Denuncio al mondo ed ai posteri con i miei libri tutte le illegalità tacitate ed impunite compiute dai poteri forti (tutte le mafie). Lo faccio con professionalità, senza pregiudizi od ideologie. Per non essere tacciato di mitomania, pazzia, calunnia, diffamazione, partigianeria, o di scrivere Fake News, riporto, in contraddittorio, la Cronaca e la faccio diventare storia. Quella Storia che nessun editore vuol pubblicare. Quelli editori che ormai nessuno più legge.

Gli editori ed i distributori censori si avvalgono dell'accusa di plagio, per cessare il rapporto. Plagio mai sollevato da alcuno in sede penale o civile, ma tanto basta per loro per censurarmi.

I miei contenuti non sono propalazioni o convinzioni personali. Mi avvalgo solo di fonti autorevoli e credibili, le quali sono doverosamente citate.

Io sono un sociologo storico: racconto la contemporaneità ad i posteri, senza censura od omertà, per uso di critica o di discussione, per ricerca e studio personale o a scopo culturale o didattico. A norma dell'art. 70, comma 1 della Legge sul diritto d'autore: "Il riassunto, la citazione o la riproduzione di brani o di parti di opera e la loro comunicazione al pubblico sono liberi se effettuati per uso di critica o di discussione, nei limiti giustificati da tali fini e purché non costituiscano concorrenza all'utilizzazione economica dell'opera; se effettuati a fini di insegnamento o di ricerca scientifica l'utilizzo deve inoltre avvenire per finalità illustrative e per fini non commerciali."

L’autore ha il diritto esclusivo di utilizzare economicamente l’opera in ogni forma e modo (art. 12 comma 2 Legge sul Diritto d’Autore). La legge stessa però fissa alcuni limiti al contenuto patrimoniale del diritto d’autore per esigenze di pubblica informazione, di libera discussione delle idee, di diffusione della cultura e di studio. Si tratta di limitazioni all’esercizio del diritto di autore, giustificate da un interesse generale che prevale sull’interesse personale dell’autore.

L'art. 10 della Convenzione di Unione di Berna (resa esecutiva con L. n. 399 del 1978) Atto di Parigi del 1971, ratificata o presa ad esempio dalla maggioranza degli ordinamenti internazionali, prevede il diritto di citazione con le seguenti regole: 1) Sono lecite le citazioni tratte da un'opera già resa lecitamente accessibile al pubblico, nonché le citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche nella forma di rassegne di stampe, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo.

Ai sensi dell’art. 101 della legge 633/1941: La riproduzione di informazioni e notizie è lecita purché non sia effettuata con l’impiego di atti contrari agli usi onesti in materia giornalistica e purché se ne citi la fonte. Appare chiaro in quest'ipotesi che oltre alla violazione del diritto d'autore è apprezzabile un'ulteriore violazione e cioè quella della concorrenza (il cosiddetto parassitismo giornalistico). Quindi in questo caso non si fa concorrenza illecita al giornale e al testo ma anzi dà un valore aggiunto al brano originale inserito in un contesto più ampio di discussione e di critica.

Ed ancora: "La libertà ex art. 70 comma I, legge sul diritto di autore, di riassumere citare o anche riprodurre brani di opere, per scopi di critica, discussione o insegnamento è ammessa e si giustifica se l'opera di critica o didattica abbia finalità autonome e distinte da quelle dell'opera citata e perciò i frammenti riprodotti non creino neppure una potenziale concorrenza con i diritti di utilizzazione economica spettanti all'autore dell'opera parzialmente riprodotta" (Cassazione Civile 07/03/1997 nr. 2089).

Per questi motivi Dichiaro di essere l’esclusivo autore del libro in oggetto e di tutti i libri pubblicati sul mio portale e le opere citate ai sensi di legge contengono l’autore e la fonte. Ai sensi di legge non ho bisogno di autorizzazione alla pubblicazione essendo opere pubbliche.

Promuovo in video tutto il territorio nazionale ingiustamente maltrattato e censurato. Ascolto e Consiglio le vittime discriminate ed inascoltate. Ogni giorno da tutto il mondo sui miei siti istituzionali, sui miei blog d'informazione personali e sui miei canali video sono seguito ed apprezzato da centinaia di migliaia di navigatori web. Per quello che faccio, per quello che dico e per quello che scrivo i media mi censurano e le istituzioni mi perseguitano. Le letture e le visioni delle mie opere sono gratuite. Anche l'uso è gratuito, basta indicare la fonte. Nessuno mi sovvenziona per le spese che sostengo e mi impediscono di lavorare per potermi mantenere. Non vivo solo di aria: Sostienimi o mi faranno cessare e vinceranno loro. 

Dr Antonio Giangrande  

NOTA BENE

NESSUN EDITORE VUOL PUBBLICARE I  MIEI LIBRI, COMPRESO AMAZON, LULU E STREETLIB

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ANNO 2021

 

LO SPETTACOLO

 

E LO SPORT

 

SECONDA PARTE

 

 

 

DI ANTONIO GIANGRANDE

 

 

 

  

 

L’ITALIA ALLO SPECCHIO

IL DNA DEGLI ITALIANI

     

 

 

 

L’APOTEOSI

DI UN POPOLO DIFETTATO

Questo saggio è un aggiornamento temporale, pluritematico e pluriterritoriale, riferito al 2021, consequenziale a quello del 2020. Gli argomenti ed i territori trattati nei saggi periodici sono completati ed approfonditi in centinaia di saggi analitici specificatamente dedicati e già pubblicati negli stessi canali in forma Book o E-book, con raccolta di materiale riferito al periodo antecedente. Opere oggetto di studio e fonti propedeutiche a tesi di laurea ed inchieste giornalistiche.

Si troveranno delle recensioni deliranti e degradanti di queste opere. Il mio intento non è soggiogare l'assenso parlando del nulla, ma dimostrare che siamo un popolo difettato. In questo modo è ovvio che l'offeso si ribelli con la denigrazione del palesato.

 

IL GOVERNO

 

UNA BALLATA PER L’ITALIA (di Antonio Giangrande). L’ITALIA CHE SIAMO.

UNA BALLATA PER AVETRANA (di Antonio Giangrande). L’AVETRANA CHE SIAMO.

PRESENTAZIONE DELL’AUTORE.

LA SOLITA INVASIONE BARBARICA SABAUDA.

LA SOLITA ITALIOPOLI.

SOLITA LADRONIA.

SOLITO GOVERNOPOLI. MALGOVERNO ESEMPIO DI MORALITA’.

SOLITA APPALTOPOLI.

SOLITA CONCORSOPOLI ED ESAMOPOLI. I CONCORSI ED ESAMI DI STATO TRUCCATI.

ESAME DI AVVOCATO. LOBBY FORENSE, ABILITAZIONE TRUCCATA.

SOLITO SPRECOPOLI.

SOLITA SPECULOPOLI. L’ITALIA DELLE SPECULAZIONI.

 

L’AMMINISTRAZIONE

 

SOLITO DISSERVIZIOPOLI. LA DITTATURA DEI BUROCRATI.

SOLITA UGUAGLIANZIOPOLI.

IL COGLIONAVIRUS.

 

L’ACCOGLIENZA

 

SOLITA ITALIA RAZZISTA.

SOLITI PROFUGHI E FOIBE.

SOLITO PROFUGOPOLI. VITTIME E CARNEFICI.

 

GLI STATISTI

 

IL SOLITO AFFAIRE ALDO MORO.

IL SOLITO GIULIO ANDREOTTI. IL DIVO RE.

SOLITA TANGENTOPOLI. DA CRAXI A BERLUSCONI. LE MANI SPORCHE DI MANI PULITE.

SOLITO BERLUSCONI. L'ITALIANO PER ANTONOMASIA.

IL SOLITO COMUNISTA BENITO MUSSOLINI.

 

I PARTITI

 

SOLITI 5 STELLE… CADENTI.

SOLITA LEGOPOLI. LA LEGA DA LEGARE.

SOLITI COMUNISTI. CHI LI CONOSCE LI EVITA.

IL SOLITO AMICO TERRORISTA.

1968 TRAGICA ILLUSIONE IDEOLOGICA.

 

LA GIUSTIZIA

 

SOLITO STEFANO CUCCHI & COMPANY.

LA SOLITA SARAH SCAZZI. IL DELITTO DI AVETRANA.

LA SOLITA YARA GAMBIRASIO. IL DELITTO DI BREMBATE.

SOLITO DELITTO DI PERUGIA.

SOLITA ABUSOPOLI.

SOLITA MALAGIUSTIZIOPOLI.

SOLITA GIUSTIZIOPOLI.

SOLITA MANETTOPOLI.

SOLITA IMPUNITOPOLI. L’ITALIA DELL’IMPUNITA’.

I SOLITI MISTERI ITALIANI.

BOLOGNA: UNA STRAGE PARTIGIANA.

 

LA MAFIOSITA’

 

SOLITA MAFIOPOLI.

SOLITE MAFIE IN ITALIA.

SOLITA MAFIA DELL’ANTIMAFIA.

SOLITO RIINA. LA COLPA DEI PADRI RICADE SUI FIGLI.

SOLITO CAPORALATO. IPOCRISIA E SPECULAZIONE.

LA SOLITA USUROPOLI E FALLIMENTOPOLI.

SOLITA CASTOPOLI.

LA SOLITA MASSONERIOPOLI.

CONTRO TUTTE LE MAFIE.

 

LA CULTURA ED I MEDIA

 

LA SCIENZA E’ UN’OPINIONE.

SOLITO CONTROLLO E MANIPOLAZIONE MENTALE.

SOLITA SCUOLOPOLI ED IGNORANTOPOLI.

SOLITA CULTUROPOLI. DISCULTURA ED OSCURANTISMO.

SOLITO MEDIOPOLI. CENSURA, DISINFORMAZIONE, OMERTA'.

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI.

SOLITO SANREMO.

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO.

 

LA SOCIETA’

 

AUSPICI, RICORDI ED ANNIVERSARI.

I MORTI FAMOSI.

ELISABETTA E LA CORTE DEGLI SCANDALI.

MEGLIO UN GIORNO DA LEONI O CENTO DA AGNELLI?

 

L’AMBIENTE

 

LA SOLITA AGROFRODOPOLI.

SOLITO ANIMALOPOLI.

IL SOLITO TERREMOTO E…

IL SOLITO AMBIENTOPOLI.

 

IL TERRITORIO

 

SOLITO TRENTINO ALTO ADIGE.

SOLITO FRIULI VENEZIA GIULIA.

SOLITA VENEZIA ED IL VENETO.

SOLITA MILANO E LA LOMBARDIA.

SOLITO TORINO ED IL PIEMONTE E LA VAL D’AOSTA.

SOLITA GENOVA E LA LIGURIA.

SOLITA BOLOGNA, PARMA ED EMILIA ROMAGNA.

SOLITA FIRENZE E LA TOSCANA.

SOLITA SIENA.

SOLITA SARDEGNA.

SOLITE MARCHE.

SOLITA PERUGIA E L’UMBRIA.

SOLITA ROMA ED IL LAZIO.

SOLITO ABRUZZO.

SOLITO MOLISE.

SOLITA NAPOLI E LA CAMPANIA.

SOLITA BARI.

SOLITA FOGGIA.

SOLITA TARANTO.

SOLITA BRINDISI.

SOLITA LECCE.

SOLITA POTENZA E LA BASILICATA.

SOLITA REGGIO E LA CALABRIA.

SOLITA PALERMO, MESSINA E LA SICILIA.

 

LE RELIGIONI

 

SOLITO GESU’ CONTRO MAOMETTO.

 

FEMMINE E LGBTI

 

SOLITO CHI COMANDA IL MONDO: FEMMINE E LGBTI.

 

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

INDICE PRIMA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Il Circo.

Superstizione e fisse.

Gli Zozzoni.

Le Icone.

Le Hollywood d’Italia.

«Gomorra», tra fiction e realtà.

Quelli che …il calcio.

I Naufraghi.

Amici: tutto truccato?

Il Grande Fratello Vip.

"I tormentoni estivi? Sono da 60 anni specchio dell'Italia".

Le Woodstock.

Rap ed illegalità.

L’Eurovision.

Abella Danger e Bella Thorne.

Achille Lauro.

Adele.

Adriana Volpe.

Adriano e Rosalinda Celentano.

Aerosmith.

Aida Yespica.

Afef.

Alanis Morissette.

Alba Parietti.

Alba Rohrwacher.

Al Bano Carrisi.

Alda D’Eusanio.

Aldo, Giovanni e Giacomo.

Ale & Franz.

Alec Baldwin.

Alessandra Amoroso.

Alessandro Benvenuti.

Alessandro Borghese.

Alessandro Borghi.

Alessandro Cattelan.

Alessandro Cecchi Paone.

Alessandro Gassmann.

Alessandro Haber.

Alessandro Nivola.

Alessia Marcuzzi.

Alessio Bernabei.

Alfonso Signorini. 

Alice ed Ellen Kessler.

Alina Lopez e Emily Willis.

Amanda Lear.

Ambra Angiolini.

Amedeo Minghi.

Amouranth, alias Kaitlyn Siragusa.

Andrea Balestri.

Andrea Bocelli.

Andrea Delogu.

Andrea Roncato.

Andrea Sannino.

Angela White.

Angelina Jolie.

Anya Taylor-Joy.

Anna Falchi.

Anna Oxa.

Annalisa Minetti.

Anna Maria Rizzoli.

Anna Tatangelo.

Anna Mazzamauro.

Anthony Hopkins.

Antonella Clerici.

Antonella Elia.

Antonella Mosetti.

Antonello Venditti.

Antonino Cannavacciuolo.

Antonio Costantini Awanagana.

Antonio Mezzancella.

Antonio Ricci.

Arisa.

Asia e Dario Argento.

Aubrey Kate.

Baltimora.

Barbara De Rossi.

Barbara d'Urso.

Beatrice Rana.

Belen Rodriguez.

Bella Hadid.

Benedetta D’Anna.

Benedicta Boccoli.

Bill Murray.

Billie Eilish.

Björn Andrésen.

Bob Dylan.

Bobby Solo, ossia: Roberto Satti.

Brad Pitt.

Brandi Love.

Brigitte Bardot.

Britney Spears.

Bruce Springsteen.

Camilla Boniardi: Camihawke.

Can Yaman.

Capo Plaza, nato come Luca D'Orso.

Cara Delevingne.

Carla Gravina.

Carlo Cracco.

Carlo Verdone.

Carlotta Proietti.

Carmen Consoli.

Carmen Russo e Enzo Paolo Turchi.

Carol Alt.

Carolina Marconi.

Catherine Spaak.

Caterina Balivo.

Caterina Caselli.

Caterina De Angelis e Margherita Buy.

Caterina Lalli, in arte Lialai.

Caterina Murino.

Caterina Valente.

Cecilia Capriotti.

Chadia Rodriguez.

Charlotte Sartre.

Chloé Zhao, regista Premio Oscar.

Christian De Sica.

Claudia Koll.

Cristian Bugatti in arte Bugo.

Cristiano Malgioglio.

Clara Mia.

Claudia Cardinale.

Claudia Gerini.

Claudia Motta.

Claudia Pandolfi.

Claudia Schiffer.

Claudia Koll.

Claudio Baglioni.

Claudio Bisio.

Claudio Cecchetto.

Claudio Santamaria.

Coma_Cose.

Cosimo Fini, cioè Gué Pequeno.

Corinne Clery.

Daft Punk.

Damon Furnier, in arte Alice Cooper.

Daniela Ferolla.

Dario Faini, Dardust e DRD.

Demi Lovato.

Demi Moore.

Demi Sutra.

Deep Purple.

Diego Abatantuono.

Diletta Leotta.

Donatella Rettore.

Dori Ghezzi vedova De André.

Dredd.

Ed Sheeran.

Edoardo Bennato.

Edoardo Vianello.

Eddie Murphy.

Elena Sofia Ricci.

Eleonora Cecere.

Eleonora Giorgi.

Eleonora Pedron.

Elettra Lamborghini.

Elio (Stefano Belisari) e le Sorie Tese.

Elisa Isoardi.

Elisabetta Canalis.

Elisabetta Gregoraci.

Elena Anna Staller, detta Ilona (il nome della madre) o Cicciolina.

Elodie.

Ema Stokholma.

Emanuela Fanelli.

Emma Marrone.

Emily Ratajkowski.

Enrico Brignano.

Enrico Lucherini.

Enrico Montesano.

Enrico Papi.

Enrico Ruggeri.

Enrico Vanzina.

Enza Sampò.

Enzo Braschi.

Enzo Ghinazzi: Pupo.

Enzo Iacchetti.

Ermal Meta.

Eros Ramazzotti.

Eva Grimaldi.

Eveline Dellai.

Ezio Greggio.

 

INDICE SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Faber Cucchetti.

Fabio Marino.

Fabio Testi.

Fanny Ardant.

Federico Quaranta.

Federico Salvatore.

Filomena Mastromarino: Malena.

Fedez e Chiara Ferragni.

Fiorella Mannoia.

Flavia Vento.

Flavio Insinna.

Francesca Alotta.

Francesca Cipriani.

Francesca Giuliano.

Francesca Michielin.

Francesca Neri.

Francesca Reggiani.

Francesco Baccini.

Francesco De Gregori.

Francesco Gabbani.

Francesco Guccini.

Francesco Pannofino.

Francesco Sarcina.

Franco Oppini.

Franco Trentalance.

Frank Matano.

Gabriel Garko.

Gabriele e Silvio Muccino.

Gabriele Lavia.

Gabriele Paolini.

Gabriele Salvatores.

Gene Gnocchi.

Gerry Scotti.

Giancarlo Magalli.

Giancarlo ed Adriano Giannini.

Gianfranco Vissani.

Gianluca Grignani.

Gianni Morandi.

Gianni Sperti.

Gigi D'Alessio.

Gina Lollobrigida.

Gino Paoli.

Giovanna Mezzogiorno.

Giovanni Veronesi.

Giucas Casella.

Giulia De Lellis.

Giuliano Montaldo.

Giulio Mogol Rapetti.

Giuseppe Povia.

Greta Scarano.

Harvey Keitel.

Heather Parisi.

Helen Mirren.

Hugh Grant.

Gli Stadio.

I Dik Dik.

I Duran Duran.

I Jalisse.

I Gemelli di Guidonia.

I Pooh.

I Righeira.

I Tiromancino.

Iggy Pop.

Ilaria Galassi.

Ilary Blasi.

Ilenia Pastorelli.

Irina Shayk.

Iva Zanicchi.

Ivan Cattaneo.

J-Ax.

James Franco.

Jamie Lee Curtis.

Jane Fonda.

Jean Reno.

Jenny B.

Jennifer Lopez.

Jerry Calà.

Jessica Drake.

Jessica Rizzo.

Joan Collins.

Jo Squillo.

John Carpenter.

Johnny Depp.

José Luis Moreno.

Junior Cally.

Justine Mattera.

Gabriele Pellegrini: Dado.

Giovanni Scialpi, in arte Shalpy.

Kabir Bedi.

Kayden Sisters.

Kasia Smutniak.

Kate Moss.

Kate Winslet.

Katherine Kelly Lang- Brooke Logan.

Katia Ricciarelli.

Kazumi.

Kevin Spacey.

Kim Kardashian.

Kissa Sins.

Lady Gaga.

La Gialappa's Band.

La Rappresentante di Lista.

Lando Buzzanca.

Laura Chiatti.

Laura Freddi.

Laura Pausini.

Le Carlucci.

Lele Mora.

Lello Arena.

Leo Gullotta.

Liana Orfei.

Licia Colò.

Lillo (Pasquale Petrolo) & Greg (Claudio Gregori).

Linda Evangelista.

Lino Banfi.

Linus.

Liza Minnelli.

Lo Stato Sociale.

Loredana Bertè.

Lorella Cuccarini.

Lorenzo Jovanotti Cherubini.

Loretta Goggi.

Lory Del Santo.

Luca Barbareschi.

Luca Barbarossa.

Luca Bizzarri.

Luca Tommassini.

Luca Zingaretti.

Luca Ward.

Luce Caponegro: Selen.

Luciana Littizzetto.

Luciana Savignano.

Luciano Ligabue.

Lucrezia Lante della Rovere.

 

INDICE TERZA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

Maccio Capatonda (all'anagrafe, Marcello Macchia).

Madame.

Maddalena Corvaglia.

Madonna.

Maitland Ward.

May Thai.

Malika Ayane.

Maneskin.

Manila Nazzaro.

Manuel Agnelli.

Manuela Arcuri.

Mara Maionchi.

Mara Venier.

Marcella Bella.

Marco Bellocchio.

Marco Castoldi in arte Morgan.

Marco e Dino Risi.

Marco Giallini.

Marco Mengoni.

Marco Tullio Giordana.

Maria Bakalova.

Maria De Filippi.

Maria Giuliana Toro: «nome d' arte», Giuliana Longari.

Maria Grazia Cucinotta.

Maria Luisa “Lu” Colombo.

Maria Pia Calzone.

Marianna Mammone: BigMama.

Marica Chanelle.

Marilyn Manson.

Mario Maffucci.

Marina La Rosa.

Marina Perzy.

Marisa Laurito.

Martina Cicogna.

Martina Colombari.

Massimo Boldi.

Massimo Ghini.

Massimo Ranieri.

Massimo Wertmüller.

Matilda De Angelis.

Maurizio Aiello.

Maurizio Battista.

Maurizio Milani.

Mauro Coruzzi, in arte Platinette.

Max Pezzali.

Mel Brooks.

Memo Remigi.

Micaela Ramazzotti.

Michael J. Fox.

Michael Sylvester Gardenzio Stallone.

Michele Foresta, in arte Mago Forest.

Michele Guardì.

Michele Placido.

Michelle Hunziker.

Miguel Bosé.

Milena Vukotic.

Milton Morales.

Mikhail Baryshnikov.

Mina.

Miriam Leone.

Mistress T..

Mita Medici.

Myss Keta.

Modà.

Monica Bellucci.

Monica Guerritore.

Monica Vitti.

Nada.

Naike Rivelli ed Ornella Muti.

Nancy Brilli.

Nanni Moretti.

Naomi Campbell.

Nek.

Nicola Di Bari.

Nicolas Cage.

Nicole Aniston.

Nina Moric.

Nino D’Angelo.

Nino Frassica.

Nick Nolte.

Nyna Ferragni.

Noemi.

99 Posse.

Oliver Stone.

Orietta Berti.

Orlando Portento.

Ornella Vanoni.

Pamela Anderson.

Pamela Prati.

Paola Perego.

Paola Pitagora.

Paola Saulino, meglio nota come Insta_Paolina.

Paolo Bonolis.

Paolo Conte.

Paolo Fox.

Paolo Rossi.

Paolo Sorrentino.

Paris Hilton.     

Pasquale Panella alias Vito Taburno.

Patrizia De Blanck.

Patty Pravo.

Patti Smith.

Pedro Almodóvar.

Peppe Barra.

Peppino di Capri.

Phil Collins.

Pietra Montecorvino.

Pierfrancesco Favino.

Pier Francesco Pingitore.

Piero Chiambretti.

Pietro Galeotti.

Pino Donaggio.

Pio e Amedeo.

Pietro e Sergio Castellitto.

Pippo Baudo.

Pippo Franco.

Pupi Avati.

Quentin Tarantino.

Quincy Jones Jr.

Rae Lil Black.

Rajae Bezzaz.

Raffaella Carrà.

Raffaella Fico.

Red Ronnie.

Regina Profeta.

Renato Pozzetto e Cochi Ponzoni.

Renzo Arbore.

Riccardo Cocciante.

Riccardo Fabbriconi: Blanco.

Riccardo Muti.

Riccardo Scamarcio.

Ricchi e Poveri.

Richard Benson.

Rita Dalla Chiesa.

Rita Ora.

Robert De Niro.

Roberto Da Crema.

Roberto Vecchioni.

Robyn Fenty, in arte Rihanna.

Rocco Maurizio Anaclerio, in arte Dj Ringo.

Rocco Papaleo.

Rocco Siffredi.

Roberto Bolle.

Rodrigo Alves.

Rosalino Cellamare: Ron.

Rosario Fiorello.

Rowan Atkinson.

Sabina Guzzanti.

Sabrina Ferilli.

Sabrina Salerno.

Sal Da Vinci.

Salma Hayek.

Salvatore Esposito.

Sandra Milo.

Sara Croce.

Sara Tommasi.

Sarah Cosmi.

Scarlit Scandal.

Serena Autieri.

Serena Grandi.

Serena Rossi.

Sergio Rubini.

Shaila Gatta.

Sharon Stone.

Shel Shapiro.

Silvio Orlando.

Simona Izzo e Ricky Tognazzi.

Simona Marchini.

Simona Tagli.

Simona Ventura.

Simone Cristicchi.

Sylvie Lubamba.

Sylvie Vartan.

Sophia Loren.

Stefania Casini.

Stefania Orlando.

Stefania e Amanda Sandrelli.

Stefano Accorsi.

Stefano e Frida Bollani.

Stefano Sollima.

Steven Spielberg.

Sting.

Taylor Swift.

Teo Teocoli.

Terence Hill, alias Mario Girotti.

Terence Trent d’Arby, ora Sananda Maitreya.

Teresa Saponangelo.

Tilda Swinton.

Tim Burton.

Tina Ciaco, in arte Priscilla Salerno.

Tina Turner.

Tinì Cansino.

Tinto Brass.

Tiziano Ferro.

Tommaso Paradiso.

Toni Ribas.

Toni Servillo.

Tony Renis.

Tosca D’Aquino.

Tullio Solenghi.

Uccio De Santis.

Umberto Smaila.

Umberto Tozzi.

Val Kilmer.

Valentina Lashkéyeva. In arte: Gina Gerson.

Valentina Nappi.

Valentine Demy.

Valeria Golino.

Valeria Marini.

Valeria Rossi.

Valerio Lundini.

Valerio Staffelli.

Vasco Rossi.

Veronica Pivetti.

Village People.

Vina Sky.

Vincent Gallo.

Vincenzo Salemme.

Vittoria Puccini.

Vittoria Risi.

Zucchero Fornaciari.

Wanna Marchi e Stefania Nobile.

Wladimiro Guadagno, in arte Luxuria.

Willie Nelson.

Willie Peyote.

Will Smith.

 

INDICE QUARTA PARTE

 

SOLITO SANREMO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Figure di m…e figuranti.

Non sono solo canzonette.

La Prima Serata.

La Seconda Serata.

La Terza Serata.

La Quarta Serata.

La Quinta ed ultima Serata.

Sanremo 2022.

 

INDICE QUINTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che…scrivono.

Quelli che….la Paralimpiade.  

Quelli che…l’Olimpiade.

L’omertà nello Sport.

Autonomia dello sport? Peggio della Bielorussia.

Le Plusvalenze.

Le Speculazioni finanziarie.

Gli Arbitri.

I Superman…

Figli di Papà.

Quelli che …ti picchiano.

Quelli che … l’Ippica.

Quelli che … le Lame.

Quelli che …i Motori.

Quelli che …il che Ciclismo.

Quelli che …l’Atletica.

 

INDICE SESTA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che …il Calcio. 

 

INDICE SETTIMA PARTE

 

SOLITO SPORTOPOLI. LO SPORT COL TRUCCO. (Ho scritto un saggio dedicato)

Quelli che ...la Palla ovale.

Quelli che …la Pallacanestro. 

Quelli che …la Pallavolo.

Quelli che …il Tennis.

Quelli che …la Vela.

Quelli che …i Tuffi. 

Quelli che …il Nuoto. 

Quelli che …gli Sci.

Quelli che …gli Scacchi. 

Quelli che… al tavolo da gioco.

Il Doping.

 

 

 

 

LO SPETTACOLO E LO SPORT

SECONDA PARTE

 

SOLITO SPETTACOLOPOLI. (Ho scritto un saggio dedicato)

·        Faber Cucchetti.

Maria Egizia Fiaschetti per roma.corriere.it il 7 febbraio 2021. Una vita da romanzo (e chissà che prima o poi non si decida a scriverlo). Da Ulisse in consolle, guidato dal Grande carro del destino. Nazionale juniores di nuoto, prima di tuffarsi sulla pista da ballo si allena con la società «Sergio De Gregorio», dove cura il giornalino Rimonta distribuito in piscina. Il caso vuole che il tipografo che lo stampa sia anche l’editore originario di Radio Dimensione Suono: «Nel ‘78 mi invitò a parlare nella sua rete, poco più che neonata - racconta Faber Cucchetti, 61 anni, decano dei dj sul dancefloor e al microfono - . Iniziai con il programma Rock, rockaccio e roccone che mi dava la possibilità di esprimermi... Da lì è partita la mia carriera» (qui la playlist SottoTraccia Sound System). L’anno dopo, malgrado la scarsa esperienza, esordisce all’Alibi: «Chi arriva alla disco music dal rock è avvantaggiato perché conosce la struttura dei pezzi. Appresi la tecnica da Pietro Micioni, che nel frattempo era stato chiamato al Much More. L’Alibi era un locale gay a tutti gli effetti, se la batteva con l’Easy Going dove il pubblico preferiva una musica più morbida... Io avevo i gay con i baffi e i pantaloni di cuoio che cercavano un suono più duro». Quando alla fine del ‘79 la discoteca chiude si trova a lavorare in realtà meno importanti finché grazie a Claudio Casalini, titolare del negozio Best Record (all’epoca sono i proprietari dei locali a comprare i dischi), riceve un invito per Pescara. L’esperienza dura un mese: «Tornato a Roma venni catapultato in una discoteca di Capri, sotto un hotel importante... la cassiera era la sorella di Peppino Di Capri. Mi trattavano come uno sguattero, dormivo in un sottoscala e mi venne la scabbia. La sera il locale era deserto, gli isolani mi conoscevano perché al mattino mi vedevano correre fino ai Faraglioni e nuotare per ore». A salvarlo è ancora una volta Casalini: «Mi dice che al Much More cercano il sostituto di Pietro Micioni, pronto per approdare al Piper. Faccio le valigie e mi presento al provino». Il talent scout è il press agent della Dolce Vita Enrico Lucherini: «Gli piacqui subito, ma non era un esperto di musica. Misi Upside down di Diana Ross e dopo 45 secondi me lo fece togliere: “Qui niente reggae”. Sapevo di avere buone chance di venire preso e non replicai». Nell’83 lancia il primo programma di musica mixata in radio, «Dimensione dance», con 600mila ascoltatori medi: «Fino a quel momento la mia palestra era stata la discoteca. Imparai sul campo, non ho mai provato i cambi a casa, l’orecchio ce l’hai e basta». Uscito dall’emittente nell’89, nel ‘91 riunisce un gruppo di dj nel progetto «Mix Fm», una costola di «Voglia di Radio» in onda dalle 21 alle 6, alternativo a «Centro Suono Rave» che vede protagonista il fratello, Luca Cucchetti. A riunirli sarà il programma «Power Station» inaugurato poco dopo al Qube: «Facevamo radio da una vetrata con il pubblico che ballava in pista». Ingaggiato nel’95 dal network milanese One-O- One, dopo tre anni la sua attitudine lo spinge altrove: «Non mi trovai molto a mio agio, tornai a Roma per rifondare una radio piena di anima, seppure di nicchia». L’ultima esperienza con Andrea Torre, «Cdr», in un locale all’Ostiense non decolla: «Non puoi competere in Formula Uno se non sei al volante di una Ferrari. Ci siamo auto-ghettizzati e mi sono reso conto che per la radio non c’erano più possibilità». La sua rinascita è a Santo Domingo, dove segue un amico in vacanza per scrollarsi di dosso i pensieri negativi e trovare nuova linfa: «Ho venduto l’intera collezione di vinili, oltre 30mila, tutte le cassette originali di Dimensione Dance, ho messo da parte un gruzzolo e dopo aver fatto su e giù per un periodo mi sono trasferito definitivamente». In Italia, prima della pandemia, tornava sei-sette volte l’anno per serate revival con 1.400 persone al Piper e in altri locali: «Un’atmosfera incredibile, se il cinquanta-sessantenne si trova circondato da coetanei scatta una magia che altrimenti non si crea». Da quando tutto è bloccato a causa dell’emergenza sanitaria anche sull’isola caraibica le sue attività, di guida turistica e fotografo, sono ferme: «Sono grato alle persone che, appassionate della mia musica, pur non conoscendomi personalmente in questi mesi mi hanno sostenuto. Non lavoro dallo scorso 28 febbraio, senza di loro sarei finito in mezzo a una strada». Tra i mille lavori, ha riscoperto l’antica passione per il giornalismo collaborando con la testata online Roma.com. Arrivato all’apice della carriera con «la dimostrazione di scratch» negli anni Ottanta a Domenica In, condotta da Pippo Baudo, è stato tra i giganti di quella temperie culturale e musicale assieme a Marco Trani: «Eravamo i due più importanti, ma tra noi non c’era rivalità. Lui suonava nel club, io nelle grandi discoteche. Io pensavo a lanciare i dischi, a creare i miei format, lui era un artista al cento per cento».

·        Fabio Marino.

Luca Giampieri per “la Verità” il 7 febbraio 2021. Charles Bukowski, poeta e scrittore statunitense, viveva nell'ossessione di aver fatto spreco delle sue mani impiegandole in azioni di poco conto, finanche triviali: dal firmare assegni a grattarsi, letteralmente, «le palle». Se il romanziere il cui ruvido genio ha graziato metà del Secolo scorso fosse stato graziato di rimando da una spiccata longevità, probabilmente avrebbe saputo magnificare le doti manuali di Fabio Marino. Classe 1967, impiegato amministrativo part-time, Marino è il manista più ambito d'Italia. Per chi ignorasse l'esistenza di tale professione, il suo lavoro consiste nel prestare le mani per campagne pubblicitarie destinate a giornali e televisioni. In breve, la gran parte delle estremità maschili che avete incrociato negli ultimi 15 anni sulle pagine delle riviste o nelle réclame del piccolo schermo appartengono a lui. Le dita che sapientemente accarezzavano le cialde del caffè in un noto spot con protagonista George Clooney? Sono le sue. Tra i nomi noti che hanno preso a nolo le sue mani curate al millimetro, anche l'attore Claudio Santamaria e il campione del mondo Gianluca Zambrotta. Che si tratti di gioielli, telefonia mobile, istituti di credito o salse in barattolo, non fa alcuna differenza. La sua egemonia è trasversale. A spartirsi ciò che rimane, una decina di concorrenti, nemmeno. «Il mio nome è sinonimo di garanzia», assicura il modello milanese non senza un pizzico di motivata superbia. «I clienti dicono che ho le mani di gomma perché "come le metti stanno". Questo per loro è importantissimo, perché significa non perdere tempo. Per me è il miglior complimento». Nelle librerie è appena uscito Oltre le mani c'è di più (Edizioni Italia), prima autobiografia di un manista che ha deciso di dare alle mani un volto.

Quando confessa di fare il manista, la gente come reagisce?

«Non appena si rende conto del significato, istintivamente la maggior parte nasconde le mani e comincia a fissare le mie per valutare le differenze. È in imbarazzo, si sente giudicata».

Come si è accorto di avere un tesoro tra le mani?

«Grazie a un'agenzia di comparse per la quale lavoravo con l'obbiettivo di entrare nel mondo del cinema e della pubblicità. Un giorno cercavano un manista per uno spot; avendo visto le mie mani, mi chiesero se volevo propormi. Accettai e mi si aprì un mondo».

Qual è la mano perfetta?

«Oltre alla bellezza, che è basilare, contano molto le misure. Se la mano è troppo grande l'oggetto si perde, viceversa non risalta nelle sue vere dimensioni. Dopodiché niente calli, unghie impeccabili Non mi troverà mai con le mani in disordine, anche se non ho lavori in vista. Capita che il cliente chiami e ti chieda di mandargli le foto su Whatsapp».

Il numero uno in Italia deve mandare le foto su Whatsapp?

«Più la foto è recente, più il cliente è tranquillo. Accade spesso. Anche con pretese bizzarre. Una volta mi chiesero di riprendermi mentre tenevo le mani sotto l'acqua corrente».

Addirittura.

«Nella pubblicità doveva esserci una mano sotto un rubinetto, quindi volevano vedere l'effetto. Probabilmente per il fatto che il getto d'acqua distorce lievemente le forme. Ora s' immagini il sottoscritto nel bagno di casa che con una mano fa il video mentre l'altra è sotto il rubinetto».

Come si misura il talento di un manista?

«Dal modo in cui usa le mani. Devono recitare, esprimere un concetto, un'idea. L'estetica, da sola, non basta».

Le capita di soffermarsi sulle mani degli altri?

«Altroché. Ovviamente nelle pubblicità mi cade sempre l'occhio, ma anche in giro. Quando qualcuno mi dà la mano, io gli faccio la radiografia. Per me è il biglietto da visita di una persona. Anche se, di questi tempi, la stretta di mano è un lontano ricordo».

Scorge mai qualche potenziale concorrente per la strada?

«Sinceramente? No».

Sono così rare le mani belle?

«Lei non sa quanti mi contattano sui social allegando foto delle mani, magari spinti dalla fidanzata, convinti che siano perfette. Purtroppo, c'è sempre qualche difetto. Tempo fa, un ragazzo mi scrisse che voleva fare il manista perché tutti gli dicevano che aveva delle mani splendide. Mi trattenni dal fare commenti spiacevoli, ma gli domandai se avesse mai visto le mani utilizzate nelle pubblicità».

Perché?

«Erano pelosissime. Lei ha mai visto una mano pelosa in uno spot? A me è capitato di dover depilare anche l'intero braccio per una pubblicità di lampade. Per tre mesi sono andato in giro con un braccio glabro e uno peloso».

Tra i nostri politici intravede qualche diamante grezzo?

«Direi proprio di no».

Le mani di Giuseppe Conte, per esempio. Fra telegiornali e conferenze stampa, in questi mesi lo abbiamo visto in tutte le salse.

«Sì, ecco, non sono così malvagie».

Dice che avrebbe già pronto un piano b?

«Oddio Io non lo riciclerei neanche come manista».

Senta, le sue mani varranno un patrimonio.

«Se si riferisce all'assicurazione, siamo oltre i 100.000 euro. Il mio cachet è di circa 100 euro l'ora. Rispetto ad altri lavori come modello classico, con le mani si guadagna di più».

Chiara Biasi, influencer, una volta disse che per meno di 80.000 euro non si alzava nemmeno dal letto.

«Pur trattando tutt'altre cifre, mi è capitato di dire la stessa cosa ai clienti. Ormai lo sanno, se hanno un budget limitato evitano di chiamarmi».

Va detto, mi consenta, che la sua è un'impresa senza costi.

«È vero. Ho la fortuna di avere delle mani che sono belle di natura e non si rovinano facilmente. L'unica spesa è per le creme. Se le mandassi una foto adesso, penserebbe che sia appena uscito dall'estetista».

Ci va?

«Di rado. Faccio quasi tutto da solo».

Ha un incubo ricorrente?

«Rovinarmi le mani prima di un lavoro. Anni fa lo sognavo spesso, ora mi capita di meno, ho imparato i trucchi del mestiere per nascondere i piccoli segni. L'uso del fondotinta, per esempio».

Il resto lo fa Photoshop?

«Si utilizza solo in casi eccezionali. Anche perché altrimenti che senso avrebbe ingaggiare un manista? È meglio non procurarsi danni evidenti, se si tiene a questa carriera».

In che senso?

«Basta mandare a monte un lavoro perché le agenzie ti mettano una croce sopra. Come succede ai tenori della Scala quando steccano».

Lei non ha mai steccato?

«Mai. Sono sempre stato attento. È una questione di professionalità».

Si sarà procurato qualche graffietto. L'ultimo a quando risale?

«Natale, credo. Ma poca roba, e non avevo lavori in vista. Un po' di Connettivina e si è cicatrizzato al volo».

Suppongo che non possieda animali domestici.

«Ho due cani. Ma sanno che non devono mordere le mani; quando li porto fuori indosso i guanti, anche d'estate. Li uso parecchio in generale, perfino in casa se devo fare dei lavoretti; infatti ho sempre le mani più chiare rispetto al resto del corpo. L'abbronzatura non è molto gradita».

Se si esclude la dieta, lei ha una disciplina da sportivo.

«In realtà una dieta ce l'ho. Scegliere cosa mangiare e cosa bere fa la differenza anche in termini di pelle. Cerco di seguire un'alimentazione il più possibile regolare. Ma non mi costa fatica, per me è routine».

Quando torna a casa dal lavoro ha le mani stanche?

«Sì. A volte capitano anche i crampi. Magari perché il cliente non è sicuro di come vuole una scena e mi tocca rifarla di continuo tenendole in posizioni del tutto innaturali. Per la campagna di un antidolorifico solubile, volevano che la polverina scendesse in un determinato modo: né troppo, né troppo poco, con un movimento stabile e costante. Non le dico quante volte me l'hanno fatta ripetere».

L'ingaggio più lungo?

«Due giornate intere, per lo spot di un'app nel settore della ristorazione. Prestavo le mani a Luca Argentero».

Hanno voluto la controfigura per questioni estetiche o di espressività?

«Estetiche. Secondo i canoni del cliente, la mano non era perfetta. I grandi brand sono molto fiscali. Nel suo caso, non erano neanche mani bruttissime forse aveva le dita un po' grosse».

Ha notato qualche imbarazzo da parte sua?

«No, è una persona squisita. Per un volto noto, poi, non è che un vantaggio: alla sua bellezza si aggiunge quella della mia mano. E si prende tutto il merito».

Un po' le secca?

«A volte sì. Mi è capitato di prestare le mani a personaggi dei quali pensavo: se avessero usato la mia immagine, ci avrebbero guadagnato».

Sopra la testa di chiunque lavori con l'immagine incombe la spada di Damocle del tempo. Pensa mai al fatto che le sue mani invecchieranno?

«Sì, certo. Ma conosco già le cure per ringiovanirle».

Ovvero?

«C'è un trattamento che consiste nel prelevare del grasso da una zona del corpo per iniettarlo nella mano e riempire i solchi prodotti dal tempo. Madonna l'ha utilizzato».

Lei lo farebbe?

«Perché no?».

Conosce qualche manista rifatto?

«Che io sappia no, ma sono tanti gli uomini e le donne che ricorrono a tale tecnica. Me ne parlò qualche anno fa il dottor Marco Lanzetta, chirurgo della mano. È lo specialista che fece il primo trapianto da un cadavere a un essere vivente».

Tanti attori di pubblicità, col passare degli anni, finiscono a promuovere l'apparecchio acustico, o il farmaco per tenere a bada la prostata. È un'idea che la terrorizza?

«No, affatto. Se il cliente vorrà una mano vissuta, non avrò alcun problema a prestarmi. Ad esempio, ho fatto un lavoro in cui dovevo sorreggere nel palmo un diamante e volevano che fosse ben visibile la linea della vita. Ogni età ha un prodotto, e io sono convinto che ci sarà sempre spazio per una bella mano».

·        Fabio Testi.

Maria Elena Barnabi per Gente il 9 ottobre 2021. Una tenuta di 35 ettari nella campagna di Affi, sul Lago di Garda, euna casa di 200 metri quadrati con tavolo da biliardo e palestra: è il buen retiro di Fabio Testi, 80 anni freschi ad agosto. L’attore da un po’ ha lasciato Roma per vivere nella sua terra natia (è di Peschiera del Garda): sui suoi terreni scorrazza su una Dune Buggy, insieme ai suoi quattro cani (Balù, Apache, Maia e Cico). Lanciato da Vittorio De Sica nel 1970 ne Il giardino dei Finzi Contini, Testi ha una carriera artistica lunghissima, così come sterminato è l’elenco delle sue relazioni con donne bellissime e famose, oltre ai suoi due matrimoni. Siamo andati a trovarlo a casa sua, ed è stata l’occasione per fare quattro chiacchiere con lui.

Come le è venuta l’idea della tenuta?

«La terra era di mio nonno, ma poi andò persa. La ricomprai cinquant’anni fa per far felice mio padre. Era malato di tumore e dissero che sarebbe durato poco. Invece visse felicissimo per altri dieci anni». 

E la casa? 

«Vent’anni fa ho gettato le fondamenta, ma poi mi sono fermato. Uscito dal Grande Fratello, l’anno scorso ho ripreso in mano il progetto con uno studio di architettura, io sono geometra. Ho deciso di  mollare Roma ed eccomi qui».

Perché si è trasferito?

«Che rimanevo a fare a Roma? Metà dei miei amici sono morti. L’altra metà è andata a vivere all’estero». 

Non le manca la grande città?

«Per niente. Roma è una città difficile: incasinata, piena di traffico. Sporca». 

E come fa con il lavoro?

«Il cinema ormai è in crisi. E poi ora lavoriamo tutti da casa: se mi vogliono, sanno dove trovarmi indipendentemente dalla mia presenza fisica». 

In questa casa vive solo?

«Sì. Ho tre casali per i miei tre figli: una ci vive, mentre gli altri stanno uno a Singapore e l’altro a Londra. Quando vogliono, vengono a trovarmi. Mi piace molto stare con loro: il mio ottantesimo compleanno l’abbiamo trascorso tutti assieme, in famiglia, in piscina. Eravamo in venti».

A parte i parenti, altre visite?

«Se intende gli amici, quelli sì. In questa terra ci sono nato e cresciuto. Facciamo qualche rimpatriata con i miei amici d’infanzia. Quelli che sono rimasti, s’intende». 

E donne? È vero che è fidanzato con una sessuologa di 35 anni?

«Mi fa molto ridere questa storia della sessuologa, come se ne avessi bisogno... Oddio, non si smette mai di imparare, non ci sarebbe niente di male. Ma la mia amica non è sessuologa. Fa l’immobiliarista, si chiama Valentina, abita a Monte Carlo». 

Amica nel senso di “compagna”?

«Sì. Ci frequentiamo: un weekend viene lei e uno vado io. Ci siamo conosciuti per lavoro, mi ha proposto un business, e da cosa nasce cosa. A lei non interessa il cinema». 

È sempre stato un uomo bellissimo, desideratissimo dalle donne. L’ha aiutata sul set?

«Sul lavoro non vai avanti se non hai talento. Io ho fatto 102 film, in tutto il mondo, ho fatto tantissimo teatro, anche se nessuno se ne ricorda mai. Il francese è la mia seconda lingua, e recito anche in inglese e spagnolo. Insomma non sono solo bello».

E nella vita privata? La bellezza quanto conta?

«La bellezza ti aiuta perché ti fa crescere sicuro di te. E poi non ho mai dovuto mentire per sedurre. Ho visto uomini, registi e attori inventarsi tante di quelle balle pur di portarsi a letto qualcuna. Io no». 

Lei sul set ha avuto molte storie.

«Quando passi due mesi assieme giorno e notte capita. Il primario

va a letto con l’infermiera, il direttore di banca con la segretaria, l’attore con la collega. Mi sembra la cosa più normale del mondo». 

Forse normale per lei…

«Diciamo che è stata una vita fortunata: ho avuto modo di fare

tante belle esperienze con tante belle attrici. Ognuna di loro mi ha dato qualcosa, e io sono rimasto amico di tutte».

Facciamo un gioco. Tre aggettivi per alcune delle sue più celebri conquiste.Anita Ekberg?

«Statuaria, bellissima, infantile».

Infantile?

«Anita in fondo aveva un cuore da bambina, non era molto cresciuta. Era divertente perché era una donna enorme, e poi invece era così ingenua...».

Ursula Andress?

«Gelosa, insicura, cattiva attrice». 

Addirittura!

«Sul set era una bella donna e basta: Ursula non era portata per la recitazione. Non si voleva mettere in gioco, non voleva svelare i suoi sentimenti davanti alla macchia da presa. Era gelosa anche di quelli. È una donna di carattere, ma meglio come amica che comeamante: troppo possessiva. Ci conoscemmo sul set e passammo due mesi chiusi in albergo in Canada. I nostri tre anni assieme furono molto intensi». 

E Charlotte Rampling?

«Era introversa, problematica, acerba. Aveva avuto un’infanzia non proprio felice, e stava ancora cercando di capire chi era. Era in cammino. Poi io stavo a Roma, lei a Londra, non durò moltissimo». 

Perché lei ha avuto così tanto successo con le donne?

«Sono sempre stato sincero e tutte lo hanno apprezzato. Che senso ha mentire?».

Ha mai confessato un tradimento?

«La mia regola, a 20 anni come a 80, è: meglio una verità piccante che una bugia piatta».

·        Fanny Ardant.

Leonardo Martinelli per “La Stampa” il 31 maggio 2021. Appuntamento sulla panchina davanti alla Sorbona. Solo una delle ultime dive del cinema francese può fissare un'intervista con una mail del genere. Solo Fanny Ardant. La mattina è di una primavera che ti fa voglia di ritornare alla vita. E l'attrice, 72 anni, è puntuale, in quel giardino pubblico nel cuore di Parigi.

Combattiva, serena, cerebrale: l'anno della pandemia non l'ha scalfita.

«Con il primo confinamento, ho ricominciato a suonare il pianoforte. Io non suono molto bene. Mi piace Bach, perché la sua musica è strutturata: anche se gli fai del male, resta intatta».

Non si è rifugiata in una villa del Sud o in Normandia? Come tanti vip a Parigi.

«No, io sono una bolscevica pura e dura, non ho proprietà alla campagna».

A parte suonare Bach, cos' ha fatto nell'ultimo anno?

«Ho lavorato molto, su spettacoli teatrali, che sono stati annullati. Ma ho girato dei film».

Cinema dal 1 giugno. Com' è andata?

 «Era la prima volta che interpretavo un ruolo in cui tutto era improvvisato. E io non lo sopporto Maiwenn ha insistito, perché accettassi. Alla fine ho ceduto, ma le ho detto: a tuo rischio e pericolo. Lei, durante le riprese, aveva una forma di follia che ammiravo. Una determinazione, una violenza Ha un rapporto quasi di odio con la mamma e io nel film ero sua madre. A me non fa paura la violenza ed ero sorpresa dalle mie reazioni. Certe volte avevo voglia di darle un ceffone. E una volta gliene ho dato uno incredibile. Al montaggio l'ha tagliato».

Ha girato anche I giovani amanti di Carine Tardieu.

«Sono una donna che s' innamora di un uomo molto più giovane di lei. Il mio personaggio è un architetto e un'intellettuale, non una tardona qualsiasi. È una passione reciproca e paritetica. Ma quello resta uno degli ultimi tabù della nostra società: tutti pensano che lo stai fuorviando da un'esistenza normale. È stato bello recitare in quel film: non c'è niente di più interessante nella vita dell'amore. Aspettarlo, perderlo, conquistarlo, coltivarlo».

C'era qualcosa di personale nel ruolo?

«No, non mi piace interpretare personaggi vicino a me. I ruoli possono risuonare dentro di me, ma non mi somigliano mai. In un film di Alain Resnais (L'amour à mort, 1984) feci addirittura una donna pastore protestante: calma, altruista».

Non è altruista?

«Per nulla (scoppia a ridere)».

Ha avuto successo a trent' anni, relativamente tardi.

«Facevo teatro, ma senza successo. E per sopravvivere dovevo fare tanti lavoretti: la segretaria, la cameriera Provavo un'oscura gioia a recitare in una sala mezza vuota.  Pensavo che quei pochi spettatori fossero lì, perché mi amavano. E li avrei amati anch' io, allo stesso modo».

Poi Truffaut la vide.

«Mi offrì il ruolo di Mathilde in La signora della porta accanto (1981), con Gérard Depardieu».

Con Truffaut costituì anche una coppia fino alla sua morte, nel 1984, di un tumore scoperto pochi mesi prima, mentre lei aspettava sua figlia Joséphine. Che ricordi ha di lui?

«Con Dépardieu s' intendevano a meraviglia, erano due banditi. Mai si sarebbe detto di Truffaut che fosse un bandito, ma ne aveva l'anima. Era libero, nervoso. Sembrava volersi sbarazzare di qualcosa, anche con molto umorismo. Ma al tempo stesso si buttava giù, soffriva di melanconia».

In quegli Anni 80 conobbe Vittorio Gassman. Recitaste insieme, pure in due film di Ettore Scola, La famiglia e La cena. Di lui che ricordo ha?

«Diventammo subito amici. Vittorio suscitava nei francesi, soprattutto le donne, un'ammirazione folle, perché era bello, come una statua romana. E per l'insolenza, l'arroganza, oltre la fragilità e l'intelligenza. Quando recitavo a teatro a Parigi, veniva a vedermi. Cenavamo insieme dopo lo spettacolo. E d'un tratto, quasi alla fine, diceva: parliamo di quello che ho visto stasera. E aveva visto proprio ogni cosa, sviscerava tutto, da vero uomo di teatro quale era. Vittorio fu così gentile con me al momento del mio enorme dolore per la morte di Truffaut. Faceva lo scemo apposta per farmi ridere e, quando ha avuto i suoi problemi di depressione, sono stata presente pure io. Mi ricordo di lui a Cannes: andavo nella sua camera d'albergo a vederlo e mi diceva che era vecchio, ma io rispondevo che non era vero e lo tiravo su. Volevo ridargli tutto quello che mi aveva dato».

Suona ancora Bach nel suo appartamento parigino?

 «Sì. A proposito, ho un piccolo sogno. Mi piacerebbe suonare in un piano bar in Sicilia. Adoro quell'isola, i paesini dell'interno che sembrano vivere in autarchia. Chiederei al proprietario se mi autorizza a suonare certi brani. Ma poi lui mi dirà quello che vuole. Lo giuro, mi adeguerò».

·        Federico Quaranta.

Chi è Federico Quaranta, il conduttore di Linea Verde Radici dedicato alla Sicilia. Vito Califano su Il Riformista l'1 Settembre 2021. Dai crateri dell’Etna alle isole Egadi, dai maestri d’ascia e i pescatori fino ai templi greci, agli uliveti e alle piantagioni di fichi d’India. È il viaggio che Linea Verde Radici. Storie della Terra dedica in prima serata su Rai1 alla Sicilia. A percorrerlo e a raccontarlo il conduttore Federico Quaranta. “Lo scopo del viaggio – recita la Rai in un comunicato – è quello di scoprire quali siano le radici della civiltà mediterranea, dal punto di vista storico, culturale, scientifico; un viaggio alle origini di tutte le storie”. Quaranta è conduttore radiofonico e televisivo e autore. È nato a Genova nel 1967. Dal 2003 conduce Decanter con Tinto su Rai Radio2. Ha lavorato a Linea Verde Orizzonti su Rai1, e Magica Italia, Turismo e Turisti. Ha lavorate anche a La7 con il programma enogastronomico, con Tinto e Vladimir Luxuria, Fuori di gusto. Ha condotto di nuovo sulla Rai La Prova del Cuoco, Linea Verde Orizzonti, Estate in diretta con Eleonora Daniele. Quaranta vanta persino una menzione nel Guinnes World Records grazie a una flute alta 2,05 metri, 58 centimetri di diametro, gambo di tre centimetri di diametro, riempita nel 2008 di Asti Spumante DOCG. Secondo di tre figli, ha pubblicato un libro scritto con Andy Luotto, Anche i vegani fanno la scarpetta. Quaranta è stato sposato dal 2008 al 2013 con la giornalista del Tg5 Simona Branchetti. Dopo la separazione si è fidanzato con Giorgia Iannone de Sousa. La coppia ha avuto una bimba, Petra, nata nel 2018. Il suo viaggio partirà dalla cima dell’Etna, con gli approfondimenti di un vulcanologo. A scandire il viaggio anche i luoghi di Verga e di Ulisse, e quindi dal mare all’entroterra fino ai calanchi di Centuripe seguendo il percorso del fiume Simeto. Il viaggio in prima serata arriverà anche alle miniere del sale di Petralia Soprana, una cattedrale bianca nascosta nelle viscere della montagna e poi le solfatare, drammaticamente raccontate da Sciascia e Pirandello. Tappe anche nel misterioso castello di Mussumeli, nella necropoli di Sant’Angelo Muxaro, nelle Grotte della Gurfa e nell’incanto dei templi di Selinunte, nella Valle del Belice. Il viaggio terminerà a Marettimo, la più lontana delle isole Egadi.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Federico Salvatore.

(ANSA il 13 ottobre 2021) - ''Federico ora è sotto osservazione ed è sottoposto a una serie di accertamenti. È in ottime mani'. E' la moglie di Federico Salvatore, Flavia D'Alessio, a confermare la notizia del malore, circolata sulla rete e rilanciata dai social, del quale è stato vittima il cantautore e cabarettista napoletano. ''Non è un momento semplice, ma nessuno, ora, può fare diagnosi certe e definitive - dice Flavia D'Alessio - Da sua compagna di vita e da madre dei suoi figli, sto cercando di contenere più possibile il grande dolore che provo, di rimanere lucida e di gestire i nostri ragazzi, tranquillizzandoli e dicendo loro la verità: il papà è affidato alle cure di ottimi medici''. Federico Salvatore, 62 anni, è ora ricoverato all' Ospedale del Mare. La moglie dell'artista chiede riservatezza: ''So bene quanto sia grande l'amore che circonda Federico, lo vivo da vent'anni. E so bene quanta preoccupazione ci sia per lui da parte dei suoi fans, che lo seguono da sempre. E, quindi, quanto sia forte la voglia di sapere. Vi aggiornerò, sperando che al posto mio, ci sia proprio lui a raccontarvi quello che è successo". Federico Salvatore aveva da poco annunciato l'uscita del suo nuovo disco satirico, "Azz… 25 anni dopo", per lo scorso 17 settembre, comunicando poi sui social il rinvio. Lanciato a livello nazionale nel 1994 da Maurizio Costanzo, Federico Salvatore nel 1995 ha venduto 700mila copie conquistando due dischi di platino.

Ricoverato in gravi condizioni Federico Salvatore. Novella Toloni il 13 Ottobre 2021 su Il Giornale. Le condizioni del cantautore napoletano, ricoverato all' Ospedale del Mare, sarebbero critiche. La moglie: "Nessuno, ora, può fare diagnosi certe e definitive". Federico Salvatore, cantautore e cabarettista napoletano, è stato vittima di un grave malore. La notizia del suo ricovero in ospedale è iniziata a circolare nella tarda mattinata, ma solo poco fa le parole della moglie, Flavia D'Alessio, hanno sciolto ogni dubbio sul suo stato di salute. All'agenzia di stampa Ansa, la moglie di Federico Salvatore ha confermato il drammatico momento, che il 62enne sta vivendo ricoverato in prognosi riservata presso l'ospedale del Mare di Napoli. "Non è un momento semplice - ha dichiarato Flavia D'Alessio - ma nessuno, ora, può fare diagnosi certe e definitive. Da sua compagna di vita e da madre dei suoi figli, sto cercando di contenere più possibile il grande dolore che provo, di rimanere lucida e di gestire i nostri ragazzi, tranquillizzandoli e dicendo loro la verità: il papà è affidato alle cure di ottimi medici". Non è chiaro cosa sia successo all'artista, che ora si trova ricoverato in prognosi riservata, affidato alle cure dei medici dell'ospedale partenopeo. Secondo quanto riportato da Dagospia, Federico Salvatore sarebbe stato colpito da un'emorragia cerebrale, ma la moglie non ha confermato. "Federico ora è sotto osservazione ed è sottoposto a una serie di accertamenti. È in ottime mani", ha proseguito sua moglie, che ora chiede ai fan e ai seguaci del cantautore di rispettare il delicato momento che la famiglia sta vivendo. La coppia aveva festeggiato da poco l'undicesimo anniversario di nozze e Salvatore si apprestava a pubblicare un nuovo album di canzoni, "Azz...25 anni dopo", per celebrare l'anniversario del suo album satirico di esordio, "Azz", pubblicato nel 1995, che lo rese celebre negli anni '90. Il disco sarebbe dovuto uscire a metà settembre, ma un lutto improvviso aveva colpito l'artista, costringendolo a rinviare la pubblicazione, che sarebbe dovuta avvenire nelle prossime settimane. La moglie oggi chiede il sostegno dei fan di Federico Salvatore invitandoli a rispettare il drammatico momento: "So bene quanto sia grande l'amore che circonda Federico, lo vivo da vent'anni. E so bene quanta preoccupazione ci sia per lui da parte dei suoi fans, che lo seguono da sempre. E, quindi, quanto sia forte la voglia di sapere. Vi aggiornerò, sperando che al posto mio, ci sia proprio lui a raccontarvi quello che è successo". Nelle prossime ore potrebbe essere lo staff medico dell'ospedale di Napoli a fornire un bollettino medico sulle condizioni dell'artista.

·        Filomena Mastromarino: Malena.

Da corrieresalentino.it il 14 luglio 2021. Malena (Filomena Mastromarino all’anagrafe) non è più la pugliese, ma “nazionale” ormai: ci tiene a dirlo in apertura intervista, distribuendo qualche consiglio sulle luci per ottenere l’inquadratura migliore in riva al mare. Era una ragazza come tante fino al 2016, quando ha deciso di affidarsi a Rocco Siffredi per essere lanciata nel mondo del porno. Nel 2013 divenne delegata nazionale del Pd, ma da allora con la politica non ha avuto più nulla a che fare. Incontriamo la “pop pornostar”, diventata anche un noto personaggio televisivo, in un pomeriggio di sabato, 10 luglio 2021, nell’Isola Beach di Porto Cesareo, dove era l’ospite della serata. Malena è anche una instagrammer, cioè una con tantissimi seguaci su Instagram (quasi un milione di followers). Malena, in un recente servizio delle Iene, ha raccontato la vita da pornostar accattivandosi nuovamente le simpatie del grande pubblico televisivo. “Il mese scorso sono tornata a Budapest e ho già fatto un altro film prodotto da Rocco Siffredi, che dal 2016, quando ho iniziato in questo settore, è la mia guida. Questa settimana riparto per il progetto dell’Accademia del porno. Quest’anno faremo un’Accademia solo per le donne, perché ci sono tantissime richieste. In tantissime vogliono cominciare la carriera nel porno”.

Dunque, fare il porno non è più un tabù? Negli anni ‘80 era molto più difficile…

“Intanto, c’è una grossa differenza fra il sud e il nord dell’Italia. Io sono di Gioia del Colle, della provincia di Bari. Nel sud c’è il vizio di etichettare le persone, non solo se fai il mio lavoro, ma anche solo se sei una bella ragazza. Negli anni ‘80 il porno era un tabù, ma non essendoci i social non subivi gli attacchi degli haters. I social hanno dato il potere a tutti di offesa e di giudicare senza senso. Alcune ragazze vengono attaccate anche solo per una scollatura. È vero che siamo nel 2021, ma i social hanno dato un potere di aggressione che rende molto più difficile esporsi mediaticamente, specie se fai questo lavoro, rispetto agli anni ‘80. La cosa che mi dispiace è che sono le donne quelle che attaccano di più. In realtà io sono una portatrice di felicità. Durante il Lockdown sono stata la congiunta di tutti gli italiani, come ho spiegato alle Iene. Il porno è un lavoro a cui affianco le serate come questa, in cui faccio solo l’ospite. Fare film a luci rosse per me è un lavoro, che finisce nel momento in cui si spengono i riflettori. Per il resto, la pornografia esiste dai tempi dell’antica Grecia. Il moralismo è più recente e sta interessando soprattutto i social, che ormai censurano tutto. Siamo giudicati da algoritmi ed è difficile persino postare una statua nuda”. 

Dunque, una nuova ventata di moralismo con l’avvento dei social?

“Sì, perché ognuno ha l’opportunità di sfogare le sue frustrazioni giudicando. Sogno un mondo in cui non si venga giudicati per quello che si fa a letto. Questo vale anche per l’omosessualità, la bisessualità e il resto. Nella società dovrebbe valere la persona”.

Sei a favore del ddl Zan?

“Non l’ho letto, ma se può servire a eliminare le discriminazioni, ben venga. Mi dispiace che oggi si tenda a inserire alcuni in delle categorie da proteggere: il genere umano è universale, a prescindere dalle scelte sessuali”. 

Lei è molto richiesta nelle serate in discoteca, come mai?

“Io e Rocco Siffredi siamo anche personaggi televisivi. Io mi definisco una "pop pornostar": sono diventata popolare per serate, social, tv e altro. Ci sono tante ragazze che fanno porno, ma non hanno un’immagine così sovraesposta come la nostra”. 

Come ha fatto a diventare così nota sul piccolo schermo? Ci riescono poche pornostar.

“Bisogna essere umili e non sentirsi una star per un solo film che hai fatto. Inoltre, ci vuole cervello: molti pensano che chi fa questo lavoro non sia intelligente. In realtà non è così. Le pornostar sono donne normalissime. All’estero questo lavoro lo fanno tante mamme: girano le scene e poi vanno ad allattare i propri figli. Io ho avuto un percorso diverso perché mi sono affacciata a questo lavoro a 33 anni. Ero già una donna. Non ho fatto come le altre, che vogliono fare questo lavoro per diventare famose: non è giusto approccio! Bisogna amare questo lavoro, farlo con passione”.

Lei prova davvero piacere quando gira i film porno?

“No, può capitare qualche volta di trovare il giusto feeling con un attore. Se si trova il feeling, la durata della scena è molto lineare e non si viene interrotti. Normalmente, solo per realizzare la parte dell’hard, di 40 minuti, giriamo scene per cinque ore e veniamo interrotti in continuazione per rifarle. Non è come nei film amatoriali. È un duro lavoro. Ci vuole molta pazienza”.

Le donne non vengono trattate come degli oggetti in questi film?

“Assolutamente no! I più maltrattati sono gli uomini. L’uomo deve stare ai tempi del regista e quindi soffre di più rispetto a noi. Noi donne sul set veniamo rispettate tantissimo. Ci sono pochi uomini perché per loro è difficile fare questo lavoro. Arrivano con idee diverse e poi fanno i conti con la realtà. Non è come fare sesso a casa tua. Anche le posizioni sono tutte a tre quarti, a favore della camera. Parlo, naturalmente, di cinema per adulti professionale, perché l’amatoriale è tutto un altro settore. È un po’ come il calcio, dove ci sono i dilettanti e i giocatori di serie A”. 

C’è spazio per la vita sentimentale di una giocatrice di serie A?

“La gestione della vita sentimentale è un po’ difficile per chi fa il mio lavoro. Non perché gli uomini siano gelosi, ma perché io rappresento una sessualità molto forte e decisa: gli uomini vanno in crisi con me, non per il pregiudizio di essere pornostar. Nelle amicizie mi sono rimasti vicini i veri amici, quelli che mi accettano per quello che sono”.

Le dimensioni contano anche nella vita sentimentale?

“Anche qui c’è un poco di ipocrisia: le donne non lo dicono, ma contano nell’atto sessuale. Diverso, invece, è il trasporto sentimentale e l’amore”.

·                        Fedez e Chiara Ferragni.

Da Verissimo il 17 Dicembre 2021. Valentina Ferragni, ospite domani sabato 18 dicembre a Verissimo, alla sua prima intervista televisiva racconta il suo problema di salute: “Un anno fa avevo un piccolo brufolo sulla fronte che non destava nessun tipo di allarme. Ma dopo un po’ di tempo, visto che non andava via,  sono andata da un dermatologo che mi ha detto che era una semplice cisti, da togliere senza fretta. A settembre però ho preferito fare un’altra visita, la dottoressa si è insospettita e ha deciso di levarlo per capire cosa fosse. Dopo una settimana, è arrivato l’esito: carcinoma a base circolare, un tumore maligno localizzato”. E prosegue: “Per fortuna questo tipo di tumore non è il peggiore tra quelli epidermici. Ma se avessi aspettato altro tempo avrei dovuto subire un innesto di pelle con un intervento molto più invasivo. Ora però dovrei essere guarita al 100%”. Tutto il calvario è stato testimoniato sui social anche per sensibilizzare le persone alla prevenzione: “Un consiglio che posso dare a tutti è di andare a farsi vedere appena c’è qualcosa di anomalo. Quelli della pelle non sono tumori di serie B, sono piccoli e cattivi”. A Silvia Toffanin che le chiede se la sua carriera sia stata influenzata dalla sorella Chiara, Valentina risponde: “Ha influito tanto ma è stata una cosa molto naturale. Quando mia sorella ha iniziato, i social quasi non esistevano e non si conoscevano ancora gli effetti di Internet. Quando ha cominciato io avevo 16 anni, l’aiutavo e ho visto il suo percorso cambiare negli anni. Sono la sua fan numero uno, è la migliore al mondo e tutto il successo che ha lo deve a sé stessa”.

Selvaggia Lucarelli per editorialedomani.it il 15 dicembre 2021. Tutto quello che leggerete sulla serie The Ferragnez è uno spoiler, ma la verità è che la vita stessa di Fedez e Chiara Ferragni è uno spoiler continuo e che probabilmente quello che spaventa ai due della morte è che nessuno abbia mai postato nulla dall’aldilà. Hanno raccontato via Instagram la vita quando era una striscia rosa su un test di gravidanza, quando era un feto, quando la bimba veniva al mondo con la mamma truccata come se le spinte le avesse date l’ostetrica al posto suo, quando la bimba veniva ricoverata in ospedale con flebo al braccio e foto ricordo nelle storie dopo la quale seguiva adv di gioielli. É difficile, dunque, comprendere il perché di un racconto che narra ciò che è stato così tanto spremuto, condiviso, narrato. É come dire: faccio una soap su Beautiful.  Soprattutto, è difficile decidere cosa rimanga del racconto sui Ferragnez al netto dei quattrocento “super” utilizzati da Chiara come rafforzativi e della linea narrativa intera, se si elimina il concetto “Chiara e Fede sono tanto diversi”, “Chiara è solare, lui è ombroso”. In pratica, se Fedez dovesse mai assumere un farmaco per stabilizzare l’umore, i Ferragnez sparirebbero nelle nebbie fitte delle coppie in cui ci si somiglia e non ci sarebbe altro da aggiungere. E se Chiara smettesse di piazzare un “super” prima di qualunque aggettivo, la serie durerebbe dieci minuti. Anche perché diciamolo, i comprimari sono tipo il pubblico della Leopolda: non sai perché siano lì e chi glielo faccia fare. Le sorelle di Chiara (che lei chiama “sisters”) sembrano due Skipper in tenda accanto alla Barbie nel castello, tutte con le onde da piastra Ghd, tutte bionde, tutte truccate, tutte plastificate e chiamate a commentare la vita della sorella, come se l’universo mancasse di pareri sulla vita dei Ferragnez (“siamo una super sorellanza”, dice Valentina).

E poi lei, l’Ape Regina, mamma Marina, con quell’aria da boom economico anni Cinquanta, un po’ Nicole Kidman ne La donna perfetta, sempre fresca di estetista, cammina e lascia una scia di profumo dolciastro pure dalla tv. Gli uomini, soprattutto i compagni delle sorelle, sono anche loro figure scialbe sullo sfondo, costretti a muoversi in un mondo pastello nel ruolo di “fidanzati di sorelle di”, che se uno ci pensa è uno strazio infinito. Menzione d’onore al padre di Chiara che arriva, saluta e poi si dilegua dietro una pianta finta per preservare la sua dignità, visto che è l’unico che non si fa i boccoli con la piastra in famiglia.

E poi c’è lui, Fedez. Che onestamente io non so come faccia ad andare a dormire la notte e a non avere paura di svegliarsi all’improvviso, di ritrovarsi la moglie, la suocera e le due sorelle Gertrude e Genoveffa tutte pallide, tipo la servitù di The others, che lo fissano, per poi evirarlo e succhiargli l’anima per rimanere giovani, bionde e con le onde piastrate per sempre. A me era antipatico Fedez, ma dopo questa serie vorrei abbracciarlo forte e dirgli che la sua esistenza immersa nella dimensione stucchevole, plastificata, passivo-aggressiva di “The blonde salad” mi suscita molta empatia. Lui e la madre, perennemente incazzati col mondo, mi sembrano il giusto contrappeso, lo scarabocchio sul foglio bianco, la puzza di vita in quell’atmosfera di cellophane e cipria fissante che è il lato Ferragni. Fedez ne esce, almeno, come un essere umano. Contorto, diffidente e cupo, Fedez si fida solo di sua madre (noto mastino) perché una madre non tradisce. Ne ha piene le palle dell’entourage di Chiara, delle sorelle di Chiara, del mondo rosa confetto di Chiara che si ferma sulla soglia della sua stanza dei giochi, una specie di panic room in cui il camper di Barbie non può parcheggiare. In questo mondo di apparente incomunicabilità lui e la moglie decidono di andare insieme dal terapeuta di coppia, il quale - vecchia volpe - comprende subito che il problema dei due è quello di non essere mai soli e quindi suggerisce loro di trascorrere un weekend insieme con dieci cameraman e il gruppo di autori a supporto, in una serie tv distribuita in tutto il mondo da Amazon. Al terapeuta sfuggono, in compenso, problemi lievemente più macroscopici: Chiara che afferma di non voler viziare il figlio Leone dopo che ha affittato una villa a Como per le feste e ha fatto schiacciare un pulsante a Leone col quale il bimbo ha acceso luminarie, la pista del ghiaccio, le giostre con i cavalli e tutta la Lombardia. O che papà Fedez si è sottoposto a otto ore di trucco per assomigliare a Babbo Natale anzichè comprare il bustone a 6 euro e 90 vestito+galosce+occhiali+barba finta acrilica che prende fuoco già a 50 metri dalla prima candela accesa. Sfugge, allo psicologo, l’aria gelida, formale di una cena in famiglia in cui Chiara indossa un collier Bulgari e non accompagna neppure a letto il figlio, che sparisce assieme alla tata. Gli sfugge il linguaggio mesto e performante della Ferragni per cui il marito “oggi è preso bene, è SUPER simpatico ma il giorno che è preso male è difficile”. O l’agghiacciante “Ho il plus di avere un bambino stupendo”. O “Questo è il mio look per ritirare l’Ambrogio d’oro”. O lui che le dice cosa farà a Sanremo e lei “super cool amore!”. O “Non voglio creare aspettative su ciò che mio figlio vorrà fare, però è molto espressivo, magari farà l’attore!”. Insomma, si vola basso, mica ha aspettative. Roba che se non diventa Robert De Niro può anche fare l’amministratore delegato di Porsche, per carità. Ma è anche bellissimo quando il suo general manager le dice che potrebbe partorire l’8 marzo e lei lo trova “super top”, per poi aggiungere che lì “si lavora super sodo” e capisci che è vero quando il super manager dell’azienda The Blonde Salad racconta di essere stato mandato a comprare un test di gravidanza per Chiara come un assistente di 19 anni tra un caffè da portare in riunione e un salto in lavanderia. Chiara trova anche “super dolci” Fedez e il figlio vestiti allo stesso modo per Sanremo e si dispiace del fatto che il marito, preoccupato per il Festival, sia un “tato super sconfortato”. Naturalmente è anche “super in ansia” perché deve registrare la sigla della serie, fortuna che c’è la sua “super amica Martina”. La vita di Chiara è quella di una super eroina in cui è tutto super, tipo il papa che ha la papamobile, Batman che ha la Batcaverna, Super Chiara che ha tutto super, tranne il vocabolario. Fedez, invece, vive perennemente in guerra, dice lui. Un vero guerriero che partecipa a una serie in cui si dovrebbero sdoganare la terapia di coppia e il ricorrere a professionisti e invece si fa fare le carte dalla nonna forse per sapere quanti “super” Chiara dirà entro fine giornata. Che si rivolge a un numerologo per decidere le date di uscita dei dischi. Insomma, è sdoganata più la stregoneria, che la psicologia. Fedez che si fa vestire e mettere le calze dagli assistenti come un infante. Che come un infante parla di caccole e “mi scappa la cacca”, con lei che si irrita perché “la fai cinque volte al giorno!”. Che però, nei rari momenti di stipsi, si occupa anche di marketing aziendale e spiega alle banche come rendersi simpatiche raccontando quante cose belle fanno. Verrebbe quasi da voler bene a Fedez che si racconta così schivo e misantropo, se all’improvviso non si uscisse da questa nuvola rosa che è la visione dei Ferragnez e non si realizzasse che quello schivo della coppia sta raccontando la sua esigenza di riservatezza su Amazon, condividendo ogni singolo istante della sua esistenza sui social, sposando cause utili al suo conto corrente e al suo posizionamento. Alla fine, la sensazione è che il collante dei due non sia la diversità, ma un equilibrio preciso, chirurgico: lei è così presa da sé di non curarsi troppo dei suoi umori se non in quei cinque minuti di chiacchiere dallo psicologo, lui è così preso dai suoi umori da non curarsi troppo di nessuno. Però si amano, tantissimo. Lo capisci quando tornano dal loro weekend lui davanti e lei dietro in macchina con l’autista, quando lui deve chiamare la suocera e dopo cinque anni insieme non ha neppure il suo numero salvato in rubrica, quando la coppia ritrova finalmente lo slancio, l’affiatamento, la passione ardente nel luogo che tutti immaginano: Instagram.

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” l'11 dicembre 2021. Dei Ferragnez non si butta via niente.

E questo è il primo consiglio per chi si accinge a vedere i primi cinque episodi della loro saga familiare (Amazon Prime).

Il secondo: per quanto il mondo virtuale e quello materiale si stiano allegramente fondendo, la vecchia distinzione fra rappresentazione e realtà vale ancora. I Ferragnez è un racconto, con tutte le regole di una narrazione instagrammata.

Il terzo: l'espediente della terapia di coppia (fa molto «In Treatment», anche se lo psicoqualcosa usa il verbo «approcciarsi») è un perfetto meccanismo narrativo: permette ai due di «denudarsi», di mostrare l'altra faccia della luna (li immaginiamo forti e spietati e invece sono fragili e teneri). Lei è una eterna adolescente, lui un musone che combatte contro il mondo. È la nostra vita, sono come noi. Il quarto: il mondo dei Ferragnez è abitato da cognati e suoceri. 

E qui siamo in pieno Achille Campanile: «Qui giace Piero d'Avenza cittadino integerrimo, lavoratore indefesso, sposo e padre esemplare, figlio amorosissimo, fratello discreto, cugino soddisfacente, cognato passabile, genero detestabile, prozio tenerissimo, biscugino senza particolare rilievo, nipote insignificante, pronipote modello, suocero insuperabile, amico pignolo, debitore insolvibile, vicino di casa un poco rumoroso, morto esigente, Una prece!».

Il quinto: la parola più ripetuta nelle cinque puntate è «amore»: provate a ripetere mentalmente una parola qualsiasi, dopo un po' perderà ogni significato e sarà solo un guscio vuoto che galleggia in una pozzanghera. Il sesto: meravigliosa la scena del Natale a Como (villa affittata), da fratelli Vanzina. La classe ha questo di paradossale, che è fatta soprattutto di cose che non si possono imparare. O di cose che stanno a rappresentare ciò che non si può comprare. Il settimo (sigillo): guardate i Ferragnez con il sorriso, come fosse una fiaba.

Da repubblica.it il 26 novembre 2021. Nei giorni scorsi Fedez scherzava con la moglie Chiara Ferragni sulle querele che il nuovo album gli avrebbe provocato e forse per questo, scaramanticamente, il pezzo-invettiva di Disumano, uscito stanotte  e presentato in una diretta Instagram casalinga dai Ferragnez, si intitola Un Giorno in Pretura e ne ha per tutti, da Matteo Renzi a Giorgia Meloni, alla Lega. Non a caso il brano inizia con un intro letta dal conduttore della Zanzara Giuseppe Cruciani: "Tutti i personaggi e gli eventi di questa canzone sono del tutto immaginari. La seguente canzone contiene un linguaggio scurrile. E per il suo contenuto non dovrebbe essere ascoltata da nessuno". Poi la citazione del renziano "first reaction: shock", quindi l'affondo di Fedez sul leader di Italia Viva: "Io e mia mia moglie siam tutti esauriti, tutti i desideri esauditi. Come Renzi quando si è preso ottantamila petroldollari sauditi (Ahi!)". E ancora: "Un ex-premier che fa complimenti sotto dettatura, a una cazzo di dittatura. Che cattura e taglia la testa ai gay perché contro natura (Rinascimento)". Nel testo, in cui Fedez ricorda sia Giulio Regeni che Federico Aldovrandi ("i migliori non superano i vent'anni") e dedica un passaggio ironico ad Andrea Bocelli e alle sue performance a margine di assemblee dell'Onu e dell'Unesco ("Bocelli è come portare lo spumante se ti invitano a cena (Buonasera, buonasera)/L'unica differenza tra lo spumante ed Andrea/ È che Andrea, va ad un'assemblea, che è una messa in scena/Dove si grida: 'Bill Gates è un'aliena, che ci spara il 5G in vena'". Poi il passaggio sulla Meloni: "Quanto m'hanno rotto il c-Amazon/Voi lo arricchite sto Amazon/Io mi faccio arricchire da Amazon/La Meloni che grida: "Allo scandalo, boicottate la mafia di Amazon, e comprate il mio libro Io sono Giorgia. 'Oddio ma è primo su Amazon!'", recita il brano. Infine la Lega e la 'legittima difesa': "E pensare che l'eutanasia in Italia sembrava una cosa utopistica. Quando per morire ti basta dare un pugno in faccia ad un assessore leghista". Fedez nelle 20 tracce racconta e raccoglie altrettanti capitoli della sua vita, una sorta di diario completamente libero, senza alcun vincolo, in cui il sound delle sue precedenti produzioni si affianca alla sperimentazione di sonorità nuove. Pubblicato a due anni di distanza da Paranoia Airlines e dopo l'esperienza di Sanremo insieme a Francesca Michielin con Chiamami per nome, il nuovo album è ricco di collaborazioni: oltre a Tedua, Fedez coinvolge Dargen D’Amico, Achille Lauro, Orietta Berti, Cara, Tananai, Crookers, Myss Keta, Speranza e Francesca Michielin. La produzione musicale dell’album è stata per la maggior parte curata da d.whale, con cui l’artista ha già collaborato in passato, alternandosi in alcune tracce a DADE, Dargen D’Amico, Michelangelo, Nic Sarno, Ted Fresco e Crookers. Non manca, nel brano La cassa spinge 2021, il riferimento al Codacons e agli infiniti contenziosi con il rapper: ''Sono veramente euforico, non mi ha ancora querelato il Codacons'', canta il rapper nel brano realizzato con Crookers, Myss Keta, Dargen D'Amico. Poi c'è l'annunciata e amorevole canzone Vittoria, dedicata alla figlia. Ma la track list riserva molte altre sorprese, quasi tutte all'insegna dell'osservazione critica di una società italiana dove il prezzo più alto lo pagano i più giovani. Così in Fede e Speranza, cantato da Fedez con il rapper Speranza, Federico sembra esortare i ragazzi ("Se non lotti per quello a cui tieni, non l'ottieni/Non si lasciano impronte indelebili, camminando in punta di piedi", avverte Fedez, in un pezzo che ha diversi riferimenti autobiografici, per poi annotare, "per questo è fallito il sistema scolastico, perchè è giurassico). In Stupido Stupido ("Non è un paese per santi, per pazzi, per Craxi") se la prende con il sistema: "Non si dovrebbe, la droga nelle felpe/Però nemmeno sberle ad uno che è già in manette, no/Non si dovrebbe lasciarlo in un call center/In debito per sempre/Non vedi che è solo un ventenne?". E fa una battuta sull'ex socio J-Ax: "Siam davvero convinti che fossero amici/come ai tempi di J-Ax". Poi in Vecchio con Dargen D'Amico, Fedez fa un accenno anche alle polemiche seguite alla sua partecipazione al Concertone del Primo Maggio ("1 Maggio sono andato sul palco/il mio avvocato è Cristiano Ronaldo") anche se il pezzo parla di crescita e responsabilità. 

Polizia, Meloni, Renzi e Lega: Fedez ce l'ha con tutti. Ma nessuno lo calcola. Francesca Galici il 26 Novembre 2021 su Il Giornale. 14 brani inediti tra droga, provocazioni alle forze dell'ordine e attacchi alla politica: il nuovo album di Fedez è un enorme "già visto". Per giorni e giorni, Fedez non ha fatto altro che promuovere il suo nuovo disco, che vista la promozione massiva uno immagina sia di quelli destinati a fare la storia. Spoiler: non è così. Siamo sinceri, lo abbiamo ascoltato questa mattina al solo fine di scrivere questo pezzo, visto che Fedez per settimane l'ha menata pesante sui social, provocando la politica e alludendo a possibili querele che gli potrebbero arrivare. Altro spoiler: sì, potrebbero. Tutto è nato dal video della canzone Morire morire, ma non è degradante per un artista scatenare la curiosità per temi collaterali alla sua musica piuttosto che per la sua arte? Vabbè, dopo tutto ognuno fa quel che può. In questo caso Fedez ha raccolto in un album le sue invettive degli ultimi due anni. Niente di nuovo.

Gli attacchi alla politica (esclusi M5S e Pd)

Il cuore dell'intero disco è il pezzo Un giorno in pretura. Non sfugge l'ironia di questa scelta, visto quello che Fedez dice contro i politici italiani. L'intro di Un giorno in pretura è stato affidato a Gianluca Cruciani: "Tutti i personaggi e gli eventi di questa canzone sono del tutto immaginari". Quindi, si sente una voce del tutto simile a quella di Matteo Renzi, ma magari è proprio la sua, con l'ormai famosa citazione del leader di Italia viva: "First reaction: choc". E già da questi primi secondi è facile intuire dove vuole andare a parare il marito di Chiara Ferragni. Basta aspettare un'altra manciata di secondi per entrare nel vivo del mood del brano: l'attacco a Matteo Renzi.

"Io e mia mia moglie siam tutti esauriti/Tutti i desideri esauditi/Come Renzi quando s'è preso ottantamila petroldollari sauditi (Ahi!)/80k che, se togli il volo privato, i salatini e le spеse/(Mamma, non è vero che pеr fare i soldi dovevo sapere l'inglese)", canta Fedez. E, non pago, poi aggiunge: "Anche se Renzi non lo vuole ammettere/I sauditi non amano mettere/Ai giornalisti il bavaglio, li mettono direttamente nel bagaglio a mano". E giù ancora: "Un ex premier che fa complimenti sotto dettatura/A una cazzo di dittatura/Che cattura e taglia la testa ai gay perché contro natura". Fedez aveva già preparato il terreno a questo attacco con le sue storie Instagram in cui puntava il dito contro il leader di Italia viva dopo l'affossamento del ddl Zan.

Ma il rapper non si limita mica ad attaccare Matteo Renzi nel suo brano. Dopo un breve passaggio su Giulio Regeni, in cui se la prende anche con i capi di Stato che, a suo dire, "sono un poco ingenui/Infatti non hanno dubbi sulle cause ufficiali di morte di Giulio Regeni", gioca un po' a fare la vittima sulla questione Amazon. Più di una volta, infatti, al cantante è stato rinfacciato di dedicarsi solo a cause "instagrammabili", come per esempio il ddl Zan, senza mai guardare dalle parti del colosso dell'e-commerce, nemmeno quando i suoi lavoratori erano in agitazione. Il motivo? Il ricco contratto che lo lega alla società di Jeff Bezos.

E così ecco che nel suo pezzo, Fedez prova a fare l'alternativo: "Quanto m'hanno rotto il camazon/Voi lo arricchite 'sto Amazon/Io mi faccio arricchire da Amazon". Sarà pure vero che lui si fa arricchire, ma forse a Fedez mancano le basi dell'economia spicciola, quelle che muovono qualunque ambiente di lavoro che, probabimente, lui non conosce. Proviamo a spiegarlo in modo facile: se Amazon a Fedez dà un corrispettivo X è perché tramite lui guadagna X+tot. Quel "tot" è solitamente almeno il doppio rispetto a quanto viene corrisposto, un ammontare che Fedez stesso contribuisce a creare, facendo pubblicità. Quindi sì, anche Fedez contribuisce ad arricchire Amazon.

Poteva mai perdere l'occasione per menzionare Giorgia Meloni, che tira così tanto sui social da essere una delle donne più amate della rete? Ovvio che no. E allora ecco che arriva pure l'occasione per fare il suo nome: "La Meloni che grida: 'Allo scandalo'/'Boicottate la mafia di Amazon'/'E comprate il mio libro Io sono Giorgia' /'Oddio! Ma è primo su Amazon'".

La canzone continua e arriva un verso che prende di mira anche Silvio Berlusconi: "Mussolini/Berlusconi/Federico Aldrovandi/In Italia i migliori non riescono mai a superare i vent'anni". Ma poteva mai mancare l'attacco alla Lega? Ma certo che no, anche se bisogna aspettare i 2/3 della canzone per arrivarci: "Ieri volevo informarmi su tutte le nuove proposte fatte dalla Lega/Se ti da un pugno sei legittimato a sparare nel petto della tua collega". E aggiunge: "E pensare che l'eutanasia in Italia sembrava una cosa utopistica/Quando per morire qui basta dare un pugno in faccia ad un assessore leghista/Sparagli Piero, sparagli al nero/Miragli al cuore, non mirare al cielo".

I no vax

Il populismo certo non manca in questo brano di Fedez, che si muove da sempre in quest'arco per raccogliere qualche consenso in più sui social, suo habitat naturale da quando la musica è diventata poco più che un hobby. In questo stesso brano se la prende anche con Andrea Bocelli, che durante il lockdown ha anche preso parte alle sue dirette dopo annunci in pompa magna: "Siamo tra i dieci Paesi più belli/E nel dubbio chiamiamo a cantare Bocelli/Bocelli è come portare lo spumante se ti invitano a cena (Buonasera, buonasera)/L'unica differenza tra lo spumante ed Andrea/È che Andrea va ad un'assemblea che è una messa in scena/Dove si grida: 'Bill Gates è un'aliena, che ci spara il 5G in vena'".

Il Vaticano

Già solo in Un giorno in pretura si possono contare alcune possibili querele, ma nell'album di Fedez c'è anche di più. Avrà pensato che, già che c'era, aveva fatto trenta e poteva fare trentuno con un attacco violento contro il Vaticano, in cui è riuscito a mettere in mezzo anche il Codacons. Un filotto niente male per il marito di Chiara Ferragni. "Sono veramente euforico/Non mi ha ancora querelato il Codacons/Oggi voglio proprio farmi male Si dice il peccato ma non il cardinale/C'è una festa in Santa Sede/Ci si siede, ci si fa le se–/In Vaticano non c'è la banca del seme/Perché da quelle parti hanno troppa sete", canta Fedez nel pezzo La cassa spinge. Anche in questo caso, non è certo la prima volta che il rapper va giù pesante contro la Chiesa.

La droga e le forze dell'ordine

Tra un attacco alla politica e uno al Vaticano, Fedez inserisce anche la droga e provocazioni alle forze dell'ordine. "Non si dovrebbe, la droga nelle felpe/Però nemmeno sberle ad uno che è già in manette, no", scrive in Stupido stupido. E poi ancora, in Problemi con tutti: "Ho le vele e quindi volo come Scampia/Troppo zucchero sotto la mia lingua/Vai via, vai via, vai via/Maresciallo, suvvia, quella roba? Non mia/Permette la domanda? È mai stato alla Diaz ". Immancabile l'inno alla Maria, che però adesso inizia a puzzare di stantio: "Bella 'sta vita, santa Maria/Na, na, na-na-na-na-na-na/Ma se trovo l'uscita, ti porto via/Na, na, na-na-na-na-na-na". Così canta Fedez ft Cara in Fuori dai guai ed è impossibile non riportare la mente agli anni Novanta, quando proprio il suo ex amico J-Ax (per altro citato in un brano) insieme agli Articolo31 cantava: "Ohi Maria/Ti amo/Ohi Maria/Ti voglio".

In sostanza, tutto visto e già rivisto. Sarebbe più apprezzabile se si prendesse le sue responsabilità e (finalmente) lasciasse la musica per entrare in politica. Potrebbe confrontarsi alla pari con quelli che tanto dileggia, potrebbe concretamente impegnarsi sulle questioni che gli stanno tanto a cuore come il ddl Zan, invece di puntare solo il dito contro quelli che fanno, senza fare agli effetti nulla di concreto. Se non vuole perdere i privilegi dell'influencer per sporcarsi le mani nella politica, allora forse dovrebbe tornare a cantare a tempo pieno. O a fare le adv sui social. Anche perché le sue invettive, ormai, non vengono più considerate e cadono inutilmente nel vuoto.

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

(ANSA il 24 novembre 2021) "Tutte le cause che ho abbracciato sono state considerate da chi non ama il mio modo di agire solo dei pretesti per monetizzare. Ma a chi mi critica rispondo coi fatti: 10 milioni di euro raccolti per una terapia intensiva e per i lavoratori dello spettacolo". Lo dice Fedez, a pochi giorni dall'uscita del nuovo album 'Disumano', in un dialogo senza filtri con Enrico Mentana, in esclusiva su Vanity Fair. "Vi faccio, poi, una domanda: avete presente Diego, quel ragazzo salvato in terapia intensiva al San Raffaele grazie al trapianto di polmoni? Secondo voi gliene può fregare qualcosa se la raccolta che ha permesso di salvargli la vita è stata promossa da Fedez e Chiara Ferragni?" sottolinea. Fedez, ritratto in copertina davanti a un multischermo, simbolo delle battaglie, delle mille provocazioni e dei messaggi che l'artista più discusso del momento lancia costantemente dalle sue piattaforme social, parla anche della risposta della politica italiana al lancio del suo ultimo disco. "In un momento in cui giornali e partiti non riescono a cogliere la palese ironia, tutto quello che è successo è il sintomo di una politica debole. Quando la politica è forte sa farsi prendere in giro. Vedo intellettuali che ancora corrono a cercare di stroncare chi è fuori dal loro circolo e giornalisti che devono svilire chi viene da internet. Un nome che ammiro? Marco Cappato. Un uomo che riesce a essere rilevante fuori dal palazzo. Mi fa sperare, almeno lui è uno che fa" afferma Fedez.. Il colloquio con Enrico Mentana non è l'unico modo in cui Vanity Fair ha deciso di raccontare Fedez. In un progetto innovativo che prosegue il percorso del magazine nella tecnologia Nft, il settimanale porterà la sua community nella Tana del Boomer, rifugio creativo dell'artista, ricostruita virtualmente grazie alla start-up svizzera Valuart.

Aldo Grasso per oggi.it il 25 novembre 2021. «Scendo in campo perché la politica italiana è una cosa seria: vota Disumano»: vestito elegante in giacca e cravatta, con sul grembo un cane volpino beige e sullo sfondo uno studio classico, Fedez torna a lanciare dai social il suo manifesto politico (o il “guerrillamarketing” del nuovo album, intitolato Disumano). Il video è una burla, una presa in giro della famosa discesa in campo di Silvio Berlusconi: «L’Italia è il Paese che amo, qui ho le mie radici, le mie speranze, i miei orizzonti, qui – dice accarezzando il cane – ho imparato da mio padre e dalla vita il mio mestiere di truffatore, qui ho appreso la passione per i preti che fanno i tiktoker…» Nei giorni scorsi, dopo che sul web era spuntato il dominio fedezelezioni2023.it, si è discusso molto di un possibile ingresso di Fedez nella vita politica. Alcuni giornali gli hanno dedicato intere pagine, spiegandogli che cos’è la politica. Lui zitto: poi, dopo giorni di silenzio, ha fatto chiarezza su Instagram, pubblicando la clip di un surreale discorso elettorale in cui elenca i motivi per cui ha scelto discendere in campo a frodare il Paese. Negli ultimi mesi Fedez si era più volte impegnato su temi politici, in particolare sui diritti civili. Grazie alla sua influenza sui social network, unita a quella della moglie Chiara Ferragni, aveva acceso i riflettori dell’opinione pubblica su iniziative benefiche, raccolte fondi e proposte di legge. Il rapper è stato un sostenitore del Ddl Zan che prevedeva l’inasprimento delle pene per crimini e discriminazioni contro omosessuali, transessuali, donne e disabili. Ha in più occasioni rivolto pesanti accuse alla Lega e ai suoi rappresentanti. L’episodio più coinvolgente è stato il discorso al Concertone del primo maggio 2021. In quell’occasione Fedez riportò alcune frasi pronunciate da esponenti leghisti contro gli omosessuali, scatenando polemiche. Il rapper, inoltre, denunciò un tentativo di censura attuato dai vertici della Rai. Fedez vive da tempo – lo ha ammesso lui stesso – una sorta di senso di colpa della ricchezza, quella contro cui si scagliava da ragazzo e di cui è ormai uno dei volti più rappresentativi; quindi, tende ad abbracciare alcune battaglie non solo per “pulirsi la coscienza”, ma per cercare di restituire qualcosa a quel ragazzo, a quegli ideali di un tempo. C’è tempo per “pulirsi la coscienza”, intanto c’è un nuovo disco da promuovere. Così Federico Lucia ha rivelato il suo piano, che con la politica ha poco a che fare: la sua era una fantasiosa mossa di marketing per creare la giusta montatura in vista del lancio del suo nuovo disco, Disumano, in arrivo il 26 novembre.  

Federico Capurso per "La Stampa" il 16 novembre 2021. Fedez non entrerà in politica. Eppure dell'ipotesi se ne è discusso. «È bastato che acquistassi un dominio Internet, FedezElezioni2023», ricorda lo stesso Fedez sui social. Un indirizzo web «che però scadeva a novembre 2022. Ai giornalisti sarebbe bastato fare una piccola ricerca per capire che era una stronzata. Questo la dice lunga sullo stato dell'informazione in Italia». Non che qualcuno ci credesse davvero. Lo riconosce anche lui: «Nonostante tutti, in qualche modo, fossero consapevoli che era una trollata, per loro era più importante fare finta che fosse vero». Insomma, Fedez è stato usato. Come termometro della salute della politica e come esempio del grado di assuefazione agli influencer. Usato per misurare il fondo e discutere dell'assurdo. «Trollato» a sua volta. Se lo avesse capito, non sarebbe salito sul pulpito.

Chiara Ferragni e Fedez, tra consuocere è finita in disgrazia? Indiscrezione bomba (e una pesante conferma). Libero Quotidiano il 16 novembre 2021. Pare che al di là della pagliacciatta di Fedez sulla discesa in politica a casa del rapper e di Chiara Ferragni ci siano altri problemi "se così si possono definire", scrive Giuseppe Candela su Dagospia. Insomma, a Milano, annuncia, "gira voce che i rapporti tra le consuocere Marina Di Guardo, mamma di Chiara, e Annamaria Berrinzaghi detta Tatiana, mamma di Fedez, non sarebbero dei migliori". Addirittura, scrive ancora Candela, "le due nonne di Vittoria e Leone non si seguono nemmeno su Instagram. Solo un caso?", si chiede malizioso Candela. Marina, 60, professione scrittrice di noir, vive a Cremona e da un po' di tempo ha un compagno che si chiama Antonio. La mamma di Fedez, che tutti chiamano Tatiana, ha seguito passo dopo passo la carriera del figlio nel mondo della musica. Lei lo ha sempre sostenuto e spinto a non arrendersi mai. Pare che mamma e figlio siano in ottimi rapporti e che abbiano un carattere molto simile: entrambi sono impulsivi e stakanovisti. Le due consuocere sono presenti nella vita di figli e nipoti e finora non si era nemmeno sospettato che potessero esserci problemi fra loro. Di sicuro ne stanno fuori i papà di Chiara e Fedez. Marco Ferragni, che fa il dentista e a Cremona ha uno studio privato ben avviato insieme alla figlia Francesca, sorella di Chiara, è molto riservato. Anche il papà di Fedez subisce l'esuberanza delle donne di casa. Franco Lucia è stato orafo e magazziniere e come mostra Chiara su Instagram deve essere un ottimo cuoco.

Da nextquotidiano.it il 16 novembre 2021. Il 15 novembre sarà ricordato come il giorno in cui Fedez si è tolto tutti i sassolini verso gli esponenti della politica e del giornalismo in Italia. Per giorni, infatti, si è parlato di una sua “discesa in campo” dopo che era stato scoperto un dominio web a suo nome, “fedezelezioni2023.com”. Oggi il rapper ha pubblicato un video in cui, imitando il celebre discorso di Berlusconi del 1994 che sanciva il suo ingresso in politica, ha sponsorizzato il suo nuovo album “Disumano” fingendo di star fondando un partito basato sui valori negativi di intolleranza e menefreghismo. In una serie di storie su Instagram, Fedez ha poi spiegato cosa ci fosse dietro le sue recenti uscite social sull’argomento. Inizialmente lo si vede andare a comprare una copia di tutti i quotidiani che questa mattina parlavano di lui, tra cui La Verità, Libero, Il Foglio, Il Giornale, La Stampa, tutti con in prima pagina una foto del rapper.

Fedez contro Stefano Feltri per l’editoriale su Amazon

Poi ha detto: “Credo che questa trollata la dica lunga sullo stato di salute del giornalismo italiano. Erano tutti consci che fosse una trollata, ma per loro era più conveniente fare finta che fosse vero”. Se l’è presa poi con Stefano Feltri, direttore di Domani, che in un editoriale metteva in guardia dai rischi che gli influencer in politica avrebbero potuto comportare in quanto spesso collaboratori di grandi aziende come Amazon: Fedez ha fatto notare che lo stesso giornale contenesse annunci pubblicitari del colosso di Jeff Bezos. Poi ancora, un rimprovero a Beppe Severgnini, vicedirettore del Corriere della Sera, accusato velatamente di sessismo perché a una domanda su come avrebbe visto Fedez in politica ha risposto “meglio sua moglie, è più bella”.

Da liberoquotidiano.it il 12 novembre 2021. Quanti consensi potrebbe ottenere Fedez qualora scendesse davvero in politica? Dopo la registrazione del dominio per le elezioni del 2023, è facile immaginare che il rapper voglia candidarsi. Ma sarebbe in grado di raccogliere i voti necessari per entrare in Parlamento? Secondo Renato Mannheimer "l'iniziativa di Fedez è interessante perché lui ha tantissimi follower, può attirare molti consensi e riempire uno spazio politico", spiega il sondaggista a ilGiornale.it . Il rapper potrebbe rosicchiare consensi al Movimento 5 stelle: "Fedez è un nuovo 5s che dice cose facili da capire, populiste e che fanno il verso alla protesta", prosegue Mannheimer. "Ovviamente non tutti i like diventeranno voti, ma una quota significativa di like può diventarlo. Dipende da quello che dirà e farà. Ritengo comunque che il suo ingresso in politica non sia una cosa fuori dal mondo". E' meno convinto che possa invece far parte di un esecutivo: "Che vada al governo mi sembra difficile, ma un 10 per cento potrebbe ottenerlo", conclude il sondaggista. Anche Federico Benini, fondatore di WinPoll, è convinto che "l'effetto novità" possa favorire Fedez che "potrebbe attirare le attenzioni dei giovani under 30 e non troppo politicizzati, oppure degli elettori di centrosinistra che in questi anni si sono astenuti perché non si riconoscono in nessun partito di sinistra". Potenzialmente, secondo il sondaggista, il rapper milanese avrebbe un bacino di 4-5 milioni di voti. "Prendiamo il fenomeno Conte, uno dei politici più amati fino a pochi mesi fa e che fino a tre anni fa nessuno conosceva. Considerando anche il fatto l'elettorato italiano è molto volatile, se Fedez, oltre alla battaglia sui diritti civili, aggiungerà altri temi alla sua agenda politica potrà avere un suo spazio nel campo del centrosinistra". Non la pensano così invece i politologi. I quali stroncano una eventuale discesa in campo di Fedez. "Penso che tutto questo sia fondamentalmente una trovata di marketing pubblicitario che gioca sulla convergenza mediale dei Ferragnez, i quali prima entrano nel dibattito pubblico e, poi, vedono i politici inseguire le loro iniziative di marketing", commenta Massimiliano Panarari, docente di Campaigning e Organizzazione del consenso alla Luiss di Roma. "Qualora, però, nascesse veramente un partito di Fedez, sicuramente si collocherebbe nell'area grillo-dem nato dopo l'esperienza del governo giallorosso e troverebbe il suo spazio, soprattutto in un momento come questo in cui il M5S si identifica in pieno col sistema". "Con Mario Draghi, è tornata di moda l'esperienza e la competenza. Non è il momento di chi non ha mai fatto politica prima", taglia corto Luigi Di Gregorio, professore di Scienza Politica all'Università della Tuscia di Viterbo. "Secondo me è più che altro un'operazione di marketing pre-elettorale anche perché scendere in politica sarebbe una mossa poco intelligente dal punto di vista degli interessi della coppia Ferragnez".

Il mastrotismo ha i giorni contati. La profezia dei Baustelle e il posizionamento del marchio Fedez. Guia Soncini su L'Inkiesta il 12 novembre 2021. Sono in tanti a non aver capito a fondo la strategia del marito della Ferragni: il suo essere testimonial di buone cause e di magliette, di bigiotteria pacchiana, di tatuatori e di diritti civili è fatto solo per conquistare nuove fette di mercato. In una vecchia vignetta di Altan, un tizio si faceva le grandi domande: chi siamo, dove andiamo, che codice fiscale abbiamo. Ho passato ieri a farmi quelle e altre grandi domande: che cosa vuole venderci il marito della Ferragni? È difficile resistere al mercato (amore mio)? La catastrofe è inevitabile? Ed è vero che la storia si ripete sempre due volte, la prima come tragedia e la seconda come Tomaso Montanari? «Anna pensa di soccombere al mercato, non lo sa perché si è laureata, anni fa credeva nella lotta, adesso sta paralizzata in strada, finge di essere morta, scrive con lo spray sui muri che la catastrofe è inevitabile». Nell’inverno 2008 esisteva un governo Prodi (sembra un attimo fa, sembra un secolo), esistevano i dischi (sembra un secolo, forse due), Chiara Ferragni non aveva ancora inventato il blog The Blonde Salad, il suo futuro marito era a malapena maggiorenne, e i blog in cui una si fotografava per farci vedere com’era vestita sembravano molte cose ma certo non un antipasto di futuro (è tutto un attimo, diceva quella). Fu allora che vennero poste le basi per decodificare il 2021. Per dividerci tra chi riconosce Anna e chi no. Naturalmente non eravamo pronti per sapere come sarebbe andato il mondo tredici anni dopo (in un’epoca in cui gli anni valgono come quelli dei cani, e in tredici anni cambia tutto come in un paio di secoli), e quindi non riconoscemmo il futuro. «È difficile resistere al mercato, Anna lo sa. Un tempo aveva un sogno stupido: un nucleo armato terroristico. Adesso è un corpo fragile che sa d’essere morto e sogna l’Africa. Strafatta, compone poesie sulla catastrofe. Vede la fine in metropolitana, nella puttana che le si siede a fianco, nel tizio stanco, nella sua borsa di Dior». Nel 2008 i Baustelle erano il gruppo più amato dai laureati in lettere, e quando incisero “Il liberismo ha i giorni contati”, l’unica loro bella canzone, non sapevano che Anna era un ragazzino di Buccinasco, aspirante rapper, che non riuscendo a scrivere neanche una bella canzone poi avrebbe cambiato carriera per diventare il Giorgio Mastrota della sua generazione, e che neanche nei sogni più bagnati avrebbe potuto pensare che Dior fosse alla sua portata. Tredici anni dopo, Chiara Ferragni il ragazzino di Buccinansco se l’è sposato (in Dior), ci ha fatto due figli, lei è la più brava del mondo a vendere prosciutti (cioè: sé stessa e qualunque prodotto sfiori, dall’alta moda di Dior ai ravioli da supermercato) su Instagram, e lui pure se la cava. Lei ha un modello di bottega più suadente; l’anima del commercio di lui, invece, è strillare che vede la fine. Vedeva la fine nel 2015, quando litigava in tv di Cucchi (io se tirano fuori una cosa detta quando avevo 26 anni muoio di vergogna, lui la ricondivide periodicamente tutto bello orgoglioso di sé: dev’essere bellissimo essere esenti dai processi evolutivi). Vedeva la fine a maggio 2021, quando strologava in tv di offese ai gay in un concerto dedicato ai diritti dei lavoratori (e poi pubblicava telefonate con la Rai durante le quali si gonfiava d’indignazione tipo Hulk e, onde rendere chiaro anche alle fasce più ingenue del suo pubblico che l’indignazione è merce, con lo screenshot indignato si faceva la nuova foto profilo di Instagram, e poi la Rai lo denunciava, e poi finiva tutto a tarallucci e cuoricini). «Vede la fine in me che vendo dischi in questo modo orrendo, vede i titoli di coda nella casa e nella libertà» (era il 2008: Berlusconi era un problema, mica un’opportunità; era il nemico pubblico, mica era arrivato Salvini a venderci i tortellini al ragù e i mojito e a farci ristabilire gerarchie etiche e di cuoricinabilità). «Che cosa vuole venderci il marito della Ferragni» è una domanda non assoluta (la risposta sarebbe facile: tutto quello che siamo disposti a pagare, cioè tutto tranne le sue canzonette, alle quali deve allegare magliette per smerciarle) ma immantinente: che cosa vuole venderci col dominio fedezelezioni2023, il cui acquisto i giornali di ieri hanno inutilmente dibattuto. Solo chi pensa che il liberismo abbia davvero i giorni contati può pensare che il marito della Ferragni si candidi. E solo Tomaso Montanari, che mercoledì a Otto e mezzo – non avendo evidentemente mai ascoltato un testo di Francesco Guccini (ma anche solo uno di Ani DiFranco) – ha detto «Fedez fa già politica scrivendo i testi che scrive, ha certamente più impatto sul costume e sulle idee di gran parte del mondo politico, e forse c’è più visione politica nei suoi testi che nell’intera politica del governo Draghi», solo lui può pensare al marito della Ferragni come a un politico che faccia politica in modo nuovo, e non a un Giorgio Mastrota che in modi nuovi ci venda bici col cambio shimano vecchie. No, non è vero. Cioè, è vero che i Montanari sono tantissimi. Tantissimi quelli che neanche capirono una roba trasparente come l’operazione primo maggio. Tantissimi quelli così fessi da aver scambiato il marito della Ferragni che vendeva sé stesso – il suo essere testimonial di buone cause e di magliette, di capi d’alta moda e di borsoni d’acrilico, di bambini malati e di bigiotteria pacchiana, di tatuatori e di diritti civili – per un progresso fatto da un disegno di legge. Sono tantissimi, e hanno tutti diritto di voto e a volte persino diritto d’editoriale, quelli che hanno creduto che Fedez si stesse mettendo al servizio della Zan invece di capire che stava usando la Zan per aumentare il proprio valore di mercato, per migliorare il posizionamento del marchio Fedez. Figuriamoci se non credono che si candidi. Non capiscono la contemporaneità, possono mai capire che lo smercio d’un disegno di legge funziona come quello d’un prosciutto? «Muore il mercato per autoconsunzione, non è peccato, e non è Marx ed Engels, è l’estinzione, è un ragazzino in agonia».

Paolo Landi per “Il Foglio” il 18 ottobre 2021. La notizia non è che Vogue abbia scoperto – diciamo con una decina d’anni di ritardo – Chiara Ferragni, mettendola in copertina. La vera zampata da giornalista della nuova direttrice del blasonato magazine Conde Nast, Francesca Ragazzi, è avere affidato il pezzo a Michela Murgia. Una si esprime con le immagini, l’altra con le parole; una è bionda e slanciata, l’altra è bassina e scura scura; una parla l’esotico inglese nasale di Los Angeles, l’altra il meraviglioso idioma sardo, che non possiamo fare a meno di sentire risuonare nella nostra testa quando leggiamo i suoi articoli, che ci seducono con la grana della voce anche se non sono podcast. In modi diversi sono due giovani donne famose e, come scriveva Walter Benjamin, “in chiunque sia coronato da successo abita un genio”. Perciò non abbiamo resistito e abbiamo acquistato la rivista, immergendoci nella lettura di “Chiara privata”, testo di Michela Murgia, styling di Poppy Kain, foto di Scandebergs. In che modo devo affrontare questo fenomeno?, deve essersi chiesta la Murgia quando ha squillato il telefono e le hanno commissionato il ritratto di Chiara. Moravia aveva un sacco di domande da fare a Claudia Cardinale, nel 1962, quando la intervistò sul set, guardando la diva come un oggetto, isolandone il corpo e trasformandolo poi in apparizione che illumina il giorno e svanisce di notte. La Murgia sceglie l’empatia: aderisce ideologicamente a una vita che non potrebbe essere più diversa dalla sua, come se la conoscesse nel profondo o come se, piuttosto, di quella vita in vetrina, non ci fosse nulla che valga la pena approfondire. Con molta umiltà “prende appunti” perché, dice, “nessuno conosce le piattaforme social meglio di Chiara Ferragni”, costretta a citare Forbes come fonte attendibile quando dice che la Ferragni è “l’influencer di moda più importante del mondo” e gli “infiniti outfit” che condivide sulle piattaforme. Ne prende le difese, con gesto paternalistico poco adatto alla sorellanza: “Per anni centinaia di persone si sono impegnate a denigrarla, la blogger che parlava di moda, l’influencer che non si capiva che mestiere facesse, l’ennesima biondina belloccia che nell’arco di sei mesi sarebbe stata dimenticata”. Iniziando questa nuova collaborazione con una rivista così sofisticata la Murgia si dà una riverniciata di coolness: si capisce, tra le righe, che per lei la Ferragni è un’aliena, però la invidia, “è più ascoltata di un tg in prima serata” (l'universo domestico condiziona la Murgia facendo capolino da un televisore in salotto), e più letta, addirittura, “di tutti i giornali messi insieme”. “Spaventati da quell’impatto c’è chi”, dice Michela, “parla di abuso di posizione dominante e chiede di regolamentarla come se fosse una testata”. Qui la vera Murgia si scopre, facendo finta, con quel “c’è chi” di non essere lei a spaventarsi “dell’impatto” e a ipotizzare la regolamentazione della Ferragni, ma il lettore si accorge subito che secondo lei una certa disciplina sarebbe sacrosanta e la butta là giusto per mettere una pulce nell’orecchio al Codacons. Chiara compare nei virgolettati di questo lungo articolo come la persona incantevole che deve essere, nonostante certe cadute di gusto sui politici che non le si addicono, ma che sono sicuramente un incidente di percorso da dimenticare. Una ragazza che non si è fatta scoraggiare nell’inventarsi un lavoro nuovo, nato, come spesso accade alle imprese fortunate, da una passione. Ma subito la Murgia: “E’ con questa orizzontalità apparente che Ferragni – omettendo il “la”, come da istruzioni per l’uso femminista della lingua – ha fatto invecchiare i media tradizionali, un tempo amministratori unici di un racconto pubblico… ecc. ecc.”. Tagliamo questa frase da scrittrice-notaio: si può dire che è lei che fa invecchiare la Ferragni? Lei “amministratrice unica di un racconto pubblico” che ammazza con il burocratichese di sinistra anche la leggerezza e l’intelligenza di una ragazza giovane, sveglia, forse frivola ma certamente svincolata dal vecchiume ideologico che incrosta il pensiero della Murgia? In questo articolo la racconta come se fosse una sconosciuta, la Ferragni, di cui soprattutto le lettrici di Vogue conoscono anche il più minuscolo risvolto di vita, rivelando che l’unica forse a non sapere nulla di questa celebrità social era semmai proprio lei. Finalmente la scrittrice fa una domanda all’influencer: “Chi sarebbe Chiara Ferragni se domani Mark Zuckerberg cancellasse il suo profilo Instagram?”. Una domanda che fa intravedere un mondo. Un mondo così lontano dagli studi televisivi della 7 e dall’ultima pagina del vetero-Espresso, dove la Murgia si esprime sempre con la schwa (o “Scevà”), ma non qui, non qui su Vogue dove la liberazione di genere si è evidentemente già compiuta; un mondo che se cancellasse la Murgia, Zuckerberg non se ne accorgerebbe nemmeno.

Fedez nei guai: indagato per diffamazione. Samuele Finetti il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Il rapper è stato querelato per diffamazione dall'uomo che uccise i genitori per l'eredità. Non è la prima volta che scivola su una canzone: nel 2011 incise due canzoni con versi omofobi. Il rapper Fedez, al secolo Federico Lucia, è stato querelato per diffamazione da Pietro Maso, l'uomo che nel 1991 uccise entrambi i genitori per appropriarsi di parte dell'eredità. Gli avvocati di Maso hanno sporto denuncia ai carabinieri per uno dei versi della canzone "No Game-Freestyle", pubblicata lo scorso maggio: "Flow delicato, pietre di raso, saluti a famiglia da Pietro Maso, la vita ti spranga sempre a testa alta come quando esce sangue dal naso". Il rapper, quindi, è stato iscritto dalla procura di Roma nel registro degli indagati con l'accusa di diffamazione aggravata. Nella canzone, si legge nella denuncia presentata dall'omicida libero dal 2015,"è richiamata in maniera esplicita la drammatica vicenda personale e processuale che mi ha visto coinvolto e che a distanza di anni e di un faticoso e doloroso percorso personale sono riuscito a superare". "La libertà di espressione e di manifestazione del proprio pensiero, anche e soprattutto nel caso di specie - conclude Maso nella denuncia - non può determinarsi in modo da ledere l'onorabilità altrui, atteso, vi è più, che la vicenda che ha interessato il sottoscritto, ad oggi, non assume alcun interesse in termini di attualità e rilevanza storica". Non è la prima volta che il marito di Chiara Ferragni viene denunciato per diffamazione. Il caso più eclatante riguarda il discorso che il rapper aveva pronunciato durante il concerto del Primo maggio. Dal palco, Fedez aveva attaccato direttamente alcuni esponenti della Lega, accusandoli di sostenere posizioni omofobe. Oltre alle querele dei diretti interessati, era arrivata una denuncia direttamente dalla Rai dopo che il cantante aveva registrato e diffuso una telefonata con i vertici di Viale Mazzini, che aveva deciso di procedere per vie legali "in relazione all’illecita diffusione dei contenuti dell’audio e alla diffamazione aggravata in danno della società e di una sua dipendente". La controquerela dell'artista era stata immediata. Dopo quel discorso, Fedez era stato travolto dalle polemiche per via di altre canzoni che contenevano riferimenti esplicitamente omofobi. In "Tutto il contrario", incisa nel 2011, l'artista cantava: "Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing, ora so che ha mangiato più wurstel che crauti". Stesso anno, altra canzone ("Ti porto via con me"), medesima frase incriminante: "Non fare l'emo frocio con lo smalto sulle dita".

Samuele Finetti. Nato in Brianza nel 1995. Due grandi passioni: la Storia, specie quella dell’Italia contemporanea, che ho coltivato all’Università Statale di Milano, dove mi sono laureato con una tesi sulla strage dipiazza Fontana. E poi il giornalismo, con una frase sempre in mente: «Voglio poter fare, 

Paolo Landi  per ilfoglio.it il 24 agosto 2021. Ci voleva Chiara Ferragni ad aggiornare, centocinquanta anni dopo, l’analisi teorica di Marx che, in Salario, prezzo, profitto (1865), preconizzava l’abolizione del lavoro salariato, condizione che il filosofo riteneva indispensabile per la piena emancipazione dei lavoratori. Senza farsi paladina di lotte sociali, senza scontri sindacali, la leader italiana degli influencer dimostra come il nuovo capitalismo digitale stia subentrando, in maniera indolore, anzi decisamente glamour, alle economie di produzione, sovvertendole. È tipico del capitalismo assumere aspetti sempre nuovi, di pari passo allo sviluppo tecnologico: senza probabilmente saperlo Chiara Ferragni ha posto le basi per relazionarsi in modo rivoluzionario con se stessa, la sua forza lavoro, il suo tempo, le sue relazioni con gli altri, fornendo suggestioni inedite nelle considerazioni sul libero mercato. Nell’epoca in cui la qualità della vita diventa passione di massa, la Ferragni è l’epitome del superamento del capitalismo dei consumi, rappresentandone tuttavia la massima espressione, verso la fine del lavoro tradizionalmente inteso, nell’affermazione di un iper-liberismo che mischia occupazione e tempo libero, e ridefinendo anche il concetto di plusvalore: perché quella parte del prodotto del lavoro che l’imprenditore trattiene per sé una volta remunerati i lavoratori salariati e che costituisce la base dell’accumulazione capitalistica e del profitto, la Ferragni la ingloba totalmente. Lei è l’imprenditrice e l’operaia, lavoro e tempo libero per lei sono la stessa cosa, lavora sempre senza lavorare mai, è essa stessa merce senza smettere di essere individuo, anzi, elevando alla massima potenza il valore di sé come persona. Marx avrebbe sgranato gli occhi per la meraviglia di questo comunismo distopico realizzato da una bella ragazza bionda. La Ferragni mette la pietra tombale sul rapporto di proprietà: chi la paga non è più proprietario né del suo tempo né delle sue braccia, lei non è tenuta a fornire alcuna prestazione né alcun tipo di servizio, tra lei e chi la remunera non sembra esserci alcun rapporto di lavoro, tutti e due impegnati a occultare la materialità dello scambio (i prodotti che lei pubblicizza hanno un valore tanto più alto se sembrano “scelti”, invece che frutto di un contratto), il valore che la Ferragni produce è intimamente legato al suo “essere lei”. Il suo lavoro coincide con la sua vita, nel superamento definitivo del concetto marxiano di alienazione, realizza profitti “vendendo” alla massa le immagini della sua quotidianità, tra figli, marito, predilezioni personali e modi di essere. È il suo gusto che diventa merce. Mentre il capitalismo globalizzato trionfa, il lavoro mette le basi per una trasformazione epocale: ce n’eravamo già accorti quando siamo passati dal fax alle e-mail, dal consumo di tv sull’apparecchio posizionato in salotto a Netflix, compulsato sullo schermo dello smartphone, fino agli acquisti effettuati su Instagram pagando con PayPal, senza nemmeno tirar fuori l’obsoleta carta di credito. L’economia del nuovo capitalismo digitale è un “niente”, si basa su valori immaginari, ciò che la caratterizza è un meccanismo di volatilizzazione delle realtà materiali. Il denaro assume un’importanza esagerata ma “guadagnato con il sudore della fronte”, come si sarebbe detto una volta, diventa ridicolo. Si fa strada la convinzione che la libertà non sia altro che il diritto di ciascuno di arricchirsi. Il capitalismo dei consumi, dei prodotti standardizzati, lascia il posto a un’economia di reattività, dove i criteri di competitività abbandonano le caratteristiche analogiche per spiegarsi ricorrendo a termini come qualità, innovazione, brandizzazione, immaterialità. Chiara Ferragni, mentre incarna paradossalmente il materialismo della vecchia società dei consumi, ne decreta la probabile estinzione: ci saranno sempre cose da comprare nei nuovi mercati social, ma la corsa non sarà a procurarsi più merci, bensì ad assicurarsi una vita migliore. Ciascuno diventa padrone del suo modo di vivere, arrivando addirittura a programmare significativamente la procreazione, che può avvenire nella libera scelta di uomini e donne, al di là delle specificità sessuali e di genere e seppellendo per sempre il concetto di riproduzione “per fornire figli al mercato del lavoro”. Nel nuovo mercato del lavoro si smette di misurare la quantità secondo il tempo: non più ore, giorni, settimane, mesi ma, come ci ha insegnato l’home working in tempo di Covid, un flusso che annulla l’unità di misura. Se una merce aveva un valore stabilito sulla cristallizzazione del lavoro sociale, corrispondente alle quantità o somme di lavoro impiegate, realizzate, fissate in esse, ecco che la rivoluzione Ferragni sconvolge la filiera. E se un’ora di lavoro di un tecnico equivaleva a due di un operaio, il valore del lavoro di una influencer si calcola sulla quantità di follower che riesce a “ingaggiare”, traducendo con questa parola più cruda l’inglese “engagement”, che significherebbe anche, in modo più ipocrita, “impegno, partecipazione”. La Ferragni, sempre pienamente oziosa e sempre pienamente occupata, esempio sincronico di lavoro durissimo e di vacanza infinita, prefigura il futuro di un lavoro che sta già scompaginando le regole gerarchiche: sui social le professioni si equivalgono, il dog sitter e il tecnico IT, il parrucchiere e il promotore finanziario sono uguali, gli indicatori di censo che funzionavano prima appaiono oggi livellati perché i social parlano allo stesso modo, snobisticamente, del lavoro e dell’ozio. #myofficetoday e #lovemyjob sono gli hashtag che esemplificano questo nuovo modo di concepire il lavoro, che non c’entra più nulla con l’etica del sacrificio o con le performance competitive ma che, obbedendo al diktat social della felicità esibita a tutti i costi, mette insieme avvocati e stylist, banchieri ed estetiste, chef e ingegneri. Tutti impegnati a dimostrare di divertirsi lavorando, proprio come fa la Ferragni. Sembra quasi che il progresso tecnologico debba mettersi al servizio di questo azzeramento di conflitti, di questa pace sociale, anzi “social”, che sembra aver abolito le classi, di questo sovvertimento gerarchico tra scale e valori. Se l’epoca moderna dei consumi era pilotata da un progetto di democratizzazione dell’accesso ai beni commerciali – e si spingevano le persone ad appropriarsene in quantità sempre maggiori – la nuova fase pionieristica del capitalismo, quella che stiamo vivendo, si volge verso la privatizzazione della vita e l’acquisizione di autonomia da parte degli individui nei confronti delle istituzioni collettive. C’entra anche il narcisismo fomentato dai social: ciò che importa di più è l’immagine sociale, mentre l’omologazione digitale fa intendere che un “diritto al lusso”, al superfluo, a una vita da vivere “alla grande”, sia oggi possibile. Già Marx si era accorto che non esiste il valore del lavoro, nel senso comune della parola, perché era la quantità di lavoro necessario incorporata in una merce a determinarne il valore. Ma la “merce Chiara Ferragni” che incorpora in se stessa la forza-lavoro sovverte anche l’assunto di Thomas Hobbes citato da Marx in Salario, prezzo e profitto: “Il valore di un uomo – scriveva l’economista-filosofo inglese autore del Leviatano – è come per tutte le cose il suo prezzo, cioè è quel tanto che viene dato per l’uso della sua forza”. Perché gli influencer non vendono la loro forza-lavoro, vendono se stessi: così facendo il loro valore e il loro prezzo prendono l’apparenza esteriore del prezzo o valore immateriale della loro performance. Possiamo definire l’economia contemporanea dei consumi un’economia “emotiva”, avvolta in un’atmosfera di leggerezza, di gioco, di giovanilismo, di erotismo. In un momento importante di mutazione del lavoro e delle sue regole, dovuto all’accelerazione tecnologica, il nuovo capitalismo digitale spinge anche verso una mutazione antropologica: il modello Ferragni, semplificando, preme verso l’infantilizzazione dei giovani e del rifiuto psicologico degli adulti di invecchiare, in uno scenario dove la precarietà e la povertà sono in crescita costante. Non a caso è il reddito di cittadinanza uno dei totem agitati dalla politica: dal lavorare meno lavorare tutti al non lavorare affatto mentre, di contro, il tempo dei consumi digitali non conosce momenti di interruzione o di pausa. Lo stato che si fa carico della sopravvivenza dei propri cittadini non è poi così utopico, se il lavoro come lo intendevamo tradizionalmente si stravolge. Prima la rivoluzione industriale sostituì l’uomo con le macchine, per rendere più efficiente lavoro e produzione. Ecco che siamo quasi pronti a sostituire le macchine con procedimenti di automazione digitale integrati. Secondo una ricerca di McKinsey il 64 per cento del lavoro ha già il potenziale di essere automatizzato, tagliando fasi del processo di produzione, riducendo necessità di stoccaggio e spedizione mentre app, robot e algoritmi saranno in grado di monitorare processi e apportare modifiche. Chiara Ferragni, con il suo desiderio di divertirsi lavorando, aveva visto lungo: non è più necessario adattarsi alla fabbrica o all’ufficio del futuro perché quella fabbrica e quell’ufficio non esisteranno più. E le stampanti 3D, che presto non si chiameranno più così per via dell’arcaismo della parola “stampante”, ci introdurranno nel mondo magico delle copie, già celebrato dall’arte con il ready made duchampiano e poi dall’evoluzione del realismo verso l’iperrealismo, dove un dipinto realizzato con la tecnica dei colori a olio su tela sembra uguale a una fotografia. Il già fatto, il confezionato, il prefabbricato sarà replicabile in 3D, gli oggetti industriali che l’arte privava delle connessioni con la tradizione artigianale, trasformandoli in puri simboli e decontestualizzandoli esponendoli nei musei, saranno prodotti da noi stessi. Conteremo noi, conteranno le nostre individualità: a questo ci stanno allenando i social, facendoci per il momento esercitare con i like che nutrono il nostro narcisismo ed elevando Chiara Ferragni a modello, adeguando la ricerca della felicità privata a regola di comportamento e, alla fine – il che non sembra proprio un male – esaltando l’individuo e i suoi diritti come fondamento ultimo e norma organizzata della vita pubblica.

Chiara Ferragni: “Perché vado dallo psicologo una volta a settimana”. Alice Coppa il 24/08/2021 su Notizie.it.  Chiara Ferragni ha confessato i motivi che l'avrebbero spinta a rivolgersi ad uno psicologo. Chiara Ferragni ha risposto ad alcune domande dei fan e ha svelato per la prima volta perché una volta alla settimana andrebbe da uno psicologo. Anche Chiara Ferragni ha deciso di concedersi del tempo per sé per andare da uno psicologo. L’influencer ha confessato la questione serenamente mentre rispondeva ad alcune domande dei fan, e ha dichiarato: “Ci parlo una volta la settimana da circa un anno e mezzo ed è una cosa bellissima un lusso che mi concedo per ragionare meglio, per stare meglio, per pensare a quello che mi è successo durante la settimana”. L’influencer ha anche dichiarato che in passato avrebbe sofferto di attacchi d’ansia e che andare da uno psicologo l’avrebbe aiutata a superarli. Chiara Ferragni ha svelato che ne avrebbe sofferto in particolar modo nel 2015 durante il suo trasferimento a Los Angeles, che la portò a stare per diversi mesi lontana dalle persone a lei più care.

Chiara Ferragni: la vita privata. Oggi l’influencer ha trovato la felicità: oltre ad essere diventata senza dubbio una delle imprenditrici più famose d’Italia ha realizzato il suo sogno d’amore accanto a Fedez, con cui quest’anno – dopo il piccolo Leone – ha avuto la sua seconda bambina, Vittoria. La coppia sembra essere più felice ed unita che mai e molto presto i due si trasferiranno in un nuovo appartamento che gli consentirà di avere più spazio.

Chiara Ferragni: il nuovo appartamento. Chiara Ferragni ha svelato ai fan sui social che lei e Fedez hanno acquistato un nuovo lussuoso appartamento nel quartiere di CityLife che dovrebbe essere pronto nel 2022. Lì la coppia avrà sicuramente più spazio per sistemare le camerette dei loro due bambini e sui social Chiara Ferragni ha dichiarato di essere emozionata per l’acquisto della sua prima casa insieme al marito: “Abbiamo comprato la nostra prima casa insieme. Una casa familiare. Quella in cui siamo, anche se ci stiamo benissimo, è in affitto. Finalmente abbiamo trovato la nostra casa dei sogni”, aveva dichiarato via social, e ancora: “È un appartamento come piace a noi e devono ancora costruirlo: dovrebbe essere pronto l’anno prossimo e c’è tempo per organizzarlo al meglio”. In tanti tra i fan sui social non vedono l’ora di vedere la nuova casa della famiglia Ferragnez.

Da "ilmessaggero.it" il 7 agosto 2021. Chiara Ferragni a Porto Cervo. I Ferragnez al completo (Fedez, Chiara Ferragni, Leone e Vittoria) sono sbarcati in Costa Smeralda per le loro tradizionali vacanze di agosto. Anche quest'anno, l'imprenditrice digitale e il rapper hanno affittato una villa da sogno. Stavolta però a Porto Cervo (la scorsa estate a Santa Teresa di Gallura). A descrivere la residenza principesca, il sito d'informazione locale Gallura Oggi: «La villa è lussuosissima. Solo la zona abitabile è di ben 650 metri quadri su un lotto di circa 4000. Ovviamente con piscina e tutti i confort, tanto che nel cortile c’è anche un campo da basket. L’interno della residenza è incredibile, dentro c’è anche un teatro, una sala fitness e sette camere da letto (tre per gli ospiti)». Secondo il sito, l'affitto della mega villa partirebbe da 3.500 euro a notte. Il prezzo da capogiro lascia basito più di un fan: «È immorale». Ma i Ferragnez continuano a far sognare, la vacanza principesca continua. 

Da "liberoquotidiano.it" il 7 agosto 2021. La bella vita. Ferie esclusive. Anzi, molto di più. Ovvio, se sei Chiara Ferragni e disponi del suo patrimonio. Ma a molti - rosiconi - la circostanza non va giù. Ma procediamo con ordine. Come sempre, la moglie di Fedez, il rapper più amato dalle bambine, documenta passo passo la sua vita sui social, quei social che sono l'epicentro di tutte le sue fortune. E così eccola, la Ferragni, in vacanza a Porto Cervo, Sardegna. I Ferragnez sono al completo: Chiara, il maritino e i due figli, Leone e Vittoria. Tutti in Costa Smeralda per le vacanze agostane. E anche quest'anno hanno affittato una villa pazzesca, che viene descritta per filo e per segno da Gallura Oggi, un quotidiano locale. "La villa è lussuosissima. Solo la zona abitabile è di ben 650 metri quadri su un lotto di circa 4000. Ovviamente con piscina e tutti i comfort, tanto che nel cortile c’è anche un campo da basket. L’interno della residenza è incredibile, dentro c’è anche un teatro, una sala fitness e sette camere da letto (tre per gli ospiti)", spiega Gallura Oggi. Dunque, il medesimo quotidiano, snocciola le cifre necessarie per accaparrarsi l'immobile: secondo quanto riportato, il prezzo è di 3.500 euro a notte. Prezzo che, come detto in premessa, scatena gli haters, i quali commentando le foto postate dalla Ferragni su Instagram insultano e insistono: "È immorale". Amen. 

Paraguru Fedez dà lezioni senza studiare. Luigi Mascheroni l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. Fa battaglie giuste ma dal pulpito sbagliato, dà lezioni ma non studia, vuole bucare la bolla consumistica in cui vive. Arte, impegno e 21 grammi di felicità Versi di denuncia e versi denunciati #censuraFedez #Lega #Ferragnez #SbirriInfami #MaCheCa**oDiMusicaè? Sono molti gli artisti che influenzano la vita politica nel mondo. Taylor Swift, George Clooney, Mia Farrow... E poi ci siamo noi, con Levante, Willie Peyote e Fedez, featuring Chiara Ferragni. Che poi, a pensarci bene: come se fosse colpa dei cantanti e delle influencer se oggi appaiono più credibili dei politici. Ma la vera domanda è: sono i follower ad aver elaborato una fine coscienza politica o gli elettori a essersi ridotti a Instagrammer? Quando la politica finisce di dare spettacolo, è lo show che diventa politica. «Andiamo a governare!». In un'epoca sincopata, tum-cha tum-tum-cha, in cui i monologhi (a volte noiosetti) prevalgono sulle belle canzoni, scambiare la popolarità con l'autorevolezza e i like con i voti è un attimo (o un attico?). E così, nel momento in cui la politica sparisce, restano solo propaganda e social media marketing. Sono le grandi questioni sociali ridotte a merce: lo streaming dei buoni sentimenti e Moet sciandon. Ma pagano di più i diritti civili o il product placement? E così un giorno ci siamo svegliati scoprendo che Chiara Ferragni e Fedez sono la nostra Royal Couple. Poi sono bastati due tweet a elevarli a Anna Kuliscioff e Filippo Turati. Da una parte c'è Chiara Ferragni: ogni volta che attacca la Lega - #fashion #luxury #TotalLookDior #AbbassoSavini rinsalda l'alleanza tra Movimento 5 Stelle e Partito democratico. Dall'altra Fedez, un po' Santo del Popolo un po' Attivista Politico, che cavalca l'anti-renzismo di ritorno con facili rappate populiste acchiappaconsensi che però funzionano bene sui giovanissimi, ed è anche per questo che Enrico Letta punta a estendere il voto ai sedicenni. In un colpo solo si amplia la base elettorale e si aumentano i ticket per il prossimo tour #FedezLive #Pd #M5s #SalviniPuzzone E poi tutti dalla D'Urso. Qualcuno ha detto che per le ingiurie e l'istigazione all'odio contenute nei suoi brani Fedez meriterebbe anni di carcere duro, per la qualità musicale l'ergastolo. Noi non la pensiamo assolutamente così. Siamo garantisti. Per altro: ormai rapper è una parola difficile da pronunciare senza arrossire. Meglio influencer. Quando le icone di ricchezza diventano miti politici, e viceversa. È per questo che Fedez piace così tanto a Luca Sofri e Natalia Aspesi? In realtà c'è poco da ridere, anche se certi look da teen-star di Buccinasch insomma. L'impero di Fedez - che ha 31 anni ma ne porta dodici - è un po' come quello di Berlusconi dei tempi d'oro: un partito azienda. Nel senso che fa business - #giornalistirosiconi #GiùLeManidaFedez e nello stesso tempo gli basta una diretta su Instagram per far cambiare idea al Pd. «No vabbé ma è carinissima la linea disegnata da Fedez!». «Ma quale? La linea di giacche in lurex?». «No, quella sul #DdlZan».

«Perché nessuno ha ancora detto a Flavio Briatore,/ che andare in giro con il pareo è un po' da ricchione?». Bella vita. Ed è bello poter dire «A 19 anni si è delle persone diverse», «Certe cose oggi non le rifarei uguali», «Erano altri anni». Gli anni passano per tutti: anche noi che scriviamo, per dire, una volta facevamo i ritratti di Eco e Vattimo E adesso di Scanzi e Fedez. Federico Leonardo Lucia di nascita e Fedez di rinascita, è di Milano, anno di scarsa grazia - anno di muri e di piazza - 1989; è cresciuto a Buccinasco ma le origini sono di Castel Lagopesole, una delle frazioni di Avigliano - che conta 652 abitanti, il numero di follower che la Ferragni racimola mentre si fa le unghie - in terra cafona di Potenza, quindi Lucano. Cosa vuoi di più dalla vita? Successo, fama, soldi, Music Awards, Disco di platino, Sanremo e X Factor. È stato bravissimo: li ha avuti. «We figa tanta roba». Pioniere del digitale, straordinario ideatore di crowdfunding, disubbidi@nte di lusso del villaggio globale, è il personaggio giusto del proprio tempo. Sono i tempi, purtroppo, a essere sbagliati. Ieri Paolo Conte, Battisti e De Gregori. Oggi Mika, Fedez e Achille Lauro. Credere nel progresso è dura. Ma poi il limite non sono i testi, o le rime. Sono le basi. E non musicali. La sua lezione in diretta Zan - non si può negare - mancava di flow ma soprattutto di una minima conoscenza della materia. Si dice «totale analfabetismo giuridico». Primo maggio, due serie tv, Rai3, 400 cento denunce del Codacons, 5 Stelle e sei album, Fedez è per l'Uguaglianza e la Dignità, ma non può criticare banche e multinazionali (acquista su Amazon e spedisci con FedEx). Cantava versi omofobi, ma il problema è #Salvini. Scherzava su «ammazzare uno sbirro» e «stupro la Moratti» ma fa la morale su #legittimadifesa e #LegaAssassina. Posta l'emoji di un pagliaccio e si veste da Fedez. Inneggia allo Stop Global Warming e svacanza col jet privato #BelloFareIFighiColGreenDegliAltri. J'accuse: «Stare dalla parte di ciò che funziona. La vita furbetta degli influencer». Essere social e in malafedez. La fedez comincia là dove la ragione finisce. Ferragni, donna di poca fedez. Professione di fedez. Misteri della fedez. Autodafédez. L'elettrorap è un dogma di fedez, la coerenza un tabù. Tattoo, pantaloni Versace, Satan Shoes, Fez e camicia nera - «Me ne frego!» Federico Leonardo Lucia in Ferragnez si atteggia a ribelle antisistema quando ha tutto il sistema (media e Big Tech) dalla sua parte. L'irrisolvibile paradosso - da cui non si esce con un freestyle - di chi aspira al consenso del mondo che vorrebbe capovolgere. Il problema è che un tuit di Fedez fa 20/30k cuori in un giorno. Questa è la nostra bolla. Speriamo che prima o poi non scoppi.

Showbitz, ritornelli pop, Instagram stories, vilipendio delle Forze armate e abuso di Auto-Tune, per Fedez le battaglie giuste, dal #DdlZan alla 194, sono la nuova frontiera della controcultura di lotta e di governo-Draghi, poi basta postare #SalviniBuffone e ci si ripulisce la coscienza. Stereo-tipi. La rivoluzione non è un pranzo gala, ma neppure una experience da Cannavacciuolo. «Solidarietà al compagno Fedez, Cuba&griffe, avanguardia della lotta contro il nazileghismo!». Di recente in tv, che non è la pagina Facebook dei Ferragnez ma ha ancora una sua autorevolezza, abbiamo sentito un politico dire - presagendo lo sbarco dei Ferragnez in Parlamento - «Fedez e Ferragni saranno i nuovi Beppe Grillo». Sono imprenditori come Berlusconi, influencer come Zan, eroi dei social come Salvini e capopopoli come Renzi. Si può fare. Come si intitolava quella canzone di Fedez che mi piace tanto? Vota sì per dire no.

Luigi Mascheroni. Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi

"Infami figli di cani": Fedez denunciato per vilipendio delle forze armate. Novella Toloni il 29 Luglio 2021 su Il Giornale. Il cantante è stato denunciato da una Onlus per il testo del brano "Tu come li chiami", che contiene offese a militari e carabinieri. L'ente chiede anche l'oscuramento delle pagine web nelle quali è presente il testo della canzone. Vilipendio delle forze armate e istigazione a delinquere. Sono questi i reati contestati al rapper Fedez dall'Associazione pro territorio e cittadini onlus. Come riporta l'AdnKronos, l'ente ha denunciato formalmente il cantante alla procura di Milano per il testo della canzone "Tu come li chiami", dove carabinieri e militari vengono chiamati "infami" e "figli di cani". L'atto giudiziario porta la firma dal colonnello dei carabinieri in congedo Roberto Colasanti per conto dell'associazione, che si è mossa legalmente dopo le numerose segnalazioni arrivate nelle ultime settimane da carabinieri in congedo. Nella denuncia depositata in procura, Fedez è accusato di "vilipendio delle forze armate dello stato in violazione dell’art.290 c.p. per aver realizzato e diffuso tramite la rete internet il testo della canzone 'Tu come li chiami' contenente ripetute frasi offensive dei carabinieri e dei militari quali appartenenti alle forze armate della Repubblica italiana. E istigazione a delinquere per aver realizzato e diffuso in tempi diversi sulla rete internet". Nel testo della canzone, la cui prima pubblicazione risale al 2010, il rapper scrive: "Tu come li chiami carabinieri e militari, io li chiamo infami tutti quei figli di cani". Un ritornello ripetuto più volte nel testo che, come evidenzia la denuncia presentata dall'associazione nazionale, inviterebbe pubblicamente i suoi ascoltatori a insultare le forze armate. Insieme alla denuncia, l'Associazione pro territorio e cittadini onlus ha portato in Procura anche una relazione tecnica dettagliata. Quest'ultima - elaborata dalla Legal technology solutions con metodologia forense - ha consentito di acquisire le pagine web sulle quali il testo e la canzone sono stati diffusi negli ultimi undici anni e dei quali ora l'ente chiede l'oscuramento immediato. Si tratta dell'ennesima denuncia a carico del marito di Chiara Ferragni che, negli scorsi giorni, ha ricevuto un nuovo atto giudiziario dal Codacons, con il quale è in corso un braccio di ferro lungo mesi. L'associazione dei consumatori ha chiesto di bloccare il ricavato dell'iniziativa benefica Scena Unita, promossa da Fedez e altri artisti per supportare i lavoratori dello spettacolo. Una raccolta fondi da milioni di euro che è stata accomunata dal Codacons a quella di Malika Chalhy e utilizzata dalla giovane per scopi personali come l'acquisto di un'auto di lusso e di un cane di razza. Nonostante siano passati undici anni dall'uscita del brano "Tu come li chiami", ora Federico Lucia (vero nome dell'artista) dovrà nuovamente varcare le porte del tribunale.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lasc…

RAZZA PADANA - Fedez, come trasformare un battibecco sui gay nella lotta per la libertà. Come nasce un caso per uno che sta attento al cuore a sinistra e al portafoglio pure. Francesco Specchia su Il Quotidiano del Sud il 4 maggio 2021. Federico Leonardo Lucia detto Fedez, razza padanissima da Rozzano, profondo hinterland milanese, è un genio del marketing, uno stratega della fuffa fattasi battaglia civile, uno in grado di trasformare magicamente il vapore acqueo in 12 milioni di follower (e un po’ sticazzi). Verso Fedez, lo confesso, provo una malcelata invidia sociale. Mentre l’Italia è ancora martoriata dal virus, mentre si combatte a colpi di Recovery Fund per impedire licenziamenti a catene, la gente perde il lavoro e le famiglie perdono reddito e natalità, ecco che noi cronisti dedichiamo a Fedez e alla sua polemica in diretta sulla legge anti-omofobia dal palco del concertone, metà del notiziario di giornata. Ci fosse una testata giornalistica che avesse eluso la reprimenda di Fedez su Rai3. Il massimo è stato Il Corriere della sera che ci ha addirittura aperto il giornale con fondo (bello) del mio amico Antonio Polito, neanche avessimo dichiarato guerra alla Polonia. Fedez fa Fedez, sta attento al cuore a sinistra e al portafoglio pure; mette in onda un video in cui fuma una sigaretta elettronica e un altro in cui indossa un cappellino griffato, prodotti sponsorizzati vietatissimi a qualsiasi altro ospite o conduttore della tv di Stato; si ingegna per apparire sempre politicamente corretto e pronto all’applauso per la platea dei suoi formidabili 12 milioni di followers. In più studia una filippica fantastica sulla legge Zan approfittando di un’ingenuità della vicedirettrice di Raitre che lo chiama per ricordargli (una banalità) che in Rai non è prevista un’opinione politica senza un contraddittorio. E lui, di tutta risposta, parla a difesa (giusta, per carità) dei transomosessuali, mentre tutti noi -dato il contesto del concerto della Festa del Lavoro, dei valori mondiali del 1° maggio- ci aspettavano una reprimenda magari sulle condizioni dei lavoratori di Amazon di cui però, guarda caso, Fedez è testimonial. Qualcuno, di Fedez, in queste ore ricorda la coerenza. E alcuni testi di alcune sue canzoni. In Bella vita, per esempio, Fedez canta: “Perché nessuno ha detto a Flavio Briatore/che andare in giro col pareo è un po’ da recchione?”. Nell’altra canzone Tutto il contrario, Fedez scrive: “Mi interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing/ Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti/ Si era presentato in modo strano con Cristicchi/ “Ciao sono Tiziano non è che me lo ficchi”. Roba che oggi, se fosse approvato il ddl Zan che tanto sponsorizza, gli costerebbe almeno 18 mesi di carcere. Ma tant’è, era giovane, e da giovane qualche cazzatella scappa. Oggi Fedez non fa cazzate; e se le fa riesce a renderle opinione di popolo, vezzo libertario, sacrale difesa delle minoranze, denuncia subdola d’ogni fascismo. La colpa è della Rai, che ingenuamente è caduta nella trappola. La mia solidarietà. A Morgan, che per aver fatto una battuta idiota sulla droga, prima di andare a Sanremo, si bruciò una carriera, mentre Fedez oggi è il prossimo candidato leader del Pd…

LA PAROLA CHIAVE – Il disegno di legge Zan. Il disegno di legge proposto da Alessandro Zan ha l’obiettivo di combattere ogni tipo di discriminazione. Omotransfobia, dunque, ma non solo. “Misure di prevenzione e contrasto della discriminazione e della violenza per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere e sulla disabilità” si legge sul frontespizio del disegno di legge trasmesso dal presidente della Camera dei deputati alla presidenza il 5 novembre 2020. Non si parla solo di omosessualità e omofobia, quindi, come certa propaganda contraria al ddl vorrebbe far credere. Si affrontano anche temi come la violenza di genere, la discriminazione nei confronti dei disabili. Si quantificano le condanne, pesanti peraltro, per chi commette violenza o discriminazione e si propone l’istituzione di iniziative di sensibilizzazione reale.

Chiara Ferragni e Fedez, le "umili vacanze" dei paladini della sinistra: il Pd aggrappato a questi due, capito che roba è? Libero Quotidiano il 18 luglio 2021. Hai capito, i paladini della sinistra? Hai capito, i nuovi "leader" di Pd e dintorni? Si parla ovviamente di Chiara Ferragni e Fedez, due multi-milionari, gente che più lontana da un operaio, giusto per fare un esempio caro proprio alla sinistra, davvero non esiste. E la coppietta, tra un post a favore del ddl Zan e un insulto al nemico politico di turno (ma i contenuti restano sempre a zero), ecco che si gode le sue "umili vacanzine". Già, i Ferragnez prima si sono concessi un break in un resort extralusso in Versilia, un posto dove la junior suite si paga la bellezza di mille euro a notte, mentre ora si trovano a Villa Bonomi, sul lago di Como. Insomma, roba proibita ai comuni mortali. Nulla di male, per carità. Soltanto fa ridere il fatto che la Ferragni e Fedez, dall'alto del loro lusso e sfarzo, siano di fatto i principali punti di riferimento di una sinistra in cui Enrico Letta non riesce a toccar palla. Ovviamente, la Ferragni documenta le sue vacanze su Instagram. La coppia ormai è di casa sul lago di Como, dove secondo alcune indiscrezioni starebbero anche cercando casa. Per quel che riguarda villa Bonomi, ha una delle più belle viste sul lago di tutta la zona. Tra le attrazioni, una promenade che è un tripudio di fiori e piante di tutti i tipi. La struttura dispone di undici camere da letto, una grossa piscina coperta e quattro ettari di vegetazione che la circondano.

Fedez, il gip archivia l’indagine per diffamazione: respinta la denuncia del Codacons. Ilaria Minucci il 16/07/2021 su Notizie.it. Il gip di Milano, Roberto Crepaldi, ha archiviato l’indagine per diffamazione aperta dopo la denuncia del Codacons contro il cantante Fedez. Il gip di Milano ha ordinato l’archiviazione dell’indagine per diffamazione aperta in seguito a una denuncia del Codacons contro il cantante Fedez. Il gip di Milano, Roberto Crepaldi, ha deciso di archiviare l’indagine per diffamazione aperta contro Fedez, al secolo Federico Lucia, aperta dopo la denuncia presentata dal Codacons datata 17 aprile 2020. La disputa si era generata in seguito a una storia pubblicata dal rapper sul suo account Instagram ufficiale realizzata per rivolgere pesanti accuse nei confronti dell’associazione dei consumatori. Il Codacons, infatti, aveva organizzato una raccolta fondi per contrastare il coronavirus ma non aveva rilasciato dettagli chiari e precisi circa la destinazione del denaro raccolto. A questo proposito, quindi, Fedez aveva criticato l’associazione asserendo che il Codacons volesse incrementare la propria visibilità sfruttando la tragica circostanza rappresentata dalla pandemia. Le accuse di diffamazione rivolte a Fedez, tuttavia, sono state archiviate dal gip di Milano che ha spiegato come le dichiarazioni rilasciate dall’artista siano una piena espressione della libertà d’opinione. La vicenda rappresenta soltanto una delle tante querele che il Codacons ha depositato contro il marito di Chiara Ferragni. Sulla base delle decisioni recentemente prese, il gip Roberto Crepaldi ha spiegato che le opinioni del rapper sono basate su fatti realmente accaduti che possono essere oggetto di critica. Pertanto, il gip ha reputato che le motivazioni esposte dal Codacons non fossero sufficienti per procedere con l’incriminazione per diffamazione. In seguito alla decisione del gip Crepaldi, Fedez ha festeggiato la notizia postando su Instagram un video che lo ritrae mentre si esibisce in una danza della vittoria, canticchiando le parole “e poi ne restano mille”. Il verso è tratto dal suo ultimo brano “Mille”, anch’esso motivo di contenzioso con il Codacons che ha denunciato la pubblicità occulta presente nel video della canzone, depositando un nuovo esposto contro l’artista. In un video apparso tra le storie Instagram, quindi, Fedez ha commentato l’archiviazione stabilita dal gip di Milano, dichiarando: “Oggi una piccola vittoria: hanno archiviato una querela che mi aveva fatto il Codacons. Assolto, quindi. E poi me ne restano mille…”.

Fedez assolto in tribunale: “Ho vinto contro la biografa di Salvini”. Alice Coppa il 14/07/2021 su Notizie.it. Fedez è stato assolto in tribunale a Livorno dopo una denuncia per diffamazione da parte della giornalista Chiara Giannini. Fedez ha annunciato via social di aver vinto la causa in tribunale contro Chiara Giannini, giornalista e biografa che lo aveva denunciato per diffamazione. Dopo l’udienza al tribunale di Livorno il rapper Fedez ha esultato tramite social, dove ha annunciato di esser stato assolto nella causa che lo vedeva protagonista contro la giornalista Chiara Giannini. I fatti risalgono al 2017, ossia a quando il rapper marito di Chiara Ferragni accusò la giornalista di aver pubblicato un articolo fasullo su di lui. In seguito ai fatti la Giannini sporse denuncia per diffamazione, ma i giudici hanno assolto Fedez perché il fatto “non sussiste”. “Siamo soddisfatti. È stata fatta chiarezza di un processo che è durato anche troppo. È il giusto epilogo di una vicenda giudiziaria che non doveva neanche iniziare”, hanno dichiarato i legali di Fedez, mentre lui ha aggiunto: “Belle notizie. Mi trovo a Livorno, dove oggi avevo un processo in cui ero accusato dalla giornalista, nonché biografa di Matteo Salvini, edita da Casapound. Processo di diffamazione. Mi hanno assolto, wow!!!”.

Fedez: i processi. Quello contro la giornalista in questione è solo uno dei numerosi processi che interessano Fedez. Nei mesi scorsi il rapper è stato più volte accusato dal Codacons, che ha sporto querela contro di lui. Il rapper ha in ballo anche un processo contro la Rai, che lo ha denunciato in seguito al discorso da lui tenuto (contro alcuni esponenti della Lega) durante il Concertone del primo maggio. Lui stesso ha ironizzato in merito alla questione una volta uscito dal tribunale di Livorno, dove ha citato il suo tormentone Mille affermando in merito ai processi: “Poi me ne restano mille. Torno a casa adesso, ciao”. 

Fedez: la vita privata. Querelle e processi esclusi si tratta di un periodo roseo per l’artista: il tormentone Mille  – realizzato in collaborazione di Achille Lauro e Orietta Berti – è in vetta alle classifiche, e lui e sua moglie Chiara Ferragni continuano a godersi il tempo in famiglia e insieme ai loro due bambini, Leone e Vittoria. La coppia ha annunciato che entro la fine del 2022 traslocheranno in una nuova casa sempre nel prestigioso quartiere di City Life, a Milano, dove da tempo hanno un appartamento in affitto.

Vittorio Macioce per "il Giornale" il 25 giugno 2021. Si chiama Fedez e a quanto pare è un maestro del pensiero. Non bisogna stupirsi. È l'opinionista che fa più rumore. Fedez parla e c' è subito qualcuno che risponde. Fedez scandisce il dibattito pubblico. Fedez pesa di più di Enrico Letta. Fedez con l'indice puntato e ballerino dice: «Raga, ma chi cazzo ha concordato il Concordato? Voi avete concordato qualcosa?» e manca poco che il Papa gli risponda. Ci pensa però monsignor Galantino: «O non sa o è in male fede». Fedez incassa e ringrazia. È così che funziona la piazza politica al tempo della democrazia virtuale: tu sei chi ti risponde. Il resto è Draghi e si è vaccinato. È così che in questo strano paese il banchiere è l'anomalia, il deviante, e il rapper il conformista, il maestro dell'orecchiabile. Non sempre ci crede. È una storia che sarebbe piaciuta a Pessoa. Il fedezismo è la faccia paciosa del grillismo. È rassicurante, ma ne incarna lo spirito populista. È l'influencer qualunque, l'ultimo discendente di Guglielmo Giannini, il commediografo e giornalista che nel dopoguerra inventò il Fronte dell'uomo qualunque. Giannini, come Grillo, amava storpiare i nomi dei suoi avversari. Calamandrei lo chiamava «Caccamandrei», Ferruccio Parri fu ribattezzato «Fessuccio Parmi». È l'ingrediente base del qualunquismo. Giannini ballò una sola stagione e fu archiviato come fenomeno di destra. Fedez è qualunquista, ma di sinistra. È il fronte del palco ideale per la nuova ditta Letta-Conte. È lì che trova e allarga il suo spazio d' azione. Fedez qualunquista, ma se difende i diritti Lgbt?. Non cambia. Non è che le battaglie di Giannini o di Grillo fossero tutte da buttare o senza senso. Se hanno trovato consensi è perché esprimevano disagi. Qualunquista è il metodo. È come le porti in piazza. È come parli, a chi parli, quali corde smuovi. La questione dei diritti, in generale, si presenta nella discussione pubblica in modo binario e bidimensionale. È aperto o chiuso. È luce accesa o luce spenta. È solo presente, senza profondità o prospettiva. Tutto così finisce per assomigliare a un «trend» su Tik Tok o a un «hashtag» di twitter. È rapido, breve, immediato e funziona. Non c' è molto da dire: devi solo cliccare il «mi piace». Se ti inginocchi sei buono e se non lo fai sei cattivo. Il resto non conta. Non importa se, per esempio, temi che l'ossessione per l'identità possa creare un corto circuito nella carta dei diritti. È un dubbio. Se spacchetti l'umano fino ai minimi termini non è che si perde il principio di umanità? La forza dei diritti è che sono universali. «Tutti gli umani nascono liberi e uguali...».

Fedez, un nichilista esperto in giravolte. Karen Rubin il 26 Giugno 2021 su Il Giornale. Nella sua canzone "Tutto il contrario" Fedez si prendeva gioco di Tiziano Ferro, che coraggiosamente aveva dichiarato la sua omosessualità. «M i interessa che Tiziano Ferro abbia fatto outing. Ora so che ha mangiato più wurstel che crauti. Si era presentato in modo strano con Cristicchi. Ciao sono Tiziano, non è che me lo ficchi?» Nella sua canzone «Tutto il contrario» Fedez si prendeva gioco di Tiziano Ferro, che coraggiosamente aveva dichiarato la sua omosessualità. Il video ufficiale, su Youtube, conta 12.623.407 visualizzazioni. Una realtà che non si attaglia all'attuale Fedez, paladino del mondo Lgbt, sostenitore del ddl Zan al punto da contrapporsi alla nota verbale con cui la chiesa cattolica auspica delle modifiche alla legge nel timore che vada in collisione con il Concordato. Ma perché si ritengono legittime le esternazioni di Fedez e non quelle di monsignor Galantino? Di Fedez sappiamo che ha frequentato un liceo artistico ma non si è diplomato, che ha scritto canzoni come «Tutto il contrario», «Generazione boh», «Faccio brutto», «Paranoia Airlines». Nunzio Galantino è laureato in teologia e filosofia con una tesi di laurea dal titolo «L'antropologia di Bonhoeffer come premessa al suo impegno politico». Bonhoeffer fu un teologo protagonista della resistenza al nazismo. Il monsignore ha insegnato nella scuola media statale e nelle università. Del rapper conosciamo moglie e figli esibiti sui social senza tutele per la loro tenera età, in pasto alla morbosità degli utenti. In rete una foto del piccolo Leone con il papà ha suscitato questo commento: «Sei un bel down come tuo padre». Ed ecco che a pagare le spese di questa sovraesposizione sono il bambino, inconsapevole, e le persone affette da sindrome di Down, grazie ad un circo organizzato per l'arricchimento personale mentre sponsorizza una legge che deve difendere la disabilità. Sappiamo che grazie a questa notorietà è diventato testimonial di Amazon, un'azienda criticata per le condizioni di lavoro dei suoi dipendenti, ma è lui ad essere chiamato sul palco della festa dei lavoratori il Primo maggio. Il vescovo è noto per aver sostenuto la conoscenza di Antonio Rosmini, beato che sottolineò l'inalienabilità dei diritti umani della persona e sostenne la necessità della separazione del potere temporale da quello spirituale. Rosmini fu condannato dalla chiesa e poi riabilitato. Anche Fedez ha subito dure critiche quando per il suo compleanno, festeggiato in un supermercato, lui e i suoi amici hanno giocato a calcio con ortaggi e panettoni in barba alla povertà di cui soffrono milioni di italiani. La festa, trasmessa minuto per minuto sul profilo Instagram del rapper, è testimone di una scena che costrinse Fedez a fare una promessa di beneficenza riparatoria ai suoi follower inferociti. Ed è così che il nichilismo di Fedez si trasforma in filantropia, per riguadagnare un consenso andato perso. Karen Rubin

Ottavio Cappellani per la Sicilia il 30 maggio 2021. Chiara Ferragni è un algoritmo. Questo è il motivo per il quale le azzecca tutte: essa non inventa; analizza e prevede quali possono essere i trend futuri. Chiara Ferragni non “lancia” mode, le anticipa di quel soffio. La ciabatta con il calzino bianco, dicono alcuni, è una tendenza inconscia dovuta al lockdown per cui ci sentiamo carcerati, e, dopo la tuta, la ciabatta col calzino è un “must have”. Dissento. L’algoritmo di Chiara Ferragni è infallibile. Esso ha capito ciò che vado dicendo da tempo: la Sicilia è duecento anni avanti nella decadenza, e infatti la Ferragni ha iniziato a vestirsi come una tappinara sicula. La “tappina” è una ciabatta, calzatura usata dalle professioniste del meretricio a causa della comodità che comporta nel balzare dentro e fuori dal letto, qui “tappinara” non viene usata nel senso antico, ma in quello contemporaneo, smart, pratico, di donna che lavora e tira su i figli e non ha tempo per scegliere le scarpe per andare a fare le commesse, per cui si mette le tappine e via. Donne che portano avanti la gestione familiare e che in tempi di crisi sanno come non rinunciare alle comodità e al lusso. La spiaggia libera di Catania, la Playa, è il vero modello di riferimento dell’algoritmo della Ferragni. Svelato questo segreto possiamo agilmente prevedere i prossimi trend che ci proporrà l’influencer.

IL TAPPINARWARE. Un tupperware (contenitore di plastica con coperchio a scatto, inventato dalla signora Concetta Impallomeni riciclando una confezione di gelato da un chilo, atto a non fare impastare la pasta al forno con la sabbia) con il colore del coperchio abbinato alla tappina.

IL ROTOLO DI ALLUMINIO. Fogli di metallo per avvolgere il panino con la cotoletta. Perché la parmigiana va nel tappinaware e il panino nell’alluminio anche se non si deve infornare? Per non fare scivolare il contorno della cotoletta: peperoni, patate fritte, funghi, carciofini, caponata, cipolline, insalata russa, doppio formaggio, porchetta, strutto, pancetta e wurstel.

CANOTTIERA PREMACCHIATA. Così, anche se si macchia aprendo la carta d’alluminio contenente il panino, non se ne accorge nessuno e continuate a essere alla moda.

CHIARA FERRAGNI 15

BORSA FRIGO HAND MADE. Nel rispetto dell’ambiente, essa è composta con materiali di riciclo reperibili in casa. La borsa del calcetto di Fedez lavata con la candeggina e raffreddata con due bottiglie di plastica riempite di acqua e messe nel congelatore fino a diventare ghiacciate.

QUALCOSA PER RUTTARE. Lo smart drink da bere in spiaggia: acqua molto gassata (quella con la bottiglia blu che se la agiti esplode) comprata al supermercato tedesco, limone, sale.

KIT DA SPIAGGIA. Sedie a sdraio, tavolo ripiegabile dodici posti estendibile a trentasei, trentasei sedie pieghevoli, ombrellone-tenda di 300 metri quadri, televisore 90 pollici e parabola. In omaggio una nonna.

ANGURIA SOTTO IL BRACCIO. Perché, voi come la portate l’anguria?

Fedez si censura per soldi: per contratto “non può criticare banche e assicurazioni”. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 27 maggio 2021. Gli azionisti e finanziatori del rapper in Doom gli impongono il bavaglio in cambio di ricavi milionari. L’inchiesta dell’Espresso sui Ferragnez svela anche i segreti di Chiara Ferragni: il mondo fra Previti e Bisignani del suo socio romano e lo strano andamento in Borsa dei titoli delle aziende con cui collabora. Si erge ogni giorno a paladino della libertà di espressione, in realtà Fedez si censura da solo. Per soldi. Come ha scoperto l’Espresso visionando documenti che pubblica in esclusiva, Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, per i suoi affari ha accettato volentieri la censura: il gruppo Be, suoi azionisti e finanziatori in Doom amministrata dalla mamma Annamaria Berrinzaghi, gli ha imposto di non “rilasciare dichiarazioni inerenti al settore bancario e assicurativo che cagionino un danno alla società”. Pena l’interruzione di un’alleanza che soltanto nel 2021 dovrebbe fruttare 15 milioni di euro di ricavi. Così Fedez ha creato il suo sistema con Doom: recluta artisti e li addestra ai social, li coinvolge in spettacoli per le banche e poi li ingaggia con la sua nuova casa discografica. Alla festa dei lavoratori del Primo Maggio, quando ha denunciato il bavaglio della Rai, di certo non poteva criticare le politiche sindacali e fiscali di Amazon poiché ne incarna i valori essendo suo “ambasciatore” per 800.000 euro. La multinazionale di Jeff Bezos, tra l’altro, ha già avviato la produzione del documentario “The Ferragnez” che riprende la famiglia di Chiara Ferragni e di Fedez 24 ore su 24. Il servizio dell’Espresso, disponibile online da oggi e da domenica in edicola, mostra tutti i documenti esclusivi e racconta anche i segreti di Chiara Ferragni, del suo socio romano che porta al mondo di Bisignani e di Previti. E poi si descrivono gli anomali andamenti in Borsa dei titoli del gruppo Aeffe (Alberta Ferretti) e di Monnalisa, aziende di moda, nei giorni precedenti all’annuncio della collaborazione con l’influencer.

I segreti dell’impero Ferragnez: dall’autocensura d’oro di Fedez agli strani rialzi in Borsa delle società che ingaggiano Chiara Ferragni. Il rapper è in affari con una società di consulenza, ma non può criticare le banche. Mentre sua moglie firma accordi con case di moda che finiscono al centro di manovre sospette sul mercato azionario. Vittorio Malagutti e Carlo Tecce su L'Espresso il 27 maggio 2021. Fedez contro Fedez. Il Fedez che denuncia via Instagram la censura della Rai al concertone del primo maggio - «Quindi io non posso salire sul palco e dire quello che voglio?» - e l’altro Fedez, l’uomo d’affari che per salvare un business milionario accetta di non «rilasciare dichiarazioni inerenti al settore bancario assicurativo». È scritto proprio così in una delle clausole del contratto che regola i rapporti tra l’artista e i suoi soci del gruppo Be, quelli che gli hanno finanziato la neonata società Dream of Ordinary Madness, in sigla Doom, e gli hanno staccato un biglietto di benvenuto, appena firmato l’accordo, di 1,8 milioni di euro. «Quindi io non posso salire sul palco e dire quello che voglio?». E no. Mai citare le magagne bancarie o assicurative e neppure quelle di Amazon che guadagna miliardi e sposta i profitti in Lussemburgo per pagare meno tasse. Fedez non può permettersi di criticare le politiche sindacali e fiscali della multinazionale americana di Jeff Bezos perché ne è diventato “ambasciatore” per 800 mila euro e con la moglie Chiara Ferragni è impegnato nella registrazione del documentario “The Ferragnez” per Prime Video di Amazon. Un progetto inedito che manderà sul web i momenti salienti della vita privata e professionale di Fedez. Anche quando il rapper si censura da solo. “The Ferragnez”, scena uno. Ciak, si gira! Ecco i loro segreti, che L’Espresso è in grado di raccontare grazie anche a documenti esclusivi. Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, gestisce le sue molteplici attività per il tramite della holding Zedef, controllata assieme al padre Franco Lucia e alla madre Annamaria Berrinzaghi. Ha provato il trasporto di lusso con Autoscontri. Ha investito in Zerogrado, un’azienda trevigiana, per procacciarsi adepti su Facebook. Ha costruito e poi interrotto in Newtopia il sodalizio discografico col collega rapper J-Ax. Finché si è consegnato, un anno fa, al gruppo Be: sede legale a Roma, uffici a Milano, Londra e in altre capitali europee, 179 milioni di ricavi di cui 122 da banche e 45 da assicurazioni, 8 milioni di utili, 60 milioni in cassa, 1.448 dipendenti. Il primo azionista del gruppo è la Tamburi investment partners del finanziere Giovanni Tamburi con il 27,5 per cento del capitale, segue la famiglia dell’amministratore delegato Stefano Achermann con il 12,8 per cento. Il gruppo Be si muove in un mercato europeo in forte crescita e maneggia dati sensibili: fa consulenza a grandi istituti finanziari per le piattaforme informatiche e la comunicazione digitale e cercava un volto popolare per avvicinare banche e assicurazioni, cioè i suoi clienti, al pubblico dei giovani. Il cantante Fedez, invece, aveva bisogno di una multinazionale solida e in espansione per allargare il giro d’affari garantito dal suo volto popolare e dalla sua fama di influencer. Così, ad aprile dell’anno scorso, è nata Doom: maggioranza al gruppo Be attraverso la holding Be shaping the future e una quota del 49 per cento al rapper col veicolo Zdf. Alla firma del contratto, Fedez con mamma e papà ha incassato 1,8 milioni di euro e la signora Berrinzaghi è stata nominata amministratore delegato con un compenso annuale di 130.000 euro. Il gruppo Be è di fatto proprietario dell’immagine di Fedez e, come si legge nel verbale del consiglio d’amministrazione dell’11 dicembre 2020, la spreme in tre modi. Primo: «strutturazione commerciale del talent (sarebbe Fedez) più rilevante in portafoglio». Secondo: «crescita dei progetti di comunicazione integrata». Significa che Fedez e altri artisti, sportivi e influencer, sono coinvolti nelle pubblicità delle banche. Terzo: «avvio della società discografica Doom». Questa nota fa comprendere come funziona l’ecosistema plasmato dal gruppo Be: Doom svezza, alleva e promuove personaggi famosi, meglio se cantanti, e poi li propone come servizio aggiuntivo agli istituti bancari e assicurativi. Il 18 ottobre 2020, per esempio, Fedez era “ospite di eccezione” a “Lunghezza d’onda”, un concerto trasmesso unicamente su Youtube. “Lunghezza d’onda” era organizzato da Doom per Banca Mediolanum e Mastercard: Lodovica Comello in conduzione affiancata da Fedez, Matteo Bruno, detto Cane secco e Mirko Alessandrini, detto Cicciogamer89. Un paio di canzoni per Marracash e Madame. Mediolanum ha allestito la serata per piantare 7.000 alberi in Guatemala, anche se forse al nord di Milano ce n’è più bisogno. In realtà “Lunghezza d’onda” è stato un espediente per far conoscere ai ragazzi il conto Flowe che propone una carta in legno. E dunque qualche albero, magari non in Guatemala né a nord di Milano, va abbattuto per fare le carte. Un mese dopo, il 22 novembre 2020, visibilmente emozionato, Fedez ha chiamato a raccolta i suoi seguaci o followers per incitarli ad assistere l’indomani al concorso canoro “Dream Hit”: «Potrebbe essere un nuovo archetipo». Fedez ha omesso alcuni particolari essenziali: “Dream Hit” era un evento pubblicitario di Intesa ideato da Doom, tant’è che si doveva accedere ai canali della banca per ascoltare la musica e palpitare per la gara. Il 13 dicembre si è disputata la finale con in giuria Beba, Myss Keta, Carl Brave, Boss Doms, Jo Squillo, Lodo Guenzi. Ha vinto il giovane rapper Paulo, che si è conquistato anche un biennale con una casa discografia molto promettente. La Doom, ovvio. Il sistema, anzi l’ecosistema, è virtuoso. Nel 2020, in otto mesi d’attività, la società di Fedez e Be ha fatturato 8 milioni di euro di cui uno da Mastercard e quest’anno prevede di incassarne almeno il doppio grazie a clienti come Banca Intesa, Unicredit, Credit Agricolé, Skingood (integratori alimentari vegani), Dofar (farmacia digitale per malati cronici), Foodspring (prodotti per diete), Layla (smalto, già c’è una serie griffata Fedez), Hellobody (cura pelle e capelli). Nel contratto che regola i rapporti tra i due soci di Doom è prevista un’opzione di “put and call” a favore di Be. In pratica, a scadenze predeterminate, nel 2025 e nel 2027, la società guidata da Ackermann potrà decidere se disimpegnarsi oppure rilevare la quota di proprietà di Fedez e famiglia. Ma a scanso di soprese e di imbarazzi con i suoi clienti nel mondo finanziario, c’è anche una clausola che consente al gruppo Be di sciogliere l’alleanza se il rapper dovesse fare «dichiarazioni inerenti al settore bancario e assicurativo che cagionino un danno alla società». Questo è quanto si legge nel verbale del consiglio di amministrazione di Be del 7 febbraio 2020, quando l’amministratore delegato Achermann ha illustrato agli altri membri del Cda il contenuto del patto che ha dato vita a Doom. Questa volta, però, Fedez non si è immolato per la libertà di pensiero come ha fatto un mese fa con la Rai per l’intervento sul disegno di legge Zan contro le discriminazioni di genere. Il rapper dovrà girare al largo da banche e assicurazioni, argomenti che potrebbero mettere a rischio il portafoglio di famiglia. Ad aprile dell’anno scorso, nel consiglio di Be hanno esordito alcuni nuovi amministratori, tra cui l’economista Lucrezia Reichlin e Anna Maria Tarantola già capo della vigilanza di Bankitalia nonché ex presidente Rai. E chissà che cosa ne pensa la cattolicissima Tarantola, a capo della fondazione pontificia Centesimus annus, del disegno di legge che porta il nome del deputato dem Alessandro Zan.

PIÙ CHIARA DI COSÌ. Se il marito cantante si trova costretto ad aggirare gli scogli delle censure vere o presunte, Chiara Ferragni si tiene a distanza dalle polemiche e macina profitti sospinta da un esercito di oltre 23 milioni di follower. I bilanci del 2019, gli ultimi pubblicati dalle società dell’influencer, raccontano di ricavi per 6,4 milioni con utili per 450 mila euro per Tbs Crew, che gestisce il marchio The Blond Salad. Sisterhood, invece, a cui fanno capo le campagne pubblicitarie, è arrivata addirittura a 5 milioni di profitti su 11 milioni di giro d’affari. Ben più problematica si è rivelata la gestione di Fenice, che incassa royalties dal marchio “Chiara Ferragni”. Nel 2019, la società ha perso mezzo milione, quasi la metà dei ricavi. Un imprevisto che ha causato la rottura con il socio Pasquale Morgese, licenziatario del marchio Chiara Ferragni. Morgese però al momento risulta ancora azionista di Fenice e anche di Tbs Crew. Prosegue senza intoppi, invece, l’alleanza tra l’influencer e il coetaneo Paolo Barletta, presidente di Fenice di cui è azionista con una quota del 40 per cento. Rampollo di una famiglia di costruttori, romano con eccellenti entrature nella romanità, Barletta, assistito per l’occasione dallo studio Previti dell’ex ministro berlusconiano, ha aperto alla famiglia Bulgari il capitale della sua holding Alchimia, nel cui consiglio di amministrazione siede Lucrezia Bisignani, figlia del faccendiere Luigi. Ai primi di aprile ha fatto notizia l’ingresso di Chiara Ferragni nel consiglio di amministrazione di Tod’s, una delle aziende più note della moda made in Italy. «Ci aiuterà a studiare progetti solidali, ecosostenibili e di welfare», ha spiegato il patron del gruppo, Diego Della Valle. Si vedrà in futuro quale potrà essere, nel concreto, il valore di queste iniziative sui conti aziendali. Intanto però, in Borsa, la notizia del nuovo incarico per l’influencer ha fatto guadagnare il 14 per cento in un solo giorno al titolo Tod’s. «È l’effetto Ferragni», scrivono giornali e siti web, il tocco magico della star dei social che scatena la fantasia degli investitori. La fama digitale moltiplica il pubblico dei potenziali consumatori e le celebrità del web servono ad amplificare la forza di un marchio. In Borsa lo hanno capito da un pezzo e quindi cavalcano ogni iniziativa della diva di Instagram. Che intanto, però, ha fatto il salto di qualità, trasformando sé stessa in un brand. Anzi, meglio ancora, la sua immagine riprodotta milioni di volte al giorno attraverso i vari canali social è diventata l’icona di uno stile di vita che serve a promuovere i prodotti più diversi, dall’intimo ai costumi di bagno, fino alle scarpe e agli accessori. Ma la pubblicità non basta. La blogger diventa stilista e sigla accordi con le aziende di moda. Sono affari che muovono milioni molto prima che un solo abito finisca in vetrina.

FURBETTI IN BORSA. È successo di recente con Monnalisa, azienda toscana che venderà su licenza abbigliamento per neonati e bambini con il marchio Chiara Ferragni, che da tempo ha lanciato sui social i suoi due bebè come testimonial a loro insaputa. La notizia dell’accordo è diventata di dominio pubblico lunedì 23 novembre, grazie a un comunicato stampa della società, da due anni quotata sul listino Aim, quello dedicato alle piccole e medie imprese. Nel giro di pochi minuti il titolo Monnalisa è stato travolto dagli ordini di acquisto. Nei due giorni successivi il rialzo ha superato il 70 per cento e il valore dell’azienda in Borsa è passato da 17 a 30 milioni. La vicenda però ha un antefatto fin qui sconosciuto. I dati pubblici di Borsa segnalano che la reazione del mercato azionario non coincide con l’annuncio del nuovo contratto, ma lo anticipa almeno di una settimana. Nelle cinque sedute comprese tra venerdì 13 novembre e il giovedì successivo, alla vigilia del comunicato ufficiale, la quotazione di Monnalisa è cresciuta del 50 per cento circa e in quegli stessi giorni c’è stato anche un boom degli scambi, aumentati di oltre cento volte rispetto alla media del mese precedente. Questi numeri alimentano il sospetto che qualcuno a conoscenza dell’imminente annuncio si sia mosso in anticipo rastrellando titoli Monnalisa per poi rivenderli sull’onda del rialzo innescato dall’effetto Ferragni. Un affare semplice, con un guadagno assicurato: la quotazione è passata dai 2,32 euro di lunedì 16 novembre, quando la notizia del prossimo accordo era ignota al pubblico degli investitori, fino ai 5,70 euro di martedì 24 novembre. Un rialzo del 145 per cento in poco più di una settimana. Non risulta che la Consob abbia avviato un’indagine su un possibile caso di insider trading, cioè l’abuso di informazioni riservate, che è un reato. Sorprende però notare che un copione simile è andato in scena anche per Aeffe, l’azienda di moda controllata dalla famiglia Ferretti che proprio negli stessi giorni ha siglato un accordo di licenza con la metà femminile dei Ferragnez. L’intesa è stata annunciata il 25 novembre, ma il rialzo dei titoli Aeffe, quotata sul listino principale della Borsa, era partito almeno un paio di settimane prima. Sui Ferragnez, però, non soltanto sul mercato azionario, continuano a scommettere in molti. Perché ogni indumento, ogni accessorio, ogni discorso, ogni filmato di Fedez e Ferragni serve a promuovere un prodotto. Si muovono come due immensi centri commerciali ben distinti. Per una volta, però, hanno preferito unirsi. Con il documentario “The Ferragnez” per Prime Video di Amazon: telecamere ovunque in salotto e in ufficio, con i soci e con i figli. Doom fattura per Fedez, Ferragni incassa per conto suo, e anche Vodafone, secondo i documenti visionati, sarebbe interessata a partecipare all’iniziativa. «Quindi io non posso salire sul palco e dire quello che voglio?». E no. Adesso si capisce la collera di Fedez: oltre a discettare sul meteo, può dire quello che vuole solo sul disegno di legge Zan e poi farsi riprendere con moglie e i figli 24 ore su 24.

Così Fedez e la Ferragni "influenzano" la politica. Daniele Dell'Orco il 15 Aprile 2021 su Il Giornale. Ormai i Ferragnez fanno politica a colpi di Instagram, il contrario della democrazia diretta, ma ironia della sorte sono stati "chiamati" in politica da Giuseppe Conte, l'attuale leader del Movimento 5 Stelle. È un fiume in piena ormai. Federico Leonardo Lucia, in arte Fedez, ha preso per qualche ragione sul personale la causa del Ddl Zan e un giorno sì e l'altro pure si avventura in invettive politiche a colpi di social. È il testimonial principe di un nuovo paradigma della comunicazione, quello di sollevare l'attenzione di centinaia di migliaia, in alcuni casi milioni, di persone su tematiche di carattere etico o politico per influenzare l'agenda parlamentare. Fedez e consorte, l'imprenditrice e influencer Chiara Ferragni, da soli mettono insieme qualcosa come 35.6 milioni di follower ben distribuiti tra Italia ed estero. Ma, schioccando le dita e scatenando hype, riescono a coinvolgere altre superstar del web nelle loro battaglie, come Elodie, Francesca Michielin, Levante etc. L'ultimo acuto di Fedez, ultimamente sempre meno canoro e sempre più da leader di folle, riguarda la riconferma del vitalizio a Roberto Formigoni. Scottato dalla mancata calendarizzazione del Ddl Zan, come "comandava" via social, Fedez ieri ha postato l'ennesima story contro il senatore Simone Pillon: "Vi ricordate qualche settimane fa il senatore Pillon che diceva che il Senato aveva un sacco di priorità? Avete letto la priorità di oggi? Confermato il vitalizio al Celeste, ovvero a Formigoni. Gli hanno ridato il vitalizio di settemila euro. Cazzo, queste sono priorità. Complimenti, buonanotte ai senatori". Posto che due, forse tre dei milioni di follower a cui parlano i Ferragnez conoscano davvero per cosa stia l'appellativo Celeste, o chi sia Formigoni, o i dettagli della sua vicenda giudiziaria, si tratta di un nuovo, pericolosissimo modo di fare populismo 2.0. Qualcosa che certamente proviene da lontano, ossia dal jet-set statunitense che da anni utilizza il web per sostenere posizioni politiche progressiste, idolatrare esponenti politici come Alexandria Ocasio-Cortez o Kamala Harris, rendere "cool" delle tematiche purché filtrate col proprio occhio. Ah, e soprattutto attaccare Donald Trump. Ora che l'elezione di Joe Biden ha dato la sensazione che rispetto al 2016 le posizioni di popstar, grandi sportivi, divi di Hollywood e influencer vari abbiano davvero spostato l'ago della bilancia, Fedez e Chiara Ferragni non si sono lasciati sfuggire l'occasione di rilanciare l'esperimento anche in Italia, e di diventare i capostipiti di quella "politica influencing" che rischia di rappresentare il futuro, specie man mano che riuscirà a coinvolgere i più giovani. Lorenzo Pregliasco, 34 anni, analista politico, cofondatore di YouTrend, professore a contratto anche all'Alma Mater, ha spiegato in una recente intervista a Repubblica: "Gli influencer, così come le aziende attraverso l'attivismo dei brand, riempiono un vuoto della politica. Insomma, non è più solo la politica ad occuparsi di politica". Ovviamente, non per forza in chiave positiva. Se la politica assume la forma di Netflix, vuol dire che non sarà più politica, ma show. Un grande spettacolo che premierà i cantori del politicamente corretto, poiché solo grazie ad esso Fedez E Chiara Ferragni hanno la possibilità di essere idolatrati, chiacchierati, portati come esempio da un sistema che li apprezza proprio per il "conformismo" delle loro posizioni alla narrazione dominante. Paradossale che in molti casi si tratta degli stessi schieramenti politici e intellettuali che predicano il trionfo del meritevole, del buono e del giusto. Ma che Fedez debba spiegare i passaggi parlamentari per il voto sul Ddl Zan è un esempio di merito? Ne ha i titoli? Ne ha il background? No, è un mero gioco delle parti, che oggi fa comodo e viene utilizzato come strumento. Domani potrebbe sfuggire al controllo e rendere non più i politici riconoscibili come tali, bensì gli influencer riconoscibili come politici. È l'esatto opposto della democrazia diretta teorizzata da Gianroberto Casaleggio e dal Movimento 5 Stelle della prima ora. Anzi, è una sorta di nuova oligarchia politica che utilizza il numero di follower come strumento di moral suasion. Anche in questo c'è qualcosa di comico, poiché ad "iniziare" Chiara Ferragni e Fedez alla militanza è stato Giuseppe Conte, lo scorso autunno, al momento della reintroduzione delle restrizioni anti-Covid. Quello stesso Conte, all'epoca Presidente del Consiglio, oggi è il leader del M5S, che sognava gli operai, i disoccupati, le casalinghe e in generale le persone comuni a dettare l'agenda dei propri esponenti politici e ora invece mitizza due fenomeni del web che dicono ai propri ignari seguaci cosa fare. E loro lo fanno. È successo anche lo scorso 3 aprile, giusto per fare un esempio, quando il Presidente della Commissione Giustizia in Senato, il leghista Andrea Ostellari, si è visto il profilo Instagram subissato di commenti lasciati da centinaia di adolescenti con scritto "Calendarizzate la Legge Zan". Non hanno fatto altro che copiare e incollare quanto scritto da Chiara Ferragni in una delle sue stories. Zero approfondimento. Zero confronto. Zero dibattito. Un bacino d'utenza sterminato di followers ai quali i Ferragnez dicono di voler "aprire gli occhi" usandoli in realtà come un gigantesco megafono per le proprie istanze. Giuste o sbagliate che siano conta poco. Perché spesso le cause specifiche vengono utilizzate come invettive nei confronti di qualcuno. Di norma, leghista. Proprio all'inizio del mese, infatti, Chiara Ferragni denunciò su Instagram il caso della nonna di Fedez, che sarebbe stata vaccinata a loro dire solo dopo che la coppia aveva sollevato il caso via social, e dicendo: "Scoraggiante vedere quello che accade, la vaccinazione è un diritto di tutti". Un modo come un altro per denunciare le inefficienze della Regione Lombardia e del suo Governatore, il leghista Fontana. Ats, in piena pandemia e con ben altri problemi a cui dover porre rimedio, ha dovuto replicare in tutta fretta: "Nessun operatore ha chiesto alla signora se fosse la nonna di Fedez". È un grande revival di quanto accadde in occasione del referendum per il divorzio nel 1974, quando il comitato per il No ebbe l'idea di assoldare come testimonial dei personaggi noti come Gianni Morandi, Nino Manfredi e Gigi Proietti per sostenere sul piccolo schermo le ragioni del fronte divorzista. Ma stavolta gli influencer hanno il potere di mettersi in proprio. Ideare delle istanze da zero. Superare partiti, comitati, soggetti civici che fanno davvero formazione e militanza. Bipartisan. Addirittura, possono fare cartello, coalizzarsi utilizzando uno strumento che non ha altri padroni se non loro. Non devono leggere un copione, non devono rispettare tempi televisivi, non devono chiedere spazi o obbedire alla par condicio.

Possono contare, persino, su un alleato in più: la censura. Facebook, che è pure proprietario di Instagram, non li silenzierà mai finché diffonderanno il Verbo progressista. Cosa che invece fa e continuerà a fare con gli sponsor di segno opposto. Ubi Fedez, minor cessat.

Ferragnez: ecco chi è tata Rosalba che si prende cura di Leone e Vittoria. Linda il 07/05/2021 su Notizie.it. In casa Ferragnez c'è una persona importante: si tratta di Rosalba, la tata che aiuta Chiara e Fedez a prendersi cura di Leone e Vittoria. Mentre i Ferragnez stanno festeggiando il compleanno dell’influencer più popolare di sempre, anche un’altra persona molto importante per la loro famiglia ha da poco compiuto gli anni. Si tratta nel dettaglio di tata Rosalba, della quale la stessa Chiara ha condiviso una foto nelle sue IG Stories dove la si vede abbracciare teneramente i bambini. Vestita di bianco e sorridente di fronte alla torta di compleanno, la donna ha letteralmente scatenando la curiosità dei fan. Com’è facile immaginare, Chiara Ferragni e Fedez non sempre possono passare il loro tempo con i piccoli di casa. Per questo hanno deciso di affidarsi a una professionista, ovverosia proprio alla signora Rosalba, che ormai lavora da diverso tempo per i due popolari Vip. La donna è stata assunta dopo la nascita di Leone e mamma Chiara la presentò ufficialmente sui social nell’estate del 2018, quando andò in vacanza con il figlio e con la tata. In quell’occasione la blogger cremonese pubblicò delle foto di Rosalba su Instagram, definendola “la miglior nanny di tutti i tempi”. Di lei si sa poco, anche se viene spesso nominata nelle Stories dei Ferragnez. Chiara Ferragni ha del resto sempre difeso il diritto delle donne di poter avere una carriera senza necessariamente sacrificarla per la famiglia. Rosalba è dunque una figura davvero importante sia per i bambini sia per Fedez e Chiara. Anche le super mamme hanno infatti bisogno ogni tanto di aiuto e non c’è nulla di male nel chiederlo.

L'impero social di Chiara Ferragni. Ecco quanto vale l'influencer a post. Neo consigliera del CdA di Tod's, l'influencer cremonese è sempre più "ricca". La metà del suo patrimonio arriva dalle sponsorizzazioni su Instagram. Novella Toloni - Sab, 10/04/2021 - su Il Giornale. Per aumentare esponenzialmente le vendite e la visibilità del proprio brand meglio affidarsi agli influencer. Lo sa bene Tod's che, dopo l'annuncio dell'ingresso di Chiara Ferragni nel Consiglio di Amministrazione, ha visto le proprie quotazioni in borsa impennarsi di oltre il 10%. Un'operazione voluta fortemente dal patron Diego dalla Valle per avvicinare i giovani al marchio toscano e che ha fatto "gioco", come si suol dire, anche all'imprenditrice digitale. Tutti la vogliono, tutti la cercano: come influencer, testimonial o partner imprenditoriale. Tutto ciò che tocca o crea poi vende, che si tratti di ciabatte oppure uova di Pasqua firmate Ferragni. Ogni mossa dell'imprenditrice e moglie del rapper Fedez è studiata e calcolata per creare profitto. Basti pensare alla nascita della secondogenita Vittoria. Sold out il pigiama indossato in clinica nei giorni della nascita. Sito in tilt per la vendita delle linea baby con tutine per neonata di lusso (e cifre da capogiro) disegnate in onore della figlia. Ogni collaborazione della Ferragni aumenta la sua visibilità sui social network dove, solo parlando di Instragram, è seguita da 23 milioni di follower. Un mondo quello del web che frutterebbe all'imprenditrice cremonese un fatturato da oltre 11 milioni di euro l'anno tra pubblicità e sponsorizzazioni varie in post, video e storie. Senza considerare il suo marchio di abbigliamento e accessori e il blog "The blond salad", che insieme raddoppiano gli introiti. È lei l'influencer italiana più pagata di Instagram. Hopper HQ, popolare sito britannico di analisi e monitoraggio dei social media, ha pubblicato la "Instagram Rich List 2020" dedicata agli influencer più pagati di tutto il mondo. La prima italiana a comparire nella lunga lista è proprio Chiara Ferragni, al 65° posto, che guadagnerebbe 59700 dollari (circa 53mila euro) per ogni post o contenuto video pubblicato sul suo profilo IG. Una cifra che arriverebbe addirittura a 77mila dollari per alcune sponsorizzazioni, secondo il portale di valutazione Influencer marketing hub, che analizza il coinvolgimento dei follower nelle attività dei personaggi su Instagram. In realtà un vero tariffario social non esiste. Ogni influencer, Chiara Ferragni per prima, conclude accordi e contratti di sponsorizzazione che possono far variare notevolmente il compenso finale. Ma i dati forniti da Hopper HQ non si discostano troppo dalla realtà e questo la dice lunga su come l'imprenditrice digitale debba tutto ai social.

Gianluca Paolucci per “la Stampa” il 10 aprile 2021. Nel mercato delle sponsorizzazioni via social lei è la numero uno in Italia. Se il 14% del titolo Tod' s ha reso palese il valore (economico) di Chiara Ferragni anche ai più scettici, la regina dei social ha messo in piedi in pochi anni un piccolo impero finanziario tutto costruito intorno a sé. Un piccolo impero che vale oltre 11 milioni di euro di fatturato per l' attività pubblicitaria, i post e le stories su Instagram. Più il marchio Chiara Ferragni Collection gestioti dalla Fenice srl, più la Tbs Crew, per un totale di poco meno di 20 milioni di euro di fatturato nel 2019. I protagonisti del mercato si dividono in tre categorie: influencer (coloro che hanno un seguito solo sui social), talent (attori, sportivi e altri personaggi pubblici) e celebrities (il gradino più alto). La Ferragni è nell'ultima categoria, ovviamente. I suoi 23,3 milioni di follower su Instagram valgono almeno 50 mila euro per un post. Ma un vero tariffario non esiste: ogni contratto viene valutato come progetto a sé e il prezzo può variare anche considerevolmente a seconda del prodotto, del committente o del tipo d' impegno richiesto. Grosso modo possiamo stimare che per una presenza sui social della Ferragni un marchio del lusso può pagare tra 50 mila e 100 mila euro. Molto meno delle celebrities americane, ma più di chiunque altro in Italia. Queste attività - il core business di quella che potremmo chiamare la holding Ferragni - fanno capo alla Sisterhood, srl milanese della quale Chiara ha il 99% mentre il restante 1% è suddiviso tra la sorella Valentina e Fabio Maria Damato, amministratore unico della società nonché manager delle attività della Ferragni. Il settore di attività è la «ideazione di campagne pubblicitarie». L'ultimo bilancio disponibile è del 2019, e si è chiuso con 11,3 milioni di euro di fatturato, contro i 5,2 milioni dell' anno precedente. Il margine operativo è stato di 7,3 milioni, che dopo 2,33 milioni di tasse hanno lasciato un utile netto di poco meno di 5 milioni di euro. Numeri diversi per la Tbs Crew: gestisce tra le altre cose il sito The blonde salad, il nome del blog della Ferragni dal quale tutto è nato. Il fatturato 2019 è stato di 6,4 milioni, con 450 mila euro di utile. La Tbs Crew - nella quale la Ferragni ha il 55% - è la società più strutturata: 14 dipendenti e un socio di minoranza - la Mafra Shoes dei Morgese - che è stata a lungo anche partner del marchio Chiara Ferragni Collection. Lo scorso anno, in piena pandemia, i rapporti con i Morgese si sono però guastati. La famiglia di calzaturieri è socia anche delle Fenice, nuovo nome della vecchia Serendipity, la prima società nata - nel 2013 - per monetizzare le attività della Ferragni. Nel sito di Chiara Ferragni Collection, la Ferragni viene definita «musa, direttore creativo e ceo». La Ferragni ha il 32,5%, mentre il primo socio (40%) la Alchimia di Paolo Barletta, società d' investimenti che ha tra i soci anche Nicola Bulgari. Nell' assemblea del 15 luglio scorso si consuma la rottura con i Morgese in maniera piuttosto traumatica: nel verbale si legge che «la crescente fama raggiunta da Chiara Ferragni richiede dei licenziatari con uno standing patrimoniale, finanziario, distributivo e relazionale all' altezza della fama da lei raggiunta». Fama arrivata anche in Piazza Affari.

·        Fiorella Mannoia.

Fiorella Mannoia torna in tv. Una vita da donna libera e le nozze con il giovane Carlo. Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. L’artista ha sposato il 22 febbraio Di Francesco, un musicista di 26 anni più giovane di lei. La grande amicizia con le donne e gli uomini che hanno scritto canzoni per lei.

La vita comincia a 50 anni

Fiorella Mannoia è talmente brava come cantante che parlare della sua musica è superfluo. Bastano tre titoli per dire tutto: «Come si cambia», «Quello che le donne non dicono»; «Il cielo d’Irlanda». Un timbro vocale unico. E il suo fascino che non accenna a calare, anzi è cresciuto (certo non dimostra neppure lontanamente 67 anni). Del resto Fiorella — donna molto impegnata nel sociale e nelle battaglie civili — ha confessato di aver cominciato a sentirsi bella a 50 anni. E davvero da circa 15 anni è più bella, dolce, ironica, empatica. Ha perso quella parvenza di snobismo che si portava dietro.

Il matrimonio

Proprio quest’anno, il 22 febbraio, poco prima di compiere 67 anni, ha detto sì per la prima volta, con rito civile. Fiorella Mannoia ha sposato Carlo Di Francesco, suo fidanzato da 15 anni, e di 26 anni più giovane di lei. All’inizio del loro legame infatti si parlò molto di questa differenza di età, ma Fiorella la prese ironicamente e disse a Vanity Fair: «La vecchiaia è faccenda di corpo, di muscoli. Per il resto è un’invenzione. La vecchiaia non esiste». Come sempre libera e controcorrente.

Carlo, fidanzato per 15 anni

Carlo e Fiorella sono stati fidanzati appunto 15 anni. Di Francesco è stato un docente di canto di «Amici di Maria De Filippi» e produttore musicale, ed è anche membro della band della Mannoia. Carlo nato in provincia di l’Aquila nel 1980 è un musicista affermato ed è specializzato in percussioni. Ama molto Cuba, città alla quale è davvero legato, e ha un fratello gemello.

Viva l’amore

Negli anni settanta e ottanta Fiorella ha avuto una relazione con il cantautore Memmo Foresi, che è stato anche suo produttore. Successivamente è stata legata 20 anni con Piero Fabrizi, anche lui musicista. «Il matrimonio non l’ho mai ritenuto una priorità. Le coppie devono stare assieme finché c’è amore. Ho sempre creduto che fosse eterno, però ho sempre pensato anche che la porta era aperta, sia per me che per lui. Forse questo non sposarmi era dettato dal desiderio di non vedere quella porta chiusa», ha raccontato a il Corriere.it.

Fiorella e le donne

Mannoia ha spesso collaborato con colleghe. Nel 2010 in «Ho imparato a sognare tour» c’è la partecipazione di Noemi in alcune tappe; mentre il 28 maggio 2010 viene pubblicato il singolo «Donna d’Onna», cantato insieme a Laura Pausini, Giorgia, Elisa e Gianna Nannini. Nella primavera del 2015 annuncia di essere al lavoro come produttrice per il nuovo progetto discografico di Loredana Bertè, un’antologia celebrativa per i suoi quarant’anni di carriera, ricca di duetti tutti al femminile e intitolata «Amici non ne ho... Ma amiche sì!». Tra le artiste che hanno partecipato alla realizzazione di questo album: Paola Turci, Patty Pravo, Elisa, Alessandra Amoroso, Emma Marrone, Irene Grandi, Noemi, Nina Zilli, Bianca Atzei e Aida Cooper oltre alla stessa Bertè e Mannoia. Il 26 giugno 2015 si esibisce al Summer Festival, per la prima volta dopo trent’anni, al fianco della Bertè, duettando in una nuova versione di «In alto mare».

I «suoi» uomini autori

Tanti grandi autori hanno scritto brani per Fiorella Mannoia. I più noti sono Ivano Fossati e Enrico Ruggeri. Ma anche Ron, Riccardo Cocciante e Francesco De Gregori

La tv

Venti/trent’anni fa probabilmente Fiorella non avrebbe mai accettato di condurre un programma tv. Invece negli ultimi anni si è avvicinato al piccolo schermo, ottenendo buoni ascolti e mostrando una non prevista capacità di conduttrice. Lunedì 25 ottobre torna su Rai3 con «La versione di Fiorella» (in onda il lunedì, il giovedì e il venerdì in seconda serata) dove si commenteranno i fatti accaduti il giorno stesso. Le sue precedenti esperienze sono state «Un, due, tre... Fiorella!» su Rai 1, nel 2017; e «La musica che gira intorno», sempre su Rai 1,nel gennaio di quest’anno

Chiara Maffioletti per il “Corriere della Sera” l'1 febbraio 2021. Aveva ammesso di sentirsi molto amata Fiorella Mannoia. Ma, fino a qualche anno fa, a chi le chiedeva perché non si fosse mai sposata, rispondeva: «Non l'ho mai ritenuta una priorità. Le coppie devono stare assieme finché c'è amore». Ora però l'idea di andare all'altare sembra aver guadagnato una certa precedenza rispetto ai suoi programmi: la cantante è pronta a dire sì al suo ormai storico fidanzato (sono molto riservati, sono pochissime anche le foto che li ritraggono assieme, ma stanno insieme da oltre dieci anni), il musicista e produttore Carlo Di Francesco. A rivelare questa notizia piuttosto inattesa, il settimanale «DiPiù» che ha scoperto le pubblicazioni del matrimonio. Nei prossimi mesi Mannoia, 66 anni e Di Francesco, quasi 26 meno di lei («Ma tra i due il più vecchio è lui» ha fatto sapere lei) diventeranno marito e moglie. Con grande pazienza, il musicista noto anche per il suo ruolo di professore ad «Amici», deve essere riuscito a chiudere quella via di fuga che la cantante, più o meno consciamente, lasciava sempre aperta nelle sue relazioni. Parlando dell'amore eterno, aveva infatti spiegato: «Ci ho creduto. Però ho sempre pensato anche che la porta era aperta, sia per me che per lui. Forse questo non sposarmi era dettato dal desiderio di non vedere quella porta chiusa». Ora però l'intenzione è diventata di sigillarla. Merito di un uomo «posato», come lo ha descritto la sua futura moglie nei pochi accenni che ha fatto su di lui in questi anni. Che mai come nessuno l'ha fatta sentire bella: «Prima forse ero anche io che volevo mi dicessero solo che ero brava». «Siamo complementari - aveva poi detto - e questo fa sì che la nostra unione duri. Siamo aperti, non chiusi. Per questo forse non ci stanchiamo. Ognuno è libero di aderire alle proprie passioni. Non sei mai infelice, se ne hai».

·        Flavia Vento.

Grazia Sambruna per mowmag.com il 13 settembre 2021. Flavia Vento è un mistero. Nel 2000 stava sotto un tavolo di plexigalss nella trasmissione di Rai 2 Libero, condotta da Teo Mammucari. Quello fu il trampolino di lancio per una carriera fatta di reality (da cui si è sempre ritirata) e gustose gaffe su Twitter. A quanto ci dice casta da ben 11 anni, nell’ultimo cinguettio ha annunciato di essersi appena unita a Scientology e abbiamo voluto sentirla subito per farci raccontare tutto di questa nuova esperienza insieme al suo prossimo impegno televisivo che la porterà, con altri vip come Vladimir Luxuria, a rifare l’esame di quinta elementare coadiuvata da un gruppo di decenni. La trasmissione si chiamerà Back to School e, condotto da Nicola Savino, andrà in onda prossimamente su Italia 1. Partiamo proprio da questo per scoperchiare un vaso di Pandora fatto di meraviglie, pura surrealtà e castelli fatati. Oltre che di amore imperituro per Tom Cruise (che per un periodo, forse, l’ha pure corrisposta)... Un viaggio nella mente di Flavia Vento. 

Dunque, Flavia, fra poco rifarà l’esame di quinta elementare in tv...

Sì, sarò nel programma di Italia 1 Back to School condotto da Nicola Savino. Andrò a scuola con due insegnanti che saranno bambini delle elementari. Alla fine farò l’esame supervisionata da loro. 

Lei che ricordi ha delle elementari?

Abbastanza belli, andavo a scuola dalle suore. Diciamo che però non ho mai studiato, ecco (ride).

Che titolo di studio ha raggiunto, all’incirca?

Sono diplomata al liceo linguistico. Ma non ho mai amato studiare. 

Oltre al nuovo impegno televisivo, ha annunciato su Twitter di essersi appena unita a Scientology. È vero?

Certo. Ma non pensavo di generare tutto questo interesse. È una cosa normale. 

Normale? Non so se ha visto il documentario Going Clear di Netflix, ma in generale non è che se ne parli benissimo...

Scientology è una cosa che studia la mente. So che si parla di setta ma non è assolutamente vero. Io sto semplicemente facendo delle lezioni.

Da quanto tempo è entrata?

Un mesetto. 

Le hanno chiesto una quota di iscrizione?

Assolutamente no. 

E cosa le fanno fare, per il momento?

Ho fatto un test di personalità per entrare e devo dire che ci ha preso quindi non è che Ron Hubbard abbia creato solo, come dicono, cose negative. Ha fatto anche cose buone. Scientology si basa proprio sulla cura della mente: noi abbiamo una mente analitica e una mente reattiva. Tutti i nostri traumi che abbiamo vissuto nell’infanzia sono immagazzinati dentro al cervello di ognuno di noi. Grazie alla tecnica usata da Scientology si arriva alla rimozione di questi traumi. 

Ma, se posso chiedere, traumi di che tipo?

Per esempio, che ne so, se ti sei fatto male da bambino. La nostra mente è come un computer che, attraverso lo studio, Scientology ripulisce. 

Cosa l’ha spinta a entrare in Scientology? Qualcuno gliel’ha consigliato?

No. Semplicemente, voglio migliorarmi. Per esempio di certo devo sistemare la mia sicurezza interiore. 

È una persona insicura?

Sì. 

Cosa la rende insicura?

La mancanza di fiducia negli altri. Se fossi stata un po’ più sicura di certo non sarei rimasta solo un giorno nella casa del Grande Fratello Vip.

Ma mica aveva abbandonato quel reality perché le mancavano i suoi cani?

Sì, pensa che ne ho sei! Però se avessi scoperto questa roba di Scientology prima di entrare nella Casa, magari ci sarei rimasta più a lungo di 24 ore. 

Mi dica la verità: questa scelta di aderire a Scientology è un modo per avvicinarsi al suo amatissimo Tom Cruise? Insomma, è dal 2012 che lo menziona su Twitter con complimenti e dichiarazioni d’amore di un certo peso…

(ride) Beh, diciamo che Tom Cruise ora è single da quanto ho capito. E anche io lo sono. Da 11 anni ormai. Non solo single, pure casta! Quindi… Why not, Tom?

Torneremo anche sulla sua castità, ma vorrei sapere: Tom le ha mai risposto?

Ero convinta di sì. 

Ma…

Non so se lo posso dire… Però, insomma: a un certo punto, Tom Cruise mi ha scritto su Twitter e io ero certa che fosse lui anche perché mi mandava delle foto. Abbiamo parlato per due mesi, poi ho capito che si trattava solo di un profilo fake. Ci sono rimasta molto male. 

Sembra la storia di Pamela Prati e il “suo” Mark Caltagirone!

Brava, è la stessa cosa!

A proposito di uomini che non esistono: nel 2018 dichiarava: “Non faccio l’amore da tre anni”. Mi sta dicendo che non ha ancora trovato una soluzione?

Assolutamente no. 

Eh beh, se aspettiamo Tom Cruise…

No no, ma non è quello. Tom mi piace molto perché io voglio un superuomo. E Cruise lo è: salta, fa acrobazie pazzesche, vola… 

Comincia ad avere un’età anche Cruise, comunque…

No no, lui non ha stuntman. Tutte le scene d’azione, anche quelle acrobatiche e pericolose, le fa di persona. Mi affascina molto. 

Anche il suo profilo Twitter, Flavia, è molto affascinante: il 4 agosto scorso, per esempio, chiedeva: “Cos’è il Green Pass?”. A oggi se ne è fatta un’idea?

Guarda, quel tweet era una provocazione, una presa in giro. Perché su Twitter mi diverto a scherzare. Ho creato un mondo di fantasia là dentro, ci scrivo anche che vado a caccia di elfi. Questo perché trovo che sia diverso dagli altri social, più divertente. Instagram va molto in America ma mi sembra solo una roba che esiste per fare pubblicità.

Ma quindi del Green Pass che ne pensa?

Beh, io il vaccino non l’ho fatto. 

Perché?

Non lo so, non ne sono ancora sicura e non me la sento. 

Magari Scientology le scioglierà anche questa insicurezza. Invece, come ha vissuto i periodi di lockdown?

Beh, il lockdown è stato sicuramente un bel trauma però io sono riuscita a mantenere un mio equilibro anche perché sono molto credente e questo mi ha aiutato tantissimo. Ho pregato tanto, mi seguivo tutte le messe in streaming.

E il fatto che lei sia così credente non entra in conflitto con Scientology?

No. Purtroppo se uno non studia non lo sa. Ma Scientology accetta tutte le religioni. Come ti dicevo, si tratta semplicemente dello studio della mente. Grazie a loro, tu capisci di essere oltre a un corpo anche uno spirito: ti risveglia. È davvero un grande aiuto. Come anche lo yoga e i miei mantra Ho'oponopono. 

“Basta che funzioni”, direbbe Woody Allen. Praticamente lei attinge da ogni forma di credenza e religione…

Sì, io sono per vaste conoscenze illimitate. Devo scoprire, essere molto attiva. Sono un’archeologa di me stessa. 

Se la Flavia Vento di 20 anni fa incontrasse quella di oggi, cosa ne penserebbe o le direbbe?

Ma sono io adesso che vorrei incontrarmi a 20 anni, magari potessi! 

Per dirsi cosa?

Due cose: regole e disciplina. 

Beh, non mi pare così indisciplinata da come si sta raccontando…

No, ma intendevo dire che sono sempre stata molto pigra. E questo non va bene. Ci vogliono delle regole.

Se mi permette, mi sembra pigra soprattutto a trovarsi un uomo…

Col mio ultimo fidanzato serio è finita nel 2010. Dopo di lui non ho avuto nessun altro. Magari un paio di flirt ma niente di che, sono rimasta casta. 

Quindi è casta da 11 anni, mi sta dicendo?

Sì. 

Mi dispiace, se lo lasci dire. Però, nel frattempo, almeno ha lavorato. A proposito: secondo lei la tv le ha dato lo spazio che merita?

Di sicuro avrei potuto e potrei fare più cose. Per esempio, mi spiace essere andata via dal Grande Fratello perché mi ero creata un personaggio da favola. Il mio personaggio avrebbe fatto rivivere i sogni agli italiani, sarei stata un po’ Mary Poppins.

Sarebbe stato divertente da vedere...

Eh lo so, ho chiesto di farmi rientrare e chi lo sa, magari… 

Per la nuova edizione l’hanno ricontattata?

No. 

Tornando ai suoi esordi, invece, lei stava sotto al tavolo di plexiglass nella trasmissione Libero condotta da Teo Mammucari. Come ci era arrivata?

Non c’è stato nessun provino.

Ha incontrato Mammucari per strada?

No. Fu lui a chiamarmi e a volermi a tutti i costi perché diceva che il mio viso era il più bello che c’era in tv. 

Secondo lei una trasmissione con una donna sotto a un tavolo di plexiglass potrebbe andare in onda oggi come oggi?

Non lo so, ma sicuramente anche ai tempi la cosa venne fraintesa. Nelle intenzioni dell’autore, mettere una bella donna sotto a un tavolo voleva essere un’opera d’arte, una scultura. Poi chi ci voleva vedere qualcosa di male, ci vedeva una scema sotto a un tavolo.

Quindi poi lei da lì, una volta uscita dal tavolo, cosa sognava di fare? Magari Sanremo?

Sicuramente avrei potuto fare di più, se non me ne fossi andata da La Fattoria o da L’Isola dei Famosi magari avrei pure vinto, chi può dirlo? Però non ho mai sognato di fare Sanremo. Se posso dirti, il mio sogno televisivo è quello di uno show tutto mio. L’ho già scritto. 

Me ne vuole parlare?

Sì, si chiama “Il Castello Fatato”. C’è una principessa, la strega cattiva e altri vari personaggi. È un quiz. Una cosa molto Disney (che io, tra l’altro, adoro). 

Sicuramente è una romantica, una sognatrice. Come si è trovata, quindi, una persona così romantica e sognatrice nel mondo della tv?

Guarda, nel mondo dei reality non bene visto che ci sono gli squali. Però io sono multiforme e me la cavo sempre.

Vogliamo parlare di questi squali?

No, non voglio fare nomi. 

Allora mi dica una persona del mondo della tv che non è uno squalo e con cui si è trovata sempre bene…

Beh, sicuramente Barbara d’Urso. 

Bene. Cosa vuole fare Flavia Vento da grande?

Guarda, ancora non lo so. Magari con Scientology lo scoprirò. Per ora sono Flavia Sciento. 

Come?

Ma sì, ho trovato geniale questo soprannome che mi hanno dato su Twitter quando ho annunciato di essermi unita a Scientology. 

Da correre all’anagrafe! Altri commenti che ha ricevuto sui social?

“Incontrerai presto Tommaso Crociera”, anche questo mi ha fatto molto ridere.

Nessuno le scrive mai qualcosa di negativo, invece?

Ma guarda, le critiche ci stanno sempre, fanno parte del gioco. E poi non ci faccio nemmeno più caso. Me ne hanno dette talmente tante che figurati se me la posso prendere ormai! 

Alle richieste esplicite e magari moleste, invece, come reagisce? Ne riceve sui social?

Il mio è un personaggio talmente surreale (e mi piace rimanere su questo piano surreale) che queste cose a me non accadono. 

Quindi niente catcalling, dick pic o bodyshaming?

Cosa sono?

Niente, non si preoccupi. La ringrazio molto per il suo tempo. L’intervista la pubblico appena possibile e gliela mando.

Ma dove? Su Internet? 

Sì.

·        Flavio Insinna.

Replica al Corriere sul caso Insinna. Da striscialanotizia.mediaset.it il 22 novembre 2021. Ecco la nostra replica al Corriere della sera in risposta alle falsità dette da Flavio Insinna in un’intervista sulle pagine del quotidiano. "Gentile Roberta Scorranese, Le scriviamo riguardo alla sua intervista a Flavio Insinna. C’è più di un passaggio che ci lascia perplessi. In particolare, quando Insinna - riferendosi al fuorionda diffuso da Striscia nel maggio 2017 e a quale errore non rifarebbe in futuro - afferma: «Non sprecherei le giornate mie e dei miei collaboratori di Affari tuoi dicendo cose magari giuste ma nel modo sbagliato». Ci teniamo a rimarcare che le frasi pronunciate allora da Insinna non ci paiono tanto giuste, oltre che dette nel modo sbagliato. Ricordiamo che nel famoso fuorionda Insinna dice cosa avrebbero dovuto fare i responsabili del programma Affari tuoi: interrompere la registrazione e convincere la concorrente valdostana («Nana di m…») a rifiutare l’offerta della dottoressa, anche con la violenza («La si porta di là, la si colpisce al basso ventre e dici: “Adesso tu rientri e giochi! Perché è Raiuno non è Valle D’Aosta News. Mor…cci tua!”») e costringerla a rientrare in gioco per salvare il finale acchiappa ascolti. Nulla a che vedere con un comprensibile (anche se non scusabile) “sbrocco” in un momento di stress, piuttosto si dimentica di dire i veri motivi, gravissimi, per cui era arrabbiato: il “taroccamento” non riuscito del risultato finale del programma. È riduttivo poi sostenere che i fuorionda diffusi dal tg satirico di Antonio Ricci sono stati registrati durante una riunione ristretta di lavoro. Addirittura, Flavio Insinna era al corrente che fossero registrati. In studio, infatti, il conduttore invitava pubblico, maestranze, collaboratori a fare quello che volevano con la Rai: «Per me potete mandà i video, i telefonini, le cose, quello che ve pare. Per me potete mandare i messaggi a Leone, alla Rai, dicendo “È cattivo”, fate come vi pare. Siete solo dei sorci che parlate dietro». Non dubitiamo che Flavio Insinna ancora oggi non riesca a perdonarsi, questo però non ci impedisce di ribadire la verità dei fatti. Un cordiale saluto. L'ufficio stampa di Striscia la notizia" 

Ed ecco invece la replica che hanno pubblicato loro. Cosa si capisce? Niente! O forse si capisce che il Corriere non vuole chiarire ai propri lettori come sono andate veramente le cose. "Striscia la notizia torna sul fuorionda di Flavio Insinna diffuso nel 2017, del quale il conduttore ha parlato nell'intervista pubblicata ieri dal Corriere. «C'è più di un passaggio che lascia perplessi. In particolare, quando Insinna afferma: "Non sprecherei le giornate mie e dei miei collaboratori di Affari tuoi dicendo cose magari giuste ma nel modo sbagliato". Ci teniamo a rimarcare che le frasi pronunciate allora da Insinna non ci paiono tanto giuste (...) Non dubitiamo che ancora oggi non riesca a perdonarsi, questo non ci impedisce di ribadire la verità»". 

Flavio Insinna: «Abatantuono mi manda gli audio con la parola della Ghigliottina. Io in tv? Per una gaffe». Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 19 novembre 2021. Flavio Insinna si racconta: la gavetta, la televisione che arrivò «per un microfono aperto inavvertitamente», la scelta di non avere figli con la fidanzata Adriana Riccio e l’impegno umanitario.  

Flavio Insinna, qui, negli studi Rai «Fabrizio Frizzi», il suo camerino è l’unico che non abbia il nome affisso sulla porta.

«Perché tutto potrebbe finire da un momento all’altro. Non sono uno di quelli che vanno in giro a dire “la Rai è casa mia”. Però io ho fatto i “pacchi” e mi sono divertito come un matto, ho fatto e sto facendo L’Eredità e mi diverto come un matto. E allora sarò sincero: se finisse domani me ne andrei con serenità, ringraziando».

Non ci crede nessuno.

«È vero. Lo diceva sempre il mio maestro, Gigi Proietti. Prima di provare, a teatro, ci ricordava che “non stiamo operando a cuore aperto”, che non stiamo facendo cose imprescindibili per il destino del mondo. Siamo attori, tutto qui».

Il teatro è anche autocoscienza. Crede che i lunghi anni sul palcoscenico abbiano affinato in lei una specie di fatalismo?

«Forse. Mai avuto gusto per la poltrona. Vede che poltrona tengo in camerino? Una sedia da barbiere. E non ho foto con Tizio o con Caio. Casa mia potrebbe essere di chiunque: c’è solo uno scatto assieme a Fabrizio (Frizzi, ndr), perché a quello ci tengo troppo. Non sopporto quelli che commemorano i defunti parlando di sé stessi e si mostrano in foto con personaggi famosi che non ci sono più e che non possono ribattere».

E non ama nemmeno la parola «gavetta».

«Potrei raccontarle di quando io e Gabriele Cirilli ci dividevamo una matrimoniale per risparmiare, ai tempi delle tournée. O di quando mi feci seicento chilometri, in pieno agosto, per andare a fare un provino e, appena salito sul palco, mi liquidarono con un “non funzioni fisicamente, ciao”. Ma mi vergognerei. Non stiamo operando a cuore aperto, appunto».

Però quando fece l’esame per entrare nel Laboratorio di Proietti lei consegnava mobili.

«Sì e mi ricordo che quando il maestro mi fece l’esame finale, quello che avrebbe deciso la sottilissima lista degli ammessi, io, terrorizzato, provai a dissuaderlo. “Ma perché, lavori già?”, fece lui. E io: “Sì, do una mano a mio cugino”».

E questa paura del pubblico c’è ancora?

«No, ma guardi quei fogli lì, sul divano: sono gli appunti sui concorrenti della trasmissione. So tutto di loro, persino quale gusto di gelato preferiscono. Gigi diceva: “poi magari quelle informazioni non le userete, ma mettetele da parte, l’improvvisazione deve venire dopo”».

Com’è arrivato a fare «Don Matteo»?

«Per caso. Andai da Costanzo a parlare della nostra compagnia, La Cometa, e tra il pubblico c’era Enrico Oldoini, il regista della serie. Venne a vedermi in teatro, mi volle nel cast. Dico solo una cosa: se Don Matteo ha resistito così tanti anni secondo me si deve soprattutto alla professionalità di Terence Hill. Io non l’ho mai visto prendersi un caffè, è stato sempre con noi, con il caldo bestiale e con la neve di Gubbio. Ma se le racconto come iniziò la carriera negli show in televisione è ancora più divertente».

E cioè?

«Per un microfono aperto».

Interessante, vada avanti.

«Avevo fatto Don Bosco, miniserie tv. Mi premiarono a Saint-Vincent, le grolle, le star e tutto. Sul palco c’era Fabrizio. Il mio turno arrivava tardissimo, quando tutti non pensavano che alla cena. Quando Frizzi mi chiamò, io non sapevo di avere il microfono acceso e così dissi: “Ma devo proprio?”. Risate in sala. Mi accorsi di avere fatto una figuraccia e allora con Fabrizio cominciai a fare lo scemo, con battute a ruota libera. Qualche tempo dopo mi chiamò la mia agente e mi disse: “Ma che hai combinato a Saint-Vincent?”. E io: “Oddio, mi puniscono?”. E lei: “No, ti vogliono dare Affari tuoi”. Ero morto».

Paura, eh?

«Non scherzo quando le dico che mi ci portarono di peso. Io stavo facendo una sit-com e il camerino era proprio davanti agli studi di Affari tuoi. Io tremavo: finirà dopo tre puntate con scorno di tutti, mi dicevo. Mi presero a forza e ho le prove: la primissima mia puntata della trasmissione l’ho girata con gli abiti della sit-com».

Andò bene.

«Sì ma nessuno sa che alla fine della prima stagione mi venne uno sfogo su tutto il corpo, una specie di eritema da stress. Papà faceva il medico: mi fece una iniezione e mi disse “Sta’ attento”. Povero papà, non c’è più da qualche anno. All’inizio non accettava che io facessi l’attore ma ha cominciato a cedere quando ha visto che facevo quel mestiere con la stessa serietà con cui avrei fatto l’avvocato».

«L’Eredità» è una specie di messa laica per molti. Alcuni insospettabili.

«Be’, Walter Veltroni lo vede. Ma se poi parliamo dei ghigliottinisti...»

Cioè di quelli che tirano a indovinare la parola della Ghigliottina?

«Gigi D’Alessio è un cecchino. Non ne sbaglia una. Luca Barbarossa è un altro: manda le risposte su WhatsApp ma io controllo sempre che siano regolari, cioè che non le abbiano mandate una volta risolto il quiz. Il più matto di tutti però è Diego Abatantuono».

Che fa?

«Allora, lui manda la sua risposta ma se questa è sbagliata mi fa arrivare dei messaggi vocali di un’ora in cui mi spiega perché, secondo lui, abbiamo sbagliato noi. Ma capisce?!».

Insinna, lei è uno dei pochi che riesce a infilare nell’intrattenimento più nazional-popolare anche dei temi delicati. Come la caccia.

«Guardi che quella volta fu una frase che mi venne spontanea, nulla di preparato. Tra le parole dell’Eredità venne fuori anche “caccia” e io, con naturalezza, dissi che finché ci sarò io la caccia in trasmissione non ci sarà».

E i cacciatori la presero di mira. Metaforicamente, certo.

«Minacce di morte a me e alla mia famiglia, minacce di boicottaggio dei prodotti delle pubblicità interne al programma. Lasciai spegnere tutto, diciamo che ci ho guadagnato la stima di qualcuno che prima non mi seguiva ma che la pensa come me. Il punto è che mamma e papà mi hanno fatto leggere libri. E oggi posso dire, con Gramsci, che io “odio gli indifferenti”».

Il legame con Gino Strada e con Emergency, quello con il sindacalista Aboubakar Soumahoro.

«Be’ ma allora mi faccia ricordare il sostegno alla cooperativa “Al di là dei Sogni” nelle terre confiscate alla camorra, a Sessa Aurunca. Io non ci vedo niente di eroico, anzi. Le dirò di più: a me sembra incredibile che lo Stato non chieda a me o a quelli che stanno meglio di me un contributo, anche piccolo, che so, diecimila euro, per sostenere chi vive in condizioni peggiori. Posso dire un’altra cosa che penso?».

Prego.

«Penso che siamo un Paese troppo armato. Ho studiato la legge, ti permettono di possedere diversi tipi di armi. So che dire questo può costarmi molto, ma lo dico: per me le armi dovrebbero stare solo nelle mani delle forze dell’ordine. Un musicista che conosco ha perso la sorella: uccisa dal marito con il fucile da caccia».

Le armi, i migranti, il sostegno finanziario ai deboli. Temi delicatissimi che raramente un personaggio televisivo così «esposto» sfiora.

«Ne so qualcosa. Ma le persone che piacciono a me mi seguono. Io ci sono andato nei luoghi degli sbarchi e ho visto quanto scotta il cemento negli approdi. E quelle persone arrivano senza scarpe. Una delle cose più belle che mi siano capitate è stato quando il presidente Mattarella ha voluto premiarmi per aver venduto una barca e aver donato il ricavato per finanziare i corridoi umanitari. Lo so che molti non la pensano come me. Pazienza».

Il ricavato de «Il gatto del Papa», la sua favola natalizia che esce il 25 novembre per RaiLibri, andrà in beneficenza?

«Sì, va tutto a Emergency. Ma a questa favoletta ci tengo: immagino un gatto che incontra il Papa e tutti e due imparano qualcosa da questo scambio. Tutto nasce da una bellissima serata romana, quando, passando vicino a San Pietro, vidi un gatto tra le colonne sparire immediatamente e in modo inspiegabile. Mi dissi: e se fosse andato da Sua Santità? Non son degno neanche di nominarlo papa Francesco: ho un’ammirazione infinita per quell’uomo».

A proposito di gatti.

«Eh, vivo in uno zoo. Intanto c’è il cane della mia compagna (Adriana Riccio, ex concorrente di Affari tuoi, ndr) la quale ha adottato anche me oltre a lui. Poi c’è la tartaruga della mia famiglia, che oggi ha 60 anni e che ci ha visti crescere, a me e a mia sorella. Ho avuto cornacchie, gatti di ogni tipo, conigli».

Ma dice di non volere figli.

«Sarei un padre troppo poco presente. Solo per questo. Io ho avuto la fortuna di avere dei genitori sempre accanto a me, nonostante all’inizio non accettassero la mia carriera di attore. Però mamma fece da paciera: andava da papà e metteva una buona parola, poi veniva da me e faceva lo stesso. Temo che non sarei all’altezza».

Flavio, c’è un errore che non rifarebbe?

«Sì, ed è un errore preciso. Non sprecherei le giornate mie e dei miei collaboratori di Affari tuoi dicendo cose magari giuste ma nel modo sbagliato (ci furono dei fuorionda diffusi da Striscia, nei quali il conduttore si lasciava andare a scatti d’ira durante una riunione ristretta di lavoro, ndr). Quando ho ceduto al nervosismo sono stato visto come una persona cattiva, ma io non sono così. Eppure ancora oggi non riesco a perdonarmi. Oggi certamente preferirei fare una trasmissione meno perfetta e curata ma senza avvelenare le giornate mie e di quelli che lavorano con me».

E in amore? È cambiato negli anni?

«Ascolto di più. Dedico più tempo alla persona che amo. Tolgo qualcosa al lavoro, cosa che prima mi riusciva difficilissimo. Chiedo scusa a chi non è stato amato abbastanza da me, ma oggi so che Gigi aveva ragione: non operiamo a cuore aperto, facciamo solo televisione».

Flavio Insinna, "perché ho rinunciato ai figli". Ciò che non aveva mai detto: una confessione toccante. Libero Quotidiano il 25 aprile 2021. Da molti anni è il mattatore de L'Eredità, uno dei programmi di maggiore successo della tv italiana, il quiz pre-serale in onda su Canale 5. Si parla di Flavio Insinna, nato come attore di teatro. E Insinna si racconta in una lunga intervista al Fatto Quotidiano, a cuore aperto. Dove spiega anche come nascono la sua passione per il palcoscenico: "Poi a otto anni il primo vero segnale con Aggiungi un posto a tavola e lì, credo, alla fine, al momento della colomba, mi sono incantato davanti alla reazione estasiata del pubblico", premette. "La botta finale è arrivata con il maestro (Gigi Proietti) e A me gli occhi please: ricordo in maniera nitida, quasi alla moviola, dove ero e cosa ho pensato all'uscita del teatro. Cosa? Mentre slegavo il motorino dal palo, riflettevo: Questo signore, da solo, fa ridere e commuovere. Che mestiere fantastico". Dunque, l'impegno per riuscire a costruirsi quella carriera. Obiettivo raggiunto. Toccante il passaggio in cui spiega perché, a suo parere, quello dell'attore è un mestiere fatto di rinunce. Che Insinna elenca: "Allora, ho rinunciato a molti Natali, ai Capodanni, ai compleanni, ma non ci ho pensato più di tanto; sono cresciuto in una famiglia molto stretta che da sempre definisco come un branco, e quando è morto il capobranco (il padre, ndr) siamo scoppiati, ci siamo dovuti allontanare per non sbranarci pur amandoci". Quindi, Insinna ammette: "Per questo c'è stata la rinuncia ai figli". Perché? "Cresciuto con quel tipo di presenza, magari a volte troppa, non mi sono mai ritrovato da solo davanti a un problema; per come ho vissuto cos' è l'amore dei genitori verso i figli, non potevo sopportare l'idea che un giorno, a me, un pargolo mi dicesse: bello il film, bella la tv o il teatro, ma non ci sei mai", confessa Insinna. Poi il vizio: "Mannaggia, le sigarette". Scaramanzia? "A teatro mi allaccio per tre volte una scarpa; se sul palco trovo un chiodo storto, lo prendo, e a fine tournée ne ho lo zaino pieno; infine se cade a terra il copione, lo batto tre volte". Quando gli chiedono chi è Flavio Insinna, il conduttore risponde: "Lo dovrebbe chiedere al mio analista; però sfrutto l'epitaffio di Cyrano: Qui riposa Cirano Ercole Saviniano Signor di Bergerac, che in vita sua fu tutto e non fu niente!". E aggiungo: sono uno fortunato", conclude Insinna.

·        Francesca Alotta.

Ricordate Francesca Alotta? Dopo Sanremo Giovani, il dramma: "Tumore molto esteso", che fine ha fatto. Libero Quotidiano il 14 dicembre 2021. Sanremo Giovani ha lanciato tanti talenti che hanno poi avuto successo nel campo della musica. Ma anche altrettanti ragazzi e ragazze che hanno raggiunto il picco delle loro carriere sul palco dell’Ariston, salvo poi finire nel dimenticatoio, almeno per quanto riguarda il grande pubblico. Per i cantanti alle prime armi un palcoscenico come quello di Sanremo può essere un’arma a doppio taglio. Di certo fanno più “rumore” i successi di personaggi del calibro di Eros Ramazzotti, Laura Pausini, Fabrizio Moro, Marco Masini e via discorrendo: tutti questi dopo aver partecipato e trionfato a Sanremo Giovani hanno poi avuto delle grandi carriere. Di tanti altri si sono invece perse le tracce. Il Corriere della Sera li ha ricordati tutti, a partire da Aleandro Baldi e Francesca Alotta: nell’edizione del 1992 vinsero con il brano “Non amarmi” che regalò ai due grandissima notorietà. Peccato però che entrambi non siano più riusciti a replicare quel successo. In particolare la Alotta è uscita con tre album negli anni Novanta, poi nel 2004 ha partecipato a Music Farm. Da quel momento più nulla fino al 2018, quando si è riciclata con successo in tv e poi è uscita anche con un nuovo lavoro discografico. Arrivata seconda a Tale e Quale Show nel 2021, la Alotta è entrata a far parte del cast fisso di Oggi è un altro giorno. E proprio a Serena Bortone ha raccontato il dramma vissuto lo scorso anno, quando ha scoperto di avere un tumore all’utero molto esteso: operata d’urgenza, fortunatamente la Alotta è riuscita a lasciarsi tutto alle spalle e oggi, a 53 anni, ha il suo lavoro in tv.

Da "ilmattino.it" il 12 novembre 2021. Francesca Alotta ospite di “Oggi è un altro giorno” di Serena Bortone su RaiUno. Francesca Alotta ha dato un’ottima prova nel talent di Carlo Conti, “Tale e Quale Show”, piazzandosi seconda dopo i Gemelli di Guidonia. Nel programma di Rai Uno racconta la vita, la famiglia e i drammi vissuti: dall'aborto al tumore. Francesca Alotta ospite di “Oggi è un altro giorno” di Serena Bortone su RaiUno ha iniziato l'intervista parlando del suo impegno sul palco del talent di Carlo Conti. «Era il quinto provino che facevo - ha raccontato -  avevo smesso per qualche anno poi ho provato ed è andata bene. È bello ma molto duro perché non c’è solo il trucco: devi provare le canzonI tutti i giorni, magari perdendo  la voce». Francesca Alotta ha poi parlato del rapporto con il padre: «Vengo da una famiglia di artisti, mi padre voleva che facessi la violista per ragioni di sbocco professionale, poi da sola sono andata dal preside dal conservatorio a 11 anni dicendo che volevo fare pianoforte e così è stato. Mio padre ha rinunciato alla sua carriera già molto avviata per noi figli e gli devo molto. Quando mi hanno offerto il primo contratto mi hanno chiesto di cambiare nome ma io ho rifiutato per lui. Quando ho vinto in Cantagiro prima di Sanremo ha pianto e mi ha detto: "Grazie di avermi fatto vivere quello che io non ho mai vissuto. Siete la nostra gioia di vita...». Francesca Alotta ha dovuto combattere una dura battaglia, vinta, con un tumore: «Mia madre, che è stata malata anche lei, è una grande guerriera. Mi è stata vicina. Quando mi sono operata però anche lei stava male, non è stato facile e in più in quel periodo c’è stato il lockdown che ci ha temporaneamente separate. Tre mie ammiratrici che conoscevano la situazione fortunatamente si sono traferite da me e mi hanno tenuto compagnia per cinque mesi. Ora siamo amiche inseparabili». Infine il racconto di quella che forse è stata l'esperienza più dolorosa: la perdita di un figlio. Io sono nata mamma, mi sentivo di esserlo... poi l'ho perso perché la mia era una situazione già complicata e avevo molti fibromi. Ho superato tutto grazie alla fede... Mio marito mi ha lasciata sola in ospedale, ci sono uomini che scappano dal dolore». 

·        Francesca Cipriani.

Alessandra Menzani per “Libero quotidiano” il 18 gennaio 2021. Nonostante l' apparenza giocosa, Francesca Cipriani ha vissuto un passato di dolore e abusi. Il 21 gennaio ricomincia la Pupa e il Secchione, la trasmissione di Italia 1 più odiata dalle femministe. Lei non mancherà. «Come lo scorso anno, sarò una specie di madrina», dice, «sono contenta per la conferma, sarà un grande successo perché la gente ha veramente voglia di svagarsi, la Pupa è l' ideale per distaccarsi qualche ora dalle notizie drammatiche».

Conduce il comico Andrea Pucci, che la prenderà in giro. Non si offende mai?

«No. Sto al gioco, viva l' ironia e l' autoironia. Se mancano quelle, vorrebbe dire che ho sbagliato lavoro, mi piace fare sorridere».

Ultimamente, però, le battute sulle donne sono argomento spinoso: vedi Luciana Littizzetto su Wanda Nara nuda sul cavallo e la sua «yolanda prensile»...

«A parte che non ho capito la battuta, ma quando ci si mette a nudo in pubblico inevitabilmente si prendono le critiche positive, negative, e anche qualche battuta. Se no stai in disparte. Io odio gli haters da tastiera, quelli che augurano la morte, che scrivono cose oltre l' etica e la morale. Metterei un veto, vanno fermati i bulli».

Lei ne è vittima?

«Sì. Perché mi devono augurare la morte o il cancro al seno? "Se ti incontro ti metto sotto con la macchina", scrivono. E poi: "Il seno prosperoso sarà la tua morte". Finché mi dicono "oca" va bene, non si può piacere a tutti...».

Ha denunciato?

«Tanti anni fa: vinsi, ebbi un risarcimento. Denunciare ogni volta diventa un lavoro, allora li blocco. Eppure, nel 2021, nessuno agisce».

Atroce.

«Nadia Toffa, in fin di vita, aveva gente che le scriveva "fai schifo", "è una trovata pubblicitaria". Spero che qualcuno legga queste mie parole ai piani alti della politica. Al governo».

Crede ai politici?

«Credo nelle leggi, ci devo credere. Senno siamo finiti. Ci sono ragazzini di 13 anni che si buttano dai balconi».

A proposito di cose brutte, si è mai trovata situazioni tipo feste a base di droga?

«No. Io non ho mai bevuto nulla tranne l' acqua e il latte. Sono astemia, non fumo. Figuriamoci altre cose. Il mio peccato è la gola».

Cosa pensa del caso Genovese?

«Quando hai troppi soldi diventi un mostro. Personalmente ho subito una violenza pesante, ma non a una festa: sul posto di lavoro».

Quando?

«Era il mio primo lavoro, la commessa, ero in una boutique in Abruzzo, a Sulmona. Il proprietario dopo un po' di tempo mi ha sequestrata, chiusa, e mi stava violentando. So cosa significa. Sono svenuta. Lui allora si è preoccupato, mi ha sentito il polso e si è fermato. Avevo 18 anni. È stato denunciato».

L' episodio ha segnato la sua vita?

«Ho 36 anni, ma sembra ieri. Le cicatrici non si rimarginano. Mi hanno aiutato i miei genitori, mi sono data forza da sola. A meno che uno perde la memoria, non dimentica».

Ha subito anche bullismo?

«Sì, da piccola ero cicciottella, avevo una malformazione al seno, i coetanei mi prendevano di mira. Il mio primo intervento è stata una ricostruzione, avevo la sindrome di Polland. Avevo 12 anni».

È bella e giovane, perché ricorre tanto alla chirurgia? Giusto pochi giorni fa si è ritoccata viso, collo e ha fatto una liposuzione.

«Grazie. Mi ritocco perché voglio sentirmi bene. Ho tanta pelle in eccesso a causa del mio peso di anni fa. Sono favorevole alla chirurgia per migliorarmi. Il mio seno lo vedevo sempre brutto, adesso mi piaccio. Mi sento finalmente felice, ho una settima. Non lo tocco più, giuro. Non mi sento stupida per questo».

Adesso è single?

«Sì, ma ho un corteggiatore, un imprenditore non italiano molto conosciuto. Ma con la pandemia è tutto difficile».

È ancora fan di Matteo Salvini?

«Sì».

Cosa le piace di lui?

«Il suo pensiero è il mio. Dice le cose a favore del cittadino, vuole il bene della società, eppure gli danno del razzista e cattivo. Non siamo in sicurezza in Italia, ci sono persone irregolari, fanno entrare cani e porci. Mia mamma aveva avuto un infarto, uno di questi qui, ubriaco, l' ha buttata per terra. Milano è invivibile, sono stata derubata tre volte. Salvini non odia le persone di colore, ma vuole che entri brava gente».

Gli ha scritto varie volte, ma lui ha mai risposto?

«Sì. È educato e perbene, con lui scenderei in campo. La prima legge la farei contro gli haters, poi caccerei gli irregolari. Chi cerca lavoro, ben venga».

·        Francesca Giuliano.

Avanti un altro, Paolo Bonolis e la rivelazione di Francesca Giuliano: "Dove sarei senza di lui". Libero Quotidiano l'08 marzo 2021. Torna Paolo Bonolis, torna Avanti un altro e tornerà anche Miss Anni Cinquanta. La procace Francesca Giuliano, simpatica ed esplosiva presenza fissa del quiz di Canale 5 che sostituirà Caduta Libera di Gerry Scotti da lunedì 8 marzo nella consueta fascia preserale ha svelato al settimanale Vero TV perché deve tutto al conduttore. "Il primo che ha creduto in una curvy come me è stato Paolo Bonolis, se non fosse stato per lui sarei a casa. In tv qualche opportunità c’è, mentre al cinema proprio no", spiega con una punta di amarezza. Ma dopo un anno di Covid e repliche, l'adrenalina per la nuova stagione e le puntate inedite è tanta. "Vi garantisco che anche quest’anno ne vedremo delle belle - anticipa la Giuliano -, la macchina di Avanti un altro è andata avanti ed è bello regalare spensieratezza e sorrisi". Con orgoglio, poi, la modella "abbondante" rivela qual è stato uno dei momenti topici della sua carriera: "Ho offuscato un divo come Brad Pitt alla festa del cinema a Venezia nel 2019". In fondo basta darle un'occhiata volante per comprendere perché i fotografi e i paparazzi sul red carpet del Lido avessero occhi (e soprattutto gli obiettivi) solo per lei.

·        Francesca Michielin.

Francesca Michielin e l’Artista Day: «Nessuno si sporca le mani, nella musica manca storytelling». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 25 ottobre 2021. «Oggi si ragiona a singoli brani oppure ep o album molto brevi. È un atteggiamento post-modernista in cui tutto è a spot, elementi singoli ed evocativi». Francesca Michielin è una che la musica oltre che a farla e ad ascoltarla voracemente, la analizza anche. È dedicato a lei l’Artista day di oggi, iniziativa di Corriere della Sera e Radio Italia che celebra i protagonisti della canzone italiana.

È uscito da pochi giorni «Nei tuoi occhi», brano dalla colonna sonora di «Marilyn ha gli occhi neri». È il via a un nuovo progetto dopo le collaborazioni di «Feat»?

«Non so ancora quale direzione prenderò, ma da ascoltatore mi manca un po’ di storytelling. Ci sta la canzone estiva spot, l’ho fatta anche io, ma ho più bisogno di qualcosa in più. Jovanotti è maestro in questo, ha sempre una visione sua, a prescindere dalla lingua che si parla in quel momento. Ma anche Alessandra Amoroso ha appena pubblicato un disco con molte tracce in cui non si snatura. “Nei tuoi occhi” arriva dopo un lungo progetto di collaborazioni e all’inizio avevo paura a mettere le mani in pasta da sola, ma poi la canzone è nata di getto».

Gli occhi come porta dell’amore. È il suo senso più sviluppato?

«No, è l’udito. Ascolto molto la voce delle persone e il loro modo di ragionare e leggere le situazioni. Non roba da colpo di fulmine, ma a volte la voce è stata un plus per innamorarmi di qualcuno».

Il giorno che ricorda più chiaramente?

«Il primo di scuola alle elementari. Ero emozionata, ho iniziato a leggere e scrivere a 4 anni, ero curiosa e non vedevo l’ora: avevo cartella e astuccio coordinato. Era il 10 settembre 2001: il giorno dopo il mondo cambiò con l’attentato alle Torri gemelle. Le maestre ci aiutarono a capire cosa stava accadendo».

Il giorno musicale?

«Quando sono entrata in studio per registrare “2640”, il terzo album. Era un disco di passaggio come musicista e autrice. Provavo a uscire dalla categoria del pop immediato che ci aspetta da una uscita da un talent. Avevo i provini di “Vulcano”, “Bolivia” e “Scusa se non ho gli occhi azzurri”: eravamo tutti gasati, ricordo il fonico fra il divertito e l’emozionato. Era un momento di grande libertà, non avevo nulla da perdere».

Cosa rappresentò la vittoria «X Factor» 2011?

«Sentivo una grande insicurezza. Avevo 16 anni e non mi rendevo conto di quello che accadeva. I ragazzi che oggi vanno a un talent sono più consapevoli e spesso hanno già una gavetta alle spalle. Per questo decisi di tornare a scuola a finire l’anno. Mia madre mi aveva fatto capire che se poi fosse andata male avrei fatto più fatica a reinserirmi in un percorso studi».

Adesso è in arrivo la laurea al Conservatorio. Livello di tensione?

«Sarà a febbraio, ma sono meno preoccupata di quanto non lo fossi in altri momenti di studio. In fondo alla laurea porti una discussione e un concerto su un argomento a tua scelta».

Soggetto?

«Charles Mingus: ha personalizzato il jazz tanto che lui stesso è diventato un genere. A chi non conosce il jazz direi che era uno con l’ossessione costante per l’identità: aveva origini tedesche, afroamericane e orientali e di conseguenza non era accettato né dai bianchi, né dai neri, né dagli asiatici. In un mondo ossessionato dalle etichette è riuscito a evitarle e ha creato qualcosa di unico e immortale».

·        Francesca Neri.

Dagospia il 10 dicembre 2021. Da I Lunatici Radio2. Francesca Neri è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei, live anche su Rai 2 sempre dal lunedì al venerdì più o meno tra l'una e le due e trenta. La celebre attrice italiana è tornata a parlare della sua malattia: "Sono sempre stata una persona riservata, in questi anni sono stata abbastanza ritirata, qualcuno si è meravigliato perchè con il libro 'Come carne viva' sono uscita raccontando tutto della mia malattia. Questo ha fatto clamore. E poi le persone dello spettacolo vengono viste come infallibili, con una vita meravigliosa, che  non si possono ammalare mai. Io invece mi sono messa a nudo completamente, quando ti apri lo fai fino in fondo. Avevo veramente voglia di condividere quello che mi era successo. Mi fa piacere che da quando sia uscito il libro ho tanto ritorno dall'incontro con le persone. Una cosa che mi è sempre mancata in questi anni in cui ho fatto l'attrice. Avevo bisogno di questo. Mi sta ripagando forse anche di tutta la sofferenza che ho vissuto in questi anni. Io parlo di una malattia cronica e le malattie croniche hanno un unico comune denominatore: le persone che ne soffrono si sentono sole. Ti senti anche un malato immaginario, c'è anche la componente di non essere creduti fino in fondo. Il momento della diagnosi? Io ho sempre sofferto di cistite. La mia malattia ora è la cistite interstiziale cronica. Mi curavo con gli antibiotici, a un certo punto sono diventata resistente agli antibiotici. Una volta ebbi una cistite forte, pensai di curare il dolore, pensai di curarmi con l'antibiotico, ma non mi è mai più passata. E mi sono trovata davanti a questa malattia. E la cosa che fa più paura è la parola 'cronica'. Io ho fatto tutti i tipi di cure che si possono fare. Ci sono cose che alleviano un po' il dolore, ma non sempre. Vivi con un dolore costante".

Ancora Francesca Neri: "Oggi sto molto meglio soprattutto perché dopo tanto tempo impari a convivere con questa patologia e a gestirla. Faccio tutta una serie di cose, alternative e naturali che mi fanno stare meglio e poi ho capito quali sono le cose scatenanti. Evito una serie di situazioni che possono farmi venire una crisi forte. Questa per me oggi è una libertà. Mi sono sempre vista come una persona infallibile, che poteva fare tutto. Invece no, questa malattia mi ha permesso di accettare i miei limiti e le mie debolezze. Se davvero ho pensato di farla finita? Ho voluto raccontare anche questo e vi assicuro che anche questo fa parte di ogni tragitto di persone che hanno vissuto quello che ho vissuto io. Ho voluto raccontarlo anche se all'inizio avevo un po' di pudore nel parlarne. C'è stato un momento nei mesi più duri in cui ho perso lucidità. Un paio di settimane in cui vivevo di notte, non dormivo di giorno, ho perso lucidità. Lì per un attimo, per stanchezza, perché poi subentra la depressione, l'ho pensato. E' durato un secondo, un attimo. Subito dopo però ho capito quanto amo la vita e quanto è giusto lottare e fare tutto il possibile per difenderla. Però quel pensiero per un secondo mi ha sfiorato. E' come se lì avessi toccato il fondo e poi ho iniziato la risalita. Quando tocchi il fondo ti dai una spinta. Da lì si può solo risalire. E in queste situazioni uno si salva sempre da solo. In tragitti come questo, ci possiamo aiutare solo da soli". 

Sul momento che stanno passando le donne: "Stiamo passando un momento forse unico. Stiamo riuscendo a fare piccole conquiste, a fare gruppo e a portare avanti battaglie importanti. La parità di genere è ancora lontana. Manca, facendo un discorso soprattutto legato alle nuove generazioni, di educazione sentimentale. Bisognerebbe mettere l'educazione sentimentale come materia scolastica. Se tu insegni il rispetto per la donna, per l'altro in generale, è già un punto di partenza".

Sul film 'Al lupo al lupo', diretto da Carlo Verdone: "Quello, insieme a uno con Massimo Troisi, è uno dei set più divertenti. E' uno dei film di Carlo più intimi. Carlo e i set di Carlo sono un ambiente in cui lui essendo regista e attore dà una dimensione di leggerezza e spensieratezza. Ho mille ricordi che ho di cose divertenti su quel set. Carlo anche quando non vuole a me fa ridere. Mi ha insegnato la commedia, i tempi della commedia, lui ce l'ha, gli viene naturale. Ne ho un ricordo meraviglioso. Come regista è molto bravo perché essendo anche attore tutte le indicazioni che ti può dare hanno più cognizione di causa".

Sul rapporto con la sua bellezza: "Come si convive con la bellezza? Ovviamente è un biglietto che arriva prima di te, soprattutto se fai un mestiere come il mio. Però io ne ho sofferto molto perché come attrice tante volte mi sono sentita dire che non ero credibile per interpretare un ruolo perché ero troppo bella. In Italia c'è questa cosa, in America ad esempio noi. Poi ho avuto la fortuna di andare oltre". 

Sulla rivalità calcistica con il marito, Claudio Amendola: "Io sono della Lazio, lui è un tifoso sfegatato della Roma. Io sono proprio della Lazio. Uno può cambiare uomo, ma non squadra. Sono una laziale doc. All'inizio io e Claudio abbiamo visto qualche derby insieme, poi abbiamo capito che non era il caso. Noi laziali sappiamo soffrire, sappiamo incassare. Resisto laziale nonostante mio marito e mio figlio siano dei romanisti sfegatati. Non mollo. Non mollare mai"

Da "leggo.it" il 19 ottobre 2021. Francesca Neri è stata ospite di Pierluigi Diaco ieri a TI sento, in diretta su Rai Radio2. E ha scatenato la curiosità del conduttore quando quest'ultimo le ha chiesto: «Facevi l'attrice? Non la fai più?». «Vediamo, non lo so... adesso no, non ho l’esigenza, perché ho tutta una serie di problemi che comunque dovrei affrontare», è la risposta dell'attrice, a Radio2 per promuovere il suo libro edito da Rizzoli, "Come carne viva". «L'ho sempre mal sopportato, anche quando facevo l’attrice, un mestiere che ha bisogno di riconoscimento», ha detto ancora la Neri. «Questo mondo ti ha ferito? Ti ha stancato?», torna a chiedere il giornalista. «No, sono io che non l’ho vissuto nella maniera giusta, per cui mi ha ferito», ha risposto Francesca Neri spiegando: «Perché quando tu sei alla ricerca di conferme, magari un mondo così te le da, ma quel riconoscimento io non lo cercavo lì, non lo cercavo perché volevo essere riconosciuta dal mondo vicino». «Lo cercavo - aggiunge Francesca - perché volevo essere riconosciuta da mia madre che non me l’ha mai riconosciuto. E quando tu capisci questo, capisci anche che quel riconoscimento lì diventa la tua droga, non ne puoi fare a meno. Come tutte le droghe: sopiscono il problema ma non lo curano». La trasmissione Ti sento con Pierluigi Diaco è in diretta su Rai Radio2 e in Visual su RaiPlay, dal lunedì al venerdì dalle 20.

Anticipazioni da Oggi il 13 ottobre 2021. «Tante volte ho detto a mio marito: “Su, prendi nostro figlio e vai”. Perché davvero in quei momenti vuoi restare sola, sapendo che nessuno ti può aiutare. Quando vedevo in lui la difficoltà, l’inadeguatezza, l’impotenza, soffrivo ancora di più e allora pensavo che, allontanandolo, avrei evitato almeno il suo dolore. Ma Claudio (Amendola, ndr) è sempre rimasto. Con tanti momenti di crisi, giornate durissime, litigi. Però c’è sempre stato. Claudio mi ha salvato. E anche il mio amico fraterno Stefano, che ora non c’è più». È uno dei passaggi più toccanti della lunga intervista che il settimanale OGGI in edicola da domani ha realizzato con Francesca Neri. L’attrice, che nel libro «Come carne viva» ha raccontato il suo calvario, soffre di cistite interstiziale cronica. Il periodo più buio è durato tre anni, chiusa in una stanza di casa sua, a cibarsi di serie tv e burraco on line. «Mio figlio Rocco non c’è stato, si è protetto», continua la Neri, «e io ho veramente avuto paura di perderlo. Il terrore grande è stato che gli rimanesse impressa questa immagine della mamma dolente, immobile, depressa». L’attrice confessa anche di aver pensato al suicidio, di aver sofferto enormemente per la perdita di un figlio, e per una mamma anaffettiva con la quale si è riconciliata poco prima che morisse.  Un’intervista-verità dove il dolore si alterna alla consapevolezza di una rinascita, cominciata nel 2020. «Proprio l’anno del lockdown che per me, invece, ha significato il ritorno alla vita».

Roselina Salemi per “La Stampa” il 30 settembre 2021. Non vuole chiamarla autobiografia, preferisce «autogeografia» perché attraverso un viaggio attorno e dentro il suo corpo Francesca Neri parla di sé. Ogni organo, ogni osso, ogni fazzoletto di pelle è collegato a una delle esperienze che l'hanno resa la persona di oggi. Racconta tutto questo in un libro coraggioso, straordinariamente sincero, intitolato, appunto Come carne viva (Rizzoli, pp. 204, 17) dove, davvero, si mette a nudo. Il marito, Claudio Amendola, ha pianto leggendolo. Dentro c'è la sua storia di donna e molto di più. La vediamo fuggire da Trento, trasferirsi a Roma, studiare cinema, andare incontro al successo con lo scandaloso Le età di Lulù, poi Almodovar, Salvatores e tre intensi film di Avati: La cena per farli conoscere, Il papà di Giovanna e Una sconfinata giovinezza. La vediamo innamorarsi, diventare madre di Rocco, correre da un set all'altro. L'ultimo ciak è del 2016, poi la malattia, cronica, invalidante, la costringe a chiudersi in casa. La diagnosi di fibromialgia (come Lady Gaga, Morgan Freeman, Sinead 'O Connor ) la costringe a fermarsi e ascoltare il corpo. Ora inizia la rinascita. Non la guarigione, ma la libertà di essere se stessa, di non dover dimostrare niente a nessuno. Questo è, nei limiti del possibile, il lieto fine che le fa dire: «Sono una persona nuova, e stranamente più che mai sono la persona di prima, prima di tutto: della malattia, dei lutti, della maternità, della passione, del cinema, nuda e cruda, appena data alla luce».

Estratto di “Come carne viva” di Francesca Neri (Adriano Salani editore), pubblicato da “La Stampa” il 30 settembre 2021.  Non potevo fare programmi di lavoro ma non volevo arrendermi. Infatti, come avevo sempre fatto, dicevo «sì» che non avrei voluto né dovuto dire, ma dire «no» pareva brutto. E poi mi sentivo in colpa, perché dovevo annullare all'ultimo, inventando imprevisti o passando per quella brusca, spinosa, irta di aculei con cui si sospettava tenessi gli altri a distanza. Non avevo ancora maturato la decisione di smettere di lavorare. Combattevo tra il desiderio di tornare a essere quella di prima, comprese tutte le care, note angosce di prima, il principio di consapevolezza che quella di prima non sarei tornata più e un'idea embrionale, che covavo da anni: forse, finalmente, potevo tagliare gli ormeggi e salpare per l'ignoto, un viaggio avventuroso nel nuovo, smettere di recitare. Basta stress, basta sofferenza. Ma all'inizio prevaleva la Francesca battagliera: ora torno in pista, sì certo, valuto la proposta, quando hai detto che si inizia a girare? E poi dinieghi, rifiuti, scuse, pessima figura dopo pessima figura, perché cercavo di trasmettere senza esplicitare, senza scendere in dettagli: come lo spieghi qualcosa che neppure tu capisci? Non riuscivo a leggere. Concentrarmi sulle parole che correvano una di seguito all'altra, seguire il filo della narrazione: avevo la testa sempre altrove, impegnata nel resistere al dolore, impossibile riportarla nella storia, nel saggio, o comunque sul libro che avevo in mano. Figuriamoci studiare un copione () Ero deperita, sciupata, in casa dicevano «trasparente». Diversa: i tratti del volto deformati dalla perenne contrattura - anche resistere al dolore vuole la sua espressione. Se la cistite mi lasciava respirare, il bruciore si attutiva e cominciavo a percepire altri dolori, mal di schiena, ai reni, alle gambe, alla testa avvertiti per conto loro mi avrebbero pietrificato, anche uno per volta, vista l'intensità, ma in quel contesto nemmeno riuscivano a farsi spazio, tanto erano laceranti le sensazioni che provavo nella pancia, nell'addome, tra le gambe. Altri esami, altra trafila di medici, un nuovo responso: fibromialgia, una sindrome cronica, con origini neurologiche, che colpisce il tessuto connettivo del corpo e consiste nell'avere male ovunque - ai muscoli, ai tendini, alle articolazioni. È paralizzante: se sbatti contro qualcosa e senti male, attendi qualche giorno e ti passa; se ti viene una contrattura da qualche parte e hai male, fai stretchinge ti passa; la fibromialgia invece ti pervade. Non è concentrata in un punto specifico, si irradia su aree larghissime del corpo e si sposta da una all'altra, dalla schiena alle gambe, dalle gambe ai glutei, dai glutei alle spalle - un malessere perenne, come una musica di sottofondo. E poi improvvisamente scompare. Senza che tu abbia fatto nulla di particolare. Stavo nella vasca, questa volta con l'acqua tiepida, avendo cura che non fosse troppo calda, altrimenti mi si riacutizzava la cistite. «Fai ginnastica» mi hanno detto, ma riuscivo una volta su dieci. Oggi mi muovo quasi tutti i giorni, cammino, faccio pilates, ma certe volte il dolore è così insopportabile che nemmeno riesco ad alzarmi dal letto. Quando la medicina occidentale ha finito le risposte possibili, ho cominciato a testare altri approcci.() Il secondo anno con la cistite ho osato andare al mare con Claudio e Rocco, tentativo clamorosamente fallito: al primo bagno ho mollato e sono tornata a Roma, nella mia tana. Ho passato l'estate con un agopuntore cinese. Vuoi mai che una disciplina olistica, meno centrata sul corpo come "macchina perfetta" e più attenta a considerare l'essere umano un tutto in equilibrio sia in grado di aiutarmi. Credo sia vero che il corpo è una cartina di tornasole del nostro stato emotivo - mens sana in corpore sano, insomma, ma al contrario: se stiamo bene dentro, stiamo bene anche fuori. Possiamo curarci, provare terapie di ogni genere, chiedere mille consulti medici, ma la differenza la facciamo solo nel momento in cui impariamo a leggere i segnali che il corpo ci manda. Se riusciamo a stare in silenzio il tempo sufficiente a farli emergere e ad ascoltarli, scopriremo che la radice di tutto sono i nostri sentimenti. Non sono una persona depressa, ma in quel periodo lo sono stata. Il contrario sarebbe stato impossibile. Avevo due dolori, e non il bruciore causato dalla cistite e il malessere diffuso e paralizzante della fibromialgia, ma il dolore del corpo e quello dell'anima - come se tutta la sofferenza che mi ero autoinflitta e che avevo in qualche maniera gestito si fosse ripresentata, mi fosse cascata addosso e mi avesse atterrata. Non saprei dire quale di questi due dolori sia nato prima - forse quello dell'anima - né quale fosse peggiore.

"Mia moglie è malata". Novella Toloni il 27 Settembre 2021 su Il Giornale. L'attore ha parlato del male che da anni affligge la moglie, Francesca Neri, lontana dalla scena pubblica dal 2016: "Del suo dolore fisico parlerà in un libro". L'ultima apparizione pubblica di Francesca Neri risale al 2016. In quell'anno l'attrice è entrata nel cast di The habit of beauty, pellicola inglese di cui è protagonista e che è stato il suo ultimo film. Da quel momento di lei non si è saputo più niente. Le voci, sempre più insistenti, la volevano affetta da fibriomialgia. Oggi, a distanza di tempo, delle sue condizioni ha parlato Claudio Amendola durante l'ospitata a Verissimo. Da venticinque anni l'attore romano e Francesca Neri vivono la loro storia d'amore. Nel 2010 la coppia si è sposata e dalla loro relazione è nato un figlio, Rocco. Un legame forte che da quasi cinque anni li vede combattere fianco a fianco contro una malattia invisibile, che ha colpito l'attrice. È stato Claudio Amendola a raccontare cosa sta succedendo a sua moglie, Francesca, durante l'intervista rilasciata a Silvia Toffanin: "Se mi chiedi come sta, ti dico che sta bene, ma fa fatica, lotta, combatte con se stessa, con il suo fisico e con il suo corpo". Nel parlare dello stato di salute della sua compagna, l'attore romano non ha nascosto l'orgoglio per la reazione che la donna sta avendo alla malattia: "Quando sei così intelligente come lo è lei riesci a trovare nella malattia, nello stare male, un motivo per reagire, per stare bene". Amendola non ha spiegato però quale male affligga Francesca Neri. In molti hanno ipotizzato che l'attrice e produttrice, 57 anni, soffra di una malattia chiamata fibromialgia, che porta ad avere dolori muscolari diffusi e affaticamento perenne. A Verissimo Claudio Amendola non ha dato un nome a quel male, alimentando il mistero: "La sua non è una malattia chiara, è difficile da riconoscere. Lei ha difficoltà a vivere le sue giornate con il dolore fisico. Di questo parlerà nel suo prossimo libro. Il racconto dei suoi ultimi anni di vita è una cosa molto coraggiosa. Ho pianto e ho riso alle sue parole". L'ultima intervista televisiva rilasciata da Francesca Neri risale al 2013, quando parlò della sua vita e della sua carriera a Effetto Notte. Poi l'ultimo film da protagonista nel 2016 e la sparizione dalla scena pubblica avvenuta poco dopo l'uscita della pellicola nelle sale. Da allora Amendola è al suo fianco: "Starle vicino è stato il mio compito, era quello che dovevo fare. Non è stato difficile, lo è stato di più per lei". Di questa difficoltà e della sua dolorosa malattia la Neri ne parlerà, per la prima volta, in un libro autobiografico, che uscirà nei prossimi mesi e di cui si occuperà - come anticipato dalla Toffanin - anche Verissimo. 

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere",

Francesca Neri: «Il dolore della malattia mi ha fatto pensare al suicidio. Le notti insonni sulle chat». Valerio Cappelli su Il Corriere della Sera il 28 settembre 2021. L’attrice e la cistite interstiziale: «È durata tre anni la fase acuta, non ne sono fuori, non si guarisce». Si racconta e si mette a nudo in modo spietatamente sincero, con il coraggio della sua natura lunare, i suoi chiaroscuri. Come carne viva (Rizzoli) è l’autoritratto di Francesca. Non di Francesca Neri che deve piacere a tutti. L’attrice resta sullo sfondo. In primo piano ci sono il rapporto devastante con sua madre e la malattia che le ha cambiato la vita, costringendola a restare chiusa dentro una stanza di casa sua, bloccata da quel suo corpo idolatrato da tutti.

Perché la definisce un’autogeografia, è una mappatura della mente e del corpo?

«Una mappatura dell’anima. Non è una autobiografia. Qualcosa racconto del cinema, ma neanche tutto, rispetto a un racconto intimo che volevo fare non era significativo».

Lei ha una malattia cronica che le procura grandi dolori, la cistite interstiziale.

«È durata tre anni la fase acuta, non ne sono fuori, non si guarisce: impari a gestirla e a non provocarla in modo che non sia invalidante. I primi due anni, io che non credo ai social, sono stata in una chat di donne che soffrono questa patologia. Un po’ come gli alcolisti anonimi? Sì — sorride — esatto».

È stato difficile starle accanto?

«È stato impossibile. Volevo essere lasciata sola. Dovevo proteggere Claudio e Rocco, mio figlio, altrimenti non ce l’avrei fatta nemmeno io, che sono il capofamiglia che si occupa di tutto. Di fatto sono stata via per tre anni, però c’ero, ero lì in casa con loro, ed è la cosa più terribile. Ho accarezzato l’idea del suicidio. Ho passato mesi a giocare a burraco online di notte. Il mio lockdown è durato tre anni. E quando è arrivato per tutti, con la pandemia, sono stata meglio perché condividevo la situazione degli altri. Claudio è il mio opposto, eppure eccoci ancora qui, sono stata sedotta dalla sua parte femminile nascosta. Voleva una storia, gli dissi di andare a vedere Le onde del destino di Lars von Trier. Bess, la protagonista, non è pazza, è soltanto nata nel posto sbagliato e nell’epoca sbagliata, come me. Ne rimasi sconvolta. Claudio mi disse: non ci ho capito niente. Ci siamo conosciuti in Amarsi un po’ di Vanzina, la mia prima volta come comparsa, lui protagonista. Stiamo insieme da venticinque anni, se non avessi avuto questa complicità e quest’affetto non ce l’avrei fatta. Rocco era intorno ai diciotto anni, faceva affidamento sul padre ed è stato il mio grande cruccio. Il dolore più grande è stato per mio figlio, il libro l’ho scritto per lui».

Che cosa le ha detto Claudio della sua confessione?

«Non pensava che riuscissi a essere così sincera. Dice che è al limite della pornografia, gli uomini che l’hanno letto hanno avuto difficoltà, si sono dovuti fermare, tocco cose difficili da affrontare. Un’altra figura positiva è Kadija, che ci supporta in casa. Senza avere gli strumenti mi ha sostenuta con un affetto smisurato, una dedizione e un approccio diverso da chi mi voleva bene e finiva per soffrire con me. Diceva che il corpo emana calore che è la vita e se non è incanalato nel modo giusto si creano infiammazioni; diceva che tutto quello che succede, succede per una ragione e non puoi non accettarlo, devi percorrerlo e cavalcarlo».

Dopo che lei era andata da mille medici...

«Urologia, Agopuntura, ayurveda, nutropuntura, ozonoterapia. Fino al luminare che mi proponeva un massaggio intravaginale. Ma che mi faccio penetrare da uno sconosciuto?».

Perdoni la domanda, e se non vuole non risponda: il sesso?

«Non ci pensi, ma quando ci pensi è il segno che sei viva. Si inventa un nuovo modo di avere intimità col tuo compagno, ti devi arrangiare».

Quando ha cominciato a stare meglio?

«Ho trovato un equilibrio, devo imparare a difenderlo. Ho cominciato a privarmi di cose che potevano scatenare una reazione. L’aria condizionata, il caldo, certi cibi. La vescica è una parete e se viene lesionata si creano ferite interiori. Le conosco bene, le ho anche nell’anima».

Lei racconta della totale anaffettività di sua madre.

«Il libro non l’avrei scritto se non ci fosse più. È la cosa che mi ha segnata... Ho imparato a vivere senza una madre ma con una madre presente. La malattia non l’ha capita, diceva che da giovane anche lei soffriva. Era una donna semplice e umile, senza curiosità, incapace di esprimere sentimenti. Non mi ha mai fatto un complimento in vita sua, mai stretto tra le sue braccia, mai affondato le dita nei miei capelli. Il mio terrore era di diventare come lei».

L’analisi l’ha aiutata?

«Certo. L’ho fatta per venticinque anni, è un lusso, c’è una fase in cui ti rendi conto dei tuoi limiti. La prima volta ero una bambina, mi mandarono i miei quando dissi, senza avere alcuna idea del mio futuro: “Da grande troverò l’infinito”. Oggi ho una profonda conoscenza di me. Ho imparato ad ascoltare il mio corpo, che non è interessato al lavoro che faccio e conosce il mio inconscio meglio di me e degli analisti, le emozioni passano da lì».

Nei sentimenti lei è stata una traditrice seriale...

«Quando le emozioni oltrepassavano il livello di guardia, o scappavo o tradivo. Una tattica difensiva. Sono un’inquieta e gli inquieti scappano. Tradivo perché amavo troppo. Non avendo mai avuto il gioco del sesso scollegato dall’amore, era un modo di ferire l’altro e anche me. Ora ho paura di invecchiare, non di morire. L’anima non guarisce mai del tutto, ma dove sta? Resta sempre una lacrima».

Cosa le manca della Francesca di prima?

«Mi manca la parte ludica, il travestimento che è giocare alle bambole. Mi manca la creatività. Prima era tutto un andare, esserci, apparire, sentirsi vista, riconosciuta. Poi c’è il lato negativo. Malgrado le copertine e il mio viso nelle sale di mezza Italia, rimanevo sempre io, con le mie fragilità. Di quel periodo folle ricordo, a un evento, la colla rimasta attaccata agli orecchini di Bulgari. Ero guardata a vista dai bodyguard, chissà, magari pensavano che me li sarei portati a casa».

Si piaceva fisicamente?

«Non sopportavo il naso né il pomo d’Adamo, troppo pronunciati. Detestavo la mia fronte, troppo alta e larga, in casa la chiamiamo l’aeroporto. La mia pelle delicata, basta un tocco perché rimanga un segno. È assurdo essere elogiata per la mia pelle. Mi agito? Herpes. Mi depuro? Eczema. Soffro? Gonfiore. Mi viene l’ansia? Rossori di ogni tipo, diffusi, a chiazze, pallini. E poi lo sbaglio delle labbra rifatte, a cui sono riuscita a rimediare».

Come ha reagito il mondo del cinema, un ambiente così conformista e cinico, alla sua malattia e al suo addio al cinema?

«Ha detto bene, è proprio così. Da una parte c’era incredulità. Le attrici mi chiedevano, ma come hai fatto a staccare? Altri dicevano che ero talmente drogata che non mi reggevo in piedi. I miei amici non fanno parte del cinema. Ma ricordo Massimo Troisi, un poeta della vita e dell’amore che ho riconosciuto simile a me. E Pupi Avati che mi descrisse in poche parole: “Il suo sguardo raro, profondo, di chi conosce la vita. Infatti nel suo sorriso c’è sempre anche il pianto”. Per ricaricare le pile sto per conto mio. Non sono debole, sono fragile, incapace di farmi scivolare le cose, penso troppo, aborro la mediazione. Ma so amare, condividere. Chi non mi conosce dice che sono stravagante, altezzosa, depressa. Io diffido di chi non è stato almeno una volta depresso».

Ricorda il suo arrivo a Roma come attrice?

«Ero una ragazza con la valigia che non sa perché c’è venuta ma sa perché c’è andata. Volevo cominciare una nuova avventura. Da ragazza mi ero iscritta a un corso di teatro perché ero convinta di essere fuori di testa, non per diventare famosa. Ho fatto di tutto, la schiava nera con Richard Gere e la controfigura di Hanna Schygulla».

Almodóvar?

«Carne tremula è il film in cui ha cristallizzato il suo stile, mi volle per una donna che rappresenta il senso di colpa. Potevo rifiutare? Eccomi, sono io, gli dissi. Sono stati due mesi di amicizia e complicità, Pedro usò ogni parola che pronunciavo. All’improvviso sul set mi ritrovai sola. Mi aveva abbandonata, per il film. Un giorno presi coraggio e chiesi udienza. Lui mi gelò: non ti capisco. È il suo modo di avere controllo sugli attori. Il set è ogni volta la possibilità di avere un amico. Mi è successo con la parrucchiera, la costumista... E con Pupi Avati. La maggior parte delle volte vieni tradita».

Bigas Luna?

«Le età di Lulù era una sfida con me stessa e con mia madre. Il provino era un monologo e io che mi masturbo con un vibratore. Mia madre non mi parlò per mesi. Io, senza i social, ho subìto insulti, telefonate anonime, stalking... Dopo, in Italia mi hanno vista come una intellettuale e in Spagna come un oggetto del desiderio. Destino tragicomico. In quel film ho imparato a conoscere la mia parte oscura».

Questo libro è l’elaborazione di un lutto?

«Di un lutto e di una epifania. Io sto cercando di capire chi sono diventata. Ho trovato me nella solitudine, che non era isolamento; nel silenzio, che non era mutismo. Questa sono io: se critichi il libro vuol dire che non ti piaccio. Ci ho messo la faccia. Il mio ozonoterapista mi ha detto: sei come Sacchi, l’allenatore che nel pieno della carriera scelse di ritirarsi: era troppo coinvolto. Oggi sono libera dalla necessità di compiacere tutti. Sono più pacificata. Non vedo l’ora di andare nelle librerie a parlarne».

Cistite interstiziale, ecco la malattia che ha colpito Francesca Neri. Chiara Console il 28 Settembre 2021 su Il Giornale. Più comune nelle donne che negli uomini, questa patologia può rivelarsi estremamente dolorosa. A parlarne recentemente è stata Francesca Neri, la quale ha spiegato come la malattia abbia condizionato fortemente la sua vita privata e lavorativa. Ne ha parlato Francesca Neri, nota attrice e produttrice cinematografica, che ha raccontato come il dolore l’avrebbe spinta ad accarezzare l’idea del suicidio. Stiamo parlando della cistite interstiziale, dolorosa patologia che colpisce l’apparato urinario indebolendo le pareti della vescica.

Con l’assottigliamento della membrana, alcuni composti irritanti contenuti nell’urina riescono a provocare irritazioni anche gravi, fino a dare vita a processi infiammatori che tendono a cronicizzare. Più frequente nella popolazione femminile che in quella maschile, può influire non solo sullo stato generale di salute ma anche su quello psicologico, conducendo a stati d’ansia e depressivi.

Cistite intersiziale, quei sintomi che fanno male. Come accade con la cistite batterica, il primo sintomo che compare è quello della minzione dolorosa, associata a uno stimolo frequente. Secondo la scienza, le cause della sua comparsa non prevedono la presenza di batteri; per questo motivo si escludono terapie a base di antibiotici, visto che si renderebbero completamente inutili alla risoluzione del problema.

Cistite, state attente ai sintomi. Il dolore, nella maggior parte dei casi, può indebolire particolarmente il fisico di chi soffre di cistite interstiziale; anche la psiche ne esce provata: la natura cronica pesa sulla quotidianità, sul lavoro e la vita sessuale. Nelle donne è spesso associata a fibromialgia, sindrome del colon irritabile o vestibolite vulvare mentre, negli uomini, il dolore si concentra nei testicoli e allo scroto, coinvolgendo anche pube, perineo e la fase dell’eiaculazione che può causare dolore.

Cistite interstiziale, come viene diagnosticata. Viste le similitudini con la più comune cistite, diagnosticare questa particolare malattia non sempre è semplice. A volte si procede per tentativi, escludendo quelle con le quali potrebbe confondersi a causa dei sintomi condivisi. Tra questi vi sono esami delle urine, tra cui l'urinocoltura, ed ecografie dell’intero apparato urinario. Più mirati, invece, sono gli esami che individuano la presenza di ulcere ed emorragie puntiformi, come l'uretrocistoscopia sotto anestesia generale, previa distensione della vescica, funzionale anche nella diminuzione della sintomatologia dolorosa. Per escludere l’eventuale presenza di degenerazioni più gravi, è possibile sottoporre i pazienti all’esame istologico. In questo modo è possibile anche determinare la progressione dell’infiammazione della parete interna della vescica, prelevandone un frammento e analizzandolo accuratamente attraverso metodologie di osservazione mirata.

Cistite interstiziale, come trattarla. Patologia piuttosto tenace, i trattamenti per eliminare la cistite interstiziale agiscono su diversi fronti, curando l’infiammazione e al contempo limitando i sintomi. Tra i farmaci più utilizzati vi sono quelli somministrati per via orale, capaci di agire direttamente sulla mucosa vescicale danneggiata. A questi, poi, si aggiungono anche antinfiammatori e analgesici per combattere il dolore, oltre ad antidepressivi per il benessere mentale del paziente. Alle terapie orali si sommano spesso quelle endovescicali, capaci di diminuire l’intensità dell’algia; le più usate sono soluzioni di glicosaminoglicani, a base di acido ialuronico o condroitinsolfato. Per assegnare una terapia adeguata, i medici sottolineano l’importanza di una diagnosi precoce; solo così è possibile agire rapidamente sulla cistite interstiziale ed evitare danni irreversibili alla mucosa presente sulle pareti della vescica. Non è da sottovalutare, poi, la dieta. Importante è tenere lontano alimenti speziati o ricchi di potassio, colpevoli di influire sull'irritazione già presente. Anche fumo e alcol vanno messi al bando. Per allentare lo stress è corretto fare affidamento a esercizi di rilassamento oltre che di rafforzamento della muscolatura pelvica, tra cui gli esercizi di Kegel; mantenere un giusto equilibrio psicofisico, infatti, aiuta a concentrarsi sulla ricerca di una positività mentale, evitando che i pensieri negativi possano rendere più difficoltosa la convivenza con la malattia. Chiara Console

·        Francesca Reggiani.

Katia Ippaso per “il Messaggero - Cronaca di Roma” il 13 novembre 2021. «Si prende di mira ciò che, in qualche misura, si apprezza. Non ho mai imitato personaggi di secondo piano». Francesca Reggiani si sta preparando al combattimento scenico con alcune figure, abilmente deformate, nel nostro mondo giornalistico, televisivo e politico: Giorgia Meloni, Ilaria Capua, Concita De Gregorio, Vittorino Andreoli. Le ha meticolosamente studiate in tempo di pandemia. Uomini e donne che sono entrati nelle nostre case con toni seri (o semiseri) e che usciranno dal palcoscenico con vizi e vezzi passati al setaccio del linguaggio comico: La gatta morta, il nuovo one woman show di Francesca Reggiani, sarà in scena dal 16 al 19 novembre al Teatro Olimpico.

Chi è la gatta morta?

«Quest' estate riflettevo sul fatto che se un uomo cerca di fare il piacione, nessuno dice niente, anzi viene incoraggiato. Se invece una donna ha comportamenti seduttivi, immediatamente diventa una gatta morta». 

Quindi il suo vuole essere un manifesto in difesa delle gatte morte?

«Più che altro è in difesa di tutte quelle donne che, superata una certa età, non riescono a trovare un amore e neanche un innamoramento». 

Perché, secondo lei? È colpa dello stigma sociale?

«C'è il mito insopportabile della giovinezza che provoca una forte discriminazione tra i generi».

Lei l'ha subita?

«Io sono stata fortunata perché, dopo la fine della lunga relazione con il padre di mia figlia (con il quale vado anche d'accordo), in pieno lockdown ho trovato un meraviglioso compagno. Lui non fa parte del mio mondo, ma ci capiamo perfettamente. Insomma, a 62 anni non mi sento sola». 

Dove vi siete conosciuti?

«È una storia pazzesca. Ci conosciamo da bambini, da quando io avevo 5 anni e lui 9. Poi però le nostre strade si erano separate».

Tra i personaggi del suo show c'è anche l'accademica e virologa Ilaria Capua. Perché?

«Ormai non si possono fare show televisivi senza virologi, immunologi, esperti sanitari. Sono le nuove star. Sono diventati i nostri compagni di vita, volti familiari». 

Ci saranno poi Giorgia Meloni e Concita De Gregorio...

«Sono due donne di grande personalità che sono spesso in tv. Mi piace osservarle». 

Cosa le interessa dello psichiatra Vittorino Andreoli?

«È la mia passione. Lui interviene per spiegarci la sindrome da lockdown e come l'uomo, in assenza di rapporti umani, si sia rivolto al mondo virtuale». 

E lei quale relazione ha con il mondo virtuale?

«Diciamo che sono curiosa e cerco un confronto». 

È facile demonizzarlo.

«A me ha insegnato una certa libertà. Una volta che ti infili in quel binario, scopri possibilità incredibili. Ma se devo prendere appunti, prendo penna e quaderno».

Scrive spesso?

«Ho buon rapporto con la scrittura e la lettura. Deve sapere che mio nonno, che era milanese, è stato il primo grande distributore di giornali. Alla fine della guerra, ha avuto l'idea che tutta l'Italia, da Nord a Sud, dovesse essere unificata dalla lettura mattutina del giornale». 

C'è un personaggio drammatico che le piacerebbe interpretare?

«Più che altro mi piacerebbe lavorare con registi come Sorrentino o Martone. Magari anche in un ruolo drammatico. Ma, come diceva il mio maestro Gigi Proietti, è più difficile far ridere che far piangere». 

·        Francesco Baccini.

"L’Italia ha la memoria corta. Fedez? Perché ha potere..." Graziella Balestrieri il 28 Maggio 2021 su Il Giornale. Per la rubrica A tu per tu abbiamo intervista il cantante Francesco Baccini: ecco che cosa ci ha raccontato. Artista a tutto tondo, penna intelligente e irriverente. Sofisticato e senza peli sulla lingua da sempre, forse anche per questo si è tirato fuori dal sistema: è Francesco Baccini, artista genovese che uscirà a fine mese con un nuovo album che ha composto interamente per la colonna sonora del film “Credo in un solo padre” di Luca Guadabascio. Lo raggiungiamo al telefono mentre passeggia con il suo amato Labrador e ci racconta un po’ dei suoi progetti futuri e di quello che gira intorno.

Intanto come stai?

"Bene, sto bene, diciamo che sto un po’ come tutti, in isolamento, in attesa che questo incubo finisca. Sono a passeggio con il mio cane, che mi trascina ovunque. Sai io vivo in campagna, non è che abbia proprio tutti questi contatti così frequentemente. Siamo pochissime persone in questa zona, zona tra l’latro fornitissima e se da un lato la pandemia mi ha costretto a non fare concerti, che poi sto facendo altro, dall’altro cerco di cogliere il lato positivo, ovvero è un anno che sono a casa e per me è davvero una novità, non ero abituato. Non stavo a casa da una vita".

Parliamo della perdita di Battiato...

"Un grandissimo artista…però tutti ricordano Battiato ora, ma vogliamo parlare di quando finì la sua esperienza politica e di come? Quando disse quella frase sul Parlamento, frase che pensavamo tutti e venne fatto passare quasi come un matto, che stava iniziando a perdere il senno? Ecco questa è l’Italia, un paese con la memoria corta, Battiato era un artista e un uomo libero, gli altri, quelli che giudicano e puntano il dito no. Anche fra quelli che lo ricordano oggi".

Il tuo nuovo singolo si intitola “Senza Rumore”, che progetto è?

"Mi hanno cercato diverse scuole, i loro insegnanti mi seguivano e allora mi hanno fatto conoscere ai loro alunni. Si parlava della violenza familiare, della violenza sulle donne. Questo è un argomento che è ritornato di grande attualità, anche perché con il lockdown i casi di violenza si sono triplicati, in quelle famiglie che già subivano tutto è diventato un incubo maggiore. Però bisogna abituarli sin da piccoli a distinguere determinate cose. In queste scuole dove sono stato invitato a dialogare con loro, stanno facendo un lavoro che poi presenteranno al ministero e sono partiti da Dante che parla di amore puro, alto, fino ad arrivare alla mia canzone che tratta di violenza che può arrivare alla morte, può diventare un incubo, ossessione, possesso. L’importante è far capire a questi ragazzi che non ci sono principi azzurri, non ci devono essere crocerossine, al primo segnale, quando vedi che questo comincia a diventare violento, devi scappare subito. La violenza psicologica è peggio, perché non riesci a far niente, diventi prigioniero. Poi spesso quella psicologica dove non riesce sfocia in quella fisica. E’ il voler possedere un altro essere umano, non è amore, è egoismo. Io non voglio possedere nessuno. L’amore è scambio, non distruzione e morte".

Ma oggi che genitori ci sono?

"Fra questi ragazzi c’è un tornare indietro ed è certamente perché sono cresciuti con famiglie assenti. Con figure genitoriali che sono dei figli che non sono cresciuti neanche loro. Oggi sono tutti amici dei figli. Io ho un figlio di 23anni, amico fino ad un certo punto, fino ad una linea, i rapporti li devi impostare dall’inizio. Non rispettando il genitore non rispettano nessuno, non riconoscono nessuna autorità, devi avere qualcuno che sia il tuo punto di riferimento. Purtroppo i cinquantenni e quelli della mia età sono ancora al Liceo, non siamo mai cresciuti, e soprattutto in questa società dell’immagine nessuno vuole diventare vecchio. Quando andavo in discoteca da piccolo o nei bar a suonare non ci trovavo mia madre. Oggi è facile dire la gente si abitua a tutto, ma diciamoci la verità: non è normale che vai su Instagram e trovi tua mamma o tuo padre a fare gli scemi. Perché dal ‘68 in avanti non vogliamo invecchiare".

Mancano gli esempi da seguire?

Il problema è che questi ragazzi si fanno dei miti, delle figure di riferimento della loro età. Ma come fa un mito ad essere della tua stessa età? Un mito deve essere più grande, deve insegnarti qualcosa, qualcuno che ti spiega delle cose. Quando ascoltavo De Andrè da ragazzino è perché lui mi insegnava delle cose, ma non ci avrei mai creduto se lui avesse avuto la mia stessa età. Ognuno è quello che mangia alla fine. Io sono cresciuto con BEETHOVEN, De Andrè…i ragazzi oggi seguono gli influencer. Il problema delle nuove generazioni è che manca un’educazione all’emozione, a gestire anche l’emozione. E come possono gestire un’emozione se non riconoscono l’importanza di un “no”.

Chi sono i loro punti di riferimento?

"I loro miti sono gli influencer, il successo veloce, non si può fallire: gli influencer normalmente hanno la stessa età di quelli che li seguono e sono ignoranti come delle bestie! li vado a vedere eh non è che parlo così a vanvera. Ho un canale su twich dove all’inizio ci stavano solo ragazzini, e poi gente di 23 anni che dice delle cose pazzesche, assurde. Che poi noi continuiamo a dire che sono piccoli, ma a quell’età li non sei un bambino. Io a 23anni lavoravo da due e sapevo cosa volevo fare da grande. Poi diciamoci la verità queste cose qua succedono perché qualcuno le fa succedere, alla fine il problema è che questi ragazzini qui sono usati perché sono dei consumatori, i primi consumatori, quindi diamo il potere ai quindicenni così loro si comprano il prodotto".

Giovani = Prodotto?

"Ti faccio un esempio: non si vendono più le macchine? allora la patente la facciamo prendere a quelli di 13anni tra un po’… Questo mezzo che abbiamo in mano, noi continuiamo a chiamarlo telefonino, ma è tutto fuorchè un telefono, e dovrebbe essere usato non dopo i 18 ma dopo i 21anni. Invece c’è gente che a nove anni ha già l’Iphone e tu sai benissimo che dentro puoi vedere qualsiasi cosa. Il problema arriverà quando i social li infilano nei problemi veri e finchè non ci sbatti il naso è difficile che si possa comprendere il pericolo. Mio figlio lo chiede a me se ha un problema del genere, e io sono un padre di un certo tipo, immagina chi ha un padre che non gliene frega".

Negli anni 90 c’erano i manager oggi gli influencer?

"Gli anni 90 erano una sola gigante, tutti compravano in leasing. A Milano tutti con la BMW ma in leasing e poi in realtà non avevano niente. Gli anni 90 sono ancora lì, gli anni dell’immagine dell’apparire, se io vengo da te con una macchina grossa ti posso far credere che sono uno che c’ha i soldi. Ricordo che erano tutti Manager: Si ma manager di cosa? Di nulla come oggi l’influencer… Ma di cosa?"

Hai seguito il caso Fedez, la Rai, la censura

"Fedez lo ha potuto fare perché se lo può permettere, ha i soldi e dunque il potere e poi a lui cosa gliene frega se le tv non lo invitano più? Ha il web. Quello è il suo mondo. Quello che siamo diventati fa sì che il web abbia più potere di tutto e tutti".

Qualche rimpianto?

"Io ho fatto Sanremo 97 per andare via dalla Warner perché voleva andare in una etichetta indipendente. Oggi non lo farei mai più un errore del genere. Tra l’altro disperdendo almeno miei 4/5 album perché poi calcola che ho cambiato altrettante 4/5 etichette indipendenti. Il mondo delle etichette indipendente è un mondo allucinante, perché oggi ci sono e domani non ci sono più. Io ho fatto degli album che non esistono più da nessuna parte mentre se fossi rimasto alla Warner avrei tutti i miei dischi, a parte “Nomi e cognomi” che è sparito e questo rimane il solito mistero, non fu fatto sparire all’epoca, perché all’epoca ero molto popolare, poi con gli anni evidentemente l’hanno tolto dal catalogo".

Il tuo rapporto con la sinistra e con i partiti?

"Io non parlo a nome di nessuno, sono sempre stato un battitore libero, posso piacere o meno, facendo così tra l’altro mi sono fatto fuori da solo dal sistema. Però io voglio essere libero. Se tu politico o partito mi dai la linea editoriale io da quel momento lì non sono più libero. E poi quando sei un artista non puoi prendere ordini. Se sono di essere di destra o di sinistra, ma quelli sono c...i miei. Non voglio essere usato come è successo a tanti artisti, ai quali non è mai stato chiesto il parere di essere bandiere per i partiti ma loro malgrado sono stati costretti a sventolare".

Parliamo di questo tuo rapporto con il cinema

"Questa è la mia colonna sonora di un intero film, che si chiama Credo in un solo padre, che tutta la colonna sonora del film, avevo già fatto canzoni, Brizzi e Zoe. Però non mi ero mai cimentato con una colonna sonora intera. E li è venuto fuori il mio primo album da musicista, tutto strumentale. E poi ci sta un brano cantato in inglese, sonorità vere elettroniche. Mi interessa solo questo, perché sono libero come musicista, ed essere liberi come musicisti è il massimo. E poi la musica in un film è fondamentale".

Cosa rappresenta la figura di Tenco?

"Luigi Tenco e non so davvero a chi possa far comodo, ma in Italia viene trattato come un caso di cronaca nera, ai media o a chi per loro importa solo uscirsene sempre con suicidio, pistole, raccontare la morte. Invece Tenco era vita, è vita. Tenco è musica. Ecco perché nel 2022 uscirà un documentario su di lui, un progetto a cui tengo molto, perché voglio raccontare Tenco come artista, la sua ironia nelle canzoni, la sua bellezza, di come ha vissuto non di come è morto. Racconterò attraverso il mio tour “ Baccini canta Tenco” , che fu ripreso allora, la straordinaria vita ed eredità di uno dei più grandi artisti di tutti i tempi".

Da leggo.it il 4 maggio 2021. «Piacere, Francesco Baccini, l’indesiderato». Ci scherza su, il cantautore genovese, ma è un riso amaro quello che gli riporta alla bocca l’affaire Fedez-Rai, è la storia di una censura che da quasi trent’anni (era il 1992) ha spento microfoni e telecamere, ha smorzato i riflettori, lo ha relegato in un cono d’ombra dal quale per sopravvivere ha fatto doppia fatica. Tutto parte da un disco di strepitoso successo, l’album “Nomi e cognomi”, 600mila copie vendute. “Giulio Andreotti”, “Renato Curcio”, “Antonello Venditti”, “Diego Armando Maradona”, “Adriano Celentano”, “Radio Maria”, titoli che danno già l’idea: 40 minuti tra ironia sferzante su personaggi della storia contemporanea italiana, dalla politica allo star system, in un tourbillon di grande ritmo e orecchiabilità, e alcune ballate più amare, più cupe, tutte di grande impatto comunque, di irriverente sincerità, pane al pane e vino al vino. «È da quell’album che la mia carriera – avevo già vinto il Festivalbar con “Sotto questo sole” e poi la Targa Tenco – prende un’altra piega».

Quale piega, Baccini?

«Quella dell’invisibilità, dell’assenza. Era il gran finale della Prima Repubblica, sei mesi dopo sarebbe scoppiata Tangentopoli. Sono quasi diventato un nemico pubblico, da epurare».

Esempi.

«Il disco sta andando fortissimo per cui mi chiamano il lunedì per andare a “Domenica in” la domenica successiva. Il martedì mi richiamano: “Non è che potresti cantare "Margherita Baldacci" invece di "Giulio Andreotti"?”. “Ma se eravamo d’accordo su quella…”. Poi improvvisamente le scalette tracimavano. “Non c’è più spazio, richiamaci la prossima settimana”. Richiamavo, “questa settimana non sono previsti cantanti”. A “Domenica in”, figurati. E infatti ce n’erano almeno quattro. Era l’edizione della Parietti e di Cutugno anche se quelle decisioni venivano prese in alto».

Ironia della sorte, nell’album successivo, “Baccini a colori” cantava “Sono stufo di vedere quelle facce alla tv”. La sua, invece…

«Scomparsa, sparita dal radar dei media. Nonostante ciò finora ho fatto altri 14 album, ho scritto due libri e piazzato una quarantina di concerti ogni anno».

Nessuno le disse niente, allora, le fece capire qualcosa?

«L’unico ad essere sincero con me fu Oliviero Beha. Lo incontro per caso e mi fa: “Francesco, il tuo nome è nella lista di proscrizione di viale Mazzini, e anche piuttosto in alto».

Nemmeno Mediaset l’ha più richiamata?

«Devo gran parte della mia popolarità a tante apparizioni al “Costanzo show”. Maurizio a un certo punto non mi ha più invitato».

Eppure rispuntò su Raidue nel reality “Music Farm” e ha anche fatto una fugace apparizione nel recente “Grande Fratello Vip”.

«Beh, quest’ultima è stata proprio sorprendente. Tirato in ballo per una storia di gossip con Maria Teresa Ruta che era tra i concorrenti. E io che devo andare lì a difendere la mia reputazione… ma per carità! Quanto a “Music Farm” fu Giorgio Gori a volermi. Ma grazie a Magnolia, di cui era a capo, non certo a Raidue. Mi telefonò e mi disse: “Voglio un cantante che abbia credibilità”».

Immagino che anche Sanremo sia stato avaro con lei.

«Nel 2010 volevo andare, avevo una bella canzone. Non ha potuto far niente nemmeno Caterina Caselli, capisce? Poi ha chiamato Carlo Conti per il suo primo festival, nel 2015: “Hai qualcosa da portare all’Ariston?”. Gli mandai un brano, gli piacque molto. La sera prima dell’annuncio del cast ero tra i cantanti in gara. Mi telefonò l’indomani, costernato, e credo che lo fosse davvero: “Francesco, mi dispiace ma non ce l’ho fatta a inserirti”».

Ha avuto anche un’onda lunga questa “censura” radiotelevisiva?

«Per restare nella mia Genova. Sono stato grande amico e in alcune occasioni anche collaboratore di De Andrè: mi ha mai visto mai partecipare a uno dei tanti tributi fatti a Fabrizio? E ancora: il concerto per il Ponte Morandi, c’era chiunque, Baccini assente. Eppure abito a un chilometro e mezzo da lì».

Altre occasioni di mancata visibilità?

«Mi chiama Fausto Brizzi e mi fa scrivere la canzone finale del suo film “Maschi contro femmine”. All’anteprima romana ci sono anch’io con il regista e gli attori: nessuno che mi abbia piazzato un microfono sotto la bocca fosse anche per una battuta di dieci secondi».

Avesse avuto l’influenza di Fedez sul web se ne sarebbe potuto fregare di radio e tv.

«Al di là di quello che ha detto al Concerto del Primo Maggio, Fedez lo ha fatto da personaggio della comunicazione, lui su questo ci ha costruito una carriera. Non lo dovessero più invitare in tv, che gliene importa? Il suo pubblico è sul web».

E Baccini, sul web?

«Mi sono rifatto un po’ sui social. Ho profili abbastanza seguiti e sono anche sbarcato su Twitch dove ho creato un format sul calcio e un appuntamento quotidiano serale, “TeleBaccio Night” in cui parlo di musica, suono, canto... Insomma, proprio invisibile adesso non più».

Anche quest’intervista su “Leggo”, ad esempio...

«Certo, da trent’anni ad oggi ogni occasione è propizia per ricordare “guardate che esisto ancora”».

L'album "nomi e cognomi". Sono 11 le tracce che compongono “Nomi e cognomi”, terzo album di Francesco Baccini che uscì nel 1992 con grande successo di vendite per Cgd/Warner. E i titoli del disco sono per l’appunto “Antonello Venditti”, “Diego Armando Maradona”, “Jack lo squartatore”, “Mago Ciro”, “Adriano Celentano”, “Lupo de' Lupis”, “Renato Curcio”, “Giulio Andreotti”, “Margherita Baldacci”, “Radio Maria” e perfino un’autocitazione per “Francesco Baccini”. Sono ritratti tra ironia e sarcasmo ma anche tensione, cupezza e dramma di un’Italia al confine con Tangentopoli le cui icone, positive o negative che fossero, arrivavano dal mondo del calcio, dalla politica, dalla canzone, dalla cronaca nera. Si va dalla satirica “Giulio Andreotti” («chi ha mangiato la torta? Andreotti! chi ha permesso il calo della borsa? Andreotti! chi è il capo della Piovra? Andreotti! Ma lasciatelo stare, poverino, questo dargli addosso è assurdo e cretino») all’amara, dolorosa lettera dal carcere di Curcio, capo delle Brigate Rosse, a Mara Cagol, la sua compagna, uccisa in uno scontro a fuoco con la polizia, alla triste storia di “Margherita Baldacci” ragazza proletaria di periferia che delusa dall’amore la fa finita. Un disco agrodolce, dunque, che alterna momenti spensierati e allegri ed altri amari ma sempre su un filo di trasposizione irreale della realtà. Disco che, nonostante le vendite (600mila copie) è stato cancellato dal catalogo tanto che adesso, dice amareggiato Baccini, è introvabile nei digital stores, da Spotify ad i-Tunes.

·        Francesco De Gregori.

Buon compleanno De Gregori, parole e intarsi del Principe. Edvige Vitaliano su Il Quotidiano del Sud il 5 aprile 2021. Il broncio irrequieto dei vent’anni, i capelli scomposti, lo sguardo obliquo e ombroso sulla vita che si para davanti a quell’età. È il 1973, Francesco De Gregori ha già scritto di Alice e di Cesare perduto nella notte in attesa del suo amore ballerino. Ha l’aristocratica bellezza anche un po’ stropicciata di un principe, e Principe lo chiameranno poi negli anni a venire. Il primo fu Lucio Dalla, raccontò De Gregori qualche anno fa su Rai Radio2 a “Non è un paese per giovani”, respingendo al mittente l’appellativo di Maestro. «Io un Maestro? Non mi piace essere chiamato così – disse perentorio – L’unico soprannome che mi piace è Principe, perché Lucio Dalla mi soprannominò così durante Banana Republic”. Vien da pensare che dev’essere una sorta di regola non scritta quella per cui gli appellativi più cari li mettono gli amici. È accaduto a Francesco ed è accaduto a Fabrizio De André detto Faber per come lo aveva battezzato Paolo Villaggio in virtù della passione per le matite Faber&Castel. E così De Gregori e De Andrè sono per molti il Principe e Faber. A legarli anche l’album Volume 8 , pezzi come La cattiva strada e la genesi di Oceano raccontata da Cristiano De André: «Vado in Sardegna e me lo ritrovo (De Gregori, ndr) lì, a casa. In pigiama. Che lavora con mio padre, seduto sul mio divano, con la chitarra, giovane, con la barba rossa, un po’ fricchettone […] E allora io prendo coraggio e vado da lui. […] «Francesco, perché Alice guarda i gatti?». Lui mi guarda con un occhio aperto e l’altro chiuso… Non mi risponde. E non mi ha mai risposto. Anzi mi ha risposto, però in un modo abbastanza inconsueto: cioè scrivendo una canzone, con mio padre. Si chiama Oceano […]». Non fare domande. Basta ascoltare. Del resto, i pezzi di De Gregori sono costruiti con intarsi di parole poetiche e misteriose. Parole enigmatiche che spiazzano e allo stesso tempo incantano al primo ascolto e lasciano – insieme alle emozioni – una scia di punti di domanda. Mischiano le carte, eppure prendono per mano e riconducono a Francesco, che è il principe della canzone d’autore anche ora che di anni ne compie settanta. Sette decadi per il cantautore nato a Roma il 4 aprile del 1951. Non pare vero – ma è giusto un attimo – tante e tali sono le tracce di questo tempo trascorso. Lungo la strada note e parole, incontri e passioni, collaborazioni, compagni di palco, libri e letture, chitarre, stadi, teatri e camerini, il Folkstudio, Bob Dylan e Leonard Cohen… Soprattutto canzoni che non rispondono all’usura del tempo ma alla legge del cuore. Anche solo ad andare a memoria – buchi del ricordo compresi – sembra di stare in una biblioteca: sugli scaffali, canzoni che sono storie costellate da personaggi ma anche da stati d’animo o da pezzi di cronaca che intercettano mutamenti sociali, politici e di costume con affondi nella Storia o nell’attualità cesellati per restare anche dopo. Il rimando alla biblioteca – nel caso di De Gregori – non è del tutto casuale: il padre, Giorgio faceva il bibliotecario; la madre Rita Grechi l’insegnante di Lettere. A lui diedero il nome di Francesco in omaggio allo zio ufficiale degli Alpini, poi partigiano e vicecomandante delle Brigate Osoppo, ucciso a Porzûs nel 1945. E già questa potrebbe essere una storia alla sua maniera. D’altro canto di “racconti” diventati canzoni è lastricata la strada artistica di De Gregori. Difficile ricordarli tutti. Così nel giorno del compleanno – insieme agli auguri – ci si può concedere licenze e anche azzardi e si può scegliere di costruire un alfabeto sentimentale che comprenda, ad esempio, alcuni ritratti di donne scritti, cantati e suonati da De Gregori. Acquarelli impastati di note e parole da tenere ben stretti quando si ha voglia di riprendere tra le mani un vinile o un cd del Principe e ricordare: vale anche per chi non ha vissuto in prima persona gli anni di Alice o della dolce Venere di Rimmel. Donne di cui si intravedono i visi, le lacrime, gli amori vissuti, quelli brevi e quelli solo immaginati ma anche la forza e in alcuni casi il coraggio. Donne di cui si cerca di indovinarne i destini e ricordarne i nomi. Operazione non semplice la cui chiave di volta può trovarsi, forse, in queste parole di De Gregori: “Nelle mie canzoni sono spesso e volentieri ‘nom de plume’: Alice, Caterina, Carmela, Irene, Annamaria, Hilde. Sono nomi che scelgo per il suono e anche per il significato. Irene, ad esempio, vuol dire pace. Non sono nomi reali di donne che ho conosciuto, tranne forse un paio di casi, come Caterina”. Suono, significato e mistero, a dispetto dei nomi reali o meno. È una “miscela” creativa e lessicale in grado di dare vita autonoma alle donne cantate del principe. Le incontri e non le dimentichi. Diventano come certe amiche d’infanzia che si riaffacciano nella vita di tutti i giorni quando meno te lo aspetti. Ci si inciampa e le riconosci. Capita con la ragazza di Roma di Atlantide “la cui faccia ricorda il crollo di una diga”. È lei il rimpianto del protagonista del pezzo che vive con un “principio di tristezza in fondo all’anima”. Capita con la Giovanna di Niente da capire che diventa “un ricordo che vale dieci lire” e una girandola di interrogativi. Accade anche con la misteriosa protagonista di Bene. E poi c’è La donna cannone. Anche lei non ha un nome, in compenso ha una storia di quelle che restano. Si racconta che il pezzo sia stato ispirato da un articolo di cronaca. Un trafiletto intitolato “La donna cannone molla tutti e se ne va”. Se ne va, rompendo con le regole del circo per seguire un amore che diventa sogno tra le stelle e cuore buttato oltre l’ostacolo. E mentre scorrono i ritratti di queste donne sembra di vederlo il Principe: raccogliere storie, trovare parole e metafore, scrivere uno di quei suoi racconti da cantare a teatro o nelle arene d’estate. Ritratti di ieri, di oggi e domani nel tempo breve di una canzone. Buon compleanno principe!

Vasco Rossi per il Fatto Quotidiano il 4 aprile 2021. De Gregori compie 70 anni oggi? Prima di tutto allora, gli faccio i miei più sinceri auguri di 100 di questi giorni!!! Tanti ma tanti auguri, Francesco!! De Gregori è uno dei più grandi cantautori italiani, le sue canzoni sono sempre state per me fonte di grande piacere e di ispirazione. Lui ha cominciato prima di me e molto prima di me ha trovato la sua strada, quella della canzone d'autore, io l'ho trovata un po' dopo la mia, quella del cantautore rock, del rocker e della rockstar. Non avrei mai immaginato che un giorno mi avrebbe reso un attestato di stima con la sua interpretazione di Vita spericolata, tra l'altro bellissima "alla De Gregori". Per me è stato come ricevere un Oscar. Personalmente conoscevo tutte le sue canzoni, negli anni in cui avevo la radio, Punto Radio 75/76, le mettevo sempre nel mio programma sulla musica italiana d'autore. Ai tempi facevo radio, non cantavo ancora, strimpellavo la chitarra e cominciavo a scrivere le mie prime canzoni. Ispirandomi anche alle sue, naturalmente. Ma le canzoni di De Gregori sono dei gioielli di scrittura unici e inimitabili. Lui sì che è un poeta. Anche se non gli piace che lo si definisca così, e giustamente perché lui scrive canzoni d'autore, rimane un fatto che lui scrive dei testi che sono poesia pura. Non a caso, per Rock sotto l'assedio, il mio concerto a San Siro "contro le guerre", nel '95, scelsi di fare un omaggio a De Gregori cantando in apertura Generale un capolavoro assoluto, "Che torneremo ancora a cantare, e farci fare l'amore, l'amore dalle infermiere", versi di strettissima attualità perché siamo in guerra anche oggi, anche se in un modo diverso. Sarà anche una questione di affinità elettive, ma ogni volta che ci incontriamo è un grandissimo piacere, non abbiamo neanche bisogno di troppe parole, tra di noi basta uno sguardo per intenderci. Ricordo e ricorderò sempre con grande soddisfazione e affetto quella volta a Roma quartiere Prati, ero ancora agli inizi carriera, stavo andando dall'albergo alla Rai per promozione, quando una macchina si ferma, si apre lo sportello e scende dall'auto De Gregori per salutarmi. De Gregori voleva salutare me. Un grandissimo onore per me, allora e tuttora, godere del suo affetto. Egregio Maestro De Gregori, carissimo Francesco Ti auguro 100 di questi giorni!! PS mi guardo intorno e sei sempre, sei sempre il migliore che c'è.

Claudio Fabretti per leggo.it il 4 aprile 2021. Francesco De Gregori, settant'anni da Principe: dalla "A" di Atlantide alla "Z" di Zingari. Settant'anni da Principe. Francesco De Gregori li compirà domenica, senza clamori, com'è nel suo stile. Niente interviste, eventi e show: solo un brindisi con familiari e amici. Ma neanche la pandemia ha fermato la sua voglia di musica: è pronto a ripartire con i suoi soliti concerti, incluso quello attesissimo dell'Olimpico con l'amico ritrovato Antonello Venditti, attualmente posticipato al 17 luglio, Covid permettendo. Nel frattempo, ha diffuso sui suoi profili social un nuovo videoclip, diretto da Daniele Barraco, in cui interpreta dal vivo La testa del secchio, uno dei brani più riusciti della sua produzione post-Duemila, incluso nell'album Pezzi (2005). In questa pagina abbiamo cercato di sintetizzare il suo mezzo secolo di carriera. Dalla A alla Z.

A come Atlantide, uno dei suoi capolavori meno celebrati. Non il continente sommerso, ma un luogo dell'anima, in California, dove lui vive «da 7 anni, sotto una veranda ad aspettare le nuvole», e «stravede per una donna chiamata Lisa» al punto che «quando le dice: Tu sei quella con cui vivere, gli si forma una ruga sulla guancia sinistra». Una magia, con omaggio alla Three Angels di Dylan.

B come Banana Republic. Il tour del 1979 in compagnia di Lucio Dalla (e Ron) rimasto nella storia. Il principe malinconico e il poeta di strada: così vicini, così lontani. A suggello, l'omonimo, indimenticabile brano, tradotto dall'originale di Steve Goodman.

C come cantautore. Uno dei più emblematici e rappresentativi: barba, chitarra e versi poetici da cantare. Ma guai a dirgli che è un poeta: vi risponderà malissimo, magari usando i versi di Le storie di ieri: «I poeti, che brutte creature, ogni volta che parlano è una truffa». Perché - sostiene - poesia e canzone sono due cose diverse.

D come Dylan. L'eterno maestro di Duluth, l'uomo che «non cantava, sputava le parole come sassi». Il menestrello che lo folgorò sulla strada del folk. Al punto - dicono i maligni - da spingerlo a imitare il suo stesso modo di cantare, strascicando le parole e stravolgendo le canzoni nei concerti.

E come eretico. Nonostante le sue dichiarate simpatie politiche, De Gregori è stato spesso avversato dall'estrema sinistra che lo ha accusato di tradire i suoi ideali militanti. Con tanto di farneticante processo, inscenato dagli autonomi nei suoi confronti al Palalido di Milano, il 2 aprile del 1976.

F come Folkstudio. Il tempio di Trastevere del cantautorato romano dove tutto ebbe inizio. De Gregori vi esordì con le sue prime canzoni. Poi, si unì agli amici Venditti, Lo Cascio e Bassignano: erano I Giovani del Folk. «Quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla», li celebrerà nostalgicamente Venditti.

G come Garbatella, il piccolo teatro romano che ha ospitato la sua residency: 20 date sold-out con la partecipazione di amici e colleghi come Ligabue, Zucchero, Renato Zero, Emma, Elisa, Antonello Venditti, Enzo Avitabile.

H come Hilde. Una delle tante figure mitiche delle sue canzoni: Alice, Pablo, Irene, Anna, Marianna, Mario, Nino, Ninetto, Caterina, Rollo, Eugenio, Lisa, Mimì, Giovanna, Hood, Susanna... A volte si tratta di persone realmente esistite, ma più spesso sono creazioni di fantasia.

I come idiosincrasie. Ne ha diverse, da quella verso Sanremo (cui dedicò anche polemici versi) a quella nei confronti dei programmi tv e dei rapporti con la stampa. Irascibile, invece, può diventarlo verso chi tenta di importunarlo. Giornalisti inclusi!

L come Leva calcistica della classe 68, parabola fatata di (dis)illusioni sessantottesche, con tripudio di piano e tastiere (a cura di Locasciulli). Nino non avrà più paura (di tirare un calcio di rigore), così come La Donna cannone, anche se «non sarà come bella come dici tu».

M come metafore (e figure letterarie). Il Principe ne è il re incontrastato, tra sinestesie («Mi pettino i pensieri»), personificazioni («Barattolo di birra disperata»), antinomie («il treno che è mezzo vuoto e mezzo pieno») e mille metafore, che a volte sono l'intera canzone (da Bufalo Bill a Pezzi di vetro).

N come Never Ending Tour. Ovvero, la filosofia di Dylan applicata ai suoi ultimi decenni di carriera: la performance live come opera artistica irripetibile e luogo privilegiato della creatività. Solo la pandemia ha fermato la sua serie inesauribile di concerti. Che si accinge a riprendere appena possibile, incluso l'atteso evento dell'Olimpico insieme all'amico ritrovato Antonello Venditti.

O come olio. La sua insospettabile seconda vita vede Francesco De Gregori nei panni di agricoltore: produce l'olio Le Palombe nella sua piccola azienda di Sant'Angelo di Spello, nel Perugino.

P come Principe. Lo storico soprannome del cantautore romano. «È l'unico che mi piace, perché me lo diede Lucio Dalla durante Banana Republic», ha raccontato.

Q come Quattro cani. Qualcuno ha provato perfino a identificarli (in Patty Pravo, Venditti, De Gregori stesso e il produttore Lilli Greco) ma non c'è niente di vero: «Ho sempre avuto un grande amore per i cani, in particolare i randagi, e quella è una canzone che parla di loro», ha spiegato. Li scegliamo in rappresentanza degli innumerevoli cani presenti nelle sue canzoni.

R come Rimmel. L'album più amato, quello che l'ha consacrato cantore di un'intera generazione. Suoni più arrotondati, aggraziati impasti di piano, organo e chitarre, un canto più incisivo ed eclettico. Dalla title track a Buonanotte Fiorellino, da Pablo a Pezzi di vetro, un disco che rimescola le carte alla musica italiana. Vincente, ma senza trucchi.

S come Storia. Che siamo noi, nessuno si senta escluso - come cantava nel suo celebre classico. Ma è anche una sua ossessione, con riferimenti sparsi in tantissimi suoi brani, da Le storie di ieri a Viva l'Italia, da Saigon a Il Cuoco di Salò.

T come Titanic. L'album-kolossal in cui fece schiantare l'ottimismo rampante degli anni 80 contro l'iceberg che affondò lo sfortunato transatlantico. Con canzoni entrate ormai nella storia, dalla title track a I muscoli del capitano.

U come umanesimo. Perché è questa in fondo l'unica religione laica di De Gregori: mettere al centro gli uomini, le loro complesse relazioni, i loro sentimenti e le loro vite, narrati attraverso un sentimento di empatia e solidarietà che si rivolge in primis agli ultimi e agli esclusi.

V come Viva l'Italia. Il suo omaggio d'amore e rabbia al Paese «metà giardino e metà galera», il suo brano più frainteso e abusato. Riscriverlo oggi? Più volte ha detto di no. Eppure, quell'inno agli anticorpi democratici dell'Italia «con gli occhi asciutti nella notte triste» è attuale più che mai.

Z come Zingari. Parola ormai poco politically correct. Ma De Gregori l'ha usata poeticamente, sia su Rimmel, sia sulla struggente Due zingari, una delle più belle canzoni mai scritte sul microcosmo gitano.

Chi è davvero Francesco De Gregori? Luca Valtorta su La Repubblica il 4 aprile 2021. Oggi il "Principe" dei cantautori compie 70 anni. Molti di noi sono cresciuti con la sua musica che, fatto rarissimo, si è trasmessa anche alle generazioni più giovani. Ma cosa sappiamo veramente di lui? Lo sguardo che muore nel sole, il suono sfocato dal vento. E il mondo che gira intorno. Fermo ai bordi della strada, tra sogno e realtà, fluttuando. Chiudi gli occhi. E sei in onda. Stop. Oggi, 4 aprile 2021, Francesco De Gregori, il "Principe", il più sofisticato tra i nostri cantautori, compie 70 anni. Ma chi è Francesco De Gregori? Una domanda difficile. Difficilissima. Probabilmente anche per lui. Che rimane indecifrabile quando appare più decifrabile, che sfida se stesso e gli altri, che cerca di rendersi la vita difficile scegliendo sempre la via più complicata, la linea obliqua, l’ombreggiatura. Per lui sarà un giorno come un altro, spiega l’ufficio stampa, non farà interviste, forse si dedicherà a rimettere in sesto la pavimentazione della casa in campagna. Chissà. Tutti però, giustamente, lo celebreranno: in tv, sui giornali, nella Rete, sui social. È un periodo così brutto, così difficile che sarà bello pensare a Francesco De Gregori, alla prima volta che abbiamo sentito una sua canzone oppure a quella canzone così importante per noi, per un nostro amore, per un nostro momento difficile, o così importante da restare impresso nella nostra memoria. Tutti, o quasi, abbiamo una canzone di De Gregori che sembra parlare proprio per noi: ce l’avevano persino gli Skiantos che citano, in un loro brano "demenziale", una frase un po’ rimaneggiata tratta da Bene: “Se ci trovi un po’ di fiori in questa storia sono i tuoi!” (nell’originale si dice: “Bene, se mi dici che ci trovi anche dei fiori in questa storia, sono tuoi”). E se un gruppo punk cita De Gregori – e non per prenderlo in giro – vuol dire che il linguaggio non è solo universale ma che il suo modo di cantar l’amore è graffiante quanto la carta vetrata. Se ci pensate questa frase è durissima e insieme all’altra, “e i fiori nella vasca sono tutto quel che resta e quel che manca”, sono (probabilmente) la sintesi di una  storia d’amore senza pietà. Per lui oggi sarà un giorno come un altro. E naturalmente sarà così, ma non sarà così. Ammesso che non legga i giornali proprio in questo giorno, non ascolti la radio, non guardi la tv, non accenda il computer sarà un giorno in cui si troverà a pensare magari a quei gatti che muoiono nel sole in Alice e a “Cesare perduto nella pioggia” e anche, perché no, a “Giovanna che è stata la migliore” (e dunque alla prima censura su un suo disco, che però dal vivo ritroverà la frase originaria “faceva dei giochetti da impazzire”). Perché i 50 anni, ma ancora di più i 70, sono un momento in cui si fa un bilancio della propria vita e forse è un po’ dolce sapere comunque di contare così tanto perché, come diceva quello (fortunatamente ormai dimenticato dalla storia), se con la cultura e l’arte e tutte le cose belle senza valore non si mangia, di certo ti salvano la vita. Una frase che potrebbe apparire retorica se non l’avesse detta Lou Reed in Rock’n’Roll e quindi va letta con quel sottofondo. Perché le note della tromba di Miles Davis nella tua giornata più brutta possono aiutarti, o il suono graffiante e alieno di Free Jazz di Ornette Coleman, l’eleganza assoluta di Joni Mitchell che canta nell’album Mingus, o arrendersi alla voluttà di Loveless dei My Bloody Valentine e persino la voce di Johnny Rotten in God Save the Queen possono aiutarti. E mille altre. Così come, è quasi banale dirlo, quei versi in stato di grazia assoluta che recitano “come quando fuori pioveva e tu mi domandavi se per caso avevo ancora quella foto in cui tu sorridevi e non guardavi”. E che dire di “e non hai capito come mai gli hai lasciato in un minuto tutto quel che hai, però stai bene dove stai”? Basterebbe anche solo questo per riempire di senso una vita. Eppure qualcuno diceva che le cose che dice De Gregori non si capiscono: ma perché si dovrebbero capire? Perché, in realtà, “non c’è niente da capire”: Francesco De Gregori lo ha ripetuto molte volte nella sua lunga carriera, a partire dal 1974, anno in cui dopo le accuse di 'ermetismo' (come se fosse una colpa!) che gli vennero rivolte, decise di scrivere una canzone proprio con quel titolo e poi, nel 1990, chiama così anche un disco dal vivo e la rimette in La valigia dell’attore e in Vivavoce. Ed è vero che non c’è niente da capire perché la canzone di un artista diventa di tutti e forse non è così interessante sapere quale fosse il senso che l’autore intendeva: quello che importa è il senso che gli dai tu. Cantautore, poeta o meglio "artista", come ama definirsi, Francesco De Gregori festeggia 70 anni. Nato a Roma il 4 aprile 1951, inizia a suonare al Folkstudio di Roma dove conosce, tra gli altri, Antonello Venditti, con il quale pubblica il primo album nel 1971 ('Theorius Campus'). Il debutto da solista è nel 1973 con "Alice non lo sa" ma il vero successo arriva due anni dopo con "Rimmel", che diventa uno dei dischi più venduti del decennio. Nella sua carriera ha pubblicato 21 album in studio più 16 live, testimonianza delle sue esibizioni dal vivo e delle tournée condivise con amici e colleghi, da Lucio Dalla a Pino Daniele. Alcune volte, anzi, può essere persino deludente conoscere il significato che voleva attribuire chi ha scritto la canzone. E De Gregori questo lo sa bene. Sa bene che tra le pagine chiare e le pagine scure c'è un affascinante mistero. Al tempo stesso non è vero che non c’è niente da capire, perché è ormai acclarato che Alice è ispirata all’Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll, che Cesare che “sta aspettando da sei ore il suo amore ballerina” è Cesare Pavese in inutile attesa della magnifica attrice e ballerina Constance Dowling, che aveva recitato in film come L’angelo nero e a cui Pavese dedicherà la raccolta di poesie Verrà la morte e avrà i tuoi occhi: “È buio il mattino che passa senza la luce dei tuoi occhi” dice il poeta. Un termine che rende giustizia a Pavese ma che De Gregori non vuole sentire rivolto a se stesso. Nel celebre gioco di Arbasino tra "venerato maestro" e "solito stronzo" sceglierà sempre di essere il solito stronzo. Ma De Gregori ha letto Pavese, con grande, indimenticata passione. Le sue canzone sono piene di riferimenti letterari, storici, politici. Per questo in una sola, fulminante frase riesce a restituire a chi ascolta un affresco struggente della sua sofferenza di innamorato non corrisposto. In una lettera, Pavese, sconfitto, scriveva a Constance ritornata ormai negli Stati Uniti: “Viso di primavera, io di te amavo tutto, non solo la tua bellezza”. E così una canzone diventa una porta aperta su mille mondi che è così bello visitare! Non è facile. Ma è proprio questo il senso di una canzone che diventa immortale. E non fa niente se l’interpretazione è giusta o sbagliata, l’importante è la curiosità che ci fa andare alla ricerca di qualcosa che, quando siamo più giovani, non conosciamo ma possiamo comunque afferrare per via emotiva. Nell’imparare è il senso delle nostre vite, dell’essere uomini: “Giocavo col linguaggio fregandomene di essere comprensibile o no”, diceva Francesco De Gregori, “questo linguaggio che io definisco "frantumato" o "frantumabile" è poi entrato nelle canzoni anche con altri autori come Mogol ad esempio”. Dunque è qui che troviamo De Gregori: non nella fotografia che appare su un libro. Ci ha avvertito più volte, anche in una canzone: “Guarda che non sono io”. Non è lui quello che stiamo cercando, “quello che conosce il tempo e ti spiega il mondo, quello che ti perdona e ti capisce, che non ti lascia sola e che non ti tradisce. Guarda che non sono io quello seduto accanto, che ti prende la mano e che ti asciuga il pianto”. Paradossalmente De Gregori lo troviamo nell’assenza, nella negazione del sé. Sembrerebbero parole dure nei confronti dei fan, quando dice: “Cammino per la strada, qualcuno mi vede e mi chiama per nome, si ferma e mi ringrazia, vuole sapere qualcosa di una vecchia canzone, ed io gli dico: "Scusami però, non so di cosa stai parlando, sono qui con le mie buste della spesa, lo vedi sto scappando. Se credi di conoscermi non è un problema mio. E guarda che non sto scherzando"”. Non sono parole dure, non è insensibilità nei confronti del fan: è il contrario. È il cercare di decostruire l’idea dell’artista come vate, come ispiratore, come quello che ha sempre una risposta per qualsiasi cosa e che invece è lì, proprio come te, al supermarket con le buste della spesa in mano. E che come te, il più delle volte, non ha risposte ma solo domande, dubbi: “Ho sempre cercato di seminare dubbi”, raccontava parlando di Rimmel. “Pablo per esempio poteva sembrare una canzone ideologica, con un riferimento al Cile, a Pablo Neruda, al lavoro nero, all’emigrazione e però invece quando si arriva a "spagnolo" è il "collega spagnolo", non il "compagno spagnolo" come avrebbe dovuto essere se avessi voluto strizzare l’occhio, furbescamente, all’ideologia in quegli anni imperante”. Seminare dubbi dunque, rifiutando l’idea di stare su un piedistallo: “A volte però persino gli intellettuali sono capaci di un dialogo intellettuale”. Non è una semplice battuta, già in Poeti per l’estate, un brano del 1995, c’era un bersaglio preciso: “Dicendo 'poeti' volevo riferirmi genericamente a un certo mondo culturale e alle sue pubbliche epifanie. La strofa più diretta è quella che dice 'quando in televisione li vedi arrivare/ profetici e poetici, sportivi ed eleganti/ pubblicare loro stessi come fanno i cantanti'. È un pezzo vecchio ma ancora adesso trovo meraviglioso vedere arrivare in un talk-show in cui si sta parlando di Covid-19 o di immigrazione un politico o uno scrittore che discettano blandamente sul tema e poi, alla fine, tirano fuori la copertina del loro ultimo e spesso perdibile libro”. Da notare è che invece per “i cantanti”, che secondo la gerarchia della cultura con la 'C' maiuscola sono considerati poca cosa, "pubblicare se stessi" è ironicamente considerata da De Gregori cosa lecita. Del resto il fatto che la musica sia considerata prodotto di consumo è sancito per legge: sui dischi si paga il 22% di Iva mentre per i libri è il 4%. E così, già che ci siamo, rivolgiamo un appello al ministro Dario Franceschini perché risolva una volta per tutte questa situazione davvero imbarazzante, soprattutto in un paese come l’Italia, dove la musica è parte profonda della cultura nazionale ma viene trattata come se fosse qualcosa di inferiore rispetto alle altre arti. Insomma, De Gregori è uno che cerca rogne: "L'ho sempre fatto: basta pensare a un pezzo come Alice, del '72, che era una canzone irregolare per quei tempi, molto strana, sghemba, o fare Buonanotte fiorellino in quegli anni, quando per seguire l'onda dovevi scrivere Musica ribelle. All'interno di un disco come Rimmel poi... Io questo lo chiamo 'cercare rogna' ma è semplicemente seguire l'istinto, non adeguarsi a un protocollo che ti dice quello che devi essere, quello che bisogna scrivere, quello che bisogna fare. Ecco, io non l'ho mai fatto, me ne sono sempre fregato e vorrei continuare così". Questo spiega il particolare accanimento, nel tempo, che De Gregori ha avuto nei confronti di una delle sue canzoni più famose. Quando uscì, Buonanotte fiorellino, divise subito il pubblico, come da lui auspicato: “Venni subito accusato, era il ’75, di essere sdolcinato, 'piccolo borghese', perché bisognava scrivere le canzoni che parlavano al 'movimento'. Io invece avevo fatto questa storiella d'amore. In realtà era proprio il contrario: era una caricatura della sdolcinatezza mentre raccontava in realtà una storia dolorosa perché era la fine di una relazione con annessi sangue, sudore e lacrime. Però con quel 'un-za-za, un-za-za' che accompagnava il testo. L'ho fatto apposta”. Chi l’avrebbe immaginato? Tutto questo spiega molto, soprattutto perché De Gregori affonda ancora di più il coltello: “Fiorellino! Monetina! Ho usato tutte le parole più zuccherose che mi venivano in mente. E, come previsto, quella canzone finì per provocarmi parecchi guai…”. Anni pesanti, anni di piombo, che portarono al famoso 'processo a De Gregori' quando alcuni 'mili-tonti' lo accusarono di cedimenti al sistema borghese a partire da brani come quello che parlavano d'amore invece che di lotta di classe (ieri sono arrivate anche le scuse di uno dei leader del '68, Mario Capanna: “Quei contestatori non sapevano quel che facevano”): “Ma per carità, stiamo ancora a parlare al processo a De Gregori, ci sono cose ben più serie”, dice lui da sempre quando gli chiedono qualcosa a riguardo. Per fortuna qualche tempo dopo questi fatti che lo portano ad allontanarsi dalle scene per un po', un periodo in cui ne approfitta per viaggiare, per cercare di godersi un po' la vita, ritorna a un certo punto la voglia e la gioia di far musica grazie a Ma come fanno i marinai, un brano che nasce durante un pranzo con Lucio Dalla e Ron. Siamo nel 1979. Il successo straordinario di cui gode genera qualche tempo dopo il tour negli stadi di Banana Republic, forse uno dei momenti più felici nella carriera di Francesco, per brevità chiamato Artista (come vorrebbe lui): "No, poeta no. Artista invece sì: uso questo termine senza alcun sussiego né presunzione ma solo per indicare il lavoro che faccio". Cercare rogne però significa non fermarsi mai e al tempo stesso cambiare sempre strada. Per esempio, significa anche spogliare il più possibile la propria musica da ogni orpello con un album nel 1994, che già dal titolo dice tutto, Bootleg: “Andai a Dublino a mixarlo proprio perché volevo un fonico che non capisse i testi. Trovai uno che non solo non li capiva ma a cui stavo anche chiaramente antipatico: per me era perfetto!”. E non solo: “Io ho fatto anche un album intitolato Left & Right che non è nemmeno mixato: sono solo i canali del banco presi e masterizzati senza dire 'alzo i livelli del basso' o cose simili, ed è uno dei miei preferiti”. E infatti è lì che appare una delle versioni più belle di una delle sue canzoni più amate dal pubblico, La donna cannone, che invece per altri è un po’ indigesta, con quell’arrangiamento così sfarzoso e quel crescendo che vuole proprio colpirti al cuore e indurti e far dondolare l’accendino (quando si poteva) per creare quell'effetto romantico che ovviamente lui invece tanto detestava. Questa dualità di De Gregori è non solo consapevole ma anche scientemente ricercata, come quando nel febbraio del 2019 fece una serie di concerti molto intimi e raccolti in un piccolissimo teatro della Garbatella, a Roma, e poi per compensazione due concerti, a giugno, alle Terme di Caracalla, addirittura con l’orchestra: “Dopo questa serie di piccolissimi concerti intitolata Off the Record per ritornare a dove tutto era incominciato, il Folkstudio, facendo canzoni che di solito non faccio mai – anche se mi sa che La donna cannone dovrò farla per forza anche se non tutte le sere – farò una tournée con un'orchestra d'archi di quaranta elementi e lì, al contrario, la scaletta sarà inevitabilmente piuttosto rigida. E in quel contesto La donna cannone la faremo con tutti i crismi”. E dunque alla nudità della musica deve corrispondere anche quella dell’artista, come mostra Vero dal vivo, l’interessantissimo film di Daniele Barraco. De Gregori non è sul palcoscenico ma dietro le quinte, impegnato in estenuanti tentativi di fumare sigarette senza numero in posti vietati, o quasi annoiato nel backstage di teatri ancora vuoti durante la tournée all'estero, con la moglie Chicca che, a un certo punto, durante la cena del dopo concerto, gli sottrae il bicchiere dalle mani per evitare che esageri. Non raggi laser, abbellimenti, finzioni ma l’esatto contrario: “Volevo presentarmi come un uccellino spaventato, col giaccone da pensionato, senza la barba, coi capelli tagliati. Ma non ho fatto nessuno sforzo: ho solo evitato di cambiarmi per girare il film. Oggi è diverso ma se crescevi al Folkstudio rimanevi come me o come Antonello (Venditti, ndr): due personaggi "ombrosetti" che non saranno mai come Dean Martin o Jerry Lewis. Ma non è che non mi piacerebbe essere così: non ne sono capace”. A proposito di musica che si sedimenta nei ricordi: ho sempre in mente un concerto estivo, in una piccola città di mare, durante un periodo forse 'difficile' di Francesco De Gregori. Torturava il pubblico di vacanzieri arrivato con le infradito, ansioso soltanto di cantare a squarciagola insieme a lui la colonna sonora del primo amore, cambiando completamente le sue canzoni più famose e amate, proprio come Dylan, e proponendo pezzi come Povero me che dice cose tipo “vedo passare persone e cani e pretoriani con la sirena e mi va l'anima in pena, mi viene voglia di menare le mani, mi viene voglia di cambiarmi il cognome, cammino da sempre sopra i pezzi di vetro” e anche “ho il cervello in manette, dico cose già dette e vedo cose già viste. I simpatici mi stanno antipatici, i comici mi rendono triste, mi fa paura il silenzio ma non sopporto il rumore”. Per poi proporre, nel finale, una deragliata versione di Buonanotte fiorellino che lascia il pubblico sconcertato, attonito e con l’amaro in bocca: "Certo, l'ho 'dylaniata' mille volte quella canzone: una volta c'è il violino, un'altra no, una volta è in tre quarti. In quattro quarti non l'ho ancora fatta ma prima o poi ci arriverò. C'è una parte del pubblico che è conservatore. Mi rendo conto di cosa vuol dire perché quando io sono "pubblico", anch'io sono conservatore. Se andassi a sentire un concerto di Dylan e per una volta mi facesse Like a Rolling Stone o Just Like a Woman o Blowin' In the Wind così come le ha fatte sui dischi esclamerei: "Ooooh!". Subito dopo, però, mi porrei il problema: è sincero mentre sta facendo questo o sta facendo un monumento a se stesso? E penso che la risposta sarebbe: 'Non è sincero fino in fondo'. Io a un artista sul palcoscenico ciò che chiedo è la sincerità, cioè che in quel momento mi restituisca quello che sta succedendo nella sua testa. La sua testa non può essere quella di quarant'anni prima. L'evoluzione di una canzone è peggiore? Pazienza, mi becco la peggiore". “Il mondo gira. Tutte le foto stanno cadendo dalla parete dove le ho messe ieri. Ho bisogna di una folla di persone ma non so affrontarla giorno per giorno. Anche se i miei problemi sono senza senso questo non li fa sparire”: ma i problemi non sono (quasi) mai senza senso, anzi il problema semmai è che ben pochi si fermano a riflettere su se stessi, cercano di guardarsi dentro. Soprattutto oggi e onostante una pandemia che avrebbe dovuto renderci migliori. Riescono a farlo a volte, non sempre, artisti, scrittori, musicisti ma dovremmo farlo tutti noi, ogni giorno. Queste parole comunque non sono di Francesco De Gregori ma di Neil Young da On the Beach. “Soffia il vento sulla punta del molo con il piede batto il tempo. Spreco il tempo, sta piovendo. La tempesta sul mio viso sta passando, si sta sciogliendo. E sono in onda” cantava invece De Gregori in una delle sue canzoni più belle, immaginifiche, delicate tratte da Calypsos e che si intitola proprio così, In onda. Oggi il tempo del disagio, se c’è stato, sembrerebbe storia lontana. Il De Gregori di adesso a volte accetta perfino di farsi fare una fotografia con i fan anche se continua a non piacergli per niente. E anche i rapporti con i media sono assai migliorati: ride, scherza, li tiene comunque a bada. Decide lui cosa fare e quando farla: “Sono andato all’intervista radiofonica ma mi sono ritrovato da solo al microfono. Adesso vivo qui fuori sulla spiaggia ma quei gabbiani sono ancora fuori portata” cantava sempre uno straniato Neil Young incapace di vincere i suoi demoni, le sue laceranti contraddizioni nel rapporto con se stesso e con il pubblico. “E sono in onda. Il mio nemico è in piedi ed io lo vedo. Ride. Fermo sulla sponda ed io lo guardo e gli sorrido mentre la mia nave affonda”. Il nemico che lì sembrerebbe vincere ormai è scappato, è vinto, è battuto: la nave non è affondata, ha vinto la sua battaglia. Probabilmente proprio grazie all'accettazione. A quel sorriso. Ma chi è allora davvero Francesco De Gregori? Alla fine non è così difficile da capire, è una storia di ieri, una storia forse complessa, intorcinata e perennemente in lotta con se stessa, con la sua leggenda. Ma anche piena di grazia e di bellezza: Francesco De Gregori è una nave pirata. Che attacca le sue e le nostre certezze.

Francesco De Gregori: i poeti, che brutte creature. Luca Valtorta su La Repubblica il 7 febbraio 2019. Integrale dell'intervista sul "Venerdì" in occasione dei concerti che il cantautore terrà dal 28 febbraio al 27 marzo in un piccolo teatro della Garbatella, a Roma. Musica, arte, i libri, gli amici, i significati delle canzoni..."Preparo il caffè", dice Francesco De Gregori. Ma questa ordinarietà non è affatto ordinaria perché la persona che compie un atto così familiare e gentile è la stessa che ha scritto canzoni che abbiamo amato, canzoni su cui abbiamo pianto, persino canzoni che abbiamo amato odiare. O, ancora, canzoni di una bellezza così innaturale, così fuori dal comune da infilarsi nella nostra testa come un vizio assurdo, avrebbe detto quel Cesare che rimane ad aspettare inutilmente nella pioggia "il suo amore ballerina" in Alice. Sono frasi perlopiù. Delle quali non ci si riesce a liberare. Alcune perché di una grazia quasi insopportabile, come "questo strano tipo di bambina/ vuole la compagnia" (da Piano bar), oppure quell'immagine sfocata e di abbacinante nostalgia per qualcosa che non si riesce ad afferrare dei gatti che "muoiono nel sole" (non lo sa Alice il perché: figurarsi noi) dove, a differenza di oggi, "il mondo si muove senza fretta". "Poeta", dice qualcuno. A lui non piacerebbe. Infatti in uno dei suoi pezzi più belli, Le storie di ieri, ecco un'altra frase che va in direzione ostinata e contraria, "i poeti/ che brutte creature", che Fabrizio De André incide nel suo Volume 8 prima che lo faccia De Gregori (poi spiegheremo perché) decidendo di cambiarla in "i poeti/ che strane creature". Ecco, capire questa frase forse vuol dire capire De Gregori, o almeno capirne qualcosa. Del resto, se artisti emergenti come Calcutta o provenienti dall'underground come gli Afterhours nei rispettivi docufilm, Tutti in piedi e We Are Afterhours, si affidano allo stesso regista-superstar, Giorgio Testi (ha lavorato con i Rolling Stones e Damon Albarn), che offre una visione introspettiva ma al tempo stesso grandiosa dell'artista, De Gregori fa l'esatto contrario. Vero dal vivo, il film di Daniele Barraco uscito poche settimane fa, lo mostra dietro al palcoscenico, mentre cerca di fumare infinite sigarette in posti vietati o quasi annoiato nel backstage di teatri durante la tournée all'estero, con la moglie Chicca che, a un certo punto, gli sottrae il bicchiere dalle mani per evitare che esageri: insomma momenti di puro cinema-verità, come si diceva un tempo. E ancora, mentre Calcutta e gli Afterhours, e altri artisti indie come Thegiornalisti, Cosmo o Lo Stato Sociale, suonano in luoghi enormi come l'Arena di Verona o il Forum di Milano, Francesco De Gregori sceglie il Teatro Ambra, un teatrino di 230 posti nell'ex borgata Garbatella, a Roma. I soffitti della casa sono molto alti e coperti di pannelli per insonorizzare la stanza ("altrimenti non riesco nemmeno a sentire cosa dicono in tv", spiega), c'è un pianoforte vicino alla finestra e, in un angolo, appese, diverse chitarre. Sulla parete, il quadro usato per la copertina del disco Terra di nessuno, Zwei Modelle, del pittore espressionista tedesco Karl Hubbuch, poi più in fondo un tavolo da lavoro con una grande libreria e pochi dischi scelti. Molti di Bob Dylan. Il caffè è arrivato. Bene.

Lo spettacolo

Lei farà venti date di fila in un piccolo teatro di Roma: da dove arriva questa idea?

"Era un'idea vaga che avevo in testa da tanto tempo quella di fare un concerto a casa mia, a Roma, ritornando a un'atmosfera molto intima, simile a quella dove tutto era incominciato, il Folkstudio. Un'idea così vaga e improduttiva che avevo quasi paura di parlarne con Salzano (Ferdinando, l'impresario che si occupa dei suoi concerti, ndr), che invece è riuscito a concretizzarla. La questione è che ho parecchia voglia di suonare e non posso farlo sempre nello stesso modo. Perché la capacità di un tour 'normale' ha un limite: quando ho fatto 30 o 40 date il tour deve per forza finire. E così ho pensato che forse era davvero arrivato il momento di fare una cosa così, che in qualche modo ti costringe a rivedere tutto".

Perché proprio il teatro della Garbatella? (Per i non romani, un riferimento nobile è presente in Caro diario di Nanni Moretti, quando sulle note di I'm Your Man di Leonard Cohen, mentre sta girando con la sua Vespa bianca, dice: 'Il quartiere di Roma che mi piace più di tutti è la Garbatella', ndr)

"Cercavo un posto molto piccolo, non più di 200 posti, e la produzione ha trovato questo, che è decisamente 'Off Broadway'".

Bruce Springsteen le ha fregato il titolo.

"In realtà sì, perché avevo pensato di usare come titolo Off Broadway da un bel po' di tempo, poi è arrivato quello di Springsteen e così… ho tenuto solo l'Off. Adesso si chiama Off the Record. A me piace fare progetti stravaganti, non perché sono particolarmente stravagante io, ma perché la routine altrimenti ti ammazza. E poi non la puoi proprio gestire, anche la gente lo capisce. Infatti i biglietti sono andati subito a ruba: evidentemente è una necessità che sente anche il pubblico".

Cosa succederà?

"Non lo so. Sono curioso anch'io. Di sicuro non sarà come lo spettacolo di Springsteen perché io non parlo, non più del solito almeno, però al contrario di Springsteen, che è obbligato a fare sempre la stessa scaletta per poter seguire la sua narrazione, io vorrei fare uno spettacolo molto vario. La mia intenzione sarebbe proprio quella di provare dei brani il pomeriggio ed eseguirli la sera stessa. Poi La donna cannone la devo suonare per forza… Anzi, no, qualche sera non la farò!".

Le canzoni

Quindi potremo sentire qualcosa di mai sentito?

"Tipo? Accetto suggerimenti".

Un pezzo come Bene per esempio, che lei non ha mai suonato: l'ha dovuta cantare Vasco Brondi nel suo disco live.

"Ah, davvero? Ecco perché mi ha mandato il suo album: è bravo Vasco Brondi, una volta ho suonato con lui e ha cantato Viva l'Italia. Lo ascolterò. Bene mi risulta difficile farla: non è che non ci abbia pensato, perché tanti sono affezionati a quel pezzo, ma in effetti non l'ho mai cantata dal vivo. Vediamo. Se trovo l'arrangiamento giusto… Perché è voce, chitarra e una tastiera, e così non regge. Così reggeva allora, con la voce che avevo allora, con quelle parole: adesso mi sembra una canzone molto adolescenziale. Dopo quarant'anni che fai canzoni certi pezzi magari ti suonano ancora, altri no, perché cantare vuol dire immedesimarsi".

Quali canzoni considera contemporanee?

"Per esempio Alice. O Generale. Altre, tra cui Bene, mi sembrano molto distanti. Un'altra è Pablo, ma voglio provare a farci la pace".

Posso capire che faccia fatica con Pablo: io ai tempi dell'invasione delle radio libere, quando volevo sintonizzarmi su Radio Popolare di Milano, cercavo questa canzone.

"La mandavano spesso?".

Almeno dieci volte al giorno.

"Sì, beh, perché passava per essere una canzone molto ideologica e in qualche modo lo era, forse… Ma non così tanto".

Era una canzone sul lavoro nero.

"Sì, sì, però col fatto che c'era di mezzo il Cile, Pablo Neruda… Io però non volevo realizzare un pezzo ideologico, tanto che avevo scritto 'il collega spagnolo' perché ho sempre amato sollevare dubbi: sapevo che la cosa gradita a un certo pubblico sarebbe stato 'il compagno spagnolo'. E io, invece…".

"Il fumo con lui lo dividevo"…

"Io non intendevo le canne, ma le sigarette…".

Credo che nessuno l'abbia mai intesa così.

"Ma non poteva che essere così: altrimenti sarebbe stato un anacronismo!".

Certo. Quello che viene comunemente chiamato "il disco della pecora", del '74 (perché in copertina ha una pecora, il titolo è però Francesco De Gregori, ndr), non solo è contemporaneo ma ha influenzato addirittura gli Skiantos, creatori del cosiddetto "rock demenziale" di ascendenza punk.

"Mi avranno preso in giro".

Per niente. Chiudono il loro primo 45 giri del 1978, Io sono un autonomo, proprio con la frase con cui inizia Bene: "Se ci trovi un po' di fiori in questa storia sono i tuoi!". Quindi lei ha ispirato anche il punk. Si può capire: è un'affermazione molto forte.

"Sì, è un modo molto sprezzante di dire 'se ti va bene così, peggio per te'. Non avrei mai pensato di poter essere considerato punk ma evidentemente lo siamo o lo siamo stati un po' tutti, in qualche momento della nostra vita".

A lei però la sdolcinatura non piace: anche canzoni come Buonanotte fiorellino forse non sono quello che sembrano.

"Io lì infatti cercavo proprio di fare una caricatura della sdolcinatezza ma raccontando una storia che invece era dolorosa: la fine di una relazione per cui in realtà sotto c'erano sangue, sudore e lacrime, però con quel 'un-za-za, un-za-za' che accompagnava il testo. L'ho fatto apposta".

E c'erano parole come "monetina"…

""Monetina"! Beh, "fiorellino"… Comunque quella canzone mi portò parecchi guai".

Davvero?

"Quell'anno lì, il 1975, venni accusato di essere appunto sdolcinato, piccolo borghese, perché bisognava scrivere le canzoni che parlavano al 'movimento'. Io invece avevo fatto questa storiella d'amore. Poi però nello stesso disco c'era, appunto, anche Pablo, per cui molti non ci capivano niente e si chiedevano: 'Ma da che parte sta questo qui?'".

Quel disco però, da qualunque parte lo prendi, è un capolavoro: non ci si stanca mai di ascoltarlo.

"Fu un disco molto fortunato. Se lo risento ora… devo ammettere che ci sono delle belle canzoni".

Come Le storie di ieri, in cui con due pennellate riesce a raccontare tutta la drammaticità della storia: "La mascella al cortile parlava/ troppi morti lo hanno tradito/ tutta gente che aveva capito".

"Quel pezzo doveva finire nel disco precedente, quello della pecora, ma la casa discografica cominciò a fare storie. Erano terrorizzati dall'idea che potesse scatenare delle reazioni, non so di che tipo. Poi la misi su Rimmel perché nel frattempo l'avevo fatta sentire a De André, che se ne era innamorato e a un certo punto mi aveva detto: "Allora la faccio io". E la incise su Volume 8".

A proposito di censura, c'è quel verso di Niente da capire che dice: "Giovanna faceva dei giochetti da impazzire". Fu la casa discografica che la spinse a cambiarlo?

"Sì, non trovavo e non trovo che fosse una cosa greve, ma la Rca mi disse che non l'avrebbero mai passata alla radio, così l'ho cambiata, ma dal vivo l'ho sempre cantata nella versione originale. Erano anni assurdi: ai tempi di Bernabei non si poteva usare la parola 'membro' per designare i membri della camera!".

Al Venerdì qualcuno mi ha pregato di chiederle quali fossero questi giochetti?

"Vabbè, ma che giochetti vuole che siano… i soliti: gli dica che è un maniaco (ride, ndr)!".

Anche se adesso vuole suonare per poche persone, insieme a Lucio Dalla, con il tour Banana Republic del 1979, lei ha praticamente aperto la stagione dei concerti negli stadi. Fu una cosa molto gioiosa.

"Mah, non so se siamo stati noi perché può darsi che Edoardo Bennato l'abbia fatto prima, non ricordo bene e non è che abbia tutto questo interesse ad avere questo primato. Il fatto importante è che sì, fu una cosa molto gioiosa che solo un anno prima sarebbe stata impossibile viste tutte le contestazioni che avevano bloccato non solo me ma qualsiasi tipo di concerto: Santana, Lou Reed… A Santana, al Vigorelli, diedero fuoco al palco! Nessuno straniero, per almeno due anni, mise più piede in Italia".

Di Lou Reed, che tra l'altro era ebreo, si diceva fosse nazista, probabilmente perché portava calzoni e giubbotto di pelle. Il giornale Linea di Pino Rauti salutò l'arrivo dei Clash in Italia con "benvenuti ai camerati Clash".

"La destra è sempre stata orfana di legittimazione culturale presso i giovani, soprattutto in quegli anni lì, per cui non gli pareva vero poter dire che Lucio Battisti era di destra, che è un'altra favola assoluta".

"Milioni di braccia tese"…

"Maddai! Gli avevano fatto una foto mentre alzava il braccio per dire alla band 'stop!' e poi pubblicarono l'immagine mettendo come prova quella frase, che ovviamente non c'entrava niente".

Vi eravate conosciuti, vero?

"Sì, e fu davvero carino. Mi disse: 'Tu sai cantare!'. Mi colpì molto perché era qualcosa che allora non mi diceva nessuno, proprio nessuno. Al massimo mi dicevano che scrivevo dei bei testi. E detto da Battisti, che sapevo cantare… Del resto che fossi un cantante non lo sospettavo neanch'io, per cui mi fece estremamente piacere…".

Questa nuova dimensione live le permetterà di tornare a quei momenti intimi che si vivevano al famoso Folkstudio, il locale di Roma dove lei ha cominciato, introdotto da suo fratello, Luigi Grechi.

"Spero di sì ma non è una questione di nostalgia. Quel modo di fare musica sento che mi sta sempre addosso, soprattutto in un Paese come l'Italia che ha dei circuiti abbastanza rigidi, specie per i giovani. Parliamoci chiaro: io me lo posso permettere perché non devo diventare ricco con questi concerti alla Garbatella, se no mi dovrei sparare… Ma credo che i giovani, che esistono veramente al di là della categoria sociologica, se si riscoprisse questa dimensione del live potrebbero essere facilitati nel trovare possibilità per esibirsi".

I giovani musicisti e il nuovo disco.

A proposito di giovani, alcuni di questi artisti indie come Thegiornalisti o Calcutta stanno facendo esattamente il contrario di quello che fa lei: Calcutta, che suonava in minuscoli locali del Pigneto a Roma, lo scorso agosto ha fatto un megaconcerto all'Arena di Verona. Tredicimila persone, tutto esaurito. Cosmo ha appena suonato al Forum di Milano.

"Ma è giusto così: è normale che i giovani abbiano fame. Non è che ci sia una ricetta. Io dopo questa serie di piccolissimi concerti quest'estate farò una tournée con un'orchestra d'archi di quaranta elementi e lì, al contrario, la scaletta sarà inevitabilmente piuttosto rigida. E in quel contesto La donna cannone la faremo con tutti i crismi. Non è che teorizzi che bisogna realizzare le cose in piccolo: se vedo Shine a Light dei Rolling Stones vorrei farlo io, il problema è che bisogna vedere se Scorsese è disponibile (ride, ndr)".

A proposito del docufilm Vero dal vivo, a un certo punto lei è negli studi Real World. Come mai?

"Siamo andati a Bath, negli studi di Peter Gabriel, per incidere il disco di Anema e core, il duetto con mia moglie Chicca".

E magari anche dei pezzi del prossimo disco?

"No, dovrei intanto scriverli e vedere come suonano, cosa sono e che veste dargli".

Ci sta lavorando?

"No".

Ha qualche canzone, qualche idea?

"No. Glielo direi, non sarebbe un segreto. Non ho niente".

In ogni caso il disco Amore e furto, con le canzoni di Bob Dylan rielaborate con i suoi testi, è a tutti gli effetti un suo disco.

"Io penso di sì. Io l'ho vissuto come un disco mio, e anzi forse mi sono divertito di più che non a fare un disco veramente mio. L'idea di cantare sulle basi di Dylan… Avrà sentito che le basi sono il più possibile uguali alle originali mentre il testo, pur non essendo letterale, in qualche modo lo è!".

Quando Dylan è venuto a Roma, lo scorso anno, è andato a vederlo?

"No, perché c'era la Roma che giocava (ride, ndr). Il motivo vero è che l'avevo sentito due mesi prima in America e non mi era piaciuto tanto: l'ho trovato bravissimo ma ripetitivo, stanco e quindi un po' noioso. Ne avrò visti almeno trenta di concerti suoi e adesso fa sempre lo stesso spettacolo. Mia moglie, che invece ci è andata, mi ha detto che ha suonato lo stesso set che due mesi prima avevamo appunto ascoltato a Long Island".

Ha mai pensato di fare al contrario, cioè di tradurre le sue canzoni in inglese? Battisti, ad esempio, ci ha provato.

"Tantissimi anni fa, quando stavo ancora alla Rca, venni sollecitato a fare questa cosa e addirittura il capo dell'etichetta, Ennio Melis, un uomo molto illuminato, chiamò per questa operazione, che doveva essere mia e di Lucio insieme, Barry Beckett, il produttore di Dylan nel periodo gospel. Questo arrivò pure a Roma, andammo a pranzo insieme, gli demmo un po' di canzoni nostre... Dopodiché non se ne seppe più nulla".

È fuggito.

"Ma no, credo che realisticamente sia un'operazione impossibile da fare. Per vari motivi: gli americani sono assolutamente protezionisti, quindi non credo funzioni l'idea di uno che non parla inglese perfettamente e va lì a cantargli delle canzoni in inglese con la pronuncia sbagliata, oltretutto riproponendo uno stile musicale che è figlio della loro musica… Inevitabilmente il confronto non regge. Un italiano che si mette a fare il blues o il rock, lì capiscono subito che… Gli unici che hanno perdonato, in questo senso, sono stati gli inglesi: li hanno amati, ma forse solo perché hanno la lingua in comune. Sarebbe più facile pensare a una trasposizione del genere in spagnolo. E poi chi gliele traduce, le canzoni, agli americani? Alessandro Carrera forse (iniziò come cantautore al Folkstudio, oggi è uno studioso e scrittore, ndr)? L'ho conosciuto. Oggi è un filosofo, sta a Houston, insegna letteratura italiana ed estetica mi sembra. Diciamo che proprio non ci penso. Quello che faccio mi sembra già troppo. Si metterà a ridere, visto che sono anni che non faccio uscire niente di nuovo".

Però è vero che non è mai fermo.

"Sì, perché mi diverte molto suonare. Un po' forse è un alibi per giustificare il fatto che non scrivo".foto di Daniele Barraco.

L'amicizia con Fabrizio De André.

Ci sono artisti che, al contrario, hanno paura del palcoscenico come De André.

"Sì, Fabrizio, almeno all'inizio, ce l'aveva. Forse riuscì a liberarsene alla Bussola, durante il suo famoso 'primo concerto'. Suonò prima in un locale sconosciuto a Genova insieme ai suoi amici, poi andò lì. Perlomeno così lui mi raccontava, nel periodo in cui suonava insieme a Tenco, a Paolo Villaggio, a Gino Paoli, il clan dei genovesi insomma. Lo fece alla Bussola perché era amico di Bernardini (Sergio, il fondatore, ndr). Riuscì a vincere la paura, ma poi lo massacrarono".

Perché?

"Perché era un locale considerato 'per ricchi' e il fatto che De André, l'idolo di tutti noi 'alternativi', andasse a suonare nel locale dove si pagavano un sacco di soldi per entrare non andava bene. Comunque devo dire che io invece no, paura del palco non ce l'ho mai avuta".

Come vi siete conosciuti?

"Al Folkstudio, dove lo portò una sera mio fratello Luigi, e ci trovammo subito simpatici. Tanto che, qualche tempo dopo, mi invitò da lui in Sardegna, a Portobello di Gallura, per provare a fare delle cose insieme: "Belìn, lui diceva sempre belìn, perché non vieni da me? Devo scrivere e non c'ho idee!". E io: "Vengo di corsa!"".

Lei andò a lavorare con lui in Sardegna per Volume 8: è vero che l'allora moglie di De André le fece le carte, da cui la frase di Rimmel: "Chi mi ha fatto le carte/ mi ha chiamato vincente/ ma uno zingaro è un trucco/ e un futuro invadente/ fossi stato un po' più giovane/ l'avrei distrutto con la fantasia"?

"Sì, mentre stavamo lavorando un paio di volte venne la "Puny", che era una signora molto bella, una volta anche con il figlio Cristiano, e mi fece le carte. Io laico ero e laico sono, però la frase nella canzone ci stava bene e così l'ho messa".

Che periodo era?

"Era inverno, non c'era nessuno e faceva un freddo della Madonna. Mi invitò, secondo me, perché era curioso: gli piaceva vedere come scrivevano gli altri. E poi, stranamente, era anche un po' insicuro. Di me gli interessava il versante angloamericano che lui non conosceva bene perché si era formato sugli chansonnier francesi. Con me, figuriamoci, si ubriacò di Dylan".

Quanto durò quella visita?

"Rimasi quasi un mese a casa sua, facemmo molte canzoni come La cattiva strada, Oceano, Dolce luna, Canzone per l'estate, Amico fragile, scritta solo da lui, e Le storie di ieri che avevo composto io e di cui lui si era innamorato. Era un pezzo che doveva già finire nel mio disco precedente ma la casa discografica non voleva assolutamente che la mettessi ("rischi di passare dei guai") dal momento che parlava di Mussolini. Dicevano: "Tanto non la manderanno mai in radio". Fabrizio allora disse "la faccio io!" e la pubblicò nel disco che venne fuori da quel nostro incontro, il suo Volume 8. Quando la pubblicai anch'io su Rimmel si incazzò pure: "Belìn, me lo potevi dire che la facevi, così non la mettevo io!". "Ma io non lo sapevo che l'avrei pubblicata!". Venne infatti sdoganata dalla Rca proprio perché era uscita sul suo album".

Che ricordi ha di quell'incontro?

"Fu un periodo magico. Lì infatti nacquero anche diverse altre canzoni di Rimmel, tra cui Buonanotte fiorellino. Un giorno gliela faccio ascoltare e Fabrizio fa: 'Belìn, bello questo: è un pezzo che farà soldi!' e ride. La realtà è che noi stavamo lì per lavorare ma non vedevamo l'ora di finire per andarci a divertire, quindi lavorammo intensamente anche se - da parte sua - con una certa fatica, mentre per me era una cosa giocosa perché, essendo più giovane, ero già felice solo di essere là con lui, a scrivere e a fare musica. Fabrizio invece viveva sempre la fase della scrittura con molta ansia: 'È bella questa cosa, che ne dici? È bella?'. 'È bellissima!'. 'Ah, belìn, non lo so!'. Andava confortato in questo senso, anche se, naturalmente, scriveva benissimo".

Come si lavorava con uno come De André?

"Avevamo un metodo di lavoro strano: non è che stavamo lì a parlare, a discutere dei testi delle canzoni, le scrivevamo e basta. Qualche volta non ci incontravamo nemmeno perché, anche se io mi svegliavo tardi, lui aveva quasi ribaltato il giorno con la notte. Molti si chiedono perché non ci sono pezzi di quel periodo cantati insieme ma l'intento non è mai stato quello: l'idea era di comporre testi e fare delle musiche. E così fu".

Da Banana Republic ad Anema e core.

Ho rivisto il film di Banana Republic. Anche in quello lei è stato un innovatore: un'ora e mezza di immagini grezze, con lei e Lucio Dalla in macchina che vi scambiate la bottiglia.

"Non lo rivedo da un sacco di tempo. Però, sì, era un vero "instant movie". Il produttore era Alfredo Bini, produttore anche dei film di Pier Paolo Pasolini. Era un signore, un vero gentleman, che arrivava sempre con delle bottiglie di champagne. Se lo vedevi sembrava una specie di Dino Risi, in quanto a eleganza, un'eleganza vera, sostanziale. Però il problema era che non aveva un soldo! Ogni tanto succedevano cose grottesche, tipo che giravano senza pellicola… Poi, il grande sforzo economico, furono le riprese con l'elicottero. Noi non ci credevamo molto che sarebbe arrivato questo elicottero e invece una sera arrivò. C'era il regista, Ottavio Fabbri, che penzolava fuori dall'abitacolo, tenuto a braccia, con la cinepresa in mano. Però queste riprese non sono mai venute, o perché non è stato capace lui, oppure perché era uno di quei giorni che la pellicola non c'era. Quindi abbiamo avuto l'elicottero ma non le riprese dall'elicottero (ride, ndr). Per il resto veniva girato così, in maniera casuale. E si vede".

Però, anche per questo, è meraviglioso. Non si fanno più 'prodotti' avventurosi: oggi è tutto così calcolato, "professionale". "Eravamo così piccoli Lucio e io… nemmeno giovani, proprio piccoli. Io soprattutto. Lui aveva 33 anni, io 28… Almeno dal mio osservatorio attuale mi sembra davvero che fossimo dei bimbi".

Ritornando alla musica, adesso nei concerti, nel gran finale, interpreta con sua moglie Chicca un classico della musica napoletana, Anema e core. Come mai questo amore per Napoli?

"Ma perché è una città bellissima, una città molto grande, molto diversa da Roma. Quando ci vado a lavorare mi trovo sempre bene, quando passeggio per Napoli trovo che la gente sia adorabile. Manca solo che le dica che la cucina è buona e ho riassunto tutte la banalità su Napoli (ride, ndr). Napoli è una città coltissima, da sempre ricettiva verso tutto ciò che è arte e che alla musica ha dato tantissimo. Facendo questa canzone con Chicca mi sono anche avvicinato al mistero della canzone napoletana perché un conto è sentirla e un conto è mettersi a cantarla e analizzarla: mi sono reso conto che c'è una bellezza abbastanza indecifrabile nella musica napoletana. Puoi anche riuscire a cantarla decentemente ma non riesci a capire tutto, se non sei napoletano. Ragionando sulla traduzione dei pezzi di Dylan mi è venuto in mente che non è un caso che nessuno si sia mai permesso di tradurre in italiano una canzone napoletana. Prova a tradurre "tenímmoce accussí: anema e core", "teniamoci così: anima e cuore": precipiti immediatamente all'inferno! E quindi? Qual è questo segreto? Ecco, questa cosa ti attira con la forza che ha ogni cosa indefinibile".

I libri e i dischi.

Lei ha letto Elena Ferrante?

"No".

Non ha visto neanche la fiction tv?

"No, ho visto solo dei trailer. Vale la pena?".

Beh sì, è fatta bene. Tra l'altro vederla prima di leggere il libro aiuta a tenere a mente i numerosi personaggi. Se uno non riesce a leggere il libro tutto d'un fiato rischia di far confusione.

"Ormai è talmente ampia la proposta che non si riesce a seguire neanche la minima parte di quello che esce. Ho sentito una trasmissione, alla radio, in cui un libraio diceva che lo scorso anno sono usciti 72.000 titoli! In Italia sappiamo tutti che non siamo grandi lettori: chi compra, semplicemente compra, un libro all'anno è considerato un lettore e chi invece legge un libro al mese è un 'grande lettore': allora come fai combaciare il numero delle uscite con il numero dei lettori?".

Con la musica è ancora peggio: la quantità di uscite è ormai impossibile da quantificare. Lei ascolta qualcosa di nuovo?

"Io ascolto la radio, soprattutto mentre viaggio. Lì anche le cose brutte sembrano più belle, forse perché non le hai scelte tu. Se deve essere un atto volontario preferisco fare la fatica di mettere un disco nel lettore".

Ha un bellissimo giradischi: ascolta molto i dischi in vinile?

"Ascolto quello che ritengo valga la pena, anche perché per ascoltare un disco in vinile devi alzarti, prenderlo, poggiare la puntina, insomma è un atto molto consapevole".

Bob Dylan?

"Beh, certo".

Lei non cita mai Neil Young: non lo ama?

"Diciamo che non mi ha "rovinato" come Dylan… Però, certo, è comunque un musicista serio. Adesso è fissato con la sua battaglia contro la musica digitale, no?".

Sì, contro quella di scarsa qualità, infatti ha creato una app in cui, a pagamento, si può ascoltare l'intera sua opera. Per chi ha un grande repertorio come lei potrebbe essere una buona idea.

"Interessante. Avevo comprato anche una sua biografia, solo che per le prime quindici pagine parlava solo di trenini elettrici e allora ho lasciato perdere. Speriamo che faccia questo megaconcerto con Dylan a Hyde Park (il 12 luglio, ndr)…".

Sempre parlando di libri, invece, ha letto qualcosa di interessante quest'anno?

"Io amo rileggere. Per cui in questo periodo sto leggendo Le benevole".

Jonathan Littell: ai tempi dell'uscita provocò grande scandalo per la crudezza delle descrizioni degli eccidi nazisti.

"Sì, esatto. Però ho deciso di rileggerlo perché ho letto M. Il figlio del secolo di Scurati e, anche se sono due libri molto diversi, un po' pescano nella stessa cosa, secondo me".

Tornando alla musica, mi ha sempre stupito come negli anni Settanta uscissero una quantità incredibile di dischi di qualità più che eccellente. Come facevate a essere così creativi a quell'epoca? Uno, due album all'anno, molti dei quali rimasti nella storia.

"È facile dirle che quando sei giovane hai più spinta creativa, meno freni, meno autocritica, meno paura di ripeterti perché hai scritto poche cose… E poi sentivamo di avere un pubblico consonante con noi, da molti punti di vista. Per un fatto generazionale. Di scelte. Di visione politica. Di visione del mondo. Era come se sapessimo che c'era un pubblico che aspettava i nostri dischi. L'industria discografica era molto meno incline a fare uscire tanti album tutti insieme, come invece accade adesso. Eravamo pochi. I cantautori erano stati identificati, nel bene e nel male, come portatori di novità, di sostanza. Poi è finita. I cantautori sono diventati una parte del mondo musicale di oggi, che sopravvive nonostante la cattiva stampa. È da sempre che sento dire cose come 'la morte dei cantautori'!".

"Venerato maestro" o "solito stronzo"?

Veramente oggi non si fa altro che parlare del "ritorno dei cantautori". I giovani o fanno trap o tornano a quel tipo di poetica. A proposito di giovani e adulti, Arbasino scriveva che nella carriera di un artista di solito ci sono tre tappe: "Giovane promessa", "solito stronzo" e infine "venerato maestro". Lei oggi è sicuramente un "venerato maestro".

"Preferirei essere il "solito stronzo"".

Volevo però chiederle se c'è stato un periodo di crisi in cui è stato considerato in questo modo.

"Mah, non mi sembra di aver avuto periodi di particolare crisi. Comunque di sicuro non voglio essere considerato un "venerato maestro". Mi viene da fare gli scongiuri. Dirò una cosa che forse è autolesionista: vengono perdonate troppe cose quando uno è considerato un "venerato maestro" ma questo è sbagliato e pericoloso e rischia di farti dormire sugli allori. A volte ho la tentazione di dire: "Ma tanto ormai sono inattaccabile". Questa è una cosa terribile, non dovrebbe mai essere così per chi fa questo mestiere. Comunque, lo ripeto, non mi sento un "venerato maestro". E forse per questo ogni tanto vado cercando rogna: faccio operazioni strane come il tour alla Garbatella, il concerto con gli archi o cantare con Fedez. Se c'è una cosa che è fastidiosa, per me, è l'idea di venire blandito e coccolato perché si pensa "questo si è comportato bene fino a qua"".

Molti quest'ultima collaborazione con Fedez non gliela perdonano.

"Ma perché? Io trovo che abbia talento. Quando ha cantato Viva l'Italia l'ha cantata bene, ci ha aggiunto una strofa ed è bella!".

È vero: cerca rogne.

"L'ho sempre fatto: basta pensare a un pezzo come Alice, del '72, che era una canzone irregolare per quei tempi, molto strana, sghemba, o Buonanotte fiorellino, in quegli anni, all'interno di quel disco, quando per seguire l'onda dovevi scrivere Musica ribelle. Io lo chiamo 'cercare rogna' ma è semplicemente seguire l'istinto, non adeguarsi a un protocollo che ti dice quello che devi essere, quello che bisogna scrivere, quello che bisogna fare. Ecco, io non l'ho mai fatto, me ne sono sempre fregato e vorrei continuare così".

Infatti il film documentario Vero dal vivo rispetta pienamente queste premesse: non concede niente ai fan o a chi vorrebbe farle il santino.

"Esatto. Per l'occasione mi sono tolto il cappello, mi sono tagliato la barba, mi sono presentato in studio con il maglione da pensionato. Sembravo un uccellino spaventato. Non ho fatto nessuno sforzo per interpretarmi, ho solo evitato di cambiarmi apposta per fare il film".

Una vera demistificazione dell'icona della rockstar: oggi X Factor e simili talent sono tutti uno sfavillio di luci.

"Ma per me si può imparare molto facendo quelle cose là e poi, se sei bravo, sai maneggiare tutto quanto. Io non ho mai imparato a usare quei mezzi ma non lo considero un merito".

Quindi tra uno che imparava andando al Folkstudio e uno che va sul palco di X Factor…

"Ecco, se imparavi al Folkstudio, poi rimanevi come me o come Antonello (Venditti, ndr)".

Cioè?

"Personaggi 'ombrosetti' che non saranno mai bravi come Dean Martin o Jerry Lewis. Ho visto un filmato di loro due, poco tempo fa: dieci minuti di grandissimo teatro, in cui ti fanno morire dal ridere. Poi, a un certo punto, si mettono a ballare e sono di una perfezione assoluta. Ecco, io invece di ballare non sono capace".

Si accende una sigaretta. L'ennesima, naturalmente senza filtro. Titoli di coda di un film che vorresti non finisse. Saluti. Ed il futuro intanto passa e non perdona e gira come un ladro per le strade di Roma.

Versione integrale dell'intervista pubblicata sul Venerdì dell'8 febbraio 2019

Francesco De Gregori: "La storia siete voi. Viva l'Italia che non ha paura". Luca Valtorta su La Repubblica il 26 settembre 2020. Ovvero quella parte del nostro Paese che non rinuncia a pensare: l'importanza di conoscere il nostro passato, il rischio fake news e negazionismo, il valore della cultura, della musica e della memoria. Perché: "La canzone è a tutti gli effetti letteratura ma c'è un mondo che continua a non riconoscerla come tale". Il vecchio ascensore, i libri sul tavolino, il pianoforte, i quadri, i dischi e il caffè. E quelle vecchie sigarette senza filtro, che solo lui fuma ancora. Forti e confortevoli, di cui miracolosamente la voce non reca traccia. Intanto, seduto sulla poltrona Francesco De Gregori, come sempre magrissimo e vestito di blu ma con scarpe di tela bianche (del resto è il Principe) sfoglia il libro che raccoglie i testi con relativa storia di tutte le sue canzoni: «Che ne pensi?», chiede. Si tratta di un lavoro immenso, oltre 700 pagine che cercano di decrittare il De Gregori-pensiero, il che non è cosa facile, soprattutto perché da lui sempre rifuggita: «Però questa volta ho partecipato in prima persona andando a controllare e a correggere i miei testi, a volte facendomi venire dubbi e andando a riascoltare i dischi originali. Sai, anche solo una parola sbagliata mi darebbe parecchio fastidio. Però mi sembra si presenti bene, sobrio, senza foto, senza concedere spazio alla spettacolarizzazione. L’interpretazione delle canzoni non l’ho letta, ma Enrico Deregibus, l’autore, ha fatto un grande lavoro di ricerca di tipo storico negli archivi dei giornali dei tempi e quindi credo possa essere utile anche a me».

Volevo focalizzarmi proprio su questo tema. Dal momento che questo libro storicizza il tuo percorso artistico attraverso le tue canzoni e visto che sulla storia hai scritto un brano bellissimo e so che è una tua passione. L’hai anche studiata all’università, giusto?

«Sì, dovevo laurearmi con Renzo De Felice ma poi non se ne fece niente, la musica mi ha preso la mano. E pensa che all’incirca vent’anni fa ho pagato di nuovo tutte le tasse arretrate perché mi era tornata la voglia di laurearmi, ma poi non ho scritto nemmeno un pezzo di tesi».

Però la passione per la storia è rimasta.

«Soprattutto per quella del fascismo su cui continuo a leggere un po’ di tutto».

Infatti se andiamo a prendere i testi del libro, già la seconda canzone di Alice non lo sa, il tuo primo album che risale al 1973, è un pezzo sulla storia. Si intitola 1940 e parla dell’entrata in guerra dell’Italia. Si tratta di un ricordo reale di tua madre?

«Esatto. Volevo sapere come era cominciata quella che successivamente si rivelò una catastrofe ma che, guardando i filmati d’epoca, sembrava aver segnato un momento di gioia collettiva. Facevano vedere piazza Venezia strapiena di gente festante. Allora chiesi a mia madre, che nel '40 aveva ventisei anni, e lei mi disse che non era andata esattamente così: tra la gente in realtà c’era anche molta preoccupazione e paura e a pochi poi piaceva quell’alleanza con i tedeschi...».

Il senso della canzone credo sia far vedere come si entra in una guerra senza rendersene conto. Un insegnamento sempre attuale, visto che siamo circondati da conflitti sia reali, che economici, come quelli tra Stati Uniti, Cina e Russia.

«Mah, non è che volessi insegnare niente a nessuno, una canzone non serve a questo. Resta il fatto che l’Italia entrò in guerra quando sembrava già stravinta dalla Germania pensando che sarebbe durata pochissimo, e fece subito la sua bella figura andando ad attaccare una Francia ormai inerme che peraltro venne subito a bombardare la Liguria. Si sarebbe dovuto capire immediatamente che le cose non erano come ci avevano raccontato, che la guerra sarebbe durata a lungo e sarebbe stata difficile e dolorosa per la popolazione».

1974: nel famoso disco con la pecora in copertina c’è un altro pezzo importante, Cercando un altro Egitto.

«È stata una delle mie prime canzoni “sconclusionate”, con una serie di tagli e di immagini abbastanza oscure, tipo le famose “gelaterie di lamponi” che alludevano ai forni di Auschwitz. Ma ero convinto che ci si poteva prendere il lusso, anche in una canzone, di usare un linguaggio non immediatamente comprensibile. Da qui la critica un po’ sgangherata di “ermetismo” che mi venne rivolta. In realtà mi veniva naturale scrivere così, fare quello che in letteratura o nel cinema era normale. Uno dei film che da ragazzo mi impressionò di più fu 8 ½ proprio perché lì c’era questa frantumazione del discorso logico, della grammatica del racconto, un racconto che diventa una serie di storie accavallate, oniriche, apparentemente slegate. Alcune delle quali sfuggenti anche se l’hai visto dieci volte».

Però alla fine un senso viene fuori...

«Usavo il linguaggio: un “ufficiale uncinato” mi sembrava rendesse meglio l’idea di un “ufficiale nazista”. Questo linguaggio che definisco “frantumato” o “frantumabile” è poi entrato anche nelle canzoni di altri autori. Anzi direi che esisteva da prima. Pensa a uno come Mogol, che scriveva tra l’altro per un pubblico più generalista. Cose come: “Non piangere salame dai capelli verde rame” o “continuai a camminare lasciandoti attrice di ieri”».

Passa ancora solo un anno, è il 1975, ed ecco che anche in un disco amatissimo dal pubblico come Rimmel salta fuori Le storie di ieri in cui citi Salò, dicendo che "Mussolini ha scritto anche poesie" e che "a giocare col nero perdi sempre". Oggi si gioca col nero usando i social, le 'fake news' e spesso si vince.

«La soluzione del problema alla fine è sempre nell’intelligenza e nella buona fede delle persone. Un tempo i discorsi da bar restavano al bar, oggi invece vengono amplificati e spesso falsificati: è un fenomeno che è sempre esistito. Anche le fake news fanno da sempre parte della propaganda: la donazione di Costantino, i Protocolli dei savi di Sion, la “disinformazia”… C’è chi ci crede, ma cosa puoi farci? Ci sono quelli che dicono che la terra è piatta? Lasciamo che ci camminino sopra fino a che cascano di sotto!».

Questo ci porta esattamente al tuo testo cardine su questo tema, La storia appunto, una delle tue canzoni più famose, dall’album Scacchi e tarocchi del 1985, dove dici cose molto ottimiste come "è la gente che fa la storia/ quando si tratta di scegliere e di andare/ te la ritrovi tutta con gli occhi aperti/ che sanno benissimo cosa fare".

«Beh, certo, queste parole non trovano molto riscontro nella storia del '900, non c’è dubbio. Ma una canzone è una canzone, non un manuale. E comunque ci sono stati, anche nella storia recente, momenti in cui l’ottimismo di questo brano sembra giustificabile. Ma esprime una speranza forse, più che descrivere una realtà di fatto».

Insomma, la storia siamo noi oppure no?

«Nì. Il discorso si può allargare a dismisura: dovremmo parlare anche della problematicità del concetto di democrazia, di quanto sia storicamente cambiato, di quanto abbia potuto portare a esiti indesiderabili come Hitler che prende il potere per vie istituzionali... La verità sulla storia, su quello che abbiamo voluto chiamare progresso o, in maniera più laica, sviluppo, è qualcosa che non si può mettere in una canzone. La storia è comunque sempre in crisi con se stessa. È qualcosa che va sottoposto a continue revisioni. Non ho niente in contrario alla parola “revisionista”, spesso scioccamente abbinata alla parola “negazionista”. La storia non è una scienza ma semplicemente il tentativo di raccontare il passato attraverso l’acquisizione di una serie di dati in continuo movimento, di fonti in continua evoluzione. Cambiano i metodi di ricerca, cambiano i ricercatori, gli approcci, si scoprono territori inesplorati. Sarebbe impossibile oggi scrivere un libro sulla Rivoluzione francese come si sarebbe fatto cent’anni fa. Per tornare alla canzone direi che, se c’è quello che una volta si sarebbe chiamato “il messaggio”, è semplicemente che tutti gli individui sono coinvolti nei processi storici, anche quando non lo sanno o non lo vogliono. Ma vedi come diventa più brutta una canzone quando te la spiego?».

Più che spiegazione direi che è una riflessione sul brano: non c’è dentro un po’ di ottimismo della volontà?

«Magari sì, anche se è temperato da alcune espressioni abbastanza crude come la storia che “entra dentro le stanze e le brucia”. La storia non è un film con l’happy ending, non finisce sempre bene».

Secondo me è più facile condividere l’immagine che la chiude: "Siamo noi questo piatto di grano".

«Difficile parlare di un singolo verso: certo l’umanità mi sembra in continua rigenerazione di se stessa, magari non sempre virtuosa: semi che poi danno dei frutti in generazioni successive che magari cadono lontano dall’albero e contraddicono ciò che è stato fatto negli anni precedenti. Rivoluzioni, reazioni, riflussi. Cerchiamo delle verità nei libri ma non è semplice: c’è per esempio una storiografia “di destra” e una “di sinistra” spesso contrapposte l’una all’altra. Orientarsi è difficile, anche se la voglia di farlo per chi ha il pallino della storia è sempre molto forte. Forse nella canzone c’è anche un po’ di questo smarrimento che poi però si risolve nell’immagine finale, del “piatto di grano”, che allude alla rigenerazione di quello che siamo: delle nostre idee, delle nostre capacità critiche, anche dei nostri corpi…».

Forse allora sarebbe più giusto dire "la storia siete voi", pensando al germinare delle nuove generazioni. Parlo per me: credo non sia facile essere ottimisti oggi.

«Non sono un pessimista. Sono solo un po’ più scettico di una volta. Anche se continuo a osservare tutti gli altri con rispetto e anche con affetto, anche quelli con cui non vado d’accordo, anche quelli che vanno alle manifestazioni contro le mascherine, tanto per dire. Non invito la gente a cena in base alle sue idee politiche: è l’intelligenza che importa, non l’appartenenza. Sono solo un po’ più scettico sul futuro prossimo e non passo il tempo a pensare né al tempo che fugge né a quello che verrà. E scopro a volte di avere poca curiosità nei confronti degli altri, a differenza di un tempo».

Quali sono le persone che di solito ti incuriosiscono?

«Quelli che si sforzano di ragionare, che leggono qualche libro o guardano qualche film, che possono raccontare delle cose e che sono anche curiosi se dico qualcosa io. Quelli con cui si può stabilire un dialogo intellettuale».

Anche se agli intellettuali hai riservato spesso una certa ironia.

«A volte però persino gli intellettuali sono capaci di un dialogo intellettuale».

Adoro questa risposta. Che però richiama subito un’altra domanda: cos’è per te un dialogo intellettuale?

«Non frequentare gli intellettuali di mestiere ma fare appello all’intelligenza e alla cultura tua e del tuo interlocutore, chiunque sia, per esaminare qualsiasi cosa, senza preconcetti uscendone divertiti se non arricchiti».

Comunque ce l’hai con gli intellettuali, e anche con i poeti, da tempi non sospetti: Poeti per l’estate, un ritratto impietoso, è sempre del 1985.

«Mah, dicendo "poeti" volevo riferirmi genericamente a un certo mondo culturale e alle sue pubbliche epifanie. La strofa più diretta è quella che dice “quando in televisione li vedi arrivare/ profetici e poetici, sportivi ed eleganti/ pubblicare loro stessi come fanno i cantanti”. Ancora adesso trovo meraviglioso vedere arrivare in un talk show in cui si sta parlando di Covid-19 o di immigrazione un politico o uno scrittore che discettano blandamente sul tema e poi alla fine tirano fuori la copertina del loro ultimo e spesso perdibile libro. Ecco, io allora, invece, per vendere la mia musica sono orgoglioso di andare a fare un pezzo in playback all’Arena di Verona (il riferimento è all’esibizione dello scorso 2 settembre insieme a Venditti dove hanno interpretato Canzone di Lucio Dalla, ndr)».

Quella sera non hai usato apposta l’armonica quando doveva esserci per demistificare il playback?

«No! Stavo solo seguendo il testo con attenzione e me ne sono dimenticato. Infatti mi veniva anche un po’ da ridere, credo si veda. Pensare che funzionava così bene!».

Tu e Venditti avete fatto un omaggio a Dalla, e Tiziano Ferro, a sua volta, ha fatto un omaggio a te: ti piace la sua versione di Rimmel?

«Nel caso di Lucio non è un omaggio, non ne ha bisogno. Antonello e io volevamo solo cantare una bella canzone e quando pensi a una bella canzone spesso finisce che c’è di mezzo Dalla… Quanto a Tiziano Ferro la sua versione mi piace molto. Senza farmi il verso ha tenuto molto presente l’originale, citando alcune frasi melodiche del pianoforte di allora, almeno così mi sembra. E poi sono sempre felice quando qualcuno canta le mie cose e le fa sue come ha fatto lui. Anche se le dovesse stravolgere. Ma non è questo il caso. D’altra parte il primo a stravolgere le mie canzoni sono io, e qualcuno protesta pure!».

Tornando all’idea di storia che ritorna nella tua opera, uno dei dischi più significativi a riguardo è Il fischio del vapore che hai fatto nel 2002 insieme a Giovanna Marini, con brani che vanno da Sacco e Vanzetti a Bella ciao. Com’era nata questa collaborazione?

«Una sera avevo cantato in un concerto a Roma L’attentato a Togliatti e il risultato mi era piaciuto molto. Così mi è venuta l’idea di fare un intero disco di canzoni popolari, ma da solo mi sembrava difficile, mi serviva un suono e in qualche modo anche una sorta di legittimazione: e allora ho capito che non si poteva fare un disco simile senza Giovanna Marini. Quando parecchi anni prima avevamo inciso insieme L’abbigliamento di un fuochista le nostre voci funzionavano! Così sono andato a casa sua con un vassoio di marron glacé per corromperla e le ho proposto la cosa: un disco di musica popolare suonato con la mia band... Lei lì per lì è rimasta un po’ stupita e mi ha detto che voleva sentire prima cosa ne pensava Ivan Della Mea. Qualche giorno di attesa e poi venne sciolta la riserva. Anche Ivan, nonostante la sua figura legata alla canzone militante, si mostrò in quel caso assolutamente non dogmatico e aperto alle contaminazioni e alle sperimentazioni. Capì subito che il valore del progetto era quello di suonare le canzoni popolari di una volta con gli strumenti popolari di oggi. Vorrei ricordare qui tra l’altro due sue canzoni bellissime e molto importanti per me: Cara moglie e El me gatt».

A proposito di politica, di recente ha fatto stranamente scalpore un fatto più che risaputo, ovvero che Guccini non avesse mai votato Pci. Tu, invece…

«Io al contrario ho sempre votato Pci e credo che lo rifarei visto quelle che erano ai tempi le scelte opzionabili».

Anche se Il Signor Hood in Rimmel è dedicato a Marco Pannella. Come mai?

«Era il tempo del referendum sul divorzio su cui ero ovviamente d’accordo e poi Pannella mi piaceva come cervello e come cuore, era un uomo di grande fascino. Quella dedica un po’ criptica in epigrafe a una canzone del '75, “A M. con autonomia”, voleva sancire comunque fin da allora una distanza culturale. Quello che non riuscivo a farmi piacere erano certi aspetti messianici della sua “radicalità”, per non parlare della spettacolarità di certe iniziative, tipo la candidatura di Cicciolina. Ma rimane in me un grande affetto nei suoi confronti e un grande rispetto per la sua onestà intellettuale anche se una divaricazione politica c’è sicuramente stata, così come ci sarebbe stata col Pci se fosse stato schierato con Mosca, con il marxismo-leninismo. Ma in Italia non era così: il Pci di quegli anni era un partito riformista».

Tornando ancora alla grande storia che si incrocia con quella personale, una volta Giorgio Bocca scrisse in un suo libro che tuo zio, partigiano ucciso da partigiani, era stato "l’uomo sbagliato nel posto sbagliato".

«Una lettura assolutamente ingenerosa e superficiale della vicenda che portò all’uccisione di mio zio, Francesco De Gregori (Bolla) comandante della brigata Osoppo. Per questo scrissi a Bocca una lettera e poi lo andai a trovare a Milano. Mi ricevette e gli portai documenti e lettere private che testimoniavano la battaglia che mio zio, nell’ambito della lotta di resistenza ai nazifascisti, conduceva in Friuli in difesa dei confini italiani contro i tentativi di annessione compiuti dai partigiani sloveni con la connivenza delle brigate partigiane italiane legate al Pci. Lui guardò quello che avevo portato e poi mi disse: “Stia tranquillo, suo zio non era un traditore”. Grazie, questo lo sapevo già, era successo esattamente il contrario: traditori semmai potevano essere definiti i suoi assassini, alcuni dei quali dopo essere stati condannati a varie pene nel dopoguerra erano scappati in Jugoslavia. Insomma, come dicevo all’inizio, c’è una visione di destra e una di sinistra della storia. Bocca, sicuramente uno storico di livello ma anche di dichiarata appartenenza, non arriva a negare la verità ma la condensa frettolosamente in tre righe e in una frase non priva di ambiguità. Per questo motivo pensai di farglielo notare, anche se non credo che lui poi non ci abbia dormito la notte».

Una cosa importante nella tua opera è proprio l’attenzione per i vinti, che siano i fascisti ne Il cuoco di Salò o i terroristi di sinistra in Scacchi e tarocchi.

«Credo che una parola corretta possa essere “pìetas”, la pietà per il nemico sconfitto o ucciso. Io non ho mai preteso di fare un’analisi storiografica né con Il cuoco di Salò né in Scacchi e tarocchi. Sono schegge, facce, visioni, tentativo di penetrazione di un mondo personale nella storia. Questo può fare un’opera letteraria o un’opera d’arte. Cito sempre Guernica a proposito perché è l’esempio di tutto ciò: anche lì ci sono persone dalla parte “giusta” o dalla parte “sbagliata”, ma l’opera trascende tutto questo: è la storia di un massacro, di una perdita, di morti, di feriti».

Parlare di “pìetas” mi fa venire in mente A Pa’, la tua bella canzone dedicata a Pasolini, che mi sembra il modo migliore per capire la differenza tra la genia degli intellettuali da tv a cui accennavi prima e quando invece "tra i poeti ne trovi uno vero…".

«È una canzone abbastanza poco conosciuta ma che amo molto, soprattutto per una citazione...».

Che tu riadatti in forma canzone: "E voglio vivere come i gigli nei campi/ E sopra i gigli dei campi volare". Una meraviglia. Ma in Italia, secondo te, oggi si riesce ancora a fare cultura? E quali sono i rapporti fra il mondo della cultura e quello della canzone?

«Direi pessimi: nonostante che nelle canzoni si finisca sempre per trovare qualcosa di importante di noi stessi, nonostante l’esistenza di gente come Paoli, De André, Vasco e Paolo Conte solo per dirne alcuni, nonostante il fatto che si potrebbe scrivere una storia d’Italia solo passando attraverso le canzoni, chi fa il mio mestiere viene guardato in cagnesco dalla cultura ufficiale. E non dico questo per un complesso di inferiorità nei confronti di chi si occupa di altre forme artistiche, ma mi ha molto colpito il fatto che il Ministro della Cultura, Dario Franceschini, che giustamente va ad inaugurare la Mostra del cinema di Venezia, non abbia sentito il bisogno di mandare una parola di saluto al mondo della musica che a settembre, con un enorme sforzo di tutti, ha provato a ripartire con due grandi eventi come i Music Awards e Heroes. La canzone è a tutti gli effetti letteratura: può essere buona o pessima, come un film o un libro. Ma come dice Dylan in un pezzo che ho tradotto “L’uomo malato in cerca di cura... cerca nell’arte e nella letteratura la sua dignità”. Letteratura e arte sono da sempre cura e salvezza e dentro ci sta tutto da Jacques Brel a Billie Holiday, da Corto Maltese a Paperino».

Parlando di lettura, cosa hai fatto durante il lockdown? Sei riuscito a leggere? Vedo qui il libro di Tatti Sanguineti, Il cervello di Alberto Sordi.

«Ho passato quel periodo in buona parte a riguardare tutti film di Alberto Sordi che sono riuscito a trovare».

Non rappresenta un po’ l’italiano che vorremmo cercare di non essere più, come diceva Nanni Moretti?

«Ma Sordi l’ha solo interpretato quell’italiano, non l’ha mica promosso. No, io non mi associo alla visione negativa del Nanni Moretti di “Ve lo meritate Alberto Sordi!”. Al contrario, solo i migliori di noi si meritano Alberto Sordi! (ride, ndr)».

E poi vedo ancora libri di storia.

«Sì: Una vita di Galeazzo Ciano. Ma ho letto e leggo le cose più varie. Graham Greene per esempio, di cui conoscevo solo Il potere e la gloria: ho scoperto che avevo due Meridiani con i suoi romanzi e mi sono letto quasi tutto. Ma come vedi ci sono anche Grisham e Winslow. Non vorrei passare per un intellettuale! Anzi, scusa, abbiamo parlato di storia, di politica, di cultura, io però ho fatto anche tantissime canzoni d’amore: perché nessuno mi chiede mai di quelle?».

Ecco quale sarà la prossima intervista.

Il libro, il tour e l'incontro: con Sandro Veronesi a Insieme. Lettori, autori, editori.

Francesco De Gregori – I testi. La storia delle canzoni è il primo libro a cui lo stesso De Gregori ha collaborato, controllando personalmente i testi dei brani: esce per Giunti mercoledì 30 settembre (720 pagine, 28 euro). Domenica 4 ottobre lo presenta insieme al curatore Enrico Deregibus e allo scrittore Sandro Veronesi all’Auditorium di Roma alle ore 19, per la prima edizione di Insieme. Lettori, autori, editori. Introduce Marino Sinibaldi. Il tour nei club De Gregori & Band Live – The Greatest Hits avrà invece inizio il 18 marzo 2021 a partire dal Vox Club di Nonantola (Modena).

Francesco De Gregori: "Ecco perché ho "dylaniato" la mia "Buonanotte fiorellino"". Luca Valtorta su La Repubblica il 5 febbraio 2017. Tutti conoscono De Gregori per le parole delle sue canzoni ma lui, che ha appena pubblicato un nuovo album live, "Sotto il vulcano", spiega perché invece una canzone non deve mai essere uguale a se stessa. "Ho fatto "Buonanotte fiorellino" in mille modi: con il violino, senza, e adesso la faccio dichiaratamente in versione Dylan". Tra le pagine chiare e le pagine scure prendono forma immagini, frammenti di vita, pezzi di sogno, pezzi di stella, pezzi di costellazione, pezzi di sorriso, pezzi di canzone. Le parole diventano musica, la musica è parola. "Musica fanciulla esangue/ segnato di linea di sangue/ nel cerchio delle labbra sinuose/ regina de la melodia". Chiamatela poesia se vi pare, come fosse Campana, ma no perché, appunto, "c'è la melodia!", chiamatela come volete. Certo se Francesco De Gregori, per brevità chiamato artista, invece di scrivere “ora le tue labbra puoi spedirle a un indirizzo nuovo" avesse scritto "mi sono lasciato con la mia ragazza" non staremmo parlando di lui a più di quarant'anni anni di distanza da Rimmel, non avremmo immaginato di volare via con La donna cannone, con quelle parole che vanno dritte al cuore ("e non avrò paura/ se non sarò bella come dici tu") e non avremmo in mente, scolpite, visioni dei gatti che "muoiono nel sole" e la desolazione di Cesare (Pavese) perduto nella pioggia che aspetta il suo amore, ballerina. "No, poeta no", dunque. Artista sì, però ("uso questo termine senza alcun sussiego né presunzione ma solo per indicare il lavoro che faccio"). Comunque icona ("per carità no!") con cui siamo cresciuti, che ogni italiano ha nel suo dna: chi non ha un ricordo legato a una canzone di De Gregori? Canzoni d'amore (certo Buonanotte fiorellino, tante volte "dylaniata", ma anche psichedeliche come Dolce amor del Bahia, non a caso rifatta da Vasco Brondi, il più "degregoriano" dei nuovi artisti, ma passando per i CCCP e il punk rock), canzoni politiche senza politica (Pablo che era il mio modo per sintonizzarmi su Radio Popolare di Milano trent'anni fa, perché la trasmettevano in continuazione e poi, naturalmente, Viva l'Italia, che tutti hanno cercato di fare propria senza riuscirci o il cuoco di Salò che tanta discussione aveva suscitato), canzoni 'esistenziali' (da Il signor Hood a La leva calcistica della classe '68). E poi quanti capolavori: Rimmel, l'album perfetto, ma anche il disco omonimo del 1978 con Generale e Natale, forse il successo commerciale più grande; e che dire di Titanic che gli esegeti considerano il "vero" capolavoro, contrapponendolo a Rimmel? E Calypsos, che non si smetterebbe mai di ascoltare? E Sulla strada? E il disco dal vivo italiano più bello di sempre, Banana Republic con Lucio Dalla? Francesco De Gregori, nella sua casa romana piena di luce, un pianoforte in mezzo alla stanza, dalla parte opposta una libreria, quadri, dischi, un pacchetto di Gitanes senza filtro appoggiate su un tavolino basso che fumerà con discrezione e un certo gusto insieme a un caffè in tazza grande. Anche l'sms che mi era arrivato il sabato precedente l'intervista era elegante ed essenziale: poche parole, concise, il luogo dell'incontro. A capo. 'f' minuscola. Punto. Venerdì 3 febbraio è sucito il doppio album live "Sotto il vulcano", registrato lo scorso 27 agosto durante il concerto al Teatro Antico di Taormina, nel corso dell''Amore e Furto tour', con la produzione artistica di Guido Guglielminetti. "L'estate scorsa, mentre ero in Sicilia, sono capitato vicino a casa di Dalla, ai piedi dell'Etna, e mi è venuta in mente "4 marzo 1943" – ha raccontato Francesco De Gregori – Il giorno dopo dovevamo suonare a Taormina, così l'abbiamo messa nella scaletta e la sera l'abbiamo spinta in alto. Non ho pensato a una celebrazione di rito, a un omaggio pubblico o a niente del genere. Solo a questa grande canzone, a come la cantava Lucio e al tempo che è passato senza toccarla". Nel doppio disco dal vivo tutti i suoi classici, da "Pezzi di vetro" a "La leva calcistica della classe '68" fino a "Generale" e "Rimmel". Tutti conosciamo Francesco De Gregori ma lei, in un pezzo intitolato Guarda che non sono io, dice "guarda che non sono io/ quello che stai cercando/ quello che conosce il tempo/ e che ti spiega il mondo". Insomma un conto è la fotografia, l’icona, un altro la persona reale, un po' come il Magritte di Questa non è una pipa. "L’arte è sempre qualcosa che allude. Non dà mai risposte, nemmeno in termini di identità. Gli oggetti si trasformano: l’Orinatoio di Duchamp può diventare tutt’altro. Il divertimento sta proprio nello spostare i termini della questione. Questo vale anche per il mio mestiere".

A parte il punk, che si poneva l’idea di distruggere l’idea stessa di rockstar, non sono molte le 'icone' che cercano di non essere considerate tali, che dicono "preferirei di no".

"No, ecco, appunto icona, no! Ma non è che io ci abbia fatto un ragionamento sopra. Io faccio uno dei mestieri più liberi del mondo: perché non devo approfittarne?".

Lei suona con gli stessi musicisti da molto tempo e ama molto suonare dal vivo, cambiando spesso le canzoni. È alla ricerca del suono perfetto?

"Sono alla ricerca del mio suono. E avendo una frequentazione ormai lunghissima con gli stessi musicisti ci capiamo al volo. Non sono degli esecutori, partecipano tutti al processo produttivo ma, banalmente, visto che ci conosciamo così bene, non si perde tempo. Soprattutto conoscono le mie idiosincrasie…".

Quali sono le sue idiosincrasie?

"Certe scorciatoie che ammiccano al pop, certe soluzioni più banali. Io tra loro sono il meno musicista, nel senso che la mia formazione è avvenuta sul campo a poco poco, ma proprio per questo mi capita di avere delle idee non ortodosse che poi cerco di tradurre in musica: non è facile sintonizzarsi con la mia anarchia ma col tempo ci siamo riusciti. Io ho iniziato a fare le prime cose con un gruppo solo dopo aver fatto Rimmel nel '76/'77. Per me è stato drammatico l’incontro con altri perché partivo dal testo e cercavo di spiegargli quello che dovevano fare a partire da quello, dal senso del brano. A quei tempi, ai musicisti del testo invece non gliene fregava niente, non volevano nemmeno ascoltarlo. Io poi avevo preso dei giovani che venivano dal jazz, che era proprio un altro mondo, molto elitario, del tipo 'noi facciamo jazz, poi andiamo a suonare con De Gregori perché ci paga'. E io gli dicevo: 'Dovete suonare Atlantide, che sono tre accordi tutti uguali'. Loro lo facevano e a me faceva schifo come veniva. Glielo facevo notare e loro: 'Vabbè sono tre accordi!'. Certo, sono tre accordi. Che vanno suonati in un certo modo. Io per suonarli come volevo davvero ci ho messo vent’anni. E adesso ci riesco perché sono diventato più bravo io e perché si è molto alzato anche il livello culturale di chi suona: non c’è più nessuno che ti dice: 'Ah, ma no io faccio rock, jazz etc.!'. C’è molta più consapevolezza di cosa vuol dire suonare".

Le scorciatoie sono odiose anche nel nostro mestiere, che è quello di divulgare dando al pubblico degli strumenti per capire, non perché i lettori sono stupidi, ma perché non hanno il tempo di informarsi su tutto. Ma naturalmente evitando anche qui, come nella musica cui faceva accenno prima, gli stereotipi. Tipo 'l’elfo islandese' quando si parla di Björk, 'la sacerdotessa del rock' per Patti Smith e, la madre di tutti i luoghi comuni, 'il menestrello di Duluth' per Bob Dylan…

"Uh, uh, uh! (suoni di sincera disapprovazione, ndr). Quello dovrebbe essere proprio vietato per legge! Sono le cose per cui quando leggi un articolo e trovi una di queste definizioni volti pagina. Vale per tutti i settori di un giornale. L’uso di certi termini nei titoli: la rabbia per esempio è abusata. La rabbia dei postelegrafonici! O dei ristoratori o… intercambiabile per tutte le categorie (ride)".

A proposito di sfidare gli stereotipi, lei a un certo punto ha fatto una cover di Vita spericolata di Vasco Rossi.

"Perché è un pezzo che mi è sempre piaciuto. Sembra strano?".

Abbastanza.

"È una delle più belle canzoni italiane. La cosa incredibile è che Vasco la fece a Sanremo e notoriamente io non sono un ammiratore del mondo sanremese, ma devo dire che ogni tanto da lì uscivano pezzi straordinari. Ma perché sembra strano che io faccia Vita spericolata? (ride)".

Beh, ho avuto l’impressione che anche il suo pubblico…

"Il mio pubblico rimase esterrefatto (ride)".

Insomma... lei è il Principe.

"Che vuol dire? Il pubblico va per stereotipi: il Principe, il maledetto, il professore… A me è sempre piaciuto cantare le canzoni degli altri. Certo, lo ammetto, mi rendevo conto che poteva sembrare una provocazione ma per me non lo era per niente".

Non essere mai dove gli altri pensano che tu possa essere, anzi che tu debba essere: tutto ciò è molto punk. Anzi è l'essenza stessa del punk: strano per De Gregori.

"Per me conta il fatto di non porsi nemmeno questa domanda. Non voglio mai neppure lontanamente pensare a come devo essere. Non voglio essere dove qualcuno vorrebbe che io sia. Le dirò di più: anche se l'intero mio pubblico pensasse che io debba stare in un certo luogo, non ci starei. La mia necessità è solo quella di essere sempre me stesso. In un mondo dove ormai le playlist le fa Spotify mi sembra essenziale fare sempre e solo tutto quello che mi viene in mente e pazienza se non è quello che ci si aspetta da me. Con un solo limite".

Quale?

"Del cercare di non fare cose brutte. Per questo cerco di lavorare molto su tutto ciò che faccio: è questa la forma di rispetto che devo al pubblico, non il fatto di dargli quello che vorrebbe io facessi. Per esempio, se mi va di fare una cosa con Fausto Leali, come il duetto di Sempre per sempre, non ci penso due volte. La spinta deve essere di totale innocenza e indipendenza".

Del resto, quando Vasco fa Generale, è un tripudio assoluto, si diverte tantissimo.

"Certo. Per fortuna è solo ai puristi che non va che De Gregori faccia Vasco Rossi e viceversa: ben venga Vita spericolata quindi! Vasco poi ha uno stadio intero che lo ascolta: è un'emozione…".

Lei però è stato il primo a riempire gli stadi.

"Sì, io e Dalla. Siamo stati i primi proprio a farli gli stadi, in realtà. Si parla del 1978 e in effetti nemmeno gli artisti stranieri si esibivano lì, allora. Dopo di noi forse la prima fu Patti Smith, nel 1979, a Firenze".

Come nacque l’incontro con Dalla?

"Io stavo alla IT, una piccolissima etichetta discografica che faceva capo a Vincenzo Micocci che Lucio, che aveva preso da poco casa a Roma, frequentava perché c’era anche Ron. C’era un pianoforte, lui a volte si metteva lì e suonava. Era già famoso, aveva fatto 4 marzo 1943. A poco a poco ci siamo incuriositi l'uno dell'altro e così capitava che suonassimo insieme e poi magari partecipavamo ai rispettivi concerti. Era un’atmosfera un po’ da gita scolastica, tipo: 'Lucio, stasera io suono a Viterbo' 'Ok, vengo anch’io' e magari saliva sul palco con me e faceva una cosa col clarinetto; oppure ricordo, per esempio, che c'era Anidride solforosa, un pezzo che a me piaceva moltissimo. Lucio mi aveva detto: 'Dai, suonaci sopra l’armonica!'. E così facevamo. Pablo infatti è firmata anche da Lucio, perché mentre io la stavo scrivendo lui mi accompagnò a Bari e nel pomeriggio, mentre l'ascoltava, mi disse: 'Qui nell’inciso non si muove abbastanza'. Lui non sapeva suonare la chitarra ma io l’ascoltai perché avevo capito che aveva ragione. Ecco, questo era il clima. E quindi Banana Republic non fu altro che il coronamento di questa amicizia. Anzi, direi che poi con Banana Republic si esaurì inevitabilmente. Non ci vedemmo per diversi anni e ci rincontrammo nel 2010. La tournée che abbiamo fatto allora dal punto di vista musicale secondo me era molto più bella della precedente, però certo, non aveva più quel fascino della novità, dell’unione di questi due strani personaggi in un periodo in cui i grandi concerti non esistevano".

Musica dal vivo: lei non fatto dischi live per un lungo periodo, poi improvvisamente ne ha fatti tantissimi. Come mai?

"Io credo dipenda dal fatto che all'inizio non sapevamo suonare molto bene e quindi i dischi live ho iniziato a farli uscire quando mi sembrava che ne valesse la pena. Sono stato anche molto criticato per questo. In effetti, se vado a contare i dischi in studio e quelli live, sono quasi una discografia parallela. Perché li ho fatti allora? Un artista ha necessità di documentare quello che fa, nel mio caso i concerti, proprio come un pittore fa tutti i quadri che vuole. C’è del narcisismo? Sicuramente. Ma chi non ha piacere a mostrare una propria opera… A parte la compulsività a pubblicare se stessi, il live è anche rendicontare la possibilità di una canzone di trasformarsi, da sera a sera o dall'anno prima o da vent'anni prima. Io non la forzo: io vado appresso questa trasformazione. Cambia la mia voce da sera a sera, non può non cambiare la canzone. E questi cambiamenti per me è inevitabile raccontarli: è per questo che pubblico tanti dischi dal vivo. Molti mi hanno criticato ma per me non c'è una legge da seguire, la mia libertà sta nel fare quello che sento, la libertà del pubblico è nel comprare o meno i dischi che faccio: non divento ricco a fare tanti dischi live, ma perché mai non li devo fare?".

Tra l’altro, in questo nuovo album, Sotto il vulcano, che è appunto un live e, oltretutto, doppio, lei ha rifatto un pezzo che cantavate con Dalla in Banana Republic.

"Mi è venuta l'idea passando da Milo, in Sicilia, dove abitava Lucio. A un certo punto mi sono scoperto a canticchiare questa canzone e il giorno dopo, a Taormina, avevo la penultima tappa del tour. Ho deciso lì per lì. Tra l'altro, per motivi tecnici, non avevo la possibilità di provarla con la band per cui gli ho detto: 'Ascoltatela su YouTube, lì c'è la versione originale'. A quel punto mi è venuta la voglia contraria rispetto a quello che ho teorizzato fino a ora: ritornare a fare esattamente la canzone com'era, perché nel frattempo sono state fatte talmente tante versioni a molte delle quali ho partecipato anch'io. Non la rifacevamo mai uguale. Invece questa volta volevo proprio il violino e la chitarra con quel riff popolaresco. L'ho fatta solo quella sera: quella dopo avevamo un concerto in Sardegna ma non l'abbiamo suonata".

Come mai ha scelto la versione censurata di 4 marzo 1943, quella in cui il verso "ancora adesso che bestemmio e bevo vino/ per i ladri e le puttane sono Gesù Bambino" è stato cambiato?

"Mi sono innamorato di quella versione quando l'ho sentita a Sanremo: non so se l'originale era l'altro o se Lucio nel corso del tempo l'abbia attualizzata. Trovo molto più delicato dire 'ancora adesso che gioco a carte e bevo vino/ per la gente del porto sono Gesù Bambino' perché mi sembra più adatto a una canzone dedicata a un tema importante come la maternità. Non desiderata ma comunque vissuta con dolcezza, un tema nobile: questa giovane donna, lui che nasce e gli viene dato quello strano nome, tutto riconduce a un'atmosfera quasi sacra. Per cui immettere un tema che sicuramente è più realistico, come un riferimento alla bestemmia e alle puttane, non mi affascinava, anche se l'ho cantata tante volte insieme a Lucio anche con questo testo".

Lucio non teneva a una versione in particolare?

"No, credo che la cantasse di volta in volta come gli veniva. Questa canzone ha qualcosa di arcaico, non perché 'vecchia': lo era già quando è stata scritta. Fa rifermento a degli archetipi: la maternità, la guerra, la solitudine. È una delle canzoni più belle che abbia mai cantato Lucio. Poi non so se qualcuno ha detto a Lucio: 'Non usare parole come bestemmia o puttane a Sanremo'. È una canzone commovente per la sua bellezza".

Restando sul tema delle canzoni commoventi, ha visto la performance di Patti Smith alla cerimonia del Nobel?

"In un contesto così diverso da quello normale, così paludato non credo ci si senta a proprio agio e poi certo l'emozione: è facile dimenticare le parole in simili circostanze...".

A lei è mai capitato?

"Come no? Su YouTube ci sono cose impressionanti...".

 foto di Daniele Barraco Lei ha un repertorio di più di duecento canzoni. Come fa a ricordarle?

"Questa è una bella domanda. Me le ricordo al 99,9%. Quello che non ricordo lo invento al momento, oppure succede il disastro. Però mi piace ricordarmele: non ho mai usato e non uso il gobbo elettronico. Quando leggi non è la stessa cosa, credo che il canto ne risenta. Quando abbiamo fatto il tour nel 2010 leggevamo perché Dalla preferiva così. Ma devi stare attento: le sue parti erano segnate in rosso, le mie in bianco. Per me era un freno. A proposito di Dylan, però, devo dire che mi è piaciuto molto il discorso che ha mandato in occasione del Nobel".

Cosa in particolare?

"Beh, per esempio quando dice: 'Vi ringrazio per avermi chiarito le idee sul fatto che sono uno scrittore. Io in realtà nella vita ho sempre avuto problemi pratici, tipo trovare lo studio giusto, il bassista adatto'. Fa tutto un ragionamento low profile e poi, ecco la cosa che ti fulmina: 'Del resto credo che anche Shakespeare abbia avuto lo stesso problema: doveva rispondere ai committenti, allestire una sua tragedia, per cui si chiedeva: 'Ci saranno abbastanza posti in platea?', 'abbiamo lo sponsor?', 'dove lo trovo un teschio umano per domani sera?'. Per cui vi ringrazio di avermi detto che faccio letteratura perché non me ne ero mai accorto'. Capito? Prima dice di non essere uno scrittore e poi conclude "proprio come Shakespeare!"".

Anche lei ama molto questa praticità del mestiere?

"Certo: senza quella non saremmo qua né io né Dylan. Lo dico spesso: facciamo un mestiere che per buona parte è fisico, manuale, dove dobbiamo anche saper cambiare la valvola dell’amplificatore. Altrimenti hai voglia a scrivere di "Pavese perduto nella pioggia": non arriva proprio materialmente. Viaggiamo quindi sulla falegnameria, sulla praticità, sulle previsioni del tempo, sull’elettricità".

Parlando di Dylan, lei ha letteralmente 'dylaniato' uno dei suoi pezzi più famosi, Buonanotte fiorellino, un tempo considerato da alcuni un cedimento alla decadenza borghese, troppo smielato e al tempo stesso follemente amato dal suo pubblico. Forse persino troppo amato.

"Certo l'ho "dylaniata" mille volte e non solo con Dylan: una volta c'è il violino, un'altra no, una volta è in tre quarti, in quattro quarti non l'ho ancora fatta ma prima o poi ci arriverò. Sì, certo, da un po' la faccio dichiaratamente in versione Rainy Day Women (un brano molto giocoso e "stonato" di Dylan che apre il suo capolavoro, Blonde On Blonde, ndr) è un po' la stessa operazione che fa Duchamp quando mette i baffi alla Gioconda. Prende, ruba, cita: fa tutte queste cose insieme. Diciamo che, fondamentalmente, si diverte. E forse mette anche il suo pubblico nelle condizioni di divertirsi, nel senso nobile: gli offre punti di riflessione, di arricchimento, di scoperta. La famosa 'sfasatura' che sta dentro i processi artistici".

C'è una parte del pubblico che vorrebbe cullarsi con il ricordo della 'sua' Buonanotte fiorellino...

"C'è una parte del pubblico che è conservatore. Mi rendo conto di cosa vuol dire perché quando io sono pubblico, anch'io sono conservatore. Se andassi a sentire un concerto di Dylan e lui per una volta mi facesse Like a Rolling Stone o Just Like A Woman o Blowin' In the Wind così come le ha fatte sui dischi esclamerei: 'Ooooh!'. Subito dopo però mi porrei il problema: è sincero mentre sta facendo questo o sta facendo un monumento a se stesso? E penso che la risposta sarebbe: 'Non è sincero fino in fondo'. Io a un artista sul palcoscenico quello che chiedo è la sincerità, cioè che in quel momento lui mi restituisca quello che sta succedendo nella sua testa. La sua testa non può essere quella di quarant'anni prima. L'evoluzione di una canzone è peggiore? Pazienza, mi becco la peggiore".

 foto di Daniele Barraco Manuel Agnelli degli Afterhours a un certo punto chiedeva al suo pubblico di non cantare. Ma poi si è dovuto rassegnare.

"Ha ragione, si può creare una discrasia che ti può far sbagliare, soprattutto se tu cambi il pezzo. Come anche battere le mani: succede spesso che il pubblico non vada a tempo e così diventa una cosa strana. Comunque va bene, il concerto è anche un momento di festa, non è un saggio accademico".

Quali sono i suoi dischi dal vivo preferiti?

"Direi 4 Way Street di Crosby, Stills, Nash & Young e sono indeciso tra Hard Rain e Before the Flood di Dylan, escludendo la Bootleg Series dal momento che sono dischi che lui non aveva intenzione di pubblicare in origine. Ha accettato di farlo solo molto tempo dopo".

Come saprà è appena uscito un box di 36 cd, Bob Dylan: The 1966 Live Recordings, che documenta tutto il tour del 1966 di Bob Dylan, quello del passaggio dal folk al suono elettrico in cui ogni sera c’è una battaglia con il pubblico che gli urla "traditore".

"Ecco, questo è proprio l'esempio giusto: un giorno ti ascolti un disco, un giorno l'altro e senti la stessa canzone come cambia nel giro di poco tempo. È un documento storico importantissimo e da musicista impari molte cose. Ma è importante anche per un non musicista, credo. È un po' come entrare nell'atelier di Picasso e vedere cosa c'è dietro un suo quadro: gli studi, i tentativi, gli errori anche. Diciamo che l'ascolto dei dischi live contraddice quelli che pensano che la musica debba essere per forza patinata, inappellabile dal punto di vista tecnico. Nei dischi live invece devi evitare l'eccesso di perfezione, anche perché altrimenti non ti fermi mai: puoi restare anni in studio su una canzone e non capire mai quando è davvero finita. Al tempo stesso devi contenere l'irruenza. Vivere con questa dualità nella testa è interessante. Io ho fatto un album intitolato Left & Right che non è nemmeno mixato: sono solo i canali del banco presi e masterizzati senza dire "alzo i livelli del basso" o cose simili, ed è uno dei miei preferiti".

Poi c'è Bootleg che si rifà all'idea della naturalezza, credo.

"Sì, quello però è mixato. Ma è vero: andai a Dublino a mixarlo proprio perché volevo un fonico che non capisse il testo. Trovai uno che non solo non capiva il testo ma gli stavo anche antipatico: per me era perfetto! (ride)".

Lei ha conosciuto molti musicisti nella tua vita. Chi ricorda più volentieri?

"Uno di quelli che più ho amato è Leonard Cohen. Una volta l’ho incontrato proprio a Roma, per caso, mentre camminavo: era insieme a una mia amica che me l’ha presentato, a Santa Maria in Trastevere. Aveva una chitarra in mano e io pure: 'Ah, anche tu suoni?', mi chiede e ci scambiammo un po’ di pareri tecnici. La seconda volta fu nei camerini dopo un suo concerto al Teatro Olimpico a Roma e lì feci un po' il fan, andai in camerino dove stava mangiando da un cartone un pezzo di pizza al taglio, coccolato dalle due coriste, e mi misi a parlare un po'".

Le disse che vi eravate già incontrati?

"Non gli dissi nulla e per pudore non mi feci neppure autografare il disco. Dopo di me arrivò uno che si portò dietro l’intera discografia che Cohen firmò interamente, con grande pazienza".

Immagino che capiti spesso anche a lei il contrario.

"Sì. Cerco di fare fino in fondo il mio dovere, ma a volte vorresti che quelli che ti chiedono autografi non esistessero. Memore di questo, tollero a mia volta e cerco di essere discreto ma capisco il fan, lo sono anch’io e quindi capisco: però non ci devono essere invasioni improprie…".

Qualche altro esempio del suo essere fan?

"Stavo mangiando con mia moglie e i bambini a Venezia e al tavolo accanto al nostro c’era Elton John. Per me fu stranissimo perché non sapevo che stesse a Venezia, che ne fosse innamorato. I suoi primi dischi sono stati formativi per me e soprattutto per Antonello Venditti, anzi ricordo che in realtà fu proprio lui a farmelo conoscere: Tumbleweed Connection, un disco straordinario, lui e Bernie Taupin, il paroliere: che coppia! Poi col tempo per me ha perso interesse, pur mantenendo sempre una certa qualità di scrittura, ma cose come Your Song sono eccezionali".

Ci parlò in quell’occasione?

"No, "schiscio", come dite voi a Milano. Un altro aneddoto divertente forse è quello che riguarda Lou Reed. Quando stavo alla Rca, nel 1978-'79, venne a Roma per un concerto e volle fare il soundcheck proprio lì negli studi dove pascolavamo tutti noi cantautori dell’epoca. A un certo punto si sparse la voce e ovviamente eravamo curiosi. Lui non voleva vedere né essere visto da nessuno. Quando si mise a suonare però, a poco a poco, alla chetichella, entrammo nella regia e… rimanemmo a bocca aperta! Sentimmo una botta di suono impressionante: noi li conoscevamo bene quegli studi ma era come se qualcuno improvvisamente avesse cambiato tutto lì dentro. Anche i fonici erano lì, con gli occhi di fuori, e dicevano: 'Ma questo da dove viene?'. E anche al di là del vetro aveva un’aria arcigna: non ti saresti mai avvicinato…".

Negli ultimi anni si era addolcito: Laurie Anderson mi raccontava che dietro l’aspetto burbero era una persona tenera, che non smetteva mai di incoraggiare i giovani artisti. Una violinista che aveva suonato con lui durante l’intervallo di un concerto gli chiese com’era andata. Lui rispose: 'Tutto lì quello che sai fare?'. Così la violinista nella seconda prova fece rimanere tutti a bocca aperta.

"Naturalmente sarà stata bravissima, ma certo, da uomo di musica ha fatto quello che andava fatto: l’ha spinta a dare il meglio di sé. Comunque è incredibile: anche in un pezzo come Perfect Day, apparentemente dolce, c’è una narrazione a doppio taglio: c’è ghiaccio, c’è distanza. La musica in realtà è quasi una presa in giro della dolcezza, c’è il diavolo dentro! La dolcezza è solo un abito di quella canzone".

Lucio Battisti, un altro artista dal carattere difficile, l’ha conosciuto?

"Ci ho parlato solo una volta al bar della Rca, un paio d’ore. Era molto timido ma al tempo stesso emanava un carisma assoluto per cui non ti veniva voglia di andare lì, dargli una manata sulla spalla e dirgli: "Ciao Lucio, come va?"".

Cosa vi siete detti?

"Avevo appena pubblicato Alice e mi fece dei complimenti: "Ahò, è forte quel pezzo!". Poi mi disse una cosa che mi parve davvero strana: "Tu canti benissimo". In quel periodo mi sentivo tutto meno che un cantante! E poi: "Sei bravo perché tu riesci a far capire bene il testo, quello che dici". A me! Uno a cui tutti dicevano che non si capiva niente di quello che scrivevo! Tornai a casa volando".

Tra i nuovi artisti chi le piace?

"Non ho molto tempo per ascoltare musica, è brutto da dire ma è così. Però ho suonato una volta con Cristina Donà, che è bravissima, mi piace tantissimo e con Vasco Brondi. Anzi, con Vasco io ho suonato la chitarra mentre lui cantava Viva l’Italia (ride)".

C’è un nuovo autore, si chiama Calcutta, e in suo brano, Limonata, fa un quadro impietoso della sua ragazza e dei suoi genitori e la cita, non so se le è capitato di sentirlo. Dice: "Tu spremi limonata e non ce la fai più/ salutami tua mamma che è tornata a Medjugorje/ e non mi importa niente di tuo padre/ ascolta De Gregori/ a me quel tipo di gente no non va proprio giù".

"Beh intanto uno che riesce a fare una rima Medjugorje/ De Gregori è notevole. Lo trovo molto carino dai… (ride). No, non lo conosco ma credo nel karma: penso che prima o poi una cosa se ti deve arrivare ti arriva".

Restando sulle cose politicamente scorrette, è vero che lei ha conosciuto De André suonando una presa in giro de La guerra di Piero intitolata La cacca di Piero?

"Sì, è vero. Avrò avuto diciott’anni: era una di quelle cose goliardiche che si facevano ai tempi del Folkstudio".

Ma lei sapeva che lui era lì?

"(ride) Sì… Andò così. Io credo di non averla nemmeno mai fatta in pubblico, quella canzone: tra l’altro La guerra di Piero era stata una canzone fondativa per me. Poi succede che mio fratello conosce De André in un bar di Roma, fanno amicizia, bevono insieme e qualche giorno dopo mio fratello lo porta al Folkstudio dove io suonavo insieme a Venditti e altri, tutti assolutamente sconosciuti. E questo disgraziato di mio fratello dice a De André che io avevo fatto questa ignobile cosa! E De André, che era luciferino, insistette perché la facessi: io non avrei mai osato farlo. Sarebbe stata veramente una cosa da idioti. E invece lui: 'Dai belin, fai sentire questa canzone!'. De André si divertì molto e da lì nacque il nostro rapporto, diventammo amici, tanto che tempo dopo mi invitò persino da lui in Sardegna a lavorare insieme".

Da quel vostro incontro nacquero anche dei brani di Rimmel…

"Non abbiamo mai cantato insieme se non una strofa per uno in una canzone di Fossati Quei posti davanti al mare. In Sardegna ho scritto Buonanotte fiorellino: lavoravo a Rimmel e, insieme, al suo disco".

Anche se lui aveva il giorno invertito con la notte.

"Sì è vero. Cominciava a ingranare molto tardi così capitava che stessi molto tempo durante il giorno con Cristiano che a quei tempi era proprio un ragazzino ma suonava già uno strumento: la batteria ed era molto bravo".

Lei non ama la politica e nemmeno i salotti.

"Per niente. Soprattutto detesto i politici che in un ingiustificato atto di supponenza ti passano davanti con le loro scorte a sirene spiegate costringendoti a fermarti. Ma non è rabbia anticasta: è proprio un dato di fatto che si tratti di qualcosa di intollerabile. Un abuso di potere che altrove non potrebbe accadere. In Inghilterra per esempio il Primo Ministro non ha la scorta con le sirene spiegate e si ferma normalmente ai semafori".

Questa idiosincrasie le racconta in vari brani. Ma c’è un testo che mi ha colpito in maniera particolare, si intitola Povero me e dice: "I simpatici mi stanno antipatici/ i comici mi rendono triste/ mi fa paura il silenzio/ ma non sopporto il rumore".

"Beh, è una buona descrizione di me stesso, autocaricaturale: io non sono così cattivo e malmostoso come in quella canzone. Dopo un po' di tempo dalla sua uscita incontro un’amica che non vedevo da parecchio e che nel frattempo era diventata psichiatra, e mi dice: 'Senti, ho ascoltato quella tua canzone: sono le parole di un depresso!' (ride). "No guarda, davvero, descrive tutti i sintomi della depressione: ce li hai tutti!". Io le dico: "Guarda, non mi sento un depresso". E lei continua: "Eppure è la canzone di un depresso". Che dire? Forse aveva ragione lei. Ma vuol dire che evidentemente sono bravo a identificarmi. Ci ho messo tutto: "Nessuno mi vuole bene", "sono tutti migliori di me" (ride). E appunto quello che dicevo prima: "Ci sono i pretoriani con la sirena". È una canzone che amo molto".

Questo dunque non è Francesco De Gregori, almeno non tutto. Forse una piccola parte sì, ma appena vi voltate l'immagine è già cambiata. Non è più quella della fotografia. Del resto, non è forse così per tutti? Non siamo mai noi stessi, almeno non del tutto. Non sempre. Non siamo il profilo Facebook, non siamo neppure il nostro libro o la nostra canzone se abbiamo la fortuna di scrivere, non siamo il nostro lavoro, non siamo sempre coraggiosi o sempre vili, sempre tristi o sempre felici, non siamo quello che pensano gli altri di noi e neppure quello che pensiamo noi di noi stessi. Camminiamo tutti sui pezzi di vetro. E questa non è un'intervista.

Francesco De Gregori a New York: "Non passo più la vita a pensare al futuro del mondo". Luigi Bolognini su La Repubblica il 10 novembre 2017. Il cantante ha concluso il suo primo tour negli Stati Uniti suonando in un locale caro a Bob Dylan.  Quando nella sala concerti della Town Hall si riaccendono le luci, gli occhi di Francesco De Gregori brillano più delle medaglie al collo dei non pochi spettatori che poco più di 48 ore prima hanno completato la maratona di New York. Anche i runner, pur con le gambe ancor dolenti, sono in piedi con gli altri ad applaudire il cantautore, che a 66 anni ha debuttato negli Stati Uniti. Quasi un paradosso, per uno che ha spesso inserito — anche in anni in cui non era facile farlo, per ignoranza sul resto del mondo musicale e pregiudizi politici — l’America nelle sue canzoni, non nascondendo mai Bob Dylan tra le ispirazioni. «Poteva succedere in passato», ammette, «e invece doveva andare così. Ma è stato un caso, un’opportunità colta al volo». Non sembra un caso, però, la Town Hall: attaccata a Times Square, fondata da suffragette, tradizione di musica di qualità che va da Billie Holiday a Duke Ellington, da Nina Simone a Pete Seeger. E il 12 aprile 1963 Bob Dylan tenne qui il primo concerto al di fuori dei club del Greenwich Village. «Tutto vero, ma l’ho scoperto solo in seguito. Certo mi ha emozionato cantare qui Non è buio ancora, mia traduzione di Not dark yet che faceva parte di Amore e furto, il disco con cui ho omaggiato Dylan nel 2015. Avrei potuto metterne anche un’altra, ma mi sembrava troppo: in fondo il tour riguarda me e le mie canzoni, e lui è solo una delle tante influenze nella mia musica. C’è tanto della melodia italiana in me, mi sembrava giusto portarla all’estero, specie in una città dove gli italiani trapiantati sono tanti»

A proposito di melodia, ha sempre chiuso le date con Anema e core cantata assieme a sua moglie Alessandra Gobbi. Com’è nata la cosa?

«La stupirò per originalità: a Napoli. Eravamo in uno dei ristoranti più tipici, Zi Teresa, e speravo che arrivasse un posteggiatore, i menestrelli che cantano le melodie tradizionali. Incredibilmente neanche uno. E allora intonai io Anema e core. Così è nata l’idea di condividerla. Chicca, come tutti chiamiamo mia moglie, sa cantare, è anche in un coro di Giovanna Marini. Ed è piaciuta a entrambi l’idea di chiudere le serate con un po’ della grande canzone napoletana».

Parliamo di New York. Prima volta da artista, non da viaggiatore.

«Guardi, ci vengo dal 1976. Che posso dirle che non sia già stato detto? È affascinante, mi cattura il modo di vivere libero, senza che nessuno ti giudichi. E poi c’è un’etica del lavoro, forse purtroppo della competitività, che altrove manca. Camminare a New York è come muoversi su qualcosa di pulsante, di vivo».

E l’America?

«Giovanissima. Fa impressione che non arrivi a 250 anni come nazione, per noi abituati a millenarie radici storiche, artistiche e culturali. Un Paese ancora nuovo che mescola tutte le culture ed è in continuo cambiamento, nel bene e nel male. Ma non mi chieda di parlare di Trump. Anzi, neanche di politica, non saprei davvero cosa dirle».

In questo tour, il 20 ottobre è stato anche al Bataclan di Parigi. Che sensazione le ha fatto?

«Ho evitato di scendere in platea, temevo di vedere i segni dell’attentato. Ma la risposta migliore al terrorismo è stata proprio suonare lì, come in generale la risposta deve essere la normalità dei comportamenti. Parlavamo di New York: non sembra neppure che ci sia appena stato un attentato. C’è cautela, ci sono controlli, ma la vita procede. In questo, anche in questo, è un esempio».Tour finito, e adesso?

«E adesso mi faccio passare il raffreddore che mi è venuto in America e si vede. Una cosa che vorrei è registrare proprio Anema e core come singolo, per il divertimento che mi dà questo brano. Da questo tour non farò un disco live, anche se è stato bello: mi sono riappropriato di una parte del repertorio meno nota, come Buenos Aires e Due zingari, per rivendicare la voglia e il diritto di fare anche canzoni non famose, ma che magari lo sarebbero potute diventare se solo le radio le avessero trasmesse di più. E poi è stato un tour senza batteria, c’ero solo io che battevo il piede sul palco: ormai la maggior parte dei batteristi si buttano sull’elettronica, omologando il suono».

Ha pronti anche inediti?

«Pronti no. Come sempre ho foglietti, appunti, una frase, una battuta, un rigo appena, materiale sparso ovunque. Poi un giorno, chissà quando, mi diranno che potrei fare un tour più lungo se avessi delle canzoni nuove. E allora all’improvviso assemblerò tutto. Ma sarà un buttare di getto solo in apparenza, perché verrà dopo lunga sedimentazione».

Come vede la musica italiana? Tanti dicono che il cantautorato ora è rappresentato dai rapper: sono loro a raccontare la realtà come facevate voi.

«Senta, mi parlano della morte del cantautorato circa dal 1976, e siamo ancora qua. La verità è che c’è gente che lavora bene e gente che lavora male, esattamente come ci sono rapper che fanno cose ottime e altri pessime. Certo, raccontano il mondo con incisività, hanno grande attenzione alle parole, ma non hanno preso il nostro posto, si sono affiancati a noi. Non vedrei niente di male in una collaborazione, se fosse fondata artisticamente, ma nessuno me l’ha proposto e io non ho cercato nessuno».

Ha colpito il cambio di look: via la barba che la distingueva da sempre.

«Sa che me lo chiedete solo voi giornalisti? Al pubblico non frega niente. E non c’è nessun motivo nascosto, sono solo stato dal barbiere un giorno».

Di politica non vuol proprio parlare? Del mondo?

«Guardi, se vuole le posso indicare un’abbondante decina di miei colleghi che sono dispostissimi a parlare di tutto e su tutto. Io no, grazie. Ma non per reticenza: davvero non saprei cosa dire».

Ci dica almeno se è ottimista o pessimista.

«Sul mio futuro personale e professionale molto ottimista. Per il resto, mi creda non passo la mia vita a pensare al futuro del mondo».

Una volta però lo faceva, no?

«Eh, una volta leggevo anche la favola di Cappuccetto Rosso».

·        Francesco Gabbani.

Francesco Gabbani: «Che imbarazzo quando ho battuto Fiorella Mannoia a Sanremo». Andrea Laffranchi su Il Corriere della Sera il 6 dicembre 2021. Il cantautore è protagonista dell’iniziativa di Corriere e Radio Italia. La nuova canzone «Spazio tempo»: «Un brano fra filosofia e vita quotidiana». 

A Francesco Gabbani piace giocare con la filosofia. Nel testo di «Occidentali’s Karma», canzone con cui ha vinto il Festival di Sanremo 2017, aveva infilato le culture orientali, Eraclito, Fromm e altro. Il cantautore — a lui è dedicato l’Artista Day di oggi, iniziativa di Corriere e Radio Italia che celebra i protagonisti della canzone — torna sul tema in «Spazio tempo», brano scritto per la serie tv di Rai 1 «Un professore», con Alessandro Gassmann nei panni di un docente della materia.

Come andava a scuola in filosofia?

«L’ho studiata al liceo classico, andavo discretamente ma il prof non era come Gassmann che prova a declinare la filosofia nella quotidianità per farla apprezzare ai suoi studenti. È una materia che prova a interpretare il senso della nostra esistenza. Ed è quello che, in piccolo, cerco di mettere nella mia musica. »

Il senso di questo brano?

«Per la prima volta in carriera ho scritto su commissione dopo che il regista Alessandro D’Alatri mi ha fatto avere la sceneggiatura. Provo a raccontare che tutti noi tentiamo di incasellare la nostra vita fra i paletti di un pensiero filosofico, che sia il “tutto scorre” o “causa effetto” o altro, ma poi arrivano quegli accadimenti semplici, che sconvolgono i nostri piani. Qui entra in gioco l’aspetto irrazionale e tutto si ribalta: infatti dico “un’ora nello spazio/un punto nel tempo”».

Cita «Albachiara» e «My Way»: perché?

«Sono gli opposti, ma non tanto nella musica. La canzone di Vasco Rossi è una crisi adolescenziale che racconta di fragilità, inadeguatezza. Quella di Frank Sinatra è la dichiarazione più adulta del vivo a modo mio».

Cita anche «John Lennon, Paul e Yoko Ono»...

«Indicano qualcosa di perfetto, irripetibile ed equilibrato, come i Beatles, che da un momento all’altro, ed ecco Yoko Ono, può finire. Come accade nella vita».

Nelle scorse settimane è stato a Abbey Road. Novità in arrivo per l’album?

«L’album uscirà il prossimo anno, a Abbey Road ho fatto una registrazione live per un progetto speciale. Quando stavo con i Trikobalto ci portò in visita un ingegnere del suono inglese. Questa volta ero nella sala 2, quella dei Beatles, e a posteriori ho realizzato che c’era un’energia particolare che crea suggestione».

Troppi indizi beatlesiani. È un fan dei Fab Four?

«Da sempre, ma mi sono re-innamorato di loro in questi mesi per la dimensione di scrittura delle loro canzoni: c’era istinto autentico senza fronzoli. E mi rendo conto che sto tornando al minimalismo della canzone».

Quindi non sarà un disco con beat ed elettronica che tanto vanno di moda anche fra i cantautori?

«Oggi sento molta musica dove viene prima la produzione rispetto alla canzone. E così io vado indietro».

Facciamolo con la memoria. L’Artista Day celebra i successi. Momenti bui che invece le hanno fatto pensare di mollare?

«Non solo l’ho pensato. Avevo anche mollato a un certo punto della carriera. Dopo l’esperienza con la band avevo provato più volte le selezioni di Sanremo Giovani come solista senza mai arrivare fino in fondo. Mi ero dato un limite temporale per essere indipendente economicamente grazie alla musica: i 30 anni. Non ci ero riuscito e avevo smesso di presentare provini come cantante. La musica per me era il negozio di strumenti di famiglia e un’attività di autore per altri. Avevo firmato un contratto con BMG ed è stato Dino Stewart a dirmi che quelle canzoni avrei dovuto cantarle io. Ero disilluso, ma mi convinse a provare ancora una volta con Sanremo Giovani nel 2016 con “Amen”...»

Vinse e l’anno dopo tornò fra i Big con «Occidentali’s Karma». L’emozione della vittoria?

«Ricordo il momento della proclamazione. Da un lato il sarcasmo del pensare “oddio, e adesso come ci arrivo a fine nottata...”. Dall’altro l’imbarazzo per aver battuto una grande come Fiorella Mannoia».

Un ricordo bello?

«Sarò naif, ma i momenti più toccanti mi riportano a nonno Sergio. La prima volta che ho pensato che un giorno avrei voluto fare questo avrò avuto 4-5 anni e stavo guardando il Festival di Sanremo con lui. Quando ci sono andato mi sono rivisto nel buio della sua sala davanti a quell’acquario... Mi vengono ancora i brividi a pensarci. Se ne è andato nel 2018 e sono felice che mi abbia visto vincere».

La famiglia l’ha sostenuta fino quei 30 anni fatidici?

«Papà sì perché è musicista. Mamma oggi ha lo finalmente accettato, ma ha fatto ostruzionismo. Allora mi faceva arrabbiare, è un atteggiamento di protezione comprensibile, ma esagerava. Se avrò un figlio, lo lascerò libero di scegliere la sua strada e la sua vita».

Francesco Gabbani: «Quando mi hanno fatto sentire diverso» Mario Manca su Vanityfair.it il 15/3/2021. Per Francesco Gabbani la «diversità» non è mai stato un ostacolo, ma una ricchezza. «La diversità non va mai vissuta come un limite, ma come un’opportunità per esprimere sé stessi. È per questo che, quando mi è stata data l’occasione di affrontare l’argomento per le nuove generazioni, per i giovani e i bambini, ho accettato con molto piacere» spiega al telefono Gabbani, felice e orgoglioso di aver preso parte a #IoSonoDiverso, la nuova campagna realizzata da Cartoon Network (canale 607 di Sky) che a partire dal 15 marzo, insieme a diversi volti noti come Andrea Delogu e CiccioGamer, si impegna a sensibilizzare i più piccoli sul tema dell’inclusività in tutte le sue forme, «cartonizzando» i personaggi che hanno scelto di sposare l’iniziativa.

Per Gabbani, che abbiamo rivisto al Festival di Sanremo insieme a Ornella Vanoni e che vedremo presto al cinema in La donna per me, il nuovo film di Marco Martani che lo vedrà per la prima volta cimentarsi con la recitazione, è un momento ricco di impegni, ma anche di grandi soddisfazioni. Non solo perché l’affetto che lo circonda si fa sempre più grande a ogni sua apparizione pubblica, ma anche perché le sue parole, semplici e dirette, riescono sempre ad arrivare al punto in maniera elegante, spendendo ogni fibra del corpo per veicolare i messaggi che gli sono più cari. Incluso quello della diversità, che Francesco cerca di considerare (per una volta) non nella sua accezione negativa, ma in una più positiva.

Insomma, la vedremo presto come attore.

«Sono molto curioso anche io del risultato, non so proprio come verrà».

Le piacciono le sfide?

«Sì, sono un modo per solleticare l’entusiasmo anche se, ovviamente, non avrei mai accettato se mi fossi reso conto che la cosa non fosse nelle mie corde. Non è completamente un salto nel vuoto, diciamo così».

Prima di vederla attore, la vedremo cartone per una causa molto nobile promossa da Cartoon Network. A proposito del tema, lei su Instagram scrive: «Nel mondo che voglio, la diversità è ricchezza e bellezza».

«Proprio così, è un onore per me poter mettere la faccia in questo progetto. Siamo tutti diversi e, in fondo, esprimere la diversità significa esprimere quello che siamo: il problema sussiste quando la diversità diventa un motivo di atti di bullismo. È questo tipo di reazione che va combattuta».

Qualcuno l’ha mai fatta sentire diverso?

«Sì, ma non in maniera negativa. Sono sempre stato un bambino estroverso con l’attitudine all’artisticità, mi sono sempre messo al centro dell’attenzione, venivo sempre scelto come protagonista delle recite e al liceo suonavo già blues: questo, però, mi ha portato a subire un lieve bullismo, perché venivo continuamente additato e isolato. Probabilmente di mezzo c’era una sana invidia che, lì per lì, mi ha fatto anche un po’ soffrire, ma devo dire che ho vissuto tutto con grande consapevolezza».

L’isolamento, infatti, non le ha tolto la fame del palco.

«È per questo che mi piacerebbe che questa campagna aiutasse a vedere la propria diversità come un vantaggio da esprimere, un’occasione per dimostrare la propria unicità: essere diversi non vuol dire essere deboli, ma essere preziosi».

Essere preziosi è, forse, una cosa che abbiamo tutti riscoperto dopo quest’anno. Di recente è tornato a Sanremo ma, a differenza delle altre volte, si è trovato senza un pubblico. Cosa ha provato?

«Il tessuto emotivo legato al fatto che l’Ariston fosse vuoto non l’ho avvertito: la sensazione che hai a Sanremo è quella di essere in diretta davanti a milioni di persone o, almeno, io l’ho sempre vissuta così. Per la mia esperienza non ha fatto tutta questa differenza, quindi. Certo, quest’anno ci sono tornato in modo diverso, in veste di autore e di cavaliere della grande Ornella Vanoni: mi è piaciuto molto viverla in questo modo, cercando di trarne il lato positivo. È stato emozionante fare da assist a Ornella».

Sembra, infatti, che andiate molto d’accordo.

«Ho avuto il piacere di conoscerla in questo ultimo anno, le ho scritto questa canzone, l’ho incontrata e gliel’ho fatta ascoltare. Al di là della questione artistica, è nato un bel rapporto dal punto di vista umano: è ironica come me, e ci siamo divertiti fin dal primo momento. Spesso ci sentiamo al telefono anche solo per salutarci, per farci due risate. Ho trovato in lei una persona molto dolce che non sempre appare vedendola dall’esterno. Si presenta come una donna libera, senza filtri, quasi cinica, invece è molto di più o, almeno, lo è con me. Mi vedrà come il nipote simpatico».

Lei, invece, ha filtri?

«Tendenzialmente no, ma il modo in cui mi pongo ha sempre a che fare con la positività: mi piace comunicare sempre all’altro qualcosa di bello, cercando di tenere gli aspetti più bui e riflessivi per me. Alla fine siamo in un perenne equilibrio tra il positivo e il negativo, ma ho sempre preferito impegnarmi per regalare un sorriso».

I momenti bui come li affronta?

«Cercando il contatto con la natura. Ho scelto di continuare a vivere in un luogo immerso nel verde proprio per questo, per avere la possibilità di camminare o di prendere la bicicletta nutrendomi di quello che mi circonda. La natura mi porta a riflettere su me stesso e sulla vita: cerco questo tipo di sensazione nella mia dimensione più intima. Quest’anno poi, nella sua difficoltà, ci ha portato a riconsiderare certi valori, a riscoprire il piacere delle cose semplici».

Lei cosa ha riscoperto?

«Il senso della condivisione che diamo sempre un po’ per scontato. Il fatto di non poter incontrare, vedere e abbracciare le persone care l’ho molto rivalutato».

La musica e i concerti, dopotutto, sono condivisione. È ottimista per la ripartenza?

«Sono speranzoso, non vedo l’ora che si possa tornare a fare concerti. Non voglio fare il mistico, ma in questo sono un grande sostenitore della legge dell’astrazione, confidando che l’universo risponda bene. Speriamo il prima possibile di riprendere a vivere le nostre vite appieno».

Lei, poi, grande divoratore di palchi, patirà molto non poterci salire. 

«Mi manca, anche se sono stato uno dei pochi che durante la scorsa estate ha sfruttato il fatto che si potessero fare concerti per mille persone opportunamente distanziate: non vedo l’ora di tornare a farli. La vibrazione e l’energia che si avverte convivendo lo spazio con il pubblico è reale, è vera, e non è replicabile in nessun altro modo, neanche sui social. Certe emozioni non possono passare dal web».

4 anni fa stravinceva a Sanremo con Occidentali’s Karma. Oggi il suo karma com’è?

«È buono. Avverto che, se ti poni in modo corretto, propositivo e sano, in un modo o nell’altro qualcosa ti torna indietro. In questo momento sono in pace con me stesso e il mio karma che è sull’onda della serenità».

·        Francesco Guccini.

Marco Marozzi per corriere.it il 28 ottobre 2021. Dice: «Noi vecchietti» (l’intervista al Corriere della Sera per gli 80 anni).

Vabbé, Bologna non è più Parigi. E Guccini? Omero in minore? 

«Oddio. Forse perché non ci vedo quasi più. Non riesco più a leggere, devo ascoltare gli audiolibri. Non è la stessa cosa... Scrivo come posso. Lavoro con il computer, schermo grandissimo. Le canzoni le scrivevo a mano su dei fogli. Ho scritto otto gialli, quattro romanzi, molti racconti. Adesso cominciamo un nuovo giallo con Loriano Macchiavelli, il decimo, abbiamo fatto anche vari racconti. Avevamo pensato di recuperare il carabiniere Benedetto Santovito, il nostro primo personaggio. Lo amiamo ancora tanto, ma il tempo passa per tutti. Eppoi… lavoro a una serie di racconti sul mio periodo modenese. Non canto più da anni, non ci vedo e scrivo».

Pausa e risatina tirando indietro la testa: «Posso tranquillamente definirmi uno scrittore».

Il ritorno a Pavana, sull’Appennino pistoiese

Francesco Guccini è «tornato, per fortuna», a Pavana e continua quel che fa ormai da decenni. Il saggio involontario. Vangelo globalizzato per tutte le fedi. «Mah, strambo diventare vecchi». È l’ultimo Grande Saggio. Lo cercano per tutto, lui rifiuta di essere un tuttologo, ben prima dei divi a tempo delle tv, dei milionari dei social. Ma apre la porta ai pochi amici rispettosi e ai ragazzi che si presentano nella bella casa sull’Appennino pistoiese. Sospira e infine se la gode. Dà un’idea di serenità che da un pezzo pareva mancargli, fra stop alle sigarette, malanni, pandemie. Anche il vino non fa più parte dell’aneddotica: ora è Rosè scelto e Gewurztraminer, via fiaschi e bottiglioni anonimi. 

«Quando sento parlare i politici di destra mi arrabbio ancora»

Ha appena firmato la petizione per lo scioglimento dei «movimenti di ispirazione fascista» lanciata dall’Anpi. «Mi sono arrabbiato poche volte, sono abbastanza pacioso. Non ho mai litigato con nessuno. Ma quando sento i politici di destra parlare mi arrabbio come una bestia con la televisione. E quel che è successo qualche giorno fa? È drammatico. Si insulta persino una signora come Liliana Segre, scampata ai campi di concentramento, la si obbliga ad avere la scorta».

La moglie diventata «fata di montagna»

È stato al Salone del Libro di Torino a presentare il suo ultimo libro Tre cene. (L’ultima invero è un pranzo), la specifica che tutti dimenticano anche se per Guccini le parentesi sono un gioco importante. Ricordi e ricorrenze. Cene montanare, storie che fanno le fusa come il gatto nero e quello pezzato che girano per casa. Gucciniani anche loro, burberi bonari. Solo Raffaella, la moglie, non è gucciniana: è la professoressa Raffaella Zuccari, sposata a Mondolfo nel 2011, trasformatasi in fata di montagna, compagna del Maestrone dal 1996. Guccini ormai da vent’anni è Pavana. «Tiro un sospiro lasciandola, il meno possibile». 

«Bologna non la conosco più»

Una vita diversa. «Bologna non la conosco più. Ci capito qualche volta per caso. Non mi piace… ho paura del traffico come a Milano, Roma, Torino… C’è tanta gente, non sono abituato. Porretta, il mio riferimento appena al di là del confine bolognese, ha un po’ più traffico di Pavana, ma insomma… Ogni tanto capito da “Vito”, mi dicono non sia più Vito di una volta». Un Francesco rappacificato ora racconta: «Le canzoni principali le ho scritte a Bologna. È l’ambiente cittadino che forgia la gente in un certo modo. Le scuole dei tortellini in brodo e del pesto alla genovese sono diverse. Su Pavana, il paese di mio babbo, dell’infanzia in tempo di guerra, ho scritto il mio primo libro, Cròniche epafàniche, e Tralummescuro. Ballata per un paese al tramonto, il romanzo del ritorno in un luogo che avevo lasciato vivace. Vacca di un caneè Modena, dove sono nato all’ospedale e dove arrivo bimbo. Cittanova bluesè Bologna». Già, dal 1961 in via Massarenti e poi in Paolo Fabbri 43. È qui che Guccini diventa il Maestrone. Nel ’71 sposa Roberta Baccilieri, la prima moglie. Nell’81 scrive Bologna, la «Parigi in minore» del LP Metropolis, con Bisanzio e Roma.

Tra nostalgia e presente

Fa ridere pensandoci adesso? Nostalgia? «Forse malinconia, non nostalgia. Senza memoria un essere umano non esiste, più si va avanti negli anni, più si ricorda gente, momenti. Quando muore un vecchio è come se bruciasse una biblioteca, ci ha insegnato lo scrittore Amadou Hampâté Bâ. Io sarò pedante, in copertina all’album Radici ho messo la foto dei mei bisnonni, quando tutti dicevano di fare tabula rasa. Penso agli avvenimenti passati, alle donne con cui sono stato, agli amici che non ci sono più. Diventi vecchio e anche un poco noioso».

Le confidenze e la musica

«Sono sempre stato curioso - dice - non ricordo chi ha scritto che ci interessiamo alle vite degli altri perché la nostra non ci basta. Mi sono raccontato sempre da solo con libri e canzoni, difficile mi sia confidato. Anche in Tre cene, ci sono tre periodi storici dell’Italia. Il primo racconto era già stato pubblicato in una antologia degli scrittori italiani. E io che sono snob l’ho pubblicato bene bene». E la «tristezza che poi ci avvolse come miele»? «Non accetto la tristezza, le mie non sono canzoni piagnucolose, sono realistiche, sensazioni che si trasformano. Non sono mai stato solo nella vita, non mi sono mai davvero annoiato. Mai sognato di fare il cantautore da grande, ho scritto canzoni per caso, per caso sono arrivato all’ambiente discografico, sono andato avanti. Mai proposto cassette con le mie opere. Già, devo molto a Renzo Fantini, il mio produttore, uno di quelli che non ci sono più». 

«Ho smesso di fumare da tre anni»

Sogni? «Da ragazzino sognavo soldi per sigaretti e libri. Ho smesso da fumare da tre anni, per i libri non ci vedo quasi più. Si cambia molto nel tempo, esternamente e internamente, certe cose fondamentali rimangono, dipendono dall’educazione avuta, come sei cresciuto. Penso di essere rimasto quello che ero, anche se ho avuto un qualche certo successo: un montanaro abbastanza semplice, di cultura discutibile».

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 28 gennaio 2021.

Che cosa direbbe oggi suo padre Ferruccio?

«Direbbe "grazie, ne sono felice, ma nei campi di prigionia non c' ero solo io. Eravamo in tanti lì dentro"».

Era una persona schiva?

«Moltissimo. Ma aveva anche un certo senso della giustizia e riconosceva che quella dei prigionieri di guerra è stata una condizione che ha toccato migliaia di persone. Per intenderci: assieme a lui, nel campo di lavoro in Germania, ce n' erano tremila e più».

A parlare è Francesco Guccini. Tutti lo conoscono come il cantautore che ha scritto canzoni quali L' avvelenata o La locomotiva , ma forse non tutti sanno che è stato anche il figlio di Ferruccio, nato nel 1911, soldato catturato a Corinto dopo l' 8 settembre 1943 e deportato nei campi di Leopoli prima e di Amburgo poi proprio perché si schierò contro il nazifascismo. E ieri, a più di trent' anni dalla morte, gli è stata conferita la medaglia d' onore per non aver aderito alla Repubblica Sociale, assieme ad altri undici cittadini italiani deportati. La medaglia per Ferruccio, consegnata in Prefettura dal sindaco di Bologna Virginio Merola nella Giornata della Memoria, è stata ritirata dalla nipote Teresa, figlia del cantautore.

Guccini, suo padre tornò dopo il 1945 ed è vissuto per quasi ottant' anni, la sua età adesso. Non le ha mai parlato di quell' esperienza?

«No, credo che abbia visto cose talmente disumane da non poter essere raccontate».

Però ha lasciato tracce, magari non verbali.

«Sì, tracce purtroppo perdute nei tanti traslochi della mia famiglia. Come un piccolo quaderno della prigionia. In queste pagine, con una grafia minuta e precisa, nel campo aveva annotato delle ricette. E sa perché? Perché non voleva perdere il ricordo dei sapori, dei profumi buoni».

Con lui, nel campo, c' erano anche Gianrico Tedeschi e Giovannino Guareschi.

«Sì, anche se non si sono mai incontrati con papà. So che con altri lui scambiava ricordi di cibo. Uno diceva: "Sai, una volta ho mangiato quei tortellini...", e tutti gli altri lo incoraggiavano con "Dai, racconta, che sapore avevano?"».

Perché era restio ai riconoscimenti ufficiali?

«Gli facevano piacere, certo, ma non se ne vantava. Pensi che quando lo hanno fatto Cavaliere della Repubblica, mia madre gongolava mentre lui si schermiva. Quando poi è morto, mamma ha fatto incidere il titolo di Cavaliere sulla sua lapide. Mi sono messo le mani nei capelli e le ho detto: "Mamma, ma guarda che ora lui si rivolta nella tomba"».

Ferruccio non parlava volentieri della prigionia, però quel periodo lo ha trasformato. Quali segni ha visto?

«Si vedeva anche da piccoli dettagli, solo in apparenza insignificanti. Pensi che una volta sono andato a suonare in Germania e prima che partissi lui mi disse: "Mi raccomando, quando sei lì assaggia il cavolo rapa, è buonissimo".

E io non capii subito. Dire che il cavolo rapa è una specialità mi sembrò un' affermazione assurda, ma poi ho colto il vero senso di quelle parole».

Perché anche il cavolo rapa, se mangiato in prigionia, diventa buono, quantomeno perché toglie la fame.

«Cercavo di scorgere in lui ogni traccia di sofferenza, ma Ferruccio era bravissimo a dissimulare, a non trasformare quella tragedia in retorica. Quella era un' altra generazione. Per esempio, per tutta la vita si è rivolto a sua madre dandole del "voi"».

Lei ha intitolato «Van Loon» la canzone dedicata a lui. Perché?

«Hendrik Willem van Loon è stato una specie di Piero Angela olandese degli anni Trenta. Un divulgatore, uno di quelli che piacevano a papà. E sa perché? Perché mio padre era nato a Pavana, provincia pistoiese, figlio di un uomo durissimo che voleva metterlo a lavorare al mulino fin da ragazzo. Ma papà voleva studiare, era un giovane curioso. E per fortuna sua madre riuscì a iscriverlo almeno a una scuola professionale, indirizzo perito elettromeccanico».

Ma a Ferruccio non bastava, vero?

«No, perché lui amava la letteratura, l' arte, le materie umanistiche. Si era comprato un' enciclopedia di grossi volumi, leggeva i compendi storici del Barbagallo. Si sforzava di parlare in italiano, aveva delle velleità che io oggi comprendo e che ammiro. E persino quando partì per la guerra meritava un grado superiore che però non richiese mai.

Era fatto così, papà».

·        Francesco Pannofino.

Dagospia l'1 giugno 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Francesco Pannofino è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dalla mezzanotte alle sei dal lunedì al venerdì notte, tra la mezzanotte e trenta e le due circa in onda anche su Rai 2. L'attore e doppiatore ha parlato delle riaperture dei cinema: "La situazione del cinema? L'apertura parziale di questo periodo coincide con un momento della stagione che è sempre stato difficoltoso, sia per il cinema che per il teatro. Comunque c'è qualche segnale di ripresa, qualcosa si muove, la macchina torna in moto e tante persone tornano al lavoro. E' importante". Sulla sua carriera: "Non ho rivisto tutti i film che ho fatto. Alcune volte per caso, in alcuni casi era proprio meglio non vederli. Capita a tutti di non fare sempre i capolavori, ci sono ciambelle che non escono col buco, che sarebbe meglio non vedere. E invece ogni tanto ricicciano. Titoli? Non me lo ricordo, ho rimosso. Se ritorno indietro nel tempo, penso che mi sono messo in una situazione che non sapevo dove mi avrebbe portato. Anche perché io non vengo da una famiglia di doppiatori o di attori. Per fortuna il lavoro è andato, mi hanno sempre messo alla prova, mi hanno sempre chiamato. Io ho sempre dato il meglio di me stesso". Sulla quarta stagione di Boris: "E' in fase di scrittura avanzata, dovremmo iniziare a girare da qui a poco. E' stata lanciata ufficialmente la quarta serie, io sono pronto a tornare su quel set, c'erano personaggi talmente azzeccati che tante carriere di chi ha preso parte a Boris sono andate avanti anche grazie a Boris. Ormai Boris è entrato nell'immaginario collettivo. Nella carriera di un attore bisogna avere anche la fortuna di capitare in mezzo a serie di questo tipo. Per strada mi dicono 'dai dai dai'. Ci sono mariti che mi passano le mogli per fare la pace". Sulla sua voce: "Continua ad essere abbastanza ascoltata. Molte volte mi chiedono una foto e la faccio. Poi dopo la foto mi chiedono un messaggio audio per il cugino. Poi un video in cui fai gli auguri alla sorella. Ma questo è un aspetto divertente della questione, in realtà fa piacere essere riconosciuti ed avere l'affetto del pubblico. Ci sono mariti che mi chiedono di mandare i vocali alla moglie per far pace. E ci sono donne che si sono innamorate della mia voce. Se qualche volta mi hanno chiesto di fare telefonate erotiche? Sì, ma mi viene da ridere, io ci lavoro con la voce, sono cose che non faccio. Non è proprio nel mio stile. Non ci penso proprio, distinguo la vita dal lavoro. Che faccio, mi metto a fare il figo con la voce? Mi vergogno. Incubi? Qualche volta, quando ero più giovane, sognavo che stavo lì davanti a una porta vuota, con un pallone che arrivava comodo, io non riuscivo a calciare e non riuscivo a far gol. Ora è un po' che non lo faccio più". Su come riuscì a doppiare Forrest Gump: "Fu una faticaccia. Non avevo l'esperienza di adesso, anche se ero nel pieno del vigore fisico. Doppiavo un attore che non avevo mai doppiato. Arrivò questa interpretazione strana, in cui mi dissero che Hanks quella parlata lì la faceva con un forte accento dell'Alabama. Non potevi farlo con un accento italiano, ci voleva un modo di parlare un po' strano, che coniugasse un po' di timidezza e difficoltà di articolazione. E' stata una delle prove più difficili della mia carriera al doppiaggio. I critici quando uscì il film mi riservarono delle critiche feroci. Perché quando fai una cosa diversa destabilizzi i conservatori. All'epoca ci sono rimasto male, ma la gente al cinema piangeva e rideva. Conta il giudizio del pubblico, che mi ha premiato". Sugli haters: "Non ne ho, c'è qualche puzzone, mettiamola così. Io non approfondisco, non rispondo a nessuno, non mi faccio invischiare in polemiche sui social".

·        Francesco Sarcina.

Francesco Sarcina, la confessione-choc: "Mi sono sniffato le ceneri di papà", il giorno più estremo. Libero Quotidiano il 25 febbraio 2021. Ha deciso di mettersi a nudo, Francesco Sarcina, il frontman delle Vibrazioni. Una vita al limite, per molto tempo, dove sesso e droga hanno dominato, insieme ovviamente alla musica. Si è aperto, ha raccontato tutto, prima a Verissimo ma soprattutto nella sua prima biografia, Nel mezzo, un libro crudo, intimo, in cui l'artista, 45 anni, svela particolari durissimi, scioccanti, relativi alla sue esistenza. Compresi alcuni relativi al padre. "Ero un ragazzino veloce e agile, riuscivo a barcamenarmi. Uscivo di casa e trovavo il cemento, le auto e i ragazzi sui motorini, i pacchi di erba da portare", racconta Sarcina in una intervista a FQ Magazine in cui presenta il suo libro. E ancora: "Mi sono massacrato di alcol e di droghe perché tutto sommato lottavo contro qualcosa. Non mi sento di colpevolizzare nessuno per le scelte che ho fatto. Sono un sopravvissuto", ha aggiunto. Dunque il capitolo sul papà, con il quale il rapporto non è stato semplice: "Mio padre era come me, amava la musica e le donne. C'era una gara conflittuale tra noi. Quando ho realizzato il mio sogno sapevo che era orgoglioso di me". Il papà, poi, è stato colpito da un ictus, una malattia che gli ha stravolto la vita: "Una volta l'ho portato ad un mio concerto e l'ho messo sotto il palco. Non se la stava godendo come avrebbe voluto. Era lì con un mezzo sorriso e mi immaginavo come sarebbe stato se fosse stato nel pieno della sua forma. Si sarebbe ringalluzzito con i suoi amici, sarebbe venuto dietro al palco a rompermi le palle", ricorda il cantante. Dunque quello che forse è l'aneddoto più intimo. E magari doloroso: "Dopo la sua morte ho disperso le sue ceneri in mare. Ricordo perfettamente quel giorno. D'un tratto mentre stavo spargendo le ceneri ed è cambiato il vento, mi è finito tutto in faccia. Mi bruciavano le narici, gli occhi, avevo sniffato le ceneri di mio padre come è successo a Keith Richards dei Rolling Stones. Poi, non so come, le chiavi della mia macchina sono finite in acqua. Insomma mi aveva giocato ancora una volta uno scherzo, mio padre", conclude Sarcina.

Verissimo, Francesco Sarcina e il dramma della droga: "La notte dell'overdose", la confessione che lascia senza fiato. Libero Quotidiano il 13 febbraio 2021. A Verissimo Francesco Sarcina si racconta senza freni, senza nascondersi. Senza nascondere nulla. Il cantante delle Vibrazioni, nel salotto di Silvia Toffanin, ha ripercorso i momenti più difficili della sua vita. "Per colpa di un’altra persona della quale ero molto innamorato, che aveva già tentato il suicidio parecchie volte, sono stato trascinato in un buco nero nel tentativo di starle vicino - ha esordito spiazzando lo studio di Canale 5 -. A differenza mia, lei faceva uso di sostanze pesanti. Una volta ho voluto provare anch’io per capire cosa sentisse e per maledire tutta questa situazione. Lei è andata in overdose, io per fortuna non ho rischiato la vita ma è stata una bella mazzata”. Ad aiutarlo a uscire dall'incubo (per il quale ha rischiato anche l'overodese) l'amico J-Ax. Anche lui reduce da una storia simile, lo ha consigliato fino a venirne fuori. "Era felicissimo della chiamata e mi ha detto che il percorso sarebbe stato lungo e complicato perché quel demone ti rimane - ha raccontato -. È una lotta che dura anni. Ora il demone si è trasformato, sono arrivato alla fine ma è stata dura”. Il pensiero va anche all'ex moglie Clizia Incorvaia. "Mi sono reso conto che è facile giudicare gli altri, ma chi lo fa in continuazione è perché ha dei problemi con sé stesso. Penso che dopo un grande amore ci possa essere una grande rabbia, con la speranza però che poi possa arrivare una grande pace, perché bisogna pensare ai figli. I gossip mi hanno fatto sorridere, ho vissuto cose ben peggiori, ma vanno tutelati i figli: ho sofferto molto per loro”. Controversa infatti la loro separazione che ha visto un susseguirsi di accuse reciproche. Ora però sembra acqua passata. Stando alle ultime indiscrezioni Sarcina starebbe vivendo una nuova storia d’amore con una ragazza più giovane di lui. Mentre la Incorvaia convive da mesi con Paolo Ciavarro, il figlio di Eleonora Giorgi conosciuto al Grande Fratello Vip.

Francesco Sarcina: «Ero arrabbiato con la vita e anche il sesso era furioso. Adesso parlo con le piante». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 14/2/2021. A pagina 2 della sua autobiografia, Francesco Sarcina si sta già facendo una striscia di coca nel bagno di un locale notturno. Glielo fai notare e lui: «Se è per questo, nella stessa pagina, e nello stesso bagno, sto anche già facendo sesso con una donna mai vista prima. Credo di aver passato più notti così che nel mio letto». Le 216 pagine scritte dal leader delle Vibrazioni sono un’epopea nera fra droga, sesso compulsivo, risse, alcol e rock ‘n roll. Dedicato a te, Vieni da me, Se, Dov’è sono solo alcuni dei successi che ha scritto, cantato, suonato. Nel mezzo, c’è tutta una vita da romanzo, ci sono la mamma che lo abbandona da adolescente, gli avi «terroni» che includono un bisnonno omicida e un nonno con un proiettile in pancia, un’infanzia con spaccio tra le periferie milanesi della Barona e di Gratosoglio, la musica per non pensare, le band nelle cantine, il padre depresso che poi finisce in sedia a rotelle e lui che deve occuparsene. Ci sono le risse, una fuga all’estero e «il giorno in cui finirono un sacco di cose: un amore, un matrimonio, un’amicizia». Quel giorno lo aveva raccontato al Corriere nel luglio 2019, quando accusò la moglie Clizia Incorvaia di averlo tradito con Riccardo Scamarcio, suo migliore amico e testimone di nozze. «Nel mezzo»è il titolo del libro, edito da Sperling & Kupfer e in uscita il 16 febbraio con la prefazione di J-Ax, che l’ha aiutato a disintossicarsi, e la postfazione di Paolo Ruffini, che scrive «Francesco è bravissimo ad autodistruggersi volentieri, ma è anche bravissimo a rialzarsi».

Sarcina, perché raccontarsi in modo così crudo?

«Quando io e mia moglie ci siamo lasciati, in tv, si è scatenato un salottino di basso profilo. Tutti parlavano di me come se fossi solo la fine di quella relazione e non 25 anni di musica, di palchi sudati. Come se la mia vita non sia, invece, più intensa, drammatica, ricca di soddisfazioni e cadute. Mi ha fatto profondamente male perché sono il papà di due figli a cui devo qualcosa. Nina ha 5 anni e mezzo e temo il momento in cui avrà l’età per leggere su Internet certe cose sul padre. Tobia ne ha 14, l’ho visto soffrire. Gli ho voluto spiegare chi sono e che sono nato in ambienti dove c’erano violenza, droga e dovevi sopravvivere, sapendo picchiare e giostrartela. Gli ho detto: te lo racconto perché il silenzio è pericoloso. Mi ha detto che l’ho sconvolto nel senso buono. Dopo, ho pensato: quasi quasi, scrivo un libro».

Come entra la droga nella sua vita?

«I quartieri in cui sono cresciuto erano di un tale piattume che noi ragazzini guardavamo i più grandi con la voglia di stare dove accadeva qualcosa e lì c’erano solo droga e spaccare auto. Per strada, giocavamo a pallone, ma c’era sempre qualcosa da portare di qua o prendere di là. Quando fai il primo tiro di canna, pur di averne ancora, spacci e non solo. La coca, però, arriva molto dopo, quando già suonavo nelle cantine e il circolo di amici si è ingrandito e sa da chi arrivava? Non dai pezzenti come noi, ma dai figli di papà, quelli con la chitarra più bella, gli amplificatori più moderni».

Sua madre, a un certo punto, se ne va. Che ricorda di quel giorno?

«Sono tornato a casa e ho visto il vuoto, il buio. Fin lì, i miei litigavano, non c’erano soldi, papà si faceva i cavoli suoi, era sempre via, mamma aveva perso il figlio che aspettava ed era rimasta scioccata, ma comunque erano i miei genitori, erano le fondamenta della nostra casa modesta. Invece, quel giorno, loro crollano ed è come se si fosse aperta una voragine in cui sprofondava tutto. Il tempo si è fermato».

Si è fermato anche per suo padre?

«Lo ricordo sempre sul divano liso, stava lì immobile e cambiava la forza di gravità: entrare in casa era come entrare in un buco nero dove tutto si distorce. Per cui, stavo sempre fuori. E più stavo in giro, più tutto peggiorava. Ci hanno dato lo sfratto, ci hanno staccato la corrente per due anni. D’estate, come fai senza il frigo? Mangiavo solo pane e Nutella».

Con sua madre si è riconciliato?

«Anni dopo, mi ha chiamato dalla Puglia: voleva tornare a Milano. Sono andato a prenderla in macchina. Oggi che sono genitore anch’io, so che ha avuto un esaurimento nervoso, capisco come deve essersi sentita».

Quanta rabbia aveva dentro, da ragazzo?

«Ero arrabbiato con la vita e con le donne. Anche il sesso era cattivo, rabbioso. Preso il diploma, facevo il manovale, mi spaccavo la schiena, poi andavo in giro a suonare, rimorchiare e ammazzarmi di canne. Col tempo, alcol e coca hanno preso il sopravvento. L’alcol è la droga peggiore, la più subdola. Però non sono mai stato un tossico depresso, da paranoia. Forse, perché, avevo la musica: per me, scrivere canzoni è una medicina, una seduta di psicanalisi, mi mette a posto».

Com’è, adesso, essere sobri?

«Sento le voci, parlo con le piante e vedo gli spiriti: ho capito che la realtà si percepisce solo nella naturalezza di quello che sei. Ho capito che mi buttavo negli eccessi per staccarmi dalle sofferenze. E che poi mi dicevo che avevo bisogno delle sofferenze perché sulle sofferenze scrivo canzoni. Questo libro mi ha permesso di guardarmi a fondo come non avevo mai fatto».

Come si è disintossicato?

«Mi sono chiuso in casa per cinque mesi. Mi sono legato al letto. J-Ax mi ha suggerito di fare tutti gli abbonamenti a Netflix e simili. L’ho deciso mentre mi stavo separando, il giorno in cui mi hanno detto che forse avevo un tumore: ho sentito dentro così tanta violenza e cattiveria che non ho dormito. Quella notte, non ho visto la mia vita, ma quella dei miei figli. Mi sono detto: di questo passo non avranno un padre o, se lo avranno, starà su una sedia a rotelle per dieci anni, come è successo al mio. Allora, ho deciso di prendermi cura di me. E per fortuna, non avevo un tumore, ma solo un problema alla tiroide».

Oggi, è tutto alle spalle?

«È una lotta che va avanti, ma sono tranquillo. Non sono mai salito sul palco fatto, però sempre con gli strascichi dei giorni precedenti. Il primo concerto da perfettamente lucido è quello al Forum di Assago, nel marzo 2019».

Dal libro, sembra che, fin lì, le notti le ha passate a bere, drogarsi, rimorchiare.

«Fino a sei anni fa, prima di sposarmi, ero conciato così. Poi è arrivato l’amore, uscivo meno con gli amici e stavo più attento, ma tutto è tornato compulsivo quando le cose sono andate male con mia moglie, quando la sua gelosia mi ha risvegliato il demone. Era un continuo di “chi è quella?” e di “sei stato con lei?”. Quando mi sono separato, ho ripreso la vita di prima. Io le donne le dovevo uccidere, masticare, sputare. Ora, non è più così. Ci metto delicatezza, attenzione, poi magari mi innamorerò, accadrà».

Che cosa l’ha fatta cambiare?

«Mia figlia Nina mi ha fatto rinnamorare della femmina».

Col primo figlio, scoprendo che sarebbe diventato padre, era scappato in Messico.

«Di sua madre Diana ero innamorato, ma era un tira e molla, non mi sentivo pronto. Non presi nemmeno la valigia. Andai a Tulum, dove avevo un terreno. Buttai il telefono, sono stato due settimane su una palafitta. Venne a recuperarmi una mia ex messicana».

Perché temeva della paternità?

«Amo prendermi cura degli altri, ma avendo visto la mia famiglia crollare, ho avuto il terrore di costruire qualcosa che poi finisse».

Con Scamarcio si è chiarito?

«No e non mi interessa».

Quando ne parlò, disse che era un’altra sofferenza che le avrebbe fatto scrivere molte canzoni. È andata così?

«Ne ho scritte una valanga, complice la pandemia. Di nuovo, la scrittura mi ha salvato: mi ha proiettato nel bello delle cose quando torneranno belle. Ho scritto sull’amicizia, sulla nostalgia di una tavola in compagnia…».

Il libro è anche un catalogo di risse.

«È come se avessi la violenza nel Dna: un bisnonno era stato in carcere per omicidio per una storia di fascismo; il nonno materno, che si era preso una pallottola in pancia dal fratello, ha menato durissimo fino a 80 anni. Ho tenuto a bada la violenza come potevo, ma non sempre. A un concerto, ho picchiato uno spettatore che faceva gestacci: ero stanco, spremuto da manager senza ritegno. Una volta, ho pestato uno che molestava la fidanzata del mio batterista, l’ho rincorso, gli ho sbattuto la faccia per terra, gli ho tirato calci in faccia, mi è partita una furia del diavolo».

Distrusse la Mercedes dei suoi discografici al primo singolo.

«Finalmente, dopo anni di sacrifici, usciva Dedicato a te e, sul lato B, non volevano mettere Sani Pensieri. Dicevano che era troppo rock, spaventava le casalinghe. Andiamo a firmare il contratto e scopro che sul lato B avevano messo Dedicato a te fatto col mandolino. Prendo l’auto di mio padre, che fra l’altro aveva appena avuto un ictus, vedo la macchina del direttore marketing, accelero e le vado addosso».

La rabbia era anche per il male di suo papà?

«È finito in ospedale una settimana prima che Dedicato a te uscisse e facesse il botto. La rabbia sa quale è? Che mi aveva sempre dato del pirla e io non potevo fargli vedere che ce l’avevo fatta e dirgli: il pirla sei tu. La rabbia, per dieci anni, è stata che finalmente avevo successo ma, ogni volta che salivo su un palco, mi sentivo in colpa perché non ero accanto a mio padre invalido».

Perché il titolo «Nel mezzo»?

«Perché oggi la gente vive sui social, ma la vita vissuta è un’altra. Io ho fatto il Servizio civile lavorando coi bambini malati. La gente giudica, pensa di sapere tutto degli altri, ma fra quello che pensa di sapere di me e quello che gli arriva di me, nel mezzo, che cosa c’è?».

·        Franco Oppini.

DA leggo.it il 16 luglio 2021. Franco Oppini, il segreto hot: «Il mio segreto con Ada Alberti? Facciamo sesso 8 ore al giorno...». In un'intervista al settimanale Nuovo, l'ex marito di Alba Parietti ha rivelato un dettaglio molto intimo della sua vita matrimoniale con Ada Alberti. L'attore è sposato da 18 anni con la nota astrologa e la passione sembrerebbe più viva che mai. «Il nostro segreto? - spiega Oppini alla rivista - è fare l’amore per otto ore al giorno. Una buona intesa dovrebbe essere alla base di ogni rapporto». Otto ore sono decisamente tante, soprattutto se durante il giorno bisogna fare anche altre cose. Ma Ada Alberti conferma la versione hot del marito: «Tra noi c’è stata fin dall’inizio una passione bruciante». Le dichiarazioni piccanti dell'attore fanno il giro del web.

·        Franco Trentalance.

Claudio Cumani per quotidiano.net il 26 novembre 2021.

Sia Franco, quanto sono state gelose le sue fidanzate per via del lavoro?

"Fidanzate vere ne ho avute poche, ma – se la ride Trentalance, bolognese, 54 anni, ex attore porno con 440 film hard in carriera e almeno 950 scene di nudo alle spalle – quelle poche le ho sempre fatte venire sul set perché capissero quanto tutto fosse faticoso. Alla fine se ne andavano serene".

Sarò Franco - Una vita un po’ porno si intitola appunto il docufilm di Alessio De Leonardis che da ieri è nelle sale italiane e che, oltre a ripercorrere i vent’anni bollenti di Trentalance (dal 1998 al 2018), rievoca la golden age dei film hard, dalla pellicola al vhs, dal dvd a internet.

Cominciamo dall’inizio: perché ha deciso di essere porno-attore?

"Ho sempre fatto lavori che mi mettessero a contatto con le ragazze come il barman in discoteca o l’animatore nei villaggi turistici. A Cattolica ho conosciuto, grazie a una mia ex, un regista di film hard. L’ho inseguito per nove mesi e alla fine mi ha fatto debuttare".

E come l’ha presa la sua famiglia?

"Non è stata ovviamente contenta, ma volevo assolutamente seguire una strada. E così è stato".

È mai stato sposato?

"Non ci sono mai nemmeno andato vicino. Conosco la mia natura e ho sempre compiuto le scelte seguendo, per così dire, una certa vocazione".

Quanto è cambiato il porno nel tempo?

"Oggi internet contiene solo clip senza trama e questo rende tutti, attori e registi, anonimi. Un tempo, invece, i film avevano una storia, c’erano i costumi, le location... Noi giravamo gli interni a Budapest, Barcellona o Praga, ma gli esterni si facevano a Firenze, Venezia o Roma. Arrivavano apposta le attrici dall’estero per quelle riprese".

Perché ha smesso?

"Dopo tanto tempo mi sono stancato e ho deciso di ritirarmi all’apice della carriera, come ogni sportivo che si rispetti. Faccio altre cose, sono mental coach, scrivo libri, produco vino... Tantissimi ragazzi mi chiedono consigli anche su Instagram".

Non ha mai provato imbarazzo per il suo lavoro?

"Mai, anche se magari l’ho creato in qualcuno. Del resto non ho ostentato nulla in nessuna occasione. E comunque, in quel che ho fatto, sono stati più i vantaggi che gli svantaggi".

Ma sul set gli attori s’innamorano come capita nelle pellicole romantiche?

"Molte attrici sono fidanzate e solo ogni tanto nasce qualche relazione. Poca roba, però. Anch’io qualche cotta me la sono presa, ma poi mi sono reso conto che con una fidanzata pornostar a casa non avrei mai fatto l’amore a causa del lavoro".

Cosa pensa di Rocco Siffredi?

"Sono stati i giornalisti a mettere zizzania, quasi fossimo Vasco e Ligabue. Devo dire che, nonostante Rocco mi abbia fatto lavorare agli inizi in due suoi film, siamo tutto meno che amici. Due galli in un pollaio...".

Perché Moana Pozzi è diventata una icona?

"Perché era brava, intelligente e ha avuto la fortuna di essere tra le prime pornostar italiane, mentre Cicciolina era ungherese. Ha fatto tv, cinema...".

A proposito di Ilona Staller, lei non è tentato dalla politica?

"Il pensiero non mi ha mai sfiorato". 

Quello di Cicciolina è erotismo d’antan?

"Come nello sport, ognuno fa quel che vuole. Adesso sono cambiati i ritmi, è tutto più veloce. Anche perché ci sono aiutini che un tempo non esistevano".

Le sono capitate disavventure sui set?

"Le racconto nel libro ‘Ritrarre con cura’. Una volta ad esempio stavamo girando su una barca in mezzo al mare a Palma di Majorca quando il mare si è ingrossato: io e l’attrice abbiamo continuato diligentemente la scena aggrappandoci ovunque, ma quando abbiamo alzato gli occhi il regista e il cameraman erano spariti per ripararsi all’interno. Un’altra volta in un fienile di Barcellona faceva talmente freddo che non sono riuscito a completare la scena".

Cosa l’emoziona ancora?

"Guardi, ho avuto successo, fatto soldi, ho scritto cinque libri e una graphic novel, sono stato spessissimo in tv, ma non c’è nulla di più bello di una ragazza".

·        Frank Matano.

"Io e Diego Abatantuono due generazioni di risate". Pedro Armocida il 30 Ottobre 2021 su Il Giornale. La coppia di comici al cinema con "Una notte da dottore" girato nella Roma del lockdown. È già nelle sale, distribuito da Medusa, Una notte da dottore con la regia di Guido Chiesa, divertente commedia degli equivoci che vede per la prima volta insieme la formidabile coppia composta da Diego Abatantuono e Frank Matano. Remake, cotto e mangiato, del film francese Chiamate un dottore! di Tristan Séguéla uscito lo scorso anno, Una notte da dottore mette in scena le divertenti e strane notti del rider Mario (Matano) diventato dottore per caso al posto del medico notturno Pierfrancesco Mai (Abatantuono). Grazie all'aiuto dell'auricolare che lo tiene in collegamento con il dottore, Mario diventerà un «vero» medico per qualche notte: «Ho visto il film originale - ci racconta Frank Matano - e alla fine penso che abbiamo fatto un adattamento migliore anche per il lavoro pazzesco di regia di Guido Chiesa».

Com'è andata con Abatantuono?

«Diego è uno dei nostri più grandi attori che sa lavorare sul registro sia drammatico che comico».

Si fa fatica a capire chi dei due è la spalla comica dell'altro.

«Sarà perché siamo molto uniti. Ci conoscevamo, abbiamo condiviso tante volte il tavolo per mangiare, e già lì mi faceva morire dal ridere, ma non eravamo mai stati su un set insieme. Ci siamo molto parlati e aiutati durante le riprese».

C'è stato spazio per l'improvvisazione.

«In realtà abbiamo fatto tante letture della sceneggiatura prima delle riprese. In quella sede abbiamo avuto la possibilità di intervenire. Ma una volta chiuso lo script, sul set non si improvvisa».

I suoi tempi comici molto peculiari sono una dote particolare oppure frutto di uno studio?

«Chi, per mestiere, vuole far ridere le persone pensa molto a questa cosa. Direi che è più un mix, capita che utilizzi le tue esperienze ma che poi all'improvviso tiri fuori un asso dalla manica».

Avete girato a Roma sempre e solo di notte.

«Sì, peraltro durante il lockdown. È stato incredibile perché so bene quanto Roma sia rumorosa mentre stavolta non c'era nessuno. Sembrava di stare su uno di quei set pazzeschi americani con le città finte. Credo poi che questo aspetto un po' spettrale abbia dato una nota di positiva malinconia».

La vostra coppia fa trasparire anche il tema della paternità.

«Con Diego siamo di due generazioni diverse, facciamo lo stesso mestiere ma io ho molta meno esperienza di lui. Così si è creato quasi un gioco, lui mi dava consigli e io magari gli davo entusiasmo con battute stupide delle mie».

Vorrebbe diventare padre?

«S'è fatta pure ora» (ride - ndr).

Quanti anni ha?

«Trentadue. Comunque con la mia compagna ci stiamo seriamente pensando».

Si aspettava lo straordinario successo quest'anno del programma Amazon Prime «LOL - chi ride è fuori»?

«Macché, sarà stato grazie a un allineamento dei pianeti, a energie che si mischiano, a un momento storico perfetto. Comunque noi ci siamo divertiti come pazzi e quando l'ho rivisto, lo giuro, non ho mai riso così tanto in vita mia».

E poi c'è la nuova stagione di Italia's Got Talent su Sky.

«Abbiamo appena finito le audizioni, è un programma che mi diverte tantissimo, mi fa sentire a casa. D'altro canto - che impressione!- è già il settimo anno che lo faccio, per fortuna ora tra noi giudici è arrivato Elio che ci ha regalato tantissimo».

Tra tv e cinema che cosa preferisce?

«Danno emozioni diverse ma le stesse soddisfazioni. Con il cinema non hai il riscontro immediato del pubblico e l'emozione è quindi posticipata mentre, con la tv, l'adrenalina viene dal dubbio se te la caverai o meno in tempi molto ristretti». Pedro Armocida

·        Gabriel Garko.

Da "Chi" il 20 aprile 2021. «Sono giorni che lavoro incessantemente, che mio papà non sta molto bene e che il mio nome riempie le pagine dei giornali. Ciononostante sono sereno, ma non nascondo che non è facile sopportare questa gogna mediatica». Gabriel Garko è un fiume in piena nell'intervista verità che ha rilasciato in esclusiva al settimanale “Chi” in edicola da mercoledì 21 aprile. La gogna alla quale l’attore fa riferimento riguarda sia l’Ares-Gate, lo scandalo sulla presunta setta che ruota attorno al produttore Alberto Tarallo e al suicidio di Teodosio Losito (ex di Tarallo), che un’intercettazione con Ana Bettz, al secolo Anna Bettozzi, arrestata con l’accusa di aver riciclato denaro, attraverso sue società, per conto della famiglia di camorra dei Casalesi e di frode fiscale. «Ho detto a chi di dovere tutta la verità”, spiega Garko che è stato ascoltato dalla Procura di Roma come persona informata dei fatti nelle indagini legate al suicidio di Losito.,  «Non ho altro da aggiungere e spero che presto, nel bene o nel male, si faccia luce su questa brutta vicenda. È assurdo che la vita mi riporti, in continuazione, al passato quando io ho solamente voglia di guardare avanti». «Non si scherza con la vita delle persone», ammonisce l'attore. «Ma oramai ci sto facendo il callo: negli anni mi hanno dato dell’attore di serie B, della “mignotta”, del rifatto, del gay per convenienza. È assodato che il mio personaggio venga sempre visto in un altro modo e me ne accorgo ogni qual volta incontro qualcuno. È oramai un classico la frase: “Ti facevo diverso”». A Massimo Giletti che nella trasmissione “Non è l'Arena” ha inserito il su coming out  di Garko al GFVip come avvenimento di un periodo non propriamente fortunato, risponde: «Mi ha lasciato sgomento perché in un periodo come questo, dove si discute ogni giorno del ddl Zan contro l’omotransfobia, le parole fanno la differenza. Il mio coming out ha solo migliorato la mia vita. Il giorno dopo avevo paura a uscire di casa. Mi sentivo nudo. Invece sono stato accolto da un calore mai avvertito prima. C’è gente che ancora oggi mi ringrazia di averle dato la forza e il coraggio di replicare il mio percorso e altra che, da quel momento, mi apprezza ancora di più». Riguardo al caso che lo ha collegato ad Anna Bettz, la cantante ed ereditiera accusata di legami con la Camorra per contrabbando di carburanti . «La signora  e io ci siamo conosciuti per motivi professionali qualche anno fa», spiega Garko « Avrei dovuto girare uno spot pubblicitario che, alla fine, non è mai stato realizzato perché il progetto non mi convinceva. Non c'erano presupposti perché mi accorgessi delle sue frequentazioni e se mai me ne fossi accorto, avrei interrotto ancor prima ogni contatto». Alla domanda se il suo coming out abbia in qualche modo intaccato la sua carriera, Garko risponde: «Sto vagliando diverse proposte e a breve inizieranno le riprese di un film dove reciterò assieme a Nicolas Cage, Eric Roberts e John Malkovich. I cliché che un attore omosessuale smetta di lavorare non hanno più motivo di esistere».

Andrea Ossino e Francesco Salvatore per “la Repubblica - Edizione Roma” il 14 marzo 2021. «Gabriel Garko è nel periodo giusto della sua vita, ora ha forza di potersi permettere di dire la verità. E lo ha fatto parlando con la procura». Gabriele Rossi conosce le dinamiche che ruotano intorno alla Ares Film. Ha lavorato con la casa di produzione un tempo gestita dal duo Alberto Tarallo - Teodosio Losito: «Era la mia seconda serie, "L' onore e il rispetto" - dice - poi mi è stato proposto di firmare il loro tipico contratto, ma mia madre mi ha fatto aprire gli occhi. La libertà rispetto alle scelte lavorative era deviata dalle esclusive che mi chiedevano. Non ho accettato e al mio personaggio è stata tagliata la testa». L' attore da poco è stato paparazzato in compagnia del responsabile comunicazione del Movimento 5 Stelle, Rocco Casalino. Gli scatti che immortalano i due mentre passeggiano tra le vie di Roma sono stati pubblicati nella copertina di "Chi" e hanno dato il via al gossip. Ma Rossi è anche noto per essere stato il compagno dell' attore Gabriel Garko. Ed è proprio a quest' ultimo che il sostituto procuratore Carlo Villani (che indaga sulla morte di Losito) ha chiesto cosa accadeva tra i corridoi della casa di produzione. Garko potrebbe conoscere la verità. E probabilmente anche Rossi: «Ho opinioni chiare, ma non le espongo», risponde. Se si tratta di fatti penalmente rilevanti lo decideranno i magistrati. Ma intanto sono diversi gli attori che criticano le modalità con cui l'azienda cinematografica, fallita nel febbraio del 2020, sarebbe intervenuta anche nella sfera privata delle star contrattualizzate. «Non so cosa accadeva alla Ares, con Teo ho avuto un breve rapporto lavorativo e poi ci siamo persi di vista - dice Vladimir Luxuria - Nel nostro ambiente sappiamo molte cose, io ho scelto di agevolare il coming out ma di non dire mai gli orientamenti sessuali altrui. Nel mondo dello spettacolo esistono unioni di copertura. C' è ancora chi pensa che se tu dici di essere gay perdi una fetta di fan o potresti avere problemi sul lavoro». L'indagine appurerà se le dinamiche interne all' azienda possano avere a che fare con il suicidio di Teodosio Losito, il cui corpo è stato ritrovato il 9 gennaio 2019 dai carabinieri, nella casa di Zagarolo dove lo sceneggiatore viveva con il produttore Alberto Tarallo. Sicuramente Losito al momento della sua morte affrontava un periodo difficile. La casa di produzione più prolifica di Mediaset aveva dimezzato quei 7 milioni di telespettatori racimolati ai tempi degli esordi della fiction " L' onore e il rispetto". La quinta stagione era stata deludente. Il tocco vincente, capace di coniugare l' estetica e la bellezza dei protagonisti delle produzioni Ares ( Gabriel Garko, Eva Grimaldi, Manuela Arcuri, Nancy Brilli, Giuliana De Sio, Virna Lisi) con tematiche forti, immagini talvolta eccessive e personaggi caricaturali dalla moralità contrastante non ipnotizzava più gli spettatori. I critici contestavano " l'estetica queer". E Losito disprezzava « lo snobismo dei critici che in passato hanno ucciso il cinema e ora ci provano con la televisione». Gli incassi diminuivano. Il format non funzionava più. Gli attori si ribellavano. E quel giorno di gennaio, con una sciarpa della madre appesa al termosifone del bagno, la fine di Losito è sostanzialmente coincisa con quella di una delle case di produzioni più importanti d' Italia.

Ida Di Grazia per leggo.it il 7 dicembre 2020. Gabriel Garko si confessa a Non è la d'Urso: «La storia con Manuela Arcuri era vera», lei reagisce così. Più di 10 anni fa i due attori hanno avuto una relazione durata 5-6 mesi. La Arcuri ha sempre detto di essere rimasta male non tanto per la fine della storia, ma di aver scoperto che dopo tutti questi anni era tutto finto. Ospiti a Live non è la D'Urso Manuela Arcuri e Gabriel Garko. I due hanno avuto una relazione più di 10 anni fa, la Arcuri era ignara dell'orientamento sessuale di Garko ed ha sempre pensato che la loro fosse una vera relazione. «Io continuavo a credere quello che lui mi ha fatto credere - spiega la Arcuri - ma la cosa più grave per me è che ha detto che le sue storie erano finte (con Adua ed Eva Grimaldi ndr.) e studiate a tavolino. Visto che nelle sue storie ero compresa anch’io, ho pensato lo ha fatto anche con me? Ho pensato di essere stata usata, però mentre le altre lo sapevano, erano complici, io no». Gabriel Garko ammette che la storia con la Arcuri era vera: «Io con lei non mi sono comportato in maniera falsa, poi mi sono reso conto dopo “dove vado?”, Io avevo una vera storia con lei, fine. Con il mio compagno è arrivato tutto dopo. Ero talmente nauseato che andavo sui giornali per le mie storie finte che ho sempre protetto quelle vere. A me lei piaceva tanto. Non me lo ricordo perché ci siamo lasciati. Avere una relazione quando sei sotto i riflettori non è semplice». Barbara D'Urso chiede a Garko se è vero che ha avuto il Covid e lui conferma tutto: «Sì, l'ho avuto. Me lo sono beccato. Ho passato dieci giorni in quarantena. Non sono stato malissimo. L'ho curato. Sinceramente in quel momento non l'ho detto perché c'è gente che ha sofferto veramente per questo motivo. Ora lo hai detto tu e lo confermo. So che ora sono immune, così mi hanno detto. Non so per quanto. Anche se sono tranquillo, metto sempre la mascherina. Non vedo l'ora di fare un falò di mascherine quando sarà tutto passato».

Grande Fratello Vip, Gabriel Garko: "Costrizioni di un agente?", gira una voce in casa sul coming out. Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. Al Grande Fratello Vip è stata la serata di Gabriel Garko, che rivelando il “segreto di Pulcinella”, come lui stesso lo ha definito, si è finalmente liberato di un grosso peso. La mossa spacca-share di Alfonso Signorini assume un significato tutt’altro che banale non solo per il peso del personaggio che ha fatto coming out, ma anche perché è arrivata proprio nella settimana delle rivelazioni inquietanti che Adua Del Vesco e Massimiliano Morra hanno fatto su una certa casa di produzione. Quest’ultima accomunava i due concorrenti del GF Vip a Garko, che tra l’altro in passato era stato accreditato di una relazione con Adua: ieri sera l’attore ha svelato che tra l’altro c’è stata una favola, ma fatta solo di amicizia. “Secondo me lo avrebbe fatto anche prima, se solo avesse potuto”, è stata il commento di Stefania Orlando che, pur essendo all’oscuro di quello che i social hanno definito l’Ares Gate, ha sostanzialmente inquadrato la situazione descritta da Adua e Massimiliano e fuori dalla casa. “Magari potrebbe aver subito delle costrizioni di un agente - ha aggiunto la Orlando conversando con altri inquilini della casa - magari aveva una clausola di lavoro, una volta le mettevano”. Chissà che qualche risposta in merito non possa arrivare proprio dal diretto interessato, dato che Garko sarà ospite di Silvio Toffanin a Verissimo: l’appuntamento è per sabato 3 ottobre e di sicuro sarà da non perdere. 

Grande Fratello Vip, Massimiliano Morra nominato dopo Adua Del Vesco: “Si sono messi d'accordo”, strana coincidenza. Libero Quotidiano il 26 settembre 2020. “Secondo me si sono messi d’accordo”. Antonella Elia ha avanzato un sospetto sulla nomination di Massimiliano Morra, che al Grande Fratello Vip rischia l’eliminazione dopo aver ricevuto ben sei degli otto voti disponibili. Secondo l’opinionista del reality di Canale 5 si tratterebbe di una strategia degli altri uomini della casa: “Morra è quello che cazzeggia di meno, che è più introverso”. E per questo sarebbe stato nominato in massa: la strana coincidenza notata da molti telespettatori del GF Vip è che oltre a Morra sia a rischio eliminazione anche Adua Del Vesco, che invece è stata nominata dalle concorrenti donne. Una coincidenza perché gli inquilini della casa non possono sapere lo scalpore mediatico che ha suscitato il cosiddetto Ares Gate, ovvero il caso nato per via di una chiacchierata tra Adua e Massimiliano che riguardava una casa di produzione che li aveva visti coinvolti lavorativamente assieme a Gabriel Garko. Comunque appare difficile che i due possano davvero uscire nel corso della puntata di lunedì prossimo: al televoto dovranno vedersela con Francesca Pepe e Fulvio Abbate, con quest’ultimo che è il principale indiziato a lasciare la casa. 

Jonathan Zacconi per davidemaggio.it il 25 settembre 2020. Mediaset ha cancellato l’AresGate dai suoi programmi. Dopo la presunta diffida che vorrebbe impedire a Canale 5 e a tutte le sue trasmissioni di parlarne, la notizia è che Mediaset ha scelto di eliminare dal suo sito, MediasetPlay, i talk di Pomeriggio Cinque e Mattino Cinque in cui è stato affrontato l’argomento. A subire il primo taglio è stata la puntata di Pomeriggio Cinque in onda martedì. Grazie all’aiuto dell’orario in sovrimpressione nel programma si può notare come sia stato tagliato il talk sulle rivelazioni di Adua Del Vesco  e Massimiliano Morra all’interno della casa del Grande Fratello Vip. In un attimo si passa dalle 18:18 alle 18:25, saltando i 7 minuti “incriminati” (Barbara D’Urso dice: “Parliamo ora di un’altra cosa seria – e poi continua ‘dopo il salto’ - Tommaso Zorzi“). Stessa sorte per la puntata in onda mercoledì pomeriggio in cui sono stati tagliati 8 minuti di talk, passando dalle 18:14 alle 18:22. Anche la puntata di Mattino Cinque di mercoledì ha subito un taglio: il contenitore, condotto da Federica Panicucci, ha dedicato 4 minuti all’argomento, dalle 10:16 alle 10:20, che ora non sono più visibili (Lory Del Santo in quei minuti parlava di un’attrice scomparsa). I programmi Mediaset non hanno più accennato alla vicenda che vede coinvolta la Ares Film probabilmente dopo la diffida che avrebbe fatto Alberto Tarallo. Tutto questo timore sull’argomento non fa altro che accendere sempre più i riflettori sulla vicenda, quanto mai complicata, in attesa che la verità venga svelata e resa pubblica.

Dal profilo di Gabriel Garko:

Sono sicuro che sentirete delle cose che non vorreste sentire...

Sono sicuro che molta gente giudicherà...

Sono sicuro che tante persone non capiranno....

E sono sicuro che per me sarà dura, molto dura...

Ma l’unica cosa che posso promettervi e che da me avrete solo la verità...

La dichiarazione. Gabriel Garko sorprende tutti e fa coming out al Gf Vip: “Era il segreto di pulcinella”. Redazione su Il Riformista il 26 Settembre 2020. Lacrime, abbracci e grande sorpresa per la dichiarazione di Gabriel Garko al Grande Fratello Vip 5. Nel corso della quarta puntata del reality condotto da Alfonso Signorini, il celebre attore è entrato nella casa più spiata d’Italia lasciando tutti senza parole. Quest’anno, infatti, tra i partecipanti allo show c’è la sua ex fidanzata Adua Del Vesco, alla quale ha letto una lunga lettera davvero emozionante. Sebbene il contenuto non sia stato molto esplicito, Garko (il cui vero nome è Dario Oliviero) ha parlato di un “segreto di pulcinella” con chiaro riferimento ad un “coming out”. Da anni, infatti, si vociferava sulla probabile omosessualità dell’attore, ma da lui non era arrivata nessuna conferma. Una delle sue ultime interviste rilasciate a Mara Venier nel corso della trasmissione Domenica In, aveva destato molti sospetti e curiosità per il modo vago con cui Garko parlava della sua vita sentimentale. Il clamoroso momento è arrivato solo mesi dopo nella casa di Cinecittà, dove l’attore ha dichiarato di “aver ritrovato il bambino che era dentro”. Ma i motivi sarebbero ancora più profondi. Negli ultimi giorni Adua Del Vesco e Massimiliano Morra, che in passato sono stati fidanzati, hanno svelato alcuni retroscena imbarazzanti e a tratti sconcertanti del loro percorso con la Ares film, la casa di produzione delle maggiori fiction di punta della Mediaset. I due si sono aperti a confidenze molto intime che avrebbero svelato un sistema equivalente ad una vera e propria setta, tanto da far scoppiare il caso dell’Ares Gate. Tra i personaggi coinvolti ci sarebbe anche Gabriel Garko, motivo per cui ha deciso di intervenire al Grande Fratello Vip non solo per dare la sua solidarietà ad Adua ma anche per svelare il suo “segreto di pulcinella”.

LA LETTERA – Non appena ha messo piede nello studio, Gabriel Garko ha subito tenuto a spiegare che la serata non era per nulla facile da affrontare: “Ho preparato una lettera molto lunga per Adua. Ci siamo visti un mese fa l’ultima volta. Siamo rimasti molto amici. Non penso di potermi permettere, nonostante il lavoro che faccio, di gestire determinate cose, per questo ho preferito scrivere una lettera. Ci sono momenti in cui ho vissuto e momenti in cui sono sopravvissuto. Ma tutto ciò mi ha reso molto forte”. Poche parole ma intense, prima di pronunciarne altre all’interno del giardino della casa. L’attore, visibilmente commosso, non è riuscito a trattenere le lacrime mentre leggeva la lettera alla Del Vesco: “Adua, Rosalinda, tu non mi hai mai chiamato Dario. Dario è un ragazzo che ho ucciso e che voglio riportare in vita. Lo so che alcune cose che sto per dirti saranno una sorpresa per te, non perché non le sapessi ma perché lo farò qui e ora. Noi due insieme abbiamo vissuto una bellissima favola, bella ma una favola. Nelle favole c’è chi le scrive e chi le interpreta e non so chi si diverte di più. Tu ti sei divertita? Neanche io. Ti voglio dire una cosa che ho fatto anche io. Devi prenderti cura della bambina che è dentro di te e capire in quale momento della vita l’hai persa. Io ho ritrovato il bambino dentro di me, il momento in cui l’ho abbandonato e gli ho fatto percorrere mano nella mano tutta la mia vita fino a oggi. Ti dico la verità. Io al bambino, i momenti brutti non glieli ho fatti vedere. Gli ho coperto gli occhi. Non farli vedere nemmeno tu alla tua bambina. Il mio bambino si è accorto che non ero felice. Ti ricordi quando a Sanremo ti ho detto che volevo fare di testa mia, lì ho iniziato a vivere, ho detto la mia vera età, ho ritrovato il bambino dentro di me. Da allora non sono più riuscito a indossare una maschera. Qui avete avuto una sirena, la sirena canta, ti ammalia e poi non ti lascia respirare più. Il mio bambino mi ha tolto la catena, lascia che anche la tua bambina la tolga a te. Abbiamo vissuto una bella favola e la vivrei mille volte. Ma era una favola. Ora però vorrei vivere la mia vita. Con te come amica. Esiste un’altra favola che ho vissuto da solo e che tanti chiamano il segreto di pulcinella. Vorrei poter dire perché è stato un segreto. La verità scavalcherà ogni segnale di omertà”. L’abbraccio tra Adua e Gabriel è scattato non appena l’attore ha terminato le ultime parole. Ma a rompere il silenzio ci ha pensato Signorini, che ha chiesto a Garko come mai non avesse parlato chiaramente di un coming out e se questo “segreto di pulcinella” sia quello che tutti hanno interpretato. L’attore si è affrettato a dire che “nel 2020 questa cosa non vada né capita, né discussa. Io vorrei dire perchè questo è un segreto. Esco da questa casa con il mio bambino per mano”. E che ne parlerà in maniera approfondita in altra sede, che con molta probabilità sarà lo studio di Verissimo il prossimo 3 ottobre.

Da "liberoquotidiano.it" il 10 ottobre 2020. Record di insulti in diretta tra Patrizia De Blanck e la marchesa Daniela Del Secco d'Aragona al Grande Fratello Vip. Le due nobili fumantine, tra cui non è mai corso buon sangue, sono state riunite da Alfonso Signorini nel giardino della casa di Cinecittà e sono volate contumelie. "Qua dentro tu mi hai solo infamata… Dovresti evitare di utilizzare un certo tipo di linguaggio…Sei una grande buffona…", ha esordito la Del Secco. "Io ti consiglierei di rimanere qua dentro il più possibile perché fuori si è scatenato l’inferno contro di te… Dalla D'Urso parlano della tua falsa nobiltà…", infierisce ancora la marchesa. "Non ti consento di toccare la mia famiglia…!", è la pronta reazione della De Blanck, che la Del Secco colpisce ancora sul vivo: "Il figlio adottivo di Marina Ripa di Meana ha detto che non ti lavi… A Roma vieni chiamata ciavattara… Dovresti cambiare galassia…". Patrizia ha chiuso la tensione con due sole parole: "Vaffanculo stronza". 

·        Gabriele e Silvio Muccino.

Non lo vedo da 14 anni, la verità di Muccino sul fratello Silvio. Giorgia Peretti su Il Tempo il 31 ottobre 2021. “Non lo vedo dal 2007, dopo questo tempo si elabora una sorta di lutto”, così Gabriele Muccino parla del rapporto con il fratello attore Silvio in un’intervista a Domenica In, il 31 ottobre. Il regista di “A casa tutti bene” e “La ricerca della felicità” è ospite di Mara Venier per promuovere la sua biografia “La vita addosso. Io, il cinema e tutto il resto”. Una lunga chiacchierata nel salotto di Rai Uno, dove Muccino ripercorre la sua infanzia, i suoi successi e il rapporto burrascoso famigliare con il fratello minore, Silvio. Contrasti che hanno portato i due a fronteggiarsi in tribunale. Più di un decennio di astio, tra recriminazioni private e accuse pubbliche, Gabriele Muccino ha ammesso: “Ne parlo nel libro per la prima e ultima volta perché è molto doloroso. Ho messo nero su bianco esattamente come sono andate le cose dal punto di vista giuridico, perché lui ad un certo punto ha detto delle cose molto gravi. Almeno sul libro c’è una verità che è inoppugnabile, sono due pagine su 300. È accaduto un allontanamento che ha deciso di avere verso i miei genitori, me e poi verso coloro con cui aveva fatto dei film. È stato inspiegabile”. Ai microfoni di “Domenica In” racconta di non avere più rapporti con il fratello da più di 14 anni ma che non voleva parlare della dinamica perché “non volevo che ci si abbassasse al gossip becero ed ho lasciato che fosse lui a parlarne”. I due hanno perso i rapporti da molto tempo e Muccino paragona la distanza dal fratello ad un “lutto” che dopo molto tempo è riuscito a superare. “Quel lutto e quel dolore sono passati la sofferenza che ho provato è stata lancinante per la mia salute. Dopo tanti anni, si sono sviluppati degli anticorpi talmente forti che mi hanno fatto superare quel dolore”, prosegue il regista (accusato dal fratello di essere violento e aggressivo nda). La Venier sottolinea come Gabriele abbia cercato di aiutarlo: “gli hai offerto un bellissimo ruolo, anche ultimamente”. “Ho fatto di tutto, non puoi salvare chi non vuole essere salvato, aiutato né incontrato”, ha spiegato. L’argomento però commuove ancora Muccino che ha raccontato di averne parlato in poche pagine del suo libro per mettere per iscritto la sua verità ma di non voler approfondire più l’argomento.

Gabriele Muccino: «La rottura con mio fratello Silvio come un lutto. Dal 2007 non vede i nostri genitori e nostra sorella». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera l’8 Ottobre 2021. Il regista si mette a nudo con un’autobiografia, dove racconta di Will Smith e Mike Bongiorno, Tom Cruise e «L’ultimo Bacio». E il dolore del distacco dall’attore. Will Smith e Mike Bongiorno, la banda di attori e amici de «L’Ultimo bacio» e la lezione di baseball di Tom Cruise, Minoli e Monicelli, i David mancati e l’uso dei social network, la rottura con il fratello Silvio e l’amicizia fraterna con Domenico Procacci, la prima serie tv e i film mai realizzati, le puntate di «Un posto al sole» e il festival di Sanremo. Gabriele Muccino si racconta a cuore aperto nell’autobiografia, «La vita addosso», realizzata con Gabriele Niola (Utet editore, 17 euro, 307 pagine). «Una lunga cavalcata di 24 anni, metà in Italia e metà in America, a cavallo di due culture molto diverse. Ho aperto ogni file della memoria in modo onesto».

A cominciare dalla tv.

«Ci sono arrivato grazie a mio cugino, che lavorava a Mixer. Mostrò a Minoli i miei corti e me ne commissionò tre uno sull’innamoramento, sula gelosia e sulla separazione. Poi per cinque mesi ho fatto Un posto al sole. La tv è stata una palestra, l’obiettivo sempre stato il cinema».

«L'ultimo bacio» in tv : la coltellata (vera) durante il litigio, il remake statunitense e gli altri 6 segreti del film

«Ecco fatto», poi «Come te nessuno mai», il successo con «L’Ultimo bacio».

«Fino a Come te nessuno mai ero visto ancora giovane promessa, guardato con attenzione e una sorta di affetto da Monicelli, Scola e Suso Cecchi, poi quel film rompe l’incanto. Come se avessi fatto troppo e troppo lontano da quello che loro riconoscevano come cinema italiano. Io cercavo il mio modo di fare cinema. È stato il film che ha scompaginato, scatenato gli animi. Non era chiari che etichetta mettermi addosso, non assomigliava a nulla. questa incapacità di capire che tipo di cinema facessi è stato motivo per cui ho avuto molto successo e molti detrattori. Vinse il Sundance, è restato nelle sale per sei mesi, ha incassato 33 miliardi di lire in anni in cui andavano Pieraccioni e Aldo Giovanni e Giacomo».

E ha spinto una nuova generazione di attori, Santamaria, già in «Ecco fatto», Accorsi, Mezzogiorno, Favino.

«Un gruppo di attori rimasto in primo piano nel panorama del cinema italiano, legati anche tra di loro. L’ultimo bacio resta un punto di riferimento, anzi i loro destini, sono andati a assomigliare ai personaggi che interpretavano, tutti quanti, da Favino a Stefano a Pasotti a Accorsi. Ci scherziamo su tra di noi».

Poi arriva Will Smith

«Per un curioso allineamento to di astri, in cui entra Mike Bongiorno e anche il Corriere, con un’intervista di Giovanna Grassi a Will che parlava di ultimo bacio. Avendo lo stesso agente riuscii a conoscerlo e lui mi propose La ricerca della felicità, tutto accadde in modo precipitoso. Non ebbi tempo neanche di capire l‘enormità dell’evento».

E Mike?

«Giravo uno spot con lui e Fiorello e mi chiamano da Hollywood. Lui mi sentiva parlare e si lamentava con Fiore per il mio inglese. Alla fine vado nel suo camper e lì mi arriva chiamata definitiva. Surreale. Fa molto ridere».

Più dolorose le pagine su suo fratello Silvio.

«Non lo vedo dal 2007, dopo questo tempo si elabora una sorta di lutto, non ha voluto incontrare me, in nessuna occasione, i miei figli, i miei genitori, mia sorella, ma anche Giovanni Veronesi, Carlo Verdone, ha fatto terra bruciata intorno a sé da tutti quelli che lo hanno amato. La sua scomparsa ha lacerato il tessuto familiare, a ognuno manca un fratello o figlio. Rimane inspiegabile, farà lui il bilancio della sua vita. Lui a un certo punto ha fatto dichiarazioni su di me talmente gravi, descrivendomi come uomo violento. Sono state il napalm. Le carte giudiziarie dicono l’opposto, vicenda si è chiusa con archiviazione. Nel libro, ho voluto raccontare tutto, non mi faccio sconti come uomo e padre».

Ci sono stati altri contatti?

«In uno degli ultimi due film, cercai di fare una mossa di una forza sovraumana di azzerare tutto ripartendo almeno professionalmente da dove avevamo interrotto, ho scritto un personaggio per lui. Ma non ne ha voluto sapere. Ti risponde con gli avvocati e allora basta così».

Con Domenico Procacci, Fandango, avete un quasi rapporto da fratelli

«È un grande amico, compagno di strada, ho condivido momenti più importanti della mia vita, privati e lavorativi. È un vero rocker. C’era in clinica quando è nato mio primo figlio, era con me al Sundance, è corso da me, lui maniaco di fumetti, quando possibilità di fare Wolverine con Hugh Jackman, a spiegarmene il valore di Wolverine, film che poi non si fece»

Come Dracula, Ponzio Pilato, il biopic su Tyson. Quale rimpiange di più?

«Uno alcuni tenevo davvero moltissimo, che ho preparato per sei mesi, è Passengers, gli attori erano Keanu Reeves e Emily Blunt. Anche Ponzio Pilato era molto interessante. Ma nessuna nostalgia né rimpianti. Scelte sbagliate ne ho fatte, Quello che so sull’amore (con Gerald Butler) è stato un grande errore, non era giusto, la mia sensibilità di suggeriva di non farlo. Mi sono lasciato convincere».

Parla anche della sua balbuzie. Un limite?

«È stato un grosso problema da ragazzo perché non riuscivo a socializzare, è stata una spinta in più per fare cinema, io narratore di storie più di quanto sia stato capace di farlo con la parola».

Alla Festa di Roma si vedrà un assaggio della serie «A casa tutti bene» per Sky.

«La mia prima. L’ho fatta a modo mio, Sky mi ha lasciato completa libertà con giovani attori molto bravi».

Per i David, si è fatto la fama di rosicone.

«Possono dire quello che vogliono, ma resta una cosa clamorosa non è che non abbia più avuto nomination miglior regista dal 2003. Sento una sorta di avversione a prescindere da quello che faccio. Ho preferito uscire da Accademia. Sto meglio così devo dire».

Usa molto i social, si pente ogni tanto?

«Sì, spesso. Per esempio con i fratelli D’Innocenzo che mi stanno anche molto simpatici e conoscono il fair play più moltissimi altri di questo mondo. I social non sono un mezzo per comunicare concetti o raccontare emotività, solo per informare. A volte non ci penso».

·        Gabriele Lavia.

Katia Ippaso per "Il Messaggero" il 25 gennaio 2021. «Ci vogliono morti. Il teatro non è mai piaciuto al potere. Dà fastidio». Gabriele Lavia non è uomo che cerca l'accomodamento. Ha vissuto una vita intera in palcoscenico, cercando risposte, per sua ammissione provvisorie, al mistero dell'esistere. Non sarà la pandemia, e tanto meno il clima di restrizioni e interdizioni rispetto ai luoghi della scena, a farlo retrocedere dalla sua profonda convinzione: «Il teatro è fatto di corpi vivi. Tutto il resto è miseria». Anche apparire in streaming è miseria: «Mi sono rifiutato tutte le volte che me l'hanno proposto. Per me, sono robettine messe in una scatola. Come non si può fare sesso per telefono, non si può fare teatro in streaming». Eppure, in tutta questa desolazione, non tutti sono finiti per strada. Anzi, secondo Lavia, «qualcuno ci ha persino guadagnato». «Il teatro pubblico ha fatto un affare con il Covid. Tutti quegli impiegati che prendono 14, 15 mensilità, ecco loro stanno al sicuro. Non conviene riaprire i teatri. Basta fare cosette in streaming. Nessuno vuole tornare a scritturare dal vivo quei rompicoglioni degli attori e dei tecnici. Mi vergogno per i politici. Credo che la pagheranno, ma non in questa vita. In questa vita sono tutti felici». La questione è antica. E l'attacco non è diretto al ministro Franceschini: «Non è lui che si è inventato il Covid. Di Covid si muore veramente». Il problema è nell'accettazione apatica dell'esistente: «Ho saputo che il Festival di Sanremo si farà con il pubblico in sala mentre i teatri sono chiusi da mesi. Ha fatto bene Moni Ovadia a dire che un Paese che favorisce le kermesse mediatiche, è un Paese miserabile. Io dico di più: è una gigantesca volgarità». C'è però un'altra metà del Paese, «quella che forse vive in un altro pianeta», che non solo se ne infischia di Sanremo («le canzonette? mai piaciute») ma che amerebbe tornare a teatro. «I teatri sono i luoghi più sicuri in cui stare. Ci sono cerimoniali precisi che garantiscono una distanza di sicurezza. Le sembra che questa distanza sia assicurata nei supermercati? Il fatto è che per me dovrebbe esistere un ministero apposito. Un ministero del teatro differente dal ministero del cinema e dell'arte. Il museo è cultura, ma morta. Il teatro è cultura, ma viva». Secondo Gabriele Lavia, il potere trova inaccettabile il fatto che gli attori siano scabrosamente vivi, con corpi e sentimenti esposti. «Il teatro è la cosa più difficile che esiste. Anche vivere è molto difficile. Come l'amore. L'uomo è precario, imperfetto. Ma è proprio di questa imperfezione che si occupa il teatro». A 78 anni, Lavia ammette di non aver mai fatto una crociera. Odia le vacanze. E anche se domina una totale incertezza rispetto alla data di riapertura dei teatri, ogni giorno prova in una piccola sala di Roma il suo nuovo spettacolo: Le leggi della gravità, dal romanzo di Jean Teulé, accanto a sua moglie, Federica Di Martino, e a un giovane attore, Enrico Torzillo. Teoricamente, lo spettacolo dovrebbe debuttare il 13 febbraio al Flavio Vespasiano di Rieti e chiudere la tournée a maggio al Quirino di Roma. «Ho scelto questo testo perché ha pochi attori. È la storia di una donna che, dopo dieci anni, si presenta in commissariato denunciandosi per l'omicidio del marito». La scorsa estate, a Bari, Lavia ha girato anche un film, ispirato a L'uomo dal fiore in bocca. «Avevo già fatto il testo di Pirandello a teatro. Non è stata una mia idea, ma di Manuela Cacciamani, che l'ha prodotto con Rai Cinema. Io ero un po' perplesso, ma forse aveva ragione lei. Non sappiamo ancora quando verrà alla luce, devo finire di montarlo, devo dire però che sta venendo molto bene». L'uomo dal fiore in bocca parla della malattia e della morte: «È la condizione umana». Sull'aldilà, però, non si pronuncia: «Non me lo immagino. Pur non essendo un materialista, non ho il dono della fede. Diciamo che non li considero affari miei».

·        Gabriele Paolini.

Adelaide Pierucci per "il Messaggero" il 26 maggio 2021. Si è rasato capelli e sopracciglia ed ha riempito una valigia, pronto a trasferirsi in carcere. Nessuno sconto di pena per Gabriele Paolini. La Cassazione, ieri sera, ha confermato la condanna definitiva a cinque anni di reclusione per aver organizzato giochi e intimità con minorenni, inquadrati con i reati di produzione di materiale pedopornografico e tentata violenza sessuale su minore, un diciassettenne. «Mi preparo ad andare in carcere - ha detto il disturbatore tv - Si sta punendo un personaggio scomodo. Ma, nel caso, non farò come Corona. Accetterò il fardello senza proteste, anche se sono innocente. Mi dispiace tanto solo per la mamma, che non so se riuscirà a sopportare anche questa botta». Per Paolini il carcere è solo un ritorno. Il disturbatore tv era rimasto, nel 2013, in un istituto penitenziario per 18 giorni dopo l' arresto per gli abusi. Dopodiché aveva trascorso diciotto mesi ai domiciliari col braccialetto elettronico.

LE ACCUSE Al centro dell' inchiesta, le intimità con minorenni, il gioco di foto e filmati hard in cambio di regalini e paghette. Goliardate tra amici o fidanzati secondo Paolini. «Questa decisione mi addolora, ma respingo tutti i reati a me contestati perché non mi appartengono - ha aggiunto Paolini, - Ho amato quel giovane, nonostante la differenza di età. Io avevo 39 anni e lui 17, ma lo ho amato per davvero. Ma se la Cassazione ha confermato la condanna, allora è giusto andare in carcere, non voglio misure alternative. Probabilmente pago anche per l' essere stato sempre un rompicogl... Su questo non sono difendibile, per 25 anni ho destabilizzato il mondo della tv e sicuro pago per questo». Il collegio difensivo di Paolini intanto si prepara a giocare l' ultima carta. «La difesa - ha dichiarato l' avvocato Lorenzo Lamarca - precisa che ricorrerà alla Corte europea per i diritti dell' uomo poiché la sentenza di rigetto dei motivi di ricorso per Cassazione pone in essere una discriminazione sull' orientamento sessuale».  Il pm Claudia Terracina, che aveva condotto le indagini, puntava, in primo grado, a una pena ancora più pesante: sei anni di carcere per i reati di sfruttamento e induzione alla prostituzione minorile, produzione di materiale pedopornografico, oltre, alla violenza sessuale. Contestazioni ridimensionate in sede di sentenza. La Corte aveva escluso l' induzione alla prostituzione minorile e aveva qualificato la tentata violenza come di minore entità. Gabriele Paolini, seppure provato, anche in quella occasione aveva ha annunciato di non voler rinunciare alle sue comparsate sul piccolo schermo, riprese da qualche settimana e che ora dovrà abbandonare per un pezzo. «Sono solo presenze, non interruzioni di pubblico servizio - aveva precisato - Sono venti anni che attacco il sistema televisivo. Molestatore del tubo catodico sì, ma protagonista di violenze sessuali no».

LA DENUNCIA Le indagini erano state avviate dopo la denuncia di un fotografo di Riccione che aveva ricevuto da un punto vendita di via Nomentana a Roma l' ordine di stampare alcuni file che ritraevano scene di sesso tra minorenni e il disturbatore tv. Nell' ordine di arresto veniva sottolineata «la spregiudicatezza mostrata» dall' indagato. La si deduceva con la testardaggine con cui, secondo l' accusa, aveva cercato di portarsi in un garage anche un altro amichetto, un sedicenne. In carcere Paolini promette di portarsi una valigia piena di libro: «Da ragazzo ho abbandonato gli studi classici subito dopo il ginnasio. Ripartirò da lì».

·        Gabriele Salvatores.

Gloria Satta per "il Messaggero" l'8 giugno 2021. Comedians, ovvero «il lato oscuro della comicità». Esce il 10 giugno, con 01 Distribution, il film di Gabriele Salvatores ispirato al testo teatrale di Trevor Griffiths portato in scena dallo stesso regista premio Oscar nel 1985 con Paolo Rossi, Silvio Orlando, Claudio Bisio, Bebo Storti, Renato Sarti, allora giovanissimi. Oggi, al posto di quegli attori, ci sono Christian De Sica, Natalino Balasso, Ale e Franz, Marco Bonadei, Walter Leonardi, Giulio Pranno, Vincenzo Zampa. Ma non è cambiata la storia: quella di un gruppo di aspiranti comici che, decisi a dare una svolta alle rispettive vite sfigate, si preparano ad esordire in un club alla fine di un corso di stand-up tenuto da un attore fallito perché non ha mai tradito i propri ideali (Balasso). In scena verranno esaminati da un cinico guitto (De Sica) che offrirà al migliore di loro un ruolo nel suo popolarissimo show tv. Coerenza artistica e mancanza di scrupoli, fedeltà ai principi e stereotipi, umorismo politicamente corretto: questi i temi del film che Salvatores, 70 anni, pronto a girare Il ritorno di Casanova con Toni Servillo, ritiene «più attuale che mai».

Perché?

«Parla di una piccola umanità che fa i conti con la voglia di emergere, la visibilità, il successo. E con il linguaggio politicamente corretto che sta diventando più pericoloso degli stereotipi perché ingabbia la libertà di espressione». 

Ma un comico non deve evitare di ferire gli altri?

«Deve mantenere l' equilibrio tra buon gusto e offesa, sapendo che il confine è sottilissimo». 

Da vincitore dell' Oscar, cosa pensa delle nuove implacabili regole di inclusione varate dall' Academy?

«Mi spiace per gli amici americani, ma sono ridicole. Come la presenza sui set del gender manager destinato a garantire il risalto alle interpretazioni femminili». 

Perché ha scelto De Sica per il ruolo del comico che si preoccupa solo di compiacere il pubblico?

«Ho intravisto in lui una malinconia e una vulnerabilità adatte al personaggio che dice: Io non cerco filosofi, voglio solo attori capaci di far fare 4 risate alla gente. Volevo un attore che credesse nelle proprie parole. Ma un cinepanettone di Christian non l' ho mai visto». 

Chi sono oggi i comedians?

«I politici che hanno rubato il mestiere agli attori e cercano di fare i simpatici. Ma io non voglio amici: dagli uomini impegnati nella cosa pubblica mi aspetto di trovare dei padri che prendano posizione e, nel bene e nel male come i vecchi dc, intendano la politica come una missione». 

È vero che, dopo la pandemia, il pubblico chiede al cinema soltanto evasione?

«No. La gente vuole qualcosa di più profondo che, come il vaccino, le permetta di pensare al futuro».

La sale stanno faticosamente riaprendo, ha paura che il suo film lo vedranno in pochi?

«Non mi aspetto nulla. Uscire in questo momento può essere rischioso, ma bisognava assolutamente farlo per sostenere la ripresa. E io, che ho avuto tanto dal cinema, mi sono messo volentieri a disposizione». 

Lei, che ha avuto il Covid, pensa che la pandemia influenzerà il lavoro di voi registi?

«Non posso prevederlo. Ma dentro di noi qualcosa è cambiato: ci sentivamo sicuri, quasi immortali e ci siamo riscoperti fragili. Probabilmente tutto questo influenzerà il nostro modo di raccontare». 

Comedians parla anche di responsabilità artistica: per lei in cosa consiste?

«Nel mettermi sempre in discussione e tentare nuove sfide. Lavorare con i giovani, ad esempio, aiuta a mantenere viva l' ispirazione. Non mi sono mai considerato arrivato.

Per andare avanti un artista ha bisogno dell' ansia, della paura di non farcela».

Stefania Ulivi per il "Corriere della Sera" l'11 marzo 2021. Le riprese, racconta Gabriele Salvatores, partiranno tra aprile e maggio. «Dipendiamo dall' emergenza, dai colori delle regioni coinvolte, adattandoci mano a mano. Di certo c' è la data di consegna: il 1° ottobre». Il regista premio Oscar è stato scelto, da una commissione presieduta da Sandro Veronesi, per girare le immagini delle Regioni per i visitatori del Padiglione Italia, curato da Davide Rampello, a Expo 2020 Dubai. «Il ritratto di un Paese ponte nel Mediterraneo che ha sempre favorito l' incontro tra culture. L' intento dell' Expo non è un documentario della situazione che stiamo vivendo, ma semmai il contrario: come eravamo e come speriamo di tornare a essere, dare un' immagine dell' Italia nel segno della bellezza, con tutte le sue differenze». Una nuova occasione, dopo Italy in a day del 2014 e Fuori era primavera , realizzato dopo i mesi del lockdown , e presentato in ottobre, quando il virus aveva colpito anche lui. «Quelli erano documentari di montaggio. Qui sarà diverso, lo sguardo è il mio. Su due piani: nella prima stanza del Padiglione ci sarà il lavoro dell' uomo, il saper fare. Nella seconda, il paesaggio. Un racconto per frammenti - che i visitatori vedranno in loop , anche in streaming sul portale creato ad hoc -. È il modo migliore per raccontare il tutto: non esiste un' unica realtà. Saranno come la colonna sonora di un' opera che già c' è».

Torna sul set nell' anno della pandemia che ha raccontato nel doc e che ha provato di persona: è risultato positivo mentre montava il nuovo film, «Comedians».

«Per me ha voluto dire la concretizzazione di un incubo che avevo da parecchio tempo. Tra allevamenti intensivi, cementificazioni, deforestazioni, cambiamenti climatici: da tanto aspettavano che la natura individuasse noi come un virus, che va combattuto e eliminato. Soderbergh già nel 2011 lo aveva raccontato in Contagion, profetico».

Che cosa le resta?

«Ho provato la solitudine di non poter condividere con gli altri le emozioni, il non poter viaggiare che per me, per il lavoro che faccio, resta cosa importante. Lo sgomento di fronte a 100 mila morti, l' ammirazione di fronte al lavoro impressionante dei sanitari di cui ho avuto testimonianza diretta con il professore Raffaele Bruno di Pavia che ha curato il "paziente 1": quando ero a casa senza sintomi siamo diventati amici».

Cosa le ha insegnato?

«Che il rapporto causa e effetto esiste. Non sono molto ottimista, lo confesso. Spero nei giovani, che le nuove generazioni si facciano sentire, che l' aspetto ecologico del lavoro con la natura torni in primo piano. Sapete quanti giovani stanno tornando alla campagna? Nel lavoro che realizzerò per Expo è giusto dare spazio al nostro sapere tecnologico, ma non posso dimenticare ciò che diceva Pasolini: che il nostro Paese, pur essendo uno dei più industrializzati del mondo, ha un' anima contadina. Mi piacerebbe far venire fuori questa anima arcaica, il futuro esiste se ha radici solide».

Ci stiamo abituando all' eterno presente.

«Invece è bene pensare al futuro, puntando sui giovani.Mostrerò chi fa i remi per le gondole di Venezia ma anche la bambina che li guarda lavorare. Ma soprattutto voglio comporre una troupe molto giovane, siamo al lavoro con la casa di produzione dei miei film, Indiana».

Alcune regioni hanno già aderito, altre sono in arrivo.Per adesso manca la Lombardia.

«Questa regione è incredibile. Uno dei motori dell' Italia che di fronte all' emergenza si sta rivelando tra le più in difficoltà. Non so se si aggiungerà, sono scelte dei presidenti della Regioni».

Con che spirito si mette al lavoro?

«Ho scoperto che quest' anno non ce lo ridarà nessuno e più vai avanti nella vita più scopri che le caramelle che ti hanno regalato stanno diminuendo. Prima le mangi avidamente, queste ultime me le voglio gustare bene una per una. Il tempo non è infinito. Come regista quello che farò, anche fosse un kolossal, andrà in una dimensione intima. Più poesia che romanzo».

·        Gene Gnocchi.

Gianluca Veneziani per “Libero Quotidiano” il 25 novembre 2021. Dopo 35 anni si compie il suo ritorno alle origini. Gene Gnocchi mette di nuovo piede allo Zelig, dove è iniziata la sua carriera. E lo fa in grande stile, questa sera, intervenendo con uno sketch nel programma condotto da Claudio Bisio e Vanessa Incontrada, in onda su Canale 5 (ore 21.30). «È stato bello», ci dice Gnocchi, «ristabilire un rapporto con persone con le quali mi trovo bene. E poi qui ho piena possibilità di esprimermi».

Con lei ci sono Teo Teocoli, Teresa Mannino, Gioele Dix, Anna Maria Barbera, Flavio Oreglio, il meglio della comicità storica del programma. Nel mondo della risata non c'è rottamazione, ma funziona l'usato sicuro?

«Questo è vero, ma è pure vero che i comici storici hanno portato cose nuove, sono stati al passo coi tempi, cambiando gli argomenti. Del resto, vanno rottamate solo le cose che non fanno ridere».

La prima puntata ha raggiunto il 22,3% di share con oltre 4 milioni di spettatori, stravincendo la serata. Dopo due anni di pandemia la gente ha una disperata voglia di ridere?

«Sì, lo vedo anche a teatro. Basti pensare a quello degli Arcimboldi dove si tiene Zelig: sono state sei serate sold out. La gente è vogliosa di ridere e di recuperare un rapporto sereno con i luoghi pubblici. E infatti le sale tornano a riempirsi».

Ci dia qualche anticipazione sul suo sketch.

«In parte sarà satira politica, in parte sarà legato al fatto che la pandemia, pur nelle oggettive brutture, ha avuto un risvolto positivo. Quale? Lo svelerò stasera».

Il nuovo Zelig sarà politicamente scorretto?

«Be', il mio intervento sarà spigoloso: dire che la pandemia ha avuto dei benefici non è correttissimo. In generale però il politicamente corretto ci ha rotto le palle. È perfino diventato scomodo scrivere di sport: se io dico che la Juve ha giocato peggio del Canicattì, qualcuno obietterà che il Canicattì non è così inferiore alla Juve. Ma un comico non può autocensurarsi: l'unico atteggiamento giusto è andare avanti, seguendo il proprio istinto e la propria idea di comicità. Non ci si può chiedere ogni volta se una battuta sarà o meno spunto di polemiche. E chissenefrega se qualcuno avrà qualcosa da dire».

Pio e Amedeo suscitarono scandalo dicendo che, se non ci sono intenzioni cattive, si possono usare parole come «negro» o «frocio». Lei che ne pensa?

«È sempre il contesto che decide. Poi, se qualcuno si sente oltraggiato e diffamato, quereli. Ma uno deve essere libero di poter dire quello che vuole, soprattutto in un contesto giocoso, scherzoso».

Come mai nessuno fa parodie di Draghi? È come i santi, su di lui non è possibile scherzare?

«No, si può scherzare su tutto. Massimo Ran Draghi è diventato l'emblema della pacificazione, è l'uomo al di fuori delle contese. Poi si è sempre sottratto ai talk politici, e ciò lo rende quasi immacolato. Ma arriverà presto il suo momento».

Quanta nostalgia avete, voi comici, di Berlusconi al potere?

«Be', Berlusconi al Quirinale per noi sarebbe grasso che cola. Ma bisognerà stare attenti al vilipendio. Rischieremmo di essere continuamente querelati (ride, ndr)». 

Il Pd di Letta, più che ridere, fa piangere?

«Il Pd ha capito che è meglio stare fermi, perché come si muove fa danni. Il Pd di Letta perciò fa lavorare gli altri, non fa niente. Sì, è al governo, ma sta defilato, non dà fastidio». 

Grillo dovrebbe tornare a fare il comico a tempo pieno?

«Lo fa anche ora, come dimostra la sua battuta su Conte specialista in penultimatum. La sua verve comica è ancora intatta. Se si mettesse di nuovo a fare il comico, avrebbe da insegnare a tanti. Purtroppo continua a fare il politico». 

Dopo Grillo sarà la volta in politica di un altro comico, Gene Gnocchi?

«Quando ero al programma di Floris, avevo ideato un movimento chiamato "Il Nulla". Era la prosecuzione ideale della classe politica di allora, al tempo dell'uno vale uno e dell'abolizione della povertà. Il Nulla era la soluzione, ma non è stato capito. In ogni caso Conte potrebbe essere il leader perfetto per il Nulla».

Come "seppellirebbe" con una battuta No Vax e No Green Pass?

«Su di loro non è possibile fare battute. Semmai faccio una considerazione: ho perso quattro amici per il Covid. Sentire le idiozie No Vax mi fa star male». 

Lei cerca da tempo di esordire in serie A. A 66 anni ci crede ancora?

«Una speranza ce l'ho. Due settimane fa ho ripreso a giocare e ho visto che il piede c'è. Per questo lancio l'appello: se qualcuno fosse interessato a farmi esordire, io qualche minuto in campo riuscirei a farlo. Mi propongo a qualsiasi squadra di serie A. Anche all'Inter, pur essendo milanista ai tempi di Savicevic. Invece a Enrico Ruggeri, che ha esordito in D, dico: sei negato a giocare a calcio (ride di gusto, ndr)». 

Zelig con il 22,3% va meglio di tutti i partiti politici. Potrebbe diventare un partito? E con Gene raggiungerà il 30?

«Sarebbe una bella soddisfazione, perché verrei nominato alla guida del partito Zelig. E diventarne leader sarebbe quasi come esordire in serie A».

"La satira, la politica e il calcio... Ora vi dico tutto". Gene Gnocchi si racconta. Francesco Curridori il 10 Ottobre 2021 su Il Giornale. Gene Gnocchi si racconta a 360 gradi e non risparmia critica alla televisione e alla politica dei nostri tempi. "Questa sinistra mi lascia allibito...", sentenzia amaramente.

"I primi tempi in Mediaset sono stati davvero entusiasmanti perché c'era tanta voglia di sperimentare". Gene Gnocchi, 65 anni, più di metà trascorsi a calcare il palcoscenico, si racconta a 360 gradi e non risparmia critica alla televisione e alla politica dei nostri tempi.

Quando ha deciso di entrare nel mondo dello spettacolo?

“Facevo un po' di attività amatoriale col gruppo rock-demenziale Desmodromici con mio fratello Charlie e altri musicisti partecipavamo ad alcune feste dell'Unità. Durante queste serate ho capito che la gente si divertiva con i nostri monologhi. Poi, spinto da un mio amico e socio dello studio legale, ho fatto un provino allo Zelig ed è andato bene. Praticamente non ho fatto tanta gavetta, Zuzzurro e Gaspare mi hanno scelto subito per fare Emilio. Stiamo parlando del 1988, sono 34 anni di carriera”.

Cosa spinge un avvocato a diventare un comico?

“In realtà, a me piaceva fare l'avvocato, ma farlo in una piccola cittadina è un lavoro molto routinario. C'è qualche recupero crediti, qualche separazione o sfratto esecutivo e, quindi, non c'è il grande penale o il grande civile. Diventava tutto quasi un lavoro impiegatizio e visto che si era aperta questa strada ho detto: 'proviamo' e, fortunatamente, è andata bene”.

Qual è l'esperienza televisiva che porta nel cuore?

“Ce ne sono parecchie. Sicuramente il sodalizio con Teocoli è stato fondamentale perché ho conosciuto una persona di grande valore e generosa perché è sempre stato prodigo di consigli. È uno che se vedeva che una battuta stava meglio in bocca a un altro gliela lasciava. Poi c'è stato il sodalizio con Simona Ventura che è stato altrettanto bello, ma se una cosa che proprio porto nel cuore è Dillo a Wally perché è il programma che più mi apparteneva dal punto di vista dei contenuti televisivi”.

Si è trovato meglio a lavorare in Rai o a Mediaset?

“Mi sono trovato benissimo in Mediaset dove ho iniziato con Emilio, poi ho condotto Mai dire gol, Vicini di casa, Il gioco dei nove e Striscia la notizia. Praticamente ho fatto tutto. Poi, in Rai ho fatto la Domenica sportiva e Quelli che il calcio e mi sono trovato altrettanto bene perché avevo dei partner eccezionali come Simona Ventura, Maurizio Crozza e Massimo Caputi".

Quanto è cambiata la televisione rispetto a quando lei ha iniziato?

“È cambiata tantissimo perché prima, se un progetto faceva fatica, ci si credeva e si teneva. Parlo per esempio delle Iene che all'inizio non andava bene oppure di Mai dire gol che all'inizio andava così così e, poi, è esploso perché la proprietà ci ha creduto. Adesso, invece, se i programmi non vanno bene, dopo una puntata li tolgono. Prima, poi, erano programmi scritti, mentre ora ci sono quasi esclusivamente reality dove la scrittura è troppo poca. Sono dei format dove si cercando di assemblare figure che si spera diventino personaggi. Non c'è meno professionalità, ma molta meno voglia di rischiare qualcosa”.

Oggi è più difficile o più facile fare satira politica rispetto agli anni '90?

“È diventato più difficile perché ultimamente il politicamente corretto è diventato una iattura per cui devi stare attento a qualsiasi cosa dici. È diventato più difficile anche perché oggi il politico ha molta più visibilità di un tempo. Prima lo vedevi nelle tribune politiche di Jader Iacobelli e l'idea di poterlo caricaturizzarlo diventava un elemento importante. Adesso il politico è in televisione tutto il giorno e diventa una macchietta perché, avendolo visto così tanto, non è più lui. È una caricatura che è difficilissimo da riprodurre e anche per questo a me la satira politica non interessa tanto".

Quale politico le è di maggiore ispirazione?

“Toninelli l'ho fatto con piacere perché era una fonte inesauribile. Anche dal punto dell'immagine, con quelli occhi sempre sbarrati come se si fosse trovato in una situazione molto più grande di lui, era piacevole farlo”.

Come giudica l'attuale stato di salute della sinistra italiana?

“Vengo da una famiglia di sinistra. Mio padre era sindacalista, segretario generale della Camera del Lavoro della Cgil a Parma e ha fatto tutte le grandi lotte per i rinnovi dei contratti con le grandi aziende della zona. All'epoca c'era un'attenzione nei confronti del mondo del lavoro che adesso non ritrovo più. C'è una mancanza di rapporto con le fasce più deboli che mi ha lasciato prima perplesso e, poi, allibito”.

Che voto darebbe al governo Draghi?

“Sta facendo quel che si ci aspetta che faccia e credo che si stia muovendo bene. Io ho fiducia. Ho più fiducia in Draghi che in Conte”.

Lei viene da Parma, il primo capoluogo conquistato dai grillini. Cosa pensa del M5S?

“Penso che i Cinquestelle abbiano cavalcato un voto di protesta che era largamente diffuso. Io feci la campagna politica ad personam perché Bernazzoli era mio compagno di scuola, sapevo che aveva fatto benissimo in provincia e che è una persona specchiata. Aiutare un amico che stimo mi ha fatto molto piacere e, anzi, sono contento di aver fatto la campagna elettorale con lui. Nei miei spettacoli prendo in giro i Cinquestelle. Anche nell'ultimo libro ho dedicato un capitolo a loro. Sono assolutamente convinto che un abominio come 'uno vale uno' qualifica non solo il movimento politico, ma tutta l'intera classe politica di quel movimento. Poi, avendo fatto i talk show con Floris e Porro, li ho visti un po' tutti e devo dire che non ho grande fiducia in loro. Una volta si eleggeva persone che ritenevi migliori di te e che avessero una visione. Adesso la classe politica è inferiore all'elettorato e, quando a Quarta Repubblica Conte ha ripetuto che per lui è una 'faticaccia', gli ho ripetuto che lo è anche per noi elettori”.

E il centrodestra come lo vede? Era meglio Berlusconi oppure è meglio il duo Salvini-Meloni?

“Secondo me, dal punto di vista di un antagonista, era meglio Berlusconi perché sapevi chi era e qual era la sua storia. Salvini e la Meloni, invece, fanno a gare per lisciare il pelo a delle frange che non sa neanche cosa sia un vaccino. Non capisco perché fare delle questioni su un vaccino che, fortunatamente, abbiamo avuto in tempi record. Molto meglio Berlusconi”.

A tal proposito, ha avuto paura del Covid?

“Io ho perso quattro amici carissimi per colpa del Covid. Avevo una paura fottuta perché erano persone che giocavano a calcio con me e li sentivo tutte le settimane. Amici più o meno tutti della mia età che si sono ammalate e che, improvvisamente, se ne sono andate. Non avevo paura, avevo terrore del Covid”.

Passiamo al calcio. Perché negli anni 2000 chiese di essere tesserato in serie A? Fu una provocazione?

“È un'idea che mi è venuta quando facevo Quelli che il calcio...Era il periodo di Calciopoli e ho provato a stemperare i toni andando a fare dei provini in giro tra le società. Era anche un vezzo personale perché sono stato un calciatore nei Dilettanti e mi solleticava l'idea di poter dire: 'ho fatto anche cinque minuti in Serie A'”.

Qual è il suo più grande rimpianto?

“Di aver fatto poco cinema. Ho fatto solo un film con Lina Wertmüller e due con Piccioni. Mi sarebbe piaciuto farne di più”.

E qual è la sua più grande paura?

“Che possa morire qualcuno dei miei figli”.

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un

Paolo Di Stefano per il Corriere della Sera il 26 giugno 2021. La prima cosa indiscutibile è che leggendo il suo ultimo libro, «Il gusto puffo» (Solferino), si ride. Ma si ride davvero. La seconda cosa indiscutibile è che Gene Gnocchi ci fa ridere e insieme ci inquieta, costruendo storie molto belle, con personaggi verosimili anche se surreali, grotteschi, lunari, paradossali. Troviamo il genero che per evitare che la suocera si unisca per le ferie decide di spaccarle il femore. Troviamo l'uomo più bello del mondo che non vuole far sapere di essere l'uomo più bello del mondo. Troviamo l'intermediatore di una coppia di coniugi Incas che vuole adottare il figlio di Briatore e di Elisabetta Gregoraci. Troviamo l'inventore del gusto puffo dei gelati nel giorno del suo funerale (a cui non può partecipare essendo impegnato altrove). Troviamo il tipo che per risolvere i problemi dell'immigrazione decide di tenere con sé otto piccoli Lukaku di cento chili l'uno appena sbarcati a Lampedusa. C' è l'ipocondriaco che si compra da Media World un impianto di risonanza magnetica ad uso personale. C' è il poveretto che non può sottrarsi a sostituire Rocco Siffredi per un giorno da pornodivo. E così via. «In realtà - dice Gnocchi - sono personaggi che si trovano dentro situazioni più grandi di loro e che cercano di barcamenarsi con le loro bizzarrie, le manie, le inadeguatezze, tutti disturbi legati al vivere contemporaneo». 

Anche il gusto puffo fa parte del vivere contemporaneo, ma è un po' fuori moda.

«In realtà il gusto puffo dei gelati è un'idea che mi accompagna da un sacco di tempo: c'era un periodo in cui quel gusto azzurro, fatto con i coloranti, che non si sapeva che cosa fosse esattamente, andava per la maggiore. Ed è lo stesso gusto retrò che caratterizza un po' i miei personaggi, che sono miscugli di coloranti e di vaniglia, di cose genuine e artefatte». 

Ingenui che faticano a capire il mondo?

«Sì, hanno difficoltà ad accettare e a farsi accettare, sono un po' dei borderline, sempre sul crinale, che non vengono riconosciuti come vorrebbero e reagiscono di conseguenza». 

Dove trova Gnocchi il tempo per scrivere?

«Quando c' è qualcosa che mi gira per la testa, il tempo lo trovo, non so per quale ragione misteriosa e come mai... Anche adesso mi sono venute in mente alcune cose sulla riassumibilità della vita... Può essere la mattina presto o la sera tardi, può essere a mezzogiorno, alla pausa pranzo... Diciamo che non sono il tipo che scrive quattro ore di seguito tutti i giorni, ma se ho un'idea o un'immagine che mi piace, mi ci metto nei momenti più impensati».

Aiutato dagli stessi quadernetti con cui circola un suo personaggio?

«C' è un personaggio che ha un taccuino ma lo usa pochissimo perché non lo tiene vicino al letto e di notte non ha mai la forza di alzarsi. Io scrivo a mano su bloc notes a spirali della Pigna, quelli grandi a quadrettoni. Poi ho sempre in tasca dei foglietti bianchi e delle penne Vision élite, ne ho comperate un bel po' perché non ne fanno più». 

Che ne pensa, Gnocchi, della letteratura contemporanea?

«Io appartengo a una generazione che ha letto e amato Gadda, Bianciardi, Patti, Brancati, autori che mi hanno accompagnato e che rimangono dentro di me: e Silvio D' Arzo, Antonio Delfini, Ennio Flaiano... Scritture limpide, aerate, meravigliosamente pulite. Alla fine, per me quello che conta è la pagina scritta, lo stile, il ritmo, ma leggendo gli autori di oggi ti rendi conto che non c' è più spazio e attenzione per queste cose. Anche la letteratura è una fabbrica del consenso che non ha niente a che fare con la qualità della scrittura, l'unica cosa che dovrebbe contare». 

Colpa di chi?

«C' è da dire che sono scomparsi i librai. Una volta alla Feltrinelli di Parma c' erano due librai che mi consigliavano: prova a vedere quel titolo, dai un'occhiata all' altro. Adesso i librai ti vendono prima di tutto i prosciutti e la pasta, il primo libro lo vedi dopo aver attraversato i banchi con le derrate alimentari e i gadget... Ti viene da star male, vacca boia». 

Un consiglio di lettura?

«"Le ombre bianche" di Flaiano, un ritmo, una precisione... "Un bellissimo novembre" di Ercole Patti è un libro meraviglioso. E "Casa d' altri" di D' Arzo è un capolavoro assoluto. Ma quanti li conoscono? Oggi mi piacciono Ugo Cornia, Ermanno Cavazzoni... È una letteratura umoristica di outsider, estemporanea e tenuta un po' ai margini... Non sono certo tra gli scrittori più celebrati».

Tra i più celebrati ci sono i giallisti, alla cui parodia viene dedicato un capitolo, «Un caso scottante per il commissario Prugna».

«Sì, è una presa in giro dei tanti scrittori di gialli: un racconto in cui muoiono a uno a uno tutti i commissari e dopo quelle scomparse inspiegabili al concorso pubblico della polizia non si ripresenta più nessuno» ( ride ). 

Com' è cominciata la voglia di scrivere?

«Ho sempre scritto racconti. Al ginnasio avevo in italiano il professor Petrolini, che era un glottologo allievo di Devoto e che assegnava sempre il tema libero: io facevo dei raccontini che spesso venivano letti alla classe». 

Il primo libro, «Una lieve imprecisione», è uscito trent' anni fa da Garzanti.

«Sì, l’ho scritto prima di dedicarmi allo spettacolo ma l'ho pubblicato dopo, e per questo è caduto in una specie di fraintendimento. Erano i tempi in cui facevo la televisione, "Mai dire gol" e altro, e uno di Napoli mi scrisse una lettera molto risentita in cui mi diceva che aveva speso 12 mila lire pensando di leggere un libro da ridere. Allora io gli ho mandato "Parola di Giobbe", il libro di Covatta, per riparare al danno. E siccome il libro di Giobbe costava tre o quattro mila lire in più del mio, quel tipo da Napoli mi mandò indietro il resto. È stata una delle cose più strane che mi siano mai capitate. Per certi versi aveva anche ragione, ma non era né colpa mia né colpa sua». 

Dopo tanti anni, si avverte uno sguardo disincantato verso il mondo dello spettacolo, forse anche un po' amareggiato, con qualche puntata satirica. Per esempio su Beppe Fiorello...

«Per carità, io ho avuto grande successo. Ma oggi mi trovo come uno che di fronte a certe situazioni capisce che c' è qualcosa che non quadra se ogni personaggio viene interpretato da Beppe Fiorello. È una cosa di dominio pubblico: tu accendi la televisione e chi trovi? Beppe Fiorello. Chi fa Einstein? E Palmiro Togliatti? E Cassius Clay? E i quattro del Quartetto Cetra, li fa tutti Beppe Fiorello... Naturalmente nella scrittura tutto diventa paradossale».

Tra i suoi grandi sodali e amici del palco e della tv c' è Teo Teocoli.

«Un grandissimo. Se ti vuole far ridere ti fa ridere. Ricordo quando veniva in camerino e faceva l'elettricista: si sdraiava vicino alla presa e ti chiedeva di dargli un cacciavite... Esilarante... Da Teo c' è solo da imparare. Ed è generoso, se pensa che una battuta stia meglio sulla tua bocca te la lascia. È una cosa rarissima». 

Prima venne Raimondo Vianello.

«Un aplomb e una raffinatezza. Non aveva mai bisogno di andare sopra le righe... Gli bastava un niente per cambiare il verso della conversazione. Una volta mi disse: non faccio per vantarmi ma ho sonno...». 

E i tanti anni a «Quelli che il calcio»?

«Simona Ventura conduceva con Maurizio Crozza che faceva i personaggi e con me che facevo il guastafeste e il grillo parlante. Simona si fidava ciecamente. Tre ore di trasmissione e prima non voleva sapere niente. Una volta è venuto David Bowie e gli ho chiesto: scusi, lei arrivando da Londra ha trovato traffico? Lei si è inferocita: ma che cazzo chiedi! Diventava matta... ( ride ) Quando intervenne il ministro Gasparri in diretta per attaccare la satira, lei fu una leonessa nel difenderci...». 

Sembra passato un secolo da Zelig...

«Non c' è più quella voglia. Forse negli ultimi tempi qualcosa ancora si sperimenta nelle seconde serate: Lundini, Ale e Franz, Barbareschi... Ma oggi nei social chiunque abbia 50 like in due minuti diventa un comico, anche se poi la vera misura te la dà il palco in spettacoli di un'ora e mezza».

Il Rompipallone, la rubrica quotidiana della «Gazzetta», come viene fuori?

«Guardo i focus della giornata, ne scrivo tre o quattro, li detto e lascio che siano i redattori a scegliere. Ogni volta che lo prendo per il culo Materazzi mi telefona per ricordarmi che lui è campione del mondo e io una m...». 

La passione del calcio è arrivata fino al punto da ottenere un tesseramento in serie A nel Parma di Ranieri. Come andò?

«Mi allenavo ma non riuscii a giocare neanche cinque minuti, perché il Parma si salvò all' ultima giornata con l'Empoli. Peccato. Mi ero già messo d'accordo con il quarto uomo che facesse un recupero di un quarto d' ora in modo da poter giocare una ventina di minuti...».

Com' è andata l'esperienza cinematografica con Lina Wertmüller?

«Era francamente un film brutto che non si poteva vedere, senza mezze tinte, ma con lei imparavi tantissimo, ogni parola era un insegnamento: ti faceva rifare la scena anche sei o sette volte, e capivi che ogni volta ti stavi avvicinando al meglio». 

E il Festival del 2004?

«Una centrifuga folle. Vai a Sanremo, per cinque giorni non dormi mai, esci dall' albergo e ti ritrovi davanti i microfoni di cinquanta radio e televisioni che ti chiedono qualunque cosa. Quell' anno c' era Tony Renis direttore artistico che continuava a promettere che avrebbe portato Robert De Niro perché aveva appena fatto una grigliata di carne con lui».

Cosa sta leggendo Gnocchi adesso?

«Ho preso il libro di Toninelli per le mie bambine, pensavo che fosse da colorare...».

·        Gerry Scotti.

Da Oggi il 3 novembre 2021. «Quando sono stato ricoverato per il Covid ed ero grave, il pensiero di mia nipote Virginia mi ha aiutato. Mi sono detto: devo guarire perché tra un mese nasce mia nipote ed io ci voglio essere». Gerry Scotti in un’intervista esclusiva a OGGI, in uscita nelle edicole da domani, racconta come il pensiero della nipotina Virginia gli abbia salvato la vita. Il conduttore parla poi di Sanremo: «Da quando Amadeus e Fiorello, i due delinquenti, si sono messi insieme nelle loro riunioni con gli autori, ogni tanto tirano fuori il mio nome. Vediamo, se impegni tv e umani coincidono con le date di Sanremo mi farebbe piacere andare a salutare tutti e due». Racconta, poi della sua vita da vignaiuolo e anticipa che dedicherà una delle sue bottiglie alla nipotina. Spiega infine che in tv l’unico programma culinario che lo attira è Dinner Club dello chef Carlo Cracco: «Se Carlo facesse una nuova edizione e mi invitasse parteciperei molto volentieri e se non lo facesse Carlo la farei io, Carlo non si deve offendere…».

È sempre mezzogiorno, "a un metro dalla terapia intensiva": Gerry Scotti in lacrime, la drammatica rivelazione alla Clerici. Libero Quotidiano il 19 febbraio 2021. A E' sempre mezzogiorno Antonella Clerici ha ospitato oggi un suo grande amico, Gerry Scotti. Il popolare conduttore tv, in collegamento da casa usa, ha raccontato la brutta esperienza con il Covid. Il presentatore di Caduta Libera su Canale 5, infatti, è risultato positivo al virus a fine ottobre. “L’esperienza Covid è stata particolarmente faticosa. Io l’ho fatta tosta, sono arrivato a un metro dalla terapia intensiva”, ha spiegato Scotti. La sua positività, inoltre, ha anche comportato la sospensione in presenza delle registrazioni di Tu Si Que Vales. Il conduttore televisivo s è detto comunque fortunato per non essersi portato dietro nessuno strascico: "C’è gente, invece, che fa fatica a ritornare alla vita di tutti i giorni”. In quel periodo, poi, sentiva spesso Carlo Conti, che era risultato positivo nello stesso periodo di Gerry Scotti ed era stato ricoverato all’ospedale Careggi di Firenze. Scotti, poi, ha scherzato con la Clerici dicendo di essersi inimicato molti colleghi giornalisti che gli hanno chiesto dei collegamenti Skype. Lui, però, ha sempre rifiutato dicendo di non essere capace a farli. Ecco perché la conduttrice di E' sempre mezzogiorno dovrebbe ritenersi fortunata. L'ospite della Clerici ha parlato anche della sua nipotina, Virginia, nata dal matrimonio del figlio Edoardo con Ginevra Paola. Sul web già circola una foto di Gerry versione nonno, mentre spinge il passeggino con la bambina tra le strade di un parco milanese. Scotti ha raccontato che il nome della bimba è stata una vera sorpresa: un regalo che il figlio e la nuora hanno voluto fargli. Il conduttore, infatti, si chiama Virginio.

·        Giancarlo Magalli.

Giancarlo Magalli, 14mila euro per la diffamazione ad Adriana Volpe: "Sapete cosa dirà lei?", la massacra ancora. Francesco Fredella su Libero Quotidiano il 17 dicembre 2021. Giancarlo Magalli sbotta, ancora. "Dato che tra 5…4…3…2…1 Adriana Volpe inonderà il web di comunicati stampa riguardanti la mia condanna esemplare per un’intervista in cui io parlavo del Me Too e NON la nominavo affatto, volevo anticiparla specificando che il giudice mi ha dato una multa (che non devo nemmeno pagare) una provvisionale (che non devo pagare) e le spese legali (che pagherò) - scrive sui social l'ex conduttore de I Fatti Vostri -. Questo prima che dica che sono stato condannato all’ergastolo o a 10 milioni di risarcimento. Per inciso nella causa eravamo imputati io, il giornalista che mi aveva fatto l’intervista ed aveva cercato di farmi parlare della Volpe (assolto) ed il direttore responsabile del giornale che l’aveva pubblicata. Per lui la querela è stata ritirata. E di chi parliamo? Ma di Alfonso Signorini che casualmente è quello con cui da allora Adriana lavora. Coincidenze, eh…”., scrive Magalli. La condanna è relativa ad una multa di 14 mila euro con pena sospesa (l’accusa aveva chiesto 9 mesi di reclusione). La sentenza è stata emessa dal tribunale di Milano.

Rewind. Adriana Volpe, diversi anni fa, ha denunciato l’ex conduttore di Rai 1 per alcune dichiarazioni rilasciate in un’intervista al settimanale Chi nel 2017, anche il direttore Signorini ed un giornalista (poi assolto) erano stati denunciati. La Volpe, però, ha ritirato la querela nei confronti di Signorini. Le parole della Volpe sono chiarissime. “I procedimenti legali sono due. A Roma per le dichiarazioni che Magalli ha postato sui social, a Milano per l’intervista su Chi. Ho portato avanti con fatica e convinzioni le querele per tutelare me stessa e la mia famiglia. Sono sposata e ho una figlia di sette anni”, spiega. 

E poi: “Si deve reagire alle discriminazioni, non accettare frasi che infangano la dignità. Un uomo non può denigrare il lavoro di una donna, fare insinuazioni. In Rai ci sono migliaia di segretarie, giornaliste, autrici: secondo lei sono l’unica ad avere subito angherie e soprusi?. Mi hanno mandato una lettera di richiamo in cui mi chiedono di tenere un profilo basso e non dare interviste. Mi hanno lasciato sola. Magalli dichiara su Diva e Donna del 5 febbraio 2019: ‘L’ho subita per otto anni, professionalmente non la ritengo capace. Ho creato un incidente apposta’. Dice che lavoro da vent’anni in Rai grazie a una persona sola”. La guerra tra Giancarlo Magalli e Adriana Volpe continua? A metà aprile è fissata la prossima udienza per le dichiarazioni di Magalli a I Fatti Vostri edizione 2017. Michele Guardì e il cantante e conduttore tv Marcello Cirillo saranno ascoltati dai magistrati.

Dagospia il 17 Dicembre 2021. Comunicato di Adriana Volpe. Caro Magalli, ieri il tribunale di Milano ti ha condannato per il reato di diffamazione aggravata. All’uscita invece di chiedermi scusa sei corso fuori a scrivere un post su Facebook tentando di distorcere e sminuire questa sentenza che invece ha una portata e peso straordinari. Hai scritto cose false e come sempre screditanti. I giornali leggendo il tuo post hanno subito riportato titoli come “Magalli deve pagare solo una multa”, “Sono stato multato”. Giancarlo con le tue azioni hai cambiato il corso della mia vita lavorativa ma forse non sai che sei riuscito a tirare fuori una forza che neppure io sapevo di avere, l’ho tirata fuori per rispondere ai tuoi insulti, alle gravi allusioni e alle cattiverie gratuite che hai detto e scritto. È una battaglia che ho fatto per me, per mia figlia e per tutte le donne che sono vittime di soprusi e angherie sul lavoro. Leggendo il tuo post hai scritto: “Il giudice mi ha dato una multa (che non devo nemmeno pagare), una provvisionale (che non devo pagare) e le spese legali (che pagherò)”.  Beh, informati bene perché: Pagherai un mio risarcimento di 25 mila, ti ricordo è una  provvisionale che va pagata perché è immediatamente esecutiva;

Dovrai risarcire tutte le spese legali;

Dovrai liquidarmi ulteriori danni che verranno quantificati dal giudice civile.

Devo ringraziare per questo il lavoro straordinario degli Avvocati Nicola Menardo e Stefania Nubile dello studio Grande Stevens. Sappi che i soldi che riceverò li verserò ad un’associazione che tutela le donne vittime di violenza perché questa è una battaglia che ho fatto non per i tuoi soldi ma per avere giustizia, per avere una sentenza che aiuti a combattere antichi retaggi legati alle donne che ancora oggi sono duri a morire, e spero che questa sentenza incoraggi tutte le donne che si sono trovate nella mia condizione a reagire e denunciare. Ora che l'autorità giudiziaria si è pronunciata, auspico che la RAI faccia altrettanto, a tutela della sua immagine di TV pubblica. Oggi si è chiuso il caso giudiziario del Tribunale di Milano. Ci vediamo ad Aprile al Tribunale di Roma dove ancora pende per Te un rinvio a giudizio. Ad maiora!

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 10 giugno 2021.  

Magalli, dopo due giorni riesco a parlarle.

“Me ne sono accorto che mi insegue. (ride, ndr) Che urgenza c’è?” 

Sta per arrivare la Rai di Draghi e fanno fuori l’amico d’infanzia. Si è capovolto il mondo?

“È sbagliato il postulato, non sono stato fatto fuori. Sono io che ho chiesto di non rifare più I Fatti Vostri perché sono stanco. Io non sono preoccupato, sono contento. È stato fatto quello che volevo, sono felicissimo.”

Mi sta dicendo che è una scelta?

“Sì, l’ho chiesto mesi fa al direttore di Rai2 Ludovico Di Meo. Sono passati trent’anni da quando ho cominciato a farlo, sono ventuno anni di fila. Parliamo di 4 mila puntate filate, di circa 10 mila interviste. Alcune anche di un certo peso, storie che ti restano dentro. Non è un programma che si fa a cuor leggero. Quest’ultimo anno con la pandemia non è stato facile, non sono mancato un giorno. Studio vuoto, senza pubblico, tutto chiuso in una Rai deserta, senza ospiti, con le difficoltà via skype, tamponi e tutto quello che può immaginare.”

Michele Guardì cosa le ha detto?

“Guardì è stato il primo ad essere informato. Ha capito la situazione, mica mi può costringere (ride, ndr). Gli avevo proposto la staffetta, un passaggio graduale ma lui ha ritenuto di no. La staffetta si faceva una volta ed era anche più sopportabile. Facevo quattro mesi poi Frizzi ne faceva altri quattro, l’anno dopo magari accadeva lo stesso con Castagna o con Giletti. Dava la possibilità a tutti di fare anche altre cose, ai tempi facevo anche Cervelloni e Fantastico.” 

Si è parlato di malumori dietro le quinte, hanno scritto che Salvo Sottile voleva prendere il posto.

“Con Sottile non ci sono mai stati malumori, devo dire che quello che fa lo fa anche bene. Magari lui poteva avere la voglia di fare di più… Lui mi aveva detto di no. Mi ha detto che non avrebbe voluto fare I Fatti Vostri ma di voler fare altro, forse altro non ha trovato. Va bene, anzi un giornalista ci vuole.”

La scelta di Anna Falchi al suo posto ha fatto fare un salto dalla sedia a molti. Cosa c’entra?

“Questa domanda non la deve fare a me ma a chi l’ha scelta.” 

Lei condurrà un nuovo quiz che andrà in onda al pomeriggio su Rai2?

“Sì, ci sto lavorando è un quiz carino. È una vacanza per me, una cosa divertente. Ha avuto già successo in altri paesi dove è stato testato, è un quiz sulla lingua italiana.”

Non teme la fascia oraria dove spopolano La Vita in Diretta e Pomeriggio 5?

“Sicuramente sì, so che c’è una forte concorrenza a quell’ora. Vediamo se l’orario potrà essere cambiato. Il primo programma che feci fu Domani Sposi, andava al pomeriggio contro Miami Vice che era considerato imbattibile. Ci ho messi tre mesi ma l’ho battuto.” 

Mica farà l’opinionista al Grande Fratello Vip con Adriana Volpe?

“Non farò l’opinionista con la Volpe (ride, ndr). Devo dire che da quando si è saputa questa cosa ho ricevuto molte proposte sia in Rai che da altre aziende. Mi hanno proposto fiction, pubblicità, varietà. Questo mi fa piacere, voglio scegliere con calma qualcosa che mi diverta.” 

È vero che il suo rapporto con Umberto Broccoli non era dei migliori?

“Broccoli lo conosco da tanti anni. Lui è soprattutto entusiasta di se stesso, è uno che starebbe in televisione dalla mattina alla sera e spesso ci sta perché oltre a I Fatti Vostri fa altri programmi. Tendeva ad avere molto spazio, siccome fa delle cose che sono abbastanza seriose non ero d’accordo che tendesse ad allargarsi. Alla fine faceva mezzo programma e da quello che ho letto si allargherà ancora di più. I suoi contenuti non sono brutti, hanno un valore sia chiaro, ma in un programma che si basa sull’attualità dedicare un quarto del programma a cose di 70-80 anni fa mi sembrava esagerato. Era solo su questo, sulla misura.” 

Il pubblico è abituato a lei, sui social ci sono messaggi di disperazione e preoccupazione.

“Ho letto anch’io, scrivono anche a me. Da una parte sono felice che mi vogliano bene e me l’hanno sempre dimostrato. Mi scrivono che io sono I Fatti Vostri, ognuno ha delle qualità forse le mie andavano bene per quel programma passando dalle cose più serie a quelle più leggere.”

Adelaide Pierucci per “il Messaggero” il 5 giugno 2021. Non solo presentatore televisivo, ma a sorpresa anche un provetto investigatore. Il pacato Giancarlo Magalli, fuori dal palco, per sciogliere i dubbi su una bega familiare non ha esitato a raccogliere indizi e registrare conversazioni finite poi in procura. Una questione delicata: sua sorella Monica Magalli, ora a processo per circonvenzione di incapace, è stata denunciata da un cugino che si sarebbe ritrovato spogliato dal patrimonio di centinaia di migliaia di euro. E Magalli, fatti i dovuti accertamenti, si è schierato con lui, contro sua sorella. Ieri, convocato come testimone a piazzale Clodio, ha confermato tutto. Il presentatore ha parlato per oltre un'ora davanti alla giudice Maria Rosaria Brunetti per chiarire il caso. E ha ricordato di essersi spinto anche a registrare una conversazione col cognato per cercare di capire chi avesse ragione. «Chiesi prima conto a mia sorella su queste accuse di mio cugino. Ma lei mi rispose in maniera non convincente. Mi disse che era stata la zia in una lettera a disporre del patrimonio di mio cugino in suo favore dietro alla promessa di starle sempre vicino. Lettera della quale chiesi conto ma non la possedeva più», ha premesso il conduttore, per poi aggiungere: «Quindi ho pensato di registrare una conversazione con mio cognato, il compagno di mia sorella, e più mi parlava più aumentavano i miei dubbi». «Ecco perché lo portavate sempre in giro per feste e viaggi, era per togliergli un po' tutto...Non era una bella cosa», si sente esclamare, più o meno testualmente, Giancarlo Magalli nella registrazione, «Mi spiego dove sono finiti i soldi di zio Augusto...». Non è scontato però che la prova raccolta dall' amato conduttore de I Fatti Vostri'' finisca agli atti. Il giudice si è riservato di decidere se far confluire o meno la conversazione registrata nel processo. Le accuse a carico di Monica Magalli, di professione promotrice finanziaria, pesanti. Per la procura, infatti, la sorella dell'autore tv avrebbe messo le mani su un bel gruzzolo di soldi. Per l'accusa avrebbe indotto la vittima, suo cugino, a conferire e mantenere l'incarico di gestire 800mila euro di cui si appropriava in parte».

IL TESTAMENTO Ma anche a farsi donare la nuda proprietà di due appartamenti vicino piazza Vescovio, fatto questo archiviato per prescrizione. Accuse respinte dall' imputata, difesa dall' avvocato Carlo Sanvitale. «La mia assistita non ha toccato un euro, come provano i prelievi. Il conto, di cui tra l'altro era cointestataria dai tempi in cui era viva la zia, mai utilizzato». La vittima assistita dall' avvocato Carlo Schiuma, ha reso nell' udienza precedente una ricostruzione diversa. «Dopo la morte dei genitori ho attraversato un lungo periodo difficile, di forte depressione. Mia cugina quindi gestiva il mio patrimonio in banca con carta bianca, ma con la disposizione di amministrare il tesoretto di famiglia in maniera conservativa. C' è anche un testamento a favore della signora Magalli. Il problema è che però mi sono ritrovato spogliato dei miei beni da vivo. E quindi l'ho denunciata».

Magalli lascia I fatti vostri: "Mi devo disintossicare". Novella Toloni il 26 Maggio 2021 su Il Giornale. In una recente intervista il conduttore ha annunciato che con il 2021 si concluderà la conduzione del celebre programma di Rai Due. E ha poi commentato l'addio a sorpresa della co-conduttrice Samantha Togni. Era nell'aria ma la conferma è arrivata da poco. Giancarlo Magalli lascia I fatti vostri dopo trent'anni di conduzione. L'indiscrezione era trapelata alcuni settimane fa, quando si vociferava che a prendere il suo posto sarebbe stato Salvo Sottile, co-conduttore dallo scorso settembre 2020. Oggi però a mettere la parola fine, in tutti i sensi, alle chiacchiere è Magalli. Le prime indiscrezioni su un suo presunto addio erano iniziate a circolare a marzo, poi il tapiro di Striscia la notizia e infine la conferma. Nell'ultima intervista rilasciata al settimanale Nuovo TV, Giancarlo Magalli ha svelato che il prossimo sarà il suo ultimo anno alla guida del celebre programma, che esordì su Rai Due nel 1990. Il presentatore ha svelato che sarà in onda da settembre 2021 con le nuove puntate, ma che vorrebbe terminare l'esperienza con la fine dell'anno, passando il testimone a un altro presentatore con l'inizio del 2022. "Per quattro mesi uno ce la fa - ha raccontato Magalli a Nuovo Tv - ma otto sono propri tanti. Mi piacerebbe condurlo sino a Natale, anche se già mi si sovrapporrebbero i due programmi. Mi devo disintossicare". Chi lo sostituirà non è ancora chiaro, ma in molti puntano sull'ultimo arrivato nella squadra, Salvo Sottile. Il presentatore, che nelle scorse settimane aveva ricevuto anche un tapiro d'Oro per il suo addio a I fatti vostri - non lascerà però Rai Due. I vertici della rete hanno deciso di affidargli la conduzione di un nuovo gioco a quiz pomeridiano, che dovrebbe andare in onda da lunedì a venerdì a partire dal prossimo settembre. Intanto, tra le ultime novità, è sicuro anche l'addio di Samantha Togni alla co-conduzione de I fatti vostri. La ballerina aveva esordito alla guida del programma al fianco di Magalli e Sottile lo scorso settembre, ma dopo solo un anno ha deciso di lasciare. L'addio - nonostante i rumor - non è dovuto ai rapporti con Giancarlo Magalli, celebre per i suoi dissapori con le co-conduttrici passate dagli studi di Rai Due. E Magalli su Nuovo TV ha scherzato: "Mi ha lasciato lei, certo, sono sempre le mie partner tv a lasciarmi". Come già era successo con Adriana Volpe e Roberta Morise, un altro volto femminile lascia il programma. La scelta dell'ex protagonista di Ballando con le stelle è stata quella di dedicarsi esclusivamente alla conduzione del programma Domani è domenica.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è nie...

"Magalli sostituito ai Fatti Vostri". E lui reagisce così col Tapiro. I rumor lo vorrebbero pronto a dire addio al celebre programma di Rai Due, che conduce da 25 anni, ma lui non molla e replica alle indiscrezioni ai microfoni di Striscia. Novella Toloni - Ven, 02/04/2021 - su Il Giornale. Giancarlo Magalli lascia o rimane? Dopo le indiscrezioni circolate negli ultimi giorni sul suo possibile addio a I fatti vostri, il popolare conduttore ha ricevuto l'ennesimo tapiro d'Oro da Striscia la notizia e, punzecchiato da Valerio Staffelli, ha replicato ai rumor: "Clima gelido in trasmissione? Nessuno di noi litiga. La notizia è di quelle che circolano da tempo e lo ha ammesso lo stesso Giancarlo Magalli. La sua poltrona traballa da ormai diversi anni e la girandola di co-conduttori, volti femminili e ospiti entrati ed usciti dagli studi de I fatti vostri lo confermano. Il "clima è gelido" ha scherzato Staffelli nel consegnare il tapiro d'Oro a Magalli, il sesto nella sua lunga carriera. Ma alle domande pungenti dell'inviato, lo storico conduttore di Rai 2 non si è tirato indietro, anzi: "L'unica notizia che c'è, ed è vecchia, è che qualcuno vorrebbe il mio posto". I candidati non mancano ma il nome più papabile, che circola negli ambienti da qualche settimana, è quello di Salvo Sottile. Il giornalista è entrato nella squadra del format lo scorso settembre e ha saputo conquistare i favori del pubblico. "Salvo è bravo, simpatico e piace alle signore - ha scherzato Giancarlo Magalli a Striscia - Su Instagram è tutto tatuato, lo seguo. Però non ho capito se gli va. Due giorni fa c'era la notizia che andava a Mediaset. Non ho nulla in contrario, Salvo è bravo. Non è che mi oppongo, sono trent'anni che faccio questo programma". Valerio Staffelli ha così chiamato in causa Adriana Volpe: "Non è che c'entra qualcosa lei?". Ipotizzando possibili conseguenze dagli anni di diatribe interne con la co-conduttrice e altri volti noti de I fatti vostri come Marcello Cirillo. Rapporti di lavoro tutti terminati tra avvocati e tribunali. E Giancalo Magalli non si è risparmiato la frecciatina all'ex collega: "No, lasciamo stare. La Volpe ha i suoi problemi (di auditel, ndr), non ci sentiamo. Lei deve lavorare per il suo programma". Sul suo futuro però Giancarlo Magalli ha lasciato aperte le porte, anche quella di poter cambiare azienda e passare dalla Rai a Mediaset: "Potrebbero propormi qualcosa di più divertente. Io vorrei condurre un quiz, sono anni che lo dico. Sono molto invidioso di Gerry Scotti: pagherei io per fare Chi vuol essere milionario?. Mi piacerebbe anche Striscia la notizia".

Da liberoquotidiano.it il 2 aprile 2021. Giancarlo Magalli potrebbe essere sostituito dopo trent’anni di onorata carriera su Rai2, tutti trascorsi alla conduzione de I Fatti Vostri. Striscia la Notizia gli ha consegnato un tapiro d’oro tramite il solito Valerio Staffelli, che ovviamente gli ha chiesto se fosse vera l’indiscrezione secondo cui potrebbe essere sostituito da Salvo Sottile. Il conduttore non ha confermato né smentito, però ha dato alcune risposte che si addicono proprio allo stile che lo contraddistingue dal lontano 1990, ovvero da quando è passato alla conduzione del programma di Michele Guardì. Intercettato a Roma da Staffelli, Magalli ha dichiarato che “Salvo è bravo, simpatico e piace alle signore. Su Instagram è tutto tatuato. Se decideranno così, sono padroni: la Rai mica è mia. Sono 30 anni che faccio quel programma…”. E quindi non è neanche escluso che possa essere lui stesso a dire basta per cercare nuovi stimoli professionali: secondo quanto riportato sul sito del sempre ben informato Davide Maggio, la sostituzione potrebbe avvenire per “le solite beghe che animerebbero il dietro le quinte del programma ma che, questa volta, non riguarderebbero Magalli”. Il quale ha manifestato un desiderio importante ai microfoni di Striscia la Notizia: “Potrebbero propormi qualcosa di più divertente. Io vorrei condurre un quiz, infatti sono molto invidioso di Gerry Scotti: pagherei per fare Chi vuol essere milionario? Mi piacerebbe anche Striscia la Notizia”. Guarda caso ha citato proprio due programmi di Mediaset…

·        Giancarlo ed Adriano Giannini.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 29 marzo 2021. Racconta Adriano Giannini che compiere 50 anni il 10 maggio non lo inquieta, non è un tema. I 40 no. Gli erano pesati. «Ero su un set a Praga e non dissi a nessuno del compleanno. Non ero dell' umore. Ora, la tappa non mi spaventa, perché nel frattempo sono successe tante cose». Tante o una, essenzialmente. Perché, se gli chiedi cosa lo turbava dieci anni fa, risponde: «Era da poco finita una relazione lunga e mi trovavo a un' età in cui fare i conti con quello che avevo realizzato». Erano i tempi in cui diceva «sono single per i fatti della vita, fosse per me, avrei già una nidiata di bambini».

Sul lavoro, invece, di cose ne aveva realizzate in abbondanza: un film da protagonista con Madonna, film diretti da Paolo Sorrentino, Gabriele Muccino, Giovanni Veronesi, Francesca Archibugi; e, prima ancora, 11 anni da cineoperatore con Giuseppe Tornatore, con Ermanno Olmi, con Anthony Minghella, fra gli altri; aveva doppiato Joaquin Phoenix, Heath Ledger, Jude Law, e diretto un corto, Il Gioco, presentato al Festival di Venezia. Tutto bello, tutto denso. Eccetto, dice, per quel «desiderio di famiglia avuto precocemente, già dai 20 anni».

Nell' agosto 2019 si è sposato, con Gaia Trussardi, a lungo direttrice creativa del marchio di famiglia. E ora, i 50, non fanno paura. Una volta, aveva detto: «L'amore non lo cerco. Quando arriva, arriva». Come l' ha riconosciuto quando è arrivato?

«Sono stato da solo anche per sei, sette anni... Non sono uno che sta in coppia per sollievo dalla solitudine. Con Gaia, è avvenuto un incontro, un riconoscimento d' appartenenza, abbiamo sentito quella sensazione per cui reciprocamente ci si affida all' altro, un legame antico, una cosa di un fascino misterioso».

Se fosse una scena da tradurre in un film?

«Un' immagine dell' altro giorno, mentre andavo via dal set alle cinque del mattino, dopo aver girato tutta la notte, con un freddo micidiale, fra sangue e sparatorie, nella scenografia di un luna park. Ormai ridotto a uno straccio, ho superato l' area dei camion, dei camper, mi sono voltato e ho visto un ragazzo di spalle, dietro a un ventilatore gigante, una macchina del fumo per fare la nebbia di notte. Ho pensato: mentre noi stavamo a creare la magia del cinema, quell' omino è stato qui per tutta la notte, da solo, a fare la nebbia».

L' omino solo che fa la nebbia di notte era lei, prima di Gaia?

«Ci ho visto quella magica solitudine che, quando viene condivisa e intravista nell' altro, diventa un legame che unisce».

Sua moglie ha due figli adolescenti dal primo matrimonio e lei, da sposato, si è trasferito a Milano: come è stato cambiare vita?

«Appena abbiamo finito di sistemare casa, è iniziato il lockdown, mi sono trovato proiettato in una vita di coppia con due ragazzi che adoro e gli assestamenti normali della situazione sono passati in secondo piano rispetto a quello che accadeva intorno. Ma siamo stati bene. Ho fatto tante cose che desideravo da molto: approfondimenti, riflessioni rispetto alla verità di ciò che siamo. Con Gaia, ho girato il video di una sua canzone e abbiamo scritto favole che potrebbero diventare cartoni animati. Ho fatto yoga e ho imparato a fare docce fredde la mattina. Fanno benissimo».

Come mai favole, non avendo lei bambini?

«I bambini non me li precludo. Non per merito mio, ma del Dna, ho ancora il fisico per sciare, giocare a tennis e fare le cose che si fanno coi figli. Delle favole, mi ha sempre affascinato l' idea di animare oggetti inanimati. Una appena scritta parla di due girasoli che s' innamorano, perché anche se la loro natura è guardare sempre il sole, un giorno, invece, incrociano i loro sguardi. E poi, da piccolo, i miei mi leggevano tante fiabe e mia madre e mio padre di certo non le leggevano male».

Si tratta di Giancarlo Giannini e di Livia Giampalmo, anche lei attrice e doppiatrice. La portavano mai sul set?

«Poco. A due anni, Lina Wertmuller mi volle per una scena di Film d' amore e d' anarchia . Io ero timidissimo e detestavo chi mi faceva le moine, soprattutto se diceva che somigliavo a papà. A maggior ragione perché lui era sempre via per lavoro. Insomma, mi misero vestiti di lana che pungeva mentre sventolavano diecimila lire per invogliarmi, secondo loro, a fare l' attore. Non ero affatto divertito. Poi, capii che la scena consisteva nel fare la pipì sul vasino e, siccome io la facevo sempre a letto, la trovai di cattivo gusto. Mi rifiutai. Dissi: il pagliaccio non lo faccio. Manco fossi Clark Gable».

In origine, per 11 anni, ha fatto l' operatore. Manovra di elusione verso la recitazione?

«Elusiva e al tempo stesso formativa, ma elusiva rispetto al lutto che avevo appena avuto. Finito il liceo, non sapevo che fare della vita. Soprattutto, non volevo perdere tempo. Chiesi a mia madre di trovarmi un lavoro per guadagnare qualcosa e poter andare in America a studiare inglese. Feci l' aiuto operatore, mi piacque. Poi, feci il volontario in altri film. In quel mestiere, trovai un contesto in cui davo un senso a me stesso. Guadagnavo, imparavo, ero fuori di casa, fuori anche da una dimensione, in quel momento, non felice».

Suo fratello Lorenzo era morto a 19 anni per aneurisma cerebrale. Era quel lutto improvviso a spingerla ad aver fretta di fare?

«Avevo fretta di essere grande già prima. Poi, quell' evento mi ha messo più urgenza e lavorare era un modo per non pensare, una fuga. Dopodiché, la fuga diventa una modalità: dopo tre settimane a Roma, devi andare, partire e così rimandi gli appuntamenti della vita».

Qual era l' appuntamento della vita?

«Capire il percorso che volevo per me. Ho smesso di fare l' operatore perché volevo diventare regista, ma sentivo il bisogno di studiare drammaturgia, Cechov, Shakespeare, perciò feci una scuola di recitazione. E mi appassionai. Mi prese Maurizio Sciarra per un film, poi ne girai uno diretto da mia madre, e già lì siamo in Edipo, quindi arrivò Swept Away , col ruolo avuto da mio padre in Travolti da un insolito destino . Capisce il caos edipico?».

Si narra che per «Swept Away», fece il provino senza sapere che era quel remake e che Guy Ritchie non sapesse chi era lei.

«Mi diedero il copione solo in sala audizioni e il regista non c' era. Io entro, mi metto sotto le luci, prendo i fogli, inizio a leggere. Riconosco le battute e penso a uno scherzo. Il giorno dopo, mi chiama Guy Ritchie e mi dice di raggiungerlo a Londra che vuole farmi un provino con Madonna, e io: sì, vabbé, c' è anche Prince? La storia, non so se vera, è che guardavano i provini, uno dice: questo chi è? Adriano, Giannini. Sarà parente? Boh. Vabbé, chiamiamolo».

Quel film era davvero così brutto da meritare tante critiche feroci?

«Non è bello come l' originale perché non è sviluppato il tema della differenza di classe».

«Ocean' s Twelve»... Perché ride già se solo nomino il titolo?

«Perché anche lì è una storia singolare. Faccio il provino a Roma, mi prendono per un ruolo in cui interagivo con George Clooney, Brad Pitt, Matt Damon... Arriva il contratto e, insieme, un' altra sceneggiatura, dove non c' ero più, c' ero come un refuso. Dico: non firmo, mi vergogno ad andare a Los Angeles per non far niente. Il giorno dopo, chiama Steven Soderbergh. Non ci credevo. Mi fa: mi hanno detto che non fai il film. Lo prendo a ridere. Gli dico: che vengo a fare? Gli spaghetti? E lui: non ti preoccupare, pure Clint Eastwood fa solo un cameo. Insomma, mi dice: riscrivo il copione, tu vieni. Vado, giro e, alla fine, taglia quasi tutto. Però mi sono divertito».

La fama di sex symbol, che effetto le fa?

«Per me i sex symbol sono finiti con Paul Newman e Robert Redford in Butch Cassidy».

Quale set ha amato di più?

«Quello di Dolina , un film mai uscito in Italia, girato in Transilvania da un regista ungherese, un Kusturica locale: cinque mesi su montagne freddissime con orsi e lupi, ma con attori famosissimi di lì, monumenti, tipo i nostri Gassman e Vitti. Una notte, accompagno in albergo un' attrice ottantenne, celebre cantante lirica. Parlava solo ungherese, non potevamo comunicare. In macchina, al buio, tra i boschi innevati, ha cominciato a cantare in italiano un' opera lirica. Sono momenti che restano».

Le capitano spesso set improbabili?

«Il più improbabile fu uno di kung fu. Arriva un copione in cinese e mi dicono che doveva farlo Arnold Schwarzenegger, poi sgradito in quanto repubblicano, per cui hanno pensato a me. Pagavano bene e vado a Shanghai. Trovo due attrici ex campionesse mondiali di qualcosa, grosse tipo ninja. Mi assicurano: tranquillo, faranno finta. Al primo ciak, mi prendo un calcio terribile nel muscolo femorale».

Ora, sta girando una serie per Amazon.

« Bang Bang Baby di Michele Ailique, la prima tutta prodotta da Amazon America in Italia. Mi sto divertendo, non sempre succede.Recito in calabrese. È una dark comedy, la storia vera di una ragazzina che scala la 'ndrangheta per farsi amare dal padre, che sono io».

La vedremo in «Tre piani» di Nanni Moretti. Com' è stato girare con lui?

«Bello. Tutti ne hanno un po' timore, ma è solo esigente, preciso, come deve essere un regista. E io gli voglio bene: in certi momenti, mi è stato vicino con calore e affetto».

Che ne è del progetto di diventare regista?

«Fare tutto è difficile».

Desideri per i prossimi 50 anni?

«Uno in via di realizzazione: un casale in Toscana per stare di più con la famiglia, con più cani, due asini, e coltivazioni biodinamiche. Voglio più tempo per guardare i girasoli. La natura ti porta vicino alla verità delle persone e, a me, piacciono quelle perbene. Mi interessano gli animi gentili. Vuol dire che hanno capito».

·        Gianfranco Vissani.

Carlo Cambi per “La Verità” il 29 novembre 2021. Ha scelto un tempio della cucina di territorio, non di quelli da show televisivo per festeggiare con la brigata i suoi 70 anni. Si è rintanato a Velletri da Benito al Bosco. Ha replicato due sere fa a casa sua, Casa Vissani, lì sulle rive del lago di Baschi dove tutto è cominciato, dove tutto si è compiuto. C'erano gli amici più stretti, non la politica che pure lo ha adulato e aiutato, ma dalla quale si è sentito tradito fino al punto di vestire i panni del capopopolo durante le chiusure causa virus cinese. Ce ne ha e ne ha avute per tutti: dalle donne, ai vegani, passando per il fisco e il governo fino a dire alle famiglie che la devono smettere di coccolare i figli. Potesse, metterebbe le lancette dell'orologio anni indietro: non ha rimpianti, ma si trova a disagio nel tempo presente. Gianfranco Vissani, un cognome ereditato dalle suore che battezzarono così il nonno raccolto dalla ruota degli orfani, una vita spesa dietro i fornelli e davanti alle telecamere, un carattere ingombrante come il suo fisico: un metro e novanta per 130 chili (a seconda dei periodi di dieta). Nato il 22 novembre 1951 a Civitella del Lago dove l'Umbria è quasi Maremma e il Medioevo una scatola di pietra da abitare, ha cominciato a lavorare a 15 anni, nel 1966. Scarpe rosse e talento sopraffino, Vissani è stato il primo cuoco star. Ha esordito in televisione - da Linea verde alla Prova del cuoco per citare due dei suoi maggiori successi - interpretando sé stesso, è rimasto invischiato nel personaggio salvo tornare a rivendicare libertà di pensiero, di azione gastronomica e di brutto carattere. Dovremmo chiamarlo «quasi» dottore: l'Università di Camerino gli conferì ad honorem uno speciale diploma. Ha firmato molti best seller gastronomici. Ha giurato di dire a La Verità tutta la verità.

Settanta sono tanti o sono pochi, Gianfranco?

«Gianfranco si sente un pischello, sto benissimo e ho tanta energia. Vissani imprenditore si sente fiaccato dalle tasse, dalle chiusure incomprensibili, dalle troppe difficoltà che incontriamo ogni giorno. Domani, dopo un anno e mezzo di chiusure, scadono le cartelle della rottamazione e altri balzelli per decine di migliaia di euro. Hanno deciso di farci chiudere. A Draghi ho fatto un appello per dire che così uccidono la ristorazione. Si troveranno con un deserto di fallimenti. E se ci fanno altre chiusure è davvero la fine. Io sto a Baschi, mica a Roma o a Milano. Abbiamo ridotto i tavoli a 8 anche perché si fa fatica a trovare il personale giusto e se non lavoriamo a pieno regime con i costi non ce la si fa». 

Un Vissani ancora alla testa della protesta?

«Non è una protesta, è il racconto di come stiamo messi. Il gas è triplicato, l'energia ce la facciamo da soli perché siamo attenti all'ambiente, ma i costi lievitano continuamente e le difficoltà aumentano. Mi chiedo se è chiaro a tutti che i contadini non ce la fanno, gli allevatori non ce la fanno, i nostri fornitori stentano. E c'è la faccenda del personale: in parte il reddito di cittadinanza e in parte però anche le famiglie che questi figli li coccolano non ci fanno trovare ragazzi e ragazze che hanno desiderio di imparare un mestiere, di costruirsi la vita con il lavoro. Ai miei tempi non era così». 

Com' era?

«Si studiava, si faceva fatica, s' imparava il mestiere senza chiedere quando si smette e quanto si guadagna». 

Gianfranco Vissani è stato facilitato, aveva tutto in famiglia?

«Facilitato? Partiamo da mio nonno: un trovatello nato a Pitigliano in Maremma che si è fermato a Baschi perché non aveva i soldi per farsi traghettare sul Tevere verso Roma. Arriviamo a Mario, il mio babbo che insieme a mia mamma Eleonora (Castellani) s' ingegnano a continuare il mestiere del nonno: fare da mangiare a chi passa per strada. Nacque "Da Mario" che diventò la Taverna del Lago e infine "Il Padrino". Era uscito il film e Mario si voleva lanciare nella notorietà per gli stranieri. In fin dei conti era un po' un Robin Hood: pigliava dai ricchi (il conto) per dare ai poveri, i contadini da cui comprava. Quand'ero piccolo non mi potevo sedere sul divano o a tavola perché ovunque in casa c'erano le sfoglie di pasta tirate dalla mamma che le copriva col lenzuolo. Io ho cominciato così. Vedendo i miei. Sono andato a Spoleto all'alberghiero e lì ho incontrato il professor Dornetto, quello di tecnica che mi disse che ero bravo. Avevo voglia di fare, così dopo il diploma sono partito in giro per l'Italia a imparare». 

Tappe fondamentali?

«Roma da Checco il Carrettiere, poi il Majestic a Firenze, il Miramonti a Cortina, ho aperto anche il ristorante dell'albergo di Visso e ho pianto quando l'ho visto distrutto dal terremoto. Allo Zio d'America a Roma diventai capo cuoco e avevo poco più di vent' anni: ne avevo 19 sotto di me». 

Perché poi tutto è successo a Baschi?

«Tornavo da Venezia e avevo telefonato se mi potevano venire a prendere alla stazione a Perugia. Mio padre sentenziò che aveva finito i soldi. Io ero tornato per partire per Londra, ma mamma si mise a piangere e allora dissi: "Resto per un po'". Qui si ballava e c'era una ragazza, una certa Tosca di Firenze che veniva tutte le domeniche, voleva che ci fidanzassimo, ma io ero imbranato. E pensavo di fare qualcosa di mio. Così mi decisi a rinnovare il menù della nostra trattoria e cominciai a fare il pesce. Mi alzavo alle 4 per andare al mercato a Roma. E davo scandalo ai miei perché se avanzava qualcosa lo buttavo via. Non ce la facevo: per una vita mi avevano dato da mangiare gli avanzi, i miei clienti dovevano avere tutto freschissimo. Fu un'esplosione. Un signore di Todi, il Mencacci, mi disse: "Parla coi giornali". Da lì arrivarono le guide. D'Amato con l'Espresso, poi Raspelli. D'Amato mi mise a pari di Pinchiorri perché non poteva essere così giovane il primo ristorante d'Italia. Raspelli arrivò a darmi 19,6/20 un primato assoluto e per trent' anni sono stato il migliore ristorante d'Italia per l'Espresso. E poi anche le due stelle Michelin. Per me parla la mia storia: da ragazzetto nel 1969 lavorando con l'Italcementi e prendevo 177.000 lire, era uno sproposito, ma avevano capito che li valevo».

Ora di stelle ne è rimasta una sola. Deluso?

«Rispondo con Emile Peynaud, il re del vino mondiale, che scrive: la qualità dei vini la fanno i degustatori, ma la qualità dei degustatori chi la fa? Ci sarebbe molto da dire sui giudizi delle guide oggi come sugli influencer: vengono, mangiano, non sanno nulla, fanno le foto e riducono il piatto a pornografia. È il segno del decadimento. Gualtiero Marchesi rifiutò le stelle: sbagliò i tempi, ma aveva ragione». 

E com' è nata la storia del cuoco di D'Alema?

 «Sono stato il cuoco della prima e della seconda Repubblica, sulla terza non mi pronuncio. Da me sono venuti tutti. Una volta si è affacciato Enrico Berlinguer con 35 altri politici e c'erano gli agenti al seguito. Mi venivano a frugare nei frigoriferi e li ho sbattuti fuori dalla cucina. Berlinguer mi fece i complimenti e tornava con la famiglia. Un mio grande amico è stato Gerardo Bianco e sono stato legato a Gianni De Michelis, mi piaceva come uomo di cultura, come stile. Posso dire che negli anni della massima frizione sono stato in grado di far fare pace a socialisti e comunisti. Con Massimo D'Alema è nata un'amicizia perché lui venne a mangiare e alzandosi mi disse: pensavo che qui piovesse, ma ha grandinato! Ci mettemmo a parlare e compresi che era un uomo sincero, appassionato di cucina e di agricoltura e ci fu intesa. Lui mi fece conoscere Gianni Letta: riuscivo a mettere a tavola i politici anche di diversi schieramenti facendo stemperare le loro ruggini con i miei piatti. Questa è la magia della cucina». 

Vissani e le polemiche con i vegani, con le donne che non tengono i ritmi della cucina?

«Non sopporto i luoghi comuni, non sopporto che non si possa dire ciò che si pensa. La cucina è cultura e identità e io difendo la mia cultura e la mia identità con la mia cucina». 

Oggi il dominus di Casa Vissani però è Luca, il figlio che dà del lei a Gianfranco: perché?

«Luca è fatto così: tende alla perfezione. È lui che gestisce Casa Vissani, è bravissimo nelle scelte, sa dialogare con i nuovi media e mi dà la libertà di tornare a creare in cucina. È un uomo che ha rispetto di tutti, da quando si è sposato con Veronica è ancora più attaccato ai valori della famiglia. Del resto la mia brigata è una famiglia. C'è Mori, il mio sous-chef, che sta con me da più di trent' anni e conosce tutto dei miei piatti. Una brigata come questa non la improvvisi, ecco perché mi sono tanto arrabbiato per le chiusure. Questi sono patrimoni che rischi di disperdere». 

In ultimo: che futuro c'è per la cucina?

«Se va avanti così, poco: ci sono questi cuochetti che fanno le star e non sanno andare più in là di una tavola calda. Ci sono questi ragazzotti che servono in sala convinti che si possa staccare a una certa ora. Non c'è cultura del territorio, della tradizione. Io credo di avere fatto una cucina molto innovativa, ma sono sempre tornato alle origini perché è dal nostro patrimonio territoriale che devi pigliare il meglio. Ma devi conoscerlo: devi faticare ed essere umile. Poi devi avere le condizioni per lavorare bene: non questo green pass che devi controllare, non questi che ti bloccano tutto. Siamo arrivati a stare aperti solo dal giovedì alla domenica e dovremo alzare i prezzi perché diversamente non ce la si fa con i costi, ma è un peccato. Chiudere un ristorante che fa alta cucina è come chiudere un museo».

"D'Alema, Letta, il Covid e le donne: vi racconto tutto..." Francesco Curridori il 25 Luglio 2021 su Il Giornale. Gianfranco Vissani, chef di fama internazionale, noto per le sue incursioni televisive, ci svela i segreti della sua cucina e non solo...UnoMattina, Linea Verde, Domenica In e non solo. Lo chef Gianfranco Vissani è entrato nelle case degli italiani con le sue ricette a metà anni '90 e, da allora, ha lavorato accanto a conduttori come Massimo Giletti, Mara Venier, Carlo Conti e non solo. "Non rinnego nulla e sono contento di quel che ho fatto", dice in una lunga chiacchierata con ilGiornale.it in cui ripercorre la sua lunga carriera professionale.

Quando ha capito di voler fare il cuoco?

"Da ragazzo. Vede, io non amavo studiare e, per fare il cuoco, c'erano pochi studi da fare. Poi mi sono appassionato alla cucina. Era il 1975 quando ho iniziato la scuola alberghiera a Spoleto".

Da chi ha imparato a cucinare?

"Il mio maestro è stato sicuramente Giovanni Gavina dell'Excelsior di Roma che mi ha insegnato tutto: la forza e la volontà. Facevamo dei banchetti hollywoodiani a Villa Miani. Mi ricordo che lavoravamo giorno e notte per il pranzo della Titanus. Io lo andavo a trovare e vedevo che stava decorando i faggiani oppure i cigni rimontati, piatti per cui serviva tanto tempo e tanta pazienza".

Qual è il suo piatto preferito?

"Io non ho preferenze. Lavoro dal pesce ai volatili sia da piuma sia da pelo. Personalmente, anche nel mangiare, mangio un po' tutto, ma sono patito della cacciagione. Per me le allodole e le beccacce sono il massimo. Anche quando sono in cucina non faccio distinzioni, cerco di capire la materia prima e di riportarla sul tavolo in un modo carino con un po' di attenzione, come Velazquez. Il suo autoritratto è uno dei più belli al mondo".

Qual è il suo piatto più difficile?

"Non esistono piatti difficili. Bisogna capire come vengono interpretati e l'amore che ci metti per creare un piatto. In questi giorni ho fatto una zuppa di vongole veraci con una purea di allodole con avocado e con palline pastate nella farina d'aglio. Il miglior vino? Il Merlot dell'azienda Caprai che la scorsa settimana ho omaggiato insieme a Michel Rolland, uno dei più grandi enologi del mondo".

Una ricetta per l'estate?

"Lasagne di pasta finissima trasparente con senape cinese fresca, spinacino, estragon, calamari finissimi che, con una salsa di bianco d'uovo, hanno una freschezza e un'eleganza pazzesca".

Come si conquista una donna a tavola?

"Con piccole attenzioni che, magari, altri uomini non hanno: alzarsi in piedi quando lei va in bagno e stare attenti che il tavolo sia sempre pieno di fiori oppure che il primo boccone lo mangi lei. È bene guardarle negli occhi con profondità e, se ha un piccolo difetto bisogna sorvolare pensando che, finito il pranzo, possa stare tra le tue braccia."

Lei è stato uno dei primi cuochi ad andare in televisione. Cosa pensa dei cooking-show?

"Mah, vedo che ora la cucina in tivù sta calando come ascolti. Forse la gente è un po' stanca di vedere che chiunque sappia muovere le padelle vada in televisione. Ognuno vorrebbe dimostrare quanto vale, ma bisogna avere anni di esperienza e capire le combinazioni, capire il piatto. Velazquez, Renoir oppure Rembrant, per diventare grandi, hanno avuto spesso sentimenti contro la grande pittura, i colori e le sfumature".

Quali colleghi stima di più?

"Ho un amore un po' più profondo per Fulvio Pierangelini, ma sono tutti bravi. Alle volte, però, manca la sostanza per andare avanti perché non tutti si possono permettere dei locali grandi se non si hanno dietro dei finanziatori."

Lei, in passato, ha polemizzato con la Michelin che le aveva tolto una stella. Ma quanto sono importanti riconoscimenti come questi per uno chef affermato come lei?

"Oggi in Italia si guarda solo la Michelin, non altre guide ed è sbagliato. Dal mio punto di vista posso dire che evidentemente, se ci hanno tolto la stella, si vede che non ce la meritiamo. Noi, però, andiamo avanti per la nostra strada ed io sono sempre Gianfranco Vissani".

Negli anni '90 veniva chiamato “il cuoco di D'Alema”. L'appellativo la infastidiva?

"No, io sono amico di Massimo D'Alema e sua moglie. Non bisogna essere del Pd per essere amici e io sono felice di essere suo amico. Massimo mi è stato veramente molto vicino e mi ha aiutato quando ho chiuso una relazione importante".

Oggi, politicamente, in chi si riconosce?

"Non mi riconosco in nessun partito. Voglio bene a tutti, a Salvini, alla Meloni, a Berlusconi perché Gianni Letta è un mio amico e ovviamente, come ho già detto, a D'Alema che, ormai, è l'ultimo boy-scout che ha fatto politica vera. È stato un uomo molto importante nella mia vita".

Dal punto di vista emotivo e professionale, quanto è stato difficile quest'anno di Covid?

"Siamo stati 14 mesi chiusi e mio figlio ha preso 30mila euro, ma la nostra bolletta di luce e gas è di 100mila euro all'anno. Non si possono fare paragoni con Francia, Spagna o Germania. In Gran Bretagna hanno fatto la Brexit. Volevano rifare la partita contro l'Italia. Sono dei pirla. Ora sono loro, con gli Europei hanno fatto questo casino e hanno fatto rialzare i contagi. Gli inglesi si dovrebbero vergognare. Anche nell'Unione Europea ci sono troppi Paesi che sono paradisi fiscali, ognuno fa come vuole e così non va bene. In Francia si sono ribellati tutti contro Macron per il green-pass. Si dovrebbero vergognare...".

Francesco Curridori. Sono originario di un paese della provincia di Cagliari, ho trascorso l’infanzia facendo la spola tra la Sardegna e Genova. Dal 2003 vivo a Roma ma tifo Milan dai gloriosi tempi di Arrigo Sacchi. In sintesi, come direbbe Cutugno, “sono un italiano vero”. Prima di entrare all’agenzia stampa Il Velino, mi sono laureato in Scienze della Comunicazione e in Editoria e Giornalismo alla Lumsa di Roma. Dal 2009 il mio nome circola sui più disparati giornali web e siti di approfondimento politico e nel 2011 è stata pubblicata da Aracne la mia tesi di laurea su Indro Montanelli dal titolo “Indro Montanelli, un giornalista libero e controcorrente”.  Dopo il Velino ho avuto una breve esperienza come redattore nel quotidiano "Pubblico" diretto da Luca...

·        Gianluca Grignani.

Da liberoquotidiano.it il 19 ottobre 2021. Choc a Verissimo per l'intervista di Gianluca Grignani. Il cantante, ospite di Silvia Toffanin su Canale 5 nella puntata di sabato 16 ottobre, consegna alla storia del piccolo schermo un'intervista surreale, folle, fuori controllo, sconclusionata, un incontenibile fiume di parole dell'artista, arrivato in studio con il suo celebre cappellaccio da cowboy. "Sono un uomo in divenire, non amo i bei momenti", ha esordito Grignani, così, a bruciapelo. Subito spiazzata la Toffanin: "Avrai avuto dei bei momenti, o no?". E lui: "Non li voglio i bei momenti". "Nemmeno la nascita dei tuoi 4 figli?". E a quel punto, Grignani cede: "Quelli sì, difficilissimi per un uomo come me. Mi hai toccato in un punto dolente: i primi tre vivono con la mamma, mia figlia più grande vive con me. Chiudiamo l’argomento altrimenti mi viene la lacrimuccia", sottolinea. Poi, il racconto degli abusi subiti da ragazzo, quando fu vittima di un pedofilo e l'accusa ai genitori: "Il loro errore è stato quello di non andare avanti da un punto di vista legale" contro l'orco. Dunque, in modo sconnesso, arriva a parlare della droga. E afferma: "La parola droga non deve essere usata perché nel bene o nel male le fai pubblicità. A meno che non debba parlarne per altri motivi, è sbagliato parlarne". Caso chiuso. Poi la Toffanin gli chiede che padre sia, e il rocker risponde: "Non lo so, però riesco a farlo. Sono permissivo, cerco di insegnare la libertà in tutti i suoi valori a mia figlia Ginevra che vive con me". A quel punto, Grignani si ferma e inizia a piangere. Un fiume di lacrime. Dunque riprende a parlare: "Ho scritto per 3 anni e mezzo. Ho scritto 80 brani. Vivo vicino alla casa in cui morì Stefania a 12 anni, una mia amica di quando ero piccolo. Mi sono dimenticato di lei per tanti anni". E ancora lacrime a catinelle, in studio si sentono solo i singhiozzi, Toffanin in evidente imbarazzo: "Riprenditi", gli suggerisce. Quando Grignani ritrova la calma, Silvia Toffanin gli sussurra: "Tu come stai adesso, ti vedo molto provato, in che fase sei?". "Io non sono provato, piango perché sono libero. Sto parlando di Stefania, una ragazzina morta a 12 anni", conclude Grignani in un'intervista del tutto surreale. 

·        Gianni Morandi.

Morandi e l’omaggio social alla moglie: «La sposerei altre cento volte». Redazione Spettacoli su il Corriere della Sera il 10 Novembre 2021. Nel giorno dell'anniversario del suo matrimonio, il 10 novembre, la romantica dedica del cantante alla consorte Anna Dan, sposata nel 2004. Innamorato come il primo giorno. E pronto a rifare il grande passo altre cento volte. Oggi, mercoledì 10 novembre, Gianni Morandi ha ricordato sui social il suo anniversario di matrimonio con Anna Dan, 64 anni, sposata nel 2004, madre di Pietro, il figlio della coppia nato nel 1997. «Oggi è il nostro anniversario di matrimonio — ha scritto il cantante —. Ricordo l’emozione durante la cerimonia al comune di Monghidoro, quando il sindaco ci dichiarò marito e moglie. Noi stavamo già insieme dal 1994 e ci sposammo dieci anni dopo. Nostro figlio Pietro aveva 7 anni e naturalmente era con noi, quel giorno. Anna la sposerei altre 100 volte, la amo sempre come allora!». Gianni Morandi e Anna Dan si sono conosciuti a Bologna, città natale del cantante, durante una partita di calcio. All’epoca Anna, dirigente di una società informatica, si trovava in tribuna per seguire la partita, mentre Morandi era in campo. Secondo quanto hanno in seguito raccontato entrambi, dopo quel breve incontro, che il cantante ha definito «fatale», non si sono più lasciati.

Gianni Morandi e l'amore per Anna Dan: «La sposerei altre 100 volte». Il cantante di Monghidoro non ama le ricorrenze, ma non perde occasione per scrivere romantici post in cui ricorda tutte le tappe della relazione con la seconda moglie, la donna che per lui ha rappresentato una vera rinascita. Sara Calamandrei il 15 novembre 2021 su Vanity fair. Forse non molti sanno che Gianni Morandi è appassionato di «date, numeri, ricorda tutti i chilometri dell’autostrada ma non ama particolarmente le ricorrenze, gli anniversari». Parola di Anna Dan, 67 anni, moglie del cantante di Monghidoro. Se lo dice lei, che lo conosce da 27 anni, bisogna fidarsi. Eppure qualche ricorrenza Morandi la ricorda fin troppo bene, perché su Instagram ha pubblicato una foto del loro matrimonio accompagnata da un pensiero di grande romanticismo: «Ricordo l’emozione durante la cerimonia al comune di Monghidoro, quando il sindaco ci dichiarò marito e moglie. Noi stavamo già insieme dal 1994 e ci sposammo 10 anni dopo. Nostro figlio Pietro aveva 7 anni e naturalmente era con noi, quel giorno. Anna la sposerei altre 100 volte, la amo sempre come allora!». Non è l’unica data che Morandi ha voluto condividere sui social. Il 19 agosto del 2014 scrisse: «Venti anni fa, Anna è entrata nella mia vita. Ero a Monghidoro, avevo organizzato una partita di calcio al mio paese e lei arrivò da Bologna con alcuni amici comuni. Rimasi colpito dai suoi occhi e dalla sua personalità. Aveva una macchina fotografica al collo e una gonna a fiori. Era veramente splendida». In un’intervista ha ricordato il periodo che stava vivendo prima di conoscerla: «Ero solo, mi ero separato da anni da mia moglie e non pensavo più che potesse arrivare l’amore. Invece, alla soglia dei 50 anni, è passato questo nuovo treno, mi ha spinto a dare cose diverse e mi ha fatto tornare a vivere a Bologna. È stata una rinascita». Gianni Morandi, in effetti, sembra essere come l’Araba Fenice, in grado di risorgere dalle sue ceneri. Per esempio dopo il successo che lo aveva investito da ragazzino ha conosciuto un periodo oscuro, culminato con i fischi del pubblico in un’esibizione a Milano, nel 1971, prima di un concerto dei Led Zeppelin: dopo di allora sparì e si mise a studiare al  Conservatorio. Alle difficoltà professionali si sommarono quelle sentimentali: dopo 13 anni di matrimonio, nel 1979, arrivò il divorzio da Laura Efrikian, madre dei suoi figli Marianna e Marco, attrice sofisticata e più grande di lui, sposata nonostante la sua famiglia non fosse favorevole. Quando tutto sembrava ormai detto, negli anni Ottanta ha saputo ritrovare il successo presso il pubblico che non si era scordato di lui, tanto da vincere il Festival di Sanremo del 1987, insieme a Umberto Tozzi ed Enrico Ruggeri con la canzone Si può dare di più. Ancora qualche anno, il 1994 appunto, e Morandi incontra Anna Dan, con la quale mette al mondo il figlio Pietro, che oggi ha 24 anni. Viene da chiedersi quale sia il segreto di queste rinascite. Un’indicazione la dà proprio Anna quando dice: «La sua curiosità e la sua voglia di vivere lo spingono sempre in avanti. Il suo sguardo sulle cose della vita è sempre… da lontano». Allora se del suo repertorio gli italiani ricordano prima fra tutte Fatti mandare dalla mamma e se Morandi si dice particolarmente legato a Uno su mille, si può dire invece che la canzone che lo descrive meglio è Domani: «Troverò parole nuove, frasi vere non troppo consumate, per arrivare da te, per riscoprire quella speranza che ancora c’è, nascosta nel nostro cuore». 

Estratto dell'intervista di Alessandro Ferrucci a Gianni Morandi pubblicata da “il Fatto quotidiano” il 19 luglio 2021. Si definisce un testimone; un uomo che ha attraversato decenni con un bel po' di fortuna. A 76 anni ancora si stupisce della sua vita, della carriera, degli incontri ("Ho conosciuto tutti, dai papi ai leader politici"), e arriva a immedesimarsi in Forrest Gump. "In Rca Magari trovavamo Arthur Rubinstein, uno dei più grandi pianisti del mondo; oppure Frank Sinatra mentre incideva I Caroselli per la Perugina: 12 brani accompagnato dal suo quintetto; (ci pensa) quando è venuto non c'ero, avevo una serata in Salento, ma alla Rca avevano preparato festeggiamenti importanti. Lui invece arrivò, cantò e dopo un'ora e un quarto aveva già finito, senza riascoltarle. "Vanno bene".

Fatti mandare dalla mamma, Suo figlio Marco detesta quel brano.

(Ride) È una specie di incubo, sembra che non abbia inciso altro; (pausa) tra una settimana, dieci anni o venti, quando me ne andrò, in televisione manderanno Fatti mandare dalla mamma. Chissà perché, forse ricorda un periodo felice dell'Italia, gli inizi del boom, o forse perché contiene due termini chiave: mamma e latte. (...)

A poker è necessario essere finti, bugiardi e cinici. Lei gioca...

Con Adriano (Celentano, ndr), Nori Corbucci, Lino Jannuzzi, Pasquale Festa Campanile, Antonello Falqui, Claudia Mori: erano i Settanta, avevo tempo libero e volevo diventare un professionista; chi gioca molto, perde molto, non esiste il vincente. Chi scherzava e rideva molto era Celentano, un matto: se uno gli rilanciava contro era contento, e andava avanti pure con punti bassissimi. 

Chi era il più forte?

Renato Salvatori è stato un grandissimo, non perdeva mai: ogni giorno giocava con Adriano a Teresina, testa a testa, e Adriano perdeva sempre; Renato in quegli anni, ad alcuni, ha vinto delle case.

Quante bugie hanno raccontato su di lei?

Molte non le so. Però hanno creato dei dualismi: io contro Claudio Villa o io contro Massimo Ranieri; oddio, un po' di competizione c'era, magari i fan di uno riportavano qualcosa di negativo all'altro, e forse ha dato fastidio la mia carriera; (cambia tono) non credo di essere un grandissimo artista, mi son trovato al posto giusto nel momento giusto. 

Ne è sicuro?

Non ho fatto la storia. 

E chi, allora?

Modugno e Lucio Battisti. Io no...La mia storia è Forrest Gump, in fin dei conti nasco dilettante, senza scuola e senza niente, poi un arbitro di pugilato mi consiglia di tentare con la boxe, invece arriva il provino con la Rca e Migliacci racconta che il nastro con la mia canzone gli cade per terra, gli si attorciglia alla caviglia e incuriosito lo ascolta. Gli piace. Mi dà Andavo a cento all'ora. 

Massimo Ferrero racconta di essere stato il suo autista, senza patente.

Nel 1974 vendeva i programmi del mio spettacolo su Jacopone da Todi: 1.000 lire l'uno, egli lasciavo 100 lire. Allora viveva una situazione difficile, dormiva sotto il palco; (sorride) poco tempo fa l'ho incontrato e mi ha confessato: "Lo sai che combinavo? Dichiaravo di aver piazzato tre programmi, in realtà ne avev ovenduti 30 e me tenevo i sordi".

Paolo Giordano per ilgiornale.it il 22 giugno 2021. La manona destra è ancora fasciata, il sorriso invece è già libero: «Eh le ustioni hanno una guarigione lunghissima...». Eppure, tre mesi dopo aver rischiato la vita con il fuoco, Gianni Morandi torna a fare l'inimitabile Gianni Morandi con un brano a cento all'ora. Si intitola L'allegria, l'ha scritto Jovanotti (che l'ha prodotto con Rick Rubin) ed è stato confezionato a velocità supersonica: «Me l'ha mandato sabato, domenica l'ho imparato e lunedì mattina eravamo in studio a Milano da Pinaxa a registrarlo. Poi venerdì è uscito». L'allegria non è (per fortuna) il solito reggaeton estivo e si distingue comunque dalla flotta di tormentoni già atterrati in classifica: «Però non è nato come tormentone», accenna lui: «È un brano difficile, con un testo che è proprio nello stile di Jovanotti».

Ricorda qualcuno dei suoi primi brani anni Sessanta?

«Forse un po' Andavo a cento all'ora. Sono due mondi totalmente diversi però qualche riferimento comunque c'è. Quello era stato arrangiato da Ennio Morricone, questo è stato prodotto (anche) dal grande Rick Rubin».

Cos'ha detto Rubin quando ha ascoltato la sua versione?

«A Lorenzo ha chiesto chi fossi e lui ha risposto: Una sorta di Johnny Cash italiano».

Gianni Cash.

«Anche mio figlio, che è il rapper Tredici Pietro, ha detto che il brano gli piace. A me il rap piace sempre più ma con lui non mi confronto molto...».

Il rap ha cambiato tutto.

«Sembra Modugno che, alla fine degli anni Cinquanta, scompigliò tutto. Un momento cruciale».

Il rap e i social sono legati a doppio filo.

«In quel mondo mi sono infilato quasi dieci anni fa e continuo a restarci perché mi piace».

Talvolta i social sono dirompenti. Il «caso Madame», ad esempio, che si è lamentata dell'eccessiva attenzione di un fan mentre mangiava con i genitori.

«Capisco Madame, la capisco. Sono cose un po' vere quelle che dice. Ma bisogna tenere botta. Talvolta ti disturbano ma fa parte del gioco. E poi bisogna sempre pensare che magari un giorno potrebbe dispiacerti se non ti venissero più a cercare. Comunque De Gregori descrisse questa situazione nel brano Guarda che non sono io».

Lei ha mai risposto male a qualche fan?

«Mah, magari una volta, forse due in quasi sessant'anni di carriera».

Di qualche artista è proverbiale l'isolamento.

«Ricordo che una volta ero a tavola con Lucio Battisti. Una signora ci vede e si avvicina per chiederci un autografo. Lucio le disse: Ma non vede che stiamo mangiando?. La signora ci rimase male e anche io...». 

Il brano L'allegria sembra fatto apposta per questo momento di ripartenza (si spera).

«È uscita nel momento giusto. Quando siamo andati alla Sony per concordare la data di uscita, ci è stato detto che avremmo dovuto rispettare il calendario che avevano già preparato. Abbiamo detto: o subito o niente».

È stato subito.

«Io ho avuto l'infortunio l'11 marzo. Il brano è uscito l'11 giugno. Una bella ricorrenza». 

Comunque fa impressione sentire il 75enne Morandi così scatenato.

«Diciamo che questa fase musicale rischia di farci invecchiare improvvisamente come alla fine degli anni '60. Sentivo un vento diverso. Ma ci ho messo un po' di tempo a reagire. Quando io ed altri del Cantagiro come Rita Pavone ci siamo esibiti prima dei Led Zeppelin al Vigorelli di Milano nel 1971, siamo stati fischiati. Il pubblico ha spaccato tutto, mi urlava vai a casa. Lì ho capito per davvero».

E adesso?

«Non voglio sembrare un dinosauro. E questo brano trasmette quell'allegria della quale tutti ora abbiamo bisogno».

Franco Battiato aveva scritto un brano per lei.

«Eravamo praticamente coetanei, era nato tre mesi dopo di me. Ero andato a trovarlo un anno fa, ci siamo abbracciati».

Il 21 settembre ci sarà un concerto in suo ricordo con, forse, Jovanotti. E lei?

«Se mi invitano, perché no?».

M. Mar. per “il Messaggero” il 13 marzo 2021. Gianni Morandi resterà ricoverato al Centro Grandi Ustionati di Cesena almeno fino alla prossima settimana. «Le sue condizioni cliniche sono stabili e non è in pericolo di vita. È sotto costante osservazione e si procede ai trattamenti medici per la cura delle ustioni profonde riportate alle mani e alle gambe», fa sapere l' Ausl Romagna. A destare preoccupazione sono le ustioni riportate dal cantante alla mano destra. Non è esclusa un' operazione: i medici prenderanno una decisione nei prossimi giorni. Morandi, 76 anni, è stato trasferito al reparto speciale dell' ospedale Bufalini della città romagnola giovedì sera dopo aver ricevuto al Maggiore di Bologna le prime cure dopo l'incidente avvenuto nella sua villa: stava bruciando delle sterpaglie quando, scivolando, è caduto sul braciere ardente. Si è messo in salvo da solo, poi ha chiesto aiuto alla moglie Anna, che si trovava in casa e che ha chiamato il 118. A causa delle norme legate al Covid non ha potuto seguirlo in ospedale ed è rimasta in contatto con lui da casa. Tanti i messaggi dei fan e dei colleghi, da Laura Pausini a Jovanotti. Incoraggiamento anche dal Presidente della Regione Emilia Romagna, Stefano Bonaccini.

Da "ansa.it" il 21 marzo 2021. "21 marzo. È il primo giorno di primavera e il decimo giorno di degenza in ospedale". In un video postato sui suoi canali social, Gianni Morandi si mostra per la prima volta al pubblico, con le sue 'manone' e le sue gambe fasciate, camminando lungo il corridoio dell'ospedale dove è ricoverato dopo essersi ustionato a casa sua bruciando delle sterpaglie. Nel video, con in sottofondo la canzone di Jovanotti 'Sono un ragazzo fortunato', il cantante di Monghidoro ribadisce: "Sì, sono stato veramente fortunato". "Sono ricoverato al Centro Grandi Ustionati dell'ospedale Maurizio Bufalini di Cesena - scrive nel post che correda il video - un'eccellenza della nostra regione. La prima cosa che voglio fare è ringraziare tutta la straordinaria squadra che mi assiste quotidianamente, guidata dal primario dottor Davide Melandri. Con grande professionalità tutti mi stanno aiutando a superare questo momento così delicato e difficile, ora è tempo di cominciare a muoversi, questi sono i primi passi... Video di Anna". 

Le prime parole di Gianni Morandi dopo ​l'incidente: "Più dura del previsto". Il cantante è tornato a parlare sui social a una settimana dal brutto incidente nel quale ha riportato profonde ustioni. Un saluto al Bologna e quelle parole che raccontano del difficile momento che sta attraversando. Novella Toloni - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. Dopo sei giorni di silenzio e altrettanti di bollettini medici Gianni Morandi è tornato a parlare e ha scelto di farlo attraverso i social network. L'artista ha rotto il silenzio ad una settimana dal brutto incidente in cui è rimasto coinvolto e dal letto dell'ospedale "Bufalini" di Cesena ha ringraziato la squadra del Bologna, che gli ha fatto arrivare un video di in bocca a lupo per la pronta guarigione. "Grazie ragazzi!", ha scritto il cantante sulle sue pagine Instagram e Facebook, pubblicando il video di Sinisa Mihajlović e dei giocatori del Bologna che, prima di una seduta di allenamento, hanno voluto salutarlo con affetto. "Ciao Gianni - dice nel video il tecnico del Bologna - prima dell'allenamento un grande in bocca a lupo di pronta guarigione anche se ci siamo sentiti e so che stai bene e speriamo che esci prima possibile e che di nuovo ci vieni a trovare. Ti vogliamo bene". Un messaggio di pronta guarigione che Gianni Morandi ha voluto condividere con i suoi fan a sei giorni di distanza da quell'ultimo post, che aveva pubblicato poco prima del brutto incidente di cui è stato vittima. Nel post però Gianni Morandi ha scritto più di un semplice saluto. Nascosto tra gli hashtag #ustioni e #fuoco ecco spuntare il messaggio emblematico che dice più di tante altre parole e inquadra le sue condizioni: "È più dura del previsto". Parole che lasciano intuire il difficile momento che l'artista sta attraversando dopo essere finito nel fuoco, che aveva acceso giovedì scorso nel giardino della sua casa di campagna per bruciare alcune sterpaglie. Le ustioni di secondo e terzo grado alle gambe e alle braccia e soprattutto quelle riportare alla mano destra non gli consentono di lasciare il Centro Grandi Ustionati di Cesena, dove è ricoverato dalla tarda serata di giovedì scorso. L'equipe medica che lo segue, nei giorni scorsi, aveva parlato di un possibile intervento chirurgico, proprio alla mano destra, per scongiurare complicazioni dovute all'ustione di terzo grado. Per il momento nessuna operazione è in programma, ma la notizia ha fatto comprendere la reale gravità delle ferite riportate da Gianni Morandi dopo il brutto incidente. Il post, a pochi minuti dalla pubblicazione sul web, ha raccolto migliaia di like e centinaia di commenti di pronta guarigione.

Alberto Mattioli per "la Stampa" l'8 aprile 2021. «È stato un bel momento. Ha abbozzato un movimento come per abbracciarmi, poi si è reso conto che fra le ustioni e il rischio Covid proprio non si poteva, e allora ci siamo scambiati il gomito e un grande sorriso. E sì, un po' commosso lo era». Chi racconta è Davide Melandri, direttore del Centro Grandi ustionati del «Bufalini» di Cesena. Il dimesso è Gianni Morandi, «in buone condizioni» come da comunicato dell' Ausl Romagna. È la lieta novella di ieri: l' eterno ragazzo della canzone italiana è tornato a casa dopo quasi un mese di degenza che ha scatenato un' ondata di partecipazione popolare forse prevedibile ma, quanto a dimensioni, sorprendente. Ed eccola, la casa dell' ustionato più famoso d' Italia. A San Lazzaro di Savena, appena fuori Bologna, nei primi colli sulla strada della natìa Monghidoro. È una bella villona nel verde con parco e ruscello. Un po' hollywoodiana, magari? Sì, però il Gianni nazionale si è ustionato cadendo nel rogo delle sterpaglie che stava bruciando, tradito da un tronco che sembrava più pesante di quanto non fosse. Difficile immaginare una rockstar americana alle prese con incombenze così casalinghe. A difesa della privacy, una governante o segretaria che dall' altra parte del citofono s' indovina tosta: interviste no, dichiarazioni niente, una frasetta neppure. «Sta dormendo, non disturbiamolo». No, per carità. Morandi te l' immagini tuttora in ginocchio da te in un musicarello con Laura Efrikian, ma è pur sempre un signore di 76 anni che se l' è vista molto brutta: «Credo che ci sia qualcuno che mi ha guardato dal cielo, ne sono convinto», ha detto dall' ospedale nell' unica bolognesissima intervista al Resto del Carlino. Eh già: «È una cosa tremenda, quando cadi dentro una buca e ti trovi in mezzo alle braci, con le fiamme intorno. Mi sono attaccato a un ramo che bruciava pur di saltare fuori». Bilancio quasi da Giovanna d' Arco: ustioni alle mani (recuperabili, l' uso di chitarra è salvo), bruciature alle ginocchia, al gluteo, una nella schiena: «Credo più o meno di essere sul 15%», calcola lui. La cura e la convalescenza, però, sono state in perfetto stile Morandi, molto sul simpatico-ottimista. Sulla sua pagina Facebook è stato un fiorire di video con i primi passi nel corridoio, di ringraziamenti per medici e infermieri, di solidarietà per gli altri degenti. Lui mentre la moglie lo imbocca con la pastina, lui con il rametto di palma nella relativa domenica, lui con la caricatura mandatagli «da Samanta Bartolucci di Fano (PU)», lui con l' uovo di Pasqua: e sempre super sorridente come se fosse a Riccione, altro che è mercoledì e sono a Cesena (e in ospedale, poi). Ironia della sorte, nell' ultima foto postata l' 11 marzo, il giorno del fattaccio, era a bordo di un trattore con addosso un paio di guantoni: «Finalmente ho trovato i guanti della mia misura», e poche ore dopo si è trovato le mani fasciate da un' immensa impalcatura di bende. Il resto è simpatia collettiva. Non c' è solo la Samanta di Fano. Sul «Bufalini» si è riversata un' ondata di colombe e uova di Pasqua, di libri e di fiori, di biglietti e di messaggi. Un po' sprecati, perché fra il Covid che impone di sanificare tutto e le condizioni del paziente, Morandi non ha potuto toccare niente. «Aveva le mani bloccate, non poteva far nulla da solo», racconta Melandri. Per fortuna che c' è la moglie Anna: insieme da vent' anni, è venuta tutti i giorni a trovarlo, due ore al giorno come da regolamento. E lui, grato: «Per lei non ci sono aggettivi. Grande è l' unico che sintetizza tutto». E poi l' empatia verso gli altri compagni di sventura e la telefonata notturna con Nek, altro emiliano doc, che si tagliò due dita con una sega elettrica, andò guidando di persona all' ospedale di Modena, lì gliele riattaccarono e ha ripreso a suonare la chitarra (e qui forse gli emiliani dovrebbero moderare una passione per il fai-da-te che pare pericolosa). Sì, d' accordo: sembra tutto un po' deamicisiano, le foto in mascherina con le infermiere che prendono il posto degli autografi per l' impossibilità di scriverli, gli abbracci virtuali, l' ottimismo inossidabile. È però la spiegazione del sollievo generale. Morandi è davvero un' icona dell' Italia che fu. E nel tifo di tutti c' è anche la nostalgia per come eravamo: forse, davvero, migliori.

·        Gianni Sperti.

Chi è Gianni Sperti, vita privata e carriera: tutto sul famoso opinionista Tv. Marilena De Angelis il 27 aprile 2021 su Urbanpost. Questa sera, 27 Aprile 2021, andrà in onda su Italia 1 un nuovo appuntamento de Le Iene. Tra i protagonisti della serata anche Gianni Spert, che sarà la vittima perfetta di uno dei noti scherzi del programma. La Iena Sebastian Gazzarrini farà passare un brutto quarto d’ora all’opinionista di “Uomini e donne”. In attesa di vederlo sul piccolo schermo, scopriamo qualcosa in più sia sulla sua vita privata che pubblica. Quanti anni ha? È sposato? Ha figli? Com’è iniziata la sua carriera nel mondo dello spettacolo? Ecco tutte le risposte a queste domande e tante altre curiosità.

Chi è Gianni Sperti? La sua vita privata.

Gianni Sperti è nata a Manduria, in provincia di Taranto in Puglia, il 12 aprile 1973 ed è un ex ballerino e personaggio televisivo italiano. Ha 47 anni, è alto 175 cm e pesa 70 kg. È del segno zodiacale dell’Ariete. È stato ballerino di numerose trasmissioni di Canale 5 fin dagli anni novanta, tra cui Amici di Maria De Filippi.  Dal 2003 ricopre il ruolo di opinionista del programma Uomini e Donen. Cresciuto a Pulsano, fin da giovane ha studiato danza a livello professionale; dapprima rock acrobatico, poi, a partire dall’età di 16 anni, danza moderna e classica. Per quanto riguarda la sua vita sentimentale, durante La Sai L’Ultima? ha conosciuto la showgirl Paola Barale, con la quale si è sposato nel 1998. Il loro matrimonio si è concluso con una separazione nel 2002. L’ex ballerino ha anche un profilo Instagram attraverso il quale comunica con i fan.

La sua carriera nel mondo dello spettacolo.

Gianni Sperti ha debuttato in televisione, dopo un provino, nel 1995, partecipando al corpo di ballo del programma estivo di Canale 5 La sai L’Ultima? Vip. Tra il 1995 e il 1996 ha fatto parte dei corpi di ballo di alcuni programmi di Canale 5, come Stelle sull’acqua, il grande bluff e una nuova edizione di La Sai L’Ultima? A partire dal settembre 1996 è stato primo ballerino d i Buona Domenica, ruolo che ha mantenuto fino al dicembre del 2000. Nel frattempo, ha partecipato al film Milonga, con Claudia Pandolfi e Giancarlo Giannini, e, nel 1997, è stato primo ballerino della trasmissione estiva di Iva Zanicchi Ballo Amore e Fantasia. Nell’autunno del 1999 ha ricoperto lo stesso ruolo in L’Ultimo Valzer, mentre nel febbraio 2000 è stato ballerino e coreografo del programma di Canale Stelle a Quattro zampe. A partire dai primi anni 2000 è nel cast del programma di Maria De Filippi Uomini e Donne. Ha preso parte anche al reality show La Talpa Dal 2006 al 2009 è stato ballerino per la trasmissione Amici di Maria De Filippi. Il ballerino è legatissimo alla sua famiglia. Gianni Sperti ha due fratelli Enzo e Luciano e una sorella più piccola, Cinzia Sperti.

·        Gigi D'Alessio.

Francesca De Martino per "il Messaggero" il 21 dicembre 2021. Aveva picchiato e cacciato da casa sua, ai Parioli, la sua colf di origine ucraina, nel luglio del 2014, perché gli aveva chiesto di abbassare la voce in piena notte mentre litigava con l'ex compagna dell'epoca, la showgirl Nicole Minetti, e non riusciva a riposare. Per questi fatti ieri, a piazzale Clodio, il figlio del cantautore napoletano Gigi D'Alessio, Claudio D'Alessio, imprenditore, 34 anni, è stato condannato a tre mesi e quindici giorni di reclusione con pena sospesa dal giudice monocratico Marco Marocchi. L'accusa contestava all'imputato le lesioni personali e la violenza privata. Poi dovrà risarcire dei danni la vittima con 2.500 euro e pagare le spese processuali. Il pm Raimondo Orrù aveva chiesto una pena di nove mesi. La parte civile aveva invece avanzato al giudice una richiesta di risarcimento di 100.000 euro, non accolta poi dalla Corte. La decisione del tribunale è arrivata ieri sera, nel tardo pomeriggio, dopo due ore abbondanti di discussione delle parti. In aula, ad attendere il verdetto del magistrato, c'erano sia l'imputato D'Alessio sia la parte offesa, Halyna Levkova. Entrambi ascoltavano con attenzione le parole degli avvocati, seduti in fondo all'aula, a pochi posti di distanza l'uno dall'altro. Giacca nera e scarpe sportive lui, con la mascherina a nascondere il volto preoccupato, ogni tanto annuiva alle parole dei suoi difensori. E poi giacca grigia e capelli raccolti la Levkova. L'imputato, appena appresa la sentenza, ha commentato: «Pago il prezzo di avere questo cognome. Se avessi fatto veramente qualcosa alla mia colf lo avrei ammesso - ha sottolineato D'Alessio fuori dall'aula - ma non è successo nulla di tutto questo. Gli anni di udienze, e il peso mediatico che hanno avuto, mi hanno solo danneggiato a livello lavorativo. Io sono una persona per bene». I fatti contestati dalla Procura risalgono al 2014. Tutto si è consumato tra le mura dell'appartamento di Claudio D'Alessio, in via Giuseppe Mercalli, ai Parioli. È la notte del 5 luglio 2014. D'Alessio junior, imprenditore nel settore del wellness e dello sport, e la sua compagna dell'epoca, Nicole Minetti litigano. Secondo quanto ricostruiscono i pm, i toni sono accesi. Le urla si fanno sentire per tutto l'appartamento e svegliano la domestica Halyna, quarantenne ucraina, che dorme al piano di sopra, in soffitta. Halyna scende e chiede alla coppia di abbassare la voce, non riusciva a prendere sonno. Ma alle lamentele della domestica, il clima in casa D'Alessio si fa più teso a tal punto - secondo l'accusa - che il figlio del cantante napoletano avrebbe sbattuto la donna fuori di casa in pigiama e ciabatte provocandole «ematomi, cervicoalgia e stati d'ansia, lesioni guaribili in dieci giorni», si legge nel capo d'imputazione. «Ha provato a lanciarmi una sedia», aveva spiegato Halyna al momento della denuncia. «Poi mi ha strattonato e sbattuto contro il muro, buttandomi la valigia fuori casa. Solo perché gli avevo chiesto l'ultimo stipendio. Non mi pagava e maltrattava», aveva aggiunto la donna. Secondo quanto rimarcato dalla difesa in aula - gli avvocati Angelo Palmieri e Simona Dominici - si sarebbe trattato di una messa in scena per motivi economici. Appena sentito il verdetto del giudice, Palmieri e Dominici, hanno aggiunto: «Attendiamo le motivazioni del giudice e faremo sicuramente Appello».

(ANSA il 9 novembre 2021) - Assolto perché il fatto non sussiste. E' quanto deciso dal tribunale monocratico di Roma nei confronti del cantante Gigi D'Alessio accusato di reati fiscale. Il giudice ha fatto cadere le accuse anche per gli altri quattro imputati. Per l'artista la Procura aveva sollecitato una condanna a 4 anni. La vicenda è legata ad una indagine del 2018 che verteva su una ipotesi di evasione dalle imposte da circa 1,7 milioni di euro. Secondo l'accusa l'artista nel 2010 non avrebbe dichiarato utili per alcuni milioni di euro frodando il fisco. "La sentenza rende giustizia all'uomo prima che all'artista. Il tribunale di Roma, oggi, ristabilisce la verità a distanza di dieci anni dalle ipotesi accusatorie, rimaste prive di riscontro, riconoscendo la legittimità dell'operato dell’artista, che ha sempre creduto che la giustizia riconoscesse l'assoluta legittimità del suo agire. Il tempo è galantuomo". Lo affermano gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno Giuseppe Murone e Gennaro Malinconico, difensori del cantante Gigi D'Alessio, assolto oggi dal tribunale monocratico di Roma in un processo che lo vedeva accusato di reati fiscali. 

Assolto Gigi D'Alessio. Marco Leardi il 9 Novembre 2021 su Il Giornale. Il giudice ha fatto cadere le accuse nei confronti del cantante perché "il fatto non sussiste". D'Alessio era imputato a Roma nell'ambito di un processo in cui era accusato di evasione delle imposte. Gigi D'Alessio canta vittoria. Che non è una sua canzone, ma fa altrettanto repertorio. Il tribunale monocratico di Roma ha infatti assolto il cantante dall’accusa di reati fiscali "perché il fatto non sussiste". Per l'artista napoletano il pm aveva sollecitato una condanna a 4 anni, nell’ambito di un processo che derivava da un'inchiesta condotta dalla procura capitolina per una presunta evasione fiscale da circa 1,7 milioni di euro, fra Ires e Iva non versata. Il giudice ha fatto cadere le accuse anche per gli altri quattro imputati, un socio e tre legali rappresentanti che si sono avvicendati nella Ggd Productions srl, società riconducibile al cantante. I fatti contestati al musicista e alle altre persone coinvolte nel procedimento risalivano al 2010. Per Gigi D'Alessio era stata formulata l’accusa di occultamento delle scritture contabili. Già nel 2015, nel corso delle indagini, le forze dell'ordine guidate dal pm Francesco Saverio Musolino avevano effettuato una perquisizione nella villa romana del cantante, per cercare la documentazione fiscale relativa alla società di cui è a capo. All'avvio delle indagini, l'artista si era detto immediatamente convinto di poter dimostrare la propria "totale estraneità" a fatti che – aveva commentato – "non mi sono ancora chiari e noti". Poi non aveva più fatto menzione a quella vicenda e ai suoi successivi risvolti processuali, lasciando che la giustizia facesse il suo corso. Nemmeno nei giorni scorsi, quando la procura di Roma aveva chiesto una condanna a quattro anni di carcere, D'Alessio aveva rilasciato commenti o valutazioni. Per farlo, come è indicato in questi casi, avrebbe chiaramente atteso al sentenza. E infatti ora, alla luce dell'assoluzione, non si è fatta attendere la reazione a caldo del cantante. "Finalmente la giustizia ha fatto il suo corso. Oggi per me è un giorno felice perché la verità è venuta a galla, dopo oltre dieci anni di ombre pesanti per me e i miei collaboratori, in cui ci siamo dovuti difendere da accuse infondate che hanno infangato la nostra serietà e il nostro lavoro", ha commentato Gigi D'Alessio. "Chi mi conosce - ha aggiunto - sa che sono sempre stato tranquillo avendo massima fiducia nella giustizia e nel lavoro della magistratura. Con tanta pazienza, alla verità alla fine vince sempre e ora è sotto gli occhi di tutti". Secondo gli avvocati Pierpaolo Dell'Anno Giuseppe Murone e Gennaro Malinconico, difensori del cantante e degli altri quattro imputati, "la sentenza rende giustizia all'uomo prima che all'artista. Il tribunale di Roma, oggi, ristabilisce la verità a distanza di dieci anni dalle ipotesi accusatorie, rimaste prive di riscontro, riconoscendo la legittimità dell'operato dell'artista, che ha sempre creduto che la giustizia riconoscesse l'assoluta legittimità del suo agire. Il tempo è galantuomo".

Marco Leardi. Classe 1989. Vivo a Crema dove sono nato. Ho una Laurea magistrale in Comunicazione pubblica e d'impresa, sono giornalista. Da oltre 10 anni racconto la tv dietro le quinte, ma seguo anche la politica e la cronaca. Amo il mare e Capri, la mia isola del cuore. Detesto invece il politicamente corretto. Cattolico praticante, incorreggibile interista.

·        Gina Lollobrigida.

Da Ansa il 21 novembre 2021. "Ho diritto di vivere ma anche di morire in pace" così Gina Lollobrigida, commossa, affranta, in lacrime a Domenica in su Rai1 intervistata da Mara Venier. "Forza, sei una bersagliera amore" l'ha spronata Venier. L'attrice, 94 anni, è da anni in lotta con la famiglia da quando nella sua vita è entrato Andrea Piazzolla. In collegamento anche il nuovo legale della Lollobrigida, Antonio Ingroia. Ieri i legali di Milco e Dimitri Skofic, erano intervenuti a Italia Sì su Rai1 per spiegare le loro ragioni, mosse "da immutato affetto e viva preoccupazione per il vergognoso annichilimento del suo patrimonio a beneficio del sig. Piazzolla". "Per me è come un figlio, mi sta accanto come un figlio, mi ha aiutato ad andare avanti. La sua figlia Gina si chiama come me, è una tigre", ha detto affettuosa. "Andrea non ha mai sbagliato. È una persona brava ed il fatto che mi ha aiutato, sta avendo dei guai terribili. La vita è mia ed io decido cosa farne. Fare dei regali ad Andrea e la sua famiglia è una cosa che riguarda me, nessun'altro.", ha aggiunto. L'avvocato Ingroia ha spiegato in tv il caso che si trascina da tempo per commentare poi "da bersagliera in questi anni è stata bersagliata". Piazzolla, che gestiva i beni della Lollobrigida, è a processo per circonvenzione di incapace, mentre ad ottobre la Cassazione ha convalidato il decreto di apertura dell'amministrazione di sostegno per l'attrice, su azione legale promossa dal figlio Milco. E' lui che ha chiesto all'autorità giudiziaria di Roma di mettere i beni di sua madre in mani sicure. Anzi Skofic aveva chiesto la 'tutela' anche per la gestione ordinaria della vita di sua madre. Ma i giudici hanno ritenuto che 'Lollo' è in grado di prendere da sola le sue decisioni per la vita quotidiana, ma non quelle che riguardano la gestione di soldi, società , immobili.

"L''incontro che mi ha cambiato la vita e quello che chiedo oggi allo Stato". Edoardo Sirignano il 28 Novembre 2021 su Il Giornale. A 94 anni, compiuti a luglio, in questa intervista a ilGIornale.it Gina Lollobrigida parla delle sue passioni, dei suoi ricordi, dei vaccini e del giudizio sul governo Draghi. Sulla sua triste vicenda personale (la battaglia legale con il figlio) chiede solo di essere lasciata vivere e morire in pace. Gina Lollobrigida, star internazionale del cinema, pur avendo superato la soglia dei 90 anni conferma un'incondizionata passione per la lettura, gli animali e l'arte, il suo più grande amore. In questa conversazione con ilGiornale.it parla del regista con cui ha instaurato l’amicizia più profonda, della sua collega preferita, delle proprie abitudini e confessa come l’incontro più significativo che abbia mai fatto sia stato quello con Madre Teresa, con cui era solita confrontarsi ogni anno. Si sofferma poi sull'attualità, dai vaccini al giudizio sul capo del governo.

Quale la giornata tipo di una grande star a 94 anni?

"La mia giornata solitamente inizia con una bella e abbondante colazione, controllo la posta e dopo mi metto a lavorare oppure mi guardo un documentario sugli animali. Sono stata sempre interessata a conoscere il mondo e le sue creature. Dopo il pranzo se ho degli impegni esco altrimenti trovo sempre qualcosa da fare tra il lavoro e la lettura, che resta una delle mie più grandi passioni. Non so mai stare senza far nulla".

Ha scelto il suo avvocato dopo aver visto Netflix. Cosa ne pensa delle serie attuali e quale la sua preferita?

"Ho voluto conoscere il dottor Ingroia dopo averlo visto nella serie Netflix “Vendetta”. Più esattamente mi ha colpito il momento in cui dice di aver smesso di fare il magistrato per dedicarsi alla difesa di persone che hanno subito un’ingiustizia. Lì ho capito che poteva essere quello giusto e che avrebbe potuto fare al mio caso. Al momento non ho una serie tv preferita, cerco semplicemente di informarmi su quello che accade nel mondo".

Preferisce vedere le serie in tv o sul tablet?

"Decisamente preferisco guardare la televisione in poltrona o sul divano. È tutta un’altra cosa, le assicuro".

Alla sua età molti hanno paura del Coronavirus. Lei come ha affrontato la pandemia?

"Con grande dispiacere per chi purtroppo ne è stato colpito in modo diretto. Per tale ragione ho deciso di dare un piccolo contributo alla campagna di sensibilizzazione sui vaccini con alcuni video e partecipando ad alcuni programmi televisivi come Domenica In. Sono vaccinata e sono stata felice di farlo quando è stato il mio turno. Un dovere civico a cui nessuno ritengo possa sottrarsi".

Cosa ne pensa del governo Draghi? Il capo del Governo le ricorda qualcuno del passato?

"Pur non essendo interessata alla politica lo ritengo un uomo di spessore di cui l’Italia aveva bisogno in questo particolare momento".

Tra gli attori e soprattutto le attrici italiane c’è qualcuno che ammira in particolare e perché?

"Sicuramente Claudia Cardinale e sono rimasta molto male perché non riesco più ad avere sue notizie da tempo".

Qual è il momento della sua carriera che non dimentica e che le piacerebbe si ripetesse tutti i giorni?

"Quando ho avuto la fortuna di conoscere e seguire Madre Teresa, che avevo modo di vedere ogni anno. È un'esperienza che non uscirà mai dalla mia vita e dalla mia testa. Stiamo parlando di sensazioni ed emozioni indescrivibili. Qualcosa del genere ritengo che difficilmente si possa ripetere".

Con quale regista, tra i vari De Sica, Luttuada, Monicelli e Soldati, si è instaurato quel rapporto che potrebbe essere definito speciale?

"L’amicizia con Vittorio De Sica è stata meravigliosa. Pur avendo incontrato tantissime persone, posso dire che quella è stata una delle più vere, una di quelle amicizie che si possono considerare molto rare".

Verso la fine della sua carriera si è dedicata anche alla carriera da fotoreporter, intervistando Fidel Castro. Cosa l’ha colpita di più durante quell’intervista?

"Il modo in cui si difendeva. Il suo carattere nel farlo e la sua determinazione nel portare avanti la propria linea".

Nella vita di ogni persona c’è un amore. Qual è stato il suo più grande?

"Senza ombra di dubbio l’arte. Lo è sempre stato e lo sarà per sempre. Tutto quello che è arte mi affascina".

Quale la parte, invece, più difficile e travagliata della sua esistenza?

"La lotta che sto facendo negli ultimi anni con la giustizia italiana (dovuti al dissidio con il figlio da quando nella sua vita è entrato Andrea Piazzolla, assistente e tuttofare, che lei considera come un figlio, ndr). È qualcosa che non auguro a nessuno. Ho diritto, come ho più volte detto, a vivere e morire in pace. Non ho fatto davvero nulla di sbagliato per meritarmi tutto ciò".

Quanto pensa sia importante, oggi, una riforma della giustizia?

"Se l’Italia vuole progredire, essere al passo con i tempi, è indispensabile una riforma della giustizia, di quelle vere e che può portare un cambiamento reale di cui si avverte il bisogno. Sotto alcuni aspetti, come in questo caso, restiamo purtroppo uno dei Paesi più arretrati, mentre il mondo va a velocità doppia". Edoardo Sirignano

Francesca De Martino per "Il Messaggero" il 15 dicembre 2021. La sua villa sull'Appia antica era stata spogliata di opere d'arte, cimeli e arredi dall'ex manager e factotum di Gina Lollobrigida, Andrea Piazzolla che, con la complicità di un ristoratore romano, Antonio Salvi, aveva messo all'asta quei beni tentando di accaparrarsi un bottino da centinaia di migliaia di euro. È l'accusa che ha portato i due a processo, nel maggio 2020, con l'accusa di circonvenzione d'incapace aggravata. Il nuovo legale della diva, l'avvocato ed ex magistrato Antonio Ingroia, aveva anticipato in vari salotti televisivi la decisione di chiedere al Tribunale una seconda costituzione di parte civile nel processo, ma il giudice ieri l'ha respinta. La Lollo è già costituita nel procedimento con un legale nominato dall'amministratore di sostegno che le è stato assegnato in quanto «particolarmente vulnerabile e suggestionabile» - si legge nel capo di imputazione - e non in grado di amministrare autonomamente i suoi averi. Una decisione che la donna aveva cercato di impugnare in Cassazione e che la Suprema Corte aveva rigettato confermando la scelta della Corte di Appello di Roma, che ha ritenuto l'attrice «bisognosa di assistenza nel compimento degli atti di straordinaria amministrazione inerenti la gestione del suo patrimonio e di società». Piazzolla è sotto processo - si tratta di un fascicolo parallelo - sempre per circonvenzione d'incapace anche per aver sottratto altri beni all'attrice 94enne tra il 2013 e il 2018. Le inchieste sono partite dalle denunce dei familiari dell'artista, assistiti dall'avvocato Alessandro Gentiloni Silveri.

L'ACCUSA Nel procedimento di ieri, i fatti contestati ai due imputati risalgono a maggio 2020. Secondo la Procura, Piazzolla avrebbe portato via dalla casa della Lollobrigida vari dipinti prestigiosi di proprietà dell'artista, come «Venere e Amore» - un dipinto di scuola francese della fine del Settecento - per un valore totale di 300mila euro, mettendoli all'asta. Si sarebbe fatto aiutare da Salvi, un ristoratore romano avrebbe fatto da intermediario con la casa d'aste. Per giustificare il movimento di quadri e arredi, Piazzolla avrebbe detto alla Bersagliera che i beni sarebbero solo stati spostati in un'altra abitazione in vista di lavori di ristrutturazione della villa e, soprattutto, per evitare che venissero presi di mira «dall'autorità giudiziaria», si legge nel capo di imputazione. L'affare, però, poi non era andato a buon fine grazie all'intervento della Guardia di Finanza, che da tempo seguiva i movimenti di Piazzolla e aveva intercettato le sue mosse. Secondo quanto scrivevano gli investigatori negli atti Piazzolla, in qualità di «consulente, convivente e uomo di fiducia» della diva, «unico punto di riferimento con il mondo esterno», avrebbe agito con «abilità e pervicacia fuori dal comune». Per la pm Laura Condemi, i due imputati avrebbero approfittato della «vulnerabilità» dell'attrice, che guadagna, tra pensione e diritti d'autore, oltre 100mila euro l'anno.

LA PERIZIA La donna è affetta da uno stato psichico che la rende suggestionabile, come stabilito nell'estate 2017 da una perizia eseguita da uno psichiatra forense, che ha stabilito che la Lollobrigida è raggirabile: «Pur senza sconfinare in una condizione di infermità mentale, presenta una personalità con caratteristiche disarmoniche in cui sono emersi tratti di tipo narcisistico, ossessivo, compulsivo, istrionico e paranoideo». Caratteristiche che avrebbero determinato «un indebolimento della corretta percezione della realtà e della capacità di rapportarsi a essa, tale da configurare una condizione di deficienza psichica». Condizione di cui Piazzolla avrebbe approfittato. 

Da "Oggi" l'1 dicembre 2021. «Difendo Gina Lollobrigida perché è un simbolo. La sua lotta affinché non le venga tolta la dignità è importante anche per le persone che non possono difendersi… Mi sono anche lasciato guidare dal cuore. Mia madre ha più o meno la stessa età e da ragazza pare che le assomigliasse molto. Mi ricorda mia madre, forse per questo sento un forte senso di protezione». Così l’avvocato Antonio Ingroia in un’intervista a OGGI, in edicola da domani. Che sulle perizie mediche e le accuse di circonvenzione d’incapace a carico del factotum della Lollo, Andrea Piazzolla, dice: «Le perizie sulla signora non hanno avuto un esito univoco: alcune parlano di vulnerabilità, altre no, ma nessuna ha rilevato un’incapacità di intendere e di volere. E poi c’è una stranezza: è stato riconosciuto che la signora è lucida e consapevole in generale, non lo è più solo se si tratta di amministrare il suo patrimonio. Strano, no? Per quanto riguarda i processi a carico di Piazzolla vedremo a che conclusioni si arriva perché il punto è sempre lo stesso: la signora ha fatto delle scelte o è stata circuita?».

Pane, amore e stato di polizia. Ingroia in difesa della Lollo e altre fantastiche perversioni del circo cinematografico-giudiziario. Francesco Cundari su L'Inkiesta il 15 Novembre 2021. All’eterna docufiction politico-manettara in cui siamo costantemente immersi da quasi trent’anni si aggiunge ora un fantastico spin-off: l’ex magistrato antimafia divenuto avvocato, scoperto (e assunto) dalla Bersagliera grazie a Netflix. In questi giorni, sull’onda dell’inchiesta sulla fondazione Open, e della consueta congerie di intercettazioni, e-mail, sms e whatsapp quasi sempre penalmente irrilevanti di cui puntualmente si riempiono giornali e televisioni, si torna a parlare molto di politica e giustizia. Se ne torna a parlare in questi giorni, come ogni giorno da circa ventotto anni, a dire il vero, perlomeno quando non si parla di legge elettorale o di riforme istituzionali. In pratica, siamo costantemente immersi in una sorta di perenne 1993 – da un’idea di Marco Travaglio – dal quale sembra proprio che non riusciamo a uscire, prigionieri di un’interminabile docufiction politico-giudiziaria in trentamila puntate, tutte uguali. Mi perdonerete quindi se stavolta proprio non mi va di tornare sulla questione, per spiegare ancora una volta, oggi a proposito di Matteo Renzi e del caso Open come ieri a proposito di Massimo D’Alema, Piero Fassino e del caso Unipol (ma ogni lettore aggiunga pure i suoi esempi preferiti), che in Italia da troppi anni la lotta per il potere ha assunto la forma della caccia alla volpe: uno sport che si gioca solo in cento contro uno, sui giornali e in tv, senza nemmeno quel minimo di regole che persino la caccia alla volpe prevede (tanto meno da quando a giornali e tv si sono aggiunti anche i social network). Stanco come sono di ascoltare e di ripetere io per primo sempre le stesse cose, oggi vorrei dunque occuparmi di cinema. Perché, con mia grande sorpresa, molte delle cose che penso a proposito della docufiction di cui sopra le ha dette, certo senza rendersene conto (cioè senza rendersi conto del profondo significato che le sue parole assumevano, al di là della notizia di cronaca che ne costituiva lo spunto), pensate un po’, Antonio Ingroia. Per la precisione: Antonio Ingroia, intervistato ieri dal Corriere della Sera nelle inedite vesti di avvocato di Gina Lollobrigida. Proprio lui. Il già celebre pubblico ministero impegnato tra l’altro nel processo sulla cosiddetta Trattativa Stato-Mafia (a proposito di docufiction), processo da lui lasciato nel 2012 per guidare la lotta al narcotraffico in Guatemala per conto dell’Onu (a proposito di fiction), salvo lasciare anche quell’incarico appena due mesi dopo, per candidarsi alle elezioni con un partito nuovo di zecca, fondato per l’occasione: Rivoluzione civile. Come ricorderete, è finita anche peggio del processo Trattativa: 2,25 per cento. Ma lui, non lasciandosi abbattere dal magro risultato della formazione con cui si era di fatto candidato a presidente del Consiglio, ci riprova alle politiche del 2018 con la Lista del Popolo, totalizzando uno squillante 0,02 per cento (nessun refuso: zero virgola zero due), e due anni dopo, abbassando leggermente il tiro, con la candidatura a sindaco di Campobello di Mazara, ovviamente senza essere eletto neanche lì. A dire la verità, la storia della sua controversa uscita dalla magistratura e delle sue successive occupazioni, a cominciare dagli incarichi assai ben remunerati ottenuti dalla Regione Sicilia (e relative vicende giudiziarie), sarebbe molto più lunga, ma credo di aver rinfrescato la memoria del lettore con i dati essenziali della sua biografia. Del resto, stiamo parlando di una delle figure più note e più intervistate dalla stampa e dalla televisione italiana, che in questi anni non ha fatto mancare il suo autorevole parere su tutte le più delicate, controverse e scottanti questioni politiche e giudiziarie: persino negli scarsi due mesi di lavoro per la Comisión Internacional contra la Impunidad riuscì a ottenere una surreale rubrica sul Fatto quotidiano dal titolo «Diario dal Guatemala». Ebbene, come mai «la regina del cinema italiano», domanda il giornalista del Corriere della Sera che lo intervista, Felice Cavallaro, ha scelto proprio lui, Ingroia, come avvocato? «Nasce tutto da Netflix», risponde l’ex magistrato, riferendosi alla docufiction sul caso di Pino Maniaci in cui Ingroia ha effettivamente recitato nel ruolo di se stesso (piccola avvertenza per il lettore distratto: qui il termine “docufiction”, come il fatto che Ingroia recitasse nel ruolo di se stesso, e come tutto il resto, non sono metafore, immagini, allegorie di un bel niente, ma puri dati di fatto, da intendersi in senso letterale). Gina Lollobrigida si sente vittima di un’ingiustizia e accusa il figlio – da ultimo anche in un video in cui si rivolge agli italiani guardando direttamente in camera, seduta accanto al suo nuovo avvocato – di volerle togliere la sua libertà e anche i suoi soldi. Sta di fatto che finora i giudici hanno dato ragione al figlio. E così l’attrice, che ha apprezzato la serie tv e soprattutto, dice Ingroia, la sua grinta («Gli avvocati hanno bisogno di mostrare pure un necessario aspetto scenico, dall’eloquio alla presenza»), si è rivolta all’ex pm, nonché collega attore, per passare al contrattacco. Con una scelta che forse non depone a favore della sua lucidità. «Cinema o giustizia?», domanda a questo punto l’intervistatore. «L’uno e l’altro. Si integrano le mie passioni di sempre», risponde Ingroia. E se non vi sembra una confessione questa, davvero non saprei cosa aggiungere.

Filippo Ceccarelli per “la Repubblica” il 14 novembre 2021. «Mi chiamo Gina Lollobrigida e sono una donna che ha rappresentato l'Italia nel mondo. Oggi, a più di 90 anni, sono piena di energie e di voglia di fare ancora. Purtroppo sono anni di grande amarezza perché subisco attacchi alla mia libertà e al mio patrimonio...». Alt, d'accordo, la storia è intricata, per quanto abbastanza nota: ruota sull'età dell'attrice e soprattutto su un bel mucchio di soldi e diversi soggetti che ci girano attorno generando una malsana, ma irresistibile curiosità. Però chi è quel signore soddisfatto seduto sulla poltrona al suo fianco? Sorpresa delle sorprese: sì, è proprio Antonio Ingroia, già campione fra i paladini dell'antimafia e dopo mille avventure candidato alla presidenza del Consiglio quale fondatore e leader del partito arancione "Rivoluzione civile". L'attrice vegliarda l'ha scelto come avvocato "guerriero" nelle sue peripezie famigliari e giudiziarie. Lui l'ascolta guardando in camera, annuisce, sorride, quando lei affronta la questione del figlio, «sangue del mio sangue», Ingroia si gratta la pancia e alla fine protettivo le prende le mani. Quindi mette in scena la sua vibrante concione nella quale, invocate giustizia verità, libertà, si designa «avvocato d'attacco» e come tale s' impegnerà a restituire Lollobrigida «all'arte», eccetera. Il video dura sei minuti, a loro modo formidabili. Lo si guarda come un documento che esalta le meraviglie del possibile, ma anche con un certo senso di colpa perché, pur affrontando vicende abbastanza tristi, come succede in Italia fa anche un po' ridere. C'è un attimo in cui Ingroia sembra guardare nel vuoto; forse si è solo distratto, o forse sta pensando anche lui all'imprevedibilità del destino, dalle aule popolate dai più sanguinari mafiosi e dalla Costituzione minacciata dal più torbido e complice berlusconismo, a una prossima, magari, incantevole puntata di "Un giorno in Pretura" a base di cospicue eredità e pseudo truffe sentimentali. Per cui, dopo aver impiegato un'oretta a ricostruire una biografia densa di accuse e applausi, quindi di arrivismo, aggiustamenti e ghirigori, alla fine ci si sorprende a chiedersi quale modello letterario incarni Ingroia: Bel Amì o Don Chisciotte? Ma non funziona così, essendo la vita più ricca dei libri, mentre l'umile cronaca certamente aiuta a inquadrare il personaggio nella sua originaria passione, ma pure nelle sue debolezze. E va bene: chi non ne ha? Ma Ingroia ha sempre puntato sul macroscopico, parente stretto dell'eccesso, dal Guatemala alla Val d'Aosta, dai trionfi come pm ai ruzzoloni come imputato. Sempre troppo eroe, troppo narciso, troppo litigioso, troppi talk-show, troppa fiducia in se stesso, nella sua intelligenza e nella sua astuzia, che invece si ribaltano nell'ingenuità con una punta di grottesco. Una concezione del suo essere magistrato troppo elastica, a dir poco. Troppi politici bazzicati, Di Pietro, Fini, Grillo, i rifondaroli, i comunisti italiani, alla fine cattolici tradizionalisti, generali e filorussi: per un esito troppo povero. Un soggettone, in definitiva, tre quattro esistenze compresse e un po' a vuoto, "Azione civica", "La mossa del cavallo", la confessione radiofonica, la partita del cuore, il red carpet a Venezia, la serie Netflix (sul caso Maniaci: bravissimo), penultima tappa la 'ndrangheta dietro il Covid. Adesso Gina Lollobrigida che l'ha scelto. Capacità d'intendere e di volare (oh-oh).

Paolo Lorenzi per il “Corriere della Sera” il 12 novembre 2021. Più delle vittorie alla fine ha contato l'affetto del pubblico. Nella conferenza stampa speciale a lui riservata a Valencia, per l'ultima gara della stagione e della sua carriera, Valentino Rossi si è definito un'icona. Per aver portato anche la gente comune, davanti alla tv, a seguire le sue imprese. «La cosa migliore della mia lunga carriera è avere appassionato tutti, i bambini come le nonne di 80 anni. Sono diventato una specie di icona, contribuendo ad accrescere la popolarità del motociclismo in tutto il mondo. E questo va persino oltre i risultati». Valentino fa i conti di una vita passata in moto. Con un filo di tristezza, ma senza rimpianti. A parte quel decimo titolo, sfumato nel 2015. L'ultima occasione. «Ho combattuto molto per vincerlo, sarebbe stata la chiusura del cerchio, ma non posso lamentarmi. Nove titoli sono un gran bel numero. L'ultimo nel 2009, una vita fa. Ho vinto 89 gare in MotoGp e collezionato 199 podi, certo arrivare a 200... Il nove sembra un po' una maledizione. Ma va bene così, quando puoi lottare per la vittoria è sempre un gran piacere». Tranquillo e sorridente, davanti ai fotografi, Rossi abbraccia fisicamente le moto con cui ha vinto nella MotoGp. Gliele hanno portate per fargli una sorpresa. Una parata di stelle che rappresenta la parte più consistente dei suoi 26 anni di gare. «La Yamaha del 2004 (con cui ha vinto il primo titolo targato Iwata, ndr) l'ho messa in camera da letto. La guardo ogni mattina». Dopo quest' ultima gara, forse con uno sguardo più malinconico. «Non so quali emozioni proverò domenica sera. Lunedì mattina comincerà un'altra vita. Ma non voglio pensarci. Voglio godermi questo momento, tutto cambierà, diventerò padre, correrò con le auto, ma non sarò più un pilota di moto». Il momento peggiore? «Quando ho deciso di smettere. Accettare la realtà, la scorsa estate, è stata dura. Avrei continuato solo se fossi stato ancora competitivo». Altre volte gli hanno consigliato di smettere, ma guardandosi indietro non cambierebbe nulla. «Dopo il 2012 (alla fine del biennio Ducati, ndr ) ci avevo anche pensato, non mi sentivo più veloce come prima, ma sono andato avanti altri dieci anni». Il segreto? «Un fisico in ordine e il piacere di guidare. L'ho scoperto quando ero bambino e ho amato molto gareggiare, preparare la moto. Per poi raccogliere i frutti la domenica. Altre cose della vita non ti danno altrettanto piacere». Lo hanno abbracciato tutti i piloti. I rivali storici gli hanno scritto. «Sono stati importanti per farmi dare il massimo e capire i miei limiti. Ne ho avuti di grandi come Biaggi, Stoner, Lorenzo, Marquez e mi sono divertito molto. È qualcosa che si ricorda fino alla fine». Domenica cade il 14/11/21. Sommando si ottiene il 46, il suo numero fortunato. Un segno del destino? «Fate voi, nella mia carriera i numeri hanno avuto un certo ruolo, positivo». 

 

Da tgcom24.mediaset.it l'1 ottobre 2021. La Cassazione ha confermato il decreto di apertura dell'amministrazione di sostegno per Gina Lollobrigida, l'attrice 94enne nei confronti della quale il figlio Andrea Milko Skofic, con il quale i rapporti sono sempre stati difficili, aveva chiesto all'autorità giudiziaria di Roma di nominare un "tutore per proteggere il patrimonio" dell'attrice. I periti medici hanno evidenziato "un indebolimento della corretta percezione della realtà". Pur escludendo una situazione di "infermità mentale derivante da patologie psichiatriche", i periti hanno anche riscontrato nella "Bersagliera" uno stato di "vulnerabilità che rende possibile l'altrui opera di suggestione". Dalla sua villa romana sull'Appia Antica, l'attrice si dice "amareggiata ma non rassegnata" commentando la decisione della Cassazione di confermarle l'amministratore di sostegno per la gestione dei suoi beni e delle sue questioni patrimoniali. Lo comunica l'avvocato Filippo Maria Meschini, suo legale di fiducia. Per l'attrice, che è stata anche recentemente testimonial per il vaccino contro il Covid e che iniziò la sua carriera nel 1947  divenendo poi una diva conosciuta in tutto il mondo, il verdetto "è lesivo della sua dignità". 

Da Oggi il 25 settembre 2021. «Andrea è una persona che adoro. È intelligente, è la persona che mi sta più vicino, andiamo d’accordo che è una meraviglia. E se a qualcuno questo dà fastidio, me ne infischio». Gina Lollobrigida, 94 anni, liquida così su OGGI , in edicola da domani, il nuovo rinvio a giudizio del suo factotum per circonvenzione di incapace. «Queste accuse sono ridicole. Spero solo che mi lascino vivere in pace le ultime giornate che il Padreterno vorrà regalarmi». I processi a carico dell’assistente della diva sono due. Nel primo è stato rinviato a giudizio per circonvenzione di incapace: avrebbe depredato l’attrice approfittando della sua fiducia. A intentargli causa sono stati il figlio di Gina, Milko Skofic, e il nipote Dimitri assieme all’imprenditore spagnolo Javier Rigau il cui matrimonio per procura con l’attrice del 2010 è stato dichiarato nullo. Nel secondo processo invece Piazzolla è accusato di aver tentato di vendere all’asta opere d’arte, cimeli e arredi dell’attrice per un valore di circa 300 mila euro. «Gina per me è tutto, è la mia priorità, una missione di vita. Ogni cosa che Gina decide di fare viene strumentalizzata contro di lei e contro di me», si difende Piazzolla. «Secondo l’avvocato Michele Gentiloni Silveri, che rappresenta il figlio, il nipote e il marito mancato dell’attrice, invece: «Piazzolla ha carpito il consenso di Gina, dicendole che le opere sarebbero state sequestrate dall’autorità giudiziaria. Inoltre, la signora Lollobrigida non può disporre dei suoi beni perché è rappresentata da un’amministrazione di sostegno, nominata dal Tribunale». E questo nonostante la Lollobrigida abbia sostenuto anche con OGGI: «Con Andrea sono d’accordo su tutto». «È lucida in alcuni settori dell’esistenza, quelli legati al lavoro, alle relazioni sociali e alla memoria storica», sostiene l’avvocato dei familiari, «mentre nei rapporti con i familiari e nei settori patrimoniali, secondo i periti, è come una bambina di 5 anni».

Gina Lollobrigida compie 94 anni. In un video, i momenti più belli della sua vita da star. La Repubblica il 4 Luglio 2021. Celebriamo i suoi 94 anni (li compie il 4 luglio) attraverso questo video che ripercorre i suoi look più famosi. Indimenticabili, proprio come lei. Dici Lollo e immediatamente pensi ad abiti sontuosi, gioielli unici, vite strizzate e tacchi a spillo, pellicce maculate e cappellini, guanti lunghi fino al gomito e scollature totali. Poche dive hanno incarnato la femminilità a livello mondiale come ha saputo fare Gina Lollobrigida aiutata in questo dai grandi sarti italiani Emilio Federico Schuberth, Sorelle Fontana, Capucci, Sergio Soldano, che vestivano le dive italiane ma anche americane e le principesse come Soraya. Icona di fascino tutto italiano, Lollo è stata corteggiatissima dai registi di Hollywood e Cinecittà che sapevano come quella femminilità unica piacesse al pubblico. Negli anni 20-40 Hollywood aveva promosso una bellezza sofisticata come quella di Marlene Dietrich o Greta Garbo. Nel dopoguerra, invece, grazie al neorealismo si impone la donna latina con vita strettissima e forme generose, come quelle proposte dal concorso Miss Italia che infatti sforna molte dive nostrane da Silvana Mangano e Sophia Loren a Gina Lollobrigida. La Lollo si impone subito per il talento ma soprattutto per il corpo unico (per lei nel film "Altri tempi" di Alessandro Blasetti, Vittorio De Sica, conia il neologismo 'maggiorata fisica'). Ma si fa notare anche per lo stile nel vestire, forte anche dei suoi studi artistici. Per questo rimane conquistata dagli abiti di Schubert, il sarto delle dive, che dopo aver lavorato come apprendista presso la sartoria Montorsi apre il suo atelier e ispirandosi al New Look parigino lanciato da Dior crea abiti che esaltano il corpo femminile. Superbe creazioni, vere opere d’arte con corpetti aderentissimi che sostengono il seno, vitini da vespa, gonne ampissime e poi broccati, ruches, voile, paillettes a rendere il tutto ancora più opulento. Uno stile carico che sembra creato apposta per la Lollobrigida, condito con gioielli unici realizzati per lei da Bulgari e scarpe create da Alberto Dal Co’, che nel suo laboratorio romano sforna décolletées per Soraya, Gina e le più grandi star. Nella vita di tutti i giorni eccola con abitini e tailleur che comunque sottolineano la vita (uno dei suoi punti forti), cappellini, foulard... insomma il classico look da lady anni 50. 

Ilaria Sacchettoni per il "Corriere della Sera" il 18 maggio 2021. «Venere e Amore», un dipinto di scuola francese della fine del Settecento, graziosamente alloggiato su una delle pareti di casa Lollobrigida, aveva già preso il largo alla volta di Rue du Faubourg sant' Honoré, acquistato da un collezionista parigino per 14 mila 800 euro circa. Mentre la Bersagliera, 93 anni, si sforza di «rimanere protagonista delle decisioni riguardanti la sorte del proprio patrimonio» i suoi beni, dispersi in rivoli, arricchiscono il catalogo della casa d' aste Colasanti a sua insaputa. È l'ultimo capitolo di quella che i magistrati della Procura romana definiscono «azione predatoria» del suo assistente Andrea Piazzolla, già a processo per circonvenzione di incapace e ora indagato per averla convinta a firmare tre mandati a vendere «cimeli, oggetti d' arte, antichità, preziosi, mobili d' arredo, opere d' arte del valore minimo stimato 300 mila euro». Secondo gli esperti del Nucleo di Polizia economico finanziaria, coordinati dalla pm Laura Condemi, si sarebbe trattato di una spoliazione orchestrata, un gioco di sponda fra Piazzolla, la titolare della galleria in questione, Raffaella Colasanti (poi destinata all' archiviazione) e un ristoratore amico di Piazzolla, Antonio Salvi nel ruolo di intermediario. Unendo le loro energie i tre avrebbero «abusato delle condizioni di vulnerabilità» della diva per appropriarsi dei suoi beni in concomitanza con i lavori di ristrutturazione della sua residenza sull' Appia antica. Tutto parte dalla denuncia dell' amministratore di sostegno nominato dal Tribunale, Stefano Agamennone: imbattutosi in un sito che annuncia la vendita all' asta di proprietà della Lollo, l' amministratore si precipita a informare l' autorità giudiziaria sottolineando come molte delle opere in via di cessione, siano state riconosciute dal figlio di Lollobrigida, Andrea Milko Skofic. A prima vista tutto parrebbe regolare. La casa d' aste Colasanti può esibire un mandato a vendere per conto dell' anziana attrice di Rita Lizzi. Di chi si tratta? Rita Lizzi è un' ex cameriera del ristorante di Salvi, oggi residente nel North Carolina (Usa), la quale disconosce immediatamente, attraverso la sua avvocatessa (Emilia Cibelli), il mandato a vendere le proprietà. La donna, in effetti, ha conosciuto in un' occasione la Lollo - nel locale di Salvi - ma nulla sa di mobili, quadri e ninnoli di sua proprietà e lo fa mettere a verbale. Per chiarire definitivamente l' accaduto i finanzieri ascoltano anche la diva. Davvero vuol separarsi dai suoi ricordi le chiedono mostrandole l' elenco? Neanche per sogno, risponde lei difendendo uno ad uno i suoi oggetti fra cui «molte icone sacre... mai me ne sarei disfatta perché ritengo mi proteggano». Non solo il sacro, ma anche il profano, viene difeso dalla diva: «Era mia intenzione rientrare in possesso dei beni dopo l' esecuzione dei lavori» spiega. L' episodio finisce per convincere il magistrato che sia necessario chiedere i domiciliari per Piazzolla e l' obbligo di firma per Salvi e Colasanti. Ma il gip respingerà la richiesta motivando che, fra le altre cose, Piazzolla è già a giudizio per circonvenzione d' incapace. Restano le accuse. «Da ultimo - scrive il pm - si rappresenta la particolare abilità del Piazzolla non solo nel carpire l' assoluta fiducia della vittima ma anche nel coordinare la trama illecita trasformando sé stesso nell' unico punto di riferimento della Lollobrigida con il mondo esterno». Michele Gentiloni Silveri l' avvocato dei familiari della Lollo commenta: «Stupefatto dal perdurare delle condotte di Piazzolla».

·        Gino Paoli.

Guido Andruetto per "la Repubblica" il 22 gennaio 2021. È di buon umore, ma non esce di casa. Gino Paoli si è autoimposto il lockdown anche se potrebbe assentarsi dalla sua abitazione sulle alture di Nervi, tra gli alberi da frutto e le mimose che attendono di fiorire. Questo è l'inverno più lungo anche per il cantautore di Genova, 86 anni compiuti a settembre. «Non lavorare è una cosa che mi fa male - dice - mi manca il rapporto col pubblico, la mia vita è fatta anche degli spettacoli e senza quelli mi sento incompleto. Sto a casa e aspetto». I ricordi delle migliori stagioni della carriera servono almeno ad alleggerire il clima pesante di questo periodo. L'interprete di Senza fine, Il cielo in una stanza e La gatta, festeggia i 60 anni del suo primo album pubblicato nel 1961. Quello stesso anno a Sanremo si presentò con Un uomo vivo.

Paoli, lei è stato anche presidente della Siae. Il settore della musica è duramente colpito dalle restrizioni e dalla crisi per il Covid. Come vede la situazione?

«Male, malissimo. Dobbiamo pensare alle piccole realtà, a chi suona nei piano bar e nei locali, le orchestre, i gruppi, sono tutte persone che lavorano per mangiare, e quindi in questo momento sono alla fame. Calcoliamo poi tutto l'indotto che ruota intorno agli artisti, non solo quelli più noti. Se si ferma uno, si fermano anche i tecnici, i fonici, è un problema enorme per la categoria. Ci considerano quelli del divertimento, ma non è giusto. Servono aiuti veri per i lavoratori della musica».

A livello personale come se la sta cavando?

«Il Covid non mi spaventa perché sto a casa. Mia moglie mi dice di uscire, ma per incontrare in giro degli imbecilli preferisco starmene qui. La nazione è fatta da una maggioranza di stupidi, persone incapaci di pensare con la propria testa che si fanno condizionare dai mezzi di informazione».

Continua a scrivere canzoni?

«L'ho fatto per l'ultimo disco Appunti di un lungo viaggio, in una forma nuova. Ho scelto di trasgredire me stesso, il mio lavoro, il mio modo di scrivere musica. L'artista deve essere un trasgressore. Provo a scrivere cose diverse che vadano aldilà della canzone, le ho chiamate "canzoni interrotte". Oggi però vedo tutto con un certo pessimismo. Quando scrivo cerco sempre un orizzonte, non scrivo mai se non ho un orizzonte che esiste per me, e trovarlo diventa sempre più difficile adesso. Anche scrivere canzoni è diventato difficile a questo punto. L'orizzonte del mare è una grossa consolazione, ma non basta. Questo mondo malvagio, egoista, invidioso, può essere salvato solo attraverso l'amore. Amare significa andare verso gli altri, ma chi spalanca le braccia oggi? Vedi solo persone arrabbiate e chiuse».

Sessant'anni fa usciva il suo primo album, "Gino Paoli". Che vita conduceva all'epoca?

«Ero un ex pittore che faceva ancora il pittore. Nel senso che non ho lasciato il mio mestiere quando ho avuto successo. Per un paio d'anni sono andato avanti normalmente. Vedevo la musica come una cosa aggiuntiva, per divertirmi. Da ragazzi suonare e cantare, magari sulla spiaggia, è una cosa normale, quindi per me era soltanto un gioco, che poi è diventato sempre più importante. Il successo è arrivato tra il 1961 e il 1962, ma io fino alla fine del '62 non ho smesso di lavorare come grafico, non credevo che la musica fosse la mia vita».

Il Festival di Sanremo del '61 per cosa lo ricorda?

«Si parlò molto del mio abbigliamento. Ricordo che mi presentai in teatro per una pre-esibizione o qualcosa del genere e all'ingresso il portiere non mi fece entrare per com'ero vestito. Sarei potuto tornare in albergo ma gli risposi che io lì dentro ci entravo come diamine mi pareva. Alla fine intervenne la casa discografica e trovarono la soluzione. Però a quel Sanremo cantai vestito come volevo io. Non misi lo smoking né la cravatta. Avevo una giacca e la camicia. L'unica stranezza, per così dire, erano gli occhiali che avevo comprato alla Standa e che poi diventarono di moda in quel periodo. Mi ero dimenticato di togliermeli prima dell'esibizione. Per cui la mia figura scura con questa montatura nera incuteva un certo turbamento. Henri Salvador, comico eccezionale, mi prese per i fondelli per parecchio tempo dicendo che sembravo un uomo morto che cantava Un uomo vivo».

Sanremo è Sanremo.

«In quegli anni era un gioco al massacro. Mi ricordo Piero Focaccia, un ragazzo sveglio, simpaticissimo. Durante un festival ci trovammo la sera in un locale, era disperato: se domani non vinco mi uccido. Mi disse così. C'era una psicosi allucinante. Gli avevano fatto il lavaggio del cervello. Modugno mi confessò che se la faceva ancora sotto, pur essendo avvezzo al palco. Al mio primo Sanremo la voce non venne fuori per un intero verso. L'emozione era fortissima. Però penso sia una questione di quanto metti di te stesso in ciò che fai».

Il Festival diretto da Amadeus si avvicina. Ci tornerebbe?

«Ci sono già tornato tre anni fa con il pianista Danilo Rea. Al festival di Baglioni. Per me un palco è un palco e il pubblico è il pubblico. Che sia Sanremo o Canicattì in un teatro-tenda è uguale. L'importante è la relazione con chi ascolta, per trasmettere emozioni».

·        Giovanna Mezzogiorno.

Giovanna Mezzogiorno: il rapporto con il padre Vittorio, doppiatrice in un film Disney e altri 7 segreti su di lei. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 9 novembre 2021. Aneddoti e curiosità poco note sull’attrice, nata il 9 novembre nel 1974 a Roma dall’unione tra gli attori Vittorio Mezzogiorno e Cecilia Sacchi.

Figlia d’arte

«Non mi sono mai fermata, a parte la pausa per la maternità. È difficile tenere insieme tutto, ma è importante non mollare, non afflosciarsi su casa-figli-famiglia. Il lavoro è vitale, è carburante». Giovanna Mezzogiorno (sono sue le parole appena citate, contenute in un’intervista dell’attrice rilasciata a Io Donna) il 9 novembre compie 47 anni e ne ha passati più di 25 tra cinema e teatro dagli esordi a Parigi con Peter Brook all’ultimo film «Gli indifferenti» (uscito lo scorso anno). Figlia d’arte è nata a Roma nel 1974 dall’unione tra gli attori Vittorio Mezzogiorno e Cecilia Sacchi. Ma questa non è l’unica curiosità su di lei.

I difficili anni dell’adolescenza

«La mia infanzia era normale, mio padre viaggiava molto mentre io ero a casa con la mamma. Ricordo un padre assente. Forse chi ne ha sofferto di più è stata mia madre. Il loro fu un grande amore. Però, è stato complicato, una storia piena di momenti molto drammatici, di separazioni, di lontananze. La mia adolescenza è stata difficile perché avvertivo le loro difficoltà e ne soffrivo». Così Giovanna Mezzogiorno raccontava nel 2016 a Verissimo la sua adolescenza difficile. «Verso i 14 anni ho avuto un momento di grande scontro con i miei genitori - ha aggiunto -. Era appena nata una sorellina, frutto della relazione di mio padre Vittorio con una donna americana. Era un momento tragico. Quella nascita è stata un trauma per tutti noi e una botta terribile per mia madre. Ho reagito con molta rabbia e sono rimasta arrabbiata con lui per tanti anni. Ho fatto pace con lui e poco dopo è mancato, questo è un rimpianto. L'ho rispettato anche per le sue debolezze, era un uomo non un eroe».

Gli inizi con Peter Brook

In seguito alla morte del padre Giovanna Mezzogiorno negli anni Novanta inizia a studiare recitazione. Lavora per due anni a Parigi, presso il laboratorio teatrale del regista britannico Peter Brook (amico e maestro di suo padre Vittorio) che nel 1995 la dirige in «Qui est là», un riadattamento dell'Amleto (l’attrice ha il ruolo di Ofelia).

Il debutto al cinema con Sergio Rubini

Nel 1997 Mezzogiorno debutta al cinema con un film di Sergio Rubini, «Il viaggio della sposa» (per il quale vince il Premio Flaiano come migliore interprete femminile). Lavorerà nuovamente con Rubini in «L'amore ritorna» (2004).

«L’ultimo bacio» e l’amore con Stefano Accorsi

Il 2001 è l'anno della consacrazione di Giovanna Mezzogiorno con il film «L'ultimo bacio» di Gabriele Muccino. L’attrice presta il volto a Giulia, fidanzata di Carlo, personaggio interpretato da Stefano Accorsi. Forse non tutti sanno che i due attori (conosciutisi sul set di «Più leggero non basta») tra il 1998 e il 2002 hanno avuto una relazione anche nella vita reale.

Premi e riconoscimenti

Nel corso degli anni per le sue interpretazioni Giovanna Mezzogiorno ha ottenuto numerosi premi tra cui un David di Donatello («La finestra di fronte»), quattro Nastri d'argento («Del perduto amore», «L'amore ritorna», «La finestra di fronte» e «Ilaria Alpi - Il più crudele dei giorni», «Vincere»), la Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile alla 62ª Mostra del Cinema di Venezia (per «La bestia nel cuore» di Cristina Comencini) e un riconoscimento come migliore attrice protagonista da parte del National Society of Film Critics Awards, l'associazione dei critici cinematografici statunitense.

Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere

Dal 2014 l’attrice è Cavaliere dell'Ordine delle Arti e delle Lettere (Chevalier de l'Ordre des Arts et des Lettres): «Dire che è un onore è fin troppo scontato, questa medaglia per me è una gioia immensa - ha detto Mezzogiorno in occasione della consegna dell’onorificenza francese -. Viene dalla Francia, che ha cambiato il destino della mia famiglia per sempre. Ho vissuto per otto anni in Francia e la conosco bene, so quanto sia un Paese profondamente attento alla cultura. Accetto con onore questa onorificenza che non considero solo mia ma anche di mio padre».

Doppiatrice in un film Disney

Nel 2016 Giovanna Mezzogiorno doppia il serpente Kaa (in originale doppiato da Scarlett Johansson) nel live-action del classico Disney «Il libro della giungla» diretto da Jon Favreau.

Mamma di due gemelli

Dal 2009 Giovanna Mezzogiorno è sposata con il macchinista Alessio Fugolo, conosciuto durante le riprese di «Vincere» di Marco Bellocchio. La coppia nel 2011 ha dato il benvenuto a due gemelli, Leone e Zeno. In seguito l’attrice ha deciso di prendersi una pausa di qualche anno dai set per dedicarsi alla sua famiglia: «Questa pausa la definirei sia voluta che forzata - raccontava nel 2016 a Verissimo -. Ho avuto due gemelli, quando sono rimasta incinta ero molto stanca, avevo lavorato per 15 anni. Ho deciso di stare dietro ai bambini. Questi anni sono passati velocemente». Ha anche svelato di aver vissuto una gravidanza difficile: «Ho dovuto prendere 23 chili e non riuscivo nemmeno a camminare. Sono nati prematuri come molti gemelli e sono stati in terapia intensiva. È stato qualcosa di talmente faticoso che non penso di ripetere questo passo, però poi è una cosa talmente bella vederli lì e sapere che ce l'hai fatta. Loro per me sono fondamentali, ma ora sono felice di tornare a lavorare».

·        Giovanni Veronesi.

Elvira Serra per il "Corriere della Sera" il 28 giugno 2021.  

E se le chiedo a bruciapelo il ricordo più bello?

«Quando mia madre mi portava al mare, avevo 5-6 anni ed ero scalmanato. Lei mi salvava la vita tutte le mattine perché se non mi avesse stretto la mano così tanto da non farmi sgusciare via, io avrei attraversato sempre con il rosso viale Kennedy a Fiumetto per raggiungere al più presto il mio amico Gerardo, figlio del bagnino. Non mi rendevo conto del pericolo».

Questa risposta, in realtà, chiude un'intervista che si era aperta parlando di Gianni, il padre ingegnere, e della madre Luisa, che «era molto bella, a 18 anni vinse la fascia di Miss Bellaria, un produttore le propose di venire a Roma a fare dei provini e mio nonno la schiaffeggiò e la rimandò a Bologna su un camion dell'acqua minerale di un suo amico». Per tutta la chiacchierata nella sua casa romana di Monteverde Vecchio, Giovanni Veronesi il regista, lo sceneggiatore, l'attore, il fratello di Sandro due volte Premio Strega, è soprattutto un figlio. Oggi come allora, quando il padre gli suggerì di incorniciare le prime centomila lire guadagnate sul set di Madonna che silenzio c' è stasera. Era il 1982. «"Guarda, i soldi guadagnati facendo una cosa che ti piace non andrebbero spesi perché sarebbe bello tenerseli, sono talmente rari", mi disse. "Spera nella tua vita di poterli guadagnare facendo una cosa che ti piace perché saresti veramente un privilegiato". Da quelle centomila lire incorniciate è partito tutto. Avevo bisogno della spinta di mio babbo, mia madre era già dalla mia parte». 

Scrivere, dirigere. Cosa la emoziona di più?

«Quando arrivo la mattina sul set e devo inventarmi un mondo da inquadrare lasciando fuori il resto. Il mio è un mestiere fatto di emozioni: te le danno i costumi, la sceneggiatura, gli attori vestiti e truccati che diventano il tuo personaggio, l'azione. Se poi il film è d' epoca hai davvero la sensazione di vivere in una macchina del tempo. Penso di essere una delle persone più fortunate che conosco».

A proposito di film in costume, come è riuscito a utilizzare La Cura di Franco Battiato in Tutti per 1 - 1 per tutti?

«Non sono riuscito a parlare direttamente con lui. So però che gliel' hanno chiesto e ha dato l'assenso; la Universal, poi, si è messa a disposizione. Credo che sia stato anche quello un privilegio enorme, perché non l'aveva mai concessa a nessuno. Evidentemente anche nell' ultima fase della sua malattia aveva degli sprazzi di lucida follia per cui questo accostamento di moschettieri e amore che sprigiona la sua canzone gli era piaciuto. Un po' come quando Celentano mi ha dato Prisencolinensinainciusol per i Moschettieri del Re». 

Quale successo ha il rammarico di non avere condiviso con i suoi genitori?

«Tutti. Sono uno di quelli che non ha elaborato il lutto. Dicono ci voglia un anno, e invece ne sono passati dodici e io niente. Ripenso a mio padre e a mia madre ogni giorno. Sento un vuoto profondo: sono stati talmente importanti che non è possibile sostituirli con nessun passaggio di tempo, nemmeno tra 100 anni riuscirei a vivere felicemente come ho vissuto fino a quando c' erano loro. In ogni film metto qualcosa che me li ricorda e fa sentire vicini». 

Per esempio?

«Genitori e figli l'ho dedicato a loro, con questa scena molto toccante che abbiamo davvero vissuto io e mio fratello Sandro quando abbiamo buttato in mare al tramonto le ceneri dei nostri genitori e i miei nipoti si sono tuffati in acqua ingenuamente, quasi a salutare i capi branco che se ne vanno. Allora io e Sandro li abbiamo seguiti in questo bagno liberatorio. Nessuno di noi poi ha più toccato l'argomento: quella sera siamo andati a cena e abbiamo parlato d' altro. Lì ho capito cos' è il branco, in positivo e in negativo: quando muoiono i capi si è un po' sbandati e devi assumerne tu le veci anche se non sei pronto». 

Non siamo mai pronti, forse.

«Eppure non ero particolarmente mammone. Li chiamavo ogni 3-4 giorni, talvolta non li vedevo per due mesi. Nel momento della malattia, però, io e Sandro siamo stati con loro fino alla fine: è una cosa che auguro a tutti di poter fare, è un passaggio di testimone che deve essere fatto dove sei cresciuto».

Cosa pensa di aver preso da loro?

«Spero tanta roba. I miei genitori non mi hanno insegnato a vivere, ma come si muore: con grande dignità». 

Sono mancati a sei mesi di distanza.

«Mia madre ha mantenuto la promessa: aveva detto che non voleva vivere neanche un giorno senza mio padre e sebbene il malato fosse lui, aveva un tumore da cinque anni, lei ha sorpassato tutti a destra e si è inventata un tumore che non c'era fino a poco tempo prima. È stata una sorpresa, a un certo punto abbiamo capito che non si è curata». 

Poi si è ammalato suo fratello.

«Beh, anche io ho avuto un tumore due anni fa. Ancora non è tutto a posto, ti danno 5 anni di protocollo e devi solo aspettare e sperare che non si ripresenti. Mio fratello è fuori, io no. Diciamo che ho vissuto gli ultimi due anni pericolosamente, anche con il Covid». 

La pandemia l'ha cambiata?

«Il Covid lo avevo preso alla leggera, poi quando sono arrivate le complicazioni ho capito che questa malattia tremenda si può trasformare dalla notte al giorno. Sono stato fortunato, perché la saturazione non è mai scesa al limite e i medici mi hanno curato a casa». 

Chi è famiglia oggi?

«È Valeria (Solarino, ndr ), che amo in modo smisurato, non c' è metro che potrebbe misurare il mio amore per lei. È la sua famiglia. È Sandro con i miei nipoti». 

Perché non ha ancora sposato Valeria?

«Ci sposeremo, sicuro. Abbiamo detto che vogliamo essere onesti, e quando lo faremo sapremo davvero che lei è stata la donna di tutta la mia vita e io l'uomo della sua». 

Una cosa che le piace tanto di lei.

«È una delle persone meno litigiose che abbia mai conosciuto: in 18 anni abbiamo litigato veramente tre volte, sempre per colpa mia, che magari sono nervoso, penso solo al lavoro, le cose classiche dei registi un po' egocentrici».

E Francesco Nuti?

«Lui non fa parte della mia famiglia, ma è come se fossimo fratelli. Se non ci fosse stato lui il mio mestiere non sarei riuscito a farlo in questo modo, entrando dalla porta principale.

A parità di talento ne ho visti tanti rimanere al palo, io non mi reputo Kubrick, so benissimo quali sono miei limiti. Sono stato aiutato un po' dalla fortuna e molto da Francesco, che nei primi anni della mia carriera mi ha spalleggiato, mi ha prodotto film, me li ha fatti scrivere». 

Va sempre a trovarlo in clinica. Come fa a essere sicuro che lui capisca?

«Non sono sicuro, ma la speranza è talmente tanta che esco sempre soddisfatto. E poi lui sorride, mi guarda, alle volte spero che non capisca perché ho paura che possa soffrirne». 

Le è dispiaciuto non diventare padre?

«Ci ho pensato tanto, ma ogni volta mi sono risposto che non volevo chiedere troppo. Poi so che mi sono privato di una delle cose più belle della vita, però ne ho avute talmente tante altre che va bene così, non sono ingordo». 

A quale film è più affezionato?

«L' altro giorno dovevo mandare il curriculum in Spagna perché forse faremo una coproduzione e riguardando l'elenco dei miei film ho pensato: io sono un pazzo. Sono tutti talmente fuori dagli schemi rispetto al cinema italiano! Ho fatto un fantasy con Sergio Castellitto e Paolo Rossi, uno su Gesù e la Madonna quando avevo 28 anni con Abatantuono e Penelope Cruz... Ho girato western, film comici, drammatici. Prima o poi farò un cartoon». 

Il film che avrebbe voluto dirigere?

«La grande guerra, che con Blade Runner ha il finale più bello della storia del cinema». 

L' attore?

«Beh, io ho diretto Robert De Niro...».

Vi sentite ancora?

«Sì e quando gli scrivo mi risponde prima di certi miei amici, ai quali poi lo rinfaccio...». 

L' attore più difficile?

«Harvey Keitel, in Il mio West, perché lui, portandosi "il metodo" dietro, voleva da me risposte che non ero abituato a dare. Quando però ha capito come eravamo fatti noi, si è adeguato in un modo eccellente. Mentre David Bowie, nello stesso film, era una delle persone più antipatiche mai conosciute nella vita».

Non lo dica!

«Antipaticissimo. D' altra parte il suo talento e la sua arte non vengono scalfite dal giudizio: era il mio mito e lo resterà. Con lui sul set mi sembrava di toccare il cielo con un dito. Però era proprio antipatico, non voleva parlare con nessuno tranne che con me, per qualsiasi cosa. Quando si incontrava al trucco con Pieraccioni, capivo di averla fatta grossa...». 

Chissà che gioia!

«Sì, tanta. Ma io mi entusiasmo anche per un film piccolo, come questo che sto producendo con Pilar Fogliati protagonista. Sono anche sceneggiatore e operatore. E il mio entusiasmo non cala di una tacca».

Dove scrive?

«Qua. Vede quella lavagna? Ci sono scritti i quattro episodi del film con Pilar. Sotto la cimosa, se va a raschiare, ci trova altri 7-8 film». 

Come sceglie i Paesi dove girare?

«Viaggio solo per lavoro. Ma quando scelgo un Paese per un film lo vivo nella sua intimità, perché sto ogni giorno con maestranze locali, conosco i figli, le famiglie, le loro case». 

Cosa la rende felice adesso?

«La felicità, alla mia età, è la serenità di rimanere con le persone che ami e riuscire a preservare quello che hai costruito. L' importante è avere intorno persone che davvero ti vogliono bene. E io ho Valeria».

·        Giucas Casella.

Giucas Casella che fine ha fatto? L’illusionista Giuseppe Casella Mariolo, la moglie, la lite con Mara Venier. Gaia Sironi l'08/06/2021 su Notizie.it. Che fine ha fatto Giuseppe Casella Mariolo, il celebre illusionista che ha riscosso grande successo nel corso della sua lunga carriera? Che fine ha fatto Giucas Casella, il famoso illusionista siciliano che nel corso della sua lunga carriera ha ottenuto grande fama, ma allo stesso tempo ha causato molte polemiche?

Il noto mentalista nasce a Termini Imerese, nei pressi di Palermo, il 15 novembre del 1949, secondo di tre figli. Il padre è un muratore, mentre la madre fa la casalinga. Le sue doti straordinarie emergono fin dall’infanzia, ed è il prete del paese che lo incoraggia a coltivare queste sue abilità. Cresciuto, e dopo aver mostrato il suo talento da mentalista su diverse navi da crociera, è nel 1978 che la sua carriera ha una vera e propria svolta: da quell’anno egli partecipa a “Domenica In”, fortemente voluto da Pippo Baudo, noto scopritore di personaggi televisivi. Il suo successo aumenta sempre di più, toccando l’apice nel 1994, quando comincia il lungo e soddisfacente sodalizio con Mara Venier, che gli permette anche di recitare e interpretare nuovi personaggi, sempre all’interno di “Domenica In”.

L’ultimo suo impegno degno di nota risale al lontano 2008, quando è uno dei partecipanti dell'”Isola dei famosi”, da cui però si deve ritirare a causa di un piccolo malore. Il mentalista, che ha costruito la sua fama sul trucco delle mani incrociate, sulla camminata sui carboni ardenti e su esperimenti di fachirismo, ha notevolmente diradato le sue apparizioni televisive, anche causa Covid. Giucas Casella ha ormai superato la settantina, e oltre sporadiche comparsate in alcuni programmi TV, adesso più che altro partecipa a sagre di paese o a eventi locali, in cui continua a praticare le sue note illusioni. A dispetto del lungo sodalizio, è da alcuni anni che Giucas Casella non parla più con la nota conduttrice delle reti RAI. Secondo il mentalista, questo è dovuto al fatto che egli abbia spesso partecipato ai programmi di Barbara d’Urso, con cui la Venier ha spesso avuto dissapori in passato. Giucas Casella ha quindi chiesto perdono all’amica di lunga data, pregandola di scusarlo se si è mai sentita tradita dalle sue più recenti scelte professionali, In ogni caso, quello che lui spera è di poter ricucire l’amicizia, che si è tradotta in un grande successo per entrambi, anche perché egli sente molto la sua mancanza.

·        Giulia De Lellis.

Gianmaria Tammaro per Dagospia il 15 giugno 2021. Giulia De Lellis – influencer, scrittrice e attrice – ha accettato di presentare Love Island di Discovery+ perché, dice, “era una cosa che volevo fare. Uno dei miei sogni nel cassetto. Ero, e sono ancora, estremamente entusiasta. Potrebbe assomigliare a qualcos’altro, e invece è un programma totalmente nuovo: è il primo reality interattivo che arriva in Italia”.

Qual è la novità?

“Poter seguire ogni giorno, ogni ora, questi ragazzi. E avere anche la possibilità di influenzare le loro decisioni. In questo programma, il pubblico non si limita a osservare passivamente”. 

Alle persone interessano solo i sentimenti?

“Quello, secondo me, fa tantissimo. Ma è interessante anche vedere la nascita di determinati rapporti, vedere i sotterfugi, le confidenze, avere uno sguardo sul dietro le quinte. È questa la sua grande forza”. 

Non ricorda un po’ Temptation Island?

“In realtà sono molto diversi. Qui non ci sono coppie già formate, a Temptation sì e vengono messe alla prova. Qui si creano legami e rapporti, i ragazzi non si conoscono, non ci sono tentatori o tentatrici. Vogliono solo innamorarsi. Hanno in comune una sola cosa: essere ambientati su un’isola”. 

L’amore non è un affare privato?

“Sta parlando con una persona che si è innamorata in televisione. Quindi no, per me non ci sono confini o limiti. L’amore si può trovare ovunque. Anche in televisione. Non si mette in piazza nulla. Ci si mette in gioco in altri modi”. 

Ma in questo caso è il pubblico a decidere. O no?

“Le persone possono intervenire, per carità. I ragazzi, però, non vengono costretti a fare niente. È sempre una loro scelta, alla fine”. 

Perché ha deciso di provarci con la tv? Non è una cosa vecchia?

“Secondo me, la televisione non sarà mai vecchia. Ci sono programmi diversi, e non è così netta la distinzione nel pubblico. Non ci sono programmi pensati unicamente per qualcuno. È importante scegliere nuovi talenti ed è importante puntare sui ragazzi”. 

Rimpiange qualcosa?

“Io rifarei tutto. Quella che sono, alla fine, deriva da tutte le mie scelte. Non mi pesa avere questa visibilità. Fa parte della mia quotidianità. Condivido sempre tutto quello che voglio condividere, e lo condivido come voglio. Non sono succube del mio lavoro”. 

No?

“Se una persona ha i piedi per terra, riesce a trovare un equilibrio abbastanza facilmente. Mi sono mossa con calma. Senza nessuna fretta”.

E delle critiche, invece, che cosa pensa?

“Le prendo un po’ come i complimenti: prova a dare il giusto peso ad ogni cosa. Non sto particolarmente male, quando vengo criticata”. 

Non si arrabbia?

“No. A volte ci sono delle giornate particolari. Ma provo sempre a ricordarmi le cose e le persone più importanti per me”. 

Quindi non le dà fastidio.

“Io resto una persona. E tendo a ignorare quelli che mi vomitano il loro odio addosso. Li lascio fare. Avranno i loro problemi, immagino. Ma io voglio andare oltre. Non voglio fissarmi su queste cose”. 

Com’è il mondo degli influencer? C’è invidia, c’è competizione?

“Con alcuni colleghi finisci per avere più confidenza. Ma è importante essere educati con tutti. Io non ho problemi con nessuno”. 

Nessuno?

“Non mi sono mai capitate cose assurde o scomode, no. Sono molto trasparente, e non ho mai avuto questo tipo di esperienze”. 

Ma che cosa vuol dire, poi, essere un influencer?

“Il mio lavoro è un mestiere che esiste da anni. Si tratta di condividere con gli altri le proprie passioni. La differenza sono i social. Una volta non c’erano, oggi sì. Io mi rivolgo a quattro milioni di persone, non solo ai miei amici”.

E si sente responsabile, in qualche modo?

“Sì. Anche io posso sbagliare, perché sono un essere umano. Ma la sento questa responsabilità. Sento di dover fare bene questo lavoro”. 

E ci riesce?

“Se ho ancora tutte queste persone che mi seguono, qualcosa di buono devo averla fatta”. 

Parliamo delle persone più importanti della sua carriera.

“Maria De Filippi è sicuramente al primo posto. Mi ha influenzato tantissimo. Non solo professionalmente, ma anche umanamente. Mi ha scoperto, mi ha dato spazio, mi ha permesso di farmi conoscere. Devo dire grazie a lei e a tutti quelli che lavorano con lei”.

Il consiglio più utile?

“Quando ho scritto il mio libro (Le corna stanno bene su tutto. Ma io stavo meglio senza!, firmato con Stella Pulpo, nda), non sapevo se pubblicarlo. È stata Maria ad aiutarmi. Mi ha dato il coraggio giusto per andare avanti. Se ti fa sentire bene, mi ha detto, non fermarti”. 

Il suo libro non è piaciuto proprio a tutti.

“Un personaggio pubblico, o un po’ più conosciuto, viene giudicato costantemente. E i giudizi non li considero molto, come dicevo prima. Per le critiche sul mio libro, dico la verità, non ho sofferto molto. Il tema del tradimento è un tema delicato, personale. Onestamente, ecco, sono stata fortunata”.

Commercialmente è andato molto bene.

“È stato un successo, sì. Ed è stato inaspettato anche per me”. 

Quindi ora ne scriverà un altro.

“Assolutamente sì”. 

Può anticipare qualcosa?

“No, non posso”.

Un influencer, secondo lei, può parlare di politica?

“Se qualcuno vuole farlo, deve poterlo fare. Certo”. 

E lei?

“Ognuno deve parlare di quello che sa. Io preferisco occuparmi d’altro”.

 E del DDL Zan che cosa pensa?

“Sono assolutamente a favore. È necessario”.

Destra o sinistra?

“Non voglio esprimermi. Ho un pubblico molto giovane, e non voglio influenzarli sotto quel punto di vista”. 

Perché agli italiani piacciono i programmi come Love Island?

“Perché abbiamo bisogno di leggerezza. E di sentirci in compagnia. Le persone hanno i loro orari, i ragazzi hanno i loro impegni. Questo programma è sempre lì, sempre disponibile. Vogliamo ricreare la normalità, e la normalità è una cosa che manca da tantissimo tempo”.

·        Giuliano Montaldo.

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 26 giugno 2021. Giuliano Montaldo, lei è nato nel febbraio del 1930, l'anno in cui uscì «L' angelo azzurro» con Marlene Dietrich.

«Ma io stavo a Genova, le cose arrivavano in ritardo». 

La guerra però arrivò presto.

«Quando giunsero gli americani Genova era già città aperta. Ma ricordo le bombe. Un giorno corremmo nel rifugio. Quando uscimmo vidi papà e mamma che si abbracciavano piangendo: la nostra casa non c'era più». 

È vero che lei da ragazzino cercava di unirsi ai partigiani?

«Mi ero messo in testa di salvare il Paese, stavo con i Gap, i gruppi di azione patriottica. Il primo film in cui ho recitato è stato Achtung Banditi! di Carlo Lizzani, una storia di partigiani in Liguria, appunto». 

E l'esperienza come critico al quotidiano «Il Lavoro» di Genova?

«Ero giovane e presuntuoso. Un giorno, mostrando poco rispetto per un film, scrissi una recensione di una sola riga, che faceva così: "Meno male che finisce". Ad un tratto sentii un urlo feroce alle mie spalle: "Chi ha scritto questa roba!?". Era Sandro Pertini, all' epoca direttore del Lavoro. Me la fece rifare da capo. Anni dopo, consegnandomi un premio nella veste di capo dello Stato, si accostò e mi sussurrò all' orecchio: "Ehi, hai poi imparato a scrivere?"». 

Poi, finalmente, il cinema. I film con Gillo Pontecorvo ed Elio Petri.

«Gillo parlava praticamente solo di tennis. Era un uomo di grandissima umiltà. Conobbi anche il fratello, Bruno, il fisico che si era trasferito in Unione Sovietica perché convinto che il mondo fosse sbilanciato in favore dell'area atlantica sul piano della potenza nucleare». 

Lei intanto si era trasferito a Roma e campava con i supplì.

«Un giorno venne mia madre a trovarmi. Mi vergognavo a dirle che vivevo in un bugigattolo a casa di Gillo, così le pagai un albergo e un tour in macchina. Ma lei capì tutto e prima di ripartire mi disse, piangendo: "Guarda che a casa per te un piatto di minestra c' è sempre"». 

Esattamente sessant' anni fa il suo esordio nella regia con «Il tiro al piccione». Nella sua autobiografia dal titolo «Un grande amore», appena pubblicata da La nave di Teseo, lei lo dice chiaramente: il piccione ero io.

«Già, perché avevo voluto raccontare la storia da una prospettiva diversa, da quella sbagliata: la vicenda di un uomo che sceglie di stare con la Repubblica Sociale, riconoscendo l'errore alla fine. Apriti cielo». 

Quel lato della storia non si poteva nemmeno nominare, nemmeno per condannarlo?

«Nelle sale la pellicola andò benissimo ma la critica mi fece a pezzi. Avevo solo 31 anni, ero deciso a lasciare il cinema per tornare a Genova a fare il camallo. Poi però mi chiamò il produttore Leo Pescarolo. Voleva farmi fare un film. Entrai nella sua stanza e vidi lei. La vidi per la prima volta e decisi di restare a Roma». 

«Lei» è Vera Pescarolo, sorella del produttore, la donna che dà il titolo al libro di Montaldo, la moglie, la donna del «grande amore» durato sessant' anni, la donna che siede qui accanto a noi in questo appartamento del quartiere Prati pieno di foto e di ricordi in bianco e nero. Giuliano e Vera, un film senza «the end». 

Una vita insieme, un amore saldo come la carriera di Montaldo, che ieri a Milano, durante la rassegna Milanesiana, è stato insignito del premio «Omaggio al Maestro» al cinema Mexico, al termine di una giornata interamente dedicata ai suoi film (sono stati proiettati «Sacco e Vanzetti», «Giordano Bruno» e il controverso «Tiro al piccione»). Ma oggi tutto sembra perfetto in questo interno romano che sta a due passi dalla strada dove Anna Magnani viene fucilata nella sequenza più famosa di «Roma città aperta». Vera Pescarolo è una presenza allegra, delicata, un viso ancora bellissimo. 

Come si fa a stare assieme per tanto tempo, Montaldo?

«Recitiamo l'uno per l'altra. Per esempio, io faccio la sua imitazione e lei finge di arrabbiarsi ma poi si mette a ridere. Ogni giorno invento un nuovo scherzo da farle. Stare insieme è anche questo, una sceneggiatura da scrivere con lei». 

È stato dunque grazie a Vera che lei decise di rimanere a Roma e di insistere con il cinema, ponendo le basi di una lunga carriera?

«Certo, mi innamorai di lei appena la incontrai e quando, mesi dopo, la vidi prendere a pugni un camionista maleducato non ebbi più dubbi: era lei l'amore che nella vita si incontra una volta sola e solo se si è fortunati».

Ci sono persone che nascono, crescono, muoiono senza aver mai conosciuto l'amore...

«Ecco perché ogni amore è un regalo». 

Da allora la sua carriera decollò.

«Sì, Pontecorvo mi volle come regista della seconda unità per La battaglia di Algeri. Poi con la Jolly Film girai Ad ogni costo, protagonista il grande Edward G. Robinson. Fu lavorando con lui che capii che cosa vuol dire essere un attore: Edward chiese di andare al mercato, frugò per tutta la mattina tra le bancarelle e alla fine trovò una giacca usata. Poi prese dei sassi e una lima, tornò in albergo e cominciò a consumarla perché il suo personaggio doveva indossare una giacca lisa. Alla sera, quando l'indumento fu pronto, finalmente si rilassò». 

Nel film c'era anche Klaus Kinski.

«Non mi ci faccia pensare. Alla fine delle riprese si avvicinò al resto della troupe e chiese di giocare a flic-floc con qualcuno. Un capo macchinista accettò, gli porse l'indice e Kinski lo prese e glielo spezzò. Così, per gioco». 

Oddio, lei ha diretto un altro grandissimo eccentrico, Gian Maria Volonté: sarà abituato alle stranezze degli attori.

«Sì ma Gian Maria era diverso. Lui impazziva quando si immedesimava totalmente nella parte. Quando girammo Giordano Bruno, non so come si mise a parlare in nolano e lui il nolano non lo conosceva. La sera prima di girare la scena del rogo, io e Vera eravamo già a letto quando sentimmo entrare qualcuno. Era Volontè che sollevò le coperte e si mise a urlare: "Domani mi bruciano vivo e voi dormite!". Poi si infilò nel letto con noi e si addormentò». 

Lei lo ha diretto anche in «Sacco e Vanzetti».

«Sì e quando il film uscì Salvador Allende mi mandò un biglietto dicendo che lo aveva visto in sala, assieme al pubblico e che gli era piaciuto moltissimo. Un film su Allende è stato uno dei miei due sogni mai realizzati». 

Qual è stato l'altro?

«Avrei voluto fare un film sul rogo del Reichstag. Ma poi cadde il Muro di Berlino, il mondo cambiò». 

Montaldo, lei ha girato «Gli intoccabili», film del 1969, dove forse per la prima volta si vede la mafia in giacca e cravatta.

«Pensi che Quentin Tarantino ne ha voluto una copia perché convinto che pochi abbiano raccontato così la mafia. Ma non ho voluto rimanere in America, perché lì avrei dovuto rinunciare a raccontare le vittime dell'ingiustizia con la massima autonomia. Non avrei fatto L' Agnese va a morire, per esempio, il film tratto dal romanzo di Renata Viganò». 

Mai sedotto dal genere di Sergio Leone?

«No, anche perché sarebbe stata fatica inutile: quei western li sapeva fare solo lui. Aveva una conoscenza tecnica incredibile del cinema e soprattutto dell'uso della musica. Diceva sempre: "Un pistolero con due pistole è un idiota". Gli americani restavano a bocca aperta davanti ai suoi lavori». 

E il mondo felliniano lo ha frequentato?

«Una volta Fellini mi disse: "Carissimo, vieni che ti faccio fare l'aiuto regista". Mi presentai ma di aiuto regista ce n' erano venti. Stessa cosa un mese dopo. Alla fine lo incontrai in via Veneto e gli dissi: "Federico, ho appena firmato un contratto che mi vieta di lavorare con te".Che adorabile mentitore che era Fellini». 

E Germi lo ha incontrato?

«Poco, ma pensi che quando lui morì il callista che frequento mi disse: "Sa, Pietro Germi le voleva molto bene". Scoprii allora che io e Germi abbiamo condiviso il callista e che lui si confidava quando si faceva curare i piedi». 

Giorgio Bassani criticò aspramente «Il giardino dei Finzi Contini» girato da Vittorio De Sica. E quando lei fece «Gli occhiali d' oro», nel 1987, come reagì lo scrittore?

«Era seduto in sala accanto a me alla prima. Mi tremavano le gambe: nel film avevo messo un dettaglio realistico che non c'era nel libro, ossia la scuola istituita nel ghetto. Quando si accesero le luci mi disse: "Lei ha capito il libro più di me che l'ho scritto"». 

Quello nei confronti di Ennio Flaiano fu un tradimento dichiarato da parte sua?

«Sì perché il film tratto dal suo Tempo di Uccidere avrebbe dovuto essere girato in Etiopia ma a causa delle guerriglie alla fine andammo nello Sri Lanka». 

Lei ha lavorato anche in grandi produzioni televisive, come «Marco Polo».

«Pensi che io e Vera siamo rimasti lontano da casa due anni. Siamo andati a girare in Mongolia quando lì ci si spostava con grande difficoltà da un luogo all' altro. Che cosa abbiamo fatto per la maggior parte del tempo? Abbiamo aspettato. L' allestimento dei set, l'arrivo dei costumi, delle comparse, di tutto». 

Montaldo, di che cosa ha maggiormente paura oggi?

«Di dimenticare le cose che ho vissuto. Oggi rivivo i ricordi proprio come se ogni giorno girassi un film solo per me».

·        Giulio Mogol Rapetti.

Le canzoni di Mogol, parole che raccontano emozioni e sentimenti. Roberta Scorranese su Il Corriere della Sera il 23 Dicembre 2021. È uscito per Minerva «Mogol. Oltre le parole»: a cura di Clemente Mimun e Vittoria Frontini, il libro scava nel significato di sessanta canzoni scritte dall’autore. Una per ogni anno di carriera. Non c’è scampo. Se canticchiate «Per quest’anno, non cambiare... », state cantando Mogol. Se non riuscite a non intonare «Tu chiamale se vuoi, emozioni», sappiate che è sempre lui. E così anche con «Una lacrima sul viso», o «Grazie, prego, scusi», o «Cervo a primavera». Giulio Rapetti Mogol (lo pseudonimo è diventato il suo secondo cognome legale), 85 anni, è ovunque, nel sole e nel vento, nel sorriso e nel pianto. E parte delle sue canzoni (ne ha scritte oltre mille) sono diventate un’antologia commentata, curata da Clemente Mimun assieme alla giovane giornalista Vittoria Frontini per Minerva edizioni.

«Ho impiegato 25 anni ma alla fine ho messo in un volume le storie che stanno dietro alle sue canzoni», scherza Mimun, direttore del Tg5 e amico del paroliere nato a Milano e da tempo cittadino di Toscolano, provincia di Terni. Il primo incontro con il giornalista avvenne molti anni fa, complice il comune amico Ottaviano Del Turco. Il libro «Mogol. Oltre le parole» si apre con una lunga conversazione tra i due e poi spazio ai testi dei brani scritti per Battisti, Mina, Celentano, Cocciante e tanti altri. Con gli aneddoti che si nascondono dietro a pezzi conosciutissimi, come «La canzone del sole» o «E penso a te».

«Ecco, quest’ultima l’ho scritta in quindici minuti — dice Mogol, che a Toscolano guida da anni il CET, scuola di alta formazione musicale — mentre “L’arcobaleno”, che venne interpretata da Celentano, ha una storia particolare: una medium mi disse di aver avuto un contatto con Battisti da morto e non la presi sul serio. Però poi quando vidi la foto di Lucio su una copertina, con un arcobaleno accanto, mi misi a lavorare al testo. E sono certo che in qualche modo la canzone mi è “arrivata”». Mimun conosce bene l’opera del maestro e la condensa in poche battute: «Con le parole, Giulio è come un cacciatore di farfalle. L’ho visto comporre, gli bastano un paio di ascolti di una musica e ha già trovato il testo. Quando gli chiedi come fa, lui ti risponde che le parole erano già nella musica».

E nel libro (che ha la prefazione di Vincenzo Mollica) Mogol rivela anche un retroscena gustoso: «Io non conosco la musica. Quando ero ragazzo mio padre provò a farmi prendere lezioni di pianoforte ma io scoprii che il maestro amava il cognac e allora gliene facevo trovare sempre un bicchiere, per stordirlo e dissuaderlo dal far lezione». Questo paradosso — un uomo che ha venduto nel mondo 523 milioni di dischi ma che ammette di non saper leggere le note — Mimun lo spiega così: «Fateci caso, anni di scuola e non impariamo a memoria che poche poesie. Le canzoni di Battisti-Mogol le sappiamo a memoria. Perché? Io penso che con le parole Giulio abbia saputo toccare corde molto sensibili, dall’innamoramento alla gelosia fino all’abbandono o ai ritorni. Certo, negli anni Sessanta e Settanta dominati dalla canzone impegnata, quei due passavano per qualunquisti, ma nello stesso tempo entravano nelle vite di tutti».

Mogol parla di «credibilità» di quei testi, perché «una canzone non deve essere scritta per commuovere la gente o per una ricerca di mercato. Deve essere qualcosa di vero. Se le parole riescono a esprimere ciò che è nascosto nella musica allora si raggiunge l’emozione». Leggendo il libro si scopre che «Una donna per amico» nasce per far contenta una (vera) amica di Mogol, a cui il brano venne dedicato. Che «La canzone del sole» si ispira a Titti, una bambina vicina di casa del bambino Giulio, figlio di un manager della Ricordi e talento precoce perché vinse Sanremo a soli 25 anni con «Al di là, brano» interpretato da Luciano Tajoli.

Ma c’è anche il racconto dell’incontro con Bob Dylan, quando Mogol faceva le cover dei suoi brani. «Prima mi disse che avrei dovuto essere fedele ai suoi testi — racconta Rapetti — ma poi, quando gli chiesi di spiegarmi un passaggio di una canzone lui esitò e, infine, bofonchiò “Forget it”, come a farmi intendere che nemmeno lui capiva i suoi pezzi». Mimun ne è convinto: «Come lui solo Vasco è andato dritto al cuore con le parole. Certo, Vasco non ha fatto quell’enorme lavoro sui termini desueti che invece Giulio fa da anni».

Mogol tra pensieri e parole, così la letteratura diventa musica. Carlo Antini, Testi e musica come ascisse e ordinate, su Il Tempo l' 11 dicembre 2021. Un viaggio attraverso la letteratura in musica dell’autore più ispirato e prolifico della canzone italiana. «Mogol - Oltre le parole» è l’antologia commentata a cura di Clemente J. Mimun e Vittoria Frontini che accendono i riflettori sull’arte che nasce dalla melodia e la trasforma in immagini, poesia, racconto. Il volume di Mimun e Frontini, edito da Minerva con la prefazione di Mollica, è un excursus che trae origine dalle produzioni letterarie dei primi anni ’60 e dà la parola direttamente al Maestro che svela aneddoti e retroscena del processo compositivo. Una voce lucida e confidenziale rivela dietro le quinte e sollecitazioni biografiche che hanno ispirato opere diventate leggenda. L’antologia è preceduta da un’intervista «a tu per tu» di Mimun con l’autore. Un faccia a faccia tra amici di vecchia data che, seduti attorno a un tavolo, parlano di musica, incontri e vita. Emergono così opere, umanità e verità di uno dei maggiori geni italiani. Sollecitato dalle domande di Mimun, Giulio Rapetti illustra la sua poetica, il «sistema» fondato sulla verità del racconto che il Maestro insegna anche nel Centro Europeo di Toscolano in Umbria. «Comincio a cercare il momento clou - spiega Mogol - Provo a capire cosa stia dicendo in quell’attimo e poi ricostruisco tutta la canzone sulla base di ciò che ho trovato. Come? Attraverso il ricordo di quello che ho vissuto. È molto importante raccontare qualcosa che sia aderente alla vita, quindi reale, possibile, qualcosa che sia realmente accaduto o che possa accadere. Una canzone non dev’essere scritta per commuovere la gente o per una ricerca di mercato. Dev’essere qualcosa di vero. Se le parole riescono a esprimere ciò che è nascosto nella musica allora si raggiunge l’emozione».

Inevitabile il riferimento al sodalizio artistico con Lucio Battisti. «L’assenza la sento ancora adesso - confessa Mogol - Quando scrivevamo insieme vivevo un profondo senso di piacere nonostante abbia scritto canzoni anche con tanti altri bravissimi artisti, compositori e autori. Ma con lui c’era qualcosa di diverso». Da anni Mogol è impegnato al fianco della Siae per la difesa del diritto d’autore messo in pericolo dalle piattaforme digitali. «Hanno miliardi di iscritti e si rifiutano di pagare parlando di libertà - dichiara il Maestro - Tutto questo mi preoccupa moltissimo...La questione è che non devono essere le persone normali a pagare il diritto d’autore ma quelle piattaforme piene di soldi che guadagnano grazie all’utilizzo di questo materiale...È come andare al ristorante, ordinare, mangiare e quando arriva il conto non pagare perché il ristoratore "sta limitando la nostra libertà"...La Siae è un compenso per quelli che lavorano per la cultura ed è giusto che venga pagato. Io non posso capire come un Paese possa avversare il fatto di pagare gente che lavora per la cultura».

Poi Mimun e la Frontini ci accompagnano attraverso 60 anni di canzoni con l’antologia delle opere commentate da Mogol. Una lunga scia di successi che ha segnato la storia della musica italiana. Dal primo Sanremo vinto con «Al di là» a «Stessa spiaggia, stesso mare», dalle collaborazioni con Adriano Celentano a Bobby Solo e Lucio Battisti, dall’Equipe 84 alla PFM, da Luigi Tenco a Nicola Di Bari, da Mina a Bruno Lauzi, da Cocciante, Dalla & Morandi a Mango, Rino Gaetano e Gianni Bella. Le annotazioni del Maestro ci svelano atmosfere, retroscena e confidenze di oltre mezzo secolo di musica e costume. Come quando Mogol racconta chi si nasconde dietro «Balla Linda». «Linda l’ho conosciuta veramente - racconta l’autore - Era una ragazza americana, disinibita e spontanea che si è facilmente concessa a me. Da quest’avventura di una notte ho tratto l’ispirazione per scrivere una canzone che sottolineasse il confronto tra una donna che ti dà quello che sente e un’altra che promette più di quello che dà. Linda è l’avventura, l’altra un amore inventato». O come quando il Maestro ripercorre il giorno in cui scrisse le parole di «E penso a te». «È una canzone che ho scritto seduto sul sedile posteriore di una Seicento. Non ricordo chi guidasse l’auto ma Battisti sedeva di fianco al guidatore e suonava la melodia con la chitarra. Stavamo andando a Como e ho iniziato a scrivere il testo al casello dell’autostrada di Milano, quando siamo arrivati a destinazione lo avevo già finito, ci avrò messo circa 20 minuti».

Emozioni e vita vera raccontati anche grazie alle foto provenienti dagli archivi personali di casa Mogol. Rapetti è immortalato da bambino con la mamma Marina, la sorella, i figli e con la prima moglie. Poi la Nazionale Cantanti e i mille incontri che hanno reso unica la sua vita. La mitica cavalcata Milano-Roma del 1970 al fianco di Lucio Battisti, l’area del Cet vista dall’alto, i nipoti e il matrimonio con Daniela. «Mogol - Oltre le parole» è un preziosissimo diario di bordo per chi vuole conoscere da vicino i segreti e l’arte di chi scrive da decenni la colonna sonora della nostra vita.

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 7 dicembre 2021. Un libro per dimostrare che oltre a Battisti c'è di più. E per dare a Mogol quel che è di Mogol, autore che per anni si è visto ingiustamente negare dagli integralisti della canzone d'autore italiana quel prestigio di cui hanno goduto i vari Fossati, De Gregori, Guccini, De Andrè. Basti pensare che il Club Tenco, storico baluardo del cantautorato italiano, si è deciso a conferire un premio a Giulio Mogol Rapetti nel 2007 lo pseudonimo dell'85enne autore milanese è diventato parte integrante del suo nome e cognome solo quest' anno, nell'ambito di un'apertura al pop delle tradizionali Targhe. A celebrarne la produzione ci pensa Mogol. Oltre le parole (Minerva, 271 pp., prefazione di Vincenzo Mollica), a cura del direttore del Tg5 Clemente J. Mimun e di Vittoria Frontini, giovane giornalista al suo esordio editoriale. Il volume, appena arrivato in libreria, esce nel sessantennale del primo successo dell'autore, Al di là, portata alla vittoria a Sanremo nel 61 da Luciano Tajoli e Betty Curtis, ed è un'antologia commentata che raccoglie alcune delle canzoni più significative della storia di Mogol, raccontandone la nascita e il significato. Da Stessa spiaggia, stesso mare (nel '63, prima di Mina, la incise Piero Focaccia) a L'emozione non ha voce (nel '99 permise a Celentano di vendere più di 2 milioni di copie), passando per tra le altre Una lacrima sul viso, Se stasera sono qui, La prima cosa bella, Impressioni di settembre, Vita, pezzi di storia di musica italiana: «Ho cominciato a scrivere canzoni per guadagnare l'equivalente di 2,50 euro, cioè circa 5.000 lire. Questo era quello che mi dava l'editore per ogni canzone che scrivevo, così arrivavo a farne anche tre al giorno», racconta Mogol a Mimun nella lunga intervista che apre il volume. David Bowie era già una star quando per lui nel '70 l'autore firmò il testo in italiano di Space Oddity, Ragazzo solo, ragazza sola: «Parlava di un comandante di una navicella spaziale che dava ordini al pilota. Io l'ho cambiata interamente». Con Bob Dylan andò diversamente: «Io sono Dylan e tu sei Mogol, tu devi dire quello che dico io», gli disse il cantautore. Il sodalizio non funzionò.  Nel libro Mogol non manca di fare chiarezza sulla fine del sodalizio con Battisti: «La ragione per cui ci siamo separati non è stata di soldi ma di principio. Avevamo fondato insieme una società di edizioni e gli dissi solo che avremmo dovuto dividere equamente i diritti». E sulla poetica che lo ha reso un autore da oltre 520 milioni di copie vendute dice: «Le canzoni impegnate dovrebbero essere prese e ascoltate con grande attenzione. Quello che facevo io era tutt' altro. Allora come adesso scrivevo sulla musica storie di sentimenti e vita quotidiana, infatti nelle mie canzoni non ho mai voluto schierarmi da nessuna parte politica». Guai a chiamarlo paroliere: «È chi fa la settimana enigmistica», dice lui, stizzito. Anche questo è essere Mogol.

Da corriere.it il 29 ottobre 2021. Continua la battaglia tra Mogol e i familiari di Tenco. Nuovamente, la famiglia Tenco ha scritto a Mogol invitandolo «a non divulgare notizie errate e fuorvianti che riguardano la vita di Luigi Tenco» ricordando di avergli già scritto nel 2016 per «correggere le sue affermazioni fantasiose». Il riferimento è ad alcune frasi dette dal celebre autore, Giulio Rapetti, ritirando il premio Tenco a Sanremo in cui ha raccontato di aver tentato di convincere il cantautore e amico Luigi Tenco, a non partecipare al Festival. « Se Lei fosse stato realmente amico di Luigi, non avrebbe raccontato tali fantasie ma avrebbe saputo che Luigi era l’esatto contrario del ragazzo triste e solo che Lei dipinge!», affermano tra l’altro gli eredi rivolgendosi al presidente Siae Giulio Rapetti, in arte Mogol. «Contrariamente alle Sue dichiarazioni, relative al fatto che Lei cercò di convincere Luigi a non andare al Festival di Sanremo, dobbiamo invece ricordarle che fu proprio Lei una delle prime persone che già negli anni precedenti gli aveva scritto per tentare di convincerlo a prenderne parte. A meno che, stando ad altre sue dichiarazioni secondo le quali lei non avrebbe aderito alla manifestazione sanremese proprio per convincere Luigi a non andarci, in realtà lei intendesse dire che non gradiva che Luigi Tenco partecipasse a quel Festival del 1967 con la canzone «Ciao amore, ciao» poiché Lei gareggiava con altre canzoni tra cui «La rivoluzione» (citata nel biglietto di denuncia scritto da Luigi pochi minuti prima di perdere la vita) e sul cui retro del disco 45 giri vi era incisa la canzone intitolata «Ciao ragazza ciao». Una polemica nata sabato 24 settembre 2016: quel giorno andò in onda su Rai 1 lo speciale «Viva Mogol!» condotto da Massimo Giletti. Si parlò anche di Luigi Tenco. Per la famiglia del cantautore scomparso nel 1967 alcuni racconti del conduttore e di Mogol protagonista della serata non corrisponderebbero a verità. Inviarono una nota stampa in cui chiedevano una puntata riparatrice per false notizie sul cantautore e per le allusioni al suicidio di Tenco.

Leonardo Iannacci per “Libero quotidiano” il 17 agosto 2021. Mogol è rimasto un eterno ragazzo senza tempo. Impossibile compia oggi 85 anni. Nessuno gli crederà, tantomeno Lucio Battisti da lassù. Giulio Rapetti, nome e cognome che per un gioco della Siae vennero bizzarramente ribattezzati in Mogol («Ma ora all'anagrafe faccio Giulio Mogol Rapetti al completo!» spiega lui), prenderà atto oggi del suo 85esimo genetliaco senza curarsene troppo: «Tengo due-tre serate ogni settimana, show nei quali racconto aneddoti, introduco artisti giovani che cantano le mie canzoni, mi diverto e sto bene: domani sarò a Rimini». Ogni sera, un sold-out per questo genio delle sette note che ci tiene a spiegare: «Considerando il tempo che passa, maledico un po' gli anni che corrono così velocemente e mi impediscono, per esempio, di giocare a pallone come un tempo. Però non mi dimentico di tenermi in forma: vado in palestra, faccio pesi, mi alleno con regolarità». Si vede. Tutte le volte che lo abbiamo incontrato in uno studio d'incisione o allo stadio, nella scuola di musica che ha creato, in Umbria, o semplicemente a cena, Mogol ci ha sempre divertito con aneddoti, citazioni, storielle e ricordi. I più gettonati, ovviamente, quelli su Battisti: «Mi proponeva una nuova melodia e, per sfida, buttavo giù i testi subito. Di getto. Ovunque fossi. Una volta ero in auto verso Genova, guidando presi una matita e un foglio e in un quarto d'ora completai Emozioni. Per E penso a te ci misi un po' di più: ero al volante di una 500, nel Comasco. Stavo andando a una festa di famiglia ma completai ugualmente il testo». 

SI CAMBIA Lucio Battisti, già, il collega di una vita poi diventato l'altra metà del cielo per una querelle mai chiarita del tutto: «L'oggetto della separazione fu una questione di equità legata ai diritti editoriali delle nostre canzoni. Le firmavamo insieme ma la percentuale dei diritti era tra noi diversa. Dapprima accettò una nuova divisione, poi si irrigidì. Disse no. E prendemmo strade separate. Però, aggiunse: "Senza di te voglio cambiare modo di lavorare: in studio io scrivevo la musica e tu, Giulio, aggiungevi il testo. Un cocktail perfetto. D'ora in poi farò il contrario... E difatti negli ultimi album con Pasquale Panella ha seguito una strategia compositiva diversa. Scriveva la musica su testo che Pasquale gli aveva consegnato. Sapeva che la collaborazione con il sottoscritto era magia, una situazione esclusiva». Dopo la rottura tra Giulio e Lucio per motivi legati alla divisione delle royalties e non a baruffe personali - rottura sulla quale la moglie di Battisti, forse gelosa del sodalizio, sembra abbia soffiato parecchio su fuoco - non fu come prima. I due non collaborarono più: «Ho sempre voluto bene a Lucio, sin dal nostro primo incontro alla Ricordi di Milano, nel 1965. E gli voglio bene ancora adesso. Conservo due ricordi di Battisti, uno bello, l'altro un tantinello assurdo. Il primo è il meraviglioso viaggio Milano-Roma che abbiamo fatto a cavallo attraversando mezza Italia. Il ricordo assurdo riguarda la diceria della sinistra che, nella copertina dell'album Il mio canto libero dove ci sono ragazzi con il braccio teso verso il cielo, videro un riferimento al saluto fascista. A Lucio, della politica non è mai fregato più di tanto». Mogol, uomo dei record: «Uno studio fatto qualche tempo fa in America ha stabilito che dopo i Beatles con un miliardo di dischi venduti ed Elvis Presley con 600 milioni, ci sono io con 523 milioni. Sono davanti a Michael Jackson che si è fermato a 400 e a Madonna stabile a poco più di 300». I successi anche senza Battisti sono una sfilza impressionante: il primo Sanremo vinto nel 1961 con Mogol nelle vesti di autore del testo di Al di là («Che duetto quello, Luciano Tavoli e Betty Curtis!»), decine di testi leggendari scritti per tutti, da Mina a Gianni Morandi, con quella che considera la sua hit: «L'emozione non ha voce, con musica di Gianni Bella e voce di Celentano, ha venduto moltissimo». Non mancano, nella leggendaria carriera di Mogol, persino cover d'autore: «Feci cantare a David Bowie, in italiano, Ragazzo solo, ragazza sola, ovvero la cover di Space Oddity». Hit che hanno colorato la vita di questo genietto ottuagenario: «Chi ascolto oggi? Jovanotti. E poi Arisa, uscita dalla nostra associazione no-profit CET. Tra i rapper? Fedez». UN LIBRO DI MEDICINA Oggi medita di scrivere un libro di... medicina: «Sul serio: un trattato sulla prevenzione fisica ma soprattuto psicologica della malattia. Mi sto documentando». Sulla torta degli 85 anni, l'ultima simpatica rivelazione per l'amico: «Un giorno Bob Dylan mi chiamò, volai a Londra e ci incontrammo al Mayfair Hotel: desiderava che scrivessi il testo italiano di un brano che parlava di un certo Mr. Jones. Mi fece vedere le parole che aveva scritto nella sua lingua ma non ci capii nulla, erano sconclusionate. Bob le rilesse, forse era un po' fumato e bofonchiò: "Ok, hai ragione, ci capisco poco anch' io. Dimentica questo brano". Mi diede altri nove-dieci suoi brani da lavorare ma, uscito dalla stanza, lasciai perdere!». Happy birthday, Mogol. L'uomo che disse no a Dylan ma che ha, da sempre, una nota per amico.

·        Giuseppe Povia.

Giulia Cazzaniga per "la Verità" il 22 dicembre 2021. È risultato positivo al Covid negli scorsi giorni, social e giornali si sono scatenati. Lui, il cantautore Giuseppe Povia, arrivato al successo nel 2005 a Sanremo con I bambini fanno oh - vincerà l'anno dopo con Vorrei avere il becco - osserva divertito, e va al contrattacco. Perché quanto accaduto mette in luce, a suo parere, il cortocircuito del periodo che stiamo vivendo. Da anni i suoi testi fanno discutere: forse il più famoso, tra gli altri, Luca era gay, arrivato secondo sul palco dell'Ariston. Sul Covid, in pochi gli hanno perdonato le sue partecipazioni alle manifestazioni contro il green pass, e l'aver dichiarato di non volersi vaccinare.

Povia, come sta innanzitutto?

«Sto bene, altrimenti non avrei io stesso fatto uscire la notizia: l'ho fatto proprio per i tonti del sistema schizofrenico». 

Di lei si è letto di tutto, in questi giorni. Dicono lei è un «idolo no vax». Cito un articolo della Stampa: lei sarebbe da anni in prima linea della campagna negazionista. Conferma?

«Scemenze. Regalo un milione di euro a chi trova una mia dichiarazione in cui affermo che il Covid non esiste. Così ho scritto sui social: "Regalo un milione di euro a chi trova una mia dichiarazione dove dico che il covid non esiste. Al contrario inviatemi un video di scuse dicendo che siete dei coglioni". Spariti tutti». 

I leoni da tastiera sono stati particolarmente crudeli in questi giorni?

«La stragrande maggioranza mi ha augurato il bene, molti altri però mi hanno augurato la morte. E menomale che si diceva "diventeremo tutti più buoni"». 

C'è stato chi ha esultato per la sua positività?

«Sì, come se fosse proibito ammalarsi. Dei coglioni, come altro definirli? E tra chi gioiva del mio essermi contagiato c'erano anche medici».

Dei dottori?

«Sì, davvero grave. La colpa è dello Stato che ha una linea sbagliata e mette tutti contro tutti. Ha scatenato la guerra tra vaccinati e non vaccinati». 

Il presidente della fondazione Gimbe, Nino Cartabellotta, ha scritto in un tweet, parafrasando la sua canzone: «Finché i cretini fanno(eh) Finché i cretini fanno(ah) Finché i cretini fanno "boom" #Povia».

«Cartabellotta è medico anche lui. Il suo darmi del cretino usando un mio testo, e solo qualche minuto dopo che ho fatto uscire la notizia della mia positività, fa paura. È una persona intelligente, anzi lo definirei un intelligente asintomatico». 

Che significa?

«È un'intuizione del mio grande amico Gianfranco Amato (avvocato, presidente dell'organizzazione Giuristi per la vita, ndr): l'intelligenza ci sarebbe, ma è asintomatica».

Facciamo chiarezza? Povia è negazionista?

«Ho terrore del Covid, ma ancora di più del vaccino». 

Non si è vaccinato. La definizione di no vax però sembra starle stretta.

«Sono un "NoCovidvax": è questo il termine corretto, lo voglio precisare. I vaccini nella vita li ho fatti. Questo inizialmente volevo farlo ma ora sono terrorizzato».

Perché?

«Un conoscente è morto 24 ore dopo Pfizer, un altro ha dovuto lottare con una trombosi alla gamba due giorni dopo l'iniezione e ancora non cammina. Giocavamo a pallone la settimana prima, capisce? E poi leggo cose brutte sia da un lato che dall'altro. La libera scelta non è reato». 

Povia è allora un complottista?

«I tonti non spiegano mai cosa nego e di quali complotti parlo. Ho scritto il brano La terminologia dei bimbiminkia dedicata a quella stampa che mi attacca ma non entra nel merito, mai. Che cazzo di stampa è?!». 

Quante manifestazioni no green pass ha all'attivo?

«Tantissime e con decine di migliaia di persone. Avere il certificato verde significa che puoi contagiare tutti. Una cazzata legale». 

Il giorno in cui è risultato positivo stava andando proprio a una manifestazione, vero?

«Sì, avevo febbriciattola e debolezza. E avendo terrore del Covid non sono andato». 

Cantare sui palchi delle manifestazioni di protesta, per lei, è un'occasione di business? La pagano? Quanto?

«Chiedo un rimborso spese misero e mi vergogno a dire la cifra. Sono stato spazzato via dal mainstream perché canto anche sulla politica, cose che non sono propriamente allineate al politically correct. La mia è una passione, ha lo scopo di dare a chi mi ascolta una visione in più. Spero sempre di vendere qualche disco, certo, ma il termine business appartiene ad altri. Se dico multinazionali farmaceutiche sono complottista?».

Perché è contrario al green pass, in sintesi?

«È un ricatto fantascientifico. Se ti contagi lo stesso a cosa serve?». 

Fa spesso tamponi per viaggiare? Come rimedia al fatto di non avere il lasciapassare?

«Mi muovo in macchina, semplice». 

Tra gli artisti, tra i suoi colleghi, c'è chi l'ha difesa dagli attacchi in questi giorni?

«Difendere Povia "fascistahh, razzistahhh, gentistahh, omofobohh, novax, notax" (ci tiene che sia scritto con le «h» finali, ndr)? Tutto io sono. Se nomini Povia, ti bruci. Rischi che ti facciano fuori. Paura, eh?». 

Ma lei non se ne cura, a quanto pare.

«L'arte è anche e soprattutto rivoluzione. Cosa è altrimenti? Scrivo canzoni per raccontare, descrivere, emozionare, certo, ma anche per denunciare e stuzzicare la quiete ideologica pubblica». 

Una quiete indotta dalla scienza? Dai media?

«La scienza tanto nominata ha un ruolo marginale. Il bene multinazionale supera il bene nazionale e chi decide la comunicazione è il governo: da destra a sinistra sono tutti d'accordo. Vedere sempre gli stessi medici e giornalisti televisivi tutti i giorni recitare la parte è vomitevole. Ridicolo, poi, che anche Facebook per questa mia scelta sul vaccino mi abbia cancellato la pagina storica che aveva milioni di visualizzazioni. Cancellata, capisce?».

Sono ormai anni che si pone «fuori» dal mainstream. Eppure le trasmissioni televisive la cercano. E lei rifiuta sempre. Perché?

«Se mi rispettano come cantautore e mi fanno cantare Liberi di scegliere, in seguito posso far finta di dibattere anche coi tonti, altrimenti perché dovrei?». 

In quella canzone canta, tra l'altro, di una «dea Unione Europea che ci vincola e poi si divincola», attacca i politici e afferma che «si arriverà che prima o poi ogni razza si incazza, e diventeremo noi la vera reazione avversa».

«Sono l'unico cantautore sociale e socio-politico in Italia. Lo disse la Rai da subito, quando iniziarono a conoscermi. Ma non sono mai stato di nessuna parrocchia, specie non sto con quei pirla che dicono di essere "de sinistra" (alla romana, ndr) e per questo hanno posti migliori, prime serate, palchi importanti, falce e martello sul petto e conto in banca protetto. A destra, per arte e cultura, non esistono».

In questi giorni ha sganciato anche un'altra «bomba»: non vado a Sanremo per scelta. Eppure segnò il suo successo.

«Non mi presento da un po'. Sanremo è il governo e al momento non ammetterebbero mai Povia che critica il governo stesso, manco se scrivessi la nuova Imagine (capolavoro di John Lennon, ndr). Me lo hanno detto più volte negli anni passati» 

Chi?

«I nomi non li faccio. Ci pensa Dagospia». 

Pensa che dalle persone che scendono in piazza per protestare possa nascere un movimento politico, o che occorra una rappresentanza?

«Sì, ma a me non interessano i partiti, non ho mai votato e non ci credo. Più arrivi in alto e più ti pieghi a pecora, è storia. Nelle manifestazioni a cui partecipo ci sono medici, ricercatori, avvocati e costituzionalisti che hanno la funzione in primo luogo di informare, termine dimenticato dal mainstream». 

Però anche lei fa politica, no?

«Se mi appassiona un tema lo studio e lo traduco in musica. Penso a Chi comanda il mondo, ancora attuale. Nella quale canto che "c'è una dittatura di illusionisti finti, economisti equilibristi, terroristi padroni del mondo, peggio dei nazisti". Che hanno forgiato "tristi arrivisti stacanovisti, illusionisti che ci hanno illuso, con le parole libertà e democrazia, fino a portarci all'apatia". 

Ha anche modificato le parole di Bella Ciao, c'è chi non l'ha presa bene anche in questo caso.

«Bella Ciao è una bella canzone, Italia Ciao è un aggiornamento. C'è poco da incazzarsi, è tutto documentato quel che canto». 

Non ha quindi mai pensato di candidarsi?

«Me l'hanno chiesto da destra a sinistra. Gli ho riso in faccia». 

In questo caso i nomi li possiamo fare? Chi glielo ha chiesto?

«Lega, 5 stelle, Forza Italia, Fratelli d'Italia e inizialmente anche qualcuno delle frange di estrema sinistra ma anche piccoli partiti e partitelli. Un cantautore non può essere diplomatico altrimenti non è libero. Il mio sogno era diventare un cantautore sociale e si è avverato. Non ci sono regole nell'arte e le dirò ho scoperto un mondo di persone che sono interessate a questo. Se avessi un vero manager».

Da adnkronos.com il 13 dicembre 2021. "Sono positivo" al covid "con carica bassa, sto bene". Così, secondo quanto riportato dal sito Genova24, il cantautore Povia, avrebbe annunciato ieri in un messaggio inviato agli organizzatori la sua assenza all’evento genovese contro il green pass in piazza della Vittoria dove era atteso nel pomeriggio. Secondo lo stesso sito, gli organizzatori avrebbero sentito l'artista, le cui posizioni contro il vaccino per il Covid sono note da tempo. "Non era in formissima ma siamo tranquilli”, avrebbe raccontato una delle organizzatrici allo stesso sito. Nel frattempo, Povia dai suoi social è intervenuto ieri per smentire il fatto che sia stato scartato dalla commissione che ha selezionato i cantanti in gara a Sanremo 2022. "Leggo scemenze", ha scritto Povia postando il passaggio di un articolo che lo includeva in un elenco di esclusi dal festival. "Sono anni che non mi presento - ha aggiunto - ci tengo a dirlo. Per motivi ideologici e politici, la Rai e cioè il governo, non ammetterebbe mai a Sanremo un cantautore che contesta le scelte schizofreniche, illogiche, anti-costituzionali e anti-scientifiche del governo stesso. Il tutto si ridurrebbe ai soliti termini usati da chi ha un handicap ideologico e cioè 'Novax' (il termine corretto è NoCovid19Vax, perché i vaccini nella vita li abbiamo fatti), 'Omofobo' altro termine ideologico che non vuol dire nulla, 'Fass1sta, razz1sta, Popul1sta'... insomma vi rimando ad una canzone presentata a Sanremo qualche anno fa: 'La terminologia dei bimbiminkia'", ha proseguito linkando il brano. "Sentite il boato e immaginatela ai Sanremo dei governi tecnici", ha concluso.

Da corrieredellosport.it il 14 dicembre 2021. Il presidente del Gimbe Nino Cartabellotta attacca Povia… parafrasandolo. Il cantante, dopo essersi dichiarato no vax e no green pass, è risultato positivo al Covid-19, scatenando l’ironia del web. A prenderlo in giro anche Cartabellotta, che ha citato la strofa de I bambini fanno ohh, brano più famoso dell’ex vincitore di Sanremo. “Finchè i cretini fanno(eh) Finchè i cretini fanno(ah) Finchè i cretini fanno "boom" #Povia”, ha twittato il medico, che ha poi precisato: “Sottotitolo per quelli che credono a #Bugliano: il tweet è la strofa di una canzone di #Povia”.

Il tweet scatena le polemiche

Il post di Cartabellotta ha scatenato le polemiche. Molti, infatti hanno ritenuto inopportune le parole del presidente del Gimbe. “Un giorno verrà chiesto conto ai MEDICI di esternazioni come queste, prive di educazione, di etica e di morale. Quanto in basso è caduta l’arte medica nel nostro Paese…..", ha scritto DebFirts.

Dura la replica di Francesco Storace sul sito 7Colli: “Leggere di un medico come Nino Cartabellotta – che spesso va in tv a dare i numeri per la fondazione Gimbe – che si accanisce contro il cantante Povia, lascia basiti. Pensavamo fosse roba da ragazzini social, invece è la cosiddetta scienza. Macché, è scemenza". 

Quando i dottori fanno oh. Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 13 dicembre 2021. Mai nella vita avrei immaginato di poter prendere le difese di Giuseppe Povia, il cantante ostile ai vaccini che si è ammalato di covid, fortunatamente in forma lieve. Ma non avrei mai nemmeno immaginato che un uomo di scienza come Nino Cartabellotta, autorità assoluta in materia di dati sulla pandemia, arrivasse a sbeffeggiare un malato in pubblico. Invece lo ha fatto, indirizzando a Povia la versione strafottente della sua famosa «Quando i bambini fanno oh», trasformata per l’occasione in « Finché i ». Cartabellotta è il presidente della fondazione Gimbe, «Gruppo italiano per la medicina basata sulle evidenze», ed è di tutta evidenza che credeva di essere spiritoso. Ma la questione è: si può dare del cretino a uno che sta male, anche se sta male per qualcosa di cui nega l’esistenza? Sarebbe come sbeffeggiare un pedone appena finito sotto un’automobile perché aveva sempre sostenuto che le automobili in realtà fossero delle farfalle metallizzate. Esistono codici di opportunità che chi occupa certi ruoli dovrebbe osservare più di ogni altro e che servono a preservare la civiltà dalla rissa e a distinguere un salotto da un saloon. Non sarà un caso che lo sfottò del chirurgo abbia provocato la reazione piccata di tanti no vax, alcuni dei quali sono arrivati ad augurargli la morte. Per cui, dopo quelle di Povia spernacchiato da Cartabellotta, adesso ci tocca pure prendere le difese di Cartabellotta minacciato dai no vax. Capirete che è una vitaccia.

"Non vado più in tv. La politica? È finita con lui..." Claudio Rinaldi il 2 Maggio 2021 su Il Giornale. Intervista a Povia, cantautore controcorrente e anche un po' complottista: "Il vaccino non lo farò, non mi fido. Il ddl Zan è semplicemente assurdo". Controcorrente come pochi, politicamente scorrettissimo e anche un po' complottista. Giuseppe Povia, 48 anni, cantautore e blogger "italianissimo" - così come si capisce dal tenore delle sue risposte - non ha paura di lanciare bordate. Lo fa ogni giorno sulla sua pagina Facebook e in questa intervista che va contro tutto ciò che il mainstream ripete da mesi. In particolare, le sue idee su vaccini e gestione della pandemia appaiono eccessive e non possono che far discutere. Eccole...

"Torneremo Italia" è una delle canzoni del suo ultimo album… perché non le piace l’Italia di oggi?

"Amo l’Italia sennò non canterei a favore. Il problema è che politicamente decide Bruxelles, quindi lo Stato non esiste e non assiste i cittadini come dovrebbe".

E poi c’è "Italia Ciao", un videoclip che riaggiorna "Bella Ciao"…

"Inizia con bandiera rossa e finisce con l’inno tedesco. In mezzo descrivo un’Italia che si è costituita nel 1948 per non fare più gli stessi errori, ma poi è finita di nuovo in una Unione Europea guidata dalla Germania. Se avessimo detto questo ai nonni nel dopoguerra non ci avrebbero mai creduto".

È quindi un problema soprattutto europeo?

"Quando un organo è troppo burocratico e tecnocratico, è distante dai cittadini".

Neanche Mario Draghi la convince?

"No, fa gli interessi della finanza, non della cittadinanza. L’ho letto nel suo curriculum".

Ha visto l’ultimo naufragio nel Mediterraneo nel quale sono morte oltre 130 persone…

"Chi favorisce tutto questo lo fa solo per soldi. Dispiacere doppio che venga gestito più dalla sinistra".

Lei canta una canzone si chiama "Immigrazia"…

"Ho preso spunto da un pensiero di Karl Marx, 1870: irlandesi che andavano in Inghilterra e si creava scontro sociale, politico, religioso ed economico".

Ma anche sui vaccini l’Europa non è stata all’altezza?

"A parte che si vede ad occhio nudo che siamo indietro, ma basta fare un google e scrivere: Unione europea incapace sul piano vaccini, Emma Bonino su Repubblica".

Lei si vaccinerà?

"Ho fatto il vaccino per la meningite, ma questo non lo faccio. Non mi convincono troppe cose e la scienza non è molto rassicurante".

Che ne pensa del green pass, il passaporto vaccinale?

"Se persino il garante della privacy in Europa lo ha definito 'grave e incompleto'… gli ebrei avevano il numero sul braccio, noi avremo una card, che cambia?".

Come sarà, secondo lei, l’estate 2021?

"Uguale al 2020 e poi a settembre si ricomincerà a parlare di chiusure inutili, smontate da decine di studi... l’ultimo dell’Università di Greenwich".

Quindi è contrario anche a mantenere il coprifuoco alle 22?

"Neanche il comitato scientifico ci ha messo bocca. Andrebbe tolto del tutto. È la conferma di un governo impaurito, terrorizzato che trasmette ansia e preoccupazione. Le uniche due cose che doveva fare erano mettere in sicurezza le persone a rischio e potenziare le strutture sanitarie e invece: Ok, Dumber!".

Perché di solito gli artisti evitano di esporsi e di esprimere le proprie opinioni?

"Perché hanno paura di non lavorare o di chiudersi porte e rapporti. Io sono l’unico ma non è un vanto, tornassi indietro canterei solo le tagliatelle di nonna Pina".

Dice di essere l'unico… sarà per questo che è uscito dai radar della televisione?

"In realtà svariate trasmissioni mi invitano per parlare di attualità ma sempre in mezzo allo starnazzare di un sistema che io reputo di scemi. Quindi declino...".

Si sente scomodo anche per aver cantato canzoni come “Luca era gay”?

"Beh, ancora ricevo minacce e insulti nonostante il brano sia stato pluripremiato e apprezzato dalla maggioranza dei cittadini. Ma in Italia comandano le minoranze, è da sempre così".

E che ne pensa della legge Zan?

"Se ci fosse stata nel 2009 'Luca era gay' non l'avrei potuta cantare. Esiste già una legge contro la violenza senza distinzioni o differenze per questo farò un brano dal titolo ‘Non esiste omofobia’. Marco e Gabriele, una coppia di amici gay mi hanno detto: 'Come si fa a fare una legge dove noi gay diventiamo una razza?' Assurdo".

Chi è a favore sostiene invece che un paese civile non possa non avere una normativa di questo tipo che tuteli le minoranze...

"L’anno scorso ho avuto un dibattito con due maschietti che erano andati all’estero a comprare 2 gemellini tramite l’utero in affitto. Quando gli ho detto che questa cosa in Italia è reato punibile con la legge 40, mi hanno risposto: 'Speriamo che passi la legge Zan così oltre alle denuncia per te ci sarà la multa e la galera'. Se passa la legge, qualunque cosa potrà essere 'omofobia'. Viviamo in un sistema di scemi, credetemi".

Ma scusi, cos’è per lei l’amore?

"Dirsi le cose non solo quando fanno bene, ma anche quando fanno male".

Ok, in un suo brano però dice di non saperlo…

"Bo… forse perchè nessuno in fondo sa cos’è veramente. L’importante è provare qualcosa".

Torniamo alla politica, ci sarà pure qualcuno che stima tra gli attuali protagonisti della scena pubblica?

"Sarò ripetitivo.. è un sistema di scemi obbedienti a Bruxelles, ti prego".

E tra quelli del passato?

"Bettino Craxi, la politica è finita con lui".

"2011", è una sua canzone ma è anche?

"L’anno del colpo di stato a Berlusconi, l’inizio di più caos, più immigrazione, guerra in Siria, riforme orribili come la Fornero, articolo 18, lavoro compresso e più precario, tasse, morte di Gheddafi e altre cose che canto...".

Che canta ma non più a Sanremo… la rivedremo mai su quel palco?

"Si come no.. soprattutto con questi temi. Sei matto? La gente a casa noterebbe solo me".

Claudio Rinaldi. Giornalista. Televisivo per Quarta Repubblica (Rete4). Web per ilGiornale.it. Carta stampata per il Corriere della Sera (Roma). Ma anche direttore di TheFreak.it. Nella vita dj a tempo perso. Cestista ogni tanto. Interista sempre. Romano d’adozione ma lucano fino al midollo.

·        Greta Scarano.

Dagospia il 20 maggio 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Greta Scarano è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei e dalla mezzanotte e trenta alle due circa anche su Rai 2. L'attrice ha raccontato un po' di se: "Il mio momento? Sono contenta, quando fai le cose e vengono viste è molto meglio di quando le fai e non vengono viste. E' stato un caso che molte cose cui ho preso parte siano uscite vicine l'una tra l'altre. Faccio questo lavoro da tanti anni, prendo tutto con molta serenità, il mio obiettivo è continuare a fare cose belle. Crescendo sono cambiata, sono più attenta all'esperienza di per se piuttosto che a quello che mi può portare la cosa che faccio. Ora considero il viaggio più importante del risultato. Chiamami ancora amore è sicuramente stata una cosa bella. Il clima sul set era ottimo, nonostante la fatica dei tempi a volte stretti, conoscevo perfettamente il nostro regista perché avevo già avuto il piacere di fare una serie con lui, questa è stata una splendida esperienza, merito anche dei miei colleghi, da Simone Liberati a Claudia Pandolfi, c'era Federico Ielapi che lavora più di di me nonostante sia giovanissimo, è molto professionale, gli auguro una carriera d'oro. E' stata una esperienza bellissima perché ho avuto la fortuna di condividerla con dei colleghi con cui mi sono trovata molto bene". Sui suoi esordi: "Come è iniziato tutto? E' sempre difficile raccontare quello che si è vissuto, sono successe tante cose. Quando ero piccolissima sognavo di fare l'attrice, poi mi sarebbe piaciuto fare la regista, mi piaceva moltissimo l'idea di produrre delle cose, facevo dei cortometraggi orrendi, suonavo la batteria, cantavo, ma mi ha sfiorato spesso anche l'idea di fare tutt'altro. Che ne so, di fare legge. Non mi sono iscritta a legge perché avevo capito che non era la mia strada, ma più volte ho pensato che potevo fare l'avvocato o il magistrato. A un certo punto ho capito che mi piaceva fare l'attrice, perché ti dà la possibilità di fare tante esperienze, tutte cose che non potresti fare con una vita sola. Ho imparato ad usare la spada, ad andare in canoa, a usare le balestre, quando fai un personaggio hai la possibilità di imparare tante cose nuove. Questo lavoro ti consente di fare esperienze molto variegate". Sulla prima grande occasione: "Sono stata fortunata, ho avuto la possibilità di interpretare dei personaggi che mi hanno dato tanto. Penso immediatamente a Suburra, quello è stato un film che è rimasto e non sempre è così. Una opportunità incredibile, non smetterò mai di ringraziare Sollima per avermi scelta. Noi ci conoscevamo, io da giovanissima avevo preso parte alla serie di Romanzo Criminale nel ruolo di Angelina. Fu un ruolo difficile, con situazioni non facili da gestire per una attrice giovane. Io venivo da meccanismi televisivi, però all'epoca la tv era completamente diversa. E Romanzo Criminale ha rappresentato uno spartiacque. Ancora oggi qualcuno a distanza di tanti anni mi chiama Angelina. Alcuni da lontano, mi urlano Angelina. Su 'Smetto quando voglio'? Ho fatto il secondo e una piccola parte nel terzo, sapevo già che si trattava di un grande successo. Tutte le mie colleghe fecero il provino per fare quel ruolo, avevo la percezione che potesse essere qualcosa di molto bello. Già fare il provino, per come era scritto, era comunque materiale estremamente interessante per una attrice". Sull'arrivo del successo e 'Speravo de morì prima': "Il mio è un lavoro che nasce dall'empatia, empatizzo moltissimo sia con in personaggi che interpreto che con le persone con cui entro in contatto. Se riesci a empatizzare con il personaggio che interpreti riesci a interpretarlo. Come sono diventata Ilary Blasi? L'ho studiata di brutto, c'è stato per me un lavoro gigante. Io sono sempre stata una un po' incosciente, sono una persona che si butta nella vita, a cui piace mettersi alla prova. Questa dose di incoscienza mi ha aiutato, ma avevo un po' di timore. Soprattutto per quello che mi dicevano gli altri, che non smettevano di chiedermi se fossi sicura davvero di voler fare questa cosa. Sul set c'era Pietro Castellitto, che io adoro, su questa serie il vero incosciente è stato lui. Vedere lui che comunque che con il coraggio dei pazzi ha deciso di dire di sì a fare questa cosa e poterlo affiancare mi ha dato molta forza. Ilary mi ha fatto morire. Molte puntate le abbiamo viste insieme. Anche lei era in tensione, vedersi rappresentati non deve essere semplicissimo. Poi dopo è stata super felice, ogni tanto ci sentiamo ancora, mi ha detto che era tanto contenta del lavoro che avevo fatto. Lei ha condizionato la scelta dell'attrice che la interpretava, a me ha portato benissimo, è stata una grande esperienza, sono morta dalle risate, difficilmente ci si diverte così tanto sui set". Sulla parità di genere: "E' ancora distante. Però sicuramente sono stati fatti dei grandi passi avanti. Certo, ancora oggi succedono cose che ci fanno bruscamente tornare indietro. Parlo della violenza sulle donne, di come certe volte viene considerata la figura femminile. Il catcalling? Non è il complimento di per sè, è un atteggiamento lascivo, schifoso, che ho visto migliaia di volte. Quando mi capita, e capita spesso, anche quando meno me lo aspetto, io mando proprio direttamente a fancul*, sono di una cattiveria unica, certe volte esagero. E' una cosa veramente fastidiosa! Nei Paesi più evoluti del nostro non accade che il tipo in macchina ti grida “abbbona” o ti fa le facce. Agli uomini che vogliono fare i complimenti, dico che devono fermare la macchina, scendere, andare dalla ragazza, tenendo la debita distanza, e dire “posso farti un complimento”? Non avere quel comportamento osceno e insopportabile. Ha fatto bene Aurora Ramazzotti a denunciare questa cosa". Greta Scarano in passato ha raccontato di voler adottare un bambino: "E' vero! Vorrei adottare un bambino, se lo volessero tutti si risolverebbero un sacco di problemi. Mi piacerebbe anche farlo un figlio, ma anche adottarlo. So che è molto difficile, vorrei che fosse più semplice".

Chi è Greta Scarano, l’attrice che interpreta Ilary Blasi in “Speravo de morì prima”. Redazione su Il Riformista il 17 Marzo 2021. Greta Scarano è Ilary Blasi nella serie tv dedicata a Francesco Totti Speravo de morì prima. Per l’attrice, classe 1986, un’altra conferma in un ruolo di primo piano nella sua carriera già piuttosto ricca. Speravo de morì prima è una serie realizzata da Sky Original e basata sull’autobiografia Un Capitano, scritta dal giornalista Paolo Condò, con Francesco Totti. Andrà in onda su Sky Atlantic da venerdì 19 marzo. Scarano è romana, ha cominciato a recitare fin da piccola, alla scuola di teatro Talia. Ha studiato anche canto e percussioni. Ha recitato a teatro sia in Italia che negli Stati Uniti, dove ha studiato recitazione, in Alabama. Una volta tornata a Roma si è iscritta a Scienze Politiche all’Università di Roma Tre e a un corso di recitazione della scuola di Ettore Petrolini. Il primo ruolo di rilievo nel 2007, quando è entrata nel cast di Un posto al sole nel ruolo di Sabrina Guarini. Ha preso parte a numerosi altri progetti televisivi come R.I.S. -Delitti imperfetti, Don Matteo, Distretto di Polizia, Squadra Antimafia – Palermo Oggi, La linea verticale. È stata attrice protagonista dell’ultimo episodio del Commissario Montalbano, Il metodo Catalanotti, andato in onda a inizio marzo 2021. Sempre per la televisione è stata in I Liceali, In Treatment, Non Mentire, Il Nome della Rosa con John Turturro e Rupert Everett. In Qualche Nuvola di Saverio Di Biagio, del 2011, è stata protagonista. Il film è stato presentato al Festival del Cinema di Venezia. Altri ruoli di peso in Suburra, La verità sta in cielo, Smetto quando voglio – Masterclass, Smetto quando voglio  – Ad Honorem, Diva!. Ha vinto il Premio Guglielmo Biraghi per Senza Nessuna pietà e il Nastro d’argento come Miglior attrice non protagonista per Suburra. È legata sentimentalmente al regista Sydney Sibilia. Ha avuto una relazione con l’attore e regista Michele Alhaique. In Speravo de morì prima è al fianco di Pietro Castellitto, che interpreta Totti. La serie si concentra sull’ultimo anno e mezzo di carriera del capitano della Roma. “Greta mi è piaciuta. Al di là della somiglianza fisica, lei è brava a interpretarmi, ci è riuscita molto bene. Ci siamo incontrate e abbiamo chiacchierato. Ha recepito cose di me che non pensavo di avere”, ha commentato Ilary Blasi, sposata dal 2005 con l’ex capitano della Roma. I due hanno avuto tre figli: Cristian, Chanel e Isabel. “Mi avevano messo in guardia sul ruolo: ma sei sicura che sia il caso? Sicura sicura? Io non ci ho proprio pensato. Mi sono innamorata della sceneggiatura. Neppure per un secondo ho calcolato che  fra l’altro  potesse provocare un po’ di caos, ambientata nel mondo del calcio pieno di tifoserie e di controversie, dove ognuno dice la sua”, ha commentato Scarano sul suo ruolo.

·        Harvey Keitel.

Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera" il 20 luglio 2021. Harvey Keitel, 82 anni, parla a bassa voce, centellina le parole, le soppesa. È stanco per i due voli che ha dovuto prendere da Los Angeles ma è gentile, disponibile a rievocare la sua straordinaria vita per il cinema. È presidente onorario del Filming Italy Sardegna Festival ideato e diretto da Tiziana Rocca che si apre domani. Piacere, mister Wolf Ride: «Quella frase, Sono il signor Wolf e risolvo problemi, fu una trovata geniale di Tarantino in Pulp Fiction. È diventata una sorta di suo autografo, un tormentone, la gente si è divertita molto».

I suoi personaggi sono nevrotici, violenti, inquieti.

«Gli attori devono avere affinità col personaggio, devono credere in lui, l'obiettivo è che sia vicino alla vita reale. Mi sono capitate brave persone che fanno cose cattive e viceversa, il cinema tira fuori la complessità della vita». 

In «Thelma & Louise» però lei interpreta un poliziotto buono e basta.

«Nel film di Ridley Scott molte donne si possono riconoscere. Susan Sarandon e Geena Davis misero il cuore, era fantastico vederle recitare. È stato scritto da una donna Callie Khouri. In quel mondo maschilista di abusi, ha tratteggiato il poliziotto che simpatizza con le due fuggiasche, simbolo di libertà. Ha avuto successo perché ha rappresentato con profondità e delicatezza la natura del genere maschile e femminile».

Lei, Martin Scorsese, Robert De Niro, avete cominciato tutti insieme.

«Eravamo molto giovani. Martin stava cercando giovani attori disposti a recitare gratis, perciò girava solo nel week-end visto che per sopravvivere facevamo vari lavoretti, camerieri, lavapiatti... Era il suo primo film, Chi sta bussando alla mia porta. Era il 1967, io avevo 28 anni».

Come ottenne la parte?

«Al provino finale Martin mi dice di andare in fondo a un corridoio, in una stanza buia e vuota con un tizio seduto. Lo saluto, quello mi risponde bruscamente, c'è una mezza litigata, ci mandiamo a quel paese. Si sente una voce: stop. Era Martin che mi dice, questa era un'improvvisazione. Gli rispondo che sarebbe stata una buona idea se me lo avesse detto prima».

E come conobbe De Niro?

«Eravamo entrambi all'Actor' s Studio, non sapevo niente di lui ma ho pensato subito che fosse un attore incredibile. Eravamo nell'atrio fuori dalle aule, ci presentò l'attrice Mary Anisi. Ciao, ciao. Ci guardammo e esclamammo: eh ah, oh. Nessuna parola, solo grugniti che poi si trasformarono in smorfie. Cominciammo a ridere. Poi ci siamo ritrovati in Mean Streets e Taxi Driver di Scorsese». 

Cos'è Hollywood per lei?

«Hollywood rappresenta una valida cultura in sé stessa, non solo per l'America, ha prodotto film che amo. Però va reinventata. Io venivo da esperienze teatrali a New York, non è stato facile capire certi meccanismi». 

Come andò con «Apocalypse Now» di Coppola?

«È una lunga storia, avevo un rapporto amichevole con Coppola, poi la sua società mi disse di firmare un contratto con cui sarei stato sotto controllo da 3 a 5 anni. Mi sono opposto e mi hanno detto: o firmi o sei licenziato. Così abbandonai il progetto». 

Lei è uno dei pochi attori che ha recitato nudo.

«Fatemi chiarire questo punto, gli attori non sono spogliarellisti, raccontiamo una storia al meglio della nostra abilità e coscienza. Se il nudo è giustificato, ci sta». 

«Youth» di Sorrentino?

«La malinconia dell'età e il rimpianto della giovinezza. Sono grato di averla avuta, e dei miei amici di Brooklyn. Non sono grato della morte che prima o poi approccerò». 

Ha da poco girato un film per Davide Ferrario?

«Sono il governatore inglese di Malta realmente vissuto, Hunter Blair, quando l'isola era sotto il protettorato britannico. Un tipo indeciso, non sa come venire fuori dai moti indipendentisti. Blood on the Crown racconta i moti di Malta del 7 giugno 1919, giorno in cui festeggiano la libertà dagli inglesi».

·        Heather Parisi.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 23 maggio 2021. Heather Parisi è nata a Los Angeles, vive a Hong Kong da dieci anni e si sente italiana: «Ho avi italiani, con mio marito parlo italiano, i miei quattro figli parlano italiano e, in Italia, arrivai a 18 anni per cercare i miei parenti calabresi, a Torre Vecchia». Si unì ad amici che andavano a Roma. «Nella mia testa, era vicino alla Calabria», ricorda. Nel cosentino, però, arriverà solo dieci anni dopo, perché nella capitale viene notata mentre balla in discoteca, viene portata da Pippo Baudo per un provino e, in pochi mesi, è la star del sabato sera e tutto il Paese canta e balla la sua Disco Bambina. Arrivavano i ruggenti anni ’80, e lei, l’americana che trovava l’America in Italia, la ragazza col sorriso che le riempie la faccia di denti e fa indiavolate spaccate cantando «cicale cicale», ne incarna lo spirito meglio di chiunque altro.

Heather, la capacità di bucare il video è qualcosa che si ha o che s’impara?

«È un feeling. Io già a 18 anni, quando ho esordito a Luna Park su Raiuno, sapevo che la vita è difficile e che le persone arrivano a casa stravolte e vogliono solo dimenticare i problemi per un po’. Dentro il mio cuore, il desiderio è sempre stato trasmettere allegria».

Che stava ballando in discoteca di così eccezionale per essere portata subito da Baudo?

«Non fu difficile farsi notare: questa americana slogata, coi capelli lunghissimi, che alzava tutta la gamba destra, poi tutta la sinistra, sbalordiva. Io abitavo da un’amica, torno a casa e le chiedo: cos’è la Rai? Mi trovai con un cast incredibile: Tina Turner, Beppe Grillo, Enrico Beruschi, Tullio Solenghi, e il trio Lello Arena, Enzo Decaro, Massimo Troisi. Non capivo una parola, ma vedevo Lello strillare “annunciazione, annunciazione”, e già ridevo. Erano belli, onesti, umili».

Beppe Grillo com’era?

«Si capiva che era intelligente. A Taormina, ci diedero un premio e restammo a parlare della vita fino alle 4 di notte».

Siete rimasti in contatto?

«Non frequentavo quelli dello spettacolo. A Roma, i miei amici erano gli artisti: Gino De Dominicis, Mimmo Paladino, a Milano, Ettore Sottsass, Barbara Radice... Mi hanno fatta sentire accolta. Era un’Italia meravigliosa».

Diventò subito molto popolare. Come fu?

«Ogni settimana, ero su una copertina. Non era facile. Un conto è sapere che in tv ti guardano 27 milioni di persone, ma ero poco più che una bambina che aveva passato la vita a studiare danza classica, ero timida, e ovunque andassi era un “ahó Heather, ahó”. Ancora oggi, se entro in un ristorante, ho bisogno di cercare con lo sguardo una via di fuga».

Quanto lavoro c’era dietro i suoi balletti?

«Molte coreografie erano mie, parlavo coi costumisti e con Giorgio Armani, Donatella Versace, Valentino. Non era una passeggiata: a Stasera Lino, o a Fantastico 5 e 8, per ogni balletto, avevamo cento ballerini, tre scenografie, cambiavamo tre costumi. Ero sempre un po’ sdegnata quando Adriano Celentano m’interrompeva a metà per dire una delle sue celebri frasi e io, poi, dovevo ricominciare daccapo».

Per Celentano, ammise una cotta segreta.

«Ma no. Devo aver detto che ne ero innamorata fisicamente perché anche lui era per la diretta e detestava registrare. Io, per dare il massimo, devo sapere che non posso sbagliare. Divento iena solo quando si accende la luce rossa. Con lui, si provava e poi, in onda, facevamo totalmente altro. Lo adoravo per questo».

Come nasce la prima hit, «Disco bambina»?

«Coi gesti che usavo per dire ai miei amici: anche se sei gay, sei super Ok. Il pugno era quello di Fonzie in Happy Days, poi toccavo l’occhio per dire furbo, facevo l’Ok. Sono cresciuta nella comunità gay di San Francisco, ci sono arrivata a 13 anni, da sola, per studiare danza. Con loro ho vissuto paure, entusiasmi, esclusioni e violenza. Un giorno, per strada, dei bulli cominciano a urlare a loro froci e, a me, lesbica. Io risposi: e pure se lo fossi? Mi sono sentita scaraventare a terra da un pugno in viso. Posso dire una cosa senza far polemica?».

Proviamo.

«Ho letto che due comici italiani, Pio e Amedeo, hanno difeso la parola negro e altre simili. In America, non lavorerebbero più. Queste parole evocano odio, offendono. Se, come me, sei davvero per un mondo che include, non puoi ritenerle satira o comicità».

Ha seguito la polemica su Fedez, la Rai, e il decreto contro l’omofobia?

«No, però posso dire che essere un’icona Lgbtq è un premio che non tutti meritano allo stesso modo: io amo i diritti da sempre, ma mi sembra che alcune icone seguano una moda».

Come era finita tredicenne a San Francisco?

«Mamma era ballerina e io sono uscita dalla sua pancia ballando. A cinque anni ero alla sbarra; a sette, ho vinto una borsa di studio del Sacramento Ballet; a 12, sono stata la più giovane danzatrice mai accettata al San Francisco Ballet. A 15, Mikhail Baryshnikov mi ha chiamato a New York nella sua compagnia, ma mia madre non volle mandarmi e restai dov’ero».

Madre separata, padre sparito che lei aveva due anni. Ballare era anche una fuga?

«Diciamo che, uscendo di casa presto, mi sono salvata. Ho avuto un’infanzia molto difficile. Però, mia madre ha 84 anni, non voglio farla soffrire e non dirò altro. Mio padre l’ho conosciuto davvero solo a 28 anni. Sono andata a cercarlo e ho capito che avevo preso per buone tante bugie sul suo conto. Venne a Roma, io facevo il varietà con Banfi e andavo a lavorare con le occhiaie perché passavo la notte a parlare e piangere di felicità con papà».

L’infanzia difficile che cosa le ha tolto?

«Tanto. Però mi ha fatto capire cos’è la gavetta. Sono stata educata da maestri russi non facili al complimento. Non c’è altro sprone per migliorarsi. Negli anni 80, a Roma, quando ero già disco d’oro e famosa per la mia spaccata in aria, prendevo lezioni da Victor Litvinov: io tiravo su la gamba e lui, con un bastone, me la tirava ancora più su, ancora più diritta».

Faceva male?

«Mi creda, era anche pericoloso».

Ha confessato che, al massimo della popolarità, soffriva di bulimia. Com’era possibile?

«In realtà, sono stata bulimica fino al 2005 o 2006. Ogni giorno, ingurgitavo sette Coca Cola, 12 girelle, spaghetti, filetto, scaloppina, fegato alla veneta, poi, vomitavo. Lo racconto perché succede a tante ragazze e non basta dire che non lo devi fare. A me dicevano: smettila, che sei brutta, scavata, sei strega, ti si è ingrossato il naso. Ma non serviva a smettere».

Chi glielo diceva?

«La persona più vicina a me all’epoca. Solo con l’amore di mio marito ho capito che mangiare di meno è un modo per amarmi di più».

Quanto c’entra la bulimia con l’amore?

«All’inizio, arrivata in Italia, mi sono fidata di un uomo. Ma non ero la brutta gallina americana stupida che lui mi voleva far credere, ero bella dentro, avevo un cuore bello, ero solo molto infelice da tanti anni. Ballavo a Fantastico con Jane Fonda, con Elton John, ma ero insicura: non so se per le carenze affettive dell’infanzia, ma di sicuro per la violenza psicologica di un uomo che voleva sminuirmi».

Era solo violenza psicologica quella di questo suo compagno, mai denunciato?

«Erano pugni, calci, molto di più. E dolorosa era la rabbia di non riuscire a ribellarmi, ma molte persone sapevano e non dicevano niente e sono colpevoli anche loro».

Perché non lo lasciava?

«Mi diceva: se te ne vai, ti arrestano, sei straniera, sei stupida, chi vuoi che ti creda? Ho trovato la forza di andarmene durante Fantastico 4, anche se non avevo soldi, niente».

Dopo tanti show, era senza soldi?

«Quando lascio quell’uomo, scopro che, sul conto dove i soldi erano tutti miei, sono in rosso di 260 milioni di lire. Avevo 24 anni, ero circondata solo da persone viscide e interessate, ma non sono una vittima e ne sono uscita».

Su Instagram, scrive cose meravigliose del suo attuale, secondo marito, Umberto Maria Anzolin, col quale vive a Hong Kong. Tipo: «Avevo bisogno di un uomo che mi amasse per ciò che sono, non invidioso della mia fama».

«È anche il primo che mi mantiene. Soprattutto, mi scalda il cuore: io vado a letto la sera ridendo, mi sveglio la mattina sorridendo».

Si sta commuovendo?

«Sì, perché mi sento fortunata, dopo tutto quello che ho subito. Solo ora ho capito che mi merito un amore come questo».

In cosa è stato difficile decidere di avere due gemelli a 50 anni?

«Difficile? Scherza? Da quando ho 18 anni, dico che voglio sei figli. E sempre qualcuno vicino mi diceva: zitta, devi lavorare. Poi, ho avuto due figlie e, come tante donne in carriera americane, ho congelato gli ovuli. Quindi, finalmente, ho incontrato Umberto».

Ballare le manca?

«No. Ballo tutti i giorni. E ora va sul web la mia heatherparisi.tv. Farò video in cui insegno ballo, faccio ginnastica in posti strani, cucino, racconto, faccio homeschooling coi gemelli».

Perché ha scelto l’homeschooling?

«Perché, prima del Covid, viaggiavamo tanto e visitare Paesi è il modo migliore per imparare. All’estero, non è una scelta inconsueta».

La rivalità con Lorella Cuccarini era vera?

«Non è rivalità: siamo proprio il diavolo e l’acqua santa. Io sono il diavolo, ovviamente. Abbiamo tutto diverso: mentalità, infanzia, carriera e pensieri sui diritti civili».

Perché non ha mai voluto confermare o smentire la love story con Maradona?

«Perché, anche quando ero sulle copertine, non ho mai creduto nella morbosità».

Lei come vorrebbe invecchiare?

«Su un’isola in Cambogia con Umberto, insegnando inglese e danza ai bimbi di strada».

·        Helen Mirren.

Marco Consoli per “il Venerdì di Repubblica” il 12 agosto 2021. «Andare veloce in auto mi è sempre piaciuto. Una volta alla guida ho toccato i 240 all'ora». Quanto? Da arresto! «Ma no, ero su un'autostrada tedesca e lì non ci sono limiti. È stato fantastico». Helen Mirren, 76 anni, interprete raffinata di The Queen e altri film come Gosford Park, Hitchcock, The Last Station o il prossimo The Duke, spiega il motivo che l'ha spinta a tornare nei panni di Magdalene Shaw nell'action movie ad alta velocità Fast & Furious 9, che uscirà il 18 agosto al cinema. «Quando mi avevano proposto il personaggio (per il precedente Fast & Furious: Hobbs & Shaw, ndr), ho inventato per lei il soprannome Queenie, prendendolo in prestito da quello di una mia zia. Per tratteggiarla mi sono ispirata alla sua famiglia della working class londinese e ho recuperato il mio accento di ragazza dell'East End, immaginandola come una sorta di regina del crimine», racconta l'attrice. «Stavolta però ero particolarmente eccitata perché sapevo che avrei avuto una scena sul Mall, il viale che da Buckingham Palace porta all'Admiralty Archal, al volante di una Noble M600, una fantastica vettura sportiva». L'occasione di parlare con l'attrice che ha ricevuto quattro candidature agli Oscar e vinto una statuetta per The Queen è il premio alla carriera ricevuto al festival di Berlino. «Farei qualsiasi cosa insieme a Vin Diesel», scherza Mirren «ma quando avevo vent' anni non avrei mai immaginato di girare degli action movie: ero troppo snob e intellettuale, mi consideravo un'artista e facevo teatro sperimentale a Parigi. Ora naturalmente non vedo l'ora di farne uno, ma credo che questo faccia parte di quello che si chiama diventare adulti». Lo stesso motivo che l'ha spinta a girare in Salento il divertentissimo video, diventato immediatamente virale, La Vacinada con Checco Zalone. 

Quando ha scoperto il teatro?

«A 14 anni ho letto Shakespeare e ho avuto un'illuminazione. Ho iniziato a desiderare di raccontare il mondo attraverso il dramma così come un pittore fa con i colori o un musicista con le note. Se questo voleva dire essere un'attrice, avrei fatto di tutto per diventarlo. E per 10 anni mi sono dedicata seriamente al teatro, che era la mia chiesa. All'inizio ero riluttante a fare cinema: i testi mi sembravano roba da bambini paragonati a quelli teatrali. Rivedendomi con gli occhi di oggi penso che all'epoca dovevo essere molto noiosa». 

La svolta della sua carriera?

«Quando ho interpretato la poliziotta della omicidi Jane Tennison nella serie tv Prime Suspect. Molti mi hanno conosciuta così e neanche sapevano che da anni recitavo in teatro. La popolarità del personaggio mi è piovuta addosso con tale forza che un giorno ho pensato che se fossi stata investita da un autobus, avrebbero scritto che era morta Jane Tennison, interpretata da una certa Mirren. Così ho detto a me stessa che avrei abbandonato la serie. Ma poi non l'ho fatto».

Lei ha vinto l'Oscar per The Queen e incarnato varie regine. Cos' hanno di così interessante ai suoi occhi?

«A dir la verità ho interpretato anche domestiche e casalinghe, ma quelle non se le fila nessuno. In realtà non è l'aspetto regale che mi interessa di questi personaggi, ma quello umano, e il fatto che Elisabetta II o Caterina la Grande, che ho interpretato in tv e mi ha fatto riscoprire le mie radici russe, sono state importanti figure politiche. Da attrice mi interessa la necessità di bilanciare vita personale e pubblica, il privato e la politica. Anche se i personaggi preferiti della mia carriera li ho interpretati per la televisione».

Quali?

«Karen, la protagonista di La primavera romana della signora Stone, che ho amato perché è una donna che affronta un tumultuoso viaggio emotivo, ed è tratto dal mio amato Tennesse Williams. E poi Ayn Rand la cui vita è raccontata in The Passion of Ayn Rand: è un personaggio affascinante, una filosofa che ha influenzato con i suoi scritti il pensiero politico in America, fatto piuttosto inconsueto per gli inizi del Novecento, quando le donne erano ai margini».

Che ne pensa del ruolo delle donne nel cinema di oggi?

«Il #MeToo ha ribaltato la prospettiva e, a differenza di quand'ero giovane, oggi ci sono molti ruoli femminili disponibili e ci si può anche trovare su un set in cui ci sono soltanto donne. Lei non può immaginare come sia stato lavorare per decenni in un'industria dominata dagli uomini: ho dovuto imparare a non dire la frase sbagliata, a flirtare se necessario o a rifiutare le avance.

È stato come camminare su una corda tesa, ma per fortuna ora è tutto finito. Ho le mie colpe per non aver fatto abbastanza per cambiare le cose». 

In che senso?

«Oggi grazie a dio ci sono molte registe, ma io stessa per molti anni ho pensato che la professione di regista fosse prettamente maschile: credevo si dovesse essere uomini per guidare il set con polso fermo. Ciascuno di noi d'altronde è figlio del proprio tempo». 

È cambiato anche il cinema in tutti questi anni?

«La cosa più sorprendente è che i film per i teenager sui supereroi Marvel siano diventati dominanti, perché non li considero frutto di un'espressione artistica ma un prodotto industriale. Si è parlato molto negli ultimi anni della morte del cinema indipendente, ma in realtà credo che ci siano ancora molti piccoli splendidi film d'autore. Certamente il cinema ha perso in parte la sua forza di strumento per raggiungere la popolarità: oggi è molto più facile diventare famosi, ad esempio grazie ai social media, ma è altrettanto semplice cadere nell'oblio. Quando Andy Warhol espresse la sua profezia sui 15 minuti di celebrità pensai fosse pazzo. Aveva ragione lui». 

Dopo tanti anni passati in questo mondo, con chi ha ancora il piacere di lavorare?

 «Se fosse ancora qui mi piacerebbe lavorare ancora con Robert Altman, perché non ho mai incontrato nella mia vita un regista come lui. Poi mi piace recitare soprattutto con giovani attori inesperti, perché sono quelli da cui imparo di più. Forse perché sono più istintivi, hanno un'energia e uno spirito non ancora plasmati dal mestiere: con loro posso tornare a ricordarmi com' ero all'inizio della carriera».

Ha mai pensato di smettere?

«Ci penso quando devo alzarmi per andare sul set alle cinque di mattina, specialmente se è inverno e fa freddo. La gente pensa che il lavoro degli attori sia tutto lustrini e red carpet, ma può essere anche molto faticoso. Mio marito (il regista Taylor Hackford, ndr) dice che non smetterò mai, forse perché quando leggo un copione mi faccio travolgere. In fondo mi affascina l'idea che il dramma sia un modo di tornare a investigare in modo sempre nuovo e talvolta originale la natura umana. Però se dovesse mai accadere, un posto dove ritirarmi ce l'ho».

Dove?

«In Salento. Abbiamo una masseria a Tricase e il tempo che trascorro lì è estremamente prezioso. Non è l'idea di un luogo idilliaco che mi attrae ma di una vita vera, fatta di cose e persone genuine. Adoro passare le serate in Piazza Pisanelli a Tricase, quando tutto il paese si riunisce: genitori, nonni, nipoti, zii... Tutti a passeggiare, mangiare una pizza, chiacchierare e sparlare gli uni degli altri. Mi affascina perché è una realtà piena di cose belle che è lontanissima da Hollywood, la promozione dei film, i festival e il mondo del cinema».

·        Hugh Grant.

Candida Morvillo per "corriere.it" il 12 giugno 2021. Era il 9 agosto 1995, Hugh Grant aveva 34 anni, Quattro matrimoni e un funerale l’aveva planetariamente reso l’incarnazione del gentleman inglese elegante e romantico, e lui e la top model Liz Hurley erano la coppia glamour per eccellenza da quando erano apparsi alla prima di quel film, lui in smoking, lei con un abito Versace tutto spille che ne fa l’icona di un’epoca. Presidente era Bill Clinton, Monica Lewinsky e il sesso orale nella Sala Ovale erano coevi ma di là da essere scoperti, però Hollywood usciva già incredula dallo scandalo di Heidi Fleiss, la maitresse che serviva le ville di Beverly Hills, e sembrava assurdo che i divi pagassero escort da ricevere a domicilio. Invece, Hugh viene fermato all’1 e 28 di notte, per strada, su una Bmw coupé, con una prostituta caricata sul Sunset Boulevard, il Viale del tramonto. Arrestato in flagranza di reato: atti osceni in luogo pubblico, o «relazione fisica impropria» per dirla con le parole che userà per sé Clinton, tempo dopo. Per settimane, l’intero mondo occidentale si chiede, al bar e sui giornali, che diavolo ci faceva un miliardario fidanzato con una dea assieme a una prostituta da 60 dollari. Mentre guardano la foto segnaletica di Hugh che resta nella memoria collettiva, tutti si domandano: A) se Liz lo lascerà o lo perdonerà; B) se la sua carriera è finita; ma anche C) se non sia tutta una montatura per fugare le voci che sia gay o D) per esportarlo meglio a Hollywood, dove vanno i machi tipo Bruce Willis o Mel Gibson e un po’ meno gli aristocratici British, essendo persino Hugh lontano cugino di Lady Diana.

Il contratto cancellato. Il tempo risponderà un po’ alla volta. E risponde anche in fretta a un interrogativo minore (per modo di dire). Questo: Estée Lauder cancellerà il contratto da sette milioni di dollari ad Hurley come testimonial di un profumo? Ovvero, se si viene tradite con una prostituta, si è ancora credibili come seduttrici? Risposta: il contratto resta, l’incidente non è da considerarsi deficit di sex appeal della tradita, ma un eccesso del fedifrago. Intanto, Liz Hurley, all’alba del 10 agosto, reagisce come se l’aristocratica fosse lei. Esce dal suo ufficio di Londra fra ali di cronisti e fotografi senza un commento, pranza con un’amica nell’elegantissimo Daphne’s vicino a Kensington Park, quindi, si rifugia nella tenuta di un amico lord. Nessun commento, men che mai sui paragoni che ovunque si fanno fra lei e Divine Brown, nome d’arte della ragazza di colore che il giorno del fattaccio compiva 26 anni. Era finita sul marciapiede non potendo pagare una bolletta da 133 dollari. Su di lei, i quesiti principali sono due: venderà un’intervista al migliore offerente o il suo silenzio agli avvocati di Grant? Risposta: vende l’esclusiva al tabloid News of the world e per l’equivalente di 265 milioni di lire si fa anche fotografare con lo stesso abito a spille di Liz. Dirà che, a Mister Grant, come voto, dà sei e che lei gli aveva proposto di aggiungere 40 dollari per una camera. L’incauto aveva risposto: «No, va bene in macchina».

Le scuse di Hugh. Intanto, Grant, rilasciato, se la cava senza pubbliche scuse, a parte un laconico «ho ferito quelli che amo», e con un’intervista tv al dissacrante Jay Leno, che gli chiede: «Che diavolo pensavi?». Risate in sottofondo. E lui: «Non lo so. Sai, traumi infantili». Sarà condannato a 1.180 dollari di multa, a due anni di libertà vigilata e a un corso di rieducazione sull’Aids. Alla fine, lui e Liz resisteranno altri cinque anni. Lui si sposerà solo nel 2018, con la produttrice svedese Anna Eberstein. Avrà 5 figli. Il modo in cui arrivano risponde inequivocabilmente ai dubbi sulla presunta omosessualità: due, infatti, li ha a mamme alterne. Ovvero: il primogenito (mentre già sta con Eberstein) dalla cinese Tinglan Hong; il secondo da Eberstein; il terzo da Hong; gli altri da santa Eberstein, altra martire del perdono a oltranza. I 15 anni che sono passati certificano anche che quella notte brava non ha stroncato la sua carriera né l’ha reso un macho da film. Hugh ha continuato a fare il bravo ragazzo in commedie romantiche come Notting Hill, Bridget Jones, Florence, senza che nessuno lo trovasse poco credibile. Tanto rumore per nulla.

DAGONEWS il 12 marzo 2021. Hugh Grant ha ammesso di aver tradito Elizabeth Hurley con la prostituta Divine Brown nel 1995 perché era arrabbiato dopo aver visto uno dei suoi film. L'attore, 60 anni, lo ha rivelato nel podcast WTF di Marc Maron, la star britannica scaricando la colpa della scappatella al suo pessimo stato d’animo dopo aver visto il film “Nine Months”: «Stavo per lanciare il mio primo film a Hollywood - il mio tempismo era impeccabile. Il mio problema era: quello era il mio primo film a Hollywood ed ero appena andato a vederlo. Il film stava per uscire una o due settimane dopo, e ho avuto un brutto presentimento. Sono andato a vedere una proiezione. Tutti erano brillanti, ma io ero così orrendo». Con l’umore che peggiorava per quella che riteneva una pessima interpretazione, Hugh ha rivelato di essere andato con Divine Brown per annegare i suoi dispiaceri: «Ero solo deluso da me stesso. Non so cosa mi stesse succedendo».

Hugh Grant, 25 anni dopo confessa: "Perché ho tradito Elizabeth Hurley con la squillo Divine Brown". Ma davvero? Roba inconcepibile. Libero Quotidiano il 13 marzo 2021. Si può tradire Liz Hurley, una delle donne più belle del pianeta, con una prostituta incontrata per caso in strada a Hollywood, tal Divine Brown? Quello di Hugh Grant è stato uno degli scandali sessuali più clamorosi degli anni 90, in grado di far impazzire Stati Uniti e Gran Bretagna, quotidiani "seri" e rotocalchi di gossip per settimane. A distanza di oltre 25 anni, è l'attore britannico a ricordare cosa lo portò a quel colpo di testa nell'estate 1995. Oggi 60enne, l'interprete di 4 matrimoni e un funerale , uno dei sex symbol del cinema mondiale, ha confessato al podcast WTF di Marc Maron di aver deciso per la scappatella a causa di una delusione professionale. Appena sbarcato nel grande cinema a stelle e strisce con Nine Months, Grant ha ammesso di essere stato travolto dalla delusione per la sua performance: "Stavo per lanciare il mio primo film a Hollywood - il mio tempismo era impeccabile. Il mio problema era: quello era il mio primo film a Hollywood ed ero appena andato a vederlo. Il film stava per uscire una o due settimane dopo, e ho avuto un brutto presentimento. Sono andato a vedere una proiezione. Tutti erano brillanti, ma io ero così orrendo". Insomma, la squillo Divine è stata una valvola di sfogo, una via d'uscita dalla frustrazione artistica: "Ero solo deluso da me stesso. Non so cosa mi stesse succedendo". Le foto segnaletiche di Grant e della Brown fecero il giro del mondo, la modella e attrice inglese Elizabethe Hurley, all'epoca sulla cresta dell'onda, letteralmente umiliata in mondovisione al fidanzato. Eppure, la supertop decise di perdonare Hugh e ricostruire la loro storia (che finì 5 anni dopo, in ogni caso). Per Divine Brown, invece, diversi mesi di celebrità, pubblicità mediatica e soprattutto soldi, piovuti in testa letteralmente "gratis". 

·        Gli Stadio.

Aveva appena iniziato a intonare "Piazza Grande" sul palco di San Benedetto del Tronto. Chi è Gaetano Curreri, il leader degli Stadio finito in terapia intensiva per infarto. La band: “Ora sta bene”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 31 Luglio 2021. Aveva appena iniziato a intonare “Piazza grande”, celebre brano di Lucio Dalla sul palco di San Benedetto del Tronto quando si è accasciato all’improvviso colpito da un malore. Gaetano Curreri, 69 anni, leader degli Stadio, è stato subito soccorso da un medico presente per assistere al concerto e poi trasportato all’Ospedale Mazzoni di Ascoli Piceno. Lì è finito in terapia intensiva cardiologica. Curreri ha avuto un infarto: ha iniziato a barcollare ma i suoi compagni se ne sono accorti in tempo e lo hanno sollevato. Ed è proprio la band degli Stadio che sui social tranquillizza i fan con un messaggio: “Siamo veramente felici di comunicarvi che Gaetano ha superato brillantemente l’infarto e adesso sta bene. L’abbiamo sentito via telefono e ringrazia tutti per l’affetto e le belle parole spese per lui. Ci uniamo anche noi ai suoi ringraziamenti che condividiamo pienamente, in queste ore difficili il vostro supporto ci ha aiutato tanto, vi teniamo aggiornati”. I compagni della band sul palco si sono accorti subito del malore e lo hanno abbracciato per evitargli la caduta. I primi soccorsi gli sono stati portati da alcuni medici, fra cui il dottor Mauro Mario Mariani, che stava assistendo al concerto. E che a Repubblica racconta: “Dopo un’ora e venti di concerto, al momento del bis, Gaetano ha detto: ‘Voglio dedicarvi piazza Grande’. Ha iniziato a cantare, poi ha iniziato a farfugliare, ha esitato, ha ripreso un pezzo di strofa e ha barcollato. Lo staff lo ha sorretto. Non ha perso mai i sensi. Sono salito sul palco: in pochi secondi aveva attorno a lui quattro medici e due infermieri. La prima cosa da fare in questi casi è sincerarsi che non ci sia un arresto cardiaco, o sono guai. Diciamo che lui ci ha facilitato il compito. Io gli ho tenuto i piedi sollevati per tutto il tempo. I soccorsi sono stati immediati. Nella sfortuna bisogna trovarsi nel posto giusto. Il reparto di Ascoli Piceno della nostra azienda è un’eccellenza, in meno di mezz’ora è arrivato dalla piazza alla sala operatoria. Mi auguro di poter festeggiare presto con lui, non in ospedale ma fra amici”. “Forza Gaetano!!! Sei una roccia!!”. Così, sul suo profilo Instagram Vasco Rossi invia il suo incoraggiamento a Gaetano Curreri, leader del gruppo bolognese degli Stadio ricoverato presso l’ospedale Mazzoni di Ascoli Piceno dopo essere stato colto da un malore la scorsa notte mentre stava concedendo l’ultimo bis del concerto che ha tenuto a San Benedetto del Tronto nell’ambito della rassegna “Nel cuore e nell’anima. Ritratti d’autore in musica e parole”. Sul social media il rocker di Zocca ha postato una foto che lo ritrae insieme al cantante bolognese, sormontata dalla scritta “Forza Gaetano!!!”

Chi è Gaetano Curreri. Nato a Bertinoro nel 1952, Gaetano Curreri è il leader del gruppo musicale Stadio di cui è cantante, tastierista e principale compositore. La sua carriera inizia nelle sale da ballo modenesi. Fondamentale è stato l’incontro con Vasco Rossi, allora giovanissimo e sconosciuto, con cui ha iniziato a collaborare, partecipando alla fondazione di Punto Radio a Bologna, una delle prime radio libere d’Italia. Alla fine degli anni settanta questo sodalizio ha portato alla realizzazione dei primi due album di Rossi: …Ma cosa vuoi che sia una canzone… (1978) e Non siamo mica gli americani! (1979), entrambi suonati e soprattutto arrangiati da Curreri. L’amicizia e la collaborazione tra i due artisti ha portato alla creazione di alcuni dei brani più famosi di entrambi. Poi nel 1979 viene scelto da Lucio Dalla per prendere parte al tour di Banana Republic come tastierista. Nella primavera del 1981 partecipa alla fondazione del gruppo degli Stadio. Ha scritto alcuni dei successi di Lucio Dalla come Noi come voi (nell’album 1983), Il Duemila e Il gatto e il re (in Dalla/Morandi). Ha scritto insieme a Lucio Dalla Il sapore di un bacio per Raf. Tra le canzoni più famose ricordiamo Un senso, Buoni o cattivi, Rewind (interpretate da Rossi), Lo zaino, Bella più che mai, La faccia delle donne (repertorio Stadio). Ad esse si aggiungono …E dimmi che non vuoi morire (per Patty Pravo, assieme a Roberto Ferri), La tua ragazza sempre, Prima di partire per un lungo viaggio, Stai ferma (per Irene Grandi), Menti brulicanti (per il Gabibbo), Benedetta passione (per Laura Pausini, assieme a Saverio Grandi), Cosa ne sai (per Anna Tatangelo), Favole della fattoria per Dolores Olioso, Vuoto a perdere (per Noemi, brano divenuto disco di platino e colonna sonora di Femmine contro maschi di Fausto Brizzi). Ha scritto inoltre alcune canzoni per Luca Carboni. Scrive con Saverio Grandi e Luca Chiaravalli la canzone “Un giorno mi dirai”, con cui gli Stadio vincono il Festival di Sanremo 2016. Nel 2019 scrive con Vasco Rossi la canzone Cosa ti aspetti da me con cui Loredana Bertè partecipa al Festival di Sanremo 2019. Sempre nel 2020, collabora con Vasco Rossi alla realizzazione del brano finalmente io portato sul palco del Festival di Sanremo 2020 e interpretato da Irene Grandi.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Curreri ha un infarto sul palco: in terapia intensiva il cantante degli Stadio. Novella Toloni il 31 Luglio 2021 su Il Giornale. Il cantante degli Stadio ha avuto un infarto mentre si esibiva in concerto con la band a San Benedetto del Tronto. Nel 2003 fu colpito da un ictus. Gaetano Curreri, cantautore e frontman degli Stadio, è ricoverato in terapia intensiva dopo un infarto che lo ha colpito, all'improvviso, durante l'ultimo live. Il pubblico lo aveva applaudito fino a pochi istanti prima. Poi lo ha visto accasciarsi a terra sul palco dal quale si stava esibendo con il suo gruppo, gli Stadio, nella seconda tappa del tour "30 anni di generazione di fenomeni" cominciato il 24 luglio scorso. Come riporta il Corriere Adriatico, il concerto stava volgendo al termine e il cantante si stava esibendo sul palco di piazza Piacentini insieme al Solis String Quartet. Poco prima della fine della live, intorno alle ore 23, Gaetano Curreri stava salutando il pubblico con il celebre brano "Piazza Grande", quando ha accusato un malore. L'artista è collassato privo di sensi tra l'incredulità dei colleghi - il chitarrista Andrea Fornili e il bassista Roberto Drovandi - che lo hanno sorretto per primi e l'apprensione del pubblico, che ha assistito attonito alla scena. Nelle prime file si è scatenato il panico ma l'intervento dei sanitari del 118, presenti all'evento per garantire la consueta copertura sanitaria, è stato immediato. I soccorritori si sono subito accorti della gravità della situazione e Gaetano Curreri è stato subito trasportato in ambulanza all'ospedale "Mazzone" di Ascoli Piceno. "Gaetano ha avuto un malore - si leggeva nelle scorse ore sulla pagina ufficiale Facebook degli Stadio - in questo momento è in terapia intensiva ed è stabile". Un messaggio dello staff, scritto nel cuore della notte, al quale sono seguite le ultime dichiarazioni di Roberto Drovandi, bassista degli Stadio. "Gaetano ha avuto un infarto che ha superato brillantemente e adesso sta meglio - ha detto il musicista all'Adnkronos - ieri sera la paura è stata tanta, ma oggi l'abbiamo sentito via telefono ed era tranquillo. Quindi siamo sicuri che si riprenderà presto. Gaetano ringrazia tutti per l'affetto manifestato". Parole scritte anche sul profilo Facebook della band per i fan preoccupati. L'artista, 69 anni compiuti lo scorso giugno, nel 2003 era stato colpito da un ictus e inizialmente in molti hanno pensato che il suo malore fosse dovuto a un problema simile. Invece Curreri è stato colpito da un infarto. L'Adnkronos riporta che, in passato il cantautore, ha sofferto di problemi cardiaci. La prognosi rimane ancora riservata ma le parole degli Stadio rassicurano sulle condizioni di Curreri. Intanto sui social colleghi, fan e amici hanno manifestato il loro sostegno al frontman degli Stadio con migliaia di messaggi. Tra i tanti anche quello di Vasco Rossi. "Forza Gaetano. Sei una roccia", ha scritto sulla sua pagina il rocker di Zocca per l'amico e collega.

Curreri operato al cuore: "Sul palco aveva difficoltà a parlare". Novella Toloni l'1 Agosto 2021 su Il Giornale. Migliorano le condizioni di salute del frontman degli Stadio. Il cantante è stato operato al cuore dopo l'infarto che lo ha colpito durante un concerto. Il malore, la paura e poi l'intervento. Le ultime ventiquattro ore per Gaetano Curreri sono state una sfida per la vita "superata brillantemente", hanno fatto sapere dal suo entourage poche ore fa. Il leader degli Stadio, dopo l'infarto che lo ha colpito mentre si stava esibendo dal vivo con la band a San Benedetto del Tronto, è stato sottoposto a un intervento chirurgico d'urgenza, che gli ha salvato la vita. A raccontarlo è stata la manager di Curreri e degli Stadio, che è stata tra le prime persone a parlare con l'artista subito dopo l'operazione. "È stato sempre cosciente - ha raccontato a Il Messaggero Laura Cordischi - l'infarto è stato preso in tempo e Gaetano l'ha superato brillantemente. Grazie a Dio ci trovavamo nei pressi di un centro d'eccellenza, i medici non hanno perso tempo". È stata la tempestività dei soccorsi a salvare Gaetano Curreri dall'improvviso malore che lo ha colpito venerdì 30 luglio sul palco di piazza Piacentini a San Benedetto del Tronto. Gli Stadio si trovavano in provincia di Ascoli Piceno per il secondo concerto del loro tour 2021. La live stava terminando e il gruppo stava per esibirsi con gli ultimi brani quando Curreri ha accusato il malore. L'artista si è accasciato sul palco di fronte a centinaia di spettatori increduli, sorretto in extremis dai suoi compagni, il chitarrista Andrea Fornili e il bassista Roberto Drovandi. A soccorrere per primo l'artista è stato il dottor Mauro Mario Mariani, angiologo e nutrizionista ascolano, che era tra gli spettatori del concerto. "Ero in seconda fila ad assistere al concerto e vedendo che aveva difficoltà di parola - ha raccontato il medico al Resto del Carlino - mi sono reso conto che qualcosa non andava e la conferma è arrivata da Gerardo Morrone, uno dei musicisti che era con lui, è mio amico, mi ha chiamato per intervenire assieme ad altri tre medici presenti. Curreri ha avuto un infarto anche se non ha mai perso conoscenza. Aveva dolore alla spalla sinistra, tipico dell'infarto posteriore".Il cantante è stato così trasportato d'urgenza all'ospedale cittadino, dove è stato sottoposto a un intervento di angioplastica. Nelle ore successive al ricovero le notizie si sono rincorse e sulle prime si è pensato che Gaetano Curreri fosse stato vittima di un ictus, come quello che lo colpì nel 2003 sempre durante un concerto. La notizia dell'infarto è stata ufficializzata nella tarda mattinata di sabato dallo staff degli Stadio attraverso i social network. Immediate le rassicurazioni: "Ieri sera la paura è stata tanta, ma oggi l'abbiamo sentito via telefono ed era tranquillo. Quindi siamo sicuri che si riprenderà presto". Subito dopo l'uscita dalla sala operatoria, infatti, Gaetano Curreri ha voluto parlare con i suoi amici e colleghi di una vita, rassicurandoli sulle sue condizioni ora stabili. Dall'ospedale di Ascoli Piceno, però, fanno sapere che Curreri resterà in osservazione per altre quarantotto ore prima di iniziare il lento recupero verso la normalità.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita. Appassionata di social media, curiosa per natura, il mio motto è "Vivi e lascia vivere", perché non c’è niente di più bello delle cose frivole e leggere che distolgono l’attenzione dai problemi

·        I Dik Dik.

Ferruccio Gattuso per leggo.it il 27 luglio 2021. Il mondo corre, e la musica ti cambia sotto i piedi. Ma ci sono cose che non cambiano, c’è musica che resta perché, quando è nata, aveva radici salde. “Siamo la band più longeva d’Europa dopo i Rolling Stones, vorrà pure dire qualcosa”, la butta lì Pietruccio Montalbetti, storico fondatore dei Dik Dik. C’è stato un tempo che Milano faceva rima con “band”: negli anni Sessanta spuntavano formazioni agguerrite, come i Camaleonti e Le Ombre. I sogni venivano da oltremanica, il sound divertiva i figli e, immancabilmente, irritava i genitori. 

Nati ufficialmente nel 1965: proprio quell’estate, a giugno, i Beatles passarono da Milano. Un involontario battesimo della musica?

Montalbetti: “Io ci andai, al Vigorelli, a sentirli. Dovetti aspettare qualche artista, poi li vidi salire. Collegarono gli strumenti, partirono col primo pezzo e non sentii più nulla. Un boato continuo per tutta l’esibizione”. 

La musica ritorna dal vivo, dopo la pandemia: qual è il vostro stato d’animo?

Giancarlo Sbriziolo detto Lallo: “Tranquillo e sereno. Aspettiamo che finisca questa piaga biblica. Per fortuna, ogni tanto in tv c’è qualche coppa d’Europa da vincere”. 

È stato un anno duro per i Dik Dik?

Montalbetti: “Siamo stati agli arresti domiciliari, come tutti. Ma abbiamo scritto canzoni nuove con il cantautore e producer Luca Nesti, e il tutto è finito nel nostro nuovo album ‘Una vita d’avventura’, sei brani inediti e cinque riletture di nostri classici”. 

La pandemia vi ha portato via Pepe Salvaderi, co-fondatore della band: come avete affrontato il momento?

Montalbetti: “Nell’unico modo possibile: andando avanti. La sofferenza la vivi dentro di te ma resti fedele alla tua storia e alla musica. A lui abbiamo dedicato l’album. Quando suono sul palco ero abituato a vederlo alla mia sinistra, ora non ci devo pensare”. 

Milano ieri e oggi: cosa è cambiato per una band?

Lallo: “Da anni non vivo a Milano, preferisco la quiete della provincia. Ma certo qui c’era tutto per un musicista: il centro era pieno di locali, noi ci esibivamo spesso al Ciao Ciao, lì incontravamo gli amici Camaleonti”. 

In che zona siete nati?

Montalbetti: “Eravamo tutti tra via Stendhal e via Foppa, lì sono cresciuti altri artisti come Cochi Ponzoni e Moni Ovadia. Le prove le facevamo all’oratorio di Santa Maria del Rosario. Era periferia, la campagna a due passi. Ecco, siamo rimasti cittadini di campagna”.

Il primo contratto come l’avete ottenuto?

Montalbetti: “In breve: da mesi riempivamo i locali. Grazie a don Angelo, lì in oratorio sono riuscito a farmi fare una lettera di raccomandazione del Monsignor Montini, futuro papa. La lettera diceva che eravamo buoni parrocchiani. Io l’ho portata alla Ricordi, che ai tempi produceva organi per le chiese. Ci permisero di fare due provini, andò bene”. 

E come si resta insieme tutto questo tempo?

Lallo: “Siamo rimasti impiegati della canzone. Mai usato droghe. E abbiamo sempre discusso per capire, mai per avere ragione”. 

Sognando la California, L’Isola di Wight: portavate i giovani con la mente altrove.

Lallo: “Erano l’equivalente degli attuali tormentoni estivi. Solo che questa è musica che è rimasta”. 

Cosa ne pensate della scena musicale attuale?

Montalbetti: “Rap e trap ci lasciano indifferenti. La tv condiziona questo tipo di musica, i talent sono una messa in scena, trionfa la legge dell’apparire”. 

Cosa ne pensate del successo internazionale dei Maneskin?

Lallo: “Bravi lo sono, ma copiano il rock degli anni Settanta. Perlomeno fanno rock, è già qualcosa”.

·        I Duran Duran.

I Duran Duran 40 anni dopo "È un disco autobiografico". Paolo Giordano il 16 Ottobre 2021 su Il Giornale. La band icona degli '80. "Allora Simon Le Bon era più riconoscibile del Papa. Ma oggi siamo più consapevoli". In fondo i Duran Duran sono un vero manifesto del pop. Hanno fatto gavetta, poi a metà degli anni '80 sono esplosi e poco dopo si sono persi rischiando di diventare l'ennesima band usa e getta. Invece sono rimasti. E oggi pubblicano un disco con un titolo che è un po' il loro riassunto: Future past, ossia passato futuro: «A questo punto ogni momento della nostra vita è un passato futuro, il nostro presente è un equilibrio tra ciò che è stato e ciò che speriamo sarà». Nick Rhodes ha l'ennesima giacca sgargiante. John Taylor un casco di capelli nerissimi. Simon Le Bon ascolta ma non risponde. Volenti o nolenti, lui è stato uno dei motori promozionali della band, talvolta addirittura più potente della musica. «Per questo disco ha scritto dei bei testi - conferma Nick Rhodes - forse più belli del solito». Tra tutti i pubblici del mondo, quello italiano è uno dei più devoti a questa band nata a Birmingham 43 anni fa e diventata in pochi anni uno di quei simboli che oggi piace tanto definire «divisivi». A metà anni '80 amavi i Duran Duran oppure li odiavi. Erano un termine di paragone senza scampo, roba da ultras, altro che guelfi e ghibellini. «A un certo punto, un importante giornale scrisse che Simon era più riconoscibile del Papa», ricorda Nick Rhodes. Un fenomeno che andava ben oltre le vendite discografiche e che si è trasformato in modello per tante boy band a venire, tutte idolatrate in tempo quasi reale da eserciti di adolescenti pronti però ad arrendersi in pochissimo tempo ad altri generali. Risultato: fine della boy band e inizio di un'altra. Invece i Duran Duran sono ancora qui. I loro brani passano in radio di fianco a quelli di ragazzini che potrebbero essere loro figli, forse nipoti. E non è solo una questione di nostalgia canaglia. Se su Google si digita il titolo del primo singolo Anniversary, i primi risultati riportano direttamente ai Duran Duran, segno che qui non si parla di vecchie glorie sessantenni (Simon Le Bon è nato due mesi dopo Madonna) ma di musicisti che hanno ancora ragione di restare sul mercato senza passare in archivio. E difatti questo disco (uscito per Tape Modern/Bmg) è stato prodotto da fior di produttori come Mark Ronson, Erol Alkan e persino Giorgio Moroder che ha firmato i suoni del nuovi singolo Tonight united: «È uno che lavora velocemente, sa quello che vuole ed è stato stimolante per noi. Tanto più che tanti anni fa a Birmingham il nostro primo concerto con Simon Le Bon si è aperto proprio con I feel love di Donna Summer, un brano firmato da Giorgio che ha cambiato la musica per sempre». Non a caso tra le maglie dei Duran Duran oggi, quarant'anni esatti dal loro primo disco omonimo, si fermano talenti come Mike Garson, ex pianista di David Bowie, e soprattutto Graham Coxon, chitarrista e anima dei Blur, sostanzialmente una delle leggende del brit pop. «I Blur sono stati uno dei gruppi più decisivi di sempre nella musica inglese. Hanno avuto una influenza che mi ricorda quella di altre band fondamentali come i Kinks. Forse per questo lui è il primo chitarrista che abbiamo coinvolto nella scrittura dei pezzi sin dai tempi di Warren Cuccurullo. E verrà anche in tour con noi». Un altro tour. Un altro dopo decine. «All'inizio - spiega John Taylor - non capivamo bene tutta la portata e gli effetti del nostro successo. Eravamo come smarriti». Ora invece. «Ora invece ci possiamo godere meglio tutto ciò che ci capita intorno, i nostri successi, le nostre soddisfazioni». E possono anche valutare la musica che gira intorno. «I Maneskin? Bravi, li abbiamo visti all'Eurovision». «Billie Eilish? Il suo pezzo per la colonna sonora del nuovo 007 è quello giusto al momento giusto e cattura davvero lo spirito di Bond»: parola di una band che nel 1985 ha scritto il brano portante di 007 - Bersaglio mobile, tra l'altro la prima canzone dell'intera serie di film ad aver raggiunto la vetta della classifica musicale americana. «Ho pure visto il documentario su Billie Eilish, favoloso» dice John Taylor a conferma che, quando sei ormai over the top, ti puoi permettere di parlar bene di chi vuoi. Capita quando hai avuto successo e lo hai metabolizzato fino a poterci ridere su. «Se penso a Simon Le Bon più famoso del Papa, ci vien da pensare che, nonostante qualche cambiamento, noi siamo ancora qui». Paolo Giordano

·        I Jalisse.

Sanremo, i Jalisse esclusi per la 25esima volta di seguito, nonostante la lettera di Mattarella: «La ripartenza non è per tutti». Laura Zangarini su il Corriere della Sera il 5 Dicembre 2021. Sfogo social per la coppia artistica unita anche nella vita dopo l'esclusione dalla gara canora. Nel maggio scorso il presidente della Repubblica aveva scritto loro una lettera di stima. Game Over. Venticinque anni dopo la loro vittoria al Festival di Sanremo con il brano «Fiumi di parole» — correva l’anno 1997, il nuovo millennio cominciava ad affacciarsi all’orizzonte —, i Jalisse, «due artigiani della musica», come amano definirsi Fabio Ricci e Alessandra Drusian — i due fanno coppia anche nella vita e non solo artisticamente —, hanno riprovato a entrare in concorso, ma nulla da fare. Esclusi. E non era la prima volta che tentavano: ci hanno provato per 24 anni con 24 canzoni diverse ma senza successo. E tutto questo nonostante la lettera di stima scritta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel maggio scorso, in cui il capo di Stato si era detto interessato a ricevere una copia del loro ultimo album. Così, in un post su Facebook, i due hanno dato sfogo a tutta la loro amarezza. «Lo scorso anno scrissi una lunga lettera sulle 24 consecutive esclusioni dei Jalisse dal Festival di Sanremo — si legge nel post —. “Rolling Stone” Italia e molte altre testate rimbalzarono la notizia, fino ad RTL News pochi giorni fa... Oggi sono 25 i brani e 25 le esclusioni dal Festival, ma questa volta lascio parlare le persone». E ancora: «E tornano in mente le pagine dello storico giornalista e vice direttore del celebre “Tv Sorrisi e Canzoni” Gigi Vesigna (nel libro con la prefazione di Antonio Ricci; “Vox populi. Voci di sessant’anni della nostra vita”, 2010, Excelsior 1881), la famosa ripartenza non è per tutti; noi Jalisse non abbiamo spazio sul pentagramma del Festival di Sanremo, ma si può parlare di noi e fare citazioni. Quale canzone abbiamo presentato quest’anno per Sanremo 2022? Un brano sulla ricerca di noi stessi e su cosa dobbiamo ricordare per tornare a essere chi eravamo: titolo “È proprio questo quello che ci manca”».

Laura Zangarini per corriere.it il 6 dicembre 2021. Game Over. Venticinque anni dopo la loro vittoria al Festival di Sanremo con il brano «Fiumi di parole» — correva l’anno 1997, il nuovo millennio cominciava ad affacciarsi all’orizzonte —, i Jalisse, «due artigiani della musica», come amano definirsi Fabio Ricci e Alessandra Drusian — i due fanno coppia anche nella vita e non solo artisticamente —, hanno riprovato a entrare in concorso, ma nulla da fare. Esclusi. E non era la prima volta che tentavano: ci hanno provato per 24 anni con 24 canzoni diverse ma senza successo. E tutto questo nonostante la lettera di stima scritta dal presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel maggio scorso, in cui il capo di Stato si era detto interessato a ricevere una copia del loro ultimo album. Così, in un post su Facebook, i due hanno dato sfogo a tutta la loro amarezza.

Dal profilo Facebook dei Jalisse il 6 dicembre 2021. Lo scorso anno scrissi una lunga lettera sulle 24 consecutive esclusioni dei Jalisse dal Festival di Sanremo. Rolling Stones Italia e molte altre testate rimbalzarono la notizia, fino ad RTL News pochi giorni fa...Oggi sono 25 i brani e 25 le esclusioni dal Festival, ma questa volta lascio parlare le persone. E tornano in mente le pagine dello storico giornalista e vice direttore del celebre Tv Sorrisi e Canzoni Gigi Vesigna (nel libro con la prefazione di Antonio Ricci). La famosa ripartenza non è per tutti; noi Jalisse non abbiamo spazio sul pentagramma del Festival di Sanremo, ma si può parlare di noi e fare citazioni. Quale canzone abbiamo presentato quest'anno per Sanremo 2022? Un brano sulla ricerca di noi stessi e su cosa dobbiamo ricordare per tornare ad essere chi eravamo: titolo “E' proprio questo quello che ci manca”, ecco il testo di Ale e Fabio per festeggiare i 25 anni dalla vittoria del Festival di Sanremo 1997 (e 30 anni di vita insieme).

Da fanpage.it il 6 dicembre 2021. Amadeus ha annunciato i nomi dei 22 Big che parteciperanno al Festival di Sanremo 2022 e anche quest'anno non c'è il nome dei Jalisse. Fiumi di parole compie 25 anni proprio nel 2022 e sarebbe stato simbolico avere proprio il duo composto da Fabio Ricci e Alessandra Drusian in gara tra i Big. Così non è stato e un'onda di affetto è arrivata a stringersi attorno alla band che, in questa intervista a Fanpage.it, chiarisce: "Non possiamo avercela con Amadeus perché in tutti questi anni sono tanti i direttori e i conduttori che si sono avvicendati. Noi vorremmo solo una risposta, perché ogni anno c'è il tormentone "dove sono i Jalisse? dove sono i Jalisse?", noi siamo sempre stati qua, non siamo spariti. E ogni anno proponiamo la nostra canzone". 

Da 24 anni non c'è spazio per i Jalisse. Perché? 

Fabio: È molto curioso. Presentare un brano all'anno, dal 1998 a oggi, fa riflettere: son tanti brani, tante pelli diverse. In 24 anni cambia tutto, ci si sposa, nascono figli, si cambia lavoro. È una vita. E allora, sì, noi una domanda ce la poniamo: abbiamo rappresentato la canzone italiana all'Eurovision Song Contest, dove siamo arrivati quarti e allora cos'è quella cosa che blocca i Jalisse al Festival di Sanremo? Ventiquattro pezzi diversi abbiamo presentato: sò tutti brutti? 

Alessandra: È una questione politica? Oddio, sarà che mangiamo il radicchio e che l'altra politica, più centrista, va per la carbonara? 

Intanto, il prossimo anno si festeggiano i 25 anni dalla vittoria di "Fiumi di parole". 

Fabio: La cosa strana è che poi, durante Sanremo, si parla sempre dei Jalisse. L'anno scorso c'erano Fedez e Francesca Michielin che hanno fatto la cover di "Fiumi di parole", qualche anno fa c'è stata Paola Cortellesi con Antonio Albanese (Sanremo 2017, ndr). Noi abbiamo i pezzi fino al 2030, basta scegliergli. Però, io vorrei che ci fosse una motivazione. Quando mandiamo il materiale, è come se non esistessimo. Siamo da non considerare. 

Alessandra: Poi non siamo solo quelli di "Fiumi di parole". Siamo quelli di tanti progetti che purtroppo non hanno avuto la stessa visibilità di "Fiumi di parole". Noi non ce l'abbiamo con Amadeus, perché in tutti questi anni sono tanti i direttori e i conduttori che si sono avvicendati. Noi vorremmo solo una risposta, perché ogni anno c'è il tormentone "dove sono i Jalisse? dove sono i Jalisse?", noi siamo sempre stati qua, non siamo spariti. 

I Jalisse si sono sempre presentati come etichetta indipendente?  

Fabio: Siamo nati indipendenti. Io e Alessandra abbiamo aperto la nostra piccola casa discografica nel 1992, quando le major non erano interessate. Abbiamo vinto e sono venuti tutti a bussare alla nostra porta, noi però abbiamo sempre voluto mantenere il nostro profilo indipendente e anche quest'anno è stato così. Non voglio pensare però che sia per questo, perché ci sono sempre molte etichette indipendenti alle quali viene dato spazio. 

Cosa ne pensate del cast di Sanremo 2022?

Alessandra: Molti nomi non li conosciamo, ma siamo felici della presenza di Massimo Ranieri, Iva Zanicchi e Gianni Morandi. Un vero colpaccio. Anche la presenza di Donatella Rettore. Diciamo che noi siamo un po' tradizionalisti, ci acchiappano di più questi nomi che sono la tradizione della musica italiana, ma ben vengano i giovani. 

Il brano che avete presentato e che è stato scartato si chiama "È proprio questo quello che ci manca". Quando sarà disponibile? 

Fabio: Stiamo lavorando sulla produzione finale. Abbiamo pubblicato già il testo e speriamo entro Natale di pubblicare anche il pezzo.

Barbara Visentin per il “Corriere della Sera” il 9 maggio 2021. «Lunedì lo spediamo, dobbiamo fare anche la dedica! Ci immaginiamo il presidente Mattarella che sale in macchina e si ascolta il nostro cd. È un sogno e continuiamo a sognare». Alessandra Drusian e Fabio Ricci, cioè i «Coniugi Jalisse», come vengono chiamati nella lettera che hanno ricevuto dal Quirinale, sono entusiasti per l'interessamento del capo dello Stato verso il loro ultimo album «Voglio emozionarmi ancora», scritto in lockdown: «Finalmente una cosa bella, pulita e umile», dice Fabio.

Come mai avevate scritto al presidente?

Alessandra: «Era un tentativo, come tanti. Nel nostro disco c'è un brano, "Speranza in un fiore", che parla dei nonni che ci sono stati strappati dal Covid. Così ci siamo detti: perché non far avere il disco a un personaggio importante, ma anche nonno sensibile come Mattarella?»

Una rivincita dopo 24 rifiuti ricevuti a Sanremo?

Fabio: «A non passare per 24 anni, uno la domanda se la fa. Anche perché la gente ci ha sempre voluto bene. Forse l'ostracismo di stampa e critica blocca un percorso».

Però voi siete sempre andati avanti…

Fabio: «Siamo una piccola etichetta indipendente, due artigiani, e non ci fermiamo. Possiamo piacere o no, ma siamo ironici e rispondiamo sempre con la musica. Se poi ci chiedono perché non siamo in classifica o a Sanremo, ce lo chiediamo anche noi».

«Fiumi di parole», con cui avete vinto nel 1997, è conosciuta da chiunque.

Alessandra: «E ogni anno viene citata. Questa volta Fedez e Francesca Michielin, che ringraziamo ancora, l'hanno inserita nel loro medley. Fabio ha scritto ad Amadeus per sapere i motivi della nostra esclusione. Ma a differenza di Mattarella, nessuna risposta. Forse non abbiamo messo il francobollo giusto».

Il successo repentino può aver penalizzato il dopo?

Alessandra: «È andata bene così. Vai a sapere se fossimo arrivati secondi o terzi cosa sarebbe successo. Siamo orgogliosi di quel che abbiamo fatto dopo, anche se con minor visibilità. Ci abbiamo sempre messo il cuore».

Tornando a quel 1997: qual è il ricordo più bello?

Alessandra: «Non dimentico nemmeno le scarpe strette. L'ansia, le chiacchiere con gli altri artisti. La prima sera nessuno sapeva chi fossimo, il giorno dopo tutti ci facevano interviste. Indimenticabile».

È vero che tenevate segreta la vostra relazione?

Fabio: «Stavamo insieme già dal '92, ma non volevamo farlo sapere per proteggere il rapporto e per parlare solo di musica. Poi, quando ci siamo sposati, l'abbiamo detto».

Come si fa a durare?

Alessandra: «Che vi devo dire, siamo fatti l'uno per l'altra. Ma meno male che lavoriamo anche insieme, perché in questo periodo in casa grazie alla musica siamo riusciti a sopportarci, un bene anche per le nostre due figlie».

E per Sanremo 2022?

Fabio: «Abbiamo un pezzo pronto. Ma siamo già stati premiati con questo interessamento del presidente».

Un appello al direttore artistico del Festival?

Alessandra: «Ascolti il brano. Se siamo idonei bene. Se no, magari ci mandi una lettera per dirci come mai. Non la pubblichiamo, giuro».

 Luca Dondoni per "la Stampa" il 7 dicembre 2021. Amadeus ha annunciato i nomi dei 22 big del Sanremone numero 72 e la lista degli scontenti scartati all'ultimo momento è lunghissima. E fra loro, anche quest' anno - ed è il venticinquesimo consecutivo - c'è il nome dei Jalisse. Fabio Ricci e Alessandra Drusian inaspettatamente trionfarono nel 1997 con Fiumi di Parole: e da allora sperano, invano, di tornarci. Invece sono diventati loro malgrado simbolo dei mali storici del Festival, reo di dare popolarità enorme a sconosciuti per poi relegarli nuovamente nell'oblio e di premiare chi poi il pubblico snobba. Ma con i Jalisse si è verificato il cortocircuito: talmente spariti, talmente episodici, da diventare famosi per questo, triste antonomasia dei reietti del festival. Fabio e Alessandra, l'anno scorso al rifiuto avete chiesto "In cosa non andiamo bene?". Quest' anno un nuovo rifiuto: qualcuno vi ha risposto?

«No, continuiamo a chiedercelo. Veniamo scartati ma poi siamo citati ripetutamente ogni qualvolta la manifestazione si avvicina. Onestamente non capiamo questa ritrosia nei nostri confronti e forse dietro c'è qualcosa di più».

Cosa, secondo voi?

«Ce lo chiediamo da 25 anni e non abbiamo risposta. Antonio Ricci ha scritto una nota nella quale ha scritto che esiste un Sanremo Prima dei Jalisse e Post Jalisse e forse è così. Abbiamo davvero scritto pezzi con grandi nomi: Maurizio Fabrizio, Luis Bacalov eppure niente. Anche questa volta abbiamo chiesto: c'è il testo sbagliato? La musica non vi piace? Ditecelo e noi correggiamo. Perché non possiamo gioire della ripartenza post Covid visto che sta ripartendo tutto»? 

Eppure avete scritto anche a Mattarella che vi ha risposto chiedendovi una copia del vostro album.

«La gente deve sapere che non siamo solo quelli di Fiumi di parole e abbiamo tante canzoni che abbiamo proposto e composto al di là di Sanremo. Lavoriamo con la musica ma a qualcuno non va bene». 

Il prossimo festival saranno i 25 anni dalla vittoria.

«E questa è una delle cose che ci fa più male». 

Che canzone avete presentato al Sanremo 2022?

«Un brano sulla ricerca di noi stessi e su cosa dobbiamo ricordare per tornare a essere chi eravamo. Il titolo è È proprio questo quello che ci manca e sembra fatto apposta per raccontare quello che ci manca per arrivare all'Ariston. Un pezzo che parla di speranza». 

Ma voi non avere mai pensato che il problema fossero i vostri pezzi?

«Sicuramente c'erano dei capolavori che ci avrebbero superato anche se ci avessero presi in gara, ma siamo certi che in qualche caso abbiamo scritto canzoni che sono poi state apprezzate all'estero e la gara l'avrebbero sostenuta bene. Ci sarebbe piaciuto farle sentire al pubblico di Sanremo». 

Le classifiche di Spotify però parlano chiaro: Fiumi di parole ha ottenuto a oggi 1 milione e 500mila ascolti, ma gente come Rkomi o Blanco questi ascolti li fa in un giorno.

«Ma quello non è il pubblico che ci vuole a Sanremo. Basta andare su internet e vedere che dopo il mio post si è scatenato un mondo di persone che ci stanno sostenendo. Sanremo si basa solo su quello che funziona su Spotify? Non credo». 

Mi permetta, ma dopo tutte queste porte chiuse, perché vi ostinate?

«Perché è il nostro lavoro è quello di fare le serate, comporre musica, scrivere per il cinema. Ci abbiamo riprovato facendosi una domanda: ma perché non ci dobbiamo riprovare»? 

Vi riproporrete anche l'anno prossimo?

«Certo. È una tradizione che deve continuare e noi vogliamo che ci si dia la possibilità di esserci. Non ci metteremo a piangere e sbattere i pugni sul tavolo ma cerchiamo di non perdere la dignità come artisti. Ci meritiamo l'Ariston e lo avremo».

Assia Neumann Dayan per "la Stampa" il 7 dicembre 2021. Il Festival di Sanremo del 1997 ci ha insegnato quello che sarebbe diventato il manifesto programmatico dei coraggiosi e degli indolenti, e cioè che «comunque vada, sarà un successo». Quel Festival vide la vittoria a sorpresa del duo dei Jalisse con il pezzo Fiumi di parole. Un grande pezzo, visto che lo abbiamo tutti in testa da 24 anni e, nonostante gli alti e bassi della carriera dei Jalisse, tutti sappiamo chi sono perché, per l'appunto, comunque sia andata è stato un successo. Quella vittoria è il nostro Oscar a Marisa Tomei per il film Mio cugino Vincenzo: i maligni dicono che ci fu un errore, un complotto, che è stato un terribile falso, ma il successo si costruisce principalmente sulla leggenda e sul pettegolezzo. E i Jalisse sono diventati leggenda. Un paio di giorni fa il duo ha pubblicato sui social il testo del loro venticinquesimo fallimento - che poi fallimento non è, visto che non si parla di altro da giorni sia sui giornali che sui social -. Hanno presentato 25 pezzi per Sanremo, un pezzo all'anno, e sono 25 anni di rifiuti. Di fatto un doppio album di «no, mi dispiace, sarà per il prossimo anno», peccato però che quell'anno non sia mai arrivato. O meglio, non ancora. Francamente non riesco a pensare nulla che più si avvicini alla musica concettuale. Ci vuole coraggio, e tigna, e mestiere per passare la vita a proporre pezzi al Festival che ti ha dato la gloria, ma che adesso non ti vuole più. Un accanimento romantico e per noi terapeutico, o perlomeno, qualcosa di cui parlare. Esiste qualcosa di più immedesimabile del fallimento? Una volta che il sogno della vita si è avverato, cosa rimane se non cercare di replicarlo? Siamo tutti il capitano Achab dietro ad una balena bianca. «Chiamatemi Ismaele», oppure «chiamatemi Jalisse». Raccontare l'assenza è una pratica molto difficile da mettere in atto, ma i Jalisse ogni anno ci fanno sapere che loro ci hanno provato, che purtroppo non ci saranno sul palco dell'Ariston, ma che avrebbero tanto voluto - o dovuto - esserci. Alimentare il ricordo del proprio successo è un meccanismo estremamente utile al lavoro, e loro non hanno mai smesso di farlo; forse hanno un ritratto in soffitta che scrive i pezzi per Sanremo al posto loro. Hanno pubblicato il testo dell'ultimo pezzo scartato: È proprio quello che ci manca, un titolo forse profetico, forse autoriferito. Parla di «dopoguerra», di «scarpe rotte», di «tavolate di polenta e sugo», di «corse a nascondino», di «genitori stanchi» e «nonni distanti», dei bei tempi andati, e a me sembra ci sia pure un chiasmo. «In questa nostra sfida quotidiana guardo allo specchio io e vedo il sogno mio e non è irraggiungibile» recita il testo, e speriamo tutti che si riferisca alla proposta di un pezzo anche per Sanremo 2023. È come un «prossimamente su questi schermi» lungo 25 anni, e sono certa che se parteciperanno ad un altro Festival la loro presenza sarà la vera notizia che arriva dalla Riviera. In un'epoca dove siamo sempre in bilico tra le teche Rai e il futuro, i Jalisse ne rappresentano l'intersezione perfetta. Li sentiamo vicini, ne vorremmo avere la costanza, e anche i ricordi: «Guarda allo specchio adesso tu, prenditi il sogno tuo che non è irraggiungibile». Solo di una cosa abbiamo certezza: che comunque vada la prossima candidatura a Sanremo, sarà un successo, almeno per noi. 

Michela Tamburrino per "la Stampa" il 7 dicembre 2021. Piero Chiambretti parla del Festival di Sanremo e nella sua voce appare il luccichio degli occhi. Pare faccia questo effetto a chi lo ha praticato e lui ne è stato parte per tre volte. La più significativa, creata a immagine e somiglianza autoriale da Chiambretti stesso, è l'edizione 1997, vinta dai Jalisse un attimo prima di sparire. 

Chiambretti, che ricordi ha di allora?

«Di quel Sanremo ricordo ogni dettaglio. Fu meraviglioso, si combinarono l'utile e il dilettevole, sul palco dell'Ariston m' innamorai di una violinista dell'orchestra, e funzionò a pieno la sit-com che avevo creato con Mike Bongiorno padre, Valeria Marini la sposa promessa e io il figlio che come un angelo pendeva dal cielo in forma metafisica. Un paradosso per chiamarmi fuori dalla messa cantata sanremese». 

Che Rai era quella che faceva il Festival?

«Una Rai che produceva in toto la manifestazione, che sceglieva conduttori e artisti. Era un festival importante dopo anni di egemonia del grande Pippo Baudo. Fui invitato a condurlo con Raffaella Carrà che all'epoca rinunciò per poi accettare l'edizione 2001 dove poi arrivai anch' io come guastatore».

Invece nel 1997?

«Non mi sentivo pronto ad ereditare una manifestazione orfana di Pippo. Allora pensai che l'unico a poter colmare quell'assenza fosse Mike Bongiorno che arrivò come un bambino felice. La Marini in quel momento era la soubrette per eccellenza capace di racchiudere nel suo capace corpo la bruna e la bionda di baudiana memoria».

Quale fu la sua canzone preferita?

«Era di Vasco Rossi e la cantava Patty Pravo, E dimmi che non vuoi morire, vinse il premio della critica, un brano bandiera capace di suggellare un festival perfetto per ascolti, tra i più alti della storia sanremese». 

Invece vinsero i Jalisse...

«Vinsero inaspettatamente per un incrocio di voti arrivati da varie giurie. Io ero nel retropalco con Mike e rimanemmo sorpresi. Oggi farebbero più strada, allora subirono l'handicap della loro immagine, insufficiente ad arrivare a un pubblico non giovane. La loro canzone, Fiumi di parole, non era né brutta e né bella ma fu crocifissa per vent' anni. Nel giorno della loro vittoria si compì la loro fine mediatica. Hanno pagato uno scotto incomprensibile. A me sono simpatici e mi è dispiaciuto».

Da poco è in libreria una sua autobiografia Chiambretti, nella quale racconta anche dei suoi Festival. Oggi che conduzione adotterebbe e le andrebbe di condurlo ancora?

«Mi piace la direzione scelta, guardare ai giovani, ai talent, a presenze provocatorie che rappresentano diverse identità, più qualche evergreen per soddisfare quelli d'età. Pippo Baudo era un purista e nel 2008 pagò il fatto di non aver guardato ai nuovi bacini di talenti. Sanremo è una scommessa che qualsiasi autore prenderebbe in esame. Nella mia vita mi sono tolto la soddisfazione per tre volte più due dopo festival. Ci posso stare».

Senza Fiorello, che cosa aspetta Amadeus quest' anno?

«Ma siamo sicuri? Io penso che alla fine Fiorello ci sarà e che non lascerà Amadeus da solo. È una tecnica già utilizzata quella del non vado per poi andare. Altrimenti, a rimetterci sarebbe soprattutto Amadeus». 

Fiumi di mitomania. Il mio Galagol, Alba che intervista Boutros Ghali e l’Italia dei Jalisse. L'Inkiesta.it l'8 dicembre 2021. Il duo che ha vinto Sanremo nel 1997 da 24 anni si lamenta delle continue esclusioni dal Festival. Senza che nessuno gli faccia notare l’ingiustizia della loro vittoria contro Patty Pravo e Carmen Consoli. La prima cosa cui ho pensato, vedendo i giornali che per giorni parlavano dei Jalisse venticinque volte scartati da Sanremo, non è stato Il Gattopardo, o Harry Potter, o Tre metri sopra il cielo; la prima cosa cui ho pensato non sono le opere che ci si pente d’aver scartato quando diventano successi clamorosi, e che ognuno di noi mitomani usa come scusa (non è che sono una pippa: è che mi rivaluteranno da morta). La prima cosa cui ho pensato è l’inverno del 1996, un anno prima dell’inverno di Fiumi di parole, la canzone dei Jalisse che nel ’97 vinse Sanremo. Nell’inverno del 1996 lavoravo come autrice di Galagol. Non l’edizione che rese famosa la Parietti, la conduttrice con lo sgabello incorporato. Quella era stata nel 1990, e da allora erano passati, per la carriera di Alba, seicento anni. Aveva condotto La piscina e Sanremo, i Telegatti e Serata mondiale: Cecchi Gori aveva comprato Tmc e aveva coperto di soldi la ormai star per tornare dove aveva debuttato. Ci sarebbero molte cose da dire di quell’edizione di Galagol, in cui c’era una valletta vestita da pornoinfermiera per l’invenzione della quale oggi ci arresterebbero tutti, ma non c’entrano con quel che riguarda i Jalisse. La conferenza stampa di presentazione del programma lasciò disperati gli adulti che lavoravano a Galagol (non me, che avevo ventitré anni e non capivo nientissimo di niente): si era parlato di tutto tranne che di noi. In particolare, Alba aveva dirottato i titoli sul fatto che nei giorni successivi, su Rai 1, avrebbe intervistato Boutros Ghali, allora segretario generale dell’Onu. Non lo intervistava nel senso proprio del termine: faceva parte d’una platea di gente famosa, e ognuno dei famosi faceva un paio di domande a Ghali – ma questo era del tutto irrilevante, come Alba sapeva già allora e io ci avrei messo anni a imparare. Non è che io non dica che ho scritto sul New York Times solo perché ci ho scritto una volta sola, no? E quindi, da venticinque anni, a ogni intervista Alba Parietti fornisce a sé stessa la legittimazione culturale che crede le serva: io ho intervistato Boutros Ghali. E quindi, da ventiquattro anni, i Jalisse possono dire che la loro unica canzone nota è ascoltatissima (a Roma è stata a lungo la musica d’attesa d’un radiotaxi: chissà quanto vale in royalties) e che è una cosmica ingiustizia – nonché un complotto, nonché un’evidenza del loro essere invisi ai poteri forti – che le successive proposte siano state tutte scartate. Qualcuno (l’ultimo per ora è Luca Dondoni, ieri sulla Stampa) prova a obiettare: ma non è che sono canzoni brutte? E loro: ma cosa dice, hanno avuto successo all’estero (che è una formula di prestigio percepito persino più vaga di «ho intervistato Boutros Ghali»). Nessuno però ricorda mai, ai venticinque volte scartati, cosa concorreva a quel Sanremo 1997. Nessuno dice mai ai due tapini che hanno tutto il diritto alla loro mitomania e a percepirsi talentuosi, ma avrebbero anche diritto a un contraddittorio con una qualche prospettiva storica (o almeno con uso di Google): scusate, ma non vi pare che la Vero amore dei Ragazzi italiani fosse vertiginosamente più orecchiabile? Ma non vi pare uno scandalo che Confusa e felice, che quasi venticinque anni dopo è ancora la canzone più squarciagolata anche da chi non è particolarmente fan di Carmen Consoli, neppure fosse arrivata nella selezione finale? E soprattutto: ma non vi vergognate come degli scippatori colti in flagranza di reato ad aver vinto contro …E dimmi che non vuoi morire, per la quale la definizione di «capolavoro» mica lo so se basta? Non vi pare che la notizia non siano le venticinque volte che non vi hanno preso ma il fatto che abbiate, santiddio, vinto contro quella Patty Pravo lì? Non dovreste ogni Sanremo, invece che riproporre una nuova canzone per il concorso, come rituale andare a casa della Strambelli (ma pure a casa di Vasco e di Curreri, che le avevano scritto il capolavoro) a scusarvi? «Cerchiamo di non perdere la dignità come artisti», dicevano ieri i Jalisse, fingendo di non sapere che l’ambiente musicale è (particolarmente quest’anno) pieno di scartati da Sanremo assai più famosi di loro, i quali però si guardano bene dal fare post, comunicati, e raccontare «Mattarella ci ha chiesto il disco» (povero Mattarella, tirato in mezzo a tutte le stronzate di questo povero paese, e pure fatto sembrare uno che i dischi non se li compra se non glieli omaggiano). Insomma: gente che non perde la dignità. E che però, contando sulla forza delle canzoni (non è che se ti scartano a Sanremo il tuo pezzo non possa poi uscire ed essere un successo, eh), e tacendo sulla bocciatura sanremese in questo dignitoso modo, non è come i Jalisse ogni sei mesi sui giornali senza aver raggiunto alcun traguardo artistico (l’ultima volta era appunto stata la lagna «Mattarella ci ha chiesto il disco ma a Sanremo non ci vogliono», a maggio). Al povero Dondoni che ieri faceva presente «Le classifiche di Spotify però parlano chiaro: Fiumi di parole ha ottenuto a oggi 1 milione e 500mila ascolti, ma gente come Rkomi o Blanco questi ascolti li fa in un giorno», i mitomani che quest’epoca si può permettere non rispondevano «anche Lucio Dalla fa pochi streaming, ma è la storia della musica», macché. La risposta faceva così: «Ma quello non è il pubblico che ci vuole a Sanremo. Basta andare su internet e vedere che dopo il mio post si è scatenato un mondo di persone che ci stanno sostenendo». Cioè: la gente non ci clicca su Spotify ma ci cuoricina su Instagram. Ascoltarci col cazzo, ma solidarizzare son tutti pronti. Avessero un qualche talento per la comunicazione, imparerebbero da chi sa durare anche molto dopo aver finito le cose da dire: se non Guterres, dovrebbero fare in modo d’intervistare Mattarella. Altro che «ci ha chiesto il disco»: abbiamo fatto un’intervista a Mattarella su Zoom, in sottofondo si sentiva che ci stava ascoltando su Spotify.

DAGONEWS l'8 dicembre 2021. C’è un complotto contro i Jalisse? Sono 25 anni che vengono sistematicamente esclusi da Sanremo. La colpa è dei testi (non memorabili), delle melodie (in linea con la media sanremese), del nome Jalisse (ma che vor dì)? Dopo Ustica, l’altro mistero d’Italia restano loro, come sottolineò Aldo Grasso. Nel ’97 vinsero il festival con Fiumi di parole. la scelta di canzoni e cantanti fu di una Commissione formata da Pino Donaggio, Giorgio Moroder e Carla Vistarini. Loro superarono decine di selezioni e alla fine ottennero una “carrettata di voti”. Marino Bartoletti nel suo “Almanacco del festival di Sanremo” scrive: "E’ chiaro che l’anatema Jalisse (in fondo immeritato perché gli interpreti erano bravi e la loro canzone decorosissima) segnò l’edizione del Festival ‘97 (...) Il vero problema dei vincitori fu che tra le canzoni sconfitte ce ne fu una che sarebbe passata alla storia: “E dimmi che non vuoi morire”. Un trittico micidiale: Vasco Rossi e Gaetano Curreri come autori, Patty Pravo come interprete..." Antonio Ricci, nella prefazione del libro “Vox populi” di Gigi Vesigna, individua con i Jalisse uno spartiacque nella storia del Festivalone: “Sanremo si divide in A.J. e P.J., Ante Jalisse e Post Jalisse. Il Sanremo prima di loro era torbido e effervescente. Vincere era importantissimo, si vendevano dischi e partivano tournee per tutta l’Italia, feste patronali comprese. Il Sanremo dopo i Jalisse non fu più lo stesso. I vincitori di quell’anno, invece di essere lanciati verso un radioso futuro, evaporarono. Da allora vincere Sanremo non fu più importante. Dopo due mesi il cantante vincitore viene dimenticato. La manifestazione si è trasformata da gara canora a trasmissione televisiva. Ora conta chi la presenta e che ospiti riesce a convocare…” Fabio Ricci, produttore indipendente dei Jalisse e componente con Alessandra Drusian del mitologico duo, rivela a Dagospia tutto il suo stupore: “Sono 25 anni che ci chiediamo il motivo dell’esclusione”. Pagate il fatto di avere un’etichetta indipendente nel periodo della tirannia delle major? “Non riusciamo a capirlo. Siamo piccoli artigiani della musica. Questa mancanza di considerazione ci fa riflettere”. Amadeus? “Non ce l’abbiamo con lui, un piatto di pasta lo mangiamo lo stesso”. Festeggiate le nozze d’argento con i niet di Sanremo, è il momento di voltare pagina? “Assolutamente no, abbiamo già pronto il pezzo per il prossimo anno”

Sanremo, il complotto contro i Jalisse: spuntano gli indizi. Dagospia svela la vendetta? Il Tempo l'8 dicembre 2021. L'hanno "festeggiata" come se fosse un anniversario importante, i Jalisse, la venticinquesima esclusione dal Festival di Sanremo dopo il trionfo a sorpresa nel 1997 con il brano "Fiumi di parole" e il successivo, dignitosissimo, quarto posto all'Eurovision Song Contest di Dublino. Un ostracismo incomprensibile per il duo di marito e moglie, Fabio Ricci e Alessandra Drusian, che da allora sono stati fatti fuori dalla musica che conta. Ebbene, ora spunta l'ipotesi del complottone. Insomma, le porte dell'Ariston restano chiuse ai Jalisse per colpa "dei testi (non memorabili), delle melodie (in linea con la media sanremese), del nome Jalisse (ma che vor dì)?" scirve Dagospia, ma dietro il "Mistero" potrebbe esserci dell'altro. Basti pensare a quanto scrisse il critico televisivo Aldo Grasso: "Dopo Ustica, l’altro mistero d’Italia restano"i Jalisse. Il sito va alla ricerca degli indizi sulle cronache dell'epoca del trionfo di Fiumi di parole e tra le memorie degli osservatori. Come il giornalista sportivo e autore Marino Bartoletti, esperto del mondo sanremese: "E’ chiaro che l’anatema Jalisse (in fondo immeritato perché gli interpreti erano bravi e la loro canzone decorosissima) segnò l’edizione del Festival ‘97 (...) Il vero problema dei vincitori fu che tra le canzoni sconfitte ce ne fu una che sarebbe passata alla storia: 'E dimmi che non vuoi morire'. Un trittico micidiale: Vasco Rossi e Gaetano Curreri come autori, Patty Pravo come interprete...". Insomma una vendetta indiretta per aver rotto le uova nel paniere della canzone. Il papà di Striscia la notizia Antonio Ricci nella prefazione di un libro scrive senza fraintendimenti: “Sanremo si divide in A.J. e P.J., Ante Jalisse e Post Jalisse. Il Sanremo prima di loro era torbido e effervescente. Vincere era importantissimo, si vendevano dischi e partivano tournee per tutta l’Italia, feste patronali comprese. Il Sanremo dopo i Jalisse non fu più lo stesso. I vincitori di quell’anno, invece di essere lanciati verso un radioso futuro, evaporarono. Da allora vincere Sanremo non fu più importante. Dopo due mesi il cantante vincitore viene dimenticato. La manifestazione si è trasformata da gara canora a trasmissione televisiva. Ora conta chi la presenta e che ospiti riesce a convocare…”

Da video.corriere.it il 14 dicembre 2021. «Io valuto la canzone e non ritenevo la loro adatta al mio Festival. Niente contro i Jalisse, così come niente contro gli altri 320 esclusi», ha detto Amadeus, direttore artistico di Sanremo. Il conduttore non ha usato mezzi termini per commentare l'uscita pubblica dei due artisti, secondo loro «vittime di pregiudizio» ed esclusi da Sanremo per il 25esimo anno di fila. «Credo - ha aggiunto Amadeus - che la cosa più importante sia quella di lavorare e non di lamentarsi perché la lamentela non rende mai merito alla storia di un cantante. Mi hanno sempre insegnato di lavorare sodo e a non pensare che ci sia sempre un complotto contro qualcuno. Lavora e magari le cose possono migliorare». Solo così «magari in futuro ci sarà occasione per loro».

Da leggo.it il 14 dicembre 2021. Una canzone finalista di Sanremo Giovani non sarebbe inedita, perché già presentata a The Coach trasmissione della rete televisiva 7 Gold. Ne è certa «Striscia la Notizia» che questa sera a “Rai Scoglio 24”, con l'inviato Pinuccio ha mostrato il filmato del video inviato da Angelica Littamè per la partecipazione al Festival comparandolo con il video dell'esibizione della cantante mandata in onda dall'emitennte 7 Gold. Il brano "sotto accusa" è «Cazzo avete da guardare». Ad intervenire nel servizio di «Striscia la Notizia» è Luca Garavelli produttore di The Coach che in collegamento spiega: «L’esibizione di Angelica è stata registrata il 21 luglio ed è andata in onda tra la fine di ottobre e l’inizio di novembre. C’erano concorrenti che si erano appena esibiti e altri in attesa dell’esibizione e tutto lo staff, 60-70 persone almeno». L’inviato sottolinea proprio il fatto che quando Angelica Littamè ha cantato, nello studio erano presenti una settantina di persone: per questo secondo Pinuccio non potrebbe essere considerato un inedito, come da regolamento. «Pinuccio sgancia una vera e propria bomba su Sanremo Giovani, il concorso canoro condotto da Amadeus in cui 12 cantanti si contendono due posti tra i big in gara al Festival di Sanremo 2022 (1-5 febbraio). Tra i finalisti del programma (l'ultima puntata è prevista in diretta su Raiuno mercoledì 15 dicembre) - annuncia «Striscia la Notizia» - c’è la cantante Angelica Littamè con “Cazzo avete da guardare”, brano che per regolamento dovrebbe essere inedito ma, come rivelato dal Tg satirico di Antonio Ricci, era in realtà già stato presentato nella trasmissione The Coach della rete televisiva 7 Gold». 

Chi ha paura dei Jalisse? Massimo Gramellini su Il Corriere della Sera il 9 dicembre 2021. So bene che esistono questioni più importanti, ma sono anche più ansiogene, per cui oggi mi domando come da titolo: chi ha paura dei Jalisse? In preda a un attacco di masochismo acustico, ho riascoltato il tormentone che li portò a sbancare il Festival del 1997: «Fiumi di parole tra noi - prima o poi ci portano via». Altro che «prima o poi». Li hanno portati via subito, scaraventandoli su uno scoglio lontanissimo da Sanremo. Sono venticinque anni che provano a tornarci, ma niente. 

Perché questo accanimento reciproco, i Jalisse nel mandare fiumi di canzoni e il Festival nel dire «ripassate l’anno prossimo, che tanto prima o poi…» 

Venticinque anni: nello stesso lasso di tempo Berlusconi è riuscito a diventare simpatico persino a Conte. Che cos’avranno fatto i Jalisse di così terribile? Hanno negato una plusvalenza alla Juve? Hanno parlato male di Greta Thunberg? Hanno riso in faccia a Cacciari? 

Qui da noi va in prescrizione qualsiasi misfatto, possibile che solo la loro vittoria non sia stata ancora smaltita? L’autore dei testi non sarà De André, né Lennon quello delle musiche, ma in questi venticinque anni abbiamo sentito di peggio, dai rapper stonati ai tromboni trombati. Oltretutto minacciano di insistere, dicono di avere già pronte canzoni per i prossimi otto Sanremo. Andrebbero invitati anche solo per evitare che ne scrivano altre. 

Propongo una petizione per i Jalisse al Festival di cui non vorrei mai essere io il primo firmatario.

Dagospia il 5 gennaio 2021. Da “Pigiama Rave”. Jalisse, dopo l'ennesimo rifiuto al Festival di Sanremo, hanno scritto una lettera aperta per raccontare lo sgomento nell'essere stati rifiutati per 24 edizioni consecutive. Così a Pigiama Rave, in pigiama dalla loro camera da letto, ironizzano sul fatto, e alla provocazione di Raimondo ("Ce l'avete con Orietta Berti, come Tenco?") rispondono: "noi adoriamo Orietta Berti, noi alla nave di Sanremo rispondiamo con la nostra arca di Noè, con il nostro pubblico di peluche, quest'anno il Sanremo ce lo facciamo in casa". Ma alla domanda di Saverio Raimondo "24 canzoni rifiutate in 24 anni..che cosa ci siamo persi?" i Jalisse diventano i vincitori morali di Pigiama Rave cantandole... "tutte"!

Gianmarco Aimi per rollingstone.it il 5 gennaio 2021. Nel 1997 vinsero il 47° Festival da outsider, tanto che quella circostanza è considerata ancora oggi un vero e proprio “mistero Sanremo”, o forse un caso da non replicare visti gli interessi in gioco. Era ancora una edizione in cui il vincitore delle nuove proposte gareggiava di diritto fra i big e loro, a differenza di tutti gli altri, superarono decine di selezioni e alla fine ottennero una “carrettata di voti” che li fece entrare nella storia della kermesse con Fiumi di parole. Nonostante questo, però, la carriera dei Jalisse – ovvero i coniugi Fabio Ricci e Alessandra Drusian – non è andata come in molti, loro per primi, si sarebbero aspettati. A 24 anni di distanza e altrettanti rifiuti (sempre con canzoni diverse), hanno deciso di sfogarsi attraverso una lunga lettera indirizzata, non solo agli organizzatori di Sanremo per avere un’altra possibilità, ma anche a tutti coloro che da tempo ironizzano su quella vittoria così inusuale. Visto che, fra moltissimi, sono i pochi (forse gli unici?) ad aver raggiunto il podio grazie al voto popolare e senza essere sostenuti da grandi etichette o sponsor illustri – i social o i talent allora non esistevano neppure – forse sarebbe almeno il caso di rispettarne l’impresa, che rimane straordinaria. Di seguito il loro lungo messaggio.

Jalisse a Sanremo? 24 volte no! Anche stasera, come da 24 anni, Alessandra e Fabio hanno seguito la tv per scoprire i nomi dei big che parteciperanno al prossimo Festival di Sanremo 2021! Anche stasera, come da 24 anni, con 24 canzoni diverse presentate, i Jalisse non sono stati scelti tra gli artisti che saliranno su quel palco. Chissà, ci aspettavamo una sorpresa dell’ultimo minuto, del resto siamo sognatori. Niente da fare, non riusciamo ad azzeccare una canzone che possa interessare al Festival! Saranno i testi poco validi? Le musiche brutte? La voce? Il nome Jalisse? O cosa? Chi ce lo dice per favore? Permettete prima che mi presenti: mi chiamo Fabio Ricci, musicista/autore/compositore/produttore indipendente dei Jalisse fin dal 1994, quando nessuna casa discografica credeva nella musica di Alessandra e Fabio e per questo decidemmo di essere voce fuori dal coro, liberi come la musica, di investire su di noi e di creare la nostra strada. Anni di sacrifici fatti con l’amore puro per quelle note e quelle parole che volevamo far conoscere al mondo, inseguendo in coppia un sogno di vita e di palco. Amo la musica suonata da quando avevo 13 anni, con la prima tastierina Bontempi per imparare, poi il primo sintetizzatore Crumar DS2 appena 8 mesi dopo per condividere il sogno con band di ragazzi giovanissimi nelle cantine romane, tra lo studio da geometri e l’aiuto nel bar di via Dei Prati Fiscali a Roma dai miei. Era fine anni ’70 e primi ’80. Poi il primo disco con i Vox Populi nel 1985, l’incontro con Alessandra nel ’90… Ma i sacrifici non si fanno solo da giovani, si fanno sempre e per una buona causa, come quando diventi padre di due splendide figlie e trovi nella famiglia una grande forza, da attingere e da difendere, compreso il Sacro Santo lavoro! Quella notte del 22 febbraio 1997 Alessandra e Fabio hanno creato un caso irrisolto, “un mistero”, come scrisse Aldo Grasso, come disse Baudo nel 2007 (a proposito ha scoperto lui la Drusian a GranPremio nel ’90 e i Jalisse nel ’95 a Sanremo Giovani) ma non per tutti, pare… e ciascuno ha formule magiche diverse. Sarà perchè non è ammissibile che i Jalisse arrivino e sorpassino tutti, come hanno testimoniato serenamente alcuni coach a Ora o mai più durante la nostra prima esibizione o come scriveva nel suo libro il caro Gigi Vesigna o come prefazionava allo stesso Antonio Ricci: «Sanremo si divide in Ante Jalisse e Post Jalisse». E tanti altri che hanno detto la loro. Ma Vox Populi, Vox Dei, ancora oggi è il popolo che conta e che canta e i Fiumi di parole ci portano via. Noi non vogliamo far parte del mistero, vogliamo chiarezza e lavoro! Quindi ogni anno, con il cuore impavido, da 24 anni, ci incolliamo alla tv, mano nella mano e come due sognatori innamorati, come quando aspetti fino a tardi l’arrivo di Babbo Natale o quando sei l’ultimo di una lunga fila e speri che sia il tuo turno e invece ti chiudono la porta. Noi ci auguriamo che tra quei nomi appaiano anche Alessandra e Fabio, con la nuova canzone presentata alla commissione, puntualmente, come ogni anno. Una volta presentammo Linguaggio Universale ispirata ad un saggio della Professoressa Rita Levi Montalcini; una volta Tra rose e cielo scritta con il poeta Younis Tawfik e arrivata fino in Iraq, a Mosul; una volta con E se torna la voce su musica di Maurizio Fabrizio realizzata durante la costruzione di una sala prove nel carcere di San Vittore con la Fondazione Mike Bongiorno; e poi uno splendido brano scritto con gli alunni di una scuola Aquilana dopo il terremoto nel 2010 con sostenitori di grande importanza, poi un brano stile musical con il grande Maestro Luis Bacalov e tante, ancora tante, tante altre. Fino allo scorso anno, quando presentammo Voglio emozionarmi ancora (che attualmente stiamo promuovendo con l’album omonimo appena uscito) dove lanciamo il nostro ringraziamento al pubblico per averci accolto nelle loro case dal 1997 ad oggi. Anche questo brano non venne accettato. E poi c’è quella di quest’ anno, che probabilmente faremo uscire come le altre. Ecco, tante canzoni scritte e pubblicate senza aver saputo neanche le motivazioni delle 24 esclusioni dal festival di Sanremo di 24 edizioni. Sì, perché se sapessi le motivazioni migliorerei il tiro per essere accettato, ma niente! E non voglio farmi trascinare dall’idea che per partecipare bisogna essere amici di qualcuno o gestiti da qualcun altro. Effettivamente sentire che tutti sono amici crea un certo imbarazzo, ma leggo spesso dalle interviste che i brani accettati al Festival sono tutti assolutamente bellissimi, di valore, altrimenti a che servirebbe ascoltarli tutti? E allora voglio capire! Perché questo stato di non considerazione fa male a chi fa musica seriamente, a chi investe tempo e soldi, a chi fa sacrifici, a chi ha chiesto ai propri genitori di sacrificarsi per arrivare ad un sogno, a chi svolge con professione ed amore il proprio lavoro, a chi rappresenta (nel suo piccolo) la musica italiana all’estero, mentre a casa, in Italia, deve sentirsi al centro di un “Giallo Sanremese”, come un episodio da non replicare quel ’97, un vincitore da dimenticare, una forma di emarginazione… vigliacca! Eppure, abbiamo vinto il 47° Festival di Sanremo, due premi, uno agli autori, grazie a quel pubblico che ci ha votati, con quelle testimonianze spontanee che ancora ci arrivano, di aver avuto “carrettate di voti quella sera”. Con il sottofondo ancora oggi, della gente che fischietta Fiumi di parole e non solo in Italia, ma in tutto il mondo! E ne abbiamo avuto di conferme grazie alla nostra partecipazione a Ora o mai più con Amadeus e a Tale e quale Show con Carlo Conti, che ci hanno permesso di tornare in prima serata RAI e di ritrovare il nostro pubblico televisivo italiano che non abbiamo mai perso, che ci ha cercato. Eppure, ci siamo messi in gioco diverse volte come a The Voice, con Alessandra padrona di se stessa senza cadere nelle trappole della disperazione che fa tanto televisione d’effetto. Ma il nostro luogo congelato è il Festival di Sanremo! Sicuramente ci sono tantissimi artisti esclusi da Sanremo, anche più bravi dei Jalisse, certo, ma credo che Alessandra e Fabio possano meritare di tornare su quel palco che ha dato (dal pubblico) e tolto (dagli addetti ai lavori), perché ogni volta che arriva il Festival i primi ad essere citati come cattivo esempio di una vittoria non meritata sono proprio i Jalisse. Meteore, scomparsi, desaparecidos… I primi della lista nei titoloni. E questo ancora una volta ci farà male! Invece di offrire una nuova opportunità ai Jalisse di salire su quel palco che li ha visti trionfatori 24 anni fa, si offre la guancia ai detrattori che continueranno a schiaffeggiare i Jalisse spiaccicandoli nei redazionali con titoloni denigratori. Senza parlare di alcuni speaker radiofonici che puntualmente, ma solo durante il Festival, metteranno in sottofondo quel Fiumi di parole che condirà puntualmente battute semi-comiche. Ed è difficile andare controcorrente! Come un sacco pieno di gioie portato sulle spalle che viene bucato con centinaia di lame-parole appuntite. E questo anno ci credevo particolarmente! Per i Jalisse tornare a Sanremo sarebbe la ripresa della nostra attività che qualcuno ha voluto spesso osteggiare per cattiveria o gelosia o chissà cos’altro, questa importantissima manifestazione in questo momento storico di grandi difficoltà, dove il lavoro fa fatica a riprendere. Se deve essere una rinascita, deve essere per tutti quelli che la richiedono; devono ripartire tutti quelli che chiedono lavoro!!! Un po’ per ciascuno. Anche per i Jalisse! Sarebbe anche un modo per far capire agli addetti ai lavori che i Jalisse sono due artisti come tanti altri che si impegnano a rispettare la musica e chi la ascolta. Due artisti che hanno vinto il 47° Festival di Sanremo grazie al pubblico, che sono arrivati quarti all’Eurovision Song Contest, che stanno producendo canzoni, che girano il mondo e fanno i loro concerti incontrando la gente. Piccoli artigiani della musica che vogliono essere considerati come una qualsiasi attività produttiva italiana, seria, professionale, impegnata anche nel sociale con convinzione e non per maschera. Due persone che hanno fatto della musica il loro impegno di lavoro quotidiano, autonomo, che fanno parte di quel comparto che con fatica, ma con grande passione non molla e continua a impegnarsi. Come tanti altri, certo, che credono in questo settore ancora più danneggiato oggi da questa pandemia. Da sempre si sente parlare di pressioni, raccomandazioni, spinte, minacce, forzature da parte di discografici, politici, produttori, sponsor… Questo fa sempre più male anche per chi organizza, suppongo. Io ed Alessandra abbiamo sempre insegnato a noi e alle nostre figlie il rispetto, la gentilezza, l’educazione, valori troppo spesso ricambiati con quel fango lanciato da alcuni, al quale abbiamo risposto e risponderemo con il nostro sole, ma con fermezza. Con il sorriso e con l’unica forza che possediamo: la musica! I nostri follower, chi ci ascolta e ci segue come le Jalissetribù sono persone vere, sincere, che si avvicinano a noi senza essere acquistati a pacchetti per fare numero. Quindi avanti, Ale e Fabio ci sono, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Proseguiamo a promuovere il nostro album che parla di amore, di sentimenti, di cose belle della vita, di indipendenza, sperando di trovare persone che oltre alle orecchie per scegliere i Jalisse, ci mettano anche il cuore! Voglio emozionarmi ancora dice il nostro nuovo album di inediti…

”Sono io

su una fotografia

ho fatto un sogno insieme a te

fermando il tempo dentro a una canzone

…lasciando fiumi di parole”

Mando il mio sincero in bocca al lupo ai colleghi che saliranno su quel palco del Festival 2021, felice per chi riprende il lavoro. Alla stampa, alla tv, alle radio invio un messaggio: se non vedrete i Jalisse ancora sul palco di Sanremo 2021 non sarà perché sono spariti o perché hanno cambiato lavoro, ma ancora una volta perché non è stata data loro l’opportunità! Serene feste per tutti.

·        I Gemelli di Guidonia.

Pacifico Gino ed Eduardo Acciarino, i gemelli di Guidonia chi sono? Newsitaliane.it il 18/10/2021. Pacifico, Gino ed Eduardo Acciarino sono i tre fratelli che Fiorello ha battezzato “Gemelli di Guidonia” e che oggi vengono identificati con Orietta Berti, Fedez e Achille Lauro. Nella prima puntata stagionale di Tale e Quale Show, in onda su Rai 1, hanno interpretato il trio dell’estate lasciando tutti a bocca aperta e anche nelle successive stanno continuando a ricevere meritati complimenti da parte della giuria e doveroso apprezzamento da parte del pubblico. «La nostra partecipazione rappresenta una novità perché siamo il primo gruppo in gara e dietro alle nostre esibizioni c’è una doppia sfida, da parte nostra e di chi lavora dietro le quinte: valiamo per uno, ma siamo tre» racconta il fratello maggiore, Pacifico. Gli fa eco Gino: «Sono Fedez, per intenderci», premette. E continua: «Gli autori hanno meno scelta per i personaggi da assegnarci: trovare sempre un trio non è facilissimo. Ma noi ci stiamo divertendo tanto». Lo conferma Eduardo, ovvero Achille Lauro: «Per me in particolare è divertente vedermi ogni volta con una faccia diversa. Emi piace l’atmosfera che c’è dietro le quinte». Napoletani di nascita, come arrivate a Guidonia? Eduardo: «Siamo nati a Caserta, ma le nostre origini sono napoletane. Ci siamo trasferiti a Guidonia quando eravamo piccoli perché nostro padre, che oggi è in pensione, lavorava in Aeronautica proprio all’aeroporto di Guidonia e siamo cresciuti lì. Io mi sono trasferito a Roma, i miei fratelli stanno ancora a Guidonia». Definirvi cantanti è un po’ riduttivo, perché siete intrattenitori a trecentosessanta gradi. Come immaginate la vostra carriera in futuro? Eduardo: «Adesso alterniamo la Tv alla radio, che è una delle nostre passioni più grandi. È vero che non ci limitiamo a cantare e il nostro vero spirito esce fuori proprio a Rai Radio 2, a Tre per 2, il programma che conduciamo il sabato e la domenica: lì viene fuori il gioco, le gag, le imitazioni. È quello che sogniamo di fare anche in futuro, magari in Tv, con uno show tutto nostro. Sarebbe un sogno». Siete stati scoperti da Fiorello: come ha commentato le vostre esibizioni del venerdì sera? Pacifico: «Lui ci segue e questo ci fa piacere perché ci dà consigli e tante dritte utili. È stato molto contento quando ha saputo che avremmo partecipato. La nostra prima esibizione lo ha divertito molto e il giorno dopo ci ha mandato messaggi con grandi risate. Poi vuole sapere quali altri personaggi faremo e ci dice sempre la sua». Come stanno vivendo questa avventura i vostri genitori? Gino: «Io abito nello stesso palazzo dei miei, al piano di sotto. La sera in cui ci siamo trasformati nei Bee Gees mia madre mi ha mandato un messaggio con scritto: “Ci sarebbe stato l’umido da buttare, ma mi sembrava brutto farlo buttare ai BeeGees, quindi l’ho fatto io”. Questo per dire che a casa non è cambiato niente se non che l’umido lo buttano i miei al posto mio. Scherzi a parte: sono molto felici ma anche stavolta vivono con grande equilibrio e altrettanta discrezione questo nostro momento. Anche in passato non si sono mai esaltati troppo per i nostri successi né buttati giù per i momenti più difficili, che pure non sono mancati. Anche le nostre compagne hanno lo stesso atteggiamento». Quindi siete fidanzati? Con chi? Pacifico: «Facciamo prima a dire che l’unico single sono io. E faccio un appello alle donne che leggono…». Eduardo: «Io convivo con Francesca, a Roma. Gino non convive. La sua fidanzata si chiama Carmen». Fratelli e colleghi: era questo che volevate fare da piccoli? E avere un legame di sangue è un valore aggiunto per la vostra professione? Pacifico: «Sì, è quello che abbiamo voluto fare da sempre e abbiamo capito che poteva essere la strada giusta quando abbiamo iniziato ad avere i primi riscontri da parte del pubblico. Da parte dei primi pubblici che abbiamo avuto. Farlo insieme ci spinge a continuare a farlo». Gino: «Ci confrontiamo spesso sugli step da affrontare e il legame familiare è di certo un valore aggiunto. Tra noi c’è un sostegno reciproco costante e quando ci mandiamo a quel paese, il giorno dopo è già passato». È questo il punto in cui volevate essere, oggi, quando eravate agli esordi? Eduardo: «Al momento siamo su via Nomentana e stiamo andando alle prove». Gino: «Scherzi a parte, al di là del fatto che è vero che stiamo andando alle prove. Sono serio: in questo momento stiamo facendo quasi tutto quello che abbiamo sempre sognato di fare. La radio, intanto. Poi Tale e Quale Show, che è una trasmissione importante che ci sta dando grandissime soddisfazioni. Sicuramente siamo nel momento più bello e più produttivo, forse più di quanto non avremmo immaginato».

·        I Pooh.

Da corriere.it il 6 settembre 2021. «È con straziante dolore che vi comunico che questa mattina mia moglie Paola ci ha lasciati dopo una lunga malattia». Con queste parole Dodi Battaglia, chitarrista dei Pooh, ha annunciato la morte della moglie Paola Toeschi. I due erano sposati dal 2011. Nel 2005 è nata la figlia della coppia, Sofia. A Toeschi, che aveva 51 anni, era stato diagnosticato un tumore al cervello nel 2010.

Ariana Ascione per il Corriere.it il 9 settembre 2021. «Se n’è andata un bella persona, una persona per bene, una grande immensa anima». Così Dodi Battaglia ha ricordato sua moglie Paola Toeschi, scomparsa il 6 settembre a 51 anni dopo una lunga malattia. I due erano sposati dal 2011 e nel 2005 avevano avuto una figlia, Sofia. «Ho conosciuto tante persone nella mia vita, ma Paola era straordinaria. E bellissima. Tanto è vero che le ho chiesto di diventare mia moglie» ha detto il chitarrista dei Pooh, commosso, nel corso del funerale celebrato ieri pomeriggio nella Collegiata di San Bartolomeo a Borgomanero, nel novarese. A dare l’ultimo saluto a Toeschi erano presenti gli altri Pooh e tante persone comuni. «Abbiamo vissuto insieme un sogno fantastico per altri cinque anni, nella nostra casa di campagna — ha raccontato Battaglia durante la cerimonia funebre —. E poi la malattia, quella maledetta malattia contro cui ha lottato per dieci anni con forza e positività». Dodi ha parlato anche degli ultimi giorni vissuti insieme alla moglie: «Ho passato gli ultimi giorni della sua vita abbracciato a lei, baciandola e parlandole dolcemente. Le ho chiesto perdono, se a volte ho commesso degli errori. Mi ha perdonato e mi ha stretto a lei in un abbraccio dicendomi “ti voglio bene”. Sarai per sempre nel nostro cuore».

L'annuncio del chitarrista. Lutto per Dodi Battaglia dei Pooh: è morta a 51 anni la moglie Paola Toeschi. Antonio Lamorte su Il Riformista il 6 Settembre 2021. Tragedia per Dodi Battaglia, il chitarrista dei Pooh: è morta Paola Toeschi, la moglie, dopo una lunga malattia. Aveva 51 anni ed era sposata con l’artista dal 2011. A dare l’annuncio proprio l’artista sui suoi canali social: “È con straziante dolore che vi comunico che questa mattina mia moglie Paola ci ha lasciati dopo una lunga malattia”. Alla donna era stato diagnosticato nel 2010 un tumore al cervello. Toeschi era attrice e pubblicitaria. Aveva scritto e pubblicato nel 2015 Più forte del male, un libro nel quale aveva raccontato la malattia e l’importanza della fede per affrontarla. A cambiarle la vita, segnandola nel profondo, un viaggio a Medjugorje. “Sono tornata a casa un’altra persona – aveva dichiarato in televisione, intervistata su Tv2000 – Arrivata lì mi sono sentita in pace e nel frattempo alla malattia non pensavo neanche più. La Madonna ti rivolta come un calzino”. Battaglia e Toeschi nel 2005 avevano avuto una figlia, Sofia. Un altro lutto tragico e profondo colpisce la band, anche una sorta di famiglia, dopo 50 anni di carriera insieme fino allo scioglimento nel 2016. L’anno scorso, il 6 novembre, era morto il batterista Stefano D’Orazio. Proprio all’ex compagno di musica, vita e avventure gli altri componenti avevano dedicato più di una canzone nell’ultimo anno. Come in quella tragedia, anche questa volta il gruppo si è unita chiusa come un pugno. “Profondamente addolorati, ci sentiamo vicinissimi a Dodi e alla figlia Sofia in questo dolorosissimo momento per la prematura scomparsa della loro amata Paola. Cara Paola, che tu possa riposare in pace e in serenità eterna. Roby, Giovanna e figli”, ha scritto Roby Facchinetti sui social. “Ciao Paola… Il nostro dolore è grande… davvero grande… e preghiamo affinché sia dolce il tuo viaggio… ti arrivi, Paola cara, il nostro abbraccio più sincero. Tutti stretti attorno a Sofia e Dodi in questo momento così brutto. Red, Bea, Chiara e Phil…”, è stato invece il saluto pubblico di Red Canzian. Battaglia si è sposato tre volte e ha avuto quattro figli. Sara Elisabeth e Serena Grace sono nate dall’unione con la prima moglie Louise, Daniele dalla compagna Loretta Lanfredi. Il chitarrista è anche nonno, dal 2009, quando è nata Victoria, figlia di Sara Elisabeth.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli.

Grave lutto per i Pooh: morta la moglie di Dodi Battaglia. Novella Toloni il 6 Settembre 2021 su Il Giornale. La donna, 51 anni, è deceduta dopo una lunga malattia. L'artista ha annunciato la sua prematura scomparsa con uno straziante post. "È con straziante dolore che vi comunico che questa mattina mia moglie Paola ci ha lasciati dopo una lunga malattia". Così Dodi Battaglia, chitarrista dei Pooh, ha annunciato la prematura scomparsa della terza moglie, Paola Toeschi. La donna, che aveva 51 anni, stava combattendo da oltre dieci anni contro un brutto male al cervello. La notizia della morte della moglie di Dodi Battaglia è iniziata a circolare sul web fin dalle prime ore della mattinata, ma solo poco fa il musicista, celebre chitarra dei Pooh, ha confermato il dramma familiare su Instagram, Facebook e Twitter. Paola Toeschi era nata a Borgomanero, in provincia di Novara, e nel 2011 si era sposata con Dodi Battaglia. Da anni l'attrice 51enne stava combattendo una difficile lotta contro un tumore al cervello. La diagnosi, infausta e improvvisa, era arrivata nel 2010 in seguito a una crisi che l'aveva portata al ricovero in ospedale. Paola Toeschi non ha mai smesso di combattere per se stessa, per il marito Dodi e per la figlia Sofia. Mentre affrontava gli interventi e le sedute di chemioterapia si è affidata alla fede, compiendo addirittura due pellegrinaggi a Medjugorje. Una battaglia difficile e dolorosa che lei stessa aveva raccontato, nel 2015, in una biografia dal titolo "Più forte del male". Il tumore, uno dei più aggressivi, non le ha lasciato però scampo. La donna si è spenta attorniata dall'affetto della sua famiglia e dei suoi cari. L'annuncio fatto dal marito, Dodi Battaglia, sulla prematura scomparsa della moglie ha scosso nel profondo il popolo del web. Tra i tanti messaggi di cordoglio, che si sono moltiplicati sui social, ci sono quelli dei suoi amici e colleghi da Riccardo Fogli a Fiordaliso. E quello doloroso di un altro componente dei Pooh, Roby Facchinetti, che su Twitter ha scritto: "Profondamente addolorati, ci sentiamo vicinissimi a Dodi e alla figlia Sofia in questo dolorosissimo momento per la prematura scomparsa della loro amata Paola. Cara Paola, che tu possa riposare in pace e in serenità eterna. Roby, Giovanna e figli". Oggi di quel dolore rimane la foto di un cielo azzurro, che Dodi ha scelto di pubblicare sui suoi profili social per dare l'ultimo addio alla sua Paola.

Novella Toloni. Toscana Doc, 40 anni, cresco con il mito di "Piccole Donne" e del personaggio di Jo, inguaribile scrittrice devota a carta, penna e macchina da scrivere. Amo cucinare, viaggiare e non smetterò mai di sfogliare riviste perché amo le pagine che scorrono tra le dita.

Il chitarrista dei Pooh. “Paola è stata la mia motivazione per vivere”, il dolore di Dodi Battaglia per la morte della moglie. Vito Califano su Il Riformista il 13 Settembre 2021. Dodi Battaglia ci pensa “ogni volta che esco, vedo un certo ristorante, passo al casello che attraversavo con lei e penso che non esisterà un altro amore, che non potrò mai più essere così felice”. Paola Toeschi, 52 anni, 21 al fianco del chitarrista dei Pooh, è morta lunedì scorso, a 11 anni dalla diagnosi di un tumore al cervello. Il matrimonio nel 2021, e una figlia, Sofia, che ha 15 anni. Battaglia, 70 anni, chitarrista della band forse più apprezzata e tra le più longeve della storia della musica italiana. Ha raccontato il dolore della sua perdita in un’intervista a Il Corriere della Sera. La moglie l’aveva conosciuta dopo un concerto di beneficenza in Piemonte. “Dal 2010, la mia motivazione per vivere è stata lei: la visita, la chemio, trovare un altro medico … Quando se n’è andata mi sono sentito come un pallone che si sgonfia. Ho sempre trovato impensabile la depressione, non mi assomiglia, sono combattivo, ma ora comincio a pensare cosa può provare una persona che resta senza l’amore della sua vita e magari non ha amici, non ha una figlia di 15 anni da accompagnare nel futuro. Io ho la fortuna di avere come obiettivo mia figlia dover andare avanti per lei è una forza enorme”. La malattia si rivelò una mattina, quando una gamba della donna cominciò a tremare in maniera inconsulta. Toeschi era attrice e pubblicitaria. La operarono due giorni dopo la sua prima visita. Una parte del tumore non venne mai rimossa. “Pensare che Paola aveva 18 anni meno di me e ci scherzavo su … Dicevo: sono il vecchietto della famiglia, morirò prima io”. Toeschi durante un viaggio a Medjugorje ebbe un’illuminazione e si dedicò totalmente alla preghiera – tanto da disorientare anche il marito – e ha scritto e pubblicato nel 2015 Più forte del male, un libro nel quale ha raccontato la malattia e l’importanza della fede per affrontarla. Battaglia racconta di non averla mai vista piangere. Ha passato gli ultimi giorni della sua vita ad abbracciarla, a baciarla, a parlarle dolcemente. “Anche gli ultimi due giorni, quando era in coma. Mi hanno detto: stai lì e parla, hai visto mai che le arrivi qualcosa – ha raccontato – Le raccontavo le cose più fantastiche che una coppia innamorata fa. E mi è venuto da chiederle perdono. Perché sottoposto a certi stress puoi diventare nervoso, brusco”. Il chitarrista aveva annunciato la morte della moglie in un post sui social network. Solo l’anno scorso i Pooh hanno perso Stefano D’Orazio, storico batterista della band. Battaglia si è sposato tre volte e ha avuto quattro figli. Sara Elisabeth e Serena Grace sono nate dall’unione con la prima moglie Louise, Daniele dalla compagna Loretta Lanfredi. Il chitarrista è anche nonno, dal 2009, quando è nata Victoria, figlia di Sara Elisabeth. 

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

Candida Morvillo per corriere.it il 13 settembre 2021. Dodi Battaglia è nella sua casa di Bologna. Ovunque, chitarre, spartiti. Alle pareti, dischi d’oro, di platino. Sul pianoforte, una foto in cornice ribaltata di cui si vede solo il retro, come se l’avesse abbattuta un piccolo meteorite. Lui sta in maglietta bianca, le spalle incassate. Dice: «Ogni passo in queste stanze, mi ricorda Paola e ogni immagine di Paola è una pugnalata. Sento proprio un dolore fisico al cuore». Paola Toeschi, sua moglie, 21 anni insieme, 11 di malattia, è morta qui, a soli 52 anni, lunedì scorso. Lui, oggi, è appena rientrato da Riccione: «Ho portato la piccola a pranzo al mare. Per distrarla. Ogni giorno, cerco di farle fare qualcosa per tenerla lontana dai ricordi. I ricordi sono una pugnalata al cuore». Racconta che al funerale, qualcuno, per confortarlo, gli ha detto «almeno, ha finito di soffrire». Mi guarda: «Sa che ho pensato?». 

Che cosa?

«Che purtroppo, nella fine della sua sofferenza, è finita anche la mia lotta contro il suo male. Dal 2010, la mia motivazione per vivere è stata lei: la visita, la chemio, trovare un altro medico...Quando se n’è andata, mi sono sentito come un pallone che si sgonfia. Ho sempre trovato impensabile la depressione, non mi assomiglia, sono combattivo, ma ora comincio a pensare cosa può provare una persona che resta senza l’amore della sua vita e magari non ha amici, non ha una figlia di 15 anni da accompagnare nel futuro. Ecco, adesso, io ho la fortuna di avere come obiettivo mia figlia. Dover andare avanti per lei è una forza enorme. Sofia è forte, è una ragazza ormai, porta con orgoglio e dignità il cognome di famiglia, ma è sempre un cuoricino di 15 anni». 

Quanto è stata forte in questi anni, con la mamma malata?

«Quando mia moglie ha scoperto di avere un tumore al cervello, le ha fatto un discorso che non saprei dire, un discorso che puoi fare a un bimbo di cinque anni. Mai i figli sono molto più intelligenti di quanto possiamo pensare: quando Paola è stata operata, Sofia le ha dato la bambola da cui non si separava mai. Le ha detto: così, in ospedale, non ti sentirai sola. Adesso, fuori dalla chiesa, mentre portavano via la bara, le ho detto: andiamo a salutare la mamma perché di mamme così belle non ce ne sono tante. Le dico sempre che deve essere felice perché ha vissuto per 15 anni con una madre fantastica: cosa te ne fai di 50 anni con una mamma che vale meno?». 

Alle esequie, lei ha detto: «Se ne è andata una persona con una grande anima». Com’è fatta una grande anima? 

«Brilla. Quando entra in una stanza affollata, la avverti sulla pelle. Mia Martini, con la quale ho avuto l’onore di collaborare, era così: entrava e tutti si giravano perché sentivano una vibrazione diversa e, standole vicino, sentivi la luce che emanava. La stessa cosa Paola. Chi l’ha conosciuta mi dice: che anima trasparente, che gentilezza. Per esempio, lei nelle persone non vedeva mai il lato negativo, non era stupida neanche un po’, ma non conosceva la diffidenza. Era sempre sorridente, ci è nata con quel sorriso. Pochi sanno che era un’attrice di spot: era la mammina del Mulino Bianco, aveva quella faccia da donna alla quale affidare i figli».

In chiesa, lei ha detto anche: «Ho passato gli ultimi giorni della sua vita abbracciato a lei, baciandola e parlandole dolcemente».

«Anche gli ultimi due giorni, quando era in coma. Mi hanno detto: stai lì e parla, hai visto mai che le arrivi qualcosa… E così ho fatto, ma stavo già lì da 15 giorni, da quando non riusciva più quasi a parlare. Insomma, un giorno, le dicevo: ricordi quando è nata nostra figlia? Ricordi quella vacanza? Ricordi quando abbiamo cambiato casa? Le raccontavo le cose più fantastiche che una coppia innamorata fa. E mi è venuto spontaneo di chiederle perdono». 

Perdono per cosa?

«Perché quando sei sottoposto a certi stress puoi diventare nervoso, brusco. Non sono la persona più inattaccabile, non sono stato il miglior marito, ma neanche uno dei peggiori». 

Paola come ha vissuto la malattia?

«Non l’ho mai vista piangere, né sentita lamentarsi né maledire la malattia. Per fortuna, il suo tipo di tumore non provocava dolori, se n’è andata senza grida o morfina. Con la malattia, aveva scoperto la fede, pregava molto. Dopo un viaggio a Medjugorje, ebbe un’illuminazione e la sua vita divenne molto dedicata alla preghiera, alla frequentazione di chiese e sacerdoti. Io ero già cattolico cristiano, per quanto non andassi in chiesa tutte le domeniche. Comprendo che in certi momenti ti aggrappi alla fede, ma l’ho vista diventare una moglie diversa, una con cui non parlavi più delle prossime vacanze o potevi condividere certi discorsi. Magari le chiedevo qualcosa e lei rispondeva: scusa, sto pregando. La terza volta uno dice: mah… Quello è stato momento un pochino strano. Le sono stato accanto. Sono andato con lei a Medjugorje, ma non ho avuto lo stesso colpo di fulmine. Lì diceva messa un frate molto giovane, così in gamba e intelligente che ho chiesto di parlargli. Dico: padre, ho un problema, trovo che mia moglie sia troppo dedicata alla preghiera, io le parlo e lei pensa alla prossima messa. Mi ha detto che, nel suo stato, era normale che il rapporto fra le due cose, me e Dio, fosse sbilanciato. Me l’ha spiegato con una semplicità che mi ha pacificato». 

Lei ha pregato?

«Moltissimo. Da subito. Alla prima visita, ci dissero: operiamo fra due giorni, può morire sotto i ferri, può rimanere paralizzata per metà, magari non parlare più, ma possiamo eventualmente fare qualcosa per rieducarla. Da quel momento, fino all’operazione, ho pregato senza mai fermarmi». 

Come ha scoperto la malattia?

«Una mattina, cominciò a tremarle una gamba in modo inconsulto. Andò in ospedale, la raggiunsi, ci battezzarono subito col quadro generale, ci dissero: se sopravvive all’intervento, farà un percorso di terapie dai cinque ai quindici anni che ora non sappiamo quanto e come potranno servire. Ci pronosticarono quello che è accaduto. Per fortuna, l’operazione andò bene, anche se una parte del tumore non poté essere rimossa. Tornò a casa dopo un mese, dopo due o tre giocava a pallacanestro, usciva con le amiche. Poi, sono stati anni di cicli di chemio e radioterapia, di alti e di bassi. Una cosa inimmaginabile. Anche perché Paola aveva 18 anni meno di me e ci avevo sempre scherzato su, dicevo: sono il vecchietto della famiglia. Temevo che me ne sarei andato via molto prima di lei». 

Ha detto che Paola non ha mai pianto. E lei?

«Ultimamente, ho finito le lacrime. Ho visto che non c’era più niente da fare. Le parlavo, la guardavo e piangevo. Doveva tornare in ospedale per le cure il giorno dopo in cui è mancata, non ci aspettavamo quest’aggravamento». 

Come vi eravate conosciuti?

«Ero con i Pooh a un concerto di beneficenza a Macugnaga, in Piemonte. Lei arrivò con una mia amica di lì, vidi una persona luminosa, bellissima. Avrei voluto invitarla fuori il giorno dopo, ma ero in una storia che stava per finire e ho sentito subito che donne come Paola meritano rispetto. Un anno dopo, quando sono tornato libero, un minuto dopo, l’ho cercata. Abbiamo cominciato a frequentarci in maniera pulita. È nata una storia bellissima, trasparente così come è nostra figlia».

Nel libro «Più forte del male» che Paola scrisse nel 2015 raccontava che lei, dopo due matrimoni finiti, non voleva sposarsi più, ma cambiò idea mentre la operavano.

«Possibile che sia andata così, ma non lo ricordo. Sono momenti così devastanti... So che l’ho sposata perché era una donna che, se la conoscevi, volevi averla come moglie». 

Era nata il giorno dello sbarco sulla Luna, il 21 luglio 1969, e prima che Paola entrasse nella sua vita, i Pooh scrissero La Luna ha vent’anni, in cui si dice «quella notte di vent’anni fa… è la notte che sei nata tu». Era destino?

«Scrivendo il testo, Valerio Negrini aveva pensato alla nascita di una nuova donna, forte e consapevole… Pensi che anche mio figlio Daniele è nato un 21 luglio e così mia zia. Abbiamo fatto sempre compleanni cumulativi e c’era qualcosa di magico anche in questo». 

Dei 140 brani che ha scritto, quali erano per Paola?

«Era dedicato a lei Romantica, un pezzo solo strumentale. Ma quando ami così, tutto quello che fai lo fai per quella persona». 

Se pensa a lei, che scena vede?

«Io e lei sulla terrazza della casa in campagna mentre guardiamo nostra figlia a tre anni, coi boccoli biondi, giocare felice su un prato immenso. E un disegno di Sofia, che ho nascosto perché vederlo mi fa male: c’è lei piccola in mezzo a noi che la teniamo per mano. Io posso dire che Paola mi ha insegnato che l’amore può crescere. Siamo abituati ad amori che si affievoliscono. Il nostro è sempre cresciuto e voglio dire a tutti che questa possibilità c’è e dobbiamo continuare a crederci, perché la condizione di stare insieme è preziosa. Ci penso ogni volta che esco, vedo un certo ristorante, passo davanti al casello dell’autostrada che attraversavo con lei e penso che non esisterà un altro amore, che non potrò mai più essere così felice». 

Quando le manca di più?

«Io dico a mia figlia che lei è ancora qui. Che, se la interpella, la può sentire. Facevo già così coi miei genitori che non ci sono più. Ogni volta che ho una domanda che non posso fare a un amico o a un padre confessore, la rivolgo a loro, e ora a lei. Le chiedo cose da genitore a genitore. E la risposta arriva. Magari non è lei, ma è la sua voce e la risposta è perbene come era lei». 

E a Dio, se prega ancora, cosa chiede in questi giorni?

«Non chiedo mai niente. Ringrazio solo per quello che mi ha dato. Tanto, se c’è qualcosa che può fare, lo sa meglio di me».

Dagospia il 30 giugno 2021. Da "Ti sento - Radio2". “L’anno scorso, quando venni da te ospite in televisione, lo vidi per l’ultima volta il giorno dopo. Venne a Milano in studio, stavo preparando un duetto da fare insieme durante un concerto, lui in video e io dal vivo. Poi quel concerto non si è più fatto perché è arrivata la pandemia, però quel video io c'è l’ho e forse un giorno faremo questo duetto insieme”. Lo ha detto Red Canzian, ospite di Pierluigi Diaco su Rai Radio2 a Ti sento, ricordando l’amico di sempre e compagno di band, Stefano D’Orazio. “Stefano ha condiviso con me più di 40 anni, io e lui eravamo i pazzi che rimanevano fino a mezzanotte ad inventare palchi, passerelle, a spendere un sacco di soldi perché volevamo divertirci noi, per primi, sul palco. Perdere Stefano è stato un dolore che non si può raccontare; anche quando se ne andò nel 2009 sono stato l’ultimo a volerci credere, ma il primo a sapere che era stanco e che voleva andare via”, ha raccontato. Ti sento, condotto da Pierluigi Diaco, è in onda tutti i giorni dal lunedì al venerdì, in diretta dalle 20 alle 21 anche in video streaming su Rai Play. “Franco era il connubio più preciso che io abbia mai visto tra leggerezza e profondità, era un equilibrio perfetto fra  queste due cose. Ci siamo conosciuti e frequentati a Londra quando lui scrisse il mio secondo 45 giri, registrammo con una band pazzesca e poi a Milano andavo spesso a mangiare un piatto che non conoscevo essendo veneto, le melanzane alla parmigiana, deliziose, dalla sua mamma”. È il ricordo emozionato di Franco Battiato che Red Canzian, ospite di Pierluigi Diaco su Rai Radio2 a Ti sento, ha voluto condividere con gli ascoltatori. “Eravamo nella stessa bottega, la Bla Bla, un’etichetta dove si faceva ricerca”, continua il cantante in diretta su Radio2 e in streaming video su RaiPlay. “Un giorno Franco arrivò con un VCS3 che era l’antesignano di qualsiasi sintetizzatore e si mise lì per ore, per giorni, a schiacciare quei bottoni per tirare fuori due o tre suoni che poi ha messo in Pollution. Era bello perché lui ricercava pur non sapendo cosa stesse cercando, aveva un bisogno profondo di conoscere”, ha ricordato Canzian. Ti sento, condotto da Pierluigi Diaco, è in onda tutti i giorni dal lunedì al venerdì, in diretta dalle 20 alle 21 anche in video streaming su Rai Play.

·        I Righeira.

Da blitzquotidiano.it il 12 novembre 2021. Stefano Righi, conosciuto anche come Johnson Righeira, è stato uno dei due componenti dei Righeira, gruppo degli anni Ottanta (L’Estate sta finendo, Vamos a La Playa e No tengo dinero). I Righeira si sono sciolti nel 2016 e si è parlato molto della loro separazione.

Righeira, i motivi dello scioglimento

Proprio Johnson Righeira, in un’intervista al Corriere della Sera, aveva parlato così dei motivi dello scioglimento: “Sono gli stessi motivi, con aggravanti. Non abbiamo più niente da condividere. Sono riuscito a dilapidare i soldi man mano che li guadagnavo. Andava tutto così veloce, ma adesso io e lui non abbiamo più nulla in comune”. Stefano Righi è rimasto nel mondo della musica. Nel 2019 ha collaborato coi La Bionda, pubblicando il singolo Formentera, mentre lo scorso anno ha fondato la sua etichetta discografica: la Kottolengo.

Johnson Righeira e la telefonata ad Andy Warhol

In una intervista a Oggi è un altro giorno, Stefano Righi aveva rivelato un retroscena di quando era all’apice del successo. “Una telefonata a Andy Warhol davvero surreale. Tornavo a casa da una serata un po’ movimentata ed ero un po’ ubriaco. Ero riuscito a prendere il numero da un amico. Era notte e mi sono detto: “Adesso ci provo”. Inaspettatamente lui ha risposto e io ho farfugliato di tutto. Ma non mi ricordo neanche cosa gli ho detto”, le parole di Johnson.

Righeira: “Sognavamo di essere come Paoli e Di Capri”. Ernesto Assante su La Repubblica il 28 agosto 2021. L’estate secondo i Righeira nel 1983 non era perfetta, c’era un vento radioattivo a spettinare i capelli, ad abbronzare il corpo non era il sole ma le radiazioni atomiche, c’erano mutanti che si combattevano sui surf, perché “la bomba” era esplosa e il mondo non era più lo stesso. Eppure Vamos a la playa fu il singolo di maggior successo di quell’estate, anzi secondo molti il dizionario Zanichelli inserì la parola “tormentone” in quell’anno proprio per colpa loro. E con ragione, visto il seguito con No tengo dinero e L’estate sta finendo, che hanno permesso a Stefano Righi (Johnson Righeira) e Stefano Rota (Michael Righeira) di diventare eternamente estivi come Edoardo Vianello. Oggi il duo non c’è più, a meno di colpi di scena durante lo show Arena Suzuki ’60 ’70 ’80 che Amadeus presenterà all’Arena di Verona il 12 e il 14 settembre. Intanto Rota fa il produttore e l’attore, Righi si divide tra la passione per musica e quella per il vino ed è candidato consigliere comunale di Torino nella lista civica Torino Città Futura, che insieme al Partito Comunista sostiene il candidato sindaco Giusi Greta Di Cristina. Ma Vamos a la playa, da giugno a settembre, torna puntualmente a sonorizzare le nostre estati.

Righi, come le era venuto di scrivere, lei ventitreenne di Torino, una canzone come Vamos a la playa?

"E chi lo sa, ci vorrebbe uno psicologo per capirlo. Scrivere una canzone del genere in una città com'era la Torino che ho vissuto da ragazzino può sembrare strano, lo capisco. Torino non era una città che dava l'idea di essere particolarmente solare e allegra, ma proprio per questo le vacanze avevano un senso. Finita la scuola andava via il grigio, arrivava l'estate e c'era la libertà".

L'Italia dei primi anni Ottanta era ancora sotto la cappa degli anni di piombo.

"C'era chi lo chiamava 'riflusso', ma era voglia di vita, di uscire dagli schemi, di fare cose nuove. C'era voglia di fare musica, di divertirsi e io, da autarchico, volevo fare qualcosa che avesse delle radici italiane, mi piaceva l'idea del revival dei Sessanta in chiave punk. Identificavo quell'ondata del surf, dei Vianello, Di Capri con il twist, come lo stacco con la musica italiana del passato, pensavo che bisognasse partire da lì per una new wave che fosse italiana".

In salsa esotica.

"Ma sì, e anche quello da prima. Il nome Righeira me l'ero dato giocando a calcio a scuola, faceva molto Brasile, magari mi piaceva l'idea di essere oriundo, va a sapere. Tutto questo alla fine è diventata una cifra stilistica, assieme a un certo piacere per l'assurdo. Uno dei primi pezzi che metteva insieme tutto questo si chiamava Clonazione geghegè, cantavo 'voglio un figlio uguale a me per ballare il geghegè', mettevo gli anni Sessanta in un contesto post-atomico".

L'estate del dopo-bomba era cantata anche un altro tormentone dello stesso periodo, Tropicana del Gruppo Italiano.

"Sì, sono molto amico di Raffaella Riva, la cantante della band, ha disegnato il marchio della mia nuova etichetta, la Kottolengo Recordings. Eravamo totalmente in sintonia, la paura della fine all'inizio degli anni Ottanta ce l'avevamo tutti e la esorcizzavamo con il disincanto di ventenni che non avevano le preoccupazioni degli adulti, la buttavamo sull'ironia. Uscivamo da anni davvero bui e volevamo colorare il mondo, anche se le tensioni nel Paese erano ancora fortissime. E poi ci piaceva l'immaginario futuribile, fantascientifico, un po' Blade Runner e un po' fumettistico. Il nostro era un linguaggio postmoderno ma declinato in chiave pop".

Come scrisse la canzone?

"È una domanda alla quale è impossibile rispondere, perché se sapessi come ho fatto ne farei delle altre! Mettevo insieme il twist, l'elettronica, il punk, sognavo di scrivere qualcosa come Sapore di sale di Paoli o Saint Tropez twist, ma non sapevo come".

Eppure c'è riuscito, visto che quasi quaranta anni dopo la sua canzone è ancora 'gettonatissima'.

"Sì, e mi sembra bellissimo. Già al ventennale mi ero meravigliato della capacità della canzone di vivere per conto proprio. Ma quelle fortunate sono veramente come dei figli, a un certo punto imparano a camminare e vanno avanti da sole, con le proprie gambe. Magari i ragazzi di oggi non sanno chi sono i Righeira, ma la canzone la conoscono eccome. È la forza degli evergreen, la gente alla fine non sa più chi li ha scritti o cantati".

L'estate è rimasta al centro dl suo mondo, dunque?

"L'estate era fino a due anni fa il periodo di massima intensità del mio lavoro, quello in cui la formica prepara l'inverno, quindi in realtà per me luglio e agosto sono normalissimi mesi di lavoro. Io ho vissuto la mia vita in mezzo ai locali, ai club, alle discoteche, ma da due anni ovviamente tutto è fermo, e non si sa come andrà. Quando riprenderà magari non sarà come prima e della vecchia normalità probabilmente nemmeno ci ricorderemo. Ma, al di là della curiosità di capire come andrà, non vedo l'ora che finisca questo terribile periodo e che ricominci, finalmente, l'estate".

E ora?

"Tanti anni fa c’è stata la separazione del duo ma io ho rimesso in piedi la baracca, ho rifatto le basi delle canzoni con la mia voce e dato spazio ad altri interessi. A un certo punto mi sono trovato a un bivio e ho preso un'altra direzione: ho affittato una casetta nel Canavese, a trenta chilometri da Torino, zona di castelli e di laghi, e sono rimasto lì. Ho aperto la mia etichetta "dance oriented", durante il lockdown, il che la dice lunga sulla mia follia. Ma ho anche preso una vigna, che mi coinvolge tantissimo. Così ho un’etichetta underground e una vigna underground, entrerò nel mondo del vino come sono entrato in quello della musica".

·        I Tiromancino.

Chi è Giglia Marra, l’attrice moglie del cantante dei Tiromancino Federico Zampaglione. Vito Califano su Il Riformista l'11 Agosto 2021. Si sono sposati a Mottola Federico Zampaglione e Giglia Marra. Una cerimonia che si è svolta nella chiesa di Santa Maria Assuna nel pomeriggio. Ad accompagnare il cantante dei Tiromancino all’altare è stata Linda, 11 anni, la figlia che Zampaglione ha avuto con Claudia Gerini, sua ex, attrice. Un matrimonio organizzato in un mese e mezzo e rinviato da quasi due anni per via dell’emergenza covid. Marra è originaria proprio di Mottola, provincia di Taranto, dov’è nata il 16 aprile 1982. Si è diplomata al Liceo Artistico Lisippo della città pugliese. Vive da anni a Roma dove si è laureata in scienze Umanistiche, indirizzo Cinema. E contemporaneamente è entrata nel mondo del teatro. Ha studiato al corso di Acting Training di Beatrice Bracco. “Se mi avessero detto da piccola: un giorno t’innamorerai di un cantante, un poeta che scriverà canzoni meravigliose ispirate a te, non ci avrei mai creduto!”, ha dichiarato recentemente. I due si sono incontrati per la prima volta in un locale: un’amica di lei era una fan di Zampaglione e le ha chiesto di scattare una foto. Quello il primo contatto.

Curiosità: a suonare al ricevimento i Terraross, gruppo di pizzica che ha affascinato Madonna. La proposta di matrimonio è stata Noi caso mai, una canzone del 2018. “Sei tutto quello che non mi aspettavo. Sei quella che aspettavo io da tempo”.

Vito Califano. Giornalista. Ha studiato Scienze della Comunicazione. Specializzazione in editoria. Scrive principalmente di cronaca, spettacoli e sport occasionalmente. Appassionato di televisione e teatro.

·        Iggy Pop.

Mattia Marzi per "il Messaggero" il 5 agosto 2021. Gli hater e i puristi del rock a questo giro dovranno stare davvero zitti e buoni. Altrimenti se la vedranno con l'Iguana: Iggy Pop. È tutto vero. L'icona punk ha deciso di mettere il cappello sui Maneskin, ormai lanciatissimi a livello mondiale, accettando di incidere insieme al gruppo romano una nuova versione di I Wanna Be Your Slave, la hit attualmente tra le dieci canzoni più ascoltate nel mondo su Spotify e prossima a superare il traguardo dei 250 milioni di ascolti complessivi sulla piattaforma. Uscirà domani e le aspettative sono altissime.

SENZA PRECEDENTI Per essere chiari: un'operazione del genere non ha precedenti, per un gruppo rock italiano. Soprattutto per il livello e il peso che l'artista coinvolto ha avuto nella storia del genere, di cui è stato - e resta - un emblema. Non solo per la musica che ha inciso (parlano i dischi con gli Stooges e quelli da solista: Raw Power, The Idiot e Lust for Life sono pietre miliari), ma anche per lo stile di vita assolutamente sregolato, tra droghe, abusi e incidenti che hanno segnato quel corpo muscoloso e rugoso spesso esibito iconicamente sulle copertine dei dischi, sulle pagine delle riviste, in tv. Pazienza se a 74 anni non si dimena più come prima, dice di sì praticamente a chiunque (nel 2015 incise una canzone natalizia con Kylie Minogue) e passa le giornate come un vecchio lucertolone a prendere il sole sulle spiagge di Miami: Iggy Pop resta leggenda. 

MIAMI Proprio a Miami il cantante ha registrato la sua parte di I Wanna Be Your Slave, che ha poi spedito ai Maneskin, mai incontrati dal vivo. Il rocker, che nel corso della sua ultracinquantennale carriera ha avuto a che fare con personaggi come David Bowie e Alice Cooper, ha confessato di essere rimasto impressionato dall'energia della band: «Maneskin gave me a big hot buzz», ha detto. Il gruppo ha annunciato l'uscita del duetto ieri, pubblicando un nuovo video - dopo quello che all'inizio della settimana aveva preallertato i fan - in cui dialoga a distanza con il rocker: «Mi piacete, suonate per davvero. Vi ho visto dal vivo, eravate senza pantaloni. Molto bene», gli ha detto.

A DISPOSIZIONE Il cantante si è messo a totale disposizione dei Maneskin: «C'è una parte del brano su cui volete che mi concentri?». «Fai come ti pare, per noi puoi anche riscriverla», gli hanno risposto i ragazzi. La collaborazione arriva dopo la cover di I Wanna Be Your Dog degli Stooges che i Maneskin hanno inciso per la colonna sonora della versione italiana di Crudelia, il film di quest' anno sulla celebre villain del classico Disney La Carica dei 101, ambientato nella Londra della rivoluzione punk: «È stato un onore lavorare con Iggy Pop. Sentirlo cantare I Wanna Be Your Slave, sapere che gli piace la nostra musica e vedere un artista del suo calibro così disponibile nei nostri confronti è stato emozionante. Siamo cresciuti ascoltando le sue canzoni ed è anche merito suo se abbiamo deciso di formare una band», il commento di Damiano & Co.

GLI ACCOPPIAMENTI Nell'estate dei bizzarri accoppiamenti musicali tra giovani e vecchi - Fedez-Lauro-Berti etc. - anche i Maneskin si buttano nella mischia, ma da veri oustider. Facendosi affiancare da quello che Victoria ha ribattezzato un punk daddy (più che un paparino è un nonnetto): «Ci dicono che il nostro non è rock. Perché allora all'estero hanno un'altra percezione del nostro progetto?», dice la grintosa bassista. Le fa eco Thomas, il chitarrista: «I nostalgici che ci criticano dovrebbero festeggiare: finalmente in Italia c'è un gruppo di ventenni che sta riavvicinando i ragazzini al rock». Sempre domani uscirà anche un 45 giri in formato fisico - in edizione limitata - contenente sul lato A I Wanna Be Your Slave in duetto con Iggy Pop e sul lato B la versione originale del brano, che ha già collezionato una ventina tra Dischi d'oro e di platino tra Russia, Finlandia, Grecia, Turchia, Irlanda, Norvegia.

IL TOUR Il 13 agosto partirà il tour sui palchi dei festival rock europei (già oggi i Maneskin avrebbero dovuto suonare al Lokerse, in Belgio, ma hanno annullato lo show a causa di una tendinite del batterista), dove torneranno ad esibirsi il prossimo anno dopo il tour italiano. Che è già sold out. Ancora presto per i dati sulle vendite dell'evento del 9 luglio 2022 al Circo Massimo di Roma. Chissà che sul palco non si presenti anche nonno Iggy

L'ex stooges e la band romana. Chi è Iggy Pop, il mito del rock che ha collaborato con i Maneskin in “I wanna be your slave”. Antonio Lamorte su il Riformista il 4 Agosto 2021. I Maneskin collaborano con Iggy Pop. E forse vale più di tutti i premi e record affastellati negli ultimi mesi dalla band romana di Monteverde. Dalla vittoria al Festival di Sanremo e dell’Eurovision Song Contest in poi. Il mito vivente del rock e il gruppo hanno annunciato tramite social che venerdì 6 agosto uscirà I wanna be your slave, singolo dei Maneskin, cantato con l’ex Stooges. Contemporaneamente alla release digitale, uscirà anche un vinile 45 giri in edizione limitata contenente I WANNA BE YOUR SLAVE with Iggy Pop (lato A) e la traccia originale (lato B). Forse una furba trovata commerciale dell’Iguana – i Maneskin sono tra i 13 artisti più ascoltati al mondo su Spotify con più di 51 milioni di ascoltatori mensili e oltre 2 miliardi e mezzo di streaming totali su tutte le piattaforme digitali – e un’opportunità irripetibile per la band romana. “È stato un onore lavorare con Iggy Pop – hanno detto i Måneskin – Sentirlo cantare I Wanna be your slave, sapere che gli piace la nostra musica e vedere un artista del suo calibro così disponibile nei nostri confronti è stato emozionante. Siamo cresciuti ascoltando le sue canzoni ed è anche merito suo se abbiamo deciso di formare una band. È stato bellissimo avere avuto la possibilità di conoscerlo e fare musica insieme. James Jewel Osterberg è un mito vivente: non è retorico né ridondante dire in questo caso che rappresenta la storia del rock. Decise di fare la rockstar fulminato da un live di Jim Morrison, ha anticipato il punk, è stato icona di eccessi e schitarrate e ha dettato i tempi in un sodalizio indimenticabile con David Bowie. La collaborazione era stata annunciata qualche giorno fa con un breve video pubblicato sui social network.

L’era Stooges. Gli Stooges sono stati il seme del punk germinato in piena era hippy. Erano la furia musicale, la fine delle utopie. No Fun, come cantavano nell’anthem del loro disco d’esordio. Erano nati a Detroit, città industriale. Pare che James Jewel Osterberg era un ragazzino rimasto folgorato da un’esibizione di Jim Morrison con i The Doors: da allora aveva deciso di diventare un frontaman altrettanto dionisianco e oltraggioso. Figlio di un’impiegata e di un insegnante, cresce per scelta del padre in una roulotte. Una scelta, non per povertà. Si appassiona da giovanotto al rock and roll, e non lo mollerà più. Fonda i Megaton Two, i The Iguanas e i Prime Movers. È nei bagordi cui si abbandona, tra alcol e droghe, a Detroit che incrocia i fratelli Ron e Scott Asheton, rispettivamente chitarra e batteria di quelli che saranno i Psychedelic Stooges, in omaggio ai comici The Three Stooges. Inizialmente James si fa chiamare Iggy Stooge, ed è lui a richiamare l’attenzione nelle prime esibizioni condite anche da violento autolesionismo. Si ferisce, si taglia sul petto, si lancia dal palco: per alcuni è l’inventore dello stage diving. A questo punto Iggy ha già avuto un figlio con la fidanzata Paulette Benson e una relazione con la cantante Nico, musa di Andy Warhol e dei Velvet Undergound. Ad assoldare la band è Danny Fields dell’Elektra arrivato in città per far firmare gli Mc5. L’esordio, del 1969, The Stooges, è prodotto da John Cale ed è un fulmine. Per molti il proto-punk più proto-punk di ogni altro esperimento o visione di quegli anni. Ci sono pezzi intramontabili come I wanna be your dog e il manifesto nichilista No Fun. Il disco è una pietra miliare ma non sfonda sul mercato. Il gruppo parte per una lunga e sconvolgente tournée. Iggy sposa la 19enne Wendy Weisberg ma annulla tutto un mese dopo. È l’assoluto protagonista del palcoscenico. Dalla fattoria dove il gruppo tiene le sue session prende il nome il secondo album: Funhouse. È un disco ancora più violento dell’esordio. C’è del blues, del jazz, del funky, del rock and roll naturalmente ma c’è soprattutto un urlo primordiale metropolitano e oltraggioso. Iggy diventa Pop, omaggio di un tale Jim Popp, personaggio di strada che viveva ad Ann Arbor. La band però è già esasperata e nel 1971 i quattro si lasciano. A salvare tutto è nientemeno che David Bowie che affida il progetto al manager Tonr DeFries: nascono così Iggy & The Stooges con Ron Asheton al basso e James Williamson alla chitarra solista. Esce Raw Power che non seppelisce il vecchio suono ma che apre la porta a nuove soluzioni melodiche (notevoli Search & Destroy e Gimme Danger). La band però si scioglie definitivamente dopo il turbolento concerto al Michigan Palace di Detroit ripreso nel live Metallic Ko. Il bassista dei primi due dischi Dave Alexander muore nel 1975 a soli 27 anni. Le strade si dividono e Iggy entra in una profonda crisi.

L’era David Bowie. È in un vicolo cieco, al volgere del decennio, alla fine dell’era dei fiori e della rivoluzione del “love, love, love”. Solo with a little help from a friend Iggy Pop si salva. E quell’amico è David Bowie. Alla tournée di Station to Station negli Stati Uniti il Duca Bianco raccatta l’Iguana e se lo porta in tour. Iggy Pop si trasferisce a Berlino e Bowie sarà il produttore e arrangiatore di The Idiot: è la rinascita del primo e l’incontro tra l’eleganza di uno e la selvatichezza dell’altro. L’album viene registrato tra il Chateau d’Herouville, in Linguadoca, costruito nel XVIII secolo, e gli Hansa Tonstudio della capitale della Germania. La doppietta berlinese è servita con Lust for Life del 1977, sempre con Bowie che nella capitale compone la sua cosiddetta “trilogia berlinese” insuperata e insuperabile. Lust for life restituisce l’anima più rock e arrembante dell’Iguana dopo il più algido ed elettronico The Idiot. La title-track e The Passenger fanno la storia del rock. Il sodalizio con Bowie dura fino al 1978, quando Pop firma con Artista.

Il Godfather del punk. Il nuovo viaggio prosegue con due ex Stooges: James Williamson e Scott Thurston. New Values conferma le aspettative, Soldier no. È del 1980 quest’ultimo, quando esce anche l’autobiografia I Need More, con Andy Warhol che in prefazione scrive: “Non so perché non abbia ancora ottenuto il successo che merita, è così bravo”. A risollevare Pop da album non proprio convincenti è di nuovo Bowie che inserisce China Girl nel suo bestseller Let’s Dance. I proventi dei diritti danno aria all’Iguana che può risolvere i suoi guai con l’agenzia delle entrate. Si ferma poi tre anni e sconfigge l’eroina, prende lezioni di recitazione e si sposa con la giapponese Suchi Asano. Blah, Blah, Blah di nuovo con Bowie è l’album che manda di nuovo in airplay l’Iguana. È il massimo successo della sua carriera. Nuovo divorzio con Bowie e Instict e Brick By Brick: restano giusto una manciata di singoli, tipo Candy con Kate Pierson dei B-52’s. Brick By Brick è la sua produzione più riuscita da solista assoluto. Vende bene. Si piazza nel solco del gusto dei tardi anni ’80. Da notare anche il disco da crooner, chansonnier maledetto, Preliminaires del 2009. E quindi Post Pop Depression con Jushua Homme dei The Queens of the Stone Age. Solo una delle numerosissime collaborazioni di Iggy Pop in questi anni. Si apre di nuovo anche il capitolo Stooges: la band si riunisce per l’album Skull Ring di Pop, nel 2003, e per una vera e propria reunion nel 2007. Pubblicano The Weirdness e Ready to die. Ron Asheton muore nel 2009, stroncato da un infarto. Iggy Pop è attore, personaggio, vestito da Armani, idolo in vita; uno che può permettersi di fare qualsiasi cosa. Da I wanna be your dog a I wanna be your slave. Altro che No Fun.

Antonio Lamorte. Giornalista professionista. Ha frequentato studiato e si è laureato in lingue. Ha frequentato la Scuola di Giornalismo di Napoli del Suor Orsola Benincasa. Ha collaborato con l’agenzia di stampa AdnKronos. Ha scritto di sport, cultura, spettacoli

Chi è Iggy Pop, la rockstar che suona con i Maneskin. Marco Cribari su Il Quotidiano del Sud il 5 agosto 2021. IL RIFF ossessivo e rutilante di “No Fun” lo avrete sentito centinaia di volte, muovendovi come tarantolati al suo ritmo pur senza ricondurlo a lui. E l’incedere di “Lust for life”, quel crescendo di rock’n’roll selvaggio e malato che avete orecchiato in qualche film – Trainspotting, fra i tanti a cui ha fatto da colonna sonora – è proprio quella forza misteriosa che, chissà quante volte, vi ha sollevato dalla poltroncina del cinema, anche contro la vostra volontà, spingendovi a ballare davanti a una platea attonita. Questo per dire che, pure se non lo conoscete, James Newell Osterberg jr, per gli amici Iggy Pop, fa comunque parte di voi. Ed oggi dei nuovi fans che lo incontrano per il disco con i Maneskin “Non potete sfuggirgli”. Nessuno può. Parliamo di una delle icone di quel rock intramontabile che gracchierà nelle cuffie dei nostri pronipoti anche fra cent’anni, divenuto celebre anche per una presenza scenica nel segno degli eccessi – tuffarsi a volo d’angelo sul pubblico, vomitare sul palco o rotolarsi sui vetri – che in seguito ispirerà numerosi eroi del punk, dell’heavy metal e di altri generi musicali dei quali Iggy – Iguana, dal nome della sua prima banda e un richiamo alla sinuosità dei suoi movimenti – è considerato caposcuola. Fatto sta che se dalla vostra discoteca personale mancano i primi due dischi della sua carriera, quando si esibiva con gli “Stooges” (il primo omonimo del 1969 e Fun house dell’anno successivo), se i suoi lavori da solista come il già citato Lust for life (1976) e e The idiot (1977) sono a voi sconosciuti, allora è necessario correre subito ai ripari. Iggy Pop, infatti, incarna il rock’n’roll nella sua essenza più famigerata, ma ne è anche la luce che brilla in fondo all’oscurità. Già all’inizio dei Settanta la sua dipendenza da eroina ne fa – insieme a Lou Reed – un candidato a morte sicura, il prossimo dopo Hendrix, Joplin e soprattutto Jim Morrison, il suo idolo, del quale avrebbe dovuto prendere il posto nei Doors. “Questo fa la stessa fine di Jim” pensano gli altri componenti del gruppo. E rinunciano a ingaggiarlo. Sprofonda nella tossicodipendenza e deve la propria salvezza all’amico David Bowie che lo aiuta a disintossicarsi, lo fa collaborare con lui, produce i suoi lavori successivi, quelli che dopo quattro anni di limbo lo faranno diventare una star di fama planetaria. Oggi Iggy è un distinto signore ancora “avido di vita”, con un fisico bestiale e pronto “a fare un altro spogliarello”. A 74 anni canta questa roba con la stessa credibilità di quando ne aveva venti, perché sarà pur vero che il rock è morto, ma anche gli scettici, davanti alla parabola di Iggy the stooge, convengono che una resurrezione è possibile. La qualità dell'informazione è un bene assoluto, che richiede impegno, dedizione, sacrificio. Il Quotidiano del Sud è il prodotto di questo tipo di lavoro corale che ci assorbe ogni giorno con il massimo di passione e di competenza possibili. Abbiamo un bene prezioso che difendiamo ogni giorno e che ogni giorno voi potete verificare. Questo bene prezioso si chiama libertà. Abbiamo una bandiera che non intendiamo ammainare. Questa bandiera è quella di un Mezzogiorno mai supino che reclama i diritti calpestati ma conosce e adempie ai suoi doveri.  

·        Ilaria Galassi.

Da tv.fanpage.it il 17 settembre 2021. Nei giorni scorsi, Laura Colucci – ex ragazza di Non è la Rai – si è sfogata prima sui social poi in un'intervista rilasciata a Today, muovendo delle pesanti accuse contro il programma a cui ha partecipato quando era adolescente. La donna sostiene, in particolare, di avere subito delle pressioni psicologiche e di essere a conoscenza di casi in cui sarebbe stato richiesto ad alcune ragazze di "fare sesso" per continuare a ottenere visibilità in trasmissione. Sul conto di Gianni Boncompagni, invece, ha dichiarato che il regista avrebbe avuto un rapporto "professionale e a volte anche extraprofessionale" con le ragazze e avrebbe contribuito a creare competizione tra loro. Fanpage.it ha chiesto a Ilaria Galassi, uno dei volti più rappresentativi del programma degli anni '90, di dire la sua a riguardo: "Sono molto dispiaciuta perché personalmente ho vissuto un’esperienza meravigliosa. Non mi hanno mai toccata e non mi hanno mai creato problemi psicologici".

È vero che a Non è la Rai c'erano alcune ragazze che percepivano uno stipendio più alto rispetto alle altre, perché Boncompagni riteneva avessero più possibilità di affermarsi nel mondo dello spettacolo? 

Sì, io ero tra quelle. Eravamo un gruppetto di dieci, venti ragazze che avevano un contratto diverso. Eravamo sempre noi a cantare, a fare i giochi. Non ricordo il compenso sinceramente. Però sì, su questo ha ragione Laura Colucci. 

Secondo quanto sostiene Colucci, le ragazze di questo gruppo erano chiamate a "scendere a compromessi" per "mantenere la visibilità". 

A me non è mai stato proposto niente. Non sono mai scesa a compromessi. Sono sempre stata scelta per la mia simpatia, esuberanza e anche per la mia bellezza. Avevo tantissimi fan e quando cantavo io, l’audience era alto. Se devo essere sincera, non ho neanche mai sentito che sia accaduto ad altre. Infatti non so come mai lei stia dicendo queste cose dopo trent’anni. 

Ricordi che approccio aveva Boncompagni alle ragazze? Tendeva a mettervi in competizione?

A me Boncompagni diceva: “Leggi, fai dizione, parla italiano e non cambiare mai. Cerca di essere sempre spontanea. Sei una matta, ma in modo sano. Trasmetti tanta allegria”. Non mi ha mai detto, ad esempio, di dover essere più brava di Ambra. Mai. Con me è sempre stato carino e gentile. Ma anche con le altre. Non ha mai fatto schifezze davanti a tutti. Non l’ho mai sentito mettere in competizione le ragazze.

Laura Colucci, però, ha spiegato di avere subito una forte pressione psicologica e quando si è stancata, non sarebbe più stata inquadrata.

Lungi da me giudicare la sua esperienza, ma devo dire che lei a Non è la Rai non è mai emersa. Era inesistente. Non c’era proprio. Non cantava, non faceva niente. Evidentemente Gianni non ha visto niente in lei. Boncompagni è stato un genio, ha contribuito al successo di personaggi come Raffaella Carrà. Se lei in trasmissione non aveva spazio, che si facesse qualche domanda. Per quanto mi riguarda, io psicologicamente sono stata benissimo. Per me è stata un’esperienza meravigliosa e che mi manca.

La tua collega, poi, sostiene che ad alcune ragazze sarebbe stato richiesto di "fare sesso".

Ma lei come fa a saperlo? Le ha viste? Le cose riportate lasciano il tempo che trovano. Se vuoi fare un’accusa devi essere sicura. Lo devi aver visto con i tuoi occhi. Per me, quello che lei dice sono solo delle grandissime stronz**e. A me non è mai accaduto. Non mi ha mai toccato nessuno. Mai. E andavamo anche a casa di Gianni a cena. 

Come si svolgevano le cene a casa di Gianni Boncompagni?

Eravamo in tanti. C'erano anche i musicisti che facevano parte di Non è la Rai, le coriste. Eravamo un gruppo, dove si stava bene. A me, anche in quelle cene, non è mai stato proposto niente e non sono mai stata toccata. È anche vero che andavo pochissime volte, perché a mio padre non faceva piacere. Anche se sapeva sempre chi c’era e si fidava di me, avevo solo 15 anni. 

A queste cene ti è mai capitato di sentirti a disagio?

Io stavo una favola. Mi divertivo tantissimo. Si cantava, si parlava. A me non è mai capitato niente di brutto che sia legato a Non è la Rai. Entravo negli studi la mattina e andavo a fare dizione, poi mi dovevo preparare, c'erano le prove, la diretta, poi teatro, poi tornavo a casa, andavo a scuola e studiavo.

C'è da dire, però, che a Non è la Rai eravate in tantissime. È possibile che si sia verificato qualche episodio spiacevole, senza che le altre ragazze ne fossero al corrente. 

Per quanto riguarda me, Gianni ha fatto solo del bene. Non posso dire una cosa per un’altra. Nello sfogo di Laura c’è qualcosa che non mi torna. Perché lo sta dicendo adesso, che Gianni Boncompagni non c’è più?

Lei, invece, vi accusa di starvene in silenzio. Sostiene che questa omertà dipenda dal fatto che molte di voi siano state coinvolte in queste "situazioni vomitevoli". 

Ma facesse i nomi. Si parla tanto di omertà e allora perché non fa i nomi e si mette a confronto? Vediamo queste persone cosa rispondono. Io parlo in base alla mia esperienza. Non ho mai visto Gianni palpare una delle ragazze. Voglio essere chiara: io non ho mai dovuto darla a Gianni Boncompagni. E non credo che lo abbiano fatto neanche le altre. 

Elena Zanobbi, però, ha confermato la versione di Laura Colucci commentando "Troppe cose sappiamo".

Elena Zanobbi non faceva parte delle ragazze che avevano un contratto diverso. Come mai? Che si faccia delle domande. Evidentemente Gianni ha visto in noi un talento che loro non avevano. Lui si basava anche sull’audience, vedeva quante lettere ricevevamo. Io non potevo neanche muovermi da casa. Tuttora ho tanti fan che mi seguono e non sto facendo niente. Davvero, non capisco perché parlino così. Sono sconvolta. Mi dispiace per Gianni.

Da today.it il 17 settembre 2021. Era il 9 settembre del 1991 quando su Canale 5 andava in onda la prima puntata di Non è la Rai, programma cult di Gianni Boncompagni che diventò già poco dopo il debutto un incontenibile fenomeno di costume degli anni '90. Dallo studio 1 del Centro Palatino di Roma un centinaio di giovani ragazze scalpitavano per vivere il loro sogno televisivo che ben presto si trasformò in un successo senza precedenti. Tra loro, fin dalla prima edizione, l'allora 21enne Laura Colucci che oggi, trent'anni dopo, ha deciso di accendere i riflettori sul 'dietro le quinte' della trasmissione, illuminando un lato oscuro che sente l'esigenza di raccontare. "Non era una favola. C'erano delle situazioni vomitevoli. Le racconterò nel libro che sto scrivendo, probabilmente anche facendo i nomi o comunque facendo capire di chi parlo" dice a Today, anticipandoci più di qualcosa.  

Come sei arrivata a Non è la Rai?

"Ho iniziato dalla prima edizione, quella condotta da Enrica Bonaccorti, ma non ho fatto il provino come le altre ragazze. Sono arrivata a programma iniziato, dopo due mesi. Avevo 21 anni".

Niente casting?

"No. Un giorno ero andata al Centro Palatino con una mia amica, lui mi ha visto e mi ha chiesto di fare parte del cast".

Lui era Gianni Boncompagni?

"Sì. Sono andata con questa mia amica che me lo ha presentato, gli sono piaciuta e mi ha fatto fare una prova con un costume da bagno per vedere se ero telegenica". 

Non è la Rai compie trent'anni e oggi tutti la celebrano come un fenomeno televisivo. Ve ne rendevate conto già allora?

"Quando ti accade qualcosa di bello difficilmente te ne rendi conto mentre lo vivi, lo capisci sempre quando non c'è più. La cosa fondamentale in quel momento era rendersi conto che era una piccola parentesi della vita e che poi si sarebbe chiusa. Io sono sempre stata lucida, tante ragazze sono rimaste sotto botta e ci stanno ancora. Pensano di essere le dive degli anni '90".  

Come si svolgevano le vostre giornate?

"Dipende. La trasmissione iniziava alle 14. Se avevamo delle prove da fare per qualche telepromozione o qualche balletto arrivavamo intorno alle 11, poi pranzavamo a mensa e andavamo in studio. Poteva capitare di restare per fare altre prove, per qualche serata, altrimenti finito il programma andavamo via". 

Un lavoro vero e proprio...

"Oggi ci metterei la firma a lavorare dalle undici alle quattro del pomeriggio per 4 milioni al mese".

Lo stipendio era uguale per tutte?

"Appena iniziata la trasmissione guadagnavamo tutte 100 mila lire al giorno con ritenuta d'acconto. Alla fine del primo anno lui scelse delle ragazze che avevano le caratteristiche per poter continuare nel mondo dello spettacolo. Io facevo parte di questo gruppetto d'elite e lo stipendio era diverso: 150 mila lire al giorno e 15 milioni di esclusiva Mediaset una tantum, a partita iva. Tutto ciò che spendevamo per migliorare la nostra persona a livello estetico era scaricabile, addirittura andavamo a credito. Poi c'erano le serate. Insomma, non era male come situazione". 

Chi sceglieva le ragazze che si esibivano?

"C'era la redazione e tutte le figure che servono per la costruzione di un programma. Chiaramente lui era il regista ed era lui che sceglieva chi si esibiva". 

Irene Ghergo che ruolo aveva?

"In tre anni non ci ho mai parlato. Lei era la figura che veniva dopo Gianni ma non ci ho mai avuto molto a che fare. Era una persona molto austera che generalmente parlava con le ragazze che avevano più spazio, ad esempio con Ambra". 

Tra voi ragazze che rapporto c'era?

"Un rapporto di pseudo-amicizia, di competizione e di invidia. I rapporti che spesso ci sono tra donne ma in quell'ambito e a quell'età era ancora più evidente. Emergere su cento ragazze non era facile. Io me ne stavo tranquilla, poi se mi chiamavano per fare un balletto, un gioco o una telepromozione ero contenta, ma non ho mai sgomitato per farlo. La maggior parte invece sgomitava. C'erano addirittura quelle che si facevano uscire le lacrime per farsi fare i primi piani. Si faceva di tutto pur di apparire". 

E con Gianni Boncompagni invece?

"Era una persona particolare. Amava contornarsi di persone giovani. Il rapporto con le ragazze era professionale e a volte anche extraprofessionale. Che lui avesse delle relazioni con le ragazze non mi riguarda, con me non ci ha mai provato. Aveva un grande carisma, ti trasmetteva qualcosa ed era riuscito a creare questo mood per cui dovevi arrivare a fare di tutto per emergere".  

Cioè creava competizione?

"Esatto".

Eravate venerate come delle star. Cosa significa a quell'età?

"Per me è stato un gran divertimento. Però dipende da dove venivi. Ti faccio un esempio. Lui prediligeva le ragazze che venivano da un basso ceto sociale, quelle più affamate di successo e pronte a mettersi in gioco. Sicuramente per una ragazza come me, che veniva da una famiglia normale e non dovevo portare i soldi a casa, era diverso. I miei non mi chiedevano un contributo, quindi alla fine era un divertimento e basta. Non tutte a vent'anni hanno la possibilità di entrare da Louis Vuitton e comprarsi un trolley o una borsa, oppure i primi telefonini".  

Il successo da giovanissimi può essere rischioso. Era difficile gestirlo?

"Da una parte era gratificante, ma a vent'anni ancora non hai un carattere definito e puoi rimanerci sotto. Peggio se sei ancora più giovane. Alcune volte era pesante, c'erano ragazzi che ti seguivano fino a casa, andavi a cena fuori e ti assediavano. Fortunatamente sono sempre stata abbastanza matura e con i piedi per terra. La cosa mi divertiva, ma lo sapevo che non poteva continuare in eterno". 

Hai detto che qualcuna ci è rimasta sotto. Che intendi?

"Ci sono alcune che non si sono più riprese. Si vede da quello che pubblicano sui social, da come si pongono ancora adesso. Però ognuno è fatto a modo suo, non sta a me giudicare". 

Ci sono mai stati casi di stalking da parte di fan?

"Sì, a volte è accaduto. Ricevevamo tantissime lettere, c'erano dei ragazzi che ci mandavano addirittura dei regali. C'erano i fan affezionati che ti scrivevano una volta al mese, alcuni una volta a settimana, e poteva capitare che qualcuno superava il limite. A me non è mai successo ma a qualcuna sì".

Nel post che hai scritto su Facebook hai detto di aver visto cose vomitevoli. A cosa ti riferivi?

"Tanti mi stanno chiedendo perché ho detto queste cose dopo trent'anni. In realtà io non le ho mai nascoste. Ieri leggevo di un libro che è uscito in questi giorni, di un fotografo che lavorava all'interno dello studio. Il titolo è 'C'era una volta Non è la Rai', che ti fa pensare a una favola. Il contesto non era fiabesco, assolutamente. C'erano delle situazioni che erano vomitevoli, lo ripeto.

Le racconterò nel libro che sto scrivendo, probabilmente anche facendo i nomi o comunque facendo capire di chi parlo. Era un contesto di competizione con tutte le schifezze che concerne il mondo dello spettacolo. E' chiaro che ci sono anche in altri ambienti, però nessuno scrive mai 'C'era una volta l'impiegato'. Scrivere 'C'era una volta Non è la Rai', lasciando intendere che c'era un clima di serenità, di amore, di pulizia, non è corretto. Non è così".  

E che ambiente era?

"C'era tutto quello che c'è normalmente in un ambiente competitivo, dove si fa di tutto per emergere". 

Ci spieghi meglio a cosa ti riferisci?

"Alla fine del primo anno lui scelse delle ragazze che secondo lui avevano delle caratteristiche per proseguire nel mondo dello spettacolo e tante di queste ragazze dovevano scendere a determinati compromessi per poter mantenere la visibilità".

Compromessi sessuali?

"A me nessuno ha mai chiesto di andare a letto con qualcuno, però ho vissuto direttamente storie di ragazze che frequentavo che mi hanno confidato di essere dovute scendere a compromessi per poter emergere e fare qualcosa di più rispetto a quello che facevo io ad esempio. Questo gruppetto era più sottoposto a queste richieste e io facendone parte le ho viste, anche se non vissute direttamente".  

C'erano anche minorenni in questo gruppetto?

"Certo. C'erano minorenni, c'erano genitori delle minorenni che spingevano..."

Le famiglie avrebbero dovuto avere un ruolo chiave in tutto questo, no?

"Ufficialmente uno dei due genitori doveva essere presente in studio, durante la trasmissione, se la figlia era minorenne. Ma di fatto la presenza di questi genitori non era per proteggerle ma per cercare di far fare a queste figlie qualcosa di più. Stavano completamente fuori di testa. Tante di queste ragazze addirittura smisero di andare a scuola, avevano puntato tutto su questa cosa. E i genitori stavano lì a cercare di piazzare le figlie nel modo migliore possibile".  

Stai dicendo che davanti a certe situazioni 'sconvenienti', chiamiamole così, alcune famiglie erano conniventi?

"Io direi di sì. Non solo. Incitavano le figlie a scendere a compromessi. Terribile. Tipo il film Bellissima. La canzone di Vasco Rossi, Delusa, dice tutto. Le parole sono più che eloquenti: 'Il tuo papà è felice quando ti vede ballare in televisione?'. Parla proprio di questo. Aveva capito tutto".

E definiva Boncompagni "il lupo"?

"Il lupo. Infatti il mio libro molto probabilmente si chiamerà così, 'C'era una volta il lupo'". 

Senza mezzi termini...

"Per carità, io non posso dire cose brutte e basta. Lui comunque mi ha dato un'opportunità importante, grazie a lui ho vissuto una cosa molto bella, però a far passare questo contesto per una cosa fiabesca non ci sto. Una cosa che non sopporto è proprio l'omertà, l'ipocrisia. 

Avevamo una chat su Whatsapp con alcune ragazze che facevano parte di quel gruppetto di cui ti parlavo, in questi giorni abbiamo avuto una discussione per questo motivo e sono uscita. Più volte ho parlato apertamente di queste situazioni che si creavano, ma loro non rispondevano mai. Sparivano e il discorso finiva così. Non ho aspettato il trentennale per parlare, ma quando ho letto quel 'C'era una volta Non è la Rai' no, a tutto c'è un limite. Datevi una regolata, che non è mai stata una favola". 

Perché questa omertà?

"Perché è molto scomodo tirare fuori verità pesanti. Tante di loro sono state anche coinvolte in queste situazioni, quindi perché parlarne? Non è facile prendere la posizione che ho preso io. Tre anni fa mi cercò la redazione di una trasmissione Rai, mi tampinarono. Volevano delle rivelazioni. Io all'inizio ho detto di no, non mi andava, poi alla fine sono andata. Mi fecero questa intervista a Cinecittà, intervistarono anche altre ragazze e la mia alla fine la censurarono. Non andò mai in onda". 

Ti hanno dato una spiegazione?

"Mi hanno detto che si erano battuti tanto ma il direttore di rete aveva le mani legate perché qualcuno era potente da morto quanto da vivo". 

Torniamo al post e alle "schifezze" che dici di aver visto. Parliamo di molestie e rapporti sessuali?

"La molestia non è solo la pacca sul sedere o la palpata al seno. La molestia è anche psicologica, è dover scendere a compromessi e avere la pressione addosso che solo così puoi fare qualcosa. Non ho subito una violenza fisica, ma sicuramente una pressione psicologica per continuare ad essere visibile. Non erano rapporti sessuali, ma compromessi. A me mai nessuno ha chiesto di fare sesso, ma ad altre ragazze sì. Pressioni psicologiche però le ho subite e quando mi sono stancata si è visto, perché sono sparita. L'ultimo anno che ho fatto, il terzo, è difficile trovare qualcosa a cui abbia partecipato o primi piani. Mi aveva completamente cancellato".  

Le cose che dici scoperchiano pericolosi vasi di Pandora...

"Assolutamente, ma è anche vero che non stiamo scoprendo l'acqua calda. Sono cose che si sono sempre sapute ma che nessuno ha mai detto. Sono passati trent'anni eppure capita che qualcuno mi ferma convinto di avermi visto da qualche parte e quando dico di 'Non è la Rai' in tanti mi rispondono 'Capirai con Boncompagni'. Quindi, voglio dire, sono cose che si sanno ma che stanno nel sottobosco. Non è un mistero. Adesso ho cinquant'anni e lo dico. Che poi l'ho sempre detto, ma me l'hanno sempre impedito. Ora mi sto organizzando per dirlo come va detto".  

Delle 'famose' di Non è la Rai hai più sentito qualcuna? Ambra, Laura Freddi?

"Con Ambra no, era molto più piccola di me e non ci siamo mai frequentate o sentite. La Freddi l'ho frequentata tanto, però ti dico no comment. Perché ci sarebbe tanto da dire". 

Trent'anni dopo, lo rifaresti?

"Certo che lo rifarei. Lo rifarei con lo stesso spirito con cui l'ho fatto a vent'anni".

Lo faresti fare a tua figlia?

"Dipende che figlia ho. Sicuramente non glielo farei fare da minorenne. Io ho un figlio maschio, di 22 anni, che ho educato nel modo giusto. Se mia figlia fosse la versione femminile di lui ce la manderei, ma assolutamente mai a 14 o 15 anni, perché entri in contatto con delle realtà che non va bene conoscere a quell'età".

·        Ilary Blasi.

Da leggo.it il 14 dicembre 2021. Fabrizio Corona non perde occasione per mettersi al centro delle bufere. Anzi Fabrizio Corona crea le bufere. Torna in tv l'ex dei re dei paparazzi e lo fa in un'emittente napoletana su Canale 21 ospite al Peppy Night Fest lo show condotto da Peppe Iodice e lo fa con una scamorza in mano. «Questa è la scamorza di Ilary Blasi ». Il conduttore impanicato lo stoppa subito: «Adesso mi fai litigare proprio con tutti». Non soddisfatto Corona condisce il tutto mostrando il fisico in uno spogliarello: «A 50 anni penso di essere ancora in forma». Ma la frecciata a Ilary Blasi ormai è stata scoccata e va spiegata.  

Fabrizio Corona torna in tv contro Ilary Blasi

«La differenza tra me e tutti gli altri personaggi dello spettacolo è questa. Se vado in qualsiasi trasmissione, se viene chiunque dello spettacolo, io so dirti davvero chi è, da dove viene e perché. Questo è il mio mestiere. Questi personaggi li ho inventati tutti io». E dopo la battuta alla Pippo Baudo parte la lista dei vip che devono, a suo avviso, dire un "graie" a Fabrizio. «La Gregoraci? L'ho fatta fidanzare io con Briatore. Ilary Blasi? A 16 anni veniva con sua madre che mi portava il book con le sue foto nude ». 

Corona e le donne

Poi però si cambia argomento e si parla di amore. Quali flirt sono stati reali e quali falsi rispetto a quelli studiati a tavolino. «Con Belen Rodriguez? Sono in ottimi rapporti». Poi sul videowall una foto di Nina Moric: «Nina è croce e delizia, ma rimane sempre la madre di mio figlio». E su Asia Argento: «Asia Argento? Nella nostra follia, ci siamo trovati e abbiamo condiviso un momento della nostra pazzia». Ma poi ovviamnete ha aggiunto dell'altro: «Sono tutte e tre ancora innamorate di me: Nina, Asia e Belen». 

Il rapporto con Lele Mora

Ma Iodice vuole scoprire qualcosa in più su e chiede: «Ma chi è Fabrizio Corona?», «Una cosa che dico ironicamente, senza offendere nessuno, è che io sono Dio». Poi si parla del suo ex amico lele Mora: «Professionalmente non vale niente, non ho più rapporti e mi dispiace. Lui ha perso tutto. Questo mestiere non si fa con la fortuna e lui non ha le capacità. Si è perso, resta il bene. Ma dal punto professionale, Lele Mora non vale niente. Negli anni 2000 noi comandavamo l'Italia. Oggi a lui non è rimasto niente».  

La carriera

Ma Fabrizio non riesce più a trovare uno spazio per la sua professione nel mondo attuale: «Io non ero un fotografo, ero l'agente dei fotografi. I paparazzi non esistono più. Oggi, i giornali e Instagram non raccontano la verità. Quel mondo lì, il mondo mio, è un mondo morto». 

Gli errori

Ma Corona qualche errore lo ha fatto e il conduttore gli pone una domanda per cercare di capire lui come ha vissuto questi anni di problematiche giudiziarie: «Guardandoti qui in carne e ossa. Vorrei capire quali errori riconosci di aver fatto». Corona non ha dubbi:  «Gli errori, secondo me, non li ho fatti. Esiste questa parola: hybris. È un'ubriacatura di potere. Quando arrivi a trent'anni e dal niente sei riuscito a comandare, fare soldi, avere il mondo in mano, quando non hai amici e sei solo contro il potere, ti metti contro i potenti e poi te la fanno pagare. Perché sono stato solo contro il potere. Gli unici errori che ho fatto nella mia vita: volere tutto e subito. Ma non cambierei niente. Rifarei anche i sei anni di galera che ho fatto». 

Da corriere.it il 26 ottobre 2018. Sembrava un tentativo di riconciliazione. E invece si è trasformata in una lite furibonda in diretta. Il collegamento tra Ilary Blasi e Fabrizio Corona al Grande Fratello Vip si è concluso con una serie di accuse reciproche. «Il veto non è mai esistito», dice Ilary Blasi a Fabrizio Corona in apertura del collegamento, per difendersi subito dalle accuse di aver creato problemi ad un intervento dell'ex re dei paparazzi nella casa. «Guarda che non è una scelta intelligente tirare in ballo questa cosa- le risponde lui piccato- Ti rendi conto di quello che mi hai detto in puntata?». Ma lei a quel punto scatta, e replica con veemenza, accusandolo di «quello che è successo tredici anni fa». Ovvero uno scatto che testimoniava un tradimento del futuro marito, Francesco Totti, a pochi giorni dalle nozze. 

La rabbia della conduttrice

«L'hai fatto in un momento in cui io mi dovevo sposare ed ero incinta del mio primo figlio», dice ancora addolorata. Ma quando lui prova a replicare ancora, Ilary è impietosa e lo assale: «Stai facendo la figura del caciottaro- lo accusa, ricordando quando lui la accusava di parlare in tv con un accento romano marcato, da caciottara, appunto- racconti le tue storie, per fare gli scoop prometti ad aspiranti soubrette per fare delle interviste finte chissà che cosa. Prendila con filosofia, noi siamo andati avanti, sei tu che sei rimasto indietro: tutta Italia ha capito che tu fai gli scoop e li disfai. Io non ci casco. Ti devi prendere la responsabilità di quello che dici, non puoi venire qua e fare lo show. Ciao Fabrizio e buona vita», conclude Ilary chiedendo di chiudere il collegamento. Una rivincita per la conduttrice, che si becca l'applauso del pubblico. E una sconfitta per Corona, che già dal confronto con la ex, Silvia Provvedi, era uscito già pesto. Ma su Instagram poco dopo si sfoga: «Ora ti faccio vedere cosa combino».

Da gazzetta.it il 14 dicembre 2021. Ilary Blasi e Fabrizio Corona protagonisti di uno scontro dai toni fortissimi al Grande Fratello Vip. Entrato nella Casa per un incontro con la ex fidanzata, Silvia Provvedi, e incalzato dalla Blasi per alcune storie su Instagram in cui la accusava di non volerlo in tv, Corona ha alzato la voce quando la moglie di Totti gli ha chiesto: “Ti ricordi cosa mi hai fatto 13 anni fa?”. Il riferimento è alla vicenda Flavia Vento, di cui Totti (smentendola) parla anche nel suo libro: “Ha scritto un mare di cazzate - l’attacco di Corona -. La verità è che siamo tutti cornuti e tu sei stata tradita a un mese dal matrimonio”. Ilary Blasi ha replicato durissima: “Sei un caciottaro. Hai organizzato tutto quando mi dovevo sposare ed ero incinta del mio primo figlio, lo sa tutta Italia. Io quelli come te li 'sgamo' subito”. 

CORONA: "IO TI ROVINO" — Corona ha continuato la sua invettiva: “Ci persone importanti in tv che sanno che quello che ha scritto tuo marito è una stronzata. Io ti rovino”. A quel punto Ilary Blasi ha interrotto il collegamento e salutato Corona riprendendo normalmente la trasmissione. Per adesso, da parte di Totti, spesso a Cinecittà dietro le quinte del programma, non si registrano reazioni.

Da ilmessaggero.it l'8 novembre 2018. Fabrizio Corona nuovamente all'attacco. Per promuovere la sua intervista a Verissimo sabato prossimo l'ex re dei paparazzi, dopo il fidanzamento (tattico?) con Asia Argento, pubblica su Instagram l'audio censurato al GfVip quando fu protagonista di un accesso scontro con Ilary Blasi. Nel video si sente chiaramente Corona dire alla moglie di Totti: «Ricordati cosa facevi tu a 16 anni, ricordati da dove vieni. Non è perché hai sposato un calciatore e sei lì pensi di essere migliore degli altri». Una parte di queste frasi non si sentirono allora in diretta, un po' per le urla di Corona e della Blasi che si sovrapponevano, un po' perché l'audio di Fabrizio era più basso e dopo qualche minuto a Corona fu chiuso il microfono. «Mai,Mai,Mai...sopporterò nessuna censura!!!Sempre dirò e urlerò quello che penso!!», scrive Corona sul suo profilo. Come la prenderà Ilary? Stasera in puntata ci sarà un nuovo capitolo della saga? 

Sul web il pubblico social attacca duramente Fabrizio: «E lui si ricorda cosa faceva con Lele Mora?».

Corona viene accusato di avere «la memoria corta» dopo le parole dell'ex agente dei vip che qualche giorno fa ha rivelato: «Con Fabrizio ci fu sesso».

Molti lo accusano di scarsa coerenza anche per l'atteggiamento che ebbe con Totti. Dopo aver definito il campione giallorosso monumento del calcio italiano «uno che sa tirare due calci al pallone», ha dedicato all'ex capitano della Roma un post in cui addirittura lo omaggiava. 

«E ora - scrivono sui social - accusa la Blasi proprio lui che  per la sua condotta di certo non può essere un esempio? Almeno stesse zitto». 

Intanto sembra proseguire la storia tra Fabrizio e Asia Argento, protagonista anche lei di un accesso scontro (Dio li fa e poi li accoppia) con la mamma che ha pubblicato su twitter gli insulti pesanti che le sono stati rivolti dalla figlia. Daria Nicolodi riferendosi alla relazione con Corona aveva scritto su twitter: «Due signori di mezza età con felpa e cappuccetto che si baciano... un po’ inguaiati e un po’ inguaianti».Pubblicando poi  i commenti poco edificanti che le aveva mandato Asia in privato: «Sei una donna pessima, madre già lo sai, una fallita, sola nel mondo. Torna nel tuo dimenticatoio. Ora hai veramente esagerato. Fott... tr....».

Poi la vicenda era proseguita con un dietrofront della Argento che aveva risposto alla madre, sempre via social: «Mamma, lo so che sei preoccupata, ma non c'è niente da temere». Ritornando poi sull’argomento ieri sera, ospite di Chiambretti su Rete4 a #CR4 – La Repubblica delle donne: «Io le ho risposto privatamente- e lei ha pubblicato il mio messaggio. Vorrei stendere un velo pietoso perché credo che i panni, come si dice, dovrebbero essere lavati in casa propria».  Forse dovrebbe consigliarlo anche al suo Fabrizio.

Ilary Blasi, il retroscena: perché è sparita dalla tv per 3 anni. La crisi di Totti e la frase: "Sai che c'è, me ne vado". Libero Quotidiano il 23 luglio 2021. C'è stato il momento di crisi personale di Francesco Totti dietro la "scomparsa" dalla tv di Ilary Blasi. A raccontarlo la stessa conduttrice del Grande Fratello Vip e dell'Isola dei famosi, uno dei volti di punta di Mediaset, in una lunga e intensa intervista al settimanale F. Il momento difficile del marito è legato al doloroso addio alla Roma e al calcio giocato, che non poteva non avere ripercussioni anche sul clima familiare. "Smettere di giocare non è facile per un calciatore e sicuramente su Francesco hanno pesato turbolenze, paure, fragilità, dispiaceri", ha spiegato Ilary. "Abbiamo vissuto un mix di sensazioni sconosciute, bisognava metabolizzare il momento e superarlo. Io ho deciso di non lavorare per due anni, ho lasciato la conduzione del Grande Fratello Vip, ma penso sia normale che una coppia davanti alle difficoltà si unisca. Questo ci hanno insegnato i nostri genitori e questo io e Francesco cerchiamo di trasmettere ai figli". La Blasi ha lasciato intendere che Totti, in famiglia, preferisse non parlare o svelare del tutto i propri sentimenti in quei mesi complicati. E lo stesso discorso di addio all'Olimpico, con l'ormai ex capitano con le lacrime agli occhi, lasciava intendere le sue paure per il "dopo", un salto nel buio per chi fin da bambino aveva dedicato tutta la sua vita al pallone. Dopo tre edizioni di successo del Grande Fratello Vip, la Blasi ha staccato nel 2018 dedicandosi a programmi meno intensivi come Balalaika (lo speciale Mondiali di Russia), Summer Festival, Eurogames, prima di uno stop più duraturo e il ritorno nel 2021 con l'Isola. Il lavoro resta comunque per lei una priorità, e la conferma arriva da queste parole tanto lucide quanto pragmatiche: "È una questione di libertà, anche di poter dire un giorno: sai che c’è, io me ne vado. Nella vita non si sa mai, le cose con Francesco funzionano ma tutto può cambiare. E io voglio poter decidere, non stare appesa a un uomo".

Giuseppe Candela per ilfattoquotidiano.it il 7 giugno 2021. La battuta è un lampo. Serve a smorzare i toni, a toglierti dall’imbarazzo. Ilary Blasi arriva al punto senza troppi giri di parole, consapevole dei chilometri percorsi e di un mondo che non l’ha cambiata. Tra poche ore calerà il sipario sulla quindicesima edizione de L’Isola dei Famosi, prodotta da Banijay Italia, la prima in piena pandemia in onda su Canale 5. Poco prima delle prove si racconta a FQMagazine.

Ha iniziato prestissimo con spot e cinema, dai 3 ai 5 anni ha lavorato con Mariangela Melato, Dino Risi e Renato Pozzetto. Enfant prodige impegnata.

“Tutto è nato per gioco. In realtà da piccola sognavo di aprire un banco di frutta e verdura, ancora oggi mi affascinano. Un’amica di mia madre aveva un’agenzia che faceva casting per la pubblicità. Bionda, occhi azzurri, sembravo svedese. Chiesero a mia madre di farmi provare, da lì ho iniziato. Non so se predestinata è il termine giusto, mi sembra di essere sempre stata davanti a una telecamera.” 

Che famiglia è la sua?

“Siamo una famiglia molto tradizionale, il loro amore mi ha protetto e mi ha fatto crescere. Madre casalinga, papà impiegato. Infanzia felice, estate in campeggio, tre sorelle, un bel rapporto con mia cugina. Per me la famiglia è un valore, come il sacrificio, l’onestà. Sono le cose che cerco di trasmettere ai miei figli.”

Tanta voglia di arrivare?

“I miei genitori non mi hanno fatto mancare nulla ma dentro coltivavo l’ambizione, quella voglia di indipendenza. Quella fame lì ti resta, penso sia sana.”

Cameriera, provini, fotoromanzi. Adolescenza intensa.

“Facevo tantissimi provini per la tv ma venivo sempre scartata, all’epoca i fotoromanzi erano di moda. Lo facevo a scopo di lucro (ride, ndr). A me dei fotoromanzi non importava niente ma pagavano benissimo, mi ci sono comprata la macchina.”

Poi a un provino arriva il sì, è quello di Passaparola con Gerry Scotti.

“Ho fatto anche Miss Italia nel 98, ero minorenne. Mi scartarono a Paperissima ma anche come velina per Striscia la notizia. Mi ero data Passaparola come ultima opportunità, se non fosse andata avrei mollato. È stata una chiave di accesso a un sogno, partivo per Milano speranzosa e li facevo tutti. Quella volta andò bene, mi presero.”

Dopo due anni il passaggio a Che tempo che fa come valletta semimuta.

“Letterina fidanzata con un calciatore: il cliché per eccellenza. Il passo successivo era fare un calendario per poi mettermi seduta in un programma sportivo come ‘fidanzata di’. Non che ci fosse qualcosa di male ma non era quello che volevo fare, volevo un percorso diverso. Fazio era appena tornato in Rai, fu per me una grande opportunità in un programma sulla carta molto distante. Avevo poco più di 20 anni, un percorso diverso. Devo tantissimo a Fabio, ho lasciato perché ero incinta.”

A quel punto la chiama Panariello per Sanremo 2006.

“Ero sparita per un po’ di mesi, mi chiama Giorgio per portarmi al Festival. Avevo 24 anni, avevo appena partorito, non avevo alcuna responsabilità e nessuno si aspettava niente. Ho preso quel treno al volo perché Sanremo ti capita una volta nella vita, se ti capita. È stata un’edizione difficile ma io non l’ho vissuta così, forse per il mio ruolo ma anche perché per me era una tutta una novità, ho un bellissimo ricordo. Esperienza unica.”

Sono passati quindici anni, sogna un ritorno non da valletta ma da conduttrice?

“Sì, sogno come tutti. La speranza di tornarci con un ruolo più importante c’è, Sanremo è sempre Sanremo.”

Con Le Iene ha occupato per più di dieci anni il prime di Italia 1.

“Dopo il Festivalbar ero incinta, Davide Parenti mi propone la conduzione de Le Iene, era già successo a Simona Ventura di condurre in gravidanza. Il programma mi piaceva tantissimo, con loro sono cresciuta professionalmente, l’ho condotto per undici anni.” 

Le manca il Grande Fratello?

“No, è stata una mia scelta. Non lo dico per vanto, sono stata io sempre a lasciare. Quando prendo una decisione difficilmente torno indietro. Certo, ci vuole coraggio perché conduci programmi di successo, in questo periodo non è facile mollare, però dopo tre anni ho sentito la necessità di dire basta. A malincuore perché mi sono divertita tantissimo, era un programma che volevo fare e seguivo sempre. Pensi che cantavo la sigla nella testa e immaginavo il mio ingresso in studio, era un obiettivo.” 

Le sono piaciute le due edizioni condotte da Signorini?

“Sì, ognuno mette la sua firma. Siamo molto diversi ma Alfonso ha messo la sua cifra. In quel genere è bravo, non saprei farlo come lo fa lui. Su alcuni sentimenti sono molto pudica, non riesco a scavare a fondo quando c’è qualcosa di personale. Sono più una da cazzeggio pur toccando argomenti seri.” 

La sua lite con Fabrizio Corona al Grande Fratello Vip resterà nella storia del reality. Se l’era preparata?

“Non era preparata, se l’avessi detto a qualcuno non me l’avrebbero mai fatto fare. Avevo solo chiesto agli autori di poter dire delle cose, lui sosteneva che io avessi posto un veto sulla sua presenza invece era il contrario, io lo volevo fortemente. C’era scompiglio dietro le quinte, sono partite chiamate, mi facevano segno di chiudere ma in quel momento me ne sono fregata, ho usato un mezzo pubblico per un fine privato. Per me quello non era più il reality era la mia vita, era una cosa tra me e lui. Rimarrà nella storia, io da spettatrice mi sarei divertita (ride, ndr).”

Con Alessia Marcuzzi c’è stato uno strano incrocio di programmi tra Le Iene, Grande Fratello, Isola dei Famosi, Summer Festival. Si è parlato di una rivalità tra voi, cosa c’è di vero?

“Nulla, nessuna rivalità. Con Alessia ci siamo anche messaggiate. Siamo entrambe romane, forse questo ci unisce. La verità è che i programmi sono questi, può succedere nella girandola delle conduzioni. La trovo una cosa fisiologica. Magari tra qualche anno arriverà un’altra collega che condurrà gli stessi programmi. Infatti io mollo prima, prima che me mandano via. Scappo prima (ride, ndr).” 

Non sembra una ossessionata dall’esserci a tutti i costi.

“Non sono bulimica di tv. Era il mio obiettivo farla però non amo fare tutto ed essere sempre presente, mi sono presa delle pause quando ero incinta della mia terza figlia, ho lasciato programmi di successo. Mi piace scegliere e fare quello che sento, sicuramente sono privilegiata e fortunata perché posso permettermelo.” 

Il debutto all’Isola dei Famosi in un’edizione condizionata dal Covid.

“È stata una stagione faticosa per tutti perché la pandemia ha inevitabilmente inciso. È stata la mia prima edizione, è un reality ma è completamente diverso dal Grande Fratello. Tamponi, quarantena, i naufraghi non potevano venire in studio, chi partiva non poteva sbarcare subito, la finale per la prima volta a distanza. Faticosa e complicata ma l’abbiamo portata a casa. Mi sono divertita, ho fatto la mia Isola nell’Isola.” 

Ventidue puntate con una media superiore al 18% di share. Soddisfatta dei risultati?

“Siamo soddisfatti. Non mi soffermo mai molto sui numeri anche se sono importanti, perché se porti i risultati vai avanti e fai felice l’azienda. Mi piace l’idea di portare l’allegria nelle case, di fare una cosa che mi diverte e in cui credo.”

Akash ha detto “Non so chi sia la Blasi”, lei conosceva tutti i concorrenti?

“Sono sincera, non tutti (ride,ndr). Ci sta che Akash che non mi conosca, mica deve conoscermi per forza. Mi sono presentata in diretta, siamo pure diventati amici, ci scriviamo su Instagram. Trovo che sia un ragazzo complesso ma buono.”

Palapa diventa patata, duello diventa durello. Le sue gaffe nei reality sono cult, sono vere o fa come Mike?

“Mica me le scrivo. Palapa patata resta nella storia (ride,ndr). Io volevo fare tutta la presentazione carina, l’ho anche provata. Niente mi è uscita così.”

L’inviato Rosolino è stato criticato sui social, lei lo ha preso in giro bonariamente. Come se l’è cavata?

“Massimiliano all’inizio ha sofferto, lontano dalla famiglia per tre mesi e non è il suo lavoro principale. Lo stimo, non era per niente facile. Anch’io con lui ero un pochino in difficoltà tra segnali e ritardi però a un certo punto mi sono detta: ‘Ma che succede se sbagliamo? Niente’. Abbiamo iniziato a giocarci e lui si è rilassato, ha iniziato a divertirsi e a prendersi in giro. Il suo essere impacciato è diventato un punto di forza.”

Chi è il suo vincitore?

“Non ho dubbi Jeda (ride, ndr).”

I tre opinionisti come se la sono cavata?

“La Iva nazionale fa tv da sempre, non ha bisogno di presentazioni. Tommaso per me è stato un appoggio anche quando non avevamo ancora i naufraghi in studio, conosce il mondo social e dei reality. Elettra l’ho voluta fortemente, è una macchietta. Si è sentita un po’ un pesce fuor d’acqua in questo reality, è abituata ai social non so se si è trovata a sua agio ma il suo colore ha aiutato.”

Questa sera su Canale 5 andrà in onda la finale, rifarà il bis nella prossima stagione?

“Da qui a un anno le cose possono cambiare ma sarei pronta per il bis.”

La tv italiana è maschilista?

“Penso che la tv sia lo specchio della società, il maschilismo c’è. Sono stati fatti passi avanti ma nel mondo del lavoro una vera uguaglianza tra i generi non c’è ancora. Non ci siamo ancora arrivati.”

Le battutine sui presunti ritocchini estetici la infastidiscono?

“Non sono una persona permalosa, sono una che si prende molto in giro. Mi piace farlo anche con gli altri. Quando fai questo tipo di lavoro sei in vetrina e le critiche sono legittime. Anch’io quando sono a casa e guardo la tv con le mie amiche critico, come tutti. Se fai tv ci devi stare, posso farlo io e non gli altri?” 

È molto amica di Silvia Toffanin.

“Sono quasi vent’anni che siamo amiche, da Passaparola non ci siamo mai mollate. Magari ci frequentiamo poco perché viviamo in città diverse ma il nostro legame è molto forte. Stiamo crescendo insieme, è bello ma non è una cosa di cui parlo sempre.” 

Perché?

“Perché sembra che uno voglia giocarsi questo rapporto tipo bonus. Lei scherzando mi dice che non parlo mai di lei nelle interviste. Non perché io non voglia ma sembra sempre un argomento un po’ ‘scomodo’. Se qualcuno allude ad altro me ne frego, tanto per i detrattori o lavoro perché sono la moglie di Totti o perché sono amica di Silvia.”

Le è pesato?

“Me ne sono fregata, non è mai stato un problema per me, forse più per gli altri. Uno è mio marito e Silvia è una mia amica. Non può essere una colpa.” 

A 40 anni hanno già fatto una serie su Francesco Totti e su di lei, Speravo de mori prima su Sky.

“No, la serie mica è su di me. La mia presenza era di riflesso perché si parlava di mio marito.”

Come l’ha vissuta?

“È stato tanto forte quanto strano. In genere queste cose si fanno o quando sei vecchio o quando sei morto, vedere la serie a pochi anni di distanza è stato straniante. I primi 40 minuti ero spiazzata poi ho lasciato perdere certi aspetti e ho seguito la storia e mi è piaciuta. È stato divertente.”

Com’è stato sposarsi in diretta tv?

“Nemmeno mi sono resa conto delle telecamere, so che sembra strano ma è così. Per me era il mio matrimonio con amici e parenti. Non ci ho pensato.”

È vero che a casa Totti-Blasi ci sono molte capre?

“È vero, abbiamo otto capre.”

In famiglia la chiamano “iceberg” per prenderla in giro perché non esterna le sue emozioni.

“Mi hanno dato questo soprannome ma non penso di essere fredda, sono decisa e se mi conosci scopri anche che sono affettuosa. Romantica no ma nemmeno algida.”

All’addio di Totti al calcio hanno pianto tutti, lei no.

“Ero commossa, forse le avevo esaurite prima le lacrime. In quel momento volevo essere un punto fermo per lui, era un piagnisteo generale. Volevo essere un’àncora per lui e miei figli, non è che se uno non piange è freddo e non prova emozioni.” 

Ha avuto il Covid, è successo lo stesso a Francesco. Il Coronavirus ha portato via suo suocero Enzo.

“Il Covid è stata la goccia che ha fatto traboccare il vaso. E con la pandemia le modalità sono orrende, è un buco nero dove tu non puoi esserci, non puoi vedere una persona a te cara. Modalità alienante e angosciante, molte famiglie purtroppo possono capire di cosa parlo. Non ci puoi credere, non capisci niente per un po’. Non si è mai pronti alla morte di un genitore. Dopo ci siamo ammalati tutti, io l’ho preso con i miei figli in maniera leggera, Francesco in maniera pesante. Per fortuna lo abbiamo superato e stiamo bene.

Che rapporto ha con la fede?

“Sono credente, non vado sempre in chiesa. Mi imbarazza dirlo ma tutte le sere dico una preghiera.”

È andata a Lourdes in pellegrinaggio come volontaria.

“Volevo andarci da tempo, uscirono purtroppo anche delle foto. Ci sono stata in pellegrinaggio ed è stata un’esperienza intensa e particolare. Sembrano frasi fatte ma lo penso davvero: tu aiuti gli altri ma è una cosa che aiuta anche te.”

Ha paura che il vostro cognome possa pesare sui vostri figli?

“Un po’ è così ma ci devi convivere. Per loro ormai è normale, non hanno un termine di paragone con il prima come posso averlo io. Sul piatto della bilancia c’è di peggio nella vita.”

La copertina di Gente con il lato B di sua figlia Chanel in primo piano ha fatto molto discutere. Si è molto arrabbiata?

“Sì, deve sapere che non sono bigotta. Ho sempre lasciato fare negli anni, ho sopportato tantissime cose. Se scrivono di me e Francesco a me non interessa però ci sono dei limiti che non vanno oltrepassati. Un figlio non deve essere toccato.” 

Ha mai subito avance indesiderate o molestie?

“No, sono stata fortunata. Il fatto di essere stata prima fidanzata e poi sposata con una persona nota mi ha protetta, nessuno con me si è mai allargato.”

Ho letto che ogni estate al mare portate ombrelloni e sdraio da casa. Non proprio una cosa da ricchi.

“Abbiamo una casa a Sabaudia. Siamo in un residence dove abbiamo l’accesso alla spiaggia ma è una spiaggia libera quindi tu devi portarti ombrellone e sedie. Ogni volta un mazzo così (ride, ndr) ma ci piace, il bello di Sabaudia è pure questo.” 

Mourinho è il nuovo allenatore della Roma. Le piace?

“Guardi io di calcio non capisco niente. Se viene Mourinho o Peppino Di Capri per me è la stessa cosa (ride, ndr). Sicuramente a livello mediatico è una bomba, a livello calcistico non lo so. Già seguivo poco quando Francesco giocava, figuriamoci adesso.”

Spalletti è il nuovo allenatore del Napoli. Dopo tutto quello che è successo se lo incontra per strada cosa gli dice?

“Ciao Luciano, lo saluto. (ride, ndr) Anzi, ciao mister. Anche se dovessi incontrare Corona, lo saluterei. Non sono una che porta rancore.”

Il successo in cosa l’ha cambiata?

“Io mi sento quella di sempre. Con i miei amici storici, con le mie abitudini. Sicuramente ho più agi e sono privilegiata ma a livello umano mi sento la Ilary di vent’anni fa. La mia famiglia, le mie sorelle fanno tutte vite normali, anche i miei amici.” 

Ha imparato a dire ti voglio bene?

“Questi 40 anni mi hanno addolcito, non sono molto fisica, a parte con i miei figli. Da due, tre anni a questa parte qualche ti voglio bene in più l’ho detto.”

Ilary, cosa vorrebbe ci fosse nel suo domani?

“Il bilancio l’ho fatto da tempo e non può che essere positivo. C’è una frase di un mio amico a cui penso ogni tanto, dice che la metà della vita, forse la più bella, è andata e dobbiamo prepararci a quello che può arrivare. È angosciante ma nasconde una verità, vorrei che la vita continuasse a sorprendermi e vorrei farmi sorprendere come ho fatto finora.”

Silvia Fumarola per la Repubblica il 4 aprile 2021. Non ha mai giocato a fare la first lady, sognava la tv e l'ha conquistata. Battuta pronta, bella come il sole, colori da svedese cinismo romano, Ilary Blasi, signora Totti, conduce L'isola dei famosi su Canale 5. Su Sky si chiude la serie Speravo de morì prima «che molti non hanno capito, volevano i sosia. Mi ci sono ritrovata, anche se i primi momenti è stato spiazzante veder rappresentata la nostra vita». Dice sempre quello che pensa («a volte sono tremenda, lo so»), il 28 aprile compie 40 anni.

Mini bilancio?

«Gli anni volano. Fino a poco tempo fa no, ma da due anni a questa parte ci penso, te ne accorgi quando i figli crescono. Oggi sono adolescenti e fanno le cose che fino a dieci anni fa facevo anch' io. Ogni compleanno ti butta in faccia la realtà».

Pensa a un altro figlio?

«Cinquanta e cinquanta. Da una parte sì, è talmente bello il profumo dei bambini piccoli, hai addosso un'energia che ti fa sentire più giovane. Dall'altra dico che ci siamo fatti una famiglia, i figli grandi, Chanel e Cristian, non ci filano più, hanno i loro amici. Ci godiamo la piccolina, Isabel. E mi dedico al lavoro che per me è importante. Fare un altro figlio vuol dire ricominciare da capo, un po' mi spaventa e un po' sono combattiva, però la gravidanza mi piace. Mi faccio tante domande».

È tornata su Canale 5 con "L'isola dei famosi", il lunedì e il giovedì: come va?

«Mi diverto molto, a me il reality piace, c'è un po' di tutto: la diretta, l'imprevisto, gli ospiti, gli opinionisti. Posso essere me stessa e mi sento a mio agio».

Ammetterà che è tutto un po' folle: risse sul riso, Drusilla che colleziona teschi...

«Anche a me pare che non ci sia niente di normale, però siamo tutti un po' strani se ci pensa. Drusilla ha un modo tutto suo di pensare, mi sto abituando. Adesso tutta Italia vuole vedere il teschio del gatto. Io sono spettatrice prima che conduttrice. Sono ironica, cinica a volte. Posso essere una merda, certe cose delle squadre Burinos-Rafinados mi fanno ridere».

Chi l'ha sorpresa di più?

«Li sto ancora studiando, in ogni puntata uno va su e l'altro giù. Ho una passione per Valentina Persia, sarà che è romana, poi adoro Vera Gemma: è libera. Sull'isola alla fine sono tutti un po' burinos e un po' rafinados. Ma nella vita la differenza la vedi. Io sono della tribù burinos, orgogliosamente».

Il successo moltiplica gli hater?

«Non sono molto social, entro e sparisco, posto quello che mi interessa ma non sono fissata. Poi sti hater, sti follower, boh. È normale, se hai successo sei parecchio esposta. Non puoi piacere a tutti, fa parte del gioco. Sono serena e centrata».

Francesco segue l'Isola?

«Segue le mie trasmissioni.Vede la tv con i figli che a una certa ora l'abbandonano, chattano con gli amici. Quando facevo Grande fratello veniva a prendermi».

E c'era la fila per vederlo.

«Ci convivo con questa cosa, è sempre stato così».

Molti hanno criticato "Speravo de morì prima" perché non hanno ritrovato il loro Totti. Che pensa?

«Molta gente voleva i sosia: in realtà è una storia che rappresenta un periodo, devi trovare il sapore. E c'era. Se è stato difficile per gli spettatori, pensi per noi. Quando sei lì a seguire una storia che è la tua vita, è normale che i primi dieci minuti provi una strana sensazione. Poi mi sono lasciata andare, ho seguito quello che accadeva e la storia è raccontata molto bene. Non sono eventi accaduti cinquant' anni fa, l'addio di Francesco al calcio è stato tre anni fa, e noi siamo ancora qui, giovani».

Come le sono sembrati i protagonisti?

«Pietro Castellitto e Greta Scarano sono stati bravi e coraggiosi. Poi capisco che per alcuni amici sia stato strano vederci rappresentati. In alcune scene lo era anche per me. Spalletti è fondamentale nella serie, in ogni racconto c'è un antagonista e Gianmarco Tognazzi lo interpreta in maniera perfetta».

È stata fondamentale quando Francesco ha dato l'addio al calcio.

«Ovviamente ero più lucida in quel periodo. Io ho solo cercato di aiutarlo standogli vicino, era un passaggio che doveva affrontare lui. Non è facile per gli sportivi, hanno fatto sempre e solo quello, è quasi un lutto. C'è chi arriva a lasciare perché si è rotto le scatole, ma c'è chi non lo accetta e soffre».

L'amore dei tifosi resta, no?

«Certo. Ma la paura degli sportivi non è l'oblio o perdere il legame con chi li ha sostenuti. Il problema è l'adrenalina pura, l'emozione che provano ogni volta che entrano in campo: sono cresciuti provando quella sensazione. Sanno che niente e nessuno gliela restituirà. Penso che sia dura».

A "Verissimo" ha detto che Francesco ancora la guarda come le prime volte e pensa che "si incanti". Le sembra carino? (ride)

«Veramente ho detto che si impalla. Sono una donna molto pratica, a volte dissacrante. Mi diverte essere cinica, sono anche così. Non sono per le smancerie. Francesco ha tante doti, anche la bontà. Lui che appare timido, con quella faccia imbronciata, alla fine è romantico. Io, con la mia faccia d'angelo, sono tremenda».

State insieme da vent' anni.

«Siamo uguali per certe cose, diversi per altre, ma c'è un progetto. Non so se ci sia una formula, se è stata fortuna, per me la fortuna è stata quella di trovarci. So che con Francesco c'è la voglia di costruire e di andare avanti insieme».

Le donne di Francesco siete lei e la mamma Fiorella. Che rapporto ha con lei?

«Ci siamo sempre rispettate, in questi anni mai un battibecco: io stavo nel mio, lei nel suo. Non sono un tipo affettuoso, una che telefona, ma non lo sono neanche con mia madre. Mi ha sempre aiutato con i bambini, come mia mamma».

A cosa tiene di più come madre?

«I miei figli sono fortunati, non gli manca niente. Vorrei che avessero la curiosità nei confronti della vita, la libertà di poter scegliere, l'indipendenza. E quel pizzico di fame che dà la spinta a realizzarti».

Lei aveva quel pizzico di fame?

«Certo. Il motore è non accontentarsi, essere curiosi. Magari ti realizzi - io ho la fortuna di fare il lavoro che volevo fare - ma continui a metterti in discussione. Non cambierei mai la mia infanzia con quella dei miei figli. Anche se non c'ho mai avuto la cameretta tutta mia, dormivo con le mie sorelle, e se facevo le vacanze un po' così. Ma non cambierei quegli anni, perché mi sembra di avere avuto tutto. Sempre col progetto di migliorare e creare qualcosa di mio. Lo auguro ai miei figli» .

Renato Franco per il “Corriere della Sera” il 13 marzo 2021. Torna da lunedì 15 in prima serata su Canale 5 L' Isola dei Famosi : 16 morti di fama alla ricerca del successo perduto (tra i nomi più forti Elisa Isoardi e Paul Gascoigne). Conduce Ilary Blasi che fa dell' ironia e dell' autoironia la cifra romana con cui affronta la vita, la tv e le interviste. I concorrenti saranno divisi in due categorie opposte, i Burinos e i Rafinados.

Lei dove si collocherebbe?

«Secondo lei? Inutile dire che mi sentirei molto più a mio agio tra i burini, che sono genuini e veraci, de core e de panza come diciamo noi. Gli altri invece hanno buon gusto, fanno gli intellettuali. Non fa per me...» (e ride).

Il successo non l' ha corrotta, è rimasta sempre la stessa?

«Mai perdere le origini, io rimango burina, diciamo che il successo mi ha rafinado un pochino...».

Tra i concorrenti del reality c' è anche Daniela Martani che ha espresso pubblicamente le sue posizioni no vax. Non è un errore farla partecipare in un momento come questo?

«Solo gli stupidi non cambiano idea, magari riusciamo a farle cambiare opinione».

Come opinionisti ci saranno Iva Zanicchi, Elettra Lamborghini (appena guarisce dal Covid) e Tommaso Zorzi, target d' età completamente diversi per cercare di catturare il pubblico di Instagram e quello che fatica a far andare il telecomando in doppia cifra.

«Abbiamo cercato di prendere un pubblico vasto, che tocchi età differenti. Ormai anche la tv vive di social e proviamo ad accontentare tutti. Tra i concorrenti dell' Isola c' è anche Awed (Simone Paciello), un famosissimo tiktoker, anche questo è un modo per guardare ai giovani. E poi conduco io, che non sono di primo pelo, ma nemmeno anziana: sono l' anello di congiunzione tra tutte queste diverse generazioni».

Quindi la tv generalista per sopravvivere deve guardare ai social?

«Va bene avvicinarsi ai social, ma non è solo questo il punto. Abbiamo visto tanto e di tutto, servono nuove idee, ma la tv in questo senso è ferma».

Mediaset è ferma ai reality...

«In realtà anche se ha più di 20 anni, il reality è il format piu moderno che abbiamo, perché è dentro la vita delle persone, la gente si immedesima».

Il Gf Vip è stato al centro di molte polemiche per le uscite fuori luogo dei concorrenti, è pronta a fare la domatrice?

«L' imprevisto fa parte del reality. Si vive tutto live insieme allo spettatore da casa, che è partecipe quanto te, scopre le cose nello stesso momento in cui le scopri tu. Non puoi organizzarti in anticipo, prevedere quello che succederà. Spero di essere pronta, sono istanti, momenti. Vado molto di pancia, di istinto, l' agitazione può farti sbagliare. Ma bisogna prendere decisioni e la responsabilità delle decisioni una volta che le hai prese».

Chi fa tv deve essere cinico?

«In tv c' è chi interpreta un personaggio, ma non è il mio caso. Io in tv sono totalmente spontanea, sono quello che sono nella vita, non ho una tecnica, non metto una maschera. Io sono un po' cinica, non mi prendo sul serio, mi critico da morire. E se lo faccio su di me, lo faccio pure con gli altri. Il mio buon proposito per questo viaggio è essere un po' più materna, perché a differenza del Gf Vip dove i concorrenti sono in una casa con tutti i comfort, qui sono senza niente. Quindi stronza sì, ma non troppo...Così almeno vorrei, ma è difficile, perché la mia natura viene sempre fuori...».

Suo marito Francesco Totti ha lasciato il calcio 4 anni fa e dice che in casa il capo è lei. Dopo una vita di ritiri e partite nei weekend come vi siete riassestati a una nuova routine?

«Che adesso parto io nei weekend... La domenica ho le prove per la diretta del lunedì, così tutto gira bene. In qualche modo le nostre vite si sfiorano e si incrociano da sempre, dopo 20 anni forse anche questo è il segreto del nostro rapporto».

La politica che sentimenti le suscita?

«Seguo la politica, ma è molto confusa: solo che già son confusa di mio, quindi mi ritrovo ancor più confusa».

·        Ilenia Pastorelli.

Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera" il 29 ottobre 2021.

Ilenia Pastorelli il 24 dicembre compie 36 anni.

«Nascere quel giorno è una sfiga totale, un sotto-compleanno. Lo festeggio il giorno prima e il giorno dopo. Che però è Natale! Tutti a risparmiare, amici e parenti mi fanno un solo regalo, però è grande, aggiungono. Mica è vero...». 

È diventata una delle attrici più richieste, da Carlo Verdone al nuovo film di Dario Argento, nel mezzo Pif in E noi come stronzi rimanemmo a guardare, in anteprima alla Festa del cinema di Roma e a fine novembre su Sky. La parolaccia a un certo punto non c'era più. «Pif prima dell'uscita l'ha tolta, l'ha rimessa... Secondo me è più efficace così. Il film affronta temi importanti: la solitudine e il dominio della tecnologia, processo inevitabile ma con risvolti pessimi nelle relazioni». 

Lei è tecnologica?

«È un mondo separato, uso i social in maniera funzionale, metto una foto per l'uscita di un film. Durante il lockdown la tecnologia c'è stata di conforto, sentivamo i nostri familiari via Skype... Ha pro e contro, diventa maligna quando se ne fa un abuso e si usa in modo distorto, quando si scatenano ondate di insulti immotivati. Nel film, un ragazzo crea un colosso della tecnologia, una multinazionale delle App che diventa l'estensione di se stesso, una sua proiezione mentale per approfittare di persone disperate».

E lei impersona un ologramma.

«Vendo sentimenti in abbonamento, sono una disperata che trova un lavoro come un altro, devo essere precisa, vestita bene, parlare bene e soddisfare le aspettative altrui». Fabio De Luigi è l'inventore dell'algoritmo che si ritrova disoccupato e si ricicla come rider. 

Lei da ragazza si è arrangiata con lavoretti sottopagati?

«Sono chiamati lavoretti ma per me erano lavori di passaggio, ci sono persone che ci campano famiglie, non c'è niente di male. È lo sfruttamento che non va, so cosa vuol dire. Quando facevo l'agente immobiliare me ne andavo in giro tutto il giorno per acquisire vendite e fare ricerche: non venivo pagata fino all'atto della vendita, il che è assurdo. Poi ho fatto tante altre cose, dalla rappresentante di vestiti alla cameriera, lì però almeno mi divertivo, preparavo gli aperitivi, c'era la musica». 

Lei è cresciuta vicino a Tor Bella Monaca, c'è tutta una mitologia su quel quartiere.

«Sono cresciuta lì vicino, a Torre Angela, fino a dieci anni, poi siamo andati alla Magliana, altra zonetta che te la raccomando, ora è fricchettona, è migliorata. Tor Bella Monaca è un quartiere costruito trent' anni fa, era tutto nuovo quando ero bambina. Le case costavano poco, al centro se tutto andava bene arrivavi in tre quarti d'ora. È una realtà molto semplice, c'era libertà, non mi imbarazza esserci nata». 

Però se il neosindaco Gualtieri come prima cosa dice che bisogna aprire una libreria e dare riferimenti culturali a Tor Bella Monaca...

«È diventata la periferia simbolo. Io dico che prima di pensare alle librerie bisogna pensare alle strade, a come sono ridotte. Dopo passiamo ai libri. Tutte le periferie da questo punto di vista fanno schifo, a Prima Porta quando piove si allaga tutto». 

Si può dire che lei fa questo mestiere per una rotatoria?

«Avevo il provino per il Grande fratello, all'epoca lavoravo in uno showroom, avevo fatto tardi, c'era traffico e a un certo punto pensai di rinunciare, è stato grazie a una rotatoria che ho trovato una strada libera e mi sono presentata». 

Che esperienza è stata il Grande fratello?

«Ognuno dei partecipanti, quando esce, la racconta a modo proprio. In realtà non ho molti ricordi. Non ho più visto gli altri concorrenti. Rinchiusa per cinque mesi, senza cellulare, senza niente. È stata tosta. Ho capito quello che volevo e quello che non volevo. La clausura del lockdown lo scorso anno non l'ho patita grazie a quell'esperienza». 

Poi è arrivato il cinema. L'hanno vista come un'intrusa?

«Sì, mi sono sentita giudicata prima di cominciare, le critiche maggiori le ho avute quando ancora non erano iniziate le riprese di Lo chiamavano Jeeg Robot . Ho creduto in me stessa quando non sapevo se ero brava ma avevo dato la mia essenza. Senza neanche avermi vista davano per scontato che non potessi essere in grado solo perché avevo fatto il Grande fratello, non davano una possibilità. Poi però il brutto anatroccolo è stato accolto dal cigno bianco. Quello è un film indipendente, se non fosse andato bene, anzi se non fosse diventato un caso non lo so dove sarei in questo momento». 

Esordio con David di Donatello.

«Lo tengo in camera da letto». 

In Jeeg Robot è la ragazza disadattata e con problemi psichici che crede nell'invisibile, nel super eroe che la venga a salvare.

«La mia super eroina da piccola era Magica Emi, il cartone sulla bimba che di giorno è normale e viene trasformata da un animaletto magico in una cantante famosa».

Come ricorda quel set?

«Devo tutto a quel film. Ma un giorno, in attesa di una prova di scena con Luca Marinelli e Claudio Santamaria vado alla toilette e per alzarmi non vedo l'angolo di una finestra. Sbatto la testa, perdo un sacco di sangue, tutti pensano che fosse finto, il regista, Gabriele Mainetti mi dice che avevo dato una testata proprio come avrebbe dovuto fare di lì a poco il mio personaggio... Sono finita con i punti in ospedale e per una settimana non sono andata sul set». 

E al provino l'avevano pure fatta piangere...

«Me l'hanno chiesto: ora devi piangere. Io non ci riuscivo. Mi hanno dato un'altra possibilità. Tornando a casa l'ho riferito a mia madre che mi ha detto: ma con tutte le bollette che abbiamo da pagare, non ti viene da piangere se te lo chiedono?». 

L'ambiente del cinema è conformista.

«Conformista e ipocrita, ma come tanti ambienti di lavoro. Se gli attori si prendono troppo sul serio? Spesso nasce da un disagio interiore. Se fai un lavoro pubblico dove sei così esposto, vieni giudicato. Sono le regole del gioco. Tirarsela a cosa porta? Però devo aggiungere che io sono stata fortunata, mi sono sempre trovata con persone splendide che non si danno arie, da Gabriele Mainetti a Marco Giallini, Alessandro Gassman. 

E Carlo Verdone. Ha costruito Benedetta follia su di me, mi diceva di essere spontanea. Consigli? Lui è la personificazione dei consigli. Prima delle riprese mi diceva: oh, mi raccomando, ti voglio supersonica. C'è stata una scena molto faticosa». 

Quale?

«Quando ballo la lap dance. Avvitata su quel tubo di metallo, con i tacchi a spillo, Carlo fece durare il ciak mezz' ora. Io dopo dieci minuti ero stremata. Per allenarmi andavo in un garage con delle vere ballerine di lap dance che di sera lavoravano nei locali di via Veneto». 

Escort?

«Ecco, uno pensa subito a situazioni border. Invece no, sono madri che fanno quel mestiere lì, fanno spettacoli. All'inizio non mi presero in simpatia, pensavano che volessi rubare loro il lavoro. Io non volevo svelare che mi serviva per un film. Quando hanno capito che non ero una rivale siamo diventate amiche». 

Ma come finisce un'attrice sconosciuta ad avere il ruolo da protagonista femminile con Verdone?

«Sono stata reclutata dal produttore, Aurelio De Laurentiis. Mi chiama e mi dice di precipitarmi in dieci minuti nel suo ufficio in pieno centro di Roma. Ero dall'altra parte della città, al supermercato di Prima Porta. Butto in aria il petto di pollo, pago 50 euro di taxi e pensando che mi offrisse il film di Natale vedo Verdone sulla porta che mi dice: vuoi essere la mia nuova protagonista?». 

L'hanno accostata ad Anna Magnani.

«È stato Carlo a dirlo. Spero di valere una sua unghia, ma forse nemmeno quella. Pensi che io non mi rivedo mai, né in foto né in video. È difficile rivedersi sullo schermo grande, noti cose che altri non notano però tu sai che ci sono, è uno specchio. Io per esempio odio i miei capelli, sono ingestibili. Sto leggendo un libro di Frederick Dodson sulla dimensione del sé che mi sta aiutando sul lavoro».

Quote rosa?

«Sono ghettizzanti per noi donne, non se ne può più del politically correct, devi stare attento a ogni virgola che dici. Cominciamo a protestare per la libertà di espressione! Altra cosa è il dovere della memoria, non vorrei che ci dimenticassimo del fascismo». 

Che tipo di ragazza è stata?

«Una ribelle con giudizio. Amavo moto e macchine da corsa. Non sono mai caduta nella tentazione della droga ma ero inquieta, volevo scappare da qualcosa che non sapevo bene nemmeno io che cosa fosse. Non ero facile, sono fobica, ipocondriaca, ho paura di quello che non conosco». 

 È vero che le piacciono uomini divertenti e «sfigati»?

Ride: «Ma non nel senso brutto del termine, mi attrae chi è chiuso, chi non è fanatico e un po' nerd, chi non dà importanza a come si veste, chi non è egoriferito, chi non va dall'estetista a togliersi le sopracciglia, che tra l'altro fa un dolore cane». 

Non teme che al cinema le daranno sempre il ruolo della romana coatta?

«No, nel film di Pif non lo sono e nemmeno in quello di Dario Argento, Occhiali neri , dove interpreto una non vedente che diventa amica di un bambino cinese dopo un incidente d'auto in cui il piccolo perde i genitori. I due sono inseguiti da un killer. È stata un'esperienza mistica, Dario va oltre la normale comprensione, un uomo di 80 anni che torna ad essere un bambino di 6. Ti racconta una storia che fa paurissima come se fosse una favola, ti parla di scene terrificanti con quella sua innocenza...».

·        Irina Shayk.

Roberta Cecchi cosmopolitan.com il 21 maggio 2021. Per Irina Shayk il tempo sembra essersi fermato agli anni in cui sfilava, statuaria e meravigliosa, in slip e reggiseno sulla passerella (super glitterata) di Victoria’s Secret, guadagnandosi così sul campo l’etichetta di “angelo più sexy” di tutti i tempi (sorry Kendall Jenner e Miranda Kerr, siete comunque pazzesche). 35 anni e una bellezza mozzafiato che ha fatto girare la testa a due “belli e impossibili” come Cristiano Ronaldo (oggi felicemente sposato con Georgina Rodriguez) e Bradley Cooper (dal quale ha avuto la figlia Lea De Seine), Irina era ed è una delle donne più belle del pianeta, corteggiatissima dalle star di mezzo mondo così come dai brand extra lusso più esclusivi al mondo, che fanno a gara per averla come loro ambassador. È proprio durante uno dei suoi nuovi shooting fotografici che la Shayk si è ritrovata a posare davanti alla fotocamera in topless, con indosso solo un paio di pantaloni bianchi a vita alta super tattici che “nascondevano” (si fa per dire) la parte inferiore del corpo, in modo da spostare lo sguardo più in là. Mamma mia, ma quanto è bella? Alcune delle foto scattate nel backstage del servizio di moda sono state pubblicate da Irina sulla sua pagina Instagram, dove i fan sono andati immediatamente in brodo di giuggiole davanti a tanta meraviglia (del tutto inaspettata). In realtà i follower della ex di Cooper sono ormai abituati agli scatti super provocanti postati dalla modella che, proprio poche settimane fa, si era mostrata con indosso una tuta trasparente dall’effetto "vedo non vedo" decisamente hot che, inutile dirlo, ha fatto strage di cuori a suon di like. Una donna bellissima e corteggiatissima la Irina Shayk ma che, dopo la fine della relazione con Bradley (avvenuta in modo amichevole nel 2019), ha deciso di rimanere single per dedicarsi al lavoro di mamma. “Ci sono giorni in cui mi sveglio e penso: ‘Oh mio Dio, non so cosa fare, sto cadendo a pezzi’” ha spiegato la modella a British Vogue. “Cerco sempre di non stare lontano da mia figlia per più di una settimana, ma non voglio nemmeno essere quel tipo di donna che non è sincera con se stessa, perché amo il mio lavoro e sono cresciuta in una famiglia gestita da donne”. Ecco perché anche ora che è mamma Irina non ha alcuna intenzione di nascondere la propria sensualità (del resto perché mai dovrebbe?), mostrandosi senza paura o pudori in tutta la sua bellezza che, ancora oggi, la porta a detenere il titolo di "Angelo più sexy di Victoria’s Secret". Chapeau!

·        Iva Zanicchi.

Anticipazione da “Oggi” il 15 dicembre 2021. Iva Zanicchi parla a OGGI, in edicola da domani, della sua partecipazione come concorrente a Sanremo: «Io, Ranieri e Morandi siamo in quota attempati. Ma ce ne sarà per tutti i gusti… Porto un pezzo metà classico, metà moderno. Romantico, da ballare anche stretti stretti. Un mix che mi pare virtuoso e che ha convinto Amadeus». Poi, in risposta alle critiche di chi sottolinea gli ascolti non entusiasmanti del suo show su Canale 5 dice: «Eh allora che cosa dovrebbe dire Baglioni, che sta andando in onda sulla stessa rete? Dovrebbe suicidarsi?... E ha visto che cast ha lui? C’è il mondo intero. Con quei nomi, sulla carta, poteva fare sfracelli. Io al confronto ho ricevuto quattro amici a casa. Ma sono contenta perché lo show ha avuto un gradimento molto alto… Baglioni ha un repertorio unico ma è un programma freddo, lontano dalla gente».

Da oggi.it il 15 dicembre 2021. Iva Zanicchi racconta tutto: la sua prima volta, i grandi amori, la tragedia del Covid per il quale ha perso il fratello. E rivela che questo sarà il suo ultimo Festival di Sanremo da concorrente, scherzandoci su: “Poi magari potrei andarci ancora una volta come ospite, ma è un’altra cosa. Oppure facciamo un trio: io, Berti e Vanoni, e andiamo con l’ossigeno…”

I SANREMO DEL CUORE - La cantante torna in gara a 81 anni, con alcuni record alle spalle. È infatti la donna che ha vinto più edizioni (1967, 1969, 1974). Ma è stata anche la prima italiana ad esibirsi al Madison Square Garden di New York e a fare un tour in Unione Sovietica nel 1981. Le edizioni di Sanremo che non ha mai dimenticato? Le rivela al Corriere della Sera in una lunga intervista: “Il più bello è quello dove ho vinto, insieme a Bobby Solo, con “Zingara”. Ma quel che è rimasto nel mio cuore è il primo nel ’65”. Fu però eliminata: “Ho pianto da sola tutta la notte. Mi dissero che non andavo bene per i grandi spettacoli. Un dolore incredibile. Ma lì mi è scattata la molla, mi sono detta: ‘Vincerò’”.

IL MIO ULTIMO SANREMO - L’Iva nazionale assicura che questo sarà il suo ultimo Sanremo da concorrente. E non nasconde di essere in fremente attesa: “Vuoi mettere star lì in mezzo ai ragazzi, che sono come nipotini per me, a fare la gara? Sono una vera matta. Per fortuna ci sono anche Ranieri e Morandi che alzano la media. Poi magari potrei andarci ancora una volta come ospite, ma è un’altra cosa. Oppure facciamo un trio: io, Berti e Vanoni, e andiamo con l’ossigeno”. Non si aspetta di vincere, ma “voglio presentare una bella canzone con la voce che avevo 50 anni fa”.

LE AMICIZIE - Con alcune cantanti più o meno della sua generazione ha mantenuto rapporti di amicizia, come con Orietta Berti e Caterina Caselli. Con altre è andata diversamente: “Mina negli ultimi 30 anni non si e più vista, Ornella è piacevolissima, ma altalenante: un giorno ti butta le braccia al collo, l’altro giorno ti dice ‘ma chi sei?’” 

LA PRIMA VOLTA E L’AMORE - Alla prima vittoria di Sanremo è legata anche la sua prima volta e… non solo: “Lì ho conosciuto Antonio Ansoldi, figlio del mio discografico. Mi era simpatico, ci siamo frequentati un po’, avevo 26 anni. Poi però gli dissi che dovevo pensarci e che non volevo legarmi. Torno a Ligonchio, perché vivevo ancora con la mia mamma e arrivata non mi sento bene. Vomito. Mia mamma mi guarda e mi dice: “Cos’hai fatto con Tonino?”. Eh sì ero incinta. A 26 anni per la prima volta avevo fatto l’amore…” 

I GRANDI AMORI - Dalla loro unione nacque Michela: “Un sentimento violentissimo. I miei due grandi amore: mia madre e mia figlia. Mia mamma si toglieva il pane per me, ha fatto sacrifici pazzeschi come solo le mamme sanno fare. Mi cantava le romanze”. Però “…lei adorava Milva per la sua voce così profonda. Io un po’ lo pativo perché lei proprio sbrodolava. Diceva: “Che bei capelli, che bella voce, com’è magra”. Io gridavo: ‘Dillo che è la tua cantante preferita’”. Quanto alla figlia Michela, ammette: “L’ho un po’ trascurata, ma è cresciuta bene, mi ha dato tante soddisfazioni. Ha aperto un’etichetta discografica per seguire il solco di suo padre Ansoldi. L’ha chiamata Luvi e io andrò a Sanremo con la sua etichetta. E questo mi rende molto orgogliosa”. 

IL DRAMMA DEL COVID - Iva ha fatto l’amara esperienza del Covid, un morbo che ha colpito anche il fratello, il quale, però, non ce l’ha fatta: “Un dolore straziante, lo adoravo come un figlio. Mio fratello era un poeta , lui teneva insieme tutta la famiglia. Pensare che l’ho sentito al telefono e mi ha detto: ‘I medici dicono che tra due giorni vengo a casa’. Dopo tre giorni è arrivato a casa, ma nella cassa. E ci hanno proibito di aprirla per l’ultimo bacio. Sono ancora incazzata nera con tutti”. Lei ne è uscita, ma si porta dietro alcuni postumi: “Non ho piu riacquistato l’olfatto: non sento l’odore del brodo della domenica, del caffè la mattina. Però grazie a Dio continuo a cantare, respiro bene”.

Iva Zanicchi: «Dopo il Covid non sento più l’odore del brodo. La mia prima volta? A 26 anni e sono rimasta incinta». Maria Volpe su Il Corriere della Sera il 13 Dicembre 2021. La cantante, 81 anni, fa un bilancio della sua vita, privata e professionale. È di una simpatia travolgente Iva Zanicchi, 81 anni. Una da record: è la donna che ha vinto più edizioni del Festival di Sanremo, 3 volte (1967, 1969, 1974); la prima cantante italiana ad esibirsi al Madison Square Garden di New York nel ‘73 con Morandi; la prima ad attraversare l’Unione Sovietica in tour nel 1981. Ora ha una gran voglia di tornare al Festival di Sanremo, il prossimo febbraio.

Il suo Sanremo del cuore?

«Il più bello è quello dove ho vinto, insieme a Bobby Solo, con “Zingara”. Ma quel che è rimasto nel mio cuore è il primo nel ’65».

Ma fu eliminata...

«Proprio quell’esperienza mi ha reso forte. Ero terrorizzata. Gianni Ravera disse: “Non ce la fa a cantare sta ragazza, ha troppa paura”. Fui eliminata. Ho pianto da sola tutta la notte. Mi dissero che non andavo bene per i grandi spettacoli. Un dolore incredibile. Ma lì mi è scattata la molla, mi sono detta: “Vincerò”».

E cosa ha fatto per cambiare rotta?

«Ho fatto di tutto per la rivincita. Il mio passaporto era la mia voce. Gaber è stato il primo che mi e venuto in aiuto, mi disse “non demordere” e mi scrisse una canzone».

Nel 1967 vince Sanremo, ma soprattutto conosce l’amore.

«Sì, lì ho conosciuto Antonio Ansoldi, figlio del mio discografico. Mi era simpatico, ci siamo frequentati un po’, avevo 26 anni. Poi però gli dissi che dovevo pensarci e che non volevo legarmi. Torno a Ligonchio, perché vivevo ancora con la mia mamma e arrivata non mi sento bene. Vomito. Mia mamma mi guarda e mi dice: “Cos’hai fatto con Tonino?”. Eh sì ero incinta. A 26 anni per la prima volta avevo fatto l’amore...».

E da quell’unione è nata Michela.

«Un sentimento violentissimo. I miei due grandi amori: mia madre e mia figlia. Mia mamma si toglieva il pane per me, ha fatto sacrifici pazzeschi come solo le mamme sanno fare. Mi cantava le romanze».

Chissà com’era orgogliosa dei suoi successi canori?

«Sì, moltissimo. Anche se lei adorava Milva per la sua voce così profonda. Io un po’ lo pativo perché lei proprio sbrodolava. Diceva: “Che bei capelli, che bella voce, com’è magra”. Io gridavo: “Dillo che è la tua cantante preferita”».

Lei ha una tempra forte. L’anno scorso a novembre si è ammalata di Covid, un’esperienza durissima.

«Sì, non ho piu riacquistato l’olfatto: non sento l’odore del brodo della domenica, del caffè la mattina. Però grazie a Dio continuo a cantare, respiro bene».

Per il Covid ha perso suo fratello.

«Un dolore straziante, lo adoravo come un figlio. Mio fratello era un poeta, lui teneva insieme tutta la famiglia. Pensare che l’ho sentito al telefono e mi ha detto: “I medici dicono che tra due giorni vengo a casa”. Dopo tre giorni è arrivato a casa, ma nella cassa. E ci hanno proibito di aprirla per l’ultimo bacio. Sono ancora incazzata nera con tutti».

È una vera guerriera.

«Quest’anno ho lavorato per la rinascita. Magari piango la sera in camera, ma di giorno combatto. Sono per la libertà, ma ai no vax dico: “Non vi vaccinate? Bene, state chiusi in casa, ma non venitemi a dire che non esiste il virus perché vi rompo la testa».

Perché desidera così tanto partecipare al prossimo Sanremo?

«Perché alla mia età è senz’altro l’ultimo come concorrente. Vuoi mettere star lì in mezzo ai ragazzi, che sono come nipotini per me, a fare la gara? Sono una vera matta. Per fortuna ci sono anche Ranieri e Morandi che alzano la media. Poi magari potrei andarci ancora una volta come ospite, ma è un’altra cosa. Oppure facciamo un trio: io, Berti e Vanoni, e andiamo con l’ossigeno».

Va per vincere?

«Sinceramente no, vado con determinazione, ma con leggerezza. Voglio presentare una bella canzone con la voce che avevo 50 anni fa».

Tra tutte le cantanti più o meno della sua generazione con chi ha un bel rapporto d’amicizia?

«Con Orietta Berti e Caterina Caselli (ora produttrice e discografica, ndr). Mina negli ultimi 30 anni non si e più vista, Ornella è piacevolissima, ma altalenante: un giorno ti butta le braccia al collo, l’altro giorno ti dice “ma chi sei?”».

In questo momento c’è la grande riscoperta di artiste più adulte: Berti, lei, Vanoni, Milo, Fabrizi a «Ballando». Come mai? Cosa vi unisce?

«Abbiamo fatta tanta gavetta che è quella che ti permette di cantare a 80 anni come se ne avessi 50. Ho cantato tutte le sere nelle balere, nelle feste di piazza, nei teatri».

La tv le manca?

«No, basta. Ho fatto 15 anni di “Ok, il prezzo è giusto!” e altre cose. Ora solo musica».

Che mamma è stata?

«Michela l’ho un po’ trascurata, ma è cresciuta bene, mi ha dato tante soddisfazioni. Ha aperto una etichetta discografica per seguire il solco di suo padre Ansoldi. L’ha chiamata Luvi (iniziali di Luca e Virginia, i suoi figli) e io andrò a Sanremo con la sua etichetta. E questo mi rende molto orgogliosa». 

Mattia Marzi per “il Messaggero” il 7 dicembre 2021. L'Aquila di Ligonchio, così come venne soprannominata negli Anni '60, torna a volare. A 81 anni Iva Zanicchi si riprende il palco del Festival di Sanremo, dove manca dal 2009 e dove trionfò nel '67, nel '69 e nel '74, rispettivamente con Non pensare a me, Zingara e Ciao cara come stai?. Classe 1940, Zanicchi è la veterana del cast dei big in gara a Sanremo 2022 (in programma dall'1 al 5 febbraio), annunciato da Amadeus sabato sera, composto da super big da 280 Dischi di platino complessivi vinti (sui social monta intanto la rabbia degli esclusi, a partire dai Jalisse, scartati per la venticinquesima volta consecutiva). All'Ariston la cantante ritroverà amici come Gianni Morandi (di anni ne ha 76) e Massimo Ranieri (70), ma anche protagonisti della nuova scena che lei stessa ammette di non aver mai sentito nominare: «Come quei due là», dice. Si riferisce a Highsnob e Hu? «Esatto. Mi hanno detto che quella Ditonellapiaga (duetterà con Rettore, ndr) è molto brava. Mentre di loro non so proprio nulla». Non è la sola. In compenso ci sono diversi protagonisti del pop italiano: Emma, Elisa, Achille Lauro, Mahmood (in coppia con Blanco).

Le piacciono le scelte di Amadeus?

«Eccome. Io quest' anno desideravo proprio esserci. Sa, potrebbe essere anche il mio ultimo Sanremo. Faccio le corna, ma sono pur sempre una signora di 81 anni. Non smetterò mai di ringraziarlo per avermi presa». 

È stata lei a farsi avanti o lui a cercarla, come l'anno scorso con Orietta Berti?

«Ci siamo cercati a vicenda. Io mi sono proposta: Verrei volentieri. Amadeus è stato un signore: Mandami il pezzo. Ti prometto che lo ascolterò e poi ti farò sapere cosa ne penso. Qualche giorno fa mi squilla il telefono: Ci sei. Ma la conferma l'ho avuta solo sabato sera, guardando il Tg1 come tutti, seduta in casa con la caviglia fasciata».

Cosa ha fatto?

«Giovedì sono scivolata sull'asfalto mentre andavo a fare il tampone prima di prendere il treno per Roma per le prove di Ballando con le stelle, dove mi sarei dovuta esibire proprio sabato sera come ballerina per una notte. Mi hanno portata in ospedale, avevo la caviglia gonfissima. Ho dovuto chiamare Milly Carlucci per disdire a malincuore la mia partecipazione al programma».

La canzone che presenterà in gara come si intitola?

 «Amadeus mi ha detto che non posso ancora svelarlo. Però posso dirle che è una gran canzone, con una bellissima melodia. Era quello che volevo e quello che Ama si aspettava da me. L'ha scritta e arrangiata il grandissimo Celso Valli, braccio destro di Vasco Rossi. È una canzone classica. Mi piace ripetere questa parola, perché ad essere classici io non ci trovo nulla di male».

La sua ultima partecipazione, tredici anni fa, non fu un successo: Ti voglio senza amore fu eliminata prima della finale e lei accusò Roberto Benigni, reo di averla presa in giro durante il suo passaggio da superospite sul palco, di averla penalizzata. Ha archiviato tutto?

«Sì, ci ho messo una pietra sopra e oggi di quella vicenda preferisco non parlarne più. Mi ferì, ma poi lo perdonai: dobbiamo essere orgogliosi di personaggi come Benigni, che hanno reso grande nel mondo l'arte italiana».

La gara la spaventa?

«Per niente. Il Festival l'ho già vinto. Tre volte. Un record, per una cantante donna». 

Cosa cercherà sul palco dell'Ariston?

 «Un riscatto dopo mesi difficili. La perdita di mio fratello, scomparso per complicanze legate al Covid l'anno scorso, è una ferita ancora aperta. Fui ricoverata insieme a lui. Poi io mi salvai, mentre lui, cardiopatico, restò a lottare in ospedale. 

La sua scomparsa è stata uno shock. Ho trovato la forza di reagire. Con le due serate su Canale 5, D'Iva, mi sono ripresa il mio posto sulla scena, aiutata da amici come Rita Pavone, Romina Power, Cristiano Malgioglio. All'Ariston canterò la mia rinascita». 

A Orietta Berti quel palco ha portato fortuna: se Dargen D'Amico e Achille Lauro le proponessero di incidere un tormentone estivo per il prossimo anno, accetterebbe?

«Quello che è successo a Orietta è qualcosa di irripetibile. Non mettiamo limiti alla provvidenza, comunque (ride). Piuttosto, se lo immagina un bel trio Morandi, Ranieri, Zanicchi?. 

Old but gold, dicono gli americani: vecchio, ma buono.

«Appunto. Vuole mettere? (ride)».

Anticipazione da "La Confessione - Nove" l'11 novembre 2021. Nuovo appuntamento sul Nove con le interviste senza filtri di Peter Gomez ai suoi ospiti a “LA CONFESSIONE”: venerdì 12 novembre alle 22:45 il direttore de ilfattoquotidiano.it intervista la cantante, conduttrice tv ed ex europarlamentare di Forza Italia Iva Zanicchi. La vincitrice, per 3 volte, del Festival di Sanremo, ha raccontato della volta in cui "scappò" dalle avances di Alberto Sordi, quando il celebre attore romano la invitò nella sua suite per una notte d'amore. "Lui mi volle madrina per la prima di un film, a Bologna - ha cominciato la Zanicchi - forse l'unico film non proprio centrato di Alberto, un film sul calcio. E fu carinissimo: andammo a cena, era pieno di gente, c’era anche il mio produttore. Io che sono timida e che sono astemia, cominciai a bere, perché dentro di me dicevo: “Adesso qui penseranno tutti che sono l'amante di Sordi”. Così continuai a bere e dopo un po' stetti male sul serio. Il mio accompagnatore, che era un mio manager, mi portò fuori e gli dissi: 'Io sto malissimo, devo andare'. Allora lui tornò in sala e disse: “La signora non si sente tanto bene, la accompagno in albergo”. Sordi - ha continuato divertita la cantante emiliana - aveva prenotato una suite per me in un albergo bellissimo di Bologna, e quando arrivai lì, lui mi chiamò e mi disse: 'Iva come stai?', e io: 'Bene, bene'. E lui: 'Se vieni qui, ti faccio vedere la mia collezione di farfalle'. Oserei dire, ma non posso, 'di uccelli' - ha detto ancora ridendo la Zanicchi - Allora io, ancora ubriaca, ci andai e lui fu carinissimo. All'inizio parlammo un po', poi mi prese, mi buttò sul letto e io dissi: 'No, dai, Alberto, cosa fai? Non così. Vado un attimo in camera e mi metto comoda', perché ero ancora in abito da sera. Che vigliacca che sono stata, Alberto perdonami! Io andai in camera, chiamai il mio impresario e utilizzando la scusa di una zia anziana, che ho fatto morire una decina di volte, andai via. E nonostante questo, lui fu ugualmente carino - ha concluso l'ex conduttrice di Ok, il prezzo è giusto - e non mancò di chiamarmi nemmeno per il mio compleanno, come faceva sempre. Io dentro di me pensavo: “Quest’anno non mi chiamerà di sicuro”. Invece mi chiamò, mi fece gli auguri e mi disse: “A Zanì, non sai che te' sei persa””.

"Illazioni su mio padre e ha offeso tutti i siciliani". Gianfranco Gallo contro Iva Zanicchi: “Ti querelo e il ricavato lo userò per i ragazzi di Napoli”. Elena Del Mastro su Il Riformista il 14 Novembre 2021. Non ha tollerato alcune illazioni nei confronti di suo padre, Nunzio Gallo, e nemmeno alcune frasi sui siciliani pronunciate da Iva Zanicchi in Tv. Così da figlio e napoletano Gianfranco Gallo ha deciso di querelare la cantante. Lo ha annunciato in un video su Facebook dove ha spiegato cosa è successo. Il ricavato di questa azione legale sarà devoluto per i ragazzi di Napoli, quelli che vogliono cantare ma che non ne hanno la possibilità. Venerdì 12 ospite a “La Confessione’ in onda su La7, il conduttore Peter Gomez, ha chiesto a Iva Zanicchi cosa ne pensasse di Silvio Berlusconi dopo i problemi con la giustizia emersi negli anni. “Lei dice ‘no Berlusconi è una brava persona’, per carità magari è così – racconta Gallo nel video – Poi Gomez le chiede sulla sua amicizia con Dell’Utri che è stato al centro di processi per mafia, dice lui, e lei dice ‘no non ci credo mai, è una persona coltissima, intelligentissima. Poi lei vuole strafare e dice a Gomez per giustificare Dell’Utri ‘mi scusi ma se lei nasce a Palermo dei contatti li dovrà pure avere no?’. E no perché pure Falcone e Borsellino sono nati in Sicilia, lei ha offeso tutti i siciliani”. “Ma lei è voluta andare ancora oltre – continua Gallo – E per giustificare il fatto che gli artisti abbiano contatti con persone strane, che non si sa da dove vengono, magari mafiosi, lei dice ‘noi cantavamo a Madison Square Garden di New York’, noi chi non l’ha specificato, lei dice ‘un posto bellissimo che addirittura i Beatles facevano fatica ad arrivarci. Poi arrivava Nunzio Gallo e ci andava. Come se lo spiega?’ Signora Zanicchi innanzitutto perché lei avrebbe dovuto cantare al Madison Square Garden e Nunzio Gallo no”. L’attore racconta quello spaccato di anni: “Nunzio Gallo aveva vinto Sanremo, la prima Canzonissima al Festiva di Napoli – continua nel video Gallo – Andava lì perché gli emigranti lo volevano. Tra l’altro queste cose erano organizzate da Vincent Gardenia che è un attore che poi ha vinto un oscar. Mio padre non ha cantato solo lì. Ha cantato per esempio anche alla Scala di Milano con Renata Tebaldi nella Boheme. Lei ha mai cantato alla Scala di Milano? Io credo di no”.

Iva Zanicchi in Tv: “A New York Nunzio Gallo cantava al Madison Square Garden, secondo lei perché?”

E infine ha annunciato l’azione legale: “Quindi sono stato indeciso se farle una querela o no, poi ho deciso di fargliela e con i soldi eventuali che prenderemo per gli effetti di questa querela, io finanzierò una fondazione a nome di mio padre che dia delle borse di studio ai ragazzi napoletani non abbienti che vogliano studiare canto e non ne abbiano la possibilità. Per cui cara signora Zanicchi la ringrazio anticipatamente a nome di tutti i napoletani e di tutti i meridionali”. E fa un occhiolino. L’attore napoletano poi qualche ora dopo su Facebook turna sulla vicenda: “Ora, cambiamo pagina. Gli avvocati faranno il loro lavoro. Grazie a tutti per la solidarietà e la stima mostrate verso la mia famiglia di attori, cantanti, artisti. Io mi sento un napoletano nel mondo perchè Napoli è un mondo e in ogni parte del mondo c’è Napoli. Mi sento un napoletano lontano dagli sereotipi, un napoletano vero: libero, nobile e popolare ma proiettato nel futuro. Non ancoràto ad un passato ingombrante e spesso folkloristico. Napoli è e deve continuare ad essere avanti. E mi sento meridionale, sempre e per sempre, perché non si può non esserlo finché ci saranno dei “settentrionali” non per connotazioni geografiche ma per presunta superiorità”.

Elena Del Mastro. Laureata in Filosofia, classe 1990, è appassionata di politica e tecnologia. È innamorata di Napoli di cui cerca di raccontare le mille sfaccettature, raccontando le storie delle persone, cercando di rimanere distante dagli stereotipi.

Da ilsussidiario.net il 6 novembre 2021. Giucas Casella confessa la sua grande passione per Iva Zanicchi al Grande Fratello Vip. Lo fa in un confessionale in cui si lascia andare a rivelazioni anche molto piccanti: «Un pensiero ce l’ho fatto per lei. Iva io ti ho sempre ammirato, sei una donna fantastica, io ho fatto dei pensieri nei tuoi riguardi. – e scende ancora di più nel dettaglio, dichiarando – Mi piacevi tantissimo ma non ho mai avuto il coraggio di dirtelo. Mi attizzava moltissimo, c’era questa attrazione fortissima, quando la incontravo la mia bandiera si alzava». Una confessione piuttosto piccante, che trova la replica della Zanicchi. «Caro Giucas è da lunedì sera che una marea di pensieri mi assalgono e confondono. Le tue parole mi lusingano e mi portano a fare una confessione: qualche brividino è venuto anche a me nei tuoi confronti», dice la cantante nel messaggio.  

Marinella Venegoni per "la Stampa" il 3 novembre 2021. C'è chi si narra in un documentario come Caterina Caselli, chi viene raccontato in docufilm come Paolo Conte. In tanti scrivono, ma Iva Zanicchi di libri ne ha già pubblicati due. È arrivato così il momento della glorificazione via tv, anzi Canale 5 dove (come nelle altre reti Mediaset) è di casa: due puntate per la vulcanica entertainer, in prima serata il 4 e l'11 con D'Iva, un pot-pourri con chiacchiere, interviste e ricordi in comune con una vasta platea di colleghi famosi fra i quali, per capirci, Orietta Berti a cui racconta una barzelletta osée, Andrea Pucci con cui rievoca i fasti di Ok il Prezzo è giusto, Silvia Toffanin che finalmente risponde invece di domandare. Un onewoman show in affollatissima compagnia, dove a farla da padrona sarà soprattutto la musica, il primo eterno amore al quale è stata spesso sottratta sia dalla verve che dalle parentesi politiche in Parlamento o a Strasburgo, nelle file di Forza Italia. Iva Zanicchi ha 81 incredibili anni, ne festeggia 60 di carriera e a breve uscirà un suo nuovo album. Porta tacchi alti senza calze, ed è un torrente di racconti e parolaccine. 

Cara Iva, alcune sue espressioni forti pare siano state tagliate.

«Ma io parlo così. A me la Maionchi mi fa un baffo». 

Ma come mai questo omaggio di Canale 5? Viene in mente la lezione della Rai, che non ha mai celebrato come si deve Raffaella Carrà.

«Grazie Mediaset, grazie Piersilvio, fate bene a festeggiarmi, meglio prima che dopo. Alla fine è una cosa fra amici, con Cenci che è un grande regista ma anche musicista e la gioia di poter cantare con una grande orchestra. Io ho bisogno di essere amata, chiedo a tutti: "Mi vuoi bene?". 

Ma in D'Iva ci sono anche duetti virtuali: con Milva, con Raffaella Carrà, con Aznavour. Nella prima puntata Orietta ed io cantiamo Romagna mia e L'uva focarina, Gigi D'Alessio si è sacrificato in tonalità da donna per farmi cantare in napoletano. E poi c'è Il mio bambino, una rarità che mi scrissero Mogol e Battisti». 

Lei ricorda tutto quello che le è successo in giro per il mondo. Racconterà di un momento imbarazzante in Giappone.

«Questo è nella seconda puntata, dove parlo dei tour. Dovevo fare per contratto visita a un tempio sul vulcano Fujiyama, da giorni non andavo in bagno e stavo male. Gli organizzatori costruiscono dei meeting intorno al mio problema, cercano rimedi ma niente. Ogni tanto qualcuno si affaccia alla mia camera e mi chiede notizie. In breve, mi trascino fino al tempio, dove vedo un corridoio pieno di gabinetti. Mi infilo e poi esco sorridendo. Mi fanno passare fra due file di persone cui viene annunciata l'avvenuta liberazione con compiacimento generale. Ma guardi che nell'ultima puntata ci sono pure Rita Pavone, Romina Power, Fausto Leali, Malgioglio che è mio figlio e mio fratello, insieme cantiamo Moliendo Café». 

Fu un successo di Mina.

«È la più brava di tutte perché è musicale, ma non ha le basse. Milva non aveva le alte. Poi c'è Iva che ha le basse le medie e le alte». 

Il Covid le ha danneggiato la voce? Ma, mentre ci siamo, parliamo anche dei no vax.

«Non credo, in questi mesi mi sono comunque fatta aiutare da un coach. Non parliamo di Covid, è stato un anno e mezzo orribile, mio fratello è morto nel mio stesso ospedale, non l'ho più visto. Se sento dire che non esiste il Covid mi arrabbio, fossi al governo metterei il vaccino obbligatorio come quando ero piccola». 

Le piace Draghi? E ce lo vede Berlusconi presidente?

«Draghi ci rappresenta bene e non vuole accontentare tutti. Il mio Berlusconi oggi è Piersilvio, ha carattere e sensibilità. Il papà è una delle persone più generose che conosco, facesse il presidente ci metterebbe il cuore. Io mi auguro per lui, per la sua famiglia e i figli, che non accetti una eventuale investitura». 

Iva Zanicchi: «Berlusconi presidente? Sarebbe ineccepibile, ma mi auguro che non accetti». Renato Franco su Il Corriere della Sera l'1 novembre 2021. O il Festival di Sanremo o la presidenza della Repubblica. Iva Zanicchi punta in alto. Un po’ con l’ironia un po’ con la convinzione delle dive di un tempo, quelle che conoscono tutti, hanno conosciuto tutti, hanno attraversato il nostro tempo. Canale 5 adesso la celebra con due puntate speciali, D’Iva, un one-woman show in due serate-evento in onda giovedì 4 e giovedì 11 novembre. Uno spettacolo fatto di canzoni e aneddoti, ricordi e ospiti (Anna Tatangelo, Gigi D’Alessio, Fausto Leali, Andrea Pucci, Gerry Scotti, Rita Pavone, Romina Power, Lola Ponce, Cristiano Malgioglio, Silvia Toffanin...) . «Racconto la mia vita con leggerezza, anche se tante cose me le hanno censurate: quanto a parolacce sono peggio della Maionchi, anzi lei mi fa un baffo».

La giusta celebrazione? «A Mediaset hanno voluto premiarmi, fanno bene a festeggiami: meglio prima che dopo. Canto anche dal vivo, che è sempre meglio che dal morto».

Lo sente l’affetto del pubblico? «A una certa età si diventa sentimentali, in questo spettacolo ho voluto intorno a me solo persone che mi amano. A tutti chiedo sempre: mi vuoi bene? Ho bisogno di essere circondata da affetto».

Nello show c’è anche Orietta Berti... «È la star number one in questo momento. Mille è il successo vero dell’estate, gliel’ho anche detto: con questa canzone hai spaccato le palle».

Sincera: chi è la più grande? «Mina è la più brava di tutte, la più musicale e mi fa parecchia fatica ammetterlo. Mina è la più brava negli acuti; Milva era la più brava nelle note basse. Io però so fare le alte, le medie e le basse, dunque...».

Sua madre però preferiva Milva... «Eh sì, infatti nel programma faccio un duetto virtuale con lei. E anche con Aznavour e Raffaella Carrà, visto che ultimamente non l’ha ricordata nessuno...».

Come allena la sua voce a 81 anni? «Non la alleno, è un dono di natura. Con l’età ho guadagnato qualcosa nelle note basse».

Iva Zanicchi, le ultime notizie

La politica che sentimenti le suscita? «Dentro al cuore, in fondo in fondo, ma molto in fondo, c’è un po’ di falce e martello».

Talmente in fondo che non si vede. Non scherzi. È stata candidata per Forza Italia. Cosa pensa di Berlusconi presidente della Repubblica? «Siamo sinceri, ha una certa età, dovrebbe pensarci bene. Io amo Berlusconi, è uno degli uomini più generosi che abbia mai incontrato. Se diventasse presidente so che lo farebbe in modo incredibile, ineccepibile, ma gli consiglio di dedicarsi ai figli e alla famiglia. Mi auguro che non accetti».

Lo ama, ma qualcosa di sbagliato magari lo ha fatto... «L’unico errore di Berlusconi è sempre stato quello di voler accontentare tutti. È successo con Bossi, con Fini, con Casini».

Chi vedrebbe bene come presidente? «O Berlusconi, o Draghi, o io: finalmente una donna al Quirinale».

Draghi le piace? «Non ne sono innamorata, ma mi piace. Ha carisma all’estero, ci rappresenta bene. Ecco, lui a differenza di Berlusconi è uno che non vuole accontentare tutti, questa è la sua forza».

Tanti elogi a Silvio, ma a Pier Silvio Berlusconi? «Ditegli che gli voglio bene, così mi fa fare altre due puntate».

Sanremo? «Ci andrei subito, ma in gara, mica come ospite: il Festival è l’unica e vera vetrina per la musica italiana. Bisogna fare i complimenti a Amadeus e Fiorello, che sono uno la spalla dell’altro. Comunque andare a Sanremo come ospite non mi interessa».

L’errore che non rifarebbe? «La copertina di Playboy, è l’unica stupidità che ho fatto».

Il Covid cosa le ha lasciato? «Ho perso mio fratello, mi avevano detto che tornava a casa e poi non ce l’ha fatta. Il dolore per la sua scomparsa è indescrivibile, un dolore cattivo che ha colpito migliaia di famiglie. Per questo quando sento dire che il virus non esiste mi arrabbio, è un crimine non arrendersi all’evidenza. Se non vuoi vaccinarti stai a casa. Fossi al governo io, il vaccino sarebbe obbligatorio: sei padrone di non farlo, ma se non ti vaccini stati a casa e non rompi le palle».

Maria Elena Barnabi per "GENTE" il 29 ottobre 2021. È la donna dei record della canzone italiana: Iva Zanicchi è stata la prima a esibirsi al Madison Square Garden di New York negli Anni Settanta, la prima artista italiana ad andare in tour in Unione Sovietica, ed è anche la cantante che ha vinto più Festival di Sanremo (tre edizioni, tra cui quella del suicidio di Luigi Tenco, nel 1967). Ma nella sua lunghissima carriera l’Aquila di Ligonchio, il paese emiliano dove è nata il 18 gennaio del 1940, non ha “solo” cantato con la sua bellissima voce: ha recitato al cinema e in teatro, ha fatto la conduttrice televisiva per 15 anni in quel Ok, il prezzo è giusto!, creando il tormentone che la accompagna a ogni incontro con i fan (“Cento! Cento!”), e ha anche servito il Paese come europarlamentare per cinque anni con il Popolo delle Libertà. Eclettica, roboante e vulcanica, fino al 1985 è stata sposata con il discografico Antonio Ansoldi, dal quale ha avuto la sua unica figlia Marisa, 54enne psicologa, che l’ha resa nonna di Luca, 23 anni, e Virginia, 18. Da 35 anni sta con Fausto Pinna, che ha dieci anni meno di lei, di cui, dice sempre, è innamoratissima e riamata. A Gente ha aperto la sua casa a Laglio, in provincia di Como, nella quale vive dal 1974: la sala con il pianoforte («Non lo suono, ma sono bravissima a spolverarlo», racconta lei con la sua consueta ironia), la sala da pranzo con un vecchio camino, il giardino con le sue amate piante. 

Come è nata questa casa?

«Ero stufa della città, e mi sono trasferita con mia figlia Marisa: lei è cresciuta qui, ancora oggi è molto affezionata alla casa, vive qui vicino. Non c’era niente, l’ho costruita io, pezzo per pezzo. È rustica, comoda, accogliente. A me piace così». 

Il 4 e l’11 novembre in prima serata su Canale 5 ci sarà D’Iva, che celebra la sua carriera, che ormai dura da più di sessant’anni. Riesce ancora a emozionarsi?

«Emozionarmi? Anche di più. Saranno due serate bellissime, con un sacco di ospiti: Orietta Berti, Fausto Leali, Rita Pavone... Voglio entrare nelle case di tutti con la mia musica, le mie emozioni ma anche i miei racconti: voglio far ridere, soprattutto».

Tra le grandi cantanti italiane, lei è sempre stata quella ironica

«È nel Dna della mia famiglia. Al pomeriggio le donne del mio paese, dopo aver fatto i mestieri, si trovavano a casa di mia nonna per sentirla raccontare barzellette. Anch’io le adoro: più sporche sono, più mi piacciono».

L’emozione più grande della sua carriera?

«Il Festival di Sanremo. Dietro le quinte era una tragedia: gente che sveniva, che cantava con il rosario in mano... Una volta andai da Modugno che cantava dopo di me per farmi rincuorare, invece era lì che picchiava la testa contro il muro. Letteralmente. “Iva, ho una paura matta, me la faccio sotto”, mi disse. Gli chiesi perché continuava a venire al Festival. Mi rispose: “Per provare queste emozioni”. E aveva ragione».

Sanremo è cambiato?

«Sì, ne parlavo con Orietta Berti alla scorsa edizione: lei era emozionatissima. I giovani mica tanto. Per noi doveva per forza andare bene. Per loro è solo una cosa in più. Oggi nessuno vuole fare l’interprete, tutti vogliono scrivere. E poi siamo globalizzati: i giovani hanno dimenticato la melodia e fanno il rap. Sono i loro tempi, ma le assicuro che tra vent’anni nessuno canterà quelle canzoni». 

Non salva nessuno delle nuove leve?

«Laura Pausini è brava a cantare. Anche Elisa e Giorgia sono brave, ma non hanno il repertorio giusto. Dovrebbero cantare e basta, e non voler scrivere». 

 Lei invece ha un repertorio pazzesco, canzoni scritte dai più grandi autori. Chi ricorda?

«Lucio Battisti chiamò la mia casa discografica e disse che voleva lavorare con me. Rimanemmo una settimana in studio. Lui era allegro, felice, simpaticissimo. La canzone fu un fiasco». 

Con Charles Aznavour fece vari spettacoli. Come lo ricorda?

«Era un gran signore, molto affascinante. Dal vivo era alto un metro e venti, sul palco era un gigante. Un giorno ad Amburgo mi  portò a mangiare in un locale che non conosceva: appena seduti, cominciò uno spettacolo con uomini e donne nude che facevano l’amore. Un imbarazzo! Eravamo finiti nella zona rossa, quelle delle donne nude. Lui era mortificato». 

Diventò una vera star internazionale, famosissima in Sudamerica, cosa che non riuscì ad altre sue colleghe. Cantò ovunque, anche al Madison Square Garden di fronte a 25 mila persone.

«Mi sono esibita tantissime volte a New York, spesso in coppia con altri artisti: Gianni Morandi, Claudio Baglioni, Riccardo Fogli, Nicola di Bari...». 

Facevate notti pazze?

«Per niente. Cantavamo, cenavamo e poi andavamo a dormire, perché il giorno dopo dovevamo svegliarci presto per andare a Boston, Chicago, o in Canada. Erano tutti sposatissimi, alcuni con le mogli al seguito, altri con una “guardia del corpo” mandata dalla moglie per controllarli».

Lei ha viaggiato in mezzo mondo, ma ha sempre detto di avere il terrore degli aerei. Come faceva?

«Bevevo due o tre whisky e, siccome ero astemia, mi ubriacavo subito e diventavo molesta. Una volta in volo c’era un monsignore: mi sedetti accanto a lui un po’ alticcia e lo importunai chiedendogli come mai lui poteva confessare me, ma io non potevo confessare lui. L’hostess mi prelevò e mi portò quasi di peso nella cabina di comando. Viaggiai seduta lì, di fianco al pilota, con il comandante in seconda in piedi dietro di me: gli avevo rubato il posto!». 

Il grande compositore Mikis Theodorakis scrisse per lei Un fiume amaro, che vendette più di un milione di dischi.

«È uno dei pochi dischi in Italia ad aver fatto quel record. Fu un successo pazzesco, molto popolare. Io comunque sono quella che ha venduto più dischi di tutte». 

Tutte sarebbero le altre tre grandi cantanti dei suoi tempi: Mina, Milva e la Vanoni. Una buona parola per loro?

«Mina ha uno strumento in gola, ha note alte pazzesche e la sua più grande qualità è la musicalità. Milva è un basso naturale, era una voce scura, come non c’è mai stata in Italia. Ornella invece è una “cantattrice”: trasmette emozioni. E se ascolti Ornella mentre fai l’amore, di sicuro viene meglio».

E per Iva Zanicchi che parole ha?

«Madre natura le ha dato una voce che certe volte lei ha male usato, ma che è la più bella di tutte: ha i bassi di Milva e gli acuti di Mina, anche se non ha la sua musicalità. Ha un po’ di tutte. Insomma: Iva è la più brava (e ride tantissimo, ndr)». 

Dagospia il 29 aprile 2021. Da Un Giorno da Pecora. Iva Zanicchi e quell'incontro con Pablo Picasso. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, l'aquila di Ligonchio ha raccontato di aver conosciuto di persona il grande pittore. “Ho ancora il suo autografo, me lo presentò un mio amico cantante che lo conosceva”. Per caso ha avuto un flirt con l'artista? “Magari, l'ho appena incontrato, lui era con la moglie e coi figli”. Le sarebbe piaciuto però? “Con un genio universale così c'è solo da esser onoratissime. Come dice quel famoso film, Amarcord, 'gradisca', che altro vuoi dire”. Lei avrebbe detto questo a Picasso? “Si ma non mi ha degnato di uno sguardo”. Era un bell'uomo? “No, era orribile anche se molto affascinante. Aveva occhi intelligentissimi, vivi, che ti mettevano quasi a disagio. Ma io gli guardavo solo le mani e pensavo a cosa avevano creato...” Passiamo all'attualità: sta lavorando a qualche nuovo progetto? “Sto scrivendo il mio quarto libro, il libro che io chiamo "del Covid", quando l'ho avuto mi sono salvata perché pensavo a quel che avrei scritto. Il libro si intitolerà "il volo del Nibbio". E poi sto registrando un nuovo disco, ho registrato un brano che si chiama 'Amore mio malgrado'”, ha detto la cantante a Un Giorno da Pecora.

Claudio Sabelli Fioretti per tpi.it il 21 aprile 2021. Si può fare un’intervista sull’intervista? Se solo sapessi che cosa vuol dire, si può fare una metaintervista? Insomma, si può intervistare una persona facendole le stesse domande fatte dieci anni prima, parlando degli stessi argomenti, controllando se sono state dette delle imprecisioni, delle bugie o semplicemente se si sono cambiate delle idee, si sono stravolte delle convinzioni? Controllando i danni del tempo, su persone ed opinioni. Frasi desuete, previsioni azzeccate e cose del genere. Si può fare. Che poi questa attività produca dei risultati utili, è tutto da dimostrare. E forse la risposta è no. E facendo riferimento alla nobile figura del benaltrismo, si può anche arrivare ad affermare che, dovendo impegnare il proprio tempo, c’è ben altro impiego che si può farne. Ma io ci ho provato e i risultati mi sono piaciuti. Ho usato dei contenuti (le cinquecento interviste realizzate nella mia lunga carriera) e un mezzo (o se vogliamo un luogo) Clubhouse, il nuovo social che impazza in tutto il mondo ed ora anche in Italia. Ho cominciato beneficiando della collaborazione di Iva Zanicchi (anche se non siete anziani come me, avete capito chi è vero? “Prendi questa mano, zingara”, “Ok il prezzo e giusto” e roba pop del genere). L’avevo intervistata 17 anni fa. Iva si è sottoposta all’esperimento rivoluzionario mai tentato nel mondo. Abbiamo aperto una room in Clubhouse (titolo “Cazzoni stonati”, e già ci siamo portati avanti col programma) e abbiamo cominciato. Siamo andati avanti per tre ore. Lei disponibile e spiritosa. Io recitando il ruolo del giornalista a schiena dritta che cercava di coglierla in castagna. E alla fine anche i listeners e gli speakars della room, cioè i veri “cazzoni stonati”, si sono esibiti nel gioco dei piccoli giornalisti subissandola di domande spesso molto più intelligenti delle mie. Insomma abbiamo dato vita a un esperimento nell’esperimento (un metaesperimento?). Una lezione di intervista dal vivo. Volete vedere come funziona? Ecco, basta che stiate un po’ attenti. Ricordo a chi fosse un po’ distratto che Clubhouse è un social esclusivamente audio. No video, no scritti. Praticamente una radio realizzata dagli ascoltatori. Iva entra nella room con un po’ di ansia. E confessa subito di essere messa male quasi quanto me. “È tutto il giorno che ho un patema d’animo. Pensavo di non riuscire ad aprire tutte queste camere, queste cose, adesso ho imparato bene. Ho pigiato sulle mattonelle giuste. Ma pensa che io, deficiente, mi sono tutta truccata. Ma ti rendi conto? Poi è venuta mia nipote che mi ha detto: ‘Nonna guarda che non ti vedono mica, ti sentono solo’. E no, bestia, è tutto il giorno che mi trucco! Mi sono messa perfino la ciglia finta. Va bene, partiamo, non dico parolacce. Prometto”. E comincia a cantare. “Canzoniii stonateee”. Iva, sai che canti bene? Dovresti fare la cantante. “Amore, ne avrei bisogno, vorrei fare un disco, se mi puoi raccomandare”. Inizio decente, ma, non so perché, cominciamo a parlare di politicamente corretto. “Oggi parlare è diventato pericoloso, ti attaccano tutti. Bisogna stare attenti. Non si può dire povero perché offendi i poveri. Bisogna dire diversamente ricco. È una stronzata, o no?”. Sì, ammetto, è una stronzata. “Stronzata si può dire?”. Stronzata si può dire. “E vuoi mettere le favole? Sono tutte politicamente scorrette. Cenerentola, Cappuccetto rosso, tutte diseducative”. Io muoio dalla voglia di cominciare la metaintervista, ma i ricordi sono tanti. I ricordi di quando la intervistai (Startekking, Rai3, con Filippo Solibello), sotto le Torri del Vajolet e lei mi svenne fra le braccia e gli alpinisti la riconobbero e cominciarono dalla cima del Catinaccio a urlare “Cento! Cento! Cento!”. “È stata l’intervista più singolare della mia vita”, dice. Poi, se Dio vuole, cominciamo. L’intervista che andiamo ad affrontare la feci per Sette il 22 luglio di 17 anni fa. Preistoria. Facciamo il tagliando. Controlliamo se hai detto bugie, se sei pentita di qualche risposta, se hai cambiato idea. Le elezioni europee. Perdesti per pochi voti. “Mi telefonò Berlusconi con tutti i casini che aveva e anche con tutti i follini. Bella questa battuta, vero?”. Splendida. La capisco solo oggi dopo 17 anni. “Berlusconi è stupendo, non come tutta la gentaglia di cui si circonda”. Le ricordo che l’avevo quasi convinta a cambiare bandiera, a passare a sinistra, con Prodi. “Ero molto tentata”. Io sono sempre stato convinto che tu sei comunista, una vera comunista. Li avevo convinti. Ti avrebbero presentato in Calabria. Avresti sfondato. Ma alla fine, detto con stile ed eleganza, ti sei cagata sotto. L’esperimento finora sta funzionando. Iva conferma quello che mi disse. Ma il meccanismo si inceppa su Bandiera Rossa. Ai tempi ero riuscito a fargliela cantare. Stavolta si rifiuta. Ma come, tu, comunista di Ligonchio! “Io non sono comunista, amore. I miei erano tutti di sinistra, ma socialisti. Stimavano molto Saragat”. Neanche da bambina? “Da bambina il prete di Ligonchio mi diceva: "Vai dalle vecchiette e digli di votare Dc perché altrimenti vanno all’inferno". Io andavo dalle vecchiette e le accompagnavo fin dentro la cabina. E gli davo una mano a mettere la crocetta sul simbolo della Dc”. Ma a casa tua erano tutti di sinistra! “Quando mio padre si presentò con il Psdi ebbe un solo voto, il suo. Non l’ho mai visto così incattivito. Non lo aveva votato nessuno, nemmeno il fratello, nemmeno il cognato. Neanche mia mamma lo aveva votato. Quando lesse i risultati prese mia madre per il collo e la sospese contro la parete. Le disse: ‘Vigliacca, perché non mi hai votato?’ Mia madre scese dalla parete e, con le mani su fianchi, disse: ‘Eh già, io vado all’inferno per te?’”. Ovviamente arriviamo a parlare di Berlusconi, di quella volta che da Santoro disse: “Berlusconi? Proviamolo. E se non va bene gli diamo un calcio in culo”. “Questa mia boccaccia! Era la prima volta che dicevo una parolaccia in tv”. Ma poi gliel’hai dato il calcio in culo? “Berlusconi mi ha ringraziato. Ma mi ha anche detto che il calcio in culo me lo potevo risparmiare”. Niente da fare, Iva mi conferma tutto. Il suo amore per il Cavaliere, la sua disistima per tutti quelli che lo circondavano. Soprattutto certe signore. Parli delle donnine? “Lo hanno massacrato per le donnine. Io andavo al parlamento europeo e tutti mi salutavano: ‘Ciao bunga-bunga’”. Guarda che il bunga bunga lo ha inventato lui. “Io sono dell’idea che un uomo che ha una carica importante deve stare molto attento. Però, tra le quattro mura, può fare quello che vuole. Purtroppo si è fidato di gente tremenda. Entravano in casa sua, queste ragazze, e andavano dovunque liberissime di fotografare qualsiasi cosa. E che cavolo! Certe donne non dovrebbe tenersele lì, dovrebbe circondarsi di donne più valide”. L’hai più sentito Berlusconi? “No. Per parlare con Berlusconi bisogna passare da due o tre di quelle che non stimo troppo. E allora preferisco non chiamarlo”. L’impressione che si ha, parlando con Iva Zanicchi, è quella di avere di fronte una donna libera. Magari si può sospettare che tra Berlusconi e Zingaretti preferisca chi ha qualche rete televisiva per farla lavorare. Ma non fino al punto da fale dire cose che non pensa. Di gaffes nei confronti del suo Capo ne ha commesse tante. “La mia boccaccia”, dice. E non solo sul suo Capo. La Gruber? “Ho detto: ‘È alta uno e cinque, se mi passa attraverso le gambe, non me ne accorgo nemmeno…’”. Una cosetta leggera. “Ho detto una stronzata. Bestia che non sono altro. La Gruber è una persona che stimo”. Se l’è legata al dito? “Non l’ho più sentita. Se l’è legata al dito”. Nell’intervista di 17 anni fa Iva mi parlò della sua campagna elettorale. Non aveva appoggi, alla tv non la invitavano. “Non mi restavano che i mercati rionali. Alle massaie dicevo le solite menate. Ho bisogno di voi. E loro mi hanno aiutato. E poi mi regalavano un sacco di cose. Ci guadagnavo in natura. Frutta, verdura, caciotte, salami. C’era un pescivendolo che urlava: "Zanicca! Zanicca! Votiamo tutti per Zanicca!" E mi regalò un grande dentice. Ma la smettiamo di parlare di politica?”. La smettiamo se canti Bandiera Rossa. E lì comincia la sarabanda. “No non la canto”. Allora un’altra domanda su Berlusconi. “C’è qui mia nipote che è una bambina intelligente e mi sta dicendo: "Nonna non cantare Bandiera Rossa"”. Passami tua nipote. “Cara, posso cantare una strofetta di Bandiera Rossa? Mi dai il permesso? Ha detto no”. Allora faccio un’altra domanda su Berlusconi. “Noooo! Ti prego. Bandiera Rossa la trionferà, Bandiera Rossa la trionferà. Contento?”. Ce l’abbiamo fatta. Tu avresti sposato Berlusconi? “A me da giovane piacevano gli uomini piuttosto piccoli e molto intelligenti. E se erano ricchi non mi dispiaceva. Poi lui era talmente brillante! Sì, avrei potuto sposarlo. Ma io mi innamoravo sempre del batterista, del fonico, del più scannato che c’era nei pressi…”. Quando hai detto che le casalinghe non leggono i giornali è successo un casino. “L’ho detto 17 anni fa. Nel frattempo l’Italia è cambiata un po’. Allora leggevano poco, adesso non leggono per niente. Io li leggo ancora. Due al giorno. Uno di estrema sinistra e uno di destra”. Vorrei capire qual è quello di estrema sinistra. “Il Corriere della Sera”. Ah, bè. Mi dicesti che a Strasburgo avresti guadagnato quaranta milioni di lire. “Ma non dire cavolate”. Me lo dicesti tu. “Ma no. Magari per amore di battuta. Quello che avrei guadagnato a Strasburgo io lo guadagnavo a fare un solo spettacolo”. Ecco, l’abbiamo beccata. Prima intervista quaranta milioni di lire. Seconda intervista: amore di battuta. Il sistema della metaintervista funziona. Le avevo chiesto, 17 anni fa, quali uomini della sinistra l’avessero affascinata. E lei mi aveva risposto: quello magro magro, quello che sembra la morte cilecca, Fassino. “Ho una attrazione fatale per le persone molto magre. Delle persone grasse non sentirai mai dire che hanno classe. Con quel culone! Invece una magrina…che classe…che eleganza… come porta bene i vestiti…E Fassino portava benissimo i vestiti. Sembrava un attaccapanni. Al mio paese dicono così, la morte cilecca, uno magrino magrino che sembra che possa morire da un momento all’altro. Che anche una folata di vento se lo porta via. Signor Fassino, se lei è in ascolto si ricordi che io la stimavo allora e la stimo ancora adesso. Ma mica è morto vero?” No, non è morto. Tranquilla. Ma tu dimmi per chi voti “Non te lo dico. Magari non voto più per Forza Italia. Ma non sono una voltagabbana”. Ecco, il tempo passa e io ci provo: lo so, voti per Salvini. “Non sono leghista ma potrei votare per lui. Ti dirò di più: non sono una estremista. Però, ragazzi, in questo momento una lode lasciatemela fare per la Meloni. È una donna che stimo”. Ecco, appunto, il tempo passa. Ecco perché è indispensabile fare il tagliando alle interviste. Ancora qualche chiacchiera. Enzo Ferrari che le voleva regalare una rossa e fiammante auto di lusso. Alberto Sordi che la corteggiava e le mandava fasci di rose ai tempi di Canzonissima. “Ma io sono scappata. Oggi non mi comporterei più così. Non scapperei. Hai capito?”. La copertina di Playboy: “Ti posso garantire che dove si vede qualcosina erano foto un po’ ritoccate. Se per caso ti sei ‘divertito’ con le mie foto, era una truffa. Eh eh eh”. Il sesso che è come mangiare, come bere: “Io sono olimpionica nel sesso. Ne faccio una ogni quattro anni”. E per chiudere, le domande dei Cazzoni Stonati. A Dolores rivela che sta scrivendo il suo quarto libro. A Riccardo ricorda quando Berlusconi telefonò in diretta durante la trasmissione di Gad Lerner intimandole di “uscire da quel postribolo televisivo” e lei non uscì. Ad Alessandro rivela che oggi in tv si va allo sbaraglio, senza professionalità e tutti parlano, anche quelli che non hanno niente da dire. Sono passate due ore. Finisce in caciara con un generale “Cento, cento, cento, cento” e la sigla di chiusura, tutti in coro “Prendi questa mano, zingara”. Ed Iva: “Lasciate perdere, ragazzi”. Clubhouse è anche questo.

Verissimo, confessione da censura di Iva Zanicchi: "Ero una sporcacciona. Lui chiedeva e io le buttavo fuori", Silvia Toffanin di sasso. Libero Quotidiano il 16 gennaio 2021. Nuova puntata di Verissimo, condotta da Silvia Toffanin, con Orietta Berti e Iva Zanicchi.  Su Canale 5, oggi sabato 16 gennaio. la conduttrice ha mostrato, nel corso della chiacchierata, una copertina di Tv Sorrisi e Canzoni di qualche anno fa con la Zanicchi in abiti succinti. “Com’eri sensuale in quella foto…”, il commento della Toffanin. La replica della Zanicchi è stata tutto un programma: "Ero un po’ sporcacciona… C’è stato un attimo mio un po’ così… Ma perché poi?”. La rivelazione choc di Iva Zanicchi a Verissimo è continuata svelando il perché di quelle foto un po' osé: "C’era questo fotografo che mi diceva: ‘non è che sei tanto bella, ma hai le gambe bellissime’…E voleva sempre che le mettessi fuori… E allora quando io lo vedevo le buttavo fuori…”, ha confessato con la solita ironia la Zanicchi.

Verissimo, quando Iva Zanicchi massacrò faccia a faccia Donatella Rettore: "Mi disse che ero un'oca, sapete come le ho risposto?" Libero Quotidiano il 16 gennaio 2021. "Non siamo dive e il pubblico ci ama per questo": Iva Zanicchi e Orietta Berti - ospiti di Silvia Toffanin a Verissimo su Canale 5 - si sono raccontate tra aneddoti ed episodi del passato. Due leggende delle musica italiana a confronto. "Sembravo un maschiaccio da bambina", ha rivelato la Berti, guardando e commentando una sua foto da piccola. Le due cantanti, poi, hanno condiviso con la conduttrice e gli spettatori il segreto del loro successo: "La sincerità, non ho mai tradito il pubblico, forse solo qualche volta. Poi non siamo dive, siamo persone normali vicine alla gente. La diva è appariscente, poi si smonta", ha spiegato la Zanicchi, cui si è aggiunta la collega: "Bisogna avere il carattere giusto per essere dive, noi non lo siamo. Siamo rispettate ancora, siamo cresciute con il nostro pubblico e invecchiate con loro". Le due, inoltre, hanno raccontato del tentativo dei giornali di metterle l'una contro l'altra in passato, senza però riuscirci. In realtà, comunque, non tutte andavano d'accordo. "Una volta la Rettore mi disse che ero un'oca giuliva e le ho risposto che l'oca era lei, perché aveva il collo lungo. Donatella e io siamo diventate amiche poi", ha confessato Iva Zanicchi.

Iva Zanicchi rivela il dramma a Storie Italiane: "Dopo il coronavirus...". Vista, come sono ridotti i suoi occhi. Libero Quotidiano il 29 dicembre 2020. Iva Zanicchi è intervenuta in collegamento telefonico a Storie Italiane, la trasmissione di Rai 1 condotta da Eleonora Daniele. Il principale argomento di discussione è stato ovviamente il coronavirus, con l'artista che continua ad avere alcuni problemi pur essendo negativa da tempo. Inoltre è sempre doloroso pensare al fratello, scomparso proprio a causa del Covid poco dopo che lei era guarita: "E' stato un lutto che ci ha devastati tutti. Io sto benino, sono in via di guarigione. Psicologicamente sono un po' giù e ho dolori forti e problemi alla vista che prima non avevo". Poi la Zanicchi ha sottolineato l'importanza del vaccino: "L'ho già dichiarato e lo ribadisco, spero di potermi vaccinare appena sarà possibile. Voglio dare fiducia alla scienza e un po' meno alla politica. Altri vaccini in passato hanno salvato milioni di persone, bisogna avere fiducia". 

·        Ivan Cattaneo.

Ivan Cattaneo a Oggi è un altro giorno: "Dove mi hanno rinchiuso perché sono gay", l'orrore che lascia senza fiato. Libero Quotidiano il 03 dicembre 2021. E' stato drammatico il periodo per l'infanzia e l'adolescenza per Ivan Cattaneo. Lo ha rivelato lui stesso da Serena Bortone a Oggi è un altro Giorno, dove ha ricordato quei brutti momenti. Di quando è stato ricoverato in manicomio a 13 anni perché omosessuale e non ha mai dimenticato gli odori che respirava nell'ospedale psichiatrico, riporta Leggo. "Non c’erano dei modelli a fine anni Cinquanta. Ho detto a mia madre che volevo diventare una donna e mi ha portato dal medico. Da lì mi hanno portato in manicomio". "La dottoressa mi chiese perché volevo diventare donna e non stilista o parrucchiera, era avanti", racconta. Le sue parole sono drammatiche: "Continuavano a darmi psicofarmaci e cose. Una volta mi hanno portato in una sala con elettrodi e mi hanno fatto male, non so cosa fosse ma era terribile...  La prima volta che ho scoperto di avere dei desideri diversi, pensavo di essere l’unico al mondo. Il manicomio è stato allucinante". E ancora, confessa Cattaneo: "​Il ricordo più brutto del manicomio erano gli odori di urina, di sudore... Non ce l'ho con mia madre perché da donna di paese mi ha affidato al medico della mutua e non sapeva dove mi avrebbero portato". Il cantante che ha 67 anni si è sempre dichiarato omosessuale: "A 13 anni mi ero innamorato di un ragazzo, ma all’epoca avevo letto sui giornali che questi omosessuali, definiti 'mostri', per innamorarsi e curare la loro imperfezione, dovevano diventare donne". Un racconto davvero da brividi quello di Cattaneo.

·        J-Ax.

Luca Dondoni per "la Stampa" il 15 settembre 2021. Su alcuni giornali sono usciti gli screenshot delle minacce dei negazionisti del Covid a J-Ax. Che il Covid lo ha avuto ed è protagonista degli spot pro vaccino del governo. 

L'artista ha replicato ieri con un video su Instagram. J-Ax, ha risposto per le rime.

«Esatto. Non potevo più stare zitto». 

Ma da cosa è nato tutto questo odio?

«Perché in un'intervista ho detto che chiunque abbia vissuto in maniera pesante il Covid, e io e mia moglie lo abbiamo preso, salirebbe su un’auto e investirebbe per la frustrazione chi è così sciocco da negare l'esistenza di una malattia che ti ha fatto così tanto soffrire. Ora, qualsiasi persona intelligente avrebbe capito che si trattava di un'iperbole comica per descrivere la frustrazione provata nei confronti di chi nega l'evidenza di un virus che ha ucciso cinque milioni di persone nel mondo e non una minaccia campata in aria».

Lei ha detto anche che, se chi l'ha minacciata fosse stato nero o arabo, per difenderla sarebbero intervenuti i Gis dei Carabinieri.

«Ho la sensazione che i carabinieri sarebbero intervenuti in maniera più massiccia andando a vedere di chi si trattava. Ma visto che queste persone sono bianche, e probabilmente fanno comodo politicamente a sappiamo chi, allora io posso ricevere minaccia di morte. Sappiamo d'altronde che c'è chi ha pedinato medici e minacciato giornalisti. C'è chi ormai ha perso completamente la testa e pensa di poter fare ciò che vuole senza pagare mai le conseguenze». 

Qual era il tono delle minacce?

«Riporto testualmente: hanno detto che vogliono cercarmi per bastonarmi, investirmi e riempirmi di botte». 

È vero che in passato le hanno mandato anche foto di proiettili?

«Assolutamente sì e non è la prima volta». 

Più volte lei ha detto che il clima nel Paese si è troppo scaldato e di recente ha temuto per la sua incolumità. Ciò nonostante non ha mai smesso di prendere posizione.

«Chiunque abbia amore per l'Italia dovrebbe combattere chi vuole la sua distruzione e i negazionisti vogliono distruggere gli italiani e l'Italia. I politici devono capire che hanno a che fare con dei veri "terroristi" che si stanno radicalizzando ogni giorno di più online, e non con i soliti leoni da tastiera che tanto, si sa, non passeranno mai all'azione». 

Come se lo immagina uno di quelli che l'ha minacciata, un negazionista?

«Più che pensare ai negazionisti, che non riesco a immaginarmi che faccia abbiano, penso alle persone coi negozi chiusi e i ristoranti costretti ad abbassare per sempre la serranda. Ci sono migliaia di operai del mondo dello spettacolo che sono a casa da quasi due anni. Insomma, penso agli italiani normali, che sono il sale della terra del nostro Paese. Non ci dimentichiamo che ogni settimana muoiono più o meno mille persone di Covid e non me lo sto inventando io. Chi nega questo virus sta condannando a morte altri italiani come lui». 

Secondo lei cosa muove una persona che non vuole ammettere che il virus esiste?

«I negazionisti sono solo dei privilegiati, che non hanno mai visto cosa fa il Covid. Non solo io ho avuto il Covid in casa, ma ho perso anche qualcuno di importante. Il papà di DJ Jad il mio ex socio negli Articolo 31, la penultima volta che l'ho visto era venuto a una data degli Articolo e l'ultima volta l'ho visto invece dentro una bara. Capisce? Questa è la realtà, nessuno vuole togliere la libertà di nessuno, si tratta solo di rispettare la vita, il dolore e la morte delle persone, perché questo è il Covid. Questo virus ammazza le persone».

J-Ax: «Con il Covid ho visto la morte da vicino, così ho riscoperto la fede e le preghiere». Chiara Maffioletti su Il Corriere della Sera il 29 agosto 2021. Il rapper si è ammalato di Covid lo scorso aprile. «Qualsiasi uomo, anche il più ateo, quando vede la fine da vicino si appella a qualcosa di superiore». Non è mai stato ateo, J-Ax. Certo, nemmeno un grande credente. «Ero un cristiano come lo sono molti in Italia, non praticante. Ma ho avuto un’educazione cattolica piuttosto rigida, ho fatto tutti i sacramenti, mi sono sposato in chiesa. Quindi no, non ho quel rifiuto a priori che tanti si aspetterebbero da me».

Quindi cosa è cambiato in lei?

«Il mio è un discorso semplice: qualsiasi uomo, anche il più ateo, quando vede la morte da vicino si appella a qualcosa di superiore: può essere Dio o ogni altra entità a cui ti aggrappi».

Lei ha visto la morte da vicino?

«Quando ho avuto il Covid, lo scorso aprile, ero terrorizzato. Avevo mal di ossa, ma era un mal di ossa mai provato prima, mal di stomaco, ma un mal di stomaco mai provato prima, lo stesso con il mal di testa. Era qualcosa di esageratamente più forte rispetto a come siamo abituati: la sensazione è che il tuo sistema immunitario stia fronteggiando qualcosa a cui non era abituato. Lo avverti proprio».

Ed è in quei momenti che si è ritrovato a pregare?

«Sì, è come un imprinting: ti scopri a recitare quelle preghiere che ti avevano insegnato da bambino. Per dieci giorni sono stato veramente male, non dormivo la notte e la preghiera era che tutto non arrivasse ai polmoni. Mia moglie non riusciva più a mangiare: non lo ha fatto per quattro giorni. Lei non riusciva ad alzarsi dal letto e io giocavo con mio figlio, che ha quattro anni. Il mio pensiero era: e se io peggioro, lui con chi va? Chi lo tiene? Come si fa?».

Non è successo.

«Ho tenuto duro pensando a questo, una situazione veramente assurda. Mi sforzavo di mangiare tenendo chiusa la bocca con le mani, per cacciare i conati di vomito: sentivo che dovevo farlo, per avere la benzina per stare con lui. Per fortuna abbiamo una casa abbastanza grande, con un giardino. Ci siamo inventati un po’ di giochi, abbiamo fatto mille disegni. E ringraziando l’entità superiore che non vogliamo per forza chiamare Dio, ne siamo usciti».

Come ci si sente, dopo?

«Avercela fatta ad affrontare una situazione così, psicologicamente, dà un po’ di autostima. Oltre alla botta di fortuna per esserne usciti hai la sensazione di essere riuscito a gestire qualcosa di grosso. Sono sicuro che il Covid è la sfida epocale della nostra generazione. Averlo superato mi ha portato a schierarmi anche per un mondo meno egoista, rafforzando la mia propaganda sui vaccini che mi ha portato molti hater no-vax e minacce, anche di morte».

Di morte?

«Sì: una volta ti mandavano dei proiettili, adesso foto di proiettili. Ma sono sempre profili anonimi, non ci mettono mai il nome. Io capisco che sia tutto nuovo ed è vero che non si sa molto su questi vaccini, ma basta per capire che è la scelta giusta, anche pensando agli altri, per non intasare le terapie intensive. Viene confuso il vaccino con l’antidoto, anche, ma alla fine sono tutte scuse che la gente si trova perché ha paura».

Lei l’ha avuta prima di vaccinarsi?

«Ho avuto il pensiero ma non ho mai avuto il dubbio, non vedevo l’ora di vaccinarmi e anche adesso tengo sotto controllo i miei anticorpi per essere sicuro di essere protetto. C’è chi dice che mi sono imborghesito: senza nulla togliere alla classe operaia da cui provengo, nel caso la mia è stata una crescita che mi sono guadagnato, anche studiando, approfondendo. Probabilmente il fatto è che negli anni Novanta, quando era di moda essere alternativi, noi eravamo populisti, mentre adesso che è mainstream essere populista, mi ritrovo ad essere alternativo».

Va mai in chiesa?

«Ogni tanto mi piace andarci per quel senso di pace, di spiritualità che si avverte. La vivo più come una tradizione che non una cosa da seguire con regole ferree. Ma il sentimento che c’è dietro va bene, mi piace. Ho anche difeso Suor Cristina a “The Voice”... certo, quando ha chiesto a tutti di recitare il Padre nostro mi scappava un po’ da ridere, ma andava bene così. Né con la polizia e né con la Chiesa faccio il discorso di tanti che vedono il marcio: penso che, come in tutte le istituzioni umane, ci sono persone fanno cose orribili e altre che vogliono fare del bene. Ma sono il primo a dire peste e corna della Chiesa quando tenta di interferire con la politica, tipo con il ddl Zan. Anche se nella bassa manovalanza delle parrocchie sono molto più progressiti che ai vertici».

È da sempre una persona che si batte per gli ideali in cui crede?

«No, il successo mi ha reso buono. Da giovane ero molto arrabbiato, risentito. Da ex ragazzino bullizzato mi ero trasformato in una iena e lo sono stato fino a che non ho trovato una serenità familiare e lavorativa. Sapere che se anche dovessi bucare tutti i miei dischi, da qui in avanti, non dovrò comunque cercarmi un lavoro mi rende più riflessivo e mi fa vivere più positivo».

Che ragazzo era?

«Con difficoltà a relazionarmi, preso di mira perché mi consideravano uno sfigato: ero magro e non mi piaceva il calcio. A parte le botte a scuola, in quella Milano a metà tra il libro “Cuore” e Garrone, avevo un risentimento per tutti gli amori non contraccambiati: mi avevano portato a provare una certa misoginia che poi rimane, finché capisci che è solo colpa tua».

Non parlava ai suoi genitori di questo disagio?

«No, a casa non dicevo niente, rifiutavo il dialogo, un classico. Non volevo ammettere di avere un problema, era più facile pensare fosse colpa loro perché non mi compravano il motorino bello o le scarpe giuste. Mi ha fatto impressione quando mi sono ritrovato a cantare “Ma Mi” di Strehler a mio figlio, una notte che non voleva dormire: era quello che facevano loro con me. Ha funzionato».

Teme mai che suo figlio possa essere un adolescente come lo è stato lei?

«Credo che con un papà come me non potrà fare a meno di dire tutto... anche perché se non lo fa tanto lo sgamo». 

"La musica è libertà. E io sono un cantautore che canta ciò che pensa". Paolo Giordano il 27 Agosto 2021 su Il Giornale. Esce il disco "Surreale": "Dopo aver avuto il Covid non tollero più le tesi dei No Vax". Il bello di J-Ax è che dice quel che vuole ma crede in quel che dice. Nell'epoca del socialconformismo (mai andare fuori dal coro altrimenti i social ti sbranano), è uno dei pochi a prendere posizioni forti, sempre coerenti e coraggiose e pazienza se qualche volta non sono condivise da tutti. «Prima sui No Vax dicevo: sediamoci e parliamone. Ora questa pazienza non ce l'ho più, dopo aver avuto un Covid pesante ho sviluppato un disprezzo profondo per loro». «Il concerto di Salmo? Niente da dire su di lui come artista, ma sono d'accordo con le critiche che gli ha fatto Fedez. Capisco la rabbia per come è stato trattato il mondo della musica dal vivo, ma questo modo di contestare non è giusto». E anche nelle canzoni J-Ax non ha mezze misure. Mescola alto e basso, sentimenti e volgarità, purezza e fango. Non finge, lui è proprio ciò che ascolti e capirete che oggi un tipo così è più unico che raro. Dal «Bello di esser brutti» (titolo di un suo disco) al bello di essere J-Ax (scritto proprio così, non J Ax, JAx oppure Dj Ax come qualcuno ancora si ostina a scrivere). In quasi trent'anni di carriera ha fatto il salto più difficile: avere libertà assoluta. «Io sono un cantautore perché canto ciò che scrivo senza filtri» spiega lui parlando di Surreale, il disco che avrebbe dovuto essere una riedizione del precedente ReAle ma poi chissenefrega, l'ispirazione ha preso il sopravvento ed ecco nove brani nuovi di zecca più i già pubblicati Voglio la mamma e Salsa. «Il lockdown mi ha dato la possibilità di fare tutto con più calma», spiega sbuffando una delle nuvole bianche tipiche dell'ex fumatore incallito.

Il suo brano preferito di Surreale?

«I film di Truffaut. A oggi è il preferito della mia carriera».

Quello con i versi: «Questi fanno tutti i fighi, nelle interviste dicono che si ispirano a Fellini ma fino all'altro ieri il target era i ragazzini. Dai pannolini a Pasolini».

«Ci sono tanti artisti che nelle interviste fanno citazioni alte ma poi scrivono testi che non c'entrano nulla. Dopo i 40 anni (ne ha 49, ndr) trovo insopportabili quelli che si credono meglio. Quelli che, se il disco non funziona, è solo colpa degli altri».

J-Ax vuol dire (anche) tv.

«Per me è un file diverso rispetto alla musica. Anche se dopo l'esperienza traumatica di Sorci Verdi ho rischiato davvero l'esaurimento nervoso. Da lì ho deciso che in tv farò solo la spalla, non il conduttore».

Nel disco c'è Voglio la mamma.

«Con il Covid in famiglia ho vissuto due o tre settimane paurose che mi hanno fatto scrivere versi come ma tu come rispondi quando poi lui ti guarda con le lacrime agli occhi e dice voglio la mamma. Ero ateo ma pregavo che ci Dio ci salvasse e proteggesse nostro figlio. Ora credo in Dio ma non nelle religioni. Ho perso 8 kg, dicevo il Padre Nostro, l'Angelo di Dio, l'Ave Maria come mi hanno insegnato da bambino».

Lei parla chiaro, tanti suoi colleghi no.

«Hanno tutti paura di perdere consensi. Però bisogna anche pensare che spesso sui social si viene condizionati dalla cosiddetta minoranza rumorosa, come i No Vax. Esiste comunque una maggioranza silenziosa che spesso non si considera».

Voterà alle elezioni per il sindaco di Milano?

«Voterò e poi tirerò la catenella, come Fantozzi».

Siamo nell'epoca del politicamente corretto.

«Oggi un film come Chi ha incastrato Roger Rabbit, tanto per fare un esempio, non si potrebbe fare. Per fortuna faccio rap e ho la licenza di dire quel che voglio».

Lei ha annullato il suo concerto al Forum di Milano e ha restituito il denaro speso per i biglietti.

«Io non chiedo mai anticipi sui concerti e quindi ho potuto farlo perché credo che ai miei fan quei 30/50/100 euro adesso possano far comodo. Poi, se vorranno potranno ricomprare il biglietto per i miei prossimi concerti».

Quando saranno?

«Non salirò sul palco finché non saremo tutti in sicurezza». Paolo Giordano

·        James Franco.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 23 dicembre 2021. James Franco ha spiegato in una nuova intervista questa settimana che, da quando diverse donne lo hanno accusato di cattiva condotta sessuale nel 2018 , ha «esaminato» il suo comportamento passato e ha «cambiato chi ero». Franco, 43 anni, ha rotto il silenzio durante il podcast The Jess Cagle di SiriusXM questa settimana, dicendo che è rimasto in silenzio per tutto questo tempo perché sapeva di «aver bisogno di ascoltare» ed esaminare il «comportamento» e il «modello» a cui è stato cieco. «Ho appena fatto un sacco di lavoro. E credo di essere abbastanza fiducioso nel dire tipo, quattro anni, capisci?» ha detto. «Ero completamente cieco alle dinamiche di potere o cose del genere, ma anche completamente cieco ai sentimenti delle persone», ha ammesso, confermando che è andato a letto con gli studenti della sua scuola di recitazione, ma ha pensato che fosse «bello» perché era «consensuale» «ed erano tutti adulti». L'attore ha anche rivelato che mentre combatteva la dipendenza dall'alcol, per 20 anni è stato schiavo del sesso, tradendo «tutte» quelle con cui è uscito prima di incontrare la sua attuale fidanzata Isabel Pakzad, nel novembre 2017. Nel gennaio del 2018, cinque donne hanno dichiarato al Los Angeles Times che Franco era stato sessualmente inappropriato con loro. Una ha descritto in dettaglio come Franco ha rimosso le protezioni di plastica dalla vulva dell'attrice durante una scena di sesso mentre simulava il sesso orale. Due delle donne, Sarah Tither-Kaplan e Toni Gaal, che hanno citato in giudizio Franco nel 2019, hanno affermato che l’uomo ha cercato di «creare una pipeline di giovani donne che sono state sottoposte al suo sfruttamento sessuale personale e professionale in nome dell'istruzione» mentre frequentavano la sua scuola di recitazione allo Studio 4. Franco si è accordato per un pagamento di 2,2 milioni di dollari a luglio. Al momento delle accuse iniziali, Franco ha fatto brevi commenti sull'«assunzione di responsabilità», ma ha insistito sul fatto che ciò che veniva detto su di lui non era «esatto». Da allora ha limitato la sua esposizione pubblica, fino a quando non si è seduto con il The Jess Cagle Podcast per un'intervista che sarà trasmessa domani, 23 dicembre. Ha detto a Cagle come ha scelto di «mettersi in pausa» dopo che sono uscite le accuse. «Nel 2018 ci sono state alcune lamentele su di me ed è uscito un articolo e in quel momento ho pensato che sarei stato tranquillo», ha detto.

«Mi sono fermato. Non sembrava il momento giusto per dire qualcosa. C'erano persone che erano arrabbiate con me e avevo bisogno di ascoltare». 

«C'è uno scrittore, Damon Young, e ha parlato di, sai, quando succede qualcosa del genere, l'istinto umano naturale è quello di farlo smettere. Vuoi solo uscirne fuori e qualunque cosa tu debba fare scusa, sai, fallo,» ha continuato.   

«Ma quello che non fa è permetterti di fare il lavoro e di guardare cosa c'era sotto. Ad esempio, qualunque cosa tu abbia fatto, anche se è stata una gaffe o hai detto qualcosa di sbagliato o qualsiasi altra cosa, probabilmente c'è un iceberg sotto quello - di comportamento, di schemi, di essere ciechi con te stesso, che non si risolverà da un giorno all'altro».

«Quindi ho appena fatto un sacco di lavoro». 

Franco ha anche discusso di come è stato a lungo in convalescenza per abuso di sostanze, ma dal 2016 ha anche affrontato la sua dipendenza dal sesso. 

«Ero in convalescenza prima, per abuso di sostanze. E c'erano alcuni problemi che dovevo affrontare che erano legati alla dipendenza. E quindi ho davvero usato il mio background di recupero per iniziare a esaminare e cambiare chi ero», ha detto.

«[Il sesso è] una droga così potente. E ne sono rimasto schiavo per 20 anni.  E la parte insidiosa di questo è che sono rimasto sobrio dall'alcol per tutto quel tempo. Sono andato alle riunioni per tutto quel tempo. Ho anche provato a sponsorizzare altre persone. E così nella mia testa, era come, "Oh, sono sobrio. Sto vivendo una vita spirituale". Ma mi comportavo in quegli altri modi. E non riuscivo a vederlo». 

Franco ha anche ammesso di essere stato infedele per anni a tutte le sue amiche. 

«Non potevo mai essere fedele a nessuno. Così ho imbrogliato», ha detto. «Ho tradito tutte prima di Isabel». 

'Le persone che ho incontrato o frequentato, le ho viste per molto tempo, anni. È solo che non potevo essere presente per nessuna di loro. E ho finito per fare del male a tutti».

«[Il mio sponsor] diceva: "Guarda, il tradimento è disonesto. Non penso che sia un bene per la tua sobrietà, ma se non stai uscendo con qualcuno e vuoi andare a rimorchiare, come succede tra due adulti consenzienti va bene», ha detto Franco. 

Ha ammesso di non aver pensato alle dinamiche di potere in gioco quando ha inseguito le persone con cui ha lavorato, o coloro che hanno frequentato la sua scuola di recitazione. 

«Ero [ero] completamente cieco alle dinamiche di potere o qualcosa del genere, ma anche completamente cieco ai sentimenti delle persone. Non volevo ferire le persone», ha detto. 

«Lo ammetto, sono andato a letto con le studentesse», ha detto. «Nel corso del mio insegnamento, sono andato a letto con le studentesse. E questo era sbagliato».

«Ma, come ho detto, non è per questo che ho avviato la scuola. E non ero la persona che ha selezionato le persone per essere nella classe. Quindi non era un piano generale da parte mia, ma sì, ci sono stati alcuni casi in cui, sai cosa, ero in una relazione consensuale con una studentessa e non avrei dovuto esserlo». 

Nella nuova intervista, Franco ha anche ammesso che è stato "doloroso" quando il suo collaboratore di lunga data e costar Seth Rogen ha detto che non aveva intenzione di lavorare con lui in futuro. 

Inizialmente, quando le accuse sono uscite nel 2018, Rogen ha detto a Vulture che avrebbe continuato a lavorare con Franco. 

Ma a maggio ha pubblicamente rivisto la sua posizione, dicendo al Sunday Times britannico che non l'avrebbe fatto. 

«Ripenso anche a quell'intervista nel 2018 in cui commento che continuerei a lavorare con James, e la verità è che non l'ho fatto e non ho intenzione di farlo adesso», ha detto. 

Parlando al podcast questa settimana, Franco ha detto che "ama assolutamente" Rogen, con cui ha lavorato per 20 anni, ma «quello che ha detto è vero, sai, non stiamo lavorando insieme in questo momento e non abbiamo alcun piani di lavorare insieme».

«Certo che è stato doloroso, sai, nel contesto, ma ho capito, sai, ha dovuto rispondere per me perché sono stato in silenzio», ha continuato. «Doveva rispondere per me e io non lo voglio. Ed ecco perché, è uno dei motivi principali per cui volevo parlarti oggi è solo che non voglio che Seth o mio fratello o chiunque altro debba più rispondere per me». 

James Franco risponde alle accuse di abusi sessuali: "Ai miei corsi le scene non erano reali". I legali: "Sta minimizzando". La Repubblica il 24 dicembre 2021. L'attore, che nei giorni scorsi ha ripercorso in un'intervista-fiume i fatti che lo hanno coinvolto nel 2018, entra nel dettaglio della questione, una causa chiusa quest'anno. "La mia masterclass aveva un nome provocatorio, 'Sex scenes, ma era finzione".

La star di Hollywood James Franco ha risposto alle molteplici accuse di cattiva condotta sessuale rivoltegli durante la sua carriera, nella sua ormai chiusa scuola di recitazione Studio 4, sui set dei suoi film indipendenti e mentre recitava in uno spettacolo di Broadway.

Durante la recente apparizione al The Jess Cagle Show di SiriusXM l'attore ha parlato a lungo delle accuse fatte da alcune ex studentesse dello Studio 4 nel 2018 che si sono accordate con Franco per la cifra di 2,2 milioni di dollari a seguito di una class action per sfruttamento sessuale e frode.

Franco ha affermato che la masterclass legata a molte delle accuse della causa - presentata nel 2019 dalle attrici Sarah Tither-Kaplan e Toni Gaal - aveva un nome "provocatorio" ma non prevedeva scene di sesso reali, nonostante fosse stata chiamata Sex scenes.

IL CASO

Mentre l'attore ha negato le accuse su ciò che è accaduto nel suo corso, che includevano quella di aver spinto gli studenti a esibirsi in scene di sesso sempre più esplicite creando una "ambientazione tipo orgia", gli avvocati che rappresentano le sue accusatrici nella causa collettiva hanno risposto alle sue dichiarazioni. Secondo quanto affermano i legali, l'azione non è nata per "un'incomprensione sul nome di un corso" ma per quella che "era, ed è, una condotta spregevole". La dichiarazione prosegue affermando che Franco non è solo "accecato dalle dinamiche di potere" ma "completamente insensibile" al dolore e alla sofferenza vissuti dai suoi accusatori per mano sua "con questa finzione di una scuola di recitazione".

"È incredibile che anche dopo aver accettato un accordo continui a minimizzare le esperienze delle vittime e a ignorare il loro dolore, nonostante abbia riconosciuto che non aveva alcun diritto di avviare una scuola del genere", affermano Valli Kane & Vagnini LLP e Hadsell Stormer Renick & Dai LLP, gli studi legali che rappresentano gli accusatori di Franco nel contenzioso contro di lui e la sua società di produzione Rabbit Bandini Productions.

"Nessuno si faccia confondere da questa intervista con Franco come se lui si assumesse la responsabilità delle sue azioni o esprimesse rimorso per quello che è successo", continua la dichiarazione. "È un schivare i problemi reali facendo una dichiarazione poco prima di una festa importante, nella speranza che non debba affrontare alcun contraddittorio sulla sua risposta", dicono i legali.

Durante il programma, Franco ha ammesso di essere andato a letto con una studentessa, e concede che gli altri insegnanti gli abbiano chiarito che "probabilmente non si è trattato di una bella cosa". Lui, però, nega che fosse nella classe legata alla class action. L'attore si trova anche a dover affrontare l'accusa che, con l'avvio di Studio 4, "ha cercato di creare un canale di giovani donne che sono state poi sottoposte al suo sfruttamento sessuale personale e professionale in nome dell'istruzione".

·        Jamie Lee Curtis.

Il premio alla carriera.  Jamie Lee Curtis, antidiva da Leone d’Oro. Federico Fumagalli su Il Riformista il 9 Settembre 2021. Leggenda vuole che Fred Astaire sia stato generato dall’incontro tra una rondine e il vento. E dall’incontro di due stelle di Hollywood? Solo di rado nasce un’altra stella, altrettanto brillante. La rarità è Jamie Lee Curtis, figlia di Tony e di Janet Leigh, che per Alfred Hitchcock e per il resto del mondo si è fatta accoltellare sotto la doccia di Psyco. A Jamie Lee Curtis è stato consegnato ieri il Leone d’Oro alla carriera. Lei, 63 anni a novembre, che a un Oscar nemmeno è mai stata candidata. Ma che, nell’arco di sei decenni, ha preso parte a una infinita serie di cult, con altissima media realizzativa di intramontabili successi, rispetto ai film interpretati. E per di più, saltellando con disinvoltura fra un genere e l’altro. Dalla commedia brillante (Una poltrona per due, Un pesce di nome Wanda), al cinema d’azione (True Lies). Dal thriller (Blue Steel) al giallo contemporaneo, girato alla vecchia maniera (Cena con delitto). Ma è probabilmente l’horror la sua vera comfort zone. In grado di tenere testa allo spaventoso Mike Myers, sin dal primo capitolo della infinita saga Halloween. Era il 1978, dietro la macchina da presa il mito John Carpenter. A Venezia, fuori concorso, c’è l’ultimo Halloween Kills. David Gordon Green alla regia. Ma sempre lei, la leonessa Jamie Lee, a ruggire di fronte al terrore. È bene sfatare il falso mito fantozziano di La Corazzata Potemkin (e, per estensione, del cinema ex sovietico tutto) “è una cagata pazzesca”. I cineasti russi — da Ejzenstejn in giù — sanno quello che fanno. Non sono una eccezione Natasha Merkulova e Aleksey Chupov, che firmano la regia di Kapitan Volkonogov Bezhal (Il capitano Volkonogov è scappato), passato ieri in concorso. E in odore di premio. Una estetica vistosa incornicia la vicenda terrena e ultraterrena del militare del titolo, in forza al violentissimo servizio di sicurezza nazionale. Quando viene accusato di un crimine, è costretto a fuggire dai suoi vecchi compagni d’armi. Durante la fuga, riceve un messaggio dall’aldilà. Per evitare di finire all’inferno, una volta morto, tocca espiare i peccati commessi in vita. Che sono tantissimi, insensati e atroci. Siamo alle battute finali. Tra quarantotto ore, alla Mostra si sbaracca. Oggi, spazio ai gemelli D’Innocenzo. Fabio e Damiano, per la prima volta Venezia dopo avere sedotto Berlino con La terra dell’abbastanza e Favolacce, giocano in casa con America Latina. Misteriosissimo. Davanti all’hotel Excelsior ci sono le locandine del film, di solo testo e niente immagini. Nemmeno del protagonista, Elio Germano. Sopra il titolo geografico (non è il Sudamerica, ma Latina nel Lazio), compare la scritta “è amore”. Lo sarà davvero? Muove da fatti tristemente noti in Polonia, l’altro film in concorso oggi: Zeby Nie Bylo Sladow (Non lasciare tracce). Il regista Jan P. Matuszynski esercita il suo senso critico e artistico, sulla vicenda dell’assassinio del liceale Grzegorz Przemyk. Addì 1983, quando il regime calpestava le libertà. Esattamente come, in certi Paesi, succede anche oggi. Federico Fumagalli

(ANSA il 30 giugno 2021) È stato attribuito all'attrice statunitense Jamie Lee Curtis il Leone d'Oro alla carriera della 78/ma Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della Biennale di Venezia, dall'1 all'11 settembre 2021. La decisione è stata presa dal Cda della Biennale di Venezia, che ha fatto propria la proposta del direttore della Mostra Alberto Barbera. La consegna del Leone d'oro alla carriera a Jamie Lee Curtis sarà l'8 settembre nella Sala Grande del Palazzo del Cinema (Lido di Venezia), prima della proiezione fuori concorso di Halloween Kills, diretto da David Gordon Green e interpretato da Jamie Lee Curtis, nelle sale il 15 ottobre. "Sono incredibilmente onorata di ricevere questo premio dalla Mostra del Cinema della Biennale di Venezia. Mi sembra impossibile essere stata così a lungo nel mondo del cinema da ricevere un riconoscimento alla carriera, e che ciò accada oggi, con Halloween Kills, è particolarmente significativo per me", ha detto Jamie Lee Curtis del Leone d'Oro alla Carriera. "Halloween e il mio sodalizio con Laurie Strode - ha aggiunto - ha lanciato e sostenuto la mia carriera, e rappresenta davvero un regalo il fatto che questi film abbiano dato vita a un nuovo franchise, amato dal pubblico di tutto il mondo. Il cinema italiano ha sempre onorato ed esaltato il genere che ha segnato la mia carriera, così non potrei essere più orgogliosa e felice di accettare questo premio dalla Mostra di Venezia, da parte di Laurie e di tutte le coraggiose eroine nel mondo che affrontano a testa alta ostacoli insormontabili e che rifiutano di arrendersi" ha spiegato Jamie Lee Curtis. Halloween Kills, diretto da David Gordon Green e interpretato da Jamie Lee Curtis, è presentato da Universal Pictures, Miramax, Blumhouse Productions e Trancas International Films.

Dagotraduzione dal Daily Mail il 30 luglio 2021. Jamie Lee Curtis ha rivelato con orgoglio che il suo figlio più piccolo è transgender. Durante un’intervista con la rivista AARP, l'attrice, 62 anni, ha annunciato il nuovo nome del figlio diventato figlia, oggi 25enne. Lei e il marito, Christopher Guest, hanno «guardato con meraviglia e orgoglio come nostro figlio Thomas è diventato nostra figlia Ruby». Nell'intervista, che è stata condotta con il permesso di Ruby, Curtis ha spiegato che ha buttato via la «vecchia idea» che il genere sia fisso e si sta invece appoggiando all'idea che la vita sia una «metamorfosi costante». «Lei e il suo fidanzato si sposeranno l'anno prossimo, officerò io il matrimonio», ha detto l’attrice. Curtis non ha detto se Ruby sta per sposare un uomo o una donna, anche se nel 2019 Ruby ha condiviso una foto con una ragazza. Genere e sessualità sono due cose diverse e non correlate, e Curtis ha precedentemente parlato di quest'ultima come di una questione privata. «Non credo che siano affari di nessuno conoscere la sessualità delle persone, ad essere onesti», ha detto a Pride Source nel 2019, rispondendo a una domanda sulla sua sessualità e sul suo sostegno alla comunità LGBTQ+. Curtis, che è la figlia delle star dello schermo Tony Curtis e Janet Leigh, ha detto di essere cresciuta a suo agio con le persone gay grazie ai suoi genitori di Hollywood. «La truccatrice di mia madre era gay, il drammaturgo con cui ha recitato era un grande amico della nostra famiglia che era gay», ha spiegato. Curtis e Guest hanno lottato con l'infertilità e hanno adottato la loro primogenita, Annie, attraverso un'agenzia nel 1986. Nove anni dopo, hanno adottato Ruby. Nel 1996, Curtis ha scritto un libro, Tell Me Again About The Night I Was Born, per sottolineare l'importanza di condividere le storie di nascita con i bambini adottati. Ha anche detto ad AARP che spera un giorno di diventare nonna. Quando le è stato chiesto se ha ancora dei nipoti, ha detto: «Non ancora, ma spero di averli». Nella nuova intervista, Curtis ha anche raccontato di essere sobria da 22 anni, dopo aver combattuto segretamente contro una dipendenza da antidolorifici e alcol. Jamie è orgogliosa del suo status e ha dettio che era «solo una persona sobria - imperfetta, contraddittoria, distrutta e redenta». Il suo viaggio di sobrietà le ha insegnato il conforto nel vivere ogni giorno e a lasciare andare il passato. All'inizio di quest'anno, ha scritto su Instagram: «Sto rompendo il ciclo che ha praticamente distrutto la vita di generazioni nella mia famiglia. Rimanere sobri rimane il mio più grande successo... più grande di mio marito, più grande di entrambi i miei figli e più grande di qualsiasi lavoro, successo, fallimento. Nulla».

·        Jane Fonda.

Elisabetta Moro per elle.com il 28 marzo 2021. "Sono molto grata di non dovermi spogliare mai più di fronte a nessuno, nemmeno a lume di candela. E se lo facessi, voglio dire nella mia fantasia, l'uomo sarebbe anche più giovane di me, quindi risulterebbe ancora più difficile". Jane Fonda non ha certo paura di parlare di sessualità (né di debolezze) e a 83 anni ha un solo rimpianto: "La mancanza di intimità". L'attrice racconta a Harper's Bazaar di essersi resa conto di non essere "veramente capace di intimità" e così preferisce rifugiarsi nelle sue fantasie: "Mi immagino di incontrare qualcuno come un professore o un ricercatore, qualcuno che sia davvero capace di amare, di amare una donna, così che potessi mettermi davvero in gioco". Ma il problema è che Fonda si immagina sempre uomini più giovani: "Sono troppo vanitosa, con un uomo più giovane non potrei mai mostrarmi. Sono stata cresciuta pensando di dover apparire in un certo modo". Un circolo vizioso. Eppure nella vita dell'attrice, i rimpianti sulle relazioni e l'intimità sono solo un velo di amarezza tra mille stimoli. Del resto Jane Fonda, lo sappiamo, è tantissime cose insieme: è un'icona del cinema, una celebrità immortale, una guru del fitness, ma oggi è anche e soprattutto un'attivista. Lo è sempre stata, in realtà: un'attivista femminista e strenua oppositrice della guerra in Vietnam, ma oggi la sua preoccupazione principale è la crisi climatica a cui sta dedicando tutte le sue energie. "Come spesso accade nella mia vita, è stata Naomi Klein a farmi cambiare prospettiva", racconta, "Il suo libro On Fire: The (Burning) Case for a Green New Deal - come i suoi libri hanno sempre fatto - mi ha in qualche modo scossa. Ma per tutta la vita ho letto libro che mi ha avviata su una nuova traiettoria. Mi chiedevo: 'Cosa posso fare?' Ed ero molto depressa perché sapevo che dovevo fare di più e non sapevo come. Naomi mi ha spiegato la scienza in modo così chiaro. E mi ha spiegato il Green New Deal". Da quel momento Fonda ha iniziato a organizzare la sua battaglia: si è trasferita per 4 mesi a Washington per incontrare i principali gruppi ambientalisti e capire come poteva collaborare. "E quando tutto è finito", spiega, "non avevo dubbi sul fatto che non avremmo mai affrontato la questione climatica se non avessimo affrontato contemporaneamente anche la disuguaglianza economica e razziale". Fonda ha organizzato manifestazioni, ha creato contatti, ha messo a disposizione la sua piattaforma e si è fatta arrestare 5 volte. A noi sembra una forza della natura, ma, a sentire lei, è solo un "tipo generico di persona" che ha ancora tanto, tantissimo da imparare. Com'è possibile? "Ho sempre la sensazione di dover prestare attenzione per poter imparare", spiega, "E cerco di avere amici che possano insegnarmi. Sono una studentessa. Sono molto attenta. Ricevo. E poi divento il megafono. Non invento le cose. Devi sapere dove sono i tuoi punti di forza. Sono derivativa. Non sono originale". Eppure non sta forse proprio qui la grandezza di questa donna che a più di 80 anni, con una carriera incredibile alle spalle, è ancora pronta a mettersi in dubbio e accogliere le sfide? E in fondo noi donne - sempre pronte a volere di più e a immaginarci perfette - ci rivediamo in lei: una fonte di ispirazione, una combattente che, però, non ha paura di dire che lei, con un uomo più giovane, non avrebbe il coraggio di mostrarsi. Teniamoci stretto questo mix di debolezza e forza perché ne nascono grandi cose. Parola di Jane Fonda. 

·        Jean Reno.

Jean Reno: «Racconto bugie con onestà e vivo senza rimpianti». Ilaria Gaspari Il Corriere della Sera il 16 Ottobre 2021. Francese, nato a Casablanca da genitori andalusi, ha scelto New York: «La curiosità cosmopolita però oggi sta scomparendo, siamo tutti più quadrati e chiusi». Nel nuovo film “Promises” «interpreterò un patriarca, quello che io non sono. Promises, di Amanda Sthers, si annuncia un film fascinoso e insolito: la regista l’ha tratto da un romanzo di cui lei stessa è autrice (tradotto in italiano da Luigi Maria Sponzilli per Rizzoli). Prodotto da Indiana, Vision Distribution, Barbary Films e Iwaca in collaborazione con Sky e Amazon Prime Video, un cast internazionale (Pierfrancesco Favino, Jean Reno, Kelly Reilly), racconta un grande amore che brucia inesausto; ma è soprattutto la storia di una famiglia e di una vita attraverso l’Europa e il Novecento. Il film uscirà in sala il 18 novembre, dopo l’anteprima di questa domenica, 17 ottobre, alla Festa del Cinema di Roma. Jean Reno, che interpreta un patriarca amareggiato e testardo, autoritario e affettuoso, mi risponde su zoom da New York. Quella di Promises è una storia sul rimpianto, che qualche volta ci dà l’illusione (pericolosa) di poter recuperare le occasioni perse.

Lei che rapporto ha con il passato?

«Ho imparato presto a non guardare indietro. Forse è un difetto, ma sono fatto così; non sono nostalgico, penso che la vita sia fatta di progetti. Certo, ho nostalgia degli amici che ho perduto, della mia giovinezza; ma non delle cose che ho fatto. Guardo sempre avanti. A tutti capita di chiedersi: perché non ho fatto quel viaggio, perché non sono rimasto con quella ragazza, perché non ho imparato a suonare bene il pianoforte... ma indulgere a questi pensieri non è nella mia natura, né nel mio mestiere. Tutto quello che ho fatto scompare in fretta; resta il domani. Così fa meno male».

Com’è stato tornare a girare dopo la pandemia?

«Conosco Amanda da anni e sono stato felice di arrivare sul set del suo film, è stato bello tornare a Roma dopo tanto tempo. E poi mi piaceva la storia, la trovo molto umana. Le incomprensioni fra il nonno e il nipote, la morte di qualcuno molto amato... Ho una moglie inglese, sono nato in Africa, i miei genitori erano andalusi, vivo a New York e lavoro in tutto il mondo: è stato molto interessante, anche nel film, mescolare storie e culture. Far parte del grande ritratto di un’epoca che si allontana, gli Anni fra i 50 e gli 80. Le automobili, i vestiti, una curiosità cosmopolita che oggi forse sta un po’ scomparendo. Abbiamo viaggiato tanto e oggi ci ritroviamo più chiusi, più quadrati, non le pare? L’altra grande sorpresa è stato il cast del film. Il protagonista, Pierfrancesco Favino, è un attore e un uomo eccezionale. Io ho interpretato il personaggio: è il mio lavoro. Ma l’ho anche molto sentito. Amanda ha scritto una storia che potrebbe tranquillamente essere vera».

Il suo personaggio ha difficoltà a accettare il modo di vivere del nipote. «Perché è ancorato al passato. Vede quanto è difficile vivere proiettandosi su un mondo che non esiste più? È proprio l’esempio di quello che io non sono. Sono stato felice di interpretare un personaggio così diverso da me. Ho figli e nipoti: volano tutti da soli, vanno dove vogliono. Il mio personaggio non l’avrebbe permesso!».

Il suo patriarca ha un’idea precisa di cosa voglia dire essere un uomo: non avere debolezze. Pensa che sia uno stereotipo destinato a scomparire?

«Tutto, in lui, è condizionato dall’educazione che ha ricevuto: il suo rapporto con il lavoro, con il denaro, con il nipote. È il testimone di un tempo passato. Ma per esempio, anche mio padre, che pure aveva degli amici omosessuali, rimaneva un uomo del Novecento: aveva idee rigide, oggi superate, su cosa significa “essere un uomo”».

Molte cose sono cambiate nel giro di poche generazioni. Nel corso della sua carriera ha interpretato tanti personaggi, alcuni molto duri. Ce n’è uno a cui è particolarmente affezionato?

«Quello che mi resta, più che il personaggio in sé, sono i momenti: non l’esperienza intera, ma dei passaggi, degli attimi. Penso che anche questo faccia parte della mia tendenza a guardare avanti. Perché se uno tiene la contabilità di tutto quello che fa, finisce per vivere nel passato: ma non è che se hai fatto un bel personaggio nel 1998 ne farai uno altrettanto affascinante nel 2022. Quello che mi interessa è prendere una sceneggiatura, che di per sé è una cosa inventata, come un sogno o una bugia, e farne qualcosa di credibile. Quando costruisco un personaggio, lo costruisco nella relazione con il resto del cast, ma a partire da me: devo basarmi su quello che sento io e su quello che penso potrebbe essere vero. È quasi un lavoro artigianale, e bisogna essere onesti o il pubblico se ne accorgerà. Se la gente ama il personaggio, io sono felice: è il fine del mio lavoro. Ma poi, come nel tennis, bisogna chiudere la partita, dimenticarla, e giocarne un’altra partendo da zero».

Il suo fisico imponente le è mai parso un limite nella scelta dei ruoli, o è stato piuttosto un punto di partenza?

«C’è una cosa che si impara, quando si lavora in teatro. Ognuno ha un ruolo. Non si può prendere Roberto Benigni e ingaggiarlo al posto di Clint Eastwood. Questo è difficile da accettare quando si è giovani: da giovane uno pensa di poter recitare qualsiasi ruolo. E magari è anche vero: ma non ogni ruolo sarà il suo ruolo. Ci sono attori che ne coprono anche quattro o cinque; altri, invece, restano legati tutta la vita a due o tre, ma magari li sanno fare benissimo. Il ruolo è determinato, in primo luogo, dal fisico: bisogna adattarsi. Io sono abbastanza fortunato perché posso fare sia film seri che commedie; anche se non sono un comico, non sono né Benigni, né Steve Martin. Tutto è determinato da quello che uno è, dal suo corpo, dal suo ritmo; capita spesso agli attori di desiderare di essere diversi, può fare molto male. Ma c’è di peggio: ci sono attori che diventano famosi per un ruolo che a loro non piace, e per tutta la vita saranno legati a quello. Non si può dire che sia un mestiere giusto! D’altronde neanche la vita è giusta. È pieno di buche, sulla strada».

·        Jenny B.

Ricordate Jenny B? Dal trionfo a Sanremo alla Nuova Zelanda: come è finita lì, cosa fa adesso per campare. Libero Quotidiano il 14 dicembre 2021. Sono quasi 40 anni che Sanremo, nella sua versione destinata ai giovani emergenti, lancia dei talenti che poi riescono a costruire carriere importanti. Alcuni sono addirittura diventati leggende della musica italiana, come Eros Ramazzotti e Laura Pausini, ma ci sono anche tanti vincitori di Sanremo Giovani che sono poi finiti nel dimenticatoio con il passare degli anni. Per alcuni, infatti, la vittoria della competizione dedicata ai cantanti alle prime armi è stata il punto più alto della carriera e non soltanto un trampolino di lancio. Il Corriere della Sera ha ricordato tutti quelli che avevano vinto Sanremo Giovani, salvo poi non riuscire ad affermarsi a certi livelli. Non tutti infatti possono essere come Arisa, Anna Tatangelo, Alex Britti, Marco Masini, Michele Zarrillo e tanti altri vincitori della kermesse dedicata agli emergenti. Uno dei tanti casi opposti è quello di Jenny B, che nel 2000 salì sul palco dell’Ariston tra le Nuove Proposte, riuscendo a vincere l’ambito premio con il brano “Semplice sai”. Tra l’altro tornò a casa anche con un altro prestigioso riconoscimento: quello della critica intitolato a Mia Martini. Eppure da allora la cantante catanese non è riuscita a confermare il successo di Sanremo: è stata spesso ospite di festival e trasmissioni musicali in Rai, ma non ha fatto registrare grossi acuti. Oggi vive in Nuova Zelanda, dove continua a cantare: nel 2019 è arrivata una soddisfazione personale, dato che la sua voce è stata campionata nel singolo “Ritmo” dei Black Eyed Peas, gruppo statunitense di grandissimo successo.

·        Jennifer Lopez.

Da dilei.it il 2 maggio 2021. Non è un mistero che Jennifer Lopez e Alex Rodriguez abbiano preferito lasciarsi: l’annullamento delle nozze tra i due è ufficiale. Secondo un’indiscrezione lanciata da Page Six, la meravigliosa artista potrebbe aver ritrovato la felicità (o quanto meno la consolazione) tra le braccia di uno dei suoi ex storici. Sì, Ben Affleck, con cui ha mantenuto un rapporto cordiale negli anni. Alcune fonti hanno riportato a Page Six che possa esserci un ritorno di fiamma o un avvicinamento tra J.LO e Affleck. Per adesso, i due non sono stati fotografati insieme, ma Ben si è recato di recente nella mega villa di Jennifer in California. “La sicurezza della Lopez lo viene a prendere in un luogo vicino, con il suo SUV Escalade bianco”, afferma una fonte che conosce i due artisti a Page Six. Sembra che abbiano già trascorso parecchie ore insieme: secondo l’indiscrezione, i due si sono incontrati spesso durante l’ultima settimana. Alcune fonti sottolineano, però, che il loro legame sembra più amichevole che passionale, sebbene non ci sia nulla di ufficiale. Stiamo parlando di una delle coppie dello Star System più famose e amate di sempre. Insieme, i due sembravano brillare e surclassare tutti. Per anni, le loro foto sono state protagoniste di famosi rotocalchi, e noi non abbiamo potuto fare altro che osservarle con occhi sognanti. Sebbene la rottura, Ben Affleck ha sempre parlato benissimo di Jennifer Lopez e non si è mai risparmiato, prodigandosi in complimenti nei suoi confronti. I “Bennifer” – così rinominati dai media – ci hanno fatto sospirare a lungo. Anche e soprattutto per l’enorme rispetto che è rimasto tra i due. “Mi piace molto Jennifer Lopez: è bello vederla ottenere il rispetto che merita. Lei è una donna fantastica.” All’epoca, quando ancora l’artista non aveva annullato le nozze con Alex Rodriguez, Affleck aveva augurato loro il meglio, affermando che sarebbe stata una moglie fantastica. La rottura tra Jennifer e Ben fu dovuta a un periodo nero per lei. A causa dello stress sul lavoro, aveva iniziato a soffrire di depressione e, dopo essersi lasciata con Ben, ha dovuto lottare contro l’ombra dell’ansia per circa due anni. Adesso, però, è il momento di andare avanti e, chissà, di ritrovare un vecchio amore.

·        Jerry Calà.

Gianluca Veneziani per "Libero quotidiano" il 25 ottobre 2021. Intervistare Jerry Calà, ammettiamolo, è una libidine. Ed è una doppia libidine per noi nati alla metà degli anni '80 che, crescendo, abbiamo guardato con ammirazione a quell'epoca di spensieratezza incarnata dai film dell'attore. Quell'atmosfera vitale viene ora rievocata, all'interno dell'isola di Cuba, nel libro La lavadora (Bibliotheka, pp. 224, euro 16), scritto da Calà con lo sceneggiatore Gino Capone: un romanzo di viaggio e di amore in grado di far immergere il lettore nello spirito libero dell'isola e di fargli vedere le sue bellezze (comprese quelle femminili) con gli occhi dell'immaginazione. 

Calà, lei è attore, regista, comico, cantante. Come si sente nelle vesti di scrittore?

«Be', scrittore è una parola grossa. Mi definirò tale se questo libro andrà bene e potrò scriverne un altro. Al momento le vendite sono confortanti... L'idea del libro nasce da una permanenza mia e di Capone all'Avana alla metà degli anni '90: eravamo ospiti del Festival del cinema latino americano, dove presentavo il film Ragazzi della notte. In quell'occasione il nostro viaggio ha cambiato prospettiva: i registi e gli artisti là conosciuti ci hanno portato a scoprire l'anima vera di Cuba, ci hanno fatto entrare nelle case, raccontato storie del luogo. Passeggiando per L'Avana, ci siamo imbattuti in un negozio che esponeva elettrodomestici nuovi ma di vecchia fattura. E abbiamo notato una ragazza ferma davanti alla vetrina che guardava con occhi estasiati una lavadora, una lavatrice. Allora le abbiamo chiesto perché ammirasse con tanto incanto quell'elettrodomestico. E lei ci ha risposto: "La lavadora es el sueño de mi vida". È stata quella frase a ispirarci la storia, che all'inizio doveva essere un progetto cinematografico. Ma in quegli anni era molto difficile girare un film a L'Avana per vari motivi». 

Motivi politici? Fare quel film significava raccontare la povertà estrema in cui viveva la gente nella Cuba castrista?

«Sì, la censura ci obiettò che i cubani ce l'avevano tutti la lavatrice. Noi allora siamo andati in 50 case ma abbiamo trovato solo degli strumenti primordiali per strizzare e lavare i vestiti. Il potere negava questo e non voleva venisse raccontato, ma la lavatrice era un oggetto di grande desiderio proprio perché c'era grande miseria».

Perché riprendere quel progetto interrotto 25 anni fa?

«Lo spunto è venuto fuori durante il primo lockdown, quando ho visto decine di medici cubani venire in Italia a portarci assistenza. Ho pensato che fosse un gesto straordinario anche perché lì col Covid sono messi molto peggio di noi. Quella scena mi ha confermato la grande qualità umana del popolo cubano. E allora ho detto a Gino: tiriamo fuori quella vecchia storia, come atto d'amore verso Cuba».

Lei non esita a descrivere l'isola anche come una meta di eros, tra donne «cavallerizze» con fondoschiena divini e uomini a caccia di «gnocca». Le femministe si indigneranno?

«No, perché noi raccontiamo questo fenomeno dalla parte delle donne. E guardando un po' biecamente quelli che andavano a Cuba solo per l'eros». 

Nel libro lei usa una volta la parola "negro", e poi ricorre più volte al termine "mulatta". Usate nel giusto contesto, quelle parole non hanno alcunché di razzista?

«Quanto a "negro", nel libro è una parola pronunciata in modo scherzoso da una ragazza mulatta e riferita a un autista di colore. Quando i neri se la dicono tra di loro, quella parola non ha niente di offensivo. Anche nei film di Spike Lee gli afroamericani si prendono in giro, chiamandosi "nigga", negro. Per quanto riguarda "mulatta", è solo la definizione di un'etnia ed è assurdo pensare che sia discriminatoria. E poi il romanzo è ambientato negli anni '90, quando la sensibilità relativa al linguaggio era un'altra. Se io voglio scrivere un romanzo vero, metterò in bocca ai personaggi il linguaggio usato in quel periodo. Bisogna perciò stare molto attenti al politicamente corretto, che rischia di tagliarci le palle».

Covid a parte, la gente va di meno al cinema perché i film non parlano più la lingua che parla la gente?

«Senz' altro questo gioca a sfavore, specialmente della commedia. Noi negli anni '80 eravamo liberi e facevamo dire agli attori le parole che la gente diceva in giro. Senza quella libertà, film come Vacanze di Natale o Sapore di mare sarebbero stati messi all'indice. Per non parlare di Vacanze in America, in cui io faccio quella scena bellissima della terrazza con tutti gay, usando parole che oggi non si potrebbero più usare...

Sia chiaro, io rispetto la nuova sensibilità, però è oggettivo che queste cose vanno a discapito della risata. Penso anche al mio personaggio in Fratelli d'Italia che fa una scommessa per portarsi a letto la moglie del suo titolare. Oggi sarebbe definito sessista. Ma i film rispecchiano sempre un'epoca, non possono mai essere condannati dopo. La censura retroattiva è una follia». 

Un paio di anni fa un'esponente del Pd, Anna Rita Leonardi, la definì in modo offensivo «un cretino senza talento». Come è finita quella vicenda?

«Quella signora aveva voglia di visibilità. Poi, quando la rete le si rivoltò contro, lei chiamò il mio agente per dirgli che io sarei dovuto intervenire per difenderla. Cioè, tu mi offendi e io ti devo difendere?».

Come si trova a vivere al tempo dell'insulto gratuito sui social?

«Ho smesso di esprimermi politicamente. Mi hanno messo addosso l'etichetta di destra, ma io mi definisco un liberale». 

Da veneto, mi dice almeno cosa pensa di Zaia?

«Zaia lo conosco. In periodo di lockdown si è comportato bene. Ed è apprezzato al di sopra delle fazioni di partito. Penso che sia un politico che agisce per il bene del suo territorio».

È in corso il Festival del cinema di Roma. Kermesse buona solo per gli attori che appartengono ai salotti buoni?

«Non lo so, non la frequento, non sono un attore che invitano ai festival... Poi non ci vado certo solo per fare il red carpet». 

70 anni di età e 50 anni di carriera. Qual è il ricordo più bello e quale il rimpianto più grande?

«Il più bello è il giorno in cui ho visto il mio nome in grande sopra il titolo di un film, Vado a vivere da solo. Allora ho pensato "Ah, forse ce l'ho fatta". Il rimpianto è quello di essere uscito dal gruppo di Vacanze di Natale: lo feci perché avevo voglia di continuare la carriera da solo. Fu uno sbaglio, anche dal punto di vista economico». 

Qual è la cosa che le dà oggi più libidine?

«La più grossa libidine l'ho provata lo scorso 20 luglio all'Arena di Verona celebrando i 50 annidi carriera. È stato un trionfo di pubblico e di amicizia».

Il sesso continua a darle libidine?

«No, ormai il sesso è un ricordo del passato... (ride)».

Mara Venier, Jerry Calà confessa: "Il rischio c'era. Perché le sarò per sempre grato". Libero Quotidiano il 30 luglio 2021. Il 20 luglio Jerry Calà ha festeggiato i suoi 70 anni all’Arena di Verona. Non poteva mancare Mara Venier, ex moglie e ora grande amica di Jerry. I due si sono sposati nel 1984, il matrimonio finì a causa dei continui tradimenti di Jerry Calà, come ha raccontato più volte la stessa Mara Venier. L’attore ha fatto una confessione inaspettata al settimanale Oggi: “Nel periodo in cui lasciai i Gatti di Vicolo Miracoli mi sarei potuto montare la testa, il rischio c’era. Mi stavo perdendo ma fu Mara Venier, con la quale convivevo in quegli anni, a salvarmi, ad ancorarmi a terra. Rifiutò anche dei film per starmi accanto. Le sarò grato per sempre”. Guardando indietro Jerry Calà non mollerebbe così presto i cinepanettoni, con Yuppies ebbe un grande successo. L’attore, quando abitava a Roma, aveva come vicina di casa al piano di sotto la grande Raffaella Carrà scomparsa di recente. Calà svela un retroscena sulla famosa conduttrice: “Una volta mi invitò in tv e in diretta, a sorpresa, mi rimproverò per come parcheggiavo il fuoristrada da esaltato che avevo in quegli anni, ed essendo uno scapolone, per il viavai che c’era a casa mia. Rimasi basito”. Intanto Mara Venier a settembre condurrà una nuova edizione di Domenica In, Jerry Calà in autunno potrebbe girare un film da regista: “non dico altro per ora, ma sarà stupendo”. Nuovi progetti, quindi, per l'ex coppia.

Barbara Visentin per il "Corriere della Sera" il 21 luglio 2021. Non è estate senza Sapore di mare in televisione. Senza Luca che guarda Marina andarsene sulle note di quella Celeste nostalgia con cui si ripensa a tutti gli amori di gioventù. «Gli sguardi finali tra me e Marina Suma hanno lasciato proprio un'emozione», rievoca Luca, ovvero Jerry Calà. Ma oltre rivivere la mitica commedia di Carlo Vanzina del 1983, Jerry ha molto altro per cui emozionarsi. Il 28 giugno ha compiuto 70 anni e quest' anno ne celebra 50 di carriera. Una doppia cifra tonda che Calogero Alessandro Augusto Calà, questo il nome per esteso di uno dei protagonisti della commedia italiana, ha festeggiato ieri all'Arena di Verona.

Com' è esibirsi in un tempio come l'Arena?

«Per me che sono cresciuto a Verona e ci sono tornato a vivere è meraviglioso. Ricordo che da ragazzino andavo ad aspettare i cantanti fuori dall'Arena dopo il Cantagiro e ora alcuni di loro, come Maurizio Vandelli e Shel Shapiro, sono tra i miei più cari amici e sono stati ospiti della serata. È stato il coronamento di un sogno fanciullesco».

Ha avuto ospite anche Mara Venier, sua ex moglie.

«È la mia più grande amica. Con l'affetto che resta dopo l'amore e con l'intelligenza, si diventa amici. Per noi è stato naturale. Alcune persone rimangono nel cuore e il rapporto si trasforma in qualcos' altro di ugualmente bello e pieno di complicità». 

Che cosa le piace di Mara?

«Amo la sua schiettezza, il suo essere sempre di pancia, empatica e pronta a commuoversi, ma anche a gioire spontaneamente. È una delle persone più vere che conosco». 

Si è parlato molto di quanto l'ha tradita...

 «Ma basta con queste cose, ormai è diventata una leggenda! Ogni età ha i suoi problemi e a quei tempi non avevo neanche 30 anni, che per un uomo vuol dire essere un ragazzino. E poi ero in preda a un improvviso successo. Se ho fatto qualche marachella mi giustifico». 

All'Arena c'è stata anche la reunion dei «Gatti di Vicolo Miracoli», il suo gruppo degli esordi con Umberto Smaila, Franco Oppini, Nini Salerno... Come avete iniziato?

«Sono stati i miei primi compagni di viaggio e ritrovarsi a cantare "Verona Beat" proprio nella città dove ci siamo formati è stato il massimo. Frequentavamo lo stesso liceo classico, il Maffei, avevamo la fortuna di avere un teatrino a scuola e un paio di volte l'anno facevamo spettacoli di satira o di musica. Da lì, finito il liceo, provammo a fare un anno di università ma nessuno di noi ci si trovava...». 

Che liceale era Jerry Calà?

«Ero uno studente alterno. Andavo bene in alcune materie e in altre no, ma andavo bene in quelle giuste per il classico, come latino e greco, tanto che inizialmente mi ero iscritto a Lettere antiche a Bologna. Ma non mi sono trovato a mio agio con la vita universitaria». 

Viene da immaginarla un po' vivace in classe...

«Non ero il cruccio dei professori, ma diciamo che sin da allora cercavo di fare ridere i miei compagni. Per una risata prendevo anche un brutto voto, era il mio obiettivo principale per cui sacrificavo anche il rendimento». 

E oggi alcuni suoi intercalari, da «Capito?!» a «Libidine!» sono entrati nell'uso comune. Come ci sono rimasti così attaccati?

«Ma che ne so?! (ride, ndr ) È un gift forse, un dono. So solo che sin dai primi anni con i Gatti vedevo che se storpiavo alcune parole alla mia maniera poi la gente le ripeteva per strada. Non so come sia possibile, forse perché mi ispiravo un po' ai tic delle persone o alle pubblicità. Mi inventavo quelli che oggi si chiamerebbero dei "tormentoni" e vedo che ancora adesso i ragazzi vi si affezionano. Scoprono i miei film di quando non erano ancora nati e poi vengono ai miei spettacoli e sanno a memoria le battute. Incredibilmente ho tanti giovani che mi seguono». 

Come se lo spiega?

«Forse perché i miei film fotografano un periodo che appare più divertente e pieno di entusiasmo rispetto a oggi. Sanno anche le colonne sonore, canzoni di 40 anni fa. È uno strano fenomeno sociale, sarebbe da studiare. Vanno a ballare elettronica, ma se vogliono divertirsi con la cantata in gruppo ricorrono alle canzoni di Battisti o dei Nomadi». 

La comicità di oggi come le sembra?

«Gli schemi più o meno sono gli stessi. Forse è cambiata la formazione dei comici: la nostra generazione prima di approdare alla tv faceva un sacco di sperimentazioni live, faceva gavetta nei teatrini e nei cabaret. Oggi accade un po' il contrario: la tv crea dei comici che poi a seconda del successo diventano più o meno popolari e vanno in giro». 

Ci sono comici che le piacciono?

«Mi fanno molto ridere le commedie di Ficarra e Picone, li trovo molto divertenti anche al cinema. Ma i registi di commedie non ci mancano, ne abbiamo di bravissimi come Paolo Virzì o Paolo Genovese». 

E intanto una commedia degli anni 80 come «Sapore di mare» rimane un cult...

«Quando faccio spettacoli in teatro chiedo sempre se qualcuno l'ha visto e parte un boato. Chiedo "quante volte l'avete visto?". E c'è chi risponde 20 o 30, al che gli dico "ellamadonna ma ti senti bene?"». 

Che ricordi ha di quel set?

«Ne ho di bellissimi. Ho preso gli schiaffi più belli della mia vita da una dea del cinema italiano che si chiama Virna Lisi. Mi disse "non li so da' finti, scusami" e pam! Sono andato via con il faccione rosso». 

E poi c'è la scena finale, effetto nostalgia garantito...

«Non voglio fare il presuntuoso, ma in quegli sguardi c'è qualcosa, un momento di quelli che lasciano il segno. Quando l'abbiamo girata il direttore della fotografia mi disse "hai fatto una cosa molto bella". E so che anche su YouTube è una delle scene più cliccate». 

Qual è il film di cui va più orgoglioso?

«Un film che non ha avuto grande successo, ma mi ha fruttato il premio della critica a Berlino, Diario di un vizio del grande Marco Ferreri, il mio ruolo drammatico. Ne vado orgoglioso non solo perché mi ha riscattato un po' da come mi avevano trattato fino ad allora, ma anche perché è legato alla mia amicizia vera con Marco, persona semplice e buona nella sua genialità che mi trattava come un figlio e mi ha insegnato ad amare ancora di più il cinema. Peccato se ne sia andato troppo presto, avevamo altri progetti». 

Pensa di essere stato preso troppo alla leggera dalla critica?

«Sì, ma si sa, nelle commedie sono molto avari di complimenti, anzi ci danno dentro al contrario. A Berlino fu divertente perché mi aspettarono e a sorpresa sentii un grande applauso. Vidi le facce del gotha della critica e mi dissero "abbiamo capito che sei un attore vero e ti chiediamo anche un po' scusa per come ti abbiamo criticato nella commedia". Ma poi tornai a fare la commedia e loro ripresero a criticarmi come prima. È parte del gioco, in Italia il comico è sempre sottovalutato. In America se dici "I am a comedian" si tolgono il cappello. Ma devo dire che qualcosa forse ora sta cambiando». 

Lei intanto continua a portare in giro i suoi show.

«Sono in tournée anche quest' estate visto che un po' hanno riaperto. E speriamo che la riapertura duri». 

È favorevole a riaprire tutto?

«Credo che si debba riaprire, ma con grande cautela e controllo, come non è stato l'anno scorso. Se si riapre bisogna mandare anche qualcuno a controllare, non si può affidare solo ai proprietari dei locali la gestione del pubblico. I gestori fanno quello che possono, ma l'anno scorso sono stati abbandonati ed è difficile trattenere tanta gente». 

Quest' anno ci sono i vaccini.

«Speriamo se ne veda l'effetto, che non ci sia una recrudescenza e non ci siano più morti. Io sono cautissimo, anche esagerato: nei mesi scorsi sono stato chiuso, ho fatto entrambe le dosi, ho il green pass. Sono molto ligio».

Un ricordo dei suoi mitici anni Ottanta?

«Sono stati "fabulous" per me, gli anni in cui mi sono successe le cose più belle. Ma è stato soprattutto un periodo dove ho sentito grande entusiasmo e voglia di fare. Quella voglia di sperimentare e di affrancarsi dalla famiglia che avevano i giovani che ho fotografato nel film Vado a vivere da solo». 

Cosa direbbe al Jerry di 50 anni fa?

«Gli direi "vai così che vai bene". Non credo nella retroattività del pensiero. La vita va come deve andare, a volte ci sono delle sliding doors, ne scegli una e via».

E come si sente a 70 anni?

«Fisicamente molto bene. Ma anche moralmente, sono ancora entusiasta e ho voglia di andare in giro. Però se mi volto indietro e riavvolgo un po' la pellicola della mia vita e della mia carriera, li sento tutti questi 70 anni: ho vissuto molto e lavorato molto».

Jerry Calà festeggia i 70. I Gatti di Vicolo Miracoli? "Non è escluso il ritorno magari insieme a teatro". Paolo Giordano il 21 Luglio 2021 su Il Giornale. Ieri all'Arena di Verona uno show con tanti ospiti, da Shel Shapiro a Mara Venier, Boldi e Sabrina Salerno. E il quartetto che si è riunito per gag e canzoni: "Siamo vivi, anzi vivissimi". E dire che ieri sera si sono «trattenuti», ma solo perché c'era una scaletta precisa e guai a tradirla. Però ai Gatti di Vicolo Miracoli basta un attimo per ritornare il quartetto che tra la metà degli anni '70 e gli 80 ha sparigliato le carte del cabaret e dell'ironia, mescolando musica e sketch e slogan capaci di diventare tormentoni. Nini Salerno, Franco Oppini, Umberto Smaila, Jerry Calà, tutti da Verona, tutti ormai su strade diverse ma legati da quell'amicizia che inizia da ragazzi e non finisce mai: «Non siamo morti, anzi siamo vivi, vivissimi» spiega Smaila (71 anni) poco prima di salire sul palco. E mica un palco qualsiasi. Jerry Calà ha festeggiato i suoi 70 anni (e soprattutto i 50 anni di carriera) all'Arena di Verona praticamente esaurita portando sul palco gli amici, da Boldi a Shel Shapiro, da Sabrina Salerno a Ezio Greggio, Mara Venier, J-Ax e Maurizio Vandelli in una sorta di bignami della sua storia di musica e nonsense, di comicità e gavetta iniziata proprio lì, a Verona. E ha voluto con sé anche gli amici Gatti. «Non eravamo più bravi degli altri, eravamo diversi», riassume Nini Salerno, 73 anni, attore sempre più teatrale che aspetta di tornare in scena con Se devi dire una bugia dilla grossa. Non a caso Oppini (71 anni) sta scrivendo un libro per raccontare il decennio d'oro di questo gruppo di amici che, specialmente dopo il programma Non Stop di Raiuno del 1977, è diventato un must generazionale: «Dopo tanto tempo, mi sono andato a rivedere i testi delle nostre canzoni e ho realizzato che erano importanti come ad esempio La leggenda della donna oppure Prova. Insomma non erano solo divertissement». E chissà come sarebbero oggi i Gatti di Vicolo Miracoli nell'era del politicamente corretto che sterilizza ogni forma di ironia: «All'epoca eravamo vagamente di sinistra - ricorda Smaila - ma siamo stati sempre off, sempre alternativi, e lo saremmo anche oggi rispetto al conformismo». Lo erano già al Derby di Milano, quando Diego Abatantuono era il loro tecnico delle luci. E lo sono rimasti persino quando il loro brano Capito? diventò la sigla della rassicurante Domenica In di Corrado nel 1978. «Siamo cresciuti alla scuola di Dario Fo - è ancora Smaila che ricorda - abbiamo studiato la mimica e ci siamo ritrovati a Milano negli anni di piombo senza capire esattamente che cosa stesse accadendo. Comunque allora era tutto più soft rispetto a oggi». «Non sopportavamo la cultura con Kappa e ci consideravamo liberi. Oggi però la comicità è tornata alla satira sui politici oppure agli stereotipi della moglie rompipalle», aggiunge Oppini, anche lui sempre impegnato con il teatro: «Ma per Jerry e i Gatti ho addirittura interrotto le prove finali della prima dell'Anfitrione di Plauto che debutta stasera nell'antico teatro romano di Ferento». Insomma i Gatti di Vicolo Miracoli adesso sono quattro amici che quando vogliono si incrociano sul palco. E se fosse per un grande spettacolo celebrativo? «Difficile che la proposta arrivi dalla Rai, oggi chi comanda non sa neppure che esistiamo» garantisce Smaila. Però Jerry Calà rilancia: «Sai che mi piacerebbe fare un bello spettacolo, magari una residency dei Gatti di Vicolo Miracoli in un teatro? Suonando anche le nostre canzoni, magari aggiornate come potremmo fare con Storia d'Italia». Dopotutto Calà, come Smaila, da decenni porta in giro (con successo) il suo show. E ieri sera è toccato a lui celebrare sul palco una storia che, attraverso canzoni e gag e film come Sapore di mare, rimane nella memoria di tanto pubblico. «Prima di salire sul palco non ero agitato ma emozionato sì», conferma lui che con gli amici Gatti ha fatto e subìto scherzi. «Quando fu istituita la tassa Una Tantum - dice ridendo Smaila- lui si incaricò di raccogliere i nostri soldi. Ma non li versò mai. Ci fermarono i carabinieri e ci lasciarono andare via solo per pietà. Dopo qualche chilometro chiesi a Jerry: E allora?. E lui imperterrito: Eh ma sono io che ho rischiato, voi siete a posto». Anche Franco Oppini ha il suo ricordo: «Durante una cena nella sua casa di Roma, gli abbiamo spostato i mobili così bene che lui non sapeva più dove andare. Oh, mi hanno rubato la cucina, disse». Cabarettisti si nasce e loro modestamente lo nacquero, proprio così. Paolo Giordano

Giorgia Peretti per iltempo.it  il 28 giugno 2021. Un’ospitata d’obbligo per Jerry Calà, quella di domenica 27 giugno a Domenica In. Il programma della domenica pomeriggio chiude i battenti per questa stagione, fissando già l’appuntamento a settembre, al suo timone sempre Mara Venier. Immancabile, dunque, il saluto dell’ex marito storico della conduttrice che entra in scena ricordando a gran voce il traguardo dei 70 anni. I due coronano il loro amore a Las Vegas nel lontano 1984 per poi separarsi poco dopo a seguito dei ripetuti tradimenti dell’attore e comico. La conduttrice non ne ha mai fatto mistero, infatti, ha più volte ricordato di averlo trovato con un’altra donna durante la loro festa di matrimonio: “dico solo che il giorno della nostra festa di matrimonio, mente tutti festeggiavano e Renato Zero cantava, lui è sparito!", raccontava in un’intervista a Verissimo. Ma tornando negli studi di Domenica in, Calà ha ricordato tutti gli episodi più belli trascorsi assieme alla conduttrice veneziana, una carrellata di momenti dal sapore amarcord passano sul maxischermo dello studio. “Noi abbiamo avuto un bellissimo pezzo di vita”, commenta il comico incalzato dalla stessa compagna. “Il nostro è stato un amore che è durato sei anni”, ha ricordato Mara Venier. Dopo una dedica musicale sulle note di “Gente come noi” di Spagna, la loro canzone del passato, la padrona di casa specifica: “Sei diventato mio fratello ed io la tua sorellona”. Un amore travolgente raccontato da molte pagine dei settimanali di gossip anche se la coppia è scoppiata tre anni dopo l’unione ma trasformata in una duratura amicizia. Mara Venier sarà anche ospite il prossimo 20 luglio all’Arena di Verona per festeggiare con l’ex marito i suoi 70 anni. Ma durante l’intervista, Jerry Calà, racconta i retroscena della vita sentimentale dei due: “ti ricordi quando abbiamo fatto lo spettacolo? Sono sicuro che non ti esimerai dal dirmi le battute quando sei venuta al teatro a Milano. Abbiamo fatto uno spettacolo insieme e mi gridavi dal palco 'porcon'". “Come no, abbiamo fatto lo spettacolo… io so tutte le tue malefatte eh… ci sono io che dirò sempre la verità su come sono andate alcune cose”, risponde la conduttrice sviando rapidamente il discorso.

Luca Giampieri per "la Verità" il 29 giugno 2021. «Il papà lo voleva ingegnere, la mamma sperava che se ne restasse a casa». Così si apre il libro Una vita da libidine, autobiografia pubblicata un lustro fa per Sperling & Kupfer. Bilanci alla mano, ora che ha appena spento 70 candeline può dirlo. Una vita da libidine, come la chiama lui prendendo in prestito a sé stesso quel sostantivo tormentone che negli anni Ottanta poteva udirsi fors' anche in chiesa, tale era la sua popolarità, Jerry Calà l'ha vissuta eccome. Prima insieme agli amici di sempre, i Gatti di vicolo miracoli, poi spiccando il volo in solitaria sul grande schermo grazie alle ali fabbricate con sapienza da Carlo ed Enrico Vanzina. Ali tutt' altro che Icaresche: 20 film in una sola decade, il successo in televisione, la serie Professione vacanze in onda sull' allora Fininvest, ritratto alla buona di un'estate italiana che Calà incarnerà nell' immaginario del pubblico come un totem sempiterno della villeggiatura. «La gente mi dice: "Quando ti vediamo, ci viene in mente la vacanza"», osserva compiaciuto l'attore siciliano, veronese di adozione. Racconta che per convincere Silvio Berlusconi a produrre i sei episodi divenuti cult gli bastò pronunciare il titolo. «Fatela». 

Se li immaginava così i 70 anni?

«Non me li immaginavo proprio (ride). So che ci sono, ma non li sento. Anche se, ripensando a tutto ciò che ho fatto, ne vedo anche di più». 

Ha sempre detto che l'estate non è una stagione, ma uno stato d' animo. Vale anche per la giovinezza?

«Certo. I miei anni non corrispondono al mio stato d' animo. Diciamo una frase fatta: i 70 sono i nuovi 50». 

Si sarebbe aspettato un simile successo?

«Uno lo sogna sempre. Poi, quando arriva, ti chiedi: "Ma è vero?". Nel nostro mestiere non hai mai l'impressione di avercela fatta, c' è sempre qualcosa che sfugge. Soprattutto, speri sempre che dopo un lavoro ce ne sia un altro». 

Il famoso incubo del telefono che non squilla.

«Già. Infatti ho cercato di diversificare reinventandomi come one man show. Prima del Covid, facevo un centinaio di spettacoli all' anno tra club, discoteche, piazze d' estate. È la mia assicurazione».

Quando si rese conto di essere diventato famoso?

«Nel 1977, facevo Non stop, programma su Rai 1 dal quale uscirono tutti i giovani attori del nuovo cinema. C' ero io con i Gatti, Francesco Nuti coi Giancattivi, Troisi con la Smorfia, Verdone. Dopo le prime puntate, la gente mi fermava per la strada dicendomi "Capittooo?". Lì capii che era successo qualcosa di grosso». 

Dopo due film con i Gatti, la Dean film le offrì un contratto per tre pellicole da solista. Fu difficile accettare?

«Molto. Fu una separazione dolorosa dopo 12 anni, alcuni dei quali vissuti insieme nello stesso appartamento. Fu Bud Spencer a darmi il coraggio, io continuavo a voler fare entrambe le cose: la notte gli spettacoli coi Gatti e al mattino sul set di Bomber. Una sera lo trovai nella hall dell'albergo che mi aspettava: "Jerry, così non va. Quando giriamo sei stanco. Devi fare una scelta"». 

I Gatti come la presero?

«Sul momento non bene. Poi l'amicizia ha prevalso». 

Quali differenze vede tra la commedia all' italiana degli anni Sessanta e quella di cui lei è stato protagonista?

«Diciamo che noi, e dicendo noi penso ai fratelli Vanzina, abbiamo portato una ventata di novità in un momento in cui la commedia all' italiana si rifaceva troppo a sé stessa. Carlo ed Enrico erano sempre in giro: d' inverno a Cortina, d' estate a Forte dei marmi, avevano amici a Milano. Rispetto agli sceneggiatori che vivevano negli attici romani, avevano il polso di ciò che accadeva e l'hanno fotografato alla loro maniera. Forse con uno stile più leggero, ma ugualmente efficace». 

Aveva un attore di riferimento?

«Renato Pozzetto. Una volta mi disse: "Attento ché tendi a imitarmi"». 

Cosa gli ha rubato?

«Forse lo stralunamento. Il fatto di inventare parole tormentoni». 

Quello che l'ha impressionata di più?

«Angelo Infanti. Feci con lui Sottozero e capii che grande attore fosse. Quasi mi commuoveva. Non sembrava di recitare. A volte, sul set, gli chiedevo: "Ma che stai a dì?". E lui: "Sto a dì le battute del copione". Pareva che parlasse dei fatti suoi, tanto era naturale». 

Si è mai sentito schiavo dei suoi tormentoni?

«No, affatto. Una cosa divertente mi capitò a Napoli con un tassista dopo Sapore di mare. Mi disse: "Io a voi vi conosco, l'avete trattata male a Marina Suma! Siete stato nu scurnacchiato!". Non voleva caricarmi». 

Diversamente da altri comici, lei non sembra uno che non appena si spengono i riflettori diventa malinconico.

«No, non è il mio caso. Un momento oscuro fu l'incidente che ebbi nel 1994, quando finii nel greto di un fiume con l'auto. Però mi fece molto ridere il telegramma che mi inviò Beppe Grillo: "Meno male che non sei morto, altrimenti ci toccava tutta la tua retrospettiva" (ride)». 

All' apice della notorietà, era conosciuto per essere un tombeur de femmes. Ugo Tognazzi diceva che quando uno smette di fare l'amore è segno che la morte è dietro l'angolo. È della stessa idea?

«No, nonostante Tognazzi sia stato un altro grande riferimento e abbia avuto la fortuna di frequentarlo. Passai un bellissimo ultimo dell'anno da lui, con la sua famiglia e altri attori noti. A un certo punto disse: "Dai, facciamo un'improvvisata al ristorante di Benito". Quando entrammo la gente impazzì. Comunque non nascondo che, da giovane, per me la conquista era molto importante». 

Altro cavallo di battaglia: «Non sono bello piaccio».

«Sì, però a me le donne non sono mai cadute ai piedi. Dovevo faticare, inventarmi corteggiamenti sempre nuovi. Quella frase era un sunto». 

Che ricordo ha di quell' Italia?

«Di entusiasmo, voglia di buttarsi in avventure. Nel cinema c'era grande fermento». 

Lo rimpiange?

«Non vivo di rimpianti. La mia filosofia si riassume in un verso di un grande cantautore che è stato anche un amico, Pierangelo Bertoli: "Vivo con un piede nel passato e lo sguardo aperto e dritto sul futuro"». 

C' è un'interpretazione che ricorda con particolare affetto?

«Un ragazzo e una ragazza, di Marco Risi. Marco mi fece capire che dovevo mollare le faccette per cominciare a essere un attore vero. In quel film trovai la mia misura tra comicità e malinconia». 

In questo clima di dibattito sul ddl Zan, mi è capitato di pensare che tanti dei suoi film oggi non si potrebbero più fare. La vede come un'evoluzione o un'involuzione?

«Per un attore comico e per chi scrive qualcosa che voglia divertire, può diventare un ostacolo non poter toccare certi argomenti, certe categorie. Io lo trovo limitante. Ma credo che si troverà un compromesso». 

Bizzarro, se si pensa che due mesi fa il ministero della cultura ha abolito la censura cinematografica in Italia.

«(Ride) Adesso c' è l'autocensura». 

La critica ha sempre avuto un problema coi comici. E anche con lei non è stata tenera. Ha mai vissuto il complesso del fratello bistrattato?

«Solo per il primo film, Vado a vivere da solo. Scrissi perfino una lettera a una critica che mi aveva stroncato. Ne rimase così toccata che volle incontrarmi. Poi, sempre il mio maestro Pozzetto, mi disse: "Ué Jerry, guarda che quando cominciano a parlare bene di te è lì che ti devi preoccupare"».

Quando Marco Ferreri la scelse per Diario di un vizio, però, si prese una discreta rivincita. Gli stessi che l'avevano stroncata la incensarono.

«Quello fu un colpo di libidine mica da ridere. Al festival di Berlino fui invitato in un ristorante dove mi consegnarono il Premio del Gotha della critica italiana come migliore attore, scusandosi per come mi avevano trattato. Poi, quando ricominciai a fare le commedie, ripresero a massacrarmi». 

È vero che subito dopo, quando le proposero Abbronzatissimi 2, fu proprio Ferreri a spingerla ad accettare sostenendo che «l'attore è una prostituta»?

«Sì. Ingenuamente, dopo Diario di un vizio aspettavo i grandi autori. Invece arrivò Abbronzatissimi. Andai da Marco per avere un consiglio. "Ahò, se non ce vai te, te ce manno io a carci ner culo", disse con quel suo romanesco milanese». 

Pochi sapranno che per preparare la parte di Parola in Al bar dello sport si affidò al metodo Strasberg.

«Quel film non lo volevo fare. In un momento in cui tutta l'Italia parlava coi miei tormentoni, mi offrivano il ruolo del muto. "Come? Io faccio il muto e Banfi spara tutte le sue belle battute?". Mi finsi malato e mi chiusi in casa. Poi mi affidai a un gruppo di sordomuti che due volte a settimana veniva da me per aiutarmi. Alla fine ebbi delle ottime critiche».

È riuscito a farsi qualche amico vero nel cinema?

«Si contano sulle dita di una mano, ma sì. C'era quel bellissimo personaggio nel film di Truffaut, Effetto notte. Una signora che faceva la maglia, guardandosi attorno, diceva: "Cos' è questo mondo dove tutti si baciano e subito dopo si mandano a fare in culo?". 

Il cinema è un po' questo. Si recita insieme, ci si diverte, poi a meno che non capiti un altro film non ci si rivede più. Però qualche amico mi è rimasto: Boldi, Greggio, Roncato. Mara Venier, che è una sorella».

Si considera imborghesito o in lei vive ancora il Calogero figlio di un ferroviere emigrato al nord?

«Imborghesito? Ma va! Sono tornato a Verona proprio per fare la mia vita di sempre, con gli amici che volevano stare con Calogero e non con Jerry Calà». 

Se non fosse diventato Jerry Calà, cosa avrebbe fatto?

«Il professore di greco e latino. Mi ero iscritto a lettere antiche a Bologna, ero un grande latinista e grecista. Poi la vita mi ha portato altrove». 

Ha qualche rammarico?

«Non fu una gran mossa quella di saltare giù dal carro dei cinepanettoni. Però in quel momento avevo voglia di fare altro. Sarà stato un errore, soprattutto economicamente, ma io credo al destino. Se non lo avessi fatto, forse non avrei incontrato Ferreri». 

Uno sfizio che vorrebbe togliersi?

«Non so un personaggio insolito, magari. Adesso che ho un'età potrei fare il prete, o il professore. Ecco, ce l'ho! Il siciliano in una puntata de Il commissario Montalbano. Mi riuscirebbe benissimo».

·        Jessica Drake.

Barbara Costa per Dagospia il 24 maggio 2021. Ragazzi, arriva la professoressa del sesso! E oggi interroga! Avete studiato sì? Ripassato tutto? Anche il capitolo dell’anale? Tu l’hai capita la differenza tra l’ano maschile e l’ano femminile? Io so bene solo la parte sui sex toys! Chi ha preso appunti sulle orge? Me li passa? Mi suggerisce? Oddio, ecco i voti dello scritto sui preliminari. Ho preso 4. E come lo recupero? Con l’orale? Sì che si tornerebbe di corsa sui banchi se come professoressa ci fosse una stangona di un metro e 80, con quei seni, quei fianchi, e che si chiama Jessica Drake! E chi non conosce i suoi porno, recuperi, anche se a 47 anni Jessica ha accantonato le sue porno performance per ricrearsi insegnante. Del sesso! Hai mai visto una delle sue "Sex Guide"? Sono le sue "dispense" video, le sue lezioni sul sesso sul sito "Wicked", lezioni che toccano un po’ tutti gli aspetti della sessualità: sesso lesbico, sesso anale, e come si tratta un ano maschile e uno femminile, come ci si prepara, come si fanno i preliminari, come si sc*pa da anziani, a tre, come si sc*pa plus size, come si sperimenta il BDSM in sicurezza… I tutorial di Jessica Drake sono girati da pornostar di professione sotto sua regia e script e semplici spiegano come far buon sesso senza essere una virago, o un attore porno. Il porno educational è un genere, e i video didattici di Jessica Drake non sono i soli: ci sono quelli della veterana Nina Hartley, le fellatio lessons di James Deen, i video che svelano i trucchi bondage di Kink.com. Jessica Drake, texana, nata Angela Patrice Heaslet, diva porno, pluri-Oscar quale miglior attrice, una fama mondiale, migliaia di scene porno girate, e incursioni in serial TV, reality, e videoclip (in "Telephone" con Lady Gaga e Beyoncé), non solo è autrice di sex tutorial venduti anche all’estero, ma tiene lezioni sul sesso su giornali, radio, podcast, e all’università (sotto pandemia le ha tenute su Zoom). La prof. Jessica Drake spiega il sesso e il porno, partendo da questo imperativo: il sesso che si fa nella realtà non c’entra nulla con quello che si fa e si vede nei porno. È questa una verità tutt’altro che acquisita, sicché si prenda nota: il porno è genere cinematografico, è sesso con contatti, penetrazioni reali, lì il sesso non è simulato, ma è sempre sesso recitato. Proprio la sua fama da pornostar ha spinto Jessica Drake a tramutarsi prof. del sesso: agli incontri coi fan, o sui social, sono valanghe le domande su come far sesso, su come riuscire nel sesso, su come godere e far godere. Su come ricreare quel che di sesso si vede nei porno nelle camere da letto private. Jessica si è resa conto che manca una alfabetizzazione sessuale e pornografica, e che negli Stati Uniti come altrove si parla di educazione al sesso ma, questa educazione, chi la fa? Nessuno, se non pochi illuminati genitori. La fa poco la scuola, e in ogni caso, cosa si insegna ai ragazzi sul sesso? A proteggersi da gravidanze e malattie, e va benissimo, ma si guardi in faccia la realtà: i ragazzi, prepuberi, sono lasciati soli davanti al web scoprendo, nei video porno free, rappresentazioni sessuali che nulla hanno a che fare col sesso com’è davvero e che faranno nella loro vita personale. I media te la raccontano, con la manfrina che è colpa del porno, che è il porno il problema. Perché non evidenziano mai che la gran parte dei giovani sa che il porno è caricata rappresentazione? Perché li fa passare per sprovveduti? Sprovveduti erano loro, gli analogici, usi a una narrazione tuttora ammonente e comoda: come se fosse possibile cancellare la pornografia dall’esistenza, per preservare una innocenza che non c’è. Non si nasce innocenti, e si andrebbe informati al sesso senza pregiudizi né pudori. Questo non è possibile, si è frenati, da tabù e norme sociali, e i figli sono per lo più lasciati in balìa di se stessi. È quest’assente alfabetizzazione che prova a colmare Jessica Drake. Portare una pornostar in cattedra genera quello che un prof. tradizionale su sesso e porno non ha: l’autorità. In caso di tali materie hot, pure competenza. Una pornostar che parla senza remore o pregiudizi di porno e di sesso produce nei ragazzi attenzione. Lei sa perché lo fa, lo vive. Ne ha e si prende di ciò che dice responsabilità. E ti dice subito che non si può fare sesso senza imbarazzo. Che il sesso vero è fatto anche di insicurezza, goffaggine, nel porno assenti grazie ad abilità (e montaggio) che li cancellano. Il porno è sesso il più irreale e perfetto, riproduce e ti fa scoprire fantasie. Ma non ha sentimenti. Ha orgasmi, non esitazioni sane e normali. Jessica dice alle donne che chiedono come fare a capire se stanno avendo un orgasmo che “se te lo chiedi, non stai avendo un orgasmo!”. Il sesso lo conosci e lo sai se lo fai. Il sesso non si può insegnare. Si deve vivere. Ognuno ogni volta da sé, con chi decide e vuole. Se però sei un alunno di Jessica Drake, hai più chance di riuscire, e conoscerai aspetti del sesso – e di te stesso – a te ignoti. Com’è ignoto il porno, e farlo: Jessica spiega bene che è un lavoro, duro, difficile e che è falso che chi lo fa sia drogato, amorale, anormale, e che ogni set sia un circo. Sui set si lavora, la pornografia è una industria che fa e fa girare soldi. Dice Jessica: “I media sono responsabili della cattiva nomea del porno perché danno risalto solo alle isolate mele marce, che però ci sono in ogni altra "seria" professione”. Lo scopo del porno è divertire, non educare e però, quanti sanno che esiste il porno col preservativo? Jessica Drake è una pornostar che ha girato sempre col condom (come la nostra Ilona Staller). Lei senza preservativi nulla fa, ma è contraria al loro obbligo sui set porno. Ognuno sceglie per sé, nel rispetto di sé e degli altri. Il governo, le leggi, che ne stiano fuori. La prof. Jessica Drake, ricchissima (dice di aver rifiutato i 10 mila dollari che Donald Trump voleva pagarle per fare l’amore con lei, ma Trump risponde di non averla mai vista e conosciuta), fresca di divorzio dal secondo marito Brad Armstrong, pregiato regista porno (e ex marito di Jenna Jameson), ha il prestigio conferitogli dai video porno. Quelli con Asa Akira sono tra i suoi migliori. Lei li spiega così: “Insieme siamo eccitatissime, e non riusciamo a toglierci bocca e mani di dosso. Una volta ci siamo praticamente mangiate vive. Sul set, ci siamo scordate il regista, non sentendo le sue indicazioni siamo andate a sbattere, sudate, nude, avvinghiate, contro le attrezzature di illuminazione. Chi ci poteva fermare?”.

·        Jessica Rizzo.

Salvatore Dama per “Libero Quotidiano” il 19 giugno 2021. «A 14 anni mi chiamavano la "Santa". Uno mi appoggiò la mano sulla spalla. Gli dissi: "Non ti permettere più!". Era il frutto dell'educazione che avevo ricevuto a casa. Mia mamma mi diceva: i ragazzi vogliono solo quello». 

La biografia di Jessica Rizzo si intitola Nata bene (D Editore, euro 16,90). Che poi è l'etimologia greca del suo vero nome. Si chiama Eugenia. Pornoattrice, imprenditrice, manager di club privè.

Partiamo dall'inizio. Lei viene dalla provincia, Fabriano, e da una famiglia molto tradizionale. Sono gli anni Ottanta e il sesso a casa è un tabù.

«Non se ne parlava proprio. Avevo dieci anni e un gruppo di ragazzini mi fece un indovinello: "Sul tavolo ci sono un martello e una sega. Se io ti tiro il martello, tu che fai?", mi domandò uno. 

"Ti tiro una sega", dissi io, ingenua. Quelli ridevano e io non sapevo perché. Andai a casa e chiesi spiegazioni. "Da grande capirai", mi dissero i miei. Tutto quello che c'era da sapere sul sesso lo appresi dalle mie amiche».

Prima volta tardi: a 18 anni. Con Marco, che poi è diventato suo marito.

«Ho attraversato tutte le fasi dell'evoluzione sessuale. Dalla donna sottomessa e servizievole alla rivoluzione femminile. C'era questa mentalità: se lei si concede è una puttana, se lui ha l'harem è un macho. Mi sono ribellata». 

Nel libro scrive: «La prima volta che presi un pene in mano mi sembrava un manico di scopa. Poco eccitante, non sapevo cosa farci».

«Non ne avevo mai visto uno. Il primo è stato quello del mio futuro e attuale marito. Abbiamo avuto il primo rapporto dopo sei mesi di fidanzamento. Gliel'ho fatta sudare». però lei si è rifatta con gli interessi.

«Esatto» (Ride). 

Aveva questa fantasia: farlo davanti a una telecamera.

«Sì. Abbiamo cominciato da soli con la telecamerina. Ma era poco eccitante. Mi piaceva l'idea di un cameraman intorno che cogliesse i dettagli. All'epoca c'era Fermo Posta, dove lasciavi gli annunci per incontrare altre coppie scambiste. Poi abbiamo conosciuto i primi registi amatoriali, presto siamo entrati nel giro dei trasgressivi. È stato tutto molto naturale. All'inizio andavo in video con la parrucca».

Però l'hanno riconosciuta. Scandalo a Fabriano.

«Sono arrivati con i pullman. Giornalisti ovunque. Mia mamma non poteva uscire più di casa. Mia sorella veniva massacrata a lavoro. Per anni non mi hanno parlato. Poi hanno capito che era la nostra vita. Eravamo sposati. Quindi, nella loro ottica, sistemati. Non ci siamo più nascosti». 

Dal porno casalingo ai set professionali. Com' è andata?

«Eravamo un fatto nuovo. C'erano gli attori porno, ma erano singoli. Noi eravamo la coppia trasgressiva, quella della porta accanto, che faceva performance hard davanti alla telecamera. Io non volevo diventare famosa, era un gioco che mi eccitava, non un lavoro».

Lo è diventato.

«Ci trovammo catapultati su un set con Moana Pozzi. Mio marito doveva girare una scena con lei sul cofano di una macchina. Moana gli disse: "Vedi di fartelo venire duro che non ho tempo da perdere". Capirai: avrebbe smontato qualsiasi uomo! Lo aiutai io. Mi misi in un cespuglio e iniziai a masturbarmi. Marco guardava me e scopava lei. Alla fine gli fece i complimenti».

Che tipo era Moana?

«Giustamente altezzosa. Era una diva. Noi esordienti. A telecamere spente si levava. Io continuavo a giocare con gli attori, per mantenerli in tiro». 

Baby Pozzi?

«Non aveva grande propensione al porno. Per esempio, non voleva farsi venire in faccia. Era sui set forse per sfruttare un po' la scia della sorella».

Lei ha mai finto un orgasmo in scena?

«A volte dovevo fare delle parodie con degli attori che non erano bellissimi. E lì capitava. Però quando abbiamo iniziato a produrre i film da soli, ce li facevamo su misura, con le storie che mi eccitavano.

 Abbiamo avviato una linea di porno amatoriali e nessuno ci credeva. Siamo stati i primi, pensavamo che gli italiani non volessero solo vedere gli attori, ma anche masturbarsi con la casalinga, che magari era più porca e più vera». 

Tolto suo marito, un altro pornoattore chele è rimasto nel cuore?

«Ho lavorato con italiani e stranieri. Anche con Rocco. Eravamo entrambi esordienti. Una persona squisita. Ho girato spesso con Roberto Malone. Quando siamo sbarcati a Hollywood ho conosciuto gli attori americani. Troppo schematizzati.

Funzionavano, ma erano macchine. Girando una scena chiesi una penetrazione anale, il tizio mi disse di no: nel copione non c'era scritto. I francesi invece erano degli sfondatori. Li mandavi a ruota libera, prendevano molta iniziativa, facevano molto di più del copione». 

In totale ha fatto 250 film. Con quanti attori ha fatto sesso, li hai mai contati?

«No. Ero trasgressiva e lo sono anche oggi, continuo a giocare nel mio club». 

Qualche migliaio?

«Come faccio a contarli? Solo in un film ho fatto una gang bang con 85 uomini...». 

Come ha fatto a gestirne 85?

«Dalla mattina alla sera». 

In gruppi?

«A turno». 

Quanti per turno?

«Tre-quattro. A rotazione. Abbiamo girato in Francia, in Italia non si trovavano 85 attori validi. Magari aspiranti sì. Ma o non erano in grado o ce l'avevano piccolo». 

Quando dice "piccolo", qual è lo standard, scusi?

«No vabbè, alcuni avevano un mignolo... Non puoi fare il pornoattore con un pisellino così piccolo, che sarebbe stato piccolo anche nella vita normale».

 Nella biografia scrive: «Avevo la fantasia di girare una scena di sesso con un nano». Perché?

«Avevo fatto scene con uomini di tutti i colori, volevo un nano. In uno spettacolo a Milano se ne presentò uno. Era un mio fan. Gli proposi una scena di sesso in un mio film. Rispose: "Magari!". Così lo abbiamo reclutato».

Da attori siete diventati anche imprenditori. Negli anni d'oro quanto vi rendeva un film?

«Non dico la cifra, ma con due-tre film ti potevi comprare un bel appartamento». 

Cento milioni di lire a film?

«Circa». 

Ai tempi di Pornhub si fanno ancora i soldi con il porno?

«Penso che le pornoattrici di oggi guadagnino 2-3 mila euro a film, se va bene. Non esiste paragone. Noi andavamo a fare spettacoli di venti minuti per cinque milioni di lire. Ora si spogliano per 150 euro».

Oltre a Pornhub c'è anche Onlyfans. Si guadagna vendendo video e foto.

«Ce l'ho anche io, ci ho giocato in pandemia. Il fatto è che è crollato il divismo. Prima c'era gente che faceva due ore di fila sotto la pioggia per poter avere un posto in prima fila in teatro. Ora gli spogliarelli si fanno dappertutto. Siamo più assuefatti e meno sognatori». 

Ha un club per scambisti a Roma. È un genere di intrattenimento che funziona ancora?

«Funziona, ma in maniera diversa. Un tempo era frequentato da persone grandi, con vent' anni di matrimonio alle spalle, che volevano ravvivare il rapporto. Adesso ci sono i ragazzi giovani. Ma non sanno approcciare. Sono abituati con Internet. Vogliono farsi una scopata e trovano già tutto apparecchiato, non devono sforzarsi nel corteggiamento. Sono meccanici». 

È la conseguenza dell'educazione sessuale appaltata ai siti porno?

«Il porno fa anche bene, ma non bisogna esagerare. Ti distoglie dalla realtà. Quando nel club vedo gli sprovveduti, cerco di aiutarli. Il singolo da solo non ha più la maniera di proporsi. Anche la coppia più porcellina alla fine si smonta». 

Come immagina il suo futuro?

«In salute. Con i miei cani». 

Non ha voluto figli.

«Avere figli e non avere il tempo di educarli all'epoca non mi sembrava giusto. Non volevo coinvolgere altre persone nelle mie scelte». 

Ancora trasgressione?

«Sicuramente. Magari, non lo so, a settant'anni farò una casa di riposo hard per anziani con bastone e dentiera...».

·        Joan Collins.

Stuart Mc Clymont per corriere.it il 31 ottobre 2021. La dama Joan Collins è di cattivo umore. Noto che qualcosa non va nel momento in cui entra con nonchalance nel suo salotto barocco adagiandosi sul divano di velluto color verde cacciatore. Per ovvi motivi ci salutiamo senza baci, ma lei sembra tutt’altro che entusiasta di essere lì. Mi scruta senza togliere i grandi occhiali da sole. «Come sta?», chiedo. «Piuttosto stressata», risponde. Il problema è che l’indomani Collins partirà per una vacanza a Maiorca e l’intervista sta rubando tempo prezioso alla preparazione dei bagagli, attività che per l’attrice è ben diversa rispetto a quella di noi comuni mortali: è famosa per portarsi al seguito 16 valigie quando parte per un viaggio. E oltretutto, subito dopo la nostra chiacchierata l’aspetta anche un servizio fotografico. (....) Mi fulmina con lo sguardo. Comincio a chiedermi se questa intervista sia destinata al fallimento. Poi improvvisamente l’intervistata esplode in un tipico sorriso hollywoodiano. Si sfila gli occhiali da sole. 

«I miei diari insolenti»

Collins è una professionista e le nubi all’orizzonte si stanno diradando, nonostante le calunnie dei giornali scandalistici e le valigie Louis Vuitton ancora vuote. «Sono sempre contenta perché sono una persona molto felice», spiega, guardandomi con i suoi celebri e scintillanti occhi verdi menta. È particolarmente soddisfatta del suo nuovo libro, My Unapologetic Diaries (I miei diari insolenti), che è poi il motivo per cui sono venuto a trovarla in quello che forse è l’ultimo edificio effettivamente residenziale nel quartiere londinese di Belgravia, tutto sedi diplomatiche e covi di cleptocrati. Nella sua via, praticamente nessuno ha applaudito i medici e gli infermieri, si lamenta. «È stato patetico. I proprietari di questi appartamenti sono perlopiù cinesi e mediorientali che li acquistano come investimento». Tornando al libro: per una quindicina d’anni, ossia dalla fine del fenomeno televisivo Dynasty G fino all’ultimo volo del Concorde nel 2003 (con solo alcune integrazioni successive), l’attrice («attore» non le piace), autrice e celebrità potente e molto apprezzata ha tenuto sporadicamente un diario vocale registrato su un dittafono. Ora quelle note audio sono state trascritte e sottoposte a editing per la pubblicazione.

Uno strano salotto

Il risultato è una straordinaria raccolta di pettegolezzi di Hollywood, eccessi del jet-set e battute taglienti che, a seconda di come siete fatti, vi incolleranno alla pagina o vi faranno scappare. Immaginate questo libro come il figlio illegittimo della rubrica sui ristoranti del Sunday Times di Michael Winner e di The Vanity Fair Diaries di Tina Brown. Incontrare Collins è un po’ come fare un viaggio indietro nel tempo: so che mi odierà per averlo detto. Il suo salotto somiglia a quello di una dimora storica, con le pareti tappezzate di ritratti di personaggi illustri ma caduti da tempo nel dimenticatoio. Al di sopra del divano su cui è seduta è appeso il ritratto enorme di una dama dal viso fresco. Ha idea di chi sia? «Era una duchessa d’Austria o qualcosa del genere», Collins mi rassicura. «Nulla a che fare con me. Semplicemente adoro questo tipo di stanza». L’unico ritratto moderno che riesco a scorgere è un’opera pop art di Patrick Nagel che la raffigura. Figlia dell’agente teatrale Joseph Collins e di Elsa, un’insegnante di danza, Joan aveva appena nove anni quando debuttò sui palcoscenici di Londra in Casa di bambola di Ibsen. Poco più che ventenne viveva a Los Angeles, raccogliendo un enorme successo dopo aver firmato un contratto con la 20th Century Fox. È comparsa in film quali I Believe in You (1952) e La regina delle piramidi (1955), ha recitato al fianco di Richard Burton (di cui respinse le avances mentre si trovavano in Giamaica) e Paul Newman, oltre ad avere una relazione con un giovane e dissoluto Warren Beatty (esperienza che la fece sentire come «un’ostrica in una slot machine») e un affair con Harry Belafonte, allora sposato («magnetico»). Di tutti i numerosi personaggi interpretati, quello che ha lasciato un segno indelebile nel pubblico è stata la favolosa e inesorabilmente perfida Alexis Carrington Colby nella serie Dynasty, fenomeno televisivo degli Anni 80. Non è esagerato quindi descrivere Collins come una delle ultime icone dell’età d’oro di Hollywood.

Nei sontuosi palazzi degli Anni ‘90

Il suo romanzo è costellato di riferimenti a Jack Lemmon («adorabile»), Gregory Peck («noioso, ma adorabile») e Tony Curtis («esuberante»). È fitto di frasi assurdamente decadenti come «ho rintracciato Roger Moore sul suo cellulare a Montreux, in Svizzera, dove stava comprando delle scarpe» e «ho incontrato Farah, l’ex imperatrice dell’Iran. È stata molto gentile. Era tutta ingioiellata». (...) Tra mille avventure, Collins frequenta i sontuosi palazzi degli Anni 90 - Le Dôme, Le Cirque, il Chateau Marmont, il Ritz, l’Ivy - dove gli agenti vengono licenziati, si pasteggia a caviale e volano insulti feroci. Si ritrova a cenare gomito a gomito con un attempato Frank Sinatra e parla con Oliver Stone di sesso (un tema che lo «interessava terribilmente»). È un susseguirsi di nomi celebri: alcuni dalla fama ormai sbiadita e altri ancora decisamente sotto i riflettori, come Donald Trump («stupido cafone»), Jennifer Aniston («non ho mai visto delle braccia così sottili») e Cara Delevingne (che Collins ha tenuto a battesimo, «una ragazza estremamente libera»). 

Le critiche a Crudelia-Glenn Close

Collins parla sempre con un tono vivace, piacevolmente sfrontato e diretto. Ricorda di essere andata a vedere La carica dei 101, in cui per un soffio non è riuscita a ottenere la parte di Crudelia De Mon. «Oddio, una vera schifezza!», è il suo giudizio non esattamente obiettivo. «Senza troppa invidia o amarezza ho pensato che Glenn Close fosse assolutamente terribile nel ruolo di Crudelia. Tenevo molto a quel ruolo e avrei fatto di tutto o quasi per ottenerlo. L’ha interpretato senza humour e senza un briciolo di vulnerabilità». Ha anche iniziato a seguire le prime stagioni di una nuova proposta, una serie dal titolo Friends, e insiste che La tata, una sit-com ormai dimenticata in cui è comparsa come guest star , è «un telefilm infinitamente più bello». Condanna il comico e conduttore di talk-show Jay Leno, definendolo «uno degli uomini meno divertenti e meno attraenti d’America» e visita la villa di sua sorella Jackie a Los Angeles. «Mio Dio, è gigante», riflette. «Abitare in una casa così enorme non mi piacerebbe affatto».

«Non mi aggrappo ai ricordi, vivo il presente»

Mi chiedo se scavare tra questi ricordi al vetriolo le susciti nostalgia per la giovinezza, gli idoli matinée passati a miglior vita e gli anni di gloria hollywoodiana ormai lontani. «Non mi aggrappo ai ricordi, vivo il presente», afferma. Per di più, non ha mai amato Los Angeles quanto Londra e ai suoi occhi Hollywood è spesso apparsa come il regno della vacuità, dell’insicurezza e dell’insonnia. In quegli anni, poi, il casting couch era una pratica largamente diffusa. Ricorda che produttori affermati come Darryl Zanuck (che teneva sulla scrivania una statua in oro del proprio pene) non le davano tregua, ma afferma di aver respinto le loro avances - non senza pagarne il prezzo: «Ho perso alcuni ruoli per questo». Come la parte di Cleopatra nel titolo campione di incassi del 1963, che fu affidata all’amica e rivale Elizabeth Taylor. La sua migliore difesa contro i magnati pervertiti era sferrare una ginocchiata all’inguine a qualsiasi depravato tentasse di molestarla. «Sento di essere stata una delle prime femministe, quando questo termine non era ancora una parolaccia», spiega. «Desideravo vivere libera come un uomo».

The Voice alle prese con la demenza senile

Insiste che comunque la vera età d’oro di Hollywood è il periodo che abbraccia gli Anni 30, 40 e 50: l’era di Clark Gable, Marlene Dietrich, Hedy Lamarr e Rita Hayworth, di cui Collins non ha vissuto che l’ultima parte. «Tutte queste persone non ci sono più. Forse mi associano a quell’epoca perché sono veramente poche le celebrità ancora in vita che hanno recitato nei film degli Anni 50. Clint Eastwood, Shirley MacLaine, chi altro?» Capisco che vuole una risposta da me. Non lo so. «Non è un esperto di cinema, allora», osserva in tono aspro, facendomi sentire piccolo come un moscerino. È meravigliosamente e spaventosamente pungente. (Più tardi, grazie all’aiuto di Google, ho trovato anche Jack Nicholson e Michael Caine.) Quindi, cosa si prova a vedere il grande Sinatra alle prese con la demenza senile? Lo descrive come un uomo confuso, dai comportamenti puerili, che interrompeva i discorsi per chiedere se fosse già ora di andare a casa. «La vecchiaia è un argomento che suscita sempre un certo imbarazzo», afferma l’attrice con una nota dolente nella voce. «Un mix tra la tristezza, la pietà e il ricordo di quando quelle persone erano nel fiore degli anni. Da ragazza pensavo che Frank Sinatra fosse il migliore in assoluto. È triste vedere le persone avvicinarsi alla morte». 

«L’età è un numero e il mio non è sull’elenco»

Queste parole mi trasportano in un ambito in cui ho paura di addentrarmi, ma credo di doverlo fare. Collins preferisce non parlarne, ma non è un mistero che quest’anno abbia compiuto 88 anni (inutile dire che non li dimostra assolutamente). Non ha mai sentito alle spalle il carro alato del tempo? Si mette sulla difensiva sfoderando una battuta da showbiz: «L’età è un numero e il mio non è sull’elenco». Mi racconta che il suo medico le dice che sembra più una sessantenne che una donna della sua età. Ma si rifiuta di pronunciare il numero. «Mi ha spiegato che sono incredibilmente forte, non ho alcuna malattia». E continua ad alzarsi per toccare un tavolino di legno come gesto portafortuna. Dico solo che metterei la firma per avere delle ginocchia così scattanti a 88 anni. Mi muovo su un terreno minato, ma vado avanti perché è impressionante il modo in cui lei non si cura del tempo che passa. 

«Non pronunci la parola “pensione”»

Collins ha fatto di tutto, è stata ovunque, ha incontrato chiunque, e continua a fare film, scrivere libri e rilasciare interviste. Oltre ai suoi nuovi diari, in questo momento sta lavorando a un documentario su di lei con la BBC, che contiene filmati amatoriali in cui possiamo vederla in scorci di vita privata insieme alle numerose star che hanno fatto parte della sua esistenza. Sta anche pensando di pubblicare i suoi diari del periodo Covid. Non ha voglia di prendersi, che ne so, una pausa? Ho passato il segno. «Penso che sia una domanda terribilmente scortese», risponde. «Non osi farmi questa domanda di m****, non pronunci la parola “pensione”». Le spiego che la domanda nasce in realtà dalla profonda ammirazione che provo per il suo costante entusiasmo: se la vitalità di Joan Collins si potesse imbottigliare sarebbe un elisir dal valore inestimabile. Questo complimento sembra averla placata. «Noi che siamo più maturi sentiamo di avere il permesso di lavorare solo in settori in cui occorrono persone anziane», spiega. «La percezione che si ha dell’invecchiare non è più corretta: le persone ora vivono di più e in modo più sano. La moglie di Henry Mancini (la cantante Ginny O’Connor) ha circa 95 anni e va in discoteca tutte le settimane».

L’amore per la sorella Jackie

Un altro progetto che la vede impegnata è una serie TV biografica targata Sony intitolata Joan and Jackie, che narra la storia di Collins e della sua altrettanto affascinante sorella Jackie, che l’ha seguita a Los Angeles diventando una prolifica autrice di romanzi rosa e un gigante dell’editoria. A un certo punto le sorelle hanno anche collaborato: Joan ha infatti recitato negli adattamenti cinematografici di due piccanti best seller scritti da Jackie, Uno per tutte (1978) e Seta e diamanti (1979), entrambi di successo. Nella settimana della nostra intervista cade il sesto anniversario della morte di Jackie. Joan ha postato su Instagram una tenera foto che la ritrae bambina mentre coccola la sorellina. Jackie le manca ancora tantissimo. «È molto triste», