendi, è ora che qualcuno dica qualcosa perché mi sembra sia diventato tutto esagerato e non sostenibile per il mondo del calcio che rischia il collasso".

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare.

Marco Amelia. Dagospia il 7 ottobre 2021. Da "I Lunatici - Radio2". Marco Amelia è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, in onda anche su Rai 2 dal lunedì al venerdì notte tra la mezzanotte e quaranta e le due e trenta circa. L'ex portiere, campione del mondo da terzo nell'Italia di Lippi del 2006, ha parlato un po' di se: "I mondiali vinti in Germania? Credo che di quel Mondiale si sia detto tutto, anche troppo. Ci sono cose che è bello tenere nello spogliatoio, nel gruppo che poi ha affrontato quell'esperienza. Era un periodo difficile, era scoppiato lo scandalo di calciopoli, c'era molta diffidenza sul sistema calcio in quel momento, credo che ogni singolo individuo che ha partecipato alla spedizione mondiale sia stato importantissimo. Dai cuochi al mister. Se è vero che calciopoli ci ha aiutato a compattarci? Viene detto, ma io credo che il gruppo già prima fosse molto unito. E' stato fatto un grande lavoro da parte di Lippi. Io credo che calciopoli abbia solo creato delle problematiche al nostro gruppo, qualcuno si è trovato sui giornali, per me calciopoli non ha unito il gruppo, anzi lo ha destabilizzato. Da quel punto di vista è stata la dimostrazione che eravamo veramente forti". Sugli inizi: "Come sono diventato un portiere? In porta ci si va per necessità e poi ci si ritrova perché ci stai bene. Quando si gioca con gli amici, per strada, in porta ci si va a turno. Poi quando inizi la scuola calcio lo stesso. I portieri si fanno a turno. Io mi ritrovai in porta durante una partita di scuola calcio, capitò che parai un rigore e poi ci sono rimasto per passione. Ero tifoso della Roma, mi piaceva Giovanni Cervone, come calciatore, come persona, per quello che esprimeva nello stare in porta. Andavo in Curva, il portiere è quello più vicino che vedi quando sei allo Stadio". Ancora Amelia: "Della mia carriera non rivedo niente. Nulla. Quello che è stato fatto è stato fatto. Ho fatto degli errori che sono costati punti e risultati. Penso a Bologna-Milan, a Bologna. Vincevamo 2-1, mi fecero un tiro che volevo per forza bloccare. Mi sfuggì e andò dentro. Finì 2-2, quell'anno perdemmo lo scudetto per due punti. Andandoci a ripensare, quell'errore fu decisivo". Lo scudetto vinto da giovanissimo alla Roma con Totti e Batistuta: "Abbiamo vissuto una stagione iniziata dopo lo scudetto della Lazio, uscendo subito dalla Coppa Italia, malamente, contro l'Atalanta. Ci fu una grande contestazione a Trigoria. Fu pesante, c'era tanta gente, c'è stata violenza. La rabbia era comprensibile, ma servono dei limiti. Però fu una stagione meravigliosa, ci rimboccammo le maniche, iniziammo a vincere, la squadra era fatta da grandissimi giocatori. Io ero giovanissimo, ero un giovane calciatore che viveva lo spogliatoio. Ricordo il rapporto il Capello e con gli altri giocatori. Fu tutto meraviglioso. Avevo 18 anni, ero un tifoso. Quella vittoria lì mi ha poi permesso di andare a fare la mia carriera. Vinsi poi a Livorno, con l'Under 21, a Milano col Milan, lo scudetto". Ancora su quella Roma: "Batistuta? Quando arrivò a Roma tutta la piazza si innamorò subito di lui. Era il più forte attaccante in circolazione. Mi ricordo la presentazione con lo stadio pieno. Tutto molto bello. Aveva una grande carica, voglia di vincere, ti trascinava, ti contagiava. Ha vinto poco per quello che è stata la sua carriera. Totti? Ai tempi era molto giovane, era già l'idolo della gente, faceva difficoltà a vivere, ogni volta che si muoveva aveva centinaia di persone in torno. E' unico. Per i tifosi della Roma è qualcosa di eccezionale e si percepiva che non era facile vivere la città nella sua posizione. Fare tutta la carriera con un'unica maglia non è stato facile per lui. Non è facile vivere la vita in modo diverso rispetto a tutti gli altri. La normalità non te la darà mai indietro nessuno. Ma questo credo sia anche il bello di essere un grande campione come Totti. Capello? Un grande. Ho imparato tanto anche solo ascoltandolo. Mi ha dato un sacco di consigli, dall'alimentazione al come vivere la vita da atleta. Lui è la mentalità Milan, che io poi ho ritrovato in rossonero. Sergente di ferro? Sì, nel senso che ha sempre preteso che i suoi giocatori dessero il massimo. Questo a volte non viene ben concepito da tutti". Sull'ambiente romano: "Perché a Roma si vince poco? L'ambiente romano è particolare, la gente vive le squadre di calcio come se fossero una religione. C'è tanta pressione, ovunque. Pressione quotidiana nel vivere la città. Si vince meno probabilmente per una questione di mentalità generale che si è creata nel tempo". Nel 2007 Amelia, dichiarato tifoso della Roma, poteva andare alla Lazio: "C'è stato qualcosa, c'era Angelo Peruzzi che aveva pensato a me per la Lazio. E' stata un'idea ma è finita subito. Diventa difficile quando un giocatore esposto ad essere tifoso dell'altra squadra si trova a poter vestire la maglia dei rivali. C'è stata una possibilità ma è finita subito con una analisi reale. Io non potevo proprio fare una cosa del genere, ma lo sapevano e lo hanno valutato anche i dirigenti della Lazio. Sono tanti i giocatori tifosi della Roma che hanno vestito la maglia della Lazio e viceversa. Io ho scelto di non farlo. Per una questione di rispetto verso i tifosi e anche verso la mia famiglia". Amelia ha giocato negli anni dell'esplosione di Buffon: "E' la più grande sfiga del mondo, ma anche una grande fortuna. Mi hanno convocato in Nazionale 80 volte, potevo giocare sicuramente più partite se non ci fosse stato Buffon. I primi anni in cui andavo c'erano anche Peruzzi, Toldo, Abbiati. Entrare nel giro non è stato facile, io sono andato in Nazionale con la maglia del Livorno, con cui sono cresciuto dalla Serie C alla Serie A. E questa è stata una grande soddisfazione". Amelia ha difeso anche la porta del Milan: "Ricordi meravigliosi. Ho giocato con Nesta, Ibra, Gattuso, Pirlo, Seedorf, e molti altri. La filosofia del Milan si vede raramente, anche in altri grandi club. Per questo quello rossonero è il club più titolato al mondo. Sono cresciuto tanto come uomo, come persona e come professionista". Praticamente a carriera finita, Amelia è andato a Londra, al Chelsea: "Avevo deciso di smettere, poi a fine mercato si infortunò il portiere del Chelsea. Il mercato era chiuso, ero tra i pochi portieri svincolati da poter prendere. Ci parlammo con Mourinho, all'epoca allenatore del Chelsea. Andai a Londra, feci dei test, venni ritenuto idoneo a giocatore. E' stata una esperienza bellissima. Josè è un grande allenatore. Il calcio inglese ha una intensità diversa rispetto al nostro. E' meno tattico a livello di gruppo, molto più tattico a livello individuale".

Giuliano Giuliani. DA ILNAPOLISTA.IT il 7 novembre 2021. La Gazzetta dello Sport intervista l’ex moglie di Giuliano Giuliani, portiere di Verona (dal 1985 al 1988) e Napoli (dal 1988 al 1990), che domani si sfideranno in campionato. E’ morto il 14 novembre 1996, a 38 anni, ucciso dall’Aids. Raffaella Del Rosario ha vissuto con lui entrambe le esperienze. La malattia divenne conclamata quando Giuliani giocava già nell’Udinese. Probabilmente l’aveva contratta con un tradimento durante il viaggio in Argentina per il matrimonio di Maradona. «Il 25 ottobre era nata la mia Gessica, quindi non potevo muovermi. Lui invece partì, nonostante lo avessi supplicato di restare. Più di un anno dopo, nel darmi la notizia della malattia, mi confessò di avere avuto una notte di sesso in quei giorni in Argentina, disse che quello fu il suo unico tradimento». 

L’Aids, in quegli anni, era considerato un tabù.

«Si pensava fosse una malattia riservata a gay, drogati e a chi aveva una vita sregolatissima. Non certo a uno come Giuliano. Per il mondo del calcio poi era completamente tabù. I giocatori la temevano, avevano paura di essere accostati a determinati ambienti. Infatti sparirono tutti». 

Racconta che Giuliani morì solo.

«In ospedale oltre a me non c’era nessuno. È morto solo per una malattia che può capitare a chiunque». 

Nessuna telefonata dagli ex compagni.

«Zero. Era molto amico di Fusi, Corradini, Renica e Zola, il gruppo più tranquillo. Tutti scomparsi. Due-tre anni fa si è fatto vivo Renica e mi ha chiesto perdono, mi ha detto: “Ho avuto paura”. Io comunque in un certo senso li capisco: si sentivano cose allucinanti, c’era chi parlava di festini gay e di droga, quindi questi ragazzi preferivano star lontani. Ma tutta la società sbagliava sull’Aids, i malati erano ghettizzati e credo che sia stato fatto poco anche dopo: la malattia esiste ancora ma nessuno ne parla. Mi piacerebbe fare qualcosa per sensibilizzare la gente, ma da sola è davvero dura. Avrei voluto organizzare una partita per Giuliano, ho lanciato diversi appelli che nessuno ha raccolto. Eppure si fanno tante iniziative per altri calciatori scomparsi, per lui niente. Si vede che la parola Aids spaventa ancora».

Gigi Buffon. Estratto del libro "Grand Hotel Calciomercato" di Gianluca Di Marzio pubblicato dal "Corriere della Sera" l'11 novembre 2021. Amarsi e poi dirsi addio, esattamente vent' anni dopo. Per poi tornare lì, dove tutto è iniziato. 2001-2021, una lunga e appassionante storia di sorrisi e parate, successi italiani e rimpianti europei, quella magica alchimia che pensi possa durare per sempre ma poi all'improvviso si spegne: Gigi Buffon arriva alla Juventus da ragazzo prodigio coltivato nel Parma, diventa un uomo e si laurea campione, uscendo di scena dopo l'ultima Coppa Italia vinta, portato in trionfo con i guantoni tutt' altro che arrugginiti nonostante quarantatré candeline già soffiate. Ma lo sapete che, in quella famosa estate da ventitreenne sul mercato, nella testa del giovane Gigi la prima scelta era un'altra? Roma, la stessa Roma che oggi ha stregato Mou. Un feeling nato proprio sul campo, da avversario, in un caldo pomeriggio di metà giugno 2001, il 17 per l'esattezza: una domenica indimenticabile per tutti gli abitanti festosi dell'Olimpico. Il suo Parma ne prende tre, da Montella, Batistuta e dall'amico Totti, certificando con l'aritmetica lo Scudetto per la squadra allenata da Capello. Lo stadio trema, un ciclone di bandiere giallorosse e voci emozionate rendono quella giornata palpitante anche per il cuore di chi ha una maglia diversa e sogna così di tornarci da padrone di casa. «Se posso scegliere, questa è la mia destinazione preferita: l'ambiente mi ha affascinato, portami lì, Silvano! Altrimenti Barcellona o Juve, in quest' ordine». Il destinatario è il fedele agente Martina, custode di segreti e contratti insieme al papà di Buffon, il signor Adriano. La famiglia infatti spinge per continuare in Italia, non resta che avviare la trattativa con Sensi e Baldini. Il direttore sportivo è sponsor agguerrito dell'operazione, spinge forte e trova l'intesa su ingaggio e stipendio, sbattendo successivamente contro la resistenza del suo presidente a investire i quasi cento miliardi chiesti dal Parma per venderlo. Ne spenderà poco più della metà per il funambolico Cassano. Vicino alla Roma, addirittura vicinissimo al Barça: storia di un blitz spagnolo alla Trattoria del Ducato, a pochi passi dallo stadio Tardini, dove i dirigenti del Parma si riuniscono per pranzi e cene d'ordinanza. Questa volta è diverso, sul tavolo (anzi, a tavola) ben centoventi miliardi in contanti per convincere l'allora Cavalier Tanzi a cedere quel portiere predestinato a essere un top player. L'accordo viene raggiunto davanti a un piatto di tortellini, arriva anche il via libera per il viaggio del suo procuratore. Silvano Martina parte così dopo qualche giorno, facendosi accompagnare da una vera e propria leggenda, il miglior biglietto da visita possibile, Luisito Suarez in carne e ossa, Pallone d'Oro nel 1960 proprio con la maglia che Buffon potrebbe indossare di lì a poco. Suarez ha finito la sua carriera in Italia, è stato un mito per l'Inter, ha una parola buona per tutti e si mette sempre a disposizione per gli amici. Martina lo è. I due vanno quindi al Camp Nou a vedere la partita in programma in quel weekend, poi a cena con i grandi capi blaugrana. Non ci vorrà molto per raggiungere un'intesa: tra Buffon e il Barcellona è quasi una promessa di matrimonio. Per le pubblicazioni però serve ancora qualche ora, e il tempo sarà fatale per il piano spagnolo. Appena rientrato in Italia, mentre guida dalle parti di Rozzano, ecco suonare all'improvviso il telefono del manager di Gigi. «Oh, Silvanooooo, ma dove cazzo vai in giro per l'Europa? Quello lì deve essere nostro, punto e basta!». Ogni riferimento a Buffon non è puramente casuale: la voce inconfondibile di Luciano Moggi rimbomba come una minaccia. «Me lo dici da tre anni, ora se vuoi scrivi» risponde Martina, invitando il potente uomo mercato della Juve a formalizzare una volta per tutte l'offerta contrattuale per il suo assistito. Giusto il tempo di fissare un appuntamento a Torino da Umberto Agnelli e le parti stringono un patto d'onore a suon di soldoni e progetti: Buffon dice definitivamente sì alla Juventus. E la parola data al Barcellona? L'imbarazzatissimo procuratore scrive addirittura una lettera e la spedisce via raccomandata all'infuriato presidente, scusandosi per non aver rispettato l'impegno. Un gesto che si fa comunque apprezzare, in un mondo dove anche oggi il mea culpa resta raro. (...) Rispetto a quasi tutti i giocatori di oggi, che stalkerano i propri agenti ogni due per tre in cerca di aggiornamenti, Buffon vive invece con la serenità più invidiabile i momenti di incertezza relativi al suo futuro. «Se trovi qualcosa di intrigante, bene, altrimenti posso anche smettere senza problemi». È l'unico messaggio trasmesso al fedele Silvano. «Ti vuole l'Atalanta, Gigi: faresti Champions e campionato da titolare, una bella sfida». È la tentazione di metà agosto 2020, ma il richiamo dell'amico-fratello Pirlo, appena nominato allenatore della Juve, non può essere trascurato. «Mi ha chiesto di dargli una mano, è la sua prima esperienza in panchina, non posso dirgli di no. Restiamo qui» per l'ultima stagione da protagonista. Quando gioca, la squadra non perde mai. Eppure si dispiace per il compagno (in questo caso Szczesny) relegato in panchina. Come ai tempi della parentesi al Psg. «Se resto qui, poi non faccio il bene di Areola che è giovane e troverebbe poco spazio» suscitando la reazione infastidita del suo interlocutore. «Deciditi, Gigi, se la pensi così allora chiudi tutto e ritirati, eh». Per un botta e risposta dove a vincere è sempre un eterno ragazzo, l'estremo guardiano: custode di una porta che sembra sempre piccola quando a proteggerla c'è lui. La prima vera estate sul mercato dopo vent' anni si trasforma così in un concentrato di richieste arrivate da tutto il mondo. Alla faccia dei quarantré anni sulla carta d'identità (...) (...)Al cuor però non si comanda, soprattutto quando il destino ti concede l'opportunità di chiudere un cerchio meraviglioso. Parma, il Parma. Come nella sceneggiatura di un film. Esattamente vent' anni dopo quel viaggio destinazione Torino, con una valigia piena di sogni. A riportarlo di nuovo a casa ci pensa il presidente americano Kyle Krause, tra i proprietari più social del calcio italiano: lui ama infatti svelare gli acquisti twittando, spesso postando la bandierina relativa alla nazionalità del giocatore. La pazza idea nasce il 21 aprile allo Juventus Stadium, ospite proprio il Parma in campionato. «Perché non torni da noi l'anno prossimo?» con un sorriso che sembra già un contratto pronto per essere firmato. Due mesi dopo, ecco l'accordo biennale con un desiderio mica tanto segreto: giocare per convincere Mancini a portarlo come terzo al Mondiale 2022. Là dove il primo, Gigio Donnarumma, si presenterà da campione d'Europa e non più da portiere del Milan. 

Da iltempo.it il 6 agosto 2021. Gigi Buffon fascista. È una delle voci che maggiormente è circolata nel mondo del calcio negli ultimi 20 anni, soprattutto in virtù dei suoi comportamenti quando indossava per la prima volta la maglia del Parma ed era ancora un ragazzino. Ora a 43 anni, dopo essere ritornato nella squadra ducale, il fenomeno dei portieri cerca di spiegare meglio il suo pensiero politico in un’intervista a Repubblica: “Io fascista? In questi anni sono stato oggetto di accuse offensive. Hanno detto che sono fascista e non so come rispondere se non che mi sento e mi sono sempre sentito orgoglioso di rappresentare il mio Paese”. "Capisco e ritengo giusto, umano e cristiano dare una mano a chi ha bisogno, ma senza creare conflitti tra chi è nato in Italia e chi vi è immigrato. Se mi dovessi definire sul piano politico - sottolinea Buffon - direi che sono un anarchico-conservatore”. Nel colloquio con il quotidiano è impossibile non parlare del suo addio alla Juventus, una lunghissima storia d’amore ora definitivamente interrotta: “La Juve sta benone, gode di ottima salute e ha un grande portiere. Non ho nessun accordo per fare qualcosa in società da dirigente. Torno in Serie B per la seconda volta, se ci sono stato a 28 anni perché non dovrei tornarci a 43. Come nel 2006 scelsi la Juve, oggi ho scelto il Parma. Potrei giocare anche in prima categoria e non cambierebbe il mio valore”.

DA sportmediaset.mediaset.it il 17 giugno 2021. È tornato nel posto che gli appartiene, è tornato a casa". Con questo tweet, accompagnato da un video, il Parma ha ufficializzato il ritorno di Gigi Buffon in gialloblù dopo 26 anni #SupermanReturns". Il portiere 43enne ha firmato un contratto biennale con il club in cui è cresciuto e nella squadra che lo ha fatto debuttare in Serie A a 17 anni il 19 novembre 1995 contro il Milan. La presentazione è in programma il 22 giugno. Il video del Parma fa il verso al trailer di un film di fantascienza, intitolato 'Superman returns' ambientato allo stadio Tardini. Al termine si vede un misterioso personaggio togliere il cappuccio e svelare la propria identità: è Buffon che al telefono con il proprietario del Parma dice "Ok Kyle, i'm in" e Krause risponde "bentornato a casa". Alla fine dunque, Buffon ha fatto una scelta di cuore. "Sul tavolo ho tante proposte che muovono cose diverse. Si passa da squadre attrezzate anche per fare una buona Champions, poi ci sono squadre che rappresentano il ritorno alle mie origini, che muovono qualcosa dentro di me a livello di sentimenti. Questi diventano entusiasmo ed energia", aveva detto qualche giorno fa. Ha deciso per la sua Parma, con l'obiettivo di riportarla subito in Serie A.

DA calciomercato.com il 18 giugno 2021. Un'accoglienza non troppo calorosa per Gigi Buffon, tornato al Parma dopo le esperienze con Juve e Psg. Questa mattinata, infatti, in città è comparso uno striscione che non lascia spazio a fraintendimenti: "Te ne sei andato da mercenario, non puoi tornare da eroe. Onora la maglia". Sulla pagina ufficiale Facebook CrUsAdRrS, legata ai Boys, i tifosi hanno spiegato: "Vent’anni fa ci avevi promesso che quella maglia di merda non l’avresti mai indossata…. Tre settimane dopo dall’Australia firmi per i gobbi. Adesso torni nell’ unico club che ti ha permesso di vincere in Europa. Dopo tutto questo abbiamo solo da dirti che per noi sei e sarai sempre un piccolo uomo. Onora la maglia e forza Parma!!!! Dal 1977 Boys Parma".

Da liberoquotidiano.it il 9 febbraio 2021. Alena Seredova e Gigi Buffon si sono lasciati da tempo e i rapporti tra i due, dopo qualche iniziale incomprensione, sembrano ormai molto tranquilli. Ma qualcosa, soprattutto nella Seredova, deve covare ancora dentro. Infatti la risposta che ha dato al commento di un utente che ha scritto “Secondo me Buffon non capisce un cazzo di donne!”. Alena ha lasciato uno smile che sembra proprio dare ragione all’utente. I due hanno troncato nel 2014, il matrimonio è durato tre anni. A mettere fine alle nozze è stato lui, dopo essersi innamorato della giornalista Ilaria D’Amico. La Seredova all’epoca l’aveva accusato di tradimento e dichiarò: “Chi mi ha detto della loro relazione? L’ho sentito alla radio. Ma non sono stata l’ultima a saperlo. Dopo di me, l’ha saputo mio padre. Sono stata penultima… Bisogna essere precisi…”. Anche se i rapporti sono poi migliorati. In una intervista aveva rivelato che tra loro le tensioni erano finite e che lo stesso Gigi Buffon le aveva fatto gli auguri in occasione della nascita di Vivienne, la sua terza figlia nata dalla relazione con l’imprenditore Alessandro Nasi. I due, ad oggi, fanno parte di una famiglia allargata. Dal loro matrimonio sono nati David Lee, 12 anni, e Louis Thomas, 11 anni. Buffon, 5 anni fa, ha avuto un altro figlio da Ilaria D’Amico.

Da liberoquotidiano.it il 20 luglio 2021. Per Alena Seredova non è cambiato nulla. La tensione con Ilaria D'Amico resta altissima. In una diretta sul suo profilo Instagram, infatti, l'ex modella ha confermato il suo "no" alla famiglia allargata rispondendo alla domanda di una sua fan. Insomma, la posizione di Alena Seredova in merito al concetto di "famiglia allargata" è ormai nota da molti anni: non ha mai voluto includere la nuova famiglia del suo ex marito, il campione Gigi Buffon, con l'attuale moglie, la giornalista D'Amico. "E' contro la mia natura - ha dichiarato l'ex modella ceca -. Chi mi ha detto della loro relazione? L'ho sentito alla radio. Ma non sono stata l'ultima a saperlo. Dopo di me, l'ha saputo mio padre. Sono stata penultima... Bisogna essere precisi...". Insomma, c'è ancora molto livore e la rabbia anche con il tempo non si è affatto ridotta. Dopo la fine della relazione tra la Seredova e Gigi Buffon, la modella ha ritrovato la serenità con il manager Alessandro Nasi, dalla cui relazione è nata Vivienne Charlotte. La bimba viene spesso immortalata dalla Seredova sui social, spesso anche insieme ai due figli che ha avuto con il portiere juventino. Stessa cosa per Buffon e la D'Amico che hanno dato alla luce due bambini, David Lee e Louis Thomas.

Giorgio Gandola per "la Verità" il 31 marzo 2021. Il problema è che ha già il volto da ex. E con la barba sfatta da navigatore solitario sarebbe il partner ideale di Christian Vieri che esce da uno scaffale a importi un rasoio in una pubblicità paracadutata dagli anni Novanta. «Potrei smettere di giocare fra due anni o fra quattro mesi», è il suo cruccio. Un tempo largo e uno stretto, in mezzo la scelta logica della Juventus di non dargli più minuti, semmai meno. Guantoni da Coppa Italia. A 43 anni Gianluigi Buffon cerca una via d'uscita mentre dovrebbe cercare l'uscita. Mettere la parola fine è il gesto più difficile per uno sportivo ma Gigi - il portiere italiano più forte, mediatico, decisivo di sempre - dovrebbe provarci. Il motivo è semplice: non arrivare tardi quando non la prendi più. Non ripetere gli errori di colleghi egualmente straordinari come Ronaldo il fenomeno che dopo avere dato profondità a un'epopea interista tornò grasso a Milano per giocare nel Milan (eppure nove gol in 20 partite). O come Francesco Totti che fu messo da parte quando ormai si trascinava sul campo e i compagni supplicavano Luciano Spalletti di non schierarlo titolare neppure nelle partitelle del giovedì. I revisionismi letterari e cinematografici guidati dalla mente ispirata di Paolo Condò appartengono alla doverosa dimensione del mito. C'è un tempo per vivere e uno per morire (sportivamente, meglio specificare). Diceva Michel Platini: «Non invecchierò in campo, l'erba umida provoca reumatismi». E poi: «Salire sulla foto ricordo appesa al muro della sede è la fatica più grande». Lui lo fece a 32 anni, improvvisamente una mattina, e non si è mai pentito. Adesso tocca a Buffon e ci sono tutti i presupposti perché la faccenda si trasformi in telenovela. La Juventus a fine ciclo ha due punti fermi: il rinnovamento e il bilancio. Una filosofia che non può non passare dal Gigi Nazionale, 43 anni e 1,5 milioni di stipendio per 10 partite. Nel ruolo da citofono della porta di Wojciech Szczesny sarebbe più adatto un Manuel Gasparini (20 anni, Udinese) per la metà del prezzo o un Mattia Perin di ritorno dal Genoa. Anche se i portieri di oggi non sono splendidi basilischi come Luciano Bodini e Giulio Nuciari, hanno tutti la pretesa di giocare. Buffon ha annusato l'aria, ha capito al volo e cerca nuove sponde. Quello del motivatore, della chioccia è un ruolo dolce ma anche un ripiego. Allora ecco una mezza frase, un malumore trasferito a un giornalista amico e lo scenario è pronto: rinnova, cambia squadra o va all'estero? In queste ore tutto si affastella e si decompone. C'è chi lo vede al Milan per far crescere ancora di più Gigio Donnarumma (senza certezze che quest' ultimo resti rossonero). C'è chi lo azzarda alla Roma per chiudere, chi lo accosta all'Atalanta perché sarebbe comunque meglio del Marco Sportiello visto a Madrid. E chi lo spinge negli Emirati Arabi per l'ultimo contratto, ora che la Cina ha finito i soldi. Qui sale dal profondo un invito disinteressato: Gigi fermati. Partita d'addio, guantoni regalati a un bambino e passi direttamente a commentare gli altri con o senza giacca, come decine di autorevoli colleghi. Il più grande portiere italiano dell'era contemporanea (per quella moderna c'è Dino Zoff che lo osserva dalla collina) non può assistere all'oscuramento del proprio passato da una panchina. Sarebbe un delitto e sta già accadendo. Una paratona in più, un otto in pagella alla memoria che differenza fanno? Lui è già il passato, deve solo accettarlo. È cresciuto con i cd, ha stupito il mondo mentre Matteo Renzi ed Enrico Letta andavano a scuola da Tony Blair. Ha vinto un mondiale, un paniere di scudetti e fu pure vicecampione d'Europa. Ora si gioca un altro calcio, si parte dal basso per non sprecare palloni (poi càpita che esci dalla Champions perché i tuoi ne sbagliano due). A che serve inseguire l'ultimo acuto se sei Maria Callas? A sua discolpa va detto che anche la Divina si trascinò tra bouquet di rose e di rapanelli, questione di contratti e di rancori. È tempo di dire basta anche se un profeta come Zoff la pensa diversamente. «Se ha voglia vada avanti perché giocare è molto piacevole. A 43 anni è difficile mantenere la forma, ma ci sono sistemi di allenamento per integrare, ci sono i personal trainer. Io sono stato personal trainer di me stesso. Penso che Gigi sappia sentire il proprio corpo». Lui ha smesso a 41 anni da icona di un football più riflessivo, meno isterico. Ma è riuscito a evitare la parte di El Gato Diaz in quel racconto di Osvaldo Soriano (Il rigore più lungo del mondo). Oggi continuare è semplicemente rimandare un altro appuntamento chiave, quello con la vita. La stessa che ha bussato alla porta di Buffon durante il lockdown. Mai così prepotente, mai così interessante come spiega direttamente lui in un'intervista al Guardian. «Nel tempo sospeso della pandemia ho avvertito una felicità esistenziale. Sentire dentro di te che sei una persona felice per quello che hai fatto, per quello che fai, per quello che stai diventando. Quando sono a casa con mia moglie e i miei figli, quando leggo un libro o guardo un film e ne prendo qualcosa, mi sento meglio». Il distacco è già cominciato, che senso ha girare da reduce come Valentino Rossi a caccia del sesto posto? Ora c'è la finale di Coppa Italia e forse c'è l'Europeo (se Roberto Mancini gli farà la sorpresa). L'ultima parata da leone, il ruggito nella savana al tramonto per un atleta ancora immenso ma non più una «credit card». Buffon è già un simbolo che cammina, ma non sarà mai un esempio. Il gol negato di Sulley Muntari e quella frase «Non avrei mai aiutato l'arbitro»; i bestemmioni in mondovisione (a proposito, per quello di Parma ieri è stato squalificato per una giornata e salterà il derby); la pur comprensibile scenata di Madrid saranno sempre lì a dividere il popolo e i suoi figli. Acqua passata, rimane il monumento con quelle mani grandi a deviare in corner il pallone più carogna. Non manca niente: deve solo uscire dal campo per entrare nella leggenda. Il resto è un trascinarsi da santo bevitore, come fanno gli umani, alla ricerca della giovinezza perduta.

Quando il mondo si accorse di Gigi Buffon. Paolo Lazzari su L'Arno - Il Giornale il 31 marzo 2021. Socchiudete le palpebre e immaginate un rivedibile campetto di periferia. Poco lontano rimbalza lo sciabordio delle onde che si lavorano la costa. Qualche crocchio di gabbiani si esalta per un pesce che si contrae ancora scattoso in preda agli spasmi. Nel 1986, a La Spezia, c’è anche un profluvio di ragazzini che imperversa intorno ad un pallone: la squadra è il Canaletto e loro hanno otto anni. Certo, non lo fai di proposito, ma lo sguardo si appoggia su uno spilungone perché, a quell’età, la differenza anatomica con gli altri è notevolissima. Spalle larghe, braccia che sembrano propaggini tentacolari, leve che suggeriscono una falcata dirompente. Eppure Gigi, di ruolo, giostra in mezzo al campo. I piedi sono educati, il pensiero lungo, la visione periferica notevole. Passa al Perticata, a due passi da Carrara, dove è nato, poi se lo aggiudica il Bonascola. La porta scorrevole è dietro l’angolo, ma lui non ci incoccia il naso. La confidenza è già una una dote che intride naturalmente il sangue. Il 13 giugno del 1991 il Parma compra Gianluigi Buffon: un mediano promettente, al punto che la cifra sborsata per un ragazzino nato nel ’78 può farti sussultare: 15 milioni di lire. Gesù, quel tredicenne deve saperci fare sul serio. Poi succede una roba strana. Passa un anno e, ad un certo punto, tutti i portieri ducali si infortunano in sequenza. E lui è alto, ha mani ampie, riflessi incendiari ed un sorriso sicuro. Gigi va in porta per un pittoresco incrocio del destino, senza sapere che da lì a tre anni esordirà in Serie A, a soli 16 anni. Il nastro scorre rapido in avanti. Parma-Milan, 1995. Prova a scrutare la distinta dei giocatori senza sgranare gli occhi. Zola, Stoichkov, Dino Baggio. Il pallone d’oro Weah, Marcel Desailly – un basamento di granito – e Roberto Baggio, la classe al comando come approccio ermeneutico al calcio. Le cose stanno più o meno così: i gialloblu sono primi in classifica, come il Diavolo. Appaiati a 20 punti. In Emilia un sole caldo si estende come un balsamo sul Tardini, per far dimenticare almeno per un istante che comunque è il 19 novembre. Nevio Scala, il tecnico del Parma, ha un problema. Il portiere titolare, Luca Bucci, è fermo ai box. La scelta naturale dovrebbe ricadere sul suo secondo, Alessandro Nista, una carriera di tutto rispetto tra i pali di club come il Pisa e l’Ancona, senza dimenticare la singolare parentesi a Leeds. Invece Nevio decide di mettere in pausa il buonsenso e alza il volume dell’irrazionalità chimica, quella che se ne sbatte dei preconcetti. Gioca il ragazzino, punto. Gioca Gigi Buffon. Diciassette anni, il monte Olimpo del calcio italiano – che all’epoca era ancora il migliore possibile – e trovarsi a dover sventare tutto contro una squadra cosmica come i rossoneri di Fabio Capello. Diciamoci la verità: per quasi chiunque l’ansia erompe nelle vene, le gambe diventano molli, i pensieri si offuscano. Solo che Gigi non è quasi chiunque. Il suo spirito è imperturbabile, duro e austero come il marmo della sua Carrara. Le mani altrettanto sincere e affidabili. L’attitudine a chiudere lo specchio quasi sfrontata. Buffon ha soltanto diciassette anni, ma non si piega ad alcun diritto divino: essere umano munito di poteri superiori, sfida – audace e impertinente – i giganti che provano a bucarlo. A fine gara se ne uscirà con la porta inviolata, grazie a tre parate semplicemente implausibili. Primo tempo: imbucata dilaniante per Eranio che si ritrova da solo davanti a lui. Sembra fatta, ma il portierino esce in modo ruvido, inatteso, efficace, strappando i sogni di gloria pregustati ed infilandoseli in tasca. Il Milan però intende spuntarla e ricorre a tutto il suo armamentario. Boban tesse incantesimi ed avanza con passo cadenzato, ipnotico. Palla in mezzo per Baggio, ma Buffon esce coraggioso e tempista, impedendo un altro gol sicuro. Poi striglia la difesa, un blocco composto da gente come Cannavaro e Sensini, per dire. Il primo vero miracolo della sua carriera, tuttavia, giunge inesorabile nella ripresa. Marco Simone aggancia un pallone nell’area piccola, fa perno e conclude angolatissimo. Gigi toglie letteralmente la sfera dalla porta, opponendosi quasi innaturalmente ad una sentenza già emessa. La gara finisce zero a zero. Il pubblico non crede a quello che ha appena visto. I giocatori del Milan sono trasecolati. Ai microfoni nel post gara, gli chiedono se il nonno Lorenzo – che faceva il portiere – gli ha dato consigli preziosi e come ha fatto a rimanere così calmo. “Lo dico non per immodestia – replica lui – ma non vado a chiedere in giro come si para. La mia serenità? Ho pensato che stavo giocando con la primavera”. La strada è segnata: il mondo ha appena conosciuto un ragazzo spesso come il marmo di Carrara. Il miglior portiere dei prossimi vent’anni.

Massimo Crippa. Da "I Lunatici - Radio 2" il 30 settembre 2021.  Massimo Crippa, ex calciatore tra le altre di Napoli, Parma e Nazionale, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, in onda anche su Rai 2 sempre in diretta tra l'una e le due e trenta circa. L'ex centrocampista ha ricordato il suo periodo al Napoli: "Giocare a Napoli è una cosa che io auguro a tutti quanti. Questa città è stupenda, per un calciatore è il massimo, c'è una tifoseria che ti dà affetto sempre, per tutta la settimana. Il periodo in cui ci ho giocato io è irripetibile, vincevamo scudetti, vincevamo trofei. C'è tanto amore, c'è tanta pressione, perché è una cosa indescrivibile. Quegli anni lì sono stati anni stupendi. Adesso è un po' cambiato tutto, in generale, veniamo da una pandemia, magari tanti tifosi si sono staccati da questo calcio qui, ormai è business, non è più il calcio dell'attaccamento alla maglia. I calciatori se stanno fuori qualche partita chiedono subito di essere ceduti, in quegli anni lì c'era coinvolgimento da parte di tutti. Noi avevamo in squadra Maradona: per me ancora oggi il più forte mai esistito al mondo. E avevamo anche tanti altri calciatori forti". Su Diego Armando Maradona: "Giocare con lui è stata una fortuna, credo che tutti avrebbero voluto giocare con Maradona. Per noi era il giocatore plus, quello che in qualsiasi momento ti poteva decidere la partita. Tante volte noi sapevamo di partire 1-0 perché sapevamo che Diego in qualsiasi momento poteva risolverti la partita. Diego umanamente era una persona incredibile, ma non solo con noi che giocavamo in prima squadra. Io sono arrivato a Napoli dal Torino, ho accusato solamente il salto un po' all'inizio per l'ambientamento alla città, Torino era una città tranquilla, a Napoli c'era un ambiente diverso. Maradona è stato uno di quelli che mi ha fatto sentire subito una persona importante. Un aneddoto su Diego? Ce ne sarebbero tanti. Mi viene in mente una volta in cui eravamo in ritiro vicino Vicenza. Lui aveva avuto qualche problema fisico, a un certo punto arrivò col suo Ferrari in ritiro. Noi eravamo in camera, abbiamo sentito un rombo di motori e avevamo capito che stava arrivando Diego. Nel mio periodo poi c'erano Careca e Alemao, nazionali brasiliani, Ferrara e De Napoli, nazionali italiani, c'era un giovane Zola. Facevamo parte di un grande gruppo". Crippa ha vinto anche con il Parma: "Anni stupendi. L'unico rammarico è quello di non aver vinto lo scudetto. Ne avevamo la possibilità. Ma ci scontravamo con la Juventus. Come società sono passato da un ambiente molto caldo a un ambiente più tranquillo. Ho dato sempre il mio grande contributo, ricordo la vittoria in Coppa Uefa e in Supercoppa Europea, con un mio gol nei supplementari". Crippa ha giocato anche in Nazionale: "Ho rimpianti in questo senso. In quel periodo lì sia nel 1990 che nel 1994 ci rimasi molto male per non essere stato convocato per i Mondiali. Nel '90 vincemmo il campionato a Napoli e fui quotato dai giornalisti tra i migliori centrocampisti della stagione. Sarebbe stato un piacere giocare quei Mondiali che si disputavano in Italia. Nel 1994 sicuramente ho pagato il discorso di Sacchi che era il C.T. e in quegli anni lì le battaglie erano tra il mio Napoli e il Milan di Sacchi. Il primo anno a Parma ho disputato un campionato importante e non fui convocato. Per me c'era un po' un'attenzione diversa per i calciatori delle squadre del Nord. Senza accusare nessuno lo dico. Dovevano esserci un gruppo di giocatori della Juve, un gruppo dell'Inter, un gruppo del Milan". Sul campionato in corso: "E' iniziato adesso, sicuramente auguro al Napoli di rivivere i momenti che ho vissuto io. Credo che il Napoli abbia un vantaggio come rosa, il gruppo non è stato stravolto e Spalletti è un allenatore molto importante, che non guarda in faccia a nessuno. La favorita? Difficile da dire, in molte sono partite bene, l'Inter e il Milan sono molto forti, ma siamo solo all'inizio. La Juve sembra in difficoltà ma ha una rosa importante. E poi attenzione alle sorprese. La Roma di Muorinho è una squadra ottima, e ha un allenatore che sa come si vince. Sarri? Mi piace molto come allenatore, è arrivato adesso, gli dobbiamo dare un po' di tempo per ambientarsi e far capire ai calciatori quello che vuole. Le critiche che riceve Immobile quando gioca in Nazionale? Sono esasperate. Non ci sono attaccanti in Italia superiori ad Immobile. Bisogna tenerselo stretto, i suoi gol li ha fatti anche in Nazionale, è stato prezioso all'Europeo, ha sempre lavorato in un modo importante per fare vincere gli Europei alla squadra".

Fabio Cannavaro. Monica Scozzafava per corriere.it il 29 settembre 2021. Pallone d’oro e campione del mondo, 15 anni fa. Ma il tempo per Fabio Cannavaro sembra non sia passato. Perché il sorriso aperto che incantò il mondo intero e lo sguardo furbo che conserva dai tempi in cui, ragazzino, giocava a calcio nelle strade vicine allo stadio, nei pressi della Loggetta dove è nato, restano immutati. Una stimmate per l’ex difensore della Nazionale che dopo cinque anni lascia la Cina. Ha rescisso il contratto che lo legava al Guangzhou. E chiarisce: «La crisi economica del club non c’entra nulla». L’ex capitano della Nazionale italiana ha cancellato il viaggio di ritorno previsto dopo aver accettato la rescissione consensuale del suo contratto con il club orientale. Il pallone d’Oro chiarisce subito: «Non c’entra la crisi economica, piuttosto non me la sono più sentita di affrontare quarantene e isolamenti. Il Covid ha influito molto nella mia scelta così come l’isolamento dalla mia famiglia. Ne ho affrontate già di quarantene e lì devi stare quindici giorni chiuso in hotel e poi sette giorni senza poter uscire di casa comunicando ogni giorno la temperatura. Il Covid in Cina è vissuto in maniera molto rigida, non ho più retto. La Cina era diventata la mia prigione. Ho visto pochissimo i miei figli negli ultimi cinque anni, la mia famiglia non poteva venire con me. La scelta è stata dettata da questo. Ora sono tornato a Napoli e mi piacerebbe continuare a fare l’allenatore, mettendo a frutto proprio i cinque anni di esperienza in Cina».

Pronto ad allenare

L’ex difensore della nazionale italiana sembra perfettamente a suo agio sotto il sole della sua città d’origine, il panorama mozzafiato è energia e riconciliazione con gli affetti veri. É tornato a Napoli, la sua squadra è prima in classifica.  Panchina peraltro già occupata. «Non scherziamo - ha aggiunto - . Allenare il Napoli è il mio sogno ma adesso c’è un allenatore che la sta facendo volare questa squadra. Spalletti è bravo, tira fuori il meglio dai giocatori e sa mantenere i rapporti con il club. Lo conosco e qualche anno fa andai a studiarlo anche alla Roma. Il Napoli è in ottime mani. E, allora, Cannavaro aspetta una chiamata. «Siamo tanti allenatori, nessuno può permettersi di rifiutare quando arriva una chiamata. Non stiamo troppo a girarci intorno, andrei ad allenare anche i giovani. Perchè questo è il mestiere che mi piace e quando c’è un progetto si può allenare a tutti i livelli».

Il Napoli di Spalletti

Su Osimhen: «Con me non avrebbe toccato palla». Scherza ma fino a un certo punto. L’ex difensore azzurro spiega come sono cambiati in meccanismi della difesa. «Oggi c’è maggiore cura nella ricercatezza, trascurando la vera arma del difensore. É una questione di attenzione. Osimhen comunque è un giocatore formidabile, sono sicuro che si affermerà tra i migliori bomber d’Europa». Il Napoli primo in classifica ha riportato in città il sogno scudetto. «Può farcela, questo è un campionato che non ha padroni e ci sono sei squadre che hanno i requisiti. Crediamoci, ma bisognerà capire come incideranno le prime difficoltà o anche gli episodi negativi che nel corso di una stagione ci sono. la coppa d’Africa toglierà qualcosa». Infine, Lorenzo Insigne, napoletano proprio come Cannavaro. «So che vuol dire essere figlio di questa città, ogni volta che si entra in campo la responsabilità è enorme. Lorenzo deve restare qui, oggi è un uomo maturo. La vittoria dell’Europeo gli ha inevitabilmente regalato maggiore fiducia e consapevolezza».

Cannavaro: «La Cina mi ha cambiato ma mi sentivo solo: sei quarantene in due anni». Monica Scozzafava su Il Corriere della Sera il 30 settembre 2021. Il sorriso di Fabio Cannavaro è aperto, rassicurante. Non ostenta, è realmente felice. Guarda il mare della sua città, Napoli, e sembra abbia voglia di riconciliarsi con un mondo che per troppi anni, quasi sei, non gli è appartenuto. La Cina non è stata soltanto una parentesi, ma un’altra vita. Una cultura nuova. Un mondo che gli ha aperto orizzonti, ma che poi in fondo in fondo non ha mai sentito proprio. Alla fine, ha scelto. Ed è tornato a casa. Non ci tiene a fare la parte del figliol prodigo al quale vanno riaperte le porte con benevolenza: l’ex difensore della Nazionale e Pallone d’oro 2006 ricomincia da capo. Con un bagaglio importante. Calcistico, sicuramente. Ma anche di vita. «Sono cambiato, come uomo e come allenatore».

Mondiali 2006, Italia in trionfo. Che cosa fanno oggi i campioni? Quasi tutti allenano, ma hanno vinto pochissimo. Cannavaro, ci racconti la sua Cina. 

«Un Paese che mi ha aperto la mente, dopo altre esperienze che avevo fatto all’estero. Soprattutto sono cambiato io nel frattempo. L’esperienza ti aiuta a crescere, a vivere intensamente in un luogo diverso, a trarne insegnamento. E a capire anche che nella vita, a un certo punto, esistono delle priorità. Facile sacrificare la famiglia quando hai la certezza che tutto sommato puoi vederla di tanto in tanto ma poi la pandemia ha cambiato tutto. Ci sono stati momenti in cui gli affetti mi sono mancati in maniera asfissiante. E questo soprattutto negli ultimi due anni: il Covid ci ha insegnato delle cose e mi ha indotto a una riflessione».

Ma come l’ha vissuta ante-Covid? 

«Benissimo, ho conosciuto un popolo incredibile: attivo, professionale. Attento a ogni dettaglio. Ho visto città dove tutto è gigante, pensato in scala. Da appassionato di sport, all’inizio ho strabuzzato gli occhi davanti agli enormi impianti, ai palazzetti. Altro esempio: sciare in Cina è fantastico. E si scia anche al coperto. Ho imparato ad apprezzare la loro cucina, non solo quella cosiddetta turistica. Ho perfezionato il mio inglese. Certo, il clima non è il massimo. Ho provato un freddo che al ricordo mi dà ancora brividi. Esperienza forte che mi ha dato tanto. Sono stato bene, ma la terza quarantena non l’avrei sopportata».

Cosa l’ha convinta a tornare definitivamente a casa? 

«Sei bolle in due anni, la più lunga di 72 giorni. Quella più corta è durata un mese. Lunghi periodi, in cui all’inizio provi ad adattarti, comprendi che è l’unico sistema per fronteggiare la pandemia. Poi però sei da solo, lavori e basta. Che va anche bene, ma ho perso troppe cose, non ho seguito la crescita dei miei figli. Li ho visti due volte. Natale senza gli affetti, un banale compleanno in videochiamata compatibilmente con il fuso orario. È diventato pesante, troppo. E quindi un mese fa ho comunicato alla società, il Guangzhou, che non sarei rientrato. Mi hanno chiesto di aspettare, ripensarci. Anche lo scorso anno avevo chiesto di risolvere il contratto».

Il club vive, come tanti altri, una crisi economica significativa. Tanti giocatori sono andati via. Ha influito? 

«Al Guangzhou ho lasciato 15 mesi di stipendio. I soldi non sono mai stati un problema, ci pagavano sempre in maniera puntuale. Purtroppo la sensazione di vivere in una prigione, sia pur dorata, ha fatto la differenza. Non era più tollerabile. Adesso per rientrare sarei dovuto stare quindici giorni in albergo da solo, poi sette a casa senza poter uscire e comunicando la temperatura tutti i giorni. Con la prospettiva di non poter vedere più la mia famiglia per chissà quanto altro tempo. Ho un rammarico, però».

Quale? 

«Non ho salutato i giocatori. Ho lasciato una squadra che quest’anno poteva avere ambizioni. Il bilancio è comunque positivo: volevo vincere la Champions asiatica e siamo arrivati in semifinale».

Ci tornerà? 

«Chissà, ma è una esperienza che porterò sempre dentro di me, personale e professionale».

E adesso? 

«Voglio allenare, mettere a frutto l’esperienza fatta».

Ma a Napoli la panchina è occupata.

«E anche bene perché Spalletti sta andando alla grande. Però sognare non fa male».

E si avvia in fretta verso il gate dell’aeroporto, prossima tappa Londra.

Antonio Cabrini. Dagospia il 18 febbraio 2021. Estratto del libro di Antonio Cabrini pubblicato da "la Stampa". Tra me e Paolo è nato un grande rapporto d'amicizia anche fuori dal campo. Tra Rossi e la Juventus, invece, il rapporto è stato tormentato, ma sicuramente sincero. Lui è uno dei figli della Vecchia Signora, essendo cresciuto nel settore giovanile bianconero. Poi, la diaspora. Ha dovuto sudare per indossare la maglia della prima squadra, farsi le ossa a Como, Vicenza (soprattutto) e Perugia. Ritorna alla Juventus nel 1981, in piena squalifica per il calcioscommesse. E pazienza se Paolo era un giocatore di altissimo livello, già nel giro della Nazionale in cui, tra l'altro, abbiamo esordito insieme nel 1978, chiamati a sorpresa da Bearzot (io ero al termine della mia prima "vera" stagione alla Juventus dopo un anno di apprendistato passato per lo più in panchina) per partecipare ai Mondiali argentini. Il Mister, nella lista dei 23, aveva ancora delle caselle da riempire. Un mese prima della convocazione la federazione aveva organizzato un'amichevole a Verona con una squadra sperimentale. È una carta che si usa anche oggi quando il commissario tecnico vuole testare nomi nuovi. Dopo il match, Bearzot si avvicina a me. «Non dire niente a nessuno, ma ti porto in Sudamerica» mi comunica. Le stesse parole le dice anche a Paolo. Entrambi rimaniamo muti come pesci, e al momento della presentazione dell'elenco i nomi "Cabrini" e "Rossi" compaiono come per magia. La cosa stupefacente è che poi quella Coppa del Mondo la viviamo da protagonisti, visto che siamo titolari. E proprio lì inizia l'amicizia tra me e Paolo: in Nazionale siamo inseparabili, condividiamo la stessa camera. Un'amicizia preceduta qualche anno prima da un preambolo, ai tempi in cui lui era nelle giovanili della Juve e io in quelle della Cremonese: ci incrociammo nella finale del Trofeo Albertoni, quello che vinsero i miei Grigiorossi dopo i calci di rigore. Ricordo quel ragazzo mingherlino che aveva lottato come un leone per arrivare lì, combattendo contro alcuni disturbi accusati nella fase della crescita: aveva problemi alle articolazioni ed era stato operato ai menischi in tenera età. Eppure, eccolo. Alla Juventus, dicevamo, arriva nell'estate del 1981. Mancano ancora parecchi mesi al termine della squalifica, ma lui si allena come se dovesse giocare ogni domenica, fin dal precampionato a Villar Perosa. In cuor suo sa che Bearzot lo vuole per i Mondiali che si giocheranno l'anno successivo. E il Mister lo porta in Spagna nonostante Paolo abbia giocato solo 3 o 4 partite con la Juventus una volta terminato lo stop. Una scelta impopolarissima, che contribuisce a metterci contro la stampa. Una scelta che però alla fine ha pagato, perché Bearzot se ne fregava altamente di quello che scrivevano i giornali. A noi ripeteva: «Pensate a giocare, al resto ci penso io». Paolo, nelle prime tre partite, non tocca un pallone. Poi, si trasforma. Gol a raffica: capocannoniere della Coppa del Mondo e, a fine anno, Pallone d'Oro. I tre gol al Brasile sono stati un capolavoro. Per tanti motivi. Il principale è che i Verdeoro erano considerati da tutti come favoriti per il trionfo finale. Secondo me quello è stato il Brasile più forte della storia, più forte addirittura di quello con Pelé e Garrincha. Era zeppo di stelle, tra cui Socrates, Zico, Cerezo, che sarebbero arrivati presto in Italia, mentre Falcao faceva già parte della Roma. Quella vittoria fu la svolta, soprattutto a livello mentale, suo e di tutta la squadra. Da quel momento, anche se buttavi la palla a casaccio nell'area avversaria, la prendeva sempre Rossi. Una calamita... E anche un portasfiga. Prima del rigore che sbagliai in finale con la Germania, si era avvicinato chiedendomi se me la sentissi. Se sono qui è ovvio che me la sento! Nella richiesta c'era dell'altro, perché, nel caso mi fossi rifiutato, sarebbe toccato a lui, che stava lottando per il titolo di capocannoniere... Fuori dal campo era una macchietta. Mi faceva da receptionist. Capitava che squillasse il telefono in camera, quando eravamo in ritiro, in linea delle ragazze che mi cercavano. «No, Antonio non c'è, ma ci sono io» era la sua risposta classica. Che sagoma.

Dagospia il 10 marzo 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Antonio Cabrini è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. Il campione del mondo con l'Italia del 1982 ha parlato un po' di se e dei giocatori più forti con cui ha giocato: "Il mio rapporto con la notte? Dipende dai momenti. Ci sono state partite che mi agitavano più di altre, quindi magari dormivo meno, ma sono sempre stato tranquillo, sono sempre riuscito a riposare bene". E' uscito da poco il libro di Cabrini, "Ti racconto i campioni della Juventus": "Più difficile scegliere i campioni che scrivere il libro. E' un libro che va bene per tutte le età, è fumettato, divertente, semplice da leggere, più difficile è stato scegliere le cinquanta figure che hanno fatto grande la squadra bianconera. Ho dovuto lasciare fuori qualcuno, ma è venuto fuori un buon libro. Il podio? Preferisco sceglierne cinque. Platini, Scirea, Del Piero, Buffon, Roberto Baggio".

Sul mondiale del 1982: "Se c'è qualcosa che ancora non è stato detto? Sicuramente non ci si stanca mai di parlarne. Quando vinci un mondiale, quando vedi l'entusiasmo della gente che ricorda ancora quell'anno meraviglioso, ti fa piacere ricordarlo. Bearzot e il ritiro? Il mister era un grande tecnico ma ancora di più un grande papà, un grande condottiero, che ha messo il gruppo davanti a tutti quando c'erano problemi con la stampa".

Su Paolo Rossi: "Io e Paolo Rossi abbiamo diviso dieci anni di camera in nazionale, lo conosco come le mie tasche, era una persona e un ragazzo meraviglioso, sempre col sorriso pronto, sempre pronto a scherzare, a sdrammatizzare, sia fuori dal campo che in campo, era una grande persona, un grande amico. Una notte particolare che mi ricordo in ritiro con lui? Quelle del mondiale quando entravano in camera nostra prima Tardelli, che dormiva pochissimo, e poi arrivava Bearzot che prima voleva mandare tutti a letto ma poi rimaneva con noi fino a notte fonda per parlare di calcio".

Cabrini è stato il fidanzato d'Italia: "Inizialmente non mi piaceva, la cosa andava a scontrarsi col mio modo di vivere il mio mondo, quello dello sport e del pallone, poi col passare del tempo ho dovuto farci l'abitudine e l'ho cavalcato, non potevi sempre prendertela perché ti soprannominavano in un modo o in un altro. Una volta, eravamo credo a Campobasso o a Benevento, è arrivato il pullman davanti all'hotel, c'era tantissima gente che ci aspettava, ci tiravano da una parte e dell'altra, arrivai nella hall dell'albergo con la camicia tutta strappata e con un sacco di catenine lanciate verso di me. Presumo fossero state ragazze. Io comunque sono rimasto sempre con i piedi per terra, grazie ad una educazione familiare importante, che mi ha permesso di tenere la testa sulle spalle".

Sul calcio senza tifosi: "Sta perdendo molto, è un periodo molto particolare, è vero che le partite si svolgono in maniera regolare, ma il tifo è una componente fondamentale per le partite di calcio".

Sull'omosessualità nel mondo del calcio: "Sicuramente ci sono delle situazioni normalissime di omosessualità anche nel mondo del calcio. Se ne parla poco non perché il calciatore o la squadra non siano pronti, ma perché forse i tifosi ancora non lo sono. Sicuramente delle situazioni esistono, ma se ne parla poco perché la gente che va a vedere il calcio forse non è ancora pronta. Dobbiamo ancora crescere a livello culturale".

Sul sesso prima delle partite: "Sono situazioni che si contano sul palmo di una mano in tanti anni. Può succedere, ma per quello che mi riguarda, quello che ho visto, non c'è questo rapporto spasmodico tra l'atleta prima della gara e il sesso. L'allenatore più attento? Direi Trapattoni. Non era uno che ti bacchettava, ma era uno molto attento, non ti permetteva mai di rilassarti, era un martello che ti metteva sempre davanti la realtà della partita successiva".

Vujadin Boskov. Gianni Mura per La Repubblica – 28-04-2014. Vero, un bel pranzo in una villa sul mare, a Pieve Ligure, e voi due che vi abbracciavate con gli occhi. «Yelena è giornalista molto famosa in Jugoslavia », dicevi, e raccontavi che una laurea l'avevi presa anche tu (storia o geografia, non ricordo). La faccia che ti si illuminava parlando di Novi Sad: «La città più bella del mondo: ungheresi, slovacchi, serbi, croati, ebrei, tutti insieme uniti dalla forza delle differenze. Porqué l'uomo è scambio y adaptamento». La finale olimpica persa nel '52 contro l'Ungheria di Puskas, in campo in due mondiali. Brera mi disse che Boskov era uno dei centrocampisti più forti che avesse mai visto. Sorriso compiaciuto: «A Novi Sad mi chiamavano il piccolo Boszik, pero io per mia squadra ero come Rivera». D'altra parte, se non sei bravo non ti chiamano a 22 anni per giocare col resto d'Europa contro l'Inghilterra (un memorabile 4-4). «Come iocatore a Sampdoria ho rubato stipendio, come allenatore no». Smise di giocare allo Young Boys. «Pallone va più veloce di miei piedi, stop». Lo chiamavano zingaro, brutta abitudine verso chi è nato dall'altra parte dell'Adriatico. Non si offendeva. «Se vuole dire giramondo mi va bene, se vuole dire vagabondo non va bene. Ma non mi dà fastidio, solo perdere mi dà fastidio». Allenatore in Spagna, in Olanda, in Jugoslavia (anche la Nazionale). Squadre grandi e squadre piccole: Real Madrid e Gijòn, Feyenoord e Den Haag. Teneva conferenze al Supercorso di Coverciano. Fu Allodi a portarlo in Italia (dal Real Madrid) dicendogli che lo voleva la Juve, però per una stagione l'avrebbero parcheggiato ad Ascoli. Bene, disse zio Vuja. Al termine della stagione Allodi gli disse: la Juve ci ha ripensato, ma ci sarebbe la Samp. Bene, disse zio Vuja. E costruì, d'intesa col presidente Paolo Mantovani, la Samp dello scudetto, che non era solo Vialli e Mancini ma anche Vierchowood e Mannini, Pari e Katanec, Cerezo e Lombardo. Era un gruppo molto unito, che faceva pure la formazione, disse qualcuno. Boskov ci rideva su: «Noi squadra democratica, tutti possono parlare, poi decido io. Allenatore io vedo come maestro di scuola, mai come dictatore, o poeta, o fratello. Allenatore deve avere intelligenza fredda, una volta picchiavi pugno su tavolo e iocatori tutti zitti, adesso no. In Italia perde solo allenatore e solo iocatori vincono. Se Mancini sbaglia rigore è colpa mia che dovevo farlo tirare a Vialli, e viceversa. In Germania, in Inghilterra, se iocatore sbaglia rigore è colpa sua». La colpa, una specie di fissazione. «Di chi colpa? Di Pagliuca?», altro suo tormentone. Non gli piaceva la zona. «Fatta solo una volta, al Real. Annulla responsabilità personale, prendi gol e non sai di chi è colpa. E non è vero che la zona crea spettacolo. Se una squadra di brocchi gioca a zona, che spettacolo è? Lo spettacolo lo fanno grandi iocatori: Maradona, Vialli, Van Basten. E Samp spesso fa spettacolo e non ioca a zona». Non gli piaceva Savicevic: «Con pallone tra piedi è Sivori, appena lo perde diventa spettatore non pagante». Fu Boskov a lanciare Totti in serie A, a Brescia. Fu lui a consegnare a Mihajlovic il ruolo di libero e a dire «con Sinisa pallone ha occhi». Non aveva paura a parlare dei suoi: «Qui tutto dipende da movimenti di Vialli. Non è perfetto, di testa può migliorare, ma mi piace tanto. Mancini tecnicamente è più forte, ma su ogni pallone che gli arriva vuole fare capolavoro. Vede bene ioco, ma è capriccioso. Sono tutti bravi ragazzi, a tavola mettiamo quattro bottiglie di vino e due restano piene». Pieno era lo stadio di Wembley, più di 70mila persone, la metà doriani, per la finalissima di Coppa Campioni. Alla vigilia era filtrata la voce (rivelatasi esatta) di un passaggio di Vialli alla Juve. La Samp se la giocò alla pari col Barça di Crujiff, ma Vialli non c'era con la testa e sbagliò due gol facili, davanti a Zubizarreta. E nei supplementari, quando già si pensava ai rigori, segnò Koeman su punizione. E non per colpa di Pagliuca, ma di una barriera che s'era mossa troppo presto. Sarebbe stato il capolavoro di zio Vuja, ma le migliaia di messaggi web dicono che, anche così, tanti gli hanno voluto bene.

Fiorenzo Radogna per corriere.it il 20 maggio 2021.

Ironico e vincente: un’icona indimenticabile. Icona di una serie A indimenticabile, punto di riferimento – a cavallo fra gli anni 80 e ‘90 – per ogni fuoriclasse internazionale. Questo era Vujadin Boskov da Begec, calciatore e (soprattutto) allenatore morto nel 2014 che il 16 maggio avrebbe compiuto 90 anni. Serbo-jugoslavo dal motto fendente, istrionico e furbissimo, ambizioso e disposto a rimettersi sempre in gioco nel segno di quel calcio che lo rese ricco (anche di successi) e personaggio mediatico al contempo. Ironico. Di quelli che con mezza frase, riassumevano una partita, un giocatore, un modello di pensiero. Profeta di una Sampdoria sul tetto d’Europa e, prima e dopo, di altre personali parabole professionali. Dal Real Madrid all’Ascoli; dal Napoli post Maradona alla Roma post Viola. Fedele al proprio istinto di nomade di lusso; innamorato dell’Italia come l’attore più navigato del palcoscenico più prestigioso. Quando il calcio è anche commedia dell’arte, di vincere e convincere. Tanti attimi da riassumere; uno per ogni sua frase spiazzante...

Un calciatore «danubiano». Nato nella Vojvodina (nord della Serbia, allora Jugoslavia), già a 15 anni si mise in viaggio per Novi Sad. Fosforo e piedi buoni, mediano di rottura, ma anche regista e organizzatore di gioco, s’ispirava alla grande scuola danubiano-ungherese. Restò al Vojovodina Novi Sad per dieci stagioni senza vincere nulla, ma raccogliendo presenze nella fortissima nazionale di Tito: alla fine saranno 57 dal 1951 al 1957 con l’argento all’Olimpiade di Helsinki 52. A 30 anni sbarcò in Italia, alla Sampdoria, ma con Monzeglio allenatore non s’impose a causa di vecchi e nuovi infortuni (13 gare, 1 gol). Chiuse allo Youg Fellows Zurigo e cominciò subito ad allenare. Solo all’inizio senza grande convinzione: «Gli allenatori sono come le gonne: un anno vanno di moda le mini, l’anno dopo le metti nell’armadio» riassumerà quell’incertezza solo a «successo acquisito».

Sei anni d’oro con la Samp. Lo citi a un tifoso doriano e non potranno non luccicargli gli occhi. Con quelli di Vialli e Mancini è il terzo nome legato a una vera epopea calcistica. Alla Samp Boskov resterà sei annate (dal 1986 al 1992), vincendo quasi tutto — uno scudetto (91), due Coppe Italia, una Coppa delle coppe (90) — e arrivando alla finale della Champions (1992). Pagliuca in porta, Vierchwood, Pari, Salsano, Dossena, Cerezo e tanti altri grandi giocatori fanno da base per le punte di diamante: Vialli e Mancini. Il Doria gioca bene e vince. In Italia e in Europa. L’apogeo nel maggio 92 al vecchio Wembley per la finale di Champions con il Barcellona: la Samp domina e sfiora il gol due, tre volte. Poi risolve Koeman con una sassata da 20 metri. È la prima volta del Barça; l’ultima finale europea per la Samp. «Dieta? Non ho bisogno di fare dieta. Ogni volta che entro a Marassi perdo tre chili». Amore vero.

l derby, Perdomo e il cane. I Derby col Genoa (e con Perdomo) Anni doriani, anni di derby. Affascinanti, combattuti, ironici e crudeli. Uno dei primi, 1989: nel Genoa «uruguagio» giocano il discreto puntero Ruben Paz, il forte attaccante Aguilera e il macchinoso libero Perdomo. Tre nazionali. Vuja scivola con la lingua: «Se sciolgo mio cane in giardino lui gioca meglio di Perdomo». E la paga cara: 27 milioni di lire (14mila euro al cambio attuale). 10 di multa dal Doria, 17 per la denuncia.

Gullit «cervo che esce di foresta». Tantissimi i campioni gestiti, affrontati e giudicati. Su Maradona: «Nessun paragone. Era il cuore di Napoli». Su Gullit: «Lui sembrava cervo che esce da foresta», dice dopo aver perso una sfida contro il Milan olandese di Sacchi. Quindi sui giocatori meno efficaci: «Benny Carbone (mezzapunta del suo Napoli, ndr) con sue finte disorienta avversari ma pure compagni». E ancora sul suo storico cursore di fascia, di nome Attilio: «Lombardo è come Pendolino che esce dalla galleria». D’altra parte, secondo Boskov: «Un grande giocatore vede autostrade dove altri solo sentieri». Difficile trovarne spesso. Finita la lunga parentesi doriana, per lui un’anonima stagione alla Roma (92-93). Un decimo posto mediocre, dove però...

«Rigore è quando arbitro fischia». A beneficio dei giornalisti. Restano storiche alcune sue frasi ad effetto. Coi quali giornalisti e tifosi vanno a nozze da sempre. «Rigore è quando arbitro fischia» è quella più cavalcata anche oggi (in tempi di Var e polemiche inerenti); ma pure «Meglio perdere una partita 6-0 che sei partite 1-0». Perifrasi iperboliche che stemperano, calmano e ridimensionano un mondo del calcio troppo elettrico. Ieri come oggi. A un giornalista che gli parlava di rischio serie B per il suo Napoli: «Io penso che tua testa buona solo per tenere cappello». D’altra parte «Pallone entra quando Dio vuole». Sì, a Napoli fra il 1994 e il 1996 (dopo un anno sabbatico) un settimo posto e un dodicesimo. Il massimo che si può fare con un club in declino.

Marcello Lippi. Antonello Piroso per la Verità l'1 maggio 2021. «Purché non si parli della Juventus». Non lo si scambi per reticenza, omertà o, per dirla con eleganza, «paraculismo», questo voluto silenzio di Marcello Lippi - che può vantare un palmares unico: ha vinto tutto quello che si poteva sia come allenatore di squadre di club, in Italia, in Europa e in Cina, sia come ct della nazionale italiana, con i mondiali del 2006 - sulla stagione «particolare» (l'aggettivo è l'unica concessione sul tema) dei bianconeri. Lippi ne fa esclusivamente una questione di buongusto: «La Juve è stata casa mia per 8 anni, ma proprio per questo - per eleganza e stile - non mi pare sia il caso di dire alcunché».

Lippi, quanto le manca il calcio visto dalla panchina, finita nel settembre 2019 l'esperienza in Cina, anche lì come allenatore di club e della nazionale?

«Mi manca quando lo guardo in tv, perché scatta il riflesso condizionato, e mi ritrovo a dirmi: io farei così, adesso farei un cambio, mi appunto delle riflessioni, mi segno dei nomi. Ma, in tutta onestà, a 73 anni compiuti lo scorso 12 aprile, oggi di andare sul campo a lavorare non avrei più voglia. Quello che dovevo fare l'ho fatto».

Giovedì sera c' è stato lo psicodramma della Roma contro il Manchester United.

«Le partite da sempre cominciano in un modo, si svolgono in un altro, finiscono in un altro ancora. La Roma è stata molto sfortunata: ha giocato un primo tempo di livello, concedendo poco agli avversari, e ritrovandosi in vantaggio. Dopo di che, caso senza precedenti, in meno di 40 minuti ha dovuto operare tre sostituzioni per infortuni, avendo già gli uomini contati. Così, l'errore potrebbe essere stato giocare il secondo tempo come il primo: cioè molto "alti", esponendosi però al rischio di lasciare spazi al Manchester per infilzarti in modo più pesante di quanto meritassi».

Al posto di Paulo Fonseca potrebbe arrivare Maurizio Sarri.

«Ho letto. Guardi, Fonseca come allenatore mi è piaciuto, credo abbia fatto del suo meglio e se andrà via potrà di dire di farlo con la coscienza a posto, avendo scontato diversi problemi e infortuni. Sarri è garanzia di qualità di gioco e qualità di lavoro. Con la Juve ha comunque vinto uno scudetto, a Napoli ha fatto quello che sappiamo. Mi pare abbia le carte in regola per affrontare la sfida del rilancio».

Sfida che in altre epoche avrebbe accettato anche lei, o ricordo male?

«Assolutamente sì. Del resto, mio nipote è nato a Roma, è romanista, e conserviamo ancora il gagliardetto che gli dedicarono quando è nato: "Ar maggico Lorenzo nato nel maggico 2001 l'anno del maggico scudetto da 'a maggica Roma". Sì, mi sarebbe piaciuto allenarli, i giallorossi. Peccato».

Quando ha sentito che le magnifiche 12 del calcio europeo (ma senza le tedesche e le francesi) volevano dar vita alla Superlega qual è stata la sua reazione?

«La stessa di tutti gli sportivi, italiani e non, addetti ai lavori e non: sommo fastidio, per non dire ripulsa. Poi, riflettendoci, ho messo a fuoco una circostanza: a parte due o tre, la più parte dei proprietari dei 12 club promotori, sono arabi russi, americani, cinesi, non del tutto consci di come viviamo carnalmente il calcio, la nostra viscerale cultura sportiva, quindi non potevano immaginare le barricate dei tifosi. Loro sono imprenditori e finanzieri, che per avere un calcio stellare sono andati in rosso, e hanno ragionato su come riuscire a rientrare da quei debiti mantenendo il livello spettacolare delle sfide. Perciò, dal loro punto di vista, il progetto aveva un senso. Per noi invece la differenza c'era, eccome: le competizioni non sarebbero state più le stesse. Per fortuna hanno fatto dietrofront».

L' Inter di Antonio Conte ha più di metà scudetto già cucito sul petto. Bravissimi i nerazzurri, o c' è anche la complicità del demerito di qualche avversario?

«I nerazzurri vincono per meriti loro. Dopo di che, certo, il Milan ha fatto più della metà della stagione ad altissimi livelli. Solo che a un certo punto l'Inter non ha più avuto distrazioni, si è ritrovata fuori dall' Europa ma anche dalla coppa Italia, potendo così concentrarsi sull' obiettivo scudetto, facendo registrare un miglioramento costante che l'ha portata ad essere indubbiamente la squadra più forte che c' è. Per dirla tutta: se anche le avversarie fossero state migliori, con la crescita degli ultimi quattro mesi mostrata dall' Inter, comunque non ci sarebbe stata partita».

In passato era contrario al Var. Ha cambiato idea?

«Sì. Si è rivelato uno strumento decisivo per fare chiarezza su tantissimi episodi che hanno portato a una maggiore giustizia sul campo».

Gli azzurri allenati da Roberto Mancini sembrano aver acquisito consapevolezza dei propri mezzi.

«La Nazionale di Mancini è una delle cose più belle nel calcio degli ultimi due anni. Schemi, spirito di squadra, senso di appartenenza, entusiasmo, e per di più in un momento in cui in campionato il 70% dei giocatori non è italiano (quando il ct ero io la proporzione era esattamente l'inverso). Mancini è stato bravo perché ha individuato e convocato giocatori ancora prima che esordissero in serie A, tipo Nicolò Zaniolo, veicolando così un messaggio alle società: fateli giocare i giovani, perché sono forti, perché sono bravi».

So che la domanda sull' erede di Lippi le provoca l'orticaria, e conosco la sua stima incondizionata per Carlo Ancelotti, ma chiudendo non posso non chiederle se ci sono stati, in questo campionato, allenatori che l'hanno colpita favorevolmente.

«Le farò tre nomi. Roberto De Zerbi del Sassuolo: inizialmente aveva atteggiamenti che non mi piacevano, adesso è cresciuto e maturato, anche perché quando una squadra gioca bene indipendentemente dalle singole individualità che schieri, vuol dire che la mano dell'allenatore ha il suo peso e fa la differenza. Ivan Juric, che è una conferma. E poi Vincenzo Italiano, dello Spezia, squadra arrivata dalla B che ha portato a casa risultati importanti con un bel gioco propositivo, sempre in avanti. Certo, se la dovrà ancora giocare per mettere in sicurezza la permanenza in A, ma intanto: chapeau!».

Rino Gattuso. Da ilnapolista.it il 18 giugno 2021. Non sarà Rino Gattuso il prossimo allenatore del Tottenham. Lo scrive The Athletic. La notte ha portato consiglio al board dell’elegante club di Londra. Decisive le proteste dei tifosi che – come vi abbiamo raccontato sul Napolista – da ieri pomeriggio hanno sommerso di critiche la scelta di Gattuso. Sia per la lite con Jordan durante un Milan-Tottenham sia per le sue frasi ambigue su sessismo e razzismo. Lo scrive il quotidiano on line The Athletic. La lunga ricerca di un nuovo manager del Tottenham continuerà dopo che il club del nord di Londra ha deciso di non ingaggiare Gennaro Gattuso. L’italiano era emerso come una potenziale opzione per gli Spurs ieri dopo lo stop alla trattativa con Fonseca. Cos’è successo? C’è stata una reazione molto forte da parte dei fan degli Spurs dopo le notizie su Gattuso in pole position. Hanno rilanciato su Twitter vecchi commenti presumibilmente fatti dall’ex centrocampista dell’Italia sul ruolo delle donne nel calcio, sul matrimonio omosessuale e sul razzismo. Sono stati più volte condivisi dai sostenitori del Tottenham sui social media, accompagnati dall’hashtag #NoToGattuso, che è stato di tendenza nel Regno Unito la scorsa notte.

Da lastampa.it il 18 giugno 2021. La prospettiva che Gennaro Gattuso possa diventare il tecnico del Totthenham ha sollevato proteste tra i fan, che hanno lanciato su Twitter una campagna contro l'arrivo dell'ex tecnico del Napoli attraverso l'hashtag #NoToGattuso. L'ostilità verso Gattuso - riportano i media inglesi - riguarda alcune affermazioni controverse che l'ex centrocampista azzurro aveva fatto su argomenti come il matrimonio tra persone dello stesso sesso - ma riferendosi ai matrimoni in chiesa - e le donne nel calcio. La protesta è stata comunicata al club dal Tottenham Hotspur Supporter Trust, il sodalizio che riunisce i club dei tifosi degli Spurs. Dopo il 'congelamento' delle trattative con Paulo Fonseca erano iniziate a circolare le voci su un interessamento del club inglese per Gattuso, ma dalla società non sono mai giunte conferme né smentite. Altri nomi accostati agli Spurs sono quelli di Antonio Conte e di un ritorno di Mauricio Pochettino.

Ugo Trani per "il Messaggero" il 19 luglio 2021. Ringhio libero. Disoccupato senza volerlo. «Ma anche senza la smania di cercare una sistemazione a qualsiasi costo». Rino Gattuso, 43 anni, risponde al telefono da Marbella. È in vacanza forzata con la moglie Monica. Avrebbe dovuto allenare in Italia, magari in campo da qualche giorno a Moena con la Fiorentina: risoluzione consensuale del contratto, invece, per diversità di vedute con il presidente Rocco Commisso. O in Premier, dopo la chiamata di Fabio Paratici al Tottenham: scaricato, però, sul più bello per la protesta dei tifosi degli Spurs che lo hanno etichettato incredibilmente razzista e sessista. Adesso si ritrova spettatore come altri che fanno il suo mestiere e con lo sguardo rivolto soprattutto alla nostra serie A, campionato di cui prova a scoprire per Il Messaggero novità, ambizioni e segreti. Il calcio è ripartito. 

Le squadre sono in ritiro. Gattuso, invece, è al mare. Strano, no?

«Aspetto di ricominciare, anche se non so quando. Intanto studio, mi aggiorno. Vediamo poi quale chance si presenta. Sono pronto, se capiterà, per una nazionale, anche se a me piace di più il lavoro quotidiano». 

Lasciato il Napoli, ha detto sì alla Fiorentina. Poi che cosa è successo?

«Meglio lasciar stare, se n'è parlato anche troppo. Inutile aggiungere altri particolari. Storia finita. Aperta è invece l'altra. Non riesco a dimenticare». 

 Il Tottenham che ha rinunciato a prendere Gattuso per quelle accuse senza senso della tifoseria. Come è andata?

«La delusione è stata grande. Mi hanno descritto in modo diverso da quello che sono. E non c'è stato niente da fare. Il mio dispiacere è di non aver avuto la possibilità di difendermi. Di spiegare che quello raccontato dalla gente in Inghilterra non ero io. Ho dovuto accettare una storia che mi ha fatto male più di qualsiasi sconfitta o esonero. Ed è accaduta in un momento in cui nessuno vuole prendere atto della pericolosità del web».

Può spiegare?

«Certe cattiverie vengono da Facebook e Twitter dove è possibile dar forza a qualsiasi falsità. Io non ho alcun profilo. E non li voglio avere. Nemmeno Monica li ha. Perché mi dovrei fare insultare per qualsiasi cosa? Non ho nemmeno Instagram. Non capisco, se bevo una bottiglia di vino, quale sia il motivo di scattare una foto per farlo sapere ad altri. Sono fatti miei. Lo sanno anche Gabriela e Francesco». 

I suoi figli sono sui social?

«Sì. Io ho 43 anni e considero da sempre sacra la vita privata. La grande ha 17 anni, non sono certo io a impedirgli di essere su Facebook, Twitter o Instagram. Ma Gabriela sa che foto con me non le deve mettere in piazza». 

Rischia intanto di perdersi una Serie A intrigante. Che ne pensa?

«Quest' anno sarà proprio un gran bel campionato. Anche difficile. Le big hanno cambiato quasi tutte in panchina. Entrano in scena personaggi di primo piano. Tecnici che hanno vinto». 

Si riferisce a Mourinho, Allegri e Sarri?

«Anche a Spalletti e Inzaghi. In A c'è il top. Dovevo esserci anch' io. Ci divertiremo. Mi aspetto grande competitività al vertice».

Con tanti cambiamenti è possibile che azzerino in partenza i valori delle candidate allo scudetto?

«Dipende. Il ritorno di Max alla Juve significa molto: l'allenatore giusto per ripartire. Ma vedrete che anche la Lazio e la Roma potranno recitare da grandi. Nella Capitale lo spettacolo è assicurato». Da come parla, la favorita è di nuovo la Juve, però? «Il mercato è aperto e ancora non ci fa conoscere le rose. La Juve, a prescindere da chi andrà via e da chi arriverà, resta la più forte proprio per la qualità di gran parte dei suoi giocatori. E il ritorno di Allegri sposta parecchio: ha vinto tanto e non solo lì. E conosce l'ambiente». 

E la nuova Inter?

 «Cambierà poco, il sistema di gioco sarà lo stesso anche dopo l'addio di Conte. Inzaghi è giovane e preparato. Chiaro che un po' di pressione ci sarà: normale se vai ad allenare i campioni d'Italia». 

 Il Milan si ripeterà?

«La conferma di Pioli è un vantaggio. La squadra ha già un'identità precisa. In più si sta rafforzando, con scelte mirate in ogni reparto. Ma la partenza di Donnarumma è pesante». E il suo Napoli? «Spalletti lo conoscete. È una garanzia. Continuerà il mio lavoro con il 4-2-3-1. È già avanti, insomma...». 

Faccia una previsione: dopo quanto tempo vedremo la Lazio di Sarri?

«Non si può dire. È di sicuro la squadra che sentirà di più il cambiamento. Il nuovo allenatore va a modificare tutto, ripartendo dal 4-3-3. Ma non è detto che bisognerà attendere troppe settimane, anzi». 

Da Mourinho invece che cosa si aspetta?

«La Roma già l'anno scorso mi è piaciuta nella fase offensiva. È mancato, però, l'equilibrio che non ha trovato nemmeno passando a tre in difesa. Ecco, il portoghese può sistemarla tatticamente. In più come motivatore è il numero uno. La sua personalità incide, date retta a me». 

Nessuno in Serie A si dimentica giustamente dell'Atalanta. Crede che resterà in alto? «Ormai è una realtà del calcio italiano. Come gioco e nel mercato va sempre al massimo. Gasperini fa risultati straordinari, il club va preso d'esempio. Ormai cercano di imitarli anche all'estero». 

Che cosa ha provato vedendo l'Italia vincere l'Europeo a 15 anni dal mondiale che conquistò con Lippi a Berlino?

«Più che felice sono stato orgoglioso. Siamo riusciti a prenderci la coppa non con il nostro stile. Nella finale è stata l'Inghilterra a giocare all'italiana. Mancini ha invece preso una direzione diversa. La sua intuizione è stata sorprendente per noi e per gli avversari. Mai visto in azzurro un centrocampo tecnico come quello con Barella, Jorginho, Verratti, Locatelli e gli altri. Mossa rivoluzionaria e vincente».

Gattuso è stato giocatore in Scozia con i Rangers Glasgow nel 1997: si sarebbe mai aspettato i fischi dei tifosi inglesi all'inno, e non solo a quello italiano, e i giocatori di Southgate togliersi subito la medaglia dal collo?

«Penso che ovunque bisogna essere coerenti. Non si può chiedere di inginocchiarsi contro il razzismo prima della partita e subito dopo insultare i tre giovani giocatori che hanno sbagliato i rigori davanti a Donnarumma. Gli inglesi hanno sempre saputo perdere. Stavolta no. Forse erano sicuri di vincere. Nessuno ha mai avuto dubbi sulla loro correttezza, ma hanno scritto una brutta pagina per la loro nazione».

Rino Gattuso: «Non sono razzista. Mi hanno dato del terrone in tutti gli stadi». Il tecnico di Corigliano rompe il silenzio, spiega alcune posizioni personali e se la prende con gli «odiatori da tastiera». Roberto Saverino su Il Quotidiano del Sud il 5 luglio 2021. Torna a parlare dopo un bel po’ di tempo, anche perché il 30 giugno è scaduto il contratto con il Napoli che da mesi ha vietato ogni dichiarazione ai propri tesserati. Rino Gattuso, sulle pagine di Repubblica, ha detto la sua su diversi aspetti, visto che da giorni è finito al centro dell’attenzione mediatica, soprattutto dopo la rottura con la Fiorentina e il mancato accordo con il Tottenham. Ringhio chiarisce innanzitutto sulle presunte “supercommissioni” per portare a Firenze calciatori del suo procuratore Mendes, pur precisando di «non poter parlare in merito», aggiungendo però di «non aver mai fatto acquistare un assistito di Mendes, né lui me lo ha mai imposto». Razzista, sessista e omofobo: sono alcune delle accuse che gli sono piovute addosso e che, a quanto pare, starebbero alla base del mancato accordo con il Tottenham. Gattuso al riguardo ribadisce di non essere nulla di tutto questo: «Mi sono preso del terrone in tutti gli stadi. Come razzista non sarei credibile. E non sono sessista e omofobo; basta chiederlo a chi ha giocato con me o a chi ho allenato. Sono state travisate delle mie vecchie dichiarazioni». Quindi spiega che il problema di fondo è determinato «dall’odio da testiera». Un problema definito «serissimo», perché «io sono un personaggio pubblico e ho la forza per reagire. Ma c’è anche chi per debolezza non ce la fa e si butta dalla finestra». Ed ancora: «Non ho preclusioni verso i social, ma non concepisco l’esibizionismo». Sul suo futuro dice di «non aver la smania di allenare a tutti i costi. Per ora guardo partite, studio e aspetto». E quando gli viene fatto notare di essersi dimesso dal Milan, di non aver rinnovato con il Napoli e di aver rinunciato a diverse offerte, Rino Gattuso conclude così: «Non mi pento di nulla: posso permettermi il lusso della verità».

Estratto dell'articolo di Enrico Currò per “la Repubblica” il 5 luglio 2021.

Rino Gattuso, da allenatore svincolato non è più tenuto al silenzio stampa.

«Non ho l'ossessione di parlare a tutti i costi. Ho soltanto il vizio di dire la verità. Tanto, se una cosa non sta in piedi, cade da sola». 

Tipo le presunte supercommissioni per portare a Firenze giocatori del suo procuratore Mendes?

«[…] alleno da 8 anni e non ho mai fatto acquistare un assistito di Mendes […]». 

Mendes non è il suo procuratore?

«È un amico: ha grandissima esperienza e mi dà consigli per la mia carriera […]». 

[…] perché De Laurentiis, che le aveva proposto il rinnovo col Napoli, adesso nega di averlo fatto?

«Non lo so. Io sono orgoglioso di avere allenato una grande squadra in una grande città […]». 

Eppure, malgrado il bel gioco del Napoli, sembra che a Londra i tifosi non l'abbiano voluta perché lei sarebbe razzista, sessista e omofobo.

«Faccio fatica a credere che sia stato questo il motivo, al limite può essere rimasta nella loro mente l'immagine della mia lite del 2011 con Jordan, allora viceallenatore del Tottenham». 

Sospetta qualche gioco di potere interno?

«[…] Io mi sono preso del terrone in tutti gli stadi: come razzista non sarei molto credibile. […]».

Quale?

«Che l'odio da tastiera è pericolosissimo e molto sottovalutato. Io sono un personaggio pubblico e ho la forza per reagire alle calunnie, ma non tutti riescono a sopportarle. C' è chi per debolezza magari si butta dalla finestra. […]». 

Se lei avesse qualche profilo social, potrebbe replicare lì: quest' inverno si speculava sulla sua malattia.

«[…] non concepisco l'esibizionismo. Se sto in vacanza in barca con la mia famiglia o al ristorante, perché dovrei postare la foto? Soprattutto ai più giovani dico: usate meno la tastiera. Vivete la vostra vita, non quella degli altri». […] 

La sua folgorazione?

«La visita a Guardiola nel 2013, dopo i mesi al Palermo. Prima la mia idea di calcio era di dare un'organizzazione alla squadra. Poi con gli allenamenti del Bayern mi si è aperto un mondo: rotazioni folli, terzini che avanzavano a fare le mezze ali, mezze ali che finivano sottopunta, Ribéry e Robben che imballavano gli esterni. Gli avversari non ci capivano niente. Così ho chiesto a Pep».

E lui?

«Mi ha raccontato la sua svolta, in Messico, nell'ultima stagione da calciatore, quando ha affrontato l'argentino La Volpe, l'inventore della famosa Salida Lavolpiana, la costruzione dal basso col centrocampista che si abbassa tra i due centrali difensivi. È da lì che ha tratto le sue innovazioni: l'ampiezza, il palleggio fluido, i terzini dentro il campo, le posizioni offensive. Ovviamente è tutto più facile, se cominci da piccolo. Da tanti anni in Spagna, in Belgio, in Olanda all' Ajax, ai ragazzini si insegnano palleggio e occupazione degli spazi».

In Italia no?

«Ci stiamo arrivando, ma per molto tempo si è pensato per il 70% alla forza fisica. […] Un allenatore deve mettere da parte il proprio ego, l'integralismo non va bene. […] uno non deve essere malato di palleggio: tante squadre, per essere aggressive, accettano il 4 contro 4 in difesa e allora bisogna arrivare subito lì, anche col lancio del portiere, che per questo deve sapere essere anche un playmaker». […]

Luis Enrique. Guglielmo Buccheri per "la Stampa" il 5 luglio 2021. L' Europeo di Luis Enrique è una sfida. Da vincere, in parte è già un successo, alla sua maniera: sempre all' attacco, sempre senza mezze misure. All'inizio divide, poi unisce e riparte. All' inizio di Euro 2020 è scivolato dentro le critiche di una Spagna sorpresa dal solito possesso palla senza, però, vie di uscita. «Sento che il tappo sta per saltare. E se salta...», così Lucho (quasi) accerchiato dal partito degli scontenti. Il tappo è saltato dopo i primi 180' ed ora è il tempo delle pacche sulle spalle. All'inizio della carriera passò dal Real Madrid al Barcellona e, del Barcellona, è diventato un simbolo. Poi, la panchina della Segunda squadra catalana e il salto in Italia, a Roma dove c'era voglia di qualcosa di diverso. «Lo abbiamo scelto per la sua visione della vita e del calcio. Studia e ama i libri...», disse l'allora consulente giallorosso Franco Baldini. Nella Capitale lo soprannominarono "Lo Stordito" perché dava l'impressione di vivere la partite come se il risultato non fosse l'unica via alla felicità: finì settimo rinunciando al secondo anno di contratto e cominciò come nessuno prima. «Ricordo il suo primo giorno a Trigoria: ci disse "questo è il pallone, giocate". Pensammo fosse un matto, è l'allenatore che più mi ha cambiato e mi è entrato dentro. Se ripenso che lo abbiamo fatto scappare dopo dieci mesi mi sento male...», le parole di De Rossi quando lo interrogano sul lavoro di Luis Enrique nella Città Eterna. De Rossi, oggi, collabora con il nostro ct Mancini e pensa già da allenatore. E De Rossi, nel febbraio del 2012, fu spedito in tribuna dal tecnico che più lo ha cambiato per un ritardo di pochi minuti alla riunione tecnica nel pomeriggio di Atalanta-Roma: in campo i giallorossi ne presero quattro, Luis Enrique spiegò che «per me sono tutti uguali...». De Rossi fu punito a metà stagione, Totti alla prima uscita agostana. Roma-Slavia Praga, 50 mila all' Olimpico e finale amaro: passano i cechi, per i giallorossi niente coppe europee perché quel duello valeva il playoff di Europa League. Totti parte in panchina all' andata e, in panchina, finisce al ritorno a venti minuti dal sipario: i tifosi si ribellano al nuovo corso, Luis Enrique comincia in salita, ma non si piega. La Spagna ha il suo ct vertical. Lucho fa le convocazioni via video, per tutti: sul tavolo del subbuteo ci sono delle pedine, le gira ed escono volti e nomi dei suoi ragazzi. Nella lista per gli Europei aveva lasciato due posti vuoti. «Che senso ha chiamare 26 giocatori se ad ogni torneo come questo ne impieghi 18 o 19 a massimo? Io ne convoco due in meno del consentito...», disse prima che il Covid (Busquets si è negativizzato in corso d' opera) gli consigliasse di creare una bolla parallela con sei riserve. La Spagna ha lasciato andare il suo ct vertical per cinque mesi quando la vita gli ha spezzato il cuore: Xanita, la figlia di nove anni, era malata e ha perso la sua battaglia con un male alle ossa con il papà accanto. «Se guardo avanti io, potete farlo voi...», la sua voce una volta tornato in panchina. Il vice Moreno, nell' attesa, si era qualificato per Euro 2020 e non si voleva fare da parte. «L' ambizione ad ogni costo non va bene. Non voglio lavorare con gente così», se ne uscì Lucho.

Bruno Bolchi. Massimo Arcidiacono per il “Corriere della Sera” il 5 settembre 2021. Bruno Bolchi è stato tante cose. Capitano dell'Inter di Herrera, per esempio. Tempi in cui a certificare la notorietà era un soprannome affibbiato da Gianni Brera e lui, con quella stazza e quella mascella, fu per tutti «Maciste». Allenatore di lungo corso, poi. Bolchi, però, è soprattutto l'avanguardia di un piccolo miracolo italiano: è la prima figurina Panini mai stampata. Era il 1961, l'anno prima i fratelli Panini avevano acquistato le rimanenze di una raccolta in disarmo, infilando quelle immaginette residue nelle buste-sorpresa vendute nella loro edicola. Il successo inatteso li spinse al grande salto: farsi il loro album, iniziando da quella foto di «Maciste» in bianco e nero, colorata in neroazzurro e bordata di giallo. 

La foto era stata scattata il 27 agosto, prima giornata di campionato, che era il 60esimo: sessant' anni fa precisi. Bolchi, cosa ricorda di quella foto?

«Nulla, perché non ci fu nulla. Si potrebbe pensare che qualcuno venne a chiedere: "senta, facciamo una figurina con la sua foto?". Invece no. Oggi la Panini andrebbe dal giocatore, che la rimanderebbe all'agente o al club, che chiederebbero una barcata di soldi. Allora fu tutto più semplice e io a lungo non seppi quanto la figurina fosse divenuta importante. Dopo anni ricevetti la telefonata di uno dei fratelli che mi invitava a una tal festa. Era di lunedì, io allenavo il Cesena, cercai di svicolare: "È l'unico giorno che passo in famiglia". "Lei è stata la prima figurina" implorò l'altro. Lo scoprii così». 

Il giorno della foto era già capitano.

«Scelse Helenio. Lo ero stato per la prima volta la stagione prima in Juventus-Inter, la partita dell'invasione di campo pacifica passata alla storia. Angelillo non giocava ed Herrera indicò me. Avevo 21 anni appena fatti, mi ritrovai in mezzo al campo attorniato di gente, con Italo Allodi che mi diceva "Bruno, stai tranquillo, vinceremo a tavolino". Andò diversamente...». 

A 21 anni, milanese, capitano dell'Inter. Oggi sarebbe impossibile.

«Ed è sbagliato: penso che il capitano non vada scelto per età o militanza, ma tra chi ha più personalità. Ricordo che da ragazzino papà mi portava a San Siro. Se mi chiedeste la formazione dell'Inter di oggi farei fatica a metterla insieme: potrei anche dirle 15, 16 giocatori, non la formazione. Ma se mi chiedete quella che vinse lo scudetto del 53-'54, eccola: Ghezzi, Vincenzi, Giacomazzi Sì, fu bellissimo: nascere tifoso dell'Inter e diventarne capitano». 

Segue ancora?

«Seguo, anche se la cosa dei cinque cambi non mi va giù. È uno stravolgimento: in 11 contro 11, se uno si faceva male, si rimaneva in 10. Saper dosare le energie era una qualità. Oggi si gioca 16 contro 16, in teoria un allenatore può dire a tre o quattro dei suoi: correte, tanto dopo vi cambio». Torniamo alle «figu»: ne ha mai comprate?

«Mai. Ho un nipote, ma da piccolo non dava un calcio a una palla neanche a morire. Io, d'altra parte, ho un altro primato oltre alla figurina». 

Dica.

«In 56 anni di matrimonio, mia moglie Paola non ha mai messo piede in uno stadio. Per dare un'idea: ero già all'Inter quando ci fidanzammo. Dopo un po' dovettero presentarmi a mio suocero, e lui: "Bene, ma di lavoro che fa?"». 

Le figurine, però, restano nel suo destino.

«Eccome. Quella figurina fa parte della mia vita, ma io non l'ho mai avuta. Due anni fa ci fu un evento: c'eravamo io, Pizzaballa, promisero che me ne avrebbero mandato almeno una copia. Niente... Poco male, me la son messa come profilo di WhatsApp... A proposito: quale partita si giocò quel 27 agosto?». Era Inter-Atalanta, a San Siro, finì 6-0: gol di Corso, Suarez, doppiette di Hitchens e Bettini. Sei e zero, come 60 anni di figurine. Roba da giocarsi i numeri al Lotto.

Attilio Perotti. Cade nel vuoto dal 4° piano: morta la moglie di Attilio Perotti. Antonio Prisco il 24 Settembre 2021 su Il Giornale. La donna 73enne è precipitata dal balcone mentre stava sistemando una tenda malfunzionante nella sua casa di Genova. Un tremendo lutto familiare per l'ex allenatore Attilio Perotti (Genoa, Hellas Verona e Livorno). La moglie Angela Maria Gattavara, 73 anni, è morta dopo essere precipitata nel vuoto mentre stava cercando di sistemare una tenda malfunzionante sul balcone della propria abitazione. I fatti sono accaduti nella mattina di giovedì 23 settembre a Genova, nel quartiere Quinto, nell’appartamento della coppia in via Fabrizi. La dinamica è stata ricostruita dagli agenti del commissariato di Nervi e poi confermata dal sopralluogo del medico legale. La donna sarebbe salita su una scala per sistemare una tenda malfunzionante ma ad un certo punto ha perso l’equilibrio ed è precipitata giù dal balcone, atterrando nel giardino interno del palazzo. Dopo il tremendo impatto è morta sul colpo. Una drammatica vicenda che colpisce l'ex allenatore, oggi 75enne, da qualche anno ormai fuori dal mondo del calcio. Calciatore negli anni '60, ruolo mezzala, trasformato in ala destra da Peppino Meazza, visse gli anni migliori da calciatore con le maglie di Como, Genoa e Parma. Appesi gli scarpini al chiodo intraprese la carriera da allenatore partendo dalle giovanili del Genoa. Da allenatore ottenne un discreto periodo di auge a metà anni '90, conquistò la promozione in Serie A sulla panchina dell'Hellas Verona. Costretto però per motivi familiari a ritornare a Genova, ci riprovò l'anno successivo con i rossoblù, mancando per un punto la promozione in Serie A pur risultando il miglior attacco e la miglior difesa della cadetteria. Dopo un lungo girovagare tra Perugia, Ravenna e Bari senza grandi risultati, nel 2011 lascia la panchina per diventare responsabile dell'area tecnica del Livorno di Aldo Spinelli, che era stato il suo presidente negli anni genoani. Proprio col Livorno colleziona la sua ultima panchina, stavolta in Serie A, quando viene chiamato a sostituire l'esonerato Davide Nicola. L'esperienza dura però pochi giorni, dopo la sconfitta per 3-0 contro la Roma viene sostituito da Domenico Di Carlo e torna a rivestire la carica dirigenziale. Nelle ore successive all’accaduto, la sua ex squadra l'Hellas Verona, ha pubblicamente rivolto le condoglianze al tecnico. "Hellas Verona FC - si legge sui canali social della squadra -si stringe attorno all’ex allenatore gialloblù Attilio Perotti e famigliari tutti per la scomparsa, in tragiche circostanze, della moglie Angela Maria Gattavara". 

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il

Josè Mourinho. Dal “Corriere dello Sport” il 7 settembre 2021. Oggi alla Feltrinelli  di Galleria Sordi «Ave Mou»: questo il titolo del libro di Giancarlo Dotto, edito da Rizzoli, che sarà presentato oggi pomeriggio, alle 18.30, nelle sale della libreria Feltrinelli, Galleria “Alberto Sordi”, in piazza Colonna a Roma. Interverranno, oltre all’autore, il direttore del Corriere dello Sport-Stadio Ivan Zazzaroni, Roberto D’Agostino e Tiberio Timperi. «Ave Mou», dedicato all’arrivo dello Special One nella capitale, sponda giallorossa, dal 10 settembre sarà venduto anche attraverso i canali distributivi del nostro giornale.  4 maggio 2021. Ufficiale: José Mourinho è il nuovo allenatore della Roma”. Ma vaffanculo! Ufficialmente. Te, tua madre e i tuoi sedici e sedicenti parenti. Agenzie, siti, news, maledette piattole, sudici fanfaroni, battono a più non posso il sadico scherzo all’ora sacra della pennica, quando il romano di una volta ma pure quello di oggi non è disposto a visioni oniriche che non siano quelle della trippa al pecorino e lo svenimento conseguente da sana e consapevole libidine. La burla non si smorza. Insiste. Tutti i buontemponi del pianeta complici della trama, a farsi beffe del povero romanista e dei suoi stracci. Lo schiaffone di Manchester, l’ultimo cappello da asino in testa. L’ultimo sogno finito in vacca. Ora sono i telegiornali ufficiali a darci dentro. Impazziti. Sky Tg 24. Cristo santo! Allora è tutto vero? Ma può essere vero ciò che non è verosimile? La stessa cosa di Naomi Campbell, la pantera, non proprio all’apice ma quasi della sua bellezza, che s’infila nottetempo nel tuo pulcioso letto di avanzo umano, la cui storia è riassumibile in meno di dieci barzellette e zero titoli. E ti dice, Naomi, nel suo babydoll di pelle nero tenebra, uno schianto di donna, feromoni che impazzano da ogni millimetro di carne: “Daje, vecchio panzone, vediamo che sai fare, mettimi in cinta tu che, se no, lo faccio io”. Destinazione paradiso. O Tony Bennett che si presenta inatteso al tuo matrimonio o al tuo funerale, con il suo abito blu e la pochette rossa, e canta Cheek to Cheek accompagnato da Lady Gaga, in  cambio di un ragionevole obolo, pochi milioni di euro. Miraggi, appunto. Ma, cosa non è un miraggio a questo mondo? “La Roma è lieta di annunciare che José Mourinho sarà…”. Quel pomeriggio del 4 maggio 2021, San Ciriaco di Gerusalemme, il giorno in cui, 72 anni prima si schianta il Grande Torino a Superga e nasce, 92 anni prima, Audrey Hepburn, la diva di Vacanze romane, i tifosi romanisti non lo dimenticheranno facilmente. Il sussulto del cuore che diventa tumulto. Ci si rimbalza la notizia nell’orgia dei whatsapp come a sentirsi meno soli in quel colpevole delirio di mitomani. Tutto vero? Ma no, certo che non può essere vero! Ti pare? Mourinho alla Roma? C’è già stata Biancaneve nella capanna dei Sette Nani, ma era per l’appunto una balla romanzata di quel sadicone di Walt Disney. Sette strati di pelle non bastano. Da romanista a romanista. Allucinazioni a confronto. “Hai letto anche tu?”. Non sta scritto nelle stelle e nemmeno nelle stalle. Naomi Campbell nel nostro letto? La stratosfera che accetta di giacere nella tua miserevole cuccia. Complice del tuo sogno più bacato, del tuo orgasmo più malato. In quanto a brividi erotici, noi romanisti, non eravamo andati oltre il tristissimo finto strip-tease di Sabrina Ferilli al Circo Massimo, davanti a un milione di arrapatissimi tifosi, per lo scudetto vinto non per la Ferilli discinta. I tre magi in uno, oro, incenso e mirra, con la faccia da putto sciamanico, a te bambinello che, tutt’al più, avresti potuto sospirare una visita di Madre Teresa al tuo capezzale. Una città intera in preda alle visioni. “Non ci credo nemmeno se lo vedo”, e poi “Sì, lo vedo, ma non ci credo lo stesso”. Fino al giorno prima, solo un mitomane grave (a Roma li chiamano benevolmente “cazzari”, non sapendo che siamo tutti mitomani noi viventi, chi più chi meno) avrebbe potuto mettere insieme Mourinho e la Roma, salvo annegare un secondo dopo in un mare di pernacchie. L’incredulità, sentimento che si accompagna allo stupore, spiega da sé il carisma dell’uomo. Incredulità di una tifoseria intera, ma di tutto il sistema calcio Italia, attraversato all’istante da una non misurabile scossa di adrenalina che non si placa a distanza di giorni. Tutti sono pronti a farsi affascinare dal domani. Lo dice Céline, ne sono una prova i romanisti. Il mondo è pieno di alberi che hanno l’ampiezza forte e avvolgente dei grandi sogni. L’attitudine a sognare del tifoso giallorosso è unica al mondo, oltre che irriducibile. Un vero e proprio talento che sconfina appena può, cioè sempre, nel delirio. Ma questa volta, ragazzi, con la storia di Mourinho, abbiamo esagerato! 

Elisabetta Amato per roma.repubblica.it il 20 luglio 2021. L’allenatore della Roma Josè Mourinho è al centro di una polemica sessista. La giornalista sportiva Beth Fisher ha scritto un tweet, in cui lo accusa di non apprezzare le donne. Secondo le fonti della giornalista inglese quando Mourinho era al Tottenham voleva che le donne si allenassero sul lato più lontano del campo, per non sentire le loro voci. “Un esempio tra i tanti - commenta la Fisher su Twitter- in cui le donne vengono trattate con totale mancanza di rispetto nello sport rispetto agli uomini”. Non è la prima volta che Mourinho viene accusato di sessismo. Nel 2016 la dottoressa del club del Chelsea, Eva Carneiro, aveva intentato una causa contro di lui. La dottoressa, durante una partita, era intervenuta in campo per soccorrere il giocatore Eden Hazard, che aveva subito un infortunio. L’allenatore Mourinho, però, non l’aveva presa bene. L’aveva ritenuta responsabile, in parte, della sconfitta deludente della partita, perché aveva allontanato per qualche minuto dal campo il giocatore. Dopo la decisione di Mourinho di non portarla più a bordo capo e le diverse polemiche, la dottoressa Carneiro aveva dato le sue dimissioni e aveva fatto causa al club e separatamente anche all’allenatore per allontanamento illecito, discriminazione sessuale e bullismo. Il processo intentato dalla Carneiro era, però, finito con un accordo extra-giudiziale, i cui termini rimangono “confidenziali” e la dottoressa aveva ritirato la causa.

La rissa con Sarri, "il rumore dei nemici", i paragoni con Gesù. Cinquanta sfumature di Mourinho. Le parole, le immagini, i conflitti del nuovo allenatore della Roma. Fabrizio Bocca su La Repubblica il 4 Luglio 2021.

I SUOI TOP PLAYER

1) Petr Cech (Chelsea) 

2) Ricardo Carvalho (Porto e Chelsea)

3) Javier Zanetti (Inter)

4) Samuel Eto'o (Inter) 

5) Didier Drogba (Chelsea)

6) Esteban Cambiasso (Inter)

7) Diego Milito (Inter)

8) Claude Makélelé (Chelsea)

9) Cristiano Ronaldo (Real Madrid)

10) Frank Lampard (Chelsea) 

LE DELUSIONI

(I giocatori che con Mourinho non hanno funzionato o con cui non si sono presi)

1) Iker Casillas (Real Madrid)

2) Ricardo Quaresma (Inter)

3) Andriy Shevchenko (Chelsea)

4) Kevin De Bruyne (Chelsea) 

5) Mohamed Salah (Chelsea)

6) Romelu Lukaku (Chelsea) 

7) Eden Hazard (Chelsea)

8) Gareth Bale (Tottenham)

9) Dele Alli (Tottenham)

10) Paul Pogba (Manchester United)

IL TEATRO DI MOURINHO: I GESTI RIMASTI FAMOSI 

Le manette

20 febbraio 2010 - Inter-Sampdoria 0-0 (Serie A)

Con l'Inter in corsa per lo scudetto, Mourinho fa il famoso gesto delle manette a favore di telecamera e verso il pubblico di San Siro dopo l'espulsione da parte dell'arbitro Tagliavento di Samuel e Cordoba e il mancato rosso a Pazzini. Il gesto è considerato l'icona dell'interismo mourinhano.

Il pappagallo, la spiata e l'esultanza

28 aprile 2010 - Barcellona-Inter 1-0 (semifinale ritorno Champions League)

È la partita della tanto sbandierata remuntada barcellonista dopo la netta vittoria dell'andata a San Siro (3-1). Nella stessa partita Mourinho, con l'Inter in dieci per l'espulsione di Thiago Motta, fa il segno al pubblico del pappagallo che chiacchiera; mentre Guardiola dà disposizioni a Ibrahimovic lui si appoggia sulle spalle di Guardiola facendo finta di spiare poi dice "Tanto non la vincete"; esulta a fine partita per la qualificazione alla finale di Madrid correndo per tutto il Camp Nou e col Barcellona che per la rabbia mette in funzione gli idranti.

Il dito nell'occhio

17 agosto 2011 - Barcellona - Real Madrid 3-2 (ritorno Supercoppa di Spagna)

Il Real perde la Supercoppa disputata con doppia partita (2-2 all'andata), ritorno carico di tensioni, sul finale fallaccio di Marcelo su Fabregas, scoppia la rissa, a un certo punto Mourinho mette un dito nell'occhio di Tito Vilanova, secondo di Guardiola. 

Il binocolo

24 aprile 2013 - Borussia Dortmund-Real Madrid 4-1 (andata semifinali Champions League)

Per protestare contro le decisioni dell'arbitro olandese Björn Kuipers Mourinho fa il gesto del binocolo, portando le mani agli occhi. Il Real sarà poi eliminato.

La corsa

8 aprile 2014 - Chelsea-Psg 2-0 (ritorno dei quarti di finale di Champions League)

Dopo il gol di Demba Ba del 2-0 al Psg che vale la qualificazione alle semifinali di Champions, Mou corre fino alla linea di fondo per esultare con i giocatori del Chelsea e dare disposizioni per i minuti finali.

Fuori di qui!

5 ottobre 2014 - Chelsea-Arsenal 2-0

Esplosioni di ira contro Wenger durante la partita. Dopo un fallo su Sanchez Mourinho impreca col quarto uomo, Wenger va verso di lui e lo spintona, Mourinho lo respinge indietro, urlando più volte "Fuori di qui!". Wenger è stato l'allenatore con cui Mourinho ha avuto più scontri verbali, in un libro pubblicato dal Daily Mail è riportato che avrebbe detto: "Se incontro Wenger lontano da un campo di calcio gli spacco la faccia". 

Le tre dita delle tre Premier League

20 ottobre 2018 - Chelsea-Manchester United 2-2 (Premier League).

Beccato dai tifosi del Chelsea, Mourinho - in quel momento allenatore del Manchester Utd - ricorda loro con le tre dita le tre Premier vinte col Chelsea nel 2005, 2006 e 2015. Seguirà in partita un durissimo scontro con Marco Ianni (vice di Sarri, allenatore del Chelsea), che va davanti alla panchina a provocarlo. Segue rissa con intervento degli steward.

Le tre dita del Triplete interista

23 ottobre 2018 - Manchester United - Juventus 0-1 (gironi Champions League)

Sbeffeggiato dai tifosi bianconeri Mourinho mostra loro le tre dita del Triplete interista. 

La mano all'orecchio

7 novembre 2018 - Juventus-Manchester Utd (gironi Champions League)

Il Manchester Utd ribalta nei 5 minuti finali il gol di vantaggio di Ronaldo con Mata e autogol di Bonucci. A fine partita al pubblico dell'Allianz Stadium che lo aveva fischiato Mourinho risponde portando la mano all'orecchio e strizzando l'occhio a dire "non vi sento", indispettendo ancor di più gli juventini in campo e sulle tribune.

COSÌ PARLÒ LO SPECIAL ONE

Io dopo dio

"Se avessi voluto un lavoro facile, sarei rimasto al Porto. Dio e dopo Dio, io"

10 luglio 2004 - Presentazione al Chelsea

The Special One

 "I'm The Special One"

10 luglio 2004 - Presentazione al Chelsea 

Il pirla

 "Ma io non sono pirla"

4 giugno 2008 - Presentazione all'Inter

Ranieri troppo vecchio

"Ranieri a quasi settant'anni (in quel momento l'allenatore della Juve ne ha aveva 57, ndr) ha vinto una Supecoppa e un'altra piccola Coppa. È troppo vecchio per cambiare mentalità".

4 agosto 2008 - Inter

Lo Monaco mi deve pagare

"Io conosco monaco del Tibet, Principato di Monaco, Bayern Monaco, il Gran Prix di Monaco. Non ne conosco altri. Se questo Lo Monaco (dirigente del Catania, ndr) vuole essere conosciuto per parlare di me, mi deve pagare".

15 settembre 2008 - Inter

Zeru Tituli

"A me non piace prostituzione intellettuale. Mi sembra che ci sia una grandissima manipolazione intellettuale. Non si è parlato della Roma con grandissimi giocatori che finirà la stagione con zero titoli, non si è parlato di un Milan che finirà la stagione con zero titoli..."

3 marzo 2009 - Inter

Mou e Gesù

"Non è vero che sono antipatico, e nemmeno che sono sempre incazzato. Nemmeno Gesù piaceva a tutti"

1 aprile 2009 - Inter

Mou e Harry Potter

"Non sono Merlino o Harry Potter"

10 luglio 2009 - Inter

Il rumore dei nemici

"Ho sentito il rumore dei nemici. E questo mi piace"

22 agosto 2009 - Inter

Por qué?

"Por qué? Por qué? Por qué Ovrebo? Por qué Busacca? Por qué De Bleeckere? Por qué Frisk? Por qué Stark? Por qué? Por qué? Por qué?" .

27 aprile 2011 - Dopo Real-Barcellona 0-2 in semifinale di Champions League

Il migliore allenatore della storia

"Se mi mandano via, mandano via il miglior allenatore che questo club abbia mai avuto"

3 ottobre 2015 - Chelsea

Mou e Giuda

"Giuda è ancora il numero 1"

3 marzo 2017 - Ai tifosi del Chelsea e in polemica con Antonio Conte, dopo Chelsea - Manchester United 1-0

Io meglio di tutti gli altri (messi insieme)

"3-0 significa tre Premier League, quelle che ho vinto io nella mia carriera, più di tutti gli altri 19 allenatori messi insieme".

28 agosto 2018 - Al Manchester United dopo aver perso 3-0 dal Tottenham

Daje

"Daje Roma!"

4 maggio 2021 - Sui social, dopo l'annuncio del suo arrivo a Roma

LE DIECI REGOLE DI MOURINHO*

1) Guida degli uomini e il calcio come scienza umana.

2) Allenatore come leader.

3) Globabilità del lavoro, nessuna separazione tra lavoro fisico, tecnico e tattico.

4) Personalizzare la comunicazione

6) Conoscenza profonda dei giocatori e soprattutto degli uomini.

7) Scelta degli uomini

8) Stimolazione e informazione continua dei calciatori

9) Tensione e alta dimensione emotiva dell'impegno

10) Intensità del lavoro

(* tratto da albertocei.com) 

Nevio Scala. Dagospia il 13 maggio 2021. Da I Lunatici Radio2.  Nevio Scala è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte e trenta alle sei e in diretta anche su Rai 2 fino alle due. L'ex allenatore del Parma ha aperto il cassetto dei ricordi: "Il mio Parma? Quello era un calcio diverso rispetto a quello di oggi, meno intasato da pressioni economiche, l'abbiamo vissuto con una intensità incredibile, i valori erano ancora la base di certi rapporti e di certe situazioni. In questo periodo l'avanzare dei problemi economici ha modificato un po' tutto, ma il mio periodo lo ricordo con un po' di nostalgia". Ancora Scala: "Qualche nome? Facile farli. Tino Asprilla, uno dei protagonisti di quel periodo. Ma citiamo anche Gianfranco Zola, Cannavaro, Taffarel, Apolloni, Minotti, e molti altri. Con molti siamo rimasti in contatto, significa che quello abbiamo seminato rimane. Come si rendono una squadra tanti talenti? Con grande semplicità e con grande umiltà. Quando ho iniziato ad allenare il Parma ai calciatori ho detto una frase che poi ho ripetuto spesso, e cioè che se ognuno di noi avesse accettato i nostri limiti, saremmo diventati una squadra vincente. Abbiamo costruito nello spogliatoio un clima, un'atmosfera, di allegria, gioia. Con la voglia di allenarci e stare insieme, in campo e fuori. Al di là delle tattiche esasperate. Noi eravamo una squadra diversa dalle altre che in quei sette anni meravigliosi ha divertito la gente". Sui ricordi piacevoli e tristi: "Abbiamo vinto tanto ma anche perso tanto. Accettavamo la vittoria e la sconfitta molto probabilmente allo stesso modo. Accettavamo quello che eravamo, consapevoli delle forze ma anche dei nostri limiti. Eravamo presuntuosi ma non oltrepassavamo mai i limiti della presunzione. Eravamo umili, semplici, ma anche coraggiosi. Una partita indimenticabile? La finale di Coppa delle Coppe a Wembley. Portare lì quindicimila parmigiani è stato straordinario. Una festa che è durata per molto tempo. Ma ricordo anche la promozione in Serie A. Io ho preso il Parma in B e siamo arrivati a vincere Coppa Uefa e Coppa delle Coppe e Supercoppa Europea. Io di quei sette anni col Parma ho una nostalgia incredibile. Ora vivo un altro periodo della mia vita, ho un'azienda agricola, faccio dei vini biologici molto buoni, ma se rivivo quel periodo calcistico vi posso garantire che ho dei ricordi di straordinaria bellezza". Sul suo modo di essere allenatore: "Ero molto democratico ma molto esigente. Condividevo con i miei calciatori programmi, soluzioni, possibilità. Poi ovviamente dovevo decidere io, ma non ho mai imposto nulla a nessuno. Questo creava in loro una grande forza, una grande responsabilità, che poi quando andavano in campo tiravano fuori". Sulla superlega: "Una cosa veramente fastidiosa. Incredibile. Ma secondo me non è finita qui. Il mondo del calcio è monopolizzato dal denaro e il denaro arriva anche a conclusioni che molti di noi non accettano. L'evoluzione del mondo del calcio è in atto, dobbiamo guardarci bene dal pensare che i proprietari del mondo del calcio siano i tifosi, mentre invece sono i miliardi che si stanno gettando per eliminare problemi che molti di noi non conoscono". Sul ritorno in Italia di Mourinho: "Un allenatore da solo non arriva da nessuna parte se non è aiutato e spalleggiato da una grande società. Ho sempre tifato per Mourinho, all'inizio mi stava antipatico, poi ha dimostrato di essere un grande. Credo che la Roma abbia fatto una grandissima scelta. Spero porti a Roma entusiasmo e risultati, ma non sarà facile"...Sulle squadre che lo hanno corteggiato: "Io avevo sempre contratti lunghi e non intendevo tradire le firme che avevo messo su un pezzo di carta. Ho avuto molte sirene che mi hanno contattato, ma mi sono tappato le orecchie. E ne vado orgoglioso. Sarei potuto andare al Real Madrid, ma l'ho rifiutato due volte proprio perché non mi vedevo coinvolto nei programmi della società. Non mi sembrava giusto lasciare Parma, anche se con il senno del poi forse adesso potrei dire di aver sbagliato". Su Tino Asprilla: "Era un pazzo buono. Teneva banco nello spogliatoio, faceva delle cose che altri non si sarebbero permessi di fare. E' stato gestito male dalla società, io lo multavo, poi interveniva la società e alleviava le mie pene. E' stato un errore, perché se l'avessimo gestito in maniera diversa, con bastone e con carota, forse avrebbe continuato per più tempo ad essere un grande campione". Su Fabio Cannavaro: "Si capiva che sarebbe diventato uno dei più grandi difensori di sempre. Lo abbiamo voluto noi a Parma. E' cresciuto più di quanto potevamo pensare. Lo ricordo come una grande persona, come ha dimostrato di essere quando è diventato capitano della Nazionale". Su Gianfranco Zola: "Parlare di Zola mi emoziona. Se dovessi fare delle classifiche, sarebbe uno di quelli che metterei nelle prime posizioni. Io credo che abbia dimostrato di essere veramente un grandissimo. A noi ha dato tantissimo come calciatore e come uomo. Era un giocatore fisicamente piccolino, ma con una tecnica straordinaria, batteva le punizioni come pochi al mondo. Poi in Italia le seconde punte non hanno trovato più spazio ed è stato costretto ad andare in Inghilterra dove è diventato baronetto". Su un colpo fatto ma sfumato all'ultimo secondo: "Il Parma aveva Ciro Ferrara e Roberto Carlos. Erano già nostri. Le trattative sono sfumate all'ultimo. Roberto Carlos Tanzi ha preferito lasciarlo all'Inter. Con Ciro Ferrara ha deciso di non andare contro Agnelli, su Roberto Carlos ha preferito lasciarlo all'Inter. Al di là degli errori che si possono imputare a Tanzi, qualche cosa di buono dentro di lui c'era".

Giuseppe Bruscolotti. Dagospia il 29 ottobre 2021. Da I Lunatici Radio2.  Giuseppe Bruscolotti, ex calciatore, capitano del Napoli di Maradona, è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live anche su Rai 2, sempre dal lunedì al venerdì notte, più o meno dall'una alle due e quaranta.

Bruscolotti è stato uno dei migliori amici di Diego Armando Maradona: "I ricordi? Partendo dall'arrivo, mi torna in mente una città in delirio, pronta ad abbracciare il più grande il campione al mondo. Tra e me Maradona il primo incontro fu in albergo. Andai in qualità di capitano, per illustrarci la società e la città di Napoli, per parlargli dei pro e i contro di questa città. Poi col tempo siamo diventati amici veramente. La scintilla è scoccata perché entrambi parliamo chiaro, non la mandiamo a dire. E quando c'è una certa sincerità è facile diventare amici. C'è sempre stata franchezza, in tutte le cose. Questo ha reso il rapporto più facile".

Ancora Bruscolotti su Maradona: "Lui come gioiva in mezzo al campo aveva anche tanta voglia di vivere fuori. Ma la sua popolarità non glielo permetteva. C'era tanta pressione, non godeva di una piena libertà, quella libertà che uno tante volte cerca. Però fa parte del gioco, se sei un divo devi pagarne lo scotto. Credo che anche se ha avuto delle difficoltà per questo, credo che a chiunque poi faccia piacere questo affetto e questo calore. Purtroppo quando si è popolari c'è l'altra faccia della medaglia, ci sono i pro e i contro. Però l'affetto che si è creato con Napoli non morirà mai".

Sul rapporto con Maradona nello spogliatoio: "Gelosia nei confronti di Maradona? Assolutamente, mai! E' stata un'amicizia schietta e pulita e tutto il gruppo amava Diego. Eravamo amici. I calciatori che sono gelosi di un compagno che va al di sopra di tutte le cose sono stupidi. Se giochi con un fuoriclasse non puoi essere geloso, devi essere solo contento. Se è vero che Maradona si allenava meno degli altri? E' una diceria. Anche se arrivava venti minuti dopo, finiva un'ora dopo di noi. Stava lì ore ad allenarsi, a calciare, nonostante la sua classe immensa lui non è che non si allenasse. Le punizioni, quel modo di calciare particolare, lo allenava per ore".

Bruscolotti sui prepartita di Maradona: "Fughe dall'albergo, donne e fan in delirio? C'è tanta fantasia su questo. Molti cronisti ci hanno giocato, tante cose sono inventate. Ma fa parte del gioco, anche questo. Per festeggiare le vittorie, invece, spesso andavamo a cena a casa mia e cucinava mia moglie. Maradona adorava la sua pasta aglio e olio". 

Sulla morte di Maradona: "Per me non è stata una doccia fredda. Pensavo che potesse accadere qualcosa. Negli ultimi tempi alcune notizie mi facevano pensare tante cose. Ultimamente lo avevano isolato, quindi era difficile parlare con lui. Non c'era più il passaggio diretto, era tutto filtrato. La cosa era diventata difficile". 

Bruscolotti era uno dei migliori marcatori italiani ma in Nazionale non ha mai avuto spazio: "All'epoca c'era prevenzione verso chi non giocava in certe squadre. C'erano i blocchi che non permettevano a chi non giocava in certe squadre di avere spazio in Nazionale. Io mi sono trovato in questa situazione ed è stato un grande dispiacere. Perché non mi sono mai sentito inferiore a nessuno nella mia epoca. Perché non nascono più difensori di un certo tipo? E' un problema di scuola, mancano proprio i fondamentali, tante volte vedo i difensori affrontare gli avversari di pancia, non si sanno posizionare. L'allenatore che più mi è rimasto impresso? Vinicio. Era uno che ha avuto le sue idee e le ha messe in campo, con ottimi risultati. Faceva un calcio totale. In Italia il calcio totale l'ha portato lui. Oggi in tanti scoprono l'acqua calda". 

Sul campionato di oggi: "Il Napoli è partito molto bene, le milanesi sono tornate, vedo una lotta a tre. Ci sono tanti goal, non so se sia così divertente, per me alla fine i tifosi vogliono vincere, non segnare tantissimo. E' un calcio che a taluni diverti, altri invece ricordano con tanta passione e tanto amore il nostro calcio. 

Ciro Ferrara. L'ex difensore napoletano. Ferrara e il suo amico geniale Maradona: “Non sono riuscito ad aiutare Diego”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 4 Ottobre 2021. Non smette di emozionarsi Ciro Ferrara a pensare al suo amico, compagno di squadra, capitano al Napoli, “amico geniale”, forse idolo Diego Armando Maradona. Un sentimento che non muore e non perde forza, anzi. Un anno fa il difensore aveva pubblicato, in occasione dei 60 anni di Maradona, il libro Ho visto Diego e dico ‘o vero (Cairo Editore). Il 25 novembre, qualche settimana dopo, la notizia della morte del Pibe de Oro, a 60 anni, all’improvviso. Una notizia da prima pagina in tutto il mondo. “Ho conosciuto Diego nella sua grandezza e nella sua debolezza – ha detto Ferrara in un’intervista a Sette, il settimanale de Il Corriere della Sera – ne ho visto le zone di luce e d’ombra. Certo non era un professionista esemplare, ma in campo era unico. Per un periodo abbiamo abitato nello stesso palazzo. Tornavo dagli allenamenti e lo trovavo in garage che faceva i pesi. Diceva: “Mi sono svegliato tardi, Ciro”. Diego doveva essere protetto da sé stesso. Quando l’ho conosciuto avevo vent’anni, ero un ragazzo, non era facile convincerlo, aiutarlo e a me mancavano il coraggio e la personalità per stargli vicino e parlargli nel modo in cui lui aveva bisogno. L’ho capito crescendo”. Ferrara che oggi commenta il calcio per la piattaforma streaming Dazn e che fa il nonno di Leone, figlio di sua figlia Benedetta. E che ricorda. Ricorda a partire da quella sera nel giugno 1987, quando in un’amichevole Italia-Argentina l’allenatore della Nazionale Azeglio Vicini lo fece esordire. In marcatura proprio del Pibe de Oro, suo capitano al Napoli. Aveva cominciato tardi a giocare, a 14 anni, in un club giovanile, il Salvator Rosa, dopo aver praticato altri sport. Solo il pallone però “mi ha travolto”. Maradona, in quel libro che un anno fa Ferrara gli dedicava, scriveva così nella prefazione: “Da te, Ciro, mi sono sentito sempre e comunque protetto, dentro al campo ma anche fuori. In te ho trovato uno sguardo sincero, complice, quello di chi davvero è sempre pronto a difendermi, di cui ti puoi fidare senza dubbi”. Quando Ferrara passò alla Juventus el diez lo abbracciò e gli disse: “Se per te è un bene, ti auguro il meglio”. E l’Avvocato Gianni Agnelli che avrebbe voluto portare anche Maradona a Torino. “Diego era Diego, un visionario: è venuto a Napoli senza conoscere la piazza e forse nemmeno il valore vero della squadra. Ma a lui non importava, voleva vivere un sogno. Ha provato a suo modo a cambiare una città, una piazza, un popolo intero. Ha preso posizioni forti in alcune circostanze come quando alla vigilia di Italia-Argentina, semifinale del mondiale, a chi si chiedeva per chi avrebbero tifato i napoletani disse: trovo di cattivo gusto chiedere adesso ai napoletani di essere italiani per una sera, dopo che per 364 giorni all’anno li avete trattati da terroni … Aveva diviso la città”. Memorabili le scene del primo ritorno a Napoli, allo Stadio San Paolo che oggi è lo Stadio Diego Armando Maradona, del Pibe de Oro proprio per l’addio al calcio di Ferrara. Scene di isteria e di giubilo collettivo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Ciro Ferrara: «Giocare, una favola. Ma non sono stato capace di aiutare Diego». Manuela Croci su Il Corriere della Sera il 4 ottobre 2021. Compagno di squadra al Napoli, grande amico, l’ex calciatore racconta il suo rapporto con El Pibe de oro, morto quasi un anno fa. «Non era facile convincerlo e io ero troppo giovane. Ho capito crescendo». Poi ricorda la volta in cui l’Avvocato gli disse che aveva un sogno: Diego alla Juventus. Toc toc. Zurigo, 9 giugno 1987, ritiro della Nazionale italiana di calcio. È sera quando il Ct Azeglio Vicini bussa alla porta della camera di Ciro Ferrara. «Domani giochi titolare, buona notte». Toc toc. «Dimenticavo, marcherai Diego. E adesso riposa». «Riposare? E chi ha dormito quella notte! Il giorno dopo avrei esordito con la maglia azzurra nell’amichevole Italia-Argentina. E avrei marcato Maradona, il mio capitano al Napoli».

Così Ciro Ferrara, uno dei migliori difensori italiani degli Anni 80-90, ricorda il suo debutto con la Nazionale. «Ma sa qual è la cosa più bella di quella partita? Ogni volta che il gioco era fermo Diego si avvicinava e mi diceva: “Tranquillo, Ciro, stai andando bene. Continua così”. Ecco questo era Maradona». Proprio un anno fa al Pibe de Oro Ferrara ha dedicato un libro Ho visto Diego e dico ‘o vero (Cairo editore), uscito in occasione dei 60 anni di Maradona, che poi il 25 novembre 2020 è morto improvvisamente. Compagni di squadra nel Napoli e avversari con le nazionali: Maradona indossa la maglia dell’Argentina e Ferrara quella dell’Italia.  Nella prefazione, firmata dall’argentino, Diego ringraziava l’ex compagno del Napoli, «da te, Ciro, mi sono sentito sempre e comunque protetto, dentro al campo ma anche fuori. In te ho trovato uno sguardo sincero, complice, quello di chi davvero è sempre pronto a difendermi, di cui ti puoi fidare senza dubbi». Da cosa doveva essere protetto Maradona? Si emoziona ancora Ferrara. Al telefono la voce si incrina. «Ho conosciuto Diego nella sua grandezza e nella sua debolezza, ne ho visto le zone di luce e d’ombra. Certo non era un professionista esemplare, ma in campo era unico. Per un periodo abbiamo abitato nello stesso palazzo. Tornavo dagli allenamenti e lo trovavo in garage che faceva i pesi. Diceva: “Mi sono svegliato tardi, Ciro”. Diego doveva essere protetto da sé stesso. Quando l’ho conosciuto avevo vent’anni, ero un ragazzo, non era facile convincerlo, aiutarlo e a me mancavano il coraggio e la personalità per stargli vicino e parlargli nel modo in cui lui aveva bisogno. L’ho capito crescendo».

Proviamo a mettere da parte Maradona e riavvolgiamo il nastro della sua carriera: quando ha iniziato a giocare?

«Tardissimo, a 14 anni. Prima ho fatto molti altri sport: pattinaggio, nuoto, minibasket. Io non ho scelto di giocare a calcio, è il calcio che mi ha travolto. Tutto è cominciato con un provino in una squadra giovanile, il Salvator Rosa. Quello resta ancora oggi il ricordo più bello della mia carriera sportiva».

Ma come? Ha vinto 7 scudetti con Napoli e Juventus, un bronzo ai Mondiali di Italia 90, l’argento agli Europei nel 2000 e un numero di coppe troppo lungo da citare. È sicuro che sia quello il ricordo più bello?

«Non vorrà dimenticare che nel 2006 ero collaboratore tecnico di Marcello Lippi, allenatore della Nazionale campione del Mondo... Comunque sì, confermo. Il ricordo più bello del Ferrara calciatore è stata l’emozione di essere stato scelto a 14 anni dal presidente Antonio Varriale. Da lì è nato tutto: in tre anni sono passato da bambino a giovane promessa in un grande club».

Con il Napoli, dove ha giocato per dieci anni, ha vinto due scudetti. Maradona, sempre nella prefazione del suo libro, scriveva «sette dei miei 60 anni li ho passati a Napoli. E nel mio cuore valgono almeno tre volte tanto... chi ama non dimentica, questo lo sappiamo benissimo io, te e tutti quelli che vivono a Napoli».

«In quegli anni c’è stata certo molta bravura da parte dei dirigenti della squadra che sono riusciti a prenderlo da un team titolato come il Barcellona. Ma Diego era Diego, un visionario: è venuto a Napoli senza conoscere la piazza e forse nemmeno il valore vero della squadra. Ma a lui non importava, voleva vivere un sogno. Ha provato a suo modo a cambiare una città, una piazza, un popolo intero. Ha preso posizioni forti in alcune circostanze come quando alla vigilia di Italia-Argentina, semifinale del mondiale, a chi si chiedeva per chi avrebbero tifato i napoletani disse: trovo di cattivo gusto chiedere adesso ai napoletani di essere italiani per una sera, dopo che per 364 giorni all’anno li avete trattati da terroni... Aveva diviso la città».

Alla fine fu lui a gioire.

«Quando tornammo nel tunnel lo vidi fuori dagli spogliatoi. Ci aspettava. Lo mandai a quel paese ridendo. Era quasi impossibile prendersela con lui».

Ferrara e Ronaldo con le maglie di Juventus e Inter alla fine degli Anni 90

E come reagì Maradona quando lei passò alla Juventus: sull’asse Napoli-Torino non correva buon sangue.

«Mi abbracciò e mi disse: “Se per te è un bene, ti auguro il meglio”». Era il 1994 e iniziava l’avventura in bianconero: cinque scudetti, una Champions League, una Coppa Intercontinentale, solo per citare i riconoscimenti più importanti. E anche qui un compagno speciale, Gianluca Vialli. «Mi chiamava tutti i giorni per raggiungerlo alla Juventus. È stato un grandissimo capitano ed è un grande uomo. Insieme a Roberto ( Mancini, ndr) hanno saputo creare il gruppo che questa estate ci ha regalato una vittoria strepitosa. Non eravamo i più forti all’Europeo, ma lo siamo diventati. E poi con Vialli ho tanti ricordi divertenti, ero con lui anche la prima volta che incontrai l’Avvocato».

Racconti, prego.

«Eravamo in aeroporto perché avevamo una partita in trasferta. Ad un certo punto chiedono a me e a Luca di seguire una persona che ci avrebbe condotti da Gianni Agnelli, che voleva conoscermi. Saliamo in auto, arriviamo all’area dei voli privati. L’Avvocato mi stringe la mano e mi chiede: “Ma com’era Maradona?”. Io iniziai a parlare e lui commentò: “Mi sarebbe piaciuto tantissimo averlo qui alla Juventus”. Scherzai dicendo che se i bianconeri avessero avuto anche Diego, noi non avremmo vinto niente. Diego è atemporale, aspaziale. Quindi Agnelli mi chiese com’era Gianfranco Zola e ci salutò. Di me non domandò nulla. Con Vialli abbiamo sorriso molto del mio imbarazzo di quel giorno».

Maradona e Ferrara giovanissimi in uno scatto dell’Ansa degli Anni 80

Il binomio Ferrara-Maradona è una costante nella sua vita.

«Abbiamo condiviso tanto. C’ero quando è arrivato al San Paolo la prima volta, sono stato in campo dietro di lui per tutti gli anni in cui ha giocato a Napoli, c’ero al suo addio al calcio alla Bombonera e lui è venuto alla chiusura della mia carriera».

Tra poco inizierà una nuova avventura partecipando a Pechino Express insieme a suo figlio più piccolo Giovambattista.

«Questa è solo una parte della mia vita. Mi è sempre piaciuta la musica, ne ascolto molta e da piccolo suonavo la chitarra, adesso ogni tanto la riprendo in mano. Credo sia importante vivere di passioni forti per crescere sempre, per migliorarsi. Poi mi piace leggere, informarmi. Cerco di stare lon7tano dalle cattiverie dei social, non amo il fatto che ognuno possa dire la propria opinione senza alcun controllo, senza filtri. E poi faccio il nonno. Ad aprile dello scorso anno mia figlia Benedetta mi ha fatto un regalo bellissimo, è nato Leone».

Carlo Ancelotti. "Inginocchiarsi è inutile. Educhiamo i nostri figli". Franco Ordine il 25 Giugno 2021 su Il Giornale. Il tecnico del Real: "Razzismo problema culturale. L'Italia se la giocherà con tutti. Mancini? Idee chiare".

Caro Ancelotti, si è conclusa la prima parte dell'europeo di calcio: salga in cattedra e cominci a dare i suoi voti. Precedenza all'Italia, naturalmente...

«È la grande sorpresa e nello stesso tempo la novità del torneo. Perché gioca un calcio offensivo, senza alcun calcolo, dispone di una organizzazione difensiva collaudata e ha la gioventù del suo zoccolo duro che garantisce corsa ed entusiasmo».

Si sprecano i paragoni con le nazionali di una volta: c'è una qualche affinità?

«Ci sono un paio di dettagli che mi riportano alla memoria la nazionale di Vicini del mondiale '90 a cui ho partecipato. Io c'ero e si respirava, allora come ora, lo stesso entusiasmo che ho colto nelle tre partite disputate a Roma. C'è un altro dato in comune: nel girone iniziale, gli azzurri di Mancini non hanno preso gol, proprio come capitò a noi in quella occasione».

Circola anche una maliziosa osservazione: resiste un eccesso di enfasi dopo aver domato rivali non proprio irresistibili.

«Beh, non è che gli altri, tranne forse la Germania col Portogallo, hanno travolto Argentina o Brasile. Al di là dei risultati, io ho visto un gruppo compatto e una squadra che gioca da squadra in qualsiasi condizione».

Merito di...

«Delle idee chiare di Roberto Mancini. In tre anni di tempo ha lavorato con lo stesso sistema di gioco nel quale gli azzurri si ritrovano comodi, ha cambiato qualche protagonista ma zero esperimenti, è andato dritto per la sua strada insomma ottenendo adesione convinta allo stile che voleva imporre».

C'è qualcuno degli azzurri che più di altri ha fin qui lasciato il segno?

«Quest'Italia è diversa dalle altre. Il Belgio s'incarna in Lukaku, il Portogallo ha il suo diamante in CR7, nella Francia fa paura MBappè, della Nazionale di Mancini faccio fatica a sceglierne uno solo. E questo può essere un vantaggio alla fine perché non si carica di aspettative un solo esponente».

Nemmeno Verratti?

«Lo conosco bene, l'ho allenato a Parigi, è un ragazzo acqua e sapone ma dotato fin da allora di grande personalità a cui ora ha aggiunto esperienza internazionale. È uno dei pochi, nel gruppo azzurro, che ha giocato la Champions: adesso che l'europeo entra nel vivo con le sfide da dentro o fuori, conterà anche questa qualità».

Ha colto qualche novità in queste prime settimane di euro 2020?

«Una sola, decisiva: il ritorno del pubblico negli stadi. Perché modifica l'atmosfera, procura una diversa emozione e persino le prestazioni dei calciatori possono cambiare. Se posso fare una citazione la dedico a Sheva e Tassotti che sono riusciti a qualificarsi con l'Ucraina. I calciatori di quel paese hanno un solo difetto: faticano a restare concentrati per tutta la partita».

Le armate tipo Spagna, Germania, Francia, hanno appena scaldato i motori...

«Era da ingenui immaginare che non ingranassero la marcia. All'elenco aggiungerei l'Inghilterra: in quella nazionale ci sono 6 esponenti reduci dalla finale di Champions league, un dato di grande rilievo per la competizione. Il vero discrimine è il tabellone del torneo. All'Italia, dopo l'Austria, toccherebbe il Belgio o il Portogallo e poi la Francia. Dall'altra parte sarebbe stato un viaggio più comodo. E infatti vedrete che l'Olanda arriverà tra le prime quattro».

Dalle nostre parti si discute più che dell'Austria, della polemica intorno alla questione se inginocchiarsi o no prima della partita. Cosa ne pensa?

«Da noi in Inghilterra è diventata un'abitudine, lo facciamo da un anno e mezzo e non c'è alcuna discussione sul punto. Io la penso così sull'argomento: non è fondamentale inginocchiarsi per qualche secondo. Non si risolve la questione. Il tema vero è: educare le nuove generazione alla questione del razzismo che è ancora presente nelle nostre società. E su questo bisognerebbe discutere e intervenire».

Che asticella rappresenta l'Austria?

«Alla nostra portata. Dirò di più: l'Italia, per le sue caratteristiche, per la freschezza che esprime, è in grado di giocarsela con tutte. Anche con le big del torneo».

È pronto a rischiare un pronostico?

«L'ho detto prima che iniziasse l'europeo e lo ripeto adesso: vedo in finale Inghilterra e Italia. I primi risultati sembrano confortare il mio pronostico. Spero che finisca proprio così».

Ha sentito del Milan? Donnarumma ha lasciato a zero, il club ha presto come sostituto Maignan: se l'aspettava?

«Ho parlato con Paolo Maldini e gli ho espresso il mio compiacimento, è stata una scelta che ha fatto rumore. Maignan, poi, lo conosco: quando ero al Psg, era un ragazzo, e intuendone le doti, lo facevo allenare spesso con la prima squadra. È un tipo molto freddo, essenziale nella tecnica. Vedrete: non sarà mai spettacolare, sarà sempre molto concreto e utile».

Mendes ha di recente offerto James Rodriguez, una sua vecchia fiamma calcistica, al Milan: che giudizio può spendere?

«Un talento purissimo, un grande calciatore. Ha avuto qualche problema fisico e il suo contributo alla causa è stato perciò ridotto».

Non posso non chiederle della Superlega: ha per caso cambiato idea tornando al Real Madrid?

«È l'unica domanda a cui non rispondo».

Durante le sue vacanze in Sardegna ha sentito qualche vecchio sodale?

«Quando ho letto del ricovero del presidente Berlusconi, ho chiamato Galliani per avere notizie e lui mi ha incoraggiato a telefonargli. Ne sono uscito molto rassicurato. Sa, dopo i saluti, la prima domanda che mi ha fatto?».

No, quale?

«Mi ha chiesto: Carlo, cosa ne pensi della costruzione dal basso che va tanto di moda nel calcio di oggi? E io gli ho risposto: Presidente, dipende dai piedi dei difensori. E lì ho capito che stava bene». Franco Ordine

Lutto per Carlo Ancelotti: morta l’ex moglie Luisa Gibellini. Marco Della Corte il 24/05/2021 su Notizie.it.  Morta Luisa Gibellini, ex moglie di Carlo Ancelotti: la donna era malata da tempo. Era molto conosciuta dai tifosi rossoneri. Grave lutto per l’attuale allenatore dell’Everton, Carlo Ancelotti: è morta l’ex moglie Luisa Gibellini. Aveva 63 anni. La donna era malata da tempo. Lei e Ancelotti avevano avuto due figli: Katia e Davide. Luisa era molto conosciuta dai tifosi rossoneri. Il loro matrimonio con Ancelotti era durato 25 anni. Gibellini era inoltre conosciuta con il soprannome di “Lady Milanello”. Lo scorso 23 maggio le condizioni della donna si sono aggravate, tanto che lo stesso Ancelotti è partito alla volta delll’Italia dopo la sconfitta subita dal Manchester City di Pep Guardiola. Il tecnico dell’Everton ha voluto stare accanto all’ex compagna negli ultimi momenti di vita. 

Chi era Luisa Gibellini, l’ex moglie di Ancelotti. La vita di Luisa Gibellini fu caratterizzata da momenti davvero particolari, tra cui la forte storia d’amore con Carlo Ancelotti. I due si conoscevano quando erano soltanto dei ragazzini e condivisero molti momenti  insieme. Anche Lusia fu una sportiva di tutto rispetto, essendo stata prima ricevitrice di softball e, in un secondo momento, portiere di calcio. La donna era anche una grande appassionata di tennis, un amore trasmesso anche al suo Carlo. Nel 1999 sia Luisa Gibellini che l’allora marito Carlo Ancelotti presero il brevetto di volo e proprio grazie a ciò la moglie era solita accompagnare il marito presso i campi di allenamento della Juventus e in seguito del Milan. I due si separarono nel 2010. Nel 2014 Ancelotti si sposò con un’altra donna a Vancouver, Marrian Barrena, originaria proprio di tale città canadese. Davide e Katia sono i figli di Carlo Ancelotti e Luisa Gibellini. Il primo è conosciuto per essere un collaboratore tecnico del padre. Davide ha lavorato al Bayern e al Napoli. Al momento è attivo presso l’Everton, squadra allenata dal genitore. Katia, nata nel 1984, è sposata con il nutrizionista della squadra del Napoli. Adora il capoluogo campano, tanto che in passato si è definita una napoletata a tutti gli effetti. Per quanto riguarda il loro papà, Carlo ha disputato lo scorso 23 maggio un match con l’Everton, ma la sua squadra ha rimediato una sonora sconfitta con il Manchester per 5-0. Ancelotti, subito dopo la partita, è volato in Italia per stare accanto a Luisa, che sarebbe morta qualche ora dopo. 

Monica Colombo per corriere.it il 24 maggio 2021. Per chi frequentava abitualmente Milanello nei primi anni Duemila non era inconsueto sentire avvicinarsi il rombo di un elicottero. Certo, era il presidente Berlusconi, obietteranno i più. Eppure nel bel mezzo della settimana non era il Cavaliere a raggiungere il centro sportivo del Diavolo, ma Luisa Gibellini, all’epoca la signora Ancelotti. Luisa aveva il brevetto di pilota e per consentire al marito di evitare il traffico dell’autostrada e trascorrere più tempo in famiglia nella tenuta di Felegara vicino a Parma, vestiva con piacere i panni della taxista volante. Oggi Luisa, separatasi da Carletto nel 2010 dopo 25 anni passati insieme, si è spenta dopo anni in cui combatteva con la malattia. L’attuale allenatore dell’Everton, dopo il ko con il City, si era già messo in viaggio per tornare in Italia a causa dell’aggravarsi delle condizioni della ex moglie: insieme hanno avuto due figli, Katia e Davide, entrambi a Liverpool con papà in quanto la prima è moglie del nutrizionista del club mentre il secondo è assistente di Carlo.

Sergio Conceição. Il tecnico del Porto. Chi è Sergio Conceição, l’ex nazionale portoghese dato come prossimo allenatore del Napoli. Antonio Lamorte su Il Riformista il 24 Maggio 2021. A dare lo scoop è stato Il Corriere dello Sport: Sergio Conceição prossimo allenatore del Napoli. Secondo il quotidiano sportivo il tecnico portoghese potrebbe essere annunciato e presentato nei prossimi giorni. Si tratterebbe di un colpo di scena inaspettato. Erano completamente altri i nomi che orbitavano intorno alla società del presidente Aurelio De Laurentiis. Ovvero: Massimiliano Allegri, Luciano Spalletti, Christophe Galtier, Maurizio Sarri. Ormai un dato di fatto l’addio a Gennaro Gattuso, praticamente ufficializzato dal tweet del patròn azzurro a fine partita. Con l’1 a 1 allo stadio Diego Armando Maradona contro l’Hellas Verona il Napoli ha mancato la qualificazione in Champions League. La squadra partenopea aveva il destino nelle sue mani. Con una vittoria si sarebbe qualificata. Le vittorie del Milan con l’Atalanta e della Juventus con il Bologna hanno qualificato invece i rossoneri e i bianconeri. Secondo alcuni media tale risultato avrebbe precluso l’arrivo per esempio di Allegri – in ballo tra Napoli, Real Madrid e Juventus – che sceglierà una squadra qualificata in Champions League. Proprio il Porto di Conçeicao ha eliminato dalla massima competizione europea la Juventus nell’ultima stagione. I lusitani sono stati a sua volta eliminati dal Chelsea, che sabato giocherà la finale proprio a Oporto la finale contro il Manchester City, e sono arrivati secondi in campionato. Il tecnico allena da oltre dieci anni ormai. Ha un passato da calciatore ai massimi livelli: 56 le presenze con la nazionale maggiore. Ha giocato tanti anni in Italia, tra Parma, Lazio e Inter. Ha fatto parte di una generazione di calciatori lusitani talentuosi, in particolare di esterni d’attacco particolarmente funambolici e ispirati. Coinçeicao ha esordito con l’Académica, squadra di Coimbra, la sua città, che ha intitolato il suo stadio Estadio Municipal Sérgio Conçeicao. Ha vinto sul campo tre campionati portoghesi, una Coppa e una Supercoppa di Portogallo; tutti con il Porto. Quindi la Serie A, la Supercoppa, la Coppa Italia, la Coppa delle Coppe e la Supercoppa UEFA con la maglia della Lazio. È stato premiato come calciatore dell’anno del campionato belga nel 2005 con lo Standard Liegi. Ha chiuso la sua stagione al PAOK Salonicco in Grecia. Ha quindi allenato lo Standard Liegi, l’Olhanense, l’Académica, il Braga, il Vitoria Guimaraes, il Nantes e quindi il Porto. Da allenatore ha vinto due campionati portoghesi, due Supercoppe di Portogallo e una Coppa di Portogallo con il Porto. Per Tuttomercatoweb il Napoli si sarebbe inserito nella corsa con la Lazio. La società dei Dragoes sarebbe però intenzionata a insistere sul tecnico per convincerlo a restare. La notizia data in Italia è stata ripresa anche dai media lusitani.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Napoli, Sergio Conceição è il nuovo allenatore: presentazione attesa per i prossimi giorni. Jacopo Bongini il 24/05/2021 su Notizie.it. Il portoghese Sergio Conceição sarà il nuovo allenatore del Napoli per la prossima stagione di Serie A. La presentazione avverrà nei prossimi giorni. È Sergio Conceição l’uomo che il Napoli ha scelto come nuovo allenatore e che prenderà il testimone di Gennaro Gattuso, il cui addio agli azzurri è stato reso ufficiale dal presidente Aurelio De Laurentiis nella serata di domenica 23 maggio. Fatale per Gattuso è stato infatti il pareggio 1 a 1 con il Verona di Juric, che ha consentito alla Juventus di scavalcare il Napoli al quarto posto in classifica relegando i partenopei fuori dalla qualificazione in Champions League. Il tecnico portoghese è attualmente l’allenatore del Porto, con il quale in quest’ultima stagione ha raggiunto il secondo posto del campionato di calcio lusitano e ha eliminato la Juventus agli ottavi di finale di Champions League. L’arrivo al Napoli di Conceição, che come giocatore aveva già militato nel nostro Paese tra il 1998 e il 2004 con le maglie di Lazio, Parma e Inter, verrà ufficializzato nei prossimi giorni dalla dirigenza partenopea. Mentre l’arrivo di Conceição doveva ancora essere confermato erano state diverse le ipotesi che nelle ultime ore si erano susseguite in merito alla nuova panchina del Napoli. Tra i più quotati vi era anche l’ex allenatore della Juventus Massimiliano Allegri, che però rimane attualmente conteso dal Real Madrid come probabile successore di Zinedine Zidane. Gli altri nomi messi sul tavolo per la panchina del Napoli erano quelli di Luciano Spalletti (al momento senza squadra) e del francese Christophe Galtier, attuale tecnico del Lille. All’ormai ex allenatore calabrese è purtroppo costato caro il pareggio raccolto all’ultima giornata di campionato contro il Verona di Ivan Juric. Pareggio che ha consentito agli eterni rivali della Juventus di entrare in zona Champions League scavalcando proprio gli azzurri, che si dovranno così accontentare dell’Europa League. L’addio di Gattuso alla panchina del Napoli è stato accompagnato da un messaggio del presidente Aurelio De Laurentiis, che su Twitter ha scritto: “Caro Rino, sono felice di aver trascorso quasi due stagioni con te. Ringraziandoti per il lavoro svolto, ti auguro successi ovunque tu vada. Un abbraccio anche a tua moglie e ai tuoi figli. Aurelio De Laurentiis”.

La notizia nel tweet di De Laurentiis. Luciano Spalletti allenatore del Napoli: “Benvenuto, insieme faremo un grande lavoro”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 29 Maggio 2021. “Sono lieto di comunicare che Luciano Spalletti sarà il nuovo allenatore del Napoli a partire dal prossimo primo luglio. Benvenuto Luciano, insieme faremo un grande lavoro”. Lo scrive su Twitter il presidente del Napoli Aurelio De Laurentiis annunciando il nuovo allenatore azzurro che ha firmato un contratto di due anni. Così l’attesa notizia è arrivata via social. Spalletti, nato a Certaldo nel 1959, è uno degli allenatori italiani più longevi dell’ultimo ventennio. Si è fatto notare con l’Udinese nei primi anni 2000 prima di passare alla Roma, l’esperienza più lunga e vincente in Italia: con i giallorossi ha vinto due Coppe Italia e una Supercoppa Italiana. Vince il campionato in Russia con lo Zenit per due anni, aggiungendo anche una Coppa e una Supercoppa in Russia. Nel 2016 torna in Italia sulla panchina della Roma, poi due anni all’Inter fino al 2019 prima dell’approdo a Napoli. L’accordo è stato firmato in tarda serata. È biennale con opzione per il terzo anno, un contratto di 100 pagine con un biennale da quasi tre milioni. Il nuovo tecnico del Napoli, Luciano Spalletti, si presenta all’ombra del Vesuvio, dopo aver raggiunto la qualificazione in Champions sia nel 2018 che nel 2019 con l’Inter. Inizia la carriera di allenatore all’Empoli nel 1995. In tre stagioni conquista la Coppa Italia di serie C e la doppia promozione dalla Serie C alla A. Nel 1998 il passaggio alla Sampdoria e l’anno successivo al Venezia dove viene esonerato. Nel gennaio 2002 arriva a campionato iniziato all’Ancona e non solo conquista la salvezza ma si piazza all’ottavo posto. Nell’estate del 2002 il suo primo trasferimento più significativo: quello all’Udinese. In Friuli conquista il sesto posto in campionato e la qualificazione in Coppa Uefa. Nella stagione 2004/2005 arriva l’exploit con l’Udinese che si piazza al quarto posto in campionato e accede ad una storica qualificazione in Champions League. Dopo il triennio in Friuli giunge il passaggio alla Roma. Nella Capitale resta 4 stagioni ottenendo risultati di prestigio tra i quali le 11 vittorie consecutive in campionato al primo anno e successivamente guida i giallorossi ai quarti di finale di Champions League nel 2007. A Roma Spalletti vince il suo primo trofeo da allenatore: la Coppa Italia nel 2007. Successo che bissa anche la stagione successiva sempre in Coppa Italia. Sfiora lo Scudetto con la Roma nel 2007-2008. I giallorossi sono rimasti campioni d’Italia per 54 minuti, fino al pareggio del Catania, dove la Roma ha giocato l’ultima sfida di campionato fuori casa e la contestuale vittoria dell’Inter a Parma. Nell’inverno del 2011 la sua prima esperienza all’estero: lo Zenit San Pietroburgo. In Russia vince il campionato per due stagioni di fila e la Supercoppa russa. Nel gennaio 2016 il ritorno alla Roma dove dal suo subentro (a Rudi Garcia) ottiene la migliore media punti di un allenatore in Serie A nella stagione. La seconda esperienza nella Capitale si interrompe a maggio del 2017. Poco dopo diventa allenatore dell’Inter. Spalletti conta 482 panchine in Serie A: nell’era dei tre punti a vittoria (dal 94/95) ne contano di piú soltanto Guidolin e Ancelotti nel massimo campionato.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Christian Eriksen. Alessio Pediglieri per fanpage.it il 17 Dicembre 2021. Il giorno dell'addio è arrivato per Christian Eriksen e l'Inter: si discuterà sulla soluzione più opportuna per concludere il contratto che tecnicamente scadrebbe soltanto il prossimo giugno 2024 ma che di fatto non ha più motivo di esistere. Il Coni non dà l'idoneità sportiva al giocatore, il club – pur avendolo tenuto in rosa regolarmente – non ha più alcun motivo per trattenerlo in Italia dove la sua carriera è preclusa. Così, insieme al suo procuratore, il danese incontrerà i vertici nerazzurri per stringersi la mano e augurarsi reciproche fortune, concludendo un'avventura sfortunata sotto tantissimi punti di vista. L'Inter, malgrado il malore avvenuto durante gli Europei con la maglia della Danimarca e il conseguente delicatissimo recupero con l'intervento al cuore per sottoporgli un defibrillatore sottocutaneo, non ha mai abbandonato Chris Eriksen. Il club si è reso disponibile in tutto, considerando il centrocampista un giocatore della rosa a disposizione di mister Inzaghi, al di là del suo reale utilizzo in campo, fino ad oggi giorno in cui è arrivata la conferma ufficiale dell'impossibilità di poter continuare a giocare in Italia. Con il verdetto negativo del Coni e la possibilità di poter giocare altrove, club e calciatore troveranno la soluzione migliore per liberarsi l'un dall'altro. Una separazione consensuale dalla quale l'Inter potrebbe anche trarne un profitto economico. Nessuna speculazione sulla situazione, ma semplicemente si valuterà anche il fronte finanziario: l'Inter può guadagnare dalla cessione di Eriksen? Come si leggeva nei dati ufficiali sul bilancio di fine gestione 2020/2021, il peso del danese ammontava a oltre 18 milioni, senza l'intenzione di escluderlo o rescinderne il contratto per rispetto di quanto accaduto. Ma l'Inter aveva anche subito manifestato un altro elemento da tenere in considerazione nel momento in cui si sarebbe proceduto "alla cessione del giocatore ad una squadra estera ove le attuali condizioni non escludono come detto la possibilità di ottenere l’idoneità" : il tentativo di realizzare "evidenze quantificabili" sul "valore di bilancio dei diritti pluriennali connessi a tale calciatore". Dunque, la risposta è sì nel momento in cui si trovasse un accordo parallelo con il giocatore e il club deciso a riprenderlo, con una sorta di indennizzo verso i nerazzurri. Dunque, si lascerà andare Eriksen provando a trovare anche una quadra economica di ripiego per rientrare dall'investimento fatto nel gennaio 2020 e fino ad oggi. Poi, l'altro aspetto: dove potrà giocare il danese ottenendo l'idoneità? In Italia come in altri campionati top d'Europa come in Germania o in Spagna, il calcio gli è precluso, ma ci sono alcune possibilità da vagliare vista la volontà di Eriksen di tornare sui terreni di gioco. La strada più difficile è l'Inghilterra: i regolamenti in Premier consentirebbero al danese di sottoscrivere un nuovo contratto ma al momento nessuno si è fatto in modo concreto avanti. Poi, c'è l'Olanda con l'Eredivisie che potrebbe accogliere il centrocampista: si era parlato di una ipotesi Ajax dove milita Daley Blind che dal 2019 gioca nelle stesse condizioni, con un defibrillatore sottocutaneo. Infine, l'ipotesi Danimarca – la più percorribile – con Eriksen che tornerebbe a casa.

El Mundo: «Eriksen, Aguero ma anche Zielinski, che succede al cuore dei calciatori?» Aumentano i casi di calciatori con problemi di tachicardia se non più gravi, per alcuni esperti c’è anche lo zampino del Covid. Il Napolista il 17 dicembre 2021. Christian Eriksen sull’erba del Parken Stadion di Copenaghen è il caso più eclatante. Kun Agüero ha appena lasciato il calcio per un’aritmia che non potrà gestire continuando a giocare. Ma ce ne sono tantissimi di casi, più o meno noti, più o meno gravi. El Mundo si chiede cosa sta succedendo al cuore degli atleti, dei calciatori in particolare. C’entra anche il Covid? El Mundo richiama anche Adama Traoré, l’attaccante 26enne dello Sheriff Tiraspol che ha dovuto lasciare il campo contro Real Madrid a fine novembre. “Non aveva ricevuto un colpo, ma si una mano al petto e si stente a terra. Dopo alcuni momenti di tensione e paura allo stadio, l’attaccante esce dal campo con le proprie forze. È stato fuori una settimana, ma è tornato a giocare con apparente normalità”. E poi Victor Lindelof, del Manchester United, e Piotr Zielinski. “Il 27enne difensore centrale dei red devils si è dovuto ritirare dal campo dopo aver accusato un forte dolore al petto. ‘Per più di 10 minuti la sua frequenza cardiaca è stata più alta del normale. Era scioccato e non sapeva come affrontarlo”, ha spiegato in seguito il manager dello United Ralf Rangnick. “Hanno fatto tutti i test e sembra che sia tutto ok”. “Nel caso di Zielinski, è durato solo 19 minuti in campo. Si indica petto e collo e chiede aiuto ai medici. Non riesce a respirare normalmente e, anche se i test a cui si è sottoposto non hanno rilevato problemi, è stato monitorato per tutta la settimana, come Lindelof”. “Ci sono casi direttamente correlati al Covid – scrive El Mundo – L’argentino Leo Ponzio e il paraguaiano Lucas Barrios hanno sofferto di miocardite la cui origine è stata determinata essere l’infezione da coronavirus che avevano sofferto, non giocavano da diverse settimane”. Eriksen, invece, non ha mai avuto il Covid, aggiungiamo noi. “Quello che abbiamo visto con il Covid è che nei mesi successivi i pazienti sono più tachicardici, le loro pulsazioni rimangono 10 battiti più alte per un periodo compreso tra uno e tre mesi. Ci vuole tempo per tornare alla frequenza precedente, ma torna alla normalità”, ha detto al giornale spagnolo il dottor Manuel Marina, cardiologo specializzato in aritmie e cardiologia sportiva e uno dei fondatori di ‘Idoven’, un progetto per rilevare precocemente i problemi cardiaci grazie all’Intelligenza Artificiale. Lavorano, tra gli altri, con Iker Casillas.

Paura a Copenaghen: Eriksen si accascia a terra durante Danimarca-Finlandia, massaggio cardiaco in campo. Poi il sollievo: il giocatore è cosciente e parla. Gabriele Bonincontro su La Repubblica il 12 giugno 2021. Il danese dell'Inter è stramazzato a terra al 43' del primo tempo. Terribili le immagini dei soccorsi eseguiti sul prato del Parken tra i giocatori e il pubblico in lacrime. Ora è in ospedale, fuori pericolo, ed è sottoposto a test. La partita è ripresa alle 20.30 La Uefa: "Giocatori rassicurati". Paura a Copenaghen durante Danimarca-Finlandia, prima partita del gruppo B degli Europei. Christian Eriksen, il giocatore danese dell'Inter, è stramazzato a terra all'improvviso al 43' del primo tempo della partita in corso allo stadio Parken. In un silenzio irreale, tra i giocatori e il pubblico in lacrime, si sono visti i sanitari eseguire il massaggio cardiaco e la respirazione bocca a bocca al giocatore. Dopo alcuni minuti Eriksen è stato trasportato negli spogliatoi protetto da un telo. Il massaggio cardiaco è durato 11 minuti, ma in una successiva immagine diffusa dalle agenzie il calciatore ventinovenne è apparso cosciente mentre viene trasportato fuori: con la mano sinistra si tiene la fronte.

"È sveglio e cosciente". Eriksen è stato portato al Rigshospitalet, un ospedale distante appena 500 metri dallo stadio Parken, e che è considerato il migliore della capitale danese. La Uefa ha comunicato che il giocatore è stato "stabilizzato" in ospedale. Messaggi rassicuranti sono arrivati anche dall'Inter, il suo club, e dalla federazione danese: "Il giocatore è cosciente e si sta sottoponendo a test in ospedale". Il procuratore: "Christian è in grado di parlare ed è fuori pericolo". Eriksen è riuscito a parlare al telefono con i suoi compagni di squadra dall'ospedale: "Loro stanno giocando la partita per Christian", ha spiegato il direttore generale della federcalcio danese.

Decisivo l'intervento di Kjaer. Nelle immagini della partita si vede chiaramente Eriksen che correndo rientra dalla linea di fondo, comincia a barcollare e cade da solo in avanti privo di sensi. L'intervento dei sanitari, richiamati dai giocatori, è stato immediato: i suoi compagni di squadra si sono poi messi in piedi facendo da scudo per proteggere la privacy. Sul campo ha assistito ai soccorsi in lacrime la moglie di Eriksen, Sabrina Kvist Jensen, scesa dalle tribune e sostenuta sul terreno di gioco dal portiere Schmeichel e da Kjaer. Il giocatore del Milan è stato il primo a soccorrere compango, probabilmente il suo intervento è stato decisivo: intervenendo subito è riuscito a evitare che il suo compagno di squadra soffocasse.

La partita è ripresa alle 20.30. La Uefa: "Giocatori rassicurati". Sui maxischermi del Parken è apparso il messaggio "Christian Eriksen è stabile e sveglio" per rassicurare i tifosi presenti sulle tribune. La partita, sospesa per "emergenza medica" è ripresa alle 20.30. Lo ha comunicato l'Uefa: "In seguito alla richiesta dei giocatori di entrambe le squadre, la Uefa ha accettato di far riprendere la partita tra Danimarca e Finlandia stasera alle 20:30. Si giocheranno gli ultimi quattro minuti del primo tempo, ci sarà poi una pausa di 5 minuti per l'intervallo seguita dal secondo tempo. La partita è stata sospesa a causa di un'emergenza medica che ha coinvolto il danese Christian Eriksen. Il giocatore è ora in ospedale e in condizioni stabili". La federazione danese ha confermato che la decisione di riprendere la partita è stata presa dopo che "ai giocatori danesi è stato confermato che Christian Eriksen sta bene". Si è giocata regolarmente Belgio-Russia, il match dello stesso girone in programma a San Pietroburgo. Qualche dubbio c'era stato subito dopo il malore di Eriksen. Il ct belga Roberto Martinez aveva infatti detto: "Siamo tutti scioccati. L'abbiamo saputo quando eravamo negli spogliatoi. Speriamo che Christian possa recuperare al meglio".

Christian "star of the match". L'Uefa ha deciso poi di assegnare il premio "star of the match" di migliore in campo di Danimarca-Finlandia proprio a Christian Erkisen. "Il calcio è un gioco bellissimo e Christian lo interpreta magnificamente", ha aggiunto il presidente Uefa, Aleksander Ceferin.

All'Inter dal 2020. Ventinove anni, Eriksen ha esordito con l'Ajax nel 2010. Nel 2013 passa al Tottenham dove colleziona 226 presenze e 51 goal: agli Spurs raggiunge la finale della Champions League nel 2019. Nel 2020 il passaggio all'Inter per 27 milioni di euro con un contratto fino al 30 giugno 2024. In nerazzurro ha giocato 43 partite segnando 4 gol ed è stato uno dei principali protagonisti della vittoria dello scudetto nel campionato di Serie A appena concluso. È stato premiato quattro volte come calciatore danese dell'anno, nel 2013, 2014, 2015 e nel 2018.

Zhang: "Forza Chris". Messaggi e auguri per Eriksen sono arrivati da tutto il mondo del calvio. "Forza Chris!", è il post che il presidente dell'Inter Steven Zhang ha dedicato al giocatore danese. Il messaggio accompagna una foto che ritrae i due insieme. "Ogni nostro pensiero è per te", ha aggiunto il club nerazzurro. Alla società si sono uniti con messaggi personali i suoi compagni campioni d'Italia Lukaku, Lautaro e Hakimi. Anche Cristiano Ronaldo si unisce al coro di incoraggiamento: "I nostri pensieri e le nostre preghiere vanno a Christian Eriksen e alla sua famiglia. Il mondo del calcio resta unito sperando in buone notizie. Conto di ritrovarti presto di nuovo in campo Chris. Sii forte!". "Tutti i nostri pensieri sono con Christian Eriksen e la sua famiglia". Così sul profilo Twitter il Tottenham, l'ultima squadra in cui ha giocato Eriksen prima di passare all'Inter. Auguri anche da Francesco Totti ("I numeri 10 non mollano mai") e dalla nazionale azzurra.

Muamba twitta preghiera, ebbe arresto cardiaco di 78 minuti. "Please God", "Ti prego, Dio". È il tweet con cui Fabrice Muamba, ex giocatore congolese della Premier, prega per Christian Eriksen. Nel 2012, quando militava nel Bolton, Muamba ebbe un infarto durante una partita contro il Tottenhem e rimase un'ora e 18 minuti senza conoscenza, venendo sottoposto a massaggio cardiaco e defibrillatore. Si riprese senza riportare danni cerebrali, ma fu costretto al ritiro.

Paura agli Europei: Eriksen ha un arresto cardiaco. "Ora è sveglio". Riprende la partita. Novella Toloni il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Al 42' del primo tempo l'interista si è accasciato a terra durante il match Danimarca-Finlandia. Immediati i soccorsi con il massaggio cardiaco. La moglie e i compagni in lacrime. Il giocatore ha lasciato il campo cosciente e ora si trova in ospedale. La gara è proseguita dopo 45 minuti di sospensione. Attimi di paura durante Danimarca - Finlandia per il malore di Christian Eriksen. Il centrocampista dell'Inter, 29 anni, ha avuto un arresto cardiaco in campo durante il match di Euro 2020. Dopo il massaggio cardiaco a bordo campo, il calciatore è stato stabilizzato e trasferito in ospedale vigile per essere sottoposto a ulteriori accertamenti. Dalle prime notizie ufficiali, Eriksen è reattivo e parla con i sanitari. Il drammatico episodio si è consumato a pochi minuti dall'intervallo. Al 42' del primo tempo Christian Eriksen si è avvicinato a un compagno di squadra per ricevere la rimessa laterale. La palla gli è rimbalzata addosso e il calciatore è caduto a terra. Nessuno scontro fisico con altri giocatori né colpi violenti. Le condizioni di Eriksen sono apparse subito drammatiche. Mentre i compagni di squadra facevano scudo davanti al suo corpo disteso a bordo campo - tra lacrime e preghiere - i medici sono intervenuti tempestivamente. Al calciatore danese è stato subito praticato il massaggio cardiaco. Un intervento che è durato circa dieci minuti, prima che il corpo di Eriksen venisse portato fuori dal campo. Lacrime e disperazione tra i compagni e sugli spalti dopo che tra i tifosi è iniziata a circolare la notizia di quando avvenuto a pochi minuti dall'intervallo. Un dramma in diretta al quale ha assistito la moglie di Christian Eriksen, che è scoppiata in lacrime in campo dopo il malore che ha colpito all'improvviso il marito. Raggiunta da Schmeichel e capitan Kjaer, la signora Eriksen è rimasta a distanza, consolata dai compagni di squadra del centrocampista dell'Inter mentre i sanitari cercavano di rianimarlo. Dopo l'iniziale spavento, le prime foto di Eriksen che lascia il campo sulla barella, ma cosciente, hanno fatto tirare un sospiro di sollievo a fan e spettatori. In una foto, in particolare, si vede il giocatore che si tiene la fronte con la mano sinistra e gli occhi impauriti. "Christian Eriksen è stabile e sveglio" è il messaggio apparso sui tabelloni del Parken Stadium di Copenaghen rivolto ai tifosi presenti nell'impianto per assistere al match degli Europei tra Danimarca e Finlandia. "Per fortuna i casi a lieto fine sono tanti, molti di più di quelli tragici - ha detto a Rai Radio1 il dottor Ernesto Alicicco, ex medico sociale della Roma, durante "Tutto l'Europeo minuto per minuto" - Le immagini di Eriksen sono confortanti perchè se riesce a tenere la mano sul volto vuol dire che riesce a muovere i muscoli secondo un movimento che gli chiede il cervello e questo è indubbiamente un buon segno. Altrimenti le mani sarebbero inerti". L'Uefa, dopo quanto accaduto in campo a Christian Eriksen, ha emanato una prima nota per la sospensione momentanea dell'incontro che era in corso di svolgimento a Copenhagen: "Gara sospesa per emergenza sanitaria". Ma dopo la riunione di emergenza avvenuta alle 19.45 è stato deciso di riprendere la gara con l'inizio del secondo tempo alle 20.30. Dopo l'arresto cardiaco in campo Eriksen è stato stabilizzato dai medici dello staff sanitario e trasferito d'urgenza in ospedale a Copenhagen. Il calciatore sarà sottoposto a ulteriori test medici per valutare le sue condizioni e capire l'origine dell'arresto cardiaco. Intanto però le ultime notizie rassicurano. Dopo essere uscito dallo stadio vigile e reattivo, Peter Moller, il direttore tecnico della Danimarca, ha detto alla tv pubblica danese che Christian Eriksen ha parlato con i compagni di squadra dal suo letto d'ospedale, rassicurandoli sulle sue condizioni.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché no

Così il milanista Kjaer ha salvato la vita a Eriksen. Marco Gentile il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Simon Kjaer, capitano della Danimarca, si è subito reso conto delle gravi condizioni di Eriksen ed è intervenuto tempestivamente agevolando i soccorsi. Christian Eriksen ha fatto spaventare una nazione intera e non solo con il suo svenimento durante la partita dell'Europeo Danimarca-Finlandia. Il giocatore dell'Inter si è lasciato cadere dal nulla durante un'azione offensiva della squadra danese lasciando increduli i compagni di gioco. Uno in particolare, il capitano e "cugino" del Milan, Simon Kjaer pare essere stato decisivo in quegli attimi concitati.

Indispensabile. Secondo quanto riporta il quotidiano inglese Mirror il difensore del Milan, una volta appresa la gravità della situazione, è corso verso il compagno di squadra esanime stabilizzandogli la schiena, liberandogli le vie respiratorie e facendo partire la manovra di rianimazione. Il capitano ha così facilitato il lavoro dei medici, accorsi sul campo pochi istanti dopo lo svenimento di Eriksen, che hanno poi continuato a praticargli il massaggio cardiaco prima di portarlo negli spogliatoi per ultimare la rianimazione. A confermare come Simon Kjaer sia stato decisivo è arrivato anche il tweet dell'ex giocatore del Sunderland Neil Wainwright che su Twitter ha spiegato:"Sembra che un sacco di credito debba andare a Simon Kjaer, che ha iniziato la RCP per primo sulla scena".

Sospiro di sollievo. "Christian Eriksen è sveglio e rimane in condizioni stabili. Resterà in ospedale per sottoporsi ad ulteriori accertamenti", questo il messaggio della federazione danese per tranquillizzare un po' tutti sulle sue condizioni di salute. "Respira e riesce a parlare: è fuori pericolo", ha riferito l’agente del giocatore, Martin Schoots, ai microfoni di una radio danese dopo aver parlato col padre del 29enne giocatore dell’Inter. La partita interrotta attorno alle 18:45 circa è poi ripresa alle 20:30 su richiesta dei giocatori di entrambe le squadre che hanno chiesto di giocare una volta appreso che Eriksen stesse bene. Il direttore tecnico della Danimarca, inoltre, alla tv pubblica danese ha confermato come dal letto di ospedale sia stato l'ex giocatore di Ajax e Tottenham a chiedere che la partita fosse ultimata. Per la cronaca la Danimarca ha perso per 1-0 contro la Finlandia e non è dato a sapere ovviamente se la preoccupazione e lo spavento per Eriksen abbia poi inciso sulla prestazione della nazionale danese. La prima ad accorrere sul terreno di gioco in lacrime è stata la moglie del 29enne giocatore dell'Inter che è stata subito consolata da Kjaer che potrà sicuramente raccontare di aver salvato la vita al proprio compagno di nazionale.

Marco Gentile. Sono nato l'8 maggio del 1985 a Saronno, ma sono di origine calabrese, di Corigliano Calabro, per la precisione. Nel 2011 mi sono laureato in comunicazione pubblica d'impresa presso la Statale di Milano. Ho redatto un elaborato finale sulla figura di José Mourinho, naturalmente in ambito della comunicazione. Sono appassionato di sport in generale ed in particolare di tennis e calcio. Amo la musica, leggere e viaggiare. Mi ritengo una persona genuina e non amo la falsità. Sono sposato con Graziana e ho una bambina favolosa di 2 anni e mezzo.

Carlos Passerini per il “Corriere della Sera” il 19 agosto 2021. «Non sono un eroe», dice subito Simon Kjaer, come a voler chiudere già il discorso. Di quella storia preferirebbe non parlare e infatti finora non l'ha mai fatto. Solo un post sui social, qualche giorno dopo l'episodio: «Quel momento farà parte di me per sempre», fu il messaggio. Non si sente un eroe e non vuole essere chiamato così. Lo dice più volte, nel corso dell'intervista. «Ho fatto solo quello che dovevo fare, senza pensarci, come avrebbe fatto chiunque altro». Una cosa è certa: la sicurezza e la prontezza con cui pronuncia queste parole sono le stesse che il 12 giugno scorso, durante Danimarca-Finlandia degli Europei, gli hanno permesso di salvare la vita al suo compagno di squadra Christian Eriksen, crollato in campo per un arresto cardiaco. Dopo aver fatto il giro del mondo, quella scena è ancora stampata nella memoria di tutti noi: la corsa verso il compagno che cade a terra con gli occhi spalancati, la freddezza di estrargli la lingua dalla bocca impedendogli di soffocare, il primo massaggio cardiaco, l'intervento dei medici, infine l'abbraccio alla moglie dell'amico, disperata e in lacrime, in mezzo al campo. 

Due mesi dopo, che ricordo resta di quel giorno? 

«Prima la festa, poi il silenzio. Era un giorno storico per tutti noi danesi, la prima partita dell'Europeo, in casa nostra. Poi è successo quello che è successo. Ho avuto la prontezza di restare lucido, come tutti i miei compagni. È stato un lavoro di squadra, avremmo fatto ovviamente lo stesso se fosse stato un avversario. Tutto qua. L'unica cosa che conta è che Christian ora stia bene. Solo quello è importante».  

Di lei ha impressionato il sangue freddo. 

«L'ho fatto senza riflettere. L'istinto mi guidava e ho fatto quello che dovevo, automaticamente. Era la prima volta che mi succedeva, spero sia anche l'ultima». 

Non crede che tutti i giocatori, e forse non solo, dovrebbero imparare le tecniche di rianimazione? 

«Certamente. Spero che quell'immagine abbia sensibilizzato sul tema. I medici sono stati bravissimi, sono intervenuti subito, ma di sicuro sapere cosa fare in certi momenti è fondamentale. Può salvare una vita».  

I tifosi del Milan ora la vogliono capitano. 

«Un capitano ce l'abbiamo già e si chiama Romagnoli. Fra noi c'è grande sintonia e sportività. Non m' interessa la fascia. Io do il massimo sempre e comunque». 

Lunedì si parte, in casa della Samp. Che Milan sarà? 

«La continuità ci sarà d'aiuto, ma stiamo lavorando per crescere ulteriormente. Siamo diventati più imprevedibili, più difficili da affrontare».  

Però avete perso Donnarumma e Calhanoglu. 

«Sì, ma con Giroud davanti ci siamo rinforzati, è un grande attaccante. Ha esperienza, fame, sa fare gol. Anche in Champions sarà utile». 

Dopo il brillantissimo secondo posto, l'obiettivo ora è lo scudetto? O è troppo presto? 

«Una squadra come il Milan ha il dovere di puntare al massimo. Solo così si cresce. Io non ho mai vinto un campionato e mi piacerebbe riuscirci col Milan. Sarebbe un sogno. Ma ci sono anche gli altri. La concorrenza è forte. Davanti a tutti vedo Inter e Juve». 

Ibrahimovic resterà fuori fino a settembre. Quanto è importante? 

«Lui cambia le squadre da solo. Tutti insieme abbiamo iniziato un percorso. Ma non è ancora finita, ora serve un altro step». 

L'impressione è che accanto a lei crescano tutti: che ne pensa di Tomori? 

«È migliorato molto, tatticamente e come personalità. Ora deve imparare l'italiano». 

In porta tocca a Maignan. Che impressione le ha fatto? 

«Mi ha colpito. È un grande portiere, vedrete». 

Pioli ha detto: «Kjaer è un giocatore di un'intelligenza rara». Cosa intende? 

«Forse che sono vecchio. Scherzi a parte, è grazie al mister se siamo cresciuti tanto. È un grande allenatore. Il suo lavoro è sotto gli occhi di tutti».  

Poi c'è Maldini. 

«Un mito. Soprattutto per chi come me fa il difensore ed è cresciuto ammirandolo».  

Il suo contratto scade fra un anno. Rinnoverà? 

«Per me non è un problema. Io qui sto benissimo e vorrei restare ancora a lungo. Il Milan era un sogno e l'ho realizzato. Ora ci parleremo». 

L'impressione, da fuori, è che nel Milan regni grande sintonia. E da dentro? 

«È così. C'è armonia, unità. Ma soprattutto c'è voglia di lavorare. Perché senza lavoro, non si migliora».  

È vero che sui social si fa aiutare dai più giovani? 

«A loro viene facile. Non mi piace mettere in pubblico le mie cose. Capisco l'importanza dei social nel 2021, ma non li amo». 

L'Italia campione d'Europa l'ha sorpresa? 

«Ho fatto il tifo per voi. Una vittoria meritata che darà visibilità alla serie A, che non è più il campionato difensivo di un tempo. E la Nazionale l'ha dimostrato».  

In un'intervista di qualche anno fa, lei ha detto che i calciatori hanno il dovere di guardare oltre il campo. Che effetto le hanno fatto le immagini dell'Afghanistan? 

«Impossibile restare indifferenti, non si può fare finta di nulla. Credo che come cittadini del mondo abbiamo il dovere di aiutare sempre chi sta peggio. E batterci per ciò che è giusto. Come per quanto riguarda i cambiamenti climatici. Anche lì serve una mentalità nuova». 

Chi ha portato una mentalità nuova nel Milan è l'a.d. Ivan Gazidis, che ora sta combattendo una battaglia contro il cancro. 

«Lui sa che è sempre nei nostri pensieri. Come dicevo prima, il Milan ora è una famiglia. La sua battaglia è la nostra battaglia». 

La moglie di Eriksen corre in campo disperata. Francesca Galici il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. C'era il terrore negli occhi di Sabrina Kvist Jensen, la moglie di Christian Eriksen mentre i medici tentavano la rianimazione del calciatore. Sono stati attimi di paura per Christian Eriksen, il calciatore della Danimarca che si è accasciato a terra durante la partita degli Europei contro la Finadia a Copenaghen. Uscito dal campo in barella, il calciatore ha poi ripreso i sensi. Nel frattempo, sua moglie che si trovava in tribuna per assistere alla partita, si è precipitata a bordo campo per sincerarsi personalmente delle condizioni del marito. Una volta raggiunto il rettangolo di gioco, la donna non ha retto nel vedere suo marito a terra privo di sensi ed è scoppiata in lacrime, mentre i compagni di squadra di Christian Eriksen facevano scudo attorno al giocatore per impedire che venisse inquadrato. Sabrina Kvist Jensen, nata nel 1992, ha conosciuto il calciatore nel 2012 e nel 2018 è nato il loro primo figlio, Alfred. Mentre i medici praticavano il massaggio cardiaco a suo marito, lei ha preferito tenersi a distanza, lasciando lo spazio per effettuare le manovre senza intralci al personale della nazionale danese, che nei 15 minuti di intervento in campo ha effettuato tre interventi sul cuore del calciatore, anche con l'ausilio de defibrillatore. La moglie di Erisken è stata quindi raggiunta dal capitano Kjaer, da Schmeichel e da altri compagni che hanno cercato di consolarla. Nel frattempo, anche i compagni che facevano da scudo attorno al centrocapista dell'Inter, difficilmente riuscivano a trattenere le lacrime e alcuni di loro si sono affidati alla preghiera in quel momento così complicato. Un primo sospiro di sollievo è stato tirato dai compagni, dalla moglie e dal pubblico da casa che tratteneva il respiro, quando Eriksen è apparso cosciente mentre veniva portato via in barella. Trasportato d'urgenza in ospedale, le sue condizioni sono ora stabili. "Il giocatore è stato trasferito in ospedale ed è stato stabilizzato", ha riferito l'ufficio comunicativo Uefa su Twitter. "A seguito dell'emergenza medica che ha coinvolto il giocatore danese Christian Eriksen, si è svolta una riunione di emergenza con entrambe le squadre e gli ufficiali di gara e ulteriori informazioni saranno comunicate alle 19:45 CET", ha proseguito la nota social del Uefa. La Federcalcio danese, quindi, ha aggiunto: "Christian Eriksen è sveglio ed è stato trasferito per ulteriori esami al Rigshospitalet". Le note Uefa e della Federcalcio hanno rassicurato quanti, in quei terribili e lunghissimi minuti, hanno temuto il peggio per il calciatore. Sua moglie dovrebbe trovarsi con lui, insieme a una delegazione della nazionale danese.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Il mondo tifa per Christian Eriksen. Francesca Galici il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Dalla politica, dal mondo dello spettacolo e, ovviamente, da quello del calcio, sono arrivati i messaggi di supporto per Christian Eriksen. Le immagini di Christian Eriksen che si accascia al suolo sul terreno di gioco di Copenaghen durante la partita contro la Finlandia hanno rapidamente fatto il giro della rete. Molte emittenti televisive hanno scelto di non rimandare in onda la sequenza in cui si vede il malore del giocatore in segno di rispetto ma, fortunatamente, le notizie che arrivano da Copenaghen sembrano rassicuranti. "Christian Eriksen è sveglio e si trova in ospedale per ulteriori esami", ha riferito l'ufficio stampa della nazionale danese, mentre Eriksen si trova ora al Rigshospitalet di Brondby. Intanto da tutto il mondo arrivano i messaggi di incoraggiamento e di supporto per il calciatore. Da Salvini a Ronaldo, in tantissimi hanno scelto di stringersi attorno al centrocampista dell'Inter in questo momento così difficile. "Forza Christian, non mollare, devi vincere la partita più importante!", ha scritto Matteo Salvini su Twitter. Il leader della Lega è un noto tifoso milanista ma in momenti come questi non esistono più maglie e colori e ci si stringe tutti, insieme. Si abbatte qualunque muro e si fa il tifo tutti nella stessa direzione. "La foto della speranza. Forza Christian!", ha scritto in un altro tweet il leader della Lega, mostrando l'immagine di Eriksen cosciente. Un incoraggiamento è arrivato anche dalle Sardine, che dalla loro pagina Facebook hanno scritto: "Forza Eriksen". Non è mancato Carlo Conti, che ha voluto mostrare la sua vicinanza a Christian Eriksen scegliendo Twitter, il social preferito per commentare gli eventi sportivi e non: "Abbiamo fiducia, tieni duro". Dai suoi social, anche il sindaco di Milano ha voluto esprimere solidarietà: "Forza Christian, Milano ti aspetta". Un augurio è arrivato anche da Francesco Totti: "I numeri 10 non mollano mai. Forza Christian siamo con te!". Il ct della nazionale italiana, Roberto Mancini, ha voluto fare il suo personale in bocca al lupo, "I miei pensieri e le mie preghiere sono con Christian. Andiamo ragazzo Heart suit ci vediamo presto in campo", dopo che la Nazionale ha espresso la sua vicinanza al giocatore dal suo profilo ufficiale: "Forza Chris, siamo al tuo fianco". Da Instagram, invece, è arrivato il messaggio di Steven Zhang, presidente dell'Inter, squadra nella quale milita il calciatore danese: "Forza Christian". Cristiano Ronaldo, dalla sua seguitissima pagina di Instagram, ha voluto mandare il suo messaggio di vicinanza al collega e avversario di tante partite: "I nostri pensieri e le nostre preghiere sono con Christian Eriksen e la sua famiglia. Il mondo del calcio è unito sperando in buone notizie. Conto di ritrovarti presto in campo, Chris! Sii forte". Immancabile l'augurio dell'Inter attraverso i suoi social: "Forza Chris, ogni nostro pensiero è per te!". Vicinanza anche dal Real Madrid: "Tutta la nostra forza e il nostro sostegno a Christian Eriksen". E poi ancora i compagni di squadra e numerose altre formazioni hanno lasciato messaggi di augurio per il calciatore, che fortunatamente pare si sia ripreso e sia vigile.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Dall'Ajax fino all'Inter: ecco chi è Christian Eriksen. Antonio Prisco il 12 Giugno 2021 su Il Giornale. Una carriera da predestinato. Passato da giovanissimo all'Ajax, arriva l'esplosione col Tottenham fino allo scudetto in nerazzurro. ''Christian Eriksen è abituato a fare la differenza sin da bambino...'' . Sin dagli inizi di carriera lo hanno sempre considerato un predestinato, il padre Thomas e Morten Olsen, il ct che lo ha portato al Mondiale del 2010 da diciottenne e come più giovane calciatore dell'intera competizione. Lo visionò con la Danimarca Under 17 e lo inserì tra quei "calciatori wow", capaci di fare la differenza in un istante.

Gli inizi di carriera. L'amore per il calcio è trasversale nella famiglia Eriksen. Anche la sorella Louise è una giocatrice affermata, difensore nella massima serie danese e convocata anche in Nazionale. A spingerlo a giocare è proprio il papà Thomas, ala sinistra in Danimarca ma vittima di troppi infortuni. I suoi idoli da bambino sono Francesco Totti oltre che ovviamente i fratelli Michael e Brian Laudrup, due istituzioni del suo Paese. Per il piccolo Christian lo sport diventa sin da subito quasi un'ossessione: "Ricordo i viaggi in macchina dopo le partite, erano un supplizio. Mi rimproverava per qualche situazione di gioco ed io volevo sprofondare nel sedile" confiderà qualche anno dopo. A 13 anni passa all'Odense, a 14 inizia con i provini in giro per l'Europa - Chelsea, Milan e Barcellona - ma viene scartato. Torna dai suoi vecchi compagni senza scomporsi e procede per gradi, fino a raggiungere l'Ajax grazie allo sguardo di John Steer Olsen, scopritore di Ibra che lo segnala al club olandese. Glenn Riddersholm, che lo allenava nella Danimarca Under 17, parlava in questi termini di Eriksen: "Può giocare in qualsiasi squadra del mondo semplicemente perché è in grado di adattarsi a qualsiasi sistema di gioco, è un giocatore molto intelligente che può esprimersi ad altissimi livelli in club come Barcellona e Real Madrid".

Gli anni all'Ajax e al Tottenham. Per il cartellino l'Ajax spende 50mila euro, somma che l'Odense utilizza per finanziare la costruzione di un ulteriore campo di calcio. Il danese fa il suo debutto in un match di Eredivisie contro il Nac Breda. In quella stessa partita Luis Suarez scende in campo per la prima volta con la fascia di capitano al braccio: ed è proprio l'attaccante uruguaiano a dargli i primi consigli e incoraggiamenti poco prima del calcio d'inizio. Trequartista poi mezzala gli anni con i lancieri sono fondamentali per diventare un centrocampista totale e spiccare il volo. Eriksen è ormai uno dei migliori profili d'Europa e poco dopo arriva il passaggio al Tottenham. Nel 4-2-3-1 di Pochettino trova la sua collocazione ideale. Dal suo debutto in Inghilterra il danese diventa il giocatore che ha collezionato più assist (62), creato più occasioni (570) e segnato più gol da fuori area (23) e su punizione diretta (8) nella storia della Premier League. L'apice arriva con la finale di Champions League persa contro il Liverpool. Dopo quella partita la squadra vive un lungo periodo di crisi fino all'esonero di Pochettino. Eriksen ha soltanto un altro anno di contratto e con l'approdo di Mourinho comincia a vedere poco il campo. Ormai ha deciso di lasciare gli Spurs e si appresta a vivere gli ultimi mesi da separato in casa. Ma dal mercato arriva una sorpresa inaspettata, nel gennaio 2020 viene acquistato dall'Inter.

L'approdo all'Inter. L'impatto all'Inter di sicuro non è tra i più semplici. Antonio Conte avrebbe preferito un centrocampista di ''garra'' e le caratteristiche di Eriksen non sembrano sposarsi al meglio con le idee dell'allenatore. Il tecnico salentino pensa ad un modulo più offensivo proprio per facilitarne l'inserimento l'inserimento. Ma è l'inizio della crisi: da trequartista le prestazioni del danese sono sempre deludenti. Si aggiungono le incomprensioni con Conte, che inspiegabilmente comincia ad impiegarlo soltanto negli ultissimi minuti delle partite. La storia con la maglia nerazzurra sembra ormai segnata ma quando il suo addio sembra ormai certo arriva la svolta. Il danese decide il derby di Coppa Italia con una punizione meravigliosa dal limite. Da quel momento cambia tutto e non esce più dagli undici titolari. Il resto è storia recentissima, Eriksen diventa uno dei protagonisti principali della splendida cavalcata verso lo scudetto. Assist, gol, tecnica e fantasia al servizio della squadra, adesso è insostituibile anche per l'Inter. E negli occhi dei tifosi nerazzurri resta sempre quella prodezza balistica contro il Milan: impossibile smettere di guardarla.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephen King. Sogno nel cassetto girare il mondo per seguire eventi sportivi. Collaboro con ilGiornale.it dal maggio 2018.

Euro2020, la commovente staffetta di cori dei tifosi danesi e finlandesi per Eriksen. La Repubblica il 12 giugno 2021. Quando erano ancora in attesa di sapere novità sulle condizioni di Christian Eriksen, i tifosi di Finlandia e Danimarca hanno intonato un commovente coro "a staffetta" con il nome del campione. I tifosi finlandesi hanno cantato il nome, quelli danesi il cognome, alternandosi e poi applaudendo.

Durante la partita Danimarca-Finlandia. Eriksen perde i sensi e si accascia: massaggio cardiaco e defibrillatore in campo. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Paura agli Europei. Durante Danimarca-Finlandia il centrocampista Christian Eriksen si è sentito male. Il capitano della Danimarca e tesserato dell’Inter si è accasciato in campo e gli è stato praticato il massaggio cardiaco anche con il defibrillatore in campo. Immagini terribili quelle arrivate da Copenaghen. Inizialmente il volto privo di sensi era stato anche inquadrato dalla regia. Per questo motivo i suoi compagni di squadra si sono messi intorno al calciatore per non permettere le inquadrature. In lacrime i compagni di squadra. Almeno tre gli interventi sul giocatore. Silenzio agghiacciante allo stadio. Eriksen ha 29 anni. In campo è arrivata anche la moglie. La barella, dopo venti minuti, circondata da due teli è stata trasportata. Non c’è la certezza che il calciatore abbia ripreso i sensi.

AGGIORNAMENTO: Dopo la sospensione del match, una fotografia che ha fatto il giro del mondo ha dato fiducia: nello scatto Eriksen sembra cosciente, con una mano sulla fronte, mentre esce dal campo in barella. Il giocatore, è stato reso noto, è stato trasferito in ospedale e le sue condizioni sono stabili. Lo ha scritto sui suoi account ufficiali l’UEFA, anche attraverso i suoi canali social. I tifosi hanno aspettato nello stadio. Sui maxischermi è stata data la notizia delle condizioni di Eriksen. Il procuratore del calciatore ha detto di aver parlato con il padre, che ha parlato con il figlio. Il capitano della Danimarca è quindi cosciente. La partita Danimarca-Finlandia, è stato annunciato, riprenderà.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Chi è Christian Eriksen, il calciatore dell’Inter e della Danimarca che ha sofferto un arresto cardiaco in campo con la Finlandia. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Giugno 2021. Paura agli Europei di calcio. A Copenaghen, durante la partita tra Danimarca e Finlandia, il capitano dei danesi e centrocampista dell’Inter Christian Eriksen ha sofferto un malore. Al 43esimo minuto del primo tempo Eriksen ha avuto un arresto cardiaco. Immagini terribili quelle dallo stadio Parken di Copenaghen: i soccorsi sono stati immediati, i medici hanno praticato il massaggio cardiaco in campo, per minuti i compagni di squadra – alcuni in lacrime – hanno schermato il suo corpo a terra per impedire alle telecamere le inquadrature, lo stadio in silenzio. Eriksen è stato quindi trasportato in ospedale. Le ultime notizie dicono che il capitano e centrocampista ha ripreso coscienza. Il procuratore ha detto di aver parlato con il padre del calciatore che gli avrebbe parlato. Le condizioni di Eriksen sono stabili. Secondo alcuni media sarebbe stato lo stesso calciatore a volere che la partita riprendesse. Alle 20:30 Danimarca-Finlandia è ricominciata dal minuto del malore. È finita uno a zero per la Finlandia. Eriksen ha 29 anni. È il capitano e il calciatore più rappresentativo della nazionale. Al momento gioca in Italia, con l’Inter FC. È stato acquistato dal club nerazzurro nel gennaio 2020 e quest’anno ha vinto la Serie A giocando 34 partite. La società milanese lo ha acquistato dai londinesi del Tottenham. Prima aveva giocato nell’Ajax di Amsterdam, Olanda. Eriksen è un centrocampista, tecnico ed elegante. Calcia bene con entrambi i piedi. Proprio nel tocco di palla e nella visione di gioco i suoi punti di forza. Dopo un primo periodo di difficoltà con l’allenatore Antonio Conte, si è preso il posto da titolare nell’Inter. Ha due figli. È sposato con Sabrina Kvist Jensen. La coppia ha avuto due figli ed è molto riservata. Jensen è scesa sul terreno di gioco dalla tribuna dopo il malore del marito. Anche le sue immagini hanno fatto il giro del mondo.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

Chi è la moglie di Eriksen, Sabrina Kvist Jensen: paura in campo per il malore durante Danimarca-Finlandia. Vito Califano su Il Riformista il 12 Giugno 2021. È stabile, in ospedale, Christian Eriksen. Il 29enne capitano della Danimarca e centrocampista dell’Inter ha sofferto un malore in campo, durante la partita degli Europei contro la Finlandia. Attimi di paura però a Copenaghen, andati in diretta in tutto il mondo per la partita di esordio tra le selezioni finlandesi all’Europeo. I compagni di squadra in lacrime, intorno alla barella per proteggere il capitano da inquadrature, lo stadio in un silenzio surreale. È scesa in campo, dalle tribune, anche Sabrina Kvist Jensen, moglie di Christian Eriksen. I due hanno due figli. Jensen è danese come il marito. Sono una coppia molto riservata, lontana dai riflettori. Sabrina è una hairstylist e ha studiato a Tommerup, sua città natale. I due stanno insieme dal 2012. La Federazione danese ha fatto sapere che il calciatore è sveglio, in ospedale. L’Inter FC è in contatto con la dirigenza della Nazionale scandinava. Si è trasferita in Inghilterra quando Eriksen ha giocato con il Tottenham e quindi in Italia dopo il trasferimento nel gennaio 2020 all’Inter. Jensen ha lavorato anche per un’azienda di abbigliamento. Secondo quanto detto da Beppe Marotta, amministratore delegato dell’Inter, e riportato da SkySport, trapela cauto ottimismo sulle condizioni di Eriksen. Il calciatore sta meglio.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Fabrizio Caccia per il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2021. «Christian Eriksen era già alle porte dell'aldilà, la fibrillazione ventricolare è l'anticamera della morte - dice il professor Gaetano Thiene, esperto di morte cardiaca improvvisa negli atleti -. E invece il miracolo questa volta è avvenuto, gli hanno salvato la vita, la sua è stata una morte improvvisa abortita. È stato un grande successo». È accaduto ieri al 43' minuto del primo tempo di Danimarca-Finlandia, allo stadio di Copenaghen. «Ecco il paradosso - dice il professor Thiene -. C'erano già stati più di 40 minuti di gioco, ma questo non è un problema per un atleta. Il cuore è capace di prestazioni sportive enormi, di grandi performance meccaniche, ma la stabilità elettrica è un'altra storia, nel cuore di Eriksen c'è stato un cortocircuito». È il 43' minuto. Eriksen si avvicina alla linea del fallo laterale per ricevere la palla da un compagno, ma a un tratto comincia a barcollare, pochi passi e cade. Subito, però, per fortuna, i compagni, l'arbitro, gli avversari, si accorgono del dramma. E scattano i soccorsi. «Per questo dico che andrebbero premiati. Tutti quanti!», si emoziona il professor Thiene, che eseguì la perizia su Davide Astori, il difensore della Fiorentina morto il 4 marzo 2018 e quella su Antonio Puerta, il centrocampista del Siviglia colpito da un arresto cardiaco in campo il 25 agosto 2007. Andrebbero premiati tutti, su a Copenaghen, secondo il professore. «Dal compagno di squadra (il capitano Kjaer, ndr ) che ha avuto la prontezza di spostargli la lingua per riaprire le vie aeree superiori. Ai medici che per diversi minuti gli hanno praticato il massaggio cardiaco perché il cuore potesse pompare. Eppoi a quelli che hanno usato il defibrillatore. Il defibrillatore è stata una grandissima invenzione, è un salvavita. Se l'hanno usato vuol dire che era in corso una fibrillazione ventricolare, il ragazzo ha perso coscienza, non poteva essere una sincope banale da caldo o da freddo, fosse stato così si sarebbe presto rialzato». Grazie alla scossa, «alla schicchera», invece, come la chiama familiarmente un altro luminare della cardiologia, Bruno Marino, allievo del professor Thiene, il defibrillatore ha riportato il cuore «al ritmo sinusale», naturale. «Una manovra veloce, giusta». Adesso si faranno tutti gli opportuni approfondimenti, ma appare evidente che Eriksen «ha avuto un'aritmia che ha portato al collasso», dice Bruno Marino, del Policlinico Umberto I di Roma. E aggiunge: «Ora la sfida sarà capire i motivi precisi, perché di misteri sulle morti improvvise grazie agli studi non ce ne sono più». «Una patologia sottostante c'è di sicuro - dice Thiene, prof emerito a Padova -. E purtroppo queste patologie possono sfuggire anche ai controlli più serrati come quelli dei medici sportivi». Quella che ha portato alla morte di Davide Astori e del centrocampista del Livorno, Piermario Morosini, scomparso il 14 aprile 2012, «causa più di un quarto degli arresti cardiaci - spiega Thiene - ed è la cardiomiopatia aritmogena del ventricolo destro». Poi c'è la cardiomiopatia ipertrofica, la patologia - ricorda il professor Bruno Marino - che costò la vita al calciatore del Perugia, Renato Curi, morto il 30 ottobre del 1977. Ma ormai basta un ecocardiografo per riscontrarla. La più insidiosa, la più occulta, poco sintomatica di tutte, è invece l'«anomalia coronarica», l'origine anomala di un'arteria coronaria e infatti - conclude il professor Thiene - sono convinto che ora a Christian Eriksen faranno, se non l'hanno già fatta, una coronarografia». Potrà tornare a giocare? «Domanda difficile, eventi così non capitano a caso. Ma non importa, abbiamo vinto, il ragazzo è vivo».

Luca Valdiserri il “Corriere della Sera” il 13 giugno 2021. Quando si è fermato il cuore di Christian Eriksen, al minuto 43 di Danimarca-Finlandia, si è fermato tutto. L'Europeo 2021, i giocatori in campo, i tifosi dentro lo stadio di Copenaghen, i milioni che stavano vedendo la partita in televisione in tutto il mondo. Sembrava la morte in diretta. Poi il cuore di Christian è ripartito. Ed è ripartito tutto. Eriksen ora è ricoverato all'ospedale Rigshospitalet. Cauto ottimismo, dicono i medici, e sembrano le due parole più belle del mondo. «Christian Eriksen è sveglio e rimane in condizioni stabili. Resterà in ospedale per sottoporsi ad ulteriori accertamenti», comunica la federazione calcistica danese. «Respira e riesce a parlare: è fuori pericolo», riferisce il suo agente Martin Schoots, dopo aver parlato con il padre del giocatore dell'Inter. I calciatori decidono di portare a termine la partita perché la richiesta arriva proprio da Eriksen e da chi gli è vicino. Vince la Finlandia 1-0, la Danimarca sbaglia un rigore. Ma è il segnale che la vita continua, non è il «the show must go on» deciso dai dirigenti sportivi. Christian era a casa sua, dentro uno stadio pieno di entusiasmo. L'Europeo era l'occasione per tornare a festeggiare insieme. E succede. I tifosi finlandesi gridano: «Christian». I danesi rispondono: «Eriksen». Eppure le immagini avevano fatto pensare al peggio. Eriksen cade da solo, faccia in avanti, senza contrasti, mentre un compagno di squadra batte un fallo laterale. Il pallone gli rimbalza sullo stinco, lui ha già perso conoscenza. I calciatori più vicini e l'arbitro inglese Taylor chiamano i soccorsi. Le telecamere non staccano subito, si vede che il calciatore ha lo sguardo perso nel vuoto. Entrano i sanitari, la barella. I calciatori della Danimarca formano una barriera per proteggere il compagno a terra, nascondendolo alla vista. C'è chi prega, c'è chi piange, c'è chi si nasconde la faccia dentro la maglia. Eriksen resta immobile, a terra. Serve un massaggio cardiaco, ripetuto. Per fortuna c'è un defibrillatore e chi lo sa usare. Il c.t. danese Hjulmand corre verso la tribuna opposta, parlando al telefono. È la moglie di Eriksen, Sabrina, che chiede di entrare in campo. Stanno insieme dal 2012, hanno due bambini. La abbracciano Hjulmand, Kjaer il grande amico con cui a Milano divide cene milaniste/interiste, il portiere Schmeichel. Christian viene intubato, mentre i paramedici coprono la scena con i teloni. Poi viene messo sulla barella. Mentre lo stanno portando fuori dal campo, un fotografo scatta l'immagine che fa il giro del mondo: Eriksen ha la maschera dell'ossigeno ma gli occhi sono aperti e tiene alto il dito indice con il saturimetro. Sui social è partita l'indignazione ormai permanente contro i media, colpevoli di fare il loro lavoro, peraltro con grande rispetto in questa circostanza. E invece è proprio una foto a dare la notizia che tutti aspettano pregando, non lo schermo nero. Da tutto il mondo arrivano messaggi di incoraggiamento: campioni, tifosi, squadre, anche chi non si interessa di calcio ma è rimasto colpito dalla storia di un ragazzo di 29 anni che sembrava pieno di salute e di fortuna. Il campionato italiano richiede test molto severi, più che in altri Paesi. Eriksen era arrivato all'Europeo controllato. Pensare a quale sarà il suo futuro calcistico, adesso, non importa. Cauto ottimismo. Ora conta solo questo. Prima di dire che tutto è a posto serve tempo e qualche altro controllo. «Ti prego, Dio». Fabrice Muamba, ex calciatore congolese della Premier, affida la sua preghiera ai social. Nel 2012, quando giocava nel Bolton, ebbe un infarto durante una gara contro il Tottenham e rimase un'ora e 18 minuti senza conoscenza, sottoposto a massaggio cardiaco e defibrillatore. Si è ripreso. A volte i miracoli succedono.

Il campione è stabile ma resta sotto osservazione. Cosa è successo a Christian Eriksen, il medico: “Era praticamente morto”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 13 Giugno 2021. Christian Eriksen ha trascorso una notte tranquilla al Rigshospitalet di Copenaghen. Le condizioni del centrocampista dell’Inter restano stabili: l’atteso aggiornamento è stato fornito questa mattina dalla Federcalcio danese. Il giocatore dell’Inter resta sotto osservazione e verrà sottoposto nelle prossime ore a nuovi esami. “Gli abbiamo parlato, ha inviato i suoi saluti ai compagni”, ha comunicato la Dbu. Nel pomeriggio, la conferenza stampa del medico della nazionale danese Morten Boesen ha tracciato un quadro più completo: “Eriksen è di buon umore e tutti i test finora sembrano a posto”. Sulle cause del malore, “non c’è ancora una spiegazione ed è questo è uno dei motivi per cui è ancora in ospedale. È per scoprire cosa è successo”. Di certo c’è che “l’intervento immediato del medici è stato cruciale”. E che Eriksen ha davvero visto la morte in faccia: “È stato un arresto cardiaco. Se n’era andato, era praticamente morto e abbiamo fatto la rianimazione cardiaca. L’abbiamo ripreso dopo una defibrillazione”. Ora il giocatore “è vigile, attento e risponde in modo pertinente e chiaro”, ha aggiunto Boesen. La notizia che tutti volevano sentire, dopo la grande paura nella ‘serata peggiore di sempre’, come l’hanno definita i media danesi. Segnata da quegli interminabili minuti in cui per il giocatore, crollato a terra sul finire del primo tempo del match con la Finlandia, si è davvero temuto il peggio. Soccorso tempestivamente da alcuni compagni di squadra, il capitano Kjaer in primis, il cui intervento è risultato decisivo, e poi dallo staff medico che gli ha praticato il massaggio cardiaco e il defibrillatore, Eriksen è uscito dal campo in barella per essere ricoverato in ospedale. Da lì in poi, la paura ha lasciato il posto a un cauto ottimismo, prima che il centrocampista fosse dichiarato fuori pericolo. Tra le testimonianze che hanno portato sollievo quella in tarda serata di Beppe Marotta, a Sky Sport: “Christian ha scritto un messaggio nella chat interna dell’Inter in cui ha tranquillizzato tutti, auspicando un suo ritorno. Direi che sta molto meglio”. “Abbiamo vissuto un pomeriggio di grande trepidazione e paura, che si è concluso con una situazione lieta e positiva per tutti”, ha aggiunto l’ad nerazzurro. Chi ha vissuto momenti di angoscia sono stati, ovviamente, i compagni di nazionale di Eriksen, messi a dura prova dall’esperienza vissuta in diretta: i giocatori hanno ricevuto assistenza psicologica in hotel. Il ct Kasper Hjulmand ha spiegato che dopo aver sospeso tutte le sue attività questa domenica, la squadra cercherà di tornare alla normalità domani, lunedì 14 giugno, riprendendo gli allenamenti e la preparazione per la partita di giovedì con il Belgio. Inevitabilmente, i dubbi che emergono in queste ore riguardano l’eventuale presenza di patologie nel giocatore. Sanjay Sharma, professore di cardiologia presso la St. George’s University di Londra che ha lavorato con il danese al Tottenham, ha assicurato che gli esami cardiaci “erano perfetti”. “Dal giorno in cui lo abbiamo ingaggiato – ha spiegato – è stato mio compito esaminarlo e testarlo ogni anno. E i suoi test fino al 2019 erano del tutto normali. Non c’erano difetti cardiaci evidenti e sottostanti”. Piero Volpi, capo dello staff medico dell’Inter, ha commentato a ‘La Gazzetta dello Sport’: “Nei prossimi giorni sarà sottoposto a esami approfonditi. L’importante è che stia bene, ma mai c’era stato nessun episodio che, neppure lontanamente, aveva fatto intravedere un problema, né quando era al Tottenham, né tantomeno all’Inter. In Italia i controlli molto rigidi”. In attesa del prossimo bollettino, le buone notizie sulle condizioni di Eriksen non hanno evitato le polemiche per come le tv hanno ‘gestito’ l’evento. La Bbc, dopo aver ricevuto proteste e lamentele, ha dovuto scusarsi per la mancata sospensione del collegamento durante i momenti drammatici seguiti al malore. Critiche sono state rivolte anche alla tedesca Zdf e a Espn, negli Stati Uniti. C’è poi chi sostiene che riprendere il match sia stato un errore, nonostante la Uefa abbia chiarito che la richiesta è arrivata dai giocatori. Michael Laudrup, leggenda del calcio danese, ha bacchettato l’organo di governo del calcio europeo. Il tecnico Hjulmand, che a caldo aveva difeso la scelta, oggi ha fatto retromarcia: “Penso abbiamo sbagliato a mettere i giocatori di fronte alla possibilità di proseguire o fermarsi. Forse non avremmo dovuto giocare, ma era difficile prendere una decisione in quel momento”, ha spiegato. (Fonte: LaPresse)

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Malore Eriksen, parla il cardiologo: “Molto probabilmente è un’anomalia cardiaca”. Jacopo Bongini il 13/06/2021 su Notizie.it. Secondo il cardiologo Josep Brugada sarebbe stata un'anomalia cardiaca ad aver causato il malore che ha colpito il giocatore danese Christian Eriksen. Sarebbe stata un’anomalia cardiaca ad aver causato il malore che ha colpito il giocatore danese Christian Eriksen durante la partita Danimarca-Finlandia degli Europei 2020. Lo afferma il cardiologo Josep Brugada dell’Hospital Clinic de Barcelona, secondo cui tutto sarebbe riconducibile a un problema di aritmia che però fortunatamente ha avuto poche conseguenze sul fisico del calciatore anche grazie al tempestivo intervento di chi lo ha soccorso sul campo da gioco.

Malore Eriksen, parla il cardiologo: “Anomalia cardiaca”. Intervistato dal quotidiano sportivo spagnolo AS, il professor Brugada ha dichiarato: “Sappiamo poco, ma il modo con cui è caduto così all’improvviso mi dà una brutta sensazione dal punto di vista della gravità. Al 98% la causa è un’anomalia cardiaca”. Secondo il cardiologo infatti, il malore che ha colpito Eriksen: “Potrebbe riguardare qualche patologia cerebrale o aortica, ma tutto comunque riguarda il cuore, qualche problema di aritmia. Se fosse stato un colpo di calore nel giro di pochi minuti avrebbe potuto alzarsi, ma non è stato così”. Il plauso del medico va però soprattutto a chi è riuscito in maniera tempestiva a soccorrere il giocatore non appena ci si è resi conto del suo stato di salute: “Il fatto che sia sveglio significa che Eriksen ha recuperato la circolazione al cuore. Questo arresto cardiaco, comunque, ha avuto poche conseguenze per la prontezza di chi lo ha soccorso e per la vicinanza dell’ospedale allo stadio”.

Malore Eriksen, parla il medico della Nazionale di pallavolo: “Fortuna sia successo in campo”. Jacopo Bongini il 13/06/2021 su Notizie.it. Secondo il cardiologo Roberto Vannicelli è stata una fortuna che il malore di Eriksen sia avvenuto in campo. In questo modo il soccorso è stato immediato. Non usa mezzi termini il cardiologo Roberto Vannicelli per commentare il malore che ha colpito il giocatore danese Christian Eriksen durante la partita del campionato europeo di calcio Danimarca – Finlandia: “Fortuna che sia successo mentre Eriksen era in campo”. Secondo il medico della Nazionale italiana di Pallavolo infatti, il calciatore dell’Inter è stato fortunato ad essere stato immediatamente soccorso prima dai suoi compagni di squadra e poi dai medici corsi sul posto. Raggiunto telefonicamente dall’Ansa, Vannicelli ha spiegato: “Ho ripensato subito a Morosini, mi è sembrato di rivedere la stessa scena. Ma è stato fatto tutto il necessario, per quello che ho visto io. Il soccorso è stato immediato, il protocollo è stato rispettato e ora mi sembra di poter dire che il peggio è passato”. Il riferimento del cardiologo è all’episodio che il 14 aprile del 2012 vide come protagonista il calciatore Piermario Morosini, accasciatosi al suolo al 31esimo minuto della partita di Serie B Pescara – Livorno a seguito di un’improvvisa crisi cardiaca, e successivamente deceduto in ospedale. All’epoca l’autopsia certificò che Morosini venne colpito da una rara patologia ereditaria nota come cardiomiopatia aritmogena.

Da "Ansa" il 13 giugno 2021. "Christian se n'era andato, praticamente era morto... Era in arresto cardiaco. Non so come abbiamo fatto a rimetterlo al mondo, è successo tutto in maniera così veloce. Io non sono un cardiologo, non posso scendere nei dettagli, per quello ci sono gli specialisti, esperti della materia". Lo ha detto Morten Boesen, responsabile medico della Danimarca, durante la conferenza stampa organizzata dalla Federazione all'indomani dell'arresto cardiaco in campo Eriksen.  "Non abbiamo ancora una spiegazione sul perché è accaduto tutto questo a Eriksen, in questo momento non so rispondere". Così Morten Boesen, responsabile medico della Danimarca, durante la conferenza stampa organizzata dalla Federazione all'indomani dell'arresto cardiaco in campo Eriksen. "Posso dire che ci sono stati quattro psicologi nell'hotel con la squadra per tutta la notte. Abbiamo fatto dei gruppi di aiuto, tutti hanno potuto esprimere i propri sentimenti. Questa mattina questi professionisti sono tornati in albergo, i giocatori hanno potuto beneficiare di un aiuto medico: apprezziamo molto l'aiuto arrivato da fuori". "La squadra non è stata costretta a fare alcunché. È stata una decisione difficile, abbiamo scelto di prenderla e di proseguire la partita. La decisione di proseguire è stata presa dai leader. Nessuno può incolpare i giocatori, non ho sentito alcuna pressione da parte dell'Uefa, tuttavia non sono sicuro che giocare sia stata la cosa più giusta. In futuro dobbiamo vedere, perché amiamo tutti il calcio, ma non è certo la cosa più importante del mondo". Così il ds della Federcalcio danese, Peter Moeller, ha parlato in conferenza stampa il giorno dopo il malore a Christian Eriksen. "Domani proveremo a ritrovarci, non è facile, perché i giocatori hanno sofferto un forte choc, hanno patito lo stress. Forse per qualcuno è ancora troppo presto per riprendersi: questo evento, però, ci deve far unire per le prossime partite. Penso che ci riusciremo". Lo ha detto, in conferenza stampa, Kasper Hjulmand, ct della Danimarca. "Penso abbiamo sbagliato a mettere i nostri calciatori di fronte alla possibilità di proseguire la partita o di fermarsi definitivamente. Erano in condizioni di forte stress, non erano a conoscenza delle condizioni del compagno - aggiunge -. Ho la sensazione che non avremmo dovuto giocare, ma lo penso adesso. Era difficile prendere una decisione in quel momento. Sono orgoglioso della 'mia' squadra, ieri abbiamo avuto prova di come alla base del calcio vi siano spirito di squadra, solidarietà e amore. Il segnale che è arrivato dal campo e dalle tribune è stato molto forte".

Giorgio Viberti per "La Stampa" il 13 giugno 2021. Il dottor Roberto Corsetti, 61 anni, specialista di cardiologia e medicina dello sport, dirige il Centro Medico B&B di Imola, al quale si rivolgono molti atleti professionisti, e ha lavorato per oltre 20 anni nel ciclismo professionistico, seguendo tanti corridori famosi. È grazie a lui se, di recente, hanno scoperto e curato delicate patologie cardiache anche Mario Cipollini, Diego Ulissi e il portabandiera azzurro Elia Viviani.

Dottor Corsetti, che cosa può essere successo a Eriksen?

«Temo che si tratti di un arresto cardiaco da grave aritmia, probabilmente una fibrillazione ventricolare sinistra che ha fermato il battito del cuore». 

Perché anche nello sport d'élite possono succedere certi drammatici eventi?

«Un cuore sano non va in fibrillazione ventricolare e non accusa aritmie maligne tanto gravi da poter essere fatali. Siamo di fronte a una cardiopatia, come fu purtroppo per altri atleti deceduti in passato, i calciatori Curi, Morosini, Foé e Astori o il cestista Vendemini».

Quali possono essere state le cause della cardiopatia?

«Le patologie cardiache si dividono tra congenite, cioè presenti dalla nascita e non adeguatamente diagnosticate, e acquisite, come è stata per esempio la miocardite di Cipollini». 

La miocardite è un'infiammazione spesso di origine virale: visto il periodo, può essere causata anche dal Covid?

«Non si può escludere, ma naturalmente non sono in grado di dire se un caso del genere possa riguardare Eriksen». 

Chi o che cosa alla fine ha salvato la vita a Eriksen?

«Direi la tempestività dei soccorsi, il massaggio cardiaco e il defibrillatore. Ma si fosse trattato di un ciclista o un maratoneta che si allenavano da soli, come sarebbe finita? È fondamentale che, in tutti gli sport e a tutti i livelli, i soccorsi siano quanto più adeguati e tempestivi». 

Come è possibile che un professionista di un top team di calcio abbia una patologia cardiaca non diagnosticata?

«Evidentemente è possibile, il che sottolinea l'importanza di meticolose visite preventive nello sport di qualsiasi livello».

Secondo lei Eriksen potrà tornare tra i big del calcio?

«Non so, ma temo che sia molto difficile e complicato». 

Alessandro Bonso per “Il Giornale” il 13 giugno 2021. Non è la prima volta che uno stadio si trasforma in teatro dell'orrore. Nella storia del calcio sono diversi gli episodi simili a quello accaduto a Eriksen: a volte c' è solo tanto spavento, altre, purtroppo, lo spavento diventa straziante disperazione. Nel 2012 Fabrice Muamba visse esattamente ciò che è successo ieri all' interista e non è un caso che sia stato lui uno dei primissimi a twittare. Please God (Per favore, Dio) ha scritto sui social l'ex Bolton, che nove anni fa collassò in campo contro il Tottenham. Il suo cuore si bloccò e ricominciò a battere dopo un'ora e 18 minuti, quando la quindicesima scarica di defibrillatore riuscì ad afferrarlo e a riportarlo in vita. La sua è una storia drammatica, ma ha un lieto fine, perché, sebbene abbia smesso di giocare, Muamba è vivo ed è uno straordinario esempio che ci dice che anche l'impossibile può diventare possibile. Come successe anche a Manfredonia, colpito da arresto cardiaco in un glaciale Bologna-Roma del dicembre 1989. Il giallorosso crollò a terra, finì in ospedale ma si salvò. Pochi mesi fa attimi drammatici invece in Serie B, quando Patrick Dziczek, nel corso di Ascoli-Salernitana si accasciò al suolo dopo un malore per una crisi vagale. La situazione sembrò subito grave, ma il giocatore dei campani alla fine riprese conoscenza. Non sempre, però, le cose vanno come dovrebbero andare. Abbiamo ancora davanti agli occhi la scena terribile di Piermario Morosini che, neanche un mese dopo il dramma di Muamba, venne colpito da un arresto cardiaco durante Pescara-Livorno, crollò e, di fatto, morì davanti a compagni e tifosi. Pochi anni prima, la stessa sorte toccò a Puerta del Siviglia, ucciso nel 2007 da un malore fatale. Dopo il primo arresto, allo spagnolo fu praticato il massaggio cardiaco e riuscì a tornare nello spogliatoio, dove però fu colto da un altro attacco che non gli lasciò scampo. Foe morì invece sotto gli occhi del mondo. Era la Confederations Cup 2003 e, durante Camerun-Colombia, l'africano crollò inerme perché il suo cuore si fermò. Dopo un'ora, spirò. Facendo un salto più in là nel tempo, un'altra tragedia sconvolse il calcio italiano e non solo: Renato Curi si spense in un Perugia-Juventus del 1977, nello stadio Comunale di Pian di Massiano che oggi porta il suo nome. Era il 30 ottobre: Curi si accasciò improvvisamente a terra dopo uno scatto. I soccorsi furono inutili: aveva 24 anni. Eriksen, fortunatamente, sta bene: un'altra tragedia legata al rettangolo di gioco è stata evitata.

Paolo Foschi per il "Corriere della Sera" il 14 giugno 2021. Christian Eriksen tornerà a giocare? Il calciatore danese, dopo essersi affacciato nell'anticamera della morte, ora che è fuori pericolo può cominciare a pensare al futuro. Ma sarà un futuro in campo o fuori?

«Dopo un evento così grave, è difficile immaginare che possa tornare allo sport agonistico, ma non è nemmeno escluso» spiega Antonio Giuseppe Rebuzzi, professore di cardiologia al Policlinico Gemelli di Roma.

«Ancora non è chiaro quale sia stata la causa dell'arresto cardiaco, di solito è da ricercare in patologie congenite difficili da diagnosticare come un'alterazione delle coronarie, una displasia aritmogena o la sindrome di Brugada» continua il professor Rebuzzi, «serviranno esami approfonditi e solo dopo un'attenta diagnosi si potrà decidere».

Per adesso però l'importante è che Eriksen si sia salvato. «Queste patologie nascoste restano asintomatiche finché non si manifestano, ma a quel punto nella maggior parte dei casi sono mortali» aggiunge il cardiologo del Gemelli, «purtroppo spesso non vengono evidenziate nei pur approfonditi controlli a cui viene sottoposto chi pratica sport. Per diagnosticarle servono esami mirati e costosi che si fanno solo quando c'è un sospetto.

Nella sfortuna, comunque, il ragazzo è stato fortunato ad aver avuto l'arresto cardiaco in un luogo in cui c'era un defibrillatore e personale formato a utilizzarlo. Fosse capitato altrove...».

«Dobbiamo gridare al miracolo», sottolinea Pino Capua, primario di Medicina dello Sport al San Camillo, ma per capire se Eriksen scenderà di nuovo in campo, sarà necessario «per prima cosa accertare se sono rimasti dei danni. In condizioni di benessere, il giocatore potrebbe riprendere l'attività agonistica».

Chiunque pratichi sport in teoria è a rischio di episodi del genere? «Per fortuna queste patologie sono comunque rare» risponde il professor Rebuzzi, «e controlli accurati possono far emergere talvolta sospetti da verificare».

Però, come spiega ancora Pino Capua, il rischio esiste perché «anche in un contesto dove non dovrebbe esserci nessun "dubbio" si innesca l'imponderabilità della nostra scienza medica. C'è sempre un lato che non ci permette di essere in condizione di avere al 100% la sicurezza. Nessun tipo di esame e di analisi preventiva queste cose le può stabilire.

Non si deve dare la colpa a nessuno, è una delle condizioni imponderabili che possono succedere».

Luca Valdiserri e Redazione Sport per corriere.it il 14 giugno 2021. «Come state?». Lo ha chiesto lui, Christian Eriksen, ai compagni di squadra e al c.t.Kasper Hjulmand, che riporta le sue frasi. «Mi sa che siete messi peggio di me. Io sono pronto a tornare ad allenarmi!» ha detto ancora il centrocampista interista ai compagni. Lui che poche ore prima, secondo le parole del medico della Nazionale danese «se ne era andato». «He was gone». In questa storia di ritorno dalla morte è forse il particolare più incredibile. Eriksen che rincuora i suoi compagni, collegato via video dall’ospedale dove è ancora ricoverato dopo l’arresto cardiaco al minuto 43 della partita tra Danimarca e Finlandia. Racconta ancora il c.t. danese: «Ci ha detto che non ricorda molto di quello che gli è successo. Ci ha chiesto lui: come state? Tipico di Christian, che si preoccupa sempre dei suoi compagni. Voi conoscete il campione ma la persona è ancora più grande». Le parole più attese erano quelle del medico Morten Boesen, uno di quelli che hanno ripreso Eriksen per i capelli: «In pratica è resuscitato. Lo abbiamo riportato indietro dopo un intervento con il defibrillatore. Però io non sono un cardiologo e i dettagli non dovete chiederli a me. Ho visto sul tabellone dello stadio la stessa immagine che avete visto voi in televisione e sono scattato subito perché non c’era tempo da perdere. Dovrà fare altri esami per chiarire le cause di questo incidente che ancora non conosciamo». Il sorriso di Eriksen, rivela Hjulmand, ha guarito i compagni: «Per loro è stato fondamentale vederlo. Molti erano ancora sotto choc e non riuscivano a togliersi dalla mente l’immagine di Christian a terra, inanimato. Abbiamo avuto in hotel la consulenza da parte di quattro psicologi: tutti i calciatori hanno espresso i loro sentimenti nei gruppi di aiuto». Anche molti compagni dell’Inter hanno contattato Eriksen, che ha detto loro di stare bene e di non capacitarsi di quello che è successo. Secondo il responsabile dell’area medica del Club Italia, Andrea Ferretti, sono stati decisivi i soccorsi veloci e la prontezza di Simon Kjaer: «Se Eriksen è ancora in vita lo dobbiamo alla tempestività dell’intervento dei medici e all’organizzazione messa in atto dalla Uefa. I calciatori hanno qualche nozione di base di pronto soccorso. Quanto successo a Eriksen, però, potrebbe diventare lo spunto per andare più a fondo e organizzare una maggiore preparazione del primissimo intervento da parte dei calciatori».

Roberto Condio per “La Stampa” il 14 giugno 2021. Sullo schermo gigante della sala riunioni usata dalla Nazionale nello storico Hotel Marienlyst fronte mare appare un volto sorridente. È quello di Christian Eriksen e, se non fosse per il letto del Rigshospitalet che l'inquadratura della videochiamata non nasconde del tutto, nessuno direbbe che 15 ore prima il calciatore più forte, pagato e amato di Danimarca era stato più di là che di qua. Anzi, come dice Morten Boesen, medico della Nazionale: «He was gone», «Se n'era andato». «C'è stato un arresto cardiaco e non so come abbiamo fatto a riportarlo indietro». Eccolo lì, adesso, il miracolato. Saluta compagni, ct, staff. Sono loro che vorrebbero avere sue notizie e invece è lui a rompere il ghiaccio: «Come state, ragazzi? Credo peggio di me perché io non ricordo molto ma sono preoccupato per voi. Mi sento come se dovessi andare ad allenarmi». Tutti sollevati, allora: sì, è il solito Christian. «Lui pensa sempre agli altri prima che a se stesso - sottolinea il ct Kasper Hjulmand -. Già sabato, quando ci siamo sentiti dopo il suo arrivo in ospedale, ci aveva detto: "Riprendete la partita. Andate a giocare, adesso". Continueremo a farlo per lui. È un campione, ancora più come persona. Per noi è stato importantissimo parlargli, anche per cancellare le ultime immagini che avevamo di lui». Così traumatiche da indurre la Federcalcio danese a predisporre un'assistenza psicologica a partire da sabato notte con quattro professionisti a curare gruppi di aiuto per i calciatori. Oggi torneranno ad allenarsi. «Forse per qualcuno è ancora troppo presto - riconosce il ct -, ma cercheremo di usare questo evento per unirci ancora di più». Lo faranno nel nome di Eriksen che, naturalmente, resta ricoverato al Rigshospitalet, a meno di un chilometro dallo stadio di Copenaghen. Il dottor Boesen spiega: «È di buon umore, vigile, attento e risponde in modo chiaro e pertinente. Ma non c'è ancora una spiegazione su quanto gli è accaduto. I test sembrano a posto ma servono ulteriori esami per scoprire cosa è successo». Di certo, intanto, c'è che prima l'Inter e poi la Danimarca hanno smontato voci sugli effetti del vaccino anti Covid che Eriksen in effetti non ha mai fatto. L'altra certezza è che «con la sua rapidità e il suo comportamento, Kjaer ha salvato la vita di Christian». Lo dicono medico e ct, lo conferma Enrico Castellacci, per 14 anni responsabile sanitario dell'Italia: «Fondamentale è rendersi conto subito della gravità della situazione. È stato bravo il capitano che ha immediatamente liberato le vie aeree dalla lingua facendo già un primo passo di tipo medico». Per i danesi è diventato un eroe. La sua corsa disperata ma salvifica verso l'amico crollato sull'erba resterà il gesto più alto di Euro 2020. Il milanista e l'interista, due amici veri che a Milano hanno incrociato i loro destini e cementato un rapporto prima di questo 12 giugno 2021 che li legherà per sempre. Con Eriksen fermo, Kjaer lo supererà tra i più presenti nella Danimarca (ora è sotto 108 a 109). Solo un dettaglio. Quel che conta, adesso, è il sorriso del miracolato. È la scritta sulla bandiera danese comparsa davanti al Rigshospitalet: «Buona guarigione, Christian».

Euro 2020, Christian Eriksen: "È morto". Ciò che non sapevate sul dramma vissuto dalla moglie: in mezzo al campo, l'attimo più terrificante. Libero Quotidiano il 14 giugno 2021. Christian Eriksen è fuori pericolo dopo i drammatici attimi vissuti in campo a causa dell’arresto cardiaco di cui è stato vittima durante Danimarca-Finlandia, match valido per Euro 2020. È apparentemente inspiegabile quello che è successo al calciatore, che non ha mai avuto problemi di natura cardiaca: sono ancora in corso tutti gli approfondimenti del caso per fare chiarezza, ma l’importante che è stia bene. Tanto che ai compagni in videochiamata avrebbe detto che sarebbe pronto ad allenarsi da subito: ma ovviamente non è possibile, né importante dopo quello che è accaduto. “Sono state le due ore più strazianti della mia esperienza calcistica”, ha dichiarato Peter Schmeichel, leggenda della nazionale danese nonché padre dell’attuale portiere Kasper. “È successo non molto lontano da dove si trovavano tutte le mogli dei giocatori - ha raccontato in un’intervista a Bbc Radio Five Live - e ovviamente non appena la moglie (Sabrina Kvist, ndr) di Christian lo ha visto è corsa in campo”. Il figlio di Peter e capitan Kjaer sono stati i primi a cercare di rassicurarla: “Ho parlato con mio figlio Kasper ieri sera, lui è subito corso da lei. Lei credeva che fosse morto, ma lui le ha detto che Christian stava respirando”. In un’altra intervista, rilasciata al programma tv Good Morning Britain, Schmeichel ha aggiunto altri dettagli poco lusinghieri nei confronti della Uefa, che avrebbe messo alle strette la Danimarca per riprendere la partita: “Hanno detto che i giocatori hanno insistito per giocare. So che non è la verità. Sono rimasti con tre opzioni: una era quella di giocare subito gli ultimi 50 minuti; l’altra era giocare il giorno dopo e la terza di rinunciare alla partita e perdere 3-0”. 

Il caso Eriksen e il diritto all'intimità. Quella foto è un atto di accusa. Roberto Marino su Il Quotidiano del Sud il 14 giugno 2021. Quella barriera di maglie rosse a proteggere la lotta disperata per la vita di un giovane calciatore e dei suoi soccorritori, non può essere solo un’immagine simbolo di un dramma umano e calcistico. È un atto di accusa, un messaggio forte, la richiesta di una dimensione personale, intima, al riparo da occhi elettronici che ci scrutano senza conoscerci. Più che persone, siamo figuranti, comparse di frammenti di esistenze fissate sui video, senza rendercene conto. La parola privacy non è mai stata così tanto usata e inflazionata come in questo momento storico, e mai come oggi abbiamo così poca riservatezza. Dalle piccole alle grandi cose esiste sempre qualcuno che sa, conosce un pezzo di noi, dove andiamo, cosa compriamo, cosa leggiamo e vediamo. Non riusciamo più a essere irrintracciabili, indefiniti, impalpabili. La barriera dei calciatori danesi dimostra che il grande occhio non si chiude e si distrae neanche davanti ai rantoli che sanno di morte. Kjaer e i suoi compagni hanno subito capito che non ci sarebbe stato nessuno scrupolo in grado di impedire il giro del mondo del dramma di Eriksen. Le immagini sarebbero diventate il tam tam dei guardoni da display, al punto che avrebbero potuto cannibalizzare e prendere il sopravvento sulla tragedia. Questo siamo diventati. Un‘umanità che non sa immaginare neanche un dramma come un attacco cardiaco; deve vederlo, consumarlo, scrutarlo nei particolari. Vedere, vedere, vedere, altrimenti si fa fatica a capire, a farsi un’idea. Quella barriera di maglie rosse è un monito. Per chi guarda e chi riprende. Siamo passati dalle palafitte ai microchip con secoli e secoli di conoscenze tramandate senza immagini, video. Il mondo non si ferma, il progresso e le tecnologie hanno migliorato le nostre esistenze. Ma lasciamoci per ciascuno di noi momenti solo nostri, con tutti i limiti, le paure, le fragilità. Qualcosa che appartenga solo a noi, senza che un altro qualsiasi ci butti un occhio e sappia.

Da video.lastampa.it il 14 giugno 2021. Moltissime le proteste social contro la diretta televisiva durante la partita Danimarca Finlandia e nelle fasi del malore di Christian Eriksen. L'accusa è di aver indugiato in modo eccessivo sul corpo del giocatore a terra. Le singole emittenti hanno risposto dicendo che il segnale della diretta è unico e dipende dalla UEFA quindi le televisioni non ne hanno il controllo. Per fortuna i compagni di Eriksen, primo fra tutti il capitano Kjaer. si sono resi conto dell'esposizione del giocatore alla diretta in quel drammatico momento e hanno fatto una barriera umana durante i primi soccorsi e poi mentre veniva portato fuori dal campo, per proteggerlo dagli sguardi indiscreti degli obiettivi e delle telecamere.

Stefano Scacchi per “La Stampa” il 14 giugno 2021. Popi Bonnici è sinonimo di regia sportiva in Italia. Dopo molti anni a Mediaset, è consulente editoriale della Lega Serie A. È il ct dei registi che mandano in onda le immagini del campionato. Conosce da 25 anni, per averla sperimentata nel mondo dei motori, la delicatissima materia di cosa è opportuno sottrarre alla diretta per rispetto dei protagonisti. È quello che milioni di spettatori nel mondo si chiedono dopo le drammatiche scene di Eriksen esanime sul prato del Parken.

Che cosa pensa di questo dibattito globale?

«Il primo pensiero è che se ne parla dalla tragedia di Vermicino di 40 anni fa, quando si è iniziato a capire che mostrare la sofferenza in diretta tv non equivale a dare notizie. La morbosità è molto diversa dall'informazione. Non siamo al Colosseo. Dalla metà degli anni '90 questo concetto è stato applicato in Formula 1 e nelle gare di moto. Bernie Ecclestone lo aveva capito molto bene». 

La regia internazionale degli infiniti momenti di Eriksen incosciente ha rispettato questa sensibilità alla quale la Uefa si ispira da qualche anno?

«Purtroppo no. Le immagini hanno indugiato troppo su alcune situazioni drammatiche. Soprattutto il massaggio cardiaco ripetuto in quei minuti interminabili. Non era una fiction, era la realtà. Sono stati i compagni di squadra a impedire che si vedesse ancora di più. Intendiamoci, era giusto mostrare i giocatori danesi intorno al loro numero 10. Quella era una notizia. Ma non quegli aspetti crudi. In quello si è andati oltre».

In Danimarca c'è addirittura una polemica di segno opposto. C'è chi sostiene che è stato comunicato troppo tardi che Eriksen era vivo, un'informazione liberatoria per milioni di persone in preda all'angoscia.

«Sono d'accordo, ma non doveva arrivare dalle immagini questa comunicazione. La foto, che ha fatto il giro del mondo, poteva ingannare. Avrebbe potuto essere un momento, capovolto pochi secondi dopo». 

È un equilibrio difficilissimo per chi deve decidere in pochi secondi.

«Si, è questione di attimi. Sono tutte scelte compiute da uomini. Per questo si corre il rischio di sbagliare».

Da sportmediaset.it il 14 giugno 2021. La Uefa ha messo nelle condizioni la Danimarca di decidere se perdere 3-0 qualora non fosse riuscita a portare a termine la partita con la Finlandia. Lo ha rivelato l'ex portiere danese Peter Schmeichel, come riporta il quotidiano britannico Sun. La partita è stata interrotta poco prima dell'intervallo quando il centrocampista danese dell'Inter, Christian Eriksen, è crollato in campo per un arresto cardiaco. Dopo la rianimazione cardiopolmonare il calciatore è stato portato in ospedale, dove è stato confermato che era sveglio e stabile dopo l'arresto cardiaco. La partita del Gruppo B è stata sospesa, ma le squadre sono poi tornate in campo per giocare con la Finlandia. L'Uefa ha fatto subito sapere che il match è ripreso su espressa richiesta di Eriksen. Ma l'ex portiere danese Schmeichel, il cui figlio Kasper era in porta sabato, ha rivelato che la sua nazione avrebbe perso la partita se non l'avesse completata. Schmeichel ha dichiarato nel programma televisivo “Good Morming Britain”: «Hanno detto che i giocatori hanno insistito per giocare. So che non è la verità. O è così che vedi la verità. Sono rimasti con tre opzioni. Una era quella di giocare subito e far giocare gli ultimi 50 minuti. L'altra era giocare il giorno dopo e concludere il match. E la terza opzione era quella di rinunciare alla partita e perdere 3-0».

David Puente per open.online il 14 giugno 2021. In un tweet del 13 giugno 2021, il consigliere della Regione Lazio ed ex M5S Davide Barillari associa l’arresto cardiaco del giocatore danese Christian Eriksen al vaccino anti Covid19: «Christian Eriksen, giocatore dell’Inter (vaccinato) durante la partita Danimarca Finlandia, cade a terra per arresto cardiaco. Praticato massaggio cardiaco. Ora è ricoverato in ospedale. Cadono come mosche. #NessunaCorrelazione #SonosoloCoincidenze #Vaccini #R2020». Nel tweet riporta il falso. Davide Barillari, che già in passato aveva diffuso falsità a favore della narrativa NoVax contro i vaccini (e non solo), segue la scia dei numerosi bufalari che hanno diffuso l’accusa nel web. La smentita arriva da parte dell’amministratore delegato dell’Inter Giuseppe Marotta (anche ai microfoni di Rai1): «Per ora Eriksen è nelle mani della Federcalcio danese, i nostri medici da subito si sono messi in contatto con i colleghi danesi. Eriksen non ha avuto il Covid e non è stato vaccinato». La falsa notizia era diventata virale a causa dell’utente @ya_yo2 in collaborazione con l’utente @lumidek via Twitter. Secondo il primo, a dare la notizia della vaccinazione sarebbe stata Radio Sportiva: «Inter Milan Chief Medic and Cardiologist confirmed that he received the Pfizer vaccine 12 days ago. He spoke an hour ago on Radio Sportiva from Italy». Di fronte alla smentita da parte di Radio Sportiva («Le informazioni riportate nel tweet citato sono false. Non abbiamo mai riportato alcun parere dello staff medico dell’Inter riguardo le condizioni di Christian Eriksen. Si prega l’autore del tweet di rimuovere il contenuto, altrimenti saremo costretti a prendere provvedimenti»), l’utente @lumidek ha rimosso il tweet pubblicandone uno di rettifica: «I deleted the massively viewed tweet because Radio Sportiva’s Twitter account posted a denial of that information on their radio and my source could have been untrue, I am just unsure enough». In contemporanea non si era incolpato solo il vaccino Pfizer, ma anche quello di AstraZeneca che però non viene somministrato in Danimarca.

Mario Pappagallo per il "Corriere dello Sport" il 15 giugno 2021. Christian Eriksen era già morto ed è resuscitato grazie alla rapidità e alla correttezza delle manovre di soccorso e rianimazione. Ora sta bene e, se fosse per lui, tornerebbe già in campo. Ma non è così semplice, né scontato. Perché un calciatore che gioca in una nazionale, che ha giocato in campionati come quello olandese e inglese e che ora gioca in Italia, dal punto di vista medico viene letteralmente “rivoltato come un calzino” per avere l’idoneità allo sport agonistico. E proprio a livello di cuore i test diagnostici, quelli noti e più all’avanguardia, vengono periodicamente eseguiti. Perché nello sport agonistico le morti improvvise in campo riguardano sempre il cuore, il suo arresto senza apparente motivo. Ne ricordiamo alcuni, affetti dal difetto genetico ipotizzabile nel caso di Eriksen: i calciatori Davide Astori, Antonio Puerta, Daniel Jarque, il nuotatore Mattia Dall’Aglio, il giocatore di hockey Darcy Robinson. Per tutti questi la causa, confermata dall’autopsia, è stata la cardiomiopatia aritmogena congenita. Se questa è la causa, Eriksen è stato realmente un miracolato, comunque un fortunato perché tutto nel soccorso ha funzionato come un orologio. È una patologia relativamente rara dal momento che interessa circa 1 persona su 5.000, non è curabile, ha una base genetica e, secondo alcuni studi, l’attività sportiva è responsabile della progressione della malattia ed è associata a un rischio 5 volte maggiore di morte improvvisa. Diagnosticarla è difficile, se non impossibile. Ma se si manifesta una volta e non si muore, vale la pena rischiare di nuovo? E forse in una decisione del genere il parere della moglie, dei familiari, sarebbe fondamentale. Ora però il dibattito tra specialisti è aperto sul ritorno di Eriksen all’attività sportiva. Di fronte a una diagnosi certa, tecnicamente impossibile ora, Lucio Mos, presidente della Società italiana di cardiologia dello sport, non è ottimista: «Con la legislazione italiana dubito che potrà scendere in campo in futuro in Italia. I protocolli attuali sono rigidi, quindi non proporremo alla FIGC alcuna modifica a quello attuale. Andrebbero cambiati quelli europei, che sono più larghi rispetto ai nostri», ha aggiunto. «Com’è possibile che un calciatore sottoposto a innumerevoli controlli venga colpito da un arresto cardiaco? Ci sono cose che possono sfuggire persino ai controlli più accurati, anche perché le visite avvengono periodicamente, quindi un problema di questo tipo può insorgere tra un controllo e un altro. La regolamentazione italiana è la più severa del mondo ed è questo il motivo per cui il numero di morti improvvise durante l’attività fisica è più basso rispetto agli altri Stati». Certo, per lui, la sua famiglia, sua moglie, occorrerà una diagnosi, se possibile: «Era morto. Risulta che è stato defibrillato, quindi bisogna andare a capire le cause hanno provocato l’arresto cardiaco. Il mio punto di vista? Ha avuto un’aritmia, ma non posso sapere le motivazioni che l’hanno provocata. Può esserci stata una miocardite, ma al momento si tratta solo di congetture». Molto pessimista è un cardiologo che conosce il cuore di Eriksen. Sanjay Sharma, cardiologo sportivo alla St George’s University di Londra, afferma che gli enti calcistici e i medici saranno probabilmente “molto severi” nel consentire a Eriksen di giocare di nuovo. Sharma, che ha spesso controllato la salute cardiaca di Eriksen quando giocava negli Spurs, si pone innanzitutto gli stessi quesiti di Mos: «Chiaramente qualcosa è andato terribilmente storto. Ma sono riusciti a riportarlo indietro, la domanda è cosa è successo? E perché è successo?». E racconta la storia clinica di Eriksen: «Questo ragazzo ha avuto test normali fino al 2019, quindi come si spiega questo arresto cardiaco?». Sharma presiede il gruppo di consenso cardiaco di esperti della FA (la Federazione calcistica inglese). Per lui vi possono essere diverse ragioni per cui l’arresto cardiaco si è verificato, come temperature elevate o una condizione non identificata. Ma aggiunge che il bollettino sanitario che parla di un Eriksen sveglio in ospedale è ottimo segno: «Sono molto contento. Il fatto che sia stabile e sveglio indicano che le sue prospettive saranno molto buone». Quindi potrebbe tornare a giocare? «Io parlo della sua salute in generale. Non so se giocherà mai più a calcio. Senza mezzi termini, di fatto è come morto, anche se per pochi minuti, ma è morto e quale medico gli permetterebbe di morire ancora? La mia risposta è no». Il cardiologo inglese sottolinea: «La buona notizia è che vivrà, la cattiva notizia è che stava arrivando alla fine della sua carriera, quindi se giocherà un’altra partita di calcio a livello professionistico non posso dirlo. Nel Regno Unito non giocherebbe. Saremmo molto severi al riguardo». Il cardiologo e medico dello Sport, Bruno Carù, però lascia aperto uno spiraglio: «Carriera finita per Eriksen? Non è detto, bisogna vedere che cosa ha determinato l’arresto cardiaco, se la patologia è curabile, il giocatore potrebbe teoricamente tornare a giocare. Non si deve escludere questa possibilità. C’era qualcosa che non andava bene nel cuore del giocatore prima della partita, lo stress non c’entra niente. Il cuore non funziona così. Test attuali non rivelerebbero anomalie? Ci sono situazioni non facili da riconoscere, c’è per esempio una situazione come la sindrome di Brugada che si manifesta solo con una alterazione dell’elettrocardiogramma». Però con elettrocardiogrammi periodici, come quelli a cui si sottopongono gli atleti, la sindrome di Brugada prima o poi sarebbe stata individuata in un calciatore 29enne.

La Danimarca torna in campo contro il Belgio. Kjaer sul dramma di Eriksen: “Uno shock che resterà per sempre, giocheremo per Christian”. Antonio Lamorte su Il Riformista il 17 Giugno 2021. Simon Kjaer parla per la prima volta dopo il malore che ha colpito Christian Eriksen in campo, nella partita della Danimarca contro la Finlandia, sabato 12 giugno, valida per gli Europei di calcio. Eriksen ha sofferto un arresto cardiaco, è svenuto in campo, ha perso i sensi. Momenti di panico e paura che hanno fatto il giro del mondo. Kjaer, capitano dei danesi, è stato tra i primi a soccorrere il compagno di squadra e l’amico. La sua freddezza e prontezza sono state lodate dai giornali di tutto il mondo. Alla vigilia di Danimarca-Belgio, che si giocherà oggi pomeriggio alle 18:00, a Copenaghen, il capitano della Danimarca torna a parlare, con un post sui social network. “Sono stati giorni molto particolari, durante i quali il calcio non è stata la cosa più importante. È stato uno shock che farà parte di me – parte di tutti noi – per sempre. La sola cosa che importa è che Eriksen stia bene!! Sono orgoglioso di come abbiamo reagito come squadra e di come siamo stati uniti in quei momenti difficili. Sono commosso e davvero grato per tutto il supporto che abbiamo ricevuto”. Danimarca-Finlandia, dopo le notizie rassicuranti sullo stato di salute di Eriksen, in miglioramento dopo il malore, è ripresa ed è finita 1 a 0 a favore dei finnici. Kjaer ha giocato pochi minuti dopo il rientro in campo, fino al 63esimo, sostituito da Jannik Vestergaard, evidentemente provato da quello che era successo sul finire del primo tempo. “Oggi, entreremo in campo contro il Belgio con Christian nei nostri cuori e nei nostri pensieri. Giocheremo per Christian e, come sempre, per tutta la Danimarca. Questa è la motivazione più grande che possiamo avere. Come sempre: faremo il nostro meglio per la Danimarca”. Eriksen sta meglio, sotto osservazione, al 14esimo piano del Rigshospitalet di Copenaghen dov’è stato ricoverato dopo il malore. Il numero 10 danese e calciatore dell’Inter potrebbe essere dimesso domani. Ieri ha pubblicato un messaggio sui suoi social network ringraziando tutti per il sostegno. La Federazione Danese ha fatto sapere stamane che gli verrà impiantato in defibrillatore sottocutaneo, non è stato chiarito se temporaneo o stabile. Non è stata resa nota la causa dell’arresto cardiaco.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli. 

A Eriksen sarà impiantato un defibrillatore. Le prime parole dopo il risveglio: "Ho solo 29 anni, sono tornato con voi". Maurizio Crosetti su La Repubblica il 17 giugno 2021. Jens Kleinefeld è il medico tedesco che ha manovrato il defibrillatore che ha permesso al cuore del giocatore della Danimarca di tornare a battere dopo l'arresto al 43' di gioco della sfida con la Finlandia: "È stato un momento molto emozionante". Gli metteranno un defibrillatore sottocutaneo, una specie di centralina elettrica in grado di mandare impulsi al cuore in caso di crisi, di aritmia o di un nuovo arresto. La Federcalcio danese ha diffuso una nota per spiegare che Christian Eriksen sarà operato al cuore e che ha già dato il suo consenso all'intervento. Una cosa del genere non è inedita nel calcio di alto livello: anche l'olandese Daley Blind, che è stato compagno di squadra di Eriksen all'Ajax, gioca con un defibrillatore sottocutaneo. Dunque, non è impossibile che anche Eriksen possa tornare in campo, anche se l'ipotesi resta complicata. "Okay, facciamolo" ha detto Chris ai medici. Il defibrillatore sottocutaneo (ICD) viene impiantato sotto l'ascella sinistra ed è collegato al cuore all'altezza dello sterno. Non si tratta di un intervento troppo complesso, ma nella pratica cardiologica si tende a sconsigliare lo sport di contatto perché un urto, oppure una pallonata, potrebbero danneggiare l'apparecchio. Va detto che a Blind è accaduto che il defibrillatore si sia spento durante una partita contro l'Hertha Berlino, e il giocatore ha avuto un lieve malore.

Le prime parole dopo il risveglio

A Copenaghen stanno per arrivare anche il medico dell'Inter, Volpi, e Beppe Marotta. Intanto emergono nuovi particolari sui drammatici momenti dell'arresto cardiaco in campo, sabato scorso. "Mi senti? Sei qui?" E Chris rispose subito: "Sì". E' questo il ritorno alla vita raccontato dal medico tedesco che ha salvato Eriksen, il dottor Jens Kleinefeld, anestesista e docente universitario a Solingen, grande esperto di rianimazione e primo soccorso. E' stato proprio lui a manovrare il defibrillatore che ha permesso al cuore di Christian di tornare a battere dopo l'arresto al 43' di gioco di Danimarca-Finlandia. "Eriksen si è svegliato subito dopo la prima scossa, saranno trascorsi non più di trenta secondi ed è stato un momento molto emozionante. Non dimenticherò mai la prima fase che lui ha pronunciato, dopo avermi detto quel "sì". Eriksen ha aperto gli occhi, mi ha guardato e ha aggiunto: "Dannazione, ho solo 29 anni". Una cosa molto toccante, ma di più importantissima per me in quanto medico: il segnale che il giocatore era perfettamente in sé e che il suo cervello non aveva subito danni". Poi ha detto: "Sono tornato con voi".

"Il cuore si è fermato per un minuto"

Il dottor Kleinefeld ha lavorato a lungo per la Fifa e per l'Uefa, ed è anche un grande esperto di doping e antidoping. La sua testimonianza aiuta a fare chiarezza su quanto è accaduto sabato, quando il medico tedesco ha preso istantaneamente il controllo della situazione anche perché nello staff sanitario danese non era presente un cardiologo, né un rianimatore. "Non credo che il cuore di Eriksen sia rimasto fermo per più di un minuto, un minuto e mezzo. Per fortuna, per riavviarlo è stata sufficiente la prima scarica elettrica di un trentina di secondi: e non è affatto scontato che accada, anzi è abbastanza raro che il cuore riparta così in fretta".

Nei minuti infiniti in cui il giocatore è rimasto steso a terra, con i compagni attorno a fargli cerchio e scudo, Christian Eriksen era già sveglio e vigile. "Ha continuato a rispondere con pertinenza e congruità alle nostre domande, e quando il pubblico si è accorto che il giocatore si stava muovendo e stava sollevando il capo, si è messo ad applaudire". Il centrocampista dell'Inter è stato quindi trasportato in ambulanza, dov'è rimasto per un tempo piuttosto lungo: "Sì, perché lo abbiamo collegato ai macchinari per monitorarlo. Ormai l'emergenza si era relativamente conclusa e potevamo verificare con più calma tutti i parametri vitali. E' passato parecchio tempo, ma la situazione era perfettamente sotto controllo. Infine, lo abbiamo portato in reparto". Dove stanno per operarlo al cuore e restituirlo a una vita il più possibile normale. Perché, dannazione, lui ha solo 29 anni.

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo cos’è: come funziona il dispositivo che sarà impiantato a Eriksen. Debora Faravelli il 18 giugno 2021 su Notizie.it. Cos'è e come funziona il defibrillatore cardiaco sottocutaneo, dispositivo che verrà impiantato a Eriksen dopo il malore in campo. La federazione danese ha reso noto che dopo il malore accusato in campo durante la partita Danimarca-Finlandia, a Eriksen sarà messo un ICD, vale a dire un defibrillatore cardiaco sottocutaneo: cos’è e come funziona questo strumento?

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo: cos’è

L’ICD è un dispositivo elettrico che viene impiantato sottopelle in soggetti affetti da patologie cardiache che li espongono al rischio di frequenze cardiache troppo veloci e quindi pericolose. Una volta inserito, lo strumento monitora costantemente l’attività del cuore, può fornire una stimolazione e interviene in caso di necessità con degli shock elettrici che defibrillano il cuore e ripristinano la normale funzionalità cardiaca. Grazie a questo dispositivo è dunque possibile riconoscere condizioni di anomalia, come tachicardia ventricolare o fibrillazione ventricolare e ricevere autonomamente una terapia elettrica salvavita tramite un impulso elettrico.

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo: come funziona

L’impianto sottopelle del defibrillatore cardiaco avviene tramite un piccolo intervento chirurgico in anestesia locale in cui posizionano lo strumento nella zona toracica, in particolare sotto la clavicola. Durante l’operazione il paziente non avverte dunque alcun dolore, mentre una volta conclusa potrebbe sentire fastidio nella sede dell’incisione e una sensazione di stanchezza. Il dispositivo è collegato a uno o due fili (elettrocateteri) a loro volta posti in collegamento con il muscolo cardiaco. Questi trasmettono informazioni dal defibrillatore al cuore e inviano gli impulsi elettrici qualora sia necessario. Prima di essere impiantato, l’ICD necessita di una programmazione tramite computer in cui i medici possono visualizzare tutte le informazioni che riguardano il cuore dell’individuo interessato e il suo funzionamento. La convivenza con un defibrillatore sottopelle viene ritenuta semplice e sicura a patto che si rispettino tutte le precauzioni fornite dal personale specialistico, in particolare rispetto a dispositivi elettrici, radiazioni elettromagnetiche e apparecchiature di diverso tipo.

Defibrillatore cardiaco sottocutaneo: quanto dovrà tenerlo Eriksen?

Per il momento non è ancora noto se il calciatore danese dovrà convivere per sempre con questo dispositivo impiantato oppure se ne usufruirà temporaneamente. Una volta inserito sottopelle, i medici lo visiteranno nel giro di tre-quattro settimane per capire i tempi. Sono già diversi i calciatori che all’estero giocano con un impianto simile installato tra cui l’olandese Blind. In Italia invece, stando così le cose Eriksen non otterrebbe l’idoneità perché non è consentito giocare nelle sue condizioni. 

Buone notizie per il calciatore dell'Inter. Eriksen dimesso dall’ospedale, dopo l’operazione l’incontro con i suoi compagni di Nazionale: “Grazie per i messaggi, sto bene”. Fabio Calcagni su Il Riformista il 18 Giugno 2021. Christian Eriksen, centrocampista della Danimarca, è stato dimesso dall’ospedale Rigshospitalet di Copenaghen dove era ricoverato a causa dell’attacco cardiaco accusato durante Danimarca-Finlandia a Euro 2020. A renderlo noto su Twitter è stata la Federazione calcistica danese pubblicando anche un messaggio del giocatore. “Grazie per tutti i messaggi di vicinanza. È stato incredibile vederli e viverli. L’operazione è andata bene e mi sto riprendendo bene nonostante tutte le circostanze del caso”, ha detto Eriksen. “È stato veramente bello vedere ancora i ragazzi dopo la fantastica gara che hanno giocato la scorsa notte. Non c’è bisogno di dire che farò il tifo per loro lunedì prossimo contro la Russia”, ha aggiunto il calciatore in forza all’Inter. Il centrocampista dopo le dimissioni dall’ospedale si è anche recato nel ritiro della nazionale danese e ha incontrato i compagni di squadra.

L’OPERAZIONE – Eriksen è stato operato nella serata di giovedì, operazione necessaria per l’impianto di un defibrillatore sottocutaneo per regolarizzare l’aritmia cardiaca. “Dopo i diversi esami al cuore cui Christian è stato sottoposto, è stato deciso che verrà impiantato un Icd (defibrillatore impiantabile)”, aveva spiegato il medico Morten Boesen. “Christian ha accettato la soluzione ed è stata inoltre confermata da specialisti a livello nazionale e internazionale che consigliano tutti lo stesso trattamento”. Non è stato specificato se il defibrillatore sarà temporaneo o permanente. Nessuna diagnosi nella nota, non era stata chiarita la causa dell’aritmia che ha sofferto il fuoriclasse. “Ciao a tutti, grazie mille per i vostri messaggi da tutto il mondo. Significa molto per me e la mia famiglia. Sto bene, date le circostanze. Devo ancora fare degli esami in ospedale, ma mi sento bene. Adesso tiferò per i compagni della Danimarca nelle prossime partite”, aveva scritto due giorni fa in un post sui social per la prima volta dopo il malore che ha sconvolto il mondo.

Fabio Calcagni. Napoletano, classe 1987, laureato in Lettere: vive di politica e basket.

Christian Eriksen dimesso dall'ospedale: "Installato il defibrillatore cardiaco", ma in Italia non può più giocare. Libero Quotidiano il 18 giugno 2021. Christian Eriksen è stato dimesso dall’ospedale Rigshospitalet di Copenaghen, dove era ricoverato da sei giorni dopo l’arresto cardiaco di cui era stato vittima nel corso del match tra Danimarca e Finlandia a Euro 2020. A comunicarlo ufficialmente è stata la federazione danese, che ha allegato anche un messaggio proveniente direttamente dal suo centrocampista: “Grazie per tutti i messaggi di vicinanza. È stato incredibile vederli e viverli. L’operazione è andata bene e mi sto riprendendo bene nonostante tutte le circostanze del caso”.  “È stato veramente bello vedere ancora i ragazzi dopo la fantastica gara che hanno giocato la scorsa notte - ha aggiunto - non c’è bisogno di dire che farò il tifo per loro lunedì prossimo contro la Russia”. A Eriksen è stato impiantato un defibrillatore cardiaco, necessario dopo che la fibrillazione ventricolare ha portato a un infarto: a 29 anni potrebbe essere finita qui la sua carriera, passata decisamente in secondo piano. L’importante è che stia bene e che possa tornare a condurre una vita normale al fianco dei suoi cari. Anche se non è del tutto escluso che possa tornare a giocare: di sicuro non potrebbe farlo in Italia, dove ha ancora un contratto in essere con l’Inter, dato che il regolamento non consente di scendere in campo con un defibrillatore cardiaco. All’estero però la possibilità di un ritorno non è esclusa, dato che c’è l’olandese Blind che tuttora gioca anche in nazionale con un ICD installato. 

Malore Eriksen, parla consigliere Ordine dei medici: “Se è miocardite può tornare in campo”. Jacopo Bongini il 20/06/2021 su Notizie.it. Secondo lo specialista in medicina dello sport Ivo Pulcini se il malore di Eriksen dovesse rivelarsi una miocardite potrebbe presto tornare a giocare. Se il malore che ha colpito di calcatore Christian Eriksen dovesse rivelarsi una miocardite potrebbe presto tornare a giocare. È questa la previsione dello specialista in cardiologia e medicina dello sport e consigliere dell’Ordine dei medici di Roma Ivo Pulcini, che intervistato da MeteoWeb afferma: “Scusi il gioco di parole: auguro davvero di cuore a Christian Eriksen che il suo problema di salute sia legato a una miocardite. Se così fosse, il giocatore danese potrebbe anche tornare in campo, sempre che tutte le commissioni mediche addette a questo giudizio diano una idoneità”. Secondo Pulcini infatti: “La miocardite deve essere controllata periodicamente nel tempo con esami specifici del sangue e strumentali, come la RM, tenendo presente una possibile recidiva entro 6/12 mesi dopo l’episodio. Se gli esami risultano negative e il giudizio clinico della commissione è favorevole, il giocatore può riprendere normalmente l’attività fisica agonistica. La miocardite è infatti una malattia guaribile, come ad esempio una broncopolmonite, a meno che non ci siano esiti che compromettono la capacità fisica e l’adattamento del cuore allo sforzo. Viceversa, qualora non si tratti di miocardite ma di una canalopatia congenita che richiede l’impianto sottocutaneo di un defibrillatore, in tal caso in Italia il calciatore non potrà avere il certificato di idoneità agonistica”. Successivamente Pulcini ha spiegato il motivo per cui Eriksen ha perso improvvisamente conoscenza durante la partita contro la Finlandia. Si è trattato con molta probabilità di un problema elettrico su un cuore perfettamente normale, in gergo medico una canalopatia: “Prendiamo ad esempio la sindrome di Brugada: si innesca un meccanismo di contatti elettrici, attraverso gli ioni, sodio, potassio, calcio e cloro. Invece di avere una contrazione normale che permette di riempire di sangue il ventricolo sinistro e il destro e poi fare una contrazione per spedire a tutto il corpo, compreso il cervello, il sangue che serve per mantenere in vita tutti gli organi, improvvisamente il cuore impazzisce, fibrilla, le contrazioni non sono efficaci e il sangue al cervello non arriva. Ecco spiegata l’improvvisa caduta di Eriksen. È come se si spegnesse il motore perchè manca la corrente”. Pulcini ha infine spiegato cosa fare in caso dovesse capitare anche a noi una situazione come quella vissuta dai compagni di squadra di Eriksen: “Il paziente va messo supino e si deve intervenire con il massaggio cardiaco ma, soprattutto, è fondamentale la tempestività dell’uso di un defibrillatore. E nella vicenda Eriksen la tempestività è stata determinante: 3 minuti e 12 secondi hanno permesso di rianimare il ragazzo, che altrimenti non sarebbe resuscitato come uomo, mentre come atleta il suo futuro è ancora tutto da scrivere”. 

DA calciomercato.com il 28 luglio 2021. Chi ha un defibrillatore sottocutaneo non può ottenere l'idoneità sportiva in Italia. Ma, se questo dovesse essere rimosso, il discorso cambia. Ecco la speranza di rivedere Christian Eriksen giocare con l'Inter. Il 29enne centrocampista danese ha avuto un arresto cardiaco in campo durante Danimarca-Finlandia dello scorso 12 giugno agli Europei, ha rischiato la vita e poi è stato operato al cuore. Riccardo Cappato, direttore del centro di elettrofisiologia clinica e aritmologia del gruppo Multimedica di Milano, spiega al Corriere dello Sport: "Nel caso di Eriksen le ipotesi sono svariate. Mancano elementi della sua storia clinica e di quanto appurato dagli specialisti dell'ospedale danese. Non abbiamo nemmeno informazioni sulla defibrillazione in campo. Di certo la crisi cardiogena è stata grave. Un blocco del cuore da fibrillazione conseguente ad aritmia grave, imprevista e improvvisa.” “Cause possibili? Molte. Una potrebbe essere preesistente mai individuata e stabile, tipo la cardiomiopatia congenita o la sindrome di Brugada, oppure una miocardite infiammatoria da causa grave (per lo più da virus, come quello del Covid, che non sembra riguardare il cuore ma che poi all'improvviso innesca l'aritmia), o un disturbo elettrolitico. La causa infiammatoria, se si riesce a diagnosticare, è per esempio una causa reversibile, che potrebbe consentire a Eriksen di arrivare a togliere il defibrillatore e quindi tornare a giocare a calcio in Italia". Franco Cecchi (università di Firenze, specialista in malattie cardiovascolari e cardiomiopatie, fondatore e presidente dell'associazione di pazienti con cardiomiopatia Aicarm) gli fa eco sempre al Corriere dello Sport: "Una miocardite subclinica di origine infiammatoria? I medici dell'ospedale danese dovrebbero aver scoperto se questa è la possibile causa. Possibile una miocardite infiammatoria, per esempio da mononucleosi o da citomegalovirus o da un virus che lo ha infettato in modo asintomatico anche mesi prima. O a causa di una vecchia presenza virale che si è riaccesa.” “Avere queste informazioni ci permetterebbe di sapere se ha avuto una passata infezione, se è rimasta latente un'infiammazione che può portare a una miocardite e a un’improvvisa crisi del ritmo. Allora si cura la causa dell’infiammazione e quando si è sicuri che è 'spenta' si potrebbe anche togliere il defibrillatore, se questo ostacola il via libera al ritorno in campo. Quando è arrivato all'Inter è stato sottoposto a tutti gli screening cardiovascolari. E in Italia siamo severissimi in questo campo. Era tutto a posto, così come negli screening inglesi fino al 2019. Ora si possono fare solo supposizioni perché non conosciamo i risultati degli esami fatti in ospedale a Copenaghen. Purtroppo, non c'è coordinamento tra federazioni e tra società calcistiche. Si potesse avere la storia clinica di Eriksen, e non solo quella cardiaca, si potrebbe realmente fare una previsione precisa". 

Paul Gascoigne. DA ilposticipo.it il 21 settembre 2021. Quando si parla di Paul Gascoigne, è semplice cadere in uno dei più classici cliché che ci sono: "genio e sregolatezza". E Gazza ha fatto di tutto per confermare questa etichetta, dentro e fuori dal campo. Tra colpi da maestro, infortuni gravissimi, scherzi leggendari e tanti, troppi problemi con le dipendenze, l'inglese rimane uno dei più grandi "what if" della storia del calcio mondiale. Cosa avrebbe potuto combinare se si fosse impegnato davvero? Probabilmente, non sarebbe stato Gazza. Come ha raccontato lui stesso nel suo documentario autobiografico, i 90 minuti in campo erano l'unica liberazione da un mondo in cui non si è mai trovato a suo agio e dai problemi che lo hanno sempre afflitto. E se la sua dipendenza più celebre è quella da alcol, l'inglese ha raccontato anche che negli ultimi tempi se ne era aggiunta un'altra: quella dai social network. Un mondo intrigante ma allo stesso sempre pericoloso, in cui il rischio di perdersi e di staccarsi dalla vita reale è sempre dietro l'angolo, come ha confermato Gascoigne al podcast AnythingGoes: "Ero diventato dipendente, ero continuamente online". Quanto è bastato per decidere di smettere, con i profili Instagram, Facebook e Twitter che in effetti sono inattivi da un bel po'. E Gazza sta cercando di non cadere di nuovo in tentazione: "Mi godo la vita per quanto posso e cerco di ottenere il massimo da quello che ho". C'è spazio anche per l'altro grande nemico, la bottiglia. In un momento complicato per tutto il mondo, Gascoigne ha spiegato di essere riuscito a tenere lontani i demoni. "So di essere una persona molto più felice quando non bevo. A volte posso essere un ubriacone davvero triste. L'anno scorso non solo io, ma tutto il paese ha avuto parecchie difficoltà per quello che riguarda il lavoro. Ma per fortuna ho avuto nuovi impegni e cerco di mantenermi sulla retta via". Nuovi impegni che lo hanno portato addirittura all'Isola dei Famosi, dove è stato uno dei concorrenti più amati dal pubblico. Di certo, sono stati molti i reality che nel corso degli anni hanno provato ad averlo come concorrente. Ma vista la situazione, quello che gli ha promesso un'isola deserta senza poter usare il cellulare è stato il più apprezzato di tutti... 

DAGOTRADUZIONE DA dailymail.co.uk il 9 giugno 2021. Sono passati 25 anni ma Paul Gascoigne è tornato con le braccia larghe, la testa alta e Jamie Redknapp in piedi sopra di lui. L'ultima volta che è successo è stato Il 15 giugno 1996, dopo che Gazza ha segnato un gol che solo lui poteva. Con il piede sinistro, ha lanciato la palla su Colin Hendry. Con il destro, ha tirato al volo superando Andy Goram. Inghilterra 2, Scozia 0 a Wembley. Quel gol, e la successiva esultanza della “poltrona del dentista”, è stato recentemente votato come il momento più memorabile nella storia degli europei. Nella prima parte di un'esclusiva intervista, Sportsmail ha incontrato l'inimitabile Gazza per parlare di Euro 96 e di quel famigerato viaggio in Cina e Hong Kong prima del torneo.

GASCOIGNE : La risate che ci siamo fatti, la fiducia, lo stare insieme. Eravamo sull'autobus per andare alle partite cantando quella canzone: "Sta tornando a casa." Quando scendevate dall'autobus, io aspettavo. Cantavo di nuovo la canzone e poi dicevo: "Ora sono fottutamente pronto".

REDKNAPP: Nessuno ricorda davvero quella vittoria contro la Cina, Gaz, ma io sì . Terry Venables fece partire me e te a centrocampo e poi ci disse: "Siete stati fantastici". Sai perché? Perché ogni volta avevo la palla, la passavo a te. Questo era il mio piano di gioco. Non hai mai evitato di prendere il pallone. 

GASCOIGNE: Mai. In allenamento, Venables mi dava il pallone e mi diceva: "Affronta questi cinque ragazzi" e lo facevi, era così che mi tenevo in forma. 

REDKNAPP : Abbiamo battuto la Cina 3-0, poi l'Hong Kong XI 1-0, e l'allenatore ci disse che potevamo fare quello che vogliamo per rilassarci. Oh ragazzi. Che ricordi hai di quella notte, Gaz?

GASCOIGNE: Era il mio 29esimo compleanno e quindi ho pensato, “Va bene, fanculo, esco” . Ricordo di essere uscito a comprare delle Doc Martens, un grosso sigaro, una bottiglia di champagne e poi di essere entrato nel ristorante dove eravate tutti voi. 

REDKNAPP: Poi siamo andati al nightclub “China Jump” e hai notato la “poltrona del dentista”. L’abbiamo provata tutti, ma la persona dietro il bancone ha deciso di fare delle foto e venderle. All'epoca ricordo di aver pensato: “Che figura”, perché mio padre mi avrebbe ucciso se mi fossi schiantato su quella sedia. Ora vorrei averne uno scatto, in ricordo dei vecchi tempi!

GASCOIGNE: Ero solo andato per un fottuto drink! Ma quella è stata una serata memorabile. Le foto di quella notte sono finite sulla prima pagina del Sun con il titolo, “DISGRACEFOOL”, pagando profumatamente quegli scatti di Gascoigne e compagni con le magliette strappate a brandelli. Le marachelle dei giocatori inglesi non sono finite qui. Sul volo CX251 diretto a Londra, due schermi televisivi sono stati rotti sul ponte superiore dell'aereo che ospitava la squadra. La compagnia aerea Cathay Pacific, ha chiesto alla FA di pagare loro £ 5.000 per il danno. La squadra si è presa "responsabilità collettiva". Ecco cosa è successo davvero... 

REDKNAPP : Ti ricordi perché avevi quel livido sull'aereo, Gaz? 

GASCOIGNE : Alan Shearer mi ha dato uno schiaffo in faccia? 

REDKNAPP : Ti eri addormentato, quindi io e Robbie Fowler abbiamo tirato fuori il rasoio e ti abbiamo rasato le sopracciglia. Ti sei svegliato perché ci hai sentito ridere tutti. Poi hai scoperto perché e ha distrutto degli schermi mentre cercavi di scoprire il responsabile! Ad essere sinceri, visto che eri così biondo, non avevi neanche notato che le tue sopracciglia erano sparite! 

GASCOIGNE : Ci siamo fatti una risata. I giornali ci hanno massacrato per quell’episodio, ma alla fine ci ha reso un gruppo più unito.

REDKNAPP : È buffo che tu citi i giornali, Gaz, perché ci hai fregati! Stavano cercando di scoprire chi fosse il responsabile di quegli schermi rotti e tu hai deciso di dirgli: "Sono stati i tre Scouser". Dicevano che fossimo io, Robbie e Steve McManaman. I giornalisti si sono addirittura presentati a casa mia! Ho chiesto loro perché pensavano che fossi stato io. Risposero “ Ce l’ha detto Gazza...” Grazie Mille! 

GASCOIGNE : (ride) Ricordo anche che Dennis Wise è stato messo nell'armadietto sopraelevato. Dopo tutto ciò, sapevo di essere nei guai, quindi sono andato in Galles a nascondermi per un paio di giorni in una clinica della salute e sapevo di essere pronto per il torneo. La partita di apertura del girone dell'Inghilterra si concluse con un deludente pareggio per 1-1 con la Svizzera. Dopo la partita, Venables disse di nuovo ai giocatori che potevano fare tutto ciò che volevano per rilassarsi...

REDKNAPP : Sono andato nell'Essex dal giovane Frank (Lampard) e decidemmo di andare al nightclub “Faces”. Non ho idea di cosa mi abbia fatto pensare che fosse una buona idea nel bel mezzo di un torneo. Quando sono arrivato lì, c’erano anche Teddy Sheringham e Sol Campbell. Era sabato sera, ma non è successo niente di stupido. Niente “poltrone da dentista”. Solo qualche drink. Poi Terry mi chiama la domenica, 'A che giochi stai giocando?' Io, Teddy e Sol eravamo finiti di nuovo in prima pagina sui giornali. Sinceramente pensavo che Terry ci avrebbe cacciato dalla squadra. Ti ricordi dove sei andato? 

GASCOIGNE: Sono andato a trovare Rod Stewart! Camminando per una strada, gli dissi: "Dai, Rod, andiamo al pub, ho bisogno di un fottuto drink". Aprì la giacca e tirò fuori una bottiglia di vodka. Io risposi, 'Salute amico!' Poi andammo al pub e lui al karaoke! 

REDKNAPP : Scommetto che eri segretamente geloso del fatto che io, Teddy e Sol ti abbiamo rubato la prima pagina! La stampa è stata implacabile con te. Ma dopo quella partita in Scozia eri amatissimo. 

GASCOIGNE : Ho oscurato la stampa. Sapevo cosa potevo fare in campo. Non mi ha dato fastidio. Affatto. Quando sono andato alla Lazio è stato lo stesso.

REDKNAPP : Ti hanno perseguitato, avevi quel 'gene mascalzone', come mi piace chiamarlo. 

GASCOIGNE : Sicuramente. Ricordo come Venables registrava le sessioni di allenamento e aveva questa grande gru dietro l'obiettivo. Era enorme e c'era un ragazzo lassù, a circa 15 metri da terra, con la sua macchina fotografica che guardava in basso. Così gli ho rubato le chiavi e sono scappato in albergo. 

REDKNAPP : Povero ragazzo! È ancora lì adesso, Gaz. Gara due, e la Scozia è ospite di Wembley. Sai cosa succede dopo...

REDKNAPP : Il giorno prima di affrontare la Scozia, tu ci dissi: "Domani segnerò e quando lo farò, farò la poltrona del dentista, quindi chiunque sia in campo, venga da me, presto". (Gazza scoppia a ridere). Parlami di quel gol, Gaz. 

GASCOIGNE : Sapevo che stava arrivando e ho dato una piccola occhiata a Colin Hendry. Se si fosse fermato, avrei portato la palla a terra e l'avrei comunque battuto. Ma dal modo in cui si stava avvicinando a me, sapevo solo di averlo per i coglioni. L'ho alzata sopra la sua testa e ho tirato al volo.

REDKNAPP: Sembra così facile, ma l'hai spostata con il piede sinistro e poi hai tirato al volo con il destro. Bang. Una cosa incredibile per noi comuni mortali. L'altro giorno ho parlato con Ally McCoist di quel gol. Tu e Ally eravate compagni di squadra dei Rangers all'epoca, ma quando siete tornati in Scozia non ne avete mai parlato nello spogliatoio. 

GASCOIGNE: Non ho mai detto una parola. 

REDKNAPP : Perché no? è stata...

GASCOIGNE : (sorridendo) Perché sapevo di avergli già fatto male. Il danno è stato fatto. Li ho rovinati. Per questo non ho mai detto una parola. 

REDKNAPP : Li hai uccisi con il silenzio. Tu e Ally eravate anche buoni amici. 

GASCOIGNE : Viveva a circa 3 chilometri da me. Una volta stavo tornando a casa dal pub, era circa l'1.30 e ho pensato: "Conosco il codice di sicurezza di casa sua" e stavo morendo di fame. Allora sono entrato in casa sua e mi sono fatto un panino. Sento qualcuno dietro di me, la luce si accende ed era Coisty con una mazza da baseball in mano. Lui disse: "Oh, è Gazza. Ci vediamo domattina per l'allenamento". Risposi: "Ci vediamo Coisty, sto solo facendo un panino", e lui tornò a letto.  

(Paul fa una pausa) Adoravo giocare a calcio. Sapevo che ce l’avrei fatta. Sapevo cosa potevo fare con una palla. 

REDKNAPP: Sarò onesto, Gaz, non ho molte foto appese in casa del mio periodo da calciatore. Ma ho quella della celebrazione della “poltrona del dentista”, e vedo che l'hai incorniciato anche te su quel tavolo laggiù. 

GASCOIGNE : Quando ho segnato, ho fatto uno sprint, mi sono sdraiato, ho alzato la testa e ho aspettato. Era sempre nella mia mente. 

REDKNAPP : In realtà l'hanno cronometrato, Gaz, ed è il più veloce che tu abbia mai corso. 

GASCOIGNE: (ride) Sapevo che avrei segnato. Lo sapevo. 

REDKNAPP: È stato il tuo miglior gol di sempre? 

GASCOIGNE : (pausa) Sì. Il migliore. Ne ho segnato uno contro David Seaman, nella semifinale di FA Cup 1991 tra Tottenham e Arsenal. Ma quello, per l'Inghilterra, a Euro 96 in casa, i tifosi che cantano il tuo nome, è stato il migliore. Gara tre e l'Olanda è l'ultima avversaria dell'Inghilterra nel Gruppo A. Sarebbe bastato un pareggio, ma "Football's coming home" di David Baddiel e Frank Skinner risuonava intorno a Wembley e i ragazzi di Venables erano dell'umore giusto. Shearer e Sheringham segnarono due gol a testa, l'Inghilterra vinse 4-1 e raggiungemmo la fase a eliminazione diretta... 

REDKNAPP : Mi sono rotto la caviglia nella partita contro la Scozia, così finirono i miei Europei. Terry mi disse che potevo andare a casa o restare. Risposi, 'Stai scherzando?' Questo è stato il miglior torneo/addio al celibato a cui abbia mai partecipato! Non c'era modo che me ne andassi. Eri tanta roba contro l'Olanda.

GASCOIGNE: Li ho rovinati. Ho lavorato sodo, ho fatto alcuni trucchi, ho fatto l’assist per il gol di Alan Shearer e poi . . . (Gazza piange). . . c'erano 80.000 che cantavano il mio nome. Me lo ricordo molto bene. È stata la migliore sensazione del mondo. Dopodiché, ho pensato: "Bene, vinceremo questo torneo". 

REDKNAPP: Abbiamo battuto la Spagna nei quarti di finale ai calci di rigore. Tu hai segnato il tuo. Poi arriva la Germania in semifinale. Finisce 1-1, altri rigori, e tu segni di nuovo. Gareth Southgate si fece parare il suo e fummo eliminati.

GASCOIGNE: Quando tiro un rigore, di solito li tiro a sinistra, ma quello l'avevo sbagliato. Il pallone ha colpito il mio tallone ed è andato nell'angolo in alto a destra! Ho pensato “Che culo!” Mentre andavo per tirare il rigore avevo un nodo in gola. Avevo paura, ma volevo segnarlo per i ragazzi. 

REDKNAPP: Come non abbiamo vinto quella partita contro la Germania, ancora non me lo spiego.

GASCOIGNE: Io avevo lasciato gli scarpini in albergo. Ho dovuto prendere in prestito alcuni. 

REDKNAPP: Non indossavi nemmeno i tuoi scarpini? 

GASCOIGNE : No. Ho chiesto in giro e ho finito per prendere in prestito quelli di scorta di Teddy Sheringham. 

REDKNAPP: Non l'ho mai saputo! Oh amico. Se avessi indossato le tue scarpe, i tuoi tacchetti sarebbero stati abbastanza lunghi da toccare la palla di Shearer sul secondo palo! Guardi molto calcio adesso, Gaz? 

GASCOIGNE : Non proprio. 

REDKNAPP : Perché no? 

GASCOIGNE : Lo trovo difficile. Mi manca molto. Non mi piace vedere giocatori che neanche festeggiano quando segnano. 

REDKNAPP : Ti fa perdere la testa ? 

GASCOIGNE: Alla grande. 

REDKNAPP: Amavi così tanto il calcio che quando sei stato ammonito in quella semifinale dei Mondiali del 1990 contro la Germania, hai pianto perché il tuo torneo era finito. 

GASCOIGNE : Non vedi più quel tipo di emozione. Non so se sono infastiditi o meno. Io lo ero. 

REDKNAPP: C'è qualcuno che ti piace nella squadra inglese di Southgate per Euro 2020?

GASCOIGNE: Jack Grealish è bravo. Vorrei solo che si tirasse su i fottuti calzini e sembri un calciatore! Ma vuole sempre la palla, il che è un bene. Anche Phil Foden è bravo. 

REDKNAPP : Non so se l'hai visto, Gaz, ma Foden ha un nuovo look. È diventato biondo, come te! 

GASCOIGNE: Ha solo bisogno di essere più egoista in campo. Era il mio sogno giocare per l'Inghilterra. Prima dei Mondiali del 1990, Sir Bobby Robson mi disse che avevo ancora una partita per mettermi in mostra, contro la Repubblica Ceca. Feci tre assist, ne segnai uno e vincemmo 4-2. Mi sono fatto avanti. Amavo giocare per l'Inghilterra. Ne ho adorato ogni minuto.

Nicola Berti. Paolo Borella per grandhotelcalciomercato.it il 14 settembre 2021. “Il mio sogno era l’Inter”. Lo mette in chiaro subito Nicola Berti, ex centrocampista e attuale ambasciatore globale nerazzurro, mentre ci sentiamo al telefono durante l’intervallo di Sampdoria-Inter. Dopo la terza chiamata, finalmente riusciamo a fare l’intervista. Non che Nicola non avesse voglia o altro, solo che non vede troppo di buon occhio gli schemi, gli orari e gli appuntamenti. Preferisce fare le cose in modo naturale. Naturale come quando parla di Nicolò Barella, una sorta di erede: “Barella è il mio genio. Mi rivedo in lui. Ho il suo numero e ogni tanto ci scambiamo qualche messaggio. Gli dico di andare a letto presto. Mi piace da morire, ha la stessa voglia che avevo io. Hai visto l’assist del secondo gol contro la Sampdoria? Voglio dire…” L’Inter è stata la squadra centrale della sua carriera e del suo percorso, ma c’è stato un momento in cui poteva finire tutto: “Nel 93/94 fui infortunato per gran parte della stagione. Rientrai solo alla fine, tra l’altro segnando dei gol fondamentali per la salvezza. L’Inter però aveva dei dubbi sul mio stato fisico, così aspettava a rinnovarmi il contratto in scadenza per l’estate. Fui convocato dalla Nazionale per i Mondiali negli Stati Uniti. Ed ero l’unico giocatore dell’Inter e l’unico che non aveva un contratto già firmato per la stagione successiva”. Così si fecero avanti diverse squadre importanti per il centrocampista: “Un mio amico, che gestiva la mia carriera, ebbe alcuni contatti con il Real Madrid. Mi volevano, erano convinti di me. Anche negli anni precedenti c’era stato l’inizio di una trattativa, ma niente da fare. Ci furono troppe complicazioni e non fu trovato l’accordo”. Allora la pazza idea della dirigenza del Milan, che avrebbe voluto far saltare Berti da una sponda all’altra del Naviglio e renderlo rossonero: “Mi proposero di vivere vicino a Milanello, così sarei stato comodo per gli allenamenti. Inoltre, mi dissero addirittura che mi avrebbero messo a disposizione due guardie del corpo! Ero l’idolo dei tifosi nerazzurri e un trasferimento del genere sarebbe stato pericoloso in quegli anni. Alla fine l’Inter prese in mano la situazione e Pellegrini mi contattò per firmare il rinnovo di contratto”. Una finale del Mondiale e quattro anni dopo, il vero addio all’Inter grazie alla chiamata di un vecchio amico: “In quegli anni arrivarono molti stranieri in nerazzurro. Io sapevo le lingue e pur giocando meno per gli infortuni, divenni un uomo spogliatoio. Moratti non voleva cedermi, ma capitò l’opportunità del Tottenham. Klinsmann mi chiamò e mi disse: «Allora, cosa fai? Vieni?». E io scelsi di raggiungerlo a Londra”. La domanda, conoscendo il tipo di giocatore, è questa: “Ma se fosse arrivato nel pieno della sua carriera in un campionato del genere che poteva esaltarne al meglio le caratteristiche? Quanto avrebbe fatto bene?” Berti però non ci sta: “Andai in Inghilterra per me stesso. Volevo dimostrarmi che ero ancora un giocatore di calcio. La risposta fu positiva. Gli inglesi sono fissati con i numeri e le statistiche. Nei primi sei mesi, quando mi guadagnai il rinnovo sul campo, feci gli stessi gol, assist e tackle di Vieira dell’Arsenal nell’intera stagione. Capito? Berti come Vieira”. Come dargli torto. Anche se non tutti lo apprezzarono agli Spurs, anche per il carattere…particolare: “Nella seconda stagione fu esonerato Gross e arrivò Graham. Giocai la mia ultima partita in casa del Southampton, 1-1. Presi la traversa e feci l’assist per il nostro gol.”  Fui sostituito e allora andai al bar a bere la birra con i giornalisti e mi dissi: «Ma che ca… mi toglie questo?». Da quel momento in poi, fui messo fuori rosa. All’allenatore non piacevano i giocatori stranieri, voleva solo gli inglesi. Fece fuori anche Ginola infatti. Io potevo benissimo giocare ancora 3 o 4 anni in Inghilterra. Anche se non ero neanche comodissimo lì, abitavo in centro a Londra e il campo era ad un’ora e mezza di distanza…”. Unico, in campo e fuori. Chiusa la carriera, secondo voi ha iniziato il percorso da allenatore o dirigente? No, ha scelto la libertà: “Sono andato a vivere 5 anni ai Caraibi, ho ancora la casa lì. Era una tappa programmata. Mi sono sempre detto che quando avrei smesso di giocare avrei provato questa esperienza e così è stato. Ho vissuto cinque anni a piedi nudi sulla spiaggia”.

DA internews24.it il 14 settembre 2021. L’ex centrocampista dell’Inter, Nicola Berti, ha rilasciato una lunga intervista dove parla proprio dei nerazzurri. Intervistato in esclusiva da Gazzetta.it, l’ex centrocampista nerazzurro Nicola Berti ha parlato a tutto tondo dell’Inter, dagli addii di Lukaku fino alla gara con il Real Madrid: «Abbiamo preso 180 milioni dalla cessione di Lukaku e Hakimi, reinvestendone ben pochi, eppure siamo più forti dello scorso anno». «Tre partite sono nulla in una stagione, ma non sottovaluterei l’importanza delle vittorie su Genoa e Verona per creare le giuste vibrazioni e riaccendere l’entusiasmo dopo un’estate difficile. Il pareggio con la Samp mi infastidisce, sono due punti persi che però non cambiano la sostanza». «Marotta e Ausilio hanno fatto un lavoro pauroso. I problemi della proprietà potevano affondare la squadra, invece…». «Lui è il passato. E non dimentichiamoci che se ne sarebbe voluto andare anche un anno prima, dopo la finale di Europa League persa contro il Siviglia». «Ho notato un cambiamento pazzesco, ora giochiamo di più la palla e ci sono più spazi». «Aspettando Dumfries e Dimarco, che comunque a Marassi ha fatto un gol pazzesco, io vado matto per Dzeko. Andate a prendervi le interviste di qualche anno fa, quando sembrava che Edin fosse vicino. Già allora dicevo che era il mio preferito. Utilità e intelligenza calcistica superiori. L’età di Dzeko? Tranquilli, Edin viene da un anno e mezzo di riposo a Roma. A confronto di Dzeko, Lukaku…». «Non mi faccia continuare, in fondo Romelu ci ha fatto godere parecchio». «La Juve ha perso un bomber unico come Ronaldo, ma senza un uomo così ingombrante potrebbe anche mettersi a giocare meglio. Come noi senza Lukaku». «Intanto mi lasci dire che la cosa più importante è il ritorno dei tifosi allo stadio. Quando c’erano mille accessi mi sono rifiutato di andare, così era troppo triste. Ora spiace per la capienza al 50%, Inter-Real è una sfida da Meazza traboccante. Però ci sarà comunque una grande atmosfera. Dobbiamo vincere e raggiungere gli ottavi dopo due anni in cui abbiamo fallito per un soffio. Comunque non è sul Real che si farà la corsa. La chiave è lo Shakhtar e dobbiamo per forza passare noi. Anche se De Zerbi come allenatore mi piace e farà di tutto per metterci in difficoltà». «Vinciamo noi 3-2!».

"Io, ex cavallo pazzo interista nel midollo". Roberto Perrone il 24 Aprile 2021 su Il Giornale. Una vita da centrocampista e gli anni delle feste nella Milano da bere. «Ora ho trovato l'equilibrio». Nicola Berti è ancora «Cavallo Pazzo», eroe delle folle nerazzurre. Nato a Salsomaggiore Terme (14 aprile 1967), ha totalizzato con l'Inter (1988-98) 311 presenze, 41 gol, uno scudetto, una Supercoppa italiana, due Coppe Uefa (più mezza '98: se ne andò a gennaio). Con lui la vita, e anche l'intervista, è sempre un ottovolante. Avvertenza: forse non tutto quello che leggerete è vero.

I primi ricordi di un campo e di un pallone.

«All'oratorio, pioveva a dirotto, avevo i piedi fradici ma inseguivo il pallone. Però il prete non mi voleva far giocare».

E perché?

«Perché ero già troppo audace».

Trasgressivo fin da allora.

«Insomma. Io, sarò stato trasgressivo come viene raccontato e un po' racconto pure io, comunque ho sempre lavorato. Da ragazzino facevo i mercati con mio padre che vendeva salumi e formaggi. Ero bravo con le ricotte perché d'inverno non avevo paura a mettere le mani nell'acqua fredda per tirarle fuori».

Suo padre è stato il suo procuratore.

«E certo, vedi sopra, facendo i mercati sapeva vendere, contrattare».

Prima squadra ufficiale. Primo ruolo.

«Il Combi Salso, ho giocato un po' in tutti i ruoli del centrocampo, ma il tecnico che mi ha lanciato, al Parma, Bruno Mora, mi ha schierato anche da attaccante».

Esordisce in prima squadra che ha appena compiuto 16 anni. Precoce.

«Questa la racconta sempre il direttore Walter Sabatini che ora è al Bologna, ma allora, 1983, era un giocatore del Parma. Andiamo a Trieste e io, che sapevo avrei esordito a 16 anni in C1, ho chiesto otto biglietti omaggio per parenti e amici. Sabatini non si capacitava che un ragazzino degli allievi aggregato alla prima squadra avesse una tale pretesa».

Tanti, effettivamente, per un pischello.

«Ma il Parma non veniva a vederlo nessuno, per Berti invece si muovevano tutti».

Immagino l'emozione.

«Io l'emozione non la conosco. Fu il ds Riccardo Sogliano a buttarmi nella mischia. A proposito, avrei fatto bene anche a rugby. Non ne sono più uscito».

La serie A la raggiunge con la Fiorentina. Com'è stato staccarsi da casa?

«Ma io ero via da casa già a 15 anni. L'esperienza a Firenze è stata bellissima, mi sono divertito tanto, al pronti via, ho segnato alla Juventus e poi all'Inter. E poi ho vissuto le prime avventure, le prime fughe...».

A proposito di «fughe», a Firenze ancora la rimproverano di aver tradito la Fiorentina per l'Inter.

«Io ero un idolo per i tifosi e quando sono andato via è scattata la gelosia, mi hanno chiamato mercenario. Allora il calcio era vissuto in modo più diretto, intenso. Di una squadra diventavi la bandiera. Erano gli anni del giocatore-tifoso, adesso il ruolo è più sfumato, ora prevale il professionismo».

Una vita da bandiera, anche all'Inter diventa idolo delle folle. «Nicola Berti facci un gol» l'urlo della Nord.

«Quello sì mi emozionava e mi emoziona ancora. Al ricordo ho ancora come un fremito. Normalmente lo si grida ai centravanti, a quelli che fanno gol. Io ne ho fatti, anche importanti ma non ero un bomber. Eppure lo cantavano a me. Avevano capito che per me l'Inter non era e non è solo una maglia».

Dove abitava, arrivato a Milano?

«In viale dei Mille. Appena arrivato, affitto questo monolocale e chi trovo nel palazzo di fronte che fa il portinaio? Mio zio, Bruno Berti. Come in famiglia».

Parlando di famiglia, com'era il suo rapporto con Trapattoni?

«Il Trap? Lo adoro. Il nostro è stato un rapporto padre e figlio, certe storie poteva perdonarle solo a me».

Ah, ah, qui arriviamo al Berti by night e alle sue leggendarie feste.

«Erano gli anni '80, ci si divertiva alla grande. Lei non è mai stato su da me, in piazza Liberty?»

Purtroppo no, però so che erano feste leggendarie, si facevano cose e si vedeva gente, perfino delegazioni hollywoodiane, da Joe Pesci a Uma Thurman. A prop...

«Fermo lì, lo so cosa si racconta, ma la prevengo: Uma era solo un'amica. Veniva con me a San Siro a vedere l'Inter».

Anche Carla Bruni era un'amica?

«Ci hanno fotografati vicini a una sfilata. Comunque è passato tanto tempo e, in definitiva, sono fatti miei».

In un'intervista a Franco Vanni di Repubblica, ha raccontato che l'Inter la faceva pedinare, come successe anche a Vieri.

«Mi pedinano ancora. Scherzo. Avevo questa fama e allora c'era qualcuno che mi controllava. Ma io ho sempre risposto con i fatti: se in campo non mollo mai e do tutto, allora quello che faccio della mia vita non vi riguarda».

E al ristorante Hare Krishna con Serena come andò?

(ride) «Gliel'ha raccontato? Dopo gli ho detto: con te non esco più, se vuoi esci tu con me».

Dal Trap ad Arrigo Sacchi.

«Ero l'unico interista nella sua Nazionale e questo la dice lunga. Ai Mondiali Usa '94 ho giocato tutte le partite. Avevamo un rapporto favoloso: eravamo contrari in tutto, lui falso io vero, lui vero io falso».

Il 1994 è l'anno in cui l'Inter rischia la retrocessione. Nasce lo slogan "Mai stati in B grazie a Nicola Berti".

«L'ha coniato Gianpiero Marini, l'allenatore. A settembre mi rompo il legamento. Volo a farmi operare in Colorado e dopo quattro mesi già corro, dalla voglia che ho. Avevo mollato l'Inter prima e la ritrovo a lottare per la salvezza. Incredibile. Sono stato determinante, con le prestazioni e i gol. Abbiamo vinto pure la Coppa Uefa».

Interista nel midollo. Come l'avvocato Prisco.

«Di più, io i milanisti li prendevo a pallonate. C'era questa palestra, dentro San Siro dove, prima del derby ci allenavamo insieme. Io non resistevo e ogni tanto "pum", ne beccavo uno. Vivevo da tifoso tra i tifosi. Il derby era più sentito».

Del calcio non ha avuto nostalgia, dopo è andato a vivere ai Caraibi.

«Cinque anni. Volevo staccare la spina, completamente, e ci sono riuscito».

Ora che fa?

«L'ambasciatore per l'Inter. Vivo a Piacenza con mia moglie e i miei due figli. Salsomaggiore è troppo piccola. Milano è la mia città, ma la vita è fatta di momenti. A Piacenza ho trovato il mio equilibrio».

Senta, ma...

Click. Ha messo giù. Fine dell'intervista.

Maurizio Zamparini. Il figlio di Zamparini, Armando, morto a Londra: l’ipotesi di un’ischemia nel primo giorno di lavoro. Felice Cavallaro e Monica Colombo su Il Corriere della Sera il 2 ottobre 2021. Per Armando Zamparini si pensa a un malore improvviso: doveva iniziare quel giorno a lavorare per una multinazionale. La madre Laura Giordani: “Il mio angelo se n’è andato”. La nota dei legali: «Si è spento nel suo appartamento». «Il mio angelo Armando se n’è andato». Il messaggio, inviato nel cuore della notte, è di Laura Giordani, mamma del quinto figlio dell’ex presidente del Palermo, Maurizio Zamparini. Il cuore di Armando, 23 anni, si è fermato giovedì: a trovare il corpo senza vita del ragazzo nella sua camera dell’appartamento di Londra, dove viveva da qualche anno , è stata la domestica che ha subito dato l’allarme. Fino a poche ore prima aveva condotto la vita di sempre: doveva iniziare proprio quel giorno un lavoro con una importante multinazionale assieme al suo coinquilino con cui aveva condiviso anche il master a Londra. Una nuova avventura stroncata prima che potesse cominciare. Le cause del decesso non sono state comunicate, sono in corso indagini mediche: tra le ipotesi più accreditate viene avvalorato un malore improvviso che avrebbe causato l’arresto cardiocircolatorio. Non è chiaro se il ragazzo soffrisse o meno di patologie pregresse, aveva sofferto dieci anni fa di una bronchite asmatica, ma non è chiaro se ci sia un collegamento con il decesso. «Armando si è spento serenamente nel suo appartamento a Mayfair» si limitano a scrivere in una nota i legali della famiglia. La mamma del 23enne ha inviato un messaggio alle 2.40 del mattino al telefono di Sergio Abbate, lo stilista che aveva allacciato relazioni con il Palermo ai tempi in cui Zamparini era il proprietario del club. «Ho passato ore a cercare un contatto, ma probabilmente Maurizio e Laura erano in volo. Alle 13 finalmente ho scambiato poche parole: mi hanno detto solo che Armandino, come tutti lo chiamavamo, era stato trovato senza vita nella sua casa di Londra. Forse per un’ischemia». «Ho conosciuto Armando tre anni fa quando ero andato a trovare mia figlia in Inghilterra» ricorda Massimo Cellino, patròn del Brescia. «Ricordo un ragazzo esuberante, pieno di vita, ben inserito nella vita londinese». Nicola Salerno, direttore sportivo con una vasta esperienza fra serie A e Premier League, non nasconde la propria commozione. «Mio figlio Andrea ha compiuto con Armando tutto il percorso scolastico all’International School di Trieste. Sono devastato, erano come fratelli. Le nostre famiglie si sono sempre frequentate e io stesso ho lavorato per il Palermo per un certo periodo. Non so come si possa sopravvivere a un lutto del genere». Armando si era laureato in area management, frequentava un master nel Regno Unito e lavorava nelle aziende di famiglia tenendo i rapporti fra l’Italia con la Cina e la Gran Bretagna. Zamparini e la compagna, distrutti, sono partiti per Londra dove il console generale li tiene informati sugli sviluppi delle indagini. Si attende ora l’esito dell’autopsia e degli esami tossicologici per chiarire i contorni di una morte che al momento non ha una spiegazione. Piero Grasso, l’ex procuratore della Repubblica ed ex presidente del Senato, amico di Zamparini e frequentatore dei ritiri del club anche a Bad Kleinkircheim, la cittadina austriaca dove la squadra svolgeva il lavoro di preparazione estiva, è costernato. «I giocatori si allenavano sul campo principale e io in quello laterale tiravo quattro calci con i figli e i nipoti di Maurizio. Quel che è successo è un evento contro natura: i genitori non possono veder morire un figlio».

Morte del figlio di Zamparini, "quel messaggio il giorno prima...". Uno spaventoso mistero: cosa non torna. Libero Quotidiano il 02 ottobre 2021. "Una tragedia infinita". Maurizio Zamparini chiuso nel suo dolore racconta così la morte improvvisa del figlio Armando. Il ragazzo, 23enne, si trovava a Londra dove aveva concluso un Master. "Armandino è morto proprio il giorno prima che iniziasse a lavorare in una grande azienda, qui a Londra", spiega l'ex presidente del Palermo a Repubblica. "Gli avevo mandato un messaggio giovedì, il giorno prima: "In bocca al lupo!". Ma non ho mai ricevuto risposta. Perché Armandino l'altro ieri è morto", Armando, frutto del suo secondo matrimonio con Laura Giordani, è deceduto all'improvviso. A trovarlo ormai privo di vita nel suo appartamento nel quartiere di Mayfair, che condivideva con un amico, la governante. Una morte che rimane per tutti un mistero. Lo stesso Zamparini ammette che "non avevamo avuto alcun segnale e Armando era un ragazzo pulitissimo. Giovedì Thomas (il coinquilino) è uscito di casa presto, mentre mio figlio è rimasto in casa. Poi la governante alle due e mezza l'ha trovato inerme, immobile. Ha chiamato subito l'ambulanza, ma è stato tutto inutile. Armandino era già morto". Ignote ancora le cause del decesso anche se stando ai primi esami non è escluso un arresto cardiocircolatorio, o comunque un malore letale. False le notizie uscite sulle patologie pregresse di cui soffriva. Zamparini conferma solo una forte bronchite asmatica di cui ha sofferto in passato, "che gli ha dato vari problemi, ma nient'altro che io sappia". Da scartare per le autorità inglesi che hanno preso a carico il caso nessuna morte violenta. "Armando - dicono anche gli avvocati - si è spento serenamente". Per Zamparini si tratta di un'altra batosta dopo il processo sulla vendita della squadra siciliana che lui aveva acquistato e portato ai vertici della Serie A: "Ne ho passate tante nella vita, ora anche questa, non è giusto".

Maurizio Zamparini sulla morte del figlio: “Armando è morto il giorno prima di iniziare a lavorare”. Ilaria Minucci il 02/10/2021 su Notizie.it. Maurizio Zamparini, ex dirigente sportivo e proprietario del club di calcio Palermo, è intervenuto in merito alla drammatica morte del figlio Armando Zamparini, 23 anni, recentemente avvenuta a Londra. Nella mattinata di giovedì 30 settembre, il corpo senza vita di Armando Zamparini è stato rinvenuto in nel suo appartamento di Londra presso il quale il 23enne risiedeva dopo aver conseguito la laurea. Il giovane, quinto figlio dell’ex presidente del Palermo Maurizio Zamparini, è deceduto per un malore improvviso, presumibilmente per un’ischemia. La drammatica morte di Armando Zamparini è stata commentata dal padre Maurizio Zamparini, 80 anni, contattato telefonicamente dal quotidiano La Repubblica. In questa circostanza, il dinamico imprenditore veneto ha dichiarato: “Armandino è morto proprio il giorno prima che iniziasse a lavorare in una grande azienda, qui a Londra – ha raccontato l’ex presidente del Palermo –. Gli avevo mandato un messaggio giovedì, il giorno prima: ‘In bocca al lupo!’. Ma non ho mai ricevuto risposta. Perché Armandino l’atro ieri è morto. È una tragedia infinita”. Al telefono con Repubblica, Maurizio Zamparini è apparso estremamente scosso e distrutto dalla prematura e inspiegabile morte del figlio 23enne. Sulla vicenda, sono intervenuti anche i legali della famiglia Zamparini che, attraverso una nota, hanno annunciato: “Armando si è spento nel suo appartamento a Mayfair, serenamente – e hanno aggiunto –. Al concludersi di tutte le formalità amministrative, Armando sarà riportato in Italia dai suoi genitori e lì sepolto. La famiglia non rilascerà ulteriori dichiarazioni, ma esprime gratitudine per le condoglianze ricevute e chiede gentilmente che la propria privacy venga rispettata mentre piangono la scomparsa del loro unico figlio”. Armando Zamparini era il quinto e ultimo figlio di Maurizio Zamparini nonché l’unico figlio nato dal suo secondo matrimonio con Laura Giordani. Il ragazzo, che si trovava nel Regno Unito per motivi di studio, era particolarmente noto al Palermo. Negli anni in cui il padre è stato presidente del club calcistico, infatti, il piccolo Armando andava spesso a giocare con i calciatori della squadra alla fine dell’allenamento. Sul drammatico e improvviso decesso del 23enne, stanno indagando le forze dell’ordine britanniche che tenteranno di stabilire quali siano state le cause del decesso.

Walter Sabatini. Massimiliano Gallo per rivistaundici.com il 30 settembre 2021. Walter Sabatini non è un dirigente sportivo. È uno stato dell’anima. È uno di quei pugili che vanno incontro all’avversario con la guardia bassa. Quei tipi umani di cui non puoi non innamorarti, proprio perché a volte prendono di quei colpi che non lasciano scampo. Ma in un modo o nell’altro si rialzano sempre. Sabatini somiglia a quegli sciatori che un tempo partivano dal cancelletto senza cappello né occhiali, segno della croce e via: loro e la montagna. È quei tennisti che appena possono, vanno a rete, magari col saltino, come faceva McEnroe. Perché sì, Walter Sabatini è un uomo di un’altra epoca. Maledetto. Romantico. Eccessivo. Bugiardo, anche se lui negherebbe. Walter Sabatini è un uomo che è riuscito a oltrepassare la cronaca ed è entrato nella mitologia. E una volta lì, la dimensione non è più quella dei risultati e dei bilanci. Non sono più i trofei a misurarne la carriera. È lo Zeman dei dirigenti. Ne sei consapevole perché lo seguiresti anche se finisse in Serie C. Sai che ti giocheresti tutto su quel ragazzino di 17 anni che lui ha scovato chissà dove. Ti basta sentirlo parlare, con quella voce impastata da cui è raro, maledettamente raro, che venga fuori una banalità, una frase fatta. Magari dilata i silenzi ma non sarà mai tipo da due parole tanto per dirle. Non è tipo da “attimino”, per capirci. Walter Sabatini è quanto di più vicino alla complessità. È l’esatto contrario dei dirigenti automi che rilasciano dichiarazioni infarcite di niente che precedono, accompagnano e seguono le nostre partite. Walter Sabatini è il colonnello Kurtz del calcio italiano. Lo ha attraversato dagli anni Settanta. Ed è in quell’Italia lontana che si è formato. Un uomo di un’altra epoca, appunto. Quando faceva il calciatore. E giocava nel Perugia. Lì ha incrociato Paolo Sollier, un personaggio oggi impossibile da spiegare. Salutava il pubblico col pugno chiuso. Era di estrema sinistra in un Paese che stava conoscendo il terrorismo. A Sabatini fece scoprire Cent’anni di solitudine. Perché Sabatini è uno che legge per davvero. Non come quei finti profeti dal successo effimero che ogni tanto salgono alla ribalta e millantano letture che non hanno mai nemmeno sfiorato. Sabatini è un rabdomante della vita. In tutti i suoi aspetti. Non solo la gloria, soprattutto i dolori. I graffi. L’esistenzialismo. Walter Sabatini è quell’uomo che conserva una sola fotografia. Scattata in aereo. Ai tempi del Perugia. Lui e Renato Curi che un giorno si accasciò in campo e non si rialzò più. «La conservo perché sembra che quella luce bianca lo inghiotta, e infatti così accadde», racconta con la voce sull’orlo delle lacrime. È il Franco Califano del calcio. I guai se li è sempre andati a cercare. Ha lavorato con Lotito, con Zamparini. Ed è sempre andato via lui. Non vi tediamo con l’elenco dei calciatori che ha scovato. Però per Ilicic un’eccezione possiamo farla. Sabatini ha sempre scelto trascinato dalle emozioni. Un database zeppo di statistiche non gli farebbe mai battere il cuore. «Non sono contro la scienza, la modernità», disse con fare pasoliniano «ammiro la logica, ma se a dettare le scelte del mio lavoro è un programma, un software che tratta gli uomini come numeri e come pezzi di ricambio, io non ci sto. Se devo comprare qualcuno e sbilanciarmi, devono poter contare anche il mio occhio e la mia riflessione. Uno sciamano sa, per altre vie». E qui, un tempo, avrebbe aspirato lungamente la sua sigaretta. Nel 2011 è finito a Roma dove ha lanciato la più impossibile delle sfide: stabilire un rapporto diretto con la piazza. Senza mai nascondersi. Ha pagato tutto, anche l’aver provato ad aprire gli occhi ai tifosi: «Non affezionatevi troppo ai giocatori». Gli hanno rinfacciato Iturbe, Lamela, Stekelenburg, persino Luis Enrique cacciato a furor di popolo con le stigmate dell’incapace. Ha avuto il torto di immaginare Roma come una capitale europea. Roma è caput mundi ma a modo suo, come piace a lei. Decisamente più Marchese del grillo che Mitteleuropa. Nel 2016, a ottobre, ha lasciato una squadra che sarebbe arrivata seconda con 87 punti in classifica. Con una rosa che a rileggerla mette i brividi: Alisson faceva il secondo di Szczesny; come difensori centrali c’erano Rüdiger, Vermaelen, Manolas; in attacco, un certo Salah accanto a un signore di nome Dzeko. Gli altri neanche li citiamo, non stiamo ad annoiarvi con Paredes, Nainggolan oltre a Totti e De Rossi. L’ossatura della Roma che l’anno dopo ha eliminato il Barcellona in Champions League. Quella squadra l’ha costruita Sabatini. Su Youtube è facile trovare un suo confronto con i giornalisti della Capitale che lo processano per la carenza di terzini. E lui, senza indietreggiare, difende Digne e un certo Émerson Palmieri («di cui sentirete parlare»). È il guaio di chi capisce le situazioni con troppo anticipo. Il limite di persone come lui è che sono convinte che tutti possano comprendere le stesse cose, che in fondo è semplice. Non sanno che invece gli altri non ci arrivano e per questo si arrabbiano, si incattiviscono. Credono che tu li stia prendendo per i fondelli. Mentre l’unico peccato che stai commettendo è quello d’ingenuità. Poi Sabatini ci marcia pure. È umano. Parliamo di una persona che ha dichiarato: «Ho sempre quest’ansia di andarmene. E non posso avere amici. Non sopporto le conseguenze dell’amicizia». Oppure, nel calcio bacchettone: «A me il sesso ha salvato la vita. Ho sempre fatto sesso disperato, quello che uno fa per attutire un dolore». Parole che nemmeno Rimbaud. Perché Sabatini gigioneggia, sa di dover nutrire un personaggio: «Ho il cervello di sinistra e il corpo di destra, sempre in conflitto». Ricorda l’amichevole di Fregene con Omar Sivori in campo: «La sua non era tecnica, era magia. Lo vedevo con le mani sui fianchi, pronto a insultare chi non gli avesse consegnato subito la palla. Un genio. Ecco, questo è il mio calcio». E chi gli vuoi dire a uno così? Come fai a non perdonargli di aver visto Sivori in Lamela, un po’ come l’alba dentro l’imbrunire. Uno che nel 2016 ha messo nero su bianco che i calciatori «non sono di destra, sono qualunquisti. Il calcio attrae vanità, perché intorno al calcio ci sono nani e ballerine. Diventa una patologia, ti fa pensare che sia importante solo un calcio d’angolo». E ha aggiunto, inascoltato: «Oggi il calcio è malato di altre cose, le scommesse prima di tutte». Poi è pure furbo, a Roma si direbbe in altro modo, quando chiede scusa a Totti per essersi battuto in favore del suo ritiro: «Non volevo assistere al suo declino in campo, ma non capivo che invece lui si divertiva. Gli chiedo scusa», con Francesco dall’altra parte dello schermo, e all’indomani del documentario che, direbbe Spalletti, «è stato più su di me che su di lui». Ma a Sabatini perdoni tutto. Dopo Roma, non ha più trovato un posto suo. Ha girovagato: Inter. Sampdoria, Bologna, saltando da Suning a Ferrero a Saputo. Niente. L’alchimia non si è più creata. La lampadina si è accesa a tratti. Come accade a tutti i grandi sul viale del tramonto, è alla ricerca dell’ultimo colpo. Dell’uscita di scena memorabile. Alla Casablanca. Che però nella vita reale resta quasi sempre una chimera. Se solo i Sabatini sapessero che la cronaca, nella mitologia, non ha alcuna importanza.

Mario Balotelli. Da blitzquotidiano.it il 23 settembre 2021. Raffaella Fico è scoppiata in lacrime mentre era inquadrata dalle telecamere del Grande Fratello Vip. Infatti la showgirl è tra i concorrenti dell’edizione in corso. La Fico si è commossa mentre svelava agli altri concorrenti del reality show un fatto molto doloroso del passato. Infatti, mentre era incinta di Pia, Balotelli la cacciò di casa. E chiamò addirittura la polizia per farla allontanare. In seguito Balotelli si è pentito di questa sua azione. Ha riconosciuto la figlia ed ora è in rapporti sereni con la Fico. “La storia d’amore con Mario è stata totalizzante. In generale, non sono mai stata innamorata allo stesso modo. Mario è un ragazzo molto profondo che nel corso della sua vita ha avuto delle problematiche. Spesso è apparso per quello che non è. Comunque io ero piccola, avevo 21 anni quando l’ho conosciuto, non è stato subito un colpo di fulmine, Mario mi ha tanto corteggiata, al primo appuntamento mi ha regalato delle rose rosse. “La gravidanza non è stata un incidente. Non è stata frutto del caso. Cercavamo un figlio”.

Raffaella Fico: “Ero incinta, Mario Balotelli mi cacciò di casa e chiamò la polizia”. “La nostra è stata una relazione troppo affollata, molte persone ci hanno messo il becco. Andai nella casa di Londra di Mario. Lui era in casa. Io citofonai ma non mi aprì e chiamò la polizia. Ero distrutta. Oggi l’ho perdonato, ci sono voluti un po’ di anni, mi ha chiesto scusa. Adesso siamo sereni, in rapporti sereni. Anche lui ama da morire Pia”.

Da trevisotoday.it il 13 agosto 2021. Mentre il Gip di Brescia ha archiviato nelle scorse ore le accuse di violenza sessuale nei confronti del calciatore Mario Balotelli, denunciato da una ragazza vicentina per una presunta violenza accaduta a Nizza, è iniziato a Vicenza il processo nei confronti di Roberto Imparato, avvocato 63enne di Asolo, accusato dallo stesso "Balo" di tentata estorsione. La vicenda, che risale al 2017, vede "super Mario" al centro del presunto scandalo sessuale per cui ha ottenuto il proscioglimento. Il giocatore era stato denunciato da una giovane minorenne con la quale avrebbe avuto un flirt. Balotelli avrebbe chiesto rassicurazioni sull'età della ragazza e lei gli avrebbe mandato il documento di una sua cugina maggiorenne. Alla fine sarebbe scattato il tentativo di estorsione: la giovane avrebbe chiesto 100 mila euro al calciatore mentre l'avvocato di lei, Roberto Imparato appunto, avrebbe contattato il settimanale "Chi" tentando di vendere tutta la storia ma ottenendo il rifiuto da parte del direttore del periodico. Il procedimento nei confronti del legale trevigiano ha superato il vaglio dell'udienza preliminare. Ora il 63enne si trova davanti al giudice del tribunale di Vicenza per affrontare il processo. La prossima udienza è attesa per ottobre.

(ANSA il 12 agosto 2021) Dalle parole del gip di Brescia che ha archiviato le accuse di violenza sessuale per il calciatore, ex Inter, Milan, Nizza e Monza, Mario Balotelli, emerge una "macchinazione" ordita ai suoi danni da una ragazza e dal suo legale a proposito dei presunti abusi denunciati dalla giovane, che sarebbero accaduti proprio a Nizza nell'agosto 2017. Una macchinazione, ora all'esame della Procura di Vicenza, testimoniata da una serie di telefonate che la ragazza, tempo dopo, aveva fatto al calciatore il quale le aveva registrate e che il giudice bresciano descrive nel provvedimento con cui lo scagiona. In un primo tempo, la giovane, all'epoca minorenne (ma al calciatore aveva detto di avere 18 anni, mostrandogli un documento), non aveva fatto cenno alla violenza ma si era lamentata del fatto che Balotelli, dopo alcune serate a Nizza, l'avesse trascurata ("sono una stupida nell'aver creduto in te"). Ci sono poi agli atti dell'inchiesta, che aveva già portato la Procura di Brescia a chiedere l'archiviazione (ma la parte offesa si era opposta), le testimonianze degli ex colleghi di Balotelli al Nizza, Desmond Kouass e Prince Boateng, che ricordano la ragazza con un'amica alla discoteca High di Nizza, dove la squadra stava festeggiando il pareggio con l'Aiax e, come, al ritorno nell'albergo in cui alloggiavano i calciatori, avessero notato un atteggiamento "allegro e divertito" da parte di Balotelli e della giovane. Il suo avvocato aveva insistito con i legali di Balotelli per avere 100mila euro - ha raccontato Super Mario agli inquirenti - altrimenti la notizia finiva sui giornali. Gli aveva inviato anche una raccomandata per parlare di "una questione delicata e personale". Secondo le indagini, l'avvocato aveva cercato di risolvere la questione "senza clamore, mediante il pagamento della somma di 100mila euro, quale minor somma rispetto all'iniziale pretesa di 500mila euro avanzata dalla persona offesa, minacciando altrimenti di sporgere denuncia contro di lui". Ora la parola fine: il calciatore non è responsabile di violenza sessuale, anzi è vittima di una tentata estorsione. "Balotelli è molto soddisfatto soprattutto dal punto di vista morale, la riteneva un'accusa infamante ed inaccettabile. Spiace per la giovane ragazza che si è dimostrata uno strumento nelle mani di adulti senza scrupoli", commentano i legali del calciatore, Francesca Coppi e Alessandro Moscatelli.

Francesco Fredella per liberoquotidiano.it il 22 luglio 2021. E scoppia un nuovo caso. Al centro di nuovo il gossip che inonda Mario Balotelli e la sua ex fidanzata Clelia, 30enne, di origini svizzere. I due hanno un figlio che si chiama Lion (si tratta del secondogenito del calciatore bresciano dopo la bambina nata dalla storia con Raffaella Fico). Super Mario è su tutte le furie: lo si nota da Instagram dove pubblica una storia dai toni accesi. E sembrerebbe rivolta alla sua ex. Ma il condizionale è d'obbligo, visto che non fa nomi e cognomi. “La legge dovrebbe impedire alle donne interessate ai soldi di avere bambini contro il volere degli uomini solo per avere denaro, questo è diabolico, triste e immorale", scrive Balo.“La famiglia nasce dall’amore e non dalla convenienza. Se tu sei single, ti diverti e non puoi provvedere a te stesso, non usare terze persone come un bancomat, trova un lavoro prima di avere figli. Anche se la legge a volte non è giusta, Dio lo è… E la punizione alla fine sarà eterna”. Ma sempre tramite i social l'ex di Balotelli torna a pungere. E scrive: “Sono una sua vittima fisicamente e mentalmente… Non si ferma mai. Non ha rispetto delle madri. L’unica cosa che fa, è mentire”. Si tratta di un duro sfogo rivolto al calciatore? La loro storia è iniziata nel 2017, i due si sono conosciuti a Nizza. Dalla loro love story è nato Lion. Ma tutto sembra essere finito nel peggiore dei modi. Per adesso non ci sono notizie ufficiali, ma solo colpi di Instagram sorrise, che fanno parlare i giornali.

Nicolò  Zaniolo. Alberto Dandolo per Oggi – oggi.it 30.12.2020. La relazione del calciatore della Roma con la modella romena è confermata sui social. Ma la sua storica ex – come è in grado di rivelare Oggi – è in dolce attesa. Come andrà a finire? Ah saperlo…Nicolò  Zaniolo e Madalina Ghenea: l’amore è scoppiato, la relazione è stata confermata ma c’è di più. Molto di più: come rivela in esclusiva Oggi, Sara Scaperrotta, l’ex fidanzata storica del baby talento della Roma, sarebbe incinta!

NON L’HA LASCIATA PER MADALINA - È scoppiato l’amore tra il calciatore della Roma Nicolò Zaniolo e la modella rumena Madalina Ghenea, relazione confermata poche ore fa sui social. Lo conferma lo stesso calciatore alla Gazzetta dello Sport sostenendo che non abbia lasciato la fidanzata a causa di questa sua nuova frequentazione.

INCINTA DI ZANIOLO - Ma a notizia si aggiunge notizia: fonti attendibili sostengono che Sara Scaperrotta ex fidanzata storica di Zaniolo sia incinta di lui. Come andrà a finire? Ah saperlo…

Da La Gazzetta dello Sport il 30 dicembre 2020. Questo il sunto del post su Instagram di Zaniolo. «La mia nuova frequentazione non fa parte del mio passato. Sono felice con Madalina e mi assumo tutte le responsabilità per il mio futuro».

Massimo Cecchini per la Gazzetta dello Sport il 30 dicembre 2020. Nicolò Zaniolo ha giocato la sua ultima partita il 7 settembre in una notte di Amsterdam lieta (l' Italia ha vinto) e traditrice (per il crac al ginocchio sinistro). Se tutto andrà nel migliore dei modi, tornerà in campo ad aprile, più o meno ad otto mesi dall' infortunio. L' ultimo, perché il 13 gennaio il giocatore della Roma si era infortunato all' altro ginocchio, costringendolo a un 2020 in cui complessivamente ha disputato 9 partite in maglia giallorossa e 2 con quella azzurra. Briciole per quello che è considerato il più grande talento del calcio italiano. E se qualcuno avesse delle perplessità, diamo una notizia: la Panini lo ha scelto come rappresentante del nostro campionato sul mercato degli Stati Uniti. Tutto questo, ripetiamo, per un calciatore che non sta giocando e non lo farà (purtroppo) ancora per un po'. Segno che le aspettative sono altissime, cosa di cui Nicolò - nella intervista pubblicata ieri dalla Gazzetta - è ben conscio. Per questo il ritorno in campo è argomento delicato. «Ho una carriera davanti - ha detto Zaniolo - e non bisogna forzare. È in ballo la carriera e il futuro». Proprio vero. Il professor Fink, che lo ha operato a Innsbruck, ha stabilito un percorso che lo vedrà tornare a correre sul campo già a metà gennaio, cioè al massimo fra un paio di settimane. Il ginocchio verrà monitorato costantemente e poi «quando la gamba destra e la sinistra avranno la stessa forza, rientrerò. Più o meno ad aprile. In tempo per l'Europeo». In ogni caso, Fonseca lo aspetta a braccia aperte, pur non iscrivendosi al partito della fretta. «Sta recuperando bene, ma ha dei tempi che dobbiamo in ogni caso rispettare», ha detto. Per certi versi il c.t. Mancini ha urgenze diverse rispetto al portoghese, ma proprio per il fatto di essere stato il primo a «scandalizzare» il mondo del calcio, convocandolo in Nazionale prima che esordisse in A, adesso lo segue con particolare affetto. «Mi piacerebbe averlo già alle partite di marzo - dice - ma all' Europeo ci sarà. Il suo è un recupero più complesso, però è giovane e ha ottime possibilità di farcela. Tra l' altro, credo che possa diventare un giocatore straordinario. È forte fisicamente e tecnicamente, e può giocare in due-tre ruoli. Se continuerà ad allenarsi seriamente, penso possa togliersi delle grandi soddisfazioni». Con queste premesse, nessuna sorpresa che Zaniolo desideri un riconoscimento della sua «eccezionalità». La Roma avrà il nuovo general manager, Tiago Pinto, ufficialmente in azione già dalla prossima settimana, ma da tempo la dirigenza ha fatto presente che, in tempi medi, vorrebbe procedere a un adeguamento del suo ingaggio per portarlo a 3 milioni (ora, premi compresi, lo stipendio è di circa 2,2 milioni). Cifre ben lontane da quelle che Nicolò potrebbe andare a guadagnare soprattutto all' estero, ma sul tema il giocatore è stato chiaro: «A Roma sto benissimo, sono in una grande squadra, sono amato dai tifosi, la società mi sostiene e non penso a cambiare aria. Non ci sarebbe motivo». Quanto basta per indirizzare il fantamercato altrove. La «eccezionalità» di Zaniolo, infine, è stata sancita anche dalla rilevanza data alle sue questioni amorose. Prima la rottura con la ormai ex Sara Scaperrotta, poi l' ammissione del legame con Madalina Ghenea, che hanno fatto alzare il sopracciglio di coloro che vedono i calciatori o come asceti (l' obiettivo) o come deficienti circondati da squali menefreghisti. In realtà Nicolò, oltre a poter contare sulla famiglia, ha intorno uno staff solido, coordinato dall' agente Claudio Vigorelli. E se gli sponsor sono sempre sulle sue tracce (senza giocare...) e il rapporto con la «Doom Entertainment» di Fedez è andato in vetrina, è segno che fuori dal campo tutti lavorano bene. Certo, uscite fuori di tempo e qualche scivolata non sono mancate, ma alzi la mano chi non stigmatizzerebbe l' utilizzo social di un proprio congiunto. Per questo, ieri, Zaniolo in prima persona è sceso in campo per difendersi. «Volevo chiarire una cosa. Io non ho lasciato nessuna per nessuna. La mia nuova frequentazione non fa parte del mio passato. Sono felice con Madalina e mi assumo tutte le responsabilità per il mio futuro, sono un ragazzo con la testa sulle spalle. In questo momento penso solo alla mia Roma e non vedo l' ora di tornare a giocare». E se il calcio per Nicolò è gioia, in fondo, è l' unica cosa che conta davvero.

Nicolò Zaniolo, l'ex Sara Scaperrotta incinta si sfoga: "Cosa mi ha fatto dopo avermi lasciata". Imbarazzante. Libero Quotidiano il 19 luglio 2021. Si torna a parlare dei guai di cuore di Nicolò Zaniolo, il 21enne centrocampista della Roma dalla vita sentimentale turbolenta. Ad attaccarlo è Sara Scaperrotta, la sua ex fidanzata piantata in asso dopo aver annunciato la gravidanza alla fine del 2020. All'epoca si era parlato di un addio tumultuoso, con tanto di possibile flirt con Madalina Ghenea. Oggi la Scaperrotta, sui social, conferma in parte quella versione dei fatti.  "È quasi arrivato il momento - scrive su Instagram, amareggiata -. Sono giunta al termine del mio percorso di gravidanza, consapevole che questo sarà il principio del viaggio più bello, emozionante, serio e impegnativo della mia vita. Non ho mai parlato della mia vita privata, perché come tale ho sempre cercato di proteggere me e il mio bambino. Con questa consapevolezza, dopo mesi di silenzio, ho scelto di chiarire alcune cose, poiché è mio forte desiderio far nascere mio figlio nel clima più sereno possibile, senza lasciare nulla in sospeso". "Tommaso è frutto dell'amore di due persone: è stato voluto, cercato, desiderato e la scoperta del suo arrivo è stata celebrata in un clima di gioia condivisa. Poi qualcosa è cambiato, e mi sono trovata di colpo a percorrere questo cammino verso la genitorialità da sola, senza supporto di alcuna natura". "La paura che all'inizio ho provato per via dell'assenza di una figura paterna per il bambino e di un complice con cui intraprendere questo percorso, presto si è trasformata in un forte dispiacere, anche per le modalità che mi sono state riservate. Non per la bufera mediatica in cui mi sono ritrovata o per le notizie della sua vita privata che puntualmente mi arrivavano mezzo stampa, ma perché Nicolò si stava perdendo tutte le emozioni, le scoperte, quel misto di gioia e di spavento che caratterizzano tutto il periodo della gravidanza. Per questi motivi ho tentato a più riprese di coinvolgerlo senza avere successo, ogni mio tentativo di contatto è stato vano, bloccando persino i canali social e WhatsApp, e mi sono trovata davanti un forte muro comunicativo ed emotivo". "Non è mai stata mia intenzione spettacolarizzare questo momento speciale, delicato e intimo, né farne motivo di lamentela. Il mio unico obiettivo, oggi e sempre, è il benessere di Tommaso, tutelare il suo percorso di crescita e di sviluppo, e fare in modo che abbia sempre una rete di supporto serena e fidata, che un domani potrà chiamare famiglia. Spero davvero che i muri vengano abbattuti e che Nicolò trovi finalmente il coraggio di emanciparsi e far valere i suoi sentimenti - conclude la Scaperrotta -, aprendo il suo cuore di padre per godere di tutta la bellezza che deriva dall'essere genitore".

Lo sfogo sui social: "Mi ha bloccato ovunque". Chi è Sara Scaperrotta, la ex di Nicolò Zaniolo “abbandonata durante la gravidanza”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 19 Luglio 2021. “Nicolò trovi finalmente il coraggio di emanciparsi e di far valere i suoi sentimenti, aprendo il suo cuore di padre per godere di tutta la bellezza che deriva dall’essere genitore”. E’ l’appello che rivolge Sara Scaperrotta, 23 anni, all’ex fidanzato Nicolò Zaniolo, 22enne attaccante della Roma. Attraverso i social la studentessa originaria di Roma, iscritta alla facoltà di Scienze della Moda e del Costume e con un seguito su Instagram di circa 120mila followers, ripercorre gli ultimi mesi di gravidanza segnati dalla rottura con il giovane calciatore. “Ho trovato un muro”, ha scritto Sara che dovrebbe partorire il 4 agosto un maschietto che chiamerà Tommaso. “E’ quasi arrivato il momento. Sono giunta al termine del mio percorso di gravidanza, consapevole che questo sarà solo il principio di quello che sarà il viaggio più bello, emozionante, serio ed impegnativo della mia vita. Non ho mai parlato della mia vita privala, perché come tale ho sempre cercato di proteggere me e il mio bambino. Con questa consapevolezza dopo mesi dì silenzio, ho scelto di chiarire alcune cose, poiché è mio forte desiderio far nascere mio figlio nel clima più sereno possibile, senza lasciare nulla in sospeso. Tommaso e frutto dell’amore di due persone”. Il piccolo che sta per nascere “è stato voluto, cercato, desiderato e la scoperta del suo arrivo è stata celebrata in un clima di gioia condivisa. Poi qualcosa è cambiato e mi sono trovata di colpo a percorrere questo cammino verso la genitorialità da sola, senza supporto di alcuna natura. La paura che all’inizio ho provato per via dell’assenza di una figura paterna per il bambino e di un complice con il quale intraprendere questo percorso, presto si è trasformata in un forte dispiacere, anche per le modalità che mi sono state riservate. Non per la bufera mediatica nella quale mi sono ritrovata o per le notizie della sua vita privata che puntualmente mi arrivavano mezzo stampa, ma perché Nicolò si stava perdendo tutte le emozioni, le scoperte, quel misto di gioia e di spavento, che caratterizzano tutto il periodo della gravidanza”. Per questi motivi “ho tentato a più riprese di coinvolgerlo senza avere successo, ogni mio tentativo di contatto è stato vano, bloccando persino i canali social e whatsapp, ed io mi sono trovata dinnanzi un forte muro comunicativo ed emotivo. Non è mai stata mia intenzione spettacolarizzare questo momento speciale, delicato ed intimo, ne farne motivo di lamentela. Il mio unico obiettivo, oggi e sempre, è il benessere di Tommaso, tutelare il suo percorso di crescita e di sviluppo, e fare in modo che abbia sempre una rete di supporto serena e fidata che un domani potrà chiamare famiglia. Spero davvero che i muri vengano abbattuti e che Nicolò trovi finalmente il coraggio di emanciparsi e di far valere i suoi sentimenti, aprendo il suo cuore di padre per godere di tutta la bellezza che deriva dall’essere genitore”. In passato Zaniolo ha assicurato: “Mi prenderò tutte le responsabilità che devo. La relazione con Sara, la mia ex ragazza, è finita, ma il bambino non c’entra. Cercherò di essere un bravo papà”.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Da leggo.it il 23 luglio 2021. Nicolò Zaniolo è diventato papà. È nato oggi il piccolo Tommaso, il figlio arrivato dalla relazione con la sua ex fidanzata Sara Scaperrotta. Il giocatore era assente all'allenamento mattutino per un permesso concordato con la Roma per motivi familiari. Nel pomeriggio Zaniolo rientrerà a Trigoria per l'allenamento pomeridiano. Pochi giorni fa Sara Scaperrotta aveva pubblicato un lungo post sui social proprio rivolto al talento giallorosso, chiamandolo alle sue responsabilità. Il bimbo è nato all'ospedale San Pietro Fatebenefratelli alla presenza di Nicolò.

Gabriele Parpiglia per giornalettismo.com il 31 dicembre 2020. Una volta quando ho lavorato per un quotidiano sportivo, c’era il timore nel dare le notizie. Dell’Inter non puoi parlare perché appartiene a questi tuoi colleghi, poi gli sponsor, sai, gli uffici stampa, sai. Della Juventus? Idem. Del Milan? Idem. E via così. È lì che ho capito che sarebbe stato difficile farmi strada nel mondo del calcio, da un punto di vista calcistico “se avessi voluto dare notizie”. Poi sono arrivati i social e i calciatori hanno iniziato fregarsene dei muri, forse giusti, perché l’utilizzo dei social network da parte dei bomberoni spesso poi è stato oggetto di un qualcosa che ha scatenato polemica, che ha messo fuori squadra il calciatore stesso. E se sbroccava la Wags di turno? Apriti cielo. Veniamo al caso Nicolò Zaniolo. Io due settimane fa vengo a conoscenza del caso perché una persona mi contatta per offrirmi due fotografie di Zaniolo con Madalina Ghenea. Mi vengono chieste 100mila euro. La mia risposta è semplice: «Ma vai a cagare». Il tipo per convincermi mi manda le due foto con i volti pixellati della coppia. Noi rifiutiamo, ma mostriamo le foto a chi conosce bene Zaniolo: «Sì, è lui con lei». E ci spiegano anche dove sono state fatte le foto, ma ci dicono anche che la situazione è drammatica perché Zaniolo ha iniziato una relazione con la Ghenea mentre la sua Sara Scaperotta è in dolce attesa. Non scriviamo la notizia. Sarebbe violazione dei dati sensibili e inoltre sentiamo la ragazza e capiamo quanto sia provata. La bomba la spara Alberto Dandolo, mercoledì 30 dicembre su Oggi, e Zaniolo conferma ammettendo che si prenderà le sue “responsabilità”. Ma in serata scopriamo una storia macabra che non è finita con il semplice addio della coppia, anzi dietro c’è un qualcosa che sicuramente troverà spazio nelle aule dei tribunali. Andiamo con ordine. Nella sera del 30 dicembre parliamo a lungo con la zia della ragazza, perché Sara, in dolce attesa, è molto provata da tutta la situazione. La zia ci spiega nel dettaglio tutta la situazione, una brutta pagina di vita per Zaniolo. Ecco la storia. «Sara, è la seconda volta che aspetta un figlio da Zaniolo. La prima risale a sette mesi fa. Poi la coppia ha scelto di interrompere la gravidanza. Non erano pronti. Ma quel gesto li ha uniti ancora di più. Chi ha insistito in questi mesi per riavere un figlio è stato lo stesso Zaniolo. Mia nipote custodisce tutti i messaggi, tutte le prove. Lo voleva a tutti i costi. Ripeteva: “Abbiamo fatto una cazzata, abbiamo fatto una cazzata”. I due seppur giovani, erano innamorati, sia ben chiaro. La coppia scopre di essere in dolce attesa, nuovamente, con un test casalingo il primo di dicembre. Zaniolo, al settimo cielo, pubblica un post con una foto di lui e Sara che si baciano e scrive: “Se so che cos’è l’amore è grazie a te”». Alt. Noi andiamo a guardare la pagina di Zaniolo mentre la zia ci racconta la storia, ma il post è sparito e lo spieghiamo alla signora. «Ha cancellato ogni foto, ma basta fare un giro sul web e si trova il Corriere dello sport lo aveva ripreso (ha ragione, recuperiamo il post, ndr). Non solo ha cancellato le foto con mia nipote, ma quando Sara gli propone di dirlo subito alla sua famiglia, esplode il caos. Nicolo, vuole aspettare. Prende tempo e dice a mia nipote che lo avrebbero fatto a Natale, a La Spezia, quando i due sarebbero andati a Natale per le vacanze nel paese natale del ragazzo. Mia nipote, non mi chieda per quale motivo, difficilmente è stata accettata dalla famiglia. Sara non vuole andare a La Spezia, noi siamo una brava famiglia, onestamente sentire che lei ha paura del giudizio, incute timore in tutti. Sara, in dolce attesa, per la seconda volta, psicologicamente sconvolta, giovane, anche provata,  non avrebbe retto nel sentirsi “non accettata”. Chiede a Nicolò di dirlo ai genitori subito. E… come non detto. Appena lo scoprono, corrono a Roma ed è il caos. Mia nipote viene cacciata di casa in 24 ore. E loro abbandonano la casa dove vivevano i ragazzi (la casa di Totti, Zaniolo pagava l’affitto, ndr)». «Tutto questo succedeva il 6 dicembre, il giorno dopo il post sull’amore. Il 9, tre giorni dopo, Madalina Ghenea entra nella vita di Zaniolo che nel mentre aspetta un figlio da mia nipote, poi… dice di prendersi le sue responsabilità; poi parla pubblicamente e intanto ha bloccato mia nipote sul cellulare, ha trovato un’altra casa e noi non sappiamo nulla. Uno degli ultimi messaggi mandati a Sara è “Questa è responsabilità tua”. Per lui dietro la parola responsabilità che significa? Che provvederà a dare due soldi? Ma se mia nipote aspettasse un figlio da un panettiere, soffrirebbe in ugual modo. Mia nipote è cresciuta a pane e amore. Mia nipote, sia ben chiaro, è stata sempre mantenuta dalla nostra famiglia. E guai a dire che lei stava con lui perché calciatore, se dobbiamo essere materialisti, abbiamo fatto più regali noi a lui che lui a Sara. Basta con le bugie. Un giorno suo figlio – perché è suo figlio – leggerà tutto questo. Leggerà che suo padre ha staccato il telefono, ha cambiato casa in fretta e furia per non farsi trovare e così via. Ma quale persona con la testa sulle spalle? Siamo stanchi. Era meglio il silenzio, era meglio che si eclissasse. Qui c’è follia pura. Mia nipote è giovane con due gravidanze, psicologicamente è devastata. Poi mi chiedo: ma la sua famiglia che fine ha fatto? Nessuno ha chiamato. Ha presente il silenzio? Ecco: il silenzio totale. A lui hanno fatto cambiare casa in 15 minuti per non farsi più trovare. Temevano gli agguati? Ma per favore. Loro hanno messo Sara fuori casa, poi il giorno dopo, per far perdere le tracce, lo hanno mandato in un’altra dimora. Ora mia nipote non sa nemmeno dove vive il padre di suo figlio. Ma lei si rende conto? Tutti i telefoni bloccati ma c’è una creatura di mezzo. Ma come si può. Mia nipote è di undici settimane. Dovrebbe stare a riposo, serena e tranquilla. Era meglio che si eclissasse senza parlare, perché se parli di responsabilità e poi svanisci allora non hai capito proprio nulla. Nelle sue parole poteva dire: “La storia non va, ma farò il padre”. Invece con quelle sue parole ha mancato di rispetto a tutti noi. Alla sua ex compagna e a suo figlio. Definisco questa situazione: disumana».

Chiara Zucchelli e Andrea Pugliese per gazzetta.it il 31 dicembre 2020. Nicolò Zaniolo ancora sotto i riflettori per la sua vita privata. Il settimanale “Oggi” questo pomeriggio ha riportato l’indiscrezione secondo cui l’ex fidanzata del giocatore della Roma, Sara Scaperrotta, aspetterebbe un bambino. Il tutto mentre Zaniolo, da poco, avrebbe intrapreso una nuova storia con la modella e attrice Madalina Ghenea. La notizia di “Oggi” è confermata dallo stesso Zaniolo che, alla Gazzetta, affida il suo sfogo in un momento tanto complicato. A 21 anni, e dopo due operazioni alle ginocchia in un anno, vorrebbe pensare soltanto al campo, ma si trova costretto “a fare chiarezza. Vorrei tenere la mia vita privata lontano dai riflettori, come ho già detto ieri sono concentrato solo sul mio ritorno. Ma mi rendo conto che viste le indiscrezioni uscite oggi è arrivato il momento di raccontare anche la mia versione. Sperando di chiudere qui il discorso, una volta per tutte”. Zaniolo racconta, con parole anche delicate, come a 20 anni si possa passare da un grande amore ad un addio: “Per prima cosa non vorrei che si sporcasse una relazione che per me è stata importante, soprattutto in un momento delicato della mia vita e della mia carriera. Ma la storia con Sara è finita ormai da qualche tempo. Come forse è normale alla nostra età, vivendo insieme ci siamo accorti che non andavamo più d’accordo, io stesso ho notato che c’erano delle piccole grandi cose che non andavano bene e non erano conciliabili con la mia vita da professionista. Abbiamo sognato insieme una famiglia qualche volta, non lo nego, ma poi le cose sono andate diversamente e quando lei mi ha comunicato la sua gravidanza sono stato molto onesto nel farle presente che non mi sentivo pronto per un impegno del genere, soprattutto perché non andavamo più d’accordo, ma lei ha deciso di proseguire. Una scelta che rispetto”. E per questo, conferma Zaniolo, “pur non essendo più il suo compagno, mi assumerò da padre ogni responsabilità. Con questo spero che terminino tutte le voci sulla mia vita privata e si torni a parlare di me soltanto come calciatore. Per la serenità - conclude Nicolò - di tutti quanti”.  Zaniolo ha poi postato sul proprio profilo Instagram delle stories riguardanti l'articolo uscito sui nostri canali. Il tutto condito da un avvertimento chiaro: "E con queste dichiarazioni rilasciate da me- si legge - chiudo il capitolo vita privata. Da oggi in poi, se verrà fuori il mio nome per questioni private personali e non calcistiche, agirò per vie legali. Non vedo l'ora di tornare in campo", firmato Nicolò.

Chiara Zucchelli per gazzetta.it il 2 gennaio 2021. Qualche giorno fa Nicolò Zaniolo, dopo aver parlato alla “Gazzetta”, aveva chiesto silenzio sulla sua vita privata e per qualche giorno era stato accontentato. Oggi però sua mamma Francesca e il suo agente, Claudio Vigorelli, sono intervenuti a “Radio Radio” dove, poco prima, era intervenuto anche il giornalista Gabriele Parpiglia che aveva nei giorni scorsi intervistato una zia di Sara Scaperrotta (la ex di Zaniolo) e aveva rivelato dettagli della rottura tra i due ragazzi. “Dopo aver letto e sentito oggi tutto questo - le parole di Francesca Costa - ho deciso di dire la mia. Non è vero che Sara è stata cacciata di casa come dice questa zia, è andata via dopo aver rotto con Nicolò perché la casa era di mio figlio ed era normale tornasse a casa sua. Lei mi ha bloccata su Instagram, con mio figlio si sono bloccati a vicenda, ma noi l’abbiamo trattata come una figlia”. In questa (triste) storia oggi Sara aspetta un figlio da Zaniolo dopo che, a febbraio, aveva già interrotto una gravidanza: “È vero, questo lo confermo, ed era felice di questa scelta perché diceva di non essere pronta. Ora c’è un altro bambino di mezzo, Nicolò si occuperà di lui materialmente e con l’affetto di un padre, ma non ama più la ragazza. Quando ci ha chiamato per dirci della gravidanza era disperato e piangeva: “Ho bisogno di voi”. E noi siamo corsi a Roma da La Spezia”. Francesca Costa ha poi rivelato che Zaniolo ha scelto di lasciare la casa presa in affitto da Totti non per “scappare da Sara ma per scaramanzia dopo due infortuni lì” e ha ammesso di non approvare la storia con Madalina Ghenea: “Noi non siamo d’accordo con la relazione che sta avendo con questa donna, che è poco più piccola di me. Cerchiamo in tutti i modi di farlo ragionare, purtroppo è uscita e non possiamo fare nulla. Abbiamo paura che qualcuno voglia rovinargli la carriera, cerchiamo di seguirlo 24 ore al giorno. Nicolò non è facile da gestire”. A riportare la calma (durante la diretta i toni sono stati anche concitati), ci ha pensato Claudio Vigorelli, agente del giocatore: “Fa molto clamore questa situazione perché è un giocatore importante. Nicolò ha deciso di esternare il suo pensiero uscendo allo scoperto con le parole del 30 dicembre, ha voluto dimostrare che lui c’è, mentre su tutto il resto siamo caduti nel cattivo gusto e vorrei finisse qui. La Roma è contenta di come si sta allenando, le parole di Fonseca ci fanno piacere, il ragazzo deve tornare a pensare al campo, ha delle fragilità fuori come normale, ha bisogno di ritrovare serenità. Non sono a conoscenza - ha aggiunto - dell’irritazione della Roma, non ho ricevuto nessuna chiamata in questo senso. Non ho avuto informazioni diverse”. La speranza, sua e di tutti a Trigoria, è che adesso cali davvero il silenzio su questa vicenda. Perché c’è un patrimonio del calcio italiano da recuperare e tutelare e una piccola vita che tra qualche mese nascerà.

Gianluca Lengua per “il Messaggero” il 2 gennaio 2021. La mamma è sempre la mamma e Nicolò Zaniolo sceglie lei per trascorrere Capodanno in serenità. In uno dei momenti più critici della sua vita professionale e privata, il centrocampista si è rifugiato tra le braccia della famiglia per tentare di trascorrere del tempo in spensieratezza, mettendosi per qualche ora tutto alle spalle. Nella festa organizzata nel suo nuovo appartamento al Torrino, Nicolò ha invitato la madre Francesca, il padre Igor, la sorella Benedetta con il suo fidanzato, il tutor Ciccio Esposito con la moglie Micaela Murdolo e un amico di famiglia. Le foto del party sono state pubblicate dagli stessi protagonisti sui social, immagini in cui traspare allegria e leggerezza, nonostante il caos che in queste ore sta avvolgendo la vita del centrocampista. Ed è forse questo che ha attirato le polemiche degli haters apparse sotto una foto di Nicolò intento a ballare a torso nudo assieme alla madre. I follower, infatti, gli hanno rimproverato l'eccessiva felicità nonostante il periodo triste che la sua ex fidanzata Sara Scaperrotta sta vivendo. La ragazza è incinta e si troverà ad affrontare la gravidanza senza il supporto emotivo di Zaniolo, con cui si è recentemente lasciata. Una storia triste che quotidianamente continua a far emergere dettagli come quello del presunto aborto che c'è stato a febbraio e raccontato dalla zia di Sara in un'intervista di Gabriele Parpiglia rilasciata al sito giornalettismo.com: «È la seconda volta che aspetta un figlio da Zaniolo. La prima risale a sette mesi fa. Poi la coppia ha scelto di interrompere la gravidanza. Non erano pronti. Ma quel gesto li ha uniti ancora di più». I due giovani hanno avuto paura, ma poco dopo Sara ha scoperto di essere di nuovo incinta di Nicolò e questa volta ha deciso di tenere il bambino. Inizialmente Zaniolo era al settimo cielo, ma poi qualcosa è cambiato: «Quando Sara gli propone di dirlo subito alla sua famiglia esplode il caos perché lui vuole aspettare. Prende tempo e dice a mia nipote che lo avrebbero fatto a Natale a La Spezia». Sonia - è il nome della zia di Sara che ha preferito non divulgare il cognome - spiega che la famiglia del calciatore non avrebbe mai accettato sua nipote: «Appena i genitori lo scoprono corrono a Roma ed è il caos. Lei viene cacciata di casa in 24 ore e loro la abbandonano». Il centrocampista, fanno sapere dal suo entourage, aveva già in programma di cambiare abitazione e non ha mai avuto intenzione di scappare o di non farsi carico delle responsabilità che derivano dall'essere padre. E a proposito di responsabilità, è stata proprio questa parola a far infuriare la famiglia Scaperrotta: «Tutto questo succedeva il 6 dicembre e il 9, tre giorni dopo, Madalina Ghenea entra nella vita di Zaniolo che nel mentre aspetta un figlio da mia nipote. E poi dice di prendersi le sue responsabilità? Intanto l'ha bloccata sul cellulare. Uno degli ultimi messaggi mandati a Sara è Questa è responsabilità tua. Per lui cosa significa responsabilità? Che provvederà a dare due soldi?». Una storia più grande di due ragazzi di poco più di vent' anni, scaraventati in pochi istanti nel mondo degli adulti.

Gabriele Romagnoli per “la Repubblica” il 2 gennaio 2021. Può succedere di non capire Nicolò Zaniolo. Capitò all'allenatore Spalletti quando lo trascurò all'Inter, a molte più persone ora che ne seguono le vicende extra-calcistiche. Probabile accada a lui stesso, mentre cerca di rappresentarsi in ruoli di scarsa compatibilità: futuro padre responsabile del figlio avuto con una ex fidanzata abbandonata, attuale innamorato pazzo di una modella con 12 anni in più e madre di una bambina di 3 anni, eterno figlio di una mamma onnipresente quando c'è una foto da scattare o un video da girare. A 21 anni è improbabile avere una idea definita di sé e di quel che si sarà. Il pallone è una bussola: lo insegui e ti porta fin dove può il tuo talento. Se sei costretto a fermarti da una doppietta di infortuni sulla strada del successo scende la nebbia: la garanzia ridiviene speranza, tutte le carte tornano al mazzo e occorrerà una verifica, a tempo debito. Sì, ma quando? L'attesa è già una condanna. Lontane le luci degli stadi, si accendono quelle dei locali circostanti: dove, incurante della pandemia e incurabile da qualsiasi vaccino, scorre la vita mondana, intesa come concedersi al mondo, fare della propria esistenza un gioco altrui, un forum permanente di estranei da nutrire di dettagli, immagini e parole. Con l'unica eccezione di Leo Messi tutti i campioni del calcio contemporaneo sono oggetto di una doppia, eccitante narrazione: dal lato professionale e da quello personale. Alla prima provvedono (ancora) addetti all'informazione. Alla seconda si dedicano loro stessi, costruendo e coltivando sui social un proprio avatar che indossa capi arlecchineschi o più spesso li sveste, abita case di vetro, ama donne favolose, con le quali presto litiga a colpi di pubbliche frasi e foto e chissà perché proprio allora scopre figli che riconosce presto o tardi, magari offrendo il gesto alla platea di una partita. Era retorica la domanda sulla maglietta di Balotelli a Manchester "Why always me?" (perché sempre io?) quanto è paradossale l'affermazione di Zaniolo: «Vorrei tenere la mia vita privata lontana dai riflettori ». Pochi come lui fanno autofiction attraverso i social. Ogni calciatore è ormai il personaggio di un romanzo a più mani: quelle del nucleo familiare, dei comunicatori della società per cui gioca, del media manager, dell'agente. Poi ci mette del suo: la disponibilità a entrare nella parte. Quando, sei mesi fa, venne annunciato che Zaniolo aveva affidato la sua immagine alla società di Fedez per «far crescere di pari passo il calciatore e il brand» era prevedibile una virata del linguaggio, una commistione dei generi, intervista a Walter Veltroni e paparazzata sui rotocalchi, un ampliamento della base a sostegno. Il presunto erede di Totti è in realtà già parzialmente de-romanizzato: era sulle rotaie del tram della Milano desertificata dal lockdown il ragazzino con la sua maglia che palleggiava in una foto divenuta simbolica. L'essere arrivato in azzurro prima di un posto fisso in giallorosso lo ha reso patrimonio comune, soprattutto dei più giovani (purché non laziali) che lo vivono come un eroe dei fumetti, un supereroe se, come gli appartenenti alla categoria, sarà fortificato dalle sventure. Questi stanno dalla sua parte anche in questa fase. Il commento delle generazioni più avanzate, quando rompe il silenzio, è inevitabilmente sprezzante, individua il gene della disgregazione senza l'antidoto del genio assoluto, che nasce ogni cent' anni ed è appena morto. Ai coetanei di Zaniolo questo non interessa. L'olimpo calcistico che venerano è popolato soltanto da dei imperfetti, con figli sparsi, fidanzate discinte, cause per condotte sessualmente discutibili. È quasi un rito di passaggio, un requisito per l'iscrizione. Poi, come nei reality tv, i comportamenti indotti si mischiano a quelli spontanei fino a prevalere. Nel solo mese di dicembre Zaniolo ha fatto un trasloco improvviso, acceso una fiamma per alcuni sospetta con Madalina Ghenea, da poco separata da un milionario romeno e in cerca di ingaggi, sovrapposto la lieta notizia a quella della gravidanza della ex, finito l'anno festeggiando a torso nudo con la mamma. Una sceneggiatura impazzita cui manca l'elemento stabilizzante, più che per il brand, per il giovane uomo: il pallone.

Anticipazione dell'articolo di Alberto Dandolo per Oggi il 6 gennaio 2021. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, ricostruisce la “telenovela” del calciatore Nicolò Zaniolo che ha lasciato la fidanzata incinta, Sara Scaperrotta, per Madalina Ghenea, un legame appena nato e messo in dubbio, a dispetto dei languidi messaggi sui social, dalla stessa attrice romena. Come riporta OGGI, la madre del calciatore, contattata tramite amici, conferma la sua contrarietà alla storia del figlio con una donna molto esposta e che ha anche 11 anni in più: «Vorrei dire a Madalina di tenere giù le mani da mio figlio!». OGGI registra anche l’irritazione della Roma: Sara Scaperrotta e Nicolò Zaniolo si erano già lasciati in passato (pare ci fosse di mezzo un’altra donna) e dopo quella sbandata la Roma aveva “convinto” il campioncino a fare sul serio e ad andare a convivere con la fidanzata nel quartiere del Torrino, in una casa presa in affitto da Francesco Totti. Accanto a loro, la società aveva messo un angelo custode, un factotum (secondo malelingue giallorosse, un vero e proprio sorvegliante), Antonio Esposito.

Da corriere.it il 6 gennaio 2021. Quando Nicolò Zaniolo non aveva ancora iniziato ad accarezzare il pallone, mamma Francesca Costa aveva già molta confidenza con gli stadi e le domeniche di calcio. La donna è infatti sposata con Igor Zaniolo, papà del giocatore della Roma ex delle giovanili dell'Inter ed ex attaccante di Spezia, Cosenza e Messina, con cui conquistò la Serie A. Igor e Francesca hanno due figli: Benedetta e, appunto, il predestinato Nicolò. Due anni fa, nel pieno della sbornia per le magie del figlio, esploso letteralmente contro il Porto il 12 febbraio 2019 quando divenne il più giovane italiano ad aver segnato una doppietta nella Champions League moderna, Roma e l’Italia intera si sono accorte anche di Francesca Costa. Che da allora è una presenza costante sulla piazza social, fra gossip e qualche polemica. Il teatro della sua popolarità è sempre stato il profilo Instagram @frac77 molto seguito e ricco di commenti e curiosità dei tifosi (e non) del figlio: da chi la ringrazia per aver messo al mondo un talento così puro a chi ne omaggia la bellezza agli immancabili hater. Lei — che secondo molti avrebbe ormai oscurato la fama delle più celebri wags (moglie e fidanzate di calciatori) incarnando la nuova categoria delle mothers — alterna le sue fotografie agli scatti del figlio e con il figlio. «Continua così, insegui i tuoi sogni, vorrei poterti vedere sempre così felice», scriveva già nel 2016. Una presenza, non certo sobria, che da allora è cresciuta a dismisura, secondo alcuni anche troppo, e in alcuni casi è stata purtroppo oggetto di insulti beceri sui social e sulle tribune degli stadi, quando ancora c'era il pubblico. Ad essi Costa ha risposto proprio via social: «Ai cori sessisti noi rispondiamo con un sorriso», scrisse in una story di Instagram. Di Francesca Costa — che vive a Roma mentre il marito è rimasto a La Spezia a occuparsi del loro bar) — si sa anche che è una grandissima tifosa della Roma e, in particolare, di Francesco Totti: «L’ho visto la prima volta che siamo stati a Trigoria — raccontò un giorno a La Gazzetta dello Sport —. È venuto da noi e io mi sono messa a piangere. Mi ha detto: "Ma che piangi per me?". Io non riuscivo a parlare. Mio figlio Nicolò mi ha detto "ma che figure mi fai fare”. Era presente anche mio marito Igor che si è messo ridere». Costa ha anche confessato che se arrivasse una chiamata da un reality stile «Grande Fratello» accetterebbe di partecipare. Con la fama ormai raggiunta, è possibile che accada presto.

Zaniolo, il tango con la mamma scatena la bufera: "Ma il ginocchio non fa male?". Nicolò Zaniolo è finito nel mirino della critica per un tango di Capodanno con la madre, Francesca Costa. Roma irritata mentre i tifosi lo pizzicano sui social. Marco Gentile, Sabato 02/01/2021 su Il Giornale. Nicolò Zaniolo sta attirando su di sè l'attenzione ma non per quello fatto in campo dato che il giovane talento della Roma sta ancora recuperando dal brutto infortunio al ginocchio subito qualche mese fa. Il 21enne ex canterano dell'Inter avrebbe fatto irritare il suo club e anche i tifosi giallorossi per via di un tango di troppo ballato durante il Capodanno. Nel video incriminato, che sta girando sui social network, si vedere Zaniolo ballare un tango a torso nudo, con tanto di casqué, con la sexy mamma Francesca Costa. "Ma come? Con il ginocchio operato?" e ancora: "Zaniolo a 21 anni più figli che ginocchia sane", "Poi quando avete voglia, con calma, magari anche dopo capodanno, chiedete scusa a Don Fabio Capello sulla faccenda Zaniolo", il commento al veleno di un tifoso che riprende le parole di qualche mese fa di Capello sul giocatore della Roma che suscitò la reazione stizzita della madre del talentino giallorosso.

Roma stizzita? Secondo quanto riporta il Corriere della Sera il club di Friedkin non avrebbe gradito questo ballo di Capodanno visto che il giocatore è ormai indisponibile da tempo e pare possa tornare in campo non prima di marzo per il rush finale della stagione che porterà poi ad Euro 2021. Al momento la Roma sta disputando un ottimo campionato con il terzo posto in classifica dietro alle due squadre milanesi che stanno volando rispettivamente con 34 punti i rossoneri e con 33 punti i nerazzurri.

Storia privata. Recentemente il settimanale Oggi ha parlato della fine della relazione tra Sara Scaperrotta e Zaniolo con la ragazza che è incinta e intenzionata a portare avanti la gravidanza. "Abbiamo sognato insieme una famiglia qualche volta, non lo nego, ma poi le cose sono andate diversamente e quando lei mi ha comunicato la sua gravidanza sono stato molto onesto nel farle presente che non mi sentivo pronto per un impegno del genere, soprattutto perché non andavamo più d’accordo, ma lei ha deciso di proseguire. Una scelta che rispetto. Pur non essendo più il suo compagno, mi assumerò da padre ogni responsabilità. E con queste dichiarazioni rilasciate da me chiudo il capitolo vita privata. Da oggi in poi, se verrà fuori il mio nome per questioni private personali e non calcistiche, agirò per vie legali. Non vedo l'ora di tornare in campo". Zaniolo ha ora intrecciato una relazione amorosa con Madalina Ghenea, modella e attrice romena 34enne che tra gli altri ha anche recitato nel film 'Youth' di Paolo Sorrentino. Francesca Costa in questa circostanza ha voluto dare la sua opinione sulla nuova storia d'amore del figlio: "Noi non siamo d’accordo con la relazione che sta avendo con questa donna, che è poco più piccola di me. Cerchiamo in tutti i modi di farlo ragionare, purtroppo è uscita e non possiamo fare nulla. Abbiamo paura che qualcuno voglia rovinargli la carriera, cerchiamo di seguirlo 24 ore al giorno. Nicolò non è facile da gestire”.

Chiara Zucchelli per gazzetta.it il 3 gennaio 2021. Nuovo capitolo (l’ultimo?) della vicenda Zaniolo - Ghenea. L’attrice e modella romena, dopo aver parlato ieri sera tramite i suoi legali, oggi su Instagram, nelle storie, ha voluto fare - ancora - chiarezza sul suo legame con il numero 22 della Roma. Ribadendo di non essere "fidanzata", ma riempiendo di parole al miele Zaniolo: "Nicolò è un bravissimo ragazzo, una delle persone più buone che io abbia mai conosciuto, che è un talento lo sanno tutti. Come ha scritto lui lo scrivo anche io: sono felice di questa conoscenza. È una persona straordinaria che mi è entrata nel cuore e farò sempre il tifo per lui. Volevo precisare un punto: non siamo fidanzati". Non solo. Madalina Ghenea ha anche aggiunto: "Io di solito mi fidanzo dopo un anno di conoscenza, non dopo 25 giorni". Adesso che la situazione sembra più chiara, la Roma spera che si spengano le luci su questa storia. Per far sì che Zaniolo possa concentrarsi solo sul suo recupero.  Intanto Zaniolo ha deciso di chiudere per ora con i social. Lo ha comunicato lui stesso attraverso il profilo della mamma, Francesca Costa: "Visto che la mia vita è sul campo e non sui social o nel gossip, ho deciso di lasciar perdere questo lato superficiale che capisco non mi possa appartenere. Tutto questo sta minando la mia tranquillità, il mio recupero e la mia passione. Scollego il mio account (per ora il profilo è ancora attivo, ndr.) e vi abbraccio".

Da leggo.it il 3 gennaio 2021. Sulla vicenda della vita privata di Nicolò Zaniolo irrompe anche Caterina Collovati. La conduttrice di Telelombardia e moglie di un campione del Mondo come Fulvio, infatti, ha commentato senza mezzi termini le vicissitudini che hanno travolto il giovane attaccante della Roma negli ultimi giorni. «Zaniolo è un grande talento, ma nel calcio da solo non basta: serve anche la testa, altrimenti succede il patatrac. Nicolò si fidanza, come secondo regole attuale, con la belle influencer, che resta incinta, ma è giovanissima e preferisce abortire. Ricapita la gravidanza dopo pochi mesi, nel frattempo la giovane promessa del calcio italiano ha già incontrato l'attrice/modella Madalina Ghenea, il suo cuore batte per lei, ammette lui stesso» - ha scritto Caterina Collovati su Instagram - «Dice che non fuggirà dalle responsabilità di padre, ma le malelingue parlano di valigie già alla porta per la fidanzata gravida. Ne nasce una querelle pubblica tra la famiglia della giovane fidanzata, la madre del calciatore e l'attrice che nega la relazione e incarica l'avvocato di tutelare la sua immagine. Più che la storia di un calciatore in ascesa, sembra il copione di una telenovela». Caterina Collovati su Instagram pubblica una foto di Zaniolo accanto a quella della madre, Francesca Costa, intenta a scattarsi un selfie. E dopo aver ripercorso brevemente la vicenda sentimentale del 21enne calciatore, lancia la bordata: «Non ci siamo, caro Zaniolo. Che peccato, per il tuo bene, non ci siano più gli allenatori di una volta che facevano cambiare idea ai calciatori con i grilli per la testa, soprattutto che peccato non ci siano più le madri di una volta...».

Luca Valdiserri per il “Corriere della Sera” il 3 gennaio 2021. Nicolò Zaniolo aveva chiuso così il 2020, dopo che era esploso il caso della rottura del rapporto con Sara Scaperrotta (in attesa di un figlio da lui) e della nuova presunta storia con Madalina Ghenea, modella e attrice romena, di tredici anni più grande: «Spero che terminino tutte le voci sulla mia vita privata e si torni a parlare di me solo come calciatore». E l'attrice, in serata, faceva sapere di non avere nessuna storia con Zaniolo. Con tanto di comunicato della sua legale, avvocata Annamaria Bernardini de Pace, che smentiva una «relazione sentimentale» tra i due. Francesca Costa, mamma di Nicolò, ha aperto il 2021 con una torrenziale diretta su Radio Radio, in contrapposizione a Gabriele Parpiglia che attraverso il sito «Giornalettismo» ha rivelato - con una fonte anonima, presentata come una zia di Sara - che prima della fine della storia d'amore tra Zaniolo e la sua ex c'era già stato un aborto mesi fa. Sempre secondo il racconto anonimo, Sara è stata cacciata di casa e Zaniolo ha chiuso tutti i contatti con lei sui social. Mamma Zaniolo, smentendo, ha riaperto in pieno il caso: «Sara è sempre stata trattata come una figlia. Non l'abbiamo cacciata, vorrei che ci dicesse in faccia che l'abbiamo trattata così. Quando Nicolò ci ha scritto che stavano aspettando un bambino, siamo scesi a Roma: lui era disperato. Discuteva con Sara perché ha capito di non essere più innamorato. Quando siamo arrivati Sara era già pronta per andarsene. Ha detto che sarebbe andata dal ginecologo, mi sono offerta di accompagnarla. Mi ha detto che sarebbe andata da sola e le ho scritto di chiamarmi una volta finita la visita. Mai più sentita. La sera dopo è venuta a prendersi le sue cose. È vero che ha abortito sette mesi fa. Si erano lasciati ma Sara mi ha detto: "Per fortuna che l'altra volta è andata così, non eravamo ancora pronti". Nicolò non rinnega la volontà di occuparsi di suo figlio, di dargli l'affetto di un padre». Nel mirino anche la presunta nuova fiamma: «Nicolò è un ragazzo di 21 anni, noi ci distacchiamo dalla relazione con Madalina. Cerchiamo di farlo ragionare, purtroppo la notizia è uscita e non possiamo farci nulla. Quando le cose saranno più tranquille si cercherà di recuperare il rapporto con Sara per il bambino. Cominciamo ad avere paura che qualcuno voglia rovinare la carriera di Nicolò». L'allenatore della Roma, Paulo Fonseca ha detto: «Qui a Trigoria è un professionista, non parlo della sua vita privata». Una difesa che ha fatto piacere al procuratore di Zaniolo, Claudio Vigorelli: «Nicolò deve tornare a pensare al calcio. I social sono un male necessario, è un tema da gestire bene. Irritazione della Roma? Non ho ricevuto nessuna chiamata, anzi sostegno dalla dirigenza». I Friedkin sono maniacali nell'understatement, ma Zaniolo è pur sempre un «asset», come si dice nel calcio-business, e la protezione va anche a un investimento e/o a una possibile plusvalenza. I tifosi sono spaccati: molti lo difendono, ma non tutti. È diventato un caso anche il post di Capodanno di Nicolò che balla un tango con casqué insieme alla mamma. «Ma come? Con il ginocchio operato?» ha commentato qualcuno. Il rientro in campo di Zaniolo avverrà solo ad aprile. Fino ad allora non potrà parlare con il pallone e il rischio di nuove puntate della telenovela è dietro l'angolo. Quanta nostalgia di Carletto Mazzone che, nel dicembre 1993, quando vide il diciassettenne Francesco Totti circondato da gruppetto di giornalisti, lo apostrofò: «A regazzì, vatte a fa la doccia! Con loro ci parlo io» .

Da corriere.it il 3 gennaio 2021. Nel caso del momento mancavano solo le parole di Madalina Ghenea, che sono arrivate nella tarda sera di sabato 2 gennaio: «Tra me e Zaniolo non c’è nessuna relazione sentimentale, ci siamo incontrati solo una volta». L'attrice e modella romena ha affidato al suo account Instagram una dichiarazione che non lascia adito a dubbi e che accompagna un’immagine eloquente: la dichiarazione inviata alle agenzie di stampa dallo studio legale Bernardini de Pace, che l’assiste, in cui si precisano ufficialmente quattro punti: «1. Non è vero che ci sia una relazione sentimentale tra Madalina Ghenea e Nicolò Zaniolo. 2. Madalina Ghenea e Nicolò Zaniolo si sono incontrati solo una volta. 3. la signora Ghenea è mamma di una bimba che non deve essere turbata né coinvolta in queste bugie mediatiche. 4. la nostra assistita prenderà gli opportuni provvedimenti contro chi sta sfruttando e strumentalizzando questa invenzione e contro chi si è permesso di criticarla in qualsiasi modo». La firma è degli avvocati Federica Mendola e Annamaria Bernardini de Pace. Ghenea nel post spiega:«In questi giorni sono state dette e scritte tante frasi non corrette che hanno provocato tanto dolore, preoccupazioni e tristezza a diverse persone: penso sia arrivato il momento di fare chiarezza e mettere ordine cosiche questa situazione sia piu chiara e trasparente visto che ci sono delle persone ferite che stanno soffrendo. La mia verità? Eccola in un comunicato che non lascia spazio ad interpretazioni». «Sono una grande lavoratrice e sono una mamma — esordisce Ghenea —. In questi 20 anni mi sono state spesso attribuite delle relazioni che non ho mai avuto e non ho mai rilasciato dichiarazioni perché ho sempre preferito parlare e “far parlare” del mio lavoro, dei miei progetti, dei miei sogni e dei miei Valori. Io non sono fidanzata da tanti mesi, l’ho detto molte volte qui sui social e nelle interviste. Gestisco da sola la mia vita e quella della mia Famiglia: la mia passione per il mondo dell’Arte, la fotografia e il cinema è diventata il mio lavoro: grazie a questo, al mio percorso professionale, alle mie scelte lavorative e al mio impegno sono una donna indipendente e sono fiera di esserlo. Mi fa sorridere pensare che le donne debbano sempre essere viste come “in cerca di marito”, come se non abbiano Valore già da sole ...e il mondo sta ad analizzare, in maniera morbosa, ogni loro comportamento sempre in questa direzione». L'attrice prosegue: «Ci sono parole molto importanti ma diverse tra loro nella vita di ognuno: amicizia, amore, fidanzamento e Famiglia. Conosco e ho conosciuto molte persone nel corso della mia vita ma solo pochi veri amici entrano a far parte della mia Famiglia perché sono una Mamma, prima di essere un personaggio pubblico. A Natale e Capodanno sono stata con le persone piu care che io ho al mondo: mia madre e mia figlia». Infine la precisazione che cambia nuovamente lo scenario del caso, anche perché la stessa mamma di Zaniolo, Francesca Costa, aveva parlato della relazione tra il figlio e Ghenea, aggiungendo di non vederla di buon occhio: «Un incontro grazie a degli amici in comune, chiacchiere, battute divertenti e risate insieme sui social, in trasparenza e alla luce del sole, non esprimono un fidanzamento e non nascondono altro. Non trovate?».

Nicolò Zaniolo: l’addio ai social network a causa del gossip. Notizie.it il 03/01/2021. Il calciatore della Roma Nicolò Zaniolo ha deciso di chiudere i suoi account social dopo essere stato al centro di numerosi gossip. Il centrocampista della Roma Nicolò Zaniolo torna a far parlare di sé con la sua drastica scelta di disattivare tutti i suoi account social, denunciando il modo in cui sono stati utilizzati per creare e fomentare il gossip. Nicolò Zaniolo, 21 anni, ha reso pubblica la sua decisione di rinunciare ai social: «Visto che la mia vita è sul campo e non sui social o nel gossip, ho deciso di lasciar perdere questo lato superficiale che capisco non mi possa appartenere». Il calciatore della Roma si è trovato al centro di numerose speculazioni e dicerie legate alla fine della relazione con la storica fidanzata Sara Scaperrotta e al presunto flirt con la modella e attrice rumena Madalina Ghenea. Il gossip contestato dal 21enne è esploso alla fine di dicembre, nella giornata di mercoledì 30. Poco tempo dopo l’annuncio della separazione della coppia Zaniolo-Scaperrotta, infatti, è stata diffusa la notizia della gravidanza di Sara, seguita dalla confermata paternità di Zaniolo, ammessa dallo stesso centrocampista. La vicenda è stata particolarmente seguita sui social network, anche per il modo in cui sono stati strumentalizzati dai suoi protagonisti. Parallelamente, poi, si è vociferato di una presunta relazione tra Nicolò Zaniolo e Madalina Ghenea. Il fidanzamento segnalato dal mondo del gossip, tuttavia, è stato duramente smentito dalla modella attraverso un comunicato redatto dallo studio legale Bernardini De Pace. Nel comunicato, la 33enne ha affermato di aver incontrato il calciatore della Roma in una sola circostanza, di apprezzarne il talento e il carattere ma ha ribadito di non essere legata a lui sentimentalmente.

Damiano Tommasi. Stefano Lorenzetto per “L’Arena” il 15 febbraio 2021. La solidità dell’uomo Damiano Tommasi, mosca bianca nel circo del calcio, si spiega in due modi: è stato scavato nella roccia e scolpito nel legno. Quand’era bambino, il padre Domenico, che a 80 anni (li compirà giovedì prossimo) lavora ancora il marmo in località Sengia di Sant’Anna d’Alfaedo, gli insegnava a cavare dalle viscere della montagna il seciarón, noto ai più come pietra di Prun. Invece il nonno Alfonso, morto a 99 anni con il toscano fra i denti, lo portava nel bosco a spaccare la legna e a farne fascine. Dal primo ha imparato a giocare a tamburello, dal secondo ad allenare le gambe nella corsa e nello sci di fondo, mentre a tirare calci al pallone cominciò nell’istante stesso in cui smise di gattonare e camminò sulle proprie gambe, complici i fratelli maggiori Alfonso e Zaccaria, patiti del calcio. Tutto il resto si direbbe che sia venuto di conseguenza. I soprannomi di Chierichetto e Anima candida. Il servizio civile come obiettore di coscienza presso la Caritas (nessun calciatore professionista s’era mai rifiutato, prima di allora, d’indossare la divisa militare). Il matrimonio con Chiara Pigozzi, conosciuta a 15 anni sui banchi dell’istituto per ragionieri Lorenzo Calabrese di San Pietro in Cariano. I sei figli, Beatrice, 23 anni, Camilla, 21, Susanna 17, Samuele, 14, Emanuele, 10, e Aurora, che ne compirà 6 a fine marzo. La decisione di sensibilizzare il suo sponsor tecnico, la Nike, a utilizzare soltanto palloni «frutto di lavoro equo e solidale», quando sulla multinazionale aleggiava il sospetto che li facesse cucire in Pakistan sfruttando la manodopera minorile. La scelta di accettare, all’inizio del 2009, l’offerta del Tianjin Teda, primo giocatore italiano a trasferirsi in Cina, a Tientsin, sobbarcandosi ogni 15 giorni un viaggio di oltre 16.000 chilometri fra andata e ritorno, in tutto 20 ore di volo, pur di riabbracciare la famiglia. E adesso, appese al chiodo le scarpette bullonate, l’impegno come legale rappresentante e dirigente scolastico di un istituto bilingue con due sedi nel Comune di Pescantina, che copre la fascia di età 0-14 anni, così avveniristico nel suo modo d’intendere la didattica da aver suscitato l’interesse del professor Eric Mazur, docente nel dipartimento di Fisica della Harvard University, ma anche imprenditore e sponsor di startup nei campi dell’istruzione e della tecnologia. Nato all’ospedale di Negrar il 17 maggio 1974, Tommasi ha trascorso l’infanzia a Vaggimal, l’ultima frazione per chi scende da Sant’Anna d’Alfaedo, un crocchio di abitazioni così dimenticate dagli uomini, ma non da Dio, che il parroco di allora le ribattezzò Case sparse. L’ex calciatore ha altri due fratelli più giovani, Anita e Samuele.  Perse la mamma, Antonietta Vallenari, nel 2006. Lanciato dal Verona come centrocampista, ha totalizzato 25 presenze e un gol in Nazionale (inclusi i Mondiali del 2002). Con la Roma ha vinto lo scudetto nel 2001. Tre anni dopo, il declino. Il 22 luglio 2004, durante un’amichevole con gli inglesi dello Stoke City, un avversario gli fracassa menisco, rotula, legamenti e vasi sanguigni del ginocchio destro.  Tommasi ne esce con 15 mesi di riabilitazione che assomigliano più che altro a un calvario. Dal 2011 e fino al giugno scorso è stato presidente dell’Aic (Associazione italiana calciatori), il secondo dopo Sergio Campana, l’ex centravanti del Vicenza, poi divenuto avvocato, che fondò il sindacato della pedata nel 1968. Oggi risiede a Fumane. Per sottolinearne l’altruismo, un giornale scrisse che aveva acquistato un’intera collina in Valpolicella e aggiunse: «La zona comprende una villa dell’Ottocento e una chiesa del Quattrocento da restaurare, 100 ettari di bosco e 12 vigneti (prezzo: 3 miliardi di lire). Dopo la ristrutturazione, Tommasi devolverà in beneficenza terreno, edifici e vigneti». Lui ridacchia prima di affondare il bisturi: «Al telefono senza fili si raccontano tante cose. La chiesa si chiama San Micheletto, è del 1200 ed è circondata da 2 ettari e mezzo di terra. Quanto alla casa, ci viviamo in otto».

E della scuola che mi dice?

«Venerdì scorso abbiamo festeggiato i 20 anni della sua costituzione. Tre dei miei figli ne avevano frequentato una simile in Spagna, a Valencia, dove io giocavo nel Levante. Così mia moglie e la sorella Francesca aprirono un asilo nido. Oggi si sono aggiunte scuola dell’infanzia, primaria e media, le prime due paritarie, la terza riconosciuta».

Quanti alunni?

«In tutto sono 315. Abbiamo più richieste che posti disponibili. Infatti alla prima sede di Balconi ne abbiamo dovuto aggiungere una seconda, acquistando nel 2018 la Villa Mirandola a Settimo».

A chi l’avete intitolata?

«All’inizio si chiamava Bambiebimbi. Ma ciò che conta è che quella di Balconi ha dato il nome alla strada, oggi divenuta via Don Lorenzo Milani. C’ispiriamo alla scuola di Barbiana del prete fiorentino».

Costa tanto l’iscrizione?

«Ci siamo impegnati a far sì che le famiglie paghino anche per primaria e media la stessa retta del nido, intorno a 500-600 euro mensili. Non è facile, perché abbiamo 60 dipendenti, di cui 50 sono docenti».

Fa tutto da solo?

«No, insieme al commercialista Cristian Zivelonghi, un amico che conosco dagli anni Novanta, e alla moglie Graziella Pennisi».

Ma lei che ne sa della didattica?

«Poco. Per cui mi sono iscritto all’Università di Padova, facoltà di Scienze della formazione primaria. Ma do gli esami nell’ateneo di Verona».

Che cos’ha di speciale questa scuola?

«Innanzitutto, fin dal nido i bambini hanno insegnanti di madrelingua inglese. Alle medie la lingua straniera arriva a coprire 15 ore settimanali. Poi promuove il benessere degli alunni, non più di 18-20 per classe. Gli ambienti sono progettati secondo i criteri della bioedilizia, con netta prevalenza di vetro e legno. La cucina è interna e serve cibi biologici. Nel parco abbiamo montato tende per le lezioni all’aperto. È stata prescelta per partecipare a un concorso europeo sull’innovazione didattica digitale. Siamo favoriti dal fatto che tra i soci figura il professor Zeno Gaburro, docente di fisica all’Università di Trento, esperto nella materia».

Che intende per didattica digitale? Le lavagne interattive multimediali?

«Non solo. Con i visori tridimensionali lo studente non si limiterà ad ascoltare l’insegnante ma potrà visitare virtualmente i luoghi degli eventi storici, appena la pandemia lo consentirà. Istruiamo i ragazzi sull’uso responsabile dei social e della Rete».

Che ricordi ha della scuola?

«Fino alla terza elementare ebbi la maestra Emma, moglie di Lino Benedetti, corrispondente dell’Arena da Sant’Anna d’Alfaedo. Li rividi nella Capitale, quando giocavo nella Roma. Poi la maestra Albertina».

Lei è un idealista? In che senso?

«Nel senso di idealista. Mi piace concretizzare le mie idee. Sono un sognatore. Infatti la chat della nostra scuola si chiama Soci di sogni. Ho realizzato un sogno».

Dev’essere dura con sei figli.

«No, è stupendo. Hanno pregi e difetti, ma siamo contenti di aver dato al mondo delle persone in gamba».

Perché la maggioranza delle coppie non segue il vostro esempio?

«Oggi l’aspetto economico orienta le scelte. Se ho tre figli ma non posso andare in vacanza, mi deprimo. Idem quando non riesco a garantirgli lo smartphone, il tablet e un abbigliamento all’altezza delle loro aspettative. Inoltre non si procrea perché è più facile lasciarsi, quando non c’è di mezzo la prole».

Si scoccia se la chiamano Chierichetto o Anima candida?

«Per nulla. La prima è una funzione che ho svolto, sia a Vaggimal sia a Trigoria, il centro sportivo della Roma, dove servivo messa al cappellano della squadra. La seconda è una definizione così piacevole da aver chiamato con questo nome l’Amarone che produco fra Bure e Fumane. Semmai mi scoccia che diano dell’anima candida solo a me».

Ne ha conosciute altre?

«Il mondo del calcio ne è pieno. Qualche nome? Stefano Fattori, Eusebio Di Francesco, Gabriel Batistuta, Cafú, Aldair. E potrei continuare».

C’è un prete che è stato determinante nella sua formazione spirituale?

«Don Michele Dalle Pezze, che fu parroco di Vaggimal dal 1939 al 1987, anno della sua morte. E don Rino Breoni, oggi lungodegente a Negrar, che mi fece conoscere don Milani e mi accompagnò a visitare la scuola di Barbiana».

Inevitabile il servizio civile, sostitutivo di quello militare, presso la Caritas.

«A dire il vero la Caritas mi distaccò a Radiotelepace, dove gli orari erano talmente lunghi da essere compatibili con i miei allenamenti».

Quando esordì nel calcio?

«Entrai nel Negrar a 11 anni».

I suoi idoli erano gialloblù?

«Sì. Ammiravo la forza di Briegel, l’eleganza di Tricella, la velocità di Fanna e la potenza di Elkjaer».

Che cosa ricorda degli esordi?

«Soprattutto un episodio. Dieci minuti prima che finisse la partita, l’allenatore chiese a un mio compagno, fino a quel momento in panchina, di entrare in campo. Il padre gli urlò: «Non farlo! O ascolti l’allenatore o ascolti me!». E lui non entrò.

È grave? Sa, non m’intendo di calcio.

«Immagini che un direttore di giornale le avesse chiesto: «Scrivimi un trafiletto», e suo padre avesse ordinato al figlio quattordicenne: «Non farlo! O ti fa firmare l’editoriale in prima pagina oppure niente»».

Come arrivò al professionismo?

«Grazie a papà. Mi fu di esempio fin da quando passai al San Zeno, che giocava la domenica. Il sabato rincasavo dopo le 10 di sera. Mio padre mi disse: «O torni presto oppure l’indomani non vai a disputare la partita: scegli». Da allora vado sempre a letto presto alla vigilia delle gare».

Le è servito?

«Direi di sì. Sono stato professionista dal 1994 al 2009 e gioco ancora nel Sant’Anna, in seconda categoria».

Dev’essere stato un grosso sacrificio la vita da pendolare fra Cina e Italia.

«Fu inevitabile. Non c’era posto né alla Roma né al Verona, uniche squadre in cui avrei accettato di giocare».

Sarebbe rimasto a vivere a Tientsin?

«Se avessi avuto un’altra età e un’altra famiglia, sì. Anche solo per sfatare il mito negativo della Cina che vuole dominare il mondo».

Mito?

«Xi Jinping è un dittatore che ha abolito i limiti del mandato presidenziale per restare in carica a vita e sfrutta gli schiavi rinchiusi nei laogai. Non sarei rimasto in Cina per amore di Xi Jinping. Sinceramente, ero e resto più preoccupato dalla situazione politica italiana che da quella cinese. Prima di avere paura di qualcosa, bisognerebbe conoscerla».

Lei resterà nella storia del calcio perché alla Roma si autoassegnò lo stipendio di un operaio.

«Era il 2005, ultimo anno del mio contratto. Rientravo dopo il grave infortunio. Mi ero allenato con la Virtus di Borgo Venezia. Luciano Spalletti, il nuovo trainer giallorosso, voleva riprendermi in squadra ma la società temeva che fossi ridotto a un rottame.

Dissi a Rosella, la figlia del presidente Franco Sensi: datemi il minimo salariale, 1.470 euro al mese, così se non gioco ci perdete poco e se invece gioco ci guadagniamo in due, voi perché risparmiate e io perché torno al mio lavoro».

Da presidente dell’Aic che effetto le faceva rappresentare Cristiano Ronaldo, secondo Forbes il primo nella storia del calcio ad aver accumulato un patrimonio di 1 miliardo di euro?

«Le farò io una domanda: sono più i soldi che Ronaldo guadagna o quelli che fa guadagnare? Non è strapagato. In questa economia di mercato mantiene allenatori, preparatori tecnici, sponsor, aziende, tv, giornali».

Il suo contratto più ricco di quanto fu?

«C’erano ancora le lire. L’equivalente di 1 milione di euro, o poco più».

Sarebbe favorevole a fissare un tetto per i compensi dei calciatori?

«Per quale motivo? Per un fatto di equità sociale? Allora dovremmo stabilire se sia giusto che nel mondo esistano persone che hanno quattro case e altre che dormono per strada. Sarebbe già tanto se una società non spendesse per un fuoriclasse più di quanto non si possa permettere».

Quindi lei Diego Armando Maradona quanto lo avrebbe pagato? Lei che prezzo darebbe alla Pietà di Michelangelo?

««Con quella sua faccina da eroe terzomondista, si batte per difendere i diritti di un gruppo di superprivilegiati: fanno il mestiere più divertente del mondo (giocare a calcio), guadagnano l’inverosimile e vogliono diritti garantiti al pari di un operaio che strappa mille euro al mese. Complimenti Tommasi!». Aldo Grasso, Corriere della Sera.  Un campione che giocava nel Parma mi disse: «Noi calciatori non possiamo nemmeno essere tristi». Aveva ragione. I tifosi ti riconoscono solo la fortuna, mai i meriti».

Ma che vita è quella del calciatore?

«Sospesa: ti stacca dal terreno. Molto competitiva. Oggi sei un fenomeno, domani non ti ricorda nessuno. Un personaggio pubblico finisce per non avere alcuna relazione autentica con le persone. Sta in famiglia solo il lunedì. Più o meno, come i barbieri. La mia seconda figlia un giorno disse a una sorella: «Lo sai che stasera papà viene a dormire a casa nostra?»».

Che effetto le fa la curva dello stadio?

«Mi rattrista e mi esalta».

Come fermare la violenza?

«Intanto riconoscendo che è una grave emergenza: fra il 2013 e il 2018, l’Aic ha censito 478 azioni intimidatorie e minacciose verso i calciatori. Poi lasciando fuori i facinorosi per far posto ai tanti che oggi non vanno alla partita perché hanno paura».

Chi è il miglior presidente con il quale ha trattato come sindacalista?

«Massimo Moratti. Un vero gentiluomo. Lo dico anche da calciatore avversario della sua Inter».

Antonio Cassano ha dato di lei una definizione simile: «Tommasi è uno da 10».

«Non vale. Cassano è un amico con cui ho giocato per quasi cinque anni. È nato nella Bari vecchia, sa pesare le persone. Questa è una delle sue tipiche cassanate. Ci sentiamo ancora. La moglie Carolina Marcialis gioca a pallanuoto nella Css Verona».

E alla domanda «Chi è nato per fare il presidente della Federcalcio?», rispose: «Per me c’è una sola persona, Damiano Tommasi: è competente, leale, non ruba». Profilo ideale per un sindaco.

(Ride). «Bisogna vedere se sono quelle le qualità che servono, sempre ammesso che io le possieda».

Ma le hanno chiesto o no di candidarsi a sindaco di Verona nel 2022?

(Altra risata). «Vedi sopra».

Guardano a lei il Pd e Traguardi, ha scritto L’Arena.

«Allora dev’essere senz’altro vero».

Non giochiamo a nascondino.

«Senta, l’unica risposta che posso darle è che la candidatura mi fu proposta nel 2017 dal segretario del Pd, Alessio Albertini, e la rifiutai. Non mi era chiara la situazione e avrei dovuto lasciare l’Aic.

Ora non è più presidente dell’Aic.  

«Dubito che qualcuno possa chiedermi: «Faresti il sindaco di Verona?»».

Uffa, ma accetterebbe o no?

«Una poltrona e un uomo solo non rappresentano certo un progetto».

Verona è una città di centrodestra. Perché mai dovrebbe votare un ex calciatore sindacalista dalla testa calda?

«Un quesito che non mi pongo. Comunque direi che è di centrodestra tutta l’Italia. Anche se in questo momento mi sembra un po’ orfana».

Davide Astori. Giacomo Nicola per "Il Messaggero" il 6 agosto 2021. «Con la sua condotta l'imputato ha impedito l'accertamento della malattia, avendo omesso il primo necessario atto che avrebbe avviato un iter diagnostico in grado di salvare la vita di Davide Astori». È quanto sostiene il gup di Firenze Angelo Antonio Pezzuti, nella sentenza con la quale ha condannato a un anno di reclusione, pena sospesa, il medico sportivo Giorgio Galanti. Il professionista è accusato di omicidio colposo per la morte del calciatore della Fiorentina Davide Astori, trovato senza vita la mattina del 4 marzo 2018 nella sua camera di albergo a Udine mentre era con la squadra. Astori, è stato accertato dai medici, morì per un arresto cardiaco dovuto a una cardiomiopatia aritmogena. Secondo quanto ha sostenuto nella sentenza, il professor Galanti, difeso in aula dall'avvocato Sigfrido Fenyes, avrebbe commesso «un errore diagnostico» decidendo di non effettuare ulteriori controlli nonostante le extrasistolia ventricolare emersa ripetutamente durante le prove da sforzo annuali a cui veniva sottoposto il capitano della Fiorentina. Nella sentenza il gup ha contestato in parte le conclusioni degli stessi periti incaricati. «I periti - ha affermato - hanno aggiunto che la sospensione dell'attività sportiva avrebbe sicuramente rallentato la progressione della malattia, comunque non avrebbe escluso con certezza l'arresto cardiaco». «Tale argomentazione - ha sostenuto Pezzuti - non appare condivisibile». «Una corretta diagnosi - ha affermato ancora -, effettuata all'esito di tutti i necessari accertamenti, avrebbe comportato l'installazione di un impianto di defibrillazione e ciò avrebbe escluso la morte del calciatore». La difesa di Galanti farà ricorso in appello. Al processo di primo grado, il medico oltre alla pena di un anno è stato condannato al pagamento di provvisionali per oltre un milione di euro in favore dei famigliari, tra cui la compagna del calciatore, Francesca Fioretti, la figlia della coppia, i genitori del calciatore e i fratelli. Il calcolo dell'ammontare del risarcimento è stato delegato al giudice civile. Davide Astori, 31enne capitano della Fiorentina e difensore della Nazionale, era stato trovato morto la mattina del 4 marzo 2018 in un albergo di Udine (Là di Moret) dove si trovava con la squadra per la partita contro la formazione friulana. A causare il decesso sarebbe stato un arresto cardiaco. Astori ha lasciato la compagna, Francesca Fioretti, e una figlia, Vittoria, che al tempo aveva due anni. Astori quella mattina era atteso per la colazione: alle 9.30, non vedendolo arrivare, compagni e tecnici si erano preoccupati. Un massaggiatore era salito in camera - Astori dormiva da solo - ma lo aveva trovato morto. L'ultimo compagno ad averlo visto era stato Sportiello con cui la sera prima aveva giocato alla playstation. Il portiere era stato ascoltato dai carabinieri. «L'idea è che il giocatore sia deceduto per un arresto cardiocircolatorio per cause naturali», anche se «è strano che succeda una cosa del genere a un professionista così monitorato senza segni premonitori» così aveva subito detto il procuratore capo di Udine Antonio De Nicolo. I carabinieri avevano sentito tutti i compagni di squadra e anche lo stesso medico della squadra. L'ipotesi della tragica fatalità sin da subito era stata quella che si affacciava come più sicura. Quello che colpiva è che si trattata di un giovane seguito medicalmente, perché professionista, e se avesse avuto problemi di tipo cardiaco sarebbero venuti fuori. La sentenza sembra proprio sposare questa tesi. Nato a San Giovanni Bianco in provincia di Bergamo il 7 gennaio 1987, Astori era un difensore centrale mancino di buona tecnica. Aveva iniziato a giocare nel Ponte San Pietro, squadra satellite del Milan: venne poi integrato nella primavera milanista fino alla stagione 2005-2006. Nel 2006-2007 fu ceduto in prestito al Pizzighettone, in Serie C1. Tornato al Milan, nella stagione 2007-08 passò, sempre in prestito, alla Cremonese in Serie C1. Nell'estate 2008 acquistato dal Cagliari, squadra con cui esordì in Serie A e con cui collezionò 174 presenze e 3 gol. Giocò la stagione 2014-2015 con la Roma (29 presenze e una rete), il 4 agosto 2015 venne ufficializzato il suo passaggio alla Fiorentina, in maglia viola collezione 88 presenze segnando 3 gol diventandone anche il capitano. Astori disputò anche 14 partite con la maglia della Nazionale, il suo esordio il 29 marzo 2011, a 24 anni, nell'amichevole Ucraina-Italia (0-2).

Morte Astori, le motivazioni del gup: "Fu un errore diagnostico". Antonio Prisco il 5 Agosto 2021 su Il Giornale. Secondo il gup di Firenze il medico Galanti, condannato in primo grado per omicidio colposo, avrebbe commesso un errore diagnostico. "Con la sua condotta l'imputato ha impedito l'accertamento della malattia, avendo omesso il primo necessario atto" che avrebbe avviato un iter diagnostico in grado di salvare la vita di Davide Astori. Lo sostiene il gup di Firenze Angelo Antonio Pezzuti, nella sentenza con la quale ha condannato a un anno di reclusione (pena sospesa) il medico sportivo Giorgio Galanti, accusato di omicidio colposo per la morte del calciatore della Fiorentina, trovato senza vita la mattina del 4 marzo 2018 nella sua camera di albergo a Udine mentre era con la squadra. Astori poteva essere salvato. L'ipotesi diventa sempre più verosimile con la pubblicazione delle motivazioni della sentenza di primo grado. Secondo quanto sostenuto nella sentenza, il medico sportivo Galanti, difeso in aula dall'avvocato Sigfrido Fenyes, avrebbe commesso "un errore diagnostico" decidendo di non effettuare ulteriori controlli nonostante le extrasistolia ventricolare emersa ripetutamente durante le prove da sforzo annuali a cui veniva sottoposto il dfiensore viola. Di fatto "con la sua condotta l'imputato ha impedito l'accertamento della malattia, avendo omesso il primo necessario atto", afferma il gup. Nella sentenza il giudice dell'udienza preliminare contesta in parte le conclusioni degli stessi periti incaricati. "I periti - afferma - hanno aggiunto che la sospensione dell'attività sportiva avrebbe sicuramente rallentato la progressione della malattia, comunque non avrebbe escluso con certezza l'arresto cardiaco". "Tale argomentazione - sostiene Pezzuti -non appare condivisibile". "Una corretta diagnosi - afferma ancora -, effettuata all'esito di tutti i necessari accertamenti, avrebbe comportato l'installazione di un impianto di defibrillazione e ciò avrebbe escluso la morte del calciatore".

Il caso. Secondo la tesi dell’accusa accolta in primo grado dal Tribunale, il capitano viola morì per la mancata diagnosi di una patologia, la cardiomiopatia aritmogena diventricolare, tale da impedirgli di continuare la carriera di calciatore. Da ciò ne deriva la contestazione il rilascio ad Astori di due diversi certificati di idoneità alla pratica del calcio, nel luglio 2016 e nel luglio 2017. Secondo una consulenza tecnica effettuata da periti incaricati dalla procura, i certificati di idoneità del professor Galanti vennero rilasciati nonostante fossero emerse, nelle rispettive prove da sforzo, aritmie cardiache che avrebbero dovuto indurre i medici a effettuare accertamenti diagnostici più approfonditi per escludere una cardiopatia organica o una sindrome aritmogena. Per il tribunale, dunque, che si è avvalso della consulenza di parte del professor Domenico Corrado di Padova, se la patologia fosse stata diagnosticata mentre si trovava in una fase iniziale, questo avrebbe consentito di interrompere l’attività agonistica di Astori e, tramite la prescrizione di farmaci, di rallentare la malattia e prevenire l’insorgenza di aritmie ventricolari maligne. Dunque anche per il gup Angelo Antonio Pezzuti se la patologia fosse stata diagnosticata in tempo Astori poteva essere salvato. A questo punto con la pubblicazione delle motivazioni scatterà il ricorso in appello della difesa, come aveva assicurato l'avvocato Feynes al momento della lettura della sentenza.

Antonio Prisco. Appassionato di sport da sempre, tennista top ten e calciatore di alto livello soltanto nei sogni. Ho cominciato a cimentarmi con la scrittura sin dai tempi del liceo, dopo gli studi in Giurisprudenza ho ripreso a scrivere di sport a tempo pieno. Nostalgico della Brit Pop, adoro l'Inghilterra e il calcio inglese. Amo i film di Lars von Trier e i libri di Stephe

La difesa del professore: "Sconcertato, sempre operato al meglio". Morte Davide Astori, condannato medico: “Certificati di idoneità anche con aritmie”. Giovanni Pisano su Il Riformista il 3 Maggio 2021. Condannato a un anno per omicidio colposo il professor Giorgio Galanti, ex direttore del centro di medicina dello sport di Caregi, e a provvisionali di oltre un milione di euro. Questa la decisione del tribunale di Firenze nel processo, con rito abbreviato, per la morte di Davide Astori, l’ex capitano e difensore della Fiorentina scomparso a 31 anni il 4 marzo 2018, quando venne trovato senza vita in una camera d’albergo a Udine dove era in trasferta con la squadra. Secondo la tesi dell’accusa oggi confermata in Tribunale, Astori morì per la mancata diagnosi di una patologia, la cardiomiopatia aritmogena diventricolare, tale da impedirgli la carriera di calciatore. Secondo il pm Antonino Nastasi sarebbero stati violati i protocolli cardiologici per il giudizio di idoneità allo sport agonistico e contestato il rilascio ad Astori di due diversi certificati di idoneità alla pratica del calcio, nel luglio 2016 e nel luglio 2017. Secondo quanto emerso dalla consulenza tecnica effettuata da periti incaricati dalla procura, i certificati di idoneità del professor Galanti vennero rilasciati nonostante fossero emerse, nelle rispettive prove da sforzo, aritmie cardiache che avrebbero dovuto indurre i medici a effettuare accertamenti diagnostici più approfonditi per escludere una cardiopatia organica o una sindrome aritmogena. Per il tribunale, dunque, che si è avvalso della consulenza di parte del professor Domenico Corrado di Padova, se la patologia fosse stata diagnosticata mentre si trovava in una fase iniziale, questo avrebbe consentito di interrompere l’attività agonistica di Astori e, tramite la prescrizione di farmaci, di rallentare la malattia e prevenire l’insorgenza di “aritmie ventricolari maligne”.

La difesa del medico: “Sconcertato”. “Il professor Galanti è sconcertato, ritiene di aver operato sempre al meglio. Questa di oggi è una censura che non si accetta di buon grado. Restiamo in attesa di leggere le motivazioni di oggi, per impugnare la sentenza. Dal nostro punto di vista non riteniamo questa sentenza per niente giusta”. Lo dice a LaPresse l’avvocato Sigfrido Fenyes, legale del professor Giorgio Galanti.

Risarcimento. A carico di Galanti sono state disposte anche provvisionali che superano complessivamente il milione di euro in favore della compagna Francesca Fioretti e della figlia della coppia, Vittoria, nonché dei genitori e dei fratelli di Davide Astori, che si erano costituiti parte civile nel processo.

Le parole di Francesca Fioretti. “Sono molto felice e orgogliosa che finalmente sia stata fatta giustizia per Davide anche se dispiaciuta che lui oggi non possa essere qui con noi. Però spero vivamente che questa sentenza possa servire a salvare anche una sola vita”. Queste le parole della compagna di Astori, Francesca Fioretti.

Giovanni Pisano. Napoletano doc (ma con origini australiane e sannnite), sono un aspirante giornalista: mi occupo principalmente di cronaca, sport e salute.

Christian Vieri. Bobo Vieri racconta l’esame da allenatore: «Tante risate e zero ansia insieme a un gruppo di amici». Mirko Graziano su Il Corriere della Sera il 16 ottobre 2021. Notte prima degli esami, a «caccia di zanzare». Già, perché a Bobo Vieri basta un minimo ronzio per scattare dal letto, mettersi mimetica e caschetto, e scandagliare ogni centimetro della casa. Notte prima degli esami, dormendo pochissimo, perché qualche linea di febbre ha aperto a Isabel le porte del lettone di mamma (Costanza Caracciolo) e papà. E quando ci sono di mezzo le sue bimbe, qualsiasi altro impegno diventa marginale. Vabbé, in poche parole — giovedì mattina alle 6 — Vieri si presenta distrutto in stazione Centrale, direzione Firenze, Centro tecnico di Coverciano: da sostenere gli esami finali del corso per allenatori Uefa B/A, il tutto al termine di 210 ore di programma didattico più varie esercitazioni sul campo.

«Ciao Bobo, tutto bene?». Il saluto è di Alessandro Del Piero: quei due sono stati fra i giocatori più grandi e amati di sempre. Il tempo di sistemare la valigia, e Bobo crolla: allunga le gambe, si copre fino al viso con il tutone e ciao ciao. Ale lo guarda, ride, lo filma anche, e quindi lo posta su Instagram. «Sì, ma ha resistito poco pure lui — ride Bobo —, eravamo brasati». Niente appunti da ripassare, assenza totale di panico da interrogazione, «siamo arrivati preparatissimi, abbiamo fatto fruttare tutte quelle ore in aula. Anche nove in una stessa giornata: sembrava di essere tornati a scuola».

A Coverciano ad aspettare Bobo e Ale ci sono fra gli altri De Rossi, Pizarro, Matri, Pazzini, Abate, Montolivo, Torrisi, Curci, Gastaldello, Maccarone. Roba da allestire una squadra competitiva ancora oggi. «Balzaretti, invece, non è potuto venire — spiega Vieri —. Ha lasciato un messaggio nella nostra chat: “Ragazzi, vi voglio bene, sono stato alla grande, mi avete fatto divertire da morire”. Ed è vero, un gruppo magnifico. Risate, confidenze, prese per i fondelli (battutacce che possiamo capire solo noi che abbiamo giocato) e partite a padel. Il più forte? Torrisi. Ma anche Pizarro non scherza, secondo me gioca da 35 anni. Due fenomeni. Una sera scatta la sfida: io e Torrisi contro De Rossi e Pizarro. Il primo set è loro, noi ci prendiamo il secondo. Nel terzo siamo 5-5, mi fermo, sento profumo di pizza: mollo tutto, esco dal campo e li saluto. “Ma dove c... vai?”, urlano. “Ho fame...”, rispondo. In realtà ero a pezzi, non ce la facevo più. Eviterei di riportare le loro parole piene d’affetto mentre mi avventavo sulle pizze (ride)». Ma sul campo di calcio niente partitelle? «Lasciamo perdere: ho calciato e mi sono subito fatto male al ginocchio...».

Torniamo seri, «e allora parliamo del corso e dell’esame — racconta Bobo —. Ne esco molto arricchito. Un percorso tosto, serio, importante, che richiede grande disciplina. E devo dire che i vari insegnanti ci hanno fatto i complimenti». Fra i docenti, il gran capo Renzo Ulivieri («uno che sa dare una risposta concreta a ogni tua domanda, gentile, disponibile, preparatissimo»), poi Mario Beretta (parte tecnica), il prof Ferretto Ferretti (preparazione atletica), il professor Felice Accame (Comunicazione). «È stato bello confrontarci con loro, i tempi cambiano, e pure le metodologie. È tutto molto diverso rispetto a quando giocavo, soprattutto nella preparazione atletica e nell’alimentazione. Niente tesina, prima abbiamo risposto alle domande di teoria, poi siamo andati sul campo per la pratica, e qui dobbiamo dire grazie ai ragazzi dell’Under 18 della Fiorentina che si sono prestati dalle 14.30 alle 18.30. Io ho lavorato sul 6 contro 6 a campo ridotto: due tocchi, movimenti ed esercitazioni tattiche. No, non c’è mai stato un momento critico. Questo è un mestiere che ho fatto per 30 anni. L’esame, va detto, è la tappa più semplice se hai lavorato bene durante il corso».

E zero problemi anche a livello di «comunicazione», visto che ormai Vieri è lanciatissimo nel mondo dei media e dei social. «Siamo pronti con la “Bobo tv live show»: da gennaio trasmetteremo dai teatri di tutta Italia; e ci hanno contattato pure dalla Spagna e dalla Svizzera». Nel frattempo, patentino in mano, potrebbe già arrivare qualche offerta in panchina: «Calma, aspettiamo la notifica prima...». Ride Bobo, che a giugno si iscriverà anche al Master. «Con lo stesso gruppo! Ormai siamo una squadra».

Mirko Graziano per il “Corriere della Sera” il 17 ottobre 2021. Notte prima degli esami, a «caccia di zanzare». Già, perché a Bobo Vieri basta un minimo ronzio per scattare dal letto, mettersi mimetica e caschetto, e scandagliare ogni centimetro della casa. Notte prima degli esami, dormendo pochissimo, perché qualche linea di febbre ha aperto a Isabel le porte del lettone di mamma (Costanza Caracciolo) e papà. E quando ci sono di mezzo le sue bimbe, qualsiasi altro impegno diventa marginale. Vabbé, in poche parole - giovedì mattina alle 6 - Vieri si presenta distrutto in stazione Centrale, direzione Firenze, Centro tecnico di Coverciano: da sostenere gli esami finali del corso per allenatori Uefa B/A, il tutto al termine di 210 ore di programma didattico più varie esercitazioni sul campo. «Ciao Bobo, tutto bene?». Il saluto è di Alessandro Del Piero: quei due sono stati fra i giocatori più grandi e amati di sempre. Il tempo di sistemare la valigia, e Bobo crolla: allunga le gambe, si copre fino al viso con il tutone e ciao ciao. Ale lo guarda, ride, lo filma anche, e quindi lo posta su Instagram. «Sì, ma ha resistito poco pure lui - ride Bobo -, eravamo brasati». Niente appunti da ripassare, assenza totale di panico da interrogazione, «siamo arrivati preparatissimi, abbiamo fatto fruttare tutte quelle ore in aula. Anche nove in una stessa giornata: sembrava di essere tornati a scuola». A Coverciano ad aspettare Bobo e Ale ci sono fra gli altri De Rossi, Pizarro, Matri, Pazzini, Abate, Montolivo, Torrisi, Curci, Gastaldello, Maccarone. Roba da allestire una squadra competitiva ancora oggi. «Balzaretti, invece, non è potuto venire - spiega Vieri -. Ha lasciato un messaggio nella nostra chat: "Ragazzi, vi voglio bene, sono stato alla grande, mi avete fatto divertire da morire". Ed è vero, un gruppo magnifico. Risate, confidenze, prese per i fondelli (battutacce che possiamo capire solo noi che abbiamo giocato) e partite a padel. » «Il più forte? Torrisi. Ma anche Pizarro non scherza, secondo me gioca da 35 anni. Due fenomeni. Una sera scatta la sfida: io e Torrisi contro De Rossi e Pizarro. Il primo set è loro, noi ci prendiamo il secondo. Nel terzo siamo 5-5, mi fermo, sento profumo di pizza: mollo tutto, esco dal campo e li saluto. "Ma dove c... vai?", urlano. "Ho fame...", rispondo. In realtà ero a pezzi, non ce la facevo più. Eviterei di riportare le loro parole piene d'affetto mentre mi avventavo sulle pizze (ride)».

Ma sul campo di calcio niente partitelle? 

«Lasciamo perdere: ho calciato e mi sono subito fatto male al ginocchio...». 

Torniamo seri, 

«e allora parliamo del corso e dell'esame - racconta Bobo -. Ne esco molto arricchito. Un percorso tosto, serio, importante, che richiede grande disciplina. E devo dire che i vari insegnanti ci hanno fatto i complimenti». 

Fra i docenti, il gran capo Renzo Ulivieri («uno che sa dare una risposta concreta a ogni tua domanda, gentile, disponibile, preparatissimo»), poi Mario Beretta (parte tecnica), il prof Ferretto Ferretti (preparazione atletica), il professor Felice Accame (Comunicazione). 

«È stato bello confrontarci con loro, i tempi cambiano, e pure le metodologie. È tutto molto diverso rispetto a quando giocavo, soprattutto nella preparazione atletica e nell'alimentazione. Niente tesina, prima abbiamo risposto alle domande di teoria, poi siamo andati sul campo per la pratica, e qui dobbiamo dire grazie ai ragazzi dell'Under 18 della Fiorentina che si sono prestati dalle 14.30 alle 18.30. Io ho lavorato sul 6 contro 6 a campo ridotto: due tocchi, movimenti ed esercitazioni tattiche. No, non c'è mai stato un momento critico. Questo è un mestiere che ho fatto per 30 anni. L'esame, va detto, è la tappa più semplice se hai lavorato bene durante il corso». 

E zero problemi anche a livello di «comunicazione», visto che ormai Vieri è lanciatissimo nel mondo dei media e dei social. 

«Siamo pronti con la "Bobo tv live show ": da gennaio trasmetteremo dai teatri di tutta Italia; e ci hanno contattato pure dalla Spagna e dalla Svizzera».  

Nel frattempo, patentino in mano, potrebbe già arrivare qualche offerta in panchina:

«Calma, aspettiamo la notifica prima...». 

Ride Bobo, che a giugno si iscriverà anche al Master.

«Con lo stesso gruppo! Ormai siamo una squadra».

Mirko Graziano per “Sette - Corriere della Sera” l'11 luglio 2021. Christian Vieri è stato uno dei più grandi centravanti di tutti i tempi. Ai Mondiali ha giocato nove partite segnando nove reti. In Spagna lo chiamavano «el Mudo» (il muto), in Italia non sopportava i giornalisti («Sono più uomo io di tutti voi messi insieme») ed era allergico alle cosiddette pubbliche relazioni. Oggi è invece un fenomeno social (2,6 milioni di follower su Instagram), imprenditore di successo, dj e fondatore della Bobo tv, che su Twitch sta raggiungendo ascolti siderali. Non sono molti gli ex grandi calciatori che sono stati capaci di sfondare anche nella loro seconda vita. 

Bobo Vieri, tutto è partito dall’Australia.

«È nel mio cuore, lo sarà per sempre. Ci sono cresciuto».

Qualche flash.

«Verde, canguri, koala, libertà, spazio, cricket, rugby. E amici, tanti amici, e voglia di divertirsi. A dicembre ci torno con tutta la famiglia. Nei giorni scorsi il fratello di Paul Okon (un ragazzo con cui poi Bobo giocò nella Lazio; ndr) mi ha spedito la foto di dove abitavo... Mi è venuta un po’ di nostalgia». 

Ci descriva la banda...

«Tutti in Bmx, si parlavano decine di lingue (ride)». 

Cioè?

«Io italiano, poi accanto a casa mia c’era un italo-peruviano, quindi davanti un greco, a destra un serbo, cento metri più giù un croato, poco lontano un egiziano e non dimenticherò mai la mamma spagnola di Daniel che a un certo punto della giornata cacciava urla tremende per richiamare il figlio a casa». 

Beh, razzismo zero da quelle parti...

«Non esisteva razzismo, non esisteva niente di queste cose. Eravamo un gruppo di amici che volevano godersi ogni momento insieme. E con quei principi sono cresciuto e diventato uomo. Quando sento parlare di certi episodi mi viene il voltastomaco per quanta ignoranza ci sia ancora in giro, anche qui in Italia. Non lo capisco. Pazzesco!».

Il primo ricordo australiano palla al piede?

«Giocavo nel Marconi Under 14, e Paul Okon mi disse che suo papà (allenatore) mi voleva con I’Under 15 per la finale del campionato nazionale. Io ai tempi giocavo terzino sinistro, mi misero invece in attacco e con una sassata da 25 metri all’incrocio dei pali decisi la partita: 1-0 per noi!». 

Cosa ha rappresentato suo nonno?

«È stato tutto. Era follemente innamorato di me. Fu lui a convincere papà a lasciarmi tornare in Italia, a Prato, per giocare a calcio. La prima volta che mi vide in campo, al Santa Lucia, la squadra del nonno di Alino Diamanti (altro ragazzo che giocò poi in A e in Nazionale; ndr ), andò a cercare mio padre e gli disse: “Questo diventerà il più forte centravanti del mondo, deve restare qui in Italia”. E così fu. Nonno ha fatto di tutto per me. Era brontolone come lo sono io, e che scontri a volte. Ricordo che un giorno non voleva lasciarmi andare al campo - dovevo averla combinata grossa - e di fronte alla mia insistenza prese la borsa del Santa Lucia e la lanciò dal terrazzo: finì appesa a un albero e lì ci rimase per giorni». 

A proposito di suo papà Bob, ex calciatore di Juve, Bologna e Sampdoria: quanto è contato nella sua vita?

«Ho ascoltato solo due persone nella mia vita calcistica: nonno e appunto papà. Sapevano di calcio, dopo un minuto di gioco mi “fotografavano”. Due figure forti, fondamentali. E poi la mia fortuna sono stati anche i primi tre allenatori che ho avuto a un certo livello: Rampanti, Mondonico e Cesare Maldini». 

Partiamo da Rampanti.

«Era stato pure lui in Australia, uno dei migliori amici di papà. Mi ha guidato nelle giovanili del Toro, avevo di fatto un altro genitore accanto a me. È come se un giorno io allenassi i figli di Brocchi e di Di Biagio, due miei fratelli, per intenderci». 

Mondonico?

«Mi ha fatto esordire in prima squadra da bambino e poi mi ha rivoluto nell’Atalanta. Quanto affetto ho sentito...». 

Infine, Cesare Maldini.

«Un giorno Pereni - che era il vice di Mondonico - venne negli spogliatoi e disse: “Christian, guarda che Maldini ti ha convocato nell’Under 21”. C’erano ii ‘71 in quella nazionale e io sono del ‘73. Già mi sembrava incredibile essere lì, oltretutto nei primi allenamenti sprecavo malamente tutti i cross di Tardelli. Sì, Marco Tardelli, l’eroe del 1982 era il vice di Cesarone e si allenava con noi: stavo sognando. Beh, ero convinto di fare panchina, e invece alla lettura della formazione scopro di essere titolare: a Cremona, contro la Svizzera, io e Muzzi là davanti. Crossa lui e segno io: vinciamo 1-0. Non ho più trovato le immagini di quel gol...». 

Con Cesare Maldini ha fatto pure un Mondiale.

«Mi chiamò in Nazionale maggiore alle mie prime presenze con la Juve. Non dico dopo i primi gol, ma alle prime partite giocate: diceva sempre che ero il “suo” centravanti».

Marcello Lippi?

«Gli devo il salto di qualità a livello professionale. Mi ha fissato in testa la cultura del lavoro, spiegandomi come arrivare al top, e restarci. E voglio ricordare pure “Ciso” Pezzotti (vice di Lippi): a fine allenamento mi teneva ore sul campo a migliorare la tecnica». 

Ti hanno descritto per tanto tempo come l’uomo gossip, l’uomo che chiudeva le discoteche...

«Voi giornalisti eravate degli schifosi (ride). Io avevo un caratteraccio, non andavo d’accordo con voi, questo è vero. Raccontavano che uscivo la notte, e pure questo era vero. Ma non firmi un gol a partita se non ti alleni seriamente. E a 26 anni che faccio? Sto a casa? Mi divertivo quando potevo, ma sempre lontano da ogni pericolo. E in alcuni casi se ne sono dette di cose senza senso... Voglio allora ringraziare Marco Materazzi, che nel suo libro mi ha raccontato così: “Bobo era il primo ad arrivare al campo per gli allenamenti, e l’ultimo ad andarsene”. Questo conta. Non c’erano i social a quei tempi, quindi erano critiche che non potevo contrastare in maniera adeguata. E allora la gente si faceva idee sbagliate». 

Bobo Vieri, chi è il più grande calciatore con il quale ha giocato?

«Ronaldo il Fenomeno». 

E il più grande giocatore italiano?

«Roberto Baggio». 

Schieri la sua Nazionale.

«Fra i ragazzi con cui ho giocato?». 

Sì.

«Sistema 4-2-3-1: Buffon in porta; Zambrotta, Cannavaro, Nesta e Maldini in difesa; Di Biagio e Pirlo in mezzo al campo; Totti, Roberto Baggio e Del Piero a supporto di Vieri». 

Lo sportivo numero uno in assoluto?

«Michael Jordan».

L’uomo che più l’ha ispirata?

«Nelson Mandela. Un percorso da pelle d’oca il suo». 

Il rimpianto sportivo?

«Essermi fatto male nel 2005, a pochi mesi dal Mondiale poi vinto dall’Italia. Andai in crisi, mi ammazzò a livello sportivo. Ero in Nazionale da 15 anni, ed era giusto che ci fossi anch’io in Germania. Ma oggi non sono più arrabbiato, Dio mi ha abbondantemente ripagato nella vita con la nascita di Stella e Isabel». 

Il suo gol da Oscar?

«Quello dalla linea di fondo quando giocavo nell’Atletico Madrid. Eravamo in Coppa Uefa, e dissi al presidente Gil: “Se segno una tripletta mi regali una Ferrari?”. Lui rispose di sì, e io feci tre gol: quello dalla linea di fondo è nella storia in Spagna, e non solo». 

La Spagna le è rimasta nel cuore?

«Ho nel cuore l’Atletico, i suoi tifosi e Gil. Mi hanno dato tutto, avrei dovuto ripagarli rimanendo almeno un altro paio di anni».

La più grande delusione?

«A livello calcistico il 5 maggio (scudetto perso all’ultima giornata nel 2002; ndr ). Abbiamo dato tutto ciò che potevamo dare, è stata una fiammata impossibile da descrivere. Ne sono uscito a pezzi». 

Quante donne ha avuto?

«Boh (ride)». 

Quante ne ha amate veramente?

«Non tante». 

Ricorda il momento esatto in cui ha capito che avrebbe sposato Costanza?

«Ci ho messo pochissimo a capire che avrei messo su famiglia con lei. La conoscevo da dieci anni, sapevo bene che tipo di donna avevo davanti. È stato veloce, tutto molto semplice. L’ho rivista e in un lampo ho realizzato che ci saremmo sposati». 

Vieri con la moglie Costanza e una delle figlie Vieri con la moglie Costanza e una delle figlie

Cosa le piace di Costanza?

«È davvero bella, su questo non ci sono dubbi. Poi, ha grande carattere, mi piace. Ed è sempre solare».

Che mamma è?

«La numero uno. Non potevo chiedere di meglio». 

Come cucina?

«Così così... (scoppia a ridere)». 

Quale futuro immagina per le sue figlie?

«Voglio che crescano forti e indipendenti». 

Il giorno che si presenta a casa un fidanzato che non le piace, come si comporta?

«Non ci ho pensato finora... Mi lasci ancora dormire la notte». 

Le fa paura tutta questa violenza che ancora oggi devono subire le donne?

«Mi fa rabbia. Non la concepisco. Chi usa violenza - di qualsiasi tipo - sulle donne è tutto tranne che un uomo. È un codardo, una nullità».

Le piace il calcio femminile?

«Moltissimo, lo seguo». 

È sincero?

«Guardi che ho vissuto a lungo negli Stati Uniti, e lì il calcio femminile è di altissimo livello, uno spettacolo apprezzato e seguitissimo. Ho visto poi la nostra Nazionale al Mondiale, mi sono gasato. Credo che anche in Italia siamo sulla buona strada. D’altronde, qui da noi è sempre la Nazionale a trascinare ogni movimento sportivo. La maglia azzurra è la più bella...». 

Parliamo del Bobo imprenditore.

«Faccio progetti che mi piacciono, che mi divertono». 

Partiamo dalla Bombeer?

«Stiamo avendo un successo incredibile, in Italia e nel mondo. L’idea è nata con il mio amico Fox. Gli ho detto: “Dobbiamo fare la nostra birra”. Lui conosce tutti, ha lavorato 30 anni al Pineta, dove è passato mezzo mondo. Si è preso qualche giorno e ha individuato due ragazzi con cui portare avanti il progetto. Ci siamo incontrati e l’intesa è stata immediata con Driss e Fabrizio. Dietro c’è stato un grande lavoro, non era il nostro mondo, ma siamo stati umili e attentissimi a valutare ogni aspetto, sia tecnico sia di marketing. Il tipo di bottiglia e i colori li abbiamo decisi insieme: c’è quella rosa dedicata alle donne, e quella azzurra che vuole ricordare libertà, cielo sereno ed estate. Volevo colore e novità. E secondo me il marchio Bombeer è azzeccatissimo: la birra del Bomber. Oggi abbiamo richieste da tutto il mondo. Siamo felici, perché la risposta della gente è stata travolgente». 

Nel frattempo, lei è diventato anche un fenomeno mediatico con la Bobo Tv.

«Tutto è iniziato durante la pandemia, un anno fa. Prima da solo e poi insieme agli amici Adani e Ventola facevamo delle dirette Instagram durante le quali intervenivano anche vecchi compagni di squadra: penso a Totti, Cannavaro, Maldini, Pirlo e tanti altri... Visti gli ascolti incredibili, mi è venuta l’idea di un qualcosa di più grande, di diverso. E attraverso Twitch credo che abbiamo trovato la giusta dimensione. Oggi facciamo opinione e ascolti che fanno invidia alle tv più importanti a livello internazionale. Una settimana prima della finale di Champions League, per esempio, Pep Guardiola ha scelto la Bobo tv per raccontarsi e parlare del suo calcio. Probabilmente una svolta epocale rispetto a certi equilibri televisivi». 

Lei leader in conduzione insieme ad Adani, Ventola e Cassano...

«Il problema è stato spiegare a Cassano cos’è Twitch (ride). Scherzi a parte, l’intenzione è quella di ricreare il clima che si respirava nel nostro spogliatoio. La gente lo ha capito, lo apprezza. Siamo liberi, diciamo ciò che realmente pensiamo e credo che non ci sia in giro un format simile a quello della Bobo tv. Forse io stesso sto cercando di organizzare la mia vita facendomi accompagnare dagli amici veri. L’ho detto spesso: è lo spogliatoio la cosa che più mi manca rispetto a quando giocavo». 

Lei è da tempo un fenomeno social, e pensare che da giocatore non brillava certo in comunicazione con l’esterno del suo mondo.

«Ho scoperto i social negli Stati Uniti, anche grazie alla mia lunga esperienza con BeIN Sports a Miami. Andavo nella zona social del sito, vedevo, mi informavo. Mi sono detto: sono il giocatore più simpatico di tutta l’Europa (ride), devo allora far vedere al mondo come sono realmente. Non ho nulla da nascondere, sui social sono il Bobo di sempre. E questo ha convinto la gente che mi segue». 

Problemi con gli hater?

«Li blocco. Non me ne frega niente. Non mi preoccupo di cose che non posso controllare». 

Le manca la Bobo Summer Cup?

«È la mia creatura. È divertente, riunisco tanti vecchi amici e facciamo beneficenza. È l’occasione per ritrovarci tutti e tornare a respirare quel vecchio clima che le dicevo. Appena possibile la riprendiamo. Spero la prossima estate. Ho un sacco di idee. Avevo già previsto di allargare l’arena sulla spiaggia e di coinvolgere le donne nel torneo di footvolley».

Molti calciatori, una volta spenti i riflettori, vanno in crisi e non riescono a organizzarsi una seconda vita...

«Quando si smette di giocare inizia davvero un’altra vita. Il calciatore, soprattutto di un certo livello, deve capirlo per tempo. Svaniscono tante cose che ti stavano attorno e davi per scontate. Bisogna rimettersi in gioco subito, muoversi senza contare a priori sull’aiuto di nessuno ed è vietato voltarsi indietro. Io ho la fortuna di essere curioso, non ho pensato un momento a cosa stava finendo, mi sono piuttosto subito concentrato sulle tante cose nuove che avrei potuto sperimentare». 

Beh, in effetti fra le tante cose ha inciso un disco, ha ballato in tv, si è inventato dj con tanto di tour in tutta Italia e ora sta prendendo pure il patentino da allenatore...

«A volte esagero, faccio un po’ troppo (ride). Però mi piacciono le nuove esperienze, ti arricchiscono la vita. Per esempio, il corso allenatori è fantastico in questo senso: tante ore in aula, percorso per nulla semplice, argomenti parecchio vari; una scoperta che ha ulteriormente allargato i miei orizzonti». 

La vedremo in panchina molto presto?

«Non lo so, dipende dai progetti che mi verranno proposti. Per come sono fatto io è più facile che eventualmente vada ad allenare all’estero. Qui in Italia ci sono troppi dirigenti con scarsissima cultura calcistica».

Daniele De Rossi. Andrea Di Caro per Sportweek- La Gazzetta dello Sport il 15 agosto 2021. Foto di gruppo festante, al centro la Coppa appena conquistata. Ad accompagnarla questo commento: "Non ridevamo tutti perché si vinceva, ma vincevamo perché ridevamo tutti". La sintesi più bella, intensa e azzeccata dell’impresa dell’Italia all’Europeo non l’ha regalata Churchill, Giulio Cesare o Gandhi in uno dei loro discorsi epici, ma Daniele De Rossi sul suo profilo Instagram. Che peraltro usa pochissimo: non è social, Daniele, non insegue follower, like, cuoricini e consensi. Non l’ha mai fatto durante la sua lunga e prestigiosa carriera, nonostante sia tra i pochi a potersi fregiare del titolo di campione del Mondo e d’Europa. Non cerca copertine, cura la barba ma non l’immagine, le sue interviste sono rarissime ed è un peccato perché con De Rossi un argomento tira l’altro e lui li affronta tutti senza mai nascondersi, prendere tempo, abbassare lo sguardo. Lo ascolti e ritrovi nelle sue parole la stessa concretezza dei suoi tackle, l’efficacia delle sue scivolate, la potenza dell’urlo liberatorio che dopo un gol gli faceva gonfiare sul collo l’emblematica 'vena di De Rossi', ma anche il calore e la solidità degli abbracci che non ha mai fatto mancare a un compagno in difficoltà. 

Daniele è passato un mese dal trionfo di Wembley e…

"E ancora ridiamo!"

Ma allora perché hai deciso di lasciare lo staff di Mancini e il gruppo azzurro?

"È stata una scelta difficile perché mi sono trovato splendidamente. Io ho dato forse un 1 per cento e loro in cambio mi hanno permesso di vivere un’esperienza indimenticabile. Sarò sempre debitore verso la Nazionale. Però ho chiaro cosa voglio fare: allenare. E per quanto possa sembrare strano, visto che ho solo 38 anni e non mi sono mai seduto in panchina, mi sento pronto. Continuare con la Nazionale, aspettando la prima panchina che si libera, non avrebbe senso e non sarebbe corretto verso la Federazione e verso Mancini che con me si è comportato in modo fantastico". 

Riavvolgiamo il nastro: come è nata la possibilità di entrare nel suo staff?

"Quando lasciai la Roma, il mister mi invitò a casa sua e mi offrì di diventare un suo collaboratore. Lo ringraziai, ma rifiutai perché avevo in testa un sogno: giocare con la maglia del Boca Juniors… Mi guardò come se fossi matto, ma mi lasciò una porta aperta: 'Anche il giorno prima che cominci l’Europeo, se avrai voglia di unirti a noi chiamami. Ci serve uno come te'".

Beh, la tua voglia l’hai dimostrata unendoti al gruppo senza percepire compenso. Un bel gesto…

"Avrei pagato io per fare questa esperienza. Tra Covid, corso allenatori a singhiozzo, patentino rinviato, avevo bisogno di iniziare". 

Primi pensieri?

"Mi sono detto: non devo fare troppo il freddo, cambiando il rapporto con giocatori che conosco da anni, ma neanche essere il compagnone di una volta. Sicuramente saranno bravi loro a non coinvolgermi e a non mettermi in difficoltà. Coverciano, pronti via: "Bella Daniè, l’hai portata la PlayStation?".

E meno male che puntavo sulla loro sensibilità (ride, ndr). Il timore più grande però era entrare in uno staff collaudato. Non volevo pensassero che fossi lì per farmi vedere, scalpitare o rubare spazi. Preoccupazioni inutili: i valori umani di questo gruppo sono così solidi che non esistono gelosie. C'è una tale armonia che mi sono sentito sempre libero di dire la mia. Giocatori e staff sono stati una cosa sola, ma quando 60 persone sembrano tutte belle e buone il merito principale non è di quelle 60 ma di una sola, quella che le guida". 

Iniziato il torneo avevi la sensazione che l’Italia potesse arrivare in fondo?

"Sì, per la qualità, la continuità e la coralità del gioco, la compattezza, l’identità forte e lo spirito di gruppo che altri non avevano e ci hanno permesso di affrontare tutti senza paura. Poi è chiaro che per arrivare ad alzare la Coppa ti deve anche dire bene ogni tanto. Successe anche a noi azzurri del 2006, perché se Francesco (Totti, ndr) non segna quel rigore all’ultimo minuto con l’Australia…". 

Qual è stato il momento di svolta?

"Beh, se contro l’Austria Arnautovic fosse partito 10 centimetri dietro, oggi forse non staremmo a raccontare questo trionfo. Quel gol annullato è stato l’attimo fuggente che abbiamo colto. Lì è scattato qualcosa".

E poi i rigori…

"La vita può cambiare con un solo tiro. Siamo gli eroi nel 2006 per un rigore avversario che ha preso la traversa interna. Non è accaduto nel 1994 per uno nostro calciato alto… Abbiamo vinto l’Europeo grazie ai rigori in semifinale e in finale. Però non è solo fortuna o come tirare una monetina. C’è studio, preparazione, abilità, precisione, freddezza, ci sono tante cose dietro un calcio di rigore". 

Per gli avversari c’è qualcosa anche davanti: un muro come Donnarumma…

"Per segnare a Gigio devi tirare benissimo, e spesso non basta. Oggi è un portiere senza limiti, può raggiungere tutto, compreso il Pallone d’oro. Governa la difesa, riprende il compagno se sbaglia e sta acquisendo le malizie e il carisma della coppia di killer che gli gioca davanti".

Parli di Bonucci e Chiellini…

"Sono due mostri. Quando giocavano con Barzagli, consideravo lui il più completo: un fenomeno. Tra Federer-Bonucci e Nadal-Chiellini, per me Barzagli era Djokovic, un mix perfetto. Pensavo che senza di lui e Buffon avrebbero sofferto, e invece… Sono affamati di vittorie e professionisti incredibili, con una conoscenza perfetta del proprio corpo. Si allenano e fanno prevenzione più di tutti: da sempre". 

Da allenatore quanto pensi sarà importante trasferire professionalità e mentalità?

"Tanto, ma ci sono teste di giocatori dentro le quali non entrerai mai. Puoi spingerli, spronarli, ma non ce la faranno mai ad essere come i Bonucci e i Chiellini. Ho avuto compagni a cui ripetevano mille volte di mangiare sano, poi andavano a casa e si facevano una birra con la crepe alla nutella. O di dormire di più e invece la sera uscivano lo stesso. Non li cambi, ti seguono dieci giorni poi mollano, perché pensano di poterne fare a meno. E da tecnico devi essere bravo anche a capirlo e trovare strade alternative per trarre il meglio da tutti in base a quello che possono darti. Poi quando stanno per smettere capiscono quanto sarebbe stato importante fare diversamente. E quanto conta alla fine per vincere". 

Ma vincere è l’unica cosa che conta?

"È una frase che non apprezzo. Non rispecchia quello che per me è lo sport. Se la Nazionale avesse perso ai rigori con l’Inghilterra avrebbe comunque lasciato un ricordo indelebile negli italiani. Il calcio è pieno di storie bellissime di chi alla fine non ha vinto. Ma di certo quello che pretenderò da tecnico è che i miei giocatori, da quando si svegliano a quando vanno a dormire, abbiano la convinzione e la voglia di vincere la domenica. Perché vincere non è l’unica cosa che conta, ma deve essere l’unico tuo obiettivo. Questa è per me la mentalità vincente". 

Gli abbracci tra Vialli e Mancini, Cristante che accarezza Spinazzola a terra, tu che lo porti in braccio ad esultare… Fotogrammi da brividi.

“Vialli ha trasmesso tanto a tutti, è un lottatore, un uomo onesto che quando parla emoziona. L’infortunio di Spinazzola ha dato al gruppo una motivazione in più: regalargli la Coppa”.

Gli inglesi che si sono tolti la medaglia durante la premiazione sono stati tacciati di antisportività.

"Non so fingere: ho trovato questa polemica alimentata da noi italiani patetica. Ho visto decine di finali in cui chi ha perso si è levato la medaglia. Sono rimasti lì 20 minuti, hanno visto noi alzare la coppa a casa loro, qualcuno ha pure applaudito. Che dovevano fare di più? Abbiamo vinto, siamo stati i più belli, gli abbiamo urlato in faccia il nostro orgoglio, non facciamogli pure la morale. Che non è nel nostro Dna, visto che non siamo degli stinchi di santo. Hanno fischiato il nostro inno? Brutto, certo. Ma quante volte i nostri tifosi hanno fischiato quello altrui e Buffon doveva chiamare l’applauso? Sono stato un buon giocatore, ma se serviva anche un figlio di p…. Chiellini lo ami se sta nella tua squadra, altrimenti lo odi. Io da avversario in certe partite gli ho fatto pure qualche entrata dura. Noi siamo questi: azzurri, non principi azzurri". 

Polemiche anche per i vostri festeggiamenti sul pullman scoperto a Roma e le norme anti Covid.

"Il problema dell’innalzamento dei contagi non credo sia dipeso da quel tratto di strada, dopo aver visto giorni di feste nelle piazze e migliaia di persone davanti ai maxischermi durante tutto l’Europeo. Se polso fermo doveva esserci, era giusto mostrarlo anche prima. Gli enti preposti dovevano organizzare meglio il nostro rientro e l’inevitabile accoglienza. Detto questo, non è neanche normale che se il ministero dice di no, poi cambi idea perché i calciatori chiedono un’altra cosa". 

Nel tuo riscaldamento con i giocatori azzurri prima della finale e nella festa negli spogliatoi quando ti sei buttato sul tavolo, c’è stato l’ultimo passaggio tra il calciatore e il tecnico De Rossi?

"Credo che questa esperienza mi sia servita per attraversare metaforicamente una porta. Il riscaldamento l’ho fatto perché allenavo i portieri e altrimenti mi sarei stirato, ma mi sarebbe piaciuto da morire giocare la finale. Però mi è piaciuto altrettanto leggere la partita, gestendo le emozioni, in tribuna in giacca e cravatta. Quel tuffo sul tavolo è stato un riconoscimento per quello che i ragazzi avevano fatto. In certi momenti reprimere la gioia non ha senso. Ognuno la vive a modo suo: c’è chi piange, chi urla, chi si butta su un tavolo".

Quanto vorresti che restasse del De Rossi calciatore nel De Rossi allenatore?

"La percentuale del calciatore nel tempo andrà sempre più diminuendo, ma non vorrei perderla del tutto. Ricordare cosa si prova in certi momenti prima, durante e dopo le partite credo sia un valore aggiunto per capire i giocatori e creare la giusta empatia. Perché il calcio non è solo filosofia e libri di schemi, ma anima ed emozioni, stress e motivazioni". 

Però Arrigo Sacchi diceva: per essere un grande fantino non bisogna essere stato un cavallo.

"I grandi maestri come lui si ascoltano, non si contraddicono. Sacchi è tra i pochi ad aver cambiato il gioco del calcio e ha vinto tutto senza una carriera da giocatore alle spalle. Ma ritengo che averla avuta, pur non essendo indispensabile, aiuti a comprendere la psicologia di un calciatore e capire come e quando dire le cose. O quando è il caso di fermarsi".

Poter allenare ex compagni è un vantaggio o un rischio?

"Dipende dalla tua personalità e dalla loro intelligenza. Possono aiutarti se non pretendono un trattamento di favore. Non è un problema se qualcuno mi chiama Daniele. Al Boca tutti chiamavano il mister Gustavo. Basta che non manchi mai il rispetto. Con i giocatori puoi essere più o meno amico, l’importante è essere sempre chiaro e onesto: se metti una maschera, se sei falso, ti scoprono subito ed è finita". 

Cosa ti lascia questa esperienza con Mancini?

"Tantissimo. A volte in giro c'è un po' di "fenomenite". C'è chi parla di calcio come se fosse una cosa per scienziati. Mentre i maestri veri, come Mancio, lo semplificano. Riconoscere la qualità dei giocatori, utilizzarli nel proprio ruolo, metterli a proprio agio a livello umano, allenarli bene, saper preparare la partita evidenziando i punti deboli degli avversari e i punti forti tuoi: il calcio alla fine è questo. Poi certo c’è qualcuno che innova ed è più bravo di un altro. Io proverò a metterci del mio, ma quelli che hanno stravolto il calcio si contano sulle dita di una mano".

E allora mister De Rossi, qual è il suo calcio?

"Alt. Quando giocavo, sentire un allenatore che parlava del "suo" calcio già mi urtava. È facile rispondere che amo una squadra offensiva, votata all’attacco, ma che rispetti gli equilibri. Ma lo possono dire tutti. Il mio calcio è libero, senza etichette. Deve esserci il giusto mix tra le idee che uno ha, la qualità della rosa, gli obiettivi da raggiungere, la conoscenza del club, la sua storia e il suo Dna che non va tradito. Rispettando le radici e la tifoseria. Ci sono club di lotta e altri di governo. Non c’è il mio calcio, ma quello che credo sia giusto proporre in base a tante componenti. Mi piace costruire il gioco dal basso, ma se ho un portiere con i piedi fucilati o due centrali tecnicamente inadatti, cerco alternative. A meno che non sei l’allenatore del Psg e ti fai comprare pure Messi…". 

Molti tecnici oggi sono diventati maestri di comunicazione. Spesso un po’ furbetta…

"Io non devo vendere nulla, non amo regalare frasi a effetto. Non dirò che la prossima squadra è quella che sognavo da bambino. E quella del mio cuore già si conosce. Certamente darò tutto me stesso per il club che mi sceglierà, ma non dirò proverbi milanesi se andrò a Milano o citerò Totò a Napoli. Le trovo paraculate che lasciano il tempo che trovano".

Sapresti formare l’allenatore perfetto con le caratteristiche di quelli che hai avuto?

"Farei torto a qualcuno. Tra Roma e Nazionale ne ho avuti tanti in momenti diversi della mia carriera. Avere a 18 anni Capello lo augurerei a qualsiasi ragazzo. Il primo Spalletti è stato geniale. Luis Enrique proponeva un calcio nuovo e umanamente mi ha dato tanto. Conte è un martello ma cosa vuoi dire a uno che dovunque va vince il campionato? Con Zeman non mi sono trovato bene, ma il suo gioco offensivo era spettacolare. Ranieri e Di Francesco mi hanno fatto sognare scudetto e Champions League". 

Quanto mi dai se non ti chiedo anch’io quanto ti piacerebbe allenare la Roma?

"Nulla, perché ti rispondo senza problemi… Tutti sanno cosa è stata e sarà sempre la Roma per me: una seconda pelle, un amore appassionato e puro. Certo che mi piacerebbe allenarla, quando sarò pronto e me lo sarò guadagnato per il mio valore da tecnico e non per il mio passato da calciatore. Credo che accadrà un giorno. Ma è un desiderio, non un’ossessione. Ora voglio fare le mie esperienze in Italia o all’estero". 

I tifosi ti avrebbero voluto come vice Mourinho.

"Due minuti dopo l’annuncio del suo arrivo, il mio telefono è stato invaso di messaggi: 'Sarai tu il vice…'. Era il desiderio della gente, per la quale io sono come un fratello. Ma a chiunque sostiene che Mourinho potesse avere bisogno di me consiglio di andare su Wikipedia e vedere tutto quello che ha vinto. Ecco, vi assicuro che l’ha vinto senza di me…". 

Cosa potrà dare lo Special One alla Roma?

"Ancora prima di arrivare aveva già dato tanto. Aspettative, sogno, entusiasmo. Quello di cui si ciba ogni tifoso. Dopo l’addio di Totti e il mio, trovare una nuova identificazione era una necessità forte del tifoso della Roma".

La gente sognava anche il ritorno di Totti.

"Mi sembra sereno e soddisfatto del suo nuovo ruolo di agente, che gli permette anche di godersi la famiglia. Ma spero anch’io di rivederlo un giorno nella Roma. Invece di ripetere che non era pronto, che avrebbe dovuto studiare, io credo che Francesco avrebbe meritato una vera chance come dirigente, perché lui sa tanto di calcio. Non essere valorizzato e considerato lo aveva spento e deluso. Mi faceva male vederlo così". 

Da Allegri a Spalletti, da Mourinho a Sarri, da inzaghi a Pioli fino a Gasperini… Che sfide in panchina quest’anno.

"Ci aspettano non solo partite ma anche conferenze stampa pirotecniche. Sono tutti affamati di vittorie o di rivincite, peccato non ci sia Conte, forse il più agonista di tutti".

Chi parte in pole?

"La Juve, come lo scorso anno d'altra parte. L'Inter ha perso tre pezzi da novanta, sarà dura ripetersi. Il Milan proseguirà sul solco tracciato. L'Atalanta è la storia più bella del calcio italiano degli ultimi dieci anni, merita di vincere qualcosa. Il Napoli è l'ideale per Spalletti: può sognare. Sarri farà giocare bene la Lazio. E Mourinho può essere una bomba atomica a Roma. Ci sarà da divertirsi". 

E in fascia media?

"Sono curioso di vedere la Fiorentina di Italiano. Il Cagliari ha una rosa importante, il Bologna di Sinisa darà fastidio a tutti, Juric riporterà il Torino dove merita. Lo Spezia di Thiago Motta potrebbe stupire".

Appesi gli scarpini, sei riuscito ad apprezzare quegli aspetti della vita che la carriera toglie un po’?

"La straordinaria esperienza umana e di vita al Boca Juniors è terminata nel gennaio del 2020. Avevo in programma viaggi, partite da vedere in Italia e all’estero, visite ad allenatori. Sognavo di andare in India affascinato da Shantaram, il libro più bello che abbia mai letto e che mi riporta alla mente uno dei più cari amici che ho avuto nel calcio: Davide Astori, che in India c’è stato. Ma due mesi dopo aver smesso di giocare è scoppiato il Covid e ci siamo ritrovati tutti chiusi in casa".

Come hai vissuto il lockdown?

"All’inizio in modo traumatico, poi mi ha fatto riscoprire quanto sia importante e unico stare con la propria famiglia. Ho fatto a tempo pieno il marito di Sarah e il papà di Gaia (16 anni), Olivia (7) e Noah (5). Certo, so di parlare da privilegiato: non avevo problemi di spazi o economici, l’unica attenzione era non contrarre il virus". 

Siete una famiglia molto riservata.

"Sì da un punto di vista mediatico, ma poi ci piace vivere in mezzo alla gente. Ho scelto una casa in pieno centro, non ci siamo chiusi in una villa separati dal mondo. Mi affaccio sulla bellezza di Castel Sant’Angelo, ma viviamo anche la Roma 'stradarola' più autentica e verace".

Quanto ti ha cambiato l’incontro con tua moglie, l’attrice Sarah Felberbaum?

"Mi ha aperto un mondo diverso, regalandomi una multiculturalità che fa parte della storia della sua straordinaria famiglia. Abbiamo gli stessi ideali e valori, condivido con lei la passione per i viaggi, i libri, l’arte e il cinema che è la sua professione. È più riflessiva di me e ha saputo gestire benissimo il suo triplo ruolo di madre, moglie e attrice. Pur avendo accanto un uomo famoso che avrebbe potuto offrirle dei vantaggi o conoscenze, non mi ha mai fatto mezza richiesta. Ha una grande pulizia e onestà intellettuale. Sarah non è mai pressante, sa lasciarmi libero, capire quando devo decomprimere. Grazie a lei sono cresciuto come uomo e marito. Non so se io ho migliorato lei, di certo lei ha migliorato me".

Hai paura che da allenatore possa portarti lo stress a casa?

"Un po' sì. Ho visto tanti tecnici essere sopraffatti dalla pressione del lavoro. Ma anche tanti che quando staccano, ci riescono. Spero di non dimenticare mai che la vita è una e va goduta in tutti i suoi aspetti. Dare il cento per cento in tante cose e non lasciare che una sola cosa diventi il tuo cento per cento".

Alla fine il Covid ha colpito anche te, in Nazionale.

"L'ho preso in Bulgaria. Sono stato subito male con febbre alta, ma l’ho sottovalutato. Avevo letto che alla mia età, 37 anni, al massimo avevi tre giorni di febbre. Invece è stato un crescendo. Ho vissuto tre fasi. La prima, di malessere vero: tosse tutto il giorno e nausea. Spossante. La seconda, della paura: in ospedale allo Spallanzani, dopo aver preso la saturazione che misurava 87 i dottori, che non smetterò mai di ringraziare, hanno cambiato faccia… Sono stato quattro giorni sotto ossigeno. La terza fase è stata quella dell’attesa: finiti i sintomi, sono rimasto 18 giorni positivo, senza poter uscire".

Come passavi il tempo?

"Guardando il mare dalla finestra… Mi ero trasferito in isolamento a Ostia dove sono nato. Sono tornato spesso con la mente a quando ero ragazzino. La mia infanzia, mio padre che quando rompevo mi diceva: prendi il pallone e vai a giocare. Oggi invece ai nostri figli per farli stare tranquilli diamo l’iPad. Altri tempi. Sono cresciuto per strada e mi è servito. Andavo a scuola alla Passeroni alle medie e passavo per la pineta per andare a casa di nonna. Oggi avrei paura a fare quel tragitto. Ho visto quartieri disagiati, palazzi diroccati. Chi ha avuto tanto dalla vita deve restituire qualcosa. Voglio fare qualcosa per Ostia: magari permettere ai ragazzini di fare sport in una zona pulita e non pericolosa". 

Quando eri in ospedale è girato ed è stato pubblicato anche un tuo video con la maschera di ossigeno.

"L’avevo mandato agli amici più stretti per rassicurarli, uno di loro l’ha girato in una chat di famiglia e da lì è uscito. L’inoltro è l’opzione peggiore di WhatsApp, andrebbe eliminato. Però anche i giornali e i siti dovrebbero fermarsi prima di pubblicare un materiale riservato senza la volontà del diretto interessato. Il dolore spettacolarizzato e questa morbosità per incidenti, infortuni, malattie, non la condividerò mai. Disumanizza la società". 

Impazza la protesta dei no vax: che ne pensi?

"Sono vaccinato, mai stato contro. Posso capire l’anziano che ha paura delle reazioni, ma le manifestazioni in piazza di chi parla di complotti e nega il Covid, le ritengo pura follia. Avere intorno gente che ragiona così mi spaventa. Il vaccino è l’unica strada per tornare ad avere una vita normale. Gli obblighi e le imposizioni mi fanno schifo sempre, la democrazia non si tocca, ma la tua libertà di scegliere non può intaccare la mia salute".

Dopo l’Europeo anche le Olimpiadi ci hanno regalato emozioni fortissime.

"Le ho sempre seguite e le ho anche disputate vincendo un bronzo ad Atene nel 2004. So cosa significano per gli atleti. Da Jacobs a Busà mi hanno esaltato tutti. Se la guida di Giovanni Malagò continuerà a essere così brillante chi non ha vinto a Tokyo lo farà a Parigi. Spero che dopo questi Giochi anche noi del calcio sapremo dare la giusta importanza a questa manifestazione unica". 

Voltati indietro e scegli un fotogramma della tua carriera.

"Io e mio padre in macchina mentre andiamo a Trigoria il giorno dopo il mio primo gol in Serie A. Mi arriva sul telefono un video in cui parlano del giovane De Rossi a 90' minuto, che per me era sempre stato un appuntamento in tv imperdibile. È stato uno dei momenti più belli della mia vita".

E uno che vorresti vivere in futuro?

"Io e Lele Mancini che sarà il mio vice con un trofeo importante in mano a festeggiare. È il mio migliore amico, con lui ho condiviso tutta la carriera nelle giovanili della Roma. È stato meno fortunato di me, vorrei regalargli una soddisfazione altissima, che da giocatore non si è mai tolto e si sarebbe meritato. Magari qui, a casa nostra… Dove l’aspettano da tanto tempo". 

La cosa di cui vai più orgoglioso?

"Ho sempre difeso i miei compagni di squadra. Mai una volta ho girato loro le spalle. Spero di essere bravo a fare la stessa cosa con i miei giocatori".

Carlo Laudisa per gazzetta.it il 14 febbraio 2021. A Crotone sono ore di riflessione. Per la prima volta sta prendendo corpo l'idea di un cambio in panchina se contro il Sassuolo dovesse arrivare un'altra sconfitta. Ci sono stati dei contatti con Daniele De Rossi e il suo entourage. L'ex romanista è stato accostato ad altri club in questi mesi ma (per un motivo o per l'altro) gli sono stati preferiti tecnici più esperti. Invece la famiglia Vrenna sta pensando di affidargli un progetto pluriennale: per aprire un nuovo ciclo. Sinora Stroppa ha conservato il posto anche per i meriti acquisiti nella passata stagione, con una promozione conquistata con grande disinvoltura.

Chiara Zucchelli per gazzetta.it il 14 febbraio 2021. Daniele De Rossi a 360 gradi: dal suo presente, con il racconto (a tratti anche divertente) del corso da allenatori che sta seguendo, al presente della Roma, con Fonseca che “non va messo in discussione, anche se capisco che ci vuole pure ambizione”, al passato, con il rapporto con Totti: “Io magari ero leader nello spogliatoio, parlavo, ma lui lo era in campo. Non si è mai nascosto in 25 anni quando il pallone scottava”. E poi, ancora: “Pellegrini sta diventando un leader vero, non è un cagasotto”, Villar e Ibanez che gli “piacciono molto, hanno un grande futuro” e poi l’ipotesi Fiorentina: “Mi sarebbe piaciuto partire da una piazza calda, ma non si poteva a livello legale”. L’ex numero 16 della Roma è intervenuto per oltre un’ora alla Bobo Tv, su Twitch, ospite di Vieri e dei loro reciproci amici Cassano, Adani e Ventola. Il mattatore è stato Antonio, tanto che De Rossi ha detto: “Ho più ansia adesso di quando sono andato a Propaganda a parlare di politica, vaccini e cose delicate”. È stato proprio Cassano a far sbottonare di più De Rossi sulla Roma, con Daniele che ha fatto un discorso di grande lucidità: “Fonseca è quarto e guardando il calendario magari tra due settimane sarà pure più su. Metterlo in discussione è follia, ha vissuto momenti di alti e bassi, contro le più forti però la Roma fa fatica, è innegabile. Ma la società è dalla sua parte, certamente non ci si può accontentare di perdere degnamente come è successo sabato. Visto il gioco e i risultati è in piena linea, forse qualcosa in più”. Per De Rossi, però, la Roma non è una squadra da sesto o settimo posto: “Non credo sia inferiore a Lazio, Atalanta e Napoli, forse ad inizio stagione non l’avrei messa dietro neppure al Milan. Poi c’è l’ambizione: noi, ai tempi nostri, non vincevamo niente, ma quando arrivavamo secondi ci dava fastidio. Lo scorso anno - racconta ancora De Rossi - parlai con un dirigente e mi disse che era felicissimo, ma la Roma era dietro al Cagliari. Dire che se sei quinto va per forza tutto bene non è giusto, ma è folle dire che se sei terzo che va tutto male”. La piazza, però, è sempre in tumulto: “È normale che si voglia vincere, la storia dell’ambiente romano è ingigantita: è tosta, ma vivibile”. Sui singoli, parole al miele per Pellegrini: “Sta facendo il salto di qualità, da centrocampista fa partite meno appariscenti, ma tanto essenziali. Si sta ritagliando questo spazio da leader, sia da come parla, sia da come gioca. Non è un cagasotto, dopo il derby si è messo la fascia di capitano della Roma con personalità”.

DA CAPELLO AL BOCA —   Altre pillole del De Rossi pensiero: “Capello e Lippi sono stati importanti, Gattuso non pensavo diventasse così bravo, è uno dei migliori che c’è, Pirlo non parlava con nessuno, solo con me che stavo in camera con lui, Spalletti quello che mi ha insegnato di più, è uno dei migliori allenatori, Luis Enrique c’era entrato dentro, mi è dispiaciuto tanto che sia andato via e non glielo perdono. Al corso per allenatori mi diverto molto, con gli altri abbiamo creato anche una chat, diciamo di scienziati nucleari (ride, ndr) e vorrei partire con l’idea di calcio di Guardiola, ma non è che mi devo inventare la bicicletta con gli sportelli. Il Boca? Esperienza fantastica, meravigliosa. In tanti anni alla Roma ho pagato tutte le maglie che regalavo, poco tempo fa ho chiesto al Boca 60 maglie e l’Iban per fare il bonifico. Me le hanno volute regalare loro dicendo: "Per noi è un onore regalarti le nostre maglie", quelle del Boca me le chiedono da tutto il mondo. Ma io sono romanista, i brividi che mi dà la Roma non me li dà nessuno”.

IL CAMPIONATO —   Sul campionato De Rossi vede bene l’Inter e di Conte: “Quando è finita l’esperienza in Nazionale piangevamo tutti per quanto ci era entrato dentro. Lui fa così: rischia di vincere anche quest’anno, lo stimo tanto a livello umano e tattico, anche se è diverso da Guardiola io lo stimo. Sbrocca e fa casino quando perde, ma è un uomo leale. Una volta mi ha detto: 'Se continui a giocare così non ti porto all’Europeo'. Vorrei andare a trovarlo per parlarci un po’, lui parla solo di vittorie e crea una struttura mentale ad ogni calciatore. È uno - conclude De Rossi - che sa come si fa”.

Paolo Maldini. Cesare, Paolo e Daniel: i Maldini e le altre "dinastie" della serie A da Mazzola a Chiesa. La Repubblica il 26 settembre 2021. Daniel Maldini ha festeggiato l'esordio da titolare in serie A con un gol nella vittoria 2-1 del Milan contro lo Spezia. La famiglia Maldini diventa così la prima ad attraversare tre generazioni del nostro campionato. Il nonno Cesare & ndash; che esordì in A nel 1953 con la Triestina prima di arrivare al Milan - e il padre Paolo sono stati due bandiere del club rossonero, con cui hanno vinto tutto in Italia e in Europa. Altra famiglia importante per il calcio italiano i Mazzola. Valentino è stato il capitano del Grande Torino, squadra dominatrice del nostro calcio negli anni Quaranta prima della tragedia di Superga. I suoi due figli, Sandro e Ferruccio, sono arrivati in A. Sandro è diventato uno dei simboli dell'Inter, con cui ha giocato per 17 stagioni tra gli anni Sessanta e Settanta. Oggi i figli d'arte che vanno in gol sono tanti. Il più famoso è sicuramente Federico Chiesa. Scopriamo insieme chi segna nel nome del padre. A cura di Francesco Cofano.

Da nonno Cesare al giovane centrocampista offensivo. Dinastia Maldini, Daniel in gol al debutto da titolare con il Milan: la gioia di papà Paolo in tribuna. Redazione su Il Riformista il 25 Settembre 2021. Compirà 20 anni il prossimo 11 ottobre e oggi, all’esordio da titolare in serie A, Daniel Maldini è subito andato in gol nella vittoria per 2-1 del Milan in casa dello Spezia. La dinastia Maldini, partita con nonno Cesare negli anni ’50, con la maglia rossonera continua. Dodici anni dopo l’addio di papà Paolo, il figlio Daniel ha firmato al 3′ del secondo tempo la rete che sblocca il match contro i liguri con un colpo di testa su cross di Kalulu. Un gol storico che ha fatto esultare lo stesso genitore, diretto tecnico del Milan, presente in tribuna allo stadio Alberto Picco. Rispetto a Cesare e Paolo Maldini, di ruolo difensori, Daniel è un centrocampista offensivo, e in questa stagione ha già collezionato tre presenze dopo l’esordio in serie A avvenuto il 2 febbraio 2020. Daniel ha esordito da titolare in serie A esattamente 12 anni, 3 mesi e 25 giorni dall’ultima volta con la casacca rossonera del padre Paolo, il 31 maggio del 2009, in occasione della vittoria del Milan a Firenze, 24 anni dopo l’esordio a Udine (20 gennaio 1985). “Daniel la cosa più importante è che ha talento – ha commentato Stefano Pioli, tecnico del Milan, a fine partita -. Ha tecnica, ha gioco e si sa inserire. Parliamo di un ragazzo che la prima partita da titolare l’aveva fatta un anno fa nel preliminare, ha lavorato tanto, oggi ha giocato nel suo ruolo da trequarti. Credo che possa solo crescere e che abbia le qualità per essere un giocatore che ci potrà dare soddisfazioni in futuro”.

Stefano Cantalupi per gazzetta.it il 25 settembre 2021. Dodici anni, tre mesi e 25 giorni dopo, un Maldini torna titolare in Serie A. E lo fa segnando un gol. Che favola, quella di Daniel Maldini. Daniel si è presentato così, raccogliendo la chance data da mister Stefano Pioli con un gol di testa a inizio secondo tempo. Da attaccante vero, a sbloccare una partita chiusa e complicata (prima di uscire, al 59', al suo posto Bennacer). Sorrisi, applausi ed emozione dalla tribuna, con papà Paolo visibilmente commosso. Incredulo e felice. Daniel Maldini, 19 anni, attaccante. Quanto di più lontano dal padre e da nonno Cesare, guardando alle caratteristiche tecniche. L'emozione dello "starting eleven" in una gara ufficiale Daniel l'aveva già provata: 10 dicembre 2020, Sparta Praga-Milan, Europa League. Ma quel match contava poco, i rossoneri avevano già acquisito la certezza del passaggio del turno e il tecnico aveva varato un turnover abbastanza prevedibile. Daniel giocò sul lato destro del centrocampo, mentre stavolta è stato l'uomo "sotto punta", come si dice adesso.

SEMPRE ROSSONERO—   Daniel è un prodotto del settore giovanile rossonero: a differenza del fratello Christian (difensore, si sono affrontati quest'estate nell'amichevole Milan-Pro Sesto) è sempre rimasto alla base, affinando le sue qualità in Primavera e poi da aggregato ai "grandi". Lui, Calabria, Plizzari e Gabbia sono i soli giocatori cresciuti in casa attualmente in prima squadra, dettaglio utile quando si compila la lista Uefa. In tanti si sono chiesti se non fosse meglio andare a maturare altrove, come è toccato a Colombo e ad altri giovani talenti rossoneri: così non è stato, almeno per ora. Amichevoli, qualche spezzone finale di gara anche su palcoscenici importanti come Anfield e l'Allianz Stadium. Fino a oggi, fino alla giornata dei sogni. Ha fatto bene il Milan a non mandarlo in prestito.

Franco Baresi. Gianluca Veneziani per “Libero quotidiano” il 9 settembre 2021. «Sei è un numero perfetto di per sé, e non perché Dio ha creato il mondo in sei giorni; piuttosto è vero il contrario. Dio ha creato il mondo in sei giorni perché questo numero è perfetto», scriveva Sant' Agostino ne La città di Dio. Chissà che il grande filosofo non si riferisse, con 17 secoli di anticipo, a Franco Baresi, per tutti il Numero 6, come la cifra sulla maglia da lui indossata in 20 anni di Milan e poi ritirata dal club, essendo irripetibile colui che la indossò. E come il nome dell'evento al quale lo storico capitano rossonero ha partecipato ieri al Festivaletteratura di Mantova, presentando in compagnia di Federico Buffa il suo libro autobiografico, Libero di sognare, in uscita a fine settembre per Feltrinelli. Il volume è un viaggio dall'infanzia alla consacrazione, dai primi calci tirati nell'aia del suo casale in campagna e in oratorio negli anni 60, «quando giocavamo con un pallone di cuoio lucidato con la cotenna di maiale», fino ai più importanti stadi del mondo, in un percorso che lo ha portato dall'essere un piscinin al diventare Kaiser Franz (soprannome in onore di Beckenbauer). Un cammino aspro e difficile, anzi Travagliato, com' è il nome del suo paese di nascita: rimasto orfano di entrambi i genitori a 14 anni, quindi scartato dall'Inter, Franco ebbe il suo riscatto entrando nelle giovanili rossonere. «Superare quel provino fu un'ancora di salvezza». Da allora cominciò la sua seconda vita piena di trionfi, in un ruolo da ultimo uomo, quello di libero, che ne fece il primo, il più grande difensore del mondo. E lo proiettò in alto, come la sua mano destra levata a segnalare il fuorigioco, ai tempi in cui non esisteva il Var. Quegli anni di gloria cominciarono con l'avvento di Arrigo Sacchi sulla panchina del Milan. «L'anno prima il suo Parma ci aveva battuti», racconta Baresi, «ma non avevo la sensazione che il suo gioco fosse così avanzato, anzi non sapevo neanche chi fosse Sacchi. Berlusconi però ci vide lontano e capì che era l'uomo giusto». Quel Berlusconi che, presentandosi alla squadra, «ci disse che voleva sia vincere che emozionare, chiedeva un gioco offensivo, veloce, spettacolare. Io e i miei compagni ci guardammo negli occhi ci dicemmo: "Speriamo bene..."». Nonostante i numerosi trionfi, tutta la carriera di Baresi è stata segnata da intoppi, passaggi a vuoto, dalle retrocessioni in B alla malattia al sangue che lo costrinse per un periodo sulla sedia a rotelle fino a quell'infortunio al menisco alla seconda partita dei Mondiali di Usa '94, cui seguì un recupero miracoloso in 25 giorni. «Ancora il giorno prima della finale Sacchi aveva dubbi se farmi giocare. Mi chiese se me la sentissi...». Baresi disputò una delle sue migliori partite di sempre nel caldo infernale di Pasadena, prima dell'errore dal dischetto fatale, insieme a quelli di Massaro e Baggio, per gli azzurri. Da lì le sue lacrime a dirotto: «Quel pianto fu una liberazione», racconta. «Avevo raggiunto una finale e fatto tutto quello che desideravo nella vita. Non avevo più paura di sentirmi debole, anzi mi sentivo forte, perché avevo dato tutto». La sua forza sul campo si può riassumere in un'attitudine "kantiana" a «intuire il tempo e lo spazio di gioco prima degli altri». Da questa intuizione innata derivava la sua velocità: «Non ero lento» dice schernendosi, «qualche recupero l'ho fatto...». Nonché la sua unicità: «Un erede di Baresi?», confida ai taccuini di Libero, «No, non esiste». Ma questa forza, fatta di gesti e non di parole, riassume anche la sua umanità. Quella che lo fa esplodere in un nuovo pianto liberatorio alla fine della conferenza. Nella sua commozione finale sta il Franco Baresi simbolo di un calcio romantico, legato al Mito della bandiera, come appartenenza eterna a una squadra ma anche come patrimonio di un'intera nazione. Una unicità che portò lo speaker di San Siro, in occasione del suo addio al calcio giocato un quarto di secolo fa, a urlare: «Baresi 6 per sempre».

Giuseppe «Beppe» Baresi. "Sognavo l'agricoltura e una vita da mediano". L'ex nerazzurro oggi talent scout: "Come mio fratello Franco iniziai sull'aia, ma volevo fare il contadino. Sognavo l'agricoltura e una vita da mediano". Roberto Perrone - Sab, 13/03/2021 - su Il Giornale. L'altra faccia dei Baresi. L'imprinting è quello, però in questo caso il sangue è nerazzurro. Giuseppe «Beppe» Baresi, Baresi I, è nato il 7 febbraio 1958 a Travagliato. All'Inter 1977-1992, 559 presenze e 13 gol, scudetti 2 (1979-80, 1988-89), Coppa Italia 2 (1978, 1982), una Supercoppa Italiana (1990) una Coppa Uefa (1991).

Tra prima e dopo, una vita nerazzurra.

Però anche lei, come Franco, all'inizio era milanista.

«A quei tempi tutti eravamo ammaliati da Rivera. Poi il sangue è cambiato velocemente».

Primi calci a un pallone?

«Sull'aia. Vivevamo in una tipica cascina lombarda con un cortile interno, duro. Ho cominciato a inseguire un pallone lì, spesso a piedi nudi perché non c'erano molte scarpe da rovinare a quei tempi. C'erano sei famiglie, quelle di mio padre e dei suoi tre fratelli, due in affitto. Aspettavamo che tagliassero l'erba per il fieno, così avevamo due giorni in cui potevamo giocare sui prati. Poi l'erba ricresceva».

Lei, a parte la destinazione, stesso percorso di suo fratello.

«Eh sì, aia, prati, oratorio, Inter. All'oratorio giocavo centrocampista, Venturi all'Inter mi mutò in terzino sinistro. Sono partito con un anno d'anticipo su mio fratello destinazione il convitto di Famagosta. Lì legai con Bini, che era più grande di me e con Pancheri che era del mio paese».

Una volta disse che avrebbe voluto fare l'agricoltore.

«Ci ho pensato fino a quando non ho capito che il calciatore era diventato un mestiere. A me è sempre piaciuta la campagna, fin da piccolo aiutavo. Alla fine la campagna l'abbiamo dovuta lasciare, mio papà è stato male. Se avessi guadagnato prima, avrei comprato i terreni. Mi piaceva, anche se l'agricoltore è un lavoro faticoso. Ricordo che mio padre si alzava alle cinque e non sapeva quando finiva. Meglio il giocatore». (ride)

Tutti mi hanno raccontato che l'inizio a Milano non è stato facile.

«Si figuri per me che abitavo in campagna e il mio mondo erano cinquanta persone. Mi sono chiesto: vado o non vado? Mi convinsero. Avevo un carattere chiuso, ero taciturno, poco propenso ad aprirmi».

Poi ci si abitua, si cresce, si esordisce in serie A.

«In campionato a Vicenza, 18 settembre 1977. Mi ricordo una grande emozione, però non sono mai stato apprensivo. La verità? Non avrei mai immaginato questa carriera, sono partito da casa senza pensare a diventare professionista, ma ho sfruttato l'occasione».

A promuoverla fu Bersellini.

«Una grande persona. Lo chiamavano "il sergente di ferro". Pretendeva molto e stabiliva regole, chiedeva attenzione e impegno. È stato uno dei primi a cambiare metodo di allenamento, arrivò con il preparatore, figura non ancora così diffusa».

Il mitico Armando Onesti, detto «il sarto».

«Era sarto per davvero, faceva anche vestiti su misura, era più di un hobby. Un altro calcio, quello, gli amici venivano in ritiro e giocavamo a carte. C'erano contatti diretti con tifosi e giornalisti. Ricordo Alberto Zardin, informatissimo cronista della Gazzetta».

Grazie del ricordo, era un amico. Gli '80, i migliori del nostro calcio.

«In Italia prima o poi arrivano tutti i grandi. Da Maradona a Zico, da Platini a Van Basten, da Falcao a Matthäus».

E lei era il "mastino" chiamato ad annullare il migliore.

«Limitare, diciamo. Marcavo le mezze punte, i fantasisti che decidevano le partite. Da Rivera ad Antognoni, a Maradona, a Platini, a Zico. Ma questi erano difficili da prendere, invece ricordo grandi duelli fisici con Causio, Claudio Sala e Novellino. Vere battaglie, ma con rispetto».

Per un paio d'anni ha vissuto con suo fratello.

«Una convivenza tranquilla, tra noi c'è sempre stato un buon rapporto. Io facevo la mia vita e lui la sua, ci vedevamo quando si andava a letto. La settimana del derby si discuteva, si facevano pronostici, si scommetteva qualche cena. Il primo derby me lo ricordo bene, marcavo Rivera, il primo grande campione da limitare. Il secondo anno affrontai mio fratello. Ora sarebbe un bel trambusto mediatico con due fratelli contro. Ma allora era tutto meno visibile».

Cosa faceva a Milano un ragazzo-calciatore all'inizio degli '80?

«Cinema, amici, qualche locale. Non troppi, anche se il periodo che li frequentavo di più ha coinciso con un calo del rendimento. In azzurro sono stato agli Europei '80, al Mundialito '81 ma niente Mondiali '82».

Ha fatto il malandrino?

«Malandrino no. Ma, inconsciamente, ho passato un momento senza essere sul pezzo e nel calcio bisogna starci sempre. Quando pensi "sono forte, sono bravo, non ho bisogno di niente", gli altri ti passano davanti».

Il miglior compagno di strada?

«All'inizio Oriali, nella seconda parte, Bergomi. Con lo "Zio" ora giochiamo a padel».

Gli allenatori cardine della sua carriera?

«Bersellini è stato quasi un padre per me, un punto di riferimento. A Trapattoni sono grato perché mi ha aiutato a smettere, mi ha fatto capire che a un certo punto bisogna fare altro. Quando mi lasciava fuori mi spiegava il perché».

Dopo, ha seguito il settore giovanile ed è stato il secondo di Mourinho nei due anni d'oro. Com'era?

«Numero 1 nella gestione delle persone, bravissimo a trasmettere le sue idee. Facile entrare in sintonia con lui. Poi i risultati aiutano".

C'è qualcosa che non rifarebbe?

«Direi di no, ho avuto più di quanto credevo. Non cancellerei nulla, neanche gli sbagli, fanno parte di un percorso».

Sua figlia Regina gioca a calcio.

«All'inizio, sia io che mia moglie abbiamo cercato di sviarla. Lei era brava in tutti gli sport: tennis, cavallo, nuoto. Ma la sua passione era il calcio e alla fine abbiamo ceduto».

Ora, per l'Inter, fa lo scout. Come cambia il calcio?

«Guardo partite di tutto il mondo. Adesso ci sono un po' meno campioni nel senso pieno della parola, più atleti-calciatori. Qualche campione, però, si trova sempre».

Christian Panucci. Dagospia il 25 febbraio 2021. Da I Lunatici Radio2. Christian Panucci è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. L'ex difensore di Milan, Real Madrid, Genoa, Chelsea, Inter, Monaco e Roma ha parlato un po' di se: "Il mio rapporto con la notte? La notte l'ho vista poco. Quando facevo il calciatore raramente uscivo la notte, sono stato molto professionale sotto questo punto di vista. Ora ancora di più. Poi tra lockdown e coprifuoco bisogna stare a casa, quindi si va a dormire molto presto. Una notte prima di una partita in cui non ho dormito? Io ero abbastanza tranquillo, dormivo. Ricordo che prima di una finale di Champions League, Hierro al Real Madrid, mi insultò. Condividevamo la stanza, lui non ha dormito tutta la notte, quando mi sono svegliato mi ha insultato, scherzando, chiedendomi come avessi fatto a dormire. Come inizia la mia carriera? Mio padre è stato un calciatore, sono cresciuto con il pallone, prima andando a vedere lui agli allenamenti, poi iniziando ad esordire nei settori giovanili. Fino a quando sono andato a Genova e sono diventato calciatore".

Sul Milan: "Se è vero che ero un pupillo di Capello? Sì, mi voleva in tutte le squadre, mi ha portato ovunque. Ma perché sono stato una persona vera, lui non amava i ruffiani. Io e lui abbiamo avuto dei confronti, ma sempre molto leali. Con lui c'è sempre stato un rapporto particolare, ma è uno che non ti regala niente. Il mio Milan? Incredibile, irripetibile. C'erano i migliori del mondo. Avevamo Jean Pierre Papin, pallone d'oro, che andava in tribuna. Era una squadra fantastica, abbiamo fatto 58 partite senza perdere, quasi due campionati. Quel Milan era troppo forte. Fatto di grandi uomini e grandi professionisti. E la società, con Berlusconi, Galliani e Braida, era al top. Una delle squadre più forti della storia. Com'era Berlusconi come presidente? Veniva negli spogliatoi a salutare la squadra, era sempre molto positivo, un assoluto fuoriclasse, vedeva dove gli altri non vedevamo, gli sarò sempre riconoscente. Anche per quello il Milan vinse tutto. Il podio dei più forti con cui ho giocato al Milan? Van Basten, Franco Baresi e Paolo Maldini. La leggenda di Baresi e il fuorigioco? Non è vero che bastava alzasse il braccio e gli chiamavo il fuorigioco. Facevamo dei movimenti talmente veloci che era divertente mandare in fuorigioco gli attaccanti avversari. Era un godimento".

Sul rapporto con la Nazionale: "Ho fatto sessanta partite con l'Italia, sono contento, mi è mancato il mondiale del 2006, ma non avevo rapporto con Lippi. Sono molto fatalista, accetto quello che mi dà la vita, credo di essere fortunato, la vita mi ha dato tanto. Tra me e Lippi c'è stato un trascorso, ma ormai è leggenda, sono cose che succedono. Succede a molti giocatori di aver problemi con l'allenatore, a me è capitato con lui".

Sul Real Madrid: "Per farvi capire, quando andai via dal Milan in cui avevo vinto tutto, venne il presidente Sanz a prendermi e mi disse che sì, avevo vinto tutto con il Milan, ma che il Real Madrid era un altro mondo. Ed in effetti è così. E' l'Hollywood del calcio, giochi al Bernabeu, non puoi mai calciare la palla lunga, quella maglia ha un peso mondiale. Io sono stato il primo italiano a giocare nel Real Madrid e l'unico ad aver vinto la Champions con il Real come giocatore. E' un orgoglio che mi porto dentro. I più forti con cui ho giocato? Raul, Redondo, Hierro e Roberto Carlos".

Sugli anni della Roma: "Sono arrivato quasi in sordina, era l'11 settembre del 2001. Vedevo in tv l'attentato alle torri gemelle mentre facevo la valigia. Capello mi chiese in un giorno e dopo poco ero a Roma. E' successo tutto all'improvviso. Io sono completamente innamorato di Roma, effettivamente c'è una pressione delle radio notevole, sanno tutti tutto, la gente è parte in causa, le radio hanno un peso notevole, si è vinto poco anche perché da altre parti ci sono squadre forti, ma la Roma, come la Lazio, rimane una squadra importante del campionato italiano. Io comunque ho vinto due Coppe Italia e una Supercoppa. Cassano? Sarebbe un discorso troppo lungo parlare di lui. Meglio lasciar stare Cassano. Preferisco non spendere parole per Cassano".

Sul calcio italiano: "Il campionato italiano ormai è terza o quarta fascia. Si lavora poco sui settori giovanili, si cerca subito il business, non vengono fatti crescere i giocatori, si trascurano i settori giovanili, il resto soffre, i risultati sono quelli".

Sul futuro: "Io sto aspettando una panchina, ho avuto offerte, ma non le ho prese in considerazione, sto aspettando la cosa giusta".

Curiosità: "Mi piace studiare la fiscalità nel mondo, sapere le tassazioni che ci sono, mi piace sapere se uno fa un investimento in un posto o nell'altro quanto paga, quanto paga quando vende, mi piace curiosare nei numeri".

Nicolas Viola. Dagonews il 28 marzo 2021. A raccontare Nicolas Viola sono i tatuaggi. Sulla gamba sinistra campeggia Freud, che gli ha cambiato la vita. "La psicanalisi mi ha migliorato", racconta il capitano del Benevento a “Campioni del Mondo”, la trasmissione condotta da Marco Lollobrigida, su Rai-Radio 2. È un calciatore diverso dal cliché soldi-macchine-belle donne. Lui studia psicologia all’Università del Sannio. “Sono agli sgoccioli però per me è solo l'inizio: più si impara, più c'è da imparare. È un percorso di crescita che mi sta dando quella serenità in più per affrontare anche le partite”. Sul sopracciglio destro un altro tatuaggio, con la scritta Unwanted: “Non cercato”. “Noi calciatori siamo dei privilegiati ma se penso ai sacrifici che ho fatto per arrivare a questo tipo di vita…”. Viola viene da un paesino calabrese, Oppido Mamertina. Infanzia “dura”, gavetta, sacrifici. A 14 anni arriva la Reggina. Tutti i giorni, con il pullman, da Taurianova dove vive, a Reggio. “I soldi erano pochi, alle volte ho dovuto saltare la cena e il pranzo per potermi allenare. Quando sei giovane e cresci nelle difficoltà, diventi uomo molto prima”. Per raggiungere, e resistere, a certi livelli, spiega, “c'è bisogno non solo del fisico ma della testa”. E Freud a livello psicanalitico è stato “una svolta”, anche perché “vengo da una regione dove la mentalità è un po’ rigida, quindi ho avuto difficoltà nell'approcciarmi con allenatori, direttori sportivi. Questo ha rappresentato un limite per la mia carriera però, adesso che non vedo più immagini paterne o materne all'interno del campo, riesco a esprimermi meglio. Tornassi indietro magari parlerei un po' più con mio padre, mi confiderei un po’ più con lui e oggi avrei qualche tatuaggio in meno”. Ne ha tantissimi, molti sono dedicati ai suoi artisti d’Ispirazione. Bukowski, Andy Warhol, Salvador Dalì, Jim Morrison. Arte, rock e…Milan. “Vengo da una famiglia rossonera, in camera avevo i poster di Kakà, Gattuso e Pippo Inzaghi. Quando il mister mi ha chiamato per la prima volta e  mi ha detto “Vengo io ad allenarti”, per me è stata veramente un'emozione fortissima. Ricordavo il calciatore, però ho avuto una piacevolissima sorpresa anche sull’Inzaghi allenatore”. La cavalcata dalla B alla serie A. “L’anno scorso è stata un’annata da ricordare mentre quest'anno siamo molto felici del percorso che stiamo facendo insieme". L’exploit contro la Juventus è il suggello a un campionato di alto profilo. “Vi salvate? Certo”. La nazionale? Sarebbe il coronamento di un sogno, un traguardo, anzi uno dei traguardi, perché una volta arrivati in azzurro poi non è che finisce il calcio, bisogna sempre andare avanti e migliorare. Io penso che se una persona continua a migliorare quello che fa poi può arrivare qualsiasi cosa. Mi piace sognare, mi alleno tantissimo ma penso anche al “dopo”, a quando finirà la carriera da calciatore, mi sono iscritto all’università per dare ai miei figli quello che non sono riuscito ad avere io da piccolo…”

Andrij Shevchenko. Shevchenko e l'incubo Istanbul: "Cosa facevo di notte". Marco Gentile il 29 Aprile 2021 su Il Giornale. Andrij Shevchenko non ha ancora dimenticato l'amara finale di Champions League del 2005 persa dal suo Milan contro il Liverpool: "Mi capita di pensarci ancora oggi che sono passati sedici anni". Andrij Shevchenko ha scritto pagine importanti della storia del Milan ed è stato uno dei grandi protagonisti della conquista della Champions League nel 2003 ai danni della Juventus nella famosa finale di Manchester. L'attuale commissario tecnico dell'Ucraina fu decisivo con il rigore finale che diede la vittoria ai rossoneri. Sheva, che ha da poco scritto un libro con l'aiuto del collega Alessandro Alciato "Forza gentile", si è raccontato ai microfoni di 7, magazine del Corriere della Sera.

Ricordo dolce. Shevchenko in questa chiacchierata ha rimembrato la finale di Champions League di Manchester:"Ho sempre avuto dubbi, mai paura. Dal cerchio di centrocampo al dischetto mi è venuto in mente di tutto", inizia così il racconto di Andrij che ha poi continuato parlando di quel rigore che ha regalato la sesta Champions al Diavolo: "L’infanzia, Chernobyl, gli amici morti, tutto. Ma sopra ogni cosa mi dicevo di non avere dubbi. Una volta che hai deciso dove tirare, non importa cosa fa Buffon, non importa niente, basta non cambiare idea". Sheva è poi entrato nello specifico di quel momento poi diventato magico per lui, per il Milan e per tutti i tifosi: "Ricordo che mi sono passato la lingua sul labbro, e mi sono reso conto che avevo la bocca completamente secca. Ho fissato l’arbitro, perché il rumore dei tifosi copriva tutto e non avevo sentito il fischio. Lui mi ha fatto un cenno. E allora sono partito".

Ricordo amaro. Due anni dopo, però, quel dischetto fu fatale a Shevchenko e al Milan nell'assurda finale di Champions disputata ad Istanbul contro il Liverpool di Benitez che sotto 3-0 nel punteggio riuscì a pareggiare portando la contesa fino ai calci di rigore avendo poi la meglio sui rossoneri: "Nei primi tre mesi dopo quella sconfitta così acida mi svegliavo gridando nella notte e cominciavo a pensarci. Mi capita di pensarci ancora oggi che sono passati sedici anni. Tanti miei compagni non hanno più voluto rivedere quella partita. Io la so a memoria. Il Liverpool? Avevano una sola chance su 100, ci si sono aggrappati con tutte le forze che avevano. Bravi loro".

La provocazione di Matrix. Il ct dell'Ucraina ha poi svelato un aneddoto prima di un derby con protagonista Marco Materazzi, suo "acerrimo" nemico sul terreno di gioco: "Nel sottopassaggio di San Siro, prima di un derby di Champions League dove provavo a giocare con cinque placche di acciaio nello zigomo che mi ero fratturato due mesi prima, Materazzi mi disse cose poco carine su quel che sarebbe accaduto in campo alla mia faccia. Io gli risi in faccia. Non per fare lo sbruffone, ma perché sapevo che nella vita lui non era e non è così, è solo che facciamo parte di uno spettacolo, e ognuno ha la sua parte. La sua era quella del cattivo. E poi, la gente che cercava di intimorirmi dimenticava spesso da dove vengo".

Andriy Shevchenko «La fuga da Chernobyl. Il calcio mi ha salvato». Marco Imarisio su Il Corriere della Sera il 25 aprile 2021. Il campione ucraino racconta la sua vita , tra drammi e vittorie, in un libro. Ho sempre avuto dubbi, mai paura. Dal cerchio di centrocampo al dischetto mi è venuto in mente di tutto. L’infanzia, Chernobyl, gli amici morti, tutto. Ma sopra ogni cosa mi dicevo di non avere dubbi. Una volta che hai deciso dove tirare, non importa cosa fa Buffon, non importa niente, basta non cambiare idea. Ricordo che mi sono passato la lingua sul labbro, e mi sono reso conto che avevo la bocca completamente secca. Ho fissato l’arbitro, perché il rumore dei tifosi copriva tutto e non avevo sentito il fischio. Lui mi ha fatto un cenno. E allora sono partito». A noi milanisti, quegli occhi sgranati ci guardano ancora. E ogni volta che li rivediamo, ci viene l’ansia, come se quella palla potesse uscire, come se non sapessimo cosa succede un attimo dopo. Era Manchester, era il Teatro dei sogni, era la finale di Champions League, ce la giocavamo contro la Juventus, dopo avere eliminato l’Inter in semifinale. «Il primo che abbracciai fu Dida, e tutti pensano ancora oggi che fosse un ringraziamento per le sue parate decisive. Non è vero. Manco me ne ero reso conto che era lui, correvo e basta, me lo trovai davanti». Ci sono immagini che definiscono una vita, una carriera sportiva, e creano un filo invisibile ma resistente alle scosse del tempo, che tiene legata una persona a un ricordo, a una comunità. I suoi occhi, la sua corsa folle dopo il gol. «A metà del tiro, con la palla ancora per aria, vedo Buffon che va giù dall’altra parte e capisco prima degli altri che è fatta, che quell’istante rimarrà per sempre». Andriy Shevchenko parla come un calciatore, si sente ancora un calciatore. Mentre racconta di quel momento, ha un sorriso compiaciuto sulla faccia ancora da ragazzo, salta dal passato al presente, e si alza in piedi, come se lo stesse rivivendo. «Il calcio è un mistero fatto di episodi, al quale sarò sempre grato, perché ha definito quello che io sono oggi come uomo». Il titolo della bella autobiografia, scritta con Alessandro Alciato, spiega le ragioni per cui a questo ragazzo dell’Est, che ha vissuto da vicino il dramma di Chernobyl e la dissoluzione dell’impero sovietico, hanno voluto bene in tanti, compresi i tifosi avversari. Perché era forte, fortissimo. Perché è sempre stato una persona gentile. «Nel sottopassaggio di San Siro, prima di un derby di Champions League dove provavo a giocare con cinque placche di acciaio nello zigomo che mi ero fratturato due mesi prima, Materazzi mi disse cose poco carine su quel che sarebbe accaduto in campo alla mia faccia. Io gli risi in faccia. Non per fare lo sbruffone, ma perché sapevo che nella vita lui non era e non è così, è solo che facciamo parte di uno spettacolo, e ognuno ha la sua parte. La sua era quella del cattivo. E poi, la gente che cercava di intimorirmi dimenticava spesso da dove vengo».L’intervista di Marco Imarisio a Andriy Shevchenko è ne numero di 7, il magazine del Corriere, in edicola e su digital edition venerdì 30 aprile«Il calcio è un mistero fatto di episodi, al quale sarò sempre grato, perché ha definito quello che io sono oggi come uomo».

Come è stato crescere a 200 chilometri da Chernobyl?

«Spero di non scandalizzare nessuno se dico che mi sembrava tutto normale. Avevo dieci anni. Mi divertivo come un pazzo giocando a calcio ovunque, facendo qualunque sport. Mi avevano preso all’accademia della Dinamo Kiev, mi sembrava di cominciare a vivere un sogno. Poi saltò in aria il reattore 4, e ci portarono via, tutti».

Cosa ricorda di quella esperienza?

«Chiusero subito le scuole. Arrivavano pullman da tutta l’Urss, caricavano i giovani tra i 6 e i 15 anni e li portavano via. Io mi ritrovai da solo al Mar d’Azov, sul Mar Nero, lontano 1.500 chilometri da casa. Eppure ancora oggi non provo angoscia. Mi sentivo come in un film, vissi quell’esperienza come una gita. Ero un bambino». I suoi ricordi dell’Unione Sovietica? «Vivere in Urss non era male. Era tutto uguale, per tutti. Tanta scuola e sport ovunque. Un Paese chiuso, che ti rendeva chiuso. Non immaginavi neppure che ci potesse essere una vita diversa da quella».

Quando ha scoperto che c’era un altro mondo?

«In Italia, si vede che ce l’avevo nel destino. Avevo 12 anni e ci fecero disputare un torneo in una città che si chiamava Agropoli. Noi eravamo ripiegati su noi stessi, istruiti a non dare confidenza. Invece ci sciogliemmo come neve al sole. La gente ci sorrideva, ci accoglieva con gentilezza. Ricordo di aver pensato che un giorno mi sarebbe piaciuto tornarci».La copertina di Forza gentile. La mia vita, il mio calcio (Baldini+Castoldi) scritto da Shevchenko con Alessandro Alciato

Con i suoi amici di Kiev?

«Nel mio quartiere cominciavo ad averne sempre meno. Sono morti tutti. Non per le radiazioni, ma per l’alcol, la droga, le armi. Le crepe nel muro dell’Urss erano sempre più evidenti. Stava venendo giù tutto, il mondo dove eravamo nati si stava disfacendo. I miei amici, come tutta la mia gente, hanno smesso di credere in qualcosa, e si sono persi».

E lei come si è salvato?

«Con l’amore e la dedizione di mamma e papà. E con il mio amore per il calcio».

Si sente cittadino del mondo o ancora ucraino?

«Non importa dove vai, il tuo passato ti trova sempre. Vivo a Londra, mia moglie è americana, i miei figli hanno doppio passaporto. Ma resto profondamente ucraino. E sono molto preoccupato per quel che negli ultimi anni sta accadendo nel mio Paese».

Che uomo era il colonnello Lobanovski?

«Lui ha fatto e fa ancora parte della mia vita. Mi è stato vicino nel periodo tra i 18 e i 21 anni, che per me è il momento più difficile e importante nella vita di un calciatore».

Un maestro severo?

«Anche qualcosa di più. Ci faceva fare decine e decine di ripetute su quella che chiamavamo la salita della morte. Pendenza del sedici per cento. Chi non vomitava, giocava da titolare. Se vomitavamo tutti, giocava chi lo aveva fatto di meno. La mia resistenza durante la corsa veloce viene da quella sofferenza che ci imponeva. Era un uomo durissimo, ma di una integrità che ti metteva alla prova».

Mai pensato di mollare?

«Neppure una volta. Avevo fame. Non di soldi, tutto sommato non stavamo male, ma di successo. Io volevo avere successo in quel che amavo fare. La prima volta che firmai con il Milan, il mio primo contratto vero, mi rifiutai di guardare la cifra che c’era scritta sopra».

Come ci arrivò?

«Grazie ad Ariedo Braida. Lui vide qualcosa in me che non sapevo neppure di avere. Quando portò Galliani in Ucraina per vedermi, giocai una partita orrenda, ma lui mi difese. E quando venne a casa mia per convincermi a firmare, mi diede una maglia rossonera con sopra il mio nome. “Ci vincerai il Pallone d’oro, con questa” mi disse. Io e mio padre ci mettemmo a ridere. Aveva ragione lui».

Cosa rendeva speciale il suo Milan?

«Il nostro successo non era dovuto al talento ma alla qualità umana dei singoli individui. Era un gruppo di persone intelligenti. Infatti siamo finiti tutti a fare gli allenatori o i dirigenti».

Su chi non ha mai avuto dubbi?

«Filippo Inzaghi è ossessionato dal calcio. La mattina della finale di Manchester mi sveglio presto e alzo le tapparelle. Eravamo in un albergo che dava su un campo da golf. Mi affaccio e vedo una persona che corre da sola, mima i movimenti di attacco, si gira a vedere se un arbitro invisibile ha fischiato il fuorigioco, si incita, indica una porta immaginaria. Era Pippo».

Le dico solo una parola. Istanbul.

«La ferita sanguina ancora. Scrissero che tra il primo e il secondo tempo ci lasciammo andare a festeggiamenti anticipati. Tutte balle. Anzi. Paolo Maldini fu il primo a dire di fare attenzione, che il Liverpool non avrebbe mollato, anche se era sotto 0-3. Ce lo ripetemmo l’uno con l’altro». «Nei primi tre mesi dopo quella sconfitta in finale di Champions così acida mi svegliavo gridando nella notte e cominciavo a pensarci. Mi capita di pensarci ancora oggi che sono passati sedici anni»

Come avete fatto a perdere quella finale di Champions già vinta? «Nei primi tre mesi dopo quella sconfitta così acida mi svegliavo gridando nella notte e cominciavo a pensarci. Mi capita di pensarci ancora oggi che sono passati sedici anni. Tanti miei compagni non hanno più voluto rivedere quella partita. Io la so a memoria».

E che risposta si è dato?

«Ancora la sto cercando. Eravamo la squadra migliore. Stavamo giocando benissimo. Mi viene in mente il loro capitano, Jamie Carragher. Alla fine dei tempi regolamentari gli vado via, sono più giovane e veloce di lui. Mi rincorre, sbuffa, non ce la fa più, ha i crampi. Ma non so come, arriva a toccarmi la palla. Avevano una sola chance su 100, ci si sono aggrappati con tutte le forze che avevano. Bravi loro».

C’è qualcosa che rifarebbe in modo diverso?

«Adesso che sono allenatore, penso che forse avremmo dovuto spezzare quei maledetti sei minuti in cui ci fecero tre gol. Fermare il gioco, cambiare qualcuno. Ma non è una critica a Carlo Ancelotti, che ci aveva preparato benissimo. So che qualche mio tifoso mi manderà a quel Paese, ma quel Liverpool-Milan è una prova della bellezza del calcio. Certe volte, è una bellezza crudele».

Le piace il calcio di oggi?

«Ho smesso nel 2012. Anche ai miei tempi giravano tantissimi soldi. Sono sempre le persone, calciatori e dirigenti, che fanno la differenza. Non altro». Si è mai pentito di essere andato via dal Milan? «Galliani e Berlusconi provarono a tenermi in ogni modo. Milano era casa mia, ancora oggi sento un legame fortissimo con la città, anche se vivo lontano. Ma io avevo scelto, erano tre anni che Roman Abramovicˇ mi corteggiava. Avevo trent’anni, era il momento giusto per fare una nuova esperienza. Mi sono perso la rivincita con il Liverpool. E al Chelsea non è andata bene, troppi problemi fisici. Ma non è stato un errore. Si ricorda il rigore di Manchester. Quando hai preso una decisione, non cambiare idea. È tutta la vita che faccio così. E non mi è andata poi così male».

Francesco Totti. Estratto del libro "Tu puoi cambiare il mondo" di Gianluca Comin e Gianluca Giansante. Francesco Totti, la forza dell’autoironia. Il successo sportivo di Francesco Totti non è un mistero e i numeri della sua vita sul campo lo raccontano chiaramente: quasi mille presenze in carriera, condite da trecentotrentaquattro reti e oltre cento assist per il gol. Ma Totti non è solo il simbolo di uno sport e di una squadra di calcio. L’ex capitano della Roma è diventato, nel corso degli anni, un vero e proprio brand, riuscendo a sfruttare in modo strategico le proprie caratteristiche personali, tanto i pregi, quanto i difetti. Un punto di svolta per la costruzione del proprio posizionamento fuori dal campo è coinciso infatti con la pubblicazione di un libro di barzellette. La scelta nasce dall’esigenza di rispondere all’accusa che gli veniva spesso attribuita nei primi anni di carriera e cioè quella di essere tanto fenomenale in campo, quanto “semplice” fuori dal terreno di gioco. Seguendo il consiglio del giornalista Maurizio Costanzo, grande tifoso romanista e amico del calciatore, nel 2003 Totti puntò sull’autoironia pubblicando un libro in cui la sua ignoranza diventava protagonista di storielle divertenti. La scelta di promuovere la propria immagine rispondendo con la comicità alle voci che lo dipingevano come una persona poco colta fu accolta in modo positivo dal grande pubblico, facendo diventare il libro un bestseller e garantendo al calciatore una simpatia e un affetto molto ampio. Chiaramente a rendere ancor più efficace la pubblicazione del libro contribuì anche la decisione di Totti di donare in beneficienza l’intera somma di cui avrebbe beneficiato in qualità di titolare dei diritti d’autore. Saper accettare i propri difetti e utilizzarli a proprio vantaggio per costruire una narrazione ricca di note emotive è dunque una strategia vincente per accrescere la propria reputazione. Il percorso di personal branding di Totti, però, non si ferma al libro o agli anni della sua carriera in campo ma prosegue anche dopo il suo addio al calcio. Oltre agli spot pubblicitari e al sapiente uso dei media, negli ultimi mesi l’ex numero dieci romanista è stato oggetto di due produzioni cinematografiche: prima il docufilm dal titolo Mi chiamo Francesco Totti, vincitore di un Nastro d’Argento e del David di Donatello per il miglior documentario e poi la serie tv Sky Speravo de morì prima. Due prodotti differenti nella tipologia e nel target di destinazione, ma accomunati dallo stesso successo. Grazie alle due produzioni, il personaggio nato sul campo da gioco ha arricchito la propria reputazione rendendo noti dettagli della propria vita privata prima sconosciuti, che hanno appassionato milioni di persone. Attraverso il racconto del Totti uomo, marito e padre, la figura del campione è stata inquadrata in una chiave più umana, mostrando le difficoltà e le fragilità sofferte durante la lunga carriera sportiva e rafforzando ancora di più l’attaccamento dei suoi fan. Raccontare sé stessi e la propria storia, senza tralasciare i difetti, i momenti più complessi e le scelte più difficili e farlo in maniera coerente con la propria storia. Anche questo è un modo efficace di costruire la propria reputazione.

Massimo Limiti per forzaroma.info il 27 ottobre 2021. Era il 27 aprile del 2017, un mese prima dell’addio al calcio di Francesco Totti, quando Antonio Cassano diceva: “Il Pupo non deve mollare, deve decidere lui quando e come smettere. Può ancora dare tanto”. Era invece l’anno prima quando, sempre Cassano, disse: “Fu Spalletti, con la società, a volermi mandare via dalla Roma”. Nelle sue dichiarazioni alla Bobo Tv Cassano ha fatto una completa retromarcia. E ha detto, soprattutto, che Totti non è eterno, che tra 20 anni sarà dimenticato, mentre nel corso del tempo aveva sempre detto, anche in questo caso, il contrario. Ma Antonio è così, la coerenza non è mai stato il suo forte e chiunque ci abbia avuto a che fare finora lo sa. Quello che in pochi (forse) sanno è perché Cassano, che nel 2018 era in prima fila con la moglie al Colosseo alla presentazione del libro di Totti, abbia così sparato a zero su Francesco. Dopo alcuni anni di freddezza, con il tempo Antonio e lo storico (ed eterno) capitano della Roma si erano ritrovati. Totti ha coinvolto la mamma e il cugino Nicola nella serie Amazon “Celebrity Hunted”, hanno giocato a paddle insieme, Francesco lo ha invitato all’Olimpico e a Trigoria con i figli e i rapporti sembravano perfetti. A Cassano, però, non è andato giù come è stato rappresentato nella serie tv “Speravo de morì’ prima”. E lo ha detto chiaramente: “Ne esco male. Io ringrazierò per sempre il padre e la madre di Francesco perché mi hanno trattato sempre come un figlio. Ma l’invadenza che è stata fatta passare non c’è mai stata". Non solo: a Cassano non è piaciuta la scena in cui si mostra infuriato per la perdita di un assegno (pensava fosse stata la domestica) e non gli è piaciuto neanche “quando hanno fatto vedere che urlo e sbatto le porte. Non l’ho mai fatto”, ha detto a Striscia la Notizia che gli aveva consegnato il Tapiro. Da quel momento i rapporti tra i due si sono di nuovo raffreddati, fino alle velenose parole di lunedì sera. Parole a cui Totti non ha risposto e non si sa se lo farà. È passata una vita da quando Antonio viveva a casa sua e giocava nella Roma: delle Cassanate, forse, Francesco si è anche stufato. In ogni caso, tra vent’anni, queste sì che non se le ricorderà più nessuno.

Gianluca Lengua per ilmessaggero.it il 26 ottobre 2021. Antonio Cassano si schiera con Luciano Spalletti: «I fischi all’Olimpico? Uno scandalo», ha detto l’ex attaccante commentando quanto accaduto in occasione della partita tra Roma e Napoli. Dagli spalti di tutto lo stadio sono partiti una serie di fischi indirizzati al tecnico toscano e poi un coro dedicato a Totti per ricordargli che non sarà mai perdonato per aver fatto smettere l’ex numero 10: «Tutto è venuto fuori quando Spalletti non faceva giocare Totti. Io voglio bene a Francesco, però, lui ancora adesso a 45 anni ti dice che farebbe la differenza. La verità è che quando si smette è perché ci sono i ventenni che vanno più forte di te. Spalletti faceva le scelte e ha fatto bene anche quando è tornato perché ha portato la Roma in Champions. Il tifoso deve pensare al bene della squadra. È ingiusto il comportamento avuto con Spalletti, perché meritava solo ovazioni», ha detto alla Bobo Tv. 

La stoccata a Totti. Cassano, poi, lancia una stoccata Totti: «Tra 20 anni sarà dimenticato, perché chi sarà ricordato in eterno sono i Maradona, i Messi i Cruyff. C’è un periodo in cui c’era Bruno, adesso c’è stato Totti, poi ci sarà Pellegrini che magari fra 10 anni vincerà lo scudetto. Si cambia, anche De Rossi che era capitan futuro è quasi andato nel dimenticatoio. Non ho mai visto uno attaccato alla Roma come De Rossi, se Totti era attaccato alla Roma, lui lo era 100 volte di più. Quando si perdevano i derby, l’ho visto piangere, Totti era romanista, ma Daniele ancora di più. Giocatori e allenatori passano, la Roma resta in eterno», ha concluso. 

Da "Un Giorno da Pecora" il 27 ottobre 2021. La polemica di Cassano su Totti, i giudizi su Allegri, Inzaghi, Mourinho e Sarri e anche quelli sulla politica attuale. È un boemo "a tutto campo" quello intervenuto oggi a Rai Radio1, ospite di Giorgio Lauro e Geppi Cucciari a Un Giorno da Pecora. Cassano ha detto che Totti tra 20 anni sarà dimenticato. Ha ragione? “No. Totti rimane sempre il simbolo della Roma. Si è visto anche domenica scorsa, quando c'era qualche coro contro e molti pro”. Quelli contro erano tutti dedicati a Luciano Spalletti. “Io non li avrei fatti anche se preferisco sicuramente Totti con cui avevo rapporti diversi”. Assolutamente no. Totti sarà ricordato, io sto dalla sua parte. E di Cassano tra 20 anni ci si ricorderà? “A Bari, forse”. Perché a Roma non ha fatto bene? “Ha fatto bene ma non così come altri”. Come valuta la Juventus di questa stagione? “La Juve non si capisce come possa andare, vince ma non convince”. Allegri gioca troppo in difesa? “La Juve è da sempre basata sulla difesa e continua ad esserlo”. E come vede il Napoli? “Bene, sono contento”. Può vincere lo scudetto? “Sta meritando tanto”. Passiamo alle sue ex squadre, Lazio e Roma. “Le vedo come sempre: hanno momenti positivi e negativi e non si capisce il perché”. Meglio Mourinho o Sarri? “Bravi entrambi, ma sono al primo anno nelle rispettive società”. Meglio Antonio Conte o Inzaghi all'Inter? “Meglio Conte, lavora di più – ha detto a Rai Radio1 Zeman - nel senso che fa capire meglio ai giocatori cosa devono fare”. Simone Inzaghi li convince meno? “Penso che sono i giocatori che decidono un po' di più, penso che dopo lo scudetto credono di poter fare loro....”. Passiamo dal calcio alla politica: cosa ne pensa del premier Draghi? “Una volta ci ho giocato a golf”. Come è andata? “Ai tempi ero più forte io...”. Che giocatore le potrebbe ricordare come caratteristiche? “Un regista”. Lei in passato aveva mostrato simpatia nei confronti dei 5S. “Il Movimento è partito con le idee giuste e poi per necessità sono cambiati”. È ancora amico di Alessandro Di Battista? “Sì”. Lui ha fatto bene a mettersi fuori dal M5S? “Chi non sta bene fa sempre bene ad uscire”. Alle Comunali di Roma ha votato di nuovo Cinquestelle? “Sempre Raggi, perché non fatto debiti”. E al secondo turno? “Non ho votato ma non avrei votato nessuno dei due”. Infine una domanda sul Quirinale: Berlusconi potrebbe fare il presidente della Repubblica? “Secondo me no – ha concluso Zeman a Rai Radio1 - perché è troppo anziano”. 

Da romanews.eu il 28 marzo 2021. Antonio Cassano all’attacco di "Speravo de morì prima" la serie evento di Sky che racconta la carriera di Francesco Totti. Intervenuto su Twitch alla Bobo Tv, l’ex attaccante della Roma ha voluto criticare la sua rappresentazione nella serie, secondo lui distante dalla realtà: “Prima di tutto non somiglia a me. La realtà, poi, non c’entra niente con la serie. Ci vogliono 10 anni per raccontare quello che ho fatto a Roma e quello che si è fatto a Roma. Quando lui ha dovuto prendere decisioni importanti io non c’ero già più, lui aveva rinnovato nel 2004 e aveva ancora 3 anni di contratto. La convivenza? Ringrazierò per sempre la madre, il padre e Francesco perché mi hanno trattato come un figlio. Ma l’invadenza che appare nel film non c’era assolutamente. Il film è bello perché è sul mio amico, ma in alcune occasioni non ne esco bene e mi hanno fatto apparire in un modo che non mi è piaciuto”.

Totti all’attacco della serie su Totti: “Sembra Perin! E poi…” Cassano ha poi continuato a parlare della serie, tra somiglianze cose che, invece, proprio non è riuscito a digerire: “L’attrice che fa Ilary più o meno le somiglia, ma Totti invece sembra Perin. Poi il Pupone non è così: lo hanno fatto passare come uno che parlava sempre, invece lui non parlava quasi mai. Quando gli allenatori nello spogliatoio chiedevano “il capitano deve dire qualcosa?” lui faceva cenno di no con la testa. Su Vito Scala invece non hanno indovinato proprio niente: lui è stato fondamentale, gli ha governato un impero. Parlava poco, ma Totti lo ascoltava”, ha detto sulla bandiera della Roma.

Salvatore Riggio per corriere.it l'11 febbraio 2021. Opererebbe da agente pur senza esserlo ufficialmente. È questa l’accusa che l’Associazione italiana agenti, calciatori e società muove a Francesco Totti e che ha portato a un esposto presentato in Figc. Lo riporta il sito «pagineromaniste», che racconta dell’indagine avviata dalla commissione agenti, che valuterà l’operato dell’ex capitano della Roma e della sua società «CT10 Management».

Scouting. L’ex capitano giallorosso non ha mai detto di voler fare il procuratore. In passato ha sempre ufficialmente parlato di scouting: «Non esercito l’attività di agente sportivo — aveva spiegato l’estate scorsa —. Ho deciso di investire nel settore di riferimento in qualità di uomo di sport e di libero imprenditore, nel rispetto di tutte le normative vigenti. Ho costituito una società di servizi che opera nel settore della mediazione, consulenza ed assistenza ai club e ai calciatori, per la quale coordino e supervisiono l’area scouting». Poi aveva aggiunto: «Per l’espletamento dei suoi servizi professionali, la società si avvale di professionisti già abilitati all’esercizio dell’attività svolta, in conformità a tutte le disposizioni previste dalla legge, nonché dai regolamenti Figc e Coni. Tutto ciò chiarito, mi riservo di agire nelle sedi competenti contro chiunque, nel maldestro tentativo di ritagliarsi un attimo di notorietà, abbia pubblicamente rilasciato in passato e/o rilasciasse in futuro, dichiarazioni lesive della mia onorabilità».

Società aperta un anno fa. L’accusa arriva giusto un anno dopo la creazione dell’agenzia, che Totti ha lanciato il 10 febbraio 2020 appunto. All’epoca c’erano già stati dei contrasti con i procuratori: «Totti è stato un grande giocatore, ma fare il procuratore è un altro sport a cui bisogna saper giocare, non barare. In Italia gli agenti per definirsi tali sono costretti a sostenere test e prove durissime. Servirebbe una regolamentazione severa», erano state le parole di Donato Di Campli, agente storico di Verratti, dal 2012 al Psg. «Totti vuol fare il procuratore? Prenda spunto da chi fa questo mestiere faticoso», era stata invece la presa di posizione di Beppe Bozzo, tra gli altri procuratore di Tonali, centrocampista del Milan. Adesso la palla passa alla Figc, che sull’intera vicenda vuole vederci chiaro.

Marco Castoro per leggo.it il 22 marzo 2021. “Speravo de morì prima”, la serie su Francesco Totti in onda su Sky Atlantic ha avuto un ottimo esordio di pubblico: quasi 500 mila spettatori di media e una permanenza del 62%, nettamente superiore a tutte le serie Sky Original dal 2020 a oggi. Pietro Castellitto è Totti, Greta Scarano è Ilary Blasi, Gian Marco Tognazzi è Luciano Spalletti e poi c’è mamma Fiorella.

Come si è trovata Monica Guerritore nei panni di Fiorella, la mamma di Francesco Totti?

«È stata un’esperienza bellissima. La città che ti accoglie con simpatia e affetto perché interpreti una figura femminile molto amata. Nonostante Fiorella sia stata sempre riservata, il popolo romanista ha capito la forza che è dentro di lei: Roma più madre. Per interpretarla ho dovuto mettere insieme queste due caratteristiche molto forti».

La conosceva?

«Ho visto immagini dell’ultimo periodo. Mi ha colpito la forza femminile e virile, l’essere presente e molto coraggiosa. Esistono delle scene emblematiche tipo quando insegna al figlio come restare attaccato alle radici e con i piedi per terra, di avere cura per la famiglia. Questo viene fuori quando Francesco comincia a frequentare Cassano. E siccome Cassano ha la famiglia lontana, lei lo adotta a casa come fosse un altro suo figlio perché al talento bisogna dare un ordine. Il talento da solo non basta».

Grande temperamento…

«Una donna forte. Lo si vede quando aggredisce le persone che aggrediscono il figlio, il quale invece è buono, è una persona gentile. Quasi spaventato del suo enorme talento. Un gladiatore, mai spaccone. Penso che Pietro Castellitto lo stia raccontando con grande sensibilità e intelligenza di attore».

Come ha costruito il personaggio?

«Ho lavorato sul fatto che la psicologia fosse nei suoi gesti. Lei è quella che vediamo. È il tono della commedia che dirige tutto. Leggerezza e comicità danno corpo e anima. Perché la commedia è l’anima. Fiorella è un grande personaggio, è una che si trucca, che ha i tacconi. Si sente in competizione con Ilary. Pronta a farsi bionda platino come la nuora, quasi fosse lei l’amante del figlio. Prende e va. Ci mette la faccia. E alla fine non vorrà andare allo stadio per il troppo dolore».

Quanto c’è di Fiorella Totti in Monica Guerritore?

«Tra tutti quelli che ho interpretato è il personaggio che più mi somiglia. Perché rappresenta quello che una madre fa per un figlio».

Stefano Bettarini. Da today.it l'11 febbraio 2021. Che tra Stefano Bettarini e Selvaggia Lucarelli non scorra buon sangue è cosa ormai nota, ma da un po' di tempo regnava una calma apparente che faceva pensare a una tregua. Nient'affatto. Ad affilare di nuovo le armi è l'ex calciatore, tornato all'attacco su Instagram. "Urge puntualizzare alcune cosine su una giornalista o presunta tale, a cui piace cavalcare l'onda mediatica che mi coinvolge - ha scritto ieri sera tra le storie - Eccoti, anche tu pronta a riempirti la bocca con Bettarini! Ti consiglierei di essere un po' meno poliedrica perché non ti riesce! Trovati qualcosa da fare, che sia opinionista, soubrette o giornalista e concentrati su quello. Step by step, inutile correre quando poi si rischia di cadere come spesso ti accade". La ramanzina di Bettarini è lunga: "Ricordati che il sottoscritto, ha lavorato sempre per gradi, prima col calcio e poi con la televisione, arrivando sempre ai vertici che si era prefisso. Comincerei quindi con un esame introspettivo e solo dopo averne tratto vantaggio andrei oltre, perché ad ora, i tuoi eventuali meriti, cosa tu faccia realmente nella vita non si è mica capito! Lo si deduce anche dalla tua aggressività nei confronti dell'universo femminile". Fin qui "tutto bene", ma Stefano Bettarini - si sa - non è nuovo alle cadute di stile ed eccola, infatti, dietro l'angolo: "I tuoi interventi, i tuoi giudizi segnano e per tanti motivi! Sì che tu di performance te ne intendi! Trova anche tu la tua identità, provaci! Credi in te stessa, ascolta questo mio consiglio spassionato... Anzi, prendi l'arte e mettila da parte! Buon vento... Anche se nel tuo caso parliamo più di brezza selvaggia, è troppo evidente". Sul cattivo gusto della battuta non c'è da discutere, ma Selvaggia Lucarelli non lascia correre e affonda il colpo: "Fa molta tenerezza questo ometto, ex calciatore finito nel calcioscommesse patteggiando con la giustizia sportiva 14 mesi di squalifica - ha replicato su Instagram - squalificato pure dai reality, eterno concorrente del nulla, collezionista di figure misere, volgare nei confronti di ex mogli ed ex amanti. Noto per commenti sessisti, si conferma ossessionato da due cose: le donne affermate e "le performance" delle donne. Povero cucciolotto misogino e complessato. Ah: ha provato anche a farmi causa per quello che scrivo. Ha perso".

Radja Nainggola. Da corrieredellosport.it il 5 gennaio 2021.

Allora, domani con il Benevento la Serie A ritrova finalmente il Ninja?

«Se Di Francesco mi chiama, io ci sono».

Non giochi titolare da cinque mesi e mezzo. Sei preoccupato?

«Pensa, è vero il contrario. Io nella vita sono uno che si diverte solo se gioca».

Ti è mancato molto giocare da titolare?

«Sì, quest’anno in campo stiamo difendendo molto più che un risultato: stiamo difendendo il campionato dal virus».

In che senso?

«Perché il Covid prima ha ucciso il calcio, poi le vite di tutti noi, e alla fine ha ucciso il mondo».

Sei drastico: ti senti pessimista?

«No, sono solo lucido. Io ho avuto il Covid, e sono stato fortunato».

Che cosa intendi?

«Ne sono uscito in soli dieci giorni da tampone positivo a tampone negativo».

E come l’hai vissuta?

«Pensa che dopo la notizia del mio contagio stavo sulla cyclette ad allenarmi».

Eri positivo e correvi in casa?

«Siiì, ma stavo bene, che dovevo fare? Ovviamente tutti leggevano sui giornali che avevo il Covid e mi chiamavano preoccupati: “Radja, come ti senti?”».

Invece?

«Io in quel periodo non ho avuto una sola linea di febbre, mai. Non un solo sintomo. Pazzesco». [...]

Rimpiangi Conte?

(Sospiro) «È un grandissimo tecnico. Ma sono rimasto ferito quando dopo avermi concesso solo otto minuti di partita mi ha indicato come un responsabile di tutto».

Ti è sembrato ingiusto.

«Che potevo fare in otto minuti? Ma non ho aperto polemiche allora, non lo faccio nemmeno adesso. È andata così». [...]

Rimpiangi la Roma?

«Sì. È una città in cui ho passato quattro anni e mezzo importanti».

E in cui torni spesso.

«C’ero anche pochi giorni fa per le visite e i tifosi mi fermavano: “A Radja... ma tu devi tornà arròmaaa!”. Ah ah ah. È bello, no?».

Cosa?

«Non si dimenticano di me. Vuol dire che qualcosa di importante in questa città l’ho lasciato».

Mi dici il momento più bello che hai vissuto in giallorosso?

«Non ho dubbi. La semifinale di Champions. Con Di Francesco in panchina abbiamo ribaltato il Barcellona. Ma ora te lo racconto nel dettaglio».

Oggi Radja è un campione con le sue esperienze e le sue cicatrici, che si preoccupa anche per Nicoló Zaniolo: «Vedo che sta subendo quello che ho subito io. Lo hanno messo nel mirino». Così non resisto alla tentazione di chiedergli di più. Tu ci sei passato, nel tritacarne dei social, con la vicenda della nottata di Capodanno. «E l’ho pagata. Voglio dirlo chiaramente: ho sbagliato io, non dovevo bere, non dovevo comportarmi così. Ma chi è che non fa un errore, nella vita?».

È duro reggere al bombardamento?

«Mi rivedo in Zaniolo perché anche io sono attaccato, trollato sui social. È facile essere messi in mezzo. L’unico modo è ignorare, fregarsene». [...]

Hai un consiglio per Zaniolo?

«Io non faccio il maestro di vita che dà consigli. Ma l’unico modo che ha per rispondere è il campo. Per il resto deve farsi forza e andare avanti. A chi lo attacca risponderà con le prime partite che gioca».

Walter Zenga. Roberta Scorranese per il Corriere della Sera il 17 settembre 2021.

Zenga, che cosa sarebbe disposto a fare pur di allenare l’Inter?

«Tante cose. Ma so che c’è un percorso, mica facile. Però l’Inter è la mia casa, mi sento una bandiera nerazzurra. Ventidue anni con quella maglia non si cancellano. Nonostante la mia irruenza».

Troppi addii burrascosi?

«Sì, ho sbagliato almeno due volte, come allenatore: quella volta che me ne sono andato dal Catania e quando ho detto addio alla Stella Rossa di Belgrado».

E perché lo ha fatto?

«Per soldi. Maledetti soldi. Ho scelto di rompere con delle squadre perché dall’altra parte mi offrivano di più, ma oggi riconosco che ho sbagliato. Avrei dovuto restare, maturare, crescere, magari sbagliare anche, come allenatore e come uomo». 

Tre mogli, cinque figli, burrasche varie. La sua autobiografia («Ero l’uomo ragno», Cairo Editore), che esce domani, sembra un romanzo.

«Be’ ma allora le racconto la follia delle follie. Con Elvira (Carfagna, la prima moglie, ndr) ci siamo sposati a vent’anni, troppo giovani, lo so bene. Poi ci separiamo, senza figli. Dopo sei mesi ci rimettiamo insieme, annulliamo la separazione e facciamo un figlio. Qualche mese dopo ci separiamo definitivamente». 

Lei è stato figlio di genitori separati, all’epoca una condizione inusuale.

«Sì, e poi c’è la ferita ancora aperta con mio padre Alfonso. Non ci siamo parlati per anni, troppe incomprensioni, troppa distanza. Io ho giocato agli Europei e ai Mondiali e lui non si è nemmeno fatto sentire. Poi lui si è ammalato. Io ero a Bucarest, mi sono precipitato a Milano. È stato allora, qualche giorno prima di morire, che mi ha detto “Ti voglio bene” per la prima volta». 

Come lo ha fatto?

«Mi ha consegnato una lettera. Leggendola, non credevo ai miei occhi: siamo stati lontani per una vita intera e in quelle righe, mentre si preparava a salutarmi per sempre, mi diceva che lui mi era sempre stato accanto, che aveva seguito passo dopo passo la mia carriera, che si era appuntato successi e critiche, che era fiero di me e che mi voleva bene. Ero distrutto». 

Come ha vissuto le parole che i suoi figli Nicolò e Andrea le hanno rivolto in tv e sui social, accusandola di essere stato poco presente?

«In modo devastante. Però li capisco e dico questo: quando ci si separa non ci sono vincitori né vinti, al massimo si pareggia la sconfitta. Il mio lavoro mi ha portato in giro per il mondo. Non sempre ho potuto essere accanto a loro, ma ho preso un aereo per vederli ogni volta che ho potuto. Guardi il mio braccio: mi sono tatuato i nomi dei figli». 

Ma con Andrea e Nicolò vi siete chiariti?

«Sì, ci siamo parlati a lungo e ci siamo visti». 

I due più piccoli, Samira e Walter jr sono a Dubai con sua moglie Raluca Rebedea.

«Quando mi chiamarono ad allenare il Cagliari feci quattro giorni di lavoro e poi il mondo si chiuse per la pandemia. Da marzo ad agosto ho potuto vedere i miei bambini solo per sette giorni e sa come ho fatto? Ho preso un aereo privato, sono atterrato a Dubai, mi hanno chiuso in un albergo per aspettare i risultati del test anti-Covid, quindi sono potuto andare da loro. Qualche giorno e poi di nuovo in Italia, aereo privato, eccetera. Capisce perché quando mi guardo allo specchio e mi domando se sono stato un buon padre la risposta che mi do ogni volta è sempre “sì”».

E in campo, le «pugnalate» più feroci?

«Be’, di certo quando l’Inter decise per lo scambio con Pagliuca. Non è che io sia contrario ad allontanare una bandiera, per carità. Però i termini devono essere chiari. Non una cosa del tipo “Vediamo se va in porto, sennò resti”. No, quello no. Me ne andai, ma dissi “Tornerò”». 

Grandi amicizie?

«Luca Vialli prima di tutto, per me un fratello. Pensi che quando giocavamo nell’under 21 lui aveva una fidanzata di Cremona che gli firmava le giustificazioni a scuola. E poi Mancini, con quel piglio presidentesco. Ma potrei dirle Bergomi, Gullit, Sinisa». 

Com’è Mihajlovic?

«Veste male. Ma non glielo dica, sennò s’incazza. Anzi, gli mando un messaggio qui: Sinisa, ti voglio bene». 

Tanti amici milanisti.

«Eccome. Ma io, Billy Costacurta, Paolo Maldini e tanti altri siamo cresciuti assieme. Giochiamo da quando eravamo bambini. C’era e c’è un grandissimo rispetto tra di noi e sa perché? Perché ci prendevamo le colpe. Una volta l’interista o il milanista allo stadio sapevano bene chi insultare. Oggi il tifoso è disorientato. Certo, te la puoi prendere con una stella di prima categoria, ma la bandiera di una squadra è altra cosa». 

«There is one ball», c’è un solo pallone, dice il grande Giovanni Trapattoni.

«Il Trap è un gigante. Alla vigilia delle partite, alle dieci di sera faceva i blitz e veniva a bussare in camera: “Tutto bene ragazzi?”. Io però ho vissuto anche l’era Bearzot». 

E com’era «il vecio»?

«Lo innervosiva tutto quello che era raduno, vita del villaggio, controlli. Lui era alla vecchia maniera: ritiro, albergo, allenamento rigoroso». 

Ha mai giocato una partita con la morte nel cuore?

«Be’, ci può essere un ragazzo triste dietro al portiere che vince la Coppa Uefa contro il Salisburgo, perché sa bene che dovrà lasciare la sua amata Inter. Eccomi. Il calcio per me rimane la vita stessa».

Fabrizio Biasin per Libero Quotidiano il 14 giugno 2021.

Walter Zenga, come si sta a Dubai.

«Guarda che sono qui da dieci anni».

Lo so.

«Te lo dico perché molti ancora oggi mi dicono "bello! Ti sei appena trasferito?"». 

Ti piace vivere lì?

«Sì, ma Milano mi manca da impazzire e il tempo passa...».

Quantomeno passa per tutti.

«Per fortuna non dimostro i miei anni, sia fisicamente che di testa». 

Ne hai compiuti 61 da poco, Walter. Come stai?

«Decisamente male». 

Ellapeppa, perché?

«Come faccio a star bene quando vedo che il Verona prende Di Francesco, che Giampaolo è sulla bocca di tutti, che la Gazzetta nomina Stankovic come miglior "italiano" all' estero o cita Bergodi e Mangia, grandi ex allenatori del Craiova in Romania. E io?».

Si sono dimenticati dite?

«Mi hai chiesto come sto e te l'ho detto. Anzi, sto per prendere una decisione importante...».

Mi stai regalando uno scoop? Ottimo! Me lo tengo per il finale, così teniamo alta l'attenzione. Intanto dimmi di Turchia -Italia 0-3.

«Entusiasmo, passione, amore». 

Cioè?

«Sono le 3 cose che abbiamo perso per colpa del covid, forse anche per colpa dei social. Mancini ci ha ridato tutto questo. Se pensi che un certo tipo di gioco non lo riescono a fare neanche i tecnici dei club che vedono i loro giocatori tutti i giorni, capisci quanto vale il suo lavoro». 

Tu lo conosci bene, il Mancio.

«Eccome se lo conosco. La sua grande qualità è sembrare sempre rilassato, poi magari dentro non è così, ma all' esterno tiene tutto sotto controllo. Senza nulla togliere ai campioni del 2006, il Mancio ha ridato alla gente l'entusiasmo che c' era attorno alla mia nazionale, quella degli Europei '88 e di Italia '90». 

Quella però mica ha vinto...

«Magari non vincerà neanche questa, non è questo il punto. È il clima che si respira a fare la differenza, se andrà tutto bene giocheremo altre 6 partite, altrimenti... sticazzi! E basta con questa cosa molto italiana...». 

Quale?

«Quella di buttarci giù. Prima del match con la Turchia era tutto un "oddio la Turchia, che paura...", poi li vedi e capisci cosa c' è in giro per l'Europa. Il bello è che poi danno dei difensivisti a noi tecnici italiani». 

A proposito, sei "giochista" o "risultatista"?

«Tutti vorrebbero vincere dominando, ma la grande capacità di un tecnico è capire che tipo di materiale ha a disposizione e farlo rendere al massimo. Pensa a Conte...». 

Cosa c' entra Conte?

«Fino all' eliminazione dalla Champions, la sua Inter, giocava un calcio che c' entrava poco con i suoi interpreti, poi ha cambiato e l'Inter ha vinto in carrozza». 

Cosa pensi del suo addio ai nerazzurri?

«Un professionista è libero di prendere le decisioni che ritiene più opportune.

ZENGA DE FILIPPI

Può fare due cose: decidere di levarsi di torno o affrontare i problemi. Io non ho mai evitato i problemi e, ti dirò, me la sono sempre presa in quel posto. Se non scendi dalla barca poi ne paghi le conseguenze». 

Quindi Conte ha fatto bene?

«No. E qui ti parlo da tifoso. Dico io, hai appena vinto il campionato, tutti ti vogliono bene. Organizza una bella conferenza con il club dove dite le cose come stanno e si va avanti assieme. Credimi, nessun tifoso dell'Inter avrebbe detto nulla, anzi avrebbero raddoppiato l'attaccamento. La verità è che noi dell'Inter dobbiamo sempre soffrire...». 

Hai sperato per un attimo che suonasse il telefono? «Pronto, Walter, sono Marotta...».

«No, questa volta non ci ho sperato... E’ riuscito a tornare anche il "mio" Cordaz (lo allenava a Crotone ndr), ma io no! E comunque Simone Inzaghi è un'ottima scelta». 

Se dovessi sacrificare uno tra i campioni d' Italia?

«Pinamonti!».

Riformulo, uno tra i titolarissimi...

«Sono scelte del club, dipende dalle richieste che arrivano, non dal tecnico».

Ora ti faccio un po' di domande a caso. L' allenatore più bravo al mondo.

«In base alle vittorie ti dovrei dire Emery e Tuchel, ma Gasperini è il numero 1: non ha vinto niente ma ha fatto qualcosa di incredibile. E se gli prendono un paio di pedine...». 

Il portiere più forte di sempre?

«Ce ne sono troppi! Dal 1983 al 1995 mi metto tra i primi».

Attualmente?

«Per me Oblak».

A proposito, cosa mi dici di Donnarumma che lascia il Milan? Tu non lo avresti mai fatto.

«Conosco Gigio, è una bella persona. Sono altri tempi: al giorno d' oggi scelgono tutti, diciamo così, "l'opzione migliore", non la maglia. E poi dimmi il nome di una bandiera, non ce ne sono più». 

Beh, Berardi! Chi è l'azzurro che ti ha impressionato di più l'altra sera?

«Spinazzola. E anche Belotti per quello che ha fatto sul gol di Immobile: una corsa di 70 metri per abbracciare il suo compagno. Si vince con le squadre, non con i singoli».

Mi hai detto che stai per prendere una decisione importante. Non vorrai mica smettere di allenare.

«Non sembra, ma faccio il mister da 20 anni e da uno sono fermo. Ho avuto un contatto col Crotone, ma mi proponevano 3 mesi e io volevo poter affrontare anche l'eventuale serie B. Ora ho bisogno di capire se qualcuno crede ancora in me».

Senti, te lo devo chiedere: vorresti tornare al famoso Italia -Argentina...

«No! È come chiedere a Baggio di ritirare il rigore di Usa '94 o a Di Biagio quello di Francia '98. Non esiste. È inutile andare a cercare la felicità dove l'hai persa».

Da corriere.it il 6 gennaio 2021. Burrasca in casa Zenga, o nelle «case Zenga». Andrea, figlio di Walter ex portiere dell’Inter e della Nazionale, al momento è al Grande Fratello Vip. E durante una delle «confessioni» tipiche della trasmissione ha raccontato che lui e il fratello Nicolò non hanno praticamente mai sentito il padre, e che sono stati cresciuti solo dalla madre Roberta Termali, seconda moglie di Walter. Andrea, 27 anni, in passato portiere a livello dei Dilettanti e ora modello, spiega: «Quando ero piccolo lo sentivo ogni tanto. Dopo i 13 anni lo avrò sentito un paio di volte in tutto. Ci siamo incontrati nel 2019 al matrimonio di mio fratello maggiore: non ci vedevamo da 13 anni, è nata e morta lì, ci siamo solo salutati». Questo, però, non è una colpa del padre, spiega il figlio che aggiunge: «Non lo dico con cattiveria, ma lui nei momenti importanti non c’è stato. Secondo me non è un obbligo essere padri, è un volere: se questo volere non c’è stato, non posso fargliene una colpa». Zenga però ora starebbe cercando di contattare il giovane: «Chi non c’è stato e vuole entrare nella mia vita lo deve volere: a 27 anni non mi serve ricevere un messaggio al mese, devo avere qualcosa in più. Con questo non sto rinnegando mio papà. Secondo me deve essere il padre a fare il primo passo: perché dovremmo essere io e mio fratello ad andare a cercare una persona che nei momenti importanti non c’è stata?». L’ex numero uno nerazzurro, che ha in totale cinque figli — Jacopo, avuto dalla prima moglie Elvira Carfagna; Andrea e Nicolò, appunto; Samira e Walter jr. avuti dalla terza moglie Raluca Rebedea, dalla quale ha appena annunciato il divorzio — ha prontamente replicato a mezzo Instagram con una foto che recita «Parla della mia vita quando la tua sarà un esempio. E quando la tua vita sarà un esempio, ti renderai conto che non avrai voglia di parlare della mia», e un messaggio a chi lo ha insultato: «Per tutti quelli che mi hanno inviato insulti, scritto cose volgari sotto le foto dei miei figli, per tutti voi che giudicate senza conoscere…».

Da golssip.it il 28 gennaio 2021. Le due ex compagne di Walter Zenga hanno rilasciato alcune dichiarazioni ai microfoni della rivista Chi per quanto riguarda la disputa tra i figli e l’ex portiere. Un tema delicato, che tocca la sensibilità di molti. Entrambe hanno scelto un profilo basso.

Roberta Termali: “Ci tengo a specificare, a scanso di ogni equivoco, che non voglio parlare di Walter, perché non lo sento da tempo e lui potrebbe dirmi “fatti i fatti tuoi”. E lo stesso deve valere per lui nei miei confronti. Appartiene a una vita che non c’è più. Sono 24 anni che ci siamo lasciati. Non ho nulla da dire se non che Walter dovrebbe chiedere scusa per primo a Nicolò perché ha sofferto di più e ha protetto Andrea che era più piccolo. Niki lavora in un’azienda, si fa il mazzo; Andrea prima del GF Vip faceva l’agente immobiliare. Il padre, il loro padre, non c’era. Posso assicurarvi che non mi vedrete in giro a spiattellare i fatti di casa nostra, a differenza di quanto fanno altri. L’ho trovato davvero ingiusto. Qui si tratta di rapporti umani, di sofferenza e del cuore. E da madre non posso dire altro che: guai a chi fa soffrire i miei figli! Io sono una tigre, mi butterei nel fuoco per loro”.

Hoara Borselli: “Quando ci si lascia si soffre sempre in due: chi abbandona, appunto, e chi viene abbandonato. Mi auguro che tutto si risolva per il meglio. Walter è un capitolo lontano della mia vita. Siamo stati insieme cinque anni e onestamente non mi piace star qui a rilasciare dichiarazioni come “la ex di”. Ma qui si tocca un tema importante: non si parla di gossip, ma del rapporto tra padre e figli. Io mi ricordo quegli anni: soffrivano da entrambe le parti. Quando io sono stata con Walter lui aveva iniziato a fare l’allenatore in giro per il mondo. Ricordo che per tre anni siamo stati negli Stati Uniti: la distanza, quella enorme distanza, non ha certo aiutato a migliorare i rapporti. In cuor mio mi auguro che ritrovino la serenità. Ricordo la sofferenza da ambo i lati. Ed era tanta. Da entrambe le parti. Tifo per il oro bene. ecco. Walter? Per quel che mi riguarda è un capitolo chiuso: non l’ho mai più sentito”.

Da sport.virgilio.it il 10 gennaio 2021. Quelle parole spese, anche sull’onda dell’emotività, da Andrea Zenga in merito al rapporto con suo padre Walter nella diretta della scorsa puntata del Grande Fratello Vip ha scardinato alcune remore. La cautela iniziale nutrita nei primi giorni è venuta a mancare, complice anche la progressiva confidenza con le telecamere e l’abbattimento delle inibizioni iniziali. La replica, via Instagram, di Walter Zenga si è rivelata allusiva, ma non esplicita. Sottintende delle questioni sospese, irrisolte. E così sono dalle stesse frasi spese dal figlio in queste ore.

Lo sfogo di Andrea Zenga con Zelletta e Pretelli. “Io di lui non ho niente, niente”, ha detto Andrea parlando con Zelletta. “Vorrei raccontarvi dei dettagli, che non posso raccontare, piccole cose, dei dettagli che non posso raccontare”. Proprio le persone con cui ha più legato Andrea, ovvero Andrea Zelletta e Pierpaolo Pretelli hanno cercato di consentire a Zenga jr di aprirsi: “Ho capito che dici che ci sono cose peggiori e problemi più gravi, ma la famiglia ha il suo valore e non sminuiamola”, gli ha detto Zelletta. Ma Andrea Zenga ha subito replicato: “Io di lui non ho niente e i genitori sono le persone che ti crescono”.

La rivelazione sul passato e la decisione di tacere di Andrea Zenga. “Nei momenti importanti della mia vita, e non lo dico con cattiveria, lui non c’è stato”, ha ribadito Andrea. Zelletta ha sostenuto: “Ho capito che dici che ci sono cose peggiori e problemi più gravi, ma la famiglia ha il suo valore e non sminuiamola”. Ma Andrea ha controbattuto: “Io di lui non ho niente e i genitori sono le persone che ti crescono”. Secondo Andrea Zenga anche se suo padre dovesse rivedere la sua posizione e cercare di ristabilire una relazione con lui e suo fratello maggiore, ci saranno delle condizioni, dei presupposti. “Per tornare da me, prima deve passare da mio fratello – ha detto – perché io so che cosa ha passato”. Una esigenza e una sofferenza condivisa e addirittura più sentita, come egli stesso ha spiegato in un lungo confronto a Tommaso Zorzi, con cui si è confidato e a cui ha spiegato il groviglio di sentimenti che lo legano a suo padre, oggi separato dalla moglie Raluca e padre di altri due bambini. Una replica che esprime solo una parte del suo vissuto e che attende, forse quando le opportunità e le condizioni umane lo consentiranno, di un confronto più sereno.

Da 361magazine.com l'11 gennaio 2021. Come il fratello Andrea, Nicolò Zenga ha raccontato del suo rapporto con il padre Walter. E’ stato ieri ospite in studio a Domenica Live Nicolò Zenga, il figlio maggiore di Walter e fratello di Andrea, che attualmente è un concorrente del Grande Fratello Vip. Il giovane ha raccontato – proprio come il fratello – di non avere rapporti con il padre: “lui non c’è stato nella nostra vita”. “Se lo cercavo? Io sono sempre stato quello che ha cercato di avere contatto con lui. Andrea ha deciso di non averne bisogno perché aveva me e mamma. Io l’ho cercato spesso negli anni e a volte mi ha risposto ma a volte no… però è sempre stato non voluto o sentito da lui.”, ha raccontato Nicolò. Il racconto del loro rapporto continua: “A vent’anni gli ho scritto una lettera ma la risposta c’è stata a modo suo, non ha fatto breccia come avrei voluto. Gli ho raccontato il mio dolore ma ognuno fa le sue scelte, nessuno gli ha mai fatto una colpa. Io penso che lui quando siamo nati noi era nel pieno della carriera e non aveva l’istinto paterno che adesso ha con gli altri figli. Motivi di rabbia verso di noi? Non me ne vengono in mente. Nostra mamma ci ha spinto verso di lui, sempre. Mi ha bloccato su Instagram da un anno, non so bene il motivo non gli ho fatto niente, non ho avuto modo. Come ha detto Andrea siamo persone tranquillissime e siamo cresciuti bene.” Dopo che il figlio Andrea ha parlato del loro rapporto definendolo inesistente, Walter ha replicato sui social, scrivendo questa frase: “Parla della mia vita quando la tua sarà un esempio. E quando la tua sarà un esempio, ti renderai conto che non avrai voglia di parlare della mia.”

E su questo Nicolò spiega: “Me l’ha sempre data anche a me questa risposta, nascondendosi dietro queste frasi qua. Io l’ho sempre vista come un non volere confrontarsi. Mia mamma se lo spiega come noi…siamo legatissimi e ci diciamo tutto e non ci spieghiamo il motivo. Lui dice che il passo c’è stato perché una volta l’anno ti invita a Dubai ma sembra il compitino fatto. Ho preso l’aereo e sono andato a differenza di Andrea ma ad oggi il rapporto è lo stesso. Cosa voglio dirgli? Io non chiudo la porta ma se in 30 anni non sono mai riuscito a fare breccia…”

Da golssip.it il 25 gennaio 2021. Confronto totale oggi a Live Non è la D’Urso tra i figli di Walter Zenga, dopo il polverone sollevato da due di loro (Nicolò e Andrea). A parlare è il primo figlio Jacopo: “Non ho mai detto a nessuno che per 34 anni sono andato d’amore e d’accordo con papà, lo dico davanti a tutti gli italiani. In questo momento i problemi li ho superati, magari poi ci tornerò sopra. Ma forse caratterialmente siamo diversi. Sono due frasi che so che mio papà e Andrea si sono detti al mio matrimonio. Io lo so da Andrea. Papà ha parlato del fatto che la mamma di Nicolò e Andrea avesse raccontato cose errate a loro due per mettere il rapporto su una piega un po’ sbagliata”. Nicolò Zenga risponde così: “Capisci che non è una buona frase di apertura dopo 14 anni che non ti vedi parlare male di tua madre. Dato che questa conversazione non è andata bene Andrea ha detto a tutti che si è trattata di una conversazione veloce, per non entrare nei particolari”. Biagio D’Anelli, opinionista tv e amico di Walter Zenga,  in via del tutto esclusiva, ha consegnato a Barbara D’Urso la prefazione del libro autobiografico di Nicolò. Le parole sul padre sono dure e taglienti: “Fin da piccolo mio padre mi ha sempre trattato come se fossi un peso, quasi come se gli dessi fastidio. Uno dei primi ricordi che ho risale a quando con mia madre e mio fratello vivevamo a Como. All’epoca lui giocava a Padova e diceva che la vita di città era stressante. In realtà a Padova aveva un’amante con la quale viveva. Quando tornava dopo la partita non vedevo l’ora di abbracciarlo ma lui voleva solo leggere la Gazzetta dello Sport in pace”. E poi ancora: “Per anni mi è mancato il coraggio di dirgli quanto mi facesse soffrire vedere che in realtà a fare il padre era capace, semplicemente non lo aveva voluto fare con noi”. “Un pomeriggio gli ho detto quanto ho sofferto la sua assenza e mi ha risposto che non ero nessuno per poter giudicare la sua vita e non potevo permettermi di criticarlo. Mi ha detto che adesso aveva una nuova famiglia ed era giusto che pensasse solo a loro concludendo che per noi non esisteva più, addirittura domandandomi se avevo mai pensato di cambiare cognome”, racconta Nicolò in studio. Il libro del quale si parla a Live Non è la D’Urso non è stato ancora pubblicato. “Del libro – ha spiegato Nicolò – non l’ho detto alle persone a me vicine perché volevo avere meno opinioni e pressioni possibili, l’avrei comunicato prima della pubblicazione». Jacopo si è mostrato stupito: non aveva idea che il fratello avesse messo in un libro fatti così privati. “Walter Zenga molto presto apparirà”, ha concluso Barbara D’Urso. Recentemente Nicolò Zenga ha rilasciato una lunga intervista alla rivista Oggi nella quale ribadisce la brutta opinione che ha di suo papà.

Anticipazioni da Oggi  il 20 gennaio 2021. Dopo le "esternazioni" di Andrea Zenga sul padre Walter durante il Gf Vip («Nei momenti importanti della mia vita mio padre non c’è stato»), sul numero di OGGI in edicola da domani dice la sua Nicolò Zenga, il fratello maggiore di Andrea. «In 31 anni non sono mai riuscito a instaurare un rapporto con mio padre. Non è stato un papà, è stato un miraggio, una rincorsa costante... Di me e di Andrea, delle nostre passioni e delle nostre paure, non sa nulla», conferma Nicolò, che fa il manager in un'azienda che produce trivelle idrauliche e non sente il padre dalla fine del 2019. Nicolò racconta aneddoti e situazioni e conclude amaro: «Credo di sapere come si fa il padre. Mio padre mi ha dato un formidabile insegnamento “negativo”: io sarò il suo contrario». All'intervista "partecipa" anche sua madre Roberta Termali, la seconda moglie di Zenga, che rivela: «Io ho sempre invitato i miei figli ad avere un rapporto con il padre, e mi sono sempre adoperata perché si incontrassero: da Osimo li portavo a Milano perché Walter, che li passava a prendere a casa dei miei genitori, li potesse vedere senza “scomodarsi”. Certo, a detta dei ragazzi, la qualità del tempo che passavano insieme non era eccezionale».

Walter Zenga, l’incontro con il figlio Andrea al Grande Fratello Vip. Il ragazzo scoppia a piangere. Zenga, l’incontro con il figlio Andrea al Grande Fratello finisce in lacrime. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 30/1/2021. Zenga in guerra. Andrea: «Papà non c’è mai stato». Walter: «Parla di me solo se sarai un esempio». L’incontro tanto atteso, la resa dei conti. Walter Zenga e il figlio Andrea, faccia a faccia nella casa del Grande Fratello Vip. «Ho fatto degli errori, ma il passato non conta più. Ti aspetto fuori» dice il papà al figlio che, al termine del confronto, scoppia in lacrime. A inizio gennaio l’accusa: «Quando ero piccolo lo sentivo ogni tanto. Poi lo avrò sentito un paio di volte in tutto. Non c’è stato nelle cose importanti della mia vita — aveva raccontato Andrea, oggi 27 anni —. L’ho incontrato al matrimonio di mio fratello dopo 14 anni che non ci vedevamo, ma ci siamo solo salutati. Non voglio passare da vittima ma nei momenti importanti della mia vita, e non lo dico con cattiveria, lui non c’è stato». «Mi hai fatto venire da Dubai fino a qua – inizia con tono ironico Walter -. Ho grande rispetto di te e di quello che dici. Ma non ho mai avuto nella mia vita tutti gli insulti che mi sono preso ora, neanche quando giocavo i derby». «Mi dispiace», replica Andrea. «La verità a mio avviso è quella che viene raccontata – prosegue l’ex portiere dell’Inter -. Tu sei un uomo, io come te. Hai detto che non hai ricordi di infanzia. Io ce li ho. Quando esci da qua io ti aspetto, perché io ci sono sempre stato e ci sarò. Ci incontriamo e parliamo da uomo a uomo». «Non ho mai chiuso le porte a te, né io né Niki (il fratello, ndr)», dice Andrea. «È vero, magari a volte non ci sono stato. Ma non mi sembra che tu mi abbia mai mandato un messaggio» replica Walter. Andrea si sfoga: «Mi dici perché non vengo a Dubai. Ma perché non vieni una volta ad Osimo, a vedere dove sono cresciuto?», «Io vivo all’estero, faccio l’allenatore. Non è così semplice venire a Osimo». «Avrei apprezzato un papà che si interessa alla vita dei figli. E questo non c’è stato», si sfoga Andrea. C’è emozione da parte di entrambi, e occhi che nascondono a fatica tanta sofferenza: «Apprezzo che tu sia qui, la porta aperta te la lascio» dice Andrea. «Da portiere non è bello lasciare la porta aperta, lo sai benissimo. Eri anche bravo e mi dispiace tu abbia smesso di giocare, ma è un altro discorso», scherza Walter. «Sul passato non puoi tornare, per me non conta più niente. Se vuoi quando esci da qua ci vediamo io e te, poi Nicolò è un discorso a parte, parlerò anche con lui. Ma anche i figli devono fare qualcosa ogni tanto, non sono sempre i padri a dover fare il primo passo». «Se non fossi stato qua avresti fatto il primo passo?» chiede Andrea. «Certo che si», replica Walter. «Chiedilo a chi di dovere. Ci sono delle cose che non sai. Il bene per i figli non è solo quello dimostrato, si porta dentro. Poi se tu non hai 13 o 14 anni magari una telefonata la puoi fare anche tu». «Io non la faccio perché dall’altro lato non vedo voglia», sembra quasi giustificarsi Andrea. «La volontà di conoscersi fuori c’è» le parole del ragazzo. «Nel mio presente e nel mio futuro ci sarà posto per Andrea», risponde sicuro Walter ad una domanda di Alfonso Signorini. «Me lo auguro», risponde il figlio. «Dì le cose che pensi, senza paura, vai avanti per la tua strada qualunque sia la decisione che prendi. Vai avanti con le tue idee, senza nessun problema. Io sono abituato a prendermi le mie responsabilità e vado in giro a testa alta, a 60 anni». Non c’è guerra tra Walter e Andrea Zenga: «In questa situazione – ha concluso l’ex portiere – non c’è chi vince o chi perde. Non c’è una partita tra padre e figlio».

Grande Fratello Vip, strazio firmato Walter Zenga: gelo col figlio, quei legittimi sospetti. Daniela Mastromattei su Libero Quotidiano il 31 gennaio 2021. Un confronto straziante e surreale. Gelido e distaccato. A tratti triste. L'attesissimo faccia a faccia tra Walter Zenga e il figlio Andrea, 27 anni, nel giardino della casa del Grande Fratello Vip non è andato come tutti speravano. E non perché non ci sia stato un abbraccio (le regole del Covid lo hanno impedito), ma per la freddezza mostrata dai due protagonisti che non hanno lasciato nessuno spiraglio all'amore e alla comprensione e neppure al desiderio di volerci riprovare seriamente a costruire un rapporto affettuoso padre-figlio, privo di recriminazioni e interfenze. L'ex portiere di Inter e Sampdoria e della Nazionale, ex allenatore del Cagliari, è stato in qualche modo costretto a volare Roma, da Dubai dove vive, per parlare col figlio Andrea, che in queste settimane si è lamentato dell'assenza del padre negli anni. Un po' per placare le cattiverie sul suo conto uscite sui social («non ho mai ricevuto tanti insulti nella mia vita, neanche quando facevo i derby»), un po' perché Mediaset - chissà come - l'avrà convinto, l'ex calciatore, ora sessantenne, si è prestato al "teatrino". Le emozioni fanno salire lo share, a volte anche se sono finte. Quando la tv cerca di forzare i sentimenti ed entrare nell'intimità delle famiglie a gamba tesa, i risultati sono assai sgradevoli. Senza contare quell'ossessione per il lieto fine; nella realtà i rapporti umani sono molto più complicati e le questioni aperte non si possono risolvere in 22 minuti di faccia a faccia davanti a milioni di spettatori. Ecco perché durante il fatidico incontro nella casa più spiata d'Italia, su Twitter scrivevano: «Walter Zenga sembra di fronte a una trattativa per andare ad allenare la sua squadra del cuore, invece di cercare di trovare un punto dal quale partire per riavvicinarsi al figlio». Poi, la strada tortuosa delle giustificazioni. L'ex Uomo Ragno ha parlato del suo lavoro che lo porta continuamente in giro per il mondo con una battuta-domanda finale: «Mi lasci la porta aperta? Da portiere non è molto carino lasciare la porta aperta... Ti aspetto fuori, e non è una minaccia». Ma anche qui è stato bacchettato sui social: «È venuto per chiarire con suo figlio o per parlare della sua carriera, fare metafore sul calcio e raccontare barzellette?». Il popolo della rete è spietato. Zenga senior («non voglio dire che non ho colpe, mi prendo le mie responsabilità, ma il passato è passato, ora pensiamo al futuro») probabilmente abituato a mostrare davanti alle telecamere le sue abilità calcistiche, più che i sentimenti, non ha saputo far vedere il suo lato paterno per accontentare il pubblico, ormai compatto e schierato con il giovane Andrea del quale pensa tutto il bene possibile: «Un ragazzo educato, rispettoso, pieno di valori che non ha paura di mostrare le sue fragilità, grazie alla mamma». Prima di lasciare la casa, l'ex portiere dell'Inter ha chiosato: «Ho visto da qualche parte che c'è scritta "guerra", la guerra si fa tra due opposizioni. Non ho fatto nessuna battaglia. Quando sarai fuori di qui, se lo riterrai opportuno e vorrai conoscere la verità, ci incontreremo senza problemi. Io faccio l'allenatore all'estero, non è facile vedersi». Pensieri, parole e posizione di Andrea sono racchiusi nella risposta ad Alfonso Signorini che subito dopo il confronto gli ha domandato se avesse desiderato abbracciare il padre: «No, al massimo una stretta di mano. Non di più». Poi però è scoppiato in lacrime in diretta: «Avrei apprezzato un papà che si interessasse alla vita dei figli, e questo non si è verificato». E il dubbio: se non ci fosse stata di mezzo la tv, Walter Zenga sarebbe volato a Roma?

Da fcinter1908.it il 30 gennaio 2021. Non hanno un grande rapporto e il figlio lo ha ribadito più volte. Da quando Andrea è entrato nella casa del Grande Fratello Vip, la vita privata dell’ex portiere dell’Inter, Walter Zenga, è finita sotto ai riflettori. Così è tornato in Italia per difendersi e confrontarsi con il figlio. Lo ha fatto in un faccia a faccia andato in onda proprio su Canale 5 durante la puntata in prima serata. Innanzitutto ha risposto innanzitutto alle domande di Signorini e ha detto: «È un anno che non vedo anche Jacopo, il mio primogenito, con il covid e il mio lavoro. Quando ero a Cagliari non ho visto i miei figli piccoli: sono abituato ai tempi lunghi da genitore, ma non c’è nessun problema. Il ricordo più vivo di Andrea? A parte il matrimonio di Jacopo mi è rimasto impresso nel 2007 quando sono venuti a trovarmi negli Emirati a trovarmi, è stata una bella situazione. Sono stati con me una settimana. Vivendo in tre Continenti diversi non è semplice avere un rapporto continuativo». “Erano 14 anni che non vivevi un’emozione così con Andrea…”, ha sottolineato il conduttore. “Va beh, ma il matrimonio di Jacopo è stato nel 2019...”, ha replicato l’allenatore.

NESSUNA GUERRA – «Ho visto che si è parlato di guerra, ma non ho mai fatto nessuna guerra, ho sempre subito e sono qua per chiarire alcuni aspetti e quando sarà uscito da qui, se da uomo deciderà di conoscere la verità raccontata, ci vedremo senza problemi. Io faccio l’allenatore e vivo all’estero e non è facile dare continuità ai rapporti. Ma bisogna sempre essere leali e corretti. Io ho fatto degli errori come fanno tutti nella vita, ma sono qui per incontrarlo e guardarci negli occhi. Ci mancherebbe che io non voglia bene a mio figlio. Non ho tirato fuori io il problema, lo avrei gestito senza intromissioni. I social creano situazioni negative e trovarsi sotto la foto dei bambini gli insulti delle persone non è bello perché nessuno sa la verità. Io ho scritto un post non contro mio figlio, non gli avrei risposto su Instagram. Ce l’avevo con chi mi ha attaccato. Andrea è come me, siamo molto simili di carattere. Abbiamo anche la stessa barba, ma lui è più bello ovviamente», ha aggiunto ancora l’ex interista. Prima di vedere il padre, Andrea ha detto: «Per una mia scelta di parlare della mia vita in tv magari creo problemi che se non fossi venuto qui non si sarebbero creati e mi dispiace che lui o altri ricevano insulti per alcune mie dichiarazioni. Ma può trattarsi di lui o di altre persone di cui parlo. Se la figura di papà mi suscita affetto ad oggi? Non saprei rispondere, molto sinceramente. Se ho mai avuto la speranza di vederlo in tv? Speranza onestamente no. Sono consapevole. Preferirei un confronto fuori, ma capisco che è stato tirato in ballo e avrebbe il diritto di potersi esprimere». Poi il confronto con il figlio in diretta tv. Ecco cosa si sono detti: «Sono venuto appositamente da Dubai. Ho grande rispetto per te e quello che dici. Ma non ho mai ricevuto tanti insulti nella mia vita, neanche quando facevo i derby. Perché la verità è quella che viene raccontata. Siamo due uomini. Tu hai detto di non avere ricordi di infanzia con me. Ma io mi ricordo. Tu sai bene che una persona come me separata e per il mio vivere in tanti Paesi nel mondo – non voglio giustificarmi mi prendo le mie responsabilità –  fa difficoltà. Io ci sono sempre stato e ci sarò anche quando esci. Ci vediamo dove vuoi tu. Ci incontriamo e parliamo da uomo a uomo e decidiamo insieme».

A PORTA APERTA – «Non c’è una decisione da prendere. Forse chiedo qualcosa di troppo – ha replicato il figlio – parla anche con Nicky. Io non ho mai chiuso le porte a te. Né io e né mio fratello. Credo che prima ci sia lui, non vengo prima perché sono in tv. Non ti sto dando colpe che non ho. Perché non vieni tu a trovarci una volta? Non ho mai visto da parte tua che venivi a vedere dove e come vivevo, avremmo apprezzato un papà che cerca di conoscere i figli. Non voglio cercare una cosa che non posso avere. Non mi cambia un messaggio al mese. Apprezzo che sei qui e la porta aperta te la lascio. Apprezzo ma la voglia va dimostrata fuori».

CONFRONTO FUORI – «È vero, a volte non ci sono stato. Tralasciando le squadre che ho allenato nella mia vita, in Italia, non mi sembra che tu mi abbia mai mandato un messaggio. Anche solo per parlarmi del mio lavoro. Io da adolescente ti vedevo spesso. Ma visto che vivo all’estero non era facile essere ad Osimo dove vivi. Sapevo comunque tante cose di voi. Mi lasci la porta aperta? Da portiere non è molto carino lasciare la porta aperta (sorride.ndr). Eri anche bravo e mi dispiace tu abbia smesso di giocare, ma è un altro discorso. Il passato per me non conta più niente. Se vuoi quando esci da qua ci vediamo io e te. Nicolò (l’altro figlio di Walter.ndr) è un discorso a parte e parlerò anche con lui. Per me la verità è quella raccontata e non quella sentita. Anche i figli devono dimostrare, anche i figli devono fare qualcosa. Io e te abbiamo il carattere anche molto simile. Lo capirai quando diventerai papà. Sono contento di averti visto, mi ha fatto piacere». Se non fossi stato qua avresti fatto il primo passo?”, ha chiesto Andrea. E Walter ha risposto: «Certo che sì. Il bene per i figli si porta dentro. Da un anno non ho visto Jacopo e per mesi neanche gli ultimi dei due miei figli. C’è una quotidianità e poi se non hai 13-14 anni una telefonata la può fare anche un figlio». «Io non vedo voglia da parte tua, per questo non telefono. Sicuramente da parte mia c’è la voglia di vederci fuori», la replica di Andrea. «Lui ha detto delle cose che ho apprezzato quando ha detto che le cose dette al GF Vip possono essere fraintese. Nelle cose ci sono delle motivazioni che spesso sono complicate da spiegare. Io non sono stato accettato. Ma nel passato non ci sono le stesse cose e le stesse persone. Andrea, continua a vivere il presente. Siamo grandi, ci vediamo fuori dalla casa», ha continuato il tecnico. Entrambi hanno risposto alla domanda di Signorini: «Come faccio a dire che non c’è spazio per lui nella mia vita? Ma certo che c’è posto. Non c’è problema, devi continuare a dire le cose che pensi, senza paura, vai avanti per la tua strada qualunque sia la decisione che prendi. Vai avanti con le tue idee, senza nessun problema. Io sono abituato a prendermi le mie responsabilità e vado in giro a testa alta senza problemi», ha detto Zenga. «Io me lo auguro che ci sia spazio per lui nella mia vita. Vediamo fuori», ha risposto invece Andrea. «In questa situazione – ha concluso l’ex portiere – non c’è chi vince o chi perde. Non c’è una partita tra padre e figlio».

Andrea Carnevale compie 60 anni: cadute e rinascite del "gemello" di Maradona. Antonio Lamorte su Il Riformista il 12 Gennaio 2021. Due o tre cose in comune tra Andrea Carnevale e Diego Armando Maradona: un’infanzia difficile, Napoli, la cocaina, mille cadute e mille rinascite. E il talento, certo, quello di fare felice la gente – soprattutto i napoletani – giocando a pallone. Il primo tanto quanto non sarà più possibile emulare, il secondo tanto quanto è bastato per diventare uno degli attaccanti italiani più forti degli anni ’80. Carnevale oggi compie 60 anni, tutti o quasi a rincorrere il pallone, e spesso sulle montagne russe, spericolati, anche chiacchierati, purtroppo tormentati. Un romanzo sportivo, nero e rosa tutto insieme. Monte San Biagio non è Villa Fiorito: 6mila persone, basso Lazio, provincia di Latina. Il paesino non è il barrio povero e sgarrupato dove cresce il Pibe de Oro, ma l’infanzia di Andrea Carnevale è perfino più drammatica. A colpi di ascia il padre Gaetano, ex manovale delle ferrovie dello stato, uccide la madre Filomena, che sta facendo il bucato al fiume dietro casa. Un raptus. L’uomo poi si mette l’abito buono e si costituisce – anni dopo morirà suicida, nel manicomio giudiziario di Aversa. Carnevale ha 13 anni, sei fratelli, lascia la scuola e inizia a lavorare. Muratore, falegname, quello che c’è da fare, e la sera gli allenamenti. E’ alto, un portento fisico, la falcata che pare un cavallo.

Le giovanili nel Fondi. Poi Latina, Avellino, Reggiana, Cagliari, Catania, Udinese. Il camino delle provinciali si spezza nel 1986: arriva a Napoli, tre anni dopo il San Paolo pieno per l’acquisto di Diego Armando Maradona. Carnevale costa 4 miliardi di lire. Con lui anche Fernando De Napoli, Giuseppe Volpecina, Francesco Romano. Una squadra che farà la storia. Lui segna 8 gol, l’ottavo il 10 maggio 1987, alla Fiorentina. Finisce 1-1 ma il Napoli è per la prima volta campione d’Italia. E’ l’inizio di quattro anni indimenticabili. Carnevale è determinante, lo dice il suo allenatore Ottavio Bianchi, per i suoi movimenti, lo spirito di adattamento, l’intesa con Giordano, Careca e Maradona, naturalmente. “Pur di giocare con lui avrei giocato anche in porta. Ho saputo dare anche in un ruolo non mio qualcosa. Pur di giocare con lui, Careca e Giordano avrei giocato ovunque”. Saranno quattro anni di successi: due scudetti, due Coppe Italia, una Coppa UEFA. Si sfascia tutto nell’estate italiana, le Notti Magiche del Mondiale del ’90 di Maradona e Carnevale diventano un incubo. L’italiano parte titolare, al fianco di Gianluca Vialli. Quando alla seconda Vicini lo sostituisce gli scappa un “vaffa”. Fine: le altre partite le guarda dalla tribuna. Per El Pibe sono i Mondiali del “grazie a me, gli italiani a Milano hanno smesso di essere razzisti: oggi, per la prima volta, hanno sostenuto gli africani”, dei napoletani che tifano o non tifano per l’albiceleste (ancora è argomento di dibattito), dell’“hijos de puta” ai fischi all’inno dell’Argentina, della finale persa per un rigore e del rapporto inevitabilmente incrinato con il Paese. Tanta è la delusione che il giorno dopo l’argentino non ha cuore di andare al matrimonio dell’amico: Carnevale sposa infatti Paola Perego, giovane conduttrice e showgirl. I due si sono conosciuti a Venezia, lui andava a ritirare un premio. Un amore molto chiacchierato. Due figli, Giulia e Riccardo, e nel 1997 il divorzio. Prima però, quella stessa estate italiana delle nozze e dei mondiali finiti male, c’è il passaggio alla Roma. Parte forte, Carnevale, 4 gol in 5 partite. Poi la botta: squalifica per doping. Con il compagno di squadra Angelo Peruzzi è positivo alla Fentermina, il farmaco Lipopill, usato per dimagrire. Maradona invece è positivo alla cocaina nel marzo del 1991. Lascia Napoli e dopo una squalifica di un anno e mezzo riprende a Siviglia. Non sarà più lo stesso.

Nell’estate 1990 passa alla Roma per 6,8 miliardi di lire. Dopo un inizio di campionato segnato da quattro gol in cinque partite, viene successivamente squalificato per doping, accusato, con il compagno di squadra Angelo Peruzzi, di avere assunto fentermina mediante pastiglie anti-obesità.

Come non sarà lo stesso Carnevale, dopo un anno di squalifica. Quando torna segna 25 gol in 73 presenze in giallorosso. Poi chiude tra Udinese e Pescara. Le vite spericolate trovano un altro punto in comune nello stesso tormento. La cocaina. Carnevale viene arrestato nel 2003 con altre 11 persone in un’operazione antidroga che coinvolge anche la politica. Esce assolto ma segnato. Un altro scoglio non può però arginare l’ennesima rinascita di Carnevale, che si ripulische, sposa Beatrice, che dà alla luce Arianna, diventa anche Nonno. Ricomincia daccapo, sempre dal pallone. E’ uno degli artefici del "modello Udinese", del piccolo club che sfiora la grande Europa più volte e mette paura alle grandi: di una squadra che scova talenti nei cinque continenti. Alexis Sanchez, Piotr Zielinski, Allan per citarne qualcuno. Gli osservatori, ecco, li coordina proprio lui. E sul suo numero 10, scomparso all’improvviso lo scorso 25 novembre, in un’intervista proprio nel giorno del suo compleanno a Radio Marte, dice: “Ero legatissimo a Diego, è stato un vero uomo. Ho perso un amico vero, come se fosse stato uno di famiglia. Oggi ancora non riesco a crederci a ciò che è capitato, mi manca tantissimo. Oggi avrei ricevuto sicuramente i suoi auguri, so che me li manderà lo stesso da lassù“. Diventare direttore generale del Napoli sarebbe un onore, aggiunge. Un’altra maniera per ritrovare l’amico, il gemello del gol, più che un compagno di squadra, proprio in quel San Paolo diventato Stadio Diego Armando Maradona.

Andrea Sereni per corriere.it il 15 gennaio 2021. «Da piccolo mangiavo poco, avevo sempre fame. Eravamo sette fratelli, senza genitori: dovevo portare il pane a casa e mi inventavo di tutto. Nel calcio questa fame è stata una fortuna: volevo cambiare la mia vita». Ce l’ha fatta. Andrea Carnevale taglia il traguardo dei 60 anni con la serenità che solo uno che ha combattuto e vinto tante battaglie può avere. È arrivato in alto con il pallone sotto braccio, salvagente nel mare in tempesta. È caduto, anche rumorosamente, ma si è rialzato. Ha sofferto, come lo scorso novembre, quando è morto l’amico Diego Armando Maradona: «Quel pomeriggio mi sono arrivate telefonate, poi messaggi. Non ci volevo credere». Balbetta leggermente, la voce è un po’ incrinata. Cerca le parole giuste: «Ancora oggi mi sembra strano che non ci sia più. Non lo nascondo, ho pianto per Diego».

Eravate insieme nel Napoli che ha vinto gli scudetti del 1987 e del 1990. Come ricorda quel periodo?

«Un sogno divenuto realtà. Il popolo napoletano ci trascinava, volevano vincere come e più di noi. Due campionati, una Coppa Italia e una Coppa Uefa, che trionfi. Da uomo del sud per me è stato un orgoglio. Uno scudetto a Napoli ne vale dieci a Milano o Torino. Nell’87 festeggiammo per più di due mesi, mai visto da nessuna parte nulla del genere».

Che ruolo aveva in quella squadra?

«A me toccava correre (ride, ndr). Giocavo con Maradona, Careca, i primi anni anche Giordano, dovevo lavorare anche per loro. Bianchi mi faceva partire a sinistra, poi spettava a me capire come muovermi guardando gli altri. Mi sacrificavo, ma lo facevo con piacere. Venivo da una piccola realtà, mi sono ritrovato come capitano il più grande di tutti i tempi. È stata una fortuna».

Che rapporto aveva con Maradona?

«Bellissimo. Siamo sempre rimasti in contatto. Quando veniva in Italia mi chiamava e lo andavo a salutare. Solo una volta non ho potuto, per lavoro. Me lo ricordo ancora. Quante serate abbiamo passato insieme, mi voleva al suo fianco. Nel 1999 sono stato con lui anche in Brasile, siamo andati al carnevale di Rio».

Quando vi siete sentiti l’ultima volta?

«Recentemente era più difficile parlargli. Quando ho saputo dell’operazione al cervello chiedevo di lui a Stefano Ceci (l’uomo che ne curava i rapporti in Italia, ndr). Una settimana prima della sua morte ho saputo che Guillermo Coppola, il suo vecchio manager, lo sarebbe andato presto a trovare. L’ho chiamato e gli ho detto: ‘Abbracciami il grande Diego, digli che gli voglio sempre bene’. Pochi giorni dopo è finito. Il dolore è stato forte».

Che idea si è fatto della sua morte? In Argentina hanno aperto un’inchiesta per presunte responsabilità dei medici che lo avevano in cura.

«Mi è dispiaciuto sapere che era solo. Sul resto non posso esprimermi. Mi faccia però dire che ho trovato squallidi e disgustosi alcuni commenti che ho sentito su di lui. Nella vita a tutti capita di commettere degli errori. Prima del Maradona calciatore per me c’era Diego, un uomo meraviglioso. Al di là del campione io amavo la persona. Appena sarà possibile andrò in Argentina a dargli un ultimo saluto».

Se le dico Maradona, quale è il primo aneddoto che le viene in mente?

«Dopo la finale di Italia 90 mi dovevo sposare. Il matrimonio era già fissato per il 12 luglio, Diego ovviamente doveva venire. Ma dopo la sconfitta con la Germania era disperato. Provai a chiamarlo, ma non mi rispose. L’ho compreso, sapevo bene come era fatto. Era una persona a cui non potevi voler male».

Che idea si è fatto della sua morte? In Argentina hanno aperto un’inchiesta per presunte responsabilità dei medici che lo avevano in cura.

«Mi è dispiaciuto sapere che era solo. Sul resto non posso esprimermi. Mi faccia però dire che ho trovato squallidi e disgustosi alcuni commenti che ho sentito su di lui. Nella vita a tutti capita di commettere degli errori. Prima del Maradona calciatore per me c’era Diego, un uomo meraviglioso. Al di là del campione io amavo la persona. Appena sarà possibile andrò in Argentina a dargli un ultimo saluto».

Se le dico Maradona, quale è il primo aneddoto che le viene in mente?

«Dopo la finale di Italia 90 mi dovevo sposare. Il matrimonio era già fissato per il 12 luglio, Diego ovviamente doveva venire. Ma dopo la sconfitta con la Germania era disperato. Provai a chiamarlo, ma non mi rispose. L’ho compreso, sapevo bene come era fatto. Era una persona a cui non potevi voler male».

Ecco, quel Mondiale. Ci racconta perché, da titolare annunciato, giocò solo due partite?

«Italia 90 era il mio Mondiale. Arrivavo dal secondo scudetto con il Napoli, mi ero allenato alla grande. Stavo bene sia fisicamente che psicologicamente. Non ho giocato male la prima gara, con l’Austria, ma ho sbagliato due gol facili. In quei casi un attaccante è subito bollato come somaro. Schillaci entrò al mio posto e segnò il gol vittoria dopo quattro minuti. Contro gli Stati Uniti non demeritai, ma Vicini mi sostituì di nuovo e io lo mandai a quel paese. Non meritavo di uscire».

Chiese scusa? Riusciste a chiarire?

«Certo, subito gli dissi che mi dispiaceva. Non è bastato. Da titolare fisso, con Vialli, dopo quel “vaffa” mi sono ritrovato in tribuna. Così è finito il mio Mondiale. Poi Schillaci e Baggio hanno fatto grandi cose, ma per me Italia 90 è stato un fallimento».

Subito dopo però si è sposato con Paola Perego. Una delle prime storie da copertina tra calciatori e donne dello spettacolo. Come è nata?

«L’ho conosciuta a Venezia. Era il 1987, o forse il 1988: dovevamo entrambi ritirare un premio. Prima della cerimonia salgo su un battello e lei era lì, seduta di fronte a me. Incredibile, si vede che era destino. Le ho rotto le scatole per tre, quattro mesi. Poi ci siamo fidanzati. Una bella storia».

E il matrimonio?

«A Monte San Biagio, dove sono nato, il 12 luglio del 1990. Eravamo giovani e popolari: il Mondiale per me non era andato bene, ma avevo poco prima vinto il secondo scudetto con il Napoli, e Paola anche era sulla cresta dell’onda. Il paese era pieno di persone, c’era gente anche sui tetti per vederci. Pure tanti tifosi, napoletani e romanisti insieme. È stato bellissimo».

Siete stati sposati fino al 1997, poi avete divorziato. Cosa è successo?

«Abbiamo avuto un rapporto con alti e bassi. C’è stata qualche incomprensione, poi alla fine un po’ di rabbia, da parte di entrambi. Ma è anche normale quando un amore finisce e due persone si lasciano».

Insieme avete avuto due figli.

«Sì, Giulia nel 1992 e Riccardo nel 1996».

Che rapporto ha oggi con loro?

«Bellissimo. Guai a chi li tocca. Riccardo tifa Roma: si è tatuato una mia foto sulla coscia, tiene molto a me. Giulia due anni fa mi ha fatto diventare nonno di Pietruccio. È stato un regalo. Poi, è chiaro, all’inizio la separazione dalla mamma ci ha allontanato. Ma oggi siamo molto uniti».

Anche con Paola e il suo nuovo marito?

«Assolutamente, anche con loro. Siamo come una grande famiglia. Spesso ci vediamo, loro sono venuti anche a cena a Monte San Biagio. Finisce l’amore ma restano l’affetto e i nostri figli e nipoti».

Lei anche si è risposato.

«Sì, dopo Paola ho conosciuto Beatrice e l’ho sposata nel 2005. Insieme abbiamo avuto Arianna, che oggi ha 18 anni. Viviamo a Udine da vent’anni. Lavoro per l’Udinese, sono il capo degli osservatori. Nel tempo abbiamo scovato gente come Muriel, Sanchez, Handanovic, Allan. Alle spalle abbiamo una grande società, non potrei chiedere di più».

Quali sono i talenti di questa Udinese?

«De Paul è un fuoriclasse. Poi ci sono Musso, Becao, Mandragora, Lasagna. Ottimi giocatori, due o tre presto spiccheranno il volo. Ne sono sicuro».

Lei lavora per il club friulano, suo figlio Riccardo ci ha detto che è romanista. I suoi anni alla Roma però non sono stati facili.

«Ci sono arrivato dopo il Napoli, nel mio momento migliore. Ho segnato quattro gol nelle prime cinque partite giocate in giallorosso, poi però ho commesso una leggerezza. Ho assunto un farmaco dimagrante che credevo essere legale. Non lo era, risultava come doping. Mi hanno sospeso per un anno».

Come ha vissuto quel periodo?

«Malissimo. All’inizio sembrava una sciocchezza, mi avevano detto che avrei perso al massimo due mesi. Stare fermo un anno è stato durissimo, anche dal punto di vista psicologico. La condanna mi spinse verso il ritiro. Al rientro dalla squalifica giocai un paio d’anni alla Roma, poi tornai a Udine. A quei tempi a 33 anni eri già vecchio per il mondo del calcio, adesso se ne hai 39 continuano a rinnovarti il contratto».

Altro scoglio: l’arresto con l’accusa di detenzione di cocaina nel 2002.

«Io uno spacciatore internazionale, mi veniva quasi da ridere. Una vicenda dalla quale sono stato pienamente assolto, ne sono uscito pulito. Ma è stato tutto massacrante. Vivi con un’ombra d’ansia, solo dopo anni riacquisti serenità. Bisogna essere solidi, ben strutturati, sennò rischi di cadere in depressione. Davvero una brutta esperienza, ma ne sono uscito fortificato. Me ne possono dire tante, ma davanti alle difficoltà reagisco bene».

Proprio come ha fatto da bambino, quando ha perso in pochi anni la madre e il padre.

«Sono cresciuto senza genitori. Avevo 13 anni quando mamma è morta. Ma non ho mai avuto paura. In casa eravamo in sette, serviva che qualcuno portasse da mangiare. Mi svegliavo la mattina presto e andavo a lavorare. Ho fatto il muratore, aiutavo il falegname. Poi la sera andavo ad allenarmi. Mia sorella si arrabbiava, mi dava gli schiaffi. Secondo lei avrei dovuto solo lavorare. Ma io ero sicuro: ”Farò il calciatore, tranquilla. Un giorno diventerò famoso”. E così è stato».

Come è riuscito, da adolescente quale era, a superare un dolore così grande come la morte dei propri genitori?

«Con la testa. Ho costruito un muro per proteggermi, e ho chiuso il dolore in una cassaforte. Sono un capricorno, sono uno tosto. Fissavo obiettivi e lottavo per centrarli. Anche da calciatore, quando scendevo in campo pensavo solo a vincere, lasciavo fuori da quella sfera i problemi personali. Gliel’ho detto, avevo fame di arrivare, volevo cambiare la mia vita. Niente poteva fermarmi».

Michele Padovano. Irene Famà per “la Stampa” il 17 gennaio 2021. «Questa è la partita più importante della mia vita. Il gol decisivo da segnare». Quando si parla di Michele Padovano, ex bomber della Juventus, il paragone calcistico è inevitabile. Anche se, da 15 anni, la sua sfida si è trasferita dal campo di calcio alle aule di Palazzo di giustizia. Finito nei guai nel 2005, arrestato in un'operazione dei carabinieri che smantellò un traffico di droga dal Marocco all'Italia, si difende dall'accusa di aver finanziato alcune importazioni di hashish. Maglioncino blu, fisico atletico, il piglio dell'attaccante non l'ha perso, nonostante il carcere e le due condanne in primo e secondo grado. L'altro ieri la Cassazione gli ha concesso i supplementari, annullando con rinvio la sentenza della Corte d'Appello. Non è una vittoria. Ma la partita della vita è ancora aperta. Con lui, in campo, gli avvocati Michele Galasso e Giacomo Francini. «L'alternativa era il carcere e non potevo credere di tornare in cella da innocente». Ha sempre respinto le accuse.

Perché si è ritrovato in questo pasticcio?

«Pago la mia amicizia con Luca Mosole, ritenuto ai vertici dell'organizzazione criminale. Un amico di infanzia che avevo aiutato a saldare un debito. Non sono sciocco, sapevo che il suo tenore di vita non era equiparabile alle sue possibilità. Scherzando gli dicevo: "io sono la cronaca rosa, tu la cronaca nera". All'epoca avevo 38 anni e non pensavo di incappare in una storia del genere. Ora valuterei diversamente la situazione».

Un'amicizia sbagliata?

«Non l'ho mai rinnegata e che non la rinnego ora, che ci sentiamo pochissimo. Avrei dovuto trattarla con più attenzione. Mosole mi ha chiesto scusa, perché la mia vicinanza a lui mi ha messo nei guai».

Quando l'hanno arrestata lei era considerato un mito dai tifosi e non solo. Come ha vissuto quel momento?

«Subito ho pensato di essere su Scherzi a parte. All'epoca ero direttore generale dell'Alessandria, con un passato calcistico noto, e venivo trattato come un criminale. In carcere ho trovato grande umanità e con un paio di persone ci mandiamo qualche messaggio ancora ora. L'arrivo dei carabinieri è stato un fulmine a ciel sereno. Ero in una condizione mentale, economica e fisica eccezionale. In un attimo ho perso tutto».

La famiglia?

«No, mia moglie e mio figlio sono gli unici che non mi hanno mai abbandonato. Non hanno mai dubitato un secondo di me e questo mi ha dato la forza di continuare a combattere. All'epoca mio figlio aveva 15 anni. Per un ragazzo di quell'età non è stato semplice affrontare tutto questo, ma gli amici, almeno i suoi, gli sono stati vicino».

E chi le ha voltato le spalle?

«Non colpevolizzo né giudicare nessuno. Prendo atto del comportamento dei miei ex compagni. Ho sempre detto di essere innocente e ho tenuto la testa alta. Nulla di cui vergognarmi. Ma gli sguardi, nell'ambiente del calcio e nella vita sociale, erano indicativi. Solo i tifosi, soprattutto quelli juventini, hanno continuato a stimarmi».

L'ambiente calcistico l'ha emarginata?

«Ho cercato con tutte le forze di ritornarci, ma con scarsi risultati. Chi mi chiudeva la porta in faccia, chi mi riceveva ma capivo da solo che non ci sarebbe stato un secondo incontro».

Le manca quel mondo?

«Il calcio è la mia grande passione ed è quello che so fare. Tifo Toro sin da bambino. Certo, ho dovuto reinventarmi e ora gestisco un parco giochi per bambini a Rosta. Ma dell'ambiente del calcio mi manca tutto, soprattutto lo spogliatoio. Se andrà tutto bene, vorrei riprovarci. I conti non si pareggeranno mai, ma sarebbe un riscatto».

Da dove arriva la sua evidente fiducia nel nuovo processo d'Appello?

«Sono innocente. Questi 15 anni sono stati uno strazio. Non ho mai perso un'udienza e dopo la condanna in secondo grado, la mia fiducia nella giustizia ha vacillato. Ora quella fiducia l'ho ritrovata. E dopo 15 anni di limbo voglio riprendermi ciò che mi è stato tolto. Perché adesso non ho più nulla».

Alberto Cavasin. Francesco Velluzzi per gazzetta.it il 26 agosto 2021. Dal Congo a Bari Sardo. Alberto Cavasin aveva già deciso di "farlo strano". "Dovevo andare ad allenare la Nazionale del Congo. Ero d'accordo. Poi la svolta". E che svolta. Ieri Cavasin, 65 anni, ha diretto il primo allenamento del Bari Sardo. Che il 26 settembre comincerà il campionato di Prima categoria. Girone C, ogliastrino-nuorese. Obiettivo già dichiarato: la promozione.

Ma cosa e chi ha portato un tecnico che ha allenato in A Lecce, Sampdoria, Brescia, Treviso e Messina e pure la Fiorentina in un paese della Sardegna di 3500 abitanti e, soprattutto in Prima categoria?  

"Di passaggi strani ne ho fatti eh. Da giocatore sono sceso dalla A alla C e pure da tecnico. L'ultima esperienza, finita a marzo del 2018, l'ho avuta a Santarcangelo di Romagna in C. Sembrava un grande progetto, che poteva coinvolgere il Rimini, e invece la proprietà serbo-croata poi non ha realizzato nulla. In Sardegna sono venuto tanto in vacanza. Gli amici che mi sono fatto mi dicevano che se ci fossi rimasto una volta per almeno 20 giorni avrei patito pure io il "Mal di Sardegna". Avevano ragione.”

“Un amico del mondo del calcio (Paolo Campolo, ndr) mi ha parlato di questa realtà; li stava aiutando a prendere dei calciatori. Pensava che, sentendo Prima categoria, avrei rifiutato. Ero entrato nell'ottica di un progetto in Serie D con ambizioni. Ma ho conosciuto il presidente Roberto Ibba, un passionale, semplice, genuino. Mi ha invitato lì per due giorni. Ci sono andato. Ho riflettuto. Ci sono andato altre due volte. Mi ha ubriacato con gli aperitivi. Io che sono quasi astemio. Ma ho capito che vuol fare qualcosa di importante sul territorio.”

“Qui c'è uno staff tecnico vero, io ho portato un collaboratore, Alberto Possamai. Ci sono tanti ragazzi non sardi, ma anche i giovani locali. La squadra è fatta per salire. Poi, sia chiaro, dobbiamo vincere nove derby. Ma abbiamo 500 persone al campo. Il tutto esaurito fisso". Insomma, Cavasin è entrato con entusiasmo nella parte.

Massimiliano Allegri. Da corrieredellosport.it il 13 ottobre 2021. La storia d'amore tra Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri è giunta al capolinea. Alcune indiscrezioni circolavano da tempo, ma nelle ultime ore la notizia si è diffusa e ha provocato anche il duro sfogo social della figlia dell'attrice e del cantante Francesco Renga. Il tutto è nato dalla consegna del Tapiro d'Oro di Striscia la Notizia ad Ambra, gesto che ha fatto infuriare Jolanda, di cui riportiamo le parole. "Oggi la mia mamma ha ricevuto un Tapiro in seguito alla pubblicazione di vari articoli sulla fine della sua relazione, ma il motivo non mi è chiaro. So bene che, in quanto personaggio pubblico, secondo alcuni è giusto che la sua vita, anche quella privata, venga sbandierata ai quattro venti, ma è davvero necessario infierire? Perché venire da lei a Milano? Perché non andare a Torino? Perché si è fidata della persona con cui stava e con cui ha condiviso quattro anni della sua vita?! Anche se, questa persona, alla fine si è rivelata diversa, la colpa è di chi si fida o di chi tradisce la fiducia e tradisce in ogni senso possibile? Cosa c'è di riprovevole o "perdente" nel fidarsi e nell'amare? Quando si gioca, si sta al gioco, sono d'accordo, ma questo non mi sembra il caso. E ditemi quello che volete, che sono pesante, che non so scherzare, che faccio questioni su problemi inesistenti, che i problemi veri sono altri, ma a me non fa ridere. La sofferenza delle altre persone non mi diverte. E sì, mi sento di dirlo perché c'è di mezzo la mia mamma, ma lo penso a prescindere".

Da “Striscia la Notizia” il 13 ottobre 2021. Stasera a Striscia la notizia (Canale 5, ore 20.35) Ambra Angiolini si aggiudica il primo Tapiro d’oro della sua carriera a causa della fine della storia d’amore – durata quattro anni – con Massimiliano Allegri. Secondo alcune indiscrezioni l’attuale allenatore della Juventus sarebbe proprio scomparso dalla vita dell’attrice. «Si è smarcato sulla fascia. Cos’è successo?» chiede Valerio Staffelli all’attrice, che, riguardo al ghosting subito dall’ormai ex compagno, risponde più volte: «Non lo so». Ma, consegnandole il Tapiro, Staffelli la rincuora: «Lui non la lascerà mai sola». E l’ex volto di Non è la Rai ci scherza su: «Diciamo che almeno il Tapiro in casa a Milano entra…».

Massimo Galanto per tvblog.it il 14 ottobre 2021. Jolanda Renga, 17 anni, ha sollevato, via Instagram, il caso televisivo di cui più si parla in queste ore (anche sui social, non a caso). La consegna del tapiro d’oro di Striscia la notizia ad Ambra Angiolini è al centro della discussione, con indignazioni pubbliche da parte di alcune donne del mondo dello spettacolo, da Belen Rodriguez (“che vergogna“) a Selvaggia Lucarelli (“è stato davvero crudele“) da Laura Chiatti (“servizio bieco e irrispettoso“) a Sabrina Scampini (“essere un personaggio pubblico non significa dover subire qualunque tipo di umiliazione“) da Francesca Barra (“Striscia dovrebbe scusarsi“) a Stefania Orlando (“consegna inopportuna“). Andiamo per gradi. Prima accusa: sessismo. Perché Striscia la notizia ha consegnato il tapiro ad Ambra e non a Massimiliano Allegri? La domanda se l’è posta anche – con toni e argomenti apprezzabili – Jolanda Renga. La risposta temiamo sia assai semplice: perché il tapiro è un ironico riconoscimento che viene da sempre consegnato alla ‘vittima’, ossia a chi è demoralizzato o intristito per una data situazione. Secondo quanto si capisce (anche dal racconto della figlia minorenne dell’attrice), la storia d’amore con l’allenatore della Juventus si sarebbe conclusa a causa del tradimento di lui. Dunque, convenzione vuole che il tradito sia attapirato più del traditore. Ed è per questo motivo che ad essere ‘premiata’ sia stata Ambra, invece che Allegri, rappresentato – peraltro – nel servizio di Striscia la notizia come un uomo inaffidabile, con tanto di riferimento alla vicenda datata 1992 del matrimonio saltato in extremis. Seconda accusa: cattivo gusto. Premesso che il cattivo gusto è ingrediente assai presente nella televisione, anche se curiosamente viene sottolineato ad intermittenza da taluni addetti ai lavori, cosa significa cattivo gusto per un programma come Striscia la notizia che per sua natura deve essere anche irritante, irriverente e indisponente? E, ancora più nel dettaglio, cosa significa cattivo gusto relativamente ad una vicenda di gossip che riguarda due personaggi pubblici? È cattivo gusto ironizzare, facendo sfoggio di scarsa sensibilità, sui sentimenti dei vip? Quindi, sono di cattivo gusto le battute e i ripetuti riferimenti ai gossip di Belen Rodriguez, Diletta Leotta ed Elisabetta Canalis, oppure l’indignazione vale solo in alcuni casi? Dunque, è il tapiro (e Striscia la notizia in generale) ad essere totalmente inopportuno e ormai anacronistico o, al contrario, è ormai una tendenza (vantaggiosa in termini di visibilità anche social) leggere le normali dinamiche televisive con una preoccupante suscettibilità che dà vita a discussioni sempre polarizzate e quasi sempre ossessionate dalla questione di genere?

P.S. È cattivo gusto anche la velata allusione alla omosessualità di Allegri con Dybala?

P.P.S. Senza le legittime e comprensibili esternazioni della figlia, la perfetta reazione ironica di Ambra davanti a Valerio Staffelli avrebbe fatto scoppiare comunque il caso mediatico o tutto si sarebbe esaurito con un sacrosanto plauso per la dimostrazione di autoironia fornita dall’attrice?

Giuseppe Candela su Dagospia il 14 ottobre 2021. Va bene che il tapiro si consegna all'attapirato (quindi alla "vittima" a cui rode), funziona così. Sappiamo che se fosse successo a Belen nessuno avrebbe detto nulla, detto questo l'ho trovato sgradevole sia per i toni che per i tempi. #Ambra ha reagito da donna intelligente. 

Mattia Buonocore: Per il tapiro a Monte, Corona, Leotta, Belen, De Martino nessuno si era indignato...  

Lucillola: Allegri tradisce Ambra Angiolini e Striscia la Notizia le recapita un tapiro d'oro. E d'improvviso, il monologo strappalacrime della Incontrada sulla bellezza dell'imperfezione femminile, diventa credibile come i ricoveri di Berlusconi. #Striscia #Allegri #ambra #14ottobre

Stefano Guerrera: l’imbarazzo che provo nei confronti di Striscia la Notizia non è quantificabile e non so come abbia fatto Ambra a restar così calma 

Massimo Falcioni: La lasciata è attapirata, chi lascia no. Chi rosica è attapirato, chi genera il rosicamento no. Poi, se volete, cambiamo la regola dopo 25 anni solo per far felice Ambra. #Striscia

Leeno: Comunque Ambra é stata anche troppo di classe con striscia, io avrei avuto idee su come usare il naso del tapiro su quello con il microfono. 

Alice Penzavalli: Solidarietà ad Ambra Angiolini, ma se fosse successo a Belén Rodriguez o a Diletta Leotta sarebbe scoppiata comunque la polemica? Ho i miei dubbi. #ambraangiolini #striscialanotizia

Dagospia il 14 ottobre 2021. Dall'account facebook di Selvaggia Lucarelli: Caro Valerio Staffelli, il tapiro è da sempre una specie di Oscar delle gaffe, dei tafferugli televisivi, di fatti di cronaca e costume su cui sorridere. Uno dei pochi riti televisivi sopravvissuti all’usura del tempo. Io ne ho due, uno preso perché ho pensato di aver subito il furto di una macchina, per poi comprarne una nuova e ritrovare l’altra. E un tapiro perché Belen mi cacció dal suo bar, insieme a Gianni Morandi. Ne ho riso con te, con voi di striscia, che per inciso mi siete pure simpatici. Quello che ho visto ieri non mi è piaciuto. Ieri il tapiro consegnato vis a vis non era una sorpresa, aveva più il sapore di un agguato. C’era una donna che non stava solo vivendo la fine di una storia, ma la stava vivendo da personaggio pubblico, con la sua intimità sbattuta sui giornali e particolari mortificanti. Un tradimento, la fine di un amore sono giá dolori affrontati tra le pareti di casa, figuriamoci se ne parla anche ai semafori. Non fa meno male, se sei famosa da quando avevi 14 anni, no. Il presentarsi sotto il posto di lavoro di questa donna con un microfono e infierire con battute da bar (“mica lui la tradisce con Dybala?), ridacchiare, trattare la faccenda come fosse una rissa tra soubrette, ricordate che lui- il maschio alfa- le donne le tradisce con virile serialitá, mi è parso davvero crudele. Per giunta, col morto ancora caldo. E una cosa la voglio dire anche a Vanessa Incontrada: quante volte ti abbiamo sentito lamentarti della crudeltà dei media, cara Vanessa. Dei media che sfruculiano la tua vita privata, che giudicano il tuo corpo. Ieri potevi tirarti fuori da questa trattazione così spietata della vicenda. Tendere una mano ad @ambraofficial. E invece non solo grasse risate, ma già che c’eri hai pure mandato un saluto all’allenatore, come se si fosse appena usciti da una gag, anziché dal girare il coltello in una ferita aperta. Pensaci la prossima volta in cui ti lamenterai della crudeltà del sistema con le donne, perché ieri ne hai fatto parte anche tu. E adesso, caro Valerio, attendiamo il tapiro al maschio alfa, mi raccomando. (e un mazzo di rose per Ambra, magari).

Ambra Angiolini e sulla rottura con Allegri: «Esiste per tutti il giorno Zero, è un inizio e negli inizi non si conosce la sconfitta». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. L’attrice nella sua trasmissione di Radio Capital legge un pensiero che chiarisce la sua posizione rispetto alla fine della storia d’amore con l’allenatore Massimiliano Allegri. «Esiste per tutti un giorno zero, quando si riparte». Altro che ragazzina di «Non è la Rai». Ambra Angiolini è ormai una donna bella, intelligente e saggia, oltreché una bravissima attrice. Come è orma noto a tutti si è conclusa la sua storia d’amore con l’allenatore della Juventus, Massimiliano Allegri e nonostante il clamore mediatico procurato dalla fine del legame, Ambra non si è scomposta, non ha mostrato lacrime, non ha lanciato invettive. E dopo aver preso con classe il tapiro d’oro di «Striscia la notizia» mercoledì sera, giovedì durante il suo programma «Le mattine di Radio Capital» alle 11, su Radio Capital, ha concluso la puntata con lunga citazione di grande forza. «Esiste per tutti il giorno Zero, è un momento in cui non si vince, non si perde, ma si riparte. Ci si allontana dalle persone che diventano ricordi, da quelle che non restano, da quelle che in fondo non ci sono mai state. Si chiama giorno zero perchè quello che segue lo zero è sempre un inizio e negli inizi non si conosce la sconfitta». Era stato il settimanale «Chi» ad anticipare la notizia della fine dei quattro anni d’amore tra l’attrice e l’allenatore. Secondo quanto riportato dal magazine, Ambra Angiolini avrebbe «provato a salvare il rapporto fino alla fine» ma a seguito di una lunga crisi il tecnico bianconero avrebbe deciso di sparire dalla vita della sua ormai ex compagna. «Un colpo al cuore per l’attrice», sempre per riportare le parole di «Chi». La coppia aveva iniziato a convivere da qualche mese a Milano.

Allegri e Ambra Angiolini, amore finito. La figlia di lei: «Mia mamma tradita dopo 4 anni». Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 13 ottobre 2021. Il Tapiro di Striscia la Notizia consegnato all’attrice e il post amareggiato di Jolanda Renga: «Se, questa persona, alla fine si è rivelata diversa, la colpa è di chi si fida o di chi tradisce la fiducia e tradisce in ogni senso possibile?» Tutto finito. E pure male. E’ terminata la storia d’amore tra Massimiliano Allegri e Ambra Angiolini, sua compagna da quattro anni. L’indiscrezione era arrivata inizialmente dal settimanale «Chi» che titolava: «Max Addio, è finita con Allegri». Per poi trovare conferma anche da Jolanda Renga figlia dell’attrice e di Francesco Renga. Del resto se ne parlava già prima dell’estate, poi i due erano stati paparazzati insieme in Costiera Amalfitana: baci, abbracci, coccole e selfie proprio per allontanare queste voci e mostrare al mondo che la passione fosse come quella dei vecchi tempi, nonostante gli impegni di entrambi. Allegri è tornato sulla panchina della Juventus dopo due stagioni, mentre Ambra era sul set della serie televisiva «Le fate ignoranti». Però, passato l’idillio in Costiera Amalfitana, le voci di una possibile crisi erano tornate prepotenti ad agosto, poco prima che iniziasse il campionato di serie A. E’ stato per primo «Chi» a raccontare la possibile fine di una storia d’amore. Il settimanale diretto da Alfonso Signorini racconta di come l’attrice abbia provato in tutti i modi a recuperare il rapporto fino alla fine. E dalle anticipazioni sui social si legge: «È stato un colpo al cuore per l’attrice che ha provato a salvare il rapporto fino alla fine. Ma, dopo una lunga crisi, sembra che l’allenatore sia sparito». La rottura viene ritenuta certa anche da «Striscia la Notizia» che ha consegnato un Tapiro ad Ambra. «Si è smarcato sulla fascia. Cos’è successo?» chiede Valerio Staffelli all’attrice, che, riguardo al ghosting subito dall’ormai ex compagno, risponde più volte: «Non lo so». Ma, consegnandole il Tapiro, Staffelli la rincuora: «Lui non la lascerà mai sola». E l’ex volto di Non è la Rai ci scherza su: «Diciamo che almeno il Tapiro in casa a Milano entra?». Sul fatto è poi intervenuta la figlia di Ambra e Francesco Renga Jolanda che su Instagram si lascia andare ad alcune considerazioni sul rapporto tra la madre ed Allegri e sul comportamento dei mass media. «Oggi la mia mamma ha ricevuto un Tapiro in seguito alla pubblicazione di vari articoli sulla fine della sua relazione, ma il motivo non mi è chiaro - scrive la ragazza-. So bene che, in quanto personaggio pubblico, secondo alcuni è giusto che la sua vita, anche quella privata, venga sbandierata ai quattro venti, ma è davvero necessario infierire? Perché venire da lei a Milano? Perché non andare a Torino? Perché si è fidata della persona con cui stava e con cui ha condiviso quattro anni della sua vita? Ed anche se, questa persona, alla fine si è rivelata diversa, la colpa è di chi si fida o di chi tradisce la fiducia e tradisce in ogni senso possibile? Cosa c’è di riprovevole o “perdente” nel fidarsi e nell’amare? Quando si gioca, si sta al gioco, sono d’accordo, ma questo non mi sembra il caso. E ditemi quello che volete, che sono pesante, che non so scherzare, che faccio questioni su problemi inesistenti, che i problemi veri sono altri, ma a me non fa ridere. La sofferenza delle altre persone non mi diverte. E sì, mi sento di dirlo perché c’è di mezzo la mia mamma, ma lo penso a prescindere».

Massimiliano Allegri: dalla fidanzata lasciata all’altare all'addio a Ambra senza una parola. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 14 ottobre 2021. La sua è una storia contrassegnata da due grandi passioni: quella per il calcio e quella per le donne. Ma il calcio non l'ha lasciato mai.

L'addio ad Ambra

Era già tutto previsto, avrebbe cantato Riccardo Cocciante. Già perché dopo 4 anni Massimiliano Allegri non ha resistito e ha lasciato anche la sua ultima fidanzata, Ambra Angiolini. Senza una parola, pare. Tanto che la figlia dell'attrice Jolanda Renga parla apertamente di tradimento «in tutti i sensi». E del resto Max in campo sentimentale è stato sempre così.

Max e la Juventus

E dire che, secondo alcuni, Max sembrava cambiato. Da quando a maggio era tornato alla Juventus. Due anni dopo quell'estate del 2019, in cui, in lacrime, aveva salutato la Vecchia Signora. Dopo aver vinto cinque scudetti di fila, dando continuità ai tre consecutivi di Antonio Conte. Non solo. Portando la Juventus a giocarsi due finali di Champions: a Berlino nel 2015, sconfitto dal Barcellona e a Cardiff nel 2017 sconfitto dal Real Madrid. Al suo posto era arrivato Maurizio Sarri, esonerato poi dopo il nono tricolore di fila della Juventus. Adesso Allegri prende il posto di Andrea Pirlo. La sua avventura in bianconera arriva al capolinea con il quarto posto acchiappato nell’ultimo turno di campionato. Anche se ha conquistato la Supercoppa Italiana e la Coppa Italia.

Nato a Livorno

Max Allegri è cresciuto nel quartiere livornese di Coteto all’interno di una famiglia operaia, composta dal padre scaricatore al porto cittadino, dalla madre infermiera e dalla sorella minore. Con il padre portuale il suo destino sembrava segnato: «Dopo aver preso la patente B presi la C, perché con quella avrei potuto prendere la D che mi sarebbe servita per entrare in porto. La strada era già segnata. Non è che avessi scelta», raccontò una volta Allegri.

Vita «spericolata»

Fin da quando era calciatore Allegri era celebre per il suo fascino. Che però gli comportò anche una serie di disavventure amorose. Nel 1992 il neotecnico bianconero – in quel periodo un centrocampista del Pescara – sale agli onori delle cronache non solo sportive perché lascia la fidanzata dell’epoca, Erika, (quasi) all’altare. La abbandonò a due giorni dalle nozze: in preda ai ripensamenti, capì di non amarla e di non sentirsi pronto per il grande passo. Da qui la scelta clamorosa del dietrofront sentimentale.

Il matrimonio, le altre storie e i figli

Il tecnico si è poi sposato con Gloria Allegri nel 1994. In quel periodo gioca nel Cagliari. Un anno dopo, nasce la prima figlia della coppia: Valentina Allegri. Ma il matrimonio con Gloria naufraga ad appena quattro anni dall’inizio. In seguito, Allegri si lega, per 8 anni, a Claudia Ughi, madre del suo secondo figlio: Giorgio. I due, però, si separano mentre lei è ancora incinta: a una cena con amici, il mister incontra Gloria Patrizi, di 19 anni più giovane ed ex coniglietta di Playboy. Stanno insieme un paio di anni, ma nel 2014 la storia arriva al capolinea.

La relazione, durata 4 anni con Ambra Angiolini

Passano tre anni e dopo alcuni mesi di indiscrezioni mai confermate, Massimiliano Allegri e Ambra Angiolini, attrice ed ex stella tv di «Non è la Rai» escono allo scoperto. Una relazione che sembrava essere diventata solida nel corso degli anni. Tanto che i due annunciano le nozze per il 2019. Nozze che non si faranno mai. La relazione finirà, come detto, nell'autunno del 2021.

Ballerino per una notte

E dire che la vicinanza con Ambra aveva consolidato la sua passione per il mondo dello spettacolo. Il 19 settembre 2020 Allegri partecipa come ospite speciale alla prima puntata «Ballando con le stelle» (15esima edizione). Così il tecnico juventino diventa ballerino per una notte, come era successo con altri sportivi, tra i quali Alessandro Del Piero, Gabriel Batistuta e Roberto Mancini. Allegri esegue un tango insieme alla ballerina professionista Roberta Beccarini.

La carriera da calciatore

Come calciatore Allegri era spesso definito come un ottimo centrocampista che aveva una buona visione di gioco, ma che ha ricevuto molto meno di quanto avrebbe meritato. Dal 1985 al 1988 gioca nel Livorno, squadra della sua città. E vista la rivalità fa scalpore il suo trasferimento al Pisa nel 1988, con il quale gioca due gare in A. Dopo le stagioni alla Pro Livorno e al Pavia, nel 1991 Allegri va al Pescara. Conquista la promozione e nel 1992 colleziona 31 gare nella massima serie, segnando 12 reti (una anche al Milan nel 4-5 per i rossoneri del 13 settembre ‘92). In termini di gol, la sua annata migliore. Dal 1993 al novembre 1995 è al Cagliari per poi andare al Perugia. Dopo delle parentesi al Padova, al Napoli e ancora al Pescara, Allegri chiude la carriera nel 2003 all’Aglianese.

Il maestro Galeone

Come detto forse il suo periodo migliore da calciatore Allegri l’ha avuto nel Pescara. Notato da Pierpaolo Marino, dirigente a quell’epoca della squadra abruzzese, nel 1991 Allegri si trasferisce nel club agli ordini del tecnico Giovanni Galeone. Con lui instaura un profondo rapporto professionale e ancor più umano: «Ho avuto la fortuna di avere un maestro come lui, che magari non ha ottenuto grandi risultati ma che mi ha insegnato il piacere del calcio», ricorda anni più tardi lo stesso Allegri. Anche Galeone parla molto bene dell’arrivo di quel giovane centrocampista: «La squadra era già fatta, ma la dirigenza ingaggiò questo ragazzo che sinceramente non conoscevo. Dopo tre giorni mi era tutto chiaro, era un gran calciatore sul prato verde e un ragazzo serio e rispettoso, arrivò in punta di piedi e dopo poco era già il leader dello spogliatoio». Ancora oggi Allegri chiede molti consigli a Galeone. Per lui è un secondo padre.

La carriera da allenatore: dall’Aglianese allo scudetto con il Milan

Terminata la carriera calcistica Max comincia quella di allenatore da dove aveva finito, ovvero dall’Aglianese. Dopo Spal, Grosseto, Sassuolo e Cagliari nell’estate 2010 diventa allenatore del Milan. Quell’estate Silvio Berlusconi e Adriano Galliani acquistano Ibrahimovic e Robinho e Allegri alla sua prima stagione in rossonero vince lo scudetto. Il 18esimo della storia del club rossonero, a oggi l’ultimo vinto. L’anno successivo arriva secondo perdendo il duello con la Juventus di Antonio Conte. Nella sua terza stagione al Milan conquista il gradino più basso del podio, ma l’anno successivo – all’indomani della sconfitta del 12 gennaio 2014 rimediata contro il Sassuolo (4-3) – viene esonerato. Poi però andrà alla Juventus per inanellare una serie di trionfi.

Da gossip.fanpage.it il 18 ottobre 2021.

Il flirt mai confermato con la d’Urso

Il flirt più interessante mai attribuito all’allenatore, però, è quello mai confermato con Barbara d’Urso, I due si incontrano poco prima che Allegri conoscesse la Patrizi. La stampa intera cominciò a parlare di una simpatia travolgente nata tra loro, fino al momento in cui fu lo stesso Massimiliano a bloccare sul nascere ogni ardore: È stato solo un giro di fumo, da cui si è alzato un polverone. Dicono che io le piaccia? Andrebbe chiesto a lei. Io so solo che la ritrovai a cena da Giannino, mi disse: “Ti porterò fortuna”. Beh, si vinse il derby, e altre cinque partite. È la mia mascotte. Ma non ho neanche il suo cellulare. Una mascotte di altissimo livello, però, visto che la d’Urso concede con precisione millesimale le sue simpatie. Anche in quel caso, Allegri preferì restare sul generico, e non ci potrebbe aspettare altrimenti da un uomo che ha sempre protetto la sua vita sentimentale, lo stesso che da giovanissimo, appena 24enne, abbandonò la fidanzata dell’epoca sull’altare dopo aver compreso di non esserne innamorato.

Ambra e il Tapiro, che brutta gaffe essere tradite. Beatrice Dondi su L’Espresso il 14 ottobre 2021. Secondo Striscia la notizia se il tuo uomo ti lascia hai fatto una brutta figura. Un brutto momento di bassa tv. Che gaffe essere tradite. Sei una donna e ti lasci scappare il tuo uomo? Che figura barbina, nei confronti del resto del mondo. Per sintetizzare quel momento di bassa televisione che è stata la consegna del Tapiro d’oro da parte dell’inviato di Striscia ad Ambra Angioini basterebbe ripercorrere il senso del “premio” che abitualmente consegna Valerio Staffelli. Che recapita porta a porta, nel corso della trasmissione cosiddetta satirica di Antonio Ricci un riconoscimento alla scivolata di stile. Una battuta pesante, un doppio senso, o anche più semplicemente un errore sciocco in cui si è accidentalmente incappati. A Ilary Blasi fu dato il Tapiro per una frase detta durante la diretta dell’Isola dei Famosi: “Dentro la patata” anziché Palapa. A Giorgia Rossi per il lapsus  “ca**o” anziché “incasso”. A Selvaggia Lucarelli, come scrive sul suo profilo Instagram, perché denunciò il furto di una macchina, ne comprò una nuova e poi ritrovò la vecchia. Insomma cose così, tra Blob e la goliardia spicciola. Ad Ambra invece il “premio” è andato perché Massimiliano Allegri, come recita la copertina di Chi, l’avrebbe lasciata per un’altra. Che brutta figura le corna signora Angiolini, gli anni Cinquanta non sono mai finiti non se ne era accorta? Così il tradimento, la storia personale, una coppia che si disintegra per faccende del tutto private diventa, per il programma rivoluzionario che fa una satira di livello, una semplice figuraccia. Perché in questo strano Paese fermo al tempo che fu, se due persone si lasciano è ovvio che sia la donna a meritare lo scettro di gaffeuse. Perché non è stata capace di tenersi stretto il suo compagno. E così nella pubblica piazza di Striscia, si è consumato l’ennesimo episodio di piccineria collettiva, questa volta a discapito di una signora elegante che ha cercato di sorvolare sulle volgarità snocciolate. E che è stata difesa da una ragazza di 17 anni, sua figlia Jolanda, che ha dimostrato in un solo post che essere adulti non dipende certo dall’età anagrafica. Mentre in studio Alessandro Siani e Vanessa Incontrada avrebbero potuto replicare in qualsiasi modo. Tranne quello che poi hanno fatto: condire la triste scena con grasse risate.

Ambra, Allegri e il Tapiro. La telenovela social nel gioco delle coppie. Valeria Braghieri il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'addio tra l'attrice e l'allenatore della Juve è una storia in cui tutti (o quasi) si ritrovano. Che nel suo codice genetico ci fosse scritto che, per sempre, avrebbe trasportato sulle spalle il peso dell'attenzione mediatica fu chiaro nel lontano 1992 quando, appena quindicenne e con un auricolare che le trasportava in bocca le parole in differita, apparse a Non è la Rai. Dall'altra parte dell'invisibile microfono c'era Gianni Boncompagni, davanti allo schermo di Canale 5, milioni di telespettatori inebetiti. Un pubblico trasversale, talvolta insospettabile e non sempre in buona fede. In mezzo lei. Allora adolescente «normalotta», carne freschissima e apparentemente ignara dell'epocale cambio di costume che stava portando in scena e che contribuì a sdoganarla al mondo col solo nome di battesimo: Ambra. Angiolini è venuto solo poi. L'iper esposizione prestissimo, il cono d'ombra poco dopo. Qualche anno di blackout in cui rimettersi in pari con la propria età e con la bilancia (erano iniziati i problemi alimentari). Il ritorno sulle scene, una canzonetta di successissimo e la metamorfosi professionale (è arrivata a recitare, tra gli altri, per Ferzan Ozpetek nel bellissimo Saturno contro). L'unione con il cantante Francesco Renga, due figli, Jolanda e Leonardo, la fine dell'unione voluta dall'attrice perché «il mio cuore ha smesso di battere per una persona gigantesca». Sembrava che il cuore lo avesse rianimato, qualche anno più tardi, l'allenatore della Juventus, Massimiliano Allegri. Fino all'altro giorno, con la notizia della loro storia che si è andata a schiantare dopo quattro anni. Qualche voce di crisi poco prima, una vacanza riparatrice in Costiera Amalfitana, un trasloco dei due a Milano, ma niente. Pare che Allegri sia scomparso dalla vita di Ambra dopo averla tradita, oltretutto. Sparito, infantasmito. Qualcosa come quell'evaporazione che i distillatori chiamano «percentuale dell'angelo», cioè quel due, tre per cento di prodotto che se ne va in fumo nella fase della fermentazione. Lui a Torino, lei a Milano in cerca di un'altra casa. Lui si sarebbe rivelato una persona diversa da come era sembrato durante la relazione. Quando l'attrice lo definiva una salvezza per lei e per la sua ormai disincantata voglia d'amore, la certezza della sua vita adulta. Ecco, la certezza si è sgretolata e mercoledì, Valerio Staffelli di Striscia la Notizia, ha consegnato un Tapiro all'attrice. Perché a lei e non al fuggiasco? Si sono chiesti la figlia di Ambra in un post in difesa della madre e la miriade di persone che hanno subito, istintivamente solidarizzato con la parte lesa della coppia. Perché chi si «attapira», non è di norma colui che sceglie ma colui che subisce. E perché nel Tapiro, in fin dei conti, c'è una sorta di attenzione affettuosa, quasi un ironico premio di consolazione. L'Ambra dello spettacolo lo sa. L'altro giorno, dietro alla mascherina, aveva un sorriso che non poteva definirsi di circostanza, ma nemmeno di entusiasmo. Ed è stata al gioco. Vessata dal destino di una relazione infelice, sotto un cielo milanese gonfio d'inverno, ma sotto i riflettori. Destino a cui si è consegnata tanti anni fa. Mercoledì era il giorno in cui il destino si è fatto scomodo, ma lei ne è consapevole da sempre. Anche senza l'auricolare nascosto. Ieri, al termine della trasmissione su Radio Capital, Allegri, per Ambra, è diventato il «giorno zero», quello che arriva nella vita di tutti a dal quale tocca ripartire. «Esiste per tutti il giorno Zero, è un momento in cui non si vince, non si perde, ma si riparte. Ci si allontana dalle persone che diventano ricordi, da quelle che non restano, da quelle che in fondo non ci sono mai state. Si chiama giorno zero perché quello che segue lo zero è sempre un inizio e negli inizi non si conosce la sconfitta» è stato lo sfogo dell'attrice ai microfoni dell'emittente. Altro che Tapiro...

Da ansa.it il 16 ottobre 2021. "Della mia vita privata non ho mai parlato e non intendo farlo: sono due cose che ho sempre diviso, va bene così ed è molto più importante parlare della partita di domani". Alla vigilia della sfida di campionato tra la sua Juventus e la Roma, Massimiliano Allegri dribbla così la domanda sulla recente rottura con Ambra Angiolini. Intanto gli avvocati Valeria De Vellis e Daniela Missaglia, in nome e nell'interesse di Ambra Angiolini, si sono riservati "di valutare - è scritto in una nota diffusa oggi - ogni migliore iniziativa a tutela della loro assistita in considerazione dell'illegittima intromissione e conseguente spettacolarizzazione di una vicenda privata e dolorosa da parte del Signor Valerio Staffelli", inviato di Striscia la notizia. I legali contestano anche il "comunicato del Tapiro d'Oro" in risposta al Ministro Elena Bonetti, soprattutto dove si afferma che "la Signora Ambra Angiolini fosse consenziente".

Fabrizio Biasin per “Libero quotidiano” il 16 ottobre 2021. Ambra ha preso il Tapiro d'Oro per una presunta questione di corna, lo sanno anche i sassi (rendetevi conto, il tapiro). Il tapiro- lo sapete- è una specie di "premio" che viene assegnato a un vip qualunque, uscito male da una vicenda qualunque. Lo definiscono "attapirato" (pensate come siamo messi). L'obiettivo di colui che consegna il tapiro, il signor Staffelli di Striscia la Notizia, è provocare una reazione nel malcapitato/a. Nella migliore delle ipotesi la vittima si incazza come una iena e ti fracassa il tapirone sul cranio, cosa che genera grande godimento negli autori del programma, che vedono gli ascolti crescere a dismisura. Quando invece va male e la vittima è persona dotata di sale in zucca, non succede una fava: quello/a ritira il premio, ascolta le considerazioni di Staffelli («Sior Tizio, Siora Caia...»), in sottofondo si sentono agghiaccianti risate registrate e buonanotte ai suonatori (ma dimmi te, nel 2021, ancora il tapiro. Vabé). Nel caso specifico, Ambra è stata fenomenale: di fronte alla provocazione tapiresca ha reagito con classe. Non un insulto, nessuna reazione scomposta, qualche minimo riferimento al suo ex (Max Allegri, allenatore della Juve) e arrivederci a mai più. A reagire sono stati tutti gli altri al grido di «ma era proprio il caso? Ma non potevate andare alla fonte, ovvero da chi le corna le ha messe, invece che rompere l'anima a lei, cornuta e mazziata?». Ci sta. Oddio, forse gli indignati sono andati oltre per questioni molto contemporanee legate al politicamente corretto, ma è vero che un minimo di delicatezza in più si poteva usare. Diciamo che un bel «ma chissenefrega del Tapiro» avrebbe sepolto la faccenda in partenza, evidentemente però non siamo ancora pronti per uscire dal Medioevo. E veniamo al punto. Tutta questa faccenda (Ambra che riceve il tapiro) ha trasformato Massimiliamo Allegri in un mostro. Massimiliano Allegri non è un mostro, al massimo un trombatore seriale (lo scriviamo sulla fiducia, per fortuna non abbiamo prove). Ce ne sono tanti qua e là in giro per il mondo, alcuni più furbi di altri. Quelli furbi non si fidanzano e strombazzano a piacimento. Badate bene, non stiamo facendo distinzioni di genere, capita anche a molte esponenti dell'altro sesso e - lo diciamo ad alta voce - fanno benissimo: zero impegno, massima libertà. Da fidanzato, invece, dovresti evitare di diventare una trivella umana, in particolare se il tuo nome è sulla bocca di tutti e in passato hai abbandonato la tua metà a un passo dall'altare (così si dice del Sior Max). Questo straordinario curriculum vitae, però, non è sufficiente per trasformare il trivellatore in quello che l'opinione pubblica ha più o meno definito "demonio". Cioè, possiamo anche farlo, ma dobbiamo avere il coraggio di guardarci allo specchio. Allegri è stato uno stronzo? Se è vero quello che ci hanno detto sì, è stato uno stronzo. È stato uno stronzo più di un qualunque altro nostro conoscente, amico, amica, cugino, compagno di padel? No. Anzi, magari noialtri abbiamo fatto o subìto di peggio, perché purtroppo il mondo- e qui sveliamo uno dei tre misteri di Fatima - è pieno di infamacci. Ieri Ambra ha detto così a Radio Capital: «Grazie a tutti. Vedere questo muro di amore folle che si è schierato davanti a una persona che evidentemente ora non riesce a farlo da sola, è commovente». La abbracciamo forte, consapevoli del fatto che molti di quelli che le stanno dicendo «poverina tu, quanto è infame lui» sono stati l'Allegri di qualcun altro/a.

Massimiliano Allegri, "le sue tendenze gay". Clamoroso siluro, il caso Ambra-Striscia si complica: "Come la mettiamo?" Libero Quotidiano il 16 ottobre 2021. Nel mirino ci è finito Massimiliano Allegri. Tutti contro di lui, dopo la consegna del tapiro d'oro ad Ambra Angiolini da parte di Striscia la Notizia. Tapiro consegnato all'attrice in seguito alla rottura dopo quattro anni con Allegri, il tutto per un tradimento di lui. Certo, poco elegante il tradimento, ma sono cose capitano, un po' a tutti. Il fatto strano, però, è che Allegri sia finito nel mirino più per il tapiro di Striscia che per le sue azioni, come se con quanto fatto dal tg satirico di Canale 5, il mister della Juventus, c'entrasse qualcosa. E così, in difesa del farfallone Max Allegri, ecco scendere in campo Alberto Dandolo, su Dagospia. Una difesa tutta concentrata in un "flash", in cui si punta il dito su alcune battute di Valerio Staffelli nel momento della consegna del tapiro da Ambra, battute in cui alludeva a una tendenza gay dell'allenatore bianconero. Si legge infatti nel Dago-flash: "Tutti in coro a difendere la mitologica Ambra vittima del crudele cinismo antifemminista del tapiro. E il povero Max Allegri, ferito nel suo testosterone dal truce Staffelli che ammicca a sue tendenze gay? Associazioni lgbt+ dove siete? Fate sentire il vostro urlo di sdegno contro l'omotransfobia del tapiro chiedendone la pubblica lapidazione! Se non ora quando?", conclude Dandolo.

Striscia la Notizia, Ambra, Allegri e il resto: processo al Tapiro d'oro. Il tg satirico attaccato per aver invaso la privacy dell'attrice appena lasciato. Ma la satira è cattiva. Semmai c'è da chiedersi se il tapiro è ancora satira... 

Francesco Specchia su Libero Quotidiano il 15 ottobre 2021

Francesco Specchia, fiorentino di nascita, veronese d'adozione, ha una laurea in legge, una specializzazione in comunicazioni di massa e una antropologia criminale (ma non gli sono servite a nulla); a Libero si occupa prevalentemente di politica, tv e mass media. Si vanta di aver lavorato, tra gli altri, per Indro Montanelli alla Voce e per Albino Longhi all'Arena di Verona. Collabora con il TgCom e Radio Monte Carlo, ha scritto e condotto programmi televisivi, tra cui i talk show politici "Iceberg", "Alias" con Franco Debenedetti e "Versus", primo esperimento di talk show interattivo con i social network. Vive una perenne e macerante schizofrenia: ha lavorato per la satira e scritto vari saggi tra cui "Diario inedito del Grande Fratello" (Gremese) e "Gli Inaffondabili" (Marsilio), "Giulio Andreotti-Parola di Giulio" (Aliberti), ed è direttore della collana Mediamursia. Tifa Fiorentina, e non è mai riuscito ad entrare in una lobby, che fosse una...

«La satira deve avere dei limiti perché deve superarli continuamente», diceva Vauro che distillava battute sugli ebrei fascisti (ma il copyright della crudeltà era di Jonathan Swift che addirittura suggeriva di macellare i bambini poveri). L’imprescindibilità di una satira cattiva è l’eccezione che ieri molti opponevano alle critiche piovute verso Antonio Ricci, dopo la consegna del Tapiro d’oro a Ambra Angiolini. Resoconto dei fatti da Striscia la notizia. Ambra -la cui bellezza e ironia raggiungono vette siderali- viene adescata dal solito Valerio Staffelli che le consegna il trofeo in quanto donna “attapirata” causa della separazione dall’ (ex) fidanzato fedifrago Massimiliano Allegri. Staffelli nel porgere il Tapiro d’oro si lascia andare a qualche fregnaccetta precotta («mica lui la tradisce con Dybala» sottofondo di Richard Sanderson dal Tempo della mele); Ambra, visibilmente straziata sotto la mascherina, con educazione incassa e s’allontana in una nuvola di mestizia. Chiosa al siparietto è la messa in onda, perfida, del video Ti appartengo canzone-cult dell’ex ragazzina prodigio ai tempi di Non è la Rai. Inevitabile picco d’ascolto: 5,57 milioni di spettatori per 22,61% di share. Il giorno dopo Striscia entra nel mirino degli obici di mezzo mondo dello spettacolo. Il mezzo mondo femminile. Tranne Vanessa Incontrada che si lamenta sempre dell’ingerenza dei media nella vita privata altrui, salvo improvvise amnesie –guarda caso- giusto mentre conduce Striscia. Comunque, è tutta una mitragliata contro i Gabibbo Boys. Selvaggia Lucarelli scrive: «C’era una donna che non stava solo vivendo la fine di una storia, ma la stava vivendo da personaggio pubblico, con la sua intimità sbattuta sui giornali e particolari mortificanti. Un tradimento, la fine di un amore sono già dolori affrontati tra le pareti di casa, figuriamoci se ne parla anche ai semafori». Luisa Ranieri bacchetta il «gesto orrendo»; Laura Chiatti accenna ai diritti violati delle donne; Francesca Barra accusa, di fatto, Striscia di sessismo e di strisciante compiacimento a favore del “maschio alfa” Allegri. Interviene perfino la figlia di Ambra, Jolanda per difendere privacy e onore della madre. Un casino. Eppure, suvvia, Striscia non è uscita dal solito, sempiterno canovaccio. Il tg satirico entra per mission a gamba tesa nella vita delle persone notorie e anche meno notorie (io stesso sono stato accomunato in diretta ad un medico–serial killer, e la mia vecchia madre ignara e disperata, come quella di Fracchia la belva umana, telefonò ai carabinieri. Ma ci sta). Striscia picchia con malvagità e per vocazione di satira; la quale satira –come detto- dev’essere un pugno nello stomaco. E il Tapiro equivale sempre a un lungo sorso di curaro, a una lingua di napalm, a una provocazione contundente che ignora il dolore stesso delle vittime. Rivedetevi, per dire, l’espressione livida della Carrà nel prendere il Tapiro per aver ricevuto in Spagna quell’onorificenza che aveva sempre sperato di ottenere in Italia. Tra l’altro, non esiste sessismo. Il Tapiro sputtana democraticamente tutti; se ad essere stato lasciato – e quindi attapirato- fosse stato Allegri, l’avrebbe ricevuto lui. No, è sbagliato sparare sul Tapiro. Anche perché, diciamolo, Ricci se ne fotte altamente. E poi, è la satira bellezza. Semmai, sarebbe necessario, oggi, sparare sull’utilità del Tapiro. E chiedersi se il tapiro è ancora satira.  Il pupazzotto parodia di Oscar delle gaffe, delle risse, delle nequizie dei fatti di cronaca politica e costume vive i suoi 25 anni oramai come reperto del passato. Un tempo era lo sguardo del voyeur che si ficcava nella privacy blindata dei vip, molti dei quali s’incazzavano (Mike Bongiorno lo gettò a terra). Via via, con gli anni, ha perso la sua forza eversiva, s’è trasformato in un rito stanco, accompagnato da battutelle sfarinate dallo spirito del tempo. Il Tapiro è come il Buster Keaton vecchio e rintronato degli ultimi film con Franco e Ciccio: non provoca, non scalda più. E –ancora peggio- sempre più spesso viene agognato come oggetto di marketing e celebrità effimera dall’ attapirato di turno. Striscia rimane un presidio di ironia, spesso di servizio pubblico. Eppure io ho visto tutto l’anacronismo della consegna di quella mostruosità dorata, l’altro giorno, in una frase di mio figlio di dieci anni: «Papà, perché guardi questa cosa? Mica fa ridere…». 

Marco Zonetti per "vigilanzatv.it" il 15 ottobre 2021. Dopo il fiume di polemiche scatenate dal Tapiro d'Oro consegnato da Valerio Staffelli di Striscia la Notizia ad Ambra Angiolini per la fine della sua storia con Allegri, polemiche che hanno visto tanti personaggi dello spettacolo e figure istituzionali scagliarsi contro il Tg satirico di Antonio Ricci in difesa dell'attrice, ecco che arriva un colpo di scena. Sul sito di Striscia, infatti, viene pubblicato il fuorionda dell'incontro tra Staffelli e Ambra, dimostrando che quest'ultima era dunque preavvisata della consegna del Tapiro e che lo accetta di buon grado, senza sottrarsi all'intervista, senza fuggire, senza intimare di spegnere le telecamere, ma pregando soltanto l'inviato di non stravolgere nel montaggio il senso delle sue dichiarazioni. Per giunta, nel momento in cui - nel pomeriggio prima che andasse in onda il servizio incriminato - è uscito il post della figlia di Ambra, Jolanda Renga, che stigmatizzava la consegna del tapiro alla madre, Staffelli ha contattato l'attrice per chiedere spiegazioni, e quest'ultima ha replicato: "Oddio, che cosa ha fatto mia figlia!". Insomma, da donna di spettacolo navigata qual è, per Ambra era semplicemente un'occasione come un'altra per apparire e far parlare di sé. Nel rispondere pubblicamente alla Ministra delle Pari Opportunità Elena Bonetti che aveva stigmatizzato il servizio del Tg di Ricci, Striscia in veste di Tapiro D'Oro le ricorda di essere: "una trasmissione satirica che ha come missione impossibile combattere l'ipocrisia nel mondo. Una guerra persa, visto il numero dei nemici, ma che per noi vale sempre la pena combattere". E precisa: "Quanti sepolcri imbiancati, prosseneti, finti moralisti o semplici ciarlatani, individui in crisi di astinenza o semplicemente bisognosi dell'esternazione quotidiana si sono sentiti autorizzati a  pontificare sull'argomento!". Con un avvertimento finale alla Ministra: "Chissà che non ci incontreremo presto...".

Gentile ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti, mi presento: sono il Tapiro d’oro. Ci tenevo a scriverle dopo che anche lei - che onore! - ha impegnato alcuni minuti del suo tempo per parlare di me in compagnia delle menti più brillanti della Nazione. Sono nato nel 1996, premio dal muso lungo e triste.  E da allora vengo consegnato ai cosiddetti “attapirati”. Senza andare troppo indietro negli anni, sono finito nelle mani di Stefano De Martino, Diletta Leotta, Riccardo Scamarcio, Belén Rodriguez, Ignazio Moser, Federica Pellegrini, Francesco Monte, ecc. Motivo? I loro cuori spezzati, senza distinzione di genere. Come vede, mi sono sempre fatto un punto d'onore di rispettare le Pari Opportunità. Lei, invece, cara Ministra, sembra non considerare Diletta Leotta degna della sua tutela, con il solito doppiopesismo rivelatore. L'amica Ambra Angiolini, ci tengo a dirlo, è stata avvicinata in modo amichevole dal tapiroforo Valerio Staffelli: nessuna fuga, richiesta di spegnere le telecamere o segnali di fastidio. Anzi! Per mostrarle che tutto si è consumato in modo sereno, sul nostro sito può vedere la prima parte del servizio, non andata in onda: Ambra, che ha una lunghissima carriera alle spalle e molta consuetudine con il mondo dello spettacolo, non ha mai manifestato a Staffelli la minima volontà di non essere intervistata, come risulta evidente durante tutto il servizio. A telecamere spente, inoltre, Ambra si è raccomandata con Staffelli che in sede di montaggio non venissero compiute azioni che stravolgessero il senso di quello che lei aveva detto: richiesta naturalmente accolta.  Nel pomeriggio, prima che andasse in onda il servizio, quando è uscito il post della brillantissima, lucidissima, maturissima penna Jolanda, a Staffelli, che l'aveva contattata per chiedere spiegazioni, Ambra ha risposto: "Oddio, che cosa ha fatto mia figlia!". Cara ministra Bonetti, Striscia la notizia, come sa, è una trasmissione satirica che ha come missione impossibile combattere l'ipocrisia nel mondo. Una guerra persa, visto il numero dei nemici, ma che per noi vale sempre la pena combattere. Quanti sepolcri imbiancati, prosseneti, finti moralisti o semplici ciarlatani, individui in crisi di astinenza o semplicemente bisognosi dell'esternazione quotidiana si sono sentiti autorizzati a  pontificare sull'argomento! Chissà che non ci incontreremo presto...

Luigi Bolognini per "la Repubblica" il 15 ottobre 2021. La polemica riaffiora carsicamente: come tratta le donne Antonio Ricci? Inizia tutto a metà anni Ottanta con Drive In, per chi lo ricorda, con le ragazze Fast Food a girare in hot pants e procace scollatura. E prosegue con le Veline di Striscia la notizia, che porgono news ai conduttori succintamente (s)vestite: cori contro la mercificazione del corpo femminile cui Ricci risponde che tutto è ironico, una satira di come i mass media trattano le donne, e che le Veline non intrallazzano con calciatori e vip, ma pensano solo a lavorare. L'ultimo affondo in un'intervista a Tpi: «I giornalisti non possono attaccare le modelle perché la moda per la carta stampata è fonte primaria di vita. E allora sono costretti a prendersela con le Veline». Frasi dette subito prima del Tapiro d'oro ad Ambra Angiolini dopo la fine della sua storia con l'allenatore della Juventus Massimiliano Allegri. Fine dovuta alla sparizione improvvisa di lui, pare dopo un tradimento. Eppure lo sberleffo a favor di telecamera è toccato alla tradita, per di più donna, è stata lei a dover ricevere lo scomodo premio dorato e le battute di Valerio Staffelli. Ambra, bisogna dire, ha abbozzato, subendo senza reagire. Solo ieri a Radio Capital ha detto: «Esiste per tutti il giorno zero, in cui non si vince, non si perde ma si riparte, ci si allontana dalle persone che restano, da quelle che diventano ricordo, da quelle che in fondo non ci sono mai state». Altri si sono scatenati. Cioè altre. A cominciare da Jolanda Renga, figlia di Ambra e del cantante Francesco: «Perché venire da lei a Milano? Perché non andare a Torino? Perché si è fidata della persona con cui stava e con cui ha condiviso quattro anni della sua vita?!», scrive su Instagram. Sullo stesso social la giornalista Francesca Barra: «Questo è il Paese che non va dal Mister Allegri, dal "maschio" a dare il tapiro, ma dalla donna, la parte chiaramente più in difficoltà. Questo è il Paese delle grandi battaglie, della solidarietà femminile, dell'empatia. Del "ti faccio male e poi ti sfotto cantando una canzoncina", perché tutto finisce sempre cosi». Parole condivise e rilanciate da Ilary Blasi. L'attrice Laura Chiatti parla di «servizio bieco e totalmente irrispettoso nei confronti di una grande artista, di una talentuosa attrice, che prima di tutto è una donna di spiccata sensibilità e una madre. Esiste una sostanziale differenza tra satira e cattivo gusto. Viviamo in un Paese dove ci si batte costantemente per i diritti e la tutela delle donne attraverso i mezzi di comunicazione, quando poi spesso sono proprio i mezzi di comunicazione, se utilizzati in maniera sbagliata, i primi ad involvere ogni progresso e a denigrarci calpestando ogni forma di buonsenso e dignità». E c'è chi sottolinea che la conduttrice di Striscia Vanessa Incontrada non abbia speso una parola per Ambra, lei che si era data a monologhi tv in difesa delle donne. Anche questo è parte della polemica, genere in cui Ricci ama sguazzare da sempre. 

Da "today.it" il 15 ottobre 2021. "Grazie per quello che sto vedendo": così Ambra Angiolini nella puntata di oggi, venerdì 15 ottobre, del programma Le Mattine su Radio Capital, ha aperto la brevissima parentesi riferita alla vicenda della separazione da Massimiliano Allegri diventata di dominio pubblico negli ultimi giorni. "È sorprendente per una cosa che nessuno voleva che fosse pubblica, perché non è giusto, e vedere questo muro di amore folle che si è schierato davanti a una persona che evidentemente ora non riesce a farlo da sola è commovente", ha proseguito: "Il mio senso di gratitudine non sbaglia, quello che mi sento di dire è grazie!". Le parole dell’attrice arrivano a qualche ora dal discorso che ha messo definitivamente e pubblicamente un punto alla sua storia d'amore con l'allenatore della Juve, conclusa dopo le voci di un tradimento e motivo del discusso Tapiro consegnatole dall’inviato di Striscia la notizia Valerio Staffelli. "Esiste per tutti il giorno zero - ha dichiarato - È un momento in cui non si vince, non si perde ma si riparte. Ci si allontana dalle persone che diventano ricordi, da quelle che non restano, da quelle che in fondo non ci sono mai state. Si chiama giorno zero perché quello che segue lo zero è sempre un inizio e negli inizi non si conosce sconfitta".

La storia tra Ambra e Allegri. Legati dall'estate 2017, quando fu il settimanale Chi ad immortalare insieme l'attrice e lo sportivo, adesso tra Ambra ed Allegri la situazione è più che tesa. Negli anni passati si era parlato di nozze, di anelli arrivati a suggellare un amore sempre più solido. Poi qualcosa è andato storto. Ambra torna così di nuovo single. Nel suo passato, lo ricordiamo, anche un lungo amore con il cantante Francesco Renga, a cui è stata legata dal 2004 al 2015 e da cui ha avuto proprio i figli Jolanda e Leonardo, oggi cresciuti e pronti a sostenere la mamma nei momenti più difficili, come appunto le delusioni d'amore.

Striscia inchioda Ambra (e i moralisti): ecco il fuori onda. Marco Leardi il 15 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dopo le polemiche per la consegna del premio satirico alla showgirl, Striscia pubblica un filmato in cui la donna accetta di fermarsi per le riprese e sta al gioco. Antonio Ricci: "Moralisti hanno pontificato sull'argomento". Tra moti di indignazione, dissertazioni sulla lesa dignità femminile e alzate di scudi sui social, la consegna del tapiro d’oro ad Ambra Angiolini era diventata una faccenda fin troppo seria. L'attribuzione del premio satirico alla showgirl, a motivo del tradimento che avrebbe subito dall’ex compagno Massimiliano Allegri, aveva sollevato un nugolo di polemiche contro Striscia la Notizia. Il programma di Canale5 era infatti stato accusato di essersi intromesso con irriverenza nella vita privata della donna, infierendo sul suo dolore per la fine della storia d'amore con l’allenatore bianconero. Colpito dalle suddette critiche, rimbalzate in modo particolare sui social, il tg satirico di Antonio Ricci ha messo in azione la propria contraerea con l’obiettivo di fare chiarezza sulle reali modalità con cui Ambra era stata avvicinata dall’inviato Valerio Staffelli. In un fuori onda pubblicato sul proprio sito, la trasmissione di Canale5 ha dunque mostrato le immagini (inedite) che precedevano l’effettiva consegna del tapiro d’oro. Nel video si vede Ambra Angiolini che accetta di trattenersi con Staffelli, stando al gioco. "Sai che non ce l’avevo il tapiro? Se ce lo meritiamo, giusto così...", afferma la showgirl, acconsentendo anche alla richiesta di spostarsi in una zona meno esposta al traffico, per realizzare le riprese senza difficoltà. Nel filmato, l’ex ragazza di Non è la Rai non appare infastidita dall'irriverente premio, né intima all’inviato di Striscia di allontanarsi. Una versione dei fatti distante dalla connotazione negativa poi attribuita al servizio incriminato. Il programma di Antonio Ricci ha inoltre rilevato la reazione avuta dalla showgirl dopo che sua figlia, Jolanda, aveva espresso rimostranze sul social per la consegna del tapiro. A Staffelli, che l'aveva contattata per chiedere spiegazioni, Ambra aveva risposto: "Oddio, che cosa ha fatto mia figlia!". "A telecamere spente, inoltre, Ambra si è raccomandata con Staffelli che in sede di montaggio non venissero compiute azioni che stravolgessero il senso di quello che lei aveva detto: richiesta naturalmente accolta", si legge inoltre in un comunicato diramato nelle scorse ore dal programma Mediaset. Certo, la punzecchiatura di Striscia alla Angiolini non è stata affatto indolore: nel servizio di Staffelli non sono mancate battutine urticanti e frecciate sulla fine della relazione con Allegri. Un tale approccio lo si può ritenere discutibile o evitabile, ma è pur vero che il tg satirico da sempre dispensa tapiri proprio con l’obiettivo di stuzzicare le malcapitate vittime. È la sua mission. Già in passato, Striscia aveva consegnato l’irriverente premio a volti noti (sia uomini che donne) vittime di tradimenti amorosi, ma non vi erano state analoghe polemiche. Su questo punto, la trasmissione di Antonio Ricci ha insistito nella sua replica alla ministra per le Pari Opportunità e la Famiglia Elena Bonetti, che aveva attaccato: "Si è scelto di andare dalla donna e non dall'uomo". In una nota fatta scrivere ironicamente dallo stesso tapiro, si legge: "Sono finito nelle mani di Stefano De Martino, Diletta Leotta, Riccardo Scamarcio, Belén Rodriguez, Ignazio Moser, Federica Pellegrini, Francesco Monte, ecc. Motivo? I loro cuori spezzati, senza distinzione di genere. Come vede, mi sono sempre fatto un punto d'onore di rispettare le Pari Opportunità. Lei, invece, cara Ministra, sembra non considerare Diletta Leotta degna della sua tutela, con il solito doppiopesismo rivelatore". Andando ancora al contrattacco, Striscia ha poi accusato: "Quanti sepolcri imbiancati, prosseneti, finti moralisti o semplici ciarlatani, individui in crisi di astinenza o semplicemente bisognosi dell'esternazione quotidiana si sono sentiti autorizzati a pontificare sull'argomento!". E mentre Ambra su Radio Capital si è commossa parlando del delicato momento che sta attraversando, Striscia la Notizia tira dritto. Fino al prossimo tapiro.

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto.

Massimiliano Allegri, "me lo paghi tu". La sconcertante richiesta ad Ambra Angiolini dopo le corna: soldi, che imbarazzo. Libero Quotidiano il 20 ottobre 2021. Continua a tenere banco il caso di Massimiliano Allegri e Ambra Angiolini, che ha avuto grande eco mediatica soprattutto dopo che Striscia la Notizia ha deciso di consegnare il tapiro d’oro all’attrice. Tra l’altro la consegna effettuata da Valerio Staffelli ha scatenato un putiferio: perché assegnare il poco lusinghiero riconoscimento a chi è stato tradito e non a chi ha tradito? Il tg satirico si è difeso ricordando che ha sempre goliardicamente dato il tapiro ai cuori infranti. Fatto sta che il caso continua ad arricchirsi di particolari. Stavolta è Chi magazine a riportare alcuni nuovi retroscena su traslochi e richieste da parte dell’allenatore della Juventus. La coppia era legata da circa quattro anni e si è sciolta dopo un presunto tradimento di lui: la relazione pare fosse in crisi da un po’, ora il settimanale scrive che Allegri avrebbe chiesto alla sua ex di pagare l’affitto della casa dell’allenatore, in cui lei si era trasferita insieme ai figli. L’attrice invece starebbe cercando una nuova sistemazione per evitare azioni legali. Inoltre si vocifera che Allegri l’abbia tradita più di una volta: non sarebbe una novità per un uomo non nuovo a turbolenze nella vita privata. Tra l’altro Max ha dribblato la questione in questi giorni, parlando unicamente di calcio quando interpellato. "Non sarà con noi". Clamorosa assenza di Ambra Angiolini, cosa diserta: corna-Allegri, sospetto crollo nervoso.

Da gossipetv.com il 20 ottobre 2021. La fine della relazione tra Ambra Angiolini e l’allenatore della Juventus Massimiliano Allegri continua a far discutere. La coppia, insieme da quattro anni, si è detta addio da poco, in seguito a un presunto tradimento da parte di lui. Dopo il polverone che si è sollevato per il Tapiro D’Oro ricevuto da Ambra a causa della rottura, Chi magazine riporta nuovi curiosi retroscena su ciò che è accaduto e su ciò che sta avvenendo. La 44enne cantante e attrice sta vivendo un periodo molto difficile. Si era recentemente trasferita da Brescia a Milano, nella casa di proprietà dell’allenatore insieme alla figlia 17enne Jolanda, avuta dalla relazione con il cantante Francesco Renga. La decisione di vivere insieme ad Allegri è stata a lungo ponderata. Già nel periodo del lockdown del 2020 c’era aria di crisi, prontamente risolta dalla stessa Ambra. Adesso, però, la fine della love story è assodata, definitiva, senza un punto di ritorno. Il settimanale Chi spiffera alcune chicche inedite relative al naufragio d’amore, scrivendo che il mister della Juventus ha chiesto all’ex di “pagare l’affitto“. Dal canto suo l’attrice starebbe cercando una nuova sistemazione per “non incappare in azioni legali (il rischio c’è)”. Il magazine diretto da Alfonso Signorini rivela anche altri retroscena spinosi inerenti all’addio. A quanto pare, i tradimenti (Ambra ne avrebbe trovato le prove “nell’auto di ‘Max'”) sarebbero stati “a più riprese” e sarebbero avvenuti a Torino. Allegri, che per ora ha deciso di non commentare la vicenda e in generale la sua vita privata, non è nuovo a storie burrascose. Lo dimostra il suo passato: nel 1992 è scomparso senza dare spiegazioni a due giorni dalle nozze con una certa Erika. Poi ha lasciato la compagna di lunga data Claudia Ughi. Dopo la separazione l’ha portata in tribunale per rimodulare l’assegno di mantenimento del loro figlio Giorgio, in un periodo in cui non stava allenando alcuna squadra. Non gli è però andata bene: ha perso e ha dovuto sborsare più soldi. Per fortuna Ambra, che ha parlato di “giorno zero” da cui ricominciare, può contare sul supporto della figlia, che è al corrente dell’accaduto. Jolanda, dimostrando grande maturità, ha difeso a spada tratta la madre dopo che una settimana fa le è stato recapitato il Tapiro da Striscia la Notizia. L’idea venuta al Tg satirico di Antonio Ricci è stata assai criticata. Non era meglio che Staffelli facesse qualche chilometro in più e si dirigesse a Torino?  

Giuseppe Fumagalli per “Oggi” il 29 ottobre 2021. L'ambiente Juve è una cerchia. Murata. Gli assalti per strappare qualche indiscrezione sulla fine tempestosa della relazione tra Massimiliano Allegri e Ambra Angiolini vengono regolarmente respinti. Ma a forza di insistere dalla cerchia murata qualcosa fuoriesce. La notizia, sfuggita a un frequentatore dell'ambiente Juventino, riguarda la prova del tradimento, che Ambra avrebbe scoperto sull'auto dell'allenatore della Juve. Un orecchino? Uno slip? Un reggiseno? O addirittura peggio? Nulla di tutto ciò. Sarebbe qualcosa di più sottile. «Un capello», mormora la nostra fonte, «un capello chiaro». Alla Continassa, quartier generale della Juve, azionano le catapulte. «Un capello?», è la reazione, «Ma che prova è. Oggi anche gli uomini portano i capelli lunghi. Allegri può anche dare un passaggio a uno dei suoi giocatori, il capello potrebbe essere di Rabiot». Senza allargare il fronte d'indagine a ipotesi finora inesplorate la nostra fonte si fa più precisa e incalzante: «Capello biondo, lungo e liscio». Non aggiunge altro. Il problema, sempre ammesso che di capello si tratti, è stabilire a chi appartenga. Se metter fine a un amore fosse reato ci penserebbero i Ris. E invece bisogna procedere a ten- toni, in una delle città più riservate del mondo. Altra fonte: «Non occorre andare troppo lontano», è il consiglio. «L'ambiente Juve è blindato e anche gli affari di cuore si giocano all'interno di un circuito chiuso. È tutta storia recente. Andrea Agnelli si è preso la bella- Deniz, che era moglie di un suo amico e manager. Alena Seredova, lasciata da Buffon, si è messa con Alessandro Nasi, cugino degli Elkann. Andrea Pirlo ha lasciato la moglie Patrizia, per mettersi con Valentina Baldini, amica di Deniz ed ex di Riccardo Grande Stevens, il cui padre, Franzo fu anche presidente della Juve. Insomma, se volete trovare la bionda, cercatela Ii». Un amico di Allegri, raggiunto al telefono, sogghigna: «Lui lo conosciamo, è sempre stato un po' farfallone», commenta. «Però negli ultimi anni mi sembrava più stabile. Qualcosa ha combinato, è sicuro, ma può darsi sia già tutto finito. Quando l'ho visto poche settimane fa mi ha detto di essere single».  

Da corrieredellosport.it il 29 ottobre 2021. E se con Max Allegri il per sempre non c'è stato, sicuramente l'amore tra madre e figlia, quello sì che sarà per sempre. Dopo la fine della relazione con l'allenatore della Juve, Ambra Angiolini, che sta cercando di recuperare il sorriso perso, ha deciso di incidere sulla propria pelle il legame indelebile con la sua primogenita Jolanda attraverso un tatuaggio. Proprio la diciassettenne, avuta dal precedente matrimonio con Renga, nei giorni scorsi ha difeso pubblicamente la madre in occasione della polemica nata dopo la consegna del Tapiro da parte di Striscia la Notizia. Unite e complici, mamma e figlia hanno scelto un'immagine, di cui una parte completa l'altra, per suggellare il loro grande rapporto: Jolanda si è tatuata una figura femminile di profilo che soffia, mentre Ambra un soffione, che nel linguaggio dei fiori simboleggia la forza, la speranza e la fiducia. "Alla fine mi ha convinta Jolanda Renga ….. un “ per sempre “ che non si poteva rifiutare, pensato con gli occhi a cuore", ha scritto Ambra su Instagram, dove ha postato alcuni scatti che mostrano il tatuaggio appena fatto. Il tenero gesto ha conquistato i molti fan dell'attrice che hanno lasciato dolci commenti sotto il post e tra i tanti messaggi è arrivato anche quello di Francesco Renga che si è un po' ingelosito e ha scritto: "Vabbè", seguito da una faccina.

Da corrieredellosport.it il 4 novembre 2021. Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri non hanno mantenuto alcun rapporto dopo la burrascosa rottura di qualche settimana fa, avvenuta - a quanto pare - per un tradimento dell'ex calciatore. Il settimanale Chi ha svelato nuovi retroscena su questa separazione: "Allegri e Ambra hanno smesso di parlarsi: l'allenatore pensa che sia stata la sua ex a decidere di diffondere la notizia della loro separazione". Al momento l'ex ragazza di Non è la Rai vive ancora nell'appartamento che doveva condividere con il mister bianconero ma è pronta a traslocare. "Dopo varie visite, l'Angiolini insieme con la figlia Jolanda pare che abbia trovato una nuova casa dove si trasferirà in tempi brevi per spezzare ogni legame, dimenticando ogni pezzo del puzzle di un amore che ormai era finito da circa 8 mesi".

Da sport.virgilio.it il 4 novembre 2021. Ora c’è solo silenzio (si fa per dire) attorno a Ambra e Max Allegri: la tensione tra loro ha toccato una tale elevatezza che la coppia non si parla neanche più per questioni di ordine pratico, relegando a terzi la risoluzione delle pratiche e delle incombenze che impone l’aver ancora una casa in comune. Ambra, come già rivelato dal settimanale Chi, avrebbe deciso di cercare un nuovo appartamento per sé e per Jolanda, sua figlia, dopo che Allegri ha deciso di riprendere possesso dell’appartamento milanese (molto vicino a quello occupato dalla figlia Valentina). Ergo Ambra deve abbandonare la loro dimora e trovarne un’altra. Ma ciò poco conta, dopo il comunicato stampa diffuso da Striscia la Notizia e le ultime rivelazioni di Alfonso Signorini.

Ambra, il comunicato di Striscia la Notizia

Nella serata di mercoledì, l’ufficio stampa di Striscia, ha inviato alle redazioni un lungo ed articolato comunicato che ricostruisce quanto avvenuto relativamente alla consegna del Tapiro a Ambra: un momento non proprio gratificante, che ha innescato reazioni di indignazione, l’intervento di opinionisti, giornalisti, addirittura della ministra per le Pari Opportunità su quello che è il ruolo e l’immagine trapelata dell’attrice. Questa versione, respinta in blocco dal tg satirico e dai suoi collaboratori, è stata smentita lato loro con una serie di documentate prove. “Il tapiro ad Ambra è stato un agguato, un atto violento contro la volontà dell’attrice. Il Gabibbo vi mostra il fuorionda dell’approccio dell’inviato Valerio Staffelli ad Ambra, che è in auto quando lo vede. Potrebbe allontanarsi. Invece scende, e segue il tapiroforo per accettare di buon grado il premio di consolazione. Verranno mostrare anche le molte immagini in cui si vede Angiolini che ride e fa battute a Staffelli”, si legge nel comunicato. 

Il retroscena sul post di Jolanda Renga

Secondo Striscia, anche il post pubblicato da Jolanda Renga sarebbe stato frutto di una mossa mediatica architettata dall’agenzia che segue Ambra e (Notoria Lab) che avrebbe aiutato la primogenita dell’attrice a elaborare, in maniera più diretta, la propria opinione sulla rottura tra Allegri e la mamma. E Allegri? Secondo le ultime di Chi sarebbe stato irritato, e non poco, dall’immagine emersa da questa vicenda che ha sollevato così tante critiche e pressioni da esaltare ancora di più se possibile una contrapposizione, una semplificazione di ruoli. Stando all’allenatore sarebbe stata proprio Ambra a lasciar trapelare la notizia della frattura e a costruire una sorta di schermo dietro cui proteggersi, mettendo in luce le sue carenze e il presunto tradimento subito. Fino ad ora, nonostante l’attenzione costante, Allegri ha sempre preferito glissare e non fornire dettagli sulla sua vita privata. E ciò nonostante una vita sentimentale che ha visto separazioni, divorzi, rotture e flirt. 

Il chiarimento tra Ambra e Vanessa Incontrada, poi il silenzio

Torniamo però a Striscia e alla difesa del proprio operato: un capitolo inedito di questa vicenda viene consegnato ai media attraverso un passaggio chiave, in questa triste vicenda del Tapiro a Ambra, accompagnate tra l’altro da minacce intollerabili verso i conduttori, Staffelli e lo staff: “Quando Vanessa Incontrada ha telefonato ad Ambra e si sono spiegate e chiarite. Però di questo fatto Angiolini nelle sue dirette radio e Instagram non ha mai dato notizia. Così non si sono evitate le minacce di morte arrivate ai conduttori, a Valerio Staffelli, ai loro figli. «Altro che muro d’amore, muro d’ipocrisia», precisa il Gabibbo”. Perché se Vanessa Incontrada, accusata di aver taciuto pur ricoprendo un ruolo molto importante nella comunicazione e nella lotta agli stereotipi ha omesso fino a mercoledì questo chiarimento? Perché Ambra non ne ha fatto cenno, anzi? Perché ancora sussistono questi non detti, al netto di una separazione che a quanto pare ha più strascichi di quanto si creda? Nulla è così, se vi pare. Almeno fino all’emergere di altri dettagli su una questione che non è più (solo) una vicenda privata. 

Valerio Palmieri per “Chi” il 18 novembre 2021. Il  tapiro d'oro consegnato da Valerio Staffelli ad Ambra Angiolini lo scorso 13 ottobre per la notizia della fine della relazione con Allegri, rivelata proprio da "Chi", ha fatto molto discutere. Perché ad Ambra e non ad Allegri? E un caso di sessismo? La figlia dell'attrice si è subito schierata in difesa della madre, il web si è infuocato. Un po' troppo, visto che sono arrivati anche insulti e minacce a Striscia, a Staffelli, alla famiglia di Staffelli e a Vanessa Incontrada, conduttrice in quei giorni del tg satirico, rea di non aver difeso la collega. Gli avvocati di Ambra si sono riservati "di valutare ogni migliore iniziativa a tutela della loro assistita in considerazione dell'illegittima intromissione e conseguente spettacolarizzazione di una vicenda privata e dolorosa da parte del Signor Valerio Staffelli". E così Striscia ha mostrato il dietro le quinte dell'incontro fra Staffelli e Ambra, in cui l'attrice si è mostrata gentile di fronte all'altrettanto gentile richiesta di Staffelli. Abbiamo intervistato l'inviato di Striscia, pronti a sentire anche Ambra se vorrà fornire la sua versione. 

Domanda. Perché il tapiro ad Ambra e non ad Allegri?

Risposta. «Abbiamo deciso di andare da Ambra perché il tapiro viene tradizionalmente consegnato al presunto attapirato, non abbiamo mai fatto distinzioni tra uomini e donne, infatti lo abbiamo dato in passato anche a volti famosi come Riccardo Scamarcio e Fabrizio Corona, sempre peri loro amori da copertina infranti».

D. Non ha pensato, poi, di portarlo anche ad Allegri?

R. «No, perché è stato montato un caso assurdo sul nulla. Ci aspettavamo che Ambra in radio chiarisse, dicendo che io non l'avevo aggredita e che si era spiegata al telefono con Vanessa. Addirittura i suoi avvocati hanno minacciato di querelarci per l'intromissione nella sua vita privata. Incredibile. Voi di "Chi", allora, che per primi avete scoperto la nascita dell'amore tra Ambra e Allegri e poi per primi avete scoperto la fine del loro amore, dovreste avere l'ergastolo garantito».

D. Ma lei ha chiamato Ambra prima del servizio per mettersi d'accordo sulla consegna?

R. «No, sapevo a che ora sarebbe uscita dalla radio dove lavora e mi sono messo li fuori ad aspettarla. Quando è uscita, è entrata in macchina e io mi sono avvicinato con garbo per chiederle se potevo consegnarle il tapiro. Avrebbe potuto mettere in moto e andarsene come ha fatto qualche giorno fa Mourinho e, invece, è scesa, ha fatto battute simpatiche e mi ha pure invitato a pranzo. Le immagini del fuori onda che abbiamo poi diffuso sono inequivocabili». 

D. Se Ambra le avesse detto: "Non me la sento, sto soffrendo troppo", che cosa avrebbe fatto?

R. «Ma lei è scesa dalla macchina. Poteva dirmi: "Valerio non è il caso, ne parliamo un'altra volta", e andarsene. Invece è stata al gioco e lo ha anche condotto con l'abilità di una donna consumata di spettacolo quale è». 

D. Ambra aveva voglia di parlare o è stata solo gentile?

R. «Dopo 26 anni e 1.400 tapiri posso dire che, quando una persona è così simpatica e alla fine saluta e va via, e ti raccomanda addirittura di non inserire nel montaggio delle battute che possano stravolgere il senso delle sue dichiarazioni, è ovvio che penso sia andato tutto bene. Avevo consegnato tapiri ad altre donne per la fine dei loro amori, vedi Belen o Diletta Leotta, e non c'è stato nessun problema». 

D. Che cosa le hanno detto sua moglie e sua figlia?

R. «La sera della consegna del tapiro hanno detto entrambe che Ambra era stata molto simpatica, poi, nei giorni seguenti, sono arrivate minacce di morte e insulti anche a loro». 

D. E dispiaciuto?

R. «Sono dispiaciuto che Ambra non abbia smorzato i toni, avendo comunque gli strumenti per farlo. E poi la vicenda dell'addio fra Ambra e Allegri ha avuto altri sviluppi: dopo l'ondata di insulti a noi, salta fuori la storia del capello biondo trovato nella macchina di Allegri, una cosa che potevano sapere solo i due interessati, quindi o lui o lei l'hanno detto alla stampa. Allegri ha detto più volte di non volerne parlare. Chi sarà stato? Poi, dopo la storia del capello, arriva quella dell'affitto che Ambra avrebbe dovuto pagare ad Allegri per continuare a vivere a casa sua. E ancora, il tatuaggio di Ambra e della figlia. Mi sembra che ci sia un filo logico che porta all'uscita del nuovo film di Ambra dove, guarda caso, interpreta il ruolo di una donna abbandonata». 

D. Lei pensa male.

R. «Io riporto solo dei fatti accaduti. Se unisci i puntini, viene fuori la figura del tapiro. Lo abbiamo pure dimostrato, smontando passo per passo le varie incongruenze nel servizio mandato in onda il 3 novembre».

D. Che cosa è successo dopo che avete mandato il video intero della consegna?

 R. «Molte donne che ci avevano attaccato hanno cambiato idea. "Allora le cose non sono andate come pensavamo". Siamo stati zitti per un po' sperando che Ambra avrebbe chiarito, così non è stato. E consideri che Vanessa è stata bravissima perché l'ha chiamata, ma non ha mai parlato di questa telefonata, ha aspettato che lo facesse lei. Ma non è successo e Vanessa è stata ricoperta di insulti sui social, tanto che ha dovuto addirittura bloccare i commenti, ha ricevuto minacce terribili rivolte sia a lei che a suo figlio».

D. A chi darà il prossimo tapiro?

R. «Non glielo posso dire perché altrimenti poi dovrei ucciderla (ride, ndr)». 

Ambra Angiolini e Max Allegri, le corna e l'ultima indiscrezione: "Pare che ora...", è finita in disgrazia. Libero Quotidiano il 04 novembre 2021. L'amore tra Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri è finito malissimo: i due non si parlano più. Insieme alla telenovela Wanda Nara - Mauro Icardi, è la storia di corna più bollente dell'anno 2021. E forse non è un caso che entrambe le vicende riguardino una donna di spettacolo e un protagonista del mondo dello sport, con il mix devastante di riflettori e gossip da spogliatoio. Nel caso dell'allenatore della Juventus e della ex stellina di Non è la Rai, oggi stimata attrice e conduttrice radio, la trama è chiara: lui, che un po' farfallone lo è sempre stato fin da ragazzo, l'avrebbe tradita più volte durante la loro relazione e quando lei lo ha scoperto, lo ha mollato. Punto. Tutto abbastanza scontato, ma dopo viene il bello. Il Tapiro d'oro consegnato da Striscia la notizia alla Angiolini ha scatenato una ondata di indignazione, con le accuse di insensibilità e scarso rispetto da parte del tg satirico di Canale 5. Antonio Ricci ha replicato sottolineando le responsabilità della stessa Ambra e della agenzia che ne cura l'immagine nella gestione del post-rottura. E il settimanale Chi diretto da Alfonso Signorini, che per primo aveva lanciato lo scoop della coppia scoppiata, dopo aver rivelato il dettaglio del "capello biondo" trovato da Ambra in auto, indizio inequivocabile delle corna con amante da ricercare nella "famiglia della Juventus", sgancia un'altra bomba. Ambra e Allegri "hanno smesso di parlarsi: l'allenatore pensa che sia stata la sua ex a decidere di diffondere la notizia della loro separazione", parziale conferma di quanto sottolineato da Striscia. La Angiolini vive ancora nell'appartamento milanese condiviso con Allegri, ma "dopo varie visite, insieme con la figlia Jolanda pare che abbia trovato una nuova casa dove si trasferirà in tempi brevi per spezzare ogni legame, dimenticando ogni pezzo del puzzle di un amore che ormai era finito da circa 8 mesi".

Giampiero Mughini per Dagospia il 16 ottobre 2021. Caro Dago, sarà perché invecchio sempre più pericolosamente fatto è che sempre più pregio il valore della discrezione, del non far rumore mentre cammini, dello scansarti e del non esserci anziché esserci a tutti i costi sui media e compagnia cliccante. Un valore che è talmente in controtendenza rispetto alle voghe e ai valori della nostra società da diventare rarissimo e dannoso per chi lo pratica. Naturalmente ero stato fra coloro che erano rimasti sbalorditi della consegna del Tapiro di “Striscia la notizia” ad Ambra, persona e donna che conosco e apprezzo: e che è la testimonianza vivente di quanto Gianni Boncompagni, che la scoprì “ragazzina”, ci azzeccasse sempre nei suoi giudizi. (E a proposito di Boncompagni e della sua “Non è la Rai”, ho apprezzato molto che Aldo Grasso, un critico televisivo di cui condivido appieno il 90 per cento di quello che scrive, si sia detto “pentito” del non avere apprezzato a suo tempo quella formidabile invenzione televisiva.) Mai e poi mai l’avrei scritto da quanto mi sembrava banale, certo era sconcertante che un segno di dileggio venisse appioppato a una donna di cui sembrava che fosse stata “lasciata” dal suo uomo dopo una relazione durata quattro anni. Solo che le cose a quanto pare non sono andate così. Ambra, che è donna di spettacolo e donna intelligente, pare abbia concordato la scenetta con i finti pirati di “Striscia la notizia”. Ha intuito che da quella sceneggiata ne sarebbe venuta per lei un gran guadagno massmediatico, e difatti mezza Italia dopo quella scenetta tifa (giustamente) per lei. La società fondata sulla comunicazione massmediatica, secondo cui l’importante è esserci, trionfa ancora una volta. Ambra non ci fosse stata, ne avrebbe avuto solo danni sotto forma di disinteresse, di silenzio su di lei, di non esserci per l’appunto. Al suo posto in quei giorni avrebbe magari trionfato una qualche sciacquetta qualsiasi che si fosse resa “visibile” per il più banale dei motivi. E del resto in una società dominata dal rumorio della comunicazione di massa, come fai a distinguere tra motivi “banali” e motivi che non lo sono. Impossibile. Esserci esserci esserci. A tutti i costi. A cominciare dall’esserci sui social a qualsiasi costo e in qualsiasi circostanza. Senza di che, è il caso mio, la tua condizione diventa eguale a quella degli antifascisti esuli in Francia e dunque lontanissimi dalla realtà italiana degli anni Venti e Trenta. Non esisti, non esisti proprio. Un mio amico che stava sui social due tre ore al giorno, mi diceva che quando usciva un suo libro era come se duemila copie fossero già immediatamente vendute. A coloro con i quali aveva duettato a colpi di clic per mesi e mesi. Malato di discrezione come sono, se esce un mio libro non ne accenno neppure ai miei amici. Una volta la Feltrinelli mi aveva invitato a parlarne in una delle sue librerie romane. Di quell’appuntamento non ne feci parola con nessuno. Nella saletta si radunarono venti o venticinque persone, non una di più. Vendetti due copie del libro. Mi direte che questa è spocchia. Ossia l’altra e prelibata faccia della discrezione. Ma certo che lo è.

Signore e signori. Ambra, Boccassini e l’idea che il tradimento tra adulti sia la cosa più devastante che possa capitare. Guia Soncini su L'Inkiesta il 16 Ottobre 2021. Con l’indignazione per il tapiro all’attrice tradita e per le rivelazioni dell’ex magistrato su Falcone sembra di essere tornati nel mondo di Pietro Germi. E da quando le diciassettenni, le uniche peraltro che avrebbero diritto a considerare le corna una questione di vita o di morte, vengono adulate come fari culturali? Dio, come mi manca Pietro Germi. Mi manca fino alla profondità, la vastità e l’altezza che l’anima mia può raggiungere allorquando persegue, irraggiungibili agli sguardi, i fini del bene e della grazia ideale. (Sì, sto scempiando quella poesia che vi sembra di riconoscere ma non siete proprio sicuri: è Elizabeth Barrett Browning, la declamavano in una puntata di Saranno famosi quand’eravate piccoli e avreste dovuto studiare Tacito invece di guardare la tele). Mi manca Pietro Germi in questo secolo a lui successivo che è a lui contemporaneo: chissà dove pensavate di vivere, voi che abitate il tempo congelato, immobile, di Signore e signori, di Divorzio all’italiana, di Sedotta e abbandonata. Ho sospettato fossimo quell’Italia lì la settimana scorsa, quando Ilda Boccassini veniva accusata d’aver diffamato Francesca Morvillo svelando d’aver avuto, trent’anni fa, una relazione con suo marito, Giovanni Falcone. Quella al capitolo fedifrago delle memorie di Ilda Boccassini è stata una reazione comica. Custodi della morale matrimoniale si battevano il petto come prefiche al funerale della monogamia. Mi tornava in mente la vedova di Spencer Tracy che, a Katharine Hepburn – amante di lunghissimo corso del marito, a tutti gli effetti un matrimonio parallelo – che le telefona, risponde «ma io credevo tu fossi un pettegolezzo». Solo che allora era il 1967, un anno dopo Signore e signori. Sono passati mille anni, in termini di costumi di coppia, parrebbe – e invece. E invece ricopio il commento che più mi è piaciuto all’uscita del libro dello scandalo; il commento, su Facebook, di una signora – Eleonora, non vi dirò sotto che articolo di che giornale, né ve ne svelerò il cognome – che unisce il contemporaneo non sapere niente di niente mai, e lo scandalizzarsi come le beghine messe in scena da Germi: «Ma Falcone era sposato? Questo non l’ho capito. Perché, se lo era all’epoca, la signora è una maleducata, priva di sensibilità verso i parenti della moglie. Perché farli soffrire? Non mi piace!». Per Eleonora i parenti di Francesca Morvillo, che quarantaseienne morì in un attentato assieme al marito e alla scorta, soffriranno perché la signora era, aspettate che continuo l’articolo con una mano sola mentre con l’altra m’attacco a una tenda per meglio significare la drammaticità di questa condizione invero rarissima nonché grave, cornuta. Ebbene sì, signori della corte: cornuta. Mi piacerebbe che Eleonora fosse un’eccezione, ma la vicenda di Ambra mi ha fatto capire che no, siamo proprio convinti che le corna siano la cosa più devastante che possa capitare (sospetto non sia colpa di Anna Karenina che si butta sotto al treno ma del coniglio da compagnia bollito dell’amante in Attrazione fatale: la mia generazione era giovane e impressionabile). Se siete appena tornati da Marte, riassumo. Ambra Angiolini – attrice, madre (sì che c’entra), e madeleine del boncompagnismo, carattere fondativo della nazione – conclude la sua relazione con Massimiliano Allegri – tizio a me ignoto che ha a che fare col giuoco del calcio – e riceve perciò la visita d’un inviato di Striscia la notizia, il quale le consegna un brutto oggetto che, storicamente, la trasmissione consegna a chi abbia fatto una brutta figura. (Che concetto da provincia germiana, la «brutta figura»). Scusate la premessite ma devo precisare che, tra un inviato televisivo che t’impone un’intervista che non hai concesso, e chiunque altro sia l’intervistato renitente, io sto e starò sempre contro il varietà televisivo che t’impone d’alzargli gratis gli ascolti, anche qualora l’intervistato fosse Priebke. Figuriamoci se è Ambra Angiolini. Tuttavia, quando l’opinionismo accorre in massa a dire ad Antonio Ricci che come ha potuto essere così atroce, così insensibile, così irrispettoso d’una situazione così delicata; quando le presunte corna d’una storia d’adulti vengono trattate come se invece che di corna stessimo parlando di terrore miseria e morte; quando le diciassettenni vengono trattate come fari culturali (la figlia di Ambra e di Francesco Renga, la diciassettenne Jolanda, unica ad avere l’età giusta per considerare le beghe sentimentali questione di vita o morte, come Giulietta Capuleti, è intervenuta sui social, la cui livella ci fa trattare allo stesso modo un intervento di Jolanda Renga e uno di Angela Merkel); ecco, quando accade tutto questo io mi chiedo se ci abbia dato di volta il cervello. Quando Elena Stancanelli – ieri sulla Stampa – scrive «sono stata tradita dall’uomo con cui stavo e questo fa di me una persona ridicola? Ho capito bene?», io, senza neppure sapere se Ambra fosse d’accordo col programma (quando si tratta di gente dello spettacolo, i programmi aggressivi sono spesso più complici di quanto lo siano coi carneadi), senza sapere niente dei fatti, osservo la tenda cui ci siamo tutte attaccate alla prima occasione in cui far sfoggio delle nostre priorità, e penso quant’è strano che non ce ne sia stata neanche una, ne sarebbe bastata una, che dicesse «ahò, ma erano solo corna»; neanche una, ne sarebbe bastata una, che alle accuse di vessare le donne abbia risposto che gli uomini sono cornuti almeno altrettanto (almeno); e poi penso a quanti soggetti sprecati, e a cosa avrebbe saputo farne Germi.

Perché solo la Angiolini merita tutela? Il doppiopesismo smascherato dal tapiro. Francesca Galici il 18 Ottobre 2021 su Il Giornale. Per il tapiro d'oro ad Ambra Angiolini è sceso in campo anche il ministro Bonetti: perché non è accaduto quando a ricevere il tapiro sono state altre donne? La storia d'amore tra Ambra Angiolini e Massimiliano Allegri si è conclusa. Non è la prima e non sarà certo l'unica, i loro fan se ne faranno una ragione. Ma da giorni non si fa che parlare di loro due ma soprattutto di Ambra, a quanto pare tradita dal suo ex. E anche qui, non è che sia l'unica ad aver subito questa sorte, la social guru Giulia De Lellis ci ha fatto pure un libro dal titolo "Le corna stanno bene su tutto". E se lo dice lei, chi siamo noi per contraddirla? Ma la querelle per la quale la Angiolini è stata eretta quasi a povera vittima e sulla quale, a detta di alcuni, non si può scherzare è nata quando è entrata in scena Striscia la notizia. Le femministe strombazzanti hanno iniziato a lamentare il fatto che è stato crudele consegnarle il Tapiro d'oro, nato come riconoscimento nei confronti degli "attapirati", ossia tristi. Addirittura in favore dell'attrice si è spesa anche Elena Bonetti, ministro per le Pari opportunità e per la famiglia. "Queste vicende non devono mai essere spettacolarizzate. Certamente si è scelto di andare dalla donna e non dall'uomo. Ma conosco Ambra, donna di grande coraggio e ha retto questa situazione con grande dignità", ha detto ai microfoni di Radio Capital. Un inasprimento del clima al quale il tg satirico di Canale5 ha provato a mettere una pezza, alleggerendo il tutto e lasciando che fosse il tapiro stesso a rispondere al ministro, segnalandole tutti i casi in cui il tapiro è finito nelle mani di uomini e donne dopo la fine della loro relazione. "Come vede, mi sono sempre fatto un punto d'onore di rispettare le Pari opportunità. Lei, invece, cara Ministra, sembra non considerare Diletta Leotta degna della sua tutela, con il solito doppiopesismo rivelatore", si legge nel comunicato. In effetti, non si ricordano altre volte in cui ci si è stracciati le vesti per un tapiro consegnato a una persona tradita. "Quanti sepolcri imbiancati, prosseneti, finti moralisti o semplici ciarlatani, individui in crisi di astinenza o semplicemente bisognosi dell'esternazione quotidiana si sono sentiti autorizzati a pontificare sull'argomento", chiosa in chiusura di comunicato il tapiro. Ma tutto questo va contestualizzato, perché Striscia, dopo che si è sollevato il polverone, ha mostrato il fuorionda della consegna. Ambra, dice il tapiro, "non ha mai manifestato a Staffelli la minima volontà di non essere intervistata, come risulta evidente durante tutto il servizio. A telecamere spente, inoltre, Ambra si è raccomandata con Staffelli che in sede di montaggio non venissero compiute azioni che stravolgessero il senso di quello che lei aveva detto: richiesta naturalmente accolta". Se il clima era disteso e non c'è stata nessuna richiesta di spegnere le camere o di non trasmettere il servizio da parte dell'attrice, cos'è successo dopo? Non si sa, però gli avvocati di Ambra Angiolini hanno annunciato che si riservano di procedere "in considerazione dell'illegittima intromissione e conseguente spettacolarizzazione di una vicenda privata e dolorosa da parte del signor Valerio Staffelli, inviato di Striscia la notizia". Ai legali ha risposto ancora una volta il tapiro d'oro: "Mi sono limitato a raccontare quello che è visibile a tutti nel filmato pubblicato sul nostro sito, a prova di ogni smentita. È evidente la volontà di trasformare l’episodio in una telenovela". Striscia la notizia consegnerà ora un tapiro al tapiro?

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Non solo Wanda e Icardi. L'eterna "incornata" che fa la storia del calcio. Tony Damascelli il 18 Ottobre 2021 su Il Giornale. Dai 14 figli di Garrincha fino a Buffon, Terry e Balotelli: tradire è un classico del pallone. Raccontano che Garrincha sia stato padre di quattordici figli, raccontano pure che i suddetti non siano tutti della stessa madre ma sparsi un po' per il mondo, quello del football in particolare, frequentato dal fenomeno brasiliano. La storia è antica, dunque, di tradimenti di sesso, di famiglie spaccate, di matrimoni finiti, di clamorosi divorzi. Wanda Nara ha scoperto che «mi tesoro» come Lei chiamava Mauro Icardi, se la intende con una sventola (si può scrivere o è oggetto di sessismo acuto?) compatriota, Eugenia Maria Suarez detta China ma avendo una nonna giapponese. Lo stesso Icardi aveva portato via la succitata Wanda al sodale Maxi Lopez con la quale la strepitosa Nara aveva dato alla luce figli tre. Raccontano che Gigi Buffon abbia messo le corna ad Alena Seredova preferendole Ilaria D'Amico e la ragazza di Praga si sia vendicata unendosi ad Alessandro Nasi che, in un certo senso, è tra coloro che ha garantito il salario di Buffon. Raccontano che John Terry, ex capitano del Chelsea, somigliante assai a Kevin Spacey, abbia approfittato di Vanessa Perroncel ma questa era moglie di Wayne Bridge, sodale di squadra di John, al punto da rinunciare alle convocazioni in nazionale, per evitare di incontrare il vigliacco al quale Fabio Capello, per punizione, tolse pure la fascia di capitano. Si potrebbero raccontare storie cento di Diego Armando Maradona e delle sue prestazioni in orizzontale, le battaglie sull'eredità coinvolgono parenti vicini e lontani. Ha un buon album di figurine private Mario Balotelli che conta un numero di amori traditi superiori ai gol realizzati. Ci fu il caso di Wilfied Zaha ceduto dal Manchester United perché scoperto a filare con la figlia dell'allenatore David Moyes. Si narra del colombiano James Rodriguez che perse la testa per la modella russa Helga, conosciuta ad una festa in casa di Cristiano Ronaldo. Nulla di strano se non che la relazione esplose e proseguì mentre Daniela Ospina, la moglie di Rodriguez, stava in Colombia con tutta la famiglia appresso. L'olandese Virgil Van Dijk ha commesso un fallo da cartellino rosso, lasciando la moglie per Georgie Lyall, buona fantastica però attrice nota di film porno, sulla stampa inglese grandi reportage e fotografie della coppia beccata ignuda in albergo. Restando nel mondo hard non va dimenticato Faustino Asprilla che consigliò moglie e figli di andare in Colombia perché il clima di Parma era umido, freddo, nebbioso, malinconico e per combatterlo Faustino pensò di buttarsi su Petra Scharbach, tedesca affascinante e divertente. L'ex difensore di Napoli, Vicenza, Juventus, Roma e varie, Luciano Marangon, soffriva di solitudine e andava per discoteche, si scaldava prima delle partite con un team di donne belle, lo accompagnava Ruud Krol che così spiegava alla propria moglie: «Vado da Luciano che è sempre solo». Non male, si fa squadra anche così. Si segnalano anche vicende colossali di presidenti di serie A capaci di colpi di mercato in casa altrui. Il mondo del calcio vive di finte in campo e anche fuori. Basta non stupirsi. Un tempo dalle tribune si urlava: «Arbitro cornuto!», ormai l'insulto non va più di moda, è superato. Basta consultare l'almanacco e scegliere una figurina tra le tante dei calciatori e ripetere lo stesso strillo. Nemmeno il Var potrebbe smentirlo. Tony Damascelli

Giacomo Amadori per “la Verità” il 6 giugno 2021. Il tabù della passione per il gioco d' azzardo in casa Juventus aveva provato ad affrontarlo l'ex portierone dei bianconeri Gianluigi Buffon, che a proposito del suo amore per le puntate aveva detto in un' intervista: «Per me è più dipendente chi spende solo mille euro, ma regala alla dea bendata dieci o dodici ore al giorno del suo tempo piuttosto di uno come me che può rischiare di perdere centomila euro alla volta, ma dedica al gioco una sera ogni due mesi». Le partite con la dea bendata, a voler credere alle segnalazioni di operazioni sospette (Sos) giunte all' ufficio Antiriciclaggio della Banca d' Italia, devono essere una passionaccia anche per l'allenatore Massimiliano Allegri, cinquantatreenne livornese doc, richiamato sulla panchina della Juventus dopo una separazione turbolenta e due anni sabbatici. «Acciuga», così era stato soprannominato da ragazzo per l'aspetto esile, è stato un centrocampista dalle spiccate caratteristiche offensive, poco amante delle marcature e delle gabbie tattiche. «Non sono un maniaco degli schemi, ma un estroso» ebbe a dire un giorno il vecchio-nuovo mister dei bianconeri, memore degli insegnamenti del suo maestro Giovanni Galeone. Ma adesso deve guardarsi dalla marcatura a uomo dei risk manager della banca presso cui ha acceso il conto. Infatti sono diverse le Sos inviate all'Unità di informazione finanziaria di Palazzo Koch. Alert che battono quasi sempre sullo stesso tasto: i soldi provenienti dall'estero e inviati da società collegate al gioco d'azzardo e alle scommesse. Ricordiamo che in base al regolamento della Federazione italiana gioco calcio ai tesserati del mondo del pallone professionistico «è fatto divieto di effettuare o accettare scommesse, direttamente o indirettamente, anche presso i soggetti autorizzati a riceverle, che abbiano ad oggetto risultati relativi ad incontri ufficiali organizzati nell' ambito della Figc, della Fifa e della Uefa». Ma le Sos visionate dalla Verità sembrano più collegate alle puntate da tavolo verde che alle scommesse sui risultati delle partite. A fine aprile 2021 i risk manager della Banca Intermobiliare (Bim), filiale di Torino, dove Allegri ha aperto un conto nel 2014, hanno segnalato che il loro danaroso cliente, tra l'agosto del 2018 e l'aprile del 2021, ha ricevuto in accredito sette bonifici per 161.000 euro complessivi dalla società maltese Oia service limited, per il tramite di Banca Poste italiane. Nella Sos si fa presente che la Oia «è stata coinvolta nell' indagine Galassia della Dda di Reggio Calabria che ha determinato il sequestro dei beni facenti capo all' imprenditore Antonio Ricci per circa 400 milioni di euro» e che «la società in questione risulterebbe far parte del patrimonio sequestrato» e «sarebbe stata individuata come veicolo italiano utilizzato da Ricci per perpetrare le attività illecite contestate». L'imprenditore pugliese è accusato dagli inquirenti reggini, coordinati dal procuratore Giovanni Bombardieri, di associazione per delinquere, truffa aggravata ai danni dello Stato e reati fiscali per la mancata dichiarazione di 440 milioni di euro di redditi derivanti da raccolta illecita di scommesse e il relativo omesso pagamento di decine di milioni di imposte, il tutto aggravato dal fatto di aver agevolato la 'ndrangheta. Il 14 giugno è prevista l'udienza preliminare per discutere la richiesta di rinvio a giudizio avanzata dai pm Sara Amerio e Stefano Musolino e alla sbarra ci saranno anche diversi soggetti in odor di mafia. Per gli inquirenti Ricci avrebbe creato la sua rete per le scommesse illegali utilizzando siti Internet in gran parte non autorizzati e 2.000 punti commerciali fisici «di fatto funzionali alla raccolta da banco e anonima delle puntate». Va precisato che Allegri, probabilmente totalmente all' oscuro del pedigree del committente dei bonifici, ha continuato a ricevere pagamenti dalla Oia limited anche dopo che la società è passata, nel novembre del 2018, sotto la gestione di due amministratori giudiziari incaricati dal Tribunale e ha iniziato a operare in modo legale. Ma con che tipo di giochi o scommesse si diletta l'allenatore della Juventus? La Sos di aprile non lo specifica, ma spiega che «sempre nello stesso periodo» dell'arrivo dei soldi maltesi, sul conto del mister bianconero sono giunti altri 7 bonifici dall' estero per un totale di 168.000 euro su ordine della società slovena Hit D.D. Nova Gorica, società che «gestisce hotel, centri di gioco e intrattenimento in Slovenia». Scrivono i risk manager: «Considerata la non presenza di documentazione giustificativa si presume che tali accrediti siano derivanti da vincite, ma la reiterazione di determinati importi similari potrebbe lasciare spazio ad altre sospette interpretazioni». La filiale torinese della Bim ha fatto una segnalazione anche il 18 marzo 2021 avente ad oggetto due bonifici provenienti da Malta, ma anche altro denaro giunto da Monte Carlo. Nella Sos viene puntualizzato che Allegri «è stato oggetto di accertamento disposto dalla Gdf Nucleo polizia economico finanziaria di Livorno (1 agosto 2019)». I controlli erano partiti su segnalazione di un intermediario finanziario, come previsto dalla legge, e la funzione antiriciclaggio della banca aveva fornito gli estratti conto di Allegri dall' 1 gennaio 2017 all' 1 agosto 2019. Ma, evidenziano dall' istituto di credito, «il 15 novembre 2019 è pervenuto un bonifico dall' estero di 80.000 euro dalla Société générale (una banca, ndr) di Monte Carlo []. Trattasi di reiterazione di operatività già segnalata come sospetta» nell' autunno del 2018, quando «tali somme erano state giustificate come rimborso carta di credito del casinò». Invece nel novembre del 2017 «era stato accreditato un ulteriore bonifico estero di 60.000 euro disposto dal medesimo mittente e giustificato in questo caso come vincite al casinò». I funzionari della Bim specificano che sul conto dell'allenatore, tra l'ottobre 2017 e il dicembre 2018, sono entrati 9.657.708 euro di emolumenti della Juve e che il mister, attraverso 23 prelievi, ha ritirato 78.000 euro in contanti. Sul conto sono stati addebitati anche 497.740,46 euro di carta di credito, assegni per 63.252 euro e sono state date disposizioni di pagamento per 8.438.259 euro verso «altro intermediario italiano», un'importante galleria d'arte e per «spese personali (autista, viaggi, acquisti, affitto)». I funzionari della banca concludono che il «sospetto» sul bonifico monegasco da 80.000 euro «nasce dal fatto che, nonostante gli importi movimentati siano coerenti con il patrimonio e lo standard di vita del cliente, tra l'altro personaggio pubblico a livello mondiale, non è presente documentazione a supporto dei fondi provenienti dall' estero e dal fatto che Monaco risulta essere Paese in passato ricompreso tra i cosiddetti paradisi fiscali». C'è, infine, un'ulteriore segnalazione dell'ottobre 2019 riguardante l'utilizzo della carta di credito da parte di Allegri. Tra il luglio 2018 e l'agosto 2019 avrebbe speso 497.748,91 euro, spalmati su 123 operazioni. «Quattordici utilizzi, per complessivi 356.000 euro, sono riconducibili a operazioni di spesa presso esercenti appartenenti alla categoria merceologica del gambling (gioco d' azzardo, ndr) fisico, in particolare presso il casinò di Monte Carlo e il casinò Perla (Nova Gorica). Tali operazioni sono state effettuate nei primi quindici giorni del mese, talvolta più volte nella medesima giornata, per importi elevati sino a un massimo di 50.000 euro». «Acciuga» sarebbe stato oggetto di una segnalazione relativa alla carta di credito anche nel luglio del 2017. Queste le conclusioni dei risk manager: «L'operatività precedentemente descritta viene segnalata come sospetta in quanto le operazioni di utilizzo [] si traducono prevalentemente in operazioni di spesa effettuate presso la categoria merceologica del gambling fisico -in prevalenza presso il casinò di Monaco -. Tale modalità di utilizzo della carta, non risulterebbe apparentemente coerente con le finalità proprie dello strumento di pagamento». Chissà se l'«estroso» Allegri riuscirà a escogitare uno schema per liberarsi dalla marcatura dei solerti bancari che hanno messo sotto osservazione i suoi conti e che forse tifano Toro.

La Verità: “Faro dell’antiriciclaggio su Allegri”. Il tecnico: “Estraneo a qualsiasi attività illecita”. da Twnews - NewsMondo.it il 7/6/2021. L’indiscrezione de La Verità su Allegri è stata subito smentita dallo stesso tecnico che si prepara a ritornare in Serie A. L’indiscrezione de La Verità su Massimiliano Allegri è stata immediatamente smentita dal tecnico toscano. Il quotidiano ha parlato di un faro da parte dell’antiriciclaggio sull’allenatore della Juventus dopo alcune operazioni sospette legate al mondo del gioco d’azzardo e delle scommesse. In particolare nel mirino della Banca d’Italia sarebbero finire alcuni versamenti fatti ad una società maltese sotto inchiesta per truffa aggravata, evasione e rapporti con la ‘Ndrangheta.

La replica di Allegri. Articolo che ha costretto il tecnico toscano con un breve comunicato a smentire qualsiasi indagine nei suoi confronti. “Con riferimento alle notizie pubblicate sul mio conto – si legge nella nota riportata da La Repubblica – mi dichiaro con assoluta fermezza del tutto estraneo a qualsiasi attività o irregolare e, tanto meno, a qualsiasi operazione violativa della norma antiriciclaggio”. Le norme della Figc, come riferito da calciomercato.com, sono molto chiare in questo senso. I tesserati non possono scommettere direttamente o indirettamente su incontri organizzati sia in ambito nazionale che internazionali da enti ufficiali come la stessa Federcalcio, Fifa e Uefa. Sugli altri sport, invece, si può regolarmente scommettere. “L’eventuale violazione dell’articolo 6 – si legge tra le regole della Figc – comporta per i soggetti dell’ordinamento federale, per i dirigenti, per i soci e per i tesserati delle società la sanzione della inibizione o della squalifica non inferiore ai 3 anni e dell’ammenda non inferiore a 25mila euro”. Da precisare che al momento non c’è nessuna indagine aperta dalla Federcalcio e l’indiscrezione de La Verità non sembra aver trovato conferme. Allegri si è subito impegnato a smentire qualsiasi coinvolgimento e da parte di Bankitalia nessun commento e non sono escluse novità nelle prossime settimane su questa vicenda.

Da juventusnews24.com il 21 marzo 2021.Questa sera, ai microfoni di Sky Calcio Club, parla Massimiliano Allegri. L’ex allenatore della Juve è ospite di Fabio Caressa. Juventusnews24 segue le sue parole LIVE.

FUTURO – «Non so ancora niente. È un piacere essere qui con voi per fare una chiacchierata. È da un po’ che non lo faccio. Quando allenavo vedevo poche partite. Da un annetto non le guardavo, ora le sto rivedendo per capire se mi immedesimavo nell’allenatore. Sono andato a vedere un po’ di partite, l’ultima è Tottenham-Bayern».

CALCIO ITALIANO – «Il calcio italiano in questo momento ha bisogno di rimboccarsi le maniche. Ho sentito tanti commenti e credo che la situazione ci debba fare un po’ riflettere. Io facevo da contraltare ai giochisti, ci vuole equilibrio. Credo che non si debba buttare via tutto dagli allenatori vecchio stile. L’equilibrio serve. Bisognerebbe mettere al centro il giocatore e lavorarci. La tattica serve ma poi ci lamentiamo quando in Europa la passano a 100 all’ora e noi no. Dobbiamo farci delle domande, lavorare nei settori giovanili con la tecnica individuale».

GIOCATORI – «Sono stato innamorato perso dei miei giocatori. Mi sono emozionato quando Pepe ha fatto una partita straordinaria contro la Juve, come Chiellini contro il Cagliari che ha fatto due interventi di lettura… Io mi emoziono».

PORTO E BORUSSIA – «Non so se hanno giocatori più bravi di Juve e Inter. Penso che bisogni ritornare alle cose semplici, all’ABC. Saper passare la palla… Anche la costruzione da dietro, bisogna capire quando la si può fare. I giocatori di Porto e Borussia non sono più bravi. La Juventus è stata molto sfortunata e mi è dispiaciuto molto. Avrebbe anche meritato di passare nelle due partite. Quando vedi giocatori bravi tecnicamente è un piacere vederli, bisogna curare quell’aspetto».

JUVE – «Ci siamo divisi in modo naturale. Oggi mi è dispiaciuto che la Juve abbia perso ma bisogna dire che il Benevento ha fatto cose importanti».

Dagospia il 7 giugno 2021. Riceviamo e pubblichiamo: In relazione all'articolo dal titolo “Nuova tegola sulla Juventus, l’Antiriciclaggio ha messo nel mirino Massimiliano Allegri”, La prego di voler riportare, sulla suddetta testata giornalistica la seguente precisazione: “Oia Services Ltd è titolare di regolare concessione per il gioco a distanza rilasciata dall'Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli sin dal marzo 2016. Il Sig. Massimiliano Allegri si è registrato sul sito della suddetta società nel marzo 2020 aprendo un conto di gioco, peraltro inibito alle scommesse sportive, nel rispetto della normativa vigente. Il rapporto tra Oia Services Ltd ed il Sig. Allegri ha avuto inizio, quindi, successivamente al procedimento intrapreso dalla Procura di Reggio Calabria, rispetto al quale Oia Services Ltd risulta estranea. Come correttamente evidenziato anche nell'articolo, la società opera in modo assolutamente aderente alla normativa del settore e qualunque congettura e/o suggestione giornalistica che intenda porre in relazione segnalazioni di operazioni sospette con l'operatività della società è totalmente priva di fondamento, nonché potenzialmente capace di ledere il prestigio della suddetta società”. La ringrazio per la cortese disponibilità e Le porgo cordiali saluti. OIA Services LTD

Giacomo Amadori per "la Verità" il 7 giugno 2021. Non c' è solo Massimiliano Allegri tra i big juventini segnalati all' Unità di informazione finanziaria (l'ufficio antiriciclaggio) della Banca d' Italia. Il 12 marzo 2021 è stato oggetto di un alert anche Cristiano Ronaldo per «prelevamento con moduli di sportello». I risk manager di Intesa San Paolo hanno informato l'Uif che dal conto del fuoriclasse bianconero erano stati eseguiti «tre prelievi di contante tra l'11 dicembre 2020 e il 26 febbraio 2021 per complessivi 220.000 euro». Quindi hanno specificato che «nel corso dell'ultimo prelevamento, in sede di adeguata verifica, il cliente ha dichiarato trattarsi di provvista necessaria al pagamento di spese correnti quotidiane». La nota continua: «Pur considerando l'origine certa della provvista e l'elevato profilo economico del cliente, non potendo avere contezza della reale destinazione dei fondi prelevati per contante, si procede con l'inoltro della presente segnalazione di operazione sospetta». Nella Sos è annotata anche la movimentazione del conto di Ronaldo tra l'1gennaio 2020 e il 10 marzo 2021, che presenta questi «volumi complessivi»: 33.987.496,84 euro nella colonna avere («Entrate rappresentate per la quasi totalità dagli emolumenti percepiti dalla Juventus oltre che da due giroconti da altro istituto di credito») e 31.490.430,56 nella colonna dare. Va rilevato che 220.000 euro rappresentano al massimo il 5% di quanto incassato in due mesi da Ronaldo in Italia e lo 0,7% delle uscite complessive dal suo conto corrente torinese nel periodo sotto esame. Ciò non toglie che si tratti di un'ingente somma difficile da tracciare. Nel 2019 l'attaccante della Juventus ha chiuso con un patteggiamento il suo contenzioso con il fisco spagnolo riguardante un'evasione fiscale accertata da 14,7 milioni di euro avvenuta tra il 2012 e il 2014, periodo in cui il portoghese era un giocatore del Real Madrid. Ronaldo ha accettato di pagare una multa da 18,8 milioni di euro, mentre la pena detentiva di 23 mesi è stata sospesa essendo il cinque volte Pallone d' oro incensurato. Per l'accusa Ronaldo aveva nascosto al fisco parte dei ricavi generati dai suoi diritti di immagine grazie alla creazione di due società schermo, una alle Isole Vergini britanniche e l'altra in Irlanda. Ma se l'Erario spagnolo lo ha costretto alla resa come quasi nessun difensore del Pianeta, adesso Ronaldo sa che pure i funzionari delle banche italiane stanno attenti alle sue entrate e alle sue uscite. Ma, come abbiamo scritto ieri, il fresco capocannoniere della nostra serie A è in buona compagnia. Anche il suo allenatore, Allegri, è finito nel mirino dell'Antiriciclaggio. Domenica abbiamo raccontato dei report della Banca Intermobiliare su alcuni bonifici spediti ad Allegri dall' estero (Monte Carlo, Malta e Nova Gorica, in Slovenia) e collegati a società impegnate nel settore del gioco d' azzardo e delle scommesse. Ma altri due istituti di credito, Unipol e Monte dei Paschi di Siena, nei mesi scorsi hanno messo sotto osservazione alcune operazioni effettuate intorno alla Malpaso srl di cui Allegri detiene il 90% delle quote. La Malpaso è una «società operativa nel settore della promozione e gestione in Italia e all' estero dell'immagine professionale di personaggi del mondo dello sport professionistico e non, del cinema, della televisione e dello spettacolo in genere». Nell' ultimo bilancio depositato, quello del 2019, il fatturato è passato da 222.000 euro a 474.000 e ha chiuso l'esercizio con un attivo di 36.800 euro. Dal dicembre del 2019 il 10% delle quote appartiene a Valentina Allegri, venticinquenne figlia del mister. Inizialmente socio della Malpaso al 50% e poi al 10 era stato Paolo Sodi, nato nel 1961 a Grosseto. Sodi è amministratore unico della ditta e su di lui hanno acceso i riflettori i sopra citati istituti bancari in una segnalazione di operazione sospetta intestata ad Allegri e datata settembre 2019. Sodi, ex calciatore, consigliere dell'Associazione italiana allenatori di calcio ed ex dipendente del Monte dei Paschi di Siena, è definito «amico personale» di Allegri. In un'altra segnalazione viene specificato che Sodi è «da anni uno stretto collaboratore» del trainer della Vecchia Signora ed «è citato come membro del suo staff sul sito Massimilianoallegri.com (pagina in costruzione, ndr)». Ad attirare l'attenzione dei risk manager, tra i vari movimenti, sono stati sette bonifici provenienti da Mps e indirizzati sul conto personale Unipol di Sodi per un importo totale di 303.000 euro. A ordinarli «Allegri Massimiliano/Sodi Paolo» tutti con causali quali «da utilizzare per versamento soci» o «giroconto»; a essi ha fatto seguito un bonifico da 150.000 euro di Sodi a beneficio della Malpaso con causale «versamento socio Sodi Paolo». Che cosa non tornava a giudizio della funzione antiriciclaggio dell'Unipol? Leggiamo: «Alla luce di quanto esposto, sebbene la maggior parte dei fondi accreditati sul conto personale del signor Sodi permangano in giacenza e solo una piccola parte sia stata utilizzata dallo stesso [] non si comprende come mai a fronte della diminuzione delle quote di proprietà del signor Sodi nella Malpaso srl (dal 50 al 10% nel luglio 2018) lo stesso vi abbia trasferito ulteriori 150.000 euro []. Inoltre il massiccio "trasferimento" di somme a partire da conti cointestati ai signori Paolo Sodi e Massimiliano Allegri o comunque riconducibili a società partecipate dallo stesso [] pare leggibile come una distrazione di fondi per scopi non chiaramente identificabili, operatività anomala tale da giustificare, prudenzialmente una segnalazione di operazione sospetta». Non sappiamo se la Sos abbia innescato iniziative giudiziarie, mentre è ufficiale che circa due mesi dopo, nel dicembre del 2019, Sodi abbia ceduto il residuo 10% delle proprie quote della Malpaso a Valentina Allegri, rimanendo però al timone della stessa srl come amministratore. Ieri Allegri ha diffuso una dichiarazione che potrebbe comodamente attagliarsi anche alla vicenda Malpaso: «Con riferimento alle notizie pubblicate sul mio conto, mi dichiaro con assoluta fermezza del tutto estraneo a qualsiasi attività illecita o irregolare e, tanto più, a qualsiasi operazione violativa della normativa sull' antiriciclaggio». Nel comunicato Allegri non specifica se abbia mai scommesso sul calcio professionistico, italiano o internazionale, attività espressamente vietata dal regolamento della Figc. C' è chi ricorda un vecchio precedente di Allegri, il quale, nel 2000, venne coinvolto, ma poi assolto in un'indagine per presunte scommesse illecite, ai tempi in cui giocava nella Pistoiese. Insieme con altri nove calciatori (rimasero fuori dall' inchiesta le società) venne deferito alla giustizia sportiva a causa di una mole anomala di puntate su una partita di Coppa Italia tra Pistoiese e Atalanta. Secondo l'accusa i giocatori avevano combinato il risultato durante una cena per consentire scommesse sicure ad amici e conoscenti. In primo grado, nel marzo del 2001, Allegri (difeso dall' avvocato Nino D' Avirro) e altri quattro atleti vennero squalificati per un anno e prosciolti due mesi dopo dalla Corte d'appello federale. Nel 2012 però un ex tesserato dell'Atalanta, Cristiano Doni, che era stato deferito e assolto già in primo grado, tornò sull' argomento e disse in un'intervista rilasciata alla Gazzetta dello Sport: «Se avevamo concordato quel risultato? Sì, è così. Non posso continuare a dire diversamente. E se qualcuno vorrà altre spiegazioni, sono pronto a darle». Allegri, a chi gli chiese un commento, ricordò di essere stato assolto e avvertì Doni che si sarebbe dovuto assumere la responsabilità di quanto detto. Ieri il mister bianconero, con i suoi più stretti collaboratori ha ribadito di non aver scommesso sul calcio, né allora, né in tempi più recenti.

Giovanni Galeone. BRUNO MAJORANO per il Mattino il 24 gennaio 2021.

«Buonasera Galeone, la disturbo?».

«Ora no, ma senza andare troppo per le lunghe, perché alle 18 devo vedere Udinese-Inter».

Domani Giovanni Galeone compie 80 anni, ma la testa è ancora quella di un ragazzino. Pensa al calcio, guarda il calcio e vive di calcio. Festeggerà a Udine, dopo 35 anni senza tornare nella Pescara dove lo ricordano per quella squadra spettacolare che negli anni 80 incantava e divertiva. Tra gol fatti e gol subiti, ogni domenica era una festa: di sicuro non si correva il rischio di annoiarsi.

E oggi questo calcio che tanto segue cosa le dice?

«Questa moda di dover partire a tutti i costi da dietro, alle volte mi fa ridere. Stanno ore a passarsi la palla nell'area piccola e mi chiedo: cosa ci fanno? Non esiste. Non riesco a concepire il fatto che il portiere tocchi più palloni del centrocampista. Mi viene il latte alle ginocchia».

Quando allenava lei, però, non ci dica che non esistevano le mode...

«Certo. C'era quella del Milan di Sacchi. Tutti provavano a copiarlo con il 4-4-2 e facendo pressing».

E poi?

«Dopo si è passati alla moda del possesso palla di Guardiola al Barcellona. Ma già al Bayern non è riuscito più a replicarlo. Perché quel Barcellona è irripetibile».

E allora ok le mode che non le vanno giù, ma c'è una squadra di serie A che le piace?

«L'Atalanta del mio allievo Gasperini».

Ma la sua filosofia di gioco non era un'altra?

«Sì, infatti, questa è più aggressiva rispetto a quello che volevo io. Gian Piero ha snaturato il mio 4-3-3 soprattutto con i tre in difesa, cosa che io non ho mai fatto. Come me, però, predica un bel gioco facendo affidamento sulla tecnica. E poi non ha paura di buttare dentro i giovani».

A proposito di giovani: nel suo Pescara lei ha fatto crescere anche Allegri, il suo figlioccio.

«Max privilegia la tecnica alla grinta e alla tattica. E poi è molto bravo a leggere le partite. Vede dove può colpire l'avversario e lo colpisce».

Chi invece tra i suoi discepoli ha fallito con il Torino è Giampaolo: se lo aspettava?

«Più che altro mi aspettavo che avrebbe avuto difficoltà. E infatti glielo dissi subiti».

Davvero?

«Ha preso la squadra che nel girone di ritorno dell'anno scorso giocava il peggior calcio d'Europa. Erano inguardabili, rimetterli in piedi non era semplice. E poi Marco ha una testa peggio di Sarri».

In che senso?

«Sono testoni. Si mettono in testa un certo tipo di gioco e non cambiano».

Non è stato un suo allievo, ma Gattuso le piace?

«Ho visto giocare il Napoli a Cagliari e mi è piaciuto tantissimo, anche se Gattuso è uno di quelli che insiste troppo con le giocate da dietro che non mi piacciono. Però lo stimo. Ha fatto la gavetta. Non come Pirlo che invece si è ritrovato sulla panchina della Juve dalla sera alla mattina».

Ma restiamo sul Napoli, anzi sul suo Napoli, quello della stagione 1997-98.

«È stata l'unica scelta che non rifarei in tutta la mia carriera. Lo definisco un errore di presunzione. Andare in una squadra dalla quale Mazzone era scappato era una follia».

E lei a Napoli è nato: che ricordi ha di quei tempi?

«Mio padre era ingegnere all'Italsider e io sono nato a Bagnoli: un paradiso. Ho vissuto lì per 7 anni. Era il periodo della seconda guerra mondiale e sopra casa nostra c'era il comando delle forze americane dei Campi Flegrei. Il mio passatempo preferito era il cinema: andavo a vedere quasi un film al giorno».

E Napoli per lei vuol dire anche Maradona...

«Lo incontrai a cena alla Sacrestia l'anno dopo il primo scudetto. Mi disse: Deve essere il mio prossimo allenatore.»

E poi come andò?

«Avevo parlato con Moggi e sembrava tutto fatto. Avrebbero dovuto mandar via Bianchi, e invece mandarono via i giocatori. Ovviamente ci sono rimasto molto male, ma il rapporto personale era con Diego. Quando lo affrontavo con le mie squadre non lo facevo marcare. Mi dicevo: ho la possibilità di vederlo dal vivo, non posso perdermi lo spettacolo. Quando ho saputo della sua morte è stato un dolore immenso».

Oggi si parla tanto di Messi e Ronaldo: lei chi avrebbe voluto allenare?

«Senza dubbio Messi. Ronaldo è un grandissimo giocatore, molto costruito. Messi, invece, è un vero fuoriclasse: è il calcio».

Chiudiamo il cerchio tornando all'inizio: la filosofia del calcio di oggi. Quella della Nazionale le piace?

«Molto e il merito è di Mancini. È cambiato completamente da quando ha iniziato. È diventato internazionale. All'inizio ammetto che non gli volevo molto bene, perché era arrivato in panchina con un sotterfugio. Da calciatore lo rispettavo perché a mio avviso aveva ricevuto meno di quel che avrebbe meritato. Ora da allenatore mi piace perché riesce a tirare fuori il meglio da giocatori che non sono fenomeni».

Da corrieredellosport.it il 25 gennaio 2021. (…)

Si scrive Galeone e si pensa ad Allegri.

«In questo periodo senza certezze, Max non avrebbe problemi. Io capisco gli allenatori: non riesci ad allenarti e comunque, dopo aver preparato una partita, al sabato ti arriva il medico e ti dice che ci sono due positivi al Covid. Allegri se ne sbatterebbe degli assenti, lui inventa, trova soluzioni e vince».

E puntualmente viene avvicinato a qualche panchina: alla Roma, per esempio.

«Secondo me già bella squadra. Che con qualche aggiustamento potrebbe diventare completa. Io a Max l’ho sentito l’altro giorno, gli ho detto non voglio sapere se e dove vai, ma ora basta riposare. Lui va bene per qualsiasi situazione, ma se dovessi consigliarlo gli direi di aspettare: riprenderà la prossima estate e molte cose potrebbero cambiare».

Alessandra Bocci per gazzetta.it il 25 gennaio 2021. Rien de rien. Giovanni Galeone oggi festeggia gli ottant'anni nella sua casa di Udine con la moglie Checca. "Gonfierà i palloncini bianchi con l’elio, lei si diverte". E Gale non rimpiange nulla. "Sono come sono. Cito Almodovar, un brano del film "Tutto su mia madre". Il risultato di un monologo è "Costa molto essere autentici, ma uno è autentico quanto più assomiglia al sogno o all’idea che aveva di se stesso". E quindi io mi sento abbastanza contento. Essere autentici ha un valore".

Essendo diverso avrebbe potuto fare un’altra carriera?

"Non saprei e non mi interessa. Mi piaccio come sono. Perché sa, io ho una qualità, non invidio nessuno. Magari posso provare invidia per le persone colte, che sanno tanto più di me. Per il resto, va bene così. Ho fatto una bella vita, anche grazie alla famiglia. Donne di servizio, bambinaie. Mio padre era ingegnere progettista di altiforni e in quel periodo non è che di ingegneri ce ne fossero molti. A 16 anni sono uscito di casa per giocare a pallone. A Trieste c’era una bella atmosfera, gli americani giocavano a baseball e a basket".

È nato a Napoli per caso.

"Non scherziamo. Io ho vissuto la guerra lì. Parlo napoletano e non a caso guardo Gomorra senza i sottotitoli".

Però Pescara è la terra del suo cuore.

"Mi vogliono bene, c’è sempre un affetto enorme per me. Mi pesa non poter essere a Pescara per il mio compleanno. Lì trovo un affetto indescrivibile".

I ricordi più belli a Pescara?

"Un insieme di cose. Una città viva, dove tutte le squadre di tutti gli sport in quel periodo funzionavano. Una città fantasiosa. Non posso ricordare qualcosa senza fare torto ad altri".

Allegri, il suo figlioccio, com’era?

"La verità è che ce lo hanno tirato dietro. La signora Achilli del Pavia ce lo ha rifilato insieme a Massara, che era l’obiettivo di mercato. Dopo il primo riscaldamento ho detto, accidenti, abbiamo trovato un giocatore".

Che non allena ancora all’estero ed è stato accusato di eccessivo pragmatismo.

"Scusi?".

Quei discorsi sul bel gioco...

"La mia idea è che bisogna adattarsi all’identità del luogo. Per dire, a Ferrara mi adorano e non ho vinto un tubo. Credo che si debba sempre considerare l’identità dei club dove si lavora. La Juve non è come il Milan".

E’ vero che non è mai stato allo Juve Stadium, nonostante i successi del suo pupillo?

"Non so nemmeno com’è fatto lo Juve Stadium. Sono stato al vecchio stadio dove ho giocato una bella partita allenatori contro nazionale cantanti".

A proposito di allenatori, il migliore di sempre, il maestro?

"Liedholm. Poi magari Cruijff".

Non ci sono più. Nomination per un vivente?

"Nel mondo Guardiola, il suo Barça, ma anche le variazioni al City mi sono piaciute".

In Italia?

"Mi avvalgo della facoltà di non rispondere. Credo sia il quinto emendamento".

Corretto, ma è una norma americana e siamo in Italia. Che futuro vede per Allegri? Da allenatore l’ha tradita?

"Max sa sempre quello che fa. È un mago nelle letture della gara. E ha capito che non puoi portare ovunque lo stesso stile. Il primo Milan era fantastico, poi ci si adatta al luogo e ai personaggi".

La cultura aiuta nel calcio?

"Purtroppo no, non serve molto e a volte infastidisce".

Pronostici al campionato.

"Non mi riesce bene. Vedo tante squadre senza identità, ma trovarne una in epoca Covid, con i tamponi che cambiano tutto all’improvviso, non è semplice".

La Juve?

"Non ha identità. Fa fatica a trovarla come tante altre squadre, ma è un periodo complicato".

L’Inter?

"Prevedibile. Non trova mai contromisure, ma resta la favorita: sul piano fisico debordante".

L’Atalanta?

"Conosco bene Gasperini, è bravissimo. Gioca sempre uno contro uno, l’Atalanta fisicamente è una squadra aggressiva, ma in fase di possesso palla ha tanta qualità. Per lo scudetto ci sono altre, Napoli e Roma a tratti hanno dimostrato di avere un loro timbro e la Lazio ha un gruppo consolidato e un d.s. capace".

Del Milan che cosa dice?

"Mi rivedo in Pioli: identità nella semplicità. Io con i miei ragazzi a Pescara facevo così, un canovaccio e licenza di muoversi. Il Milan è una squadra con una fisionomia definita".

Compie 80 anni e può dire quello che vuole, a parte il fatto che lo faceva anche prima. Il più antipatico del calcio?

"Ma che antipatici posso trovare? I ragazzini che dicono 'il mio calcio'. Rachmaninov non è lo stesso se te lo suona Pollini o uno del piano bar".

Il più simpatico?

"Galliani, per distacco, e il gruppo Milan che ho avuto modo di frequentare quando c’era Allegri allenatore. I duetti fra Ibrahimovic e Braida erano memorabili".

Rimpiange qualcosa?

"Ma certo che no, non mi è mai mancato niente. Al massimo posso dire che vorrei andare a 'Ballando con le Stelle'. Peggio di Allegri non faccio di sicuro".

Egidio Calloni. Calloni ha 69 anni: lo Sciagurato Egidio tra gol mangiati, letteratura, gelati, il coma. Oggi allena all’oratorio. Andrea Sereni su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2021. L’attaccante sbeffeggiato da Brera e Beppe Viola di sé diceva: «Sono un mediocre approdato immeritatamente ad alti livelli». Ecco dov’è ora la croce dei tifosi del Milan di 40 anni fa.

Spettinato e burbero, come i suoi piedi

Spettinato, schivo e burbero, come perennemente sventurato. Doveva essere attaccante bello e infallibile, arrivato al Milan 22enne e brillante, ma Egidio Calloni è entrato nell’immaginario collettivo per alcuni incredibili gol sbagliati. Quest’uomo schivo e orgoglioso oggi primo dicembre compie 69 anni. Ha sempre rifiutato le luci dei riflettori, poteva sfruttare una popolarità non voluta che lo ha travolto. Non l’ha fatto, lui conosciuto nel mondo pallonaro come «Lo Sciagurato Egidio», soprannome manzoniano coniato dalla feroce e geniale penna di Gianni Brera. Che dopo un Milan-Inter del ’75 gli dà 4,5 in pagella: «Al 49’ lo trova Maldera in diagonale e lui, scattando, manca il controllo da broccaccione legnoso. Calloni è comunque troncone di ottimo legno da sbozzare e scolpire». Un personaggio, Egidio da Busto Arsizio, che si porta dietro un’epica di un tempo diverso, in cui Beppe Viola, voce della Rai, commentava così le sue peripezie: «A due metri dalla porta, completamente solo, Calloni sventa la minaccia». Ma che fine ha fatto l’attaccante che, oramai quaranta anni fa, faceva disperare il San Siro milanista?

Sciagurato, occasioni sventate: emotività e pochi trofei

Egidio si è sempre definito «un mediocre approdato immeritatamente ad alti livelli». Ed invece tanto mediocre non era. Segnava in modo spettacolare, in rovesciata (così il primo gol al Milan contro la Roma), in spaccata, di rabbia e prepotenza. Arriva al Milan nel 1974 da capocannoniere della serie B con il Varese. San Siro diventa casa sua per quattro anni: segna 31 reti (13 nella prima annata, la migliore) in 101 partite, vince una Coppa Italia. Ma quello è un Milan minore, che fa fatica. Egidio nelle prime due stagioni in rossonero gioca bene. Poi, nel 1977/78, crolla. Sbaglia qualche gol di troppo (sempre a porta vuota o solo davanti al portiere), alcuni in modo clamoroso, i tifosi lo prendono di mira, e lui si lascia travolgere dall’emotività. Per Brera diventa «Lo Sciagurato», Viola all’ennesimo errore commenta «...occasione per il Milan che Calloni sventa». «Avrei dovuto reagire — dirà Egidio dopo il ritiro — invece mi lasciai andare e commisi un grave errore». Dopo un anno viene ceduto al Verona. «È vero, ero un giocatore normale e mi capitava di “ciabattare” sotto porta. Ma anche i grossi bomber di oggi sbagliano. Il fuoriclasse commette meno errori, però anche a lui talvolta gira storta. Purtroppo la verità è che al Milan in quattro anni vincemmo solo una Coppa Italia».

Il programma tv a lui ispirato

Non si è mai preso troppo sul serio, Egidio. «Ricordo di aver sbagliato un po’ di gol, ma pazienza, non lo facevo mica apposta — ha detto in un’intervista di qualche anno fa alla Gazzetta dello Sport —. Beppe Viola la pensava come me: il calcio è fatto per divertire e divertirsi. Da uno come lui si poteva accettare di tutto. Lo stesso vale per un altro grande, Brera, e per il suo soprannome». Quel soprannome è divenuto anche il titolo di un fortunato programma in tv, ideato e condotto dal giornalista Giorgio Porrà, «Lo Sciagurato Egidio», appunto, che mescolava il calcio con letteratura, cinema, musica, società. Calloni all’inizio non la prese bene poi, spinto dall’amico Paolo Rossi, si convinse a partecipare a una puntata celebrativa.

La scaramanzia e la tripletta al Milan

Un personaggio, Calloni, che sembra uscito da un romanzo. Con alcuni tratti a dir poco particolari. Ad esempio la scaramanzia, estrema. Nell’80/81 è al Palermo, in serie B. «Egidio è sempre stato molto scaramantico — racconta il portiere dell’epoca dei siciliani, Lorenzo Frison —. Aveva un beauty al cui interno teneva un corno, il numero 13, un ferro di cavallo e una zampa di coniglio». Il 29 marzo di quell’anno allo stadio La Favorita arriva il suo Milan, retrocesso d’ufficio per il calcioscommesse. Egidio diventa «Lo Scatenato»: segna tre gol, una punizione, un rigore e uno in contropiede col suo mancino che frusta il pallone. «Quella settimana qualcuno gli regalò un amuleto indiano e il giorno della partita, nello spogliatoio, vidi che dispose tutto l’abbigliamento che avrebbe indossato in gara in fila indiana, cominciando a gridare: “Badu Badu Badu”. Mi misi a ridere come un matto e lui si arrabbiò moltissimo — ricorda ancora Frison —. Usava entrare in campo con il piede sinistro. Quel giorno proprio su quel piede atterrò un pacco di sale lanciato dalla curva. Per via di questa cosa non voleva più giocare e imprecando verso gli spalti rientrò negli spogliatoi. Durante il riscaldamento tutti a cercarlo finché una delegazione di compagni andò negli spogliatoi riuscendo a convincerlo a giocare. Poi sapete tutti com’è andata: segnò una tripletta con una prestazione super, al punto che da quel momento in poi ogni domenica pagava un tifoso affinché gli lanciasse un pacco di sale sul piede sinistro prima di entrare in campo».

Venditore di gelati

Sempre schivo, dicevamo. Dopo il calcio non prova neanche a diventare allenatore o dirigente. Si mette a lavorare, come una persona qualunque. «Ho deciso di rimboccarmi le maniche — raccontava in un’intervista del 2015 a Il Giornale —. Ho aperto un bar e l’ho tenuto per qualche anno». Decide di muoversi: «Ho chiuso l’attività e sono diventato rappresentante per l’Algida e la Motta». Vende gelati a Verbania, il suo buen retiro sul Lago Maggiore, e dintorni. Chilometri macinati per piazzare cornetti e cremini nei bar di Lombardia e Piemonte. «All’inizio giravo con il furgone, così ho imparato il mestiere». Diventa imprenditore: «Gestivo i commerciali della zona che “battevano” i bar con i gelati». Poi la sua vita cambia di nuovo.

L’ischemia cerebrale e l’incidente

Siamo nel 2007, il 12 luglio. Egidio sta guidando quando è vittima di un’ischemia cerebrale. Si schianta contro un platano. La corsa in ambulanza verso l’ospedale San Biagio di Domodossola, il coma, in cui resta per nove giorni. Si salva, anche per questo decide di tornare alla sua vecchia passione, il pallone.

Allenatore all’oratorio

È di nuovo in campo, Egidio. «Alleno i bambini dei Piccoli Amici all’oratorio San Vittore di Verbania. Hanno tra i 5 e i 7 anni. Si divertono come matti e io mi diverto con loro». Niente agonismo ed esasperazioni: «Facciamo giochi con la palla. Insegniamo i fondamentali. Stop, controllo e tiro. A questa età l’importante è vivere il gioco e divertirsi». Lontano dai riflettori: «Avrei potuto allenare qualche squadra giovanile di un club di serie A o serie B, ma non mi interessa. Mi sono messo da parte e vivo la mia vita».

Sebino Nela. Luca Valdiserri per il Corriere della Sera il 27 gennaio 2021. «Questo non è un libro su Sebino Nela il calciatore, è un libro su Sebastiano Nela. Cioè io. Chi cerca aneddoti sul calcio, oppure pettegolezzi su quello che succedeva nello spogliatoio della Roma fa meglio a cercare un' altra biografia. In libreria ce ne sono tante».

A gamba tesa. Anzi, con il vento in faccia, come si intitola il libro scritto insieme a Giancarlo Dotto. Perché un orso, come si descrive lei stesso, a quasi 60 anni si mette a nudo?

«Ci ho pensato per anni. Ho sempre tenuto dentro tutto. È il mio carattere mezzo sardo e mezzo ligure. Giancarlo (Dotto; ndr) me lo chiedeva da tempo: da qui, diceva, nasce di sicuro qualcosa di buono. Alla fine ho accettato. Ma lo dovrebbero fare tutti, perché tutti hanno qualcosa da raccontare. Ogni vita è importante, nessuna insignificante. Viviamo in un mondo che insegue i suoi idoli, un mondo di follower. Ma non conosciamo l' uomo che c' è dietro l' idolo. Così io ho raccontato Sebastiano. Tutto compreso, non solo quello che mi faceva comodo raccontare».

Il calcio è omertoso, i panni sporchi si lavano in casa. Se un calciatore esce dagli schemi sputa nel piatto dove mangia. Se dice le solite banalità è un decerebrato a cui Dio ha messo nei piedi quello che non ha nella testa...

«Quando giocavo i rapporti erano diversi. Con i giornalisti, per esempio: entravano negli spogliatoi, si viaggiava insieme sui charter della squadra. La quotidianità impone rispetto, da dare e da avere. Si capiva presto di chi ti potevi fidare e di chi no. Certo, gli addetti ai lavori erano pochi, non come adesso. Quando sento per radio fare certe analisi...».

Che dialogo c' è, oggi, tra Dzeko e Fonseca?

«Perché è successo non lo so, quindi non giudico. Però l' unico bene che conta è quello della Roma. È una situazione da recuperare. Non so chi farà il primo passo, ma lo devono fare. A giugno si prenderanno le decisioni, ora c' è da raggiungere il quarto posto. Essere professionisti vuole dire gestire le situazioni. C' è gente che non arriva a fine mese, non è ammissibile sprecare soldi e talento. Ci sono stati compagni di squadra con cui non ho parlato per un anno, ma in campo diventavano fratelli e guai a chi li toccava. La Lazio di Chinaglia ha vinto uno scudetto e si odiavano».

Per avere dialogo bisogna cercare dialogo.

«Questo è un punto dolente. Quando vedo i giocatori di oggi con quelle cuffie enormi in testa, impazzisco. Così ci concentriamo, dicono. Così vi perdete il mondo, dico io. L' ho scritto nel libro: noi giocatori sul pullman cantavamo gli inni della Roma a squarciagola. C'era il proprietario di un ristorante a piazzale degli Eroi, laziale sfegatato, che ci aspettava e ci urlava: "Bastardi!". E noi gli rispondevamo: "Pezzo di merda". Cose meravigliose. È questo che ti carica. E voi vi isolate?».

Zaniolo si isola?

«Zaniolo ha un talento e un fisico incredibili. Poi, come tutti i ragazzi della sua età fa le sue cavolate. Ma chi non le fa? Un ragazzo di 20 anni non deve essere un esempio per nessuno, deve sbagliare e imparare dai suoi errori. Se poi c' è un ragazzo di 18-20 anni già completamente maturo, buon per lui. Ma è l' eccezione, non la regola. Non ho consigli da dare a Zaniolo. Forse uno sì, ma vale per tutti i ragazzi: studiate la storia della vostra squadra, imparate quali sono stati i grandi giocatori che hanno vestito quella maglia, ascoltate il cuore di quella città. Da romanista ho vinto meno di quello che volevo e potevo vincere, ma ero orgoglioso quando a Torino portavamo diecimila persone e gli juventini, che poi incontravo in nazionale, mi dicevano: che tifoseria che avete! Nel libro dico: portate Zaniolo dentro una macelleria di Testaccio, fatelo stare una sera con Daniele De Rossi».

Lei, un romanista che non odia il Liverpool.

«È come la mia Genova. Pioggia, vento, porto, una squadra amata alla follia dalla sua gente, "You' ll never walk alone". Non li ho odiati nemmeno la notte della finale di Coppa campioni. Erano una grande squadra, ci poteva stare anche la sconfitta. Molto peggio aver perso contro il Lecce in quel modo».

I grandi tormentoni romanisti: il gol di Turone e il rigore di Falcao.

«Paulo lo doveva tirare perché nel momento del bisogno sono i più bravi che ti devono tirare fuori dai guai. Lo pensavano in tanti, l' ho detto solo io. Giancarlo (Dotto; ndr) mi ha confessato che Falcao gli ha detto che se tornasse indietro tirerebbe il rigore. Ci siamo rivisti un paio di anni fa all' Olimpico. Alla fine gli voglio bene, ha fatto tanto per la Roma. Ma non è vero che ci ha cambiato la mentalità. Quella era una squadra di campioni ma prima di tutto di uomini veri. E con gli uomini veri non sbagli».

È per questo che ha detto che le piacerebbe Gattuso sulla panchina della Roma?

«Come calciatore Rino si è migliorato giorno per giorno, ha sgomitato per arrivare dove è arrivato. Nessuno gli ha regalato niente. Allora se la Roma non può avere un allenatore da 10-12 milioni all' anno e se la gente pensa che i calciatori si allenino poco o male, Gattuso per me è una scelta intelligente. Se lo dico, però, qualcuno pensa che voglio fare le scarpe a Fonseca. e non è vero. Ma qui torniamo al discorso del dialogo e del rispetto».

Ha detto che sarebbe bello essere allenato da Klopp e che da Lippi non ha imparato niente. Quale è la sua classifica degli allenatori?

«I migliori Liedholm e Eriksson. Ottavio Bianchi è stato giudicato da tanti in modo sbagliato. Klopp mi piace perché con lui il calcio sembra gioia e non la sofferenza spesso incomprensibile del milionario».

Nella Roma attuale non lavorano Totti, De Rossi, Nela,Rocca, Pruzzo... Roma è matrigna con i romanisti?

«È un discorso lungo, che ho affrontato spesso con vecchi compagni di squadra. I grandi ex possono essere una risorsa, guarda quello che sta facendo Maldini al Milan. Però niente è dovuto. Abbiamo l' obbligo di prepararci, studiare, presentarci con competenze e conoscenze. Per adesso alla Roma è così, in futuro magari cambierà».

Senza spoilerare troppo, nel libro racconta di aver sparato a una persona, il pusher che riforniva di droga la sua prima moglie.

«Non era uno stinco di santo. In quegli anni non ero il solo ad avere una pistola. L' aveva anche Agostino».

Nessuno può dirlo, ma se Agostino non l' avesse avuta...

«Mi chiede se sono favorevole alle armi? No, non lo sono, la mia l' ho chiusa in un cassetto. Se esci e incontri un altro che ha un' arma, alla fine sei costretto a usarla. Sono contrario alla liberalizzazione delle armi. Però se guardo all' economia mondiale vedo che i grandi profitti si fanno con le armi e la farmaceutica. E qualche domanda me la faccio».

Avrebbe votato Trump?

«Ho letto, mi sono informato. I numeri dicono che aveva abbassato la disoccupazione e ridotto le tasse. Ha lavorato molto sulla politica estera. Senza il Covid, probabilmente, sarebbe stato rieletto».

Ha subito quattro operazioni per un cancro al colon: si vaccinerà appena possibile o prima vorrebbe saperne di più?

«La seconda che ha detto. Non sono un negazionista, tutt' altro. Però mi scoraggia vedere la battaglia dei virologi in tv. Penso che il Governo abbia completamente sbagliato la comunicazione sulla pandemia. Ci hanno terrorizzato anziché spiegarci bene. L' allarmismo non ci ha fatto bene. A un certo punto la gente ha pensato: vaffanculo i numeri!».

Chiamiamolo effetto collaterale: la malattia l' ha allontanata da sua madre e sua sorella, con le quali non parla da anni. Ha perdonato Falcao ma non sua madre. Come è possibile?

«È stata una brutta storia che mi ha segnato per sempre. Non saper esprimere sempre i propri sentimenti non significa che tu non li abbia. Sembro diffidente, ma ho sempre avuto e voglio ancora avere fiducia nelle persone. Per questo il tradimento mi trova senza difesa. Così, quando chiudo è per sempre. Più hai amato una persona e più può farti soffrire. Sta a te venirne fuori. Il libro finisce così: "Ringrazio tutti quelli che mi hanno fatto del male, grazie a loro sono diventato un uomo migliore"».

Cosa possiamo dire a chi si è preoccupato e a chi si preoccupa della sua salute?

«Che sto bene e sono pronto».

Buon vento in faccia, Sebastiano Nela.

Cristiano Lucarelli. Maurizio Crosetti per “la Repubblica” l'1 febbraio 2021. Questo drago stampato sulla giacca della tuta, Cristiano Lucarelli un po' ce l' ha dentro, ce l' ha ancora. Gli ruggisce, rampante, nella mattina che scivola dalla cerchia dei colli attorno allo stadio Libero Liberati, campione mondiale di motociclismo. L' aria ha il colore dei ferri da stiro, ma il sole è di un pastello tenerissimo. Lucarelli è l' allenatore della Ternana prima in classifica in Serie C, unica squadra professionistica imbattuta in Europa. Una bellissima macchina. Ed è colui che disse tenetevi il miliardo (al Toro, per preferire invece il suo Livorno), colui che da ragazzo si levò la maglia azzurra e sotto c' era Che Guevara, è il centravanti comunista quando il comunismo esisteva ancora, il simbolo della rossa gradinata livornese e poi si sa che si vive di etichette, ed è difficile scollarsele dalla pelle. Oggi Cristiano ha un velo di barba brizzolata, qualche chilo in più sulla vita che è ancora fiera, dritta come la spada di quel cavaliere che forse uccise il drago o forse no. Siede in una stanzetta dello stadio e aspetta le nostre domande. Sorride come fanno i timidi. È un bel posto, Terni. Davanti alla stazione hanno messo l' enorme pressa industriale da 12 mila tonnellate che marchiò il lavoro di generazioni, e nei mesi del Covid la Ternana ha aiutato 176 famiglie con buoni spesa da 200 euro al mese. A Natale hanno portato giocattoli ai bambini. Il presidente, Stefano Bandecchi, non ha mai nascosto un passato missino ma è un imprenditore sociale nel Paese in cui, vivaddio, qualche marcatura può pure saltare nell' interesse delle persone. Il resto è un prato verde. Anche la maglia della Ternana è verde, con le righe rosse. Tutti i bimbi che nascono all' ospedale ne ricevono una piccolissima e poi un body, un bavaglino e un orsacchiotto con i colori sociali.

Lucarelli, lo sa che lei è nato nell' ultimo anno della Ternana in Serie A?

«No, non lo sapevo, si vede che era destino. Del resto, da giocatore riportai il mio Livorno in A dopo 53 anni, e per la prima volta in Europa».

E lo sa che tutti si ricordano di lei?

«Io lottavo per il pane, non per il filetto. Ho segnato 240 gol ovunque e a chiunque, sono stato capocannoniere ma tutto è stato sottovalutato rispetto ai miei ideali politici, che pure porterò nella tomba. Non è giusto. Quando mostrai il Che, avevo vent' anni. Ora ne ho 45 e sono quasi nonno».

E forse la sinistra non c' è neanche più.

«È una pseudo sinistra nell' Italia dei politici mestieranti e degli arrivisti, non vedo più il senso dello Stato, da otto anni non voto. È assurdo che molti tra gli ideali portanti della Costituzione non siedano neppure in Parlamento, è paradossale. Chi ci rappresenta?»

Lei è cresciuto nel quartiere Shangai di Livorno: che posto era?

«Il più difficile della città insieme a Corea. Nomi asiatici, perché le case popolari avevano appartamenti molto piccoli, quattro per ogni pianerottolo. Ma chi è uscito da lì, chi si è sollevato dal niente, non ha più avuto paura della vita».

Si viveva di calcio.

«Con mio fratello Alessandro e i miei genitori Maurizio e Franca aspettavamo la partita come una liberazione, la vivevamo tutti insieme allo stadio. Era bellissimo. Papà è stato camionista, poi camallo al porto. Dopo Shangai abbiamo abitato in via Garibaldi, vicino al mercato ortofrutticolo».

Anche il suo presidente è livornese, però con idee politiche diverse.

«Il primo giorno ci abbiamo scherzato, lui mi ha detto di essere liberale e di odiare le etichette, su questo siamo d' accordo. Mi ha scelto perché gli piaceva come facevo giocare il Catania. Mi ha detto che da calciatore ero l' idolo di suo fratello».

E come gioca la Ternana?

«Bene! La palla dev' essere nostra, è un dogma. E nei rari momenti in cui ce l' hanno gli altri, noi si aggredisce. Faticoso ma elettrizzante. Chi è contento mentre fa una cosa, la farà meglio. Poi, è chiaro che contano i ragazzi. Come dice il maestro Mazzarri, gli schemi sono importanti ma con i giocatori bravi vengono meglio. I tifosi più vecchi mi ripetono che non si divertivano così dai tempi di Viciani, anni Settanta. Per essere chiari: se al 90' stiamo pareggiando una partita che si era messa male, io voglio comunque vincerla nei minuti di recupero, com' è successo per esempio ad Avellino. E di uno zero a zero difensivo non voglio neppure sentir parlare per scherzo».

La Ternana ha comprato i diritti tv delle partite e le regala ai tifosi, in chiaro e in tutta Italia, canale 264 del digitale terrestre. Non lo fa nessuno.

«Così verranno in tanti allo stadio quando si potrà di nuovo, per divertirsi con noi. Gli ascolti della penultima diretta fanno pensare: 700 mila telespettatori, e a Terni ci sono appena 110 mila abitanti: stiamo creando curiosità. Qui, ogni partita è un mini campionato. Puntiamo alla B e siamo scaramantici, però pensiamo alla massima serie, possibilmente nello stadio nuovo. A parte che ormai tutti i livornesi guardano in tv la Ternana!»

Non crede che alla lunga ci abitueremo a questo vuoto?

«Già ci siamo quasi abituati, ed è triste. Anche se poi, a dirla tutta, a volte facciamo trasferte in stadi con centinaia di persone dentro, mancano solo le bandiere».

Cos' è la Serie C?

«Ho visto piazze dove si partiva alle cinque della domenica mattina per andare a giocare, con le nostre auto e senza neppure i soldi per la benzina. Invece, alla Ternana il 10 dicembre hanno pagato lo stipendio di novembre, e il 22 quello di dicembre: mai successo neanche in Serie A».

Lei che tipo di allenatore è?

«Sorrido, e quando non basta li martello. Ma ho ragazzi che dopo dieci anni ancora mi chiamano per un consiglio o per dirmi buon compleanno. Sanno che posso sbagliare ma non mentire. Allenare è molto più difficile che giocare e paghi solo tu, solo tu sei davvero precario».

Direbbe ancora "tenetevi il miliardo"?

« Sì, perché sono le scelte a renderci quello che siamo. Se poi lei mi domanda se lo consiglierei a mio figlio, forse le rispondo di no. Perché ogni no e ogni sì vanno calati nel momento: io scelsi di fare il trapezista senza rete, mi andò bene. E comunque, un livornese ricco si sente sempre un po' in colpa».

In effetti lei è stato pure editore al Corriere di Livorno, insomma un imprenditore.

«Beh, più che editore direi finanziatore a fondo perduto».

Lucarelli, non pensa di avere pagato per le sue idee?

«Eccome! Anche da allenatore. E quando giocavo, perdevo sempre i ballottaggi. Lucarelli o Bojinov alla Juve? Bojinov! Lucarelli o Toni alla Roma? Toni! Idem in Nazionale. Passavo per essere l' esaurito militante rivoluzionario che, naturalmente, non sono mai stato».

Luigi Liguori. Da ilnapolista.it il 16 dicembre 2021. La Repubblica intervista Luigi Liguori, attaccante classe 1998 inserito dal Napoli nell’operazione Osimhen insieme al terzo portiere azzurro, Karnezis, e ad altri due giovani. Nello scambio complessivo di 20 milioni, che si sommavano ai 70 sborsati per l’attaccante nigeriano, Liguori fu valutato 4 milioni. Liguori racconta la sua verità. 

All’epoca Liguori giocava in prestito alla Fermana, in Serie C.

«A giugno mi chiamò il Napoli e mi disse: vieni a Castel Volturno, dobbiamo parlare. Siamo andati io e il mio procuratore, la società ci ha offerto due opzioni: potevo rinnovare per un anno e restare, o accettare di andare al Lille e firmare per tre anni, entrando nell’operazione Osimhen. Voi che avreste fatto? Ne ho parlato con il mio agente e ho accettato. Il 30 giugno abbiamo firmato con il Lille». 

Ma in Francia non è mai andato.

Non siamo mai andati a Lille. Nemmeno per firmare. Hanno mandato i contratti a Napoli e abbiamo firmato a Castel Volturno». 

Dichiara di aver chiesto di restare un altro anno in Italia in prestito, e che la richiesta è stata accettata. Quando il prestito è finito, il Lille ha chiamato lui e gli altri due giovani scelti come contropartite di Osimhen in Francia.

«Ma noi non volevamo più andare in Francia, allora ci hanno proposto di lasciare sul tavolo i due anni di contratto e accettare una buonuscita». 

Perché non volevate più andare in Francia?

«Purtroppo io non sapevo tutto. Loro non è che ti dicono che volevano fare plusvalenza. Ci hanno detto solo: il Lille vuole tre giovani e noi abbiamo pensato a voi. Poi col passare delle settimane abbiamo scoperto tutto, ma ormai eravamo coinvolti, non potevamo più fare nulla». 

Questa situazione «ha pesato tanto» sulla mia carriera, dice. Ed aggiunge:

«Con gli altri due ragazzi coinvolti nell’operazione ci sentiamo spesso e tra di noi ci diciamo: noi avevamo tre anni di contratto. Ci siamo bruciati per “colpa” del Napoli. Perché noi non sapevamo nulla»

Sergio Agüero. Andrea Sorrentino per il Messaggero il 16 dicembre 2021. È stato l'ultimo grande centravanti dei romantici, l'ultimo a potersi permettere di far calare 426 gol, non uno ma 426, da appena 170 centimetri, l'altezza media dell'uomo medio. Una specie di prodigio extrasensoriale, visto che ormai gli attaccanti di primo livello devono essere almeno 1.90 per avere speranze in questo calcio di omaccioni, che stressa e mette a dura prova troppi cuori. Perché il Sergio Agüero detto il Kun era anche un campione che ha scoperto di avere un cuore malato a carriera avanzata, come tanti prima di lui: l'esempio di Eriksen è recentissimo, ma all'epoca lo stesso Thuram si ritirò per una malformazione cardiaca scoperta a 36 anni, e i Khedira e i Lichtsteiner si operarono al cuore dopo i 30, come Daley Blind un anno fa. Agüero, 33 anni, della sua ha saputo da poco, dopo un malore in Barcellona-Alaves del 30 ottobre che evidenziò un'aritmia cardiaca dai medici ritenuta incompatibile con l'attività agonistica, e ieri ha dovuto dire addio, squassato dalle lacrime e dai singhiozzi, la voce un falsetto. Al Camp Nou c'era tutto il Barcellona, il suo ultimo club a cui ha dato solo 165 minuti e un gol, ma segnato al Real Madrid, il 24 ottobre; c'erano anche Guardiola e Beguiristain in rappresentanza del Manchester City, dove ha giocato 10 anni per 260 gol in 390 partite, dirigenti dell'Atletico Madrid e dell'Independiente, le sue altre squadre, e il console argentino a Barcellona, perché il Kun ha offerto anche 41 gol alla nazionale. Gli arrivano gli auguri dell'amico fraterno Leo Messi, che lo aveva convinto a raggiungerlo a Barcellona, salvo poi andarsene lui a Parigi: «Fa male vederti smettere». Sergio ha chiare le priorità: «Al primo posto c'è la mia salute. Il fatto positivo è che sono qui a raccontarlo, è un bene che abbiano scoperto il problema. Dal calcio ho avuto tutto, ma non credo di essere stato un crack. Ringrazio i miei club e la selezione argentina, quella che amo di più. Me ne vado a testa alta, non so cosa mi aspetta nella nuova vita ma tanta gente mi vuole bene, sarà più facile. Sono nelle mani dei medici», o per rimanere all'attualità cinematografica nella mano di Dio, visto che il Kun ha avuto una relazione e un figlio con Gianinna Maradona, figlia di Diego, che fu pure il suo ct al Mondiale 2010. Più tardi scriverà che «è doloroso ma non è un dramma, i drammi nella vita sono altri». Il Kun ha chiuso la sua epopea nel City in maggio, con 13' giocati nella finale di Champions persa col Chelsea: era arrivato nel 2011, fortemente voluto da Roberto Mancini, a cui regalò il titolo all'ultima giornata col celebre gol al Qpr al minuto 93'20, dopo uno-due con Balotelli. Attaccante rapido come il lampo, affamato di aria e di gol, una prima punta che sapeva far danni su tutto il fronte, ambidestro, imprevedibile. Per fortuna che è qui a raccontarlo, ha proprio ragione. 

Ritiro Aguero, le parole dell’amico Messi: “Fa male vederti così”. Felice Emmanuele e Paolo De Chiara il 16/12/2021 su Notizie.it. Quasi tutto il mondo del calcio ha dedicato un pensiero ad Aguero nel giorno del suo ritiro. Toccante il messaggio di Messi e il gesto di Guardiola. Il ritiro di Sergio Aguero ha dato uno scossone al mondo del calcio, soprattutto a chi segue le gesta del calciatore dai tempi del suo esordio. La commozione è stata tanta e gli elogi, i ricordi e i ringraziamenti di colleghi e allenatori non sono di certo mancati.

Le cause del ritiro di Aguero 

Sergio Aguero è stato costretto al ritiro dall’attività sportiva agonistica in quanto ha riscontrato un grave problema di salute: un’aritmia cardiaca maligna. L’ultima partita che ha giocato è stata contro l’Alaves il 30 ottobre 2021, dove ha avuto un malore in campo che l’ha costretto a rientrare. Da quel momento “El kun” non ha più messo piede su un campo da calcio, decidendo che la salute è la cosa più importante a cui tiene.

Le parole di Messi dopo il ritiro di Aguero

Tra i saluti speciali riservati al campione argentino, non poteva mancare quello dell’amico Lionel Messi, compagno di squadra in Nazionale Argentina. Messi ha scritto sul suo profilo Instagram: “Praticamente una carriera intera insieme, Kun… Abbiamo avuto dei momenti molto belli e altri meno belli, ma tutti ci hanno fatto diventare sempre più vicini e sempre più amici. E continueremo a viverli insieme fuori dal campo.

Con la grande gioia di aver vinto la Copa America così recentemente, con tutti i successi che hai fatto in Inghilterra… E la verità è che ora fa molto male vedere come devi smettere di fare ciò che ami a causa di quello che ti è successo. Sono sicuro che continuerai ad essere felice perché sei una persona che trasmette felicità e quelli di noi che ti amano saranno con te. Ora inizia una nuova tappa della tua vita e sono convinto che la vivrai con il sorriso sulle labbra e con tutto l’entusiasmo che metti in ogni cosa.

Tutto il meglio in questa nuova fase!!!! Ti voglio molto bene amico mio, mi mancherà molto stare con te in campo e quando ci riuniremo con la nazionale!!!!“.

La reazione al ritiro di Aguero degli altri ex compagni ed allenatori

Non solo Lionel Messi, ma quasi tutti i più importanti calciatori in attività e non hanno voluto mandare un messaggio di affetto a Sergio Aguero. Tra questi, Angel Di Maria, compagno di squadra in nazionale. Di Maria, ha scritto: “È stato un orgoglio, un privilegio e un onore aver potuto giocare al tuo fianco. Sei un esempio per ogni ragazzo“. Delle belle parole sono state spese anche dal suo mister ai tempi del Manchester City, Pep Guardiola. Guardiola, non si è limitato a dedicare un messaggio ad Aguero, ma si è recato di persona a Barcellona per stare vicino ad “El Kun”.

AGUERO SI RITIRA. Da sportmediaset.mediaset.it il 15 dicembre 2021. Sergio Agüero lascia il calcio. L'attaccante argentino lo ha annunciato nel corso di una conferenza stampa al Camp Nou: "Questa conferenza è per informarvi che ho deciso di lasciare il calcio professionistico - le sue parole, tra le lacrime -. Sono momenti molto duri, ma sono anche contento della decisione che ho preso. La mia salute è al primo posto e dopo il problema che ho avuto un mese e mezzo fa i medici mi hanno detto che la cosa migliore era smettere di giocare". Il 33enne di Buenos Aires è stato autore di 385 gol in carriera con le maglie di club (Independiente, Atletico Madrid, Manchester City e Barcellona) e di altri 42 indossando la divisa dell'Albiceleste. Gli ultimi minuti disputati da Agüero prima dello stop forzato sono stati quelli contro l'Alavés lo scorso 30 ottobre, mentre il suo ultimo gol risale al Clasico del 24 ottobre, al Camp Nou, contro il Real Madrid. "Ho preso questa decisione dieci giorni fa - ha spiegato il Kun -. Ho fatto del mio meglio per vedere se c'era qualche speranza, ma non ce n'era molta. Sono molto orgoglioso della mia carriera, molto felice. Ho sempre sognato di giocare a calcio, da quando avevo 5 anni. Quando calciavo il pallone il mio sogno era giocare in Prima Divisione argentina, non avrei mai pensato di arrivare in Europa. Grazie all'Independiente, all'Atlético che ha scommesso su di me quando avevo 18 anni, alla gente del City, che sa cosa provo per loro, ho lasciato il meglio lì e mi hanno trattato molto bene. Grazie anche alla gente del Barça, a Joan che mi ha contattato. Sapevo che stavo venendo in uno dei migliori club del mondo e mi hanno trattato molto bene. E infine grazie alla nazionale argentina, che è la cosa che amo di più. Me ne vado a testa alta e molto felice, non so cosa mi aspetterà in un'altra vita ,ma ho persone che mi vogliono bene e che vogliono il meglio per me. Grazie anche ai giornalisti, a chi mi ha trattato bene e a chi no. Ringrazio tutti i tifosi dei club dove ho giocato e dei quali conservo le cose belle che ho vissuto".

Giorgio Coluccia per ilgiornale.it il 15 dicembre 2021. Fine corsa. L'appuntamento meno desiderato è per oggi a mezzogiorno al Camp Nou. Una conferenza indetta dal Barcellona in cui «Sergio Aguero spiegherà il suo futuro alla presenza del presidente Joan Laporta». I media spagnoli hanno già anticipato i contenuti, parlando di addio per aritmia cardiaca incompatibile con l'attività agonistica, e avanzando l'ipotesi che dall'Inghilterra per l'occasione possano arrivare anche Guardiola e Beguiristain, compagni di trionfi e avventure nell'esperienza ultradecennale dell'attaccante al Manchester City. A 33 anni l'ultima partita dell'argentino è destinata a restare quella del 30 ottobre scorso in Liga contro l'Alaves, quando si fermò dopo soli 41' per fastidi al torace e problemi respiratori. In pochi mesi il calcio europeo si ritrova senza un altro protagonista, vittima di problemi cardiaci, come già accaduto nel drammatico malore in campo accusato dal ventinovenne Eriksen all'Europeo. Tra i due casi non c'è alcuna correlazione, ma in un'epoca di virus, vaccini e pandemia la soglia d'attenzione resta altissima. Lo stesso dicasi per i controlli, visto il preoccupante susseguirsi di vicende anomale nei campionati europei. «In caso di palpitazioni, stanchezza prolungata o altri sintomi anomali bisogna fare subito dei controlli e fermare l'attività agonistica - ammonisce il professore Pasquale Perrone Filardi, presidente della Società Italiana di Cardiologia - I vaccini a Rna possono essere associati a casi di miocardite, ossia l'infiammazione del muscolo cardiaco che è più frequente per le persone sotto i trent'anni. A livello numerico siamo a 15-18 casi ogni 100 mila vaccinati, ma parliamo di un effetto raro che non intacca il rapporto rischi-benefici a favore del vaccino».  L'argomento dose booster rimane centrale: «Non abbiamo riscontri sul fatto che la terza dose sia più portatrice di eventi collaterali rispetto alla seconda. In ogni caso se si parla di miocardite o pericardite la terapia principale rimane il riposo, fino a scomparsa dei sintomi e per alcuni mesi successivi». Gli ultimi casi di stop forzati risalgono al weekend scorso, quando Zielinski ha abbandonato Napoli-Empoli per problemi respiratori e lo stesso destino è toccato a Lindelof durante Manchester United-Norwich. «Dagli accertamenti effettuati, non emerge alcun collegamento al focolaio di Covid-19» ha fatto sapere ieri il club inglese in una nota, ma Oltremanica le preoccupazioni sono evidenti dopo che la Premier ha comunicato di aver rilevato ben 42 contagiati durante la scorsa settimana, rispetto ai 12 dei sette giorni precedenti. Tanto allarme e tante situazioni diverse, come quelle di Obiang del Sassuolo (alle prese con una miocardite e costretto a uno stop di almeno sei mesi) e Kimmich del Bayern Monaco, un tempo no vax convinto, poi contagiato e adesso chiamato a pagarne le conseguenze: «Non riesco ad allenarmi bene. Devo fare riabilitazione a causa di alcune infiltrazioni nei polmoni». Anche per lui il 2021 è già finito da tempo.

Adriano. ROCCO COTRONEO per editorialedomani.it il 21 dicembre 2021. È facile da immaginare come sarebbe andata a finire questa vicenda trent’anni prima, oppure oggi, ma in un universo parallelo senza i social. Talento del calcio venuto dalla miseria perde la testa per il successo e i soldi, brucia tutto e finisce male. Già visto, stop, passiamo oltre. Questa invece è una storia del nostro tempo. Adriano Leite Ribeiro, il brasiliano già centravanti dell’Inter e della Seleção, ha avuto due grandi fortune nella vita o, come direbbe lui, con le dita puntate al cielo, due attenzioni speciali da parte del Padreterno. La dote principale, lo straordinario talento con i piedi, l’ha usata male e per troppo poco tempo. L’altra invece è la grazia massima della nostra epoca, essere in linea con i desideri e i sogni del popolo del telefonino, che ormai equivale all’umanità intera. Hai un bel sorriso, sei simpatico, appari sincero, hai una storiaccia dalla quale sei (o sembri) venuto fuori, un po’ ti perseguitano, sei arrivato ma guardi sempre avanti, ti diverti. Risultato, hai sette milioni e mezzo di follower di Instagram senza alcun motivo apparente. Piovono contratti e proposte, la vita torna a sorridere. E così dopo aver dato voce a «eserciti di imbecilli» (Umberto Eco, 2015) e selezionato esemplari di «famosi per essere famosi», ecco un caso più raro di partogenesi delle reti, e per questo intrigante: il perdente di successo. Ovvero Adriano l’Imperatore. In Brasile semplicemente O Imperador, addirittura un gradino nobiliare sopra Pelé, che era O Rei. Adriano ha praticamente fatto fuori la sua carriera nel 2004, quando un forte trauma personale, l’improvvisa morte del padre per un infarto, fece crollare il calciatore nella depressione e nell’alcol. Era all’Inter, aveva soltanto 22 anni. Grazie all’infinita pazienza e generosità dell’allora presidente Massimo Moratti, gli anni successivi a Milano gli garantirono altri ricchi stipendi e gloria a intermittenza, ma sul fisico imponente del ragazzo arrivato dalla favela di Vila Cruzeiro, a Rio de Janeiro, è rimasto attaccato da allora un marchio: quello dell’ex futuro miglior giocatore del mondo. Ne sono convinti ancora in tanti, qui in Brasile: dopo la generazione di Ronaldo e Ronaldinho, l’unico attaccante di classe assoluta è stato Adriano. O meglio, avrebbe dovuto essere Adriano. Non per nulla, dice sempre la teoria, il Brasile non vince un titolo mondiale dal 2002. O Imperador era il predestinato a vestire la maglia numero 9 per almeno tre, forse quattro Mondiali. E invece no. Birra a fiumi, ragazze, baldorie e casini assortiti hanno segnato il decennio successivo. Come in attesa dello schianto finale. Poi qualcosa è successo, sono arrivati gli smartphone, i selfie, Instagram e la possibilità di ribaltare, a suo dire, la verità ufficiale. Parlando direttamente ao povo, al suo popolo. Come tutti i personaggi del genere, Adriano odia i giornalisti. In particolare il nostro odia i giornalisti italiani, a suo parere i più crudeli, perché nel paese che l’ha reso ricco «circolano solo menzogne su di me»: drogato, puttaniere, amico di trafficanti. Non ha del tutto torto, tanto che quasi tutti da noi pensano che Adriano sia finito malissimo, e non è vero. Il perdente di successo invece è un populista doc, non vuole intermediazioni tra sé e la gente, solo la gente lo capisce. «Io volevo solo l’allegria del mio popolo», disse in lacrime davanti alle telecamere David Luiz, sciagurato difensore del 7 a 1 in casa contro la Germania, semifinale del Mondiale 2014. Da allora un meme Internet per l’eternità. «Ecco, la differenza è che Adriano non produce meme, lui stesso lo è». L’ottima definizione ce la manda per audio una studentessa brasiliana che vive a New York, Ana Karoline Sales. Andava all’asilo quando Adriano giocava a pallone, non ne ricorda un solo gol, ma il suo like alle foto dell’idolo è puntuale. «È tornato al successo perché è un personaggio di un certo immaginario collettivo brasiliano: si spara i soldi, non fa niente tutto il giorno, cambia fidanzata ogni mese, ma allo stesso è romantico, ha momenti di tristezza assoluta, piange, ama la nonna. Rappresenta la semplicità dei nostri piaceri massimi, senza fronzoli: amore, amici, samba e una birretta sempre molto gelata». Qualcuno si domanderà a questo punto cosa pubblica Adriano sul suo profilo Instagram. Niente di che è la risposta, basta controllare su adrianoimperador. Ma riassumendo: ci sono i selfie sul divano (ora mi guardo un bel film), quelli con i figli (ne ha tre da tre donne diverse delle quali si sono perdute le tracce) o con decine di fratelli, cugini e zii che mantiene. I suoi modi di dire nonsense che diventano contagiosi. Ci sono foto di piatti, la cucina italiana è sempre nel suo cuore, e dei pochissimi amici dei quali si fida. Tra cui Renata Battaglia, la geniale manager, prima ufficio stampa-muro per tenere alla larga i giornalisti, poi la prima a capire il potenziale dei social per ricostruire finanziariamente un caso praticamente disperato. Fino a tre anni fa la situazione di Adriano era piuttosto complicata. Negli anni dell'oblio aveva fatto esattamente tutto quello che aveva spiegato in lacrime a Moratti abbandonando Milano, con la rinuncia a un ingaggio, dice lui, da sette milioni di euro all’anno «per tornare allegro nella mia città, nella favela dove sono nato, con i miei amici e familiari». Nelle poche interviste concesse lo ha sempre ripetuto: ho preferito la felicità al successo e alla carriera, non me ne sono pentito, ho pagato un prezzo alto per tornare alla mia essenza. All’origine di tutto il trauma della morte del padre e la solitudine con saudade a Milano (in realtà l’Inter gli gestiva vagonate di parenti in visita, Moratti aveva addirittura noleggiato un pullman). Comunque sia il ritorno a Rio era da precipizio, la carriera finita, con la sola eccezione di sei mesi nel 2009, quando aiutò il Flamengo, la sua squadra del cuore, a vincere il campionato brasiliano. Potrà prendersela con la stampa, ma è stato lui a farsi fotografare con i suoi amici narcos della favela e un kalashnikov in mano, a sbattere con la macchina nelle notti carioca, a ferire per sbaglio un’amica con la pistola e tanti altri pasticci evitabili, più i naturali bagordi con feste infinite e carissime, nelle quali non era sufficiente perquisire gli invitati e sequestrare i telefonini con i gorilla della reception per non finire sui giornali. Poi all’improvviso la noiosa pace domestica di Instagram, tutt’al più ogni settimana un compleanno di un parente. Unica turbolenza le fidanzate a raffica, con le foto sovieticamente cancellate quando cadono in disgrazia, e delle quali il più delle volte è stato vittima. Essere “ex di Adriano” è tuttora una professione sui social, di un buon grappolo di bionde “studentesse” e “modelle”, tutte con qualche centinaio di migliaia di followers ottenuti come buonuscita dalla relazione, da monetizzare. E come avevano previsto i più saggi nel suo circolo (tutte donne ovviamente: la mamma, la nonna e la sua manager) smettendo di fare casino in giro i risultati sarebbero arrivati. Dove per risultati si intende una cosa sola, il denaro. Quello necessario a mantenere una tribù di parenti e madri di figli, tra un tenore di vita tuttora elevato, dopo aver venduto case, barche e altro che non sappiamo. La prima a capire il potenziale dell’ex maledetto diventato meme positivo è stata la Adidas. Un buon contratto da ambasciatore della marca in Brasile, rinnovato ogni due anni. La casa sponsorizza il Flamengo, la squadra con più tifosi al mondo, i quali non dimenticano lo scudetto vinto con O Imperador. Non se ne conosce il valore, ma è facile immaginare che sia zeppo di clausole. Se sgarri si chiude. Va bene tutto, ma Adriano non è il suo concittadino Ronaldo, seduto su un patrimonio di centinaia di milioni di euro, il quale è stato il primo calciatore della storia ad avere un contratto vitalizio (Nike), inattaccabile. Anche Ronaldo ne ha combinate fuori dai campi, basta fare un giro su Google inserendo la parola trans o sinonimi, ma siamo su un altro livello. Poi c’è una nuova società di scommesse sportive, la Betpix365, che ha scelto Adriano come uomo immagine. Qualcosa è arrivato anche da Amazon e Dazn, per spot tv. Infine, ed era inevitabile, i diritti per la storia della sua vita. La Viacom ha già girato un documentario in tre episodi, che dovrebbe uscire a febbraio del prossimo anno sulla piattaforma Paramount, e ha in mente una fiction. Materiale ce n’è, ma Adriano che in tutto questo non ha nemmeno 40 anni deve fare in fretta per garantirsi i prossimi, e farsi venire in mente qualcos’altro da fare da grande. Come ti innalza al cielo, la rete ti distrugge in un attimo. In entrambi i casi senza motivo.

Adriano, i social, il lavoro alla Adidas, zero alcol e vita sana: così rinasce l’Imperatore ex bomber dell’Inter. Salvatore Riggio su Il Corriere della Sera il 15 Dicembre 2021. Adesso ha sette milioni e mezzo di follower su Instagram e così gli piovono addosso contratti e proposte.

La rinascita dell’Imperatore

Il talento di Adriano Leite Ribeiro è svanito troppo presto. Il centravanti dell’Inter e del Brasile nella sua vita ha avuto due grandi fortune nella vita. La dote principale, lo straordinario talento con i piedi, l’ha usata male e per troppo poco tempo. L’altra invece è la grazia massima della nostra epoca, ovvero essere in linea con i sogni del popolo del telefonino. Ora ha sette milioni e mezzo di follower su Instagram e così gli piovono addosso contratti e proposte. Insomma, una seconda vita. Una risalita e tutto questo non più grazie al calcio, ma ai social. Adriano l’Imperatore è l’emblema di come sfondare in un pianeta virtuale, ritrovando anche la tranquillità economica.

Il legame con l’Adidas

Dal 2019 nuova vita per l’Imperatore. L’Adidas ha deciso di puntare su di lui, nelle vesti di nuovo direttore vendite in Brasile. Così Adriano prende parte anche al coordinamento degli eventi per il lancio delle maglie di Flamengo e San Paolo, di cui è stato giocatore. Il tutto era stato confermato dallo stesso ex attaccante dell’Inter sul proprio profilo Instagram. L’Adidas ha deciso di puntare sull’Imperatore alla luce della sua grande popolarità sui social in patria.

Vita serena

Sui propri profili social Adriano è rinato davvero. È sorridente, felice, tranquillo. In questa sua nuova vita sembra aver archiviato del tutto il periodo buio della sua giovinezza, che lo ha allontanato dal calcio nonostante un talento innato. Così lo si vede da solo, con gli amici, in mezzo alle persone. Sempre sorridente.

La morte del padre

Come calciatore era un talento pazzesco, ma la sua carriera è come se finisse nel lontano 2004, quando ad agosto – e Adriano in quel periodo ha solo 22 anni – muore il padre, suo punto di riferimento. Ha sempre ammesso che da quel momento ha avuto «un buco nell’anima». Una forte depressione, tante difficoltà. Che lo hanno allontanato poco alla volta dal calcio.

Il trasferimento in hotel

A marzo Adriano era tornato a far parlare di sé. Non per una questione di campo, non per un ritorno nel mondo del calcio (in altre vesti, magari), ma per il suo trasferimento in un hotel di lusso. In apparenza nulla di strano. In fin dei conti, il brasiliano si è stabilito lì – in via temporanea e senza badare a spese – assieme alla sua famiglia. Però, è il motivo a essere curioso. L’ex attaccante ha venduto la sua vecchia villa del valore di 1,3 milioni di euro e, in attesa di trovare un’adeguata sistemazione, ha deciso di alloggiare nella suite presidenziale del Grand Hyatt Hotel nell’esclusivo quartiere di Barra do Tijuca a di Rio de Janeiro. Al costo di 12mila euro al mese.

Il difficile rapporto con i giornalisti

Adriano non ha mai avuto un ottimo rapporto con i giornalisti: «Ai tempi dell’Inter (dal 2001 al 2009 con parentesi a Fiorentina, Parma e San Paolo, ndr) mi seguivano ovunque, volevano sempre qualcosa da me». Non amava farsi intervistare, si sentiva perseguitato. Ovunque, in ogni club nel quale decideva di andare.

Quel gol al Santiago Bernabeu

Un giovane Adriano sbarca all’Inter nell’estate 2001. E il 14 agosto segna un gol pazzesco contro il Real Madrid nel Trofeo Bernabeu. Quella sera Adriano fa il suo ingresso sul palcoscenico del calcio europeo e lo fa dalla porta principale: entra nella ripresa con la maglia numero 14, inizia a dribblare, a caracollare per il campo, imprendibile. Poi calcia una delle punizioni più violente e precise della storia, battendo Casillas e ammutolendo uno stadio intero, per la vittoria 2-1 dei nerazzurri. Quello standard si è rivisto pochissime volte nella sua carriera chiusa al Miami United nel 2016. 

Il rapporto con Mancini

Lo aveva allenato sei mesi alla Fiorentina, dal gennaio al giugno 2002, per poi allenarlo all’Inter. Ma in nerazzurro, per la morte del padre appunto, Adriano si è perso. Roberto Mancini lo ha sempre difeso e cercato di proteggerlo. «Adriano fa parte di quella schiera di giocatori che potevano fare tantissimo e alla fine hanno fatto poco per colpa loro. È un bravo ragazzo, aveva qualità fisiche più che tecniche, aveva bisogno di essere sempre in condizione, fare una vita da atleta. Giocatori come lui hanno bisogno di essere professionisti al massimo, purtroppo lui in questo ha peccato un po’ ed è stato un dispiacere. Ma io, come tutti noi, feci di tutto per dargli una mano», le sue parole in un’intervista a Sky di qualche anno fa.

La fuga dall’Italia

Nel 2008 dopo tante, molte, troppe difficoltà, decide di andare via dall’Inter e dall’Italia. Rinunciare a un ricco ingaggio per ritrovare la felicità in Brasile. Ed è per questo che torna al San Paolo. L’obiettivo di Adriano è «tornare allegro nella mia città, nella favela dove sono nato, con i miei amici e familiari». Ha sempre preferito la felicità al successo e alla carriera, senza pentirsi mai. Poi un ritorno ancora in nerazzurro e l’addio definito nel 2009, con ormai un talento buttato via. Come si ebbe conferma alla Roma dall’estate 2010 al marzo 2011, nel suo ultimissimo tentativo di riprendersi.

Gianni Pampinella per fcinter1908.it il 12 maggio 2021. "Dicono che sono scomparso. “Adriano ha rinunciato ai milioni”. “Adriano è drogato”. “Adriano è scomparso tra le favelas”. Sapete quante volte ho visto questi titoli? Stronzate. Invece eccomi qua. Sorridente di fronte a voi. Volete sapere la verità? Direttamente da me? Senza cazzate? Allora prendete una sedia, fratelli. Perché Adriano ha una storia per voi". Inizia così un lungo articolo che Adriano ha scritto per The Players Tribune. L'Imperatore parla senza filtri raccontando la sua storia fatta di povertà, gloria e periodi difficili. "Ho fatto tanti soldi nella mia carriera. Ma sapete quanto pagherei per divertirmi ancora così?  Avevo sempre il pallone tra i piedi. Ce lo ha messo Dio. Quando avevo 7 anni, alcuni dei miei parenti hanno raccolto dei soldi per permettermi di giocare nella scuola calcio del Flamengo. Dalla favela al Flamengo??? Andiamo subito! Mi metto le scarpe! Dov’è la fermata dell’autobus? Era un po’ una follia perché vivevamo a Penha e se conoscete Rio sapete che il tragitto da Penha alla scuola calcio del Flamengo a Gavea era infinito. Erano gli anni 90’ e ancora non c’era la Linea Gialla. Si dovevano prendere due autobus e siccome ero ancora troppo piccolo, avevo bisogno di qualcuno che venisse con me. Ed è qui che entra in gioco mia nonna. Mia nonna! Cazzo! Mi dovrei fare il segno della croce ogni volta che parlo di lei. Se non ci fosse stata lei nella mia vita?! Sarebbe stato impossibile. Non avreste mai conosciuto il nome Adriano. Una leggenda e ora vi racconto una storia. Una volta, quando ero all’Inter, i giornalisti mi seguivano ovunque perché ogni volta volevano assillarmi con qualcosa. Erano accampati sotto casa mia e non volevano andarsene. Mi sentivo in trappola. Mia nonna all’epoca viveva con me, e sentii che stava in cucina mentre faceva bollire l’acqua sui fornelli. "Allora le ho chiesto: “Che succede nonna? Che stai cucinando?”. Lei mi ha risposto: “No, no. Non sto cucinando amore”. Però aveva un pentolone di quelli che si usano per fare la pasta. Ha detto: “Sto preparando un regalino per i nostri amici qua fuori”. Allora le ho detto: “Che? Nonna, che sei pazza. Non puoi fare così!!!” E lei: “No, no. Voglio solo fare un bel bagnetto ai nostri amici giornalisti! È bello caldo, vedrai che gli piacerà!”. Ahahahahah! Cazzo! Era seria! L’ho dovuta calmare. Diceva tipo: “La devono smettere di rompere al mio bambino! Gli voglio dare una lezione!” Questa è mia nonna, ok? Capite meglio adesso?!". Mi ricordo che appena arrivato in Italia, non avevo bene idea di cosa stava succedendo. Guardavo i miei compagni e pensavo: “Seedorf. Ronaldo. Zanetti. Toldo. Cavolo”. Era ovvio che fossi in soggezione, no?! Seedorf camminava per lo spogliatoio senza maglietta - quello stronzo aveva il 7% di grasso corporeo! Rispetto! Non dimenticherò mai quando stavamo giocando un’amichevole contro il Real Madrid al Bernabeu, e sono entrato dalla panchina. Guadagniamo una punizione dal limite dell’area e io mi avvicino al pallone. Ma sì, perché no?! Beh, indovinate chi c’era dietro di me a dirmi: “No, no, no. La batto io.” Materazzi! Quel gran bastardo! Ahahahahhahaha! Potevo a malapena capire che mi stava dicendo, perché ancora non parlavo italiano. Ma ho capito che gli rodeva. “No, no, no!”. La voleva battere lui. Poi è intervenuto Seedorf e ha detto: “No, lascia tirare il ragazzino”. Nessuno discute con Seedorf. Quindi Materazzi si è fatto da parte e la cosa divertente è che se guardate il video, potete vedere Materazzi con le mani sui fianchi che pensa: Questo ragazzino del cazzo sicuro la manda in curva!!! La gente mi chiede tutto il tempo di quel calcio di punizione. Come? Come, come, come? Come hai fatto a calciare il pallone così forte? E io gli rispondo: “Cazzo! Sai che non lo so! L’ho colpita di sinistro e Dio ha fatto il resto!” BOOOM! All’incrocio. Non lo so spiegare. So solo che è successo". Quello è stato l’inizio della mia storia d’amore con l’Inter. L’Inter è la mia squadra ancora oggi. Amo il Flamengo, il San Paolo, il Corinthians… amo molti posti in cui ho giocato, ma l’Inter per me è qualcosa di speciale. La stampa italiana? Beh, quella è un’altra storia. Ahahahahah. Ma la società Inter? La migliore. C’è un coro che mi cantavano a San Siro che ancora mi fa venire la pelle d’oca. 

Che confusione

Sarà perché tifiamo

Un giocatore

Che tira bombe a mano

Siam Tutti in piedi

per questo brasiliano

batti le mani

che in campo c'è Adriano 

Cavolo, dai. Un ragazzo della favela come me? Sono l’Imperatore d’Italia? Non avevo fatto quasi niente e tutti mi trattavano come un re. Era fantastico. Mi ricordo quando tutta la mia famiglia veniva a trovarmi da Rio e quando dico tutta la famiglia mi sa che non capite bene cosa voglio dire. Intendo la mia famiglia. Alla brasiliana. Non stiamo parlando di mamma e papà, stiamo parlando di 44 persone! Cugini, Zie, Zii! I miei amici! Su quell’aeroplano c’era tutto il vicinato. La voce era arrivata anche al Presidente. Il Signor Moratti (la leggenda!). E il Signor Moratti ha detto: “Ehi, questo è un momento speciale per il ragazzo, prendiamo un pullman per la sua famiglia”. Moratti ha fatto noleggiare un intero pullman dai suoi collaboratori. Vi immaginate 44 brasiliani in gita in Italia?! Ahahahah! Uno spettacolo. È stata una festa. Questo è il motivo per cui non parlerò mai male di Moratti o dell’Inter. Tutte le società dovrebbero essere così. Lui si preoccupava per me come persona. Adesso so cosa state pensando. "Ma Adriano, perché hai lasciato il calcio? Perché te ne sei andato?”. Mi fanno queste domande ogni volta che vado in Italia. Certe volte penso di essere, uno dei calciatori più incompresi del mondo. La gente non riesce davvero a capire quello che mi è successo. Loro hanno la loro versione che è completamente sbagliata. In realtà è molto semplice. Nel giro di nove giorni, sono passato dal giorno più felice della mia vita al giorno più brutto. Sono passato dal paradiso all’inferno. Sul serio. Mi chiamano da casa. Mi dicono che mio padre è morto. Un infarto. Non mi va di parlarne, ma vi dico che da quel giorno, il mio amore per il calcio non è stato più lo stesso. Amavo il calcio, perché lo amava lui. Tutto qui. Era il mio destino. Quando giocavo a calcio, giocavo per la mia famiglia. Quando facevo gol, facevo gol per la mia famiglia. Quindi da quando mio padre è morto, il calcio non è stato più lo stesso. Ero in Italia, dall’altra parte dell’Oceano, lontano dalla mia famiglia e non ce l’ho fatta. Sono caduto in depressione. Ho iniziato a bere tanto. Non avevo voglia di allenarmi. L’Inter non c’entra niente. Io volevo solo andare a casa. Se devo essere onesto, anche se ho segnato tanti gol in Serie A in quegli anni, anche se i tifosi mi amavano davvero, la mia gioia era svanita. Era mio padre, capite? Non bastava spingere un bottone per tornare me stesso. Nel 2008, era l’epoca di Mourinho all’Inter, la situazione era diventata insostenibile. I giornalisti mi seguivano ovunque e con Mourinho era tutto un: “Che cazzo! Vaffanculo! Vuoi fottermi, vero?”. Ho detto, Oh Signore. Portami via da qui. Non ho resistito. Mi hanno convocato in nazionale e prima di partire Mourinho mi dice: “Non torni più, vero?!” Gli ho detto: “Già lo sai!” Biglietto solo andata. La stampa alle volte non riesce a capire che siamo degli esseri umani. Essere L’Imperatore significava avere troppe pressioni. Io venivo dal nulla. Ero solo un ragazzo che voleva giocare a calcio e poi uscire per bere qualcosa con i suoi amici. So che è un qualcosa che non si sente spesso dai calciatori di oggi, perché è tutto così serio e ci sono troppi soldi di mezzo. Ma voglio essere onesto. Io non ho mai smesso di essere il ragazzo della favela. La stampa diceva che ero “scomparso”. Dicevano che ero tornato nelle favelas, che mi stavo drogando e tante altre storie incredibili di tutti i tipi. Pubblicavano foto mie dicendo che ero circondato da criminali e che la mia storia era una tragedia. Mi viene da ridere, perché quando fanno così, non sanno assolutamente di cosa stanno parlando. Non capiscono che stanno facendo una figura di merda. Ero fuori forma, fisicamente e mentalmente. Sapevo di aver bisogno d’aiuto. Quindi sono finito al San Paolo perché lì potevo ricevere aiuto dal REFFIS. All’epoca, il SPFC aveva alcuni dei migliori dottori del mondo. Ho iniziato a vedere uno psicologo che mi ha aiutato a combattere la depressione e sono stato in grado di ripartire. E per questo devo ringraziare ancora una volta il Signor Moratti, perché è sempre stato d’accordo in tutto. Mi ha lasciato il mio spazio perché sapeva cosa stavo passando. Ho fatto avanti e indietro dall’Italia al Brasile per un po’. Ma alla fine, non potevo mentire a lui. Moratti un giorno mi ha chiamato e mi ha chiesto: “Come ti senti?” E lui ha capito la situazione. Completamente. Mi ha lasciato andare serenamente. E gli sarò sempre grato per questo. “Adriano rinuncia ai milioni per andare a casa”. Sì, forse ho rinunciato ai milioni. Ma l’anima ha davvero un prezzo? Quanto sareste disposti a pagare per tornare alla vostra essenza? All’epoca ero distrutto per la morte di mio padre. Volevo sentirmi ancora me stesso. Non mi drogavo. Bevevo? Certo che sì, Ammazza se bevevo. Alla salute. Se analizzate la mia pipì - e lo giuro su Dio - non troverete nessuna traccia di droghe. Perché so che il giorno in cui farò uso di droghe mia madre e mia nonna moriranno. Però sapete una cosa? Sicuramente troverete tracce di alcolici. Credo che la mia pipì sia torbida come la Caipirinha! Quando sono tornato a casa per giocare con il Flamengo, non volevo più essere l’Imperatore. Volevo essere Adriano. Volevo divertirmi ancora. E diciamo che ci siamo divertiti. Sono stato davvero orgoglioso di essere L’Imperatore. Ma senza Adriano, L’Imperatore è inutile. Adriano non ha la corona. Adriano è il bambino delle baracche che è stato benedetto da Dio. Lo capite adesso? Lo vedete? Adriano non è scomparso tra le favelas. È solo tornato a casa. (theplayerstribune.com)

Borja Valero. DA ilnapolista.it il 21 settembre 2021. Su Repubblica un’intervista a Borja Valero, ex di Fiorentina e Inter, che oggi si affronteranno in campionato. Parla del calcio, dell’aspetto positivo, ovvero i tifosi e di quello negativo: i procuratori. «Penso ad alcuni procuratori. Quando sei un ragazzino ti circondano di tante belle parole. Tu sei giovane, non ci capisci molto e ti affidi a loro. Qualcuno lo fa nel modo giusto ma qualcuno pensa solo a sé stesso e non pensa mai al giocatore. È la parte cattiva di quel mondo».

Racconta l’inizio della sua carriera.

«Facendo tantissimi sacrifici durante tutta la gioventù. È stata una crescita calcistica stressante. Il distacco dalle amicizie, la competizione interna per prenderti il posto da titolare. A dodici anni ti muovi come se fossi un professionista, senza esserlo però. Ho vissuto l’adolescenza in altro modo e mi è mancato qualche pezzettino di vita: le amicizie, i primi amori. Ma ho avuto la fortuna di arrivare e quando ho esordito con la maglia del Real, ho capito che si era chiuso un cerchio. Un’emozione unica». 

Gli chiedono se rifarebbe il calciatore. Risponde: «Se ripenso a quel momento, sì. Impazzivo per il calcio. Forse però adesso non lo rifarei. Non so se merita. Ho una bella vita, grazie al calcio. Ma forse avrei potuto averla anche senza fare il calciatore. Ho avuto molti momenti che mi sono goduto. L’esordio col Real, quello con la nazionale spagnola. Il 4-2 alla Juventus con la Fiorentina. Ricordo i boati dello stadio agli ultimi due gol, sono sempre nella mia mente. Il calcio è molto più grande di quel che si vede in tv, però».

Spiega: «Ci sono stati anche dei periodi brutti. Come le critiche, che un giocatore avverte sulla sua pelle. Dai tutto te stesso ma ti criticano. Non è facile». 

Cosa non vediamo del calcio noi comuni mortali?

«La tv non riprende tutto. Il 98% delle volte un calciatore dice quel che può, non quel che pensa. Lo fa per tutelare i compagni, i dirigenti. Oltre al gioco, però, la parte più bella che ho vissuto sono stati i viaggi. Le trasferte, le cene coi giocatori più anziani, i loro racconti. Le storie. Le cazzate».

Alessandro Bocci per il “Corriere della Sera” il 20 agosto 2021.  Tutto è nato quasi per scherzo. E invece da ieri è una storia che, nel calcio comandato dai soldi e dai procuratori, fa bene al cuore. Borja Valero, 36 anni, che ha cominciato la sua lunga e fortunata carriera nel Real Madrid, giocherà il prossimo campionato nel «Centro Storico Lebowski», Promozione toscana. Dalla maglia viola della Fiorentina, che non gli ha rinnovato il contratto, a quella grigionera di una squadra di dilettanti, fondata poco più di dieci anni fa da un gruppo di ragazzi stufi del calcio di oggi e decisi a proporre la loro idea un po' folle. Il Lebowski, in omaggio al film del '98 con Jeff Bridges, in cui il protagonista vive fuori dagli schemi proprio come i soci intendono portare avanti il club, è il prodotto di un azionariato popolare che ha saputo centrare due promozioni autofinanziandosi. Borja Valero aveva deciso di smettere, ma il Lebowski gli ha fatto cambiare idea. I soldi non c'entrano e l'accordo è stato raggiunto all'inizio di agosto in una pasticceria di Firenze, davanti a un cappuccino, e a Rocio, la moglie, integrata quanto e meglio di lui nella vita della città. «Ho accettato perché mi sono specchiato in certi valori», racconta con semplicità. 

Lei avrebbe voluto continuare un'altra stagione nella Fiorentina? 

«Pensavo di poter dare una mano. Invece la società aveva un'idea diversa. Mi dispiace, anche se posso capire le loro ragioni. Dopo la pandemia avrei voluto salutare i tifosi dal campo, ma nella vita non sempre i sogni diventano realtà».  

Così aveva deciso di smettere. Poi... 

«Un amico giornalista, Benedetto Ferrara, che aveva il figlio nelle giovanili, mi ha messo in contatto con il Lebowski. Pian piano ho conosciuto la loro storia e ho accettato di aiutare». 

Ma nel frattempo aveva preso un impegno con Dazn. Sabato l'attende il debutto come commentatore in Inter-Genoa... 

«Non volevo lasciare in maniera definitiva. E la televisione mi sembrava un bel compromesso. Eppoi volevo vedere il mio mondo da un altro punto di vista. Sono curioso di vedere l'effetto che farà...».  

Il calcio resta il suo mondo. 

«Mi sono anche iscritto a un corso per diventare allenatore, ma non credo che sarà la mia strada». 

Come concilierà il doppio ruolo, da opinionista tv e giocatore? 

«La televisione avrà la priorità. Quando ho parlato con i ragazzi del Lebowski avevo già l'impegno televisivo, ma loro non hanno creato problemi. Di sicuro in campo cercherò di dare il mio meglio. Però voglio chiarire un concetto». 

 Prego. 

«Non ho scelto il Lebowski perché volevo continuare a giocare. L'ho fatto perché credo di poter aiutare la squadra ad avere un po' di visibilità». 

I suoi nuovi compagni credono in un calcio diverso, fatto di sentimenti e non solo di soldi... 

«I soldi nel calcio circoleranno sempre. Quando ho accettato ho pensato a quando ragazzino giocavo in un campetto polveroso, alimentando i miei sogni. Il Lebowski fa giocare bambini e bambine in modo gratuito e io mi rivedo in loro».

Cosa farà da grande? 

«Ancora non lo so. Dopo la morte di mia madre ho deciso di vivere un giorno alla volta senza troppi progetti».  

Perché a Firenze? 

«Perché mi sento a casa. A Firenze mi sono costruito una vita anche fuori dal campo. E con la Fiorentina, soprattutto il primo anno, ho vissuto momenti indimenticabili, quelli che rendono vivo un uomo».

Maicon. Carlos Passerini per corriere.it il 9 gennaio 2021. Dice il presidente Paolo Pradella, ferroviere in pensione, che «se prima allo stadio venivano in trenta o quaranta adesso ci sarebbe bisogno di raddoppiare la tribuna per tutti quelli che hanno fatto domanda negli ultimi giorni», da quando cioè è venuta fuori la notizia che l’ex interista Maicon giocherà per il Sona in serie D. «Mi ha chiamato addirittura gente da Milano, vogliono fare l’abbonamento, ma c’è il Covid, mica li posso fare entrare» spiega il patron, frastornato pure lui dal clamore mediatico generato dall’inatteso colpaccio di calciomercato. Comprensibile: l’effetto Maicon s’è abbattuto come un ciclone su questa comunità di 17mila abitanti dolcemente adagiata sui colli morenici dell’entroterra gardesano, in provincia di Verona, fra ulivi e vigneti.

Il ritorno del campione. «Sto bene, sono contento di essere tornato in Italia, sono pronto e carico per questa nuova avventura da giocatore» sono state le prime parole al suo arrivo in paese del formidabile esterno brasiliano, che solo dieci anni fa conquistava l’indimenticabile triplete con l’Inter. Da José Mourinho a Marco Tommasoni: l’allenatore del Sona ha 36 anni, tre in meno del suo nuovo giocatore. E anche la squadra è giovanissima: metà della rosa è composta da ragazzi che di Maicon potrebbero essere i figli. E chissà che da qui a fine stagione il campione con suo figlio non giochi davvero: il club veronese ha tesserato anche Felipe, quindici anni, che inizialmente andrà con la squadra Juniores. Il direttore sportivo Claudio Ferrarese, che il brasiliano lo affrontò quando giocava nel Torino, racconta che l’affare è nato quasi per scherzo: «Un mio collaboratore mi ha chiesto: perché non proviamo a portare qui Maicon? Io gli ho risposto ridendo: sul lago? Ma lui faceva sul serio e, vi dirò, convincere il giocatore è stato più semplice di quanto mi aspettassi». Anche perché il 39enne di Porto Alegre non ha mai smesso di giocare e sta bene: fino a dicembre era al Villa Nova, squadra della quarta serie brasiliana allenata dall’ex compagno romanista Amantino Mancini.

L’ingaggio. I dirigenti veronesi assicurano che gli daranno giusto un rimborso spese, chissà, di certo la vicinanza con Milano e il clima temperato del Garda hanno avuto il loro ruolo: la casa gliel’hanno trovata a Bussolengo, un’ora e mezza di macchina dalla metropoli meneghina, mentre la squadra si allena a Lazise, località incantevole sul lago, a due passi da Gardaland. I nuovi compagni non vedono l’ora. «Mi sa che a qualcuno in allenamento tremeranno le gambe» sorride l’allenatore. L’unico in squadra che ha un passato nel calcio vero è il difensore argentino Paolo Dallafiore, ex Parma. Gli altri sono tutti dilettanti di nome e di fatto, ragazzi che sognano magari un giorno di sfondare — la D è la prima categoria sotto i professionisti — ma che di fatto giocano per pura passione. Torri, il regista, fa il rappresentante di birre. Il terzino Belfanti monta condizionatori. Gli altri sono per lo più studenti. Tutti giovanotti di buona volontà: «Qui stipendi veri non ce ne sono, al massimo qualche rimborso ma molti giocano gratis — dice il presidente —. Siamo una famiglia, ognuno fa quel che può». Si gioca insomma per passione e, se occorre, si dà pure una mano al campo, tirando le righe laterali col gesso o tagliando il prato. «Siamo al settimo cielo, ma l’obiettivo resta la salvezza» giurano i dirigenti. Una cosa però cambierà: dallo Scanzorosciate al Real Calepina, dal Brusaporto al Villa Valle, tutti ora vorranno battere il Sona del grande Maicon.

Edmundo. Andrea Sereni per corriere.it il 4 aprile 2021. Follie, fughe, litigi, amori e tanti gol: «Ero anche più forte di Ronaldo. Romario, lui sì, forse era meglio di me». Edmundo oggi 2 aprile compie 50 anni, un giro di boa significativo anche per chi, come lui, è immerso da sempre nel ruolo del cattivo di talento, poca modestia e ego smisurato. In allenamento, una volta, si arrabbiò con i compagni che sbagliavano troppi palloni. L’allenatore andò ad abbracciarlo, lo consolò: gli altri avevano la sola colpa di essere meno bravi di lui. Gli anni alla Fiorentina, il Napoli, il Mondiale sfiorato con il Brasile e gli incidenti dentro e fuori dal campo: una vita sregolata e geniale, quella di «O Animal».

Escluso dal Mondiale per una lite con Luxemburgo. Nato il 2 aprile 1971 a Guanabara, scorcio di mare che si affaccia su Rio de Janeiro, madre lavandaia e padre barbiere «che non capiva niente di calcio», Edmundo cresce nel mito di Roberto Dinamite, l’attaccante della sua squadra del cuore, il Vasco da Gama, con cui si fa conoscere e, a 21 anni, vince un campionato Carioca. Nel 1992 debutta con la Nazionale, poi passa al Palmeiras con cui ottiene due titoli. Nel 94, poco prima del Mondiale americano, si prende a pugni con Vanderlei Luxemburgo (il tecnico di quel Palmeiras): il club lo sospende, la Selecao lo fa fuori. Edmundo dirà di aver trattato Luxemburgo «come un padre», ma i due finiranno anche in tribunale.

Quando salvò Ronaldo. Perso il Mondiale 94, con il Brasile campione ai rigori contro l’Italia, Edmundo torna a segnare e viene chiamato per Francia 98 dal c.t. Zagallo. Ma, nonostante l’infortunio di Romario, in attacco ha davanti a sé Bebeto, Rivaldo e Ronaldo. Gioca due spezzoni, tra cui gli ultimi minuti della finale persa con la Francia, rimpiazzando il Fenomeno a cui dice di aver salvato la vita, in albergo poche ore prima della partita: «Stavamo in stanze attigue. Mi alzai da tavola dopo il pranzo per andare in bagno. In quel momento attraverso la porta aperta vidi Ronaldo con le convulsioni. Era sdraiato e Roberto Carlos era sul letto a fianco con la tv accesa. Aveva le cuffie e non si era accorto di niente — ha raccontato in un’intervista a Playboy —. Ronaldo era viola, con la bava alla bocca e il corpo che si contraeva. Uscii di corsa a cercare il medico, tornai insieme a Cesar Sampaio e riuscii a toglierli la lingua dalla gola per farlo respirare». Ma la finale, anche se non stava bene, Ronaldo fu costretto a giocarla: «All’ora della merenda apparve, faccia triste e a testa bassa. Non mangiò niente e uscì per parlare al telefono nel giardino dietro la sala ristorante. Un’ora dopo, durante la lezione tattica, ci dissero che era all’ospedale e non avrebbe giocato, e io sarei entrato al suo posto. Andammo allo stadio. Ci cambiammo e al momento di andare a fare il riscaldamento, arrivò Ronaldo, sorridente, dicendo: «Gioco. Dov’è la mia roba? Devo giocare». Zagallo mi fece un segno da lontano: «Mi dispiace, Edmundo, abbi pazienza».

La Fiorentina lottava per il titolo, lui scappava al Carnevale. A Firenze Edmundo arriva nel gennaio del 98. E l’anno successivo sogna con una città intera lo scudetto. Quella Fiorentina, con Toldo, Rui Costa, Batistuta, Trapattoni in panchina, era campione d’inverno e lottava per il titolo. Ma a febbraio Edmundo prese e volò in Brasile, per partecipare al Carnevale di Rio de Janeiro. C’era una clausola ad hoc, fatta inserire dal giocatore, nel contratto firmato con Cecchi Gori: i viola persero qualche punto di troppo e lo scudetto alla fine se lo contesero Lazio e Milan (poi campione). Dopo una breve parentesi nel Napoli pre fallimento, Edmundo sbarca in Giappone, al Tokyo Verdy. Lo pagano in dollari, lui diventa leader e segna 21 gol in 30 presenze. Torna in Brasile, questa volta definitivamente, e chiude il cerchio al Vasco, dove aveva iniziato, a 38 anni.

Perché lo chiamavano O Animal? Il soprannome, «O Animal», glielo affibbiò il giornalista Osmar Santos, quando Edmundo aveva 23 anni: «Non nasce dai miei comportamenti. Santos usò l’espressione l’animale della partita. Siccome io spesso ero il migliore, mi rimase quell’etichetta — ha spiegato poi il brasiliano —. Adriano, una persona a cui voglio bene, è diventato l’Imperatore. Fa le stesse cagate che faccio io, anche peggio, eppure è l’Imperatore. E io sarei l’animale…».

La fama da playboy. Edmundo ha sempre avuto la fama del donnaiolo incallito. «Ho avuto tantissime donne. La prima fu mia cugina Saionara: avevo 13-14 anni, lei 19. Mi prese lei. Era una cosa complicata all’epoca. Ci si baciava tanto, si faceva molto petting, ma non c’erano i soldi per un motel e non c’era una macchina per farci sesso. Era tutto a rischio — ha rivelato qualche anno fa a Playboy —. Posso dire invece con certezza che con Daniela, la mia prima ragazza che abitava a Guadalupe, consumai davvero. E con grande piacere. Avevo 15 o 16 anni».

Il figlio omosessuale che all’inizio non ha accettato. Due matrimoni e innumerevoli tradimenti («Ma mai un amante fissa, solo scappatelle»), Edmundo ha avuto quattro figli da donne diverse. Con il primogenito Alexandre, omosessuale — a 14 anni la madre lo portò a fare sedute d’esorcismo per guarirlo — non ha avuto contatti per dieci anni prima di un riavvicinamento recente.

Il fratello assassinato. Nel novembre del 2002, quando giocava in Giappone, il fratello Luis Carlos venne assassinato. Il corpo venne ritrovato nel bagagliaio di una Fiat Palio, nella periferia di Rio. In pochi anni morirono anche i genitori. «Non mi riprenderò mai. Scambierei fama, carriera, soldi, tutto, per averli con me — ha detto Edmundo in un’intervista del 2014 a NetVasco —. Posso solo fingere di essere felice».

L’incidente stradale e la condanna. Edmundo ha litigato con avversari, compagni di squadra, con l’amico Romario, prendendo decine di espulsioni. È anche finito agli arresti domiciliari per aver preso a calci un cameramen. Ma l’episodio che lo ha segnato è del 95, poco prima di Natale, quando causa un gravissimo incidente stradale a Rio. Tre persone morte: una ragazza che viaggiava in macchina con lui e una coppia che era nell’altra auto. Nel 2011 viene condannato a quattro anni e mezzo di semilibertà per omicidio colposo e lesioni, ma dopo innumerevoli ricorsi evita il carcere grazie alla prescrizione.

Josè Altafini. Maurizio Caverzan per “La Verità” il 21 novembre 2021. (…)

Alla sua età ha bisogno lavorare?

«Gandhi diceva che l'uomo deve lavorare fino all'ultimo respiro. E poi, quando sto fermo, mi annoio. Il mio ufficio è l'auto, guidare mi dà un senso di libertà come dice quella canzone di Fabio Concato, Guido piano. Appena sono in macchina mi sento un altro, mi allontano dai casini. È il mio modo di vivere, sono andato dieci volte da Torino a Malaga».

Viaggio bello lungo.

«Quasi duemila chilometri. Ho una zia che vive lì e faccio un po' di vacanza, la Spagna mi piace. Da quando c'è la pandemia non ci sono più andato. Scusa, non è che stai scrivendo il mio coccodrillo?» (ride). 

Macché coccodrillo. Come mai vive ad Alessandria?

«A Torino non stavo così bene. Alessandria è strategica per andare in Liguria, in Toscana, a Torino e Milano». 

Un paio di settimane fa è andato in un paesino della provincia di Rovigo per ricevere la cittadinanza onoraria.

«Sì. A Giacciano con Baruchella, dov' è nato mio nonno paterno. È la seconda onorificenza che prendo, l'altra me l'hanno data a Caldonazzo, dov' è nata la nonna materna». 

Perché vuole che le sue ceneri siano sparse nel Po?

«Tanti dicono che vogliono farle gettare in mare, ma io ho sempre vissuto vicino ai fiumi. E allora voglio che siano sparse nel Po, così arrivano in Polesine e al mare. E magari fino in Brasile». 

Si sente più italiano o brasiliano?

«Mi sento un uomo del mondo. Sono nato là e sono un patriota, ma in Italia ho vissuto tante belle cose, ho conosciuto l'amore. L'Italia è gemella del Brasile, ha la stessa indole, l'allegria, la gente affettuosa». 

Ad Alessandria è nato Gianni Rivera con il quale vinse la Coppa dei campioni del 1963. La doppietta contro il Benfica sono i gol più importanti della sua carriera?

«Sono importanti perché hanno portato la prima vittoria europea di una squadra italiana. Come per il Brasile che ha vinto cinque mondiali, ma quello del 1958 è il più importante. Ci fu una festa fantastica perché la Seleção aveva perso la finale del 1950 con l'Uruguay. Quando arriva il momento delle coppe mostrano spesso quei gol. Per fare il secondo ho rubato la palla a Rivera che l'aveva intercettata a centrocampo, ma io ero più avanti e sono corso verso la porta». 

Era più veloce di Rivera?

«Lo disse anche Cesare Maldini. I difensori del Benfica non sono riusciti a prendermi, come i contadini che non riuscivano ad acciuffarmi dopo che avevo rubato le arance». 

Ha giocato con Milan, Napoli e Juventus: dove si è trovato meglio?

«Ho sempre amato il calcio. Volevo giocare nella squadra della mia città, Piracicaba, che militava in serie A. Fare il calciatore e restare vicino agli amici. Invece Dio mi ha premiato ancora di più. Sono arrivato al Milan a vent' anni e ho vinto scudetto, Coppa dei campioni, classifica cannonieri. A Napoli non ho vinto niente, ma con Sivori mi divertivo. Allo stadio c'erano sempre 80.000 persone, in trasferta 10.000. A 34 anni sono andato alla Juventus perché volevo giocare di nuovo la Coppa dei campioni. Mi sono divertito in tutti tre i posti». 

Come mai ha giocato anche nel Chiasso?

«L'ultimo anno alla Juventus avevo deciso di fermarmi e di giocare solo un mese nella squadra italiana di Toronto. Invece venne il presidente del Chiasso che mi propose un anno nella serie B svizzera. Misi delle condizioni: "Mi alleno con la Juventus e vengo da voi per la partita". Accettarono e il Chiasso fu promosso. A chi ama il calcio non importa se gioca in serie A, B o C». 

È stato compagno di grandi numeri 10: Pelè, Rivera, Sivori.

«Ho giocato con tutti i grandi, Garrincha, Didì, Liedholm, Zoff, Capello, Bettega. Quando arrivai al Milan di Maldini e Schiaffino dissi che ero venuto per imparare. A 38 anni partecipai alla partita Anderlecht contro Resto del mondo per l'addio al calcio di Paul Van Himst, il Pelè bianco. L'attacco del Resto del mondo era formato da Amancio, Eusebio, Altafini, Pelè e Cruijff». 

Perché Pelè è il più grande?

«Rasentava la perfezione. Era veloce, giocava bene di testa, destro e sinistro erano uguali al 100%. Chi ha giocato con lui non può paragonarlo ad altri». 

S' impose con la ginga, che cos' era esattamente?

«Era una tecnica della capoeira. Ma è un'invenzione di quel film che lui usasse la ginga. Una falsità insieme ad altre». 

Tipo?

«Che sua madre lavorava a casa mia perché io ero di famiglia ricca. Non abitavo neanche nella sua città ed ero povero quanto lui. Ero suo amico, tra noi non c'era rivalità come insinua il film. Lo ammiravo allora come adesso». 

Come mai suo zio le fece da procuratore?

«In Brasile c'erano già i procuratori, in Italia no. Mio zio fu uno dei primi e mi ha assistito per il contratto con il Milan». 

Ha fatto qualche errore o lei è stato troppo poetico nella gestione dei soldi?

«Non è questione di essere troppo poetico. In un anno non guadagnavo quello che oggi si guadagna in un mese. I contratti erano lordi, con le tasse al 42%. Con quello che restava dovevo aiutare la mia ex moglie. L'altro sbaglio è stato il contratto in cruzeiro che si svalutò subito».

Tornasse indietro che cosa non farebbe?

«Molte cose. Ho fatto 309 gol, avrei potuti farne un centinaio in più. Sarei più consapevole e rispettoso delle società per le quali gioco. Ero un ragazzino e di qualcosa sono pentito, ma in quel momento ero felice». 

Questo è molto brasiliano.

«Basta pensare a Ronaldinho e Adriano. Se fossi stato loro assistente avrei saputo consigliarli. Ti ricordi Edmundo o Animal quando giocava nella Fiorentina? Spariva per il Carnevale. Se dà i consigli giusti il procuratore può far guadagnare tanti soldi ai suoi giocatori». 

Ora è una figura poco popolare.

«Ci sono mamme e mogli che prendono decine di milioni di commissioni sul contratto del figlio o del marito».

Poi c'è il caso di Gigio Donnarumma.

«A volte i procuratori provocano la rottura con la società per far vendere il giocatore e guadagnare». 

Mino Raiola segue anche Zlatan Ibrahimovic, un grande campione che ha giocato in tutti i grandi club, ma a forza di cambiare non ha mai vinto la Champions.

«Per la bravura di certi procuratori si vedono cose strane. Cristiano Ronaldo alla Juventus è costato un patrimonio e non ha vinto la Champions. Dani Alves a 38 anni è tornato al Barcellona. Una volta presidenti come Andrea Rizzoli, Angelo e Massimo Moratti, Dino Viola e Paolo Mantovani rispondevano dell'andamento della società perché mettevano i loro soldi. Ogni acquisto era verificato. Oggi comandano i manager che se ne vanno con la società in deficit e prendono lo stesso la liquidazione».

La sua carriera di commentatore avrebbe potuto durare di più?

«Penso di sì, ma in Italia a volte si guarda più all'età che alla competenza. Raimondo Vianello prima e adesso Maurizio Costanzo dimostrano che conta di più la competenza. La Rai ha accantonato Bruno Pizzul che sarebbe ancora migliore di tanti giovani. Io ho lavorato in tutte le televisioni. Ho cominciato a Telealtomilanese con Luigi Colombo, poi sono andato a Telemontecarlo. Siamo stati i primi a fare la telecronaca a due voci». 

Ha inventato il golaço.

«L'ho importato dal Sudamerica. Il telecronista deve fare spettacolo. Quando ero a Sky una volta Fedele Confalonieri mi chiese: "Josè, oggi che manuale di calcio usi?". "Presidente, perché non mi chiama a Mediaset?". Ma quando incontrai il direttore dello sport mi disse che non poteva prendere uno della mia età perché non avrebbe saputo come giustificarlo a Pier Silvio. Berlusconi ha aiutato tanta gente, non me. Ma non sono indispettito, la mia è una vita bellissima». 

Le telecronache di oggi le piacciono?

«Alcuni commentatori sono preparati, ma non hanno fantasia. Io dicevo che dove giocava Roberto Baggio nascono i fiori». 

Come mai nel giro di tre mesi la Nazionale ha perso il filo del gioco?

«Mancini sta facendo un bel lavoro, però manca un po' di esperienza. Ci siamo adagiati sugli allori, è tipico dei giovani. Anche a me è capitato, ma ho avuto la fortuna di incontrare campioni e uomini veri. Ricordo che giocavo nel Palmeiras e adoravo Zizinho, nazionale della Seleçao 1950. In una partita eravamo avversari, lui a 38 anni, io ragazzino. Prendo la palla a centrocampo e lui mi atterra, ma allunga la mano e mi aiuta a rialzarmi: "Scusa ragazzo, dovevo farlo". La semplicità e la modestia non s' impara sui libri».

Quella semplicità c'è ancora?

«Non c'è più. Ultimamente ho rivisto Baggio e ci siamo abbracciati. Con Cristiano Ronaldo non sarebbe possibile. È ammiratissimo, ma distante. I campioni di oggi sono blindati, ci sono gli sponsor, gli agenti, gli uffici stampa. Noi quando uscivamo da Milanello passavamo in mezzo alla folla». 

In Italia ci sono troppi stranieri e si fatica a far crescere i nostri talenti?

«Anche in Europa. Quanti giocatori di colore ci sono? Senegalesi, congolesi, ivoriani non tutti valgono il prezzo. Tanti stanno in panchina e non entrano mai, li prendono per far girare i soldi».

È per questo che attaccanti come Gigi Riva, Pierino Prati e Pippo Inzaghi stentano a emergere?

«Dobbiamo plasmare un centravanti che si faccia rispettare anche con il fisico, come Ibrahimovic. Balotelli potrebbe, ma non ha la testa». 

Lei aveva potenza e astuzia, qual è la dote principale che deve avere un bomber?

«Il goleador ha l'istinto. Inzaghi non partecipava alla manovra, CR7 neanche, eppure... Pelè giocava con la squadra, quando aveva la palla sul destro teneva il difensore a sinistra e viceversa. Una volta ho detto a Riva: "Se avessimo giocato con questi palloni e questi campi, quanti gol avremmo fatto?"».

Chi è l'allenatore che le piace di più?

«Il migliore del mondo è Guardiola. In Italia Trapattoni, Capello e Lippi sono stati molto bravi». 

Il suo pronostico per lo scudetto?

«Si decide a marzo. Ci sono tante variabili, i giocatori infortunati, gli allenatori che sbagliano. Per me l'Inter è più forte dell'anno scorso. Poi bisogna vedere se il Milan riesce a gestire i giovani e il Napoli tiene. La Juventus mi sembra troppo indietro. Ma tu devi dirmi una cosa». 

Prego.

«Questo non è coccodrillo, vero?».