Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

SOSTIENI UNA VOCE VERAMENTE LIBERA CHE DELLA CRONACA, IN CONTRADDITTORIO, FA STORIA

NOTA BENE PER IL DIRITTO D'AUTORE

 

NOTA LEGALE: USO LEGITTIMO DI MATERIALE ALTRUI PER IL CONTRADDITTORIO

LA SOMMA, CON CAUSALE SOSTEGNO, VA VERSATA CON:

SCEGLI IL LIBRO

80x80 PRESENTAZIONE SU GOOGLE LIBRI

presidente@controtuttelemafie.it

workstation_office_chair_spinning_md_wht.gif (13581 bytes) Via Piave, 127, 74020 Avetrana (Ta)3289163996ne2.gif (8525 bytes)business_fax_machine_output_receiving_md_wht.gif (5668 bytes) 0999708396

INCHIESTE VIDEO YOUTUBE: CONTROTUTTELEMAFIE - MALAGIUSTIZIA  - TELEWEBITALIA

FACEBOOK: (personale) ANTONIO GIANGRANDE

(gruppi) ASSOCIAZIONE CONTRO TUTTE LE MAFIE - TELE WEB ITALIA -

ABOLIZIONE DEI CONCORSI TRUCCATI E LIBERALIZZAZIONE DELLE PROFESSIONI

(pagine) GIANGRANDE LIBRI

WEB TV: TELE WEB ITALIA

108x36 NEWS: RASSEGNA STAMPA - CONTROVOCE - NOTIZIE VERE DAL POPOLO - NOTIZIE SENZA CENSURA

 

ANNO 2021

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Circo.

Superstizione e fisse.

Gli Zozzoni.

Le Icone.

Le Hollywood d’Italia.

«Gomorra», tra fiction e realtà.

Quelli che …il calcio.

I Naufraghi.

Amici: tutto truccato?

Il Grande Fratello Vip.

"I tormentoni estivi? Sono da 60 anni specchio dell'Italia".

Le Woodstock.

Rap ed illegalità.

L’Eurovision.

Abella Danger e Bella Thorne.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Volpe.

Adriano e Rosalinda Celentano.

Aerosmith.

Aida Yespica.

Afef.

Alanis Morissette.

Alba Parietti.

Alba Rohrwacher.

Al Bano Carrisi.

Alda D’Eusanio.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale & Franz.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Borghese.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Nivola.

Alessia Marcuzzi.

Alessio Bernabei.

Alfonso Signorini. 

Alice ed Ellen Kessler.

Alina Lopez e Emily Willis.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amouranth, alias Kaitlyn Siragusa.

Andrea Balestri.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sannino.

Angela White.

Angelina Jolie.

Anya Taylor-Joy.

Anna Falchi.

Anna Oxa.

Annalisa Minetti.

Anna Maria Rizzoli.

Anna Tatangelo.

Anna Mazzamauro.

Anthony Hopkins.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Mosetti.

Antonello Venditti.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Costantini Awanagana.

Antonio Mezzancella.

Antonio Ricci.

Arisa.

Asia e Dario Argento.

Aubrey Kate.

Baltimora.

Barbara De Rossi.

Barbara d'Urso.

Beatrice Rana.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta D’Anna.

Benedicta Boccoli.

Bill Murray.

Billie Eilish.

Björn Andrésen.

Bob Dylan.

Bobby Solo, ossia: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brandi Love.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Camilla Boniardi: Camihawke.

Can Yaman.

Capo Plaza, nato come Luca D'Orso.

Cara Delevingne.

Carla Gravina.

Carlo Cracco.

Carlo Verdone.

Carlotta Proietti.

Carmen Consoli.

Carmen Russo e Enzo Paolo Turchi.

Carol Alt.

Carolina Marconi.

Catherine Spaak.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina De Angelis e Margherita Buy.

Caterina Lalli, in arte Lialai.

Caterina Murino.

Caterina Valente.

Cecilia Capriotti.

Chadia Rodriguez.

Charlotte Sartre.

Chloé Zhao, regista Premio Oscar.

Christian De Sica.

Claudia Koll.

Cristian Bugatti in arte Bugo.

Cristiano Malgioglio.

Clara Mia.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Motta.

Claudia Pandolfi.

Claudia Schiffer.

Claudia Koll.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Santamaria.

Coma_Cose.

Cosimo Fini, cioè Gué Pequeno.

Corinne Clery.

Daft Punk.

Damon Furnier, in arte Alice Cooper.

Daniela Ferolla.

Dario Faini, Dardust e DRD.

Demi Lovato.

Demi Moore.

Demi Sutra.

Deep Purple.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dori Ghezzi vedova De André.

Dredd.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Vianello.

Eddie Murphy.

Elena Sofia Ricci.

Eleonora Cecere.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio (Stefano Belisari) e le Sorie Tese.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elena Anna Staller, detta Ilona (il nome della madre) o Cicciolina.

Elodie.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emma Marrone.

Emily Ratajkowski.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi: Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eva Grimaldi.

Eveline Dellai.

Ezio Greggio.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Faber Cucchetti.

Fabio Marino.

Fabio Testi.

Fanny Ardant.

Federico Quaranta.

Federico Salvatore.

Filomena Mastromarino: Malena.

Fedez e Chiara Ferragni.

Fiorella Mannoia.

Flavia Vento.

Flavio Insinna.

Francesca Alotta.

Francesca Cipriani.

Francesca Giuliano.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Pannofino.

Francesco Sarcina.

Franco Oppini.

Franco Trentalance.

Frank Matano.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Lavia.

Gabriele Paolini.

Gabriele Salvatores.

Gene Gnocchi.

Gerry Scotti.

Giancarlo Magalli.

Giancarlo ed Adriano Giannini.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi D'Alessio.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Veronesi.

Giucas Casella.

Giulia De Lellis.

Giuliano Montaldo.

Giulio Mogol Rapetti.

Giuseppe Povia.

Greta Scarano.

Harvey Keitel.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hugh Grant.

Gli Stadio.

I Dik Dik.

I Duran Duran.

I Jalisse.

I Gemelli di Guidonia.

I Pooh.

I Righeira.

I Tiromancino.

Iggy Pop.

Ilaria Galassi.

Ilary Blasi.

Ilenia Pastorelli.

Irina Shayk.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

J-Ax.

James Franco.

Jamie Lee Curtis.

Jane Fonda.

Jean Reno.

Jenny B.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Drake.

Jessica Rizzo.

Joan Collins.

Jo Squillo.

John Carpenter.

Johnny Depp.

José Luis Moreno.

Junior Cally.

Justine Mattera.

Gabriele Pellegrini: Dado.

Giovanni Scialpi, in arte Shalpy.

Kabir Bedi.

Kayden Sisters.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Kate Winslet.

Katherine Kelly Lang- Brooke Logan.

Katia Ricciarelli.

Kazumi.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kissa Sins.

Lady Gaga.

La Gialappa's Band.

La Rappresentante di Lista.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Pausini.

Le Carlucci.

Lele Mora.

Lello Arena.

Leo Gullotta.

Liana Orfei.

Licia Colò.

Lillo (Pasquale Petrolo) & Greg (Claudio Gregori).

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Liza Minnelli.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Jovanotti Cherubini.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Bizzarri.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luca Ward.

Luce Caponegro: Selen.

Luciana Littizzetto.

Luciana Savignano.

Luciano Ligabue.

Lucrezia Lante della Rovere.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Maccio Capatonda (all'anagrafe, Marcello Macchia).

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Maitland Ward.

May Thai.

Malika Ayane.

Maneskin.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Castoldi in arte Morgan.

Marco e Dino Risi.

Marco Giallini.

Marco Mengoni.

Marco Tullio Giordana.

Maria Bakalova.

Maria De Filippi.

Maria Giuliana Toro: «nome d' arte», Giuliana Longari.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Luisa “Lu” Colombo.

Maria Pia Calzone.

Marianna Mammone: BigMama.

Marica Chanelle.

Marilyn Manson.

Mario Maffucci.

Marina La Rosa.

Marina Perzy.

Marisa Laurito.

Martina Cicogna.

Martina Colombari.

Massimo Boldi.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Massimo Wertmüller.

Matilda De Angelis.

Maurizio Aiello.

Maurizio Battista.

Maurizio Milani.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Pezzali.

Mel Brooks.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael J. Fox.

Michael Sylvester Gardenzio Stallone.

Michele Foresta, in arte Mago Forest.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosé.

Milena Vukotic.

Milton Morales.

Mikhail Baryshnikov.

Mina.

Miriam Leone.

Mistress T..

Mita Medici.

Myss Keta.

Modà.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

Monica Vitti.

Nada.

Naike Rivelli ed Ornella Muti.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Naomi Campbell.

Nek.

Nicola Di Bari.

Nicolas Cage.

Nicole Aniston.

Nina Moric.

Nino D’Angelo.

Nino Frassica.

Nick Nolte.

Nyna Ferragni.

Noemi.

99 Posse.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Portento.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino, meglio nota come Insta_Paolina.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Fox.

Paolo Rossi.

Paolo Sorrentino.

Paris Hilton.     

Pasquale Panella alias Vito Taburno.

Patrizia De Blanck.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Pedro Almodóvar.

Peppe Barra.

Peppino di Capri.

Phil Collins.

Pietra Montecorvino.

Pierfrancesco Favino.

Pier Francesco Pingitore.

Piero Chiambretti.

Pietro Galeotti.

Pino Donaggio.

Pio e Amedeo.

Pietro e Sergio Castellitto.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones Jr.

Rae Lil Black.

Rajae Bezzaz.

Raffaella Carrà.

Raffaella Fico.

Red Ronnie.

Regina Profeta.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Fabbriconi: Blanco.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Richard Benson.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Ora.

Robert De Niro.

Roberto Da Crema.

Roberto Vecchioni.

Robyn Fenty, in arte Rihanna.

Rocco Maurizio Anaclerio, in arte Dj Ringo.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Roberto Bolle.

Rodrigo Alves.

Rosalino Cellamare: Ron.

Rosario Fiorello.

Rowan Atkinson.

Sabina Guzzanti.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sal Da Vinci.

Salma Hayek.

Salvatore Esposito.

Sandra Milo.

Sara Croce.

Sara Tommasi.

Sarah Cosmi.

Scarlit Scandal.

Serena Autieri.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio Rubini.

Shaila Gatta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvio Orlando.

Simona Izzo e Ricky Tognazzi.

Simona Marchini.

Simona Tagli.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Sylvie Lubamba.

Sylvie Vartan.

Sophia Loren.

Stefania Casini.

Stefania Orlando.

Stefania e Amanda Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Stefano e Frida Bollani.

Stefano Sollima.

Steven Spielberg.

Sting.

Taylor Swift.

Teo Teocoli.

Terence Hill, alias Mario Girotti.

Terence Trent d’Arby, ora Sananda Maitreya.

Teresa Saponangelo.

Tilda Swinton.

Tim Burton.

Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno.

Tina Turner.

Tinì Cansino.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tommaso Paradiso.

Toni Ribas.

Toni Servillo.

Tony Renis.

Tosca D’Aquino.

Tullio Solenghi.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Val Kilmer.

Valentina Lashkéyeva. In arte: Gina Gerson.

Valentina Nappi.

Valentine Demy.

Valeria Golino.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valerio Lundini.

Valerio Staffelli.

Vasco Rossi.

Veronica Pivetti.

Village People.

Vina Sky.

Vincent Gallo.

Vincenzo Salemme.

Vittoria Puccini.

Vittoria Risi.

Zucchero Fornaciari.

Wanna Marchi e Stefania Nobile.

Wladimiro Guadagno, in arte Luxuria.

Willie Nelson.

Willie Peyote.

Will Smith.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figure di m…e figuranti.

Non sono solo canzonette.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed ultima Serata.

Sanremo 2022.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…scrivono.

Quelli che….la Paralimpiade.  

Quelli che…l’Olimpiade.

L’omertà nello Sport.

Autonomia dello sport? Peggio della Bielorussia.

Le Plusvalenze.

Le Speculazioni finanziarie.

Gli Arbitri.

I Superman…

Figli di Papà.

Quelli che …ti picchiano.

Quelli che … l’Ippica.

Quelli che … le Lame.

Quelli che …i Motori.

Quelli che …il che Ciclismo.

Quelli che …l’Atletica.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che ...la Palla ovale.

Quelli che …la Pallacanestro. 

Quelli che …la Pallavolo.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Vela.

Quelli che …i Tuffi. 

Quelli che …il Nuoto. 

Quelli che …gli Sci.

Quelli che …gli Scacchi. 

Quelli che… al tavolo da gioco.

Il Doping.

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Faber Cucchetti.

Maria Egizia Fiaschetti per roma.corriere.it il 7 febbraio 2021. Una vita da romanzo (e chissà che prima o poi non si decida a scriverlo). Da Ulisse in consolle, guidato dal Grande carro del destino. Nazionale juniores di nuoto, prima di tuffarsi sulla pista da ballo si allena con la società «Sergio De Gregorio», dove cura il giornalino Rimonta distribuito in piscina. Il caso vuole che il tipografo che lo stampa sia anche l’editore originario di Radio Dimensione Suono: «Nel ‘78 mi invitò a parlare nella sua rete, poco più che neonata - racconta Faber Cucchetti, 61 anni, decano dei dj sul dancefloor e al microfono - . Iniziai con il programma Rock, rockaccio e roccone che mi dava la possibilità di esprimermi... Da lì è partita la mia carriera» (qui la playlist SottoTraccia Sound System). L’anno dopo, malgrado la scarsa esperienza, esordisce all’Alibi: «Chi arriva alla disco music dal rock è avvantaggiato perché conosce la struttura dei pezzi. Appresi la tecnica da Pietro Micioni, che nel frattempo era stato chiamato al Much More. L’Alibi era un locale gay a tutti gli effetti, se la batteva con l’Easy Going dove il pubblico preferiva una musica più morbida... Io avevo i gay con i baffi e i pantaloni di cuoio che cercavano un suono più duro». Quando alla fine del ‘79 la discoteca chiude si trova a lavorare in realtà meno importanti finché grazie a Claudio Casalini, titolare del negozio Best Record (all’epoca sono i proprietari dei locali a comprare i dischi), riceve un invito per Pescara. L’esperienza dura un mese: «Tornato a Roma venni catapultato in una discoteca di Capri, sotto un hotel importante... la cassiera era la sorella di Peppino Di Capri. Mi trattavano come uno sguattero, dormivo in un sottoscala e mi venne la scabbia. La sera il locale era deserto, gli isolani mi conoscevano perché al mattino mi vedevano correre fino ai Faraglioni e nuotare per ore». A salvarlo è ancora una volta Casalini: «Mi dice che al Much More cercano il sostituto di Pietro Micioni, pronto per approdare al Piper. Faccio le valigie e mi presento al provino». Il talent scout è il press agent della Dolce Vita Enrico Lucherini: «Gli piacqui subito, ma non era un esperto di musica. Misi Upside down di Diana Ross e dopo 45 secondi me lo fece togliere: “Qui niente reggae”. Sapevo di avere buone chance di venire preso e non replicai». Nell’83 lancia il primo programma di musica mixata in radio, «Dimensione dance», con 600mila ascoltatori medi: «Fino a quel momento la mia palestra era stata la discoteca. Imparai sul campo, non ho mai provato i cambi a casa, l’orecchio ce l’hai e basta». Uscito dall’emittente nell’89, nel ‘91 riunisce un gruppo di dj nel progetto «Mix Fm», una costola di «Voglia di Radio» in onda dalle 21 alle 6, alternativo a «Centro Suono Rave» che vede protagonista il fratello, Luca Cucchetti. A riunirli sarà il programma «Power Station» inaugurato poco dopo al Qube: «Facevamo radio da una vetrata con il pubblico che ballava in pista». Ingaggiato nel’95 dal network milanese One-O- One, dopo tre anni la sua attitudine lo spinge altrove: «Non mi trovai molto a mio agio, tornai a Roma per rifondare una radio piena di anima, seppure di nicchia». L’ultima esperienza con Andrea Torre, «Cdr», in un locale all’Ostiense non decolla: «Non puoi competere in Formula Uno se non sei al volante di una Ferrari. Ci siamo auto-ghettizzati e mi sono reso conto che per la radio non c’erano più possibilità». La sua rinascita è a Santo Domingo, dove segue un amico in vacanza per scrollarsi di dosso i pensieri negativi e trovare nuova linfa: «Ho venduto l’intera collezione di vinili, oltre 30mila, tutte le cassette originali di Dimensione Dance, ho messo da parte un gruzzolo e dopo aver fatto su e giù per un periodo mi sono trasferito definitivamente». In Italia, prima della pandemia, tornava sei-sette volte l’anno per serate revival con 1.400 persone al Piper e in altri locali: «Un’atmosfera incredibile, se il cinquanta-sessantenne si trova circondato da coetanei scatta una magia che altrimenti non si crea». Da quando tutto è bloccato a causa dell’emergenza sanitaria anche sull’isola caraibica le sue attività, di guida turistica e fotografo, sono ferme: «Sono grato alle persone che, appassionate della mia musica, pur non conoscendomi personalmente in questi mesi mi hanno sostenuto. Non lavoro dallo scorso 28 febbraio, senza di loro sarei finito in mezzo a una strada». Tra i mille lavori, ha riscoperto l’antica passione per il giornalismo collaborando con la testata online Roma.com. Arrivato all’apice della carriera con «la dimostrazione di scratch» negli anni Ottanta a Domenica In, condotta da Pippo Baudo, è stato tra i giganti di quella temperie culturale e musicale assieme a Marco Trani: «Eravamo i due più importanti, ma tra noi non c’era rivalità. Lui suonava nel club, io nelle grandi discoteche. Io pensavo a lanciare i dischi, a creare i miei format, lui era un artista al cento per cento».

·        Fabio Marino.

Luca Giampieri per “la Verità” il 7 febbraio 2021. Charles Bukowski, poeta e scrittore statunitense, viveva nell'ossessione di aver fatto spreco delle sue mani impiegandole in azioni di poco conto, finanche triviali: dal firmare assegni a grattarsi, letteralmente, «le palle». Se il romanziere il cui ruvido genio ha graziato metà del Secolo scorso fosse stato graziato di rimando da una spiccata longevità, probabilmente avrebbe saputo magnificare le doti manuali di Fabio Marino. Classe 1967, impiegato amministrativo part-time, Marino è il manista più ambito d'Italia. Per chi ignorasse l'esistenza di tale professione, il suo lavoro consiste nel prestare le mani per campagne pubblicitarie destinate a giornali e televisioni. In breve, la gran parte delle estremità maschili che avete incrociato negli ultimi 15 anni sulle pagine delle riviste o nelle réclame del piccolo schermo appartengono a lui. Le dita che sapientemente accarezzavano le cialde del caffè in un noto spot con protagonista George Clooney? Sono le sue. Tra i nomi noti che hanno preso a nolo le sue mani curate al millimetro, anche l'attore Claudio Santamaria e il campione del mondo Gianluca Zambrotta. Che si tratti di gioielli, telefonia mobile, istituti di credito o salse in barattolo, non fa alcuna differenza. La sua egemonia è trasversale. A spartirsi ciò che rimane, una decina di concorrenti, nemmeno. «Il mio nome è sinonimo di garanzia», assicura il modello milanese non senza un pizzico di motivata superbia. «I clienti dicono che ho le mani di gomma perché "come le metti stanno". Questo per loro è importantissimo, perché significa non perdere tempo. Per me è il miglior complimento». Nelle librerie è appena uscito Oltre le mani c'è di più (Edizioni Italia), prima autobiografia di un manista che ha deciso di dare alle mani un volto.

Quando confessa di fare il manista, la gente come reagisce?

«Non appena si rende conto del significato, istintivamente la maggior parte nasconde le mani e comincia a fissare le mie per valutare le differenze. È in imbarazzo, si sente giudicata».

Come si è accorto di avere un tesoro tra le mani?

«Grazie a un'agenzia di comparse per la quale lavoravo con l'obbiettivo di entrare nel mondo del cinema e della pubblicità. Un giorno cercavano un manista per uno spot; avendo visto le mie mani, mi chiesero se volevo propormi. Accettai e mi si aprì un mondo».

Qual è la mano perfetta?

«Oltre alla bellezza, che è basilare, contano molto le misure. Se la mano è troppo grande l'oggetto si perde, viceversa non risalta nelle sue vere dimensioni. Dopodiché niente calli, unghie impeccabili Non mi troverà mai con le mani in disordine, anche se non ho lavori in vista. Capita che il cliente chiami e ti chieda di mandargli le foto su Whatsapp».

Il numero uno in Italia deve mandare le foto su Whatsapp?

«Più la foto è recente, più il cliente è tranquillo. Accade spesso. Anche con pretese bizzarre. Una volta mi chiesero di riprendermi mentre tenevo le mani sotto l'acqua corrente».

Addirittura.

«Nella pubblicità doveva esserci una mano sotto un rubinetto, quindi volevano vedere l'effetto. Probabilmente per il fatto che il getto d'acqua distorce lievemente le forme. Ora s' immagini il sottoscritto nel bagno di casa che con una mano fa il video mentre l'altra è sotto il rubinetto».

Come si misura il talento di un manista?

«Dal modo in cui usa le mani. Devono recitare, esprimere un concetto, un'idea. L'estetica, da sola, non basta».

Le capita di soffermarsi sulle mani degli altri?

«Altroché. Ovviamente nelle pubblicità mi cade sempre l'occhio, ma anche in giro. Quando qualcuno mi dà la mano, io gli faccio la radiografia. Per me è il biglietto da visita di una persona. Anche se, di questi tempi, la stretta di mano è un lontano ricordo».

Scorge mai qualche potenziale concorrente per la strada?

«Sinceramente? No».

Sono così rare le mani belle?

«Lei non sa quanti mi contattano sui social allegando foto delle mani, magari spinti dalla fidanzata, convinti che siano perfette. Purtroppo, c'è sempre qualche difetto. Tempo fa, un ragazzo mi scrisse che voleva fare il manista perché tutti gli dicevano che aveva delle mani splendide. Mi trattenni dal fare commenti spiacevoli, ma gli domandai se avesse mai visto le mani utilizzate nelle pubblicità».

Perché?

«Erano pelosissime. Lei ha mai visto una mano pelosa in uno spot? A me è capitato di dover depilare anche l'intero braccio per una pubblicità di lampade. Per tre mesi sono andato in giro con un braccio glabro e uno peloso».

Tra i nostri politici intravede qualche diamante grezzo?

«Direi proprio di no».

Le mani di Giuseppe Conte, per esempio. Fra telegiornali e conferenze stampa, in questi mesi lo abbiamo visto in tutte le salse.

«Sì, ecco, non sono così malvagie».

Dice che avrebbe già pronto un piano b?

«Oddio Io non lo riciclerei neanche come manista».

Senta, le sue mani varranno un patrimonio.

«Se si riferisce all'assicurazione, siamo oltre i 100.000 euro. Il mio cachet è di circa 100 euro l'ora. Rispetto ad altri lavori come modello classico, con le mani si guadagna di più».

Chiara Biasi, influencer, una volta disse che per meno di 80.000 euro non si alzava nemmeno dal letto.

«Pur trattando tutt'altre cifre, mi è capitato di dire la stessa cosa ai clienti. Ormai lo sanno, se hanno un budget limitato evitano di chiamarmi».

Va detto, mi consenta, che la sua è un'impresa senza costi.

«È vero. Ho la fortuna di avere delle mani che sono belle di natura e non si rovinano facilmente. L'unica spesa è per le creme. Se le mandassi una foto adesso, penserebbe che sia appena uscito dall'estetista».

Ci va?

«Di rado. Faccio quasi tutto da solo».

Ha un incubo ricorrente?

«Rovinarmi le mani prima di un lavoro. Anni fa lo sognavo spesso, ora mi capita di meno, ho imparato i trucchi del mestiere per nascondere i piccoli segni. L'uso del fondotinta, per esempio».

Il resto lo fa Photoshop?

«Si utilizza solo in casi eccezionali. Anche perché altrimenti che senso avrebbe ingaggiare un manista? È meglio non procurarsi danni evidenti, se si tiene a questa carriera».

In che senso?

«Basta mandare a monte un lavoro perché le agenzie ti mettano una croce sopra. Come succede ai tenori della Scala quando steccano».

Lei non ha mai steccato?

«Mai. Sono sempre stato attento. È una questione di professionalità».

Si sarà procurato qualche graffietto. L'ultimo a quando risale?

«Natale, credo. Ma poca roba, e non avevo lavori in vista. Un po' di Connettivina e si è cicatrizzato al volo».

Suppongo che non possieda animali domestici.

«Ho due cani. Ma sanno che non devono mordere le mani; quando li porto fuori indosso i guanti, anche d'estate. Li uso parecchio in generale, perfino in casa se devo fare dei lavoretti; infatti ho sempre le mani più chiare rispetto al resto del corpo. L'abbronzatura non è molto gradita».

Se si esclude la dieta, lei ha una disciplina da sportivo.

«In realtà una dieta ce l'ho. Scegliere cosa mangiare e cosa bere fa la differenza anche in termini di pelle. Cerco di seguire un'alimentazione il più possibile regolare. Ma non mi costa fatica, per me è routine».

Quando torna a casa dal lavoro ha le mani stanche?

«Sì. A volte capitano anche i crampi. Magari perché il cliente non è sicuro di come vuole una scena e mi tocca rifarla di continuo tenendole in posizioni del tutto innaturali. Per la campagna di un antidolorifico solubile, volevano che la polverina scendesse in un determinato modo: né troppo, né troppo poco, con un movimento stabile e costante. Non le dico quante volte me l'hanno fatta ripetere».

L'ingaggio più lungo?

«Due giornate intere, per lo spot di un'app nel settore della ristorazione. Prestavo le mani a Luca Argentero».

Hanno voluto la controfigura per questioni estetiche o di espressività?

«Estetiche. Secondo i canoni del cliente, la mano non era perfetta. I grandi brand sono molto fiscali. Nel suo caso, non erano neanche mani bruttissime forse aveva le dita un po' grosse».

Ha notato qualche imbarazzo da parte sua?

«No, è una persona squisita. Per un volto noto, poi, non è che un vantaggio: alla sua bellezza si aggiunge quella della mia mano. E si prende tutto il merito».

Un po' le secca?

«A volte sì. Mi è capitato di prestare le mani a personaggi dei quali pensavo: se avessero usato la mia immagine, ci avrebbero guadagnato».

Sopra la testa di chiunque lavori con l'immagine incombe la spada di Damocle del tempo. Pensa mai al fatto che le sue mani invecchieranno?

«Sì, certo. Ma conosco già le cure per ringiovanirle».

Ovvero?

«C'è un trattamento che consiste nel prelevare del grasso da una zona del corpo per iniettarlo nella mano e riempire i solchi prodotti dal tempo. Madonna l'ha utilizzato».

Lei lo farebbe?

«Perché no?».

Conosce qualche manista rifatto?

«Che io sappia no, ma sono tanti gli uomini e le donne che ricorrono a tale tecnica. Me ne parlò qualche anno fa il dottor Marco Lanzetta, chirurgo della mano. È lo specialista che fece il primo trapianto da un cadavere a un essere vivente».

Tanti attori di pubblicità, col passare degli anni, finiscono a promuovere l'apparecchio acustico, o il farmaco per tenere a bada la prostata. È un'idea che la terrorizza?

«No, affatto. Se il cliente vorrà una mano vissuta, non avrò alcun problema a prestarmi. Ad esempio, ho fatto un lavoro in cui dovevo sorreggere nel palmo un diamante e volevano che fosse ben visibile la linea della vita. Ogni età ha un prodotto, e io sono convinto che ci sarà sempre spazio per una bella mano».

·        Fabio Testi.

Maria Elena Barnabi per Gente il 9 ottobre 2021. Una tenuta di 35 ettari nella campagna di Affi, sul Lago di Garda, euna casa di 200 metri quadrati con tavolo da biliardo e palestra: è il buen retiro di Fabio Testi, 80 anni freschi ad agosto. L’attore da un po’ ha lasciato Roma per vivere nella sua terra natia (è di Peschiera del Garda): sui suoi terreni scorrazza su una Dune Buggy, insieme ai suoi quattro cani (Balù, Apache, Maia e Cico). Lanciato da Vittorio De Sica nel 1970 ne Il giardino dei Finzi Contini, Testi ha una carriera artistica lunghissima, così come sterminato è l’elenco delle sue relazioni con donne bellissime e famose, oltre ai suoi due matrimoni. Siamo andati a trovarlo a casa sua, ed è stata l’occasione per fare quattro chiacchiere con lui.

Come le è venuta l’idea della tenuta?

«La terra era di mio nonno, ma poi andò persa. La ricomprai cinquant’anni fa per far felice mio padre. Era malato di tumore e dissero che sarebbe durato poco. Invece visse felicissimo per altri dieci anni». 

E la casa? 

«Vent’anni fa ho gettato le fondamenta, ma poi mi sono fermato. Uscito dal Grande Fratello, l’anno scorso ho ripreso in mano il progetto con uno studio di architettura, io sono geometra. Ho deciso di  mollare Roma ed eccomi qui».

Perché si è trasferito?

«Che rimanevo a fare a Roma? Metà dei miei amici sono morti. L’altra metà è andata a vivere all’estero». 

Non le manca la grande città?

«Per niente. Roma è una città difficile: incasinata, piena di traffico. Sporca». 

E come fa con il lavoro?

«Il cinema ormai è in crisi. E poi ora lavoriamo tutti da casa: se mi vogliono, sanno dove trovarmi indipendentemente dalla mia presenza fisica». 

In questa casa vive solo?

«Sì. Ho tre casali per i miei tre figli: una ci vive, mentre gli altri stanno uno a Singapore e l’altro a Londra. Quando vogliono, vengono a trovarmi. Mi piace molto stare con loro: il mio ottantesimo compleanno l’abbiamo trascorso tutti assieme, in famiglia, in piscina. Eravamo in venti».

A parte i parenti, altre visite?

«Se intende gli amici, quelli sì. In questa terra ci sono nato e cresciuto. Facciamo qualche rimpatriata con i miei amici d’infanzia. Quelli che sono rimasti, s’intende». 

E donne? È vero che è fidanzato con una sessuologa di 35 anni?

«Mi fa molto ridere questa storia della sessuologa, come se ne avessi bisogno... Oddio, non si smette mai di imparare, non ci sarebbe niente di male. Ma la mia amica non è sessuologa. Fa l’immobiliarista, si chiama Valentina, abita a Monte Carlo». 

Amica nel senso di “compagna”?

«Sì. Ci frequentiamo: un weekend viene lei e uno vado io. Ci siamo conosciuti per lavoro, mi ha proposto un business, e da cosa nasce cosa. A lei non interessa il cinema». 

È sempre stato un uomo bellissimo, desideratissimo dalle donne. L’ha aiutata sul set?

«Sul lavoro non vai avanti se non hai talento. Io ho fatto 102 film, in tutto il mondo, ho fatto tantissimo teatro, anche se nessuno se ne ricorda mai. Il francese è la mia seconda lingua, e recito anche in inglese e spagnolo. Insomma non sono solo bello».

E nella vita privata? La bellezza quanto conta?

«La bellezza ti aiuta perché ti fa crescere sicuro di te. E poi non ho mai dovuto mentire per sedurre. Ho visto uomini, registi e attori inventarsi tante di quelle balle pur di portarsi a letto qualcuna. Io no». 

Lei sul set ha avuto molte storie.

«Quando passi due mesi assieme giorno e notte capita. Il primario

va a letto con l’infermiera, il direttore di banca con la segretaria, l’attore con la collega. Mi sembra la cosa più normale del mondo». 

Forse normale per lei…

«Diciamo che è stata una vita fortunata: ho avuto modo di fare

tante belle esperienze con tante belle attrici. Ognuna di loro mi ha dato qualcosa, e io sono rimasto amico di tutte».

Facciamo un gioco. Tre aggettivi per alcune delle sue più celebri conquiste.Anita Ekberg?

«Statuaria, bellissima, infantile».

Infantile?

«Anita in fondo aveva un cuore da bambina, non era molto cresciuta. Era divertente perché era una donna enorme, e poi invece era così ingenua...».

Ursula Andress?

«Gelosa, insicura, cattiva attrice». 

Addirittura!

«Sul set era una bella donna e basta: Ursula non era portata per la recitazione. Non si voleva mettere in gioco, non voleva svelare i suoi sentimenti davanti alla macchia da presa. Era gelosa anche di quelli. È una donna di carattere, ma meglio come amica che comeamante: troppo possessiva. Ci conoscemmo sul set e passammo due mesi chiusi in albergo in Canada. I nostri tre anni assieme furono molto intensi». 

E Charlotte Rampling?

«Era introversa, problematica, acerba. Aveva avuto un’infanzia non proprio felice, e stava ancora cercando di capire chi era. Era in cammino. Poi io stavo a Roma, lei a Londra, non durò moltissimo». 

Perché lei ha avuto così tanto successo con le donne?

«Sono sempre stato sincero e tutte lo hanno apprezzato. Che senso ha mentire?».

Ha mai confessato un tradimento?

«La mia regola, a 20 anni come a 80, è: meglio una verità piccante che una bugia piatta».

·        Fanny Ardant.

Leonardo Martinelli per “La Stampa” il 31 maggio 2021. Appuntamento sulla panchina davanti alla Sorbona. Solo una delle ultime dive del cinema francese può fissare un'intervista con una mail del genere. Solo Fanny Ardant. La mattina è di una primavera che ti fa voglia di ritornare alla vita. E l'attrice, 72 anni, è puntuale, in quel giardino pubblico nel cuore di Parigi.

Combattiva, serena, cerebrale: l'anno della pandemia non l'ha scalfita.

«Con il primo confinamento, ho ricominciato a suonare il pianoforte. Io non suono molto bene. Mi piace Bach, perché la sua musica è strutturata: anche se gli fai del male, resta intatta».

Non si è rifugiata in una villa del Sud o in Normandia? Come tanti vip a Parigi.

«No, io sono una bolscevica pura e dura, non ho proprietà alla campagna».

A parte suonare Bach, cos' ha fatto nell'ultimo anno?

«Ho lavorato molto, su spettacoli teatrali, che sono stati annullati. Ma ho girato dei film».

Cinema dal 1 giugno. Com' è andata?

 «Era la prima volta che interpretavo un ruolo in cui tutto era improvvisato. E io non lo sopporto Maiwenn ha insistito, perché accettassi. Alla fine ho ceduto, ma le ho detto: a tuo rischio e pericolo. Lei, durante le riprese, aveva una forma di follia che ammiravo. Una determinazione, una violenza Ha un rapporto quasi di odio con la mamma e io nel film ero sua madre. A me non fa paura la violenza ed ero sorpresa dalle mie reazioni. Certe volte avevo voglia di darle un ceffone. E una volta gliene ho dato uno incredibile. Al montaggio l'ha tagliato».

Ha girato anche I giovani amanti di Carine Tardieu.

«Sono una donna che s' innamora di un uomo molto più giovane di lei. Il mio personaggio è un architetto e un'intellettuale, non una tardona qualsiasi. È una passione reciproca e paritetica. Ma quello resta uno degli ultimi tabù della nostra società: tutti pensano che lo stai fuorviando da un'esistenza normale. È stato bello recitare in quel film: non c'è niente di più interessante nella vita dell'amore. Aspettarlo, perderlo, conquistarlo, coltivarlo».

C'era qualcosa di personale nel ruolo?

«No, non mi piace interpretare personaggi vicino a me. I ruoli possono risuonare dentro di me, ma non mi somigliano mai. In un film di Alain Resnais (L'amour à mort, 1984) feci addirittura una donna pastore protestante: calma, altruista».

Non è altruista?

«Per nulla (scoppia a ridere)».

Ha avuto successo a trent' anni, relativamente tardi.

«Facevo teatro, ma senza successo. E per sopravvivere dovevo fare tanti lavoretti: la segretaria, la cameriera Provavo un'oscura gioia a recitare in una sala mezza vuota.  Pensavo che quei pochi spettatori fossero lì, perché mi amavano. E li avrei amati anch' io, allo stesso modo».

Poi Truffaut la vide.

«Mi offrì il ruolo di Mathilde in La signora della porta accanto (1981), con Gérard Depardieu».

Con Truffaut costituì anche una coppia fino alla sua morte, nel 1984, di un tumore scoperto pochi mesi prima, mentre lei aspettava sua figlia Joséphine. Che ricordi ha di lui?

«Con Dépardieu s' intendevano a meraviglia, erano due banditi. Mai si sarebbe detto di Truffaut che fosse un bandito, ma ne aveva l'anima. Era libero, nervoso. Sembrava volersi sbarazzare di qualcosa, anche con molto umorismo. Ma al tempo stesso si buttava giù, soffriva di melanconia».

In quegli Anni 80 conobbe Vittorio Gassman. Recitaste insieme, pure in due film di Ettore Scola, La famiglia e La cena. Di lui che ricordo ha?

«Diventammo subito amici. Vittorio suscitava nei francesi, soprattutto le donne, un'ammirazione folle, perché era bello, come una statua romana. E per l'insolenza, l'arroganza, oltre la fragilità e l'intelligenza. Quando recitavo a teatro a Parigi, veniva a vedermi. Cenavamo insieme dopo lo spettacolo. E d'un tratto, quasi alla fine, diceva: parliamo di quello che ho visto stasera. E aveva visto proprio ogni cosa, sviscerava tutto, da vero uomo di teatro quale era. Vittorio fu così gentile con me al momento del mio enorme dolore per la morte di Truffaut. Faceva lo scemo apposta per farmi ridere e, quando ha avuto i suoi problemi di depressione, sono stata presente pure io. Mi ricordo di lui a Cannes: andavo nella sua camera d'albergo a vederlo e mi diceva che era vecchio, ma io rispondevo che non era vero e lo tiravo su. Volevo ridargli tutto quello che mi aveva dato».

Suona ancora Bach nel suo appartamento parigino?

 «Sì. A proposito, ho un piccolo sogno. Mi piacerebbe suonare in un piano bar in Sicilia. Adoro quell'isola, i paesini dell'interno che sembrano vivere in autarchia. Chiederei al proprietario se mi autorizza a suonare certi brani. Ma poi lui mi dirà quello che vuole. Lo giuro, mi adeguerò».

·        Federico Quaranta.

Chi è Federico Quaranta, il conduttore di Linea Verde Radici dedicato alla Sicilia. Vito Califano su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Dai crateri dell’Etna alle isole Egadi, dai maestri d’ascia e i pescatori fino ai templi greci, agli uliveti e alle piantagioni di fichi d’India. È il viaggio che Linea Verde Radici. Storie della Terra dedica in prima serata su Rai1 alla Sicilia. A percorrerlo e a raccontarlo il conduttore Federico Quaranta. “Lo scopo del viaggio – recita la Rai in un comunicato – è quello di scoprire quali siano le radici della civiltà mediterranea, dal punto di vista storico, culturale, scientifico; un viaggio alle origini di tutte le storie”. Quaranta è conduttore radiofonico e televisivo e autore. È nato a Genova nel 1967. Dal 2003 conduce Decanter con Tinto su Rai Radio2. Ha lavorato a Linea Verde Orizzonti su Rai1, e Magica Italia, Turismo e Turisti. Ha lavorate anche a La7 con il programma enogastronomico, con Tinto e Vladimir Luxuria, Fuori di gusto. Ha condotto di nuovo sulla Rai La Prova del Cuoco, Linea Verde Orizzonti, Estate in diretta con Eleonora Daniele. Quaranta vanta persino una menzione nel Guinnes World Records grazie a una flute alta 2,05 metri, 58 centimetri di diametro, gambo di tre centimetri di diametro, riempita nel 2008 di Asti Spumante DOCG. Secondo di tre figli, ha pubblicato un libro scritto con Andy Luotto, Anche i vegani fanno la scarpetta. Quaranta è stato sposato dal 2008 al 2013 con la giornalista del Tg5 Simona Branchetti. Dopo la separazione si è fidanzato con Giorgia Iannone de Sousa. La coppia ha avuto una bimba, Petra, nata nel 2018. Il suo viaggio partirà dalla cima dell’Etna, con gli approfondimenti di un vulcanologo. A scandire il viaggio anche i luoghi di Verga e di Ulisse, e quindi dal mare all’entroterra fino ai calanchi di Centuripe seguendo il percorso del fiume Simeto. Il viaggio in prima serata arriverà anche alle miniere del sale di Petralia Soprana, una cattedrale bianca nascosta nelle viscere della montagna e poi le solfatare, drammaticamente raccontate da Sciascia e Pirandello. Tappe anche nel misterioso castello di Mussumeli, nella necropoli di Sant’Angelo Muxaro, nelle Grotte della Gurfa e nell’incanto dei templi di Selinunte, nella Valle del Belice. Il viaggio terminerà a Marettimo, la più lontana delle isole Egadi.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Federico Salvatore.

(ANSA il 13 ottobre 2021) - ''Federico ora è sotto osservazione ed è sottoposto a una serie di accertamenti. È in ottime mani'. E' la moglie di Federico Salvatore, Flavia D'Alessio, a confermare la notizia del malore, circolata sulla rete e rilanciata dai social, del quale è stato vittima il cantautore e cabarettista napoletano. ''Non è un momento semplice, ma nessuno, ora, può fare diagnosi certe e definitive - dice Flavia D'Alessio - Da sua compagna di vita e da madre dei suoi figli, sto cercando di contenere più possibile il grande dolore che provo, di rimanere lucida e di gestire i nostri ragazzi, tranquillizzandoli e dicendo loro la verità: il papà è affidato alle cure di ottimi medici''. Federico Salvatore, 62 anni, è ora ricoverato all' Ospedale del Mare. La moglie dell'artista chiede riservatezza: ''So bene quanto sia grande l'amore che circonda Federico, lo vivo da vent'anni. E so bene quanta preoccupazione ci sia per lui da parte dei suoi fans, che lo seguono da sempre. E, quindi, quanto sia forte la voglia di sapere. Vi aggiornerò, sperando che al posto mio, ci sia proprio lui a raccontarvi quello che è successo". Federico Salvatore aveva da poco annunciato l'uscita del suo nuovo disco satirico, "Azz… 25 anni dopo", per lo scorso 17 settembre, comunicando poi sui social il rinvio. Lanciato a livello nazionale nel 1994 da Maurizio Costanzo, Federico Salvatore nel 1995 ha venduto 700mila copie conquistando due dischi di platino.

Ricoverato in gravi condizioni Federico Salvatore. Novella Toloni il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le condizioni del cantautore napoletano, ricoverato all' Ospedale del Mare, sarebbero critiche. La moglie: "Nessuno, ora, può fare diagnosi certe e definitive". Federico Salvatore, cantautore e cabarettista napoletano, è stato vittima di un grave malore. La notizia del suo ricovero in ospedale è iniziata a circolare nella tarda mattinata, ma solo poco fa le parole della moglie, Flavia D'Alessio, hanno sciolto ogni dubbio sul suo stato di salute. All'agenzia di stampa Ansa, la moglie di Federico Salvatore ha confermato il drammatico momento, che il 62enne sta vivendo ricoverato in prognosi riservata presso l'ospedale del Mare di Napoli. "Non è un momento semplice - ha dichiarato Flavia D'Alessio - ma nessuno, ora, può fare diagnosi certe e definitive. Da sua compagna di vita e da madre dei suoi figli, sto cercando di contenere più possibile il grande dolore che provo, di rimanere lucida e di gestire i nostri ragazzi, tranquillizzandoli e dicendo loro la verità: il papà è affidato alle cure di ottimi medici". Non è chiaro cosa sia successo all'artista, che ora si trova ricoverato in prognosi riservata, affidato alle cure dei medici dell'ospedale partenopeo. Secondo quanto riportato da Dagospia, Federico Salvatore sarebbe stato colpito da un'emorragia cerebrale, ma la moglie non ha confermato. "Federico ora è sotto osservazione ed è sottoposto a una serie di accertamenti. È in ottime mani", ha proseguito sua moglie, che ora chiede ai fan e ai seguaci del cantautore di rispettare il delicato momento che la famiglia sta vivendo. La coppia aveva festeggiato da poco l'undicesimo anniversario di nozze e Salvatore si apprestava a pubblicare un nuovo album di canzoni, "Azz...25 anni dopo", per celebrare l'anniversario del suo album satirico di esordio, "Azz", pubblicato nel 1995, che lo rese celebre negli anni '90. Il disco sarebbe dovuto uscire a metà settembre, ma un lutto improvviso aveva colpito l'artista, costringendolo a rinviare la pubblicazione, che sarebbe dovuta avvenire nelle prossime settimane. La moglie oggi chiede il sostegno dei fan di Federico Salvatore invitandoli a rispettare il drammatico momento: "So bene quanto sia grande l'amore che circonda Federico, lo vivo da vent'anni. E so bene quanta preoccupazione ci sia per lui da parte dei suoi fans, che lo seguono da sempre. E, quindi, quanto sia forte la voglia di sapere. Vi aggiornerò, sperando che al posto mio, ci sia proprio lui a raccontarvi quello che è successo". Nelle prossime ore potrebbe essere lo staff medico dell'ospedale di Napoli a fornire un bollettino medico sulle condizioni dell'artista.

·        Filomena Mastromarino: Malena.

Da corrieresalentino.it il 14 luglio 2021. Malena (Filomena Mastromarino all’anagrafe) non è più la pugliese, ma “nazionale” ormai: ci tiene a dirlo in apertura intervista, distribuendo qualche consiglio sulle luci per ottenere l’inquadratura migliore in riva al mare. Era una ragazza come tante fino al 2016, quando ha deciso di affidarsi a Rocco Siffredi per essere lanciata nel mondo del porno. Nel 2013 divenne delegata nazionale del Pd, ma da allora con la politica non ha avuto più nulla a che fare. Incontriamo la “pop pornostar”, diventata anche un noto personaggio televisivo, in un pomeriggio di sabato, 10 luglio 2021, nell’Isola Beach di Porto Cesareo, dove era l’ospite della serata. Malena è anche una instagrammer, cioè una con tantissimi seguaci su Instagram (quasi un milione di followers). Malena, in un recente servizio delle Iene, ha raccontato la vita da pornostar accattivandosi nuovamente le simpatie del grande pubblico televisivo. “Il mese scorso sono tornata a Budapest e ho già fatto un altro film prodotto da Rocco Siffredi, che dal 2016, quando ho iniziato in questo settore, è la mia guida. Questa settimana riparto per il progetto dell’Accademia del porno. Quest’anno faremo un’Accademia solo per le donne, perché ci sono tantissime richieste. In tantissime vogliono cominciare la carriera nel porno”.

Dunque, fare il porno non è più un tabù? Negli anni ‘80 era molto più difficile…

“Intanto, c’è una grossa differenza fra il sud e il nord dell’Italia. Io sono di Gioia del Colle, della provincia di Bari. Nel sud c’è il vizio di etichettare le persone, non solo se fai il mio lavoro, ma anche solo se sei una bella ragazza. Negli anni ‘80 il porno era un tabù, ma non essendoci i social non subivi gli attacchi degli haters. I social hanno dato il potere a tutti di offesa e di giudicare senza senso. Alcune ragazze vengono attaccate anche solo per una scollatura. È vero che siamo nel 2021, ma i social hanno dato un potere di aggressione che rende molto più difficile esporsi mediaticamente, specie se fai questo lavoro, rispetto agli anni ‘80. La cosa che mi dispiace è che sono le donne quelle che attaccano di più. In realtà io sono una portatrice di felicità. Durante il Lockdown sono stata la congiunta di tutti gli italiani, come ho spiegato alle Iene. Il porno è un lavoro a cui affianco le serate come questa, in cui faccio solo l’ospite. Fare film a luci rosse per me è un lavoro, che finisce nel momento in cui si spengono i riflettori. Per il resto, la pornografia esiste dai tempi dell’antica Grecia. Il moralismo è più recente e sta interessando soprattutto i social, che ormai censurano tutto. Siamo giudicati da algoritmi ed è difficile persino postare una statua nuda”. 

Dunque, una nuova ventata di moralismo con l’avvento dei social?

“Sì, perché ognuno ha l’opportunità di sfogare le sue frustrazioni giudicando. Sogno un mondo in cui non si venga giudicati per quello che si fa a letto. Questo vale anche per l’omosessualità, la bisessualità e il resto. Nella società dovrebbe valere la persona”.

Sei a favore del ddl Zan?

“Non l’ho letto, ma se può servire a eliminare le discriminazioni, ben venga. Mi dispiace che oggi si tenda a inserire alcuni in delle categorie da proteggere: il genere umano è universale, a prescindere dalle scelte sessuali”. 

Lei è molto richiesta nelle serate in discoteca, come mai?

“Io e Rocco Siffredi siamo anche personaggi televisivi. Io mi definisco una "pop pornostar": sono diventata popolare per serate, social, tv e altro. Ci sono tante ragazze che fanno porno, ma non hanno un’immagine così sovraesposta come la nostra”. 

Come ha fatto a diventare così nota sul piccolo schermo? Ci riescono poche pornostar.

“Bisogna essere umili e non sentirsi una star per un solo film che hai fatto. Inoltre, ci vuole cervello: molti pensano che chi fa questo lavoro non sia intelligente. In realtà non è così. Le pornostar sono donne normalissime. All’estero questo lavoro lo fanno tante mamme: girano le scene e poi vanno ad allattare i propri figli. Io ho avuto un percorso diverso perché mi sono affacciata a questo lavoro a 33 anni. Ero già una donna. Non ho fatto come le altre, che vogliono fare questo lavoro per diventare famose: non è giusto approccio! Bisogna amare questo lavoro, farlo con passione”.

Lei prova davvero piacere quando gira i film porno?

“No, può capitare qualche volta di trovare il giusto feeling con un attore. Se si trova il feeling, la durata della scena è molto lineare e non si viene interrotti. Normalmente, solo per realizzare la parte dell’hard, di 40 minuti, giriamo scene per cinque ore e veniamo interrotti in continuazione per rifarle. Non è come nei film amatoriali. È un duro lavoro. Ci vuole molta pazienza”.

Le donne non vengono trattate come degli oggetti in questi film?

“Assolutamente no! I più maltrattati sono gli uomini. L’uomo deve stare ai tempi del regista e quindi soffre di più rispetto a noi. Noi donne sul set veniamo rispettate tantissimo. Ci sono pochi uomini perché per loro è difficile fare questo lavoro. Arrivano con idee diverse e poi fanno i conti con la realtà. Non è come fare sesso a casa tua. Anche le posizioni sono tutte a tre quarti, a favore della camera. Parlo, naturalmente, di cinema per adulti professionale, perché l’amatoriale è tutto un altro settore. È un po’ come il calcio, dove ci sono i dilettanti e i giocatori di serie A”. 

C’è spazio per la vita sentimentale di una giocatrice di serie A?

“La gestione della vita sentimentale è un po’ difficile per chi fa il mio lavoro. Non perché gli uomini siano gelosi, ma perché io rappresento una sessualità molto forte e decisa: gli uomini vanno in crisi con me, non per il pregiudizio di essere pornostar. Nelle amicizie mi sono rimasti vicini i veri amici, quelli che mi accettano per quello che sono”.

Le dimensioni contano anche nella vita sentimentale?

“Anche qui c’è un poco di ipocrisia: le donne non lo dicono, ma contano nell’atto sessuale. Diverso, invece, è il trasporto sentimentale e l’amore”.

·                        Fedez e Chiara Ferragni.

Da Verissimo il 17 Dicembre 2021. Valentina Ferragni, ospite domani sabato 18 dicembre a Verissimo, alla sua prima intervista televisiva racconta il suo problema di salute: “Un anno fa avevo un piccolo brufolo sulla fronte che non destava nessun tipo di allarme. Ma dopo un po’ di tempo, visto che non andava via,  sono andata da un dermatologo che mi ha detto che era una semplice cisti, da togliere senza fretta. A settembre però ho preferito fare un’altra visita, la dottoressa si è insospettita e ha deciso di levarlo per capire cosa fosse. Dopo una settimana, è arrivato l’esito: carcinoma a base circolare, un tumore maligno localizzato”. E prosegue: “Per fortuna questo tipo di tumore non è il peggiore tra quelli epidermici. Ma se avessi aspettato altro tempo avrei dovuto subire un innesto di pelle con un intervento molto più invasivo. Ora però dovrei essere guarita al 100%”. Tutto il calvario è stato testimoniato sui social anche per sensibilizzare le persone alla prevenzione: “Un consiglio che posso dare a tutti è di andare a farsi vedere appena c’è qualcosa di anomalo. Quelli della pelle non sono tumori di serie B, sono piccoli e cattivi”. A Silvia Toffanin che le chiede se la sua carriera sia stata influenzata dalla sorella Chiara, Valentina risponde: “Ha influito tanto ma è stata una cosa molto naturale. Quando mia sorella ha iniziato, i social quasi non esistevano e non si conoscevano ancora gli effetti di Internet. Quando ha cominciato io avevo 16 anni, l’aiutavo e ho visto il suo percorso cambiare negli anni. Sono la sua fan numero uno, è la migliore al mondo e tutto il successo che ha lo deve a sé stessa”.

Selvaggia Lucarelli per editorialedomani.it il 15 dicembre 2021. Tutto quello che leggerete sulla serie The Ferragnez è uno spoiler, ma la verità è che la vita stessa di Fedez e Chiara Ferragni è uno spoiler continuo e che probabilmente quello che spaventa ai due della morte è che nessuno abbia mai postato nulla dall’aldilà. Hanno raccontato via Instagram la vita quando era una striscia rosa su un test di gravidanza, quando era un feto, quando la bimba veniva al mondo con la mamma truccata come se le spinte le avesse date l’ostetrica al posto suo, quando la bimba veniva ricoverata in ospedale con flebo al braccio e foto ricordo nelle storie dopo la quale seguiva adv di gioielli. É difficile, dunque, comprendere il perché di un racconto che narra ciò che è stato così tanto spremuto, condiviso, narrato. É come dire: faccio una soap su Beautiful.  Soprattutto, è difficile decidere cosa rimanga del racconto sui Ferragnez al netto dei quattrocento “super” utilizzati da Chiara come rafforzativi e della linea narrativa intera, se si elimina il concetto “Chiara e Fede sono tanto diversi”, “Chiara è solare, lui è ombroso”. In pratica, se Fedez dovesse mai assumere un farmaco per stabilizzare l’umore, i Ferragnez sparirebbero nelle nebbie fitte delle coppie in cui ci si somiglia e non ci sarebbe altro da aggiungere. E se Chiara smettesse di piazzare un “super” prima di qualunque aggettivo, la serie durerebbe dieci minuti. Anche perché diciamolo, i comprimari sono tipo il pubblico della Leopolda: non sai perché siano lì e chi glielo faccia fare. Le sorelle di Chiara (che lei chiama “sisters”) sembrano due Skipper in tenda accanto alla Barbie nel castello, tutte con le onde da piastra Ghd, tutte bionde, tutte truccate, tutte plastificate e chiamate a commentare la vita della sorella, come se l’universo mancasse di pareri sulla vita dei Ferragnez (“siamo una super sorellanza”, dice Valentina).

E poi lei, l’Ape Regina, mamma Marina, con quell’aria da boom economico anni Cinquanta, un po’ Nicole Kidman ne La donna perfetta, sempre fresca di estetista, cammina e lascia una scia di profumo dolciastro pure dalla tv. Gli uomini, soprattutto i compagni delle sorelle, sono anche loro figure scialbe sullo sfondo, costretti a muoversi in un mondo pastello nel ruolo di “fidanzati di sorelle di”, che se uno ci pensa è uno strazio infinito. Menzione d’onore al padre di Chiara che arriva, saluta e poi si dilegua dietro una pianta finta per preservare la sua dignità, visto che è l’unico che non si fa i boccoli con la piastra in famiglia.

E poi c’è lui, Fedez. Che onestamente io non so come faccia ad andare a dormire la notte e a non avere paura di svegliarsi all’improvviso, di ritrovarsi la moglie, la suocera e le due sorelle Gertrude e Genoveffa tutte pallide, tipo la servitù di The others, che lo fissano, per poi evirarlo e succhiargli l’anima per rimanere giovani, bionde e con le onde piastrate per sempre. A me era antipatico Fedez, ma dopo questa serie vorrei abbracciarlo forte e dirgli che la sua esistenza immersa nella dimensione stucchevole, plastificata, passivo-aggressiva di “The blonde salad” mi suscita molta empatia. Lui e la madre, perennemente incazzati col mondo, mi sembrano il giusto contrappeso, lo scarabocchio sul foglio bianco, la puzza di vita in quell’atmosfera di cellophane e cipria fissante che è il lato Ferragni. Fedez ne esce, almeno, come un essere umano. Contorto, diffidente e cupo, Fedez si fida solo di sua madre (noto mastino) perché una madre non tradisce. Ne ha piene le palle dell’entourage di Chiara, delle sorelle di Chiara, del mondo rosa confetto di Chiara che si ferma sulla soglia della sua stanza dei giochi, una specie di panic room in cui il camper di Barbie non può parcheggiare. In questo mondo di apparente incomunicabilità lui e la moglie decidono di andare insieme dal terapeuta di coppia, il quale - vecchia volpe - comprende subito che il problema dei due è quello di non essere mai soli e quindi suggerisce loro di trascorrere un weekend insieme con dieci cameraman e il gruppo di autori a supporto, in una serie tv distribuita in tutto il mondo da Amazon. Al terapeuta sfuggono, in compenso, problemi lievemente più macroscopici: Chiara che afferma di non voler viziare il figlio Leone dopo che ha affittato una villa a Como per le feste e ha fatto schiacciare un pulsante a Leone col quale il bimbo ha acceso luminarie, la pista del ghiaccio, le giostre con i cavalli e tutta la Lombardia. O che papà Fedez si è sottoposto a otto ore di trucco per assomigliare a Babbo Natale anzichè comprare il bustone a 6 euro e 90 vestito+galosce+occhiali+barba finta acrilica che prende fuoco già a 50 metri dalla prima candela accesa. Sfugge, allo psicologo, l’aria gelida, formale di una cena in famiglia in cui Chiara indossa un collier Bulgari e non accompagna neppure a letto il figlio, che sparisce assieme alla tata. Gli sfugge il linguaggio mesto e performante della Ferragni per cui il marito “oggi è preso bene, è SUPER simpatico ma il giorno che è preso male è difficile”. O l’agghiacciante “Ho il plus di avere un bambino stupendo”. O “Questo è il mio look per ritirare l’Ambrogio d’oro”. O lui che le dice cosa farà a Sanremo e lei “super cool amore!”. O “Non voglio creare aspettative su ciò che mio figlio vorrà fare, però è molto espressivo, magari farà l’attore!”. Insomma, si vola basso, mica ha aspettative. Roba che se non diventa Robert De Niro può anche fare l’amministratore delegato di Porsche, per carità. Ma è anche bellissimo quando il suo general manager le dice che potrebbe partorire l’8 marzo e lei lo trova “super top”, per poi aggiungere che lì “si lavora super sodo” e capisci che è vero quando il super manager dell’azienda The Blonde Salad racconta di essere stato mandato a comprare un test di gravidanza per Chiara come un assistente di 19 anni tra un caffè da portare in riunione e un salto in lavanderia. Chiara trova anche “super dolci” Fedez e il figlio vestiti allo stesso modo per Sanremo e si dispiace del fatto che il marito, preoccupato per il Festival, sia un “tato super sconfortato”. Naturalmente è anche “super in ansia” perché deve registrare la sigla della serie, fortuna che c’è la sua “super amica Martina”. La vita di Chiara è quella di una super eroina in cui è tutto super, tipo il papa che ha la papamobile, Batman che ha la Batcaverna, Super Chiara che ha tutto super, tranne il vocabolario. Fedez, invece, vive perennemente in guerra, dice lui. Un vero guerriero che partecipa a una serie in cui si dovrebbero sdoganare la terapia di coppia e il ricorrere a professionisti e invece si fa fare le carte dalla nonna forse per sapere quanti “super” Chiara dirà entro fine giornata. Che si rivolge a un numerologo per decidere le date di uscita dei dischi. Insomma, è sdoganata più la stregoneria, che la psicologia. Fedez che si fa vestire e mettere le calze dagli assistenti come un infante. Che come un infante parla di caccole e “mi scappa la cacca”, con lei che si irrita perché “la fai cinque volte al giorno!”. Che però, nei rari momenti di stipsi, si occupa anche di marketing aziendale e spiega alle banche come rendersi simpatiche raccontando quante cose belle fanno. Verrebbe quasi da voler bene a Fedez che si racconta così schivo e misantropo, se all’improvviso non si uscisse da questa nuvola rosa che è la visione dei Ferragnez e non si realizzasse che quello schivo della coppia sta raccontando la sua esigenza di riservatezza su Amazon, condividendo ogni singolo istante della sua esistenza sui social, sposando cause utili al suo conto corrente e al suo posizionamento. Alla fine, la sensazione è che il collante dei due non sia la diversità, ma un equilibrio preciso, chirurgico: lei è così presa da sé di non curarsi troppo dei suoi umori se non in quei cinque minuti di chiacchiere dallo psicologo, lui è così preso dai suoi umori da non curarsi troppo di nessuno. Però si amano, tantissimo. Lo capisci quando tornano dal loro weekend lui davanti e lei dietro in macchina con l’autista, quando lui deve chiamare la suocera e dopo cinque anni insieme non ha neppure il suo numero salvato in rubrica, quando la coppia ritrova finalmente lo slancio, l’affiatamento, la passione ardente nel luogo che tutti immaginano: Instagram.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'11 dicembre 2021. Dei Ferragnez non si butta via niente.

E questo è il primo consiglio per chi si accinge a vedere i primi cinque episodi della loro saga familiare (Amazon Prime).

Il secondo: per quanto il mondo virtuale e quello materiale si stiano allegramente fondendo, la vecchia distinzione fra rappresentazione e realtà vale ancora. I Ferragnez è un racconto, con tutte le regole di una narrazione instagrammata.

Il terzo: l'espediente della terapia di coppia (fa molto «In Treatment», anche se lo psicoqualcosa usa il verbo «approcciarsi») è un perfetto meccanismo narrativo: permette ai due di «denudarsi», di mostrare l'altra faccia della luna (li immaginiamo forti e spietati e invece sono fragili e teneri). Lei è una eterna adolescente, lui un musone che combatte contro il mondo. È la nostra vita, sono come noi. Il quarto: il mondo dei Ferragnez è abitato da cognati e suoceri. 

E qui siamo in pieno Achille Campanile: «Qui giace Piero d'Avenza cittadino integerrimo, lavoratore indefesso, sposo e padre esemplare, figlio amorosissimo, fratello discreto, cugino soddisfacente, cognato passabile, genero detestabile, prozio tenerissimo, biscugino senza particolare rilievo, nipote insignificante, pronipote modello, suocero insuperabile, amico pignolo, debitore insolvibile, vicino di casa un poco rumoroso, morto esigente, Una prece!».

Il quinto: la parola più ripetuta nelle cinque puntate è «amore»: provate a ripetere mentalmente una parola qualsiasi, dopo un po' perderà ogni significato e sarà solo un guscio vuoto che galleggia in una pozzanghera. Il sesto: meravigliosa la scena del Natale a Como (villa affittata), da fratelli Vanzina. La classe ha questo di paradossale, che è fatta soprattutto di cose che non si possono imparare. O di cose che stanno a rappresentare ciò che non si può comprare. Il settimo (sigillo): guardate i Ferragnez con il sorriso, come fosse una fiaba.

Da repubblica.it il 26 novembre 2021. Nei giorni scorsi Fedez scherzava con la moglie Chiara Ferragni sulle querele che il nuovo album gli avrebbe provocato e forse per questo, scaramanticamente, il pezzo-invettiva di Disumano, uscito stanotte  e presentato in una diretta Instagram casalinga dai Ferragnez, si intitola Un Giorno in Pretura e ne ha per tutti, da Matteo Renzi a Giorgia Meloni, alla Lega. Non a caso il brano inizia con un intro letta dal conduttore della Zanzara Giuseppe Cruciani: "Tutti i personaggi e gli eventi di questa canzone sono del tutto immaginari. La seguente canzone contiene un linguaggio scurrile. E per il suo contenuto non dovrebbe essere ascoltata da nessuno". Poi la citazione del renziano "first reaction: shock", quindi l'affondo di Fedez sul leader di Italia Viva: "Io e mia mia moglie siam tutti esauriti, tutti i desideri esauditi. Come Renzi quando si è preso ottantamila petroldollari sauditi (Ahi!)". E ancora: "Un ex-premier che fa complimenti sotto dettatura, a una cazzo di dittatura. Che cattura e taglia la testa ai gay perché contro natura (Rinascimento)". Nel testo, in cui Fedez ricorda sia Giulio Regeni che Federico Aldovrandi ("i migliori non superano i vent'anni") e dedica un passaggio ironico ad Andrea Bocelli e alle sue performance a margine di assemblee dell'Onu e dell'Unesco ("Bocelli è come portare lo spumante se ti invitano a cena (Buonasera, buonasera)/L'unica differenza tra lo spumante ed Andrea/ È che Andrea, va ad un'assemblea, che è una messa in scena/Dove si grida: 'Bill Gates è un'aliena, che ci spara il 5G in vena'". Poi il passaggio sulla Meloni: "Quanto m'hanno rotto il c-Amazon/Voi lo arricchite sto Amazon/Io mi faccio arricchire da Amazon/La Meloni che grida: "Allo scandalo, boicottate la mafia di Amazon, e comprate il mio libro Io sono Giorgia. 'Oddio ma è primo su Amazon!'", recita il brano. Infine la Lega e la 'legittima difesa': "E pensare che l'eutanasia in Italia sembrava una cosa utopistica. Quando per morire ti basta dare un pugno in faccia ad un assessore leghista". Fedez nelle 20 tracce racconta e raccoglie altrettanti capitoli della sua vita, una sorta di diario completamente libero, senza alcun vincolo, in cui il sound delle sue precedenti produzioni si affianca alla sperimentazione di sonorità nuove. Pubblicato a due anni di distanza da Paranoia Airlines e dopo l'esperienza di Sanremo insieme a Francesca Michielin con Chiamami per nome, il nuovo album è ricco di collaborazioni: oltre a Tedua, Fedez coinvolge Dargen D’Amico, Achille Lauro, Orietta Berti, Cara, Tananai, Crookers, Myss Keta, Speranza e Francesca Michielin. La produzione musicale dell’album è stata per la maggior parte curata da d.whale, con cui l’artista ha già collaborato in passato, alternandosi in alcune tracce a DADE, Dargen D’Amico, Michelangelo, Nic Sarno, Ted Fresco e Crookers. Non manca, nel brano La cassa spinge 2021, il riferimento al Codacons e agli infiniti contenziosi con il rapper: ''Sono veramente euforico, non mi ha ancora querelato il Codacons'', canta il rapper nel brano realizzato con Crookers, Myss Keta, Dargen D'Amico. Poi c'è l'annunciata e amorevole canzone Vittoria, dedicata alla figlia. Ma la track list riserva molte altre sorprese, quasi tutte all'insegna dell'osservazione critica di una società italiana dove il prezzo più alto lo pagano i più giovani. Così in Fede e Speranza, cantato da Fedez con il rapper Speranza, Federico sembra esortare i ragazzi ("Se non lotti per quello a cui tieni, non l'ottieni/Non si lasciano impronte indelebili, camminando in punta di piedi", avverte Fedez, in un pezzo che ha diversi riferimenti autobiografici, per poi annotare, "per questo è fallito il sistema scolastico, perchè è giurassico). In Stupido Stupido ("Non è un paese per santi, per pazzi, per Craxi") se la prende con il sistema: "Non si dovrebbe, la droga nelle felpe/Però nemmeno sberle ad uno che è già in manette, no/Non si dovrebbe lasciarlo in un call center/In debito per sempre/Non vedi che è solo un ventenne?". E fa una battuta sull'ex socio J-Ax: "Siam davvero convinti che fossero amici/come ai tempi di J-Ax". Poi in Vecchio con Dargen D'Amico, Fedez fa un accenno anche alle polemiche seguite alla sua partecipazione al Concertone del Primo Maggio ("1 Maggio sono andato sul palco/il mio avvocato è Cristiano Ronaldo") anche se il pezzo parla di crescita e responsabilità. 

Polizia, Meloni, Renzi e Lega: Fedez ce l'ha con tutti. Ma nessuno lo calcola. Francesca Galici il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. 14 brani inediti tra droga, provocazioni alle forze dell'ordine e attacchi alla politica: il nuovo album di Fedez è un enorme "già visto". Per giorni e giorni, Fedez non ha fatto altro che promuovere il suo nuovo disco, che vista la promozione massiva uno immagina sia di quelli destinati a fare la storia. Spoiler: non è così. Siamo sinceri, lo abbiamo ascoltato questa mattina al solo fine di scrivere questo pezzo, visto che Fedez per settimane l'ha menata pesante sui social, provocando la politica e alludendo a possibili querele che gli potrebbero arrivare. Altro spoiler: sì, potrebbero. Tutto è nato dal video della canzone Morire morire, ma non è degradante per un artista scatenare la curiosità per temi collaterali alla sua musica piuttosto che per la sua arte? Vabbè, dopo tutto ognuno fa quel che può. In questo caso Fedez ha raccolto in un album le sue invettive degli ultimi due anni. Niente di nuovo.

Gli attacchi alla politica (esclusi M5S e Pd)

Il cuore dell'intero disco è il pezzo Un giorno in pretura. Non sfugge l'ironia di questa scelta, visto quello che Fedez dice contro i politici italiani. L'intro di Un giorno in pretura è stato affidato a Gianluca Cruciani: "Tutti i personaggi e gli eventi di questa canzone sono del tutto immaginari". Quindi, si sente una voce del tutto simile a quella di Matteo Renzi, ma magari è proprio la sua, con l'ormai famosa citazione del leader di Italia viva: "First reaction: choc". E già da questi primi secondi è facile intuire dove vuole andare a parare il marito di Chiara Ferragni. Basta aspettare un'altra manciata di secondi per entrare nel vivo del mood del brano: l'attacco a Matteo Renzi.

"Io e mia mia moglie siam tutti esauriti/Tutti i desideri esauditi/Come Renzi quando s'è preso ottantamila petroldollari sauditi (Ahi!)/80k che, se togli il volo privato, i salatini e le spеse/(Mamma, non è vero che pеr fare i soldi dovevo sapere l'inglese)", canta Fedez. E, non pago, poi aggiunge: "Anche se Renzi non lo vuole ammettere/I sauditi non amano mettere/Ai giornalisti il bavaglio, li mettono direttamente nel bagaglio a mano". E giù ancora: "Un ex premier che fa complimenti sotto dettatura/A una cazzo di dittatura/Che cattura e taglia la testa ai gay perché contro natura". Fedez aveva già preparato il terreno a questo attacco con le sue storie Instagram in cui puntava il dito contro il leader di Italia viva dopo l'affossamento del ddl Zan.

Ma il rapper non si limita mica ad attaccare Matteo Renzi nel suo brano. Dopo un breve passaggio su Giulio Regeni, in cui se la prende anche con i capi di Stato che, a suo dire, "sono un poco ingenui/Infatti non hanno dubbi sulle cause ufficiali di morte di Giulio Regeni", gioca un po' a fare la vittima sulla questione Amazon. Più di una volta, infatti, al cantante è stato rinfacciato di dedicarsi solo a cause "instagrammabili", come per esempio il ddl Zan, senza mai guardare dalle parti del colosso dell'e-commerce, nemmeno quando i suoi lavoratori erano in agitazione. Il motivo? Il ricco contratto che lo lega alla società di Jeff Bezos.

E così ecco che nel suo pezzo, Fedez prova a fare l'alternativo: "Quanto m'hanno rotto il camazon/Voi lo arricchite 'sto Amazon/Io mi faccio arricchire da Amazon". Sarà pure vero che lui si fa arricchire, ma forse a Fedez mancano le basi dell'economia spicciola, quelle che muovono qualunque ambiente di lavoro che, probabimente, lui non conosce. Proviamo a spiegarlo in modo facile: se Amazon a Fedez dà un corrispettivo X è perché tramite lui guadagna X+tot. Quel "tot" è solitamente almeno il doppio rispetto a quanto viene corrisposto, un ammontare che Fedez stesso contribuisce a creare, facendo pubblicità. Quindi sì, anche Fedez contribuisce ad arricchire Amazon.

Poteva mai perdere l'occasione per menzionare Giorgia Meloni, che tira così tanto sui social da essere una delle donne più amate della rete? Ovvio che no. E allora ecco che arriva pure l'occasione per fare il suo nome: "La Meloni che grida: 'Allo scandalo'/'Boicottate la mafia di Amazon'/'E comprate il mio libro Io sono Giorgia' /'Oddio! Ma è primo su Amazon'".

La canzone continua e arriva un verso che prende di mira anche Silvio Berlusconi: "Mussolini/Berlusconi/Federico Aldrovandi/In Italia i migliori non riescono mai a superare i vent'anni". Ma poteva mai mancare l'attacco alla Lega? Ma certo che no, anche se bisogna aspettare i 2/3 della canzone per arrivarci: "Ieri volevo informarmi su tutte le nuove proposte fatte dalla Lega/Se ti da un pugno sei legittimato a sparare nel petto della tua collega". E aggiunge: "E pensare che l'eutanasia in Italia sembrava una cosa utopistica/Quando per morire qui basta dare un pugno in faccia ad un assessore leghista/Sparagli Piero, sparagli al nero/Miragli al cuore, non mirare al cielo".

I no vax

Il populismo certo non manca in questo brano di Fedez, che si muove da sempre in quest'arco per raccogliere qualche consenso in più sui social, suo habitat naturale da quando la musica è diventata poco più che un hobby. In questo stesso brano se la prende anche con Andrea Bocelli, che durante il lockdown ha anche preso parte alle sue dirette dopo annunci in pompa magna: "Siamo tra i dieci Paesi più belli/E nel dubbio chiamiamo a cantare Bocelli/Bocelli è come portare lo spumante se ti invitano a cena (Buonasera, buonasera)/L'unica differenza tra lo spumante ed Andrea/È che Andrea va ad un'assemblea che è una messa in scena/Dove si grida: 'Bill Gates è un'aliena, che ci spara il 5G in vena'".

Il Vaticano

Già solo in Un giorno in pretura si possono contare alcune possibili querele, ma nell'album di Fedez c'è anche di più. Avrà pensato che, già che c'era, aveva fatto trenta e poteva fare trentuno con un attacco violento contro il Vaticano, in cui è riuscito a mettere in mezzo anche il Codacons. Un filotto niente male per il marito di Chiara Ferragni. "Sono veramente euforico/Non mi ha ancora querelato il Codacons/Oggi voglio proprio farmi male Si dice il peccato ma non il cardinale/C'è una festa in Santa Sede/Ci si siede, ci si fa le se–/In Vaticano non c'è la banca del seme/Perché da quelle parti hanno troppa sete", canta Fedez nel pezzo La cassa spinge. Anche in questo caso, non è certo la prima volta che il rapper va giù pesante contro la Chiesa.

La droga e le forze dell'ordine

Tra un attacco alla politica e uno al Vaticano, Fedez inserisce anche la droga e provocazioni alle forze dell'ordine. "Non si dovrebbe, la droga nelle felpe/Però nemmeno sberle ad uno che è già in manette, no", scrive in Stupido stupido. E poi ancora, in Problemi con tutti: "Ho le vele e quindi volo come Scampia/Troppo zucchero sotto la mia lingua/Vai via, vai via, vai via/Maresciallo, suvvia, quella roba? Non mia/Permette la domanda? È mai stato alla Diaz ". Immancabile l'inno alla Maria, che però adesso inizia a puzzare di stantio: "Bella 'sta vita, santa Maria/Na, na, na-na-na-na-na-na/Ma se trovo l'uscita, ti porto via/Na, na, na-na-na-na-na-na". Così canta Fedez ft Cara in Fuori dai guai ed è impossibile non riportare la mente agli anni Novanta, quando proprio il suo ex amico J-Ax (per altro citato in un brano) insieme agli Articolo31 cantava: "Ohi Maria/Ti amo/Ohi Maria/Ti voglio".

In sostanza, tutto visto e già rivisto. Sarebbe più apprezzabile se si prendesse le sue responsabilità e (finalmente) lasciasse la musica per entrare in politica. Potrebbe confrontarsi alla pari con quelli che tanto dileggia, potrebbe concretamente impegnarsi sulle questioni che gli stanno tanto a cuore come il ddl Zan, invece di puntare solo il dito contro quelli che fanno, senza fare agli effetti nulla di concreto. Se non vuole perdere i privilegi dell'influencer per sporcarsi le mani nella politica, allora forse dovrebbe tornare a cantare a tempo pieno. O a fare le adv sui social. Anche perché le sue invettive, ormai, non vengono più considerate e cadono inutilmente nel vuoto.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

(ANSA il 24 novembre 2021) "Tutte le cause che ho abbracciato sono state considerate da chi non ama il mio modo di agire solo dei pretesti per monetizzare. Ma a chi mi critica rispondo coi fatti: 10 milioni di euro raccolti per una terapia intensiva e per i lavoratori dello spettacolo". Lo dice Fedez, a pochi giorni dall'uscita del nuovo album 'Disumano', in un dialogo senza filtri con Enrico Mentana, in esclusiva su Vanity Fair. "Vi faccio, poi, una domanda: avete presente Diego, quel ragazzo salvato in terapia intensiva al San Raffaele grazie al trapianto di polmoni? Secondo voi gliene può fregare qualcosa se la raccolta che ha permesso di salvargli la vita è stata promossa da Fedez e Chiara Ferragni?" sottolinea. Fedez, ritratto in copertina davanti a un multischermo, simbolo delle battaglie, delle mille provocazioni e dei messaggi che l'artista più discusso del momento lancia costantemente dalle sue piattaforme social, parla anche della risposta della politica italiana al lancio del suo ultimo disco. "In un momento in cui giornali e partiti non riescono a cogliere la palese ironia, tutto quello che è successo è il sintomo di una politica debole. Quando la politica è forte sa farsi prendere in giro. Vedo intellettuali che ancora corrono a cercare di stroncare chi è fuori dal loro circolo e giornalisti che devono svilire chi viene da internet. Un nome che ammiro? Marco Cappato. Un uomo che riesce a essere rilevante fuori dal palazzo. Mi fa sperare, almeno lui è uno che fa" afferma Fedez.. Il colloquio con Enrico Mentana non è l'unico modo in cui Vanity Fair ha deciso di raccontare Fedez. In un progetto innovativo che prosegue il percorso del magazine nella tecnologia Nft, il settimanale porterà la sua community nella Tana del Boomer, rifugio creativo dell'artista, ricostruita virtualmente grazie alla start-up svizzera Valuart.

Aldo Grasso per oggi.it il 25 novembre 2021. «Scendo in campo perché la politica italiana è una cosa seria: vota Disumano»: vestito elegante in giacca e cravatta, con sul grembo un cane volpino beige e sullo sfondo uno studio classico, Fedez torna a lanciare dai social il suo manifesto politico (o il “guerrillamarketing” del nuovo album, intitolato Disumano). Il video è una burla, una presa in giro della famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi: «L’Italia è il Paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti, qui – dice accarezzando il cane – ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere di truffatore, qui ho appreso la passione per i preti che fanno i tiktoker…» Nei giorni scorsi, dopo che sul web era spuntato il dominio fedezelezioni2023.it, si è discusso molto di un possibile ingresso di Fedez nella vita politica. Alcuni giornali gli hanno dedicato intere pagine, spiegandogli che cos’è la politica. Lui zitto: poi, dopo giorni di silenzio, ha fatto chiarezza su Instagram, pubblicando la clip di un surreale discorso elettorale in cui elenca i motivi per cui ha scelto discendere in campo a frodare il Paese. Negli ultimi mesi Fedez si era più volte impegnato su temi politici, in particolare sui diritti civili. Grazie alla sua influenza sui social network, unita a quella della moglie Chiara Ferragni, aveva acceso i riflettori dell’opinione pubblica su iniziative benefiche, raccolte fondi e proposte di legge. Il rapper è stato un sostenitore del Ddl Zan che prevedeva l’inasprimento delle pene per crimini e discriminazioni contro omosessuali, transessuali, donne e disabili. Ha in più occasioni rivolto pesanti accuse alla Lega e ai suoi rappresentanti. L’episodio più coinvolgente è stato il discorso al Concertone del primo maggio 2021. In quell’occasione Fedez riportò alcune frasi pronunciate da esponenti leghisti contro gli omosessuali, scatenando polemiche. Il rapper, inoltre, denunciò un tentativo di censura attuato dai vertici della Rai. Fedez vive da tempo – lo ha ammesso lui stesso – una sorta di senso di colpa della ricchezza, quella contro cui si scagliava da ragazzo e di cui è ormai uno dei volti più rappresentativi; quindi, tende ad abbracciare alcune battaglie non solo per “pulirsi la coscienza”, ma per cercare di restituire qualcosa a quel ragazzo, a quegli ideali di un tempo. C’è tempo per “pulirsi la coscienza”, intanto c’è un nuovo disco da promuovere. Così Federico Lucia ha rivelato il suo piano, che con la politica ha poco a che fare: la sua era una fantasiosa mossa di marketing per creare la giusta montatura in vista del lancio del suo nuovo disco, Disumano, in arrivo il 26 novembre.  

Federico Capurso per "La Stampa" il 16 novembre 2021. Fedez non entrerà in politica. Eppure dell'ipotesi se ne è discusso. «È bastato che acquistassi un dominio Internet, FedezElezioni2023», ricorda lo stesso Fedez sui social. Un indirizzo web «che però scadeva a novembre 2022. Ai giornalisti sarebbe bastato fare una piccola ricerca per capire che era una stronzata. Questo la dice lunga sullo stato dell'informazione in Italia». Non che qualcuno ci credesse davvero. Lo riconosce anche lui: «Nonostante tutti, in qualche modo, fossero consapevoli che era una trollata, per loro era più importante fare finta che fosse vero». Insomma, Fedez è stato usato. Come termometro della salute della politica e come esempio del grado di assuefazione agli influencer. Usato per misurare il fondo e discutere dell'assurdo. «Trollato» a sua volta. Se lo avesse capito, non sarebbe salito sul pulpito.

Chiara Ferragni e Fedez, tra consuocere è finita in disgrazia? Indiscrezione bomba (e una pesante conferma). Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. Pare che al di là della pagliacciatta di Fedez sulla discesa in politica a casa del rapper e di Chiara Ferragni ci siano altri problemi "se così si possono definire", scrive Giuseppe Candela su Dagospia. Insomma, a Milano, annuncia, "gira voce che i rapporti tra le consuocere Marina Di Guardo, mamma di Chiara, e Annamaria Berrinzaghi detta Tatiana, mamma di Fedez, non sarebbero dei migliori". Addirittura, scrive ancora Candela, "le due nonne di Vittoria e Leone non si seguono nemmeno su Instagram. Solo un caso?", si chiede malizioso Candela. Marina, 60, professione scrittrice di noir, vive a Cremona e da un po' di tempo ha un compagno che si chiama Antonio. La mamma di Fedez, che tutti chiamano Tatiana, ha seguito passo dopo passo la carriera del figlio nel mondo della musica. Lei lo ha sempre sostenuto e spinto a non arrendersi mai. Pare che mamma e figlio siano in ottimi rapporti e che abbiano un carattere molto simile: entrambi sono impulsivi e stakanovisti. Le due consuocere sono presenti nella vita di figli e nipoti e finora non si era nemmeno sospettato che potessero esserci problemi fra loro. Di sicuro ne stanno fuori i papà di Chiara e Fedez. Marco Ferragni, che fa il dentista e a Cremona ha uno studio privato ben avviato insieme alla figlia Francesca, sorella di Chiara, è molto riservato. Anche il papà di Fedez subisce l'esuberanza delle donne di casa. Franco Lucia è stato orafo e magazziniere e come mostra Chiara su Instagram deve essere un ottimo cuoco.

Da nextquotidiano.it il 16 novembre 2021. Il 15 novembre sarà ricordato come il giorno in cui Fedez si è tolto tutti i sassolini verso gli esponenti della politica e del giornalismo in Italia. Per giorni, infatti, si è parlato di una sua “discesa in campo” dopo che era stato scoperto un dominio web a suo nome, “fedezelezioni2023.com”. Oggi il rapper ha pubblicato un video in cui, imitando il celebre discorso di Berlusconi del 1994 che sanciva il suo ingresso in politica, ha sponsorizzato il suo nuovo album “Disumano” fingendo di star fondando un partito basato sui valori negativi di intolleranza e menefreghismo. In una serie di storie su Instagram, Fedez ha poi spiegato cosa ci fosse dietro le sue recenti uscite social sull’argomento. Inizialmente lo si vede andare a comprare una copia di tutti i quotidiani che questa mattina parlavano di lui, tra cui La Verità, Libero, Il Foglio, Il Giornale, La Stampa, tutti con in prima pagina una foto del rapper.

Fedez contro Stefano Feltri per l’editoriale su Amazon

Poi ha detto: “Credo che questa trollata la dica lunga sullo stato di salute del giornalismo italiano. Erano tutti consci che fosse una trollata, ma per loro era più conveniente fare finta che fosse vero”. Se l’è presa poi con Stefano Feltri, direttore di Domani, che in un editoriale metteva in guardia dai rischi che gli influencer in politica avrebbero potuto comportare in quanto spesso collaboratori di grandi aziende come Amazon: Fedez ha fatto notare che lo stesso giornale contenesse annunci pubblicitari del colosso di Jeff Bezos. Poi ancora, un rimprovero a Beppe Severgnini, vicedirettore del Corriere della Sera, accusato velatamente di sessismo perché a una domanda su come avrebbe visto Fedez in politica ha risposto “meglio sua moglie, è più bella”.

Da liberoquotidiano.it il 12 novembre 2021. Quanti consensi potrebbe ottenere Fedez qualora scendesse davvero in politica? Dopo la registrazione del dominio per le elezioni del 2023, è facile immaginare che il rapper voglia candidarsi. Ma sarebbe in grado di raccogliere i voti necessari per entrare in Parlamento? Secondo Renato Mannheimer "l'iniziativa di Fedez è interessante perché lui ha tantissimi follower, può attirare molti consensi e riempire uno spazio politico", spiega il sondaggista a ilGiornale.it . Il rapper potrebbe rosicchiare consensi al Movimento 5 stelle: "Fedez è un nuovo 5s che dice cose facili da capire, populiste e che fanno il verso alla protesta", prosegue Mannheimer. "Ovviamente non tutti i like diventeranno voti, ma una quota significativa di like può diventarlo. Dipende da quello che dirà e farà. Ritengo comunque che il suo ingresso in politica non sia una cosa fuori dal mondo". E' meno convinto che possa invece far parte di un esecutivo: "Che vada al governo mi sembra difficile, ma un 10 per cento potrebbe ottenerlo", conclude il sondaggista. Anche Federico Benini, fondatore di WinPoll, è convinto che "l'effetto novità" possa favorire Fedez che "potrebbe attirare le attenzioni dei giovani under 30 e non troppo politicizzati, oppure degli elettori di centrosinistra che in questi anni si sono astenuti perché non si riconoscono in nessun partito di sinistra". Potenzialmente, secondo il sondaggista, il rapper milanese avrebbe un bacino di 4-5 milioni di voti. "Prendiamo il fenomeno Conte, uno dei politici più amati fino a pochi mesi fa e che fino a tre anni fa nessuno conosceva. Considerando anche il fatto l'elettorato italiano è molto volatile, se Fedez, oltre alla battaglia sui diritti civili, aggiungerà altri temi alla sua agenda politica potrà avere un suo spazio nel campo del centrosinistra". Non la pensano così invece i politologi. I quali stroncano una eventuale discesa in campo di Fedez. "Penso che tutto questo sia fondamentalmente una trovata di marketing pubblicitario che gioca sulla convergenza mediale dei Ferragnez, i quali prima entrano nel dibattito pubblico e, poi, vedono i politici inseguire le loro iniziative di marketing", commenta Massimiliano Panarari, docente di Campaigning e Organizzazione del consenso alla Luiss di Roma. "Qualora, però, nascesse veramente un partito di Fedez, sicuramente si collocherebbe nell'area grillo-dem nato dopo l'esperienza del governo giallorosso e troverebbe il suo spazio, soprattutto in un momento come questo in cui il M5S si identifica in pieno col sistema". "Con Mario Draghi, è tornata di moda l'esperienza e la competenza. Non è il momento di chi non ha mai fatto politica prima", taglia corto Luigi Di Gregorio, professore di Scienza Politica all'Università della Tuscia di Viterbo. "Secondo me è più che altro un'operazione di marketing pre-elettorale anche perché scendere in politica sarebbe una mossa poco intelligente dal punto di vista degli interessi della coppia Ferragnez".

Il mastrotismo ha i giorni contati. La profezia dei Baustelle e il posizionamento del marchio Fedez. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 novembre 2021. Sono in tanti a non aver capito a fondo la strategia del marito della Ferragni: il suo essere testimonial di buone cause e di magliette, di bigiotteria pacchiana, di tatuatori e di diritti civili è fatto solo per conquistare nuove fette di mercato. In una vecchia vignetta di Altan, un tizio si faceva le grandi domande: chi siamo, dove andiamo, che codice fiscale abbiamo. Ho passato ieri a farmi quelle e altre grandi domande: che cosa vuole venderci il marito della Ferragni? È difficile resistere al mercato (amore mio)? La catastrofe è inevitabile? Ed è vero che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come Tomaso Montanari? «Anna pensa di soccombere al mercato, non lo sa perché si è laureata, anni fa credeva nella lotta, adesso sta paralizzata in strada, finge di essere morta, scrive con lo spray sui muri che la catastrofe è inevitabile». Nell’inverno 2008 esisteva un governo Prodi (sembra un attimo fa, sembra un secolo), esistevano i dischi (sembra un secolo, forse due), Chiara Ferragni non aveva ancora inventato il blog The Blonde Salad, il suo futuro marito era a malapena maggiorenne, e i blog in cui una si fotografava per farci vedere com’era vestita sembravano molte cose ma certo non un antipasto di futuro (è tutto un attimo, diceva quella). Fu allora che vennero poste le basi per decodificare il 2021. Per dividerci tra chi riconosce Anna e chi no. Naturalmente non eravamo pronti per sapere come sarebbe andato il mondo tredici anni dopo (in un’epoca in cui gli anni valgono come quelli dei cani, e in tredici anni cambia tutto come in un paio di secoli), e quindi non riconoscemmo il futuro. «È difficile resistere al mercato, Anna lo sa. Un tempo aveva un sogno stupido: un nucleo armato terroristico. Adesso è un corpo fragile che sa d’essere morto e sogna l’Africa. Strafatta, compone poesie sulla catastrofe. Vede la fine in metropolitana, nella puttana che le si siede a fianco, nel tizio stanco, nella sua borsa di Dior». Nel 2008 i Baustelle erano il gruppo più amato dai laureati in lettere, e quando incisero “Il liberismo ha i giorni contati”, l’unica loro bella canzone, non sapevano che Anna era un ragazzino di Buccinasco, aspirante rapper, che non riuscendo a scrivere neanche una bella canzone poi avrebbe cambiato carriera per diventare il Giorgio Mastrota della sua generazione, e che neanche nei sogni più bagnati avrebbe potuto pensare che Dior fosse alla sua portata. Tredici anni dopo, Chiara Ferragni il ragazzino di Buccinansco se l’è sposato (in Dior), ci ha fatto due figli, lei è la più brava del mondo a vendere prosciutti (cioè: sé stessa e qualunque prodotto sfiori, dall’alta moda di Dior ai ravioli da supermercato) su Instagram, e lui pure se la cava. Lei ha un modello di bottega più suadente; l’anima del commercio di lui, invece, è strillare che vede la fine. Vedeva la fine nel 2015, quando litigava in tv di Cucchi (io se tirano fuori una cosa detta quando avevo 26 anni muoio di vergogna, lui la ricondivide periodicamente tutto bello orgoglioso di sé: dev’essere bellissimo essere esenti dai processi evolutivi). Vedeva la fine a maggio 2021, quando strologava in tv di offese ai gay in un concerto dedicato ai diritti dei lavoratori (e poi pubblicava telefonate con la Rai durante le quali si gonfiava d’indignazione tipo Hulk e, onde rendere chiaro anche alle fasce più ingenue del suo pubblico che l’indignazione è merce, con lo screenshot indignato si faceva la nuova foto profilo di Instagram, e poi la Rai lo denunciava, e poi finiva tutto a tarallucci e cuoricini). «Vede la fine in me che vendo dischi in questo modo orrendo, vede i titoli di coda nella casa e nella libertà» (era il 2008: Berlusconi era un problema, mica un’opportunità; era il nemico pubblico, mica era arrivato Salvini a venderci i tortellini al ragù e i mojito e a farci ristabilire gerarchie etiche e di cuoricinabilità). «Che cosa vuole venderci il marito della Ferragni» è una domanda non assoluta (la risposta sarebbe facile: tutto quello che siamo disposti a pagare, cioè tutto tranne le sue canzonette, alle quali deve allegare magliette per smerciarle) ma immantinente: che cosa vuole venderci col dominio fedezelezioni2023, il cui acquisto i giornali di ieri hanno inutilmente dibattuto. Solo chi pensa che il liberismo abbia davvero i giorni contati può pensare che il marito della Ferragni si candidi. E solo Tomaso Montanari, che mercoledì a Otto e mezzo – non avendo evidentemente mai ascoltato un testo di Francesco Guccini (ma anche solo uno di Ani DiFranco) – ha detto «Fedez fa già politica scrivendo i testi che scrive, ha certamente più impatto sul costume e sulle idee di gran parte del mondo politico, e forse c’è più visione politica nei suoi testi che nell’intera politica del governo Draghi», solo lui può pensare al marito della Ferragni come a un politico che faccia politica in modo nuovo, e non a un Giorgio Mastrota che in modi nuovi ci venda bici col cambio shimano vecchie. No, non è vero. Cioè, è vero che i Montanari sono tantissimi. Tantissimi quelli che neanche capirono una roba trasparente come l’operazione primo maggio. Tantissimi quelli così fessi da aver scambiato il marito della Ferragni che vendeva sé stesso – il suo essere testimonial di buone cause e di magliette, di capi d’alta moda e di borsoni d’acrilico, di bambini malati e di bigiotteria pacchiana, di tatuatori e di diritti civili – per un progresso fatto da un disegno di legge. Sono tantissimi, e hanno tutti diritto di voto e a volte persino diritto d’editoriale, quelli che hanno creduto che Fedez si stesse mettendo al servizio della Zan invece di capire che stava usando la Zan per aumentare il proprio valore di mercato, per migliorare il posizionamento del marchio Fedez. Figuriamoci se non credono che si candidi. Non capiscono la contemporaneità, possono mai capire che lo smercio d’un disegno di legge funziona come quello d’un prosciutto? «Muore il mercato per autoconsunzione, non è peccato, e non è Marx ed Engels, è l’estinzione, è un ragazzino in agonia».

Paolo Landi per “Il Foglio” il 18 ottobre 2021. La notizia non è che Vogue abbia scoperto – diciamo con una decina d’anni di ritardo – Chiara Ferragni, mettendola in copertina. La vera zampata da giornalista della nuova direttrice del blasonato magazine Conde Nast, Francesca Ragazzi, è avere affidato il pezzo a Michela Murgia. Una si esprime con le immagini, l’altra con le parole; una è bionda e slanciata, l’altra è bassina e scura scura; una parla l’esotico inglese nasale di Los Angeles, l’altra il meraviglioso idioma sardo, che non possiamo fare a meno di sentire risuonare nella nostra testa quando leggiamo i suoi articoli, che ci seducono con la grana della voce anche se non sono podcast. In modi diversi sono due giovani donne famose e, come scriveva Walter Benjamin, “in chiunque sia coronato da successo abita un genio”. Perciò non abbiamo resistito e abbiamo acquistato la rivista, immergendoci nella lettura di “Chiara privata”, testo di Michela Murgia, styling di Poppy Kain, foto di Scandebergs. In che modo devo affrontare questo fenomeno?, deve essersi chiesta la Murgia quando ha squillato il telefono e le hanno commissionato il ritratto di Chiara. Moravia aveva un sacco di domande da fare a Claudia Cardinale, nel 1962, quando la intervistò sul set, guardando la diva come un oggetto, isolandone il corpo e trasformandolo poi in apparizione che illumina il giorno e svanisce di notte. La Murgia sceglie l’empatia: aderisce ideologicamente a una vita che non potrebbe essere più diversa dalla sua, come se la conoscesse nel profondo o come se, piuttosto, di quella vita in vetrina, non ci fosse nulla che valga la pena approfondire. Con molta umiltà “prende appunti” perché, dice, “nessuno conosce le piattaforme social meglio di Chiara Ferragni”, costretta a citare Forbes come fonte attendibile quando dice che la Ferragni è “l’influencer di moda più importante del mondo” e gli “infiniti outfit” che condivide sulle piattaforme. Ne prende le difese, con gesto paternalistico poco adatto alla sorellanza: “Per anni centinaia di persone si sono impegnate a denigrarla, la blogger che parlava di moda, l’influencer che non si capiva che mestiere facesse, l’ennesima biondina belloccia che nell’arco di sei mesi sarebbe stata dimenticata”. Iniziando questa nuova collaborazione con una rivista così sofisticata la Murgia si dà una riverniciata di coolness: si capisce, tra le righe, che per lei la Ferragni è un’aliena, però la invidia, “è più ascoltata di un tg in prima serata” (l'universo domestico condiziona la Murgia facendo capolino da un televisore in salotto), e più letta, addirittura, “di tutti i giornali messi insieme”. “Spaventati da quell’impatto c’è chi”, dice Michela, “parla di abuso di posizione dominante e chiede di regolamentarla come se fosse una testata”. Qui la vera Murgia si scopre, facendo finta, con quel “c’è chi” di non essere lei a spaventarsi “dell’impatto” e a ipotizzare la regolamentazione della Ferragni, ma il lettore si accorge subito che secondo lei una certa disciplina sarebbe sacrosanta e la butta là giusto per mettere una pulce nell’orecchio al Codacons. Chiara compare nei virgolettati di questo lungo articolo come la persona incantevole che deve essere, nonostante certe cadute di gusto sui politici che non le si addicono, ma che sono sicuramente un incidente di percorso da dimenticare. Una ragazza che non si è fatta scoraggiare nell’inventarsi un lavoro nuovo, nato, come spesso accade alle imprese fortunate, da una passione. Ma subito la Murgia: “E’ con questa orizzontalità apparente che Ferragni – omettendo il “la”, come da istruzioni per l’uso femminista della lingua – ha fatto invecchiare i media tradizionali, un tempo amministratori unici di un racconto pubblico… ecc. ecc.”. Tagliamo questa frase da scrittrice-notaio: si può dire che è lei che fa invecchiare la Ferragni? Lei “amministratrice unica di un racconto pubblico” che ammazza con il burocratichese di sinistra anche la leggerezza e l’intelligenza di una ragazza giovane, sveglia, forse frivola ma certamente svincolata dal vecchiume ideologico che incrosta il pensiero della Murgia? In questo articolo la racconta come se fosse una sconosciuta, la Ferragni, di cui soprattutto le lettrici di Vogue conoscono anche il più minuscolo risvolto di vita, rivelando che l’unica forse a non sapere nulla di questa celebrità social era semmai proprio lei. Finalmente la scrittrice fa una domanda all’influencer: “Chi sarebbe Chiara Ferragni se domani Mark Zuckerberg cancellasse il suo profilo Instagram?”. Una domanda che fa intravedere un mondo. Un mondo così lontano dagli studi televisivi della 7 e dall’ultima pagina del vetero-Espresso, dove la Murgia si esprime sempre con la schwa (o “Scevà”), ma non qui, non qui su Vogue dove la liberazione di genere si è evidentemente già compiuta; un mondo che se cancellasse la Murgia, Zuckerberg non se ne accorgerebbe nemmeno.

Fedez nei guai: indagato per diffamazione. Samuele Finetti il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Il rapper è stato querelato per diffamazione dall'uomo che uccise i genitori per l'eredità. Non è la prima volta che scivola su una canzone: nel 2011 incise due canzoni con versi omofobi. Il rapper Fedez, al secolo Federico Lucia, è stato querelato per diffamazione da Pietro Maso, l'uomo che nel 1991 uccise entrambi i genitori per appropriarsi di parte dell'eredità. Gli avvocati di Maso hanno sporto denuncia ai carabinieri per uno dei versi della canzone "No Game-Freestyle", pubblicata lo scorso maggio: "Flow delicato, pietre di raso, saluti a famiglia da Pietro Maso, la vita ti spranga sempre a testa alta come quando esce sangue dal naso". Il rapper, quindi, è stato iscritto dalla procura di Roma nel registro degli indagati con l'accusa di diffamazione aggravata. Nella canzone, si legge nella denuncia presentata dall'omicida libero dal 2015,"è richiamata in maniera esplicita la drammatica vicenda personale e processuale che mi ha visto coinvolto e che a distanza di anni e di un faticoso e doloroso percorso personale sono riuscito a superare". "La libertà di espressione e di manifestazione del proprio pensiero, anche e soprattutto nel caso di specie - conclude Maso nella denuncia - non può determinarsi in modo da ledere l'onorabilità altrui, atteso, vi è più, che la vicenda che ha interessato il sottoscritto, ad oggi, non assume alcun interesse in termini di attualità e rilevanza storica". Non è la prima volta che il marito di Chiara Ferragni viene denunciato per diffamazione. Il caso più eclatante riguarda il discorso che il rapper aveva pronunciato durante il concerto del Primo maggio. Dal palco, Fedez aveva attaccato direttamente alcuni esponenti della Lega, accusandoli di sostenere posizioni omofobe. Oltre alle querele dei diretti interessati, era arrivata una denuncia direttamente dalla Rai dopo che il cantante aveva registrato e diffuso una telefonata con i vertici di Viale Mazzini, che aveva deciso di procedere per vie legali "in relazione all’illecita diffusione dei contenuti dell’audio e alla diffamazione aggravata in danno della società e di una sua dipendente". La controquerela dell'artista era stata immediata. Dopo quel discorso, Fedez era stato travolto dalle polemiche per via di altre canzoni che contenevano riferimenti esplicitamente omofobi. In "Tutto il contrario", incisa nel 2011, l'artista cantava: "Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing, ora so che ha mangiato più wurstel che crauti". Stesso anno, altra canzone ("Ti porto via con me"), medesima frase incriminante: "Non fare l'emo frocio con lo smalto sulle dita".

Samuele Finetti. Nato in Brianza nel 1995. Due grandi passioni: la Storia, specie quella dell’Italia contemporanea, che ho coltivato all’Università Statale di Milano, dove mi sono laureato con una tesi sulla strage dipiazza Fontana. E poi il giornalismo, con una frase sempre in mente: «Voglio poter fare, 

Paolo Landi  per ilfoglio.it il 24 agosto 2021. Ci voleva Chiara Ferragni ad aggiornare, centocinquanta anni dopo, l’analisi teorica di Marx che, in Salario, prezzo, profitto (1865), preconizzava l’abolizione del lavoro salariato, condizione che il filosofo riteneva indispensabile per la piena emancipazione dei lavoratori. Senza farsi paladina di lotte sociali, senza scontri sindacali, la leader italiana degli influencer dimostra come il nuovo capitalismo digitale stia subentrando, in maniera indolore, anzi decisamente glamour, alle economie di produzione, sovvertendole. È tipico del capitalismo assumere aspetti sempre nuovi, di pari passo allo sviluppo tecnologico: senza probabilmente saperlo Chiara Ferragni ha posto le basi per relazionarsi in modo rivoluzionario con se stessa, la sua forza lavoro, il suo tempo, le sue relazioni con gli altri, fornendo suggestioni inedite nelle considerazioni sul libero mercato. Nell’epoca in cui la qualità della vita diventa passione di massa, la Ferragni è l’epitome del superamento del capitalismo dei consumi, rappresentandone tuttavia la massima espressione, verso la fine del lavoro tradizionalmente inteso, nell’affermazione di un iper-liberismo che mischia occupazione e tempo libero, e ridefinendo anche il concetto di plusvalore: perché quella parte del prodotto del lavoro che l’imprenditore trattiene per sé una volta remunerati i lavoratori salariati e che costituisce la base dell’accumulazione capitalistica e del profitto, la Ferragni la ingloba totalmente. Lei è l’imprenditrice e l’operaia, lavoro e tempo libero per lei sono la stessa cosa, lavora sempre senza lavorare mai, è essa stessa merce senza smettere di essere individuo, anzi, elevando alla massima potenza il valore di sé come persona. Marx avrebbe sgranato gli occhi per la meraviglia di questo comunismo distopico realizzato da una bella ragazza bionda. La Ferragni mette la pietra tombale sul rapporto di proprietà: chi la paga non è più proprietario né del suo tempo né delle sue braccia, lei non è tenuta a fornire alcuna prestazione né alcun tipo di servizio, tra lei e chi la remunera non sembra esserci alcun rapporto di lavoro, tutti e due impegnati a occultare la materialità dello scambio (i prodotti che lei pubblicizza hanno un valore tanto più alto se sembrano “scelti”, invece che frutto di un contratto), il valore che la Ferragni produce è intimamente legato al suo “essere lei”. Il suo lavoro coincide con la sua vita, nel superamento definitivo del concetto marxiano di alienazione, realizza profitti “vendendo” alla massa le immagini della sua quotidianità, tra figli, marito, predilezioni personali e modi di essere. È il suo gusto che diventa merce. Mentre il capitalismo globalizzato trionfa, il lavoro mette le basi per una trasformazione epocale: ce n’eravamo già accorti quando siamo passati dal fax alle e-mail, dal consumo di tv sull’apparecchio posizionato in salotto a Netflix, compulsato sullo schermo dello smartphone, fino agli acquisti effettuati su Instagram pagando con PayPal, senza nemmeno tirar fuori l’obsoleta carta di credito. L’economia del nuovo capitalismo digitale è un “niente”, si basa su valori immaginari, ciò che la caratterizza è un meccanismo di volatilizzazione delle realtà materiali. Il denaro assume un’importanza esagerata ma “guadagnato con il sudore della fronte”, come si sarebbe detto una volta, diventa ridicolo. Si fa strada la convinzione che la libertà non sia altro che il diritto di ciascuno di arricchirsi. Il capitalismo dei consumi, dei prodotti standardizzati, lascia il posto a un’economia di reattività, dove i criteri di competitività abbandonano le caratteristiche analogiche per spiegarsi ricorrendo a termini come qualità, innovazione, brandizzazione, immaterialità. Chiara Ferragni, mentre incarna paradossalmente il materialismo della vecchia società dei consumi, ne decreta la probabile estinzione: ci saranno sempre cose da comprare nei nuovi mercati social, ma la corsa non sarà a procurarsi più merci, bensì ad assicurarsi una vita migliore. Ciascuno diventa padrone del suo modo di vivere, arrivando addirittura a programmare significativamente la procreazione, che può avvenire nella libera scelta di uomini e donne, al di là delle specificità sessuali e di genere e seppellendo per sempre il concetto di riproduzione “per fornire figli al mercato del lavoro”. Nel nuovo mercato del lavoro si smette di misurare la quantità secondo il tempo: non più ore, giorni, settimane, mesi ma, come ci ha insegnato l’home working in tempo di Covid, un flusso che annulla l’unità di misura. Se una merce aveva un valore stabilito sulla cristallizzazione del lavoro sociale, corrispondente alle quantità o somme di lavoro impiegate, realizzate, fissate in esse, ecco che la rivoluzione Ferragni sconvolge la filiera. E se un’ora di lavoro di un tecnico equivaleva a due di un operaio, il valore del lavoro di una influencer si calcola sulla quantità di follower che riesce a “ingaggiare”, traducendo con questa parola più cruda l’inglese “engagement”, che significherebbe anche, in modo più ipocrita, “impegno, partecipazione”. La Ferragni, sempre pienamente oziosa e sempre pienamente occupata, esempio sincronico di lavoro durissimo e di vacanza infinita, prefigura il futuro di un lavoro che sta già scompaginando le regole gerarchiche: sui social le professioni si equivalgono, il dog sitter e il tecnico IT, il parrucchiere e il promotore finanziario sono uguali, gli indicatori di censo che funzionavano prima appaiono oggi livellati perché i social parlano allo stesso modo, snobisticamente, del lavoro e dell’ozio. #myofficetoday e #lovemyjob sono gli hashtag che esemplificano questo nuovo modo di concepire il lavoro, che non c’entra più nulla con l’etica del sacrificio o con le performance competitive ma che, obbedendo al diktat social della felicità esibita a tutti i costi, mette insieme avvocati e stylist, banchieri ed estetiste, chef e ingegneri. Tutti impegnati a dimostrare di divertirsi lavorando, proprio come fa la Ferragni. Sembra quasi che il progresso tecnologico debba mettersi al servizio di questo azzeramento di conflitti, di questa pace sociale, anzi “social”, che sembra aver abolito le classi, di questo sovvertimento gerarchico tra scale e valori. Se l’epoca moderna dei consumi era pilotata da un progetto di democratizzazione dell’accesso ai beni commerciali – e si spingevano le persone ad appropriarsene in quantità sempre maggiori – la nuova fase pionieristica del capitalismo, quella che stiamo vivendo, si volge verso la privatizzazione della vita e l’acquisizione di autonomia da parte degli individui nei confronti delle istituzioni collettive. C’entra anche il narcisismo fomentato dai social: ciò che importa di più è l’immagine sociale, mentre l’omologazione digitale fa intendere che un “diritto al lusso”, al superfluo, a una vita da vivere “alla grande”, sia oggi possibile. Già Marx si era accorto che non esiste il valore del lavoro, nel senso comune della parola, perché era la quantità di lavoro necessario incorporata in una merce a determinarne il valore. Ma la “merce Chiara Ferragni” che incorpora in se stessa la forza-lavoro sovverte anche l’assunto di Thomas Hobbes citato da Marx in Salario, prezzo e profitto: “Il valore di un uomo – scriveva l’economista-filosofo inglese autore del Leviatano – è come per tutte le cose il suo prezzo, cioè è quel tanto che viene dato per l’uso della sua forza”. Perché gli influencer non vendono la loro forza-lavoro, vendono se stessi: così facendo il loro valore e il loro prezzo prendono l’apparenza esteriore del prezzo o valore immateriale della loro performance. Possiamo definire l’economia contemporanea dei consumi un’economia “emotiva”, avvolta in un’atmosfera di leggerezza, di gioco, di giovanilismo, di erotismo. In un momento importante di mutazione del lavoro e delle sue regole, dovuto all’accelerazione tecnologica, il nuovo capitalismo digitale spinge anche verso una mutazione antropologica: il modello Ferragni, semplificando, preme verso l’infantilizzazione dei giovani e del rifiuto psicologico degli adulti di invecchiare, in uno scenario dove la precarietà e la povertà sono in crescita costante. Non a caso è il reddito di cittadinanza uno dei totem agitati dalla politica: dal lavorare meno lavorare tutti al non lavorare affatto mentre, di contro, il tempo dei consumi digitali non conosce momenti di interruzione o di pausa. Lo stato che si fa carico della sopravvivenza dei propri cittadini non è poi così utopico, se il lavoro come lo intendevamo tradizionalmente si stravolge. Prima la rivoluzione industriale sostituì l’uomo con le macchine, per rendere più efficiente lavoro e produzione. Ecco che siamo quasi pronti a sostituire le macchine con procedimenti di automazione digitale integrati. Secondo una ricerca di McKinsey il 64 per cento del lavoro ha già il potenziale di essere automatizzato, tagliando fasi del processo di produzione, riducendo necessità di stoccaggio e spedizione mentre app, robot e algoritmi saranno in grado di monitorare processi e apportare modifiche. Chiara Ferragni, con il suo desiderio di divertirsi lavorando, aveva visto lungo: non è più necessario adattarsi alla fabbrica o all’ufficio del futuro perché quella fabbrica e quell’ufficio non esisteranno più. E le stampanti 3D, che presto non si chiameranno più così per via dell’arcaismo della parola “stampante”, ci introdurranno nel mondo magico delle copie, già celebrato dall’arte con il ready made duchampiano e poi dall’evoluzione del realismo verso l’iperrealismo, dove un dipinto realizzato con la tecnica dei colori a olio su tela sembra uguale a una fotografia. Il già fatto, il confezionato, il prefabbricato sarà replicabile in 3D, gli oggetti industriali che l’arte privava delle connessioni con la tradizione artigianale, trasformandoli in puri simboli e decontestualizzandoli esponendoli nei musei, saranno prodotti da noi stessi. Conteremo noi, conteranno le nostre individualità: a questo ci stanno allenando i social, facendoci per il momento esercitare con i like che nutrono il nostro narcisismo ed elevando Chiara Ferragni a modello, adeguando la ricerca della felicità privata a regola di comportamento e, alla fine – il che non sembra proprio un male – esaltando l’individuo e i suoi diritti come fondamento ultimo e norma organizzata della vita pubblica.

Chiara Ferragni: “Perché vado dallo psicologo una volta a settimana”. Alice Coppa il 24/08/2021 su Notizie.it.  Chiara Ferragni ha confessato i motivi che l'avrebbero spinta a rivolgersi ad uno psicologo. Chiara Ferragni ha risposto ad alcune domande dei fan e ha svelato per la prima volta perché una volta alla settimana andrebbe da uno psicologo. Anche Chiara Ferragni ha deciso di concedersi del tempo per sé per andare da uno psicologo. L’influencer ha confessato la questione serenamente mentre rispondeva ad alcune domande dei fan, e ha dichiarato: “Ci parlo una volta la settimana da circa un anno e mezzo ed è una cosa bellissima un lusso che mi concedo per ragionare meglio, per stare meglio, per pensare a quello che mi è successo durante la settimana”. L’influencer ha anche dichiarato che in passato avrebbe sofferto di attacchi d’ansia e che andare da uno psicologo l’avrebbe aiutata a superarli. Chiara Ferragni ha svelato che ne avrebbe sofferto in particolar modo nel 2015 durante il suo trasferimento a Los Angeles, che la portò a stare per diversi mesi lontana dalle persone a lei più care.

Chiara Ferragni: la vita privata. Oggi l’influencer ha trovato la felicità: oltre ad essere diventata senza dubbio una delle imprenditrici più famose d’Italia ha realizzato il suo sogno d’amore accanto a Fedez, con cui quest’anno – dopo il piccolo Leone – ha avuto la sua seconda bambina, Vittoria. La coppia sembra essere più felice ed unita che mai e molto presto i due si trasferiranno in un nuovo appartamento che gli consentirà di avere più spazio.

Chiara Ferragni: il nuovo appartamento. Chiara Ferragni ha svelato ai fan sui social che lei e Fedez hanno acquistato un nuovo lussuoso appartamento nel quartiere di CityLife che dovrebbe essere pronto nel 2022. Lì la coppia avrà sicuramente più spazio per sistemare le camerette dei loro due bambini e sui social Chiara Ferragni ha dichiarato di essere emozionata per l’acquisto della sua prima casa insieme al marito: “Abbiamo comprato la nostra prima casa insieme. Una casa familiare. Quella in cui siamo, anche se ci stiamo benissimo, è in affitto. Finalmente abbiamo trovato la nostra casa dei sogni”, aveva dichiarato via social, e ancora: “È un appartamento come piace a noi e devono ancora costruirlo: dovrebbe essere pronto l’anno prossimo e c’è tempo per organizzarlo al meglio”. In tanti tra i fan sui social non vedono l’ora di vedere la nuova casa della famiglia Ferragnez.

Da "ilmessaggero.it" il 7 agosto 2021. Chiara Ferragni a Porto Cervo. I Ferragnez al completo (Fedez, Chiara Ferragni, Leone e Vittoria) sono sbarcati in Costa Smeralda per le loro tradizionali vacanze di agosto. Anche quest'anno, l'imprenditrice digitale e il rapper hanno affittato una villa da sogno. Stavolta però a Porto Cervo (la scorsa estate a Santa Teresa di Gallura). A descrivere la residenza principesca, il sito d'informazione locale Gallura Oggi: «La villa è lussuosissima. Solo la zona abitabile è di ben 650 metri quadri su un lotto di circa 4000. Ovviamente con piscina e tutti i confort, tanto che nel cortile c’è anche un campo da basket. L’interno della residenza è incredibile, dentro c’è anche un teatro, una sala fitness e sette camere da letto (tre per gli ospiti)». Secondo il sito, l'affitto della mega villa partirebbe da 3.500 euro a notte. Il prezzo da capogiro lascia basito più di un fan: «È immorale». Ma i Ferragnez continuano a far sognare, la vacanza principesca continua. 

Da "liberoquotidiano.it" il 7 agosto 2021. La bella vita. Ferie esclusive. Anzi, molto di più. Ovvio, se sei Chiara Ferragni e disponi del suo patrimonio. Ma a molti - rosiconi - la circostanza non va giù. Ma procediamo con ordine. Come sempre, la moglie di Fedez, il rapper più amato dalle bambine, documenta passo passo la sua vita sui social, quei social che sono l'epicentro di tutte le sue fortune. E così eccola, la Ferragni, in vacanza a Porto Cervo, Sardegna. I Ferragnez sono al completo: Chiara, il maritino e i due figli, Leone e Vittoria. Tutti in Costa Smeralda per le vacanze agostane. E anche quest'anno hanno affittato una villa pazzesca, che viene descritta per filo e per segno da Gallura Oggi, un quotidiano locale. "La villa è lussuosissima. Solo la zona abitabile è di ben 650 metri quadri su un lotto di circa 4000. Ovviamente con piscina e tutti i comfort, tanto che nel cortile c’è anche un campo da basket. L’interno della residenza è incredibile, dentro c’è anche un teatro, una sala fitness e sette camere da letto (tre per gli ospiti)", spiega Gallura Oggi. Dunque, il medesimo quotidiano, snocciola le cifre necessarie per accaparrarsi l'immobile: secondo quanto riportato, il prezzo è di 3.500 euro a notte. Prezzo che, come detto in premessa, scatena gli haters, i quali commentando le foto postate dalla Ferragni su Instagram insultano e insistono: "È immorale". Amen. 

Paraguru Fedez dà lezioni senza studiare. Luigi Mascheroni l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. Fa battaglie giuste ma dal pulpito sbagliato, dà lezioni ma non studia, vuole bucare la bolla consumistica in cui vive. Arte, impegno e 21 grammi di felicità Versi di denuncia e versi denunciati #censuraFedez #Lega #Ferragnez #SbirriInfami #MaCheCa**oDiMusicaè? Sono molti gli artisti che influenzano la vita politica nel mondo. Taylor Swift, George Clooney, Mia Farrow... E poi ci siamo noi, con Levante, Willie Peyote e Fedez, featuring Chiara Ferragni. Che poi, a pensarci bene: come se fosse colpa dei cantanti e delle influencer se oggi appaiono più credibili dei politici. Ma la vera domanda è: sono i follower ad aver elaborato una fine coscienza politica o gli elettori a essersi ridotti a Instagrammer? Quando la politica finisce di dare spettacolo, è lo show che diventa politica. «Andiamo a governare!». In un'epoca sincopata, tum-cha tum-tum-cha, in cui i monologhi (a volte noiosetti) prevalgono sulle belle canzoni, scambiare la popolarità con l'autorevolezza e i like con i voti è un attimo (o un attico?). E così, nel momento in cui la politica sparisce, restano solo propaganda e social media marketing. Sono le grandi questioni sociali ridotte a merce: lo streaming dei buoni sentimenti e Moet sciandon. Ma pagano di più i diritti civili o il product placement? E così un giorno ci siamo svegliati scoprendo che Chiara Ferragni e Fedez sono la nostra Royal Couple. Poi sono bastati due tweet a elevarli a Anna Kuliscioff e Filippo Turati. Da una parte c'è Chiara Ferragni: ogni volta che attacca la Lega - #fashion #luxury #TotalLookDior #AbbassoSavini rinsalda l'alleanza tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico. Dall'altra Fedez, un po' Santo del Popolo un po' Attivista Politico, che cavalca l'anti-renzismo di ritorno con facili rappate populiste acchiappaconsensi che però funzionano bene sui giovanissimi, ed è anche per questo che Enrico Letta punta a estendere il voto ai sedicenni. In un colpo solo si amplia la base elettorale e si aumentano i ticket per il prossimo tour #FedezLive #Pd #M5s #SalviniPuzzone E poi tutti dalla D'Urso. Qualcuno ha detto che per le ingiurie e l'istigazione all'odio contenute nei suoi brani Fedez meriterebbe anni di carcere duro, per la qualità musicale l'ergastolo. Noi non la pensiamo assolutamente così. Siamo garantisti. Per altro: ormai rapper è una parola difficile da pronunciare senza arrossire. Meglio influencer. Quando le icone di ricchezza diventano miti politici, e viceversa. È per questo che Fedez piace così tanto a Luca Sofri e Natalia Aspesi? In realtà c'è poco da ridere, anche se certi look da teen-star di Buccinasch insomma. L'impero di Fedez - che ha 31 anni ma ne porta dodici - è un po' come quello di Berlusconi dei tempi d'oro: un partito azienda. Nel senso che fa business - #giornalistirosiconi #GiùLeManidaFedez e nello stesso tempo gli basta una diretta su Instagram per far cambiare idea al Pd. «No vabbé ma è carinissima la linea disegnata da Fedez!». «Ma quale? La linea di giacche in lurex?». «No, quella sul #DdlZan».

«Perché nessuno ha ancora detto a Flavio Briatore,/ che andare in giro con il pareo è un po' da ricchione?». Bella vita. Ed è bello poter dire «A 19 anni si è delle persone diverse», «Certe cose oggi non le rifarei uguali», «Erano altri anni». Gli anni passano per tutti: anche noi che scriviamo, per dire, una volta facevamo i ritratti di Eco e Vattimo E adesso di Scanzi e Fedez. Federico Leonardo Lucia di nascita e Fedez di rinascita, è di Milano, anno di scarsa grazia - anno di muri e di piazza - 1989; è cresciuto a Buccinasco ma le origini sono di Castel Lagopesole, una delle frazioni di Avigliano - che conta 652 abitanti, il numero di follower che la Ferragni racimola mentre si fa le unghie - in terra cafona di Potenza, quindi Lucano. Cosa vuoi di più dalla vita? Successo, fama, soldi, Music Awards, Disco di platino, Sanremo e X Factor. È stato bravissimo: li ha avuti. «We figa tanta roba». Pioniere del digitale, straordinario ideatore di crowdfunding, disubbidi@nte di lusso del villaggio globale, è il personaggio giusto del proprio tempo. Sono i tempi, purtroppo, a essere sbagliati. Ieri Paolo Conte, Battisti e De Gregori. Oggi Mika, Fedez e Achille Lauro. Credere nel progresso è dura. Ma poi il limite non sono i testi, o le rime. Sono le basi. E non musicali. La sua lezione in diretta Zan - non si può negare - mancava di flow ma soprattutto di una minima conoscenza della materia. Si dice «totale analfabetismo giuridico». Primo maggio, due serie tv, Rai3, 400 cento denunce del Codacons, 5 Stelle e sei album, Fedez è per l'Uguaglianza e la Dignità, ma non può criticare banche e multinazionali (acquista su Amazon e spedisci con FedEx). Cantava versi omofobi, ma il problema è #Salvini. Scherzava su «ammazzare uno sbirro» e «stupro la Moratti» ma fa la morale su #legittimadifesa e #LegaAssassina. Posta l'emoji di un pagliaccio e si veste da Fedez. Inneggia allo Stop Global Warming e svacanza col jet privato #BelloFareIFighiColGreenDegliAltri. J'accuse: «Stare dalla parte di ciò che funziona. La vita furbetta degli influencer». Essere social e in malafedez. La fedez comincia là dove la ragione finisce. Ferragni, donna di poca fedez. Professione di fedez. Misteri della fedez. Autodafédez. L'elettrorap è un dogma di fedez, la coerenza un tabù. Tattoo, pantaloni Versace, Satan Shoes, Fez e camicia nera - «Me ne frego!» Federico Leonardo Lucia in Ferragnez si atteggia a ribelle antisistema quando ha tutto il sistema (media e Big Tech) dalla sua parte. L'irrisolvibile paradosso - da cui non si esce con un freestyle - di chi aspira al consenso del mondo che vorrebbe capovolgere. Il problema è che un tuit di Fedez fa 20/30k cuori in un giorno. Questa è la nostra bolla. Speriamo che prima o poi non scoppi.

Showbitz, ritornelli pop, Instagram stories, vilipendio delle Forze armate e abuso di Auto-Tune, per Fedez le battaglie giuste, dal #DdlZan alla 194, sono la nuova frontiera della controcultura di lotta e di governo-Draghi, poi basta postare #SalviniBuffone e ci si ripulisce la coscienza. Stereo-tipi. La rivoluzione non è un pranzo gala, ma neppure una experience da Cannavacciuolo. «Solidarietà al compagno Fedez, Cuba&griffe, avanguardia della lotta contro il nazileghismo!». Di recente in tv, che non è la pagina Facebook dei Ferragnez ma ha ancora una sua autorevolezza, abbiamo sentito un politico dire - presagendo lo sbarco dei Ferragnez in Parlamento - «Fedez e Ferragni saranno i nuovi Beppe Grillo». Sono imprenditori come Berlusconi, influencer come Zan, eroi dei social come Salvini e capopopoli come Renzi. Si può fare. Come si intitolava quella canzone di Fedez che mi piace tanto? Vota sì per dire no.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

"Infami figli di cani": Fedez denunciato per vilipendio delle forze armate. Novella Toloni il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. Il cantante è stato denunciato da una Onlus per il testo del brano "Tu come li chiami", che contiene offese a militari e carabinieri. L'ente chiede anche l'oscuramento delle pagine web nelle quali è presente il testo della canzone. Vilipendio delle forze armate e istigazione a delinquere. Sono questi i reati contestati al rapper Fedez dall'Associazione pro territorio e cittadini onlus. Come riporta l'AdnKronos, l'ente ha denunciato formalmente il cantante alla procura di Milano per il testo della canzone "Tu come li chiami", dove carabinieri e militari vengono chiamati "infami" e "figli di cani". L'atto giudiziario porta la firma dal colonnello dei carabinieri in congedo Roberto Colasanti per conto dell'associazione, che si è mossa legalmente dopo le numerose segnalazioni arrivate nelle ultime settimane da carabinieri in congedo. Nella denuncia depositata in procura, Fedez è accusato di "vilipendio delle forze armate dello stato in violazione dell’art.290 c.p. per aver realizzato e diffuso tramite la rete internet il testo della canzone 'Tu come li chiami' contenente ripetute frasi offensive dei carabinieri e dei militari quali appartenenti alle forze armate della Repubblica italiana. E istigazione a delinquere per aver realizzato e diffuso in tempi diversi sulla rete internet". Nel testo della canzone, la cui prima pubblicazione risale al 2010, il rapper scrive: "Tu come li chiami carabinieri e militari, io li chiamo infami tutti quei figli di cani". Un ritornello ripetuto più volte nel testo che, come evidenzia la denuncia presentata dall'associazione nazionale, inviterebbe pubblicamente i suoi ascoltatori a insultare le forze armate. Insieme alla denuncia, l'Associazione pro territorio e cittadini onlus ha portato in Procura anche una relazione tecnica dettagliata. Quest'ultima - elaborata dalla Legal technology solutions con metodologia forense - ha consentito di acquisire le pagine web sulle quali il testo e la canzone sono stati diffusi negli ultimi undici anni e dei quali ora l'ente chiede l'oscuramento immediato. Si tratta dell'ennesima denuncia a carico del marito di Chiara Ferragni che, negli scorsi giorni, ha ricevuto un nuovo atto giudiziario dal Codacons, con il quale è in corso un braccio di ferro lungo mesi. L'associazione dei consumatori ha chiesto di bloccare il ricavato dell'iniziativa benefica Scena Unita, promossa da Fedez e altri artisti per supportare i lavoratori dello spettacolo. Una raccolta fondi da milioni di euro che è stata accomunata dal Codacons a quella di Malika Chalhy e utilizzata dalla giovane per scopi personali come l'acquisto di un'auto di lusso e di un cane di razza. Nonostante siano passati undici anni dall'uscita del brano "Tu come li chiami", ora Federico Lucia (vero nome dell'artista) dovrà nuovamente varcare le porte del tribunale.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lasc…

RAZZA PADANA - Fedez, come trasformare un battibecco sui gay nella lotta per la libertà. Come nasce un caso per uno che sta attento al cuore a sinistra e al portafoglio pure. Francesco Specchia su Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2021. Federico Leonardo Lucia detto Fedez, razza padanissima da Rozzano, profondo hinterland milanese, è un genio del marketing, uno stratega della fuffa fattasi battaglia civile, uno in grado di trasformare magicamente il vapore acqueo in 12 milioni di follower (e un po’ sticazzi). Verso Fedez, lo confesso, provo una malcelata invidia sociale. Mentre l’Italia è ancora martoriata dal virus, mentre si combatte a colpi di Recovery Fund per impedire licenziamenti a catene, la gente perde il lavoro e le famiglie perdono reddito e natalità, ecco che noi cronisti dedichiamo a Fedez e alla sua polemica in diretta sulla legge anti-omofobia dal palco del concertone, metà del notiziario di giornata. Ci fosse una testata giornalistica che avesse eluso la reprimenda di Fedez su Rai3. Il massimo è stato Il Corriere della sera che ci ha addirittura aperto il giornale con fondo (bello) del mio amico Antonio Polito, neanche avessimo dichiarato guerra alla Polonia. Fedez fa Fedez, sta attento al cuore a sinistra e al portafoglio pure; mette in onda un video in cui fuma una sigaretta elettronica e un altro in cui indossa un cappellino griffato, prodotti sponsorizzati vietatissimi a qualsiasi altro ospite o conduttore della tv di Stato; si ingegna per apparire sempre politicamente corretto e pronto all’applauso per la platea dei suoi formidabili 12 milioni di followers. In più studia una filippica fantastica sulla legge Zan approfittando di un’ingenuità della vicedirettrice di Raitre che lo chiama per ricordargli (una banalità) che in Rai non è prevista un’opinione politica senza un contraddittorio. E lui, di tutta risposta, parla a difesa (giusta, per carità) dei transomosessuali, mentre tutti noi -dato il contesto del concerto della Festa del Lavoro, dei valori mondiali del 1° maggio- ci aspettavano una reprimenda magari sulle condizioni dei lavoratori di Amazon di cui però, guarda caso, Fedez è testimonial. Qualcuno, di Fedez, in queste ore ricorda la coerenza. E alcuni testi di alcune sue canzoni. In Bella vita, per esempio, Fedez canta: “Perché nessuno ha detto a Flavio Briatore/che andare in giro col pareo è un po’ da recchione?”. Nell’altra canzone Tutto il contrario, Fedez scrive: “Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing/ Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti/ Si era presentato in modo strano con Cristicchi/ “Ciao sono Tiziano non è che me lo ficchi”. Roba che oggi, se fosse approvato il ddl Zan che tanto sponsorizza, gli costerebbe almeno 18 mesi di carcere. Ma tant’è, era giovane, e da giovane qualche cazzatella scappa. Oggi Fedez non fa cazzate; e se le fa riesce a renderle opinione di popolo, vezzo libertario, sacrale difesa delle minoranze, denuncia subdola d’ogni fascismo. La colpa è della Rai, che ingenuamente è caduta nella trappola. La mia solidarietà. A Morgan, che per aver fatto una battuta idiota sulla droga, prima di andare a Sanremo, si bruciò una carriera, mentre Fedez oggi è il prossimo candidato leader del Pd…

LA PAROLA CHIAVE – Il disegno di legge Zan. Il disegno di legge proposto da Alessandro Zan ha l’obiettivo di combattere ogni tipo di discriminazione. Omotransfobia, dunque, ma non solo. “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” si legge sul frontespizio del disegno di legge trasmesso dal presidente della Camera dei deputati alla presidenza il 5 novembre 2020. Non si parla solo di omosessualità e omofobia, quindi, come certa propaganda contraria al ddl vorrebbe far credere. Si affrontano anche temi come la violenza di genere, la discriminazione nei confronti dei disabili. Si quantificano le condanne, pesanti peraltro, per chi commette violenza o discriminazione e si propone l’istituzione di iniziative di sensibilizzazione reale.

Chiara Ferragni e Fedez, le "umili vacanze" dei paladini della sinistra: il Pd aggrappato a questi due, capito che roba è? Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. Hai capito, i paladini della sinistra? Hai capito, i nuovi "leader" di Pd e dintorni? Si parla ovviamente di Chiara Ferragni e Fedez, due multi-milionari, gente che più lontana da un operaio, giusto per fare un esempio caro proprio alla sinistra, davvero non esiste. E la coppietta, tra un post a favore del ddl Zan e un insulto al nemico politico di turno (ma i contenuti restano sempre a zero), ecco che si gode le sue "umili vacanzine". Già, i Ferragnez prima si sono concessi un break in un resort extralusso in Versilia, un posto dove la junior suite si paga la bellezza di mille euro a notte, mentre ora si trovano a Villa Bonomi, sul lago di Como. Insomma, roba proibita ai comuni mortali. Nulla di male, per carità. Soltanto fa ridere il fatto che la Ferragni e Fedez, dall'alto del loro lusso e sfarzo, siano di fatto i principali punti di riferimento di una sinistra in cui Enrico Letta non riesce a toccar palla. Ovviamente, la Ferragni documenta le sue vacanze su Instagram. La coppia ormai è di casa sul lago di Como, dove secondo alcune indiscrezioni starebbero anche cercando casa. Per quel che riguarda villa Bonomi, ha una delle più belle viste sul lago di tutta la zona. Tra le attrazioni, una promenade che è un tripudio di fiori e piante di tutti i tipi. La struttura dispone di undici camere da letto, una grossa piscina coperta e quattro ettari di vegetazione che la circondano.

Fedez, il gip archivia l’indagine per diffamazione: respinta la denuncia del Codacons. Ilaria Minucci il 16/07/2021 su Notizie.it. Il gip di Milano, Roberto Crepaldi, ha archiviato l’indagine per diffamazione aperta dopo la denuncia del Codacons contro il cantante Fedez. Il gip di Milano ha ordinato l’archiviazione dell’indagine per diffamazione aperta in seguito a una denuncia del Codacons contro il cantante Fedez. Il gip di Milano, Roberto Crepaldi, ha deciso di archiviare l’indagine per diffamazione aperta contro Fedez, al secolo Federico Lucia, aperta dopo la denuncia presentata dal Codacons datata 17 aprile 2020. La disputa si era generata in seguito a una storia pubblicata dal rapper sul suo account Instagram ufficiale realizzata per rivolgere pesanti accuse nei confronti dell’associazione dei consumatori. Il Codacons, infatti, aveva organizzato una raccolta fondi per contrastare il coronavirus ma non aveva rilasciato dettagli chiari e precisi circa la destinazione del denaro raccolto. A questo proposito, quindi, Fedez aveva criticato l’associazione asserendo che il Codacons volesse incrementare la propria visibilità sfruttando la tragica circostanza rappresentata dalla pandemia. Le accuse di diffamazione rivolte a Fedez, tuttavia, sono state archiviate dal gip di Milano che ha spiegato come le dichiarazioni rilasciate dall’artista siano una piena espressione della libertà d’opinione. La vicenda rappresenta soltanto una delle tante querele che il Codacons ha depositato contro il marito di Chiara Ferragni. Sulla base delle decisioni recentemente prese, il gip Roberto Crepaldi ha spiegato che le opinioni del rapper sono basate su fatti realmente accaduti che possono essere oggetto di critica. Pertanto, il gip ha reputato che le motivazioni esposte dal Codacons non fossero sufficienti per procedere con l’incriminazione per diffamazione. In seguito alla decisione del gip Crepaldi, Fedez ha festeggiato la notizia postando su Instagram un video che lo ritrae mentre si esibisce in una danza della vittoria, canticchiando le parole “e poi ne restano mille”. Il verso è tratto dal suo ultimo brano “Mille”, anch’esso motivo di contenzioso con il Codacons che ha denunciato la pubblicità occulta presente nel video della canzone, depositando un nuovo esposto contro l’artista. In un video apparso tra le storie Instagram, quindi, Fedez ha commentato l’archiviazione stabilita dal gip di Milano, dichiarando: “Oggi una piccola vittoria: hanno archiviato una querela che mi aveva fatto il Codacons. Assolto, quindi. E poi me ne restano mille…”.

Fedez assolto in tribunale: “Ho vinto contro la biografa di Salvini”. Alice Coppa il 14/07/2021 su Notizie.it. Fedez è stato assolto in tribunale a Livorno dopo una denuncia per diffamazione da parte della giornalista Chiara Giannini. Fedez ha annunciato via social di aver vinto la causa in tribunale contro Chiara Giannini, giornalista e biografa che lo aveva denunciato per diffamazione. Dopo l’udienza al tribunale di Livorno il rapper Fedez ha esultato tramite social, dove ha annunciato di esser stato assolto nella causa che lo vedeva protagonista contro la giornalista Chiara Giannini. I fatti risalgono al 2017, ossia a quando il rapper marito di Chiara Ferragni accusò la giornalista di aver pubblicato un articolo fasullo su di lui. In seguito ai fatti la Giannini sporse denuncia per diffamazione, ma i giudici hanno assolto Fedez perché il fatto “non sussiste”. “Siamo soddisfatti. È stata fatta chiarezza di un processo che è durato anche troppo. È il giusto epilogo di una vicenda giudiziaria che non doveva neanche iniziare”, hanno dichiarato i legali di Fedez, mentre lui ha aggiunto: “Belle notizie. Mi trovo a Livorno, dove oggi avevo un processo in cui ero accusato dalla giornalista, nonché biografa di Matteo Salvini, edita da Casapound. Processo di diffamazione. Mi hanno assolto, wow!!!”.

Fedez: i processi. Quello contro la giornalista in questione è solo uno dei numerosi processi che interessano Fedez. Nei mesi scorsi il rapper è stato più volte accusato dal Codacons, che ha sporto querela contro di lui. Il rapper ha in ballo anche un processo contro la Rai, che lo ha denunciato in seguito al discorso da lui tenuto (contro alcuni esponenti della Lega) durante il Concertone del primo maggio. Lui stesso ha ironizzato in merito alla questione una volta uscito dal tribunale di Livorno, dove ha citato il suo tormentone Mille affermando in merito ai processi: “Poi me ne restano mille. Torno a casa adesso, ciao”. 

Fedez: la vita privata. Querelle e processi esclusi si tratta di un periodo roseo per l’artista: il tormentone Mille  – realizzato in collaborazione di Achille Lauro e Orietta Berti – è in vetta alle classifiche, e lui e sua moglie Chiara Ferragni continuano a godersi il tempo in famiglia e insieme ai loro due bambini, Leone e Vittoria. La coppia ha annunciato che entro la fine del 2022 traslocheranno in una nuova casa sempre nel prestigioso quartiere di City Life, a Milano, dove da tempo hanno un appartamento in affitto.

Vittorio Macioce per "il Giornale" il 25 giugno 2021. Si chiama Fedez e a quanto pare è un maestro del pensiero. Non bisogna stupirsi. È l'opinionista che fa più rumore. Fedez parla e c' è subito qualcuno che risponde. Fedez scandisce il dibattito pubblico. Fedez pesa di più di Enrico Letta. Fedez con l'indice puntato e ballerino dice: «Raga, ma chi cazzo ha concordato il Concordato? Voi avete concordato qualcosa?» e manca poco che il Papa gli risponda. Ci pensa però monsignor Galantino: «O non sa o è in male fede». Fedez incassa e ringrazia. È così che funziona la piazza politica al tempo della democrazia virtuale: tu sei chi ti risponde. Il resto è Draghi e si è vaccinato. È così che in questo strano paese il banchiere è l'anomalia, il deviante, e il rapper il conformista, il maestro dell'orecchiabile. Non sempre ci crede. È una storia che sarebbe piaciuta a Pessoa. Il fedezismo è la faccia paciosa del grillismo. È rassicurante, ma ne incarna lo spirito populista. È l'influencer qualunque, l'ultimo discendente di Guglielmo Giannini, il commediografo e giornalista che nel dopoguerra inventò il Fronte dell'uomo qualunque. Giannini, come Grillo, amava storpiare i nomi dei suoi avversari. Calamandrei lo chiamava «Caccamandrei», Ferruccio Parri fu ribattezzato «Fessuccio Parmi». È l'ingrediente base del qualunquismo. Giannini ballò una sola stagione e fu archiviato come fenomeno di destra. Fedez è qualunquista, ma di sinistra. È il fronte del palco ideale per la nuova ditta Letta-Conte. È lì che trova e allarga il suo spazio d' azione. Fedez qualunquista, ma se difende i diritti Lgbt?. Non cambia. Non è che le battaglie di Giannini o di Grillo fossero tutte da buttare o senza senso. Se hanno trovato consensi è perché esprimevano disagi. Qualunquista è il metodo. È come le porti in piazza. È come parli, a chi parli, quali corde smuovi. La questione dei diritti, in generale, si presenta nella discussione pubblica in modo binario e bidimensionale. È aperto o chiuso. È luce accesa o luce spenta. È solo presente, senza profondità o prospettiva. Tutto così finisce per assomigliare a un «trend» su Tik Tok o a un «hashtag» di twitter. È rapido, breve, immediato e funziona. Non c' è molto da dire: devi solo cliccare il «mi piace». Se ti inginocchi sei buono e se non lo fai sei cattivo. Il resto non conta. Non importa se, per esempio, temi che l'ossessione per l'identità possa creare un corto circuito nella carta dei diritti. È un dubbio. Se spacchetti l'umano fino ai minimi termini non è che si perde il principio di umanità? La forza dei diritti è che sono universali. «Tutti gli umani nascono liberi e uguali...».

Fedez, un nichilista esperto in giravolte. Karen Rubin il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Nella sua canzone "Tutto il contrario" Fedez si prendeva gioco di Tiziano Ferro, che coraggiosamente aveva dichiarato la sua omosessualità. «M i interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing. Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti. Si era presentato in modo strano con Cristicchi. Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?» Nella sua canzone «Tutto il contrario» Fedez si prendeva gioco di Tiziano Ferro, che coraggiosamente aveva dichiarato la sua omosessualità. Il video ufficiale, su Youtube, conta 12.623.407 visualizzazioni. Una realtà che non si attaglia all'attuale Fedez, paladino del mondo Lgbt, sostenitore del ddl Zan al punto da contrapporsi alla nota verbale con cui la chiesa cattolica auspica delle modifiche alla legge nel timore che vada in collisione con il Concordato. Ma perché si ritengono legittime le esternazioni di Fedez e non quelle di monsignor Galantino? Di Fedez sappiamo che ha frequentato un liceo artistico ma non si è diplomato, che ha scritto canzoni come «Tutto il contrario», «Generazione boh», «Faccio brutto», «Paranoia Airlines». Nunzio Galantino è laureato in teologia e filosofia con una tesi di laurea dal titolo «L'antropologia di Bonhoeffer come premessa al suo impegno politico». Bonhoeffer fu un teologo protagonista della resistenza al nazismo. Il monsignore ha insegnato nella scuola media statale e nelle università. Del rapper conosciamo moglie e figli esibiti sui social senza tutele per la loro tenera età, in pasto alla morbosità degli utenti. In rete una foto del piccolo Leone con il papà ha suscitato questo commento: «Sei un bel down come tuo padre». Ed ecco che a pagare le spese di questa sovraesposizione sono il bambino, inconsapevole, e le persone affette da sindrome di Down, grazie ad un circo organizzato per l'arricchimento personale mentre sponsorizza una legge che deve difendere la disabilità. Sappiamo che grazie a questa notorietà è diventato testimonial di Amazon, un'azienda criticata per le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti, ma è lui ad essere chiamato sul palco della festa dei lavoratori il Primo maggio. Il vescovo è noto per aver sostenuto la conoscenza di Antonio Rosmini, beato che sottolineò l'inalienabilità dei diritti umani della persona e sostenne la necessità della separazione del potere temporale da quello spirituale. Rosmini fu condannato dalla chiesa e poi riabilitato. Anche Fedez ha subito dure critiche quando per il suo compleanno, festeggiato in un supermercato, lui e i suoi amici hanno giocato a calcio con ortaggi e panettoni in barba alla povertà di cui soffrono milioni di italiani. La festa, trasmessa minuto per minuto sul profilo Instagram del rapper, è testimone di una scena che costrinse Fedez a fare una promessa di beneficenza riparatoria ai suoi follower inferociti. Ed è così che il nichilismo di Fedez si trasforma in filantropia, per riguadagnare un consenso andato perso. Karen Rubin

Ottavio Cappellani per la Sicilia il 30 maggio 2021. Chiara Ferragni è un algoritmo. Questo è il motivo per il quale le azzecca tutte: essa non inventa; analizza e prevede quali possono essere i trend futuri. Chiara Ferragni non “lancia” mode, le anticipa di quel soffio. La ciabatta con il calzino bianco, dicono alcuni, è una tendenza inconscia dovuta al lockdown per cui ci sentiamo carcerati, e, dopo la tuta, la ciabatta col calzino è un “must have”. Dissento. L’algoritmo di Chiara Ferragni è infallibile. Esso ha capito ciò che vado dicendo da tempo: la Sicilia è duecento anni avanti nella decadenza, e infatti la Ferragni ha iniziato a vestirsi come una tappinara sicula. La “tappina” è una ciabatta, calzatura usata dalle professioniste del meretricio a causa della comodità che comporta nel balzare dentro e fuori dal letto, qui “tappinara” non viene usata nel senso antico, ma in quello contemporaneo, smart, pratico, di donna che lavora e tira su i figli e non ha tempo per scegliere le scarpe per andare a fare le commesse, per cui si mette le tappine e via. Donne che portano avanti la gestione familiare e che in tempi di crisi sanno come non rinunciare alle comodità e al lusso. La spiaggia libera di Catania, la Playa, è il vero modello di riferimento dell’algoritmo della Ferragni. Svelato questo segreto possiamo agilmente prevedere i prossimi trend che ci proporrà l’influencer.

IL TAPPINARWARE. Un tupperware (contenitore di plastica con coperchio a scatto, inventato dalla signora Concetta Impallomeni riciclando una confezione di gelato da un chilo, atto a non fare impastare la pasta al forno con la sabbia) con il colore del coperchio abbinato alla tappina.

IL ROTOLO DI ALLUMINIO. Fogli di metallo per avvolgere il panino con la cotoletta. Perché la parmigiana va nel tappinaware e il panino nell’alluminio anche se non si deve infornare? Per non fare scivolare il contorno della cotoletta: peperoni, patate fritte, funghi, carciofini, caponata, cipolline, insalata russa, doppio formaggio, porchetta, strutto, pancetta e wurstel.

CANOTTIERA PREMACCHIATA. Così, anche se si macchia aprendo la carta d’alluminio contenente il panino, non se ne accorge nessuno e continuate a essere alla moda.

CHIARA FERRAGNI 15

BORSA FRIGO HAND MADE. Nel rispetto dell’ambiente, essa è composta con materiali di riciclo reperibili in casa. La borsa del calcetto di Fedez lavata con la candeggina e raffreddata con due bottiglie di plastica riempite di acqua e messe nel congelatore fino a diventare ghiacciate.

QUALCOSA PER RUTTARE. Lo smart drink da bere in spiaggia: acqua molto gassata (quella con la bottiglia blu che se la agiti esplode) comprata al supermercato tedesco, limone, sale.

KIT DA SPIAGGIA. Sedie a sdraio, tavolo ripiegabile dodici posti estendibile a trentasei, trentasei sedie pieghevoli, ombrellone-tenda di 300 metri quadri, televisore 90 pollici e parabola. In omaggio una nonna.

ANGURIA SOTTO IL BRACCIO. Perché, voi come la portate l’anguria?

Fedez si censura per soldi: per contratto “non può criticare banche e assicurazioni”. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 27 maggio 2021. Gli azionisti e finanziatori del rapper in Doom gli impongono il bavaglio in cambio di ricavi milionari. L’inchiesta dell’Espresso sui Ferragnez svela anche i segreti di Chiara Ferragni: il mondo fra Previti e Bisignani del suo socio romano e lo strano andamento in Borsa dei titoli delle aziende con cui collabora. Si erge ogni giorno a paladino della libertà di espressione, in realtà Fedez si censura da solo. Per soldi. Come ha scoperto l’Espresso visionando documenti che pubblica in esclusiva, Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, per i suoi affari ha accettato volentieri la censura: il gruppo Be, suoi azionisti e finanziatori in Doom amministrata dalla mamma Annamaria Berrinzaghi, gli ha imposto di non “rilasciare dichiarazioni inerenti al settore bancario e assicurativo che cagionino un danno alla società”. Pena l’interruzione di un’alleanza che soltanto nel 2021 dovrebbe fruttare 15 milioni di euro di ricavi. Così Fedez ha creato il suo sistema con Doom: recluta artisti e li addestra ai social, li coinvolge in spettacoli per le banche e poi li ingaggia con la sua nuova casa discografica. Alla festa dei lavoratori del Primo Maggio, quando ha denunciato il bavaglio della Rai, di certo non poteva criticare le politiche sindacali e fiscali di Amazon poiché ne incarna i valori essendo suo “ambasciatore” per 800.000 euro. La multinazionale di Jeff Bezos, tra l’altro, ha già avviato la produzione del documentario “The Ferragnez” che riprende la famiglia di Chiara Ferragni e di Fedez 24 ore su 24. Il servizio dell’Espresso, disponibile online da oggi e da domenica in edicola, mostra tutti i documenti esclusivi e racconta anche i segreti di Chiara Ferragni, del suo socio romano che porta al mondo di Bisignani e di Previti. E poi si descrivono gli anomali andamenti in Borsa dei titoli del gruppo Aeffe (Alberta Ferretti) e di Monnalisa, aziende di moda, nei giorni precedenti all’annuncio della collaborazione con l’influencer.

I segreti dell’impero Ferragnez: dall’autocensura d’oro di Fedez agli strani rialzi in Borsa delle società che ingaggiano Chiara Ferragni. Il rapper è in affari con una società di consulenza, ma non può criticare le banche. Mentre sua moglie firma accordi con case di moda che finiscono al centro di manovre sospette sul mercato azionario. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 27 maggio 2021. Fedez contro Fedez. Il Fedez che denuncia via Instagram la censura della Rai al concertone del primo maggio - «Quindi io non posso salire sul palco e dire quello che voglio?» - e l’altro Fedez, l’uomo d’affari che per salvare un business milionario accetta di non «rilasciare dichiarazioni inerenti al settore bancario assicurativo». È scritto proprio così in una delle clausole del contratto che regola i rapporti tra l’artista e i suoi soci del gruppo Be, quelli che gli hanno finanziato la neonata società Dream of Ordinary Madness, in sigla Doom, e gli hanno staccato un biglietto di benvenuto, appena firmato l’accordo, di 1,8 milioni di euro. «Quindi io non posso salire sul palco e dire quello che voglio?». E no. Mai citare le magagne bancarie o assicurative e neppure quelle di Amazon che guadagna miliardi e sposta i profitti in Lussemburgo per pagare meno tasse. Fedez non può permettersi di criticare le politiche sindacali e fiscali della multinazionale americana di Jeff Bezos perché ne è diventato “ambasciatore” per 800 mila euro e con la moglie Chiara Ferragni è impegnato nella registrazione del documentario “The Ferragnez” per Prime Video di Amazon. Un progetto inedito che manderà sul web i momenti salienti della vita privata e professionale di Fedez. Anche quando il rapper si censura da solo. “The Ferragnez”, scena uno. Ciak, si gira! Ecco i loro segreti, che L’Espresso è in grado di raccontare grazie anche a documenti esclusivi. Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, gestisce le sue molteplici attività per il tramite della holding Zedef, controllata assieme al padre Franco Lucia e alla madre Annamaria Berrinzaghi. Ha provato il trasporto di lusso con Autoscontri. Ha investito in Zerogrado, un’azienda trevigiana, per procacciarsi adepti su Facebook. Ha costruito e poi interrotto in Newtopia il sodalizio discografico col collega rapper J-Ax. Finché si è consegnato, un anno fa, al gruppo Be: sede legale a Roma, uffici a Milano, Londra e in altre capitali europee, 179 milioni di ricavi di cui 122 da banche e 45 da assicurazioni, 8 milioni di utili, 60 milioni in cassa, 1.448 dipendenti. Il primo azionista del gruppo è la Tamburi investment partners del finanziere Giovanni Tamburi con il 27,5 per cento del capitale, segue la famiglia dell’amministratore delegato Stefano Achermann con il 12,8 per cento. Il gruppo Be si muove in un mercato europeo in forte crescita e maneggia dati sensibili: fa consulenza a grandi istituti finanziari per le piattaforme informatiche e la comunicazione digitale e cercava un volto popolare per avvicinare banche e assicurazioni, cioè i suoi clienti, al pubblico dei giovani. Il cantante Fedez, invece, aveva bisogno di una multinazionale solida e in espansione per allargare il giro d’affari garantito dal suo volto popolare e dalla sua fama di influencer. Così, ad aprile dell’anno scorso, è nata Doom: maggioranza al gruppo Be attraverso la holding Be shaping the future e una quota del 49 per cento al rapper col veicolo Zdf. Alla firma del contratto, Fedez con mamma e papà ha incassato 1,8 milioni di euro e la signora Berrinzaghi è stata nominata amministratore delegato con un compenso annuale di 130.000 euro. Il gruppo Be è di fatto proprietario dell’immagine di Fedez e, come si legge nel verbale del consiglio d’amministrazione dell’11 dicembre 2020, la spreme in tre modi. Primo: «strutturazione commerciale del talent (sarebbe Fedez) più rilevante in portafoglio». Secondo: «crescita dei progetti di comunicazione integrata». Significa che Fedez e altri artisti, sportivi e influencer, sono coinvolti nelle pubblicità delle banche. Terzo: «avvio della società discografica Doom». Questa nota fa comprendere come funziona l’ecosistema plasmato dal gruppo Be: Doom svezza, alleva e promuove personaggi famosi, meglio se cantanti, e poi li propone come servizio aggiuntivo agli istituti bancari e assicurativi. Il 18 ottobre 2020, per esempio, Fedez era “ospite di eccezione” a “Lunghezza d’onda”, un concerto trasmesso unicamente su Youtube. “Lunghezza d’onda” era organizzato da Doom per Banca Mediolanum e Mastercard: Lodovica Comello in conduzione affiancata da Fedez, Matteo Bruno, detto Cane secco e Mirko Alessandrini, detto Cicciogamer89. Un paio di canzoni per Marracash e Madame. Mediolanum ha allestito la serata per piantare 7.000 alberi in Guatemala, anche se forse al nord di Milano ce n’è più bisogno. In realtà “Lunghezza d’onda” è stato un espediente per far conoscere ai ragazzi il conto Flowe che propone una carta in legno. E dunque qualche albero, magari non in Guatemala né a nord di Milano, va abbattuto per fare le carte. Un mese dopo, il 22 novembre 2020, visibilmente emozionato, Fedez ha chiamato a raccolta i suoi seguaci o followers per incitarli ad assistere l’indomani al concorso canoro “Dream Hit”: «Potrebbe essere un nuovo archetipo». Fedez ha omesso alcuni particolari essenziali: “Dream Hit” era un evento pubblicitario di Intesa ideato da Doom, tant’è che si doveva accedere ai canali della banca per ascoltare la musica e palpitare per la gara. Il 13 dicembre si è disputata la finale con in giuria Beba, Myss Keta, Carl Brave, Boss Doms, Jo Squillo, Lodo Guenzi. Ha vinto il giovane rapper Paulo, che si è conquistato anche un biennale con una casa discografia molto promettente. La Doom, ovvio. Il sistema, anzi l’ecosistema, è virtuoso. Nel 2020, in otto mesi d’attività, la società di Fedez e Be ha fatturato 8 milioni di euro di cui uno da Mastercard e quest’anno prevede di incassarne almeno il doppio grazie a clienti come Banca Intesa, Unicredit, Credit Agricolé, Skingood (integratori alimentari vegani), Dofar (farmacia digitale per malati cronici), Foodspring (prodotti per diete), Layla (smalto, già c’è una serie griffata Fedez), Hellobody (cura pelle e capelli). Nel contratto che regola i rapporti tra i due soci di Doom è prevista un’opzione di “put and call” a favore di Be. In pratica, a scadenze predeterminate, nel 2025 e nel 2027, la società guidata da Ackermann potrà decidere se disimpegnarsi oppure rilevare la quota di proprietà di Fedez e famiglia. Ma a scanso di soprese e di imbarazzi con i suoi clienti nel mondo finanziario, c’è anche una clausola che consente al gruppo Be di sciogliere l’alleanza se il rapper dovesse fare «dichiarazioni inerenti al settore bancario e assicurativo che cagionino un danno alla società». Questo è quanto si legge nel verbale del consiglio di amministrazione di Be del 7 febbraio 2020, quando l’amministratore delegato Achermann ha illustrato agli altri membri del Cda il contenuto del patto che ha dato vita a Doom. Questa volta, però, Fedez non si è immolato per la libertà di pensiero come ha fatto un mese fa con la Rai per l’intervento sul disegno di legge Zan contro le discriminazioni di genere. Il rapper dovrà girare al largo da banche e assicurazioni, argomenti che potrebbero mettere a rischio il portafoglio di famiglia. Ad aprile dell’anno scorso, nel consiglio di Be hanno esordito alcuni nuovi amministratori, tra cui l’economista Lucrezia Reichlin e Anna Maria Tarantola già capo della vigilanza di Bankitalia nonché ex presidente Rai. E chissà che cosa ne pensa la cattolicissima Tarantola, a capo della fondazione pontificia Centesimus annus, del disegno di legge che porta il nome del deputato dem Alessandro Zan.

PIÙ CHIARA DI COSÌ. Se il marito cantante si trova costretto ad aggirare gli scogli delle censure vere o presunte, Chiara Ferragni si tiene a distanza dalle polemiche e macina profitti sospinta da un esercito di oltre 23 milioni di follower. I bilanci del 2019, gli ultimi pubblicati dalle società dell’influencer, raccontano di ricavi per 6,4 milioni con utili per 450 mila euro per Tbs Crew, che gestisce il marchio The Blond Salad. Sisterhood, invece, a cui fanno capo le campagne pubblicitarie, è arrivata addirittura a 5 milioni di profitti su 11 milioni di giro d’affari. Ben più problematica si è rivelata la gestione di Fenice, che incassa royalties dal marchio “Chiara Ferragni”. Nel 2019, la società ha perso mezzo milione, quasi la metà dei ricavi. Un imprevisto che ha causato la rottura con il socio Pasquale Morgese, licenziatario del marchio Chiara Ferragni. Morgese però al momento risulta ancora azionista di Fenice e anche di Tbs Crew. Prosegue senza intoppi, invece, l’alleanza tra l’influencer e il coetaneo Paolo Barletta, presidente di Fenice di cui è azionista con una quota del 40 per cento. Rampollo di una famiglia di costruttori, romano con eccellenti entrature nella romanità, Barletta, assistito per l’occasione dallo studio Previti dell’ex ministro berlusconiano, ha aperto alla famiglia Bulgari il capitale della sua holding Alchimia, nel cui consiglio di amministrazione siede Lucrezia Bisignani, figlia del faccendiere Luigi. Ai primi di aprile ha fatto notizia l’ingresso di Chiara Ferragni nel consiglio di amministrazione di Tod’s, una delle aziende più note della moda made in Italy. «Ci aiuterà a studiare progetti solidali, ecosostenibili e di welfare», ha spiegato il patron del gruppo, Diego Della Valle. Si vedrà in futuro quale potrà essere, nel concreto, il valore di queste iniziative sui conti aziendali. Intanto però, in Borsa, la notizia del nuovo incarico per l’influencer ha fatto guadagnare il 14 per cento in un solo giorno al titolo Tod’s. «È l’effetto Ferragni», scrivono giornali e siti web, il tocco magico della star dei social che scatena la fantasia degli investitori. La fama digitale moltiplica il pubblico dei potenziali consumatori e le celebrità del web servono ad amplificare la forza di un marchio. In Borsa lo hanno capito da un pezzo e quindi cavalcano ogni iniziativa della diva di Instagram. Che intanto, però, ha fatto il salto di qualità, trasformando sé stessa in un brand. Anzi, meglio ancora, la sua immagine riprodotta milioni di volte al giorno attraverso i vari canali social è diventata l’icona di uno stile di vita che serve a promuovere i prodotti più diversi, dall’intimo ai costumi di bagno, fino alle scarpe e agli accessori. Ma la pubblicità non basta. La blogger diventa stilista e sigla accordi con le aziende di moda. Sono affari che muovono milioni molto prima che un solo abito finisca in vetrina.

FURBETTI IN BORSA. È successo di recente con Monnalisa, azienda toscana che venderà su licenza abbigliamento per neonati e bambini con il marchio Chiara Ferragni, che da tempo ha lanciato sui social i suoi due bebè come testimonial a loro insaputa. La notizia dell’accordo è diventata di dominio pubblico lunedì 23 novembre, grazie a un comunicato stampa della società, da due anni quotata sul listino Aim, quello dedicato alle piccole e medie imprese. Nel giro di pochi minuti il titolo Monnalisa è stato travolto dagli ordini di acquisto. Nei due giorni successivi il rialzo ha superato il 70 per cento e il valore dell’azienda in Borsa è passato da 17 a 30 milioni. La vicenda però ha un antefatto fin qui sconosciuto. I dati pubblici di Borsa segnalano che la reazione del mercato azionario non coincide con l’annuncio del nuovo contratto, ma lo anticipa almeno di una settimana. Nelle cinque sedute comprese tra venerdì 13 novembre e il giovedì successivo, alla vigilia del comunicato ufficiale, la quotazione di Monnalisa è cresciuta del 50 per cento circa e in quegli stessi giorni c’è stato anche un boom degli scambi, aumentati di oltre cento volte rispetto alla media del mese precedente. Questi numeri alimentano il sospetto che qualcuno a conoscenza dell’imminente annuncio si sia mosso in anticipo rastrellando titoli Monnalisa per poi rivenderli sull’onda del rialzo innescato dall’effetto Ferragni. Un affare semplice, con un guadagno assicurato: la quotazione è passata dai 2,32 euro di lunedì 16 novembre, quando la notizia del prossimo accordo era ignota al pubblico degli investitori, fino ai 5,70 euro di martedì 24 novembre. Un rialzo del 145 per cento in poco più di una settimana. Non risulta che la Consob abbia avviato un’indagine su un possibile caso di insider trading, cioè l’abuso di informazioni riservate, che è un reato. Sorprende però notare che un copione simile è andato in scena anche per Aeffe, l’azienda di moda controllata dalla famiglia Ferretti che proprio negli stessi giorni ha siglato un accordo di licenza con la metà femminile dei Ferragnez. L’intesa è stata annunciata il 25 novembre, ma il rialzo dei titoli Aeffe, quotata sul listino principale della Borsa, era partito almeno un paio di settimane prima. Sui Ferragnez, però, non soltanto sul mercato azionario, continuano a scommettere in molti. Perché ogni indumento, ogni accessorio, ogni discorso, ogni filmato di Fedez e Ferragni serve a promuovere un prodotto. Si muovono come due immensi centri commerciali ben distinti. Per una volta, però, hanno preferito unirsi. Con il documentario “The Ferragnez” per Prime Video di Amazon: telecamere ovunque in salotto e in ufficio, con i soci e con i figli. Doom fattura per Fedez, Ferragni incassa per conto suo, e anche Vodafone, secondo i documenti visionati, sarebbe interessata a partecipare all’iniziativa. «Quindi io non posso salire sul palco e dire quello che voglio?». E no. Adesso si capisce la collera di Fedez: oltre a discettare sul meteo, può dire quello che vuole solo sul disegno di legge Zan e poi farsi riprendere con moglie e i figli 24 ore su 24.

Così Fedez e la Ferragni "influenzano" la politica. Daniele Dell'Orco il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. Ormai i Ferragnez fanno politica a colpi di Instagram, il contrario della democrazia diretta, ma ironia della sorte sono stati "chiamati" in politica da Giuseppe Conte, l'attuale leader del Movimento 5 Stelle. È un fiume in piena ormai. Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, ha preso per qualche ragione sul personale la causa del Ddl Zan e un giorno sì e l'altro pure si avventura in invettive politiche a colpi di social. È il testimonial principe di un nuovo paradigma della comunicazione, quello di sollevare l'attenzione di centinaia di migliaia, in alcuni casi milioni, di persone su tematiche di carattere etico o politico per influenzare l'agenda parlamentare. Fedez e consorte, l'imprenditrice e influencer Chiara Ferragni, da soli mettono insieme qualcosa come 35.6 milioni di follower ben distribuiti tra Italia ed estero. Ma, schioccando le dita e scatenando hype, riescono a coinvolgere altre superstar del web nelle loro battaglie, come Elodie, Francesca Michielin, Levante etc. L'ultimo acuto di Fedez, ultimamente sempre meno canoro e sempre più da leader di folle, riguarda la riconferma del vitalizio a Roberto Formigoni. Scottato dalla mancata calendarizzazione del Ddl Zan, come "comandava" via social, Fedez ieri ha postato l'ennesima story contro il senatore Simone Pillon: "Vi ricordate qualche settimane fa il senatore Pillon che diceva che il Senato aveva un sacco di priorità? Avete letto la priorità di oggi? Confermato il vitalizio al Celeste, ovvero a Formigoni. Gli hanno ridato il vitalizio di settemila euro. Cazzo, queste sono priorità. Complimenti, buonanotte ai senatori". Posto che due, forse tre dei milioni di follower a cui parlano i Ferragnez conoscano davvero per cosa stia l'appellativo Celeste, o chi sia Formigoni, o i dettagli della sua vicenda giudiziaria, si tratta di un nuovo, pericolosissimo modo di fare populismo 2.0. Qualcosa che certamente proviene da lontano, ossia dal jet-set statunitense che da anni utilizza il web per sostenere posizioni politiche progressiste, idolatrare esponenti politici come Alexandria Ocasio-Cortez o Kamala Harris, rendere "cool" delle tematiche purché filtrate col proprio occhio. Ah, e soprattutto attaccare Donald Trump. Ora che l'elezione di Joe Biden ha dato la sensazione che rispetto al 2016 le posizioni di popstar, grandi sportivi, divi di Hollywood e influencer vari abbiano davvero spostato l'ago della bilancia, Fedez e Chiara Ferragni non si sono lasciati sfuggire l'occasione di rilanciare l'esperimento anche in Italia, e di diventare i capostipiti di quella "politica influencing" che rischia di rappresentare il futuro, specie man mano che riuscirà a coinvolgere i più giovani. Lorenzo Pregliasco, 34 anni, analista politico, cofondatore di YouTrend, professore a contratto anche all'Alma Mater, ha spiegato in una recente intervista a Repubblica: "Gli influencer, così come le aziende attraverso l'attivismo dei brand, riempiono un vuoto della politica. Insomma, non è più solo la politica ad occuparsi di politica". Ovviamente, non per forza in chiave positiva. Se la politica assume la forma di Netflix, vuol dire che non sarà più politica, ma show. Un grande spettacolo che premierà i cantori del politicamente corretto, poiché solo grazie ad esso Fedez E Chiara Ferragni hanno la possibilità di essere idolatrati, chiacchierati, portati come esempio da un sistema che li apprezza proprio per il "conformismo" delle loro posizioni alla narrazione dominante. Paradossale che in molti casi si tratta degli stessi schieramenti politici e intellettuali che predicano il trionfo del meritevole, del buono e del giusto. Ma che Fedez debba spiegare i passaggi parlamentari per il voto sul Ddl Zan è un esempio di merito? Ne ha i titoli? Ne ha il background? No, è un mero gioco delle parti, che oggi fa comodo e viene utilizzato come strumento. Domani potrebbe sfuggire al controllo e rendere non più i politici riconoscibili come tali, bensì gli influencer riconoscibili come politici. È l'esatto opposto della democrazia diretta teorizzata da Gianroberto Casaleggio e dal Movimento 5 Stelle della prima ora. Anzi, è una sorta di nuova oligarchia politica che utilizza il numero di follower come strumento di moral suasion. Anche in questo c'è qualcosa di comico, poiché ad "iniziare" Chiara Ferragni e Fedez alla militanza è stato Giuseppe Conte, lo scorso autunno, al momento della reintroduzione delle restrizioni anti-Covid. Quello stesso Conte, all'epoca Presidente del Consiglio, oggi è il leader del M5S, che sognava gli operai, i disoccupati, le casalinghe e in generale le persone comuni a dettare l'agenda dei propri esponenti politici e ora invece mitizza due fenomeni del web che dicono ai propri ignari seguaci cosa fare. E loro lo fanno. È successo anche lo scorso 3 aprile, giusto per fare un esempio, quando il Presidente della Commissione Giustizia in Senato, il leghista Andrea Ostellari, si è visto il profilo Instagram subissato di commenti lasciati da centinaia di adolescenti con scritto "Calendarizzate la Legge Zan". Non hanno fatto altro che copiare e incollare quanto scritto da Chiara Ferragni in una delle sue stories. Zero approfondimento. Zero confronto. Zero dibattito. Un bacino d'utenza sterminato di followers ai quali i Ferragnez dicono di voler "aprire gli occhi" usandoli in realtà come un gigantesco megafono per le proprie istanze. Giuste o sbagliate che siano conta poco. Perché spesso le cause specifiche vengono utilizzate come invettive nei confronti di qualcuno. Di norma, leghista. Proprio all'inizio del mese, infatti, Chiara Ferragni denunciò su Instagram il caso della nonna di Fedez, che sarebbe stata vaccinata a loro dire solo dopo che la coppia aveva sollevato il caso via social, e dicendo: "Scoraggiante vedere quello che accade, la vaccinazione è un diritto di tutti". Un modo come un altro per denunciare le inefficienze della Regione Lombardia e del suo Governatore, il leghista Fontana. Ats, in piena pandemia e con ben altri problemi a cui dover porre rimedio, ha dovuto replicare in tutta fretta: "Nessun operatore ha chiesto alla signora se fosse la nonna di Fedez". È un grande revival di quanto accadde in occasione del referendum per il divorzio nel 1974, quando il comitato per il No ebbe l'idea di assoldare come testimonial dei personaggi noti come Gianni Morandi, Nino Manfredi e Gigi Proietti per sostenere sul piccolo schermo le ragioni del fronte divorzista. Ma stavolta gli influencer hanno il potere di mettersi in proprio. Ideare delle istanze da zero. Superare partiti, comitati, soggetti civici che fanno davvero formazione e militanza. Bipartisan. Addirittura, possono fare cartello, coalizzarsi utilizzando uno strumento che non ha altri padroni se non loro. Non devono leggere un copione, non devono rispettare tempi televisivi, non devono chiedere spazi o obbedire alla par condicio.

Possono contare, persino, su un alleato in più: la censura. Facebook, che è pure proprietario di Instagram, non li silenzierà mai finché diffonderanno il Verbo progressista. Cosa che invece fa e continuerà a fare con gli sponsor di segno opposto. Ubi Fedez, minor cessat.

Ferragnez: ecco chi è tata Rosalba che si prende cura di Leone e Vittoria. Linda il 07/05/2021 su Notizie.it. In casa Ferragnez c'è una persona importante: si tratta di Rosalba, la tata che aiuta Chiara e Fedez a prendersi cura di Leone e Vittoria. Mentre i Ferragnez stanno festeggiando il compleanno dell’influencer più popolare di sempre, anche un’altra persona molto importante per la loro famiglia ha da poco compiuto gli anni. Si tratta nel dettaglio di tata Rosalba, della quale la stessa Chiara ha condiviso una foto nelle sue IG Stories dove la si vede abbracciare teneramente i bambini. Vestita di bianco e sorridente di fronte alla torta di compleanno, la donna ha letteralmente scatenando la curiosità dei fan. Com’è facile immaginare, Chiara Ferragni e Fedez non sempre possono passare il loro tempo con i piccoli di casa. Per questo hanno deciso di affidarsi a una professionista, ovverosia proprio alla signora Rosalba, che ormai lavora da diverso tempo per i due popolari Vip. La donna è stata assunta dopo la nascita di Leone e mamma Chiara la presentò ufficialmente sui social nell’estate del 2018, quando andò in vacanza con il figlio e con la tata. In quell’occasione la blogger cremonese pubblicò delle foto di Rosalba su Instagram, definendola “la miglior nanny di tutti i tempi”. Di lei si sa poco, anche se viene spesso nominata nelle Stories dei Ferragnez. Chiara Ferragni ha del resto sempre difeso il diritto delle donne di poter avere una carriera senza necessariamente sacrificarla per la famiglia. Rosalba è dunque una figura davvero importante sia per i bambini sia per Fedez e Chiara. Anche le super mamme hanno infatti bisogno ogni tanto di aiuto e non c’è nulla di male nel chiederlo.

L'impero social di Chiara Ferragni. Ecco quanto vale l'influencer a post. Neo consigliera del CdA di Tod's, l'influencer cremonese è sempre più "ricca". La metà del suo patrimonio arriva dalle sponsorizzazioni su Instagram. Novella Toloni - Sab, 10/04/2021 - su Il Giornale. Per aumentare esponenzialmente le vendite e la visibilità del proprio brand meglio affidarsi agli influencer. Lo sa bene Tod's che, dopo l'annuncio dell'ingresso di Chiara Ferragni nel Consiglio di Amministrazione, ha visto le proprie quotazioni in borsa impennarsi di oltre il 10%. Un'operazione voluta fortemente dal patron Diego dalla Valle per avvicinare i giovani al marchio toscano e che ha fatto "gioco", come si suol dire, anche all'imprenditrice digitale. Tutti la vogliono, tutti la cercano: come influencer, testimonial o partner imprenditoriale. Tutto ciò che tocca o crea poi vende, che si tratti di ciabatte oppure uova di Pasqua firmate Ferragni. Ogni mossa dell'imprenditrice e moglie del rapper Fedez è studiata e calcolata per creare profitto. Basti pensare alla nascita della secondogenita Vittoria. Sold out il pigiama indossato in clinica nei giorni della nascita. Sito in tilt per la vendita delle linea baby con tutine per neonata di lusso (e cifre da capogiro) disegnate in onore della figlia. Ogni collaborazione della Ferragni aumenta la sua visibilità sui social network dove, solo parlando di Instragram, è seguita da 23 milioni di follower. Un mondo quello del web che frutterebbe all'imprenditrice cremonese un fatturato da oltre 11 milioni di euro l'anno tra pubblicità e sponsorizzazioni varie in post, video e storie. Senza considerare il suo marchio di abbigliamento e accessori e il blog "The blond salad", che insieme raddoppiano gli introiti. È lei l'influencer italiana più pagata di Instagram. Hopper HQ, popolare sito britannico di analisi e monitoraggio dei social media, ha pubblicato la "Instagram Rich List 2020" dedicata agli influencer più pagati di tutto il mondo. La prima italiana a comparire nella lunga lista è proprio Chiara Ferragni, al 65° posto, che guadagnerebbe 59700 dollari (circa 53mila euro) per ogni post o contenuto video pubblicato sul suo profilo IG. Una cifra che arriverebbe addirittura a 77mila dollari per alcune sponsorizzazioni, secondo il portale di valutazione Influencer marketing hub, che analizza il coinvolgimento dei follower nelle attività dei personaggi su Instagram. In realtà un vero tariffario social non esiste. Ogni influencer, Chiara Ferragni per prima, conclude accordi e contratti di sponsorizzazione che possono far variare notevolmente il compenso finale. Ma i dati forniti da Hopper HQ non si discostano troppo dalla realtà e questo la dice lunga su come l'imprenditrice digitale debba tutto ai social.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 10 aprile 2021. Nel mercato delle sponsorizzazioni via social lei è la numero uno in Italia. Se il 14% del titolo Tod' s ha reso palese il valore (economico) di Chiara Ferragni anche ai più scettici, la regina dei social ha messo in piedi in pochi anni un piccolo impero finanziario tutto costruito intorno a sé. Un piccolo impero che vale oltre 11 milioni di euro di fatturato per l' attività pubblicitaria, i post e le stories su Instagram. Più il marchio Chiara Ferragni Collection gestioti dalla Fenice srl, più la Tbs Crew, per un totale di poco meno di 20 milioni di euro di fatturato nel 2019. I protagonisti del mercato si dividono in tre categorie: influencer (coloro che hanno un seguito solo sui social), talent (attori, sportivi e altri personaggi pubblici) e celebrities (il gradino più alto). La Ferragni è nell'ultima categoria, ovviamente. I suoi 23,3 milioni di follower su Instagram valgono almeno 50 mila euro per un post. Ma un vero tariffario non esiste: ogni contratto viene valutato come progetto a sé e il prezzo può variare anche considerevolmente a seconda del prodotto, del committente o del tipo d' impegno richiesto. Grosso modo possiamo stimare che per una presenza sui social della Ferragni un marchio del lusso può pagare tra 50 mila e 100 mila euro. Molto meno delle celebrities americane, ma più di chiunque altro in Italia. Queste attività - il core business di quella che potremmo chiamare la holding Ferragni - fanno capo alla Sisterhood, srl milanese della quale Chiara ha il 99% mentre il restante 1% è suddiviso tra la sorella Valentina e Fabio Maria Damato, amministratore unico della società nonché manager delle attività della Ferragni. Il settore di attività è la «ideazione di campagne pubblicitarie». L'ultimo bilancio disponibile è del 2019, e si è chiuso con 11,3 milioni di euro di fatturato, contro i 5,2 milioni dell' anno precedente. Il margine operativo è stato di 7,3 milioni, che dopo 2,33 milioni di tasse hanno lasciato un utile netto di poco meno di 5 milioni di euro. Numeri diversi per la Tbs Crew: gestisce tra le altre cose il sito The blonde salad, il nome del blog della Ferragni dal quale tutto è nato. Il fatturato 2019 è stato di 6,4 milioni, con 450 mila euro di utile. La Tbs Crew - nella quale la Ferragni ha il 55% - è la società più strutturata: 14 dipendenti e un socio di minoranza - la Mafra Shoes dei Morgese - che è stata a lungo anche partner del marchio Chiara Ferragni Collection. Lo scorso anno, in piena pandemia, i rapporti con i Morgese si sono però guastati. La famiglia di calzaturieri è socia anche delle Fenice, nuovo nome della vecchia Serendipity, la prima società nata - nel 2013 - per monetizzare le attività della Ferragni. Nel sito di Chiara Ferragni Collection, la Ferragni viene definita «musa, direttore creativo e ceo». La Ferragni ha il 32,5%, mentre il primo socio (40%) la Alchimia di Paolo Barletta, società d' investimenti che ha tra i soci anche Nicola Bulgari. Nell' assemblea del 15 luglio scorso si consuma la rottura con i Morgese in maniera piuttosto traumatica: nel verbale si legge che «la crescente fama raggiunta da Chiara Ferragni richiede dei licenziatari con uno standing patrimoniale, finanziario, distributivo e relazionale all' altezza della fama da lei raggiunta». Fama arrivata anche in Piazza Affari.

·        Fiorella Mannoia.

Fiorella Mannoia torna in tv. Una vita da donna libera e le nozze con il giovane Carlo. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. L’artista ha sposato il 22 febbraio Di Francesco, un musicista di 26 anni più giovane di lei. La grande amicizia con le donne e gli uomini che hanno scritto canzoni per lei.

La vita comincia a 50 anni

Fiorella Mannoia è talmente brava come cantante che parlare della sua musica è superfluo. Bastano tre titoli per dire tutto: «Come si cambia», «Quello che le donne non dicono»; «Il cielo d’Irlanda». Un timbro vocale unico. E il suo fascino che non accenna a calare, anzi è cresciuto (certo non dimostra neppure lontanamente 67 anni). Del resto Fiorella — donna molto impegnata nel sociale e nelle battaglie civili — ha confessato di aver cominciato a sentirsi bella a 50 anni. E davvero da circa 15 anni è più bella, dolce, ironica, empatica. Ha perso quella parvenza di snobismo che si portava dietro.

Il matrimonio

Proprio quest’anno, il 22 febbraio, poco prima di compiere 67 anni, ha detto sì per la prima volta, con rito civile. Fiorella Mannoia ha sposato Carlo Di Francesco, suo fidanzato da 15 anni, e di 26 anni più giovane di lei. All’inizio del loro legame infatti si parlò molto di questa differenza di età, ma Fiorella la prese ironicamente e disse a Vanity Fair: «La vecchiaia è faccenda di corpo, di muscoli. Per il resto è un’invenzione. La vecchiaia non esiste». Come sempre libera e controcorrente.

Carlo, fidanzato per 15 anni

Carlo e Fiorella sono stati fidanzati appunto 15 anni. Di Francesco è stato un docente di canto di «Amici di Maria De Filippi» e produttore musicale, ed è anche membro della band della Mannoia. Carlo nato in provincia di l’Aquila nel 1980 è un musicista affermato ed è specializzato in percussioni. Ama molto Cuba, città alla quale è davvero legato, e ha un fratello gemello.

Viva l’amore

Negli anni settanta e ottanta Fiorella ha avuto una relazione con il cantautore Memmo Foresi, che è stato anche suo produttore. Successivamente è stata legata 20 anni con Piero Fabrizi, anche lui musicista. «Il matrimonio non l’ho mai ritenuto una priorità. Le coppie devono stare assieme finché c’è amore. Ho sempre creduto che fosse eterno, però ho sempre pensato anche che la porta era aperta, sia per me che per lui. Forse questo non sposarmi era dettato dal desiderio di non vedere quella porta chiusa», ha raccontato a il Corriere.it.

Fiorella e le donne

Mannoia ha spesso collaborato con colleghe. Nel 2010 in «Ho imparato a sognare tour» c’è la partecipazione di Noemi in alcune tappe; mentre il 28 maggio 2010 viene pubblicato il singolo «Donna d’Onna», cantato insieme a Laura Pausini, Giorgia, Elisa e Gianna Nannini. Nella primavera del 2015 annuncia di essere al lavoro come produttrice per il nuovo progetto discografico di Loredana Bertè, un’antologia celebrativa per i suoi quarant’anni di carriera, ricca di duetti tutti al femminile e intitolata «Amici non ne ho... Ma amiche sì!». Tra le artiste che hanno partecipato alla realizzazione di questo album: Paola Turci, Patty Pravo, Elisa, Alessandra Amoroso, Emma Marrone, Irene Grandi, Noemi, Nina Zilli, Bianca Atzei e Aida Cooper oltre alla stessa Bertè e Mannoia. Il 26 giugno 2015 si esibisce al Summer Festival, per la prima volta dopo trent’anni, al fianco della Bertè, duettando in una nuova versione di «In alto mare».

I «suoi» uomini autori

Tanti grandi autori hanno scritto brani per Fiorella Mannoia. I più noti sono Ivano Fossati e Enrico Ruggeri. Ma anche Ron, Riccardo Cocciante e Francesco De Gregori

La tv

Venti/trent’anni fa probabilmente Fiorella non avrebbe mai accettato di condurre un programma tv. Invece negli ultimi anni si è avvicinato al piccolo schermo, ottenendo buoni ascolti e mostrando una non prevista capacità di conduttrice. Lunedì 25 ottobre torna su Rai3 con «La versione di Fiorella» (in onda il lunedì, il giovedì e il venerdì in seconda serata) dove si commenteranno i fatti accaduti il giorno stesso. Le sue precedenti esperienze sono state «Un, due, tre... Fiorella!» su Rai 1, nel 2017; e «La musica che gira intorno», sempre su Rai 1,nel gennaio di quest’anno

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” l'1 febbraio 2021. Aveva ammesso di sentirsi molto amata Fiorella Mannoia. Ma, fino a qualche anno fa, a chi le chiedeva perché non si fosse mai sposata, rispondeva: «Non l'ho mai ritenuta una priorità. Le coppie devono stare assieme finché c'è amore». Ora però l'idea di andare all'altare sembra aver guadagnato una certa precedenza rispetto ai suoi programmi: la cantante è pronta a dire sì al suo ormai storico fidanzato (sono molto riservati, sono pochissime anche le foto che li ritraggono assieme, ma stanno insieme da oltre dieci anni), il musicista e produttore Carlo Di Francesco. A rivelare questa notizia piuttosto inattesa, il settimanale «DiPiù» che ha scoperto le pubblicazioni del matrimonio. Nei prossimi mesi Mannoia, 66 anni e Di Francesco, quasi 26 meno di lei («Ma tra i due il più vecchio è lui» ha fatto sapere lei) diventeranno marito e moglie. Con grande pazienza, il musicista noto anche per il suo ruolo di professore ad «Amici», deve essere riuscito a chiudere quella via di fuga che la cantante, più o meno consciamente, lasciava sempre aperta nelle sue relazioni. Parlando dell'amore eterno, aveva infatti spiegato: «Ci ho creduto. Però ho sempre pensato anche che la porta era aperta, sia per me che per lui. Forse questo non sposarmi era dettato dal desiderio di non vedere quella porta chiusa». Ora però l'intenzione è diventata di sigillarla. Merito di un uomo «posato», come lo ha descritto la sua futura moglie nei pochi accenni che ha fatto su di lui in questi anni. Che mai come nessuno l'ha fatta sentire bella: «Prima forse ero anche io che volevo mi dicessero solo che ero brava». «Siamo complementari - aveva poi detto - e questo fa sì che la nostra unione duri. Siamo aperti, non chiusi. Per questo forse non ci stanchiamo. Ognuno è libero di aderire alle proprie passioni. Non sei mai infelice, se ne hai».

·        Flavia Vento.

Grazia Sambruna per mowmag.com il 13 settembre 2021. Flavia Vento è un mistero. Nel 2000 stava sotto un tavolo di plexigalss nella trasmissione di Rai 2 Libero, condotta da Teo Mammucari. Quello fu il trampolino di lancio per una carriera fatta di reality (da cui si è sempre ritirata) e gustose gaffe su Twitter. A quanto ci dice casta da ben 11 anni, nell’ultimo cinguettio ha annunciato di essersi appena unita a Scientology e abbiamo voluto sentirla subito per farci raccontare tutto di questa nuova esperienza insieme al suo prossimo impegno televisivo che la porterà, con altri vip come Vladimir Luxuria, a rifare l’esame di quinta elementare coadiuvata da un gruppo di decenni. La trasmissione si chiamerà Back to School e, condotto da Nicola Savino, andrà in onda prossimamente su Italia 1. Partiamo proprio da questo per scoperchiare un vaso di Pandora fatto di meraviglie, pura surrealtà e castelli fatati. Oltre che di amore imperituro per Tom Cruise (che per un periodo, forse, l’ha pure corrisposta)... Un viaggio nella mente di Flavia Vento. 

Dunque, Flavia, fra poco rifarà l’esame di quinta elementare in tv...

Sì, sarò nel programma di Italia 1 Back to School condotto da Nicola Savino. Andrò a scuola con due insegnanti che saranno bambini delle elementari. Alla fine farò l’esame supervisionata da loro. 

Lei che ricordi ha delle elementari?

Abbastanza belli, andavo a scuola dalle suore. Diciamo che però non ho mai studiato, ecco (ride).

Che titolo di studio ha raggiunto, all’incirca?

Sono diplomata al liceo linguistico. Ma non ho mai amato studiare. 

Oltre al nuovo impegno televisivo, ha annunciato su Twitter di essersi appena unita a Scientology. È vero?

Certo. Ma non pensavo di generare tutto questo interesse. È una cosa normale. 

Normale? Non so se ha visto il documentario Going Clear di Netflix, ma in generale non è che se ne parli benissimo...

Scientology è una cosa che studia la mente. So che si parla di setta ma non è assolutamente vero. Io sto semplicemente facendo delle lezioni.

Da quanto tempo è entrata?

Un mesetto. 

Le hanno chiesto una quota di iscrizione?

Assolutamente no. 

E cosa le fanno fare, per il momento?

Ho fatto un test di personalità per entrare e devo dire che ci ha preso quindi non è che Ron Hubbard abbia creato solo, come dicono, cose negative. Ha fatto anche cose buone. Scientology si basa proprio sulla cura della mente: noi abbiamo una mente analitica e una mente reattiva. Tutti i nostri traumi che abbiamo vissuto nell’infanzia sono immagazzinati dentro al cervello di ognuno di noi. Grazie alla tecnica usata da Scientology si arriva alla rimozione di questi traumi. 

Ma, se posso chiedere, traumi di che tipo?

Per esempio, che ne so, se ti sei fatto male da bambino. La nostra mente è come un computer che, attraverso lo studio, Scientology ripulisce. 

Cosa l’ha spinta a entrare in Scientology? Qualcuno gliel’ha consigliato?

No. Semplicemente, voglio migliorarmi. Per esempio di certo devo sistemare la mia sicurezza interiore. 

È una persona insicura?

Sì. 

Cosa la rende insicura?

La mancanza di fiducia negli altri. Se fossi stata un po’ più sicura di certo non sarei rimasta solo un giorno nella casa del Grande Fratello Vip.

Ma mica aveva abbandonato quel reality perché le mancavano i suoi cani?

Sì, pensa che ne ho sei! Però se avessi scoperto questa roba di Scientology prima di entrare nella Casa, magari ci sarei rimasta più a lungo di 24 ore. 

Mi dica la verità: questa scelta di aderire a Scientology è un modo per avvicinarsi al suo amatissimo Tom Cruise? Insomma, è dal 2012 che lo menziona su Twitter con complimenti e dichiarazioni d’amore di un certo peso…

(ride) Beh, diciamo che Tom Cruise ora è single da quanto ho capito. E anche io lo sono. Da 11 anni ormai. Non solo single, pure casta! Quindi… Why not, Tom?

Torneremo anche sulla sua castità, ma vorrei sapere: Tom le ha mai risposto?

Ero convinta di sì. 

Ma…

Non so se lo posso dire… Però, insomma: a un certo punto, Tom Cruise mi ha scritto su Twitter e io ero certa che fosse lui anche perché mi mandava delle foto. Abbiamo parlato per due mesi, poi ho capito che si trattava solo di un profilo fake. Ci sono rimasta molto male. 

Sembra la storia di Pamela Prati e il “suo” Mark Caltagirone!

Brava, è la stessa cosa!

A proposito di uomini che non esistono: nel 2018 dichiarava: “Non faccio l’amore da tre anni”. Mi sta dicendo che non ha ancora trovato una soluzione?

Assolutamente no. 

Eh beh, se aspettiamo Tom Cruise…

No no, ma non è quello. Tom mi piace molto perché io voglio un superuomo. E Cruise lo è: salta, fa acrobazie pazzesche, vola… 

Comincia ad avere un’età anche Cruise, comunque…

No no, lui non ha stuntman. Tutte le scene d’azione, anche quelle acrobatiche e pericolose, le fa di persona. Mi affascina molto. 

Anche il suo profilo Twitter, Flavia, è molto affascinante: il 4 agosto scorso, per esempio, chiedeva: “Cos’è il Green Pass?”. A oggi se ne è fatta un’idea?

Guarda, quel tweet era una provocazione, una presa in giro. Perché su Twitter mi diverto a scherzare. Ho creato un mondo di fantasia là dentro, ci scrivo anche che vado a caccia di elfi. Questo perché trovo che sia diverso dagli altri social, più divertente. Instagram va molto in America ma mi sembra solo una roba che esiste per fare pubblicità.

Ma quindi del Green Pass che ne pensa?

Beh, io il vaccino non l’ho fatto. 

Perché?

Non lo so, non ne sono ancora sicura e non me la sento. 

Magari Scientology le scioglierà anche questa insicurezza. Invece, come ha vissuto i periodi di lockdown?

Beh, il lockdown è stato sicuramente un bel trauma però io sono riuscita a mantenere un mio equilibro anche perché sono molto credente e questo mi ha aiutato tantissimo. Ho pregato tanto, mi seguivo tutte le messe in streaming.

E il fatto che lei sia così credente non entra in conflitto con Scientology?

No. Purtroppo se uno non studia non lo sa. Ma Scientology accetta tutte le religioni. Come ti dicevo, si tratta semplicemente dello studio della mente. Grazie a loro, tu capisci di essere oltre a un corpo anche uno spirito: ti risveglia. È davvero un grande aiuto. Come anche lo yoga e i miei mantra Ho'oponopono. 

“Basta che funzioni”, direbbe Woody Allen. Praticamente lei attinge da ogni forma di credenza e religione…

Sì, io sono per vaste conoscenze illimitate. Devo scoprire, essere molto attiva. Sono un’archeologa di me stessa. 

Se la Flavia Vento di 20 anni fa incontrasse quella di oggi, cosa ne penserebbe o le direbbe?

Ma sono io adesso che vorrei incontrarmi a 20 anni, magari potessi! 

Per dirsi cosa?

Due cose: regole e disciplina. 

Beh, non mi pare così indisciplinata da come si sta raccontando…

No, ma intendevo dire che sono sempre stata molto pigra. E questo non va bene. Ci vogliono delle regole.

Se mi permette, mi sembra pigra soprattutto a trovarsi un uomo…

Col mio ultimo fidanzato serio è finita nel 2010. Dopo di lui non ho avuto nessun altro. Magari un paio di flirt ma niente di che, sono rimasta casta. 

Quindi è casta da 11 anni, mi sta dicendo?

Sì. 

Mi dispiace, se lo lasci dire. Però, nel frattempo, almeno ha lavorato. A proposito: secondo lei la tv le ha dato lo spazio che merita?

Di sicuro avrei potuto e potrei fare più cose. Per esempio, mi spiace essere andata via dal Grande Fratello perché mi ero creata un personaggio da favola. Il mio personaggio avrebbe fatto rivivere i sogni agli italiani, sarei stata un po’ Mary Poppins.

Sarebbe stato divertente da vedere...

Eh lo so, ho chiesto di farmi rientrare e chi lo sa, magari… 

Per la nuova edizione l’hanno ricontattata?

No. 

Tornando ai suoi esordi, invece, lei stava sotto al tavolo di plexiglass nella trasmissione Libero condotta da Teo Mammucari. Come ci era arrivata?

Non c’è stato nessun provino.

Ha incontrato Mammucari per strada?

No. Fu lui a chiamarmi e a volermi a tutti i costi perché diceva che il mio viso era il più bello che c’era in tv. 

Secondo lei una trasmissione con una donna sotto a un tavolo di plexiglass potrebbe andare in onda oggi come oggi?

Non lo so, ma sicuramente anche ai tempi la cosa venne fraintesa. Nelle intenzioni dell’autore, mettere una bella donna sotto a un tavolo voleva essere un’opera d’arte, una scultura. Poi chi ci voleva vedere qualcosa di male, ci vedeva una scema sotto a un tavolo.

Quindi poi lei da lì, una volta uscita dal tavolo, cosa sognava di fare? Magari Sanremo?

Sicuramente avrei potuto fare di più, se non me ne fossi andata da La Fattoria o da L’Isola dei Famosi magari avrei pure vinto, chi può dirlo? Però non ho mai sognato di fare Sanremo. Se posso dirti, il mio sogno televisivo è quello di uno show tutto mio. L’ho già scritto. 

Me ne vuole parlare?

Sì, si chiama “Il Castello Fatato”. C’è una principessa, la strega cattiva e altri vari personaggi. È un quiz. Una cosa molto Disney (che io, tra l’altro, adoro). 

Sicuramente è una romantica, una sognatrice. Come si è trovata, quindi, una persona così romantica e sognatrice nel mondo della tv?

Guarda, nel mondo dei reality non bene visto che ci sono gli squali. Però io sono multiforme e me la cavo sempre.

Vogliamo parlare di questi squali?

No, non voglio fare nomi. 

Allora mi dica una persona del mondo della tv che non è uno squalo e con cui si è trovata sempre bene…

Beh, sicuramente Barbara d’Urso. 

Bene. Cosa vuole fare Flavia Vento da grande?

Guarda, ancora non lo so. Magari con Scientology lo scoprirò. Per ora sono Flavia Sciento. 

Come?

Ma sì, ho trovato geniale questo soprannome che mi hanno dato su Twitter quando ho annunciato di essermi unita a Scientology. 

Da correre all’anagrafe! Altri commenti che ha ricevuto sui social?

“Incontrerai presto Tommaso Crociera”, anche questo mi ha fatto molto ridere.

Nessuno le scrive mai qualcosa di negativo, invece?

Ma guarda, le critiche ci stanno sempre, fanno parte del gioco. E poi non ci faccio nemmeno più caso. Me ne hanno dette talmente tante che figurati se me la posso prendere ormai! 

Alle richieste esplicite e magari moleste, invece, come reagisce? Ne riceve sui social?

Il mio è un personaggio talmente surreale (e mi piace rimanere su questo piano surreale) che queste cose a me non accadono. 

Quindi niente catcalling, dick pic o bodyshaming?

Cosa sono?

Niente, non si preoccupi. La ringrazio molto per il suo tempo. L’intervista la pubblico appena possibile e gliela mando.

Ma dove? Su Internet? 

Sì.

·        Flavio Insinna.

Replica al Corriere sul caso Insinna. Da striscialanotizia.mediaset.it il 22 novembre 2021. Ecco la nostra replica al Corriere della sera in risposta alle falsità dette da Flavio Insinna in un’intervista sulle pagine del quotidiano. "Gentile Roberta Scorranese, Le scriviamo riguardo alla sua intervista a Flavio Insinna. C’è più di un passaggio che ci lascia perplessi. In particolare, quando Insinna - riferendosi al fuorionda diffuso da Striscia nel maggio 2017 e a quale errore non rifarebbe in futuro - afferma: «Non sprecherei le giornate mie e dei miei collaboratori di Affari tuoi dicendo cose magari giuste ma nel modo sbagliato». Ci teniamo a rimarcare che le frasi pronunciate allora da Insinna non ci paiono tanto giuste, oltre che dette nel modo sbagliato. Ricordiamo che nel famoso fuorionda Insinna dice cosa avrebbero dovuto fare i responsabili del programma Affari tuoi: interrompere la registrazione e convincere la concorrente valdostana («Nana di m…») a rifiutare l’offerta della dottoressa, anche con la violenza («La si porta di là, la si colpisce al basso ventre e dici: “Adesso tu rientri e giochi! Perché è Raiuno non è Valle D’Aosta News. Mor…cci tua!”») e costringerla a rientrare in gioco per salvare il finale acchiappa ascolti. Nulla a che vedere con un comprensibile (anche se non scusabile) “sbrocco” in un momento di stress, piuttosto si dimentica di dire i veri motivi, gravissimi, per cui era arrabbiato: il “taroccamento” non riuscito del risultato finale del programma. È riduttivo poi sostenere che i fuorionda diffusi dal tg satirico di Antonio Ricci sono stati registrati durante una riunione ristretta di lavoro. Addirittura, Flavio Insinna era al corrente che fossero registrati. In studio, infatti, il conduttore invitava pubblico, maestranze, collaboratori a fare quello che volevano con la Rai: «Per me potete mandà i video, i telefonini, le cose, quello che ve pare. Per me potete mandare i messaggi a Leone, alla Rai, dicendo “È cattivo”, fate come vi pare. Siete solo dei sorci che parlate dietro». Non dubitiamo che Flavio Insinna ancora oggi non riesca a perdonarsi, questo però non ci impedisce di ribadire la verità dei fatti. Un cordiale saluto. L'ufficio stampa di Striscia la notizia" 

Ed ecco invece la replica che hanno pubblicato loro. Cosa si capisce? Niente! O forse si capisce che il Corriere non vuole chiarire ai propri lettori come sono andate veramente le cose. "Striscia la notizia torna sul fuorionda di Flavio Insinna diffuso nel 2017, del quale il conduttore ha parlato nell'intervista pubblicata ieri dal Corriere. «C'è più di un passaggio che lascia perplessi. In particolare, quando Insinna afferma: "Non sprecherei le giornate mie e dei miei collaboratori di Affari tuoi dicendo cose magari giuste ma nel modo sbagliato". Ci teniamo a rimarcare che le frasi pronunciate allora da Insinna non ci paiono tanto giuste (...) Non dubitiamo che ancora oggi non riesca a perdonarsi, questo non ci impedisce di ribadire la verità»". 

Flavio Insinna: «Abatantuono mi manda gli audio con la parola della Ghigliottina. Io in tv? Per una gaffe». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. Flavio Insinna si racconta: la gavetta, la televisione che arrivò «per un microfono aperto inavvertitamente», la scelta di non avere figli con la fidanzata Adriana Riccio e l’impegno umanitario.  

Flavio Insinna, qui, negli studi Rai «Fabrizio Frizzi», il suo camerino è l’unico che non abbia il nome affisso sulla porta.

«Perché tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Non sono uno di quelli che vanno in giro a dire “la Rai è casa mia”. Però io ho fatto i “pacchi” e mi sono divertito come un matto, ho fatto e sto facendo L’Eredità e mi diverto come un matto. E allora sarò sincero: se finisse domani me ne andrei con serenità, ringraziando».

Non ci crede nessuno.

«È vero. Lo diceva sempre il mio maestro, Gigi Proietti. Prima di provare, a teatro, ci ricordava che “non stiamo operando a cuore aperto”, che non stiamo facendo cose imprescindibili per il destino del mondo. Siamo attori, tutto qui».

Il teatro è anche autocoscienza. Crede che i lunghi anni sul palcoscenico abbiano affinato in lei una specie di fatalismo?

«Forse. Mai avuto gusto per la poltrona. Vede che poltrona tengo in camerino? Una sedia da barbiere. E non ho foto con Tizio o con Caio. Casa mia potrebbe essere di chiunque: c’è solo uno scatto assieme a Fabrizio (Frizzi, ndr), perché a quello ci tengo troppo. Non sopporto quelli che commemorano i defunti parlando di sé stessi e si mostrano in foto con personaggi famosi che non ci sono più e che non possono ribattere».

E non ama nemmeno la parola «gavetta».

«Potrei raccontarle di quando io e Gabriele Cirilli ci dividevamo una matrimoniale per risparmiare, ai tempi delle tournée. O di quando mi feci seicento chilometri, in pieno agosto, per andare a fare un provino e, appena salito sul palco, mi liquidarono con un “non funzioni fisicamente, ciao”. Ma mi vergognerei. Non stiamo operando a cuore aperto, appunto».

Però quando fece l’esame per entrare nel Laboratorio di Proietti lei consegnava mobili.

«Sì e mi ricordo che quando il maestro mi fece l’esame finale, quello che avrebbe deciso la sottilissima lista degli ammessi, io, terrorizzato, provai a dissuaderlo. “Ma perché, lavori già?”, fece lui. E io: “Sì, do una mano a mio cugino”».

E questa paura del pubblico c’è ancora?

«No, ma guardi quei fogli lì, sul divano: sono gli appunti sui concorrenti della trasmissione. So tutto di loro, persino quale gusto di gelato preferiscono. Gigi diceva: “poi magari quelle informazioni non le userete, ma mettetele da parte, l’improvvisazione deve venire dopo”».

Com’è arrivato a fare «Don Matteo»?

«Per caso. Andai da Costanzo a parlare della nostra compagnia, La Cometa, e tra il pubblico c’era Enrico Oldoini, il regista della serie. Venne a vedermi in teatro, mi volle nel cast. Dico solo una cosa: se Don Matteo ha resistito così tanti anni secondo me si deve soprattutto alla professionalità di Terence Hill. Io non l’ho mai visto prendersi un caffè, è stato sempre con noi, con il caldo bestiale e con la neve di Gubbio. Ma se le racconto come iniziò la carriera negli show in televisione è ancora più divertente».

E cioè?

«Per un microfono aperto».

Interessante, vada avanti.

«Avevo fatto Don Bosco, miniserie tv. Mi premiarono a Saint-Vincent, le grolle, le star e tutto. Sul palco c’era Fabrizio. Il mio turno arrivava tardissimo, quando tutti non pensavano che alla cena. Quando Frizzi mi chiamò, io non sapevo di avere il microfono acceso e così dissi: “Ma devo proprio?”. Risate in sala. Mi accorsi di avere fatto una figuraccia e allora con Fabrizio cominciai a fare lo scemo, con battute a ruota libera. Qualche tempo dopo mi chiamò la mia agente e mi disse: “Ma che hai combinato a Saint-Vincent?”. E io: “Oddio, mi puniscono?”. E lei: “No, ti vogliono dare Affari tuoi”. Ero morto».

Paura, eh?

«Non scherzo quando le dico che mi ci portarono di peso. Io stavo facendo una sit-com e il camerino era proprio davanti agli studi di Affari tuoi. Io tremavo: finirà dopo tre puntate con scorno di tutti, mi dicevo. Mi presero a forza e ho le prove: la primissima mia puntata della trasmissione l’ho girata con gli abiti della sit-com».

Andò bene.

«Sì ma nessuno sa che alla fine della prima stagione mi venne uno sfogo su tutto il corpo, una specie di eritema da stress. Papà faceva il medico: mi fece una iniezione e mi disse “Sta’ attento”. Povero papà, non c’è più da qualche anno. All’inizio non accettava che io facessi l’attore ma ha cominciato a cedere quando ha visto che facevo quel mestiere con la stessa serietà con cui avrei fatto l’avvocato».

«L’Eredità» è una specie di messa laica per molti. Alcuni insospettabili.

«Be’, Walter Veltroni lo vede. Ma se poi parliamo dei ghigliottinisti...»

Cioè di quelli che tirano a indovinare la parola della Ghigliottina?

«Gigi D’Alessio è un cecchino. Non ne sbaglia una. Luca Barbarossa è un altro: manda le risposte su WhatsApp ma io controllo sempre che siano regolari, cioè che non le abbiano mandate una volta risolto il quiz. Il più matto di tutti però è Diego Abatantuono».

Che fa?

«Allora, lui manda la sua risposta ma se questa è sbagliata mi fa arrivare dei messaggi vocali di un’ora in cui mi spiega perché, secondo lui, abbiamo sbagliato noi. Ma capisce?!».

Insinna, lei è uno dei pochi che riesce a infilare nell’intrattenimento più nazional-popolare anche dei temi delicati. Come la caccia.

«Guardi che quella volta fu una frase che mi venne spontanea, nulla di preparato. Tra le parole dell’Eredità venne fuori anche “caccia” e io, con naturalezza, dissi che finché ci sarò io la caccia in trasmissione non ci sarà».

E i cacciatori la presero di mira. Metaforicamente, certo.

«Minacce di morte a me e alla mia famiglia, minacce di boicottaggio dei prodotti delle pubblicità interne al programma. Lasciai spegnere tutto, diciamo che ci ho guadagnato la stima di qualcuno che prima non mi seguiva ma che la pensa come me. Il punto è che mamma e papà mi hanno fatto leggere libri. E oggi posso dire, con Gramsci, che io “odio gli indifferenti”».

Il legame con Gino Strada e con Emergency, quello con il sindacalista Aboubakar Soumahoro.

«Be’ ma allora mi faccia ricordare il sostegno alla cooperativa “Al di là dei Sogni” nelle terre confiscate alla camorra, a Sessa Aurunca. Io non ci vedo niente di eroico, anzi. Le dirò di più: a me sembra incredibile che lo Stato non chieda a me o a quelli che stanno meglio di me un contributo, anche piccolo, che so, diecimila euro, per sostenere chi vive in condizioni peggiori. Posso dire un’altra cosa che penso?».

Prego.

«Penso che siamo un Paese troppo armato. Ho studiato la legge, ti permettono di possedere diversi tipi di armi. So che dire questo può costarmi molto, ma lo dico: per me le armi dovrebbero stare solo nelle mani delle forze dell’ordine. Un musicista che conosco ha perso la sorella: uccisa dal marito con il fucile da caccia».

Le armi, i migranti, il sostegno finanziario ai deboli. Temi delicatissimi che raramente un personaggio televisivo così «esposto» sfiora.

«Ne so qualcosa. Ma le persone che piacciono a me mi seguono. Io ci sono andato nei luoghi degli sbarchi e ho visto quanto scotta il cemento negli approdi. E quelle persone arrivano senza scarpe. Una delle cose più belle che mi siano capitate è stato quando il presidente Mattarella ha voluto premiarmi per aver venduto una barca e aver donato il ricavato per finanziare i corridoi umanitari. Lo so che molti non la pensano come me. Pazienza».

Il ricavato de «Il gatto del Papa», la sua favola natalizia che esce il 25 novembre per RaiLibri, andrà in beneficenza?

«Sì, va tutto a Emergency. Ma a questa favoletta ci tengo: immagino un gatto che incontra il Papa e tutti e due imparano qualcosa da questo scambio. Tutto nasce da una bellissima serata romana, quando, passando vicino a San Pietro, vidi un gatto tra le colonne sparire immediatamente e in modo inspiegabile. Mi dissi: e se fosse andato da Sua Santità? Non son degno neanche di nominarlo papa Francesco: ho un’ammirazione infinita per quell’uomo».

A proposito di gatti.

«Eh, vivo in uno zoo. Intanto c’è il cane della mia compagna (Adriana Riccio, ex concorrente di Affari tuoi, ndr) la quale ha adottato anche me oltre a lui. Poi c’è la tartaruga della mia famiglia, che oggi ha 60 anni e che ci ha visti crescere, a me e a mia sorella. Ho avuto cornacchie, gatti di ogni tipo, conigli».

Ma dice di non volere figli.

«Sarei un padre troppo poco presente. Solo per questo. Io ho avuto la fortuna di avere dei genitori sempre accanto a me, nonostante all’inizio non accettassero la mia carriera di attore. Però mamma fece da paciera: andava da papà e metteva una buona parola, poi veniva da me e faceva lo stesso. Temo che non sarei all’altezza».

Flavio, c’è un errore che non rifarebbe?

«Sì, ed è un errore preciso. Non sprecherei le giornate mie e dei miei collaboratori di Affari tuoi dicendo cose magari giuste ma nel modo sbagliato (ci furono dei fuorionda diffusi da Striscia, nei quali il conduttore si lasciava andare a scatti d’ira durante una riunione ristretta di lavoro, ndr). Quando ho ceduto al nervosismo sono stato visto come una persona cattiva, ma io non sono così. Eppure ancora oggi non riesco a perdonarmi. Oggi certamente preferirei fare una trasmissione meno perfetta e curata ma senza avvelenare le giornate mie e di quelli che lavorano con me».

E in amore? È cambiato negli anni?

«Ascolto di più. Dedico più tempo alla persona che amo. Tolgo qualcosa al lavoro, cosa che prima mi riusciva difficilissimo. Chiedo scusa a chi non è stato amato abbastanza da me, ma oggi so che Gigi aveva ragione: non operiamo a cuore aperto, facciamo solo televisione».

Flavio Insinna, "perché ho rinunciato ai figli". Ciò che non aveva mai detto: una confessione toccante. Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Da molti anni è il mattatore de L'Eredità, uno dei programmi di maggiore successo della tv italiana, il quiz pre-serale in onda su Canale 5. Si parla di Flavio Insinna, nato come attore di teatro. E Insinna si racconta in una lunga intervista al Fatto Quotidiano, a cuore aperto. Dove spiega anche come nascono la sua passione per il palcoscenico: "Poi a otto anni il primo vero segnale con Aggiungi un posto a tavola e lì, credo, alla fine, al momento della colomba, mi sono incantato davanti alla reazione estasiata del pubblico", premette. "La botta finale è arrivata con il maestro (Gigi Proietti) e A me gli occhi please: ricordo in maniera nitida, quasi alla moviola, dove ero e cosa ho pensato all'uscita del teatro. Cosa? Mentre slegavo il motorino dal palo, riflettevo: Questo signore, da solo, fa ridere e commuovere. Che mestiere fantastico". Dunque, l'impegno per riuscire a costruirsi quella carriera. Obiettivo raggiunto. Toccante il passaggio in cui spiega perché, a suo parere, quello dell'attore è un mestiere fatto di rinunce. Che Insinna elenca: "Allora, ho rinunciato a molti Natali, ai Capodanni, ai compleanni, ma non ci ho pensato più di tanto; sono cresciuto in una famiglia molto stretta che da sempre definisco come un branco, e quando è morto il capobranco (il padre, ndr) siamo scoppiati, ci siamo dovuti allontanare per non sbranarci pur amandoci". Quindi, Insinna ammette: "Per questo c'è stata la rinuncia ai figli". Perché? "Cresciuto con quel tipo di presenza, magari a volte troppa, non mi sono mai ritrovato da solo davanti a un problema; per come ho vissuto cos' è l'amore dei genitori verso i figli, non potevo sopportare l'idea che un giorno, a me, un pargolo mi dicesse: bello il film, bella la tv o il teatro, ma non ci sei mai", confessa Insinna. Poi il vizio: "Mannaggia, le sigarette". Scaramanzia? "A teatro mi allaccio per tre volte una scarpa; se sul palco trovo un chiodo storto, lo prendo, e a fine tournée ne ho lo zaino pieno; infine se cade a terra il copione, lo batto tre volte". Quando gli chiedono chi è Flavio Insinna, il conduttore risponde: "Lo dovrebbe chiedere al mio analista; però sfrutto l'epitaffio di Cyrano: Qui riposa Cirano Ercole Saviniano Signor di Bergerac, che in vita sua fu tutto e non fu niente!". E aggiungo: sono uno fortunato", conclude Insinna.

·        Francesca Alotta.

Ricordate Francesca Alotta? Dopo Sanremo Giovani, il dramma: "Tumore molto esteso", che fine ha fatto. Libero Quotidiano il 14 dicembre 2021. Sanremo Giovani ha lanciato tanti talenti che hanno poi avuto successo nel campo della musica. Ma anche altrettanti ragazzi e ragazze che hanno raggiunto il picco delle loro carriere sul palco dell’Ariston, salvo poi finire nel dimenticatoio, almeno per quanto riguarda il grande pubblico. Per i cantanti alle prime armi un palcoscenico come quello di Sanremo può essere un’arma a doppio taglio. Di certo fanno più “rumore” i successi di personaggi del calibro di Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Fabrizio Moro, Marco Masini e via discorrendo: tutti questi dopo aver partecipato e trionfato a Sanremo Giovani hanno poi avuto delle grandi carriere. Di tanti altri si sono invece perse le tracce. Il Corriere della Sera li ha ricordati tutti, a partire da Aleandro Baldi e Francesca Alotta: nell’edizione del 1992 vinsero con il brano “Non amarmi” che regalò ai due grandissima notorietà. Peccato però che entrambi non siano più riusciti a replicare quel successo. In particolare la Alotta è uscita con tre album negli anni Novanta, poi nel 2004 ha partecipato a Music Farm. Da quel momento più nulla fino al 2018, quando si è riciclata con successo in tv e poi è uscita anche con un nuovo lavoro discografico. Arrivata seconda a Tale e Quale Show nel 2021, la Alotta è entrata a far parte del cast fisso di Oggi è un altro giorno. E proprio a Serena Bortone ha raccontato il dramma vissuto lo scorso anno, quando ha scoperto di avere un tumore all’utero molto esteso: operata d’urgenza, fortunatamente la Alotta è riuscita a lasciarsi tutto alle spalle e oggi, a 53 anni, ha il suo lavoro in tv.

Da "ilmattino.it" il 12 novembre 2021. Francesca Alotta ospite di “Oggi è un altro giorno” di Serena Bortone su RaiUno. Francesca Alotta ha dato un’ottima prova nel talent di Carlo Conti, “Tale e Quale Show”, piazzandosi seconda dopo i Gemelli di Guidonia. Nel programma di Rai Uno racconta la vita, la famiglia e i drammi vissuti: dall'aborto al tumore. Francesca Alotta ospite di “Oggi è un altro giorno” di Serena Bortone su RaiUno ha iniziato l'intervista parlando del suo impegno sul palco del talent di Carlo Conti. «Era il quinto provino che facevo - ha raccontato -  avevo smesso per qualche anno poi ho provato ed è andata bene. È bello ma molto duro perché non c’è solo il trucco: devi provare le canzonI tutti i giorni, magari perdendo  la voce». Francesca Alotta ha poi parlato del rapporto con il padre: «Vengo da una famiglia di artisti, mi padre voleva che facessi la violista per ragioni di sbocco professionale, poi da sola sono andata dal preside dal conservatorio a 11 anni dicendo che volevo fare pianoforte e così è stato. Mio padre ha rinunciato alla sua carriera già molto avviata per noi figli e gli devo molto. Quando mi hanno offerto il primo contratto mi hanno chiesto di cambiare nome ma io ho rifiutato per lui. Quando ho vinto in Cantagiro prima di Sanremo ha pianto e mi ha detto: "Grazie di avermi fatto vivere quello che io non ho mai vissuto. Siete la nostra gioia di vita...». Francesca Alotta ha dovuto combattere una dura battaglia, vinta, con un tumore: «Mia madre, che è stata malata anche lei, è una grande guerriera. Mi è stata vicina. Quando mi sono operata però anche lei stava male, non è stato facile e in più in quel periodo c’è stato il lockdown che ci ha temporaneamente separate. Tre mie ammiratrici che conoscevano la situazione fortunatamente si sono traferite da me e mi hanno tenuto compagnia per cinque mesi. Ora siamo amiche inseparabili». Infine il racconto di quella che forse è stata l'esperienza più dolorosa: la perdita di un figlio. Io sono nata mamma, mi sentivo di esserlo... poi l'ho perso perché la mia era una situazione già complicata e avevo molti fibromi. Ho superato tutto grazie alla fede... Mio marito mi ha lasciata sola in ospedale, ci sono uomini che scappano dal dolore». 

·        Francesca Cipriani.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 18 gennaio 2021. Nonostante l' apparenza giocosa, Francesca Cipriani ha vissuto un passato di dolore e abusi. Il 21 gennaio ricomincia la Pupa e il Secchione, la trasmissione di Italia 1 più odiata dalle femministe. Lei non mancherà. «Come lo scorso anno, sarò una specie di madrina», dice, «sono contenta per la conferma, sarà un grande successo perché la gente ha veramente voglia di svagarsi, la Pupa è l' ideale per distaccarsi qualche ora dalle notizie drammatiche».

Conduce il comico Andrea Pucci, che la prenderà in giro. Non si offende mai?

«No. Sto al gioco, viva l' ironia e l' autoironia. Se mancano quelle, vorrebbe dire che ho sbagliato lavoro, mi piace fare sorridere».

Ultimamente, però, le battute sulle donne sono argomento spinoso: vedi Luciana Littizzetto su Wanda Nara nuda sul cavallo e la sua «yolanda prensile»...

«A parte che non ho capito la battuta, ma quando ci si mette a nudo in pubblico inevitabilmente si prendono le critiche positive, negative, e anche qualche battuta. Se no stai in disparte. Io odio gli haters da tastiera, quelli che augurano la morte, che scrivono cose oltre l' etica e la morale. Metterei un veto, vanno fermati i bulli».

Lei ne è vittima?

«Sì. Perché mi devono augurare la morte o il cancro al seno? "Se ti incontro ti metto sotto con la macchina", scrivono. E poi: "Il seno prosperoso sarà la tua morte". Finché mi dicono "oca" va bene, non si può piacere a tutti...».

Ha denunciato?

«Tanti anni fa: vinsi, ebbi un risarcimento. Denunciare ogni volta diventa un lavoro, allora li blocco. Eppure, nel 2021, nessuno agisce».

Atroce.

«Nadia Toffa, in fin di vita, aveva gente che le scriveva "fai schifo", "è una trovata pubblicitaria". Spero che qualcuno legga queste mie parole ai piani alti della politica. Al governo».

Crede ai politici?

«Credo nelle leggi, ci devo credere. Senno siamo finiti. Ci sono ragazzini di 13 anni che si buttano dai balconi».

A proposito di cose brutte, si è mai trovata situazioni tipo feste a base di droga?

«No. Io non ho mai bevuto nulla tranne l' acqua e il latte. Sono astemia, non fumo. Figuriamoci altre cose. Il mio peccato è la gola».

Cosa pensa del caso Genovese?

«Quando hai troppi soldi diventi un mostro. Personalmente ho subito una violenza pesante, ma non a una festa: sul posto di lavoro».

Quando?

«Era il mio primo lavoro, la commessa, ero in una boutique in Abruzzo, a Sulmona. Il proprietario dopo un po' di tempo mi ha sequestrata, chiusa, e mi stava violentando. So cosa significa. Sono svenuta. Lui allora si è preoccupato, mi ha sentito il polso e si è fermato. Avevo 18 anni. È stato denunciato».

L' episodio ha segnato la sua vita?

«Ho 36 anni, ma sembra ieri. Le cicatrici non si rimarginano. Mi hanno aiutato i miei genitori, mi sono data forza da sola. A meno che uno perde la memoria, non dimentica».

Ha subito anche bullismo?

«Sì, da piccola ero cicciottella, avevo una malformazione al seno, i coetanei mi prendevano di mira. Il mio primo intervento è stata una ricostruzione, avevo la sindrome di Polland. Avevo 12 anni».

È bella e giovane, perché ricorre tanto alla chirurgia? Giusto pochi giorni fa si è ritoccata viso, collo e ha fatto una liposuzione.

«Grazie. Mi ritocco perché voglio sentirmi bene. Ho tanta pelle in eccesso a causa del mio peso di anni fa. Sono favorevole alla chirurgia per migliorarmi. Il mio seno lo vedevo sempre brutto, adesso mi piaccio. Mi sento finalmente felice, ho una settima. Non lo tocco più, giuro. Non mi sento stupida per questo».

Adesso è single?

«Sì, ma ho un corteggiatore, un imprenditore non italiano molto conosciuto. Ma con la pandemia è tutto difficile».

È ancora fan di Matteo Salvini?

«Sì».

Cosa le piace di lui?

«Il suo pensiero è il mio. Dice le cose a favore del cittadino, vuole il bene della società, eppure gli danno del razzista e cattivo. Non siamo in sicurezza in Italia, ci sono persone irregolari, fanno entrare cani e porci. Mia mamma aveva avuto un infarto, uno di questi qui, ubriaco, l' ha buttata per terra. Milano è invivibile, sono stata derubata tre volte. Salvini non odia le persone di colore, ma vuole che entri brava gente».

Gli ha scritto varie volte, ma lui ha mai risposto?

«Sì. È educato e perbene, con lui scenderei in campo. La prima legge la farei contro gli haters, poi caccerei gli irregolari. Chi cerca lavoro, ben venga».

·        Francesca Giuliano.

Avanti un altro, Paolo Bonolis e la rivelazione di Francesca Giuliano: "Dove sarei senza di lui". Libero Quotidiano l'08 marzo 2021. Torna Paolo Bonolis, torna Avanti un altro e tornerà anche Miss Anni Cinquanta. La procace Francesca Giuliano, simpatica ed esplosiva presenza fissa del quiz di Canale 5 che sostituirà Caduta Libera di Gerry Scotti da lunedì 8 marzo nella consueta fascia preserale ha svelato al settimanale Vero TV perché deve tutto al conduttore. "Il primo che ha creduto in una curvy come me è stato Paolo Bonolis, se non fosse stato per lui sarei a casa. In tv qualche opportunità c’è, mentre al cinema proprio no", spiega con una punta di amarezza. Ma dopo un anno di Covid e repliche, l'adrenalina per la nuova stagione e le puntate inedite è tanta. "Vi garantisco che anche quest’anno ne vedremo delle belle - anticipa la Giuliano -, la macchina di Avanti un altro è andata avanti ed è bello regalare spensieratezza e sorrisi". Con orgoglio, poi, la modella "abbondante" rivela qual è stato uno dei momenti topici della sua carriera: "Ho offuscato un divo come Brad Pitt alla festa del cinema a Venezia nel 2019". In fondo basta darle un'occhiata volante per comprendere perché i fotografi e i paparazzi sul red carpet del Lido avessero occhi (e soprattutto gli obiettivi) solo per lei.

·        Francesca Michielin.

Francesca Michielin e l’Artista Day: «Nessuno si sporca le mani, nella musica manca storytelling». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. «Oggi si ragiona a singoli brani oppure ep o album molto brevi. È un atteggiamento post-modernista in cui tutto è a spot, elementi singoli ed evocativi». Francesca Michielin è una che la musica oltre che a farla e ad ascoltarla voracemente, la analizza anche. È dedicato a lei l’Artista day di oggi, iniziativa di Corriere della Sera e Radio Italia che celebra i protagonisti della canzone italiana.

È uscito da pochi giorni «Nei tuoi occhi», brano dalla colonna sonora di «Marilyn ha gli occhi neri». È il via a un nuovo progetto dopo le collaborazioni di «Feat»?

«Non so ancora quale direzione prenderò, ma da ascoltatore mi manca un po’ di storytelling. Ci sta la canzone estiva spot, l’ho fatta anche io, ma ho più bisogno di qualcosa in più. Jovanotti è maestro in questo, ha sempre una visione sua, a prescindere dalla lingua che si parla in quel momento. Ma anche Alessandra Amoroso ha appena pubblicato un disco con molte tracce in cui non si snatura. “Nei tuoi occhi” arriva dopo un lungo progetto di collaborazioni e all’inizio avevo paura a mettere le mani in pasta da sola, ma poi la canzone è nata di getto».

Gli occhi come porta dell’amore. È il suo senso più sviluppato?

«No, è l’udito. Ascolto molto la voce delle persone e il loro modo di ragionare e leggere le situazioni. Non roba da colpo di fulmine, ma a volte la voce è stata un plus per innamorarmi di qualcuno».

Il giorno che ricorda più chiaramente?

«Il primo di scuola alle elementari. Ero emozionata, ho iniziato a leggere e scrivere a 4 anni, ero curiosa e non vedevo l’ora: avevo cartella e astuccio coordinato. Era il 10 settembre 2001: il giorno dopo il mondo cambiò con l’attentato alle Torri gemelle. Le maestre ci aiutarono a capire cosa stava accadendo».

Il giorno musicale?

«Quando sono entrata in studio per registrare “2640”, il terzo album. Era un disco di passaggio come musicista e autrice. Provavo a uscire dalla categoria del pop immediato che ci aspetta da una uscita da un talent. Avevo i provini di “Vulcano”, “Bolivia” e “Scusa se non ho gli occhi azzurri”: eravamo tutti gasati, ricordo il fonico fra il divertito e l’emozionato. Era un momento di grande libertà, non avevo nulla da perdere».

Cosa rappresentò la vittoria «X Factor» 2011?

«Sentivo una grande insicurezza. Avevo 16 anni e non mi rendevo conto di quello che accadeva. I ragazzi che oggi vanno a un talent sono più consapevoli e spesso hanno già una gavetta alle spalle. Per questo decisi di tornare a scuola a finire l’anno. Mia madre mi aveva fatto capire che se poi fosse andata male avrei fatto più fatica a reinserirmi in un percorso studi».

Adesso è in arrivo la laurea al Conservatorio. Livello di tensione?

«Sarà a febbraio, ma sono meno preoccupata di quanto non lo fossi in altri momenti di studio. In fondo alla laurea porti una discussione e un concerto su un argomento a tua scelta».

Soggetto?

«Charles Mingus: ha personalizzato il jazz tanto che lui stesso è diventato un genere. A chi non conosce il jazz direi che era uno con l’ossessione costante per l’identità: aveva origini tedesche, afroamericane e orientali e di conseguenza non era accettato né dai bianchi, né dai neri, né dagli asiatici. In un mondo ossessionato dalle etichette è riuscito a evitarle e ha creato qualcosa di unico e immortale».

·        Francesca Neri.

Dagospia il 10 dicembre 2021. Da I Lunatici Radio2. Francesca Neri è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live anche su Rai 2 sempre dal lunedì al venerdì più o meno tra l'una e le due e trenta. La celebre attrice italiana è tornata a parlare della sua malattia: "Sono sempre stata una persona riservata, in questi anni sono stata abbastanza ritirata, qualcuno si è meravigliato perchè con il libro 'Come carne viva' sono uscita raccontando tutto della mia malattia. Questo ha fatto clamore. E poi le persone dello spettacolo vengono viste come infallibili, con una vita meravigliosa, che  non si possono ammalare mai. Io invece mi sono messa a nudo completamente, quando ti apri lo fai fino in fondo. Avevo veramente voglia di condividere quello che mi era successo. Mi fa piacere che da quando sia uscito il libro ho tanto ritorno dall'incontro con le persone. Una cosa che mi è sempre mancata in questi anni in cui ho fatto l'attrice. Avevo bisogno di questo. Mi sta ripagando forse anche di tutta la sofferenza che ho vissuto in questi anni. Io parlo di una malattia cronica e le malattie croniche hanno un unico comune denominatore: le persone che ne soffrono si sentono sole. Ti senti anche un malato immaginario, c'è anche la componente di non essere creduti fino in fondo. Il momento della diagnosi? Io ho sempre sofferto di cistite. La mia malattia ora è la cistite interstiziale cronica. Mi curavo con gli antibiotici, a un certo punto sono diventata resistente agli antibiotici. Una volta ebbi una cistite forte, pensai di curare il dolore, pensai di curarmi con l'antibiotico, ma non mi è mai più passata. E mi sono trovata davanti a questa malattia. E la cosa che fa più paura è la parola 'cronica'. Io ho fatto tutti i tipi di cure che si possono fare. Ci sono cose che alleviano un po' il dolore, ma non sempre. Vivi con un dolore costante".

Ancora Francesca Neri: "Oggi sto molto meglio soprattutto perché dopo tanto tempo impari a convivere con questa patologia e a gestirla. Faccio tutta una serie di cose, alternative e naturali che mi fanno stare meglio e poi ho capito quali sono le cose scatenanti. Evito una serie di situazioni che possono farmi venire una crisi forte. Questa per me oggi è una libertà. Mi sono sempre vista come una persona infallibile, che poteva fare tutto. Invece no, questa malattia mi ha permesso di accettare i miei limiti e le mie debolezze. Se davvero ho pensato di farla finita? Ho voluto raccontare anche questo e vi assicuro che anche questo fa parte di ogni tragitto di persone che hanno vissuto quello che ho vissuto io. Ho voluto raccontarlo anche se all'inizio avevo un po' di pudore nel parlarne. C'è stato un momento nei mesi più duri in cui ho perso lucidità. Un paio di settimane in cui vivevo di notte, non dormivo di giorno, ho perso lucidità. Lì per un attimo, per stanchezza, perché poi subentra la depressione, l'ho pensato. E' durato un secondo, un attimo. Subito dopo però ho capito quanto amo la vita e quanto è giusto lottare e fare tutto il possibile per difenderla. Però quel pensiero per un secondo mi ha sfiorato. E' come se lì avessi toccato il fondo e poi ho iniziato la risalita. Quando tocchi il fondo ti dai una spinta. Da lì si può solo risalire. E in queste situazioni uno si salva sempre da solo. In tragitti come questo, ci possiamo aiutare solo da soli". 

Sul momento che stanno passando le donne: "Stiamo passando un momento forse unico. Stiamo riuscendo a fare piccole conquiste, a fare gruppo e a portare avanti battaglie importanti. La parità di genere è ancora lontana. Manca, facendo un discorso soprattutto legato alle nuove generazioni, di educazione sentimentale. Bisognerebbe mettere l'educazione sentimentale come materia scolastica. Se tu insegni il rispetto per la donna, per l'altro in generale, è già un punto di partenza".

Sul film 'Al lupo al lupo', diretto da Carlo Verdone: "Quello, insieme a uno con Massimo Troisi, è uno dei set più divertenti. E' uno dei film di Carlo più intimi. Carlo e i set di Carlo sono un ambiente in cui lui essendo regista e attore dà una dimensione di leggerezza e spensieratezza. Ho mille ricordi che ho di cose divertenti su quel set. Carlo anche quando non vuole a me fa ridere. Mi ha insegnato la commedia, i tempi della commedia, lui ce l'ha, gli viene naturale. Ne ho un ricordo meraviglioso. Come regista è molto bravo perché essendo anche attore tutte le indicazioni che ti può dare hanno più cognizione di causa".

Sul rapporto con la sua bellezza: "Come si convive con la bellezza? Ovviamente è un biglietto che arriva prima di te, soprattutto se fai un mestiere come il mio. Però io ne ho sofferto molto perché come attrice tante volte mi sono sentita dire che non ero credibile per interpretare un ruolo perché ero troppo bella. In Italia c'è questa cosa, in America ad esempio noi. Poi ho avuto la fortuna di andare oltre". 

Sulla rivalità calcistica con il marito, Claudio Amendola: "Io sono della Lazio, lui è un tifoso sfegatato della Roma. Io sono proprio della Lazio. Uno può cambiare uomo, ma non squadra. Sono una laziale doc. All'inizio io e Claudio abbiamo visto qualche derby insieme, poi abbiamo capito che non era il caso. Noi laziali sappiamo soffrire, sappiamo incassare. Resisto laziale nonostante mio marito e mio figlio siano dei romanisti sfegatati. Non mollo. Non mollare mai"

Da "leggo.it" il 19 ottobre 2021. Francesca Neri è stata ospite di Pierluigi Diaco ieri a TI sento, in diretta su Rai Radio2. E ha scatenato la curiosità del conduttore quando quest'ultimo le ha chiesto: «Facevi l'attrice? Non la fai più?». «Vediamo, non lo so... adesso no, non ho l’esigenza, perché ho tutta una serie di problemi che comunque dovrei affrontare», è la risposta dell'attrice, a Radio2 per promuovere il suo libro edito da Rizzoli, "Come carne viva". «L'ho sempre mal sopportato, anche quando facevo l’attrice, un mestiere che ha bisogno di riconoscimento», ha detto ancora la Neri. «Questo mondo ti ha ferito? Ti ha stancato?», torna a chiedere il giornalista. «No, sono io che non l’ho vissuto nella maniera giusta, per cui mi ha ferito», ha risposto Francesca Neri spiegando: «Perché quando tu sei alla ricerca di conferme, magari un mondo così te le da, ma quel riconoscimento io non lo cercavo lì, non lo cercavo perché volevo essere riconosciuta dal mondo vicino». «Lo cercavo - aggiunge Francesca - perché volevo essere riconosciuta da mia madre che non me l’ha mai riconosciuto. E quando tu capisci questo, capisci anche che quel riconoscimento lì diventa la tua droga, non ne puoi fare a meno. Come tutte le droghe: sopiscono il problema ma non lo curano». La trasmissione Ti sento con Pierluigi Diaco è in diretta su Rai Radio2 e in Visual su RaiPlay, dal lunedì al venerdì dalle 20.

Anticipazioni da Oggi il 13 ottobre 2021. «Tante volte ho detto a mio marito: “Su, prendi nostro figlio e vai”. Perché davvero in quei momenti vuoi restare sola, sapendo che nessuno ti può aiutare. Quando vedevo in lui la difficoltà, l’inadeguatezza, l’impotenza, soffrivo ancora di più e allora pensavo che, allontanandolo, avrei evitato almeno il suo dolore. Ma Claudio (Amendola, ndr) è sempre rimasto. Con tanti momenti di crisi, giornate durissime, litigi. Però c’è sempre stato. Claudio mi ha salvato. E anche il mio amico fraterno Stefano, che ora non c’è più». È uno dei passaggi più toccanti della lunga intervista che il settimanale OGGI in edicola da domani ha realizzato con Francesca Neri. L’attrice, che nel libro «Come carne viva» ha raccontato il suo calvario, soffre di cistite interstiziale cronica. Il periodo più buio è durato tre anni, chiusa in una stanza di casa sua, a cibarsi di serie tv e burraco on line. «Mio figlio Rocco non c’è stato, si è protetto», continua la Neri, «e io ho veramente avuto paura di perderlo. Il terrore grande è stato che gli rimanesse impressa questa immagine della mamma dolente, immobile, depressa». L’attrice confessa anche di aver pensato al suicidio, di aver sofferto enormemente per la perdita di un figlio, e per una mamma anaffettiva con la quale si è riconciliata poco prima che morisse.  Un’intervista-verità dove il dolore si alterna alla consapevolezza di una rinascita, cominciata nel 2020. «Proprio l’anno del lockdown che per me, invece, ha significato il ritorno alla vita».

Roselina Salemi per “La Stampa” il 30 settembre 2021. Non vuole chiamarla autobiografia, preferisce «autogeografia» perché attraverso un viaggio attorno e dentro il suo corpo Francesca Neri parla di sé. Ogni organo, ogni osso, ogni fazzoletto di pelle è collegato a una delle esperienze che l'hanno resa la persona di oggi. Racconta tutto questo in un libro coraggioso, straordinariamente sincero, intitolato, appunto Come carne viva (Rizzoli, pp. 204, 17) dove, davvero, si mette a nudo. Il marito, Claudio Amendola, ha pianto leggendolo. Dentro c'è la sua storia di donna e molto di più. La vediamo fuggire da Trento, trasferirsi a Roma, studiare cinema, andare incontro al successo con lo scandaloso Le età di Lulù, poi Almodovar, Salvatores e tre intensi film di Avati: La cena per farli conoscere, Il papà di Giovanna e Una sconfinata giovinezza. La vediamo innamorarsi, diventare madre di Rocco, correre da un set all'altro. L'ultimo ciak è del 2016, poi la malattia, cronica, invalidante, la costringe a chiudersi in casa. La diagnosi di fibromialgia (come Lady Gaga, Morgan Freeman, Sinead 'O Connor ) la costringe a fermarsi e ascoltare il corpo. Ora inizia la rinascita. Non la guarigione, ma la libertà di essere se stessa, di non dover dimostrare niente a nessuno. Questo è, nei limiti del possibile, il lieto fine che le fa dire: «Sono una persona nuova, e stranamente più che mai sono la persona di prima, prima di tutto: della malattia, dei lutti, della maternità, della passione, del cinema, nuda e cruda, appena data alla luce».

Estratto di “Come carne viva” di Francesca Neri (Adriano Salani editore), pubblicato da “La Stampa” il 30 settembre 2021.  Non potevo fare programmi di lavoro ma non volevo arrendermi. Infatti, come avevo sempre fatto, dicevo «sì» che non avrei voluto né dovuto dire, ma dire «no» pareva brutto. E poi mi sentivo in colpa, perché dovevo annullare all'ultimo, inventando imprevisti o passando per quella brusca, spinosa, irta di aculei con cui si sospettava tenessi gli altri a distanza. Non avevo ancora maturato la decisione di smettere di lavorare. Combattevo tra il desiderio di tornare a essere quella di prima, comprese tutte le care, note angosce di prima, il principio di consapevolezza che quella di prima non sarei tornata più e un'idea embrionale, che covavo da anni: forse, finalmente, potevo tagliare gli ormeggi e salpare per l'ignoto, un viaggio avventuroso nel nuovo, smettere di recitare. Basta stress, basta sofferenza. Ma all'inizio prevaleva la Francesca battagliera: ora torno in pista, sì certo, valuto la proposta, quando hai detto che si inizia a girare? E poi dinieghi, rifiuti, scuse, pessima figura dopo pessima figura, perché cercavo di trasmettere senza esplicitare, senza scendere in dettagli: come lo spieghi qualcosa che neppure tu capisci? Non riuscivo a leggere. Concentrarmi sulle parole che correvano una di seguito all'altra, seguire il filo della narrazione: avevo la testa sempre altrove, impegnata nel resistere al dolore, impossibile riportarla nella storia, nel saggio, o comunque sul libro che avevo in mano. Figuriamoci studiare un copione () Ero deperita, sciupata, in casa dicevano «trasparente». Diversa: i tratti del volto deformati dalla perenne contrattura - anche resistere al dolore vuole la sua espressione. Se la cistite mi lasciava respirare, il bruciore si attutiva e cominciavo a percepire altri dolori, mal di schiena, ai reni, alle gambe, alla testa avvertiti per conto loro mi avrebbero pietrificato, anche uno per volta, vista l'intensità, ma in quel contesto nemmeno riuscivano a farsi spazio, tanto erano laceranti le sensazioni che provavo nella pancia, nell'addome, tra le gambe. Altri esami, altra trafila di medici, un nuovo responso: fibromialgia, una sindrome cronica, con origini neurologiche, che colpisce il tessuto connettivo del corpo e consiste nell'avere male ovunque - ai muscoli, ai tendini, alle articolazioni. È paralizzante: se sbatti contro qualcosa e senti male, attendi qualche giorno e ti passa; se ti viene una contrattura da qualche parte e hai male, fai stretchinge ti passa; la fibromialgia invece ti pervade. Non è concentrata in un punto specifico, si irradia su aree larghissime del corpo e si sposta da una all'altra, dalla schiena alle gambe, dalle gambe ai glutei, dai glutei alle spalle - un malessere perenne, come una musica di sottofondo. E poi improvvisamente scompare. Senza che tu abbia fatto nulla di particolare. Stavo nella vasca, questa volta con l'acqua tiepida, avendo cura che non fosse troppo calda, altrimenti mi si riacutizzava la cistite. «Fai ginnastica» mi hanno detto, ma riuscivo una volta su dieci. Oggi mi muovo quasi tutti i giorni, cammino, faccio pilates, ma certe volte il dolore è così insopportabile che nemmeno riesco ad alzarmi dal letto. Quando la medicina occidentale ha finito le risposte possibili, ho cominciato a testare altri approcci.() Il secondo anno con la cistite ho osato andare al mare con Claudio e Rocco, tentativo clamorosamente fallito: al primo bagno ho mollato e sono tornata a Roma, nella mia tana. Ho passato l'estate con un agopuntore cinese. Vuoi mai che una disciplina olistica, meno centrata sul corpo come "macchina perfetta" e più attenta a considerare l'essere umano un tutto in equilibrio sia in grado di aiutarmi. Credo sia vero che il corpo è una cartina di tornasole del nostro stato emotivo - mens sana in corpore sano, insomma, ma al contrario: se stiamo bene dentro, stiamo bene anche fuori. Possiamo curarci, provare terapie di ogni genere, chiedere mille consulti medici, ma la differenza la facciamo solo nel momento in cui impariamo a leggere i segnali che il corpo ci manda. Se riusciamo a stare in silenzio il tempo sufficiente a farli emergere e ad ascoltarli, scopriremo che la radice di tutto sono i nostri sentimenti. Non sono una persona depressa, ma in quel periodo lo sono stata. Il contrario sarebbe stato impossibile. Avevo due dolori, e non il bruciore causato dalla cistite e il malessere diffuso e paralizzante della fibromialgia, ma il dolore del corpo e quello dell'anima - come se tutta la sofferenza che mi ero autoinflitta e che avevo in qualche maniera gestito si fosse ripresentata, mi fosse cascata addosso e mi avesse atterrata. Non saprei dire quale di questi due dolori sia nato prima - forse quello dell'anima - né quale fosse peggiore.

"Mia moglie è malata". Novella Toloni il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. L'attore ha parlato del male che da anni affligge la moglie, Francesca Neri, lontana dalla scena pubblica dal 2016: "Del suo dolore fisico parlerà in un libro". L'ultima apparizione pubblica di Francesca Neri risale al 2016. In quell'anno l'attrice è entrata nel cast di The habit of beauty, pellicola inglese di cui è protagonista e che è stato il suo ultimo film. Da quel momento di lei non si è saputo più niente. Le voci, sempre più insistenti, la volevano affetta da fibriomialgia. Oggi, a distanza di tempo, delle sue condizioni ha parlato Claudio Amendola durante l'ospitata a Verissimo. Da venticinque anni l'attore romano e Francesca Neri vivono la loro storia d'amore. Nel 2010 la coppia si è sposata e dalla loro relazione è nato un figlio, Rocco. Un legame forte che da quasi cinque anni li vede combattere fianco a fianco contro una malattia invisibile, che ha colpito l'attrice. È stato Claudio Amendola a raccontare cosa sta succedendo a sua moglie, Francesca, durante l'intervista rilasciata a Silvia Toffanin: "Se mi chiedi come sta, ti dico che sta bene, ma fa fatica, lotta, combatte con se stessa, con il suo fisico e con il suo corpo". Nel parlare dello stato di salute della sua compagna, l'attore romano non ha nascosto l'orgoglio per la reazione che la donna sta avendo alla malattia: "Quando sei così intelligente come lo è lei riesci a trovare nella malattia, nello stare male, un motivo per reagire, per stare bene". Amendola non ha spiegato però quale male affligga Francesca Neri. In molti hanno ipotizzato che l'attrice e produttrice, 57 anni, soffra di una malattia chiamata fibromialgia, che porta ad avere dolori muscolari diffusi e affaticamento perenne. A Verissimo Claudio Amendola non ha dato un nome a quel male, alimentando il mistero: "La sua non è una malattia chiara, è difficile da riconoscere. Lei ha difficoltà a vivere le sue giornate con il dolore fisico. Di questo parlerà nel suo prossimo libro. Il racconto dei suoi ultimi anni di vita è una cosa molto coraggiosa. Ho pianto e ho riso alle sue parole". L'ultima intervista televisiva rilasciata da Francesca Neri risale al 2013, quando parlò della sua vita e della sua carriera a Effetto Notte. Poi l'ultimo film da protagonista nel 2016 e la sparizione dalla scena pubblica avvenuta poco dopo l'uscita della pellicola nelle sale. Da allora Amendola è al suo fianco: "Starle vicino è stato il mio compito, era quello che dovevo fare. Non è stato difficile, lo è stato di più per lei". Di questa difficoltà e della sua dolorosa malattia la Neri ne parlerà, per la prima volta, in un libro autobiografico, che uscirà nei prossimi mesi e di cui si occuperà - come anticipato dalla Toffanin - anche Verissimo. 

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere",

Francesca Neri: «Il dolore della malattia mi ha fatto pensare al suicidio. Le notti insonni sulle chat». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2021. L’attrice e la cistite interstiziale: «È durata tre anni la fase acuta, non ne sono fuori, non si guarisce». Si racconta e si mette a nudo in modo spietatamente sincero, con il coraggio della sua natura lunare, i suoi chiaroscuri. Come carne viva (Rizzoli) è l’autoritratto di Francesca. Non di Francesca Neri che deve piacere a tutti. L’attrice resta sullo sfondo. In primo piano ci sono il rapporto devastante con sua madre e la malattia che le ha cambiato la vita, costringendola a restare chiusa dentro una stanza di casa sua, bloccata da quel suo corpo idolatrato da tutti.

Perché la definisce un’autogeografia, è una mappatura della mente e del corpo?

«Una mappatura dell’anima. Non è una autobiografia. Qualcosa racconto del cinema, ma neanche tutto, rispetto a un racconto intimo che volevo fare non era significativo».

Lei ha una malattia cronica che le procura grandi dolori, la cistite interstiziale.

«È durata tre anni la fase acuta, non ne sono fuori, non si guarisce: impari a gestirla e a non provocarla in modo che non sia invalidante. I primi due anni, io che non credo ai social, sono stata in una chat di donne che soffrono questa patologia. Un po’ come gli alcolisti anonimi? Sì — sorride — esatto».

È stato difficile starle accanto?

«È stato impossibile. Volevo essere lasciata sola. Dovevo proteggere Claudio e Rocco, mio figlio, altrimenti non ce l’avrei fatta nemmeno io, che sono il capofamiglia che si occupa di tutto. Di fatto sono stata via per tre anni, però c’ero, ero lì in casa con loro, ed è la cosa più terribile. Ho accarezzato l’idea del suicidio. Ho passato mesi a giocare a burraco online di notte. Il mio lockdown è durato tre anni. E quando è arrivato per tutti, con la pandemia, sono stata meglio perché condividevo la situazione degli altri. Claudio è il mio opposto, eppure eccoci ancora qui, sono stata sedotta dalla sua parte femminile nascosta. Voleva una storia, gli dissi di andare a vedere Le onde del destino di Lars von Trier. Bess, la protagonista, non è pazza, è soltanto nata nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata, come me. Ne rimasi sconvolta. Claudio mi disse: non ci ho capito niente. Ci siamo conosciuti in Amarsi un po’ di Vanzina, la mia prima volta come comparsa, lui protagonista. Stiamo insieme da venticinque anni, se non avessi avuto questa complicità e quest’affetto non ce l’avrei fatta. Rocco era intorno ai diciotto anni, faceva affidamento sul padre ed è stato il mio grande cruccio. Il dolore più grande è stato per mio figlio, il libro l’ho scritto per lui».

Che cosa le ha detto Claudio della sua confessione?

«Non pensava che riuscissi a essere così sincera. Dice che è al limite della pornografia, gli uomini che l’hanno letto hanno avuto difficoltà, si sono dovuti fermare, tocco cose difficili da affrontare. Un’altra figura positiva è Kadija, che ci supporta in casa. Senza avere gli strumenti mi ha sostenuta con un affetto smisurato, una dedizione e un approccio diverso da chi mi voleva bene e finiva per soffrire con me. Diceva che il corpo emana calore che è la vita e se non è incanalato nel modo giusto si creano infiammazioni; diceva che tutto quello che succede, succede per una ragione e non puoi non accettarlo, devi percorrerlo e cavalcarlo».

Dopo che lei era andata da mille medici...

«Urologia, Agopuntura, ayurveda, nutropuntura, ozonoterapia. Fino al luminare che mi proponeva un massaggio intravaginale. Ma che mi faccio penetrare da uno sconosciuto?».

Perdoni la domanda, e se non vuole non risponda: il sesso?

«Non ci pensi, ma quando ci pensi è il segno che sei viva. Si inventa un nuovo modo di avere intimità col tuo compagno, ti devi arrangiare».

Quando ha cominciato a stare meglio?

«Ho trovato un equilibrio, devo imparare a difenderlo. Ho cominciato a privarmi di cose che potevano scatenare una reazione. L’aria condizionata, il caldo, certi cibi. La vescica è una parete e se viene lesionata si creano ferite interiori. Le conosco bene, le ho anche nell’anima».

Lei racconta della totale anaffettività di sua madre.

«Il libro non l’avrei scritto se non ci fosse più. È la cosa che mi ha segnata... Ho imparato a vivere senza una madre ma con una madre presente. La malattia non l’ha capita, diceva che da giovane anche lei soffriva. Era una donna semplice e umile, senza curiosità, incapace di esprimere sentimenti. Non mi ha mai fatto un complimento in vita sua, mai stretto tra le sue braccia, mai affondato le dita nei miei capelli. Il mio terrore era di diventare come lei».

L’analisi l’ha aiutata?

«Certo. L’ho fatta per venticinque anni, è un lusso, c’è una fase in cui ti rendi conto dei tuoi limiti. La prima volta ero una bambina, mi mandarono i miei quando dissi, senza avere alcuna idea del mio futuro: “Da grande troverò l’infinito”. Oggi ho una profonda conoscenza di me. Ho imparato ad ascoltare il mio corpo, che non è interessato al lavoro che faccio e conosce il mio inconscio meglio di me e degli analisti, le emozioni passano da lì».

Nei sentimenti lei è stata una traditrice seriale...

«Quando le emozioni oltrepassavano il livello di guardia, o scappavo o tradivo. Una tattica difensiva. Sono un’inquieta e gli inquieti scappano. Tradivo perché amavo troppo. Non avendo mai avuto il gioco del sesso scollegato dall’amore, era un modo di ferire l’altro e anche me. Ora ho paura di invecchiare, non di morire. L’anima non guarisce mai del tutto, ma dove sta? Resta sempre una lacrima».

Cosa le manca della Francesca di prima?

«Mi manca la parte ludica, il travestimento che è giocare alle bambole. Mi manca la creatività. Prima era tutto un andare, esserci, apparire, sentirsi vista, riconosciuta. Poi c’è il lato negativo. Malgrado le copertine e il mio viso nelle sale di mezza Italia, rimanevo sempre io, con le mie fragilità. Di quel periodo folle ricordo, a un evento, la colla rimasta attaccata agli orecchini di Bulgari. Ero guardata a vista dai bodyguard, chissà, magari pensavano che me li sarei portati a casa».

Si piaceva fisicamente?

«Non sopportavo il naso né il pomo d’Adamo, troppo pronunciati. Detestavo la mia fronte, troppo alta e larga, in casa la chiamiamo l’aeroporto. La mia pelle delicata, basta un tocco perché rimanga un segno. È assurdo essere elogiata per la mia pelle. Mi agito? Herpes. Mi depuro? Eczema. Soffro? Gonfiore. Mi viene l’ansia? Rossori di ogni tipo, diffusi, a chiazze, pallini. E poi lo sbaglio delle labbra rifatte, a cui sono riuscita a rimediare».

Come ha reagito il mondo del cinema, un ambiente così conformista e cinico, alla sua malattia e al suo addio al cinema?

«Ha detto bene, è proprio così. Da una parte c’era incredulità. Le attrici mi chiedevano, ma come hai fatto a staccare? Altri dicevano che ero talmente drogata che non mi reggevo in piedi. I miei amici non fanno parte del cinema. Ma ricordo Massimo Troisi, un poeta della vita e dell’amore che ho riconosciuto simile a me. E Pupi Avati che mi descrisse in poche parole: “Il suo sguardo raro, profondo, di chi conosce la vita. Infatti nel suo sorriso c’è sempre anche il pianto”. Per ricaricare le pile sto per conto mio. Non sono debole, sono fragile, incapace di farmi scivolare le cose, penso troppo, aborro la mediazione. Ma so amare, condividere. Chi non mi conosce dice che sono stravagante, altezzosa, depressa. Io diffido di chi non è stato almeno una volta depresso».

Ricorda il suo arrivo a Roma come attrice?

«Ero una ragazza con la valigia che non sa perché c’è venuta ma sa perché c’è andata. Volevo cominciare una nuova avventura. Da ragazza mi ero iscritta a un corso di teatro perché ero convinta di essere fuori di testa, non per diventare famosa. Ho fatto di tutto, la schiava nera con Richard Gere e la controfigura di Hanna Schygulla».

Almodóvar?

«Carne tremula è il film in cui ha cristallizzato il suo stile, mi volle per una donna che rappresenta il senso di colpa. Potevo rifiutare? Eccomi, sono io, gli dissi. Sono stati due mesi di amicizia e complicità, Pedro usò ogni parola che pronunciavo. All’improvviso sul set mi ritrovai sola. Mi aveva abbandonata, per il film. Un giorno presi coraggio e chiesi udienza. Lui mi gelò: non ti capisco. È il suo modo di avere controllo sugli attori. Il set è ogni volta la possibilità di avere un amico. Mi è successo con la parrucchiera, la costumista... E con Pupi Avati. La maggior parte delle volte vieni tradita».

Bigas Luna?

«Le età di Lulù era una sfida con me stessa e con mia madre. Il provino era un monologo e io che mi masturbo con un vibratore. Mia madre non mi parlò per mesi. Io, senza i social, ho subìto insulti, telefonate anonime, stalking... Dopo, in Italia mi hanno vista come una intellettuale e in Spagna come un oggetto del desiderio. Destino tragicomico. In quel film ho imparato a conoscere la mia parte oscura».

Questo libro è l’elaborazione di un lutto?

«Di un lutto e di una epifania. Io sto cercando di capire chi sono diventata. Ho trovato me nella solitudine, che non era isolamento; nel silenzio, che non era mutismo. Questa sono io: se critichi il libro vuol dire che non ti piaccio. Ci ho messo la faccia. Il mio ozonoterapista mi ha detto: sei come Sacchi, l’allenatore che nel pieno della carriera scelse di ritirarsi: era troppo coinvolto. Oggi sono libera dalla necessità di compiacere tutti. Sono più pacificata. Non vedo l’ora di andare nelle librerie a parlarne».

Cistite interstiziale, ecco la malattia che ha colpito Francesca Neri. Chiara Console il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Più comune nelle donne che negli uomini, questa patologia può rivelarsi estremamente dolorosa. A parlarne recentemente è stata Francesca Neri, la quale ha spiegato come la malattia abbia condizionato fortemente la sua vita privata e lavorativa. Ne ha parlato Francesca Neri, nota attrice e produttrice cinematografica, che ha raccontato come il dolore l’avrebbe spinta ad accarezzare l’idea del suicidio. Stiamo parlando della cistite interstiziale, dolorosa patologia che colpisce l’apparato urinario indebolendo le pareti della vescica.

Con l’assottigliamento della membrana, alcuni composti irritanti contenuti nell’urina riescono a provocare irritazioni anche gravi, fino a dare vita a processi infiammatori che tendono a cronicizzare. Più frequente nella popolazione femminile che in quella maschile, può influire non solo sullo stato generale di salute ma anche su quello psicologico, conducendo a stati d’ansia e depressivi.

Cistite intersiziale, quei sintomi che fanno male. Come accade con la cistite batterica, il primo sintomo che compare è quello della minzione dolorosa, associata a uno stimolo frequente. Secondo la scienza, le cause della sua comparsa non prevedono la presenza di batteri; per questo motivo si escludono terapie a base di antibiotici, visto che si renderebbero completamente inutili alla risoluzione del problema.

Cistite, state attente ai sintomi. Il dolore, nella maggior parte dei casi, può indebolire particolarmente il fisico di chi soffre di cistite interstiziale; anche la psiche ne esce provata: la natura cronica pesa sulla quotidianità, sul lavoro e la vita sessuale. Nelle donne è spesso associata a fibromialgia, sindrome del colon irritabile o vestibolite vulvare mentre, negli uomini, il dolore si concentra nei testicoli e allo scroto, coinvolgendo anche pube, perineo e la fase dell’eiaculazione che può causare dolore.

Cistite interstiziale, come viene diagnosticata. Viste le similitudini con la più comune cistite, diagnosticare questa particolare malattia non sempre è semplice. A volte si procede per tentativi, escludendo quelle con le quali potrebbe confondersi a causa dei sintomi condivisi. Tra questi vi sono esami delle urine, tra cui l'urinocoltura, ed ecografie dell’intero apparato urinario. Più mirati, invece, sono gli esami che individuano la presenza di ulcere ed emorragie puntiformi, come l'uretrocistoscopia sotto anestesia generale, previa distensione della vescica, funzionale anche nella diminuzione della sintomatologia dolorosa. Per escludere l’eventuale presenza di degenerazioni più gravi, è possibile sottoporre i pazienti all’esame istologico. In questo modo è possibile anche determinare la progressione dell’infiammazione della parete interna della vescica, prelevandone un frammento e analizzandolo accuratamente attraverso metodologie di osservazione mirata.

Cistite interstiziale, come trattarla. Patologia piuttosto tenace, i trattamenti per eliminare la cistite interstiziale agiscono su diversi fronti, curando l’infiammazione e al contempo limitando i sintomi. Tra i farmaci più utilizzati vi sono quelli somministrati per via orale, capaci di agire direttamente sulla mucosa vescicale danneggiata. A questi, poi, si aggiungono anche antinfiammatori e analgesici per combattere il dolore, oltre ad antidepressivi per il benessere mentale del paziente. Alle terapie orali si sommano spesso quelle endovescicali, capaci di diminuire l’intensità dell’algia; le più usate sono soluzioni di glicosaminoglicani, a base di acido ialuronico o condroitinsolfato. Per assegnare una terapia adeguata, i medici sottolineano l’importanza di una diagnosi precoce; solo così è possibile agire rapidamente sulla cistite interstiziale ed evitare danni irreversibili alla mucosa presente sulle pareti della vescica. Non è da sottovalutare, poi, la dieta. Importante è tenere lontano alimenti speziati o ricchi di potassio, colpevoli di influire sull'irritazione già presente. Anche fumo e alcol vanno messi al bando. Per allentare lo stress è corretto fare affidamento a esercizi di rilassamento oltre che di rafforzamento della muscolatura pelvica, tra cui gli esercizi di Kegel; mantenere un giusto equilibrio psicofisico, infatti, aiuta a concentrarsi sulla ricerca di una positività mentale, evitando che i pensieri negativi possano rendere più difficoltosa la convivenza con la malattia. Chiara Console

·        Francesca Reggiani.

Katia Ippaso per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 13 novembre 2021. «Si prende di mira ciò che, in qualche misura, si apprezza. Non ho mai imitato personaggi di secondo piano». Francesca Reggiani si sta preparando al combattimento scenico con alcune figure, abilmente deformate, nel nostro mondo giornalistico, televisivo e politico: Giorgia Meloni, Ilaria Capua, Concita De Gregorio, Vittorino Andreoli. Le ha meticolosamente studiate in tempo di pandemia. Uomini e donne che sono entrati nelle nostre case con toni seri (o semiseri) e che usciranno dal palcoscenico con vizi e vezzi passati al setaccio del linguaggio comico: La gatta morta, il nuovo one woman show di Francesca Reggiani, sarà in scena dal 16 al 19 novembre al Teatro Olimpico.

Chi è la gatta morta?

«Quest' estate riflettevo sul fatto che se un uomo cerca di fare il piacione, nessuno dice niente, anzi viene incoraggiato. Se invece una donna ha comportamenti seduttivi, immediatamente diventa una gatta morta». 

Quindi il suo vuole essere un manifesto in difesa delle gatte morte?

«Più che altro è in difesa di tutte quelle donne che, superata una certa età, non riescono a trovare un amore e neanche un innamoramento». 

Perché, secondo lei? È colpa dello stigma sociale?

«C'è il mito insopportabile della giovinezza che provoca una forte discriminazione tra i generi».

Lei l'ha subita?

«Io sono stata fortunata perché, dopo la fine della lunga relazione con il padre di mia figlia (con il quale vado anche d'accordo), in pieno lockdown ho trovato un meraviglioso compagno. Lui non fa parte del mio mondo, ma ci capiamo perfettamente. Insomma, a 62 anni non mi sento sola». 

Dove vi siete conosciuti?

«È una storia pazzesca. Ci conosciamo da bambini, da quando io avevo 5 anni e lui 9. Poi però le nostre strade si erano separate».

Tra i personaggi del suo show c'è anche l'accademica e virologa Ilaria Capua. Perché?

«Ormai non si possono fare show televisivi senza virologi, immunologi, esperti sanitari. Sono le nuove star. Sono diventati i nostri compagni di vita, volti familiari». 

Ci saranno poi Giorgia Meloni e Concita De Gregorio...

«Sono due donne di grande personalità che sono spesso in tv. Mi piace osservarle». 

Cosa le interessa dello psichiatra Vittorino Andreoli?

«È la mia passione. Lui interviene per spiegarci la sindrome da lockdown e come l'uomo, in assenza di rapporti umani, si sia rivolto al mondo virtuale». 

E lei quale relazione ha con il mondo virtuale?

«Diciamo che sono curiosa e cerco un confronto». 

È facile demonizzarlo.

«A me ha insegnato una certa libertà. Una volta che ti infili in quel binario, scopri possibilità incredibili. Ma se devo prendere appunti, prendo penna e quaderno».

Scrive spesso?

«Ho buon rapporto con la scrittura e la lettura. Deve sapere che mio nonno, che era milanese, è stato il primo grande distributore di giornali. Alla fine della guerra, ha avuto l'idea che tutta l'Italia, da Nord a Sud, dovesse essere unificata dalla lettura mattutina del giornale». 

C'è un personaggio drammatico che le piacerebbe interpretare?

«Più che altro mi piacerebbe lavorare con registi come Sorrentino o Martone. Magari anche in un ruolo drammatico. Ma, come diceva il mio maestro Gigi Proietti, è più difficile far ridere che far piangere». 

·        Francesco Baccini.

"L’Italia ha la memoria corta. Fedez? Perché ha potere..." Graziella Balestrieri il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Per la rubrica A tu per tu abbiamo intervista il cantante Francesco Baccini: ecco che cosa ci ha raccontato. Artista a tutto tondo, penna intelligente e irriverente. Sofisticato e senza peli sulla lingua da sempre, forse anche per questo si è tirato fuori dal sistema: è Francesco Baccini, artista genovese che uscirà a fine mese con un nuovo album che ha composto interamente per la colonna sonora del film “Credo in un solo padre” di Luca Guadabascio. Lo raggiungiamo al telefono mentre passeggia con il suo amato Labrador e ci racconta un po’ dei suoi progetti futuri e di quello che gira intorno.

Intanto come stai?

"Bene, sto bene, diciamo che sto un po’ come tutti, in isolamento, in attesa che questo incubo finisca. Sono a passeggio con il mio cane, che mi trascina ovunque. Sai io vivo in campagna, non è che abbia proprio tutti questi contatti così frequentemente. Siamo pochissime persone in questa zona, zona tra l’latro fornitissima e se da un lato la pandemia mi ha costretto a non fare concerti, che poi sto facendo altro, dall’altro cerco di cogliere il lato positivo, ovvero è un anno che sono a casa e per me è davvero una novità, non ero abituato. Non stavo a casa da una vita".

Parliamo della perdita di Battiato...

"Un grandissimo artista…però tutti ricordano Battiato ora, ma vogliamo parlare di quando finì la sua esperienza politica e di come? Quando disse quella frase sul Parlamento, frase che pensavamo tutti e venne fatto passare quasi come un matto, che stava iniziando a perdere il senno? Ecco questa è l’Italia, un paese con la memoria corta, Battiato era un artista e un uomo libero, gli altri, quelli che giudicano e puntano il dito no. Anche fra quelli che lo ricordano oggi".

Il tuo nuovo singolo si intitola “Senza Rumore”, che progetto è?

"Mi hanno cercato diverse scuole, i loro insegnanti mi seguivano e allora mi hanno fatto conoscere ai loro alunni. Si parlava della violenza familiare, della violenza sulle donne. Questo è un argomento che è ritornato di grande attualità, anche perché con il lockdown i casi di violenza si sono triplicati, in quelle famiglie che già subivano tutto è diventato un incubo maggiore. Però bisogna abituarli sin da piccoli a distinguere determinate cose. In queste scuole dove sono stato invitato a dialogare con loro, stanno facendo un lavoro che poi presenteranno al ministero e sono partiti da Dante che parla di amore puro, alto, fino ad arrivare alla mia canzone che tratta di violenza che può arrivare alla morte, può diventare un incubo, ossessione, possesso. L’importante è far capire a questi ragazzi che non ci sono principi azzurri, non ci devono essere crocerossine, al primo segnale, quando vedi che questo comincia a diventare violento, devi scappare subito. La violenza psicologica è peggio, perché non riesci a far niente, diventi prigioniero. Poi spesso quella psicologica dove non riesce sfocia in quella fisica. E’ il voler possedere un altro essere umano, non è amore, è egoismo. Io non voglio possedere nessuno. L’amore è scambio, non distruzione e morte".

Ma oggi che genitori ci sono?

"Fra questi ragazzi c’è un tornare indietro ed è certamente perché sono cresciuti con famiglie assenti. Con figure genitoriali che sono dei figli che non sono cresciuti neanche loro. Oggi sono tutti amici dei figli. Io ho un figlio di 23anni, amico fino ad un certo punto, fino ad una linea, i rapporti li devi impostare dall’inizio. Non rispettando il genitore non rispettano nessuno, non riconoscono nessuna autorità, devi avere qualcuno che sia il tuo punto di riferimento. Purtroppo i cinquantenni e quelli della mia età sono ancora al Liceo, non siamo mai cresciuti, e soprattutto in questa società dell’immagine nessuno vuole diventare vecchio. Quando andavo in discoteca da piccolo o nei bar a suonare non ci trovavo mia madre. Oggi è facile dire la gente si abitua a tutto, ma diciamoci la verità: non è normale che vai su Instagram e trovi tua mamma o tuo padre a fare gli scemi. Perché dal ‘68 in avanti non vogliamo invecchiare".

Mancano gli esempi da seguire?

Il problema è che questi ragazzi si fanno dei miti, delle figure di riferimento della loro età. Ma come fa un mito ad essere della tua stessa età? Un mito deve essere più grande, deve insegnarti qualcosa, qualcuno che ti spiega delle cose. Quando ascoltavo De Andrè da ragazzino è perché lui mi insegnava delle cose, ma non ci avrei mai creduto se lui avesse avuto la mia stessa età. Ognuno è quello che mangia alla fine. Io sono cresciuto con BEETHOVEN, De Andrè…i ragazzi oggi seguono gli influencer. Il problema delle nuove generazioni è che manca un’educazione all’emozione, a gestire anche l’emozione. E come possono gestire un’emozione se non riconoscono l’importanza di un “no”.

Chi sono i loro punti di riferimento?

"I loro miti sono gli influencer, il successo veloce, non si può fallire: gli influencer normalmente hanno la stessa età di quelli che li seguono e sono ignoranti come delle bestie! li vado a vedere eh non è che parlo così a vanvera. Ho un canale su twich dove all’inizio ci stavano solo ragazzini, e poi gente di 23 anni che dice delle cose pazzesche, assurde. Che poi noi continuiamo a dire che sono piccoli, ma a quell’età li non sei un bambino. Io a 23anni lavoravo da due e sapevo cosa volevo fare da grande. Poi diciamoci la verità queste cose qua succedono perché qualcuno le fa succedere, alla fine il problema è che questi ragazzini qui sono usati perché sono dei consumatori, i primi consumatori, quindi diamo il potere ai quindicenni così loro si comprano il prodotto".

Giovani = Prodotto?

"Ti faccio un esempio: non si vendono più le macchine? allora la patente la facciamo prendere a quelli di 13anni tra un po’… Questo mezzo che abbiamo in mano, noi continuiamo a chiamarlo telefonino, ma è tutto fuorchè un telefono, e dovrebbe essere usato non dopo i 18 ma dopo i 21anni. Invece c’è gente che a nove anni ha già l’Iphone e tu sai benissimo che dentro puoi vedere qualsiasi cosa. Il problema arriverà quando i social li infilano nei problemi veri e finchè non ci sbatti il naso è difficile che si possa comprendere il pericolo. Mio figlio lo chiede a me se ha un problema del genere, e io sono un padre di un certo tipo, immagina chi ha un padre che non gliene frega".

Negli anni 90 c’erano i manager oggi gli influencer?

"Gli anni 90 erano una sola gigante, tutti compravano in leasing. A Milano tutti con la BMW ma in leasing e poi in realtà non avevano niente. Gli anni 90 sono ancora lì, gli anni dell’immagine dell’apparire, se io vengo da te con una macchina grossa ti posso far credere che sono uno che c’ha i soldi. Ricordo che erano tutti Manager: Si ma manager di cosa? Di nulla come oggi l’influencer… Ma di cosa?"

Hai seguito il caso Fedez, la Rai, la censura

"Fedez lo ha potuto fare perché se lo può permettere, ha i soldi e dunque il potere e poi a lui cosa gliene frega se le tv non lo invitano più? Ha il web. Quello è il suo mondo. Quello che siamo diventati fa sì che il web abbia più potere di tutto e tutti".

Qualche rimpianto?

"Io ho fatto Sanremo 97 per andare via dalla Warner perché voleva andare in una etichetta indipendente. Oggi non lo farei mai più un errore del genere. Tra l’altro disperdendo almeno miei 4/5 album perché poi calcola che ho cambiato altrettante 4/5 etichette indipendenti. Il mondo delle etichette indipendente è un mondo allucinante, perché oggi ci sono e domani non ci sono più. Io ho fatto degli album che non esistono più da nessuna parte mentre se fossi rimasto alla Warner avrei tutti i miei dischi, a parte “Nomi e cognomi” che è sparito e questo rimane il solito mistero, non fu fatto sparire all’epoca, perché all’epoca ero molto popolare, poi con gli anni evidentemente l’hanno tolto dal catalogo".

Il tuo rapporto con la sinistra e con i partiti?

"Io non parlo a nome di nessuno, sono sempre stato un battitore libero, posso piacere o meno, facendo così tra l’altro mi sono fatto fuori da solo dal sistema. Però io voglio essere libero. Se tu politico o partito mi dai la linea editoriale io da quel momento lì non sono più libero. E poi quando sei un artista non puoi prendere ordini. Se sono di essere di destra o di sinistra, ma quelli sono c...i miei. Non voglio essere usato come è successo a tanti artisti, ai quali non è mai stato chiesto il parere di essere bandiere per i partiti ma loro malgrado sono stati costretti a sventolare".

Parliamo di questo tuo rapporto con il cinema

"Questa è la mia colonna sonora di un intero film, che si chiama Credo in un solo padre, che tutta la colonna sonora del film, avevo già fatto canzoni, Brizzi e Zoe. Però non mi ero mai cimentato con una colonna sonora intera. E li è venuto fuori il mio primo album da musicista, tutto strumentale. E poi ci sta un brano cantato in inglese, sonorità vere elettroniche. Mi interessa solo questo, perché sono libero come musicista, ed essere liberi come musicisti è il massimo. E poi la musica in un film è fondamentale".

Cosa rappresenta la figura di Tenco?

"Luigi Tenco e non so davvero a chi possa far comodo, ma in Italia viene trattato come un caso di cronaca nera, ai media o a chi per loro importa solo uscirsene sempre con suicidio, pistole, raccontare la morte. Invece Tenco era vita, è vita. Tenco è musica. Ecco perché nel 2022 uscirà un documentario su di lui, un progetto a cui tengo molto, perché voglio raccontare Tenco come artista, la sua ironia nelle canzoni, la sua bellezza, di come ha vissuto non di come è morto. Racconterò attraverso il mio tour “ Baccini canta Tenco” , che fu ripreso allora, la straordinaria vita ed eredità di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi".

Da leggo.it il 4 maggio 2021. «Piacere, Francesco Baccini, l’indesiderato». Ci scherza su, il cantautore genovese, ma è un riso amaro quello che gli riporta alla bocca l’affaire Fedez-Rai, è la storia di una censura che da quasi trent’anni (era il 1992) ha spento microfoni e telecamere, ha smorzato i riflettori, lo ha relegato in un cono d’ombra dal quale per sopravvivere ha fatto doppia fatica. Tutto parte da un disco di strepitoso successo, l’album “Nomi e cognomi”, 600mila copie vendute. “Giulio Andreotti”, “Renato Curcio”, “Antonello Venditti”, “Diego Armando Maradona”, “Adriano Celentano”, “Radio Maria”, titoli che danno già l’idea: 40 minuti tra ironia sferzante su personaggi della storia contemporanea italiana, dalla politica allo star system, in un tourbillon di grande ritmo e orecchiabilità, e alcune ballate più amare, più cupe, tutte di grande impatto comunque, di irriverente sincerità, pane al pane e vino al vino. «È da quell’album che la mia carriera – avevo già vinto il Festivalbar con “Sotto questo sole” e poi la Targa Tenco – prende un’altra piega».

Quale piega, Baccini?

«Quella dell’invisibilità, dell’assenza. Era il gran finale della Prima Repubblica, sei mesi dopo sarebbe scoppiata Tangentopoli. Sono quasi diventato un nemico pubblico, da epurare».

Esempi.

«Il disco sta andando fortissimo per cui mi chiamano il lunedì per andare a “Domenica in” la domenica successiva. Il martedì mi richiamano: “Non è che potresti cantare "Margherita Baldacci" invece di "Giulio Andreotti"?”. “Ma se eravamo d’accordo su quella…”. Poi improvvisamente le scalette tracimavano. “Non c’è più spazio, richiamaci la prossima settimana”. Richiamavo, “questa settimana non sono previsti cantanti”. A “Domenica in”, figurati. E infatti ce n’erano almeno quattro. Era l’edizione della Parietti e di Cutugno anche se quelle decisioni venivano prese in alto».

Ironia della sorte, nell’album successivo, “Baccini a colori” cantava “Sono stufo di vedere quelle facce alla tv”. La sua, invece…

«Scomparsa, sparita dal radar dei media. Nonostante ciò finora ho fatto altri 14 album, ho scritto due libri e piazzato una quarantina di concerti ogni anno».

Nessuno le disse niente, allora, le fece capire qualcosa?

«L’unico ad essere sincero con me fu Oliviero Beha. Lo incontro per caso e mi fa: “Francesco, il tuo nome è nella lista di proscrizione di viale Mazzini, e anche piuttosto in alto».

Nemmeno Mediaset l’ha più richiamata?

«Devo gran parte della mia popolarità a tante apparizioni al “Costanzo show”. Maurizio a un certo punto non mi ha più invitato».

Eppure rispuntò su Raidue nel reality “Music Farm” e ha anche fatto una fugace apparizione nel recente “Grande Fratello Vip”.

«Beh, quest’ultima è stata proprio sorprendente. Tirato in ballo per una storia di gossip con Maria Teresa Ruta che era tra i concorrenti. E io che devo andare lì a difendere la mia reputazione… ma per carità! Quanto a “Music Farm” fu Giorgio Gori a volermi. Ma grazie a Magnolia, di cui era a capo, non certo a Raidue. Mi telefonò e mi disse: “Voglio un cantante che abbia credibilità”».

Immagino che anche Sanremo sia stato avaro con lei.

«Nel 2010 volevo andare, avevo una bella canzone. Non ha potuto far niente nemmeno Caterina Caselli, capisce? Poi ha chiamato Carlo Conti per il suo primo festival, nel 2015: “Hai qualcosa da portare all’Ariston?”. Gli mandai un brano, gli piacque molto. La sera prima dell’annuncio del cast ero tra i cantanti in gara. Mi telefonò l’indomani, costernato, e credo che lo fosse davvero: “Francesco, mi dispiace ma non ce l’ho fatta a inserirti”».

Ha avuto anche un’onda lunga questa “censura” radiotelevisiva?

«Per restare nella mia Genova. Sono stato grande amico e in alcune occasioni anche collaboratore di De Andrè: mi ha mai visto mai partecipare a uno dei tanti tributi fatti a Fabrizio? E ancora: il concerto per il Ponte Morandi, c’era chiunque, Baccini assente. Eppure abito a un chilometro e mezzo da lì».

Altre occasioni di mancata visibilità?

«Mi chiama Fausto Brizzi e mi fa scrivere la canzone finale del suo film “Maschi contro femmine”. All’anteprima romana ci sono anch’io con il regista e gli attori: nessuno che mi abbia piazzato un microfono sotto la bocca fosse anche per una battuta di dieci secondi».

Avesse avuto l’influenza di Fedez sul web se ne sarebbe potuto fregare di radio e tv.

«Al di là di quello che ha detto al Concerto del Primo Maggio, Fedez lo ha fatto da personaggio della comunicazione, lui su questo ci ha costruito una carriera. Non lo dovessero più invitare in tv, che gliene importa? Il suo pubblico è sul web».

E Baccini, sul web?

«Mi sono rifatto un po’ sui social. Ho profili abbastanza seguiti e sono anche sbarcato su Twitch dove ho creato un format sul calcio e un appuntamento quotidiano serale, “TeleBaccio Night” in cui parlo di musica, suono, canto... Insomma, proprio invisibile adesso non più».

Anche quest’intervista su “Leggo”, ad esempio...

«Certo, da trent’anni ad oggi ogni occasione è propizia per ricordare “guardate che esisto ancora”».

L'album "nomi e cognomi". Sono 11 le tracce che compongono “Nomi e cognomi”, terzo album di Francesco Baccini che uscì nel 1992 con grande successo di vendite per Cgd/Warner. E i titoli del disco sono per l’appunto “Antonello Venditti”, “Diego Armando Maradona”, “Jack lo squartatore”, “Mago Ciro”, “Adriano Celentano”, “Lupo de' Lupis”, “Renato Curcio”, “Giulio Andreotti”, “Margherita Baldacci”, “Radio Maria” e perfino un’autocitazione per “Francesco Baccini”. Sono ritratti tra ironia e sarcasmo ma anche tensione, cupezza e dramma di un’Italia al confine con Tangentopoli le cui icone, positive o negative che fossero, arrivavano dal mondo del calcio, dalla politica, dalla canzone, dalla cronaca nera. Si va dalla satirica “Giulio Andreotti” («chi ha mangiato la torta? Andreotti! chi ha permesso il calo della borsa? Andreotti! chi è il capo della Piovra? Andreotti! Ma lasciatelo stare, poverino, questo dargli addosso è assurdo e cretino») all’amara, dolorosa lettera dal carcere di Curcio, capo delle Brigate Rosse, a Mara Cagol, la sua compagna, uccisa in uno scontro a fuoco con la polizia, alla triste storia di “Margherita Baldacci” ragazza proletaria di periferia che delusa dall’amore la fa finita. Un disco agrodolce, dunque, che alterna momenti spensierati e allegri ed altri amari ma sempre su un filo di trasposizione irreale della realtà. Disco che, nonostante le vendite (600mila copie) è stato cancellato dal catalogo tanto che adesso, dice amareggiato Baccini, è introvabile nei digital stores, da Spotify ad i-Tunes.

·        Francesco De Gregori.

Buon compleanno De Gregori, parole e intarsi del Principe. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 5 aprile 2021. Il broncio irrequieto dei vent’anni, i capelli scomposti, lo sguardo obliquo e ombroso sulla vita che si para davanti a quell’età. È il 1973, Francesco De Gregori ha già scritto di Alice e di Cesare perduto nella notte in attesa del suo amore ballerino. Ha l’aristocratica bellezza anche un po’ stropicciata di un principe, e Principe lo chiameranno poi negli anni a venire. Il primo fu Lucio Dalla, raccontò De Gregori qualche anno fa su Rai Radio2 a “Non è un paese per giovani”, respingendo al mittente l’appellativo di Maestro. «Io un Maestro? Non mi piace essere chiamato così – disse perentorio – L’unico soprannome che mi piace è Principe, perché Lucio Dalla mi soprannominò così durante Banana Republic”. Vien da pensare che dev’essere una sorta di regola non scritta quella per cui gli appellativi più cari li mettono gli amici. È accaduto a Francesco ed è accaduto a Fabrizio De André detto Faber per come lo aveva battezzato Paolo Villaggio in virtù della passione per le matite Faber&Castel. E così De Gregori e De Andrè sono per molti il Principe e Faber. A legarli anche l’album Volume 8 , pezzi come La cattiva strada e la genesi di Oceano raccontata da Cristiano De André: «Vado in Sardegna e me lo ritrovo (De Gregori, ndr) lì, a casa. In pigiama. Che lavora con mio padre, seduto sul mio divano, con la chitarra, giovane, con la barba rossa, un po’ fricchettone […] E allora io prendo coraggio e vado da lui. […] «Francesco, perché Alice guarda i gatti?». Lui mi guarda con un occhio aperto e l’altro chiuso… Non mi risponde. E non mi ha mai risposto. Anzi mi ha risposto, però in un modo abbastanza inconsueto: cioè scrivendo una canzone, con mio padre. Si chiama Oceano […]». Non fare domande. Basta ascoltare. Del resto, i pezzi di De Gregori sono costruiti con intarsi di parole poetiche e misteriose. Parole enigmatiche che spiazzano e allo stesso tempo incantano al primo ascolto e lasciano – insieme alle emozioni – una scia di punti di domanda. Mischiano le carte, eppure prendono per mano e riconducono a Francesco, che è il principe della canzone d’autore anche ora che di anni ne compie settanta. Sette decadi per il cantautore nato a Roma il 4 aprile del 1951. Non pare vero – ma è giusto un attimo – tante e tali sono le tracce di questo tempo trascorso. Lungo la strada note e parole, incontri e passioni, collaborazioni, compagni di palco, libri e letture, chitarre, stadi, teatri e camerini, il Folkstudio, Bob Dylan e Leonard Cohen… Soprattutto canzoni che non rispondono all’usura del tempo ma alla legge del cuore. Anche solo ad andare a memoria – buchi del ricordo compresi – sembra di stare in una biblioteca: sugli scaffali, canzoni che sono storie costellate da personaggi ma anche da stati d’animo o da pezzi di cronaca che intercettano mutamenti sociali, politici e di costume con affondi nella Storia o nell’attualità cesellati per restare anche dopo. Il rimando alla biblioteca – nel caso di De Gregori – non è del tutto casuale: il padre, Giorgio faceva il bibliotecario; la madre Rita Grechi l’insegnante di Lettere. A lui diedero il nome di Francesco in omaggio allo zio ufficiale degli Alpini, poi partigiano e vicecomandante delle Brigate Osoppo, ucciso a Porzûs nel 1945. E già questa potrebbe essere una storia alla sua maniera. D’altro canto di “racconti” diventati canzoni è lastricata la strada artistica di De Gregori. Difficile ricordarli tutti. Così nel giorno del compleanno – insieme agli auguri – ci si può concedere licenze e anche azzardi e si può scegliere di costruire un alfabeto sentimentale che comprenda, ad esempio, alcuni ritratti di donne scritti, cantati e suonati da De Gregori. Acquarelli impastati di note e parole da tenere ben stretti quando si ha voglia di riprendere tra le mani un vinile o un cd del Principe e ricordare: vale anche per chi non ha vissuto in prima persona gli anni di Alice o della dolce Venere di Rimmel. Donne di cui si intravedono i visi, le lacrime, gli amori vissuti, quelli brevi e quelli solo immaginati ma anche la forza e in alcuni casi il coraggio. Donne di cui si cerca di indovinarne i destini e ricordarne i nomi. Operazione non semplice la cui chiave di volta può trovarsi, forse, in queste parole di De Gregori: “Nelle mie canzoni sono spesso e volentieri ‘nom de plume’: Alice, Caterina, Carmela, Irene, Annamaria, Hilde. Sono nomi che scelgo per il suono e anche per il significato. Irene, ad esempio, vuol dire pace. Non sono nomi reali di donne che ho conosciuto, tranne forse un paio di casi, come Caterina”. Suono, significato e mistero, a dispetto dei nomi reali o meno. È una “miscela” creativa e lessicale in grado di dare vita autonoma alle donne cantate del principe. Le incontri e non le dimentichi. Diventano come certe amiche d’infanzia che si riaffacciano nella vita di tutti i giorni quando meno te lo aspetti. Ci si inciampa e le riconosci. Capita con la ragazza di Roma di Atlantide “la cui faccia ricorda il crollo di una diga”. È lei il rimpianto del protagonista del pezzo che vive con un “principio di tristezza in fondo all’anima”. Capita con la Giovanna di Niente da capire che diventa “un ricordo che vale dieci lire” e una girandola di interrogativi. Accade anche con la misteriosa protagonista di Bene. E poi c’è La donna cannone. Anche lei non ha un nome, in compenso ha una storia di quelle che restano. Si racconta che il pezzo sia stato ispirato da un articolo di cronaca. Un trafiletto intitolato “La donna cannone molla tutti e se ne va”. Se ne va, rompendo con le regole del circo per seguire un amore che diventa sogno tra le stelle e cuore buttato oltre l’ostacolo. E mentre scorrono i ritratti di queste donne sembra di vederlo il Principe: raccogliere storie, trovare parole e metafore, scrivere uno di quei suoi racconti da cantare a teatro o nelle arene d’estate. Ritratti di ieri, di oggi e domani nel tempo breve di una canzone. Buon compleanno principe!

Vasco Rossi per il Fatto Quotidiano il 4 aprile 2021. De Gregori compie 70 anni oggi? Prima di tutto allora, gli faccio i miei più sinceri auguri di 100 di questi giorni!!! Tanti ma tanti auguri, Francesco!! De Gregori è uno dei più grandi cantautori italiani, le sue canzoni sono sempre state per me fonte di grande piacere e di ispirazione. Lui ha cominciato prima di me e molto prima di me ha trovato la sua strada, quella della canzone d'autore, io l'ho trovata un po' dopo la mia, quella del cantautore rock, del rocker e della rockstar. Non avrei mai immaginato che un giorno mi avrebbe reso un attestato di stima con la sua interpretazione di Vita spericolata, tra l'altro bellissima "alla De Gregori". Per me è stato come ricevere un Oscar. Personalmente conoscevo tutte le sue canzoni, negli anni in cui avevo la radio, Punto Radio 75/76, le mettevo sempre nel mio programma sulla musica italiana d'autore. Ai tempi facevo radio, non cantavo ancora, strimpellavo la chitarra e cominciavo a scrivere le mie prime canzoni. Ispirandomi anche alle sue, naturalmente. Ma le canzoni di De Gregori sono dei gioielli di scrittura unici e inimitabili. Lui sì che è un poeta. Anche se non gli piace che lo si definisca così, e giustamente perché lui scrive canzoni d'autore, rimane un fatto che lui scrive dei testi che sono poesia pura. Non a caso, per Rock sotto l'assedio, il mio concerto a San Siro "contro le guerre", nel '95, scelsi di fare un omaggio a De Gregori cantando in apertura Generale un capolavoro assoluto, "Che torneremo ancora a cantare, e farci fare l'amore, l'amore dalle infermiere", versi di strettissima attualità perché siamo in guerra anche oggi, anche se in un modo diverso. Sarà anche una questione di affinità elettive, ma ogni volta che ci incontriamo è un grandissimo piacere, non abbiamo neanche bisogno di troppe parole, tra di noi basta uno sguardo per intenderci. Ricordo e ricorderò sempre con grande soddisfazione e affetto quella volta a Roma quartiere Prati, ero ancora agli inizi carriera, stavo andando dall'albergo alla Rai per promozione, quando una macchina si ferma, si apre lo sportello e scende dall'auto De Gregori per salutarmi. De Gregori voleva salutare me. Un grandissimo onore per me, allora e tuttora, godere del suo affetto. Egregio Maestro De Gregori, carissimo Francesco Ti auguro 100 di questi giorni!! PS mi guardo intorno e sei sempre, sei sempre il migliore che c'è.

Claudio Fabretti per leggo.it il 4 aprile 2021. Francesco De Gregori, settant'anni da Principe: dalla "A" di Atlantide alla "Z" di Zingari. Settant'anni da Principe. Francesco De Gregori li compirà domenica, senza clamori, com'è nel suo stile. Niente interviste, eventi e show: solo un brindisi con familiari e amici. Ma neanche la pandemia ha fermato la sua voglia di musica: è pronto a ripartire con i suoi soliti concerti, incluso quello attesissimo dell'Olimpico con l'amico ritrovato Antonello Venditti, attualmente posticipato al 17 luglio, Covid permettendo. Nel frattempo, ha diffuso sui suoi profili social un nuovo videoclip, diretto da Daniele Barraco, in cui interpreta dal vivo La testa del secchio, uno dei brani più riusciti della sua produzione post-Duemila, incluso nell'album Pezzi (2005). In questa pagina abbiamo cercato di sintetizzare il suo mezzo secolo di carriera. Dalla A alla Z.

A come Atlantide, uno dei suoi capolavori meno celebrati. Non il continente sommerso, ma un luogo dell'anima, in California, dove lui vive «da 7 anni, sotto una veranda ad aspettare le nuvole», e «stravede per una donna chiamata Lisa» al punto che «quando le dice: Tu sei quella con cui vivere, gli si forma una ruga sulla guancia sinistra». Una magia, con omaggio alla Three Angels di Dylan.

B come Banana Republic. Il tour del 1979 in compagnia di Lucio Dalla (e Ron) rimasto nella storia. Il principe malinconico e il poeta di strada: così vicini, così lontani. A suggello, l'omonimo, indimenticabile brano, tradotto dall'originale di Steve Goodman.

C come cantautore. Uno dei più emblematici e rappresentativi: barba, chitarra e versi poetici da cantare. Ma guai a dirgli che è un poeta: vi risponderà malissimo, magari usando i versi di Le storie di ieri: «I poeti, che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa». Perché - sostiene - poesia e canzone sono due cose diverse.

D come Dylan. L'eterno maestro di Duluth, l'uomo che «non cantava, sputava le parole come sassi». Il menestrello che lo folgorò sulla strada del folk. Al punto - dicono i maligni - da spingerlo a imitare il suo stesso modo di cantare, strascicando le parole e stravolgendo le canzoni nei concerti.

E come eretico. Nonostante le sue dichiarate simpatie politiche, De Gregori è stato spesso avversato dall'estrema sinistra che lo ha accusato di tradire i suoi ideali militanti. Con tanto di farneticante processo, inscenato dagli autonomi nei suoi confronti al Palalido di Milano, il 2 aprile del 1976.

F come Folkstudio. Il tempio di Trastevere del cantautorato romano dove tutto ebbe inizio. De Gregori vi esordì con le sue prime canzoni. Poi, si unì agli amici Venditti, Lo Cascio e Bassignano: erano I Giovani del Folk. «Quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla», li celebrerà nostalgicamente Venditti.

G come Garbatella, il piccolo teatro romano che ha ospitato la sua residency: 20 date sold-out con la partecipazione di amici e colleghi come Ligabue, Zucchero, Renato Zero, Emma, Elisa, Antonello Venditti, Enzo Avitabile.

H come Hilde. Una delle tante figure mitiche delle sue canzoni: Alice, Pablo, Irene, Anna, Marianna, Mario, Nino, Ninetto, Caterina, Rollo, Eugenio, Lisa, Mimì, Giovanna, Hood, Susanna... A volte si tratta di persone realmente esistite, ma più spesso sono creazioni di fantasia.

I come idiosincrasie. Ne ha diverse, da quella verso Sanremo (cui dedicò anche polemici versi) a quella nei confronti dei programmi tv e dei rapporti con la stampa. Irascibile, invece, può diventarlo verso chi tenta di importunarlo. Giornalisti inclusi!

L come Leva calcistica della classe 68, parabola fatata di (dis)illusioni sessantottesche, con tripudio di piano e tastiere (a cura di Locasciulli). Nino non avrà più paura (di tirare un calcio di rigore), così come La Donna cannone, anche se «non sarà come bella come dici tu».

M come metafore (e figure letterarie). Il Principe ne è il re incontrastato, tra sinestesie («Mi pettino i pensieri»), personificazioni («Barattolo di birra disperata»), antinomie («il treno che è mezzo vuoto e mezzo pieno») e mille metafore, che a volte sono l'intera canzone (da Bufalo Bill a Pezzi di vetro).

N come Never Ending Tour. Ovvero, la filosofia di Dylan applicata ai suoi ultimi decenni di carriera: la performance live come opera artistica irripetibile e luogo privilegiato della creatività. Solo la pandemia ha fermato la sua serie inesauribile di concerti. Che si accinge a riprendere appena possibile, incluso l'atteso evento dell'Olimpico insieme all'amico ritrovato Antonello Venditti.

O come olio. La sua insospettabile seconda vita vede Francesco De Gregori nei panni di agricoltore: produce l'olio Le Palombe nella sua piccola azienda di Sant'Angelo di Spello, nel Perugino.

P come Principe. Lo storico soprannome del cantautore romano. «È l'unico che mi piace, perché me lo diede Lucio Dalla durante Banana Republic», ha raccontato.

Q come Quattro cani. Qualcuno ha provato perfino a identificarli (in Patty Pravo, Venditti, De Gregori stesso e il produttore Lilli Greco) ma non c'è niente di vero: «Ho sempre avuto un grande amore per i cani, in particolare i randagi, e quella è una canzone che parla di loro», ha spiegato. Li scegliamo in rappresentanza degli innumerevoli cani presenti nelle sue canzoni.

R come Rimmel. L'album più amato, quello che l'ha consacrato cantore di un'intera generazione. Suoni più arrotondati, aggraziati impasti di piano, organo e chitarre, un canto più incisivo ed eclettico. Dalla title track a Buonanotte Fiorellino, da Pablo a Pezzi di vetro, un disco che rimescola le carte alla musica italiana. Vincente, ma senza trucchi.

S come Storia. Che siamo noi, nessuno si senta escluso - come cantava nel suo celebre classico. Ma è anche una sua ossessione, con riferimenti sparsi in tantissimi suoi brani, da Le storie di ieri a Viva l'Italia, da Saigon a Il Cuoco di Salò.

T come Titanic. L'album-kolossal in cui fece schiantare l'ottimismo rampante degli anni 80 contro l'iceberg che affondò lo sfortunato transatlantico. Con canzoni entrate ormai nella storia, dalla title track a I muscoli del capitano.

U come umanesimo. Perché è questa in fondo l'unica religione laica di De Gregori: mettere al centro gli uomini, le loro complesse relazioni, i loro sentimenti e le loro vite, narrati attraverso un sentimento di empatia e solidarietà che si rivolge in primis agli ultimi e agli esclusi.

V come Viva l'Italia. Il suo omaggio d'amore e rabbia al Paese «metà giardino e metà galera», il suo brano più frainteso e abusato. Riscriverlo oggi? Più volte ha detto di no. Eppure, quell'inno agli anticorpi democratici dell'Italia «con gli occhi asciutti nella notte triste» è attuale più che mai.

Z come Zingari. Parola ormai poco politically correct. Ma De Gregori l'ha usata poeticamente, sia su Rimmel, sia sulla struggente Due zingari, una delle più belle canzoni mai scritte sul microcosmo gitano.

Chi è davvero Francesco De Gregori? Luca Valtorta su La Repubblica il 4 aprile 2021. Oggi il "Principe" dei cantautori compie 70 anni. Molti di noi sono cresciuti con la sua musica che, fatto rarissimo, si è trasmessa anche alle generazioni più giovani. Ma cosa sappiamo veramente di lui? Lo sguardo che muore nel sole, il suono sfocato dal vento. E il mondo che gira intorno. Fermo ai bordi della strada, tra sogno e realtà, fluttuando. Chiudi gli occhi. E sei in onda. Stop. Oggi, 4 aprile 2021, Francesco De Gregori, il "Principe", il più sofisticato tra i nostri cantautori, compie 70 anni. Ma chi è Francesco De Gregori? Una domanda difficile. Difficilissima. Probabilmente anche per lui. Che rimane indecifrabile quando appare più decifrabile, che sfida se stesso e gli altri, che cerca di rendersi la vita difficile scegliendo sempre la via più complicata, la linea obliqua, l’ombreggiatura. Per lui sarà un giorno come un altro, spiega l’ufficio stampa, non farà interviste, forse si dedicherà a rimettere in sesto la pavimentazione della casa in campagna. Chissà. Tutti però, giustamente, lo celebreranno: in tv, sui giornali, nella Rete, sui social. È un periodo così brutto, così difficile che sarà bello pensare a Francesco De Gregori, alla prima volta che abbiamo sentito una sua canzone oppure a quella canzone così importante per noi, per un nostro amore, per un nostro momento difficile, o così importante da restare impresso nella nostra memoria. Tutti, o quasi, abbiamo una canzone di De Gregori che sembra parlare proprio per noi: ce l’avevano persino gli Skiantos che citano, in un loro brano "demenziale", una frase un po’ rimaneggiata tratta da Bene: “Se ci trovi un po’ di fiori in questa storia sono i tuoi!” (nell’originale si dice: “Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia, sono tuoi”). E se un gruppo punk cita De Gregori – e non per prenderlo in giro – vuol dire che il linguaggio non è solo universale ma che il suo modo di cantar l’amore è graffiante quanto la carta vetrata. Se ci pensate questa frase è durissima e insieme all’altra, “e i fiori nella vasca sono tutto quel che resta e quel che manca”, sono (probabilmente) la sintesi di una  storia d’amore senza pietà. Per lui oggi sarà un giorno come un altro. E naturalmente sarà così, ma non sarà così. Ammesso che non legga i giornali proprio in questo giorno, non ascolti la radio, non guardi la tv, non accenda il computer sarà un giorno in cui si troverà a pensare magari a quei gatti che muoiono nel sole in Alice e a “Cesare perduto nella pioggia” e anche, perché no, a “Giovanna che è stata la migliore” (e dunque alla prima censura su un suo disco, che però dal vivo ritroverà la frase originaria “faceva dei giochetti da impazzire”). Perché i 50 anni, ma ancora di più i 70, sono un momento in cui si fa un bilancio della propria vita e forse è un po’ dolce sapere comunque di contare così tanto perché, come diceva quello (fortunatamente ormai dimenticato dalla storia), se con la cultura e l’arte e tutte le cose belle senza valore non si mangia, di certo ti salvano la vita. Una frase che potrebbe apparire retorica se non l’avesse detta Lou Reed in Rock’n’Roll e quindi va letta con quel sottofondo. Perché le note della tromba di Miles Davis nella tua giornata più brutta possono aiutarti, o il suono graffiante e alieno di Free Jazz di Ornette Coleman, l’eleganza assoluta di Joni Mitchell che canta nell’album Mingus, o arrendersi alla voluttà di Loveless dei My Bloody Valentine e persino la voce di Johnny Rotten in God Save the Queen possono aiutarti. E mille altre. Così come, è quasi banale dirlo, quei versi in stato di grazia assoluta che recitano “come quando fuori pioveva e tu mi domandavi se per caso avevo ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi”. E che dire di “e non hai capito come mai gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai, però stai bene dove stai”? Basterebbe anche solo questo per riempire di senso una vita. Eppure qualcuno diceva che le cose che dice De Gregori non si capiscono: ma perché si dovrebbero capire? Perché, in realtà, “non c’è niente da capire”: Francesco De Gregori lo ha ripetuto molte volte nella sua lunga carriera, a partire dal 1974, anno in cui dopo le accuse di 'ermetismo' (come se fosse una colpa!) che gli vennero rivolte, decise di scrivere una canzone proprio con quel titolo e poi, nel 1990, chiama così anche un disco dal vivo e la rimette in La valigia dell’attore e in Vivavoce. Ed è vero che non c’è niente da capire perché la canzone di un artista diventa di tutti e forse non è così interessante sapere quale fosse il senso che l’autore intendeva: quello che importa è il senso che gli dai tu. Cantautore, poeta o meglio "artista", come ama definirsi, Francesco De Gregori festeggia 70 anni. Nato a Roma il 4 aprile 1951, inizia a suonare al Folkstudio di Roma dove conosce, tra gli altri, Antonello Venditti, con il quale pubblica il primo album nel 1971 ('Theorius Campus'). Il debutto da solista è nel 1973 con "Alice non lo sa" ma il vero successo arriva due anni dopo con "Rimmel", che diventa uno dei dischi più venduti del decennio. Nella sua carriera ha pubblicato 21 album in studio più 16 live, testimonianza delle sue esibizioni dal vivo e delle tournée condivise con amici e colleghi, da Lucio Dalla a Pino Daniele. Alcune volte, anzi, può essere persino deludente conoscere il significato che voleva attribuire chi ha scritto la canzone. E De Gregori questo lo sa bene. Sa bene che tra le pagine chiare e le pagine scure c'è un affascinante mistero. Al tempo stesso non è vero che non c’è niente da capire, perché è ormai acclarato che Alice è ispirata all’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, che Cesare che “sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina” è Cesare Pavese in inutile attesa della magnifica attrice e ballerina Constance Dowling, che aveva recitato in film come L’angelo nero e a cui Pavese dedicherà la raccolta di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: “È buio il mattino che passa senza la luce dei tuoi occhi” dice il poeta. Un termine che rende giustizia a Pavese ma che De Gregori non vuole sentire rivolto a se stesso. Nel celebre gioco di Arbasino tra "venerato maestro" e "solito stronzo" sceglierà sempre di essere il solito stronzo. Ma De Gregori ha letto Pavese, con grande, indimenticata passione. Le sue canzone sono piene di riferimenti letterari, storici, politici. Per questo in una sola, fulminante frase riesce a restituire a chi ascolta un affresco struggente della sua sofferenza di innamorato non corrisposto. In una lettera, Pavese, sconfitto, scriveva a Constance ritornata ormai negli Stati Uniti: “Viso di primavera, io di te amavo tutto, non solo la tua bellezza”. E così una canzone diventa una porta aperta su mille mondi che è così bello visitare! Non è facile. Ma è proprio questo il senso di una canzone che diventa immortale. E non fa niente se l’interpretazione è giusta o sbagliata, l’importante è la curiosità che ci fa andare alla ricerca di qualcosa che, quando siamo più giovani, non conosciamo ma possiamo comunque afferrare per via emotiva. Nell’imparare è il senso delle nostre vite, dell’essere uomini: “Giocavo col linguaggio fregandomene di essere comprensibile o no”, diceva Francesco De Gregori, “questo linguaggio che io definisco "frantumato" o "frantumabile" è poi entrato nelle canzoni anche con altri autori come Mogol ad esempio”. Dunque è qui che troviamo De Gregori: non nella fotografia che appare su un libro. Ci ha avvertito più volte, anche in una canzone: “Guarda che non sono io”. Non è lui quello che stiamo cercando, “quello che conosce il tempo e ti spiega il mondo, quello che ti perdona e ti capisce, che non ti lascia sola e che non ti tradisce. Guarda che non sono io quello seduto accanto, che ti prende la mano e che ti asciuga il pianto”. Paradossalmente De Gregori lo troviamo nell’assenza, nella negazione del sé. Sembrerebbero parole dure nei confronti dei fan, quando dice: “Cammino per la strada, qualcuno mi vede e mi chiama per nome, si ferma e mi ringrazia, vuole sapere qualcosa di una vecchia canzone, ed io gli dico: "Scusami però, non so di cosa stai parlando, sono qui con le mie buste della spesa, lo vedi sto scappando. Se credi di conoscermi non è un problema mio. E guarda che non sto scherzando"”. Non sono parole dure, non è insensibilità nei confronti del fan: è il contrario. È il cercare di decostruire l’idea dell’artista come vate, come ispiratore, come quello che ha sempre una risposta per qualsiasi cosa e che invece è lì, proprio come te, al supermarket con le buste della spesa in mano. E che come te, il più delle volte, non ha risposte ma solo domande, dubbi: “Ho sempre cercato di seminare dubbi”, raccontava parlando di Rimmel. “Pablo per esempio poteva sembrare una canzone ideologica, con un riferimento al Cile, a Pablo Neruda, al lavoro nero, all’emigrazione e però invece quando si arriva a "spagnolo" è il "collega spagnolo", non il "compagno spagnolo" come avrebbe dovuto essere se avessi voluto strizzare l’occhio, furbescamente, all’ideologia in quegli anni imperante”. Seminare dubbi dunque, rifiutando l’idea di stare su un piedistallo: “A volte però persino gli intellettuali sono capaci di un dialogo intellettuale”. Non è una semplice battuta, già in Poeti per l’estate, un brano del 1995, c’era un bersaglio preciso: “Dicendo 'poeti' volevo riferirmi genericamente a un certo mondo culturale e alle sue pubbliche epifanie. La strofa più diretta è quella che dice 'quando in televisione li vedi arrivare/ profetici e poetici, sportivi ed eleganti/ pubblicare loro stessi come fanno i cantanti'. È un pezzo vecchio ma ancora adesso trovo meraviglioso vedere arrivare in un talk-show in cui si sta parlando di Covid-19 o di immigrazione un politico o uno scrittore che discettano blandamente sul tema e poi, alla fine, tirano fuori la copertina del loro ultimo e spesso perdibile libro”. Da notare è che invece per “i cantanti”, che secondo la gerarchia della cultura con la 'C' maiuscola sono considerati poca cosa, "pubblicare se stessi" è ironicamente considerata da De Gregori cosa lecita. Del resto il fatto che la musica sia considerata prodotto di consumo è sancito per legge: sui dischi si paga il 22% di Iva mentre per i libri è il 4%. E così, già che ci siamo, rivolgiamo un appello al ministro Dario Franceschini perché risolva una volta per tutte questa situazione davvero imbarazzante, soprattutto in un paese come l’Italia, dove la musica è parte profonda della cultura nazionale ma viene trattata come se fosse qualcosa di inferiore rispetto alle altre arti. Insomma, De Gregori è uno che cerca rogne: "L'ho sempre fatto: basta pensare a un pezzo come Alice, del '72, che era una canzone irregolare per quei tempi, molto strana, sghemba, o fare Buonanotte fiorellino in quegli anni, quando per seguire l'onda dovevi scrivere Musica ribelle. All'interno di un disco come Rimmel poi... Io questo lo chiamo 'cercare rogna' ma è semplicemente seguire l'istinto, non adeguarsi a un protocollo che ti dice quello che devi essere, quello che bisogna scrivere, quello che bisogna fare. Ecco, io non l'ho mai fatto, me ne sono sempre fregato e vorrei continuare così". Questo spiega il particolare accanimento, nel tempo, che De Gregori ha avuto nei confronti di una delle sue canzoni più famose. Quando uscì, Buonanotte fiorellino, divise subito il pubblico, come da lui auspicato: “Venni subito accusato, era il ’75, di essere sdolcinato, 'piccolo borghese', perché bisognava scrivere le canzoni che parlavano al 'movimento'. Io invece avevo fatto questa storiella d'amore. In realtà era proprio il contrario: era una caricatura della sdolcinatezza mentre raccontava in realtà una storia dolorosa perché era la fine di una relazione con annessi sangue, sudore e lacrime. Però con quel 'un-za-za, un-za-za' che accompagnava il testo. L'ho fatto apposta”. Chi l’avrebbe immaginato? Tutto questo spiega molto, soprattutto perché De Gregori affonda ancora di più il coltello: “Fiorellino! Monetina! Ho usato tutte le parole più zuccherose che mi venivano in mente. E, come previsto, quella canzone finì per provocarmi parecchi guai…”. Anni pesanti, anni di piombo, che portarono al famoso 'processo a De Gregori' quando alcuni 'mili-tonti' lo accusarono di cedimenti al sistema borghese a partire da brani come quello che parlavano d'amore invece che di lotta di classe (ieri sono arrivate anche le scuse di uno dei leader del '68, Mario Capanna: “Quei contestatori non sapevano quel che facevano”): “Ma per carità, stiamo ancora a parlare al processo a De Gregori, ci sono cose ben più serie”, dice lui da sempre quando gli chiedono qualcosa a riguardo. Per fortuna qualche tempo dopo questi fatti che lo portano ad allontanarsi dalle scene per un po', un periodo in cui ne approfitta per viaggiare, per cercare di godersi un po' la vita, ritorna a un certo punto la voglia e la gioia di far musica grazie a Ma come fanno i marinai, un brano che nasce durante un pranzo con Lucio Dalla e Ron. Siamo nel 1979. Il successo straordinario di cui gode genera qualche tempo dopo il tour negli stadi di Banana Republic, forse uno dei momenti più felici nella carriera di Francesco, per brevità chiamato Artista (come vorrebbe lui): "No, poeta no. Artista invece sì: uso questo termine senza alcun sussiego né presunzione ma solo per indicare il lavoro che faccio". Cercare rogne però significa non fermarsi mai e al tempo stesso cambiare sempre strada. Per esempio, significa anche spogliare il più possibile la propria musica da ogni orpello con un album nel 1994, che già dal titolo dice tutto, Bootleg: “Andai a Dublino a mixarlo proprio perché volevo un fonico che non capisse i testi. Trovai uno che non solo non li capiva ma a cui stavo anche chiaramente antipatico: per me era perfetto!”. E non solo: “Io ho fatto anche un album intitolato Left & Right che non è nemmeno mixato: sono solo i canali del banco presi e masterizzati senza dire 'alzo i livelli del basso' o cose simili, ed è uno dei miei preferiti”. E infatti è lì che appare una delle versioni più belle di una delle sue canzoni più amate dal pubblico, La donna cannone, che invece per altri è un po’ indigesta, con quell’arrangiamento così sfarzoso e quel crescendo che vuole proprio colpirti al cuore e indurti e far dondolare l’accendino (quando si poteva) per creare quell'effetto romantico che ovviamente lui invece tanto detestava. Questa dualità di De Gregori è non solo consapevole ma anche scientemente ricercata, come quando nel febbraio del 2019 fece una serie di concerti molto intimi e raccolti in un piccolissimo teatro della Garbatella, a Roma, e poi per compensazione due concerti, a giugno, alle Terme di Caracalla, addirittura con l’orchestra: “Dopo questa serie di piccolissimi concerti intitolata Off the Record per ritornare a dove tutto era incominciato, il Folkstudio, facendo canzoni che di solito non faccio mai – anche se mi sa che La donna cannone dovrò farla per forza anche se non tutte le sere – farò una tournée con un'orchestra d'archi di quaranta elementi e lì, al contrario, la scaletta sarà inevitabilmente piuttosto rigida. E in quel contesto La donna cannone la faremo con tutti i crismi”. E dunque alla nudità della musica deve corrispondere anche quella dell’artista, come mostra Vero dal vivo, l’interessantissimo film di Daniele Barraco. De Gregori non è sul palcoscenico ma dietro le quinte, impegnato in estenuanti tentativi di fumare sigarette senza numero in posti vietati, o quasi annoiato nel backstage di teatri ancora vuoti durante la tournée all'estero, con la moglie Chicca che, a un certo punto, durante la cena del dopo concerto, gli sottrae il bicchiere dalle mani per evitare che esageri. Non raggi laser, abbellimenti, finzioni ma l’esatto contrario: “Volevo presentarmi come un uccellino spaventato, col giaccone da pensionato, senza la barba, coi capelli tagliati. Ma non ho fatto nessuno sforzo: ho solo evitato di cambiarmi per girare il film. Oggi è diverso ma se crescevi al Folkstudio rimanevi come me o come Antonello (Venditti, ndr): due personaggi "ombrosetti" che non saranno mai come Dean Martin o Jerry Lewis. Ma non è che non mi piacerebbe essere così: non ne sono capace”. A proposito di musica che si sedimenta nei ricordi: ho sempre in mente un concerto estivo, in una piccola città di mare, durante un periodo forse 'difficile' di Francesco De Gregori. Torturava il pubblico di vacanzieri arrivato con le infradito, ansioso soltanto di cantare a squarciagola insieme a lui la colonna sonora del primo amore, cambiando completamente le sue canzoni più famose e amate, proprio come Dylan, e proponendo pezzi come Povero me che dice cose tipo “vedo passare persone e cani e pretoriani con la sirena e mi va l'anima in pena, mi viene voglia di menare le mani, mi viene voglia di cambiarmi il cognome, cammino da sempre sopra i pezzi di vetro” e anche “ho il cervello in manette, dico cose già dette e vedo cose già viste. I simpatici mi stanno antipatici, i comici mi rendono triste, mi fa paura il silenzio ma non sopporto il rumore”. Per poi proporre, nel finale, una deragliata versione di Buonanotte fiorellino che lascia il pubblico sconcertato, attonito e con l’amaro in bocca: "Certo, l'ho 'dylaniata' mille volte quella canzone: una volta c'è il violino, un'altra no, una volta è in tre quarti. In quattro quarti non l'ho ancora fatta ma prima o poi ci arriverò. C'è una parte del pubblico che è conservatore. Mi rendo conto di cosa vuol dire perché quando io sono "pubblico", anch'io sono conservatore. Se andassi a sentire un concerto di Dylan e per una volta mi facesse Like a Rolling Stone o Just Like a Woman o Blowin' In the Wind così come le ha fatte sui dischi esclamerei: "Ooooh!". Subito dopo, però, mi porrei il problema: è sincero mentre sta facendo questo o sta facendo un monumento a se stesso? E penso che la risposta sarebbe: 'Non è sincero fino in fondo'. Io a un artista sul palcoscenico ciò che chiedo è la sincerità, cioè che in quel momento mi restituisca quello che sta succedendo nella sua testa. La sua testa non può essere quella di quarant'anni prima. L'evoluzione di una canzone è peggiore? Pazienza, mi becco la peggiore". “Il mondo gira. Tutte le foto stanno cadendo dalla parete dove le ho messe ieri. Ho bisogna di una folla di persone ma non so affrontarla giorno per giorno. Anche se i miei problemi sono senza senso questo non li fa sparire”: ma i problemi non sono (quasi) mai senza senso, anzi il problema semmai è che ben pochi si fermano a riflettere su se stessi, cercano di guardarsi dentro. Soprattutto oggi e onostante una pandemia che avrebbe dovuto renderci migliori. Riescono a farlo a volte, non sempre, artisti, scrittori, musicisti ma dovremmo farlo tutti noi, ogni giorno. Queste parole comunque non sono di Francesco De Gregori ma di Neil Young da On the Beach. “Soffia il vento sulla punta del molo con il piede batto il tempo. Spreco il tempo, sta piovendo. La tempesta sul mio viso sta passando, si sta sciogliendo. E sono in onda” cantava invece De Gregori in una delle sue canzoni più belle, immaginifiche, delicate tratte da Calypsos e che si intitola proprio così, In onda. Oggi il tempo del disagio, se c’è stato, sembrerebbe storia lontana. Il De Gregori di adesso a volte accetta perfino di farsi fare una fotografia con i fan anche se continua a non piacergli per niente. E anche i rapporti con i media sono assai migliorati: ride, scherza, li tiene comunque a bada. Decide lui cosa fare e quando farla: “Sono andato all’intervista radiofonica ma mi sono ritrovato da solo al microfono. Adesso vivo qui fuori sulla spiaggia ma quei gabbiani sono ancora fuori portata” cantava sempre uno straniato Neil Young incapace di vincere i suoi demoni, le sue laceranti contraddizioni nel rapporto con se stesso e con il pubblico. “E sono in onda. Il mio nemico è in piedi ed io lo vedo. Ride. Fermo sulla sponda ed io lo guardo e gli sorrido mentre la mia nave affonda”. Il nemico che lì sembrerebbe vincere ormai è scappato, è vinto, è battuto: la nave non è affondata, ha vinto la sua battaglia. Probabilmente proprio grazie all'accettazione. A quel sorriso. Ma chi è allora davvero Francesco De Gregori? Alla fine non è così difficile da capire, è una storia di ieri, una storia forse complessa, intorcinata e perennemente in lotta con se stessa, con la sua leggenda. Ma anche piena di grazia e di bellezza: Francesco De Gregori è una nave pirata. Che attacca le sue e le nostre certezze.

Francesco De Gregori: i poeti, che brutte creature. Luca Valtorta su La Repubblica il 7 febbraio 2019. Integrale dell'intervista sul "Venerdì" in occasione dei concerti che il cantautore terrà dal 28 febbraio al 27 marzo in un piccolo teatro della Garbatella, a Roma. Musica, arte, i libri, gli amici, i significati delle canzoni..."Preparo il caffè", dice Francesco De Gregori. Ma questa ordinarietà non è affatto ordinaria perché la persona che compie un atto così familiare e gentile è la stessa che ha scritto canzoni che abbiamo amato, canzoni su cui abbiamo pianto, persino canzoni che abbiamo amato odiare. O, ancora, canzoni di una bellezza così innaturale, così fuori dal comune da infilarsi nella nostra testa come un vizio assurdo, avrebbe detto quel Cesare che rimane ad aspettare inutilmente nella pioggia "il suo amore ballerina" in Alice. Sono frasi perlopiù. Delle quali non ci si riesce a liberare. Alcune perché di una grazia quasi insopportabile, come "questo strano tipo di bambina/ vuole la compagnia" (da Piano bar), oppure quell'immagine sfocata e di abbacinante nostalgia per qualcosa che non si riesce ad afferrare dei gatti che "muoiono nel sole" (non lo sa Alice il perché: figurarsi noi) dove, a differenza di oggi, "il mondo si muove senza fretta". "Poeta", dice qualcuno. A lui non piacerebbe. Infatti in uno dei suoi pezzi più belli, Le storie di ieri, ecco un'altra frase che va in direzione ostinata e contraria, "i poeti/ che brutte creature", che Fabrizio De André incide nel suo Volume 8 prima che lo faccia De Gregori (poi spiegheremo perché) decidendo di cambiarla in "i poeti/ che strane creature". Ecco, capire questa frase forse vuol dire capire De Gregori, o almeno capirne qualcosa. Del resto, se artisti emergenti come Calcutta o provenienti dall'underground come gli Afterhours nei rispettivi docufilm, Tutti in piedi e We Are Afterhours, si affidano allo stesso regista-superstar, Giorgio Testi (ha lavorato con i Rolling Stones e Damon Albarn), che offre una visione introspettiva ma al tempo stesso grandiosa dell'artista, De Gregori fa l'esatto contrario. Vero dal vivo, il film di Daniele Barraco uscito poche settimane fa, lo mostra dietro al palcoscenico, mentre cerca di fumare infinite sigarette in posti vietati o quasi annoiato nel backstage di teatri durante la tournée all'estero, con la moglie Chicca che, a un certo punto, gli sottrae il bicchiere dalle mani per evitare che esageri: insomma momenti di puro cinema-verità, come si diceva un tempo. E ancora, mentre Calcutta e gli Afterhours, e altri artisti indie come Thegiornalisti, Cosmo o Lo Stato Sociale, suonano in luoghi enormi come l'Arena di Verona o il Forum di Milano, Francesco De Gregori sceglie il Teatro Ambra, un teatrino di 230 posti nell'ex borgata Garbatella, a Roma. I soffitti della casa sono molto alti e coperti di pannelli per insonorizzare la stanza ("altrimenti non riesco nemmeno a sentire cosa dicono in tv", spiega), c'è un pianoforte vicino alla finestra e, in un angolo, appese, diverse chitarre. Sulla parete, il quadro usato per la copertina del disco Terra di nessuno, Zwei Modelle, del pittore espressionista tedesco Karl Hubbuch, poi più in fondo un tavolo da lavoro con una grande libreria e pochi dischi scelti. Molti di Bob Dylan. Il caffè è arrivato. Bene.

Lo spettacolo

Lei farà venti date di fila in un piccolo teatro di Roma: da dove arriva questa idea?

"Era un'idea vaga che avevo in testa da tanto tempo quella di fare un concerto a casa mia, a Roma, ritornando a un'atmosfera molto intima, simile a quella dove tutto era incominciato, il Folkstudio. Un'idea così vaga e improduttiva che avevo quasi paura di parlarne con Salzano (Ferdinando, l'impresario che si occupa dei suoi concerti, ndr), che invece è riuscito a concretizzarla. La questione è che ho parecchia voglia di suonare e non posso farlo sempre nello stesso modo. Perché la capacità di un tour 'normale' ha un limite: quando ho fatto 30 o 40 date il tour deve per forza finire. E così ho pensato che forse era davvero arrivato il momento di fare una cosa così, che in qualche modo ti costringe a rivedere tutto".

Perché proprio il teatro della Garbatella? (Per i non romani, un riferimento nobile è presente in Caro diario di Nanni Moretti, quando sulle note di I'm Your Man di Leonard Cohen, mentre sta girando con la sua Vespa bianca, dice: 'Il quartiere di Roma che mi piace più di tutti è la Garbatella', ndr)

"Cercavo un posto molto piccolo, non più di 200 posti, e la produzione ha trovato questo, che è decisamente 'Off Broadway'".

Bruce Springsteen le ha fregato il titolo.

"In realtà sì, perché avevo pensato di usare come titolo Off Broadway da un bel po' di tempo, poi è arrivato quello di Springsteen e così… ho tenuto solo l'Off. Adesso si chiama Off the Record. A me piace fare progetti stravaganti, non perché sono particolarmente stravagante io, ma perché la routine altrimenti ti ammazza. E poi non la puoi proprio gestire, anche la gente lo capisce. Infatti i biglietti sono andati subito a ruba: evidentemente è una necessità che sente anche il pubblico".

Cosa succederà?

"Non lo so. Sono curioso anch'io. Di sicuro non sarà come lo spettacolo di Springsteen perché io non parlo, non più del solito almeno, però al contrario di Springsteen, che è obbligato a fare sempre la stessa scaletta per poter seguire la sua narrazione, io vorrei fare uno spettacolo molto vario. La mia intenzione sarebbe proprio quella di provare dei brani il pomeriggio ed eseguirli la sera stessa. Poi La donna cannone la devo suonare per forza… Anzi, no, qualche sera non la farò!".

Le canzoni

Quindi potremo sentire qualcosa di mai sentito?

"Tipo? Accetto suggerimenti".

Un pezzo come Bene per esempio, che lei non ha mai suonato: l'ha dovuta cantare Vasco Brondi nel suo disco live.

"Ah, davvero? Ecco perché mi ha mandato il suo album: è bravo Vasco Brondi, una volta ho suonato con lui e ha cantato Viva l'Italia. Lo ascolterò. Bene mi risulta difficile farla: non è che non ci abbia pensato, perché tanti sono affezionati a quel pezzo, ma in effetti non l'ho mai cantata dal vivo. Vediamo. Se trovo l'arrangiamento giusto… Perché è voce, chitarra e una tastiera, e così non regge. Così reggeva allora, con la voce che avevo allora, con quelle parole: adesso mi sembra una canzone molto adolescenziale. Dopo quarant'anni che fai canzoni certi pezzi magari ti suonano ancora, altri no, perché cantare vuol dire immedesimarsi".

Quali canzoni considera contemporanee?

"Per esempio Alice. O Generale. Altre, tra cui Bene, mi sembrano molto distanti. Un'altra è Pablo, ma voglio provare a farci la pace".

Posso capire che faccia fatica con Pablo: io ai tempi dell'invasione delle radio libere, quando volevo sintonizzarmi su Radio Popolare di Milano, cercavo questa canzone.

"La mandavano spesso?".

Almeno dieci volte al giorno.

"Sì, beh, perché passava per essere una canzone molto ideologica e in qualche modo lo era, forse… Ma non così tanto".

Era una canzone sul lavoro nero.

"Sì, sì, però col fatto che c'era di mezzo il Cile, Pablo Neruda… Io però non volevo realizzare un pezzo ideologico, tanto che avevo scritto 'il collega spagnolo' perché ho sempre amato sollevare dubbi: sapevo che la cosa gradita a un certo pubblico sarebbe stato 'il compagno spagnolo'. E io, invece…".

"Il fumo con lui lo dividevo"…

"Io non intendevo le canne, ma le sigarette…".

Credo che nessuno l'abbia mai intesa così.

"Ma non poteva che essere così: altrimenti sarebbe stato un anacronismo!".

Certo. Quello che viene comunemente chiamato "il disco della pecora", del '74 (perché in copertina ha una pecora, il titolo è però Francesco De Gregori, ndr), non solo è contemporaneo ma ha influenzato addirittura gli Skiantos, creatori del cosiddetto "rock demenziale" di ascendenza punk.

"Mi avranno preso in giro".

Per niente. Chiudono il loro primo 45 giri del 1978, Io sono un autonomo, proprio con la frase con cui inizia Bene: "Se ci trovi un po' di fiori in questa storia sono i tuoi!". Quindi lei ha ispirato anche il punk. Si può capire: è un'affermazione molto forte.

"Sì, è un modo molto sprezzante di dire 'se ti va bene così, peggio per te'. Non avrei mai pensato di poter essere considerato punk ma evidentemente lo siamo o lo siamo stati un po' tutti, in qualche momento della nostra vita".

A lei però la sdolcinatura non piace: anche canzoni come Buonanotte fiorellino forse non sono quello che sembrano.

"Io lì infatti cercavo proprio di fare una caricatura della sdolcinatezza ma raccontando una storia che invece era dolorosa: la fine di una relazione per cui in realtà sotto c'erano sangue, sudore e lacrime, però con quel 'un-za-za, un-za-za' che accompagnava il testo. L'ho fatto apposta".

E c'erano parole come "monetina"…

""Monetina"! Beh, "fiorellino"… Comunque quella canzone mi portò parecchi guai".

Davvero?

"Quell'anno lì, il 1975, venni accusato di essere appunto sdolcinato, piccolo borghese, perché bisognava scrivere le canzoni che parlavano al 'movimento'. Io invece avevo fatto questa storiella d'amore. Poi però nello stesso disco c'era, appunto, anche Pablo, per cui molti non ci capivano niente e si chiedevano: 'Ma da che parte sta questo qui?'".

Quel disco però, da qualunque parte lo prendi, è un capolavoro: non ci si stanca mai di ascoltarlo.

"Fu un disco molto fortunato. Se lo risento ora… devo ammettere che ci sono delle belle canzoni".

Come Le storie di ieri, in cui con due pennellate riesce a raccontare tutta la drammaticità della storia: "La mascella al cortile parlava/ troppi morti lo hanno tradito/ tutta gente che aveva capito".

"Quel pezzo doveva finire nel disco precedente, quello della pecora, ma la casa discografica cominciò a fare storie. Erano terrorizzati dall'idea che potesse scatenare delle reazioni, non so di che tipo. Poi la misi su Rimmel perché nel frattempo l'avevo fatta sentire a De André, che se ne era innamorato e a un certo punto mi aveva detto: "Allora la faccio io". E la incise su Volume 8".

A proposito di censura, c'è quel verso di Niente da capire che dice: "Giovanna faceva dei giochetti da impazzire". Fu la casa discografica che la spinse a cambiarlo?

"Sì, non trovavo e non trovo che fosse una cosa greve, ma la Rca mi disse che non l'avrebbero mai passata alla radio, così l'ho cambiata, ma dal vivo l'ho sempre cantata nella versione originale. Erano anni assurdi: ai tempi di Bernabei non si poteva usare la parola 'membro' per designare i membri della camera!".

Al Venerdì qualcuno mi ha pregato di chiederle quali fossero questi giochetti?

"Vabbè, ma che giochetti vuole che siano… i soliti: gli dica che è un maniaco (ride, ndr)!".

Anche se adesso vuole suonare per poche persone, insieme a Lucio Dalla, con il tour Banana Republic del 1979, lei ha praticamente aperto la stagione dei concerti negli stadi. Fu una cosa molto gioiosa.

"Mah, non so se siamo stati noi perché può darsi che Edoardo Bennato l'abbia fatto prima, non ricordo bene e non è che abbia tutto questo interesse ad avere questo primato. Il fatto importante è che sì, fu una cosa molto gioiosa che solo un anno prima sarebbe stata impossibile viste tutte le contestazioni che avevano bloccato non solo me ma qualsiasi tipo di concerto: Santana, Lou Reed… A Santana, al Vigorelli, diedero fuoco al palco! Nessuno straniero, per almeno due anni, mise più piede in Italia".

Di Lou Reed, che tra l'altro era ebreo, si diceva fosse nazista, probabilmente perché portava calzoni e giubbotto di pelle. Il giornale Linea di Pino Rauti salutò l'arrivo dei Clash in Italia con "benvenuti ai camerati Clash".

"La destra è sempre stata orfana di legittimazione culturale presso i giovani, soprattutto in quegli anni lì, per cui non gli pareva vero poter dire che Lucio Battisti era di destra, che è un'altra favola assoluta".

"Milioni di braccia tese"…

"Maddai! Gli avevano fatto una foto mentre alzava il braccio per dire alla band 'stop!' e poi pubblicarono l'immagine mettendo come prova quella frase, che ovviamente non c'entrava niente".

Vi eravate conosciuti, vero?

"Sì, e fu davvero carino. Mi disse: 'Tu sai cantare!'. Mi colpì molto perché era qualcosa che allora non mi diceva nessuno, proprio nessuno. Al massimo mi dicevano che scrivevo dei bei testi. E detto da Battisti, che sapevo cantare… Del resto che fossi un cantante non lo sospettavo neanch'io, per cui mi fece estremamente piacere…".

Questa nuova dimensione live le permetterà di tornare a quei momenti intimi che si vivevano al famoso Folkstudio, il locale di Roma dove lei ha cominciato, introdotto da suo fratello, Luigi Grechi.

"Spero di sì ma non è una questione di nostalgia. Quel modo di fare musica sento che mi sta sempre addosso, soprattutto in un Paese come l'Italia che ha dei circuiti abbastanza rigidi, specie per i giovani. Parliamoci chiaro: io me lo posso permettere perché non devo diventare ricco con questi concerti alla Garbatella, se no mi dovrei sparare… Ma credo che i giovani, che esistono veramente al di là della categoria sociologica, se si riscoprisse questa dimensione del live potrebbero essere facilitati nel trovare possibilità per esibirsi".

I giovani musicisti e il nuovo disco.

A proposito di giovani, alcuni di questi artisti indie come Thegiornalisti o Calcutta stanno facendo esattamente il contrario di quello che fa lei: Calcutta, che suonava in minuscoli locali del Pigneto a Roma, lo scorso agosto ha fatto un megaconcerto all'Arena di Verona. Tredicimila persone, tutto esaurito. Cosmo ha appena suonato al Forum di Milano.

"Ma è giusto così: è normale che i giovani abbiano fame. Non è che ci sia una ricetta. Io dopo questa serie di piccolissimi concerti quest'estate farò una tournée con un'orchestra d'archi di quaranta elementi e lì, al contrario, la scaletta sarà inevitabilmente piuttosto rigida. E in quel contesto La donna cannone la faremo con tutti i crismi. Non è che teorizzi che bisogna realizzare le cose in piccolo: se vedo Shine a Light dei Rolling Stones vorrei farlo io, il problema è che bisogna vedere se Scorsese è disponibile (ride, ndr)".

A proposito del docufilm Vero dal vivo, a un certo punto lei è negli studi Real World. Come mai?

"Siamo andati a Bath, negli studi di Peter Gabriel, per incidere il disco di Anema e core, il duetto con mia moglie Chicca".

E magari anche dei pezzi del prossimo disco?

"No, dovrei intanto scriverli e vedere come suonano, cosa sono e che veste dargli".

Ci sta lavorando?

"No".

Ha qualche canzone, qualche idea?

"No. Glielo direi, non sarebbe un segreto. Non ho niente".

In ogni caso il disco Amore e furto, con le canzoni di Bob Dylan rielaborate con i suoi testi, è a tutti gli effetti un suo disco.

"Io penso di sì. Io l'ho vissuto come un disco mio, e anzi forse mi sono divertito di più che non a fare un disco veramente mio. L'idea di cantare sulle basi di Dylan… Avrà sentito che le basi sono il più possibile uguali alle originali mentre il testo, pur non essendo letterale, in qualche modo lo è!".

Quando Dylan è venuto a Roma, lo scorso anno, è andato a vederlo?

"No, perché c'era la Roma che giocava (ride, ndr). Il motivo vero è che l'avevo sentito due mesi prima in America e non mi era piaciuto tanto: l'ho trovato bravissimo ma ripetitivo, stanco e quindi un po' noioso. Ne avrò visti almeno trenta di concerti suoi e adesso fa sempre lo stesso spettacolo. Mia moglie, che invece ci è andata, mi ha detto che ha suonato lo stesso set che due mesi prima avevamo appunto ascoltato a Long Island".

Ha mai pensato di fare al contrario, cioè di tradurre le sue canzoni in inglese? Battisti, ad esempio, ci ha provato.

"Tantissimi anni fa, quando stavo ancora alla Rca, venni sollecitato a fare questa cosa e addirittura il capo dell'etichetta, Ennio Melis, un uomo molto illuminato, chiamò per questa operazione, che doveva essere mia e di Lucio insieme, Barry Beckett, il produttore di Dylan nel periodo gospel. Questo arrivò pure a Roma, andammo a pranzo insieme, gli demmo un po' di canzoni nostre... Dopodiché non se ne seppe più nulla".

È fuggito.

"Ma no, credo che realisticamente sia un'operazione impossibile da fare. Per vari motivi: gli americani sono assolutamente protezionisti, quindi non credo funzioni l'idea di uno che non parla inglese perfettamente e va lì a cantargli delle canzoni in inglese con la pronuncia sbagliata, oltretutto riproponendo uno stile musicale che è figlio della loro musica… Inevitabilmente il confronto non regge. Un italiano che si mette a fare il blues o il rock, lì capiscono subito che… Gli unici che hanno perdonato, in questo senso, sono stati gli inglesi: li hanno amati, ma forse solo perché hanno la lingua in comune. Sarebbe più facile pensare a una trasposizione del genere in spagnolo. E poi chi gliele traduce, le canzoni, agli americani? Alessandro Carrera forse (iniziò come cantautore al Folkstudio, oggi è uno studioso e scrittore, ndr)? L'ho conosciuto. Oggi è un filosofo, sta a Houston, insegna letteratura italiana ed estetica mi sembra. Diciamo che proprio non ci penso. Quello che faccio mi sembra già troppo. Si metterà a ridere, visto che sono anni che non faccio uscire niente di nuovo".

Però è vero che non è mai fermo.

"Sì, perché mi diverte molto suonare. Un po' forse è un alibi per giustificare il fatto che non scrivo".foto di Daniele Barraco.

L'amicizia con Fabrizio De André.

Ci sono artisti che, al contrario, hanno paura del palcoscenico come De André.

"Sì, Fabrizio, almeno all'inizio, ce l'aveva. Forse riuscì a liberarsene alla Bussola, durante il suo famoso 'primo concerto'. Suonò prima in un locale sconosciuto a Genova insieme ai suoi amici, poi andò lì. Perlomeno così lui mi raccontava, nel periodo in cui suonava insieme a Tenco, a Paolo Villaggio, a Gino Paoli, il clan dei genovesi insomma. Lo fece alla Bussola perché era amico di Bernardini (Sergio, il fondatore, ndr). Riuscì a vincere la paura, ma poi lo massacrarono".

Perché?

"Perché era un locale considerato 'per ricchi' e il fatto che De André, l'idolo di tutti noi 'alternativi', andasse a suonare nel locale dove si pagavano un sacco di soldi per entrare non andava bene. Comunque devo dire che io invece no, paura del palco non ce l'ho mai avuta".

Come vi siete conosciuti?

"Al Folkstudio, dove lo portò una sera mio fratello Luigi, e ci trovammo subito simpatici. Tanto che, qualche tempo dopo, mi invitò da lui in Sardegna, a Portobello di Gallura, per provare a fare delle cose insieme: "Belìn, lui diceva sempre belìn, perché non vieni da me? Devo scrivere e non c'ho idee!". E io: "Vengo di corsa!"".

Lei andò a lavorare con lui in Sardegna per Volume 8: è vero che l'allora moglie di De André le fece le carte, da cui la frase di Rimmel: "Chi mi ha fatto le carte/ mi ha chiamato vincente/ ma uno zingaro è un trucco/ e un futuro invadente/ fossi stato un po' più giovane/ l'avrei distrutto con la fantasia"?

"Sì, mentre stavamo lavorando un paio di volte venne la "Puny", che era una signora molto bella, una volta anche con il figlio Cristiano, e mi fece le carte. Io laico ero e laico sono, però la frase nella canzone ci stava bene e così l'ho messa".

Che periodo era?

"Era inverno, non c'era nessuno e faceva un freddo della Madonna. Mi invitò, secondo me, perché era curioso: gli piaceva vedere come scrivevano gli altri. E poi, stranamente, era anche un po' insicuro. Di me gli interessava il versante angloamericano che lui non conosceva bene perché si era formato sugli chansonnier francesi. Con me, figuriamoci, si ubriacò di Dylan".

Quanto durò quella visita?

"Rimasi quasi un mese a casa sua, facemmo molte canzoni come La cattiva strada, Oceano, Dolce luna, Canzone per l'estate, Amico fragile, scritta solo da lui, e Le storie di ieri che avevo composto io e di cui lui si era innamorato. Era un pezzo che doveva già finire nel mio disco precedente ma la casa discografica non voleva assolutamente che la mettessi ("rischi di passare dei guai") dal momento che parlava di Mussolini. Dicevano: "Tanto non la manderanno mai in radio". Fabrizio allora disse "la faccio io!" e la pubblicò nel disco che venne fuori da quel nostro incontro, il suo Volume 8. Quando la pubblicai anch'io su Rimmel si incazzò pure: "Belìn, me lo potevi dire che la facevi, così non la mettevo io!". "Ma io non lo sapevo che l'avrei pubblicata!". Venne infatti sdoganata dalla Rca proprio perché era uscita sul suo album".

Che ricordi ha di quell'incontro?

"Fu un periodo magico. Lì infatti nacquero anche diverse altre canzoni di Rimmel, tra cui Buonanotte fiorellino. Un giorno gliela faccio ascoltare e Fabrizio fa: 'Belìn, bello questo: è un pezzo che farà soldi!' e ride. La realtà è che noi stavamo lì per lavorare ma non vedevamo l'ora di finire per andarci a divertire, quindi lavorammo intensamente anche se - da parte sua - con una certa fatica, mentre per me era una cosa giocosa perché, essendo più giovane, ero già felice solo di essere là con lui, a scrivere e a fare musica. Fabrizio invece viveva sempre la fase della scrittura con molta ansia: 'È bella questa cosa, che ne dici? È bella?'. 'È bellissima!'. 'Ah, belìn, non lo so!'. Andava confortato in questo senso, anche se, naturalmente, scriveva benissimo".

Come si lavorava con uno come De André?

"Avevamo un metodo di lavoro strano: non è che stavamo lì a parlare, a discutere dei testi delle canzoni, le scrivevamo e basta. Qualche volta non ci incontravamo nemmeno perché, anche se io mi svegliavo tardi, lui aveva quasi ribaltato il giorno con la notte. Molti si chiedono perché non ci sono pezzi di quel periodo cantati insieme ma l'intento non è mai stato quello: l'idea era di comporre testi e fare delle musiche. E così fu".

Da Banana Republic ad Anema e core.

Ho rivisto il film di Banana Republic. Anche in quello lei è stato un innovatore: un'ora e mezza di immagini grezze, con lei e Lucio Dalla in macchina che vi scambiate la bottiglia.

"Non lo rivedo da un sacco di tempo. Però, sì, era un vero "instant movie". Il produttore era Alfredo Bini, produttore anche dei film di Pier Paolo Pasolini. Era un signore, un vero gentleman, che arrivava sempre con delle bottiglie di champagne. Se lo vedevi sembrava una specie di Dino Risi, in quanto a eleganza, un'eleganza vera, sostanziale. Però il problema era che non aveva un soldo! Ogni tanto succedevano cose grottesche, tipo che giravano senza pellicola… Poi, il grande sforzo economico, furono le riprese con l'elicottero. Noi non ci credevamo molto che sarebbe arrivato questo elicottero e invece una sera arrivò. C'era il regista, Ottavio Fabbri, che penzolava fuori dall'abitacolo, tenuto a braccia, con la cinepresa in mano. Però queste riprese non sono mai venute, o perché non è stato capace lui, oppure perché era uno di quei giorni che la pellicola non c'era. Quindi abbiamo avuto l'elicottero ma non le riprese dall'elicottero (ride, ndr). Per il resto veniva girato così, in maniera casuale. E si vede".

Però, anche per questo, è meraviglioso. Non si fanno più 'prodotti' avventurosi: oggi è tutto così calcolato, "professionale". "Eravamo così piccoli Lucio e io… nemmeno giovani, proprio piccoli. Io soprattutto. Lui aveva 33 anni, io 28… Almeno dal mio osservatorio attuale mi sembra davvero che fossimo dei bimbi".

Ritornando alla musica, adesso nei concerti, nel gran finale, interpreta con sua moglie Chicca un classico della musica napoletana, Anema e core. Come mai questo amore per Napoli?

"Ma perché è una città bellissima, una città molto grande, molto diversa da Roma. Quando ci vado a lavorare mi trovo sempre bene, quando passeggio per Napoli trovo che la gente sia adorabile. Manca solo che le dica che la cucina è buona e ho riassunto tutte la banalità su Napoli (ride, ndr). Napoli è una città coltissima, da sempre ricettiva verso tutto ciò che è arte e che alla musica ha dato tantissimo. Facendo questa canzone con Chicca mi sono anche avvicinato al mistero della canzone napoletana perché un conto è sentirla e un conto è mettersi a cantarla e analizzarla: mi sono reso conto che c'è una bellezza abbastanza indecifrabile nella musica napoletana. Puoi anche riuscire a cantarla decentemente ma non riesci a capire tutto, se non sei napoletano. Ragionando sulla traduzione dei pezzi di Dylan mi è venuto in mente che non è un caso che nessuno si sia mai permesso di tradurre in italiano una canzone napoletana. Prova a tradurre "tenímmoce accussí: anema e core", "teniamoci così: anima e cuore": precipiti immediatamente all'inferno! E quindi? Qual è questo segreto? Ecco, questa cosa ti attira con la forza che ha ogni cosa indefinibile".

I libri e i dischi.

Lei ha letto Elena Ferrante?

"No".

Non ha visto neanche la fiction tv?

"No, ho visto solo dei trailer. Vale la pena?".

Beh sì, è fatta bene. Tra l'altro vederla prima di leggere il libro aiuta a tenere a mente i numerosi personaggi. Se uno non riesce a leggere il libro tutto d'un fiato rischia di far confusione.

"Ormai è talmente ampia la proposta che non si riesce a seguire neanche la minima parte di quello che esce. Ho sentito una trasmissione, alla radio, in cui un libraio diceva che lo scorso anno sono usciti 72.000 titoli! In Italia sappiamo tutti che non siamo grandi lettori: chi compra, semplicemente compra, un libro all'anno è considerato un lettore e chi invece legge un libro al mese è un 'grande lettore': allora come fai combaciare il numero delle uscite con il numero dei lettori?".

Con la musica è ancora peggio: la quantità di uscite è ormai impossibile da quantificare. Lei ascolta qualcosa di nuovo?

"Io ascolto la radio, soprattutto mentre viaggio. Lì anche le cose brutte sembrano più belle, forse perché non le hai scelte tu. Se deve essere un atto volontario preferisco fare la fatica di mettere un disco nel lettore".

Ha un bellissimo giradischi: ascolta molto i dischi in vinile?

"Ascolto quello che ritengo valga la pena, anche perché per ascoltare un disco in vinile devi alzarti, prenderlo, poggiare la puntina, insomma è un atto molto consapevole".

Bob Dylan?

"Beh, certo".

Lei non cita mai Neil Young: non lo ama?

"Diciamo che non mi ha "rovinato" come Dylan… Però, certo, è comunque un musicista serio. Adesso è fissato con la sua battaglia contro la musica digitale, no?".

Sì, contro quella di scarsa qualità, infatti ha creato una app in cui, a pagamento, si può ascoltare l'intera sua opera. Per chi ha un grande repertorio come lei potrebbe essere una buona idea.

"Interessante. Avevo comprato anche una sua biografia, solo che per le prime quindici pagine parlava solo di trenini elettrici e allora ho lasciato perdere. Speriamo che faccia questo megaconcerto con Dylan a Hyde Park (il 12 luglio, ndr)…".

Sempre parlando di libri, invece, ha letto qualcosa di interessante quest'anno?

"Io amo rileggere. Per cui in questo periodo sto leggendo Le benevole".

Jonathan Littell: ai tempi dell'uscita provocò grande scandalo per la crudezza delle descrizioni degli eccidi nazisti.

"Sì, esatto. Però ho deciso di rileggerlo perché ho letto M. Il figlio del secolo di Scurati e, anche se sono due libri molto diversi, un po' pescano nella stessa cosa, secondo me".

Tornando alla musica, mi ha sempre stupito come negli anni Settanta uscissero una quantità incredibile di dischi di qualità più che eccellente. Come facevate a essere così creativi a quell'epoca? Uno, due album all'anno, molti dei quali rimasti nella storia.

"È facile dirle che quando sei giovane hai più spinta creativa, meno freni, meno autocritica, meno paura di ripeterti perché hai scritto poche cose… E poi sentivamo di avere un pubblico consonante con noi, da molti punti di vista. Per un fatto generazionale. Di scelte. Di visione politica. Di visione del mondo. Era come se sapessimo che c'era un pubblico che aspettava i nostri dischi. L'industria discografica era molto meno incline a fare uscire tanti album tutti insieme, come invece accade adesso. Eravamo pochi. I cantautori erano stati identificati, nel bene e nel male, come portatori di novità, di sostanza. Poi è finita. I cantautori sono diventati una parte del mondo musicale di oggi, che sopravvive nonostante la cattiva stampa. È da sempre che sento dire cose come 'la morte dei cantautori'!".

"Venerato maestro" o "solito stronzo"?

Veramente oggi non si fa altro che parlare del "ritorno dei cantautori". I giovani o fanno trap o tornano a quel tipo di poetica. A proposito di giovani e adulti, Arbasino scriveva che nella carriera di un artista di solito ci sono tre tappe: "Giovane promessa", "solito stronzo" e infine "venerato maestro". Lei oggi è sicuramente un "venerato maestro".

"Preferirei essere il "solito stronzo"".

Volevo però chiederle se c'è stato un periodo di crisi in cui è stato considerato in questo modo.

"Mah, non mi sembra di aver avuto periodi di particolare crisi. Comunque di sicuro non voglio essere considerato un "venerato maestro". Mi viene da fare gli scongiuri. Dirò una cosa che forse è autolesionista: vengono perdonate troppe cose quando uno è considerato un "venerato maestro" ma questo è sbagliato e pericoloso e rischia di farti dormire sugli allori. A volte ho la tentazione di dire: "Ma tanto ormai sono inattaccabile". Questa è una cosa terribile, non dovrebbe mai essere così per chi fa questo mestiere. Comunque, lo ripeto, non mi sento un "venerato maestro". E forse per questo ogni tanto vado cercando rogna: faccio operazioni strane come il tour alla Garbatella, il concerto con gli archi o cantare con Fedez. Se c'è una cosa che è fastidiosa, per me, è l'idea di venire blandito e coccolato perché si pensa "questo si è comportato bene fino a qua"".

Molti quest'ultima collaborazione con Fedez non gliela perdonano.

"Ma perché? Io trovo che abbia talento. Quando ha cantato Viva l'Italia l'ha cantata bene, ci ha aggiunto una strofa ed è bella!".

È vero: cerca rogne.

"L'ho sempre fatto: basta pensare a un pezzo come Alice, del '72, che era una canzone irregolare per quei tempi, molto strana, sghemba, o Buonanotte fiorellino, in quegli anni, all'interno di quel disco, quando per seguire l'onda dovevi scrivere Musica ribelle. Io lo chiamo 'cercare rogna' ma è semplicemente seguire l'istinto, non adeguarsi a un protocollo che ti dice quello che devi essere, quello che bisogna scrivere, quello che bisogna fare. Ecco, io non l'ho mai fatto, me ne sono sempre fregato e vorrei continuare così".

Infatti il film documentario Vero dal vivo rispetta pienamente queste premesse: non concede niente ai fan o a chi vorrebbe farle il santino.

"Esatto. Per l'occasione mi sono tolto il cappello, mi sono tagliato la barba, mi sono presentato in studio con il maglione da pensionato. Sembravo un uccellino spaventato. Non ho fatto nessuno sforzo per interpretarmi, ho solo evitato di cambiarmi apposta per fare il film".

Una vera demistificazione dell'icona della rockstar: oggi X Factor e simili talent sono tutti uno sfavillio di luci.

"Ma per me si può imparare molto facendo quelle cose là e poi, se sei bravo, sai maneggiare tutto quanto. Io non ho mai imparato a usare quei mezzi ma non lo considero un merito".

Quindi tra uno che imparava andando al Folkstudio e uno che va sul palco di X Factor…

"Ecco, se imparavi al Folkstudio, poi rimanevi come me o come Antonello (Venditti, ndr)".

Cioè?

"Personaggi 'ombrosetti' che non saranno mai bravi come Dean Martin o Jerry Lewis. Ho visto un filmato di loro due, poco tempo fa: dieci minuti di grandissimo teatro, in cui ti fanno morire dal ridere. Poi, a un certo punto, si mettono a ballare e sono di una perfezione assoluta. Ecco, io invece di ballare non sono capace".

Si accende una sigaretta. L'ennesima, naturalmente senza filtro. Titoli di coda di un film che vorresti non finisse. Saluti. Ed il futuro intanto passa e non perdona e gira come un ladro per le strade di Roma.

Versione integrale dell'intervista pubblicata sul Venerdì dell'8 febbraio 2019

Francesco De Gregori: "La storia siete voi. Viva l'Italia che non ha paura". Luca Valtorta su La Repubblica il 26 settembre 2020. Ovvero quella parte del nostro Paese che non rinuncia a pensare: l'importanza di conoscere il nostro passato, il rischio fake news e negazionismo, il valore della cultura, della musica e della memoria. Perché: "La canzone è a tutti gli effetti letteratura ma c'è un mondo che continua a non riconoscerla come tale". Il vecchio ascensore, i libri sul tavolino, il pianoforte, i quadri, i dischi e il caffè. E quelle vecchie sigarette senza filtro, che solo lui fuma ancora. Forti e confortevoli, di cui miracolosamente la voce non reca traccia. Intanto, seduto sulla poltrona Francesco De Gregori, come sempre magrissimo e vestito di blu ma con scarpe di tela bianche (del resto è il Principe) sfoglia il libro che raccoglie i testi con relativa storia di tutte le sue canzoni: «Che ne pensi?», chiede. Si tratta di un lavoro immenso, oltre 700 pagine che cercano di decrittare il De Gregori-pensiero, il che non è cosa facile, soprattutto perché da lui sempre rifuggita: «Però questa volta ho partecipato in prima persona andando a controllare e a correggere i miei testi, a volte facendomi venire dubbi e andando a riascoltare i dischi originali. Sai, anche solo una parola sbagliata mi darebbe parecchio fastidio. Però mi sembra si presenti bene, sobrio, senza foto, senza concedere spazio alla spettacolarizzazione. L’interpretazione delle canzoni non l’ho letta, ma Enrico Deregibus, l’autore, ha fatto un grande lavoro di ricerca di tipo storico negli archivi dei giornali dei tempi e quindi credo possa essere utile anche a me».

Volevo focalizzarmi proprio su questo tema. Dal momento che questo libro storicizza il tuo percorso artistico attraverso le tue canzoni e visto che sulla storia hai scritto un brano bellissimo e so che è una tua passione. L’hai anche studiata all’università, giusto?

«Sì, dovevo laurearmi con Renzo De Felice ma poi non se ne fece niente, la musica mi ha preso la mano. E pensa che all’incirca vent’anni fa ho pagato di nuovo tutte le tasse arretrate perché mi era tornata la voglia di laurearmi, ma poi non ho scritto nemmeno un pezzo di tesi».

Però la passione per la storia è rimasta.

«Soprattutto per quella del fascismo su cui continuo a leggere un po’ di tutto».

Infatti se andiamo a prendere i testi del libro, già la seconda canzone di Alice non lo sa, il tuo primo album che risale al 1973, è un pezzo sulla storia. Si intitola 1940 e parla dell’entrata in guerra dell’Italia. Si tratta di un ricordo reale di tua madre?

«Esatto. Volevo sapere come era cominciata quella che successivamente si rivelò una catastrofe ma che, guardando i filmati d’epoca, sembrava aver segnato un momento di gioia collettiva. Facevano vedere piazza Venezia strapiena di gente festante. Allora chiesi a mia madre, che nel '40 aveva ventisei anni, e lei mi disse che non era andata esattamente così: tra la gente in realtà c’era anche molta preoccupazione e paura e a pochi poi piaceva quell’alleanza con i tedeschi...».

Il senso della canzone credo sia far vedere come si entra in una guerra senza rendersene conto. Un insegnamento sempre attuale, visto che siamo circondati da conflitti sia reali, che economici, come quelli tra Stati Uniti, Cina e Russia.

«Mah, non è che volessi insegnare niente a nessuno, una canzone non serve a questo. Resta il fatto che l’Italia entrò in guerra quando sembrava già stravinta dalla Germania pensando che sarebbe durata pochissimo, e fece subito la sua bella figura andando ad attaccare una Francia ormai inerme che peraltro venne subito a bombardare la Liguria. Si sarebbe dovuto capire immediatamente che le cose non erano come ci avevano raccontato, che la guerra sarebbe durata a lungo e sarebbe stata difficile e dolorosa per la popolazione».

1974: nel famoso disco con la pecora in copertina c’è un altro pezzo importante, Cercando un altro Egitto.

«È stata una delle mie prime canzoni “sconclusionate”, con una serie di tagli e di immagini abbastanza oscure, tipo le famose “gelaterie di lamponi” che alludevano ai forni di Auschwitz. Ma ero convinto che ci si poteva prendere il lusso, anche in una canzone, di usare un linguaggio non immediatamente comprensibile. Da qui la critica un po’ sgangherata di “ermetismo” che mi venne rivolta. In realtà mi veniva naturale scrivere così, fare quello che in letteratura o nel cinema era normale. Uno dei film che da ragazzo mi impressionò di più fu 8 ½ proprio perché lì c’era questa frantumazione del discorso logico, della grammatica del racconto, un racconto che diventa una serie di storie accavallate, oniriche, apparentemente slegate. Alcune delle quali sfuggenti anche se l’hai visto dieci volte».

Però alla fine un senso viene fuori...

«Usavo il linguaggio: un “ufficiale uncinato” mi sembrava rendesse meglio l’idea di un “ufficiale nazista”. Questo linguaggio che definisco “frantumato” o “frantumabile” è poi entrato anche nelle canzoni di altri autori. Anzi direi che esisteva da prima. Pensa a uno come Mogol, che scriveva tra l’altro per un pubblico più generalista. Cose come: “Non piangere salame dai capelli verde rame” o “continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri”».

Passa ancora solo un anno, è il 1975, ed ecco che anche in un disco amatissimo dal pubblico come Rimmel salta fuori Le storie di ieri in cui citi Salò, dicendo che "Mussolini ha scritto anche poesie" e che "a giocare col nero perdi sempre". Oggi si gioca col nero usando i social, le 'fake news' e spesso si vince.

«La soluzione del problema alla fine è sempre nell’intelligenza e nella buona fede delle persone. Un tempo i discorsi da bar restavano al bar, oggi invece vengono amplificati e spesso falsificati: è un fenomeno che è sempre esistito. Anche le fake news fanno da sempre parte della propaganda: la donazione di Costantino, i Protocolli dei savi di Sion, la “disinformazia”… C’è chi ci crede, ma cosa puoi farci? Ci sono quelli che dicono che la terra è piatta? Lasciamo che ci camminino sopra fino a che cascano di sotto!».

Questo ci porta esattamente al tuo testo cardine su questo tema, La storia appunto, una delle tue canzoni più famose, dall’album Scacchi e tarocchi del 1985, dove dici cose molto ottimiste come "è la gente che fa la storia/ quando si tratta di scegliere e di andare/ te la ritrovi tutta con gli occhi aperti/ che sanno benissimo cosa fare".

«Beh, certo, queste parole non trovano molto riscontro nella storia del '900, non c’è dubbio. Ma una canzone è una canzone, non un manuale. E comunque ci sono stati, anche nella storia recente, momenti in cui l’ottimismo di questo brano sembra giustificabile. Ma esprime una speranza forse, più che descrivere una realtà di fatto».

Insomma, la storia siamo noi oppure no?

«Nì. Il discorso si può allargare a dismisura: dovremmo parlare anche della problematicità del concetto di democrazia, di quanto sia storicamente cambiato, di quanto abbia potuto portare a esiti indesiderabili come Hitler che prende il potere per vie istituzionali... La verità sulla storia, su quello che abbiamo voluto chiamare progresso o, in maniera più laica, sviluppo, è qualcosa che non si può mettere in una canzone. La storia è comunque sempre in crisi con se stessa. È qualcosa che va sottoposto a continue revisioni. Non ho niente in contrario alla parola “revisionista”, spesso scioccamente abbinata alla parola “negazionista”. La storia non è una scienza ma semplicemente il tentativo di raccontare il passato attraverso l’acquisizione di una serie di dati in continuo movimento, di fonti in continua evoluzione. Cambiano i metodi di ricerca, cambiano i ricercatori, gli approcci, si scoprono territori inesplorati. Sarebbe impossibile oggi scrivere un libro sulla Rivoluzione francese come si sarebbe fatto cent’anni fa. Per tornare alla canzone direi che, se c’è quello che una volta si sarebbe chiamato “il messaggio”, è semplicemente che tutti gli individui sono coinvolti nei processi storici, anche quando non lo sanno o non lo vogliono. Ma vedi come diventa più brutta una canzone quando te la spiego?».

Più che spiegazione direi che è una riflessione sul brano: non c’è dentro un po’ di ottimismo della volontà?

«Magari sì, anche se è temperato da alcune espressioni abbastanza crude come la storia che “entra dentro le stanze e le brucia”. La storia non è un film con l’happy ending, non finisce sempre bene».

Secondo me è più facile condividere l’immagine che la chiude: "Siamo noi questo piatto di grano".

«Difficile parlare di un singolo verso: certo l’umanità mi sembra in continua rigenerazione di se stessa, magari non sempre virtuosa: semi che poi danno dei frutti in generazioni successive che magari cadono lontano dall’albero e contraddicono ciò che è stato fatto negli anni precedenti. Rivoluzioni, reazioni, riflussi. Cerchiamo delle verità nei libri ma non è semplice: c’è per esempio una storiografia “di destra” e una “di sinistra” spesso contrapposte l’una all’altra. Orientarsi è difficile, anche se la voglia di farlo per chi ha il pallino della storia è sempre molto forte. Forse nella canzone c’è anche un po’ di questo smarrimento che poi però si risolve nell’immagine finale, del “piatto di grano”, che allude alla rigenerazione di quello che siamo: delle nostre idee, delle nostre capacità critiche, anche dei nostri corpi…».

Forse allora sarebbe più giusto dire "la storia siete voi", pensando al germinare delle nuove generazioni. Parlo per me: credo non sia facile essere ottimisti oggi.

«Non sono un pessimista. Sono solo un po’ più scettico di una volta. Anche se continuo a osservare tutti gli altri con rispetto e anche con affetto, anche quelli con cui non vado d’accordo, anche quelli che vanno alle manifestazioni contro le mascherine, tanto per dire. Non invito la gente a cena in base alle sue idee politiche: è l’intelligenza che importa, non l’appartenenza. Sono solo un po’ più scettico sul futuro prossimo e non passo il tempo a pensare né al tempo che fugge né a quello che verrà. E scopro a volte di avere poca curiosità nei confronti degli altri, a differenza di un tempo».

Quali sono le persone che di solito ti incuriosiscono?

«Quelli che si sforzano di ragionare, che leggono qualche libro o guardano qualche film, che possono raccontare delle cose e che sono anche curiosi se dico qualcosa io. Quelli con cui si può stabilire un dialogo intellettuale».

Anche se agli intellettuali hai riservato spesso una certa ironia.

«A volte però persino gli intellettuali sono capaci di un dialogo intellettuale».

Adoro questa risposta. Che però richiama subito un’altra domanda: cos’è per te un dialogo intellettuale?

«Non frequentare gli intellettuali di mestiere ma fare appello all’intelligenza e alla cultura tua e del tuo interlocutore, chiunque sia, per esaminare qualsiasi cosa, senza preconcetti uscendone divertiti se non arricchiti».

Comunque ce l’hai con gli intellettuali, e anche con i poeti, da tempi non sospetti: Poeti per l’estate, un ritratto impietoso, è sempre del 1985.

«Mah, dicendo "poeti" volevo riferirmi genericamente a un certo mondo culturale e alle sue pubbliche epifanie. La strofa più diretta è quella che dice “quando in televisione li vedi arrivare/ profetici e poetici, sportivi ed eleganti/ pubblicare loro stessi come fanno i cantanti”. Ancora adesso trovo meraviglioso vedere arrivare in un talk show in cui si sta parlando di Covid-19 o di immigrazione un politico o uno scrittore che discettano blandamente sul tema e poi alla fine tirano fuori la copertina del loro ultimo e spesso perdibile libro. Ecco, io allora, invece, per vendere la mia musica sono orgoglioso di andare a fare un pezzo in playback all’Arena di Verona (il riferimento è all’esibizione dello scorso 2 settembre insieme a Venditti dove hanno interpretato Canzone di Lucio Dalla, ndr)».

Quella sera non hai usato apposta l’armonica quando doveva esserci per demistificare il playback?

«No! Stavo solo seguendo il testo con attenzione e me ne sono dimenticato. Infatti mi veniva anche un po’ da ridere, credo si veda. Pensare che funzionava così bene!».

Tu e Venditti avete fatto un omaggio a Dalla, e Tiziano Ferro, a sua volta, ha fatto un omaggio a te: ti piace la sua versione di Rimmel?

«Nel caso di Lucio non è un omaggio, non ne ha bisogno. Antonello e io volevamo solo cantare una bella canzone e quando pensi a una bella canzone spesso finisce che c’è di mezzo Dalla… Quanto a Tiziano Ferro la sua versione mi piace molto. Senza farmi il verso ha tenuto molto presente l’originale, citando alcune frasi melodiche del pianoforte di allora, almeno così mi sembra. E poi sono sempre felice quando qualcuno canta le mie cose e le fa sue come ha fatto lui. Anche se le dovesse stravolgere. Ma non è questo il caso. D’altra parte il primo a stravolgere le mie canzoni sono io, e qualcuno protesta pure!».

Tornando all’idea di storia che ritorna nella tua opera, uno dei dischi più significativi a riguardo è Il fischio del vapore che hai fatto nel 2002 insieme a Giovanna Marini, con brani che vanno da Sacco e Vanzetti a Bella ciao. Com’era nata questa collaborazione?

«Una sera avevo cantato in un concerto a Roma L’attentato a Togliatti e il risultato mi era piaciuto molto. Così mi è venuta l’idea di fare un intero disco di canzoni popolari, ma da solo mi sembrava difficile, mi serviva un suono e in qualche modo anche una sorta di legittimazione: e allora ho capito che non si poteva fare un disco simile senza Giovanna Marini. Quando parecchi anni prima avevamo inciso insieme L’abbigliamento di un fuochista le nostre voci funzionavano! Così sono andato a casa sua con un vassoio di marron glacé per corromperla e le ho proposto la cosa: un disco di musica popolare suonato con la mia band... Lei lì per lì è rimasta un po’ stupita e mi ha detto che voleva sentire prima cosa ne pensava Ivan Della Mea. Qualche giorno di attesa e poi venne sciolta la riserva. Anche Ivan, nonostante la sua figura legata alla canzone militante, si mostrò in quel caso assolutamente non dogmatico e aperto alle contaminazioni e alle sperimentazioni. Capì subito che il valore del progetto era quello di suonare le canzoni popolari di una volta con gli strumenti popolari di oggi. Vorrei ricordare qui tra l’altro due sue canzoni bellissime e molto importanti per me: Cara moglie e El me gatt».

A proposito di politica, di recente ha fatto stranamente scalpore un fatto più che risaputo, ovvero che Guccini non avesse mai votato Pci. Tu, invece…

«Io al contrario ho sempre votato Pci e credo che lo rifarei visto quelle che erano ai tempi le scelte opzionabili».

Anche se Il Signor Hood in Rimmel è dedicato a Marco Pannella. Come mai?

«Era il tempo del referendum sul divorzio su cui ero ovviamente d’accordo e poi Pannella mi piaceva come cervello e come cuore, era un uomo di grande fascino. Quella dedica un po’ criptica in epigrafe a una canzone del '75, “A M. con autonomia”, voleva sancire comunque fin da allora una distanza culturale. Quello che non riuscivo a farmi piacere erano certi aspetti messianici della sua “radicalità”, per non parlare della spettacolarità di certe iniziative, tipo la candidatura di Cicciolina. Ma rimane in me un grande affetto nei suoi confronti e un grande rispetto per la sua onestà intellettuale anche se una divaricazione politica c’è sicuramente stata, così come ci sarebbe stata col Pci se fosse stato schierato con Mosca, con il marxismo-leninismo. Ma in Italia non era così: il Pci di quegli anni era un partito riformista».

Tornando ancora alla grande storia che si incrocia con quella personale, una volta Giorgio Bocca scrisse in un suo libro che tuo zio, partigiano ucciso da partigiani, era stato "l’uomo sbagliato nel posto sbagliato".

«Una lettura assolutamente ingenerosa e superficiale della vicenda che portò all’uccisione di mio zio, Francesco De Gregori (Bolla) comandante della brigata Osoppo. Per questo scrissi a Bocca una lettera e poi lo andai a trovare a Milano. Mi ricevette e gli portai documenti e lettere private che testimoniavano la battaglia che mio zio, nell’ambito della lotta di resistenza ai nazifascisti, conduceva in Friuli in difesa dei confini italiani contro i tentativi di annessione compiuti dai partigiani sloveni con la connivenza delle brigate partigiane italiane legate al Pci. Lui guardò quello che avevo portato e poi mi disse: “Stia tranquillo, suo zio non era un traditore”. Grazie, questo lo sapevo già, era successo esattamente il contrario: traditori semmai potevano essere definiti i suoi assassini, alcuni dei quali dopo essere stati condannati a varie pene nel dopoguerra erano scappati in Jugoslavia. Insomma, come dicevo all’inizio, c’è una visione di destra e una di sinistra della storia. Bocca, sicuramente uno storico di livello ma anche di dichiarata appartenenza, non arriva a negare la verità ma la condensa frettolosamente in tre righe e in una frase non priva di ambiguità. Per questo motivo pensai di farglielo notare, anche se non credo che lui poi non ci abbia dormito la notte».

Una cosa importante nella tua opera è proprio l’attenzione per i vinti, che siano i fascisti ne Il cuoco di Salò o i terroristi di sinistra in Scacchi e tarocchi.

«Credo che una parola corretta possa essere “pìetas”, la pietà per il nemico sconfitto o ucciso. Io non ho mai preteso di fare un’analisi storiografica né con Il cuoco di Salò né in Scacchi e tarocchi. Sono schegge, facce, visioni, tentativo di penetrazione di un mondo personale nella storia. Questo può fare un’opera letteraria o un’opera d’arte. Cito sempre Guernica a proposito perché è l’esempio di tutto ciò: anche lì ci sono persone dalla parte “giusta” o dalla parte “sbagliata”, ma l’opera trascende tutto questo: è la storia di un massacro, di una perdita, di morti, di feriti».

Parlare di “pìetas” mi fa venire in mente A Pa’, la tua bella canzone dedicata a Pasolini, che mi sembra il modo migliore per capire la differenza tra la genia degli intellettuali da tv a cui accennavi prima e quando invece "tra i poeti ne trovi uno vero…".

«È una canzone abbastanza poco conosciuta ma che amo molto, soprattutto per una citazione...».

Che tu riadatti in forma canzone: "E voglio vivere come i gigli nei campi/ E sopra i gigli dei campi volare". Una meraviglia. Ma in Italia, secondo te, oggi si riesce ancora a fare cultura? E quali sono i rapporti fra il mondo della cultura e quello della canzone?

«Direi pessimi: nonostante che nelle canzoni si finisca sempre per trovare qualcosa di importante di noi stessi, nonostante l’esistenza di gente come Paoli, De André, Vasco e Paolo Conte solo per dirne alcuni, nonostante il fatto che si potrebbe scrivere una storia d’Italia solo passando attraverso le canzoni, chi fa il mio mestiere viene guardato in cagnesco dalla cultura ufficiale. E non dico questo per un complesso di inferiorità nei confronti di chi si occupa di altre forme artistiche, ma mi ha molto colpito il fatto che il Ministro della Cultura, Dario Franceschini, che giustamente va ad inaugurare la Mostra del cinema di Venezia, non abbia sentito il bisogno di mandare una parola di saluto al mondo della musica che a settembre, con un enorme sforzo di tutti, ha provato a ripartire con due grandi eventi come i Music Awards e Heroes. La canzone è a tutti gli effetti letteratura: può essere buona o pessima, come un film o un libro. Ma come dice Dylan in un pezzo che ho tradotto “L’uomo malato in cerca di cura... cerca nell’arte e nella letteratura la sua dignità”. Letteratura e arte sono da sempre cura e salvezza e dentro ci sta tutto da Jacques Brel a Billie Holiday, da Corto Maltese a Paperino».

Parlando di lettura, cosa hai fatto durante il lockdown? Sei riuscito a leggere? Vedo qui il libro di Tatti Sanguineti, Il cervello di Alberto Sordi.

«Ho passato quel periodo in buona parte a riguardare tutti film di Alberto Sordi che sono riuscito a trovare».

Non rappresenta un po’ l’italiano che vorremmo cercare di non essere più, come diceva Nanni Moretti?

«Ma Sordi l’ha solo interpretato quell’italiano, non l’ha mica promosso. No, io non mi associo alla visione negativa del Nanni Moretti di “Ve lo meritate Alberto Sordi!”. Al contrario, solo i migliori di noi si meritano Alberto Sordi! (ride, ndr)».

E poi vedo ancora libri di storia.

«Sì: Una vita di Galeazzo Ciano. Ma ho letto e leggo le cose più varie. Graham Greene per esempio, di cui conoscevo solo Il potere e la gloria: ho scoperto che avevo due Meridiani con i suoi romanzi e mi sono letto quasi tutto. Ma come vedi ci sono anche Grisham e Winslow. Non vorrei passare per un intellettuale! Anzi, scusa, abbiamo parlato di storia, di politica, di cultura, io però ho fatto anche tantissime canzoni d’amore: perché nessuno mi chiede mai di quelle?».

Ecco quale sarà la prossima intervista.

Il libro, il tour e l'incontro: con Sandro Veronesi a Insieme. Lettori, autori, editori.

Francesco De Gregori – I testi. La storia delle canzoni è il primo libro a cui lo stesso De Gregori ha collaborato, controllando personalmente i testi dei brani: esce per Giunti mercoledì 30 settembre (720 pagine, 28 euro). Domenica 4 ottobre lo presenta insieme al curatore Enrico Deregibus e allo scrittore Sandro Veronesi all’Auditorium di Roma alle ore 19, per la prima edizione di Insieme. Lettori, autori, editori. Introduce Marino Sinibaldi. Il tour nei club De Gregori & Band Live – The Greatest Hits avrà invece inizio il 18 marzo 2021 a partire dal Vox Club di Nonantola (Modena).

Francesco De Gregori: "Ecco perché ho "dylaniato" la mia "Buonanotte fiorellino"". Luca Valtorta su La Repubblica il 5 febbraio 2017. Tutti conoscono De Gregori per le parole delle sue canzoni ma lui, che ha appena pubblicato un nuovo album live, "Sotto il vulcano", spiega perché invece una canzone non deve mai essere uguale a se stessa. "Ho fatto "Buonanotte fiorellino" in mille modi: con il violino, senza, e adesso la faccio dichiaratamente in versione Dylan". Tra le pagine chiare e le pagine scure prendono forma immagini, frammenti di vita, pezzi di sogno, pezzi di stella, pezzi di costellazione, pezzi di sorriso, pezzi di canzone. Le parole diventano musica, la musica è parola. "Musica fanciulla esangue/ segnato di linea di sangue/ nel cerchio delle labbra sinuose/ regina de la melodia". Chiamatela poesia se vi pare, come fosse Campana, ma no perché, appunto, "c'è la melodia!", chiamatela come volete. Certo se Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista, invece di scrivere “ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo" avesse scritto "mi sono lasciato con la mia ragazza" non staremmo parlando di lui a più di quarant'anni anni di distanza da Rimmel, non avremmo immaginato di volare via con La donna cannone, con quelle parole che vanno dritte al cuore ("e non avrò paura/ se non sarò bella come dici tu") e non avremmo in mente, scolpite, visioni dei gatti che "muoiono nel sole" e la desolazione di Cesare (Pavese) perduto nella pioggia che aspetta il suo amore, ballerina. "No, poeta no", dunque. Artista sì, però ("uso questo termine senza alcun sussiego né presunzione ma solo per indicare il lavoro che faccio"). Comunque icona ("per carità no!") con cui siamo cresciuti, che ogni italiano ha nel suo dna: chi non ha un ricordo legato a una canzone di De Gregori? Canzoni d'amore (certo Buonanotte fiorellino, tante volte "dylaniata", ma anche psichedeliche come Dolce amor del Bahia, non a caso rifatta da Vasco Brondi, il più "degregoriano" dei nuovi artisti, ma passando per i CCCP e il punk rock), canzoni politiche senza politica (Pablo che era il mio modo per sintonizzarmi su Radio Popolare di Milano trent'anni fa, perché la trasmettevano in continuazione e poi, naturalmente, Viva l'Italia, che tutti hanno cercato di fare propria senza riuscirci o il cuoco di Salò che tanta discussione aveva suscitato), canzoni 'esistenziali' (da Il signor Hood a La leva calcistica della classe '68). E poi quanti capolavori: Rimmel, l'album perfetto, ma anche il disco omonimo del 1978 con Generale e Natale, forse il successo commerciale più grande; e che dire di Titanic che gli esegeti considerano il "vero" capolavoro, contrapponendolo a Rimmel? E Calypsos, che non si smetterebbe mai di ascoltare? E Sulla strada? E il disco dal vivo italiano più bello di sempre, Banana Republic con Lucio Dalla? Francesco De Gregori, nella sua casa romana piena di luce, un pianoforte in mezzo alla stanza, dalla parte opposta una libreria, quadri, dischi, un pacchetto di Gitanes senza filtro appoggiate su un tavolino basso che fumerà con discrezione e un certo gusto insieme a un caffè in tazza grande. Anche l'sms che mi era arrivato il sabato precedente l'intervista era elegante ed essenziale: poche parole, concise, il luogo dell'incontro. A capo. 'f' minuscola. Punto. Venerdì 3 febbraio è sucito il doppio album live "Sotto il vulcano", registrato lo scorso 27 agosto durante il concerto al Teatro Antico di Taormina, nel corso dell''Amore e Furto tour', con la produzione artistica di Guido Guglielminetti. "L'estate scorsa, mentre ero in Sicilia, sono capitato vicino a casa di Dalla, ai piedi dell'Etna, e mi è venuta in mente "4 marzo 1943" – ha raccontato Francesco De Gregori – Il giorno dopo dovevamo suonare a Taormina, così l'abbiamo messa nella scaletta e la sera l'abbiamo spinta in alto. Non ho pensato a una celebrazione di rito, a un omaggio pubblico o a niente del genere. Solo a questa grande canzone, a come la cantava Lucio e al tempo che è passato senza toccarla". Nel doppio disco dal vivo tutti i suoi classici, da "Pezzi di vetro" a "La leva calcistica della classe '68" fino a "Generale" e "Rimmel". Tutti conosciamo Francesco De Gregori ma lei, in un pezzo intitolato Guarda che non sono io, dice "guarda che non sono io/ quello che stai cercando/ quello che conosce il tempo/ e che ti spiega il mondo". Insomma un conto è la fotografia, l’icona, un altro la persona reale, un po' come il Magritte di Questa non è una pipa. "L’arte è sempre qualcosa che allude. Non dà mai risposte, nemmeno in termini di identità. Gli oggetti si trasformano: l’Orinatoio di Duchamp può diventare tutt’altro. Il divertimento sta proprio nello spostare i termini della questione. Questo vale anche per il mio mestiere".

A parte il punk, che si poneva l’idea di distruggere l’idea stessa di rockstar, non sono molte le 'icone' che cercano di non essere considerate tali, che dicono "preferirei di no".

"No, ecco, appunto icona, no! Ma non è che io ci abbia fatto un ragionamento sopra. Io faccio uno dei mestieri più liberi del mondo: perché non devo approfittarne?".

Lei suona con gli stessi musicisti da molto tempo e ama molto suonare dal vivo, cambiando spesso le canzoni. È alla ricerca del suono perfetto?

"Sono alla ricerca del mio suono. E avendo una frequentazione ormai lunghissima con gli stessi musicisti ci capiamo al volo. Non sono degli esecutori, partecipano tutti al processo produttivo ma, banalmente, visto che ci conosciamo così bene, non si perde tempo. Soprattutto conoscono le mie idiosincrasie…".

Quali sono le sue idiosincrasie?

"Certe scorciatoie che ammiccano al pop, certe soluzioni più banali. Io tra loro sono il meno musicista, nel senso che la mia formazione è avvenuta sul campo a poco poco, ma proprio per questo mi capita di avere delle idee non ortodosse che poi cerco di tradurre in musica: non è facile sintonizzarsi con la mia anarchia ma col tempo ci siamo riusciti. Io ho iniziato a fare le prime cose con un gruppo solo dopo aver fatto Rimmel nel '76/'77. Per me è stato drammatico l’incontro con altri perché partivo dal testo e cercavo di spiegargli quello che dovevano fare a partire da quello, dal senso del brano. A quei tempi, ai musicisti del testo invece non gliene fregava niente, non volevano nemmeno ascoltarlo. Io poi avevo preso dei giovani che venivano dal jazz, che era proprio un altro mondo, molto elitario, del tipo 'noi facciamo jazz, poi andiamo a suonare con De Gregori perché ci paga'. E io gli dicevo: 'Dovete suonare Atlantide, che sono tre accordi tutti uguali'. Loro lo facevano e a me faceva schifo come veniva. Glielo facevo notare e loro: 'Vabbè sono tre accordi!'. Certo, sono tre accordi. Che vanno suonati in un certo modo. Io per suonarli come volevo davvero ci ho messo vent’anni. E adesso ci riesco perché sono diventato più bravo io e perché si è molto alzato anche il livello culturale di chi suona: non c’è più nessuno che ti dice: 'Ah, ma no io faccio rock, jazz etc.!'. C’è molta più consapevolezza di cosa vuol dire suonare".

Le scorciatoie sono odiose anche nel nostro mestiere, che è quello di divulgare dando al pubblico degli strumenti per capire, non perché i lettori sono stupidi, ma perché non hanno il tempo di informarsi su tutto. Ma naturalmente evitando anche qui, come nella musica cui faceva accenno prima, gli stereotipi. Tipo 'l’elfo islandese' quando si parla di Björk, 'la sacerdotessa del rock' per Patti Smith e, la madre di tutti i luoghi comuni, 'il menestrello di Duluth' per Bob Dylan…

"Uh, uh, uh! (suoni di sincera disapprovazione, ndr). Quello dovrebbe essere proprio vietato per legge! Sono le cose per cui quando leggi un articolo e trovi una di queste definizioni volti pagina. Vale per tutti i settori di un giornale. L’uso di certi termini nei titoli: la rabbia per esempio è abusata. La rabbia dei postelegrafonici! O dei ristoratori o… intercambiabile per tutte le categorie (ride)".

A proposito di sfidare gli stereotipi, lei a un certo punto ha fatto una cover di Vita spericolata di Vasco Rossi.

"Perché è un pezzo che mi è sempre piaciuto. Sembra strano?".

Abbastanza.

"È una delle più belle canzoni italiane. La cosa incredibile è che Vasco la fece a Sanremo e notoriamente io non sono un ammiratore del mondo sanremese, ma devo dire che ogni tanto da lì uscivano pezzi straordinari. Ma perché sembra strano che io faccia Vita spericolata? (ride)".

Beh, ho avuto l’impressione che anche il suo pubblico…

"Il mio pubblico rimase esterrefatto (ride)".

Insomma... lei è il Principe.

"Che vuol dire? Il pubblico va per stereotipi: il Principe, il maledetto, il professore… A me è sempre piaciuto cantare le canzoni degli altri. Certo, lo ammetto, mi rendevo conto che poteva sembrare una provocazione ma per me non lo era per niente".

Non essere mai dove gli altri pensano che tu possa essere, anzi che tu debba essere: tutto ciò è molto punk. Anzi è l'essenza stessa del punk: strano per De Gregori.

"Per me conta il fatto di non porsi nemmeno questa domanda. Non voglio mai neppure lontanamente pensare a come devo essere. Non voglio essere dove qualcuno vorrebbe che io sia. Le dirò di più: anche se l'intero mio pubblico pensasse che io debba stare in un certo luogo, non ci starei. La mia necessità è solo quella di essere sempre me stesso. In un mondo dove ormai le playlist le fa Spotify mi sembra essenziale fare sempre e solo tutto quello che mi viene in mente e pazienza se non è quello che ci si aspetta da me. Con un solo limite".

Quale?

"Del cercare di non fare cose brutte. Per questo cerco di lavorare molto su tutto ciò che faccio: è questa la forma di rispetto che devo al pubblico, non il fatto di dargli quello che vorrebbe io facessi. Per esempio, se mi va di fare una cosa con Fausto Leali, come il duetto di Sempre per sempre, non ci penso due volte. La spinta deve essere di totale innocenza e indipendenza".

Del resto, quando Vasco fa Generale, è un tripudio assoluto, si diverte tantissimo.

"Certo. Per fortuna è solo ai puristi che non va che De Gregori faccia Vasco Rossi e viceversa: ben venga Vita spericolata quindi! Vasco poi ha uno stadio intero che lo ascolta: è un'emozione…".

Lei però è stato il primo a riempire gli stadi.

"Sì, io e Dalla. Siamo stati i primi proprio a farli gli stadi, in realtà. Si parla del 1978 e in effetti nemmeno gli artisti stranieri si esibivano lì, allora. Dopo di noi forse la prima fu Patti Smith, nel 1979, a Firenze".

Come nacque l’incontro con Dalla?

"Io stavo alla IT, una piccolissima etichetta discografica che faceva capo a Vincenzo Micocci che Lucio, che aveva preso da poco casa a Roma, frequentava perché c’era anche Ron. C’era un pianoforte, lui a volte si metteva lì e suonava. Era già famoso, aveva fatto 4 marzo 1943. A poco a poco ci siamo incuriositi l'uno dell'altro e così capitava che suonassimo insieme e poi magari partecipavamo ai rispettivi concerti. Era un’atmosfera un po’ da gita scolastica, tipo: 'Lucio, stasera io suono a Viterbo' 'Ok, vengo anch’io' e magari saliva sul palco con me e faceva una cosa col clarinetto; oppure ricordo, per esempio, che c'era Anidride solforosa, un pezzo che a me piaceva moltissimo. Lucio mi aveva detto: 'Dai, suonaci sopra l’armonica!'. E così facevamo. Pablo infatti è firmata anche da Lucio, perché mentre io la stavo scrivendo lui mi accompagnò a Bari e nel pomeriggio, mentre l'ascoltava, mi disse: 'Qui nell’inciso non si muove abbastanza'. Lui non sapeva suonare la chitarra ma io l’ascoltai perché avevo capito che aveva ragione. Ecco, questo era il clima. E quindi Banana Republic non fu altro che il coronamento di questa amicizia. Anzi, direi che poi con Banana Republic si esaurì inevitabilmente. Non ci vedemmo per diversi anni e ci rincontrammo nel 2010. La tournée che abbiamo fatto allora dal punto di vista musicale secondo me era molto più bella della precedente, però certo, non aveva più quel fascino della novità, dell’unione di questi due strani personaggi in un periodo in cui i grandi concerti non esistevano".

Musica dal vivo: lei non fatto dischi live per un lungo periodo, poi improvvisamente ne ha fatti tantissimi. Come mai?

"Io credo dipenda dal fatto che all'inizio non sapevamo suonare molto bene e quindi i dischi live ho iniziato a farli uscire quando mi sembrava che ne valesse la pena. Sono stato anche molto criticato per questo. In effetti, se vado a contare i dischi in studio e quelli live, sono quasi una discografia parallela. Perché li ho fatti allora? Un artista ha necessità di documentare quello che fa, nel mio caso i concerti, proprio come un pittore fa tutti i quadri che vuole. C’è del narcisismo? Sicuramente. Ma chi non ha piacere a mostrare una propria opera… A parte la compulsività a pubblicare se stessi, il live è anche rendicontare la possibilità di una canzone di trasformarsi, da sera a sera o dall'anno prima o da vent'anni prima. Io non la forzo: io vado appresso questa trasformazione. Cambia la mia voce da sera a sera, non può non cambiare la canzone. E questi cambiamenti per me è inevitabile raccontarli: è per questo che pubblico tanti dischi dal vivo. Molti mi hanno criticato ma per me non c'è una legge da seguire, la mia libertà sta nel fare quello che sento, la libertà del pubblico è nel comprare o meno i dischi che faccio: non divento ricco a fare tanti dischi live, ma perché mai non li devo fare?".

Tra l’altro, in questo nuovo album, Sotto il vulcano, che è appunto un live e, oltretutto, doppio, lei ha rifatto un pezzo che cantavate con Dalla in Banana Republic.

"Mi è venuta l'idea passando da Milo, in Sicilia, dove abitava Lucio. A un certo punto mi sono scoperto a canticchiare questa canzone e il giorno dopo, a Taormina, avevo la penultima tappa del tour. Ho deciso lì per lì. Tra l'altro, per motivi tecnici, non avevo la possibilità di provarla con la band per cui gli ho detto: 'Ascoltatela su YouTube, lì c'è la versione originale'. A quel punto mi è venuta la voglia contraria rispetto a quello che ho teorizzato fino a ora: ritornare a fare esattamente la canzone com'era, perché nel frattempo sono state fatte talmente tante versioni a molte delle quali ho partecipato anch'io. Non la rifacevamo mai uguale. Invece questa volta volevo proprio il violino e la chitarra con quel riff popolaresco. L'ho fatta solo quella sera: quella dopo avevamo un concerto in Sardegna ma non l'abbiamo suonata".

Come mai ha scelto la versione censurata di 4 marzo 1943, quella in cui il verso "ancora adesso che bestemmio e bevo vino/ per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino" è stato cambiato?

"Mi sono innamorato di quella versione quando l'ho sentita a Sanremo: non so se l'originale era l'altro o se Lucio nel corso del tempo l'abbia attualizzata. Trovo molto più delicato dire 'ancora adesso che gioco a carte e bevo vino/ per la gente del porto sono Gesù Bambino' perché mi sembra più adatto a una canzone dedicata a un tema importante come la maternità. Non desiderata ma comunque vissuta con dolcezza, un tema nobile: questa giovane donna, lui che nasce e gli viene dato quello strano nome, tutto riconduce a un'atmosfera quasi sacra. Per cui immettere un tema che sicuramente è più realistico, come un riferimento alla bestemmia e alle puttane, non mi affascinava, anche se l'ho cantata tante volte insieme a Lucio anche con questo testo".

Lucio non teneva a una versione in particolare?

"No, credo che la cantasse di volta in volta come gli veniva. Questa canzone ha qualcosa di arcaico, non perché 'vecchia': lo era già quando è stata scritta. Fa rifermento a degli archetipi: la maternità, la guerra, la solitudine. È una delle canzoni più belle che abbia mai cantato Lucio. Poi non so se qualcuno ha detto a Lucio: 'Non usare parole come bestemmia o puttane a Sanremo'. È una canzone commovente per la sua bellezza".

Restando sul tema delle canzoni commoventi, ha visto la performance di Patti Smith alla cerimonia del Nobel?

"In un contesto così diverso da quello normale, così paludato non credo ci si senta a proprio agio e poi certo l'emozione: è facile dimenticare le parole in simili circostanze...".

A lei è mai capitato?

"Come no? Su YouTube ci sono cose impressionanti...".

 foto di Daniele Barraco Lei ha un repertorio di più di duecento canzoni. Come fa a ricordarle?

"Questa è una bella domanda. Me le ricordo al 99,9%. Quello che non ricordo lo invento al momento, oppure succede il disastro. Però mi piace ricordarmele: non ho mai usato e non uso il gobbo elettronico. Quando leggi non è la stessa cosa, credo che il canto ne risenta. Quando abbiamo fatto il tour nel 2010 leggevamo perché Dalla preferiva così. Ma devi stare attento: le sue parti erano segnate in rosso, le mie in bianco. Per me era un freno. A proposito di Dylan, però, devo dire che mi è piaciuto molto il discorso che ha mandato in occasione del Nobel".

Cosa in particolare?

"Beh, per esempio quando dice: 'Vi ringrazio per avermi chiarito le idee sul fatto che sono uno scrittore. Io in realtà nella vita ho sempre avuto problemi pratici, tipo trovare lo studio giusto, il bassista adatto'. Fa tutto un ragionamento low profile e poi, ecco la cosa che ti fulmina: 'Del resto credo che anche Shakespeare abbia avuto lo stesso problema: doveva rispondere ai committenti, allestire una sua tragedia, per cui si chiedeva: 'Ci saranno abbastanza posti in platea?', 'abbiamo lo sponsor?', 'dove lo trovo un teschio umano per domani sera?'. Per cui vi ringrazio di avermi detto che faccio letteratura perché non me ne ero mai accorto'. Capito? Prima dice di non essere uno scrittore e poi conclude "proprio come Shakespeare!"".

Anche lei ama molto questa praticità del mestiere?

"Certo: senza quella non saremmo qua né io né Dylan. Lo dico spesso: facciamo un mestiere che per buona parte è fisico, manuale, dove dobbiamo anche saper cambiare la valvola dell’amplificatore. Altrimenti hai voglia a scrivere di "Pavese perduto nella pioggia": non arriva proprio materialmente. Viaggiamo quindi sulla falegnameria, sulla praticità, sulle previsioni del tempo, sull’elettricità".

Parlando di Dylan, lei ha letteralmente 'dylaniato' uno dei suoi pezzi più famosi, Buonanotte fiorellino, un tempo considerato da alcuni un cedimento alla decadenza borghese, troppo smielato e al tempo stesso follemente amato dal suo pubblico. Forse persino troppo amato.

"Certo l'ho "dylaniata" mille volte e non solo con Dylan: una volta c'è il violino, un'altra no, una volta è in tre quarti, in quattro quarti non l'ho ancora fatta ma prima o poi ci arriverò. Sì, certo, da un po' la faccio dichiaratamente in versione Rainy Day Women (un brano molto giocoso e "stonato" di Dylan che apre il suo capolavoro, Blonde On Blonde, ndr) è un po' la stessa operazione che fa Duchamp quando mette i baffi alla Gioconda. Prende, ruba, cita: fa tutte queste cose insieme. Diciamo che, fondamentalmente, si diverte. E forse mette anche il suo pubblico nelle condizioni di divertirsi, nel senso nobile: gli offre punti di riflessione, di arricchimento, di scoperta. La famosa 'sfasatura' che sta dentro i processi artistici".

C'è una parte del pubblico che vorrebbe cullarsi con il ricordo della 'sua' Buonanotte fiorellino...

"C'è una parte del pubblico che è conservatore. Mi rendo conto di cosa vuol dire perché quando io sono pubblico, anch'io sono conservatore. Se andassi a sentire un concerto di Dylan e lui per una volta mi facesse Like a Rolling Stone o Just Like A Woman o Blowin' In the Wind così come le ha fatte sui dischi esclamerei: 'Ooooh!'. Subito dopo però mi porrei il problema: è sincero mentre sta facendo questo o sta facendo un monumento a se stesso? E penso che la risposta sarebbe: 'Non è sincero fino in fondo'. Io a un artista sul palcoscenico quello che chiedo è la sincerità, cioè che in quel momento lui mi restituisca quello che sta succedendo nella sua testa. La sua testa non può essere quella di quarant'anni prima. L'evoluzione di una canzone è peggiore? Pazienza, mi becco la peggiore".

 foto di Daniele Barraco Manuel Agnelli degli Afterhours a un certo punto chiedeva al suo pubblico di non cantare. Ma poi si è dovuto rassegnare.

"Ha ragione, si può creare una discrasia che ti può far sbagliare, soprattutto se tu cambi il pezzo. Come anche battere le mani: succede spesso che il pubblico non vada a tempo e così diventa una cosa strana. Comunque va bene, il concerto è anche un momento di festa, non è un saggio accademico".

Quali sono i suoi dischi dal vivo preferiti?

"Direi 4 Way Street di Crosby, Stills, Nash & Young e sono indeciso tra Hard Rain e Before the Flood di Dylan, escludendo la Bootleg Series dal momento che sono dischi che lui non aveva intenzione di pubblicare in origine. Ha accettato di farlo solo molto tempo dopo".

Come saprà è appena uscito un box di 36 cd, Bob Dylan: The 1966 Live Recordings, che documenta tutto il tour del 1966 di Bob Dylan, quello del passaggio dal folk al suono elettrico in cui ogni sera c’è una battaglia con il pubblico che gli urla "traditore".

"Ecco, questo è proprio l'esempio giusto: un giorno ti ascolti un disco, un giorno l'altro e senti la stessa canzone come cambia nel giro di poco tempo. È un documento storico importantissimo e da musicista impari molte cose. Ma è importante anche per un non musicista, credo. È un po' come entrare nell'atelier di Picasso e vedere cosa c'è dietro un suo quadro: gli studi, i tentativi, gli errori anche. Diciamo che l'ascolto dei dischi live contraddice quelli che pensano che la musica debba essere per forza patinata, inappellabile dal punto di vista tecnico. Nei dischi live invece devi evitare l'eccesso di perfezione, anche perché altrimenti non ti fermi mai: puoi restare anni in studio su una canzone e non capire mai quando è davvero finita. Al tempo stesso devi contenere l'irruenza. Vivere con questa dualità nella testa è interessante. Io ho fatto un album intitolato Left & Right che non è nemmeno mixato: sono solo i canali del banco presi e masterizzati senza dire "alzo i livelli del basso" o cose simili, ed è uno dei miei preferiti".

Poi c'è Bootleg che si rifà all'idea della naturalezza, credo.

"Sì, quello però è mixato. Ma è vero: andai a Dublino a mixarlo proprio perché volevo un fonico che non capisse il testo. Trovai uno che non solo non capiva il testo ma gli stavo anche antipatico: per me era perfetto! (ride)".

Lei ha conosciuto molti musicisti nella tua vita. Chi ricorda più volentieri?

"Uno di quelli che più ho amato è Leonard Cohen. Una volta l’ho incontrato proprio a Roma, per caso, mentre camminavo: era insieme a una mia amica che me l’ha presentato, a Santa Maria in Trastevere. Aveva una chitarra in mano e io pure: 'Ah, anche tu suoni?', mi chiede e ci scambiammo un po’ di pareri tecnici. La seconda volta fu nei camerini dopo un suo concerto al Teatro Olimpico a Roma e lì feci un po' il fan, andai in camerino dove stava mangiando da un cartone un pezzo di pizza al taglio, coccolato dalle due coriste, e mi misi a parlare un po'".

Le disse che vi eravate già incontrati?

"Non gli dissi nulla e per pudore non mi feci neppure autografare il disco. Dopo di me arrivò uno che si portò dietro l’intera discografia che Cohen firmò interamente, con grande pazienza".

Immagino che capiti spesso anche a lei il contrario.

"Sì. Cerco di fare fino in fondo il mio dovere, ma a volte vorresti che quelli che ti chiedono autografi non esistessero. Memore di questo, tollero a mia volta e cerco di essere discreto ma capisco il fan, lo sono anch’io e quindi capisco: però non ci devono essere invasioni improprie…".

Qualche altro esempio del suo essere fan?

"Stavo mangiando con mia moglie e i bambini a Venezia e al tavolo accanto al nostro c’era Elton John. Per me fu stranissimo perché non sapevo che stesse a Venezia, che ne fosse innamorato. I suoi primi dischi sono stati formativi per me e soprattutto per Antonello Venditti, anzi ricordo che in realtà fu proprio lui a farmelo conoscere: Tumbleweed Connection, un disco straordinario, lui e Bernie Taupin, il paroliere: che coppia! Poi col tempo per me ha perso interesse, pur mantenendo sempre una certa qualità di scrittura, ma cose come Your Song sono eccezionali".

Ci parlò in quell’occasione?

"No, "schiscio", come dite voi a Milano. Un altro aneddoto divertente forse è quello che riguarda Lou Reed. Quando stavo alla Rca, nel 1978-'79, venne a Roma per un concerto e volle fare il soundcheck proprio lì negli studi dove pascolavamo tutti noi cantautori dell’epoca. A un certo punto si sparse la voce e ovviamente eravamo curiosi. Lui non voleva vedere né essere visto da nessuno. Quando si mise a suonare però, a poco a poco, alla chetichella, entrammo nella regia e… rimanemmo a bocca aperta! Sentimmo una botta di suono impressionante: noi li conoscevamo bene quegli studi ma era come se qualcuno improvvisamente avesse cambiato tutto lì dentro. Anche i fonici erano lì, con gli occhi di fuori, e dicevano: 'Ma questo da dove viene?'. E anche al di là del vetro aveva un’aria arcigna: non ti saresti mai avvicinato…".

Negli ultimi anni si era addolcito: Laurie Anderson mi raccontava che dietro l’aspetto burbero era una persona tenera, che non smetteva mai di incoraggiare i giovani artisti. Una violinista che aveva suonato con lui durante l’intervallo di un concerto gli chiese com’era andata. Lui rispose: 'Tutto lì quello che sai fare?'. Così la violinista nella seconda prova fece rimanere tutti a bocca aperta.

"Naturalmente sarà stata bravissima, ma certo, da uomo di musica ha fatto quello che andava fatto: l’ha spinta a dare il meglio di sé. Comunque è incredibile: anche in un pezzo come Perfect Day, apparentemente dolce, c’è una narrazione a doppio taglio: c’è ghiaccio, c’è distanza. La musica in realtà è quasi una presa in giro della dolcezza, c’è il diavolo dentro! La dolcezza è solo un abito di quella canzone".

Lucio Battisti, un altro artista dal carattere difficile, l’ha conosciuto?

"Ci ho parlato solo una volta al bar della Rca, un paio d’ore. Era molto timido ma al tempo stesso emanava un carisma assoluto per cui non ti veniva voglia di andare lì, dargli una manata sulla spalla e dirgli: "Ciao Lucio, come va?"".

Cosa vi siete detti?

"Avevo appena pubblicato Alice e mi fece dei complimenti: "Ahò, è forte quel pezzo!". Poi mi disse una cosa che mi parve davvero strana: "Tu canti benissimo". In quel periodo mi sentivo tutto meno che un cantante! E poi: "Sei bravo perché tu riesci a far capire bene il testo, quello che dici". A me! Uno a cui tutti dicevano che non si capiva niente di quello che scrivevo! Tornai a casa volando".

Tra i nuovi artisti chi le piace?

"Non ho molto tempo per ascoltare musica, è brutto da dire ma è così. Però ho suonato una volta con Cristina Donà, che è bravissima, mi piace tantissimo e con Vasco Brondi. Anzi, con Vasco io ho suonato la chitarra mentre lui cantava Viva l’Italia (ride)".

C’è un nuovo autore, si chiama Calcutta, e in suo brano, Limonata, fa un quadro impietoso della sua ragazza e dei suoi genitori e la cita, non so se le è capitato di sentirlo. Dice: "Tu spremi limonata e non ce la fai più/ salutami tua mamma che è tornata a Medjugorje/ e non mi importa niente di tuo padre/ ascolta De Gregori/ a me quel tipo di gente no non va proprio giù".

"Beh intanto uno che riesce a fare una rima Medjugorje/ De Gregori è notevole. Lo trovo molto carino dai… (ride). No, non lo conosco ma credo nel karma: penso che prima o poi una cosa se ti deve arrivare ti arriva".

Restando sulle cose politicamente scorrette, è vero che lei ha conosciuto De André suonando una presa in giro de La guerra di Piero intitolata La cacca di Piero?

"Sì, è vero. Avrò avuto diciott’anni: era una di quelle cose goliardiche che si facevano ai tempi del Folkstudio".

Ma lei sapeva che lui era lì?

"(ride) Sì… Andò così. Io credo di non averla nemmeno mai fatta in pubblico, quella canzone: tra l’altro La guerra di Piero era stata una canzone fondativa per me. Poi succede che mio fratello conosce De André in un bar di Roma, fanno amicizia, bevono insieme e qualche giorno dopo mio fratello lo porta al Folkstudio dove io suonavo insieme a Venditti e altri, tutti assolutamente sconosciuti. E questo disgraziato di mio fratello dice a De André che io avevo fatto questa ignobile cosa! E De André, che era luciferino, insistette perché la facessi: io non avrei mai osato farlo. Sarebbe stata veramente una cosa da idioti. E invece lui: 'Dai belin, fai sentire questa canzone!'. De André si divertì molto e da lì nacque il nostro rapporto, diventammo amici, tanto che tempo dopo mi invitò persino da lui in Sardegna a lavorare insieme".

Da quel vostro incontro nacquero anche dei brani di Rimmel…

"Non abbiamo mai cantato insieme se non una strofa per uno in una canzone di Fossati Quei posti davanti al mare. In Sardegna ho scritto Buonanotte fiorellino: lavoravo a Rimmel e, insieme, al suo disco".

Anche se lui aveva il giorno invertito con la notte.

"Sì è vero. Cominciava a ingranare molto tardi così capitava che stessi molto tempo durante il giorno con Cristiano che a quei tempi era proprio un ragazzino ma suonava già uno strumento: la batteria ed era molto bravo".

Lei non ama la politica e nemmeno i salotti.

"Per niente. Soprattutto detesto i politici che in un ingiustificato atto di supponenza ti passano davanti con le loro scorte a sirene spiegate costringendoti a fermarti. Ma non è rabbia anticasta: è proprio un dato di fatto che si tratti di qualcosa di intollerabile. Un abuso di potere che altrove non potrebbe accadere. In Inghilterra per esempio il Primo Ministro non ha la scorta con le sirene spiegate e si ferma normalmente ai semafori".

Questa idiosincrasie le racconta in vari brani. Ma c’è un testo che mi ha colpito in maniera particolare, si intitola Povero me e dice: "I simpatici mi stanno antipatici/ i comici mi rendono triste/ mi fa paura il silenzio/ ma non sopporto il rumore".

"Beh, è una buona descrizione di me stesso, autocaricaturale: io non sono così cattivo e malmostoso come in quella canzone. Dopo un po' di tempo dalla sua uscita incontro un’amica che non vedevo da parecchio e che nel frattempo era diventata psichiatra, e mi dice: 'Senti, ho ascoltato quella tua canzone: sono le parole di un depresso!' (ride). "No guarda, davvero, descrive tutti i sintomi della depressione: ce li hai tutti!". Io le dico: "Guarda, non mi sento un depresso". E lei continua: "Eppure è la canzone di un depresso". Che dire? Forse aveva ragione lei. Ma vuol dire che evidentemente sono bravo a identificarmi. Ci ho messo tutto: "Nessuno mi vuole bene", "sono tutti migliori di me" (ride). E appunto quello che dicevo prima: "Ci sono i pretoriani con la sirena". È una canzone che amo molto".

Questo dunque non è Francesco De Gregori, almeno non tutto. Forse una piccola parte sì, ma appena vi voltate l'immagine è già cambiata. Non è più quella della fotografia. Del resto, non è forse così per tutti? Non siamo mai noi stessi, almeno non del tutto. Non sempre. Non siamo il profilo Facebook, non siamo neppure il nostro libro o la nostra canzone se abbiamo la fortuna di scrivere, non siamo il nostro lavoro, non siamo sempre coraggiosi o sempre vili, sempre tristi o sempre felici, non siamo quello che pensano gli altri di noi e neppure quello che pensiamo noi di noi stessi. Camminiamo tutti sui pezzi di vetro. E questa non è un'intervista.

Francesco De Gregori a New York: "Non passo più la vita a pensare al futuro del mondo". Luigi Bolognini su La Repubblica il 10 novembre 2017. Il cantante ha concluso il suo primo tour negli Stati Uniti suonando in un locale caro a Bob Dylan.  Quando nella sala concerti della Town Hall si riaccendono le luci, gli occhi di Francesco De Gregori brillano più delle medaglie al collo dei non pochi spettatori che poco più di 48 ore prima hanno completato la maratona di New York. Anche i runner, pur con le gambe ancor dolenti, sono in piedi con gli altri ad applaudire il cantautore, che a 66 anni ha debuttato negli Stati Uniti. Quasi un paradosso, per uno che ha spesso inserito — anche in anni in cui non era facile farlo, per ignoranza sul resto del mondo musicale e pregiudizi politici — l’America nelle sue canzoni, non nascondendo mai Bob Dylan tra le ispirazioni. «Poteva succedere in passato», ammette, «e invece doveva andare così. Ma è stato un caso, un’opportunità colta al volo». Non sembra un caso, però, la Town Hall: attaccata a Times Square, fondata da suffragette, tradizione di musica di qualità che va da Billie Holiday a Duke Ellington, da Nina Simone a Pete Seeger. E il 12 aprile 1963 Bob Dylan tenne qui il primo concerto al di fuori dei club del Greenwich Village. «Tutto vero, ma l’ho scoperto solo in seguito. Certo mi ha emozionato cantare qui Non è buio ancora, mia traduzione di Not dark yet che faceva parte di Amore e furto, il disco con cui ho omaggiato Dylan nel 2015. Avrei potuto metterne anche un’altra, ma mi sembrava troppo: in fondo il tour riguarda me e le mie canzoni, e lui è solo una delle tante influenze nella mia musica. C’è tanto della melodia italiana in me, mi sembrava giusto portarla all’estero, specie in una città dove gli italiani trapiantati sono tanti»

A proposito di melodia, ha sempre chiuso le date con Anema e core cantata assieme a sua moglie Alessandra Gobbi. Com’è nata la cosa?

«La stupirò per originalità: a Napoli. Eravamo in uno dei ristoranti più tipici, Zi Teresa, e speravo che arrivasse un posteggiatore, i menestrelli che cantano le melodie tradizionali. Incredibilmente neanche uno. E allora intonai io Anema e core. Così è nata l’idea di condividerla. Chicca, come tutti chiamiamo mia moglie, sa cantare, è anche in un coro di Giovanna Marini. Ed è piaciuta a entrambi l’idea di chiudere le serate con un po’ della grande canzone napoletana».

Parliamo di New York. Prima volta da artista, non da viaggiatore.

«Guardi, ci vengo dal 1976. Che posso dirle che non sia già stato detto? È affascinante, mi cattura il modo di vivere libero, senza che nessuno ti giudichi. E poi c’è un’etica del lavoro, forse purtroppo della competitività, che altrove manca. Camminare a New York è come muoversi su qualcosa di pulsante, di vivo».

E l’America?

«Giovanissima. Fa impressione che non arrivi a 250 anni come nazione, per noi abituati a millenarie radici storiche, artistiche e culturali. Un Paese ancora nuovo che mescola tutte le culture ed è in continuo cambiamento, nel bene e nel male. Ma non mi chieda di parlare di Trump. Anzi, neanche di politica, non saprei davvero cosa dirle».

In questo tour, il 20 ottobre è stato anche al Bataclan di Parigi. Che sensazione le ha fatto?

«Ho evitato di scendere in platea, temevo di vedere i segni dell’attentato. Ma la risposta migliore al terrorismo è stata proprio suonare lì, come in generale la risposta deve essere la normalità dei comportamenti. Parlavamo di New York: non sembra neppure che ci sia appena stato un attentato. C’è cautela, ci sono controlli, ma la vita procede. In questo, anche in questo, è un esempio».Tour finito, e adesso?

«E adesso mi faccio passare il raffreddore che mi è venuto in America e si vede. Una cosa che vorrei è registrare proprio Anema e core come singolo, per il divertimento che mi dà questo brano. Da questo tour non farò un disco live, anche se è stato bello: mi sono riappropriato di una parte del repertorio meno nota, come Buenos Aires e Due zingari, per rivendicare la voglia e il diritto di fare anche canzoni non famose, ma che magari lo sarebbero potute diventare se solo le radio le avessero trasmesse di più. E poi è stato un tour senza batteria, c’ero solo io che battevo il piede sul palco: ormai la maggior parte dei batteristi si buttano sull’elettronica, omologando il suono».

Ha pronti anche inediti?

«Pronti no. Come sempre ho foglietti, appunti, una frase, una battuta, un rigo appena, materiale sparso ovunque. Poi un giorno, chissà quando, mi diranno che potrei fare un tour più lungo se avessi delle canzoni nuove. E allora all’improvviso assemblerò tutto. Ma sarà un buttare di getto solo in apparenza, perché verrà dopo lunga sedimentazione».

Come vede la musica italiana? Tanti dicono che il cantautorato ora è rappresentato dai rapper: sono loro a raccontare la realtà come facevate voi.

«Senta, mi parlano della morte del cantautorato circa dal 1976, e siamo ancora qua. La verità è che c’è gente che lavora bene e gente che lavora male, esattamente come ci sono rapper che fanno cose ottime e altri pessime. Certo, raccontano il mondo con incisività, hanno grande attenzione alle parole, ma non hanno preso il nostro posto, si sono affiancati a noi. Non vedrei niente di male in una collaborazione, se fosse fondata artisticamente, ma nessuno me l’ha proposto e io non ho cercato nessuno».

Ha colpito il cambio di look: via la barba che la distingueva da sempre.

«Sa che me lo chiedete solo voi giornalisti? Al pubblico non frega niente. E non c’è nessun motivo nascosto, sono solo stato dal barbiere un giorno».

Di politica non vuol proprio parlare? Del mondo?

«Guardi, se vuole le posso indicare un’abbondante decina di miei colleghi che sono dispostissimi a parlare di tutto e su tutto. Io no, grazie. Ma non per reticenza: davvero non saprei cosa dire».

Ci dica almeno se è ottimista o pessimista.

«Sul mio futuro personale e professionale molto ottimista. Per il resto, mi creda non passo la mia vita a pensare al futuro del mondo».

Una volta però lo faceva, no?

«Eh, una volta leggevo anche la favola di Cappuccetto Rosso».

·        Francesco Gabbani.

Francesco Gabbani: «Che imbarazzo quando ho battuto Fiorella Mannoia a Sanremo». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 6 dicembre 2021. Il cantautore è protagonista dell’iniziativa di Corriere e Radio Italia. La nuova canzone «Spazio tempo»: «Un brano fra filosofia e vita quotidiana». 

A Francesco Gabbani piace giocare con la filosofia. Nel testo di «Occidentali’s Karma», canzone con cui ha vinto il Festival di Sanremo 2017, aveva infilato le culture orientali, Eraclito, Fromm e altro. Il cantautore — a lui è dedicato l’Artista Day di oggi, iniziativa di Corriere e Radio Italia che celebra i protagonisti della canzone — torna sul tema in «Spazio tempo», brano scritto per la serie tv di Rai 1 «Un professore», con Alessandro Gassmann nei panni di un docente della materia.

Come andava a scuola in filosofia?

«L’ho studiata al liceo classico, andavo discretamente ma il prof non era come Gassmann che prova a declinare la filosofia nella quotidianità per farla apprezzare ai suoi studenti. È una materia che prova a interpretare il senso della nostra esistenza. Ed è quello che, in piccolo, cerco di mettere nella mia musica. »

Il senso di questo brano?

«Per la prima volta in carriera ho scritto su commissione dopo che il regista Alessandro D’Alatri mi ha fatto avere la sceneggiatura. Provo a raccontare che tutti noi tentiamo di incasellare la nostra vita fra i paletti di un pensiero filosofico, che sia il “tutto scorre” o “causa effetto” o altro, ma poi arrivano quegli accadimenti semplici, che sconvolgono i nostri piani. Qui entra in gioco l’aspetto irrazionale e tutto si ribalta: infatti dico “un’ora nello spazio/un punto nel tempo”».

Cita «Albachiara» e «My Way»: perché?

«Sono gli opposti, ma non tanto nella musica. La canzone di Vasco Rossi è una crisi adolescenziale che racconta di fragilità, inadeguatezza. Quella di Frank Sinatra è la dichiarazione più adulta del vivo a modo mio».

Cita anche «John Lennon, Paul e Yoko Ono»...

«Indicano qualcosa di perfetto, irripetibile ed equilibrato, come i Beatles, che da un momento all’altro, ed ecco Yoko Ono, può finire. Come accade nella vita».

Nelle scorse settimane è stato a Abbey Road. Novità in arrivo per l’album?

«L’album uscirà il prossimo anno, a Abbey Road ho fatto una registrazione live per un progetto speciale. Quando stavo con i Trikobalto ci portò in visita un ingegnere del suono inglese. Questa volta ero nella sala 2, quella dei Beatles, e a posteriori ho realizzato che c’era un’energia particolare che crea suggestione».

Troppi indizi beatlesiani. È un fan dei Fab Four?

«Da sempre, ma mi sono re-innamorato di loro in questi mesi per la dimensione di scrittura delle loro canzoni: c’era istinto autentico senza fronzoli. E mi rendo conto che sto tornando al minimalismo della canzone».

Quindi non sarà un disco con beat ed elettronica che tanto vanno di moda anche fra i cantautori?

«Oggi sento molta musica dove viene prima la produzione rispetto alla canzone. E così io vado indietro».

Facciamolo con la memoria. L’Artista Day celebra i successi. Momenti bui che invece le hanno fatto pensare di mollare?

«Non solo l’ho pensato. Avevo anche mollato a un certo punto della carriera. Dopo l’esperienza con la band avevo provato più volte le selezioni di Sanremo Giovani come solista senza mai arrivare fino in fondo. Mi ero dato un limite temporale per essere indipendente economicamente grazie alla musica: i 30 anni. Non ci ero riuscito e avevo smesso di presentare provini come cantante. La musica per me era il negozio di strumenti di famiglia e un’attività di autore per altri. Avevo firmato un contratto con BMG ed è stato Dino Stewart a dirmi che quelle canzoni avrei dovuto cantarle io. Ero disilluso, ma mi convinse a provare ancora una volta con Sanremo Giovani nel 2016 con “Amen”...»

Vinse e l’anno dopo tornò fra i Big con «Occidentali’s Karma». L’emozione della vittoria?

«Ricordo il momento della proclamazione. Da un lato il sarcasmo del pensare “oddio, e adesso come ci arrivo a fine nottata...”. Dall’altro l’imbarazzo per aver battuto una grande come Fiorella Mannoia».

Un ricordo bello?

«Sarò naif, ma i momenti più toccanti mi riportano a nonno Sergio. La prima volta che ho pensato che un giorno avrei voluto fare questo avrò avuto 4-5 anni e stavo guardando il Festival di Sanremo con lui. Quando ci sono andato mi sono rivisto nel buio della sua sala davanti a quell’acquario... Mi vengono ancora i brividi a pensarci. Se ne è andato nel 2018 e sono felice che mi abbia visto vincere».

La famiglia l’ha sostenuta fino quei 30 anni fatidici?

«Papà sì perché è musicista. Mamma oggi ha lo finalmente accettato, ma ha fatto ostruzionismo. Allora mi faceva arrabbiare, è un atteggiamento di protezione comprensibile, ma esagerava. Se avrò un figlio, lo lascerò libero di scegliere la sua strada e la sua vita».

Francesco Gabbani: «Quando mi hanno fatto sentire diverso» Mario Manca su Vanityfair.it il 15/3/2021. Per Francesco Gabbani la «diversità» non è mai stato un ostacolo, ma una ricchezza. «La diversità non va mai vissuta come un limite, ma come un’opportunità per esprimere sé stessi. È per questo che, quando mi è stata data l’occasione di affrontare l’argomento per le nuove generazioni, per i giovani e i bambini, ho accettato con molto piacere» spiega al telefono Gabbani, felice e orgoglioso di aver preso parte a #IoSonoDiverso, la nuova campagna realizzata da Cartoon Network (canale 607 di Sky) che a partire dal 15 marzo, insieme a diversi volti noti come Andrea Delogu e CiccioGamer, si impegna a sensibilizzare i più piccoli sul tema dell’inclusività in tutte le sue forme, «cartonizzando» i personaggi che hanno scelto di sposare l’iniziativa.

Per Gabbani, che abbiamo rivisto al Festival di Sanremo insieme a Ornella Vanoni e che vedremo presto al cinema in La donna per me, il nuovo film di Marco Martani che lo vedrà per la prima volta cimentarsi con la recitazione, è un momento ricco di impegni, ma anche di grandi soddisfazioni. Non solo perché l’affetto che lo circonda si fa sempre più grande a ogni sua apparizione pubblica, ma anche perché le sue parole, semplici e dirette, riescono sempre ad arrivare al punto in maniera elegante, spendendo ogni fibra del corpo per veicolare i messaggi che gli sono più cari. Incluso quello della diversità, che Francesco cerca di considerare (per una volta) non nella sua accezione negativa, ma in una più positiva.

Insomma, la vedremo presto come attore.

«Sono molto curioso anche io del risultato, non so proprio come verrà».

Le piacciono le sfide?

«Sì, sono un modo per solleticare l’entusiasmo anche se, ovviamente, non avrei mai accettato se mi fossi reso conto che la cosa non fosse nelle mie corde. Non è completamente un salto nel vuoto, diciamo così».

Prima di vederla attore, la vedremo cartone per una causa molto nobile promossa da Cartoon Network. A proposito del tema, lei su Instagram scrive: «Nel mondo che voglio, la diversità è ricchezza e bellezza».

«Proprio così, è un onore per me poter mettere la faccia in questo progetto. Siamo tutti diversi e, in fondo, esprimere la diversità significa esprimere quello che siamo: il problema sussiste quando la diversità diventa un motivo di atti di bullismo. È questo tipo di reazione che va combattuta».

Qualcuno l’ha mai fatta sentire diverso?

«Sì, ma non in maniera negativa. Sono sempre stato un bambino estroverso con l’attitudine all’artisticità, mi sono sempre messo al centro dell’attenzione, venivo sempre scelto come protagonista delle recite e al liceo suonavo già blues: questo, però, mi ha portato a subire un lieve bullismo, perché venivo continuamente additato e isolato. Probabilmente di mezzo c’era una sana invidia che, lì per lì, mi ha fatto anche un po’ soffrire, ma devo dire che ho vissuto tutto con grande consapevolezza».

L’isolamento, infatti, non le ha tolto la fame del palco.

«È per questo che mi piacerebbe che questa campagna aiutasse a vedere la propria diversità come un vantaggio da esprimere, un’occasione per dimostrare la propria unicità: essere diversi non vuol dire essere deboli, ma essere preziosi».

Essere preziosi è, forse, una cosa che abbiamo tutti riscoperto dopo quest’anno. Di recente è tornato a Sanremo ma, a differenza delle altre volte, si è trovato senza un pubblico. Cosa ha provato?

«Il tessuto emotivo legato al fatto che l’Ariston fosse vuoto non l’ho avvertito: la sensazione che hai a Sanremo è quella di essere in diretta davanti a milioni di persone o, almeno, io l’ho sempre vissuta così. Per la mia esperienza non ha fatto tutta questa differenza, quindi. Certo, quest’anno ci sono tornato in modo diverso, in veste di autore e di cavaliere della grande Ornella Vanoni: mi è piaciuto molto viverla in questo modo, cercando di trarne il lato positivo. È stato emozionante fare da assist a Ornella».

Sembra, infatti, che andiate molto d’accordo.

«Ho avuto il piacere di conoscerla in questo ultimo anno, le ho scritto questa canzone, l’ho incontrata e gliel’ho fatta ascoltare. Al di là della questione artistica, è nato un bel rapporto dal punto di vista umano: è ironica come me, e ci siamo divertiti fin dal primo momento. Spesso ci sentiamo al telefono anche solo per salutarci, per farci due risate. Ho trovato in lei una persona molto dolce che non sempre appare vedendola dall’esterno. Si presenta come una donna libera, senza filtri, quasi cinica, invece è molto di più o, almeno, lo è con me. Mi vedrà come il nipote simpatico».

Lei, invece, ha filtri?

«Tendenzialmente no, ma il modo in cui mi pongo ha sempre a che fare con la positività: mi piace comunicare sempre all’altro qualcosa di bello, cercando di tenere gli aspetti più bui e riflessivi per me. Alla fine siamo in un perenne equilibrio tra il positivo e il negativo, ma ho sempre preferito impegnarmi per regalare un sorriso».

I momenti bui come li affronta?

«Cercando il contatto con la natura. Ho scelto di continuare a vivere in un luogo immerso nel verde proprio per questo, per avere la possibilità di camminare o di prendere la bicicletta nutrendomi di quello che mi circonda. La natura mi porta a riflettere su me stesso e sulla vita: cerco questo tipo di sensazione nella mia dimensione più intima. Quest’anno poi, nella sua difficoltà, ci ha portato a riconsiderare certi valori, a riscoprire il piacere delle cose semplici».

Lei cosa ha riscoperto?

«Il senso della condivisione che diamo sempre un po’ per scontato. Il fatto di non poter incontrare, vedere e abbracciare le persone care l’ho molto rivalutato».

La musica e i concerti, dopotutto, sono condivisione. È ottimista per la ripartenza?

«Sono speranzoso, non vedo l’ora che si possa tornare a fare concerti. Non voglio fare il mistico, ma in questo sono un grande sostenitore della legge dell’astrazione, confidando che l’universo risponda bene. Speriamo il prima possibile di riprendere a vivere le nostre vite appieno».

Lei, poi, grande divoratore di palchi, patirà molto non poterci salire. 

«Mi manca, anche se sono stato uno dei pochi che durante la scorsa estate ha sfruttato il fatto che si potessero fare concerti per mille persone opportunamente distanziate: non vedo l’ora di tornare a farli. La vibrazione e l’energia che si avverte convivendo lo spazio con il pubblico è reale, è vera, e non è replicabile in nessun altro modo, neanche sui social. Certe emozioni non possono passare dal web».

4 anni fa stravinceva a Sanremo con Occidentali’s Karma. Oggi il suo karma com’è?

«È buono. Avverto che, se ti poni in modo corretto, propositivo e sano, in un modo o nell’altro qualcosa ti torna indietro. In questo momento sono in pace con me stesso e il mio karma che è sull’onda della serenità».

·        Francesco Guccini.

Marco Marozzi per corriere.it il 28 ottobre 2021. Dice: «Noi vecchietti» (l’intervista al Corriere della Sera per gli 80 anni).

Vabbé, Bologna non è più Parigi. E Guccini? Omero in minore? 

«Oddio. Forse perché non ci vedo quasi più. Non riesco più a leggere, devo ascoltare gli audiolibri. Non è la stessa cosa... Scrivo come posso. Lavoro con il computer, schermo grandissimo. Le canzoni le scrivevo a mano su dei fogli. Ho scritto otto gialli, quattro romanzi, molti racconti. Adesso cominciamo un nuovo giallo con Loriano Macchiavelli, il decimo, abbiamo fatto anche vari racconti. Avevamo pensato di recuperare il carabiniere Benedetto Santovito, il nostro primo personaggio. Lo amiamo ancora tanto, ma il tempo passa per tutti. Eppoi… lavoro a una serie di racconti sul mio periodo modenese. Non canto più da anni, non ci vedo e scrivo».

Pausa e risatina tirando indietro la testa: «Posso tranquillamente definirmi uno scrittore».

Il ritorno a Pavana, sull’Appennino pistoiese

Francesco Guccini è «tornato, per fortuna», a Pavana e continua quel che fa ormai da decenni. Il saggio involontario. Vangelo globalizzato per tutte le fedi. «Mah, strambo diventare vecchi». È l’ultimo Grande Saggio. Lo cercano per tutto, lui rifiuta di essere un tuttologo, ben prima dei divi a tempo delle tv, dei milionari dei social. Ma apre la porta ai pochi amici rispettosi e ai ragazzi che si presentano nella bella casa sull’Appennino pistoiese. Sospira e infine se la gode. Dà un’idea di serenità che da un pezzo pareva mancargli, fra stop alle sigarette, malanni, pandemie. Anche il vino non fa più parte dell’aneddotica: ora è Rosè scelto e Gewurztraminer, via fiaschi e bottiglioni anonimi. 

«Quando sento parlare i politici di destra mi arrabbio ancora»

Ha appena firmato la petizione per lo scioglimento dei «movimenti di ispirazione fascista» lanciata dall’Anpi. «Mi sono arrabbiato poche volte, sono abbastanza pacioso. Non ho mai litigato con nessuno. Ma quando sento i politici di destra parlare mi arrabbio come una bestia con la televisione. E quel che è successo qualche giorno fa? È drammatico. Si insulta persino una signora come Liliana Segre, scampata ai campi di concentramento, la si obbliga ad avere la scorta».

La moglie diventata «fata di montagna»

È stato al Salone del Libro di Torino a presentare il suo ultimo libro Tre cene. (L’ultima invero è un pranzo), la specifica che tutti dimenticano anche se per Guccini le parentesi sono un gioco importante. Ricordi e ricorrenze. Cene montanare, storie che fanno le fusa come il gatto nero e quello pezzato che girano per casa. Gucciniani anche loro, burberi bonari. Solo Raffaella, la moglie, non è gucciniana: è la professoressa Raffaella Zuccari, sposata a Mondolfo nel 2011, trasformatasi in fata di montagna, compagna del Maestrone dal 1996. Guccini ormai da vent’anni è Pavana. «Tiro un sospiro lasciandola, il meno possibile». 

«Bologna non la conosco più»

Una vita diversa. «Bologna non la conosco più. Ci capito qualche volta per caso. Non mi piace… ho paura del traffico come a Milano, Roma, Torino… C’è tanta gente, non sono abituato. Porretta, il mio riferimento appena al di là del confine bolognese, ha un po’ più traffico di Pavana, ma insomma… Ogni tanto capito da “Vito”, mi dicono non sia più Vito di una volta». Un Francesco rappacificato ora racconta: «Le canzoni principali le ho scritte a Bologna. È l’ambiente cittadino che forgia la gente in un certo modo. Le scuole dei tortellini in brodo e del pesto alla genovese sono diverse. Su Pavana, il paese di mio babbo, dell’infanzia in tempo di guerra, ho scritto il mio primo libro, Cròniche epafàniche, e Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto, il romanzo del ritorno in un luogo che avevo lasciato vivace. Vacca di un caneè Modena, dove sono nato all’ospedale e dove arrivo bimbo. Cittanova bluesè Bologna». Già, dal 1961 in via Massarenti e poi in Paolo Fabbri 43. È qui che Guccini diventa il Maestrone. Nel ’71 sposa Roberta Baccilieri, la prima moglie. Nell’81 scrive Bologna, la «Parigi in minore» del LP Metropolis, con Bisanzio e Roma.

Tra nostalgia e presente

Fa ridere pensandoci adesso? Nostalgia? «Forse malinconia, non nostalgia. Senza memoria un essere umano non esiste, più si va avanti negli anni, più si ricorda gente, momenti. Quando muore un vecchio è come se bruciasse una biblioteca, ci ha insegnato lo scrittore Amadou Hampâté Bâ. Io sarò pedante, in copertina all’album Radici ho messo la foto dei mei bisnonni, quando tutti dicevano di fare tabula rasa. Penso agli avvenimenti passati, alle donne con cui sono stato, agli amici che non ci sono più. Diventi vecchio e anche un poco noioso».

Le confidenze e la musica

«Sono sempre stato curioso - dice - non ricordo chi ha scritto che ci interessiamo alle vite degli altri perché la nostra non ci basta. Mi sono raccontato sempre da solo con libri e canzoni, difficile mi sia confidato. Anche in Tre cene, ci sono tre periodi storici dell’Italia. Il primo racconto era già stato pubblicato in una antologia degli scrittori italiani. E io che sono snob l’ho pubblicato bene bene». E la «tristezza che poi ci avvolse come miele»? «Non accetto la tristezza, le mie non sono canzoni piagnucolose, sono realistiche, sensazioni che si trasformano. Non sono mai stato solo nella vita, non mi sono mai davvero annoiato. Mai sognato di fare il cantautore da grande, ho scritto canzoni per caso, per caso sono arrivato all’ambiente discografico, sono andato avanti. Mai proposto cassette con le mie opere. Già, devo molto a Renzo Fantini, il mio produttore, uno di quelli che non ci sono più». 

«Ho smesso di fumare da tre anni»

Sogni? «Da ragazzino sognavo soldi per sigaretti e libri. Ho smesso da fumare da tre anni, per i libri non ci vedo quasi più. Si cambia molto nel tempo, esternamente e internamente, certe cose fondamentali rimangono, dipendono dall’educazione avuta, come sei cresciuto. Penso di essere rimasto quello che ero, anche se ho avuto un qualche certo successo: un montanaro abbastanza semplice, di cultura discutibile».

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021.

Che cosa direbbe oggi suo padre Ferruccio?

«Direbbe "grazie, ne sono felice, ma nei campi di prigionia non c' ero solo io. Eravamo in tanti lì dentro"».

Era una persona schiva?

«Moltissimo. Ma aveva anche un certo senso della giustizia e riconosceva che quella dei prigionieri di guerra è stata una condizione che ha toccato migliaia di persone. Per intenderci: assieme a lui, nel campo di lavoro in Germania, ce n' erano tremila e più».

A parlare è Francesco Guccini. Tutti lo conoscono come il cantautore che ha scritto canzoni quali L' avvelenata o La locomotiva , ma forse non tutti sanno che è stato anche il figlio di Ferruccio, nato nel 1911, soldato catturato a Corinto dopo l' 8 settembre 1943 e deportato nei campi di Leopoli prima e di Amburgo poi proprio perché si schierò contro il nazifascismo. E ieri, a più di trent' anni dalla morte, gli è stata conferita la medaglia d' onore per non aver aderito alla Repubblica Sociale, assieme ad altri undici cittadini italiani deportati. La medaglia per Ferruccio, consegnata in Prefettura dal sindaco di Bologna Virginio Merola nella Giornata della Memoria, è stata ritirata dalla nipote Teresa, figlia del cantautore.

Guccini, suo padre tornò dopo il 1945 ed è vissuto per quasi ottant' anni, la sua età adesso. Non le ha mai parlato di quell' esperienza?

«No, credo che abbia visto cose talmente disumane da non poter essere raccontate».

Però ha lasciato tracce, magari non verbali.

«Sì, tracce purtroppo perdute nei tanti traslochi della mia famiglia. Come un piccolo quaderno della prigionia. In queste pagine, con una grafia minuta e precisa, nel campo aveva annotato delle ricette. E sa perché? Perché non voleva perdere il ricordo dei sapori, dei profumi buoni».

Con lui, nel campo, c' erano anche Gianrico Tedeschi e Giovannino Guareschi.

«Sì, anche se non si sono mai incontrati con papà. So che con altri lui scambiava ricordi di cibo. Uno diceva: "Sai, una volta ho mangiato quei tortellini...", e tutti gli altri lo incoraggiavano con "Dai, racconta, che sapore avevano?"».

Perché era restio ai riconoscimenti ufficiali?

«Gli facevano piacere, certo, ma non se ne vantava. Pensi che quando lo hanno fatto Cavaliere della Repubblica, mia madre gongolava mentre lui si schermiva. Quando poi è morto, mamma ha fatto incidere il titolo di Cavaliere sulla sua lapide. Mi sono messo le mani nei capelli e le ho detto: "Mamma, ma guarda che ora lui si rivolta nella tomba"».

Ferruccio non parlava volentieri della prigionia, però quel periodo lo ha trasformato. Quali segni ha visto?

«Si vedeva anche da piccoli dettagli, solo in apparenza insignificanti. Pensi che una volta sono andato a suonare in Germania e prima che partissi lui mi disse: "Mi raccomando, quando sei lì assaggia il cavolo rapa, è buonissimo".

E io non capii subito. Dire che il cavolo rapa è una specialità mi sembrò un' affermazione assurda, ma poi ho colto il vero senso di quelle parole».

Perché anche il cavolo rapa, se mangiato in prigionia, diventa buono, quantomeno perché toglie la fame.

«Cercavo di scorgere in lui ogni traccia di sofferenza, ma Ferruccio era bravissimo a dissimulare, a non trasformare quella tragedia in retorica. Quella era un' altra generazione. Per esempio, per tutta la vita si è rivolto a sua madre dandole del "voi"».

Lei ha intitolato «Van Loon» la canzone dedicata a lui. Perché?

«Hendrik Willem van Loon è stato una specie di Piero Angela olandese degli anni Trenta. Un divulgatore, uno di quelli che piacevano a papà. E sa perché? Perché mio padre era nato a Pavana, provincia pistoiese, figlio di un uomo durissimo che voleva metterlo a lavorare al mulino fin da ragazzo. Ma papà voleva studiare, era un giovane curioso. E per fortuna sua madre riuscì a iscriverlo almeno a una scuola professionale, indirizzo perito elettromeccanico».

Ma a Ferruccio non bastava, vero?

«No, perché lui amava la letteratura, l' arte, le materie umanistiche. Si era comprato un' enciclopedia di grossi volumi, leggeva i compendi storici del Barbagallo. Si sforzava di parlare in italiano, aveva delle velleità che io oggi comprendo e che ammiro. E persino quando partì per la guerra meritava un grado superiore che però non richiese mai.

Era fatto così, papà».

·        Francesco Pannofino.

Dagospia l'1 giugno 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Francesco Pannofino è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte alle sei dal lunedì al venerdì notte, tra la mezzanotte e trenta e le due circa in onda anche su Rai 2. L'attore e doppiatore ha parlato delle riaperture dei cinema: "La situazione del cinema? L'apertura parziale di questo periodo coincide con un momento della stagione che è sempre stato difficoltoso, sia per il cinema che per il teatro. Comunque c'è qualche segnale di ripresa, qualcosa si muove, la macchina torna in moto e tante persone tornano al lavoro. E' importante". Sulla sua carriera: "Non ho rivisto tutti i film che ho fatto. Alcune volte per caso, in alcuni casi era proprio meglio non vederli. Capita a tutti di non fare sempre i capolavori, ci sono ciambelle che non escono col buco, che sarebbe meglio non vedere. E invece ogni tanto ricicciano. Titoli? Non me lo ricordo, ho rimosso. Se ritorno indietro nel tempo, penso che mi sono messo in una situazione che non sapevo dove mi avrebbe portato. Anche perché io non vengo da una famiglia di doppiatori o di attori. Per fortuna il lavoro è andato, mi hanno sempre messo alla prova, mi hanno sempre chiamato. Io ho sempre dato il meglio di me stesso". Sulla quarta stagione di Boris: "E' in fase di scrittura avanzata, dovremmo iniziare a girare da qui a poco. E' stata lanciata ufficialmente la quarta serie, io sono pronto a tornare su quel set, c'erano personaggi talmente azzeccati che tante carriere di chi ha preso parte a Boris sono andate avanti anche grazie a Boris. Ormai Boris è entrato nell'immaginario collettivo. Nella carriera di un attore bisogna avere anche la fortuna di capitare in mezzo a serie di questo tipo. Per strada mi dicono 'dai dai dai'. Ci sono mariti che mi passano le mogli per fare la pace". Sulla sua voce: "Continua ad essere abbastanza ascoltata. Molte volte mi chiedono una foto e la faccio. Poi dopo la foto mi chiedono un messaggio audio per il cugino. Poi un video in cui fai gli auguri alla sorella. Ma questo è un aspetto divertente della questione, in realtà fa piacere essere riconosciuti ed avere l'affetto del pubblico. Ci sono mariti che mi chiedono di mandare i vocali alla moglie per far pace. E ci sono donne che si sono innamorate della mia voce. Se qualche volta mi hanno chiesto di fare telefonate erotiche? Sì, ma mi viene da ridere, io ci lavoro con la voce, sono cose che non faccio. Non è proprio nel mio stile. Non ci penso proprio, distinguo la vita dal lavoro. Che faccio, mi metto a fare il figo con la voce? Mi vergogno. Incubi? Qualche volta, quando ero più giovane, sognavo che stavo lì davanti a una porta vuota, con un pallone che arrivava comodo, io non riuscivo a calciare e non riuscivo a far gol. Ora è un po' che non lo faccio più". Su come riuscì a doppiare Forrest Gump: "Fu una faticaccia. Non avevo l'esperienza di adesso, anche se ero nel pieno del vigore fisico. Doppiavo un attore che non avevo mai doppiato. Arrivò questa interpretazione strana, in cui mi dissero che Hanks quella parlata lì la faceva con un forte accento dell'Alabama. Non potevi farlo con un accento italiano, ci voleva un modo di parlare un po' strano, che coniugasse un po' di timidezza e difficoltà di articolazione. E' stata una delle prove più difficili della mia carriera al doppiaggio. I critici quando uscì il film mi riservarono delle critiche feroci. Perché quando fai una cosa diversa destabilizzi i conservatori. All'epoca ci sono rimasto male, ma la gente al cinema piangeva e rideva. Conta il giudizio del pubblico, che mi ha premiato". Sugli haters: "Non ne ho, c'è qualche puzzone, mettiamola così. Io non approfondisco, non rispondo a nessuno, non mi faccio invischiare in polemiche sui social".

·        Francesco Sarcina.

Francesco Sarcina, la confessione-choc: "Mi sono sniffato le ceneri di papà", il giorno più estremo. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2021. Ha deciso di mettersi a nudo, Francesco Sarcina, il frontman delle Vibrazioni. Una vita al limite, per molto tempo, dove sesso e droga hanno dominato, insieme ovviamente alla musica. Si è aperto, ha raccontato tutto, prima a Verissimo ma soprattutto nella sua prima biografia, Nel mezzo, un libro crudo, intimo, in cui l'artista, 45 anni, svela particolari durissimi, scioccanti, relativi alla sue esistenza. Compresi alcuni relativi al padre. "Ero un ragazzino veloce e agile, riuscivo a barcamenarmi. Uscivo di casa e trovavo il cemento, le auto e i ragazzi sui motorini, i pacchi di erba da portare", racconta Sarcina in una intervista a FQ Magazine in cui presenta il suo libro. E ancora: "Mi sono massacrato di alcol e di droghe perché tutto sommato lottavo contro qualcosa. Non mi sento di colpevolizzare nessuno per le scelte che ho fatto. Sono un sopravvissuto", ha aggiunto. Dunque il capitolo sul papà, con il quale il rapporto non è stato semplice: "Mio padre era come me, amava la musica e le donne. C'era una gara conflittuale tra noi. Quando ho realizzato il mio sogno sapevo che era orgoglioso di me". Il papà, poi, è stato colpito da un ictus, una malattia che gli ha stravolto la vita: "Una volta l'ho portato ad un mio concerto e l'ho messo sotto il palco. Non se la stava godendo come avrebbe voluto. Era lì con un mezzo sorriso e mi immaginavo come sarebbe stato se fosse stato nel pieno della sua forma. Si sarebbe ringalluzzito con i suoi amici, sarebbe venuto dietro al palco a rompermi le palle", ricorda il cantante. Dunque quello che forse è l'aneddoto più intimo. E magari doloroso: "Dopo la sua morte ho disperso le sue ceneri in mare. Ricordo perfettamente quel giorno. D'un tratto mentre stavo spargendo le ceneri ed è cambiato il vento, mi è finito tutto in faccia. Mi bruciavano le narici, gli occhi, avevo sniffato le ceneri di mio padre come è successo a Keith Richards dei Rolling Stones. Poi, non so come, le chiavi della mia macchina sono finite in acqua. Insomma mi aveva giocato ancora una volta uno scherzo, mio padre", conclude Sarcina.

Verissimo, Francesco Sarcina e il dramma della droga: "La notte dell'overdose", la confessione che lascia senza fiato. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. A Verissimo Francesco Sarcina si racconta senza freni, senza nascondersi. Senza nascondere nulla. Il cantante delle Vibrazioni, nel salotto di Silvia Toffanin, ha ripercorso i momenti più difficili della sua vita. "Per colpa di un’altra persona della quale ero molto innamorato, che aveva già tentato il suicidio parecchie volte, sono stato trascinato in un buco nero nel tentativo di starle vicino - ha esordito spiazzando lo studio di Canale 5 -. A differenza mia, lei faceva uso di sostanze pesanti. Una volta ho voluto provare anch’io per capire cosa sentisse e per maledire tutta questa situazione. Lei è andata in overdose, io per fortuna non ho rischiato la vita ma è stata una bella mazzata”. Ad aiutarlo a uscire dall'incubo (per il quale ha rischiato anche l'overodese) l'amico J-Ax. Anche lui reduce da una storia simile, lo ha consigliato fino a venirne fuori. "Era felicissimo della chiamata e mi ha detto che il percorso sarebbe stato lungo e complicato perché quel demone ti rimane - ha raccontato -. È una lotta che dura anni. Ora il demone si è trasformato, sono arrivato alla fine ma è stata dura”. Il pensiero va anche all'ex moglie Clizia Incorvaia. "Mi sono reso conto che è facile giudicare gli altri, ma chi lo fa in continuazione è perché ha dei problemi con sé stesso. Penso che dopo un grande amore ci possa essere una grande rabbia, con la speranza però che poi possa arrivare una grande pace, perché bisogna pensare ai figli. I gossip mi hanno fatto sorridere, ho vissuto cose ben peggiori, ma vanno tutelati i figli: ho sofferto molto per loro”. Controversa infatti la loro separazione che ha visto un susseguirsi di accuse reciproche. Ora però sembra acqua passata. Stando alle ultime indiscrezioni Sarcina starebbe vivendo una nuova storia d’amore con una ragazza più giovane di lui. Mentre la Incorvaia convive da mesi con Paolo Ciavarro, il figlio di Eleonora Giorgi conosciuto al Grande Fratello Vip.

Francesco Sarcina: «Ero arrabbiato con la vita e anche il sesso era furioso. Adesso parlo con le piante». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 14/2/2021. A pagina 2 della sua autobiografia, Francesco Sarcina si sta già facendo una striscia di coca nel bagno di un locale notturno. Glielo fai notare e lui: «Se è per questo, nella stessa pagina, e nello stesso bagno, sto anche già facendo sesso con una donna mai vista prima. Credo di aver passato più notti così che nel mio letto». Le 216 pagine scritte dal leader delle Vibrazioni sono un’epopea nera fra droga, sesso compulsivo, risse, alcol e rock ‘n roll. Dedicato a te, Vieni da me, Se, Dov’è sono solo alcuni dei successi che ha scritto, cantato, suonato. Nel mezzo, c’è tutta una vita da romanzo, ci sono la mamma che lo abbandona da adolescente, gli avi «terroni» che includono un bisnonno omicida e un nonno con un proiettile in pancia, un’infanzia con spaccio tra le periferie milanesi della Barona e di Gratosoglio, la musica per non pensare, le band nelle cantine, il padre depresso che poi finisce in sedia a rotelle e lui che deve occuparsene. Ci sono le risse, una fuga all’estero e «il giorno in cui finirono un sacco di cose: un amore, un matrimonio, un’amicizia». Quel giorno lo aveva raccontato al Corriere nel luglio 2019, quando accusò la moglie Clizia Incorvaia di averlo tradito con Riccardo Scamarcio, suo migliore amico e testimone di nozze. «Nel mezzo»è il titolo del libro, edito da Sperling & Kupfer e in uscita il 16 febbraio con la prefazione di J-Ax, che l’ha aiutato a disintossicarsi, e la postfazione di Paolo Ruffini, che scrive «Francesco è bravissimo ad autodistruggersi volentieri, ma è anche bravissimo a rialzarsi».

Sarcina, perché raccontarsi in modo così crudo?

«Quando io e mia moglie ci siamo lasciati, in tv, si è scatenato un salottino di basso profilo. Tutti parlavano di me come se fossi solo la fine di quella relazione e non 25 anni di musica, di palchi sudati. Come se la mia vita non sia, invece, più intensa, drammatica, ricca di soddisfazioni e cadute. Mi ha fatto profondamente male perché sono il papà di due figli a cui devo qualcosa. Nina ha 5 anni e mezzo e temo il momento in cui avrà l’età per leggere su Internet certe cose sul padre. Tobia ne ha 14, l’ho visto soffrire. Gli ho voluto spiegare chi sono e che sono nato in ambienti dove c’erano violenza, droga e dovevi sopravvivere, sapendo picchiare e giostrartela. Gli ho detto: te lo racconto perché il silenzio è pericoloso. Mi ha detto che l’ho sconvolto nel senso buono. Dopo, ho pensato: quasi quasi, scrivo un libro».

Come entra la droga nella sua vita?

«I quartieri in cui sono cresciuto erano di un tale piattume che noi ragazzini guardavamo i più grandi con la voglia di stare dove accadeva qualcosa e lì c’erano solo droga e spaccare auto. Per strada, giocavamo a pallone, ma c’era sempre qualcosa da portare di qua o prendere di là. Quando fai il primo tiro di canna, pur di averne ancora, spacci e non solo. La coca, però, arriva molto dopo, quando già suonavo nelle cantine e il circolo di amici si è ingrandito e sa da chi arrivava? Non dai pezzenti come noi, ma dai figli di papà, quelli con la chitarra più bella, gli amplificatori più moderni».

Sua madre, a un certo punto, se ne va. Che ricorda di quel giorno?

«Sono tornato a casa e ho visto il vuoto, il buio. Fin lì, i miei litigavano, non c’erano soldi, papà si faceva i cavoli suoi, era sempre via, mamma aveva perso il figlio che aspettava ed era rimasta scioccata, ma comunque erano i miei genitori, erano le fondamenta della nostra casa modesta. Invece, quel giorno, loro crollano ed è come se si fosse aperta una voragine in cui sprofondava tutto. Il tempo si è fermato».

Si è fermato anche per suo padre?

«Lo ricordo sempre sul divano liso, stava lì immobile e cambiava la forza di gravità: entrare in casa era come entrare in un buco nero dove tutto si distorce. Per cui, stavo sempre fuori. E più stavo in giro, più tutto peggiorava. Ci hanno dato lo sfratto, ci hanno staccato la corrente per due anni. D’estate, come fai senza il frigo? Mangiavo solo pane e Nutella».

Con sua madre si è riconciliato?

«Anni dopo, mi ha chiamato dalla Puglia: voleva tornare a Milano. Sono andato a prenderla in macchina. Oggi che sono genitore anch’io, so che ha avuto un esaurimento nervoso, capisco come deve essersi sentita».

Quanta rabbia aveva dentro, da ragazzo?

«Ero arrabbiato con la vita e con le donne. Anche il sesso era cattivo, rabbioso. Preso il diploma, facevo il manovale, mi spaccavo la schiena, poi andavo in giro a suonare, rimorchiare e ammazzarmi di canne. Col tempo, alcol e coca hanno preso il sopravvento. L’alcol è la droga peggiore, la più subdola. Però non sono mai stato un tossico depresso, da paranoia. Forse, perché, avevo la musica: per me, scrivere canzoni è una medicina, una seduta di psicanalisi, mi mette a posto».

Com’è, adesso, essere sobri?

«Sento le voci, parlo con le piante e vedo gli spiriti: ho capito che la realtà si percepisce solo nella naturalezza di quello che sei. Ho capito che mi buttavo negli eccessi per staccarmi dalle sofferenze. E che poi mi dicevo che avevo bisogno delle sofferenze perché sulle sofferenze scrivo canzoni. Questo libro mi ha permesso di guardarmi a fondo come non avevo mai fatto».

Come si è disintossicato?

«Mi sono chiuso in casa per cinque mesi. Mi sono legato al letto. J-Ax mi ha suggerito di fare tutti gli abbonamenti a Netflix e simili. L’ho deciso mentre mi stavo separando, il giorno in cui mi hanno detto che forse avevo un tumore: ho sentito dentro così tanta violenza e cattiveria che non ho dormito. Quella notte, non ho visto la mia vita, ma quella dei miei figli. Mi sono detto: di questo passo non avranno un padre o, se lo avranno, starà su una sedia a rotelle per dieci anni, come è successo al mio. Allora, ho deciso di prendermi cura di me. E per fortuna, non avevo un tumore, ma solo un problema alla tiroide».

Oggi, è tutto alle spalle?

«È una lotta che va avanti, ma sono tranquillo. Non sono mai salito sul palco fatto, però sempre con gli strascichi dei giorni precedenti. Il primo concerto da perfettamente lucido è quello al Forum di Assago, nel marzo 2019».

Dal libro, sembra che, fin lì, le notti le ha passate a bere, drogarsi, rimorchiare.

«Fino a sei anni fa, prima di sposarmi, ero conciato così. Poi è arrivato l’amore, uscivo meno con gli amici e stavo più attento, ma tutto è tornato compulsivo quando le cose sono andate male con mia moglie, quando la sua gelosia mi ha risvegliato il demone. Era un continuo di “chi è quella?” e di “sei stato con lei?”. Quando mi sono separato, ho ripreso la vita di prima. Io le donne le dovevo uccidere, masticare, sputare. Ora, non è più così. Ci metto delicatezza, attenzione, poi magari mi innamorerò, accadrà».

Che cosa l’ha fatta cambiare?

«Mia figlia Nina mi ha fatto rinnamorare della femmina».

Col primo figlio, scoprendo che sarebbe diventato padre, era scappato in Messico.

«Di sua madre Diana ero innamorato, ma era un tira e molla, non mi sentivo pronto. Non presi nemmeno la valigia. Andai a Tulum, dove avevo un terreno. Buttai il telefono, sono stato due settimane su una palafitta. Venne a recuperarmi una mia ex messicana».

Perché temeva della paternità?

«Amo prendermi cura degli altri, ma avendo visto la mia famiglia crollare, ho avuto il terrore di costruire qualcosa che poi finisse».

Con Scamarcio si è chiarito?

«No e non mi interessa».

Quando ne parlò, disse che era un’altra sofferenza che le avrebbe fatto scrivere molte canzoni. È andata così?

«Ne ho scritte una valanga, complice la pandemia. Di nuovo, la scrittura mi ha salvato: mi ha proiettato nel bello delle cose quando torneranno belle. Ho scritto sull’amicizia, sulla nostalgia di una tavola in compagnia…».

Il libro è anche un catalogo di risse.

«È come se avessi la violenza nel Dna: un bisnonno era stato in carcere per omicidio per una storia di fascismo; il nonno materno, che si era preso una pallottola in pancia dal fratello, ha menato durissimo fino a 80 anni. Ho tenuto a bada la violenza come potevo, ma non sempre. A un concerto, ho picchiato uno spettatore che faceva gestacci: ero stanco, spremuto da manager senza ritegno. Una volta, ho pestato uno che molestava la fidanzata del mio batterista, l’ho rincorso, gli ho sbattuto la faccia per terra, gli ho tirato calci in faccia, mi è partita una furia del diavolo».

Distrusse la Mercedes dei suoi discografici al primo singolo.

«Finalmente, dopo anni di sacrifici, usciva Dedicato a te e, sul lato B, non volevano mettere Sani Pensieri. Dicevano che era troppo rock, spaventava le casalinghe. Andiamo a firmare il contratto e scopro che sul lato B avevano messo Dedicato a te fatto col mandolino. Prendo l’auto di mio padre, che fra l’altro aveva appena avuto un ictus, vedo la macchina del direttore marketing, accelero e le vado addosso».

La rabbia era anche per il male di suo papà?

«È finito in ospedale una settimana prima che Dedicato a te uscisse e facesse il botto. La rabbia sa quale è? Che mi aveva sempre dato del pirla e io non potevo fargli vedere che ce l’avevo fatta e dirgli: il pirla sei tu. La rabbia, per dieci anni, è stata che finalmente avevo successo ma, ogni volta che salivo su un palco, mi sentivo in colpa perché non ero accanto a mio padre invalido».

Perché il titolo «Nel mezzo»?

«Perché oggi la gente vive sui social, ma la vita vissuta è un’altra. Io ho fatto il Servizio civile lavorando coi bambini malati. La gente giudica, pensa di sapere tutto degli altri, ma fra quello che pensa di sapere di me e quello che gli arriva di me, nel mezzo, che cosa c’è?».

·        Franco Oppini.

DA leggo.it il 16 luglio 2021. Franco Oppini, il segreto hot: «Il mio segreto con Ada Alberti? Facciamo sesso 8 ore al giorno...». In un'intervista al settimanale Nuovo, l'ex marito di Alba Parietti ha rivelato un dettaglio molto intimo della sua vita matrimoniale con Ada Alberti. L'attore è sposato da 18 anni con la nota astrologa e la passione sembrerebbe più viva che mai. «Il nostro segreto? - spiega Oppini alla rivista - è fare l’amore per otto ore al giorno. Una buona intesa dovrebbe essere alla base di ogni rapporto». Otto ore sono decisamente tante, soprattutto se durante il giorno bisogna fare anche altre cose. Ma Ada Alberti conferma la versione hot del marito: «Tra noi c’è stata fin dall’inizio una passione bruciante». Le dichiarazioni piccanti dell'attore fanno il giro del web.

·        Franco Trentalance.

Claudio Cumani per quotidiano.net il 26 novembre 2021.

Sia Franco, quanto sono state gelose le sue fidanzate per via del lavoro?

"Fidanzate vere ne ho avute poche, ma – se la ride Trentalance, bolognese, 54 anni, ex attore porno con 440 film hard in carriera e almeno 950 scene di nudo alle spalle – quelle poche le ho sempre fatte venire sul set perché capissero quanto tutto fosse faticoso. Alla fine se ne andavano serene".

Sarò Franco - Una vita un po’ porno si intitola appunto il docufilm di Alessio De Leonardis che da ieri è nelle sale italiane e che, oltre a ripercorrere i vent’anni bollenti di Trentalance (dal 1998 al 2018), rievoca la golden age dei film hard, dalla pellicola al vhs, dal dvd a internet.

Cominciamo dall’inizio: perché ha deciso di essere porno-attore?

"Ho sempre fatto lavori che mi mettessero a contatto con le ragazze come il barman in discoteca o l’animatore nei villaggi turistici. A Cattolica ho conosciuto, grazie a una mia ex, un regista di film hard. L’ho inseguito per nove mesi e alla fine mi ha fatto debuttare".

E come l’ha presa la sua famiglia?

"Non è stata ovviamente contenta, ma volevo assolutamente seguire una strada. E così è stato".

È mai stato sposato?

"Non ci sono mai nemmeno andato vicino. Conosco la mia natura e ho sempre compiuto le scelte seguendo, per così dire, una certa vocazione".

Quanto è cambiato il porno nel tempo?

"Oggi internet contiene solo clip senza trama e questo rende tutti, attori e registi, anonimi. Un tempo, invece, i film avevano una storia, c’erano i costumi, le location... Noi giravamo gli interni a Budapest, Barcellona o Praga, ma gli esterni si facevano a Firenze, Venezia o Roma. Arrivavano apposta le attrici dall’estero per quelle riprese".

Perché ha smesso?

"Dopo tanto tempo mi sono stancato e ho deciso di ritirarmi all’apice della carriera, come ogni sportivo che si rispetti. Faccio altre cose, sono mental coach, scrivo libri, produco vino... Tantissimi ragazzi mi chiedono consigli anche su Instagram".

Non ha mai provato imbarazzo per il suo lavoro?

"Mai, anche se magari l’ho creato in qualcuno. Del resto non ho ostentato nulla in nessuna occasione. E comunque, in quel che ho fatto, sono stati più i vantaggi che gli svantaggi".

Ma sul set gli attori s’innamorano come capita nelle pellicole romantiche?

"Molte attrici sono fidanzate e solo ogni tanto nasce qualche relazione. Poca roba, però. Anch’io qualche cotta me la sono presa, ma poi mi sono reso conto che con una fidanzata pornostar a casa non avrei mai fatto l’amore a causa del lavoro".

Cosa pensa di Rocco Siffredi?

"Sono stati i giornalisti a mettere zizzania, quasi fossimo Vasco e Ligabue. Devo dire che, nonostante Rocco mi abbia fatto lavorare agli inizi in due suoi film, siamo tutto meno che amici. Due galli in un pollaio...".

Perché Moana Pozzi è diventata una icona?

"Perché era brava, intelligente e ha avuto la fortuna di essere tra le prime pornostar italiane, mentre Cicciolina era ungherese. Ha fatto tv, cinema...".

A proposito di Ilona Staller, lei non è tentato dalla politica?

"Il pensiero non mi ha mai sfiorato". 

Quello di Cicciolina è erotismo d’antan?

"Come nello sport, ognuno fa quel che vuole. Adesso sono cambiati i ritmi, è tutto più veloce. Anche perché ci sono aiutini che un tempo non esistevano".

Le sono capitate disavventure sui set?

"Le racconto nel libro ‘Ritrarre con cura’. Una volta ad esempio stavamo girando su una barca in mezzo al mare a Palma di Majorca quando il mare si è ingrossato: io e l’attrice abbiamo continuato diligentemente la scena aggrappandoci ovunque, ma quando abbiamo alzato gli occhi il regista e il cameraman erano spariti per ripararsi all’interno. Un’altra volta in un fienile di Barcellona faceva talmente freddo che non sono riuscito a completare la scena".

Cosa l’emoziona ancora?

"Guardi, ho avuto successo, fatto soldi, ho scritto cinque libri e una graphic novel, sono stato spessissimo in tv, ma non c’è nulla di più bello di una ragazza".

·        Frank Matano.

"Io e Diego Abatantuono due generazioni di risate". Pedro Armocida il 30 Ottobre 2021 su Il Giornale. La coppia di comici al cinema con "Una notte da dottore" girato nella Roma del lockdown. È già nelle sale, distribuito da Medusa, Una notte da dottore con la regia di Guido Chiesa, divertente commedia degli equivoci che vede per la prima volta insieme la formidabile coppia composta da Diego Abatantuono e Frank Matano. Remake, cotto e mangiato, del film francese Chiamate un dottore! di Tristan Séguéla uscito lo scorso anno, Una notte da dottore mette in scena le divertenti e strane notti del rider Mario (Matano) diventato dottore per caso al posto del medico notturno Pierfrancesco Mai (Abatantuono). Grazie all'aiuto dell'auricolare che lo tiene in collegamento con il dottore, Mario diventerà un «vero» medico per qualche notte: «Ho visto il film originale - ci racconta Frank Matano - e alla fine penso che abbiamo fatto un adattamento migliore anche per il lavoro pazzesco di regia di Guido Chiesa».

Com'è andata con Abatantuono?

«Diego è uno dei nostri più grandi attori che sa lavorare sul registro sia drammatico che comico».

Si fa fatica a capire chi dei due è la spalla comica dell'altro.

«Sarà perché siamo molto uniti. Ci conoscevamo, abbiamo condiviso tante volte il tavolo per mangiare, e già lì mi faceva morire dal ridere, ma non eravamo mai stati su un set insieme. Ci siamo molto parlati e aiutati durante le riprese».

C'è stato spazio per l'improvvisazione.

«In realtà abbiamo fatto tante letture della sceneggiatura prima delle riprese. In quella sede abbiamo avuto la possibilità di intervenire. Ma una volta chiuso lo script, sul set non si improvvisa».

I suoi tempi comici molto peculiari sono una dote particolare oppure frutto di uno studio?

«Chi, per mestiere, vuole far ridere le persone pensa molto a questa cosa. Direi che è più un mix, capita che utilizzi le tue esperienze ma che poi all'improvviso tiri fuori un asso dalla manica».

Avete girato a Roma sempre e solo di notte.

«Sì, peraltro durante il lockdown. È stato incredibile perché so bene quanto Roma sia rumorosa mentre stavolta non c'era nessuno. Sembrava di stare su uno di quei set pazzeschi americani con le città finte. Credo poi che questo aspetto un po' spettrale abbia dato una nota di positiva malinconia».

La vostra coppia fa trasparire anche il tema della paternità.

«Con Diego siamo di due generazioni diverse, facciamo lo stesso mestiere ma io ho molta meno esperienza di lui. Così si è creato quasi un gioco, lui mi dava consigli e io magari gli davo entusiasmo con battute stupide delle mie».

Vorrebbe diventare padre?

«S'è fatta pure ora» (ride - ndr).

Quanti anni ha?

«Trentadue. Comunque con la mia compagna ci stiamo seriamente pensando».

Si aspettava lo straordinario successo quest'anno del programma Amazon Prime «LOL - chi ride è fuori»?

«Macché, sarà stato grazie a un allineamento dei pianeti, a energie che si mischiano, a un momento storico perfetto. Comunque noi ci siamo divertiti come pazzi e quando l'ho rivisto, lo giuro, non ho mai riso così tanto in vita mia».

E poi c'è la nuova stagione di Italia's Got Talent su Sky.

«Abbiamo appena finito le audizioni, è un programma che mi diverte tantissimo, mi fa sentire a casa. D'altro canto - che impressione!- è già il settimo anno che lo faccio, per fortuna ora tra noi giudici è arrivato Elio che ci ha regalato tantissimo».

Tra tv e cinema che cosa preferisce?

«Danno emozioni diverse ma le stesse soddisfazioni. Con il cinema non hai il riscontro immediato del pubblico e l'emozione è quindi posticipata mentre, con la tv, l'adrenalina viene dal dubbio se te la caverai o meno in tempi molto ristretti». Pedro Armocida

·        Gabriel Garko.

Da "Chi" il 20 aprile 2021. «Sono giorni che lavoro incessantemente, che mio papà non sta molto bene e che il mio nome riempie le pagine dei giornali. Ciononostante sono sereno, ma non nascondo che non è facile sopportare questa gogna mediatica». Gabriel Garko è un fiume in piena nell'intervista verità che ha rilasciato in esclusiva al settimanale “Chi” in edicola da mercoledì 21 aprile. La gogna alla quale l’attore fa riferimento riguarda sia l’Ares-Gate, lo scandalo sulla presunta setta che ruota attorno al produttore Alberto Tarallo e al suicidio di Teodosio Losito (ex di Tarallo), che un’intercettazione con Ana Bettz, al secolo Anna Bettozzi, arrestata con l’accusa di aver riciclato denaro, attraverso sue società, per conto della famiglia di camorra dei Casalesi e di frode fiscale. «Ho detto a chi di dovere tutta la verità”, spiega Garko che è stato ascoltato dalla Procura di Roma come persona informata dei fatti nelle indagini legate al suicidio di Losito.,  «Non ho altro da aggiungere e spero che presto, nel bene o nel male, si faccia luce su questa brutta vicenda. È assurdo che la vita mi riporti, in continuazione, al passato quando io ho solamente voglia di guardare avanti». «Non si scherza con la vita delle persone», ammonisce l'attore. «Ma oramai ci sto facendo il callo: negli anni mi hanno dato dell’attore di serie B, della “mignotta”, del rifatto, del gay per convenienza. È assodato che il mio personaggio venga sempre visto in un altro modo e me ne accorgo ogni qual volta incontro qualcuno. È oramai un classico la frase: “Ti facevo diverso”». A Massimo Giletti che nella trasmissione “Non è l'Arena” ha inserito il su coming out  di Garko al GFVip come avvenimento di un periodo non propriamente fortunato, risponde: «Mi ha lasciato sgomento perché in un periodo come questo, dove si discute ogni giorno del ddl Zan contro l’omotransfobia, le parole fanno la differenza. Il mio coming out ha solo migliorato la mia vita. Il giorno dopo avevo paura a uscire di casa. Mi sentivo nudo. Invece sono stato accolto da un calore mai avvertito prima. C’è gente che ancora oggi mi ringrazia di averle dato la forza e il coraggio di replicare il mio percorso e altra che, da quel momento, mi apprezza ancora di più». Riguardo al caso che lo ha collegato ad Anna Bettz, la cantante ed ereditiera accusata di legami con la Camorra per contrabbando di carburanti . «La signora  e io ci siamo conosciuti per motivi professionali qualche anno fa», spiega Garko « Avrei dovuto girare uno spot pubblicitario che, alla fine, non è mai stato realizzato perché il progetto non mi convinceva. Non c'erano presupposti perché mi accorgessi delle sue frequentazioni e se mai me ne fossi accorto, avrei interrotto ancor prima ogni contatto». Alla domanda se il suo coming out abbia in qualche modo intaccato la sua carriera, Garko risponde: «Sto vagliando diverse proposte e a breve inizieranno le riprese di un film dove reciterò assieme a Nicolas Cage, Eric Roberts e John Malkovich. I cliché che un attore omosessuale smetta di lavorare non hanno più motivo di esistere».

Andrea Ossino e Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 marzo 2021. «Gabriel Garko è nel periodo giusto della sua vita, ora ha forza di potersi permettere di dire la verità. E lo ha fatto parlando con la procura». Gabriele Rossi conosce le dinamiche che ruotano intorno alla Ares Film. Ha lavorato con la casa di produzione un tempo gestita dal duo Alberto Tarallo - Teodosio Losito: «Era la mia seconda serie, "L' onore e il rispetto" - dice - poi mi è stato proposto di firmare il loro tipico contratto, ma mia madre mi ha fatto aprire gli occhi. La libertà rispetto alle scelte lavorative era deviata dalle esclusive che mi chiedevano. Non ho accettato e al mio personaggio è stata tagliata la testa». L' attore da poco è stato paparazzato in compagnia del responsabile comunicazione del Movimento 5 Stelle, Rocco Casalino. Gli scatti che immortalano i due mentre passeggiano tra le vie di Roma sono stati pubblicati nella copertina di "Chi" e hanno dato il via al gossip. Ma Rossi è anche noto per essere stato il compagno dell' attore Gabriel Garko. Ed è proprio a quest' ultimo che il sostituto procuratore Carlo Villani (che indaga sulla morte di Losito) ha chiesto cosa accadeva tra i corridoi della casa di produzione. Garko potrebbe conoscere la verità. E probabilmente anche Rossi: «Ho opinioni chiare, ma non le espongo», risponde. Se si tratta di fatti penalmente rilevanti lo decideranno i magistrati. Ma intanto sono diversi gli attori che criticano le modalità con cui l'azienda cinematografica, fallita nel febbraio del 2020, sarebbe intervenuta anche nella sfera privata delle star contrattualizzate. «Non so cosa accadeva alla Ares, con Teo ho avuto un breve rapporto lavorativo e poi ci siamo persi di vista - dice Vladimir Luxuria - Nel nostro ambiente sappiamo molte cose, io ho scelto di agevolare il coming out ma di non dire mai gli orientamenti sessuali altrui. Nel mondo dello spettacolo esistono unioni di copertura. C' è ancora chi pensa che se tu dici di essere gay perdi una fetta di fan o potresti avere problemi sul lavoro». L'indagine appurerà se le dinamiche interne all' azienda possano avere a che fare con il suicidio di Teodosio Losito, il cui corpo è stato ritrovato il 9 gennaio 2019 dai carabinieri, nella casa di Zagarolo dove lo sceneggiatore viveva con il produttore Alberto Tarallo. Sicuramente Losito al momento della sua morte affrontava un periodo difficile. La casa di produzione più prolifica di Mediaset aveva dimezzato quei 7 milioni di telespettatori racimolati ai tempi degli esordi della fiction " L' onore e il rispetto". La quinta stagione era stata deludente. Il tocco vincente, capace di coniugare l' estetica e la bellezza dei protagonisti delle produzioni Ares ( Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Giuliana De Sio, Virna Lisi) con tematiche forti, immagini talvolta eccessive e personaggi caricaturali dalla moralità contrastante non ipnotizzava più gli spettatori. I critici contestavano " l'estetica queer". E Losito disprezzava « lo snobismo dei critici che in passato hanno ucciso il cinema e ora ci provano con la televisione». Gli incassi diminuivano. Il format non funzionava più. Gli attori si ribellavano. E quel giorno di gennaio, con una sciarpa della madre appesa al termosifone del bagno, la fine di Losito è sostanzialmente coincisa con quella di una delle case di produzioni più importanti d' Italia.

Ida Di Grazia per leggo.it il 7 dicembre 2020. Gabriel Garko si confessa a Non è la d'Urso: «La storia con Manuela Arcuri era vera», lei reagisce così. Più di 10 anni fa i due attori hanno avuto una relazione durata 5-6 mesi. La Arcuri ha sempre detto di essere rimasta male non tanto per la fine della storia, ma di aver scoperto che dopo tutti questi anni era tutto finto. Ospiti a Live non è la D'Urso Manuela Arcuri e Gabriel Garko. I due hanno avuto una relazione più di 10 anni fa, la Arcuri era ignara dell'orientamento sessuale di Garko ed ha sempre pensato che la loro fosse una vera relazione. «Io continuavo a credere quello che lui mi ha fatto credere - spiega la Arcuri - ma la cosa più grave per me è che ha detto che le sue storie erano finte (con Adua ed Eva Grimaldi ndr.) e studiate a tavolino. Visto che nelle sue storie ero compresa anch’io, ho pensato lo ha fatto anche con me? Ho pensato di essere stata usata, però mentre le altre lo sapevano, erano complici, io no». Gabriel Garko ammette che la storia con la Arcuri era vera: «Io con lei non mi sono comportato in maniera falsa, poi mi sono reso conto dopo “dove vado?”, Io avevo una vera storia con lei, fine. Con il mio compagno è arrivato tutto dopo. Ero talmente nauseato che andavo sui giornali per le mie storie finte che ho sempre protetto quelle vere. A me lei piaceva tanto. Non me lo ricordo perché ci siamo lasciati. Avere una relazione quando sei sotto i riflettori non è semplice». Barbara D'Urso chiede a Garko se è vero che ha avuto il Covid e lui conferma tutto: «Sì, l'ho avuto. Me lo sono beccato. Ho passato dieci giorni in quarantena. Non sono stato malissimo. L'ho curato. Sinceramente in quel momento non l'ho detto perché c'è gente che ha sofferto veramente per questo motivo. Ora lo hai detto tu e lo confermo. So che ora sono immune, così mi hanno detto. Non so per quanto. Anche se sono tranquillo, metto sempre la mascherina. Non vedo l'ora di fare un falò di mascherine quando sarà tutto passato».

Grande Fratello Vip, Gabriel Garko: "Costrizioni di un agente?", gira una voce in casa sul coming out. Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. Al Grande Fratello Vip è stata la serata di Gabriel Garko, che rivelando il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito, si è finalmente liberato di un grosso peso. La mossa spacca-share di Alfonso Signorini assume un significato tutt’altro che banale non solo per il peso del personaggio che ha fatto coming out, ma anche perché è arrivata proprio nella settimana delle rivelazioni inquietanti che Adua Del Vesco e Massimiliano Morra hanno fatto su una certa casa di produzione. Quest’ultima accomunava i due concorrenti del GF Vip a Garko, che tra l’altro in passato era stato accreditato di una relazione con Adua: ieri sera l’attore ha svelato che tra l’altro c’è stata una favola, ma fatta solo di amicizia. “Secondo me lo avrebbe fatto anche prima, se solo avesse potuto”, è stata il commento di Stefania Orlando che, pur essendo all’oscuro di quello che i social hanno definito l’Ares Gate, ha sostanzialmente inquadrato la situazione descritta da Adua e Massimiliano e fuori dalla casa. “Magari potrebbe aver subito delle costrizioni di un agente - ha aggiunto la Orlando conversando con altri inquilini della casa - magari aveva una clausola di lavoro, una volta le mettevano”. Chissà che qualche risposta in merito non possa arrivare proprio dal diretto interessato, dato che Garko sarà ospite di Silvio Toffanin a Verissimo: l’appuntamento è per sabato 3 ottobre e di sicuro sarà da non perdere. 

Grande Fratello Vip, Massimiliano Morra nominato dopo Adua Del Vesco: “Si sono messi d'accordo”, strana coincidenza. Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. “Secondo me si sono messi d’accordo”. Antonella Elia ha avanzato un sospetto sulla nomination di Massimiliano Morra, che al Grande Fratello Vip rischia l’eliminazione dopo aver ricevuto ben sei degli otto voti disponibili. Secondo l’opinionista del reality di Canale 5 si tratterebbe di una strategia degli altri uomini della casa: “Morra è quello che cazzeggia di meno, che è più introverso”. E per questo sarebbe stato nominato in massa: la strana coincidenza notata da molti telespettatori del GF Vip è che oltre a Morra sia a rischio eliminazione anche Adua Del Vesco, che invece è stata nominata dalle concorrenti donne. Una coincidenza perché gli inquilini della casa non possono sapere lo scalpore mediatico che ha suscitato il cosiddetto Ares Gate, ovvero il caso nato per via di una chiacchierata tra Adua e Massimiliano che riguardava una casa di produzione che li aveva visti coinvolti lavorativamente assieme a Gabriel Garko. Comunque appare difficile che i due possano davvero uscire nel corso della puntata di lunedì prossimo: al televoto dovranno vedersela con Francesca Pepe e Fulvio Abbate, con quest’ultimo che è il principale indiziato a lasciare la casa. 

Jonathan Zacconi per davidemaggio.it il 25 settembre 2020. Mediaset ha cancellato l’AresGate dai suoi programmi. Dopo la presunta diffida che vorrebbe impedire a Canale 5 e a tutte le sue trasmissioni di parlarne, la notizia è che Mediaset ha scelto di eliminare dal suo sito, MediasetPlay, i talk di Pomeriggio Cinque e Mattino Cinque in cui è stato affrontato l’argomento. A subire il primo taglio è stata la puntata di Pomeriggio Cinque in onda martedì. Grazie all’aiuto dell’orario in sovrimpressione nel programma si può notare come sia stato tagliato il talk sulle rivelazioni di Adua Del Vesco  e Massimiliano Morra all’interno della casa del Grande Fratello Vip. In un attimo si passa dalle 18:18 alle 18:25, saltando i 7 minuti “incriminati” (Barbara D’Urso dice: “Parliamo ora di un’altra cosa seria – e poi continua ‘dopo il salto’ - Tommaso Zorzi“). Stessa sorte per la puntata in onda mercoledì pomeriggio in cui sono stati tagliati 8 minuti di talk, passando dalle 18:14 alle 18:22. Anche la puntata di Mattino Cinque di mercoledì ha subito un taglio: il contenitore, condotto da Federica Panicucci, ha dedicato 4 minuti all’argomento, dalle 10:16 alle 10:20, che ora non sono più visibili (Lory Del Santo in quei minuti parlava di un’attrice scomparsa). I programmi Mediaset non hanno più accennato alla vicenda che vede coinvolta la Ares Film probabilmente dopo la diffida che avrebbe fatto Alberto Tarallo. Tutto questo timore sull’argomento non fa altro che accendere sempre più i riflettori sulla vicenda, quanto mai complicata, in attesa che la verità venga svelata e resa pubblica.

Dal profilo di Gabriel Garko:

Sono sicuro che sentirete delle cose che non vorreste sentire...

Sono sicuro che molta gente giudicherà...

Sono sicuro che tante persone non capiranno....

E sono sicuro che per me sarà dura, molto dura...

Ma l’unica cosa che posso promettervi e che da me avrete solo la verità...

La dichiarazione. Gabriel Garko sorprende tutti e fa coming out al Gf Vip: “Era il segreto di pulcinella”. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2020. Lacrime, abbracci e grande sorpresa per la dichiarazione di Gabriel Garko al Grande Fratello Vip 5. Nel corso della quarta puntata del reality condotto da Alfonso Signorini, il celebre attore è entrato nella casa più spiata d’Italia lasciando tutti senza parole. Quest’anno, infatti, tra i partecipanti allo show c’è la sua ex fidanzata Adua Del Vesco, alla quale ha letto una lunga lettera davvero emozionante. Sebbene il contenuto non sia stato molto esplicito, Garko (il cui vero nome è Dario Oliviero) ha parlato di un “segreto di pulcinella” con chiaro riferimento ad un “coming out”. Da anni, infatti, si vociferava sulla probabile omosessualità dell’attore, ma da lui non era arrivata nessuna conferma. Una delle sue ultime interviste rilasciate a Mara Venier nel corso della trasmissione Domenica In, aveva destato molti sospetti e curiosità per il modo vago con cui Garko parlava della sua vita sentimentale. Il clamoroso momento è arrivato solo mesi dopo nella casa di Cinecittà, dove l’attore ha dichiarato di “aver ritrovato il bambino che era dentro”. Ma i motivi sarebbero ancora più profondi. Negli ultimi giorni Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, che in passato sono stati fidanzati, hanno svelato alcuni retroscena imbarazzanti e a tratti sconcertanti del loro percorso con la Ares film, la casa di produzione delle maggiori fiction di punta della Mediaset. I due si sono aperti a confidenze molto intime che avrebbero svelato un sistema equivalente ad una vera e propria setta, tanto da far scoppiare il caso dell’Ares Gate. Tra i personaggi coinvolti ci sarebbe anche Gabriel Garko, motivo per cui ha deciso di intervenire al Grande Fratello Vip non solo per dare la sua solidarietà ad Adua ma anche per svelare il suo “segreto di pulcinella”.

LA LETTERA – Non appena ha messo piede nello studio, Gabriel Garko ha subito tenuto a spiegare che la serata non era per nulla facile da affrontare: “Ho preparato una lettera molto lunga per Adua. Ci siamo visti un mese fa l’ultima volta. Siamo rimasti molto amici. Non penso di potermi permettere, nonostante il lavoro che faccio, di gestire determinate cose, per questo ho preferito scrivere una lettera. Ci sono momenti in cui ho vissuto e momenti in cui sono sopravvissuto. Ma tutto ciò mi ha reso molto forte”. Poche parole ma intense, prima di pronunciarne altre all’interno del giardino della casa. L’attore, visibilmente commosso, non è riuscito a trattenere le lacrime mentre leggeva la lettera alla Del Vesco: “Adua, Rosalinda, tu non mi hai mai chiamato Dario. Dario è un ragazzo che ho ucciso e che voglio riportare in vita. Lo so che alcune cose che sto per dirti saranno una sorpresa per te, non perché non le sapessi ma perché lo farò qui e ora. Noi due insieme abbiamo vissuto una bellissima favola, bella ma una favola. Nelle favole c’è chi le scrive e chi le interpreta e non so chi si diverte di più. Tu ti sei divertita? Neanche io. Ti voglio dire una cosa che ho fatto anche io. Devi prenderti cura della bambina che è dentro di te e capire in quale momento della vita l’hai persa. Io ho ritrovato il bambino dentro di me, il momento in cui l’ho abbandonato e gli ho fatto percorrere mano nella mano tutta la mia vita fino a oggi. Ti dico la verità. Io al bambino, i momenti brutti non glieli ho fatti vedere. Gli ho coperto gli occhi. Non farli vedere nemmeno tu alla tua bambina. Il mio bambino si è accorto che non ero felice. Ti ricordi quando a Sanremo ti ho detto che volevo fare di testa mia, lì ho iniziato a vivere, ho detto la mia vera età, ho ritrovato il bambino dentro di me. Da allora non sono più riuscito a indossare una maschera. Qui avete avuto una sirena, la sirena canta, ti ammalia e poi non ti lascia respirare più. Il mio bambino mi ha tolto la catena, lascia che anche la tua bambina la tolga a te. Abbiamo vissuto una bella favola e la vivrei mille volte. Ma era una favola. Ora però vorrei vivere la mia vita. Con te come amica. Esiste un’altra favola che ho vissuto da solo e che tanti chiamano il segreto di pulcinella. Vorrei poter dire perché è stato un segreto. La verità scavalcherà ogni segnale di omertà”. L’abbraccio tra Adua e Gabriel è scattato non appena l’attore ha terminato le ultime parole. Ma a rompere il silenzio ci ha pensato Signorini, che ha chiesto a Garko come mai non avesse parlato chiaramente di un coming out e se questo “segreto di pulcinella” sia quello che tutti hanno interpretato. L’attore si è affrettato a dire che “nel 2020 questa cosa non vada né capita, né discussa. Io vorrei dire perchè questo è un segreto. Esco da questa casa con il mio bambino per mano”. E che ne parlerà in maniera approfondita in altra sede, che con molta probabilità sarà lo studio di Verissimo il prossimo 3 ottobre.

Da "liberoquotidiano.it" il 10 ottobre 2020. Record di insulti in diretta tra Patrizia De Blanck e la marchesa Daniela Del Secco d'Aragona al Grande Fratello Vip. Le due nobili fumantine, tra cui non è mai corso buon sangue, sono state riunite da Alfonso Signorini nel giardino della casa di Cinecittà e sono volate contumelie. "Qua dentro tu mi hai solo infamata… Dovresti evitare di utilizzare un certo tipo di linguaggio…Sei una grande buffona…", ha esordito la Del Secco. "Io ti consiglierei di rimanere qua dentro il più possibile perché fuori si è scatenato l’inferno contro di te… Dalla D'Urso parlano della tua falsa nobiltà…", infierisce ancora la marchesa. "Non ti consento di toccare la mia famiglia…!", è la pronta reazione della De Blanck, che la Del Secco colpisce ancora sul vivo: "Il figlio adottivo di Marina Ripa di Meana ha detto che non ti lavi… A Roma vieni chiamata ciavattara… Dovresti cambiare galassia…". Patrizia ha chiuso la tensione con due sole parole: "Vaffanculo stronza". 

·        Gabriele e Silvio Muccino.

Non lo vedo da 14 anni, la verità di Muccino sul fratello Silvio. Giorgia Peretti su Il Tempo il 31 ottobre 2021. “Non lo vedo dal 2007, dopo questo tempo si elabora una sorta di lutto”, così Gabriele Muccino parla del rapporto con il fratello attore Silvio in un’intervista a Domenica In, il 31 ottobre. Il regista di “A casa tutti bene” e “La ricerca della felicità” è ospite di Mara Venier per promuovere la sua biografia “La vita addosso. Io, il cinema e tutto il resto”. Una lunga chiacchierata nel salotto di Rai Uno, dove Muccino ripercorre la sua infanzia, i suoi successi e il rapporto burrascoso famigliare con il fratello minore, Silvio. Contrasti che hanno portato i due a fronteggiarsi in tribunale. Più di un decennio di astio, tra recriminazioni private e accuse pubbliche, Gabriele Muccino ha ammesso: “Ne parlo nel libro per la prima e ultima volta perché è molto doloroso. Ho messo nero su bianco esattamente come sono andate le cose dal punto di vista giuridico, perché lui ad un certo punto ha detto delle cose molto gravi. Almeno sul libro c’è una verità che è inoppugnabile, sono due pagine su 300. È accaduto un allontanamento che ha deciso di avere verso i miei genitori, me e poi verso coloro con cui aveva fatto dei film. È stato inspiegabile”. Ai microfoni di “Domenica In” racconta di non avere più rapporti con il fratello da più di 14 anni ma che non voleva parlare della dinamica perché “non volevo che ci si abbassasse al gossip becero ed ho lasciato che fosse lui a parlarne”. I due hanno perso i rapporti da molto tempo e Muccino paragona la distanza dal fratello ad un “lutto” che dopo molto tempo è riuscito a superare. “Quel lutto e quel dolore sono passati la sofferenza che ho provato è stata lancinante per la mia salute. Dopo tanti anni, si sono sviluppati degli anticorpi talmente forti che mi hanno fatto superare quel dolore”, prosegue il regista (accusato dal fratello di essere violento e aggressivo nda). La Venier sottolinea come Gabriele abbia cercato di aiutarlo: “gli hai offerto un bellissimo ruolo, anche ultimamente”. “Ho fatto di tutto, non puoi salvare chi non vuole essere salvato, aiutato né incontrato”, ha spiegato. L’argomento però commuove ancora Muccino che ha raccontato di averne parlato in poche pagine del suo libro per mettere per iscritto la sua verità ma di non voler approfondire più l’argomento.

Gabriele Muccino: «La rottura con mio fratello Silvio come un lutto. Dal 2007 non vede i nostri genitori e nostra sorella». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera l’8 Ottobre 2021. Il regista si mette a nudo con un’autobiografia, dove racconta di Will Smith e Mike Bongiorno, Tom Cruise e «L’ultimo Bacio». E il dolore del distacco dall’attore. Will Smith e Mike Bongiorno, la banda di attori e amici de «L’Ultimo bacio» e la lezione di baseball di Tom Cruise, Minoli e Monicelli, i David mancati e l’uso dei social network, la rottura con il fratello Silvio e l’amicizia fraterna con Domenico Procacci, la prima serie tv e i film mai realizzati, le puntate di «Un posto al sole» e il festival di Sanremo. Gabriele Muccino si racconta a cuore aperto nell’autobiografia, «La vita addosso», realizzata con Gabriele Niola (Utet editore, 17 euro, 307 pagine). «Una lunga cavalcata di 24 anni, metà in Italia e metà in America, a cavallo di due culture molto diverse. Ho aperto ogni file della memoria in modo onesto».

A cominciare dalla tv.

«Ci sono arrivato grazie a mio cugino, che lavorava a Mixer. Mostrò a Minoli i miei corti e me ne commissionò tre uno sull’innamoramento, sula gelosia e sulla separazione. Poi per cinque mesi ho fatto Un posto al sole. La tv è stata una palestra, l’obiettivo sempre stato il cinema».

«L'ultimo bacio» in tv : la coltellata (vera) durante il litigio, il remake statunitense e gli altri 6 segreti del film

«Ecco fatto», poi «Come te nessuno mai», il successo con «L’Ultimo bacio».

«Fino a Come te nessuno mai ero visto ancora giovane promessa, guardato con attenzione e una sorta di affetto da Monicelli, Scola e Suso Cecchi, poi quel film rompe l’incanto. Come se avessi fatto troppo e troppo lontano da quello che loro riconoscevano come cinema italiano. Io cercavo il mio modo di fare cinema. È stato il film che ha scompaginato, scatenato gli animi. Non era chiari che etichetta mettermi addosso, non assomigliava a nulla. questa incapacità di capire che tipo di cinema facessi è stato motivo per cui ho avuto molto successo e molti detrattori. Vinse il Sundance, è restato nelle sale per sei mesi, ha incassato 33 miliardi di lire in anni in cui andavano Pieraccioni e Aldo Giovanni e Giacomo».

E ha spinto una nuova generazione di attori, Santamaria, già in «Ecco fatto», Accorsi, Mezzogiorno, Favino.

«Un gruppo di attori rimasto in primo piano nel panorama del cinema italiano, legati anche tra di loro. L’ultimo bacio resta un punto di riferimento, anzi i loro destini, sono andati a assomigliare ai personaggi che interpretavano, tutti quanti, da Favino a Stefano a Pasotti a Accorsi. Ci scherziamo su tra di noi».

Poi arriva Will Smith

«Per un curioso allineamento to di astri, in cui entra Mike Bongiorno e anche il Corriere, con un’intervista di Giovanna Grassi a Will che parlava di ultimo bacio. Avendo lo stesso agente riuscii a conoscerlo e lui mi propose La ricerca della felicità, tutto accadde in modo precipitoso. Non ebbi tempo neanche di capire l‘enormità dell’evento».

E Mike?

«Giravo uno spot con lui e Fiorello e mi chiamano da Hollywood. Lui mi sentiva parlare e si lamentava con Fiore per il mio inglese. Alla fine vado nel suo camper e lì mi arriva chiamata definitiva. Surreale. Fa molto ridere».

Più dolorose le pagine su suo fratello Silvio.

«Non lo vedo dal 2007, dopo questo tempo si elabora una sorta di lutto, non ha voluto incontrare me, in nessuna occasione, i miei figli, i miei genitori, mia sorella, ma anche Giovanni Veronesi, Carlo Verdone, ha fatto terra bruciata intorno a sé da tutti quelli che lo hanno amato. La sua scomparsa ha lacerato il tessuto familiare, a ognuno manca un fratello o figlio. Rimane inspiegabile, farà lui il bilancio della sua vita. Lui a un certo punto ha fatto dichiarazioni su di me talmente gravi, descrivendomi come uomo violento. Sono state il napalm. Le carte giudiziarie dicono l’opposto, vicenda si è chiusa con archiviazione. Nel libro, ho voluto raccontare tutto, non mi faccio sconti come uomo e padre».

Ci sono stati altri contatti?

«In uno degli ultimi due film, cercai di fare una mossa di una forza sovraumana di azzerare tutto ripartendo almeno professionalmente da dove avevamo interrotto, ho scritto un personaggio per lui. Ma non ne ha voluto sapere. Ti risponde con gli avvocati e allora basta così».

Con Domenico Procacci, Fandango, avete un quasi rapporto da fratelli

«È un grande amico, compagno di strada, ho condivido momenti più importanti della mia vita, privati e lavorativi. È un vero rocker. C’era in clinica quando è nato mio primo figlio, era con me al Sundance, è corso da me, lui maniaco di fumetti, quando possibilità di fare Wolverine con Hugh Jackman, a spiegarmene il valore di Wolverine, film che poi non si fece»

Come Dracula, Ponzio Pilato, il biopic su Tyson. Quale rimpiange di più?

«Uno alcuni tenevo davvero moltissimo, che ho preparato per sei mesi, è Passengers, gli attori erano Keanu Reeves e Emily Blunt. Anche Ponzio Pilato era molto interessante. Ma nessuna nostalgia né rimpianti. Scelte sbagliate ne ho fatte, Quello che so sull’amore (con Gerald Butler) è stato un grande errore, non era giusto, la mia sensibilità di suggeriva di non farlo. Mi sono lasciato convincere».

Parla anche della sua balbuzie. Un limite?

«È stato un grosso problema da ragazzo perché non riuscivo a socializzare, è stata una spinta in più per fare cinema, io narratore di storie più di quanto sia stato capace di farlo con la parola».

Alla Festa di Roma si vedrà un assaggio della serie «A casa tutti bene» per Sky.

«La mia prima. L’ho fatta a modo mio, Sky mi ha lasciato completa libertà con giovani attori molto bravi».

Per i David, si è fatto la fama di rosicone.

«Possono dire quello che vogliono, ma resta una cosa clamorosa non è che non abbia più avuto nomination miglior regista dal 2003. Sento una sorta di avversione a prescindere da quello che faccio. Ho preferito uscire da Accademia. Sto meglio così devo dire».

Usa molto i social, si pente ogni tanto?

«Sì, spesso. Per esempio con i fratelli D’Innocenzo che mi stanno anche molto simpatici e conoscono il fair play più moltissimi altri di questo mondo. I social non sono un mezzo per comunicare concetti o raccontare emotività, solo per informare. A volte non ci penso».

·        Gabriele Lavia.

Katia Ippaso per "Il Messaggero" il 25 gennaio 2021. «Ci vogliono morti. Il teatro non è mai piaciuto al potere. Dà fastidio». Gabriele Lavia non è uomo che cerca l'accomodamento. Ha vissuto una vita intera in palcoscenico, cercando risposte, per sua ammissione provvisorie, al mistero dell'esistere. Non sarà la pandemia, e tanto meno il clima di restrizioni e interdizioni rispetto ai luoghi della scena, a farlo retrocedere dalla sua profonda convinzione: «Il teatro è fatto di corpi vivi. Tutto il resto è miseria». Anche apparire in streaming è miseria: «Mi sono rifiutato tutte le volte che me l'hanno proposto. Per me, sono robettine messe in una scatola. Come non si può fare sesso per telefono, non si può fare teatro in streaming». Eppure, in tutta questa desolazione, non tutti sono finiti per strada. Anzi, secondo Lavia, «qualcuno ci ha persino guadagnato». «Il teatro pubblico ha fatto un affare con il Covid. Tutti quegli impiegati che prendono 14, 15 mensilità, ecco loro stanno al sicuro. Non conviene riaprire i teatri. Basta fare cosette in streaming. Nessuno vuole tornare a scritturare dal vivo quei rompicoglioni degli attori e dei tecnici. Mi vergogno per i politici. Credo che la pagheranno, ma non in questa vita. In questa vita sono tutti felici». La questione è antica. E l'attacco non è diretto al ministro Franceschini: «Non è lui che si è inventato il Covid. Di Covid si muore veramente». Il problema è nell'accettazione apatica dell'esistente: «Ho saputo che il Festival di Sanremo si farà con il pubblico in sala mentre i teatri sono chiusi da mesi. Ha fatto bene Moni Ovadia a dire che un Paese che favorisce le kermesse mediatiche, è un Paese miserabile. Io dico di più: è una gigantesca volgarità». C'è però un'altra metà del Paese, «quella che forse vive in un altro pianeta», che non solo se ne infischia di Sanremo («le canzonette? mai piaciute») ma che amerebbe tornare a teatro. «I teatri sono i luoghi più sicuri in cui stare. Ci sono cerimoniali precisi che garantiscono una distanza di sicurezza. Le sembra che questa distanza sia assicurata nei supermercati? Il fatto è che per me dovrebbe esistere un ministero apposito. Un ministero del teatro differente dal ministero del cinema e dell'arte. Il museo è cultura, ma morta. Il teatro è cultura, ma viva». Secondo Gabriele Lavia, il potere trova inaccettabile il fatto che gli attori siano scabrosamente vivi, con corpi e sentimenti esposti. «Il teatro è la cosa più difficile che esiste. Anche vivere è molto difficile. Come l'amore. L'uomo è precario, imperfetto. Ma è proprio di questa imperfezione che si occupa il teatro». A 78 anni, Lavia ammette di non aver mai fatto una crociera. Odia le vacanze. E anche se domina una totale incertezza rispetto alla data di riapertura dei teatri, ogni giorno prova in una piccola sala di Roma il suo nuovo spettacolo: Le leggi della gravità, dal romanzo di Jean Teulé, accanto a sua moglie, Federica Di Martino, e a un giovane attore, Enrico Torzillo. Teoricamente, lo spettacolo dovrebbe debuttare il 13 febbraio al Flavio Vespasiano di Rieti e chiudere la tournée a maggio al Quirino di Roma. «Ho scelto questo testo perché ha pochi attori. È la storia di una donna che, dopo dieci anni, si presenta in commissariato denunciandosi per l'omicidio del marito». La scorsa estate, a Bari, Lavia ha girato anche un film, ispirato a L'uomo dal fiore in bocca. «Avevo già fatto il testo di Pirandello a teatro. Non è stata una mia idea, ma di Manuela Cacciamani, che l'ha prodotto con Rai Cinema. Io ero un po' perplesso, ma forse aveva ragione lei. Non sappiamo ancora quando verrà alla luce, devo finire di montarlo, devo dire però che sta venendo molto bene». L'uomo dal fiore in bocca parla della malattia e della morte: «È la condizione umana». Sull'aldilà, però, non si pronuncia: «Non me lo immagino. Pur non essendo un materialista, non ho il dono della fede. Diciamo che non li considero affari miei».

·        Gabriele Paolini.

Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 26 maggio 2021. Si è rasato capelli e sopracciglia ed ha riempito una valigia, pronto a trasferirsi in carcere. Nessuno sconto di pena per Gabriele Paolini. La Cassazione, ieri sera, ha confermato la condanna definitiva a cinque anni di reclusione per aver organizzato giochi e intimità con minorenni, inquadrati con i reati di produzione di materiale pedopornografico e tentata violenza sessuale su minore, un diciassettenne. «Mi preparo ad andare in carcere - ha detto il disturbatore tv - Si sta punendo un personaggio scomodo. Ma, nel caso, non farò come Corona. Accetterò il fardello senza proteste, anche se sono innocente. Mi dispiace tanto solo per la mamma, che non so se riuscirà a sopportare anche questa botta». Per Paolini il carcere è solo un ritorno. Il disturbatore tv era rimasto, nel 2013, in un istituto penitenziario per 18 giorni dopo l' arresto per gli abusi. Dopodiché aveva trascorso diciotto mesi ai domiciliari col braccialetto elettronico.

LE ACCUSE Al centro dell' inchiesta, le intimità con minorenni, il gioco di foto e filmati hard in cambio di regalini e paghette. Goliardate tra amici o fidanzati secondo Paolini. «Questa decisione mi addolora, ma respingo tutti i reati a me contestati perché non mi appartengono - ha aggiunto Paolini, - Ho amato quel giovane, nonostante la differenza di età. Io avevo 39 anni e lui 17, ma lo ho amato per davvero. Ma se la Cassazione ha confermato la condanna, allora è giusto andare in carcere, non voglio misure alternative. Probabilmente pago anche per l' essere stato sempre un rompicogl... Su questo non sono difendibile, per 25 anni ho destabilizzato il mondo della tv e sicuro pago per questo». Il collegio difensivo di Paolini intanto si prepara a giocare l' ultima carta. «La difesa - ha dichiarato l' avvocato Lorenzo Lamarca - precisa che ricorrerà alla Corte europea per i diritti dell' uomo poiché la sentenza di rigetto dei motivi di ricorso per Cassazione pone in essere una discriminazione sull' orientamento sessuale».  Il pm Claudia Terracina, che aveva condotto le indagini, puntava, in primo grado, a una pena ancora più pesante: sei anni di carcere per i reati di sfruttamento e induzione alla prostituzione minorile, produzione di materiale pedopornografico, oltre, alla violenza sessuale. Contestazioni ridimensionate in sede di sentenza. La Corte aveva escluso l' induzione alla prostituzione minorile e aveva qualificato la tentata violenza come di minore entità. Gabriele Paolini, seppure provato, anche in quella occasione aveva ha annunciato di non voler rinunciare alle sue comparsate sul piccolo schermo, riprese da qualche settimana e che ora dovrà abbandonare per un pezzo. «Sono solo presenze, non interruzioni di pubblico servizio - aveva precisato - Sono venti anni che attacco il sistema televisivo. Molestatore del tubo catodico sì, ma protagonista di violenze sessuali no».

LA DENUNCIA Le indagini erano state avviate dopo la denuncia di un fotografo di Riccione che aveva ricevuto da un punto vendita di via Nomentana a Roma l' ordine di stampare alcuni file che ritraevano scene di sesso tra minorenni e il disturbatore tv. Nell' ordine di arresto veniva sottolineata «la spregiudicatezza mostrata» dall' indagato. La si deduceva con la testardaggine con cui, secondo l' accusa, aveva cercato di portarsi in un garage anche un altro amichetto, un sedicenne. In carcere Paolini promette di portarsi una valigia piena di libro: «Da ragazzo ho abbandonato gli studi classici subito dopo il ginnasio. Ripartirò da lì».

·        Gabriele Salvatores.

Gloria Satta per "il Messaggero" l'8 giugno 2021. Comedians, ovvero «il lato oscuro della comicità». Esce il 10 giugno, con 01 Distribution, il film di Gabriele Salvatores ispirato al testo teatrale di Trevor Griffiths portato in scena dallo stesso regista premio Oscar nel 1985 con Paolo Rossi, Silvio Orlando, Claudio Bisio, Bebo Storti, Renato Sarti, allora giovanissimi. Oggi, al posto di quegli attori, ci sono Christian De Sica, Natalino Balasso, Ale e Franz, Marco Bonadei, Walter Leonardi, Giulio Pranno, Vincenzo Zampa. Ma non è cambiata la storia: quella di un gruppo di aspiranti comici che, decisi a dare una svolta alle rispettive vite sfigate, si preparano ad esordire in un club alla fine di un corso di stand-up tenuto da un attore fallito perché non ha mai tradito i propri ideali (Balasso). In scena verranno esaminati da un cinico guitto (De Sica) che offrirà al migliore di loro un ruolo nel suo popolarissimo show tv. Coerenza artistica e mancanza di scrupoli, fedeltà ai principi e stereotipi, umorismo politicamente corretto: questi i temi del film che Salvatores, 70 anni, pronto a girare Il ritorno di Casanova con Toni Servillo, ritiene «più attuale che mai».

Perché?

«Parla di una piccola umanità che fa i conti con la voglia di emergere, la visibilità, il successo. E con il linguaggio politicamente corretto che sta diventando più pericoloso degli stereotipi perché ingabbia la libertà di espressione». 

Ma un comico non deve evitare di ferire gli altri?

«Deve mantenere l' equilibrio tra buon gusto e offesa, sapendo che il confine è sottilissimo». 

Da vincitore dell' Oscar, cosa pensa delle nuove implacabili regole di inclusione varate dall' Academy?

«Mi spiace per gli amici americani, ma sono ridicole. Come la presenza sui set del gender manager destinato a garantire il risalto alle interpretazioni femminili». 

Perché ha scelto De Sica per il ruolo del comico che si preoccupa solo di compiacere il pubblico?

«Ho intravisto in lui una malinconia e una vulnerabilità adatte al personaggio che dice: Io non cerco filosofi, voglio solo attori capaci di far fare 4 risate alla gente. Volevo un attore che credesse nelle proprie parole. Ma un cinepanettone di Christian non l' ho mai visto». 

Chi sono oggi i comedians?

«I politici che hanno rubato il mestiere agli attori e cercano di fare i simpatici. Ma io non voglio amici: dagli uomini impegnati nella cosa pubblica mi aspetto di trovare dei padri che prendano posizione e, nel bene e nel male come i vecchi dc, intendano la politica come una missione». 

È vero che, dopo la pandemia, il pubblico chiede al cinema soltanto evasione?

«No. La gente vuole qualcosa di più profondo che, come il vaccino, le permetta di pensare al futuro».

La sale stanno faticosamente riaprendo, ha paura che il suo film lo vedranno in pochi?

«Non mi aspetto nulla. Uscire in questo momento può essere rischioso, ma bisognava assolutamente farlo per sostenere la ripresa. E io, che ho avuto tanto dal cinema, mi sono messo volentieri a disposizione». 

Lei, che ha avuto il Covid, pensa che la pandemia influenzerà il lavoro di voi registi?

«Non posso prevederlo. Ma dentro di noi qualcosa è cambiato: ci sentivamo sicuri, quasi immortali e ci siamo riscoperti fragili. Probabilmente tutto questo influenzerà il nostro modo di raccontare». 

Comedians parla anche di responsabilità artistica: per lei in cosa consiste?

«Nel mettermi sempre in discussione e tentare nuove sfide. Lavorare con i giovani, ad esempio, aiuta a mantenere viva l' ispirazione. Non mi sono mai considerato arrivato.

Per andare avanti un artista ha bisogno dell' ansia, della paura di non farcela».

Stefania Ulivi per il "Corriere della Sera" l'11 marzo 2021. Le riprese, racconta Gabriele Salvatores, partiranno tra aprile e maggio. «Dipendiamo dall' emergenza, dai colori delle regioni coinvolte, adattandoci mano a mano. Di certo c' è la data di consegna: il 1° ottobre». Il regista premio Oscar è stato scelto, da una commissione presieduta da Sandro Veronesi, per girare le immagini delle Regioni per i visitatori del Padiglione Italia, curato da Davide Rampello, a Expo 2020 Dubai. «Il ritratto di un Paese ponte nel Mediterraneo che ha sempre favorito l' incontro tra culture. L' intento dell' Expo non è un documentario della situazione che stiamo vivendo, ma semmai il contrario: come eravamo e come speriamo di tornare a essere, dare un' immagine dell' Italia nel segno della bellezza, con tutte le sue differenze». Una nuova occasione, dopo Italy in a day del 2014 e Fuori era primavera , realizzato dopo i mesi del lockdown , e presentato in ottobre, quando il virus aveva colpito anche lui. «Quelli erano documentari di montaggio. Qui sarà diverso, lo sguardo è il mio. Su due piani: nella prima stanza del Padiglione ci sarà il lavoro dell' uomo, il saper fare. Nella seconda, il paesaggio. Un racconto per frammenti - che i visitatori vedranno in loop , anche in streaming sul portale creato ad hoc -. È il modo migliore per raccontare il tutto: non esiste un' unica realtà. Saranno come la colonna sonora di un' opera che già c' è».

Torna sul set nell' anno della pandemia che ha raccontato nel doc e che ha provato di persona: è risultato positivo mentre montava il nuovo film, «Comedians».

«Per me ha voluto dire la concretizzazione di un incubo che avevo da parecchio tempo. Tra allevamenti intensivi, cementificazioni, deforestazioni, cambiamenti climatici: da tanto aspettavano che la natura individuasse noi come un virus, che va combattuto e eliminato. Soderbergh già nel 2011 lo aveva raccontato in Contagion, profetico».

Che cosa le resta?

«Ho provato la solitudine di non poter condividere con gli altri le emozioni, il non poter viaggiare che per me, per il lavoro che faccio, resta cosa importante. Lo sgomento di fronte a 100 mila morti, l' ammirazione di fronte al lavoro impressionante dei sanitari di cui ho avuto testimonianza diretta con il professore Raffaele Bruno di Pavia che ha curato il "paziente 1": quando ero a casa senza sintomi siamo diventati amici».

Cosa le ha insegnato?

«Che il rapporto causa e effetto esiste. Non sono molto ottimista, lo confesso. Spero nei giovani, che le nuove generazioni si facciano sentire, che l' aspetto ecologico del lavoro con la natura torni in primo piano. Sapete quanti giovani stanno tornando alla campagna? Nel lavoro che realizzerò per Expo è giusto dare spazio al nostro sapere tecnologico, ma non posso dimenticare ciò che diceva Pasolini: che il nostro Paese, pur essendo uno dei più industrializzati del mondo, ha un' anima contadina. Mi piacerebbe far venire fuori questa anima arcaica, il futuro esiste se ha radici solide».

Ci stiamo abituando all' eterno presente.

«Invece è bene pensare al futuro, puntando sui giovani.Mostrerò chi fa i remi per le gondole di Venezia ma anche la bambina che li guarda lavorare. Ma soprattutto voglio comporre una troupe molto giovane, siamo al lavoro con la casa di produzione dei miei film, Indiana».

Alcune regioni hanno già aderito, altre sono in arrivo.Per adesso manca la Lombardia.

«Questa regione è incredibile. Uno dei motori dell' Italia che di fronte all' emergenza si sta rivelando tra le più in difficoltà. Non so se si aggiungerà, sono scelte dei presidenti della Regioni».

Con che spirito si mette al lavoro?

«Ho scoperto che quest' anno non ce lo ridarà nessuno e più vai avanti nella vita più scopri che le caramelle che ti hanno regalato stanno diminuendo. Prima le mangi avidamente, queste ultime me le voglio gustare bene una per una. Il tempo non è infinito. Come regista quello che farò, anche fosse un kolossal, andrà in una dimensione intima. Più poesia che romanzo».

·        Gene Gnocchi.

Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 25 novembre 2021. Dopo 35 anni si compie il suo ritorno alle origini. Gene Gnocchi mette di nuovo piede allo Zelig, dove è iniziata la sua carriera. E lo fa in grande stile, questa sera, intervenendo con uno sketch nel programma condotto da Claudio Bisio e Vanessa Incontrada, in onda su Canale 5 (ore 21.30). «È stato bello», ci dice Gnocchi, «ristabilire un rapporto con persone con le quali mi trovo bene. E poi qui ho piena possibilità di esprimermi».

Con lei ci sono Teo Teocoli, Teresa Mannino, Gioele Dix, Anna Maria Barbera, Flavio Oreglio, il meglio della comicità storica del programma. Nel mondo della risata non c'è rottamazione, ma funziona l'usato sicuro?

«Questo è vero, ma è pure vero che i comici storici hanno portato cose nuove, sono stati al passo coi tempi, cambiando gli argomenti. Del resto, vanno rottamate solo le cose che non fanno ridere».

La prima puntata ha raggiunto il 22,3% di share con oltre 4 milioni di spettatori, stravincendo la serata. Dopo due anni di pandemia la gente ha una disperata voglia di ridere?

«Sì, lo vedo anche a teatro. Basti pensare a quello degli Arcimboldi dove si tiene Zelig: sono state sei serate sold out. La gente è vogliosa di ridere e di recuperare un rapporto sereno con i luoghi pubblici. E infatti le sale tornano a riempirsi».

Ci dia qualche anticipazione sul suo sketch.

«In parte sarà satira politica, in parte sarà legato al fatto che la pandemia, pur nelle oggettive brutture, ha avuto un risvolto positivo. Quale? Lo svelerò stasera».

Il nuovo Zelig sarà politicamente scorretto?

«Be', il mio intervento sarà spigoloso: dire che la pandemia ha avuto dei benefici non è correttissimo. In generale però il politicamente corretto ci ha rotto le palle. È perfino diventato scomodo scrivere di sport: se io dico che la Juve ha giocato peggio del Canicattì, qualcuno obietterà che il Canicattì non è così inferiore alla Juve. Ma un comico non può autocensurarsi: l'unico atteggiamento giusto è andare avanti, seguendo il proprio istinto e la propria idea di comicità. Non ci si può chiedere ogni volta se una battuta sarà o meno spunto di polemiche. E chissenefrega se qualcuno avrà qualcosa da dire».

Pio e Amedeo suscitarono scandalo dicendo che, se non ci sono intenzioni cattive, si possono usare parole come «negro» o «frocio». Lei che ne pensa?

«È sempre il contesto che decide. Poi, se qualcuno si sente oltraggiato e diffamato, quereli. Ma uno deve essere libero di poter dire quello che vuole, soprattutto in un contesto giocoso, scherzoso».

Come mai nessuno fa parodie di Draghi? È come i santi, su di lui non è possibile scherzare?

«No, si può scherzare su tutto. Massimo Ran Draghi è diventato l'emblema della pacificazione, è l'uomo al di fuori delle contese. Poi si è sempre sottratto ai talk politici, e ciò lo rende quasi immacolato. Ma arriverà presto il suo momento».

Quanta nostalgia avete, voi comici, di Berlusconi al potere?

«Be', Berlusconi al Quirinale per noi sarebbe grasso che cola. Ma bisognerà stare attenti al vilipendio. Rischieremmo di essere continuamente querelati (ride, ndr)». 

Il Pd di Letta, più che ridere, fa piangere?

«Il Pd ha capito che è meglio stare fermi, perché come si muove fa danni. Il Pd di Letta perciò fa lavorare gli altri, non fa niente. Sì, è al governo, ma sta defilato, non dà fastidio». 

Grillo dovrebbe tornare a fare il comico a tempo pieno?

«Lo fa anche ora, come dimostra la sua battuta su Conte specialista in penultimatum. La sua verve comica è ancora intatta. Se si mettesse di nuovo a fare il comico, avrebbe da insegnare a tanti. Purtroppo continua a fare il politico». 

Dopo Grillo sarà la volta in politica di un altro comico, Gene Gnocchi?

«Quando ero al programma di Floris, avevo ideato un movimento chiamato "Il Nulla". Era la prosecuzione ideale della classe politica di allora, al tempo dell'uno vale uno e dell'abolizione della povertà. Il Nulla era la soluzione, ma non è stato capito. In ogni caso Conte potrebbe essere il leader perfetto per il Nulla».

Come "seppellirebbe" con una battuta No Vax e No Green Pass?

«Su di loro non è possibile fare battute. Semmai faccio una considerazione: ho perso quattro amici per il Covid. Sentire le idiozie No Vax mi fa star male». 

Lei cerca da tempo di esordire in serie A. A 66 anni ci crede ancora?

«Una speranza ce l'ho. Due settimane fa ho ripreso a giocare e ho visto che il piede c'è. Per questo lancio l'appello: se qualcuno fosse interessato a farmi esordire, io qualche minuto in campo riuscirei a farlo. Mi propongo a qualsiasi squadra di serie A. Anche all'Inter, pur essendo milanista ai tempi di Savicevic. Invece a Enrico Ruggeri, che ha esordito in D, dico: sei negato a giocare a calcio (ride di gusto, ndr)». 

Zelig con il 22,3% va meglio di tutti i partiti politici. Potrebbe diventare un partito? E con Gene raggiungerà il 30?

«Sarebbe una bella soddisfazione, perché verrei nominato alla guida del partito Zelig. E diventarne leader sarebbe quasi come esordire in serie A».

"La satira, la politica e il calcio... Ora vi dico tutto". Gene Gnocchi si racconta. Francesco Curridori il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gene Gnocchi si racconta a 360 gradi e non risparmia critica alla televisione e alla politica dei nostri tempi. "Questa sinistra mi lascia allibito...", sentenzia amaramente.

"I primi tempi in Mediaset sono stati davvero entusiasmanti perché c'era tanta voglia di sperimentare". Gene Gnocchi, 65 anni, più di metà trascorsi a calcare il palcoscenico, si racconta a 360 gradi e non risparmia critica alla televisione e alla politica dei nostri tempi.

Quando ha deciso di entrare nel mondo dello spettacolo?

“Facevo un po' di attività amatoriale col gruppo rock-demenziale Desmodromici con mio fratello Charlie e altri musicisti partecipavamo ad alcune feste dell'Unità. Durante queste serate ho capito che la gente si divertiva con i nostri monologhi. Poi, spinto da un mio amico e socio dello studio legale, ho fatto un provino allo Zelig ed è andato bene. Praticamente non ho fatto tanta gavetta, Zuzzurro e Gaspare mi hanno scelto subito per fare Emilio. Stiamo parlando del 1988, sono 34 anni di carriera”.

Cosa spinge un avvocato a diventare un comico?

“In realtà, a me piaceva fare l'avvocato, ma farlo in una piccola cittadina è un lavoro molto routinario. C'è qualche recupero crediti, qualche separazione o sfratto esecutivo e, quindi, non c'è il grande penale o il grande civile. Diventava tutto quasi un lavoro impiegatizio e visto che si era aperta questa strada ho detto: 'proviamo' e, fortunatamente, è andata bene”.

Qual è l'esperienza televisiva che porta nel cuore?

“Ce ne sono parecchie. Sicuramente il sodalizio con Teocoli è stato fondamentale perché ho conosciuto una persona di grande valore e generosa perché è sempre stato prodigo di consigli. È uno che se vedeva che una battuta stava meglio in bocca a un altro gliela lasciava. Poi c'è stato il sodalizio con Simona Ventura che è stato altrettanto bello, ma se una cosa che proprio porto nel cuore è Dillo a Wally perché è il programma che più mi apparteneva dal punto di vista dei contenuti televisivi”.

Si è trovato meglio a lavorare in Rai o a Mediaset?

“Mi sono trovato benissimo in Mediaset dove ho iniziato con Emilio, poi ho condotto Mai dire gol, Vicini di casa, Il gioco dei nove e Striscia la notizia. Praticamente ho fatto tutto. Poi, in Rai ho fatto la Domenica sportiva e Quelli che il calcio e mi sono trovato altrettanto bene perché avevo dei partner eccezionali come Simona Ventura, Maurizio Crozza e Massimo Caputi".

Quanto è cambiata la televisione rispetto a quando lei ha iniziato?

“È cambiata tantissimo perché prima, se un progetto faceva fatica, ci si credeva e si teneva. Parlo per esempio delle Iene che all'inizio non andava bene oppure di Mai dire gol che all'inizio andava così così e, poi, è esploso perché la proprietà ci ha creduto. Adesso, invece, se i programmi non vanno bene, dopo una puntata li tolgono. Prima, poi, erano programmi scritti, mentre ora ci sono quasi esclusivamente reality dove la scrittura è troppo poca. Sono dei format dove si cercando di assemblare figure che si spera diventino personaggi. Non c'è meno professionalità, ma molta meno voglia di rischiare qualcosa”.

Oggi è più difficile o più facile fare satira politica rispetto agli anni '90?

“È diventato più difficile perché ultimamente il politicamente corretto è diventato una iattura per cui devi stare attento a qualsiasi cosa dici. È diventato più difficile anche perché oggi il politico ha molta più visibilità di un tempo. Prima lo vedevi nelle tribune politiche di Jader Iacobelli e l'idea di poterlo caricaturizzarlo diventava un elemento importante. Adesso il politico è in televisione tutto il giorno e diventa una macchietta perché, avendolo visto così tanto, non è più lui. È una caricatura che è difficilissimo da riprodurre e anche per questo a me la satira politica non interessa tanto".

Quale politico le è di maggiore ispirazione?

“Toninelli l'ho fatto con piacere perché era una fonte inesauribile. Anche dal punto dell'immagine, con quelli occhi sempre sbarrati come se si fosse trovato in una situazione molto più grande di lui, era piacevole farlo”.

Come giudica l'attuale stato di salute della sinistra italiana?

“Vengo da una famiglia di sinistra. Mio padre era sindacalista, segretario generale della Camera del Lavoro della Cgil a Parma e ha fatto tutte le grandi lotte per i rinnovi dei contratti con le grandi aziende della zona. All'epoca c'era un'attenzione nei confronti del mondo del lavoro che adesso non ritrovo più. C'è una mancanza di rapporto con le fasce più deboli che mi ha lasciato prima perplesso e, poi, allibito”.

Che voto darebbe al governo Draghi?

“Sta facendo quel che si ci aspetta che faccia e credo che si stia muovendo bene. Io ho fiducia. Ho più fiducia in Draghi che in Conte”.

Lei viene da Parma, il primo capoluogo conquistato dai grillini. Cosa pensa del M5S?

“Penso che i Cinquestelle abbiano cavalcato un voto di protesta che era largamente diffuso. Io feci la campagna politica ad personam perché Bernazzoli era mio compagno di scuola, sapevo che aveva fatto benissimo in provincia e che è una persona specchiata. Aiutare un amico che stimo mi ha fatto molto piacere e, anzi, sono contento di aver fatto la campagna elettorale con lui. Nei miei spettacoli prendo in giro i Cinquestelle. Anche nell'ultimo libro ho dedicato un capitolo a loro. Sono assolutamente convinto che un abominio come 'uno vale uno' qualifica non solo il movimento politico, ma tutta l'intera classe politica di quel movimento. Poi, avendo fatto i talk show con Floris e Porro, li ho visti un po' tutti e devo dire che non ho grande fiducia in loro. Una volta si eleggeva persone che ritenevi migliori di te e che avessero una visione. Adesso la classe politica è inferiore all'elettorato e, quando a Quarta Repubblica Conte ha ripetuto che per lui è una 'faticaccia', gli ho ripetuto che lo è anche per noi elettori”.

E il centrodestra come lo vede? Era meglio Berlusconi oppure è meglio il duo Salvini-Meloni?

“Secondo me, dal punto di vista di un antagonista, era meglio Berlusconi perché sapevi chi era e qual era la sua storia. Salvini e la Meloni, invece, fanno a gare per lisciare il pelo a delle frange che non sa neanche cosa sia un vaccino. Non capisco perché fare delle questioni su un vaccino che, fortunatamente, abbiamo avuto in tempi record. Molto meglio Berlusconi”.

A tal proposito, ha avuto paura del Covid?

“Io ho perso quattro amici carissimi per colpa del Covid. Avevo una paura fottuta perché erano persone che giocavano a calcio con me e li sentivo tutte le settimane. Amici più o meno tutti della mia età che si sono ammalate e che, improvvisamente, se ne sono andate. Non avevo paura, avevo terrore del Covid”.

Passiamo al calcio. Perché negli anni 2000 chiese di essere tesserato in serie A? Fu una provocazione?

“È un'idea che mi è venuta quando facevo Quelli che il calcio...Era il periodo di Calciopoli e ho provato a stemperare i toni andando a fare dei provini in giro tra le società. Era anche un vezzo personale perché sono stato un calciatore nei Dilettanti e mi solleticava l'idea di poter dire: 'ho fatto anche cinque minuti in Serie A'”.

Qual è il suo più grande rimpianto?

“Di aver fatto poco cinema. Ho fatto solo un film con Lina Wertmüller e due con Piccioni. Mi sarebbe piaciuto farne di più”.

E qual è la sua più grande paura?

“Che possa morire qualcuno dei miei figli”.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un

Paolo Di Stefano per il Corriere della Sera il 26 giugno 2021. La prima cosa indiscutibile è che leggendo il suo ultimo libro, «Il gusto puffo» (Solferino), si ride. Ma si ride davvero. La seconda cosa indiscutibile è che Gene Gnocchi ci fa ridere e insieme ci inquieta, costruendo storie molto belle, con personaggi verosimili anche se surreali, grotteschi, lunari, paradossali. Troviamo il genero che per evitare che la suocera si unisca per le ferie decide di spaccarle il femore. Troviamo l'uomo più bello del mondo che non vuole far sapere di essere l'uomo più bello del mondo. Troviamo l'intermediatore di una coppia di coniugi Incas che vuole adottare il figlio di Briatore e di Elisabetta Gregoraci. Troviamo l'inventore del gusto puffo dei gelati nel giorno del suo funerale (a cui non può partecipare essendo impegnato altrove). Troviamo il tipo che per risolvere i problemi dell'immigrazione decide di tenere con sé otto piccoli Lukaku di cento chili l'uno appena sbarcati a Lampedusa. C' è l'ipocondriaco che si compra da Media World un impianto di risonanza magnetica ad uso personale. C' è il poveretto che non può sottrarsi a sostituire Rocco Siffredi per un giorno da pornodivo. E così via. «In realtà - dice Gnocchi - sono personaggi che si trovano dentro situazioni più grandi di loro e che cercano di barcamenarsi con le loro bizzarrie, le manie, le inadeguatezze, tutti disturbi legati al vivere contemporaneo». 

Anche il gusto puffo fa parte del vivere contemporaneo, ma è un po' fuori moda.

«In realtà il gusto puffo dei gelati è un'idea che mi accompagna da un sacco di tempo: c'era un periodo in cui quel gusto azzurro, fatto con i coloranti, che non si sapeva che cosa fosse esattamente, andava per la maggiore. Ed è lo stesso gusto retrò che caratterizza un po' i miei personaggi, che sono miscugli di coloranti e di vaniglia, di cose genuine e artefatte». 

Ingenui che faticano a capire il mondo?

«Sì, hanno difficoltà ad accettare e a farsi accettare, sono un po' dei borderline, sempre sul crinale, che non vengono riconosciuti come vorrebbero e reagiscono di conseguenza». 

Dove trova Gnocchi il tempo per scrivere?

«Quando c' è qualcosa che mi gira per la testa, il tempo lo trovo, non so per quale ragione misteriosa e come mai... Anche adesso mi sono venute in mente alcune cose sulla riassumibilità della vita... Può essere la mattina presto o la sera tardi, può essere a mezzogiorno, alla pausa pranzo... Diciamo che non sono il tipo che scrive quattro ore di seguito tutti i giorni, ma se ho un'idea o un'immagine che mi piace, mi ci metto nei momenti più impensati».

Aiutato dagli stessi quadernetti con cui circola un suo personaggio?

«C' è un personaggio che ha un taccuino ma lo usa pochissimo perché non lo tiene vicino al letto e di notte non ha mai la forza di alzarsi. Io scrivo a mano su bloc notes a spirali della Pigna, quelli grandi a quadrettoni. Poi ho sempre in tasca dei foglietti bianchi e delle penne Vision élite, ne ho comperate un bel po' perché non ne fanno più». 

Che ne pensa, Gnocchi, della letteratura contemporanea?

«Io appartengo a una generazione che ha letto e amato Gadda, Bianciardi, Patti, Brancati, autori che mi hanno accompagnato e che rimangono dentro di me: e Silvio D' Arzo, Antonio Delfini, Ennio Flaiano... Scritture limpide, aerate, meravigliosamente pulite. Alla fine, per me quello che conta è la pagina scritta, lo stile, il ritmo, ma leggendo gli autori di oggi ti rendi conto che non c' è più spazio e attenzione per queste cose. Anche la letteratura è una fabbrica del consenso che non ha niente a che fare con la qualità della scrittura, l'unica cosa che dovrebbe contare». 

Colpa di chi?

«C' è da dire che sono scomparsi i librai. Una volta alla Feltrinelli di Parma c' erano due librai che mi consigliavano: prova a vedere quel titolo, dai un'occhiata all' altro. Adesso i librai ti vendono prima di tutto i prosciutti e la pasta, il primo libro lo vedi dopo aver attraversato i banchi con le derrate alimentari e i gadget... Ti viene da star male, vacca boia». 

Un consiglio di lettura?

«"Le ombre bianche" di Flaiano, un ritmo, una precisione... "Un bellissimo novembre" di Ercole Patti è un libro meraviglioso. E "Casa d' altri" di D' Arzo è un capolavoro assoluto. Ma quanti li conoscono? Oggi mi piacciono Ugo Cornia, Ermanno Cavazzoni... È una letteratura umoristica di outsider, estemporanea e tenuta un po' ai margini... Non sono certo tra gli scrittori più celebrati».

Tra i più celebrati ci sono i giallisti, alla cui parodia viene dedicato un capitolo, «Un caso scottante per il commissario Prugna».

«Sì, è una presa in giro dei tanti scrittori di gialli: un racconto in cui muoiono a uno a uno tutti i commissari e dopo quelle scomparse inspiegabili al concorso pubblico della polizia non si ripresenta più nessuno» ( ride ). 

Com' è cominciata la voglia di scrivere?

«Ho sempre scritto racconti. Al ginnasio avevo in italiano il professor Petrolini, che era un glottologo allievo di Devoto e che assegnava sempre il tema libero: io facevo dei raccontini che spesso venivano letti alla classe». 

Il primo libro, «Una lieve imprecisione», è uscito trent' anni fa da Garzanti.

«Sì, l’ho scritto prima di dedicarmi allo spettacolo ma l'ho pubblicato dopo, e per questo è caduto in una specie di fraintendimento. Erano i tempi in cui facevo la televisione, "Mai dire gol" e altro, e uno di Napoli mi scrisse una lettera molto risentita in cui mi diceva che aveva speso 12 mila lire pensando di leggere un libro da ridere. Allora io gli ho mandato "Parola di Giobbe", il libro di Covatta, per riparare al danno. E siccome il libro di Giobbe costava tre o quattro mila lire in più del mio, quel tipo da Napoli mi mandò indietro il resto. È stata una delle cose più strane che mi siano mai capitate. Per certi versi aveva anche ragione, ma non era né colpa mia né colpa sua». 

Dopo tanti anni, si avverte uno sguardo disincantato verso il mondo dello spettacolo, forse anche un po' amareggiato, con qualche puntata satirica. Per esempio su Beppe Fiorello...

«Per carità, io ho avuto grande successo. Ma oggi mi trovo come uno che di fronte a certe situazioni capisce che c' è qualcosa che non quadra se ogni personaggio viene interpretato da Beppe Fiorello. È una cosa di dominio pubblico: tu accendi la televisione e chi trovi? Beppe Fiorello. Chi fa Einstein? E Palmiro Togliatti? E Cassius Clay? E i quattro del Quartetto Cetra, li fa tutti Beppe Fiorello... Naturalmente nella scrittura tutto diventa paradossale».

Tra i suoi grandi sodali e amici del palco e della tv c' è Teo Teocoli.

«Un grandissimo. Se ti vuole far ridere ti fa ridere. Ricordo quando veniva in camerino e faceva l'elettricista: si sdraiava vicino alla presa e ti chiedeva di dargli un cacciavite... Esilarante... Da Teo c' è solo da imparare. Ed è generoso, se pensa che una battuta stia meglio sulla tua bocca te la lascia. È una cosa rarissima». 

Prima venne Raimondo Vianello.

«Un aplomb e una raffinatezza. Non aveva mai bisogno di andare sopra le righe... Gli bastava un niente per cambiare il verso della conversazione. Una volta mi disse: non faccio per vantarmi ma ho sonno...». 

E i tanti anni a «Quelli che il calcio»?

«Simona Ventura conduceva con Maurizio Crozza che faceva i personaggi e con me che facevo il guastafeste e il grillo parlante. Simona si fidava ciecamente. Tre ore di trasmissione e prima non voleva sapere niente. Una volta è venuto David Bowie e gli ho chiesto: scusi, lei arrivando da Londra ha trovato traffico? Lei si è inferocita: ma che cazzo chiedi! Diventava matta... ( ride ) Quando intervenne il ministro Gasparri in diretta per attaccare la satira, lei fu una leonessa nel difenderci...». 

Sembra passato un secolo da Zelig...

«Non c' è più quella voglia. Forse negli ultimi tempi qualcosa ancora si sperimenta nelle seconde serate: Lundini, Ale e Franz, Barbareschi... Ma oggi nei social chiunque abbia 50 like in due minuti diventa un comico, anche se poi la vera misura te la dà il palco in spettacoli di un'ora e mezza».

Il Rompipallone, la rubrica quotidiana della «Gazzetta», come viene fuori?

«Guardo i focus della giornata, ne scrivo tre o quattro, li detto e lascio che siano i redattori a scegliere. Ogni volta che lo prendo per il culo Materazzi mi telefona per ricordarmi che lui è campione del mondo e io una m...». 

La passione del calcio è arrivata fino al punto da ottenere un tesseramento in serie A nel Parma di Ranieri. Come andò?

«Mi allenavo ma non riuscii a giocare neanche cinque minuti, perché il Parma si salvò all' ultima giornata con l'Empoli. Peccato. Mi ero già messo d'accordo con il quarto uomo che facesse un recupero di un quarto d' ora in modo da poter giocare una ventina di minuti...».

Com' è andata l'esperienza cinematografica con Lina Wertmüller?

«Era francamente un film brutto che non si poteva vedere, senza mezze tinte, ma con lei imparavi tantissimo, ogni parola era un insegnamento: ti faceva rifare la scena anche sei o sette volte, e capivi che ogni volta ti stavi avvicinando al meglio». 

E il Festival del 2004?

«Una centrifuga folle. Vai a Sanremo, per cinque giorni non dormi mai, esci dall' albergo e ti ritrovi davanti i microfoni di cinquanta radio e televisioni che ti chiedono qualunque cosa. Quell' anno c' era Tony Renis direttore artistico che continuava a promettere che avrebbe portato Robert De Niro perché aveva appena fatto una grigliata di carne con lui».

Cosa sta leggendo Gnocchi adesso?

«Ho preso il libro di Toninelli per le mie bambine, pensavo che fosse da colorare...».

·        Gerry Scotti.

Da Oggi il 3 novembre 2021. «Quando sono stato ricoverato per il Covid ed ero grave, il pensiero di mia nipote Virginia mi ha aiutato. Mi sono detto: devo guarire perché tra un mese nasce mia nipote ed io ci voglio essere». Gerry Scotti in un’intervista esclusiva a OGGI, in uscita nelle edicole da domani, racconta come il pensiero della nipotina Virginia gli abbia salvato la vita. Il conduttore parla poi di Sanremo: «Da quando Amadeus e Fiorello, i due delinquenti, si sono messi insieme nelle loro riunioni con gli autori, ogni tanto tirano fuori il mio nome. Vediamo, se impegni tv e umani coincidono con le date di Sanremo mi farebbe piacere andare a salutare tutti e due». Racconta, poi della sua vita da vignaiuolo e anticipa che dedicherà una delle sue bottiglie alla nipotina. Spiega infine che in tv l’unico programma culinario che lo attira è Dinner Club dello chef Carlo Cracco: «Se Carlo facesse una nuova edizione e mi invitasse parteciperei molto volentieri e se non lo facesse Carlo la farei io, Carlo non si deve offendere…».

È sempre mezzogiorno, "a un metro dalla terapia intensiva": Gerry Scotti in lacrime, la drammatica rivelazione alla Clerici. Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021. A E' sempre mezzogiorno Antonella Clerici ha ospitato oggi un suo grande amico, Gerry Scotti. Il popolare conduttore tv, in collegamento da casa usa, ha raccontato la brutta esperienza con il Covid. Il presentatore di Caduta Libera su Canale 5, infatti, è risultato positivo al virus a fine ottobre. “L’esperienza Covid è stata particolarmente faticosa. Io l’ho fatta tosta, sono arrivato a un metro dalla terapia intensiva”, ha spiegato Scotti. La sua positività, inoltre, ha anche comportato la sospensione in presenza delle registrazioni di Tu Si Que Vales. Il conduttore televisivo s è detto comunque fortunato per non essersi portato dietro nessuno strascico: "C’è gente, invece, che fa fatica a ritornare alla vita di tutti i giorni”. In quel periodo, poi, sentiva spesso Carlo Conti, che era risultato positivo nello stesso periodo di Gerry Scotti ed era stato ricoverato all’ospedale Careggi di Firenze. Scotti, poi, ha scherzato con la Clerici dicendo di essersi inimicato molti colleghi giornalisti che gli hanno chiesto dei collegamenti Skype. Lui, però, ha sempre rifiutato dicendo di non essere capace a farli. Ecco perché la conduttrice di E' sempre mezzogiorno dovrebbe ritenersi fortunata. L'ospite della Clerici ha parlato anche della sua nipotina, Virginia, nata dal matrimonio del figlio Edoardo con Ginevra Paola. Sul web già circola una foto di Gerry versione nonno, mentre spinge il passeggino con la bambina tra le strade di un parco milanese. Scotti ha raccontato che il nome della bimba è stata una vera sorpresa: un regalo che il figlio e la nuora hanno voluto fargli. Il conduttore, infatti, si chiama Virginio.

·        Giancarlo Magalli.

Giancarlo Magalli, 14mila euro per la diffamazione ad Adriana Volpe: "Sapete cosa dirà lei?", la massacra ancora. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 17 dicembre 2021. Giancarlo Magalli sbotta, ancora. "Dato che tra 5…4…3…2…1 Adriana Volpe inonderà il web di comunicati stampa riguardanti la mia condanna esemplare per un’intervista in cui io parlavo del Me Too e NON la nominavo affatto, volevo anticiparla specificando che il giudice mi ha dato una multa (che non devo nemmeno pagare) una provvisionale (che non devo pagare) e le spese legali (che pagherò) - scrive sui social l'ex conduttore de I Fatti Vostri -. Questo prima che dica che sono stato condannato all’ergastolo o a 10 milioni di risarcimento. Per inciso nella causa eravamo imputati io, il giornalista che mi aveva fatto l’intervista ed aveva cercato di farmi parlare della Volpe (assolto) ed il direttore responsabile del giornale che l’aveva pubblicata. Per lui la querela è stata ritirata. E di chi parliamo? Ma di Alfonso Signorini che casualmente è quello con cui da allora Adriana lavora. Coincidenze, eh…”., scrive Magalli. La condanna è relativa ad una multa di 14 mila euro con pena sospesa (l’accusa aveva chiesto 9 mesi di reclusione). La sentenza è stata emessa dal tribunale di Milano.

Rewind. Adriana Volpe, diversi anni fa, ha denunciato l’ex conduttore di Rai 1 per alcune dichiarazioni rilasciate in un’intervista al settimanale Chi nel 2017, anche il direttore Signorini ed un giornalista (poi assolto) erano stati denunciati. La Volpe, però, ha ritirato la querela nei confronti di Signorini. Le parole della Volpe sono chiarissime. “I procedimenti legali sono due. A Roma per le dichiarazioni che Magalli ha postato sui social, a Milano per l’intervista su Chi. Ho portato avanti con fatica e convinzioni le querele per tutelare me stessa e la mia famiglia. Sono sposata e ho una figlia di sette anni”, spiega. 

E poi: “Si deve reagire alle discriminazioni, non accettare frasi che infangano la dignità. Un uomo non può denigrare il lavoro di una donna, fare insinuazioni. In Rai ci sono migliaia di segretarie, giornaliste, autrici: secondo lei sono l’unica ad avere subito angherie e soprusi?. Mi hanno mandato una lettera di richiamo in cui mi chiedono di tenere un profilo basso e non dare interviste. Mi hanno lasciato sola. Magalli dichiara su Diva e Donna del 5 febbraio 2019: ‘L’ho subita per otto anni, professionalmente non la ritengo capace. Ho creato un incidente apposta’. Dice che lavoro da vent’anni in Rai grazie a una persona sola”. La guerra tra Giancarlo Magalli e Adriana Volpe continua? A metà aprile è fissata la prossima udienza per le dichiarazioni di Magalli a I Fatti Vostri edizione 2017. Michele Guardì e il cantante e conduttore tv Marcello Cirillo saranno ascoltati dai magistrati.

Dagospia il 17 Dicembre 2021. Comunicato di Adriana Volpe. Caro Magalli, ieri il tribunale di Milano ti ha condannato per il reato di diffamazione aggravata. All’uscita invece di chiedermi scusa sei corso fuori a scrivere un post su Facebook tentando di distorcere e sminuire questa sentenza che invece ha una portata e peso straordinari. Hai scritto cose false e come sempre screditanti. I giornali leggendo il tuo post hanno subito riportato titoli come “Magalli deve pagare solo una multa”, “Sono stato multato”. Giancarlo con le tue azioni hai cambiato il corso della mia vita lavorativa ma forse non sai che sei riuscito a tirare fuori una forza che neppure io sapevo di avere, l’ho tirata fuori per rispondere ai tuoi insulti, alle gravi allusioni e alle cattiverie gratuite che hai detto e scritto. È una battaglia che ho fatto per me, per mia figlia e per tutte le donne che sono vittime di soprusi e angherie sul lavoro. Leggendo il tuo post hai scritto: “Il giudice mi ha dato una multa (che non devo nemmeno pagare), una provvisionale (che non devo pagare) e le spese legali (che pagherò)”.  Beh, informati bene perché: Pagherai un mio risarcimento di 25 mila, ti ricordo è una  provvisionale che va pagata perché è immediatamente esecutiva;

Dovrai risarcire tutte le spese legali;

Dovrai liquidarmi ulteriori danni che verranno quantificati dal giudice civile.

Devo ringraziare per questo il lavoro straordinario degli Avvocati Nicola Menardo e Stefania Nubile dello studio Grande Stevens. Sappi che i soldi che riceverò li verserò ad un’associazione che tutela le donne vittime di violenza perché questa è una battaglia che ho fatto non per i tuoi soldi ma per avere giustizia, per avere una sentenza che aiuti a combattere antichi retaggi legati alle donne che ancora oggi sono duri a morire, e spero che questa sentenza incoraggi tutte le donne che si sono trovate nella mia condizione a reagire e denunciare. Ora che l'autorità giudiziaria si è pronunciata, auspico che la RAI faccia altrettanto, a tutela della sua immagine di TV pubblica. Oggi si è chiuso il caso giudiziario del Tribunale di Milano. Ci vediamo ad Aprile al Tribunale di Roma dove ancora pende per Te un rinvio a giudizio. Ad maiora!

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 10 giugno 2021.  

Magalli, dopo due giorni riesco a parlarle.

“Me ne sono accorto che mi insegue. (ride, ndr) Che urgenza c’è?” 

Sta per arrivare la Rai di Draghi e fanno fuori l’amico d’infanzia. Si è capovolto il mondo?

“È sbagliato il postulato, non sono stato fatto fuori. Sono io che ho chiesto di non rifare più I Fatti Vostri perché sono stanco. Io non sono preoccupato, sono contento. È stato fatto quello che volevo, sono felicissimo.”

Mi sta dicendo che è una scelta?

“Sì, l’ho chiesto mesi fa al direttore di Rai2 Ludovico Di Meo. Sono passati trent’anni da quando ho cominciato a farlo, sono ventuno anni di fila. Parliamo di 4 mila puntate filate, di circa 10 mila interviste. Alcune anche di un certo peso, storie che ti restano dentro. Non è un programma che si fa a cuor leggero. Quest’ultimo anno con la pandemia non è stato facile, non sono mancato un giorno. Studio vuoto, senza pubblico, tutto chiuso in una Rai deserta, senza ospiti, con le difficoltà via skype, tamponi e tutto quello che può immaginare.”

Michele Guardì cosa le ha detto?

“Guardì è stato il primo ad essere informato. Ha capito la situazione, mica mi può costringere (ride, ndr). Gli avevo proposto la staffetta, un passaggio graduale ma lui ha ritenuto di no. La staffetta si faceva una volta ed era anche più sopportabile. Facevo quattro mesi poi Frizzi ne faceva altri quattro, l’anno dopo magari accadeva lo stesso con Castagna o con Giletti. Dava la possibilità a tutti di fare anche altre cose, ai tempi facevo anche Cervelloni e Fantastico.” 

Si è parlato di malumori dietro le quinte, hanno scritto che Salvo Sottile voleva prendere il posto.

“Con Sottile non ci sono mai stati malumori, devo dire che quello che fa lo fa anche bene. Magari lui poteva avere la voglia di fare di più… Lui mi aveva detto di no. Mi ha detto che non avrebbe voluto fare I Fatti Vostri ma di voler fare altro, forse altro non ha trovato. Va bene, anzi un giornalista ci vuole.”

La scelta di Anna Falchi al suo posto ha fatto fare un salto dalla sedia a molti. Cosa c’entra?

“Questa domanda non la deve fare a me ma a chi l’ha scelta.” 

Lei condurrà un nuovo quiz che andrà in onda al pomeriggio su Rai2?

“Sì, ci sto lavorando è un quiz carino. È una vacanza per me, una cosa divertente. Ha avuto già successo in altri paesi dove è stato testato, è un quiz sulla lingua italiana.”

Non teme la fascia oraria dove spopolano La Vita in Diretta e Pomeriggio 5?

“Sicuramente sì, so che c’è una forte concorrenza a quell’ora. Vediamo se l’orario potrà essere cambiato. Il primo programma che feci fu Domani Sposi, andava al pomeriggio contro Miami Vice che era considerato imbattibile. Ci ho messi tre mesi ma l’ho battuto.” 

Mica farà l’opinionista al Grande Fratello Vip con Adriana Volpe?

“Non farò l’opinionista con la Volpe (ride, ndr). Devo dire che da quando si è saputa questa cosa ho ricevuto molte proposte sia in Rai che da altre aziende. Mi hanno proposto fiction, pubblicità, varietà. Questo mi fa piacere, voglio scegliere con calma qualcosa che mi diverta.” 

È vero che il suo rapporto con Umberto Broccoli non era dei migliori?

“Broccoli lo conosco da tanti anni. Lui è soprattutto entusiasta di se stesso, è uno che starebbe in televisione dalla mattina alla sera e spesso ci sta perché oltre a I Fatti Vostri fa altri programmi. Tendeva ad avere molto spazio, siccome fa delle cose che sono abbastanza seriose non ero d’accordo che tendesse ad allargarsi. Alla fine faceva mezzo programma e da quello che ho letto si allargherà ancora di più. I suoi contenuti non sono brutti, hanno un valore sia chiaro, ma in un programma che si basa sull’attualità dedicare un quarto del programma a cose di 70-80 anni fa mi sembrava esagerato. Era solo su questo, sulla misura.” 

Il pubblico è abituato a lei, sui social ci sono messaggi di disperazione e preoccupazione.

“Ho letto anch’io, scrivono anche a me. Da una parte sono felice che mi vogliano bene e me l’hanno sempre dimostrato. Mi scrivono che io sono I Fatti Vostri, ognuno ha delle qualità forse le mie andavano bene per quel programma passando dalle cose più serie a quelle più leggere.”

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 5 giugno 2021. Non solo presentatore televisivo, ma a sorpresa anche un provetto investigatore. Il pacato Giancarlo Magalli, fuori dal palco, per sciogliere i dubbi su una bega familiare non ha esitato a raccogliere indizi e registrare conversazioni finite poi in procura. Una questione delicata: sua sorella Monica Magalli, ora a processo per circonvenzione di incapace, è stata denunciata da un cugino che si sarebbe ritrovato spogliato dal patrimonio di centinaia di migliaia di euro. E Magalli, fatti i dovuti accertamenti, si è schierato con lui, contro sua sorella. Ieri, convocato come testimone a piazzale Clodio, ha confermato tutto. Il presentatore ha parlato per oltre un'ora davanti alla giudice Maria Rosaria Brunetti per chiarire il caso. E ha ricordato di essersi spinto anche a registrare una conversazione col cognato per cercare di capire chi avesse ragione. «Chiesi prima conto a mia sorella su queste accuse di mio cugino. Ma lei mi rispose in maniera non convincente. Mi disse che era stata la zia in una lettera a disporre del patrimonio di mio cugino in suo favore dietro alla promessa di starle sempre vicino. Lettera della quale chiesi conto ma non la possedeva più», ha premesso il conduttore, per poi aggiungere: «Quindi ho pensato di registrare una conversazione con mio cognato, il compagno di mia sorella, e più mi parlava più aumentavano i miei dubbi». «Ecco perché lo portavate sempre in giro per feste e viaggi, era per togliergli un po' tutto...Non era una bella cosa», si sente esclamare, più o meno testualmente, Giancarlo Magalli nella registrazione, «Mi spiego dove sono finiti i soldi di zio Augusto...». Non è scontato però che la prova raccolta dall' amato conduttore de I Fatti Vostri'' finisca agli atti. Il giudice si è riservato di decidere se far confluire o meno la conversazione registrata nel processo. Le accuse a carico di Monica Magalli, di professione promotrice finanziaria, pesanti. Per la procura, infatti, la sorella dell'autore tv avrebbe messo le mani su un bel gruzzolo di soldi. Per l'accusa avrebbe indotto la vittima, suo cugino, a conferire e mantenere l'incarico di gestire 800mila euro di cui si appropriava in parte».

IL TESTAMENTO Ma anche a farsi donare la nuda proprietà di due appartamenti vicino piazza Vescovio, fatto questo archiviato per prescrizione. Accuse respinte dall' imputata, difesa dall' avvocato Carlo Sanvitale. «La mia assistita non ha toccato un euro, come provano i prelievi. Il conto, di cui tra l'altro era cointestataria dai tempi in cui era viva la zia, mai utilizzato». La vittima assistita dall' avvocato Carlo Schiuma, ha reso nell' udienza precedente una ricostruzione diversa. «Dopo la morte dei genitori ho attraversato un lungo periodo difficile, di forte depressione. Mia cugina quindi gestiva il mio patrimonio in banca con carta bianca, ma con la disposizione di amministrare il tesoretto di famiglia in maniera conservativa. C' è anche un testamento a favore della signora Magalli. Il problema è che però mi sono ritrovato spogliato dei miei beni da vivo. E quindi l'ho denunciata».

Magalli lascia I fatti vostri: "Mi devo disintossicare". Novella Toloni il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. In una recente intervista il conduttore ha annunciato che con il 2021 si concluderà la conduzione del celebre programma di Rai Due. E ha poi commentato l'addio a sorpresa della co-conduttrice Samantha Togni. Era nell'aria ma la conferma è arrivata da poco. Giancarlo Magalli lascia I fatti vostri dopo trent'anni di conduzione. L'indiscrezione era trapelata alcuni settimane fa, quando si vociferava che a prendere il suo posto sarebbe stato Salvo Sottile, co-conduttore dallo scorso settembre 2020. Oggi però a mettere la parola fine, in tutti i sensi, alle chiacchiere è Magalli. Le prime indiscrezioni su un suo presunto addio erano iniziate a circolare a marzo, poi il tapiro di Striscia la notizia e infine la conferma. Nell'ultima intervista rilasciata al settimanale Nuovo TV, Giancarlo Magalli ha svelato che il prossimo sarà il suo ultimo anno alla guida del celebre programma, che esordì su Rai Due nel 1990. Il presentatore ha svelato che sarà in onda da settembre 2021 con le nuove puntate, ma che vorrebbe terminare l'esperienza con la fine dell'anno, passando il testimone a un altro presentatore con l'inizio del 2022. "Per quattro mesi uno ce la fa - ha raccontato Magalli a Nuovo Tv - ma otto sono propri tanti. Mi piacerebbe condurlo sino a Natale, anche se già mi si sovrapporrebbero i due programmi. Mi devo disintossicare". Chi lo sostituirà non è ancora chiaro, ma in molti puntano sull'ultimo arrivato nella squadra, Salvo Sottile. Il presentatore, che nelle scorse settimane aveva ricevuto anche un tapiro d'Oro per il suo addio a I fatti vostri - non lascerà però Rai Due. I vertici della rete hanno deciso di affidargli la conduzione di un nuovo gioco a quiz pomeridiano, che dovrebbe andare in onda da lunedì a venerdì a partire dal prossimo settembre. Intanto, tra le ultime novità, è sicuro anche l'addio di Samantha Togni alla co-conduzione de I fatti vostri. La ballerina aveva esordito alla guida del programma al fianco di Magalli e Sottile lo scorso settembre, ma dopo solo un anno ha deciso di lasciare. L'addio - nonostante i rumor - non è dovuto ai rapporti con Giancarlo Magalli, celebre per i suoi dissapori con le co-conduttrici passate dagli studi di Rai Due. E Magalli su Nuovo TV ha scherzato: "Mi ha lasciato lei, certo, sono sempre le mie partner tv a lasciarmi". Come già era successo con Adriana Volpe e Roberta Morise, un altro volto femminile lascia il programma. La scelta dell'ex protagonista di Ballando con le stelle è stata quella di dedicarsi esclusivamente alla conduzione del programma Domani è domenica.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è nie...

"Magalli sostituito ai Fatti Vostri". E lui reagisce così col Tapiro. I rumor lo vorrebbero pronto a dire addio al celebre programma di Rai Due, che conduce da 25 anni, ma lui non molla e replica alle indiscrezioni ai microfoni di Striscia. Novella Toloni - Ven, 02/04/2021 - su Il Giornale. Giancarlo Magalli lascia o rimane? Dopo le indiscrezioni circolate negli ultimi giorni sul suo possibile addio a I fatti vostri, il popolare conduttore ha ricevuto l'ennesimo tapiro d'Oro da Striscia la notizia e, punzecchiato da Valerio Staffelli, ha replicato ai rumor: "Clima gelido in trasmissione? Nessuno di noi litiga. La notizia è di quelle che circolano da tempo e lo ha ammesso lo stesso Giancarlo Magalli. La sua poltrona traballa da ormai diversi anni e la girandola di co-conduttori, volti femminili e ospiti entrati ed usciti dagli studi de I fatti vostri lo confermano. Il "clima è gelido" ha scherzato Staffelli nel consegnare il tapiro d'Oro a Magalli, il sesto nella sua lunga carriera. Ma alle domande pungenti dell'inviato, lo storico conduttore di Rai 2 non si è tirato indietro, anzi: "L'unica notizia che c'è, ed è vecchia, è che qualcuno vorrebbe il mio posto". I candidati non mancano ma il nome più papabile, che circola negli ambienti da qualche settimana, è quello di Salvo Sottile. Il giornalista è entrato nella squadra del format lo scorso settembre e ha saputo conquistare i favori del pubblico. "Salvo è bravo, simpatico e piace alle signore - ha scherzato Giancarlo Magalli a Striscia - Su Instagram è tutto tatuato, lo seguo. Però non ho capito se gli va. Due giorni fa c'era la notizia che andava a Mediaset. Non ho nulla in contrario, Salvo è bravo. Non è che mi oppongo, sono trent'anni che faccio questo programma". Valerio Staffelli ha così chiamato in causa Adriana Volpe: "Non è che c'entra qualcosa lei?". Ipotizzando possibili conseguenze dagli anni di diatribe interne con la co-conduttrice e altri volti noti de I fatti vostri come Marcello Cirillo. Rapporti di lavoro tutti terminati tra avvocati e tribunali. E Giancalo Magalli non si è risparmiato la frecciatina all'ex collega: "No, lasciamo stare. La Volpe ha i suoi problemi (di auditel, ndr), non ci sentiamo. Lei deve lavorare per il suo programma". Sul suo futuro però Giancarlo Magalli ha lasciato aperte le porte, anche quella di poter cambiare azienda e passare dalla Rai a Mediaset: "Potrebbero propormi qualcosa di più divertente. Io vorrei condurre un quiz, sono anni che lo dico. Sono molto invidioso di Gerry Scotti: pagherei io per fare Chi vuol essere milionario?. Mi piacerebbe anche Striscia la notizia".

Da liberoquotidiano.it il 2 aprile 2021. Giancarlo Magalli potrebbe essere sostituito dopo trent’anni di onorata carriera su Rai2, tutti trascorsi alla conduzione de I Fatti Vostri. Striscia la Notizia gli ha consegnato un tapiro d’oro tramite il solito Valerio Staffelli, che ovviamente gli ha chiesto se fosse vera l’indiscrezione secondo cui potrebbe essere sostituito da Salvo Sottile. Il conduttore non ha confermato né smentito, però ha dato alcune risposte che si addicono proprio allo stile che lo contraddistingue dal lontano 1990, ovvero da quando è passato alla conduzione del programma di Michele Guardì. Intercettato a Roma da Staffelli, Magalli ha dichiarato che “Salvo è bravo, simpatico e piace alle signore. Su Instagram è tutto tatuato. Se decideranno così, sono padroni: la Rai mica è mia. Sono 30 anni che faccio quel programma…”. E quindi non è neanche escluso che possa essere lui stesso a dire basta per cercare nuovi stimoli professionali: secondo quanto riportato sul sito del sempre ben informato Davide Maggio, la sostituzione potrebbe avvenire per “le solite beghe che animerebbero il dietro le quinte del programma ma che, questa volta, non riguarderebbero Magalli”. Il quale ha manifestato un desiderio importante ai microfoni di Striscia la Notizia: “Potrebbero propormi qualcosa di più divertente. Io vorrei condurre un quiz, infatti sono molto invidioso di Gerry Scotti: pagherei per fare Chi vuol essere milionario? Mi piacerebbe anche Striscia la Notizia”. Guarda caso ha citato proprio due programmi di Mediaset…

·        Giancarlo ed Adriano Giannini.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. Racconta Adriano Giannini che compiere 50 anni il 10 maggio non lo inquieta, non è un tema. I 40 no. Gli erano pesati. «Ero su un set a Praga e non dissi a nessuno del compleanno. Non ero dell' umore. Ora, la tappa non mi spaventa, perché nel frattempo sono successe tante cose». Tante o una, essenzialmente. Perché, se gli chiedi cosa lo turbava dieci anni fa, risponde: «Era da poco finita una relazione lunga e mi trovavo a un' età in cui fare i conti con quello che avevo realizzato». Erano i tempi in cui diceva «sono single per i fatti della vita, fosse per me, avrei già una nidiata di bambini».

Sul lavoro, invece, di cose ne aveva realizzate in abbondanza: un film da protagonista con Madonna, film diretti da Paolo Sorrentino, Gabriele Muccino, Giovanni Veronesi, Francesca Archibugi; e, prima ancora, 11 anni da cineoperatore con Giuseppe Tornatore, con Ermanno Olmi, con Anthony Minghella, fra gli altri; aveva doppiato Joaquin Phoenix, Heath Ledger, Jude Law, e diretto un corto, Il Gioco, presentato al Festival di Venezia. Tutto bello, tutto denso. Eccetto, dice, per quel «desiderio di famiglia avuto precocemente, già dai 20 anni».

Nell' agosto 2019 si è sposato, con Gaia Trussardi, a lungo direttrice creativa del marchio di famiglia. E ora, i 50, non fanno paura. Una volta, aveva detto: «L'amore non lo cerco. Quando arriva, arriva». Come l' ha riconosciuto quando è arrivato?

«Sono stato da solo anche per sei, sette anni... Non sono uno che sta in coppia per sollievo dalla solitudine. Con Gaia, è avvenuto un incontro, un riconoscimento d' appartenenza, abbiamo sentito quella sensazione per cui reciprocamente ci si affida all' altro, un legame antico, una cosa di un fascino misterioso».

Se fosse una scena da tradurre in un film?

«Un' immagine dell' altro giorno, mentre andavo via dal set alle cinque del mattino, dopo aver girato tutta la notte, con un freddo micidiale, fra sangue e sparatorie, nella scenografia di un luna park. Ormai ridotto a uno straccio, ho superato l' area dei camion, dei camper, mi sono voltato e ho visto un ragazzo di spalle, dietro a un ventilatore gigante, una macchina del fumo per fare la nebbia di notte. Ho pensato: mentre noi stavamo a creare la magia del cinema, quell' omino è stato qui per tutta la notte, da solo, a fare la nebbia».

L' omino solo che fa la nebbia di notte era lei, prima di Gaia?

«Ci ho visto quella magica solitudine che, quando viene condivisa e intravista nell' altro, diventa un legame che unisce».

Sua moglie ha due figli adolescenti dal primo matrimonio e lei, da sposato, si è trasferito a Milano: come è stato cambiare vita?

«Appena abbiamo finito di sistemare casa, è iniziato il lockdown, mi sono trovato proiettato in una vita di coppia con due ragazzi che adoro e gli assestamenti normali della situazione sono passati in secondo piano rispetto a quello che accadeva intorno. Ma siamo stati bene. Ho fatto tante cose che desideravo da molto: approfondimenti, riflessioni rispetto alla verità di ciò che siamo. Con Gaia, ho girato il video di una sua canzone e abbiamo scritto favole che potrebbero diventare cartoni animati. Ho fatto yoga e ho imparato a fare docce fredde la mattina. Fanno benissimo».

Come mai favole, non avendo lei bambini?

«I bambini non me li precludo. Non per merito mio, ma del Dna, ho ancora il fisico per sciare, giocare a tennis e fare le cose che si fanno coi figli. Delle favole, mi ha sempre affascinato l' idea di animare oggetti inanimati. Una appena scritta parla di due girasoli che s' innamorano, perché anche se la loro natura è guardare sempre il sole, un giorno, invece, incrociano i loro sguardi. E poi, da piccolo, i miei mi leggevano tante fiabe e mia madre e mio padre di certo non le leggevano male».

Si tratta di Giancarlo Giannini e di Livia Giampalmo, anche lei attrice e doppiatrice. La portavano mai sul set?

«Poco. A due anni, Lina Wertmuller mi volle per una scena di Film d' amore e d' anarchia . Io ero timidissimo e detestavo chi mi faceva le moine, soprattutto se diceva che somigliavo a papà. A maggior ragione perché lui era sempre via per lavoro. Insomma, mi misero vestiti di lana che pungeva mentre sventolavano diecimila lire per invogliarmi, secondo loro, a fare l' attore. Non ero affatto divertito. Poi, capii che la scena consisteva nel fare la pipì sul vasino e, siccome io la facevo sempre a letto, la trovai di cattivo gusto. Mi rifiutai. Dissi: il pagliaccio non lo faccio. Manco fossi Clark Gable».

In origine, per 11 anni, ha fatto l' operatore. Manovra di elusione verso la recitazione?

«Elusiva e al tempo stesso formativa, ma elusiva rispetto al lutto che avevo appena avuto. Finito il liceo, non sapevo che fare della vita. Soprattutto, non volevo perdere tempo. Chiesi a mia madre di trovarmi un lavoro per guadagnare qualcosa e poter andare in America a studiare inglese. Feci l' aiuto operatore, mi piacque. Poi, feci il volontario in altri film. In quel mestiere, trovai un contesto in cui davo un senso a me stesso. Guadagnavo, imparavo, ero fuori di casa, fuori anche da una dimensione, in quel momento, non felice».

Suo fratello Lorenzo era morto a 19 anni per aneurisma cerebrale. Era quel lutto improvviso a spingerla ad aver fretta di fare?

«Avevo fretta di essere grande già prima. Poi, quell' evento mi ha messo più urgenza e lavorare era un modo per non pensare, una fuga. Dopodiché, la fuga diventa una modalità: dopo tre settimane a Roma, devi andare, partire e così rimandi gli appuntamenti della vita».

Qual era l' appuntamento della vita?

«Capire il percorso che volevo per me. Ho smesso di fare l' operatore perché volevo diventare regista, ma sentivo il bisogno di studiare drammaturgia, Cechov, Shakespeare, perciò feci una scuola di recitazione. E mi appassionai. Mi prese Maurizio Sciarra per un film, poi ne girai uno diretto da mia madre, e già lì siamo in Edipo, quindi arrivò Swept Away , col ruolo avuto da mio padre in Travolti da un insolito destino . Capisce il caos edipico?».

Si narra che per «Swept Away», fece il provino senza sapere che era quel remake e che Guy Ritchie non sapesse chi era lei.

«Mi diedero il copione solo in sala audizioni e il regista non c' era. Io entro, mi metto sotto le luci, prendo i fogli, inizio a leggere. Riconosco le battute e penso a uno scherzo. Il giorno dopo, mi chiama Guy Ritchie e mi dice di raggiungerlo a Londra che vuole farmi un provino con Madonna, e io: sì, vabbé, c' è anche Prince? La storia, non so se vera, è che guardavano i provini, uno dice: questo chi è? Adriano, Giannini. Sarà parente? Boh. Vabbé, chiamiamolo».

Quel film era davvero così brutto da meritare tante critiche feroci?

«Non è bello come l' originale perché non è sviluppato il tema della differenza di classe».

«Ocean' s Twelve»... Perché ride già se solo nomino il titolo?

«Perché anche lì è una storia singolare. Faccio il provino a Roma, mi prendono per un ruolo in cui interagivo con George Clooney, Brad Pitt, Matt Damon... Arriva il contratto e, insieme, un' altra sceneggiatura, dove non c' ero più, c' ero come un refuso. Dico: non firmo, mi vergogno ad andare a Los Angeles per non far niente. Il giorno dopo, chiama Steven Soderbergh. Non ci credevo. Mi fa: mi hanno detto che non fai il film. Lo prendo a ridere. Gli dico: che vengo a fare? Gli spaghetti? E lui: non ti preoccupare, pure Clint Eastwood fa solo un cameo. Insomma, mi dice: riscrivo il copione, tu vieni. Vado, giro e, alla fine, taglia quasi tutto. Però mi sono divertito».

La fama di sex symbol, che effetto le fa?

«Per me i sex symbol sono finiti con Paul Newman e Robert Redford in Butch Cassidy».

Quale set ha amato di più?

«Quello di Dolina , un film mai uscito in Italia, girato in Transilvania da un regista ungherese, un Kusturica locale: cinque mesi su montagne freddissime con orsi e lupi, ma con attori famosissimi di lì, monumenti, tipo i nostri Gassman e Vitti. Una notte, accompagno in albergo un' attrice ottantenne, celebre cantante lirica. Parlava solo ungherese, non potevamo comunicare. In macchina, al buio, tra i boschi innevati, ha cominciato a cantare in italiano un' opera lirica. Sono momenti che restano».

Le capitano spesso set improbabili?

«Il più improbabile fu uno di kung fu. Arriva un copione in cinese e mi dicono che doveva farlo Arnold Schwarzenegger, poi sgradito in quanto repubblicano, per cui hanno pensato a me. Pagavano bene e vado a Shanghai. Trovo due attrici ex campionesse mondiali di qualcosa, grosse tipo ninja. Mi assicurano: tranquillo, faranno finta. Al primo ciak, mi prendo un calcio terribile nel muscolo femorale».

Ora, sta girando una serie per Amazon.

« Bang Bang Baby di Michele Ailique, la prima tutta prodotta da Amazon America in Italia. Mi sto divertendo, non sempre succede.Recito in calabrese. È una dark comedy, la storia vera di una ragazzina che scala la 'ndrangheta per farsi amare dal padre, che sono io».

La vedremo in «Tre piani» di Nanni Moretti. Com' è stato girare con lui?

«Bello. Tutti ne hanno un po' timore, ma è solo esigente, preciso, come deve essere un regista. E io gli voglio bene: in certi momenti, mi è stato vicino con calore e affetto».

Che ne è del progetto di diventare regista?

«Fare tutto è difficile».

Desideri per i prossimi 50 anni?

«Uno in via di realizzazione: un casale in Toscana per stare di più con la famiglia, con più cani, due asini, e coltivazioni biodinamiche. Voglio più tempo per guardare i girasoli. La natura ti porta vicino alla verità delle persone e, a me, piacciono quelle perbene. Mi interessano gli animi gentili. Vuol dire che hanno capito».

·        Gianfranco Vissani.

Carlo Cambi per “La Verità” il 29 novembre 2021. Ha scelto un tempio della cucina di territorio, non di quelli da show televisivo per festeggiare con la brigata i suoi 70 anni. Si è rintanato a Velletri da Benito al Bosco. Ha replicato due sere fa a casa sua, Casa Vissani, lì sulle rive del lago di Baschi dove tutto è cominciato, dove tutto si è compiuto. C'erano gli amici più stretti, non la politica che pure lo ha adulato e aiutato, ma dalla quale si è sentito tradito fino al punto di vestire i panni del capopopolo durante le chiusure causa virus cinese. Ce ne ha e ne ha avute per tutti: dalle donne, ai vegani, passando per il fisco e il governo fino a dire alle famiglie che la devono smettere di coccolare i figli. Potesse, metterebbe le lancette dell'orologio anni indietro: non ha rimpianti, ma si trova a disagio nel tempo presente. Gianfranco Vissani, un cognome ereditato dalle suore che battezzarono così il nonno raccolto dalla ruota degli orfani, una vita spesa dietro i fornelli e davanti alle telecamere, un carattere ingombrante come il suo fisico: un metro e novanta per 130 chili (a seconda dei periodi di dieta). Nato il 22 novembre 1951 a Civitella del Lago dove l'Umbria è quasi Maremma e il Medioevo una scatola di pietra da abitare, ha cominciato a lavorare a 15 anni, nel 1966. Scarpe rosse e talento sopraffino, Vissani è stato il primo cuoco star. Ha esordito in televisione - da Linea verde alla Prova del cuoco per citare due dei suoi maggiori successi - interpretando sé stesso, è rimasto invischiato nel personaggio salvo tornare a rivendicare libertà di pensiero, di azione gastronomica e di brutto carattere. Dovremmo chiamarlo «quasi» dottore: l'Università di Camerino gli conferì ad honorem uno speciale diploma. Ha firmato molti best seller gastronomici. Ha giurato di dire a La Verità tutta la verità.

Settanta sono tanti o sono pochi, Gianfranco?

«Gianfranco si sente un pischello, sto benissimo e ho tanta energia. Vissani imprenditore si sente fiaccato dalle tasse, dalle chiusure incomprensibili, dalle troppe difficoltà che incontriamo ogni giorno. Domani, dopo un anno e mezzo di chiusure, scadono le cartelle della rottamazione e altri balzelli per decine di migliaia di euro. Hanno deciso di farci chiudere. A Draghi ho fatto un appello per dire che così uccidono la ristorazione. Si troveranno con un deserto di fallimenti. E se ci fanno altre chiusure è davvero la fine. Io sto a Baschi, mica a Roma o a Milano. Abbiamo ridotto i tavoli a 8 anche perché si fa fatica a trovare il personale giusto e se non lavoriamo a pieno regime con i costi non ce la si fa». 

Un Vissani ancora alla testa della protesta?

«Non è una protesta, è il racconto di come stiamo messi. Il gas è triplicato, l'energia ce la facciamo da soli perché siamo attenti all'ambiente, ma i costi lievitano continuamente e le difficoltà aumentano. Mi chiedo se è chiaro a tutti che i contadini non ce la fanno, gli allevatori non ce la fanno, i nostri fornitori stentano. E c'è la faccenda del personale: in parte il reddito di cittadinanza e in parte però anche le famiglie che questi figli li coccolano non ci fanno trovare ragazzi e ragazze che hanno desiderio di imparare un mestiere, di costruirsi la vita con il lavoro. Ai miei tempi non era così». 

Com' era?

«Si studiava, si faceva fatica, s' imparava il mestiere senza chiedere quando si smette e quanto si guadagna». 

Gianfranco Vissani è stato facilitato, aveva tutto in famiglia?

«Facilitato? Partiamo da mio nonno: un trovatello nato a Pitigliano in Maremma che si è fermato a Baschi perché non aveva i soldi per farsi traghettare sul Tevere verso Roma. Arriviamo a Mario, il mio babbo che insieme a mia mamma Eleonora (Castellani) s' ingegnano a continuare il mestiere del nonno: fare da mangiare a chi passa per strada. Nacque "Da Mario" che diventò la Taverna del Lago e infine "Il Padrino". Era uscito il film e Mario si voleva lanciare nella notorietà per gli stranieri. In fin dei conti era un po' un Robin Hood: pigliava dai ricchi (il conto) per dare ai poveri, i contadini da cui comprava. Quand'ero piccolo non mi potevo sedere sul divano o a tavola perché ovunque in casa c'erano le sfoglie di pasta tirate dalla mamma che le copriva col lenzuolo. Io ho cominciato così. Vedendo i miei. Sono andato a Spoleto all'alberghiero e lì ho incontrato il professor Dornetto, quello di tecnica che mi disse che ero bravo. Avevo voglia di fare, così dopo il diploma sono partito in giro per l'Italia a imparare». 

Tappe fondamentali?

«Roma da Checco il Carrettiere, poi il Majestic a Firenze, il Miramonti a Cortina, ho aperto anche il ristorante dell'albergo di Visso e ho pianto quando l'ho visto distrutto dal terremoto. Allo Zio d'America a Roma diventai capo cuoco e avevo poco più di vent' anni: ne avevo 19 sotto di me». 

Perché poi tutto è successo a Baschi?

«Tornavo da Venezia e avevo telefonato se mi potevano venire a prendere alla stazione a Perugia. Mio padre sentenziò che aveva finito i soldi. Io ero tornato per partire per Londra, ma mamma si mise a piangere e allora dissi: "Resto per un po'". Qui si ballava e c'era una ragazza, una certa Tosca di Firenze che veniva tutte le domeniche, voleva che ci fidanzassimo, ma io ero imbranato. E pensavo di fare qualcosa di mio. Così mi decisi a rinnovare il menù della nostra trattoria e cominciai a fare il pesce. Mi alzavo alle 4 per andare al mercato a Roma. E davo scandalo ai miei perché se avanzava qualcosa lo buttavo via. Non ce la facevo: per una vita mi avevano dato da mangiare gli avanzi, i miei clienti dovevano avere tutto freschissimo. Fu un'esplosione. Un signore di Todi, il Mencacci, mi disse: "Parla coi giornali". Da lì arrivarono le guide. D'Amato con l'Espresso, poi Raspelli. D'Amato mi mise a pari di Pinchiorri perché non poteva essere così giovane il primo ristorante d'Italia. Raspelli arrivò a darmi 19,6/20 un primato assoluto e per trent' anni sono stato il migliore ristorante d'Italia per l'Espresso. E poi anche le due stelle Michelin. Per me parla la mia storia: da ragazzetto nel 1969 lavorando con l'Italcementi e prendevo 177.000 lire, era uno sproposito, ma avevano capito che li valevo».

Ora di stelle ne è rimasta una sola. Deluso?

«Rispondo con Emile Peynaud, il re del vino mondiale, che scrive: la qualità dei vini la fanno i degustatori, ma la qualità dei degustatori chi la fa? Ci sarebbe molto da dire sui giudizi delle guide oggi come sugli influencer: vengono, mangiano, non sanno nulla, fanno le foto e riducono il piatto a pornografia. È il segno del decadimento. Gualtiero Marchesi rifiutò le stelle: sbagliò i tempi, ma aveva ragione». 

E com' è nata la storia del cuoco di D'Alema?

 «Sono stato il cuoco della prima e della seconda Repubblica, sulla terza non mi pronuncio. Da me sono venuti tutti. Una volta si è affacciato Enrico Berlinguer con 35 altri politici e c'erano gli agenti al seguito. Mi venivano a frugare nei frigoriferi e li ho sbattuti fuori dalla cucina. Berlinguer mi fece i complimenti e tornava con la famiglia. Un mio grande amico è stato Gerardo Bianco e sono stato legato a Gianni De Michelis, mi piaceva come uomo di cultura, come stile. Posso dire che negli anni della massima frizione sono stato in grado di far fare pace a socialisti e comunisti. Con Massimo D'Alema è nata un'amicizia perché lui venne a mangiare e alzandosi mi disse: pensavo che qui piovesse, ma ha grandinato! Ci mettemmo a parlare e compresi che era un uomo sincero, appassionato di cucina e di agricoltura e ci fu intesa. Lui mi fece conoscere Gianni Letta: riuscivo a mettere a tavola i politici anche di diversi schieramenti facendo stemperare le loro ruggini con i miei piatti. Questa è la magia della cucina». 

Vissani e le polemiche con i vegani, con le donne che non tengono i ritmi della cucina?

«Non sopporto i luoghi comuni, non sopporto che non si possa dire ciò che si pensa. La cucina è cultura e identità e io difendo la mia cultura e la mia identità con la mia cucina». 

Oggi il dominus di Casa Vissani però è Luca, il figlio che dà del lei a Gianfranco: perché?

«Luca è fatto così: tende alla perfezione. È lui che gestisce Casa Vissani, è bravissimo nelle scelte, sa dialogare con i nuovi media e mi dà la libertà di tornare a creare in cucina. È un uomo che ha rispetto di tutti, da quando si è sposato con Veronica è ancora più attaccato ai valori della famiglia. Del resto la mia brigata è una famiglia. C'è Mori, il mio sous-chef, che sta con me da più di trent' anni e conosce tutto dei miei piatti. Una brigata come questa non la improvvisi, ecco perché mi sono tanto arrabbiato per le chiusure. Questi sono patrimoni che rischi di disperdere». 

In ultimo: che futuro c'è per la cucina?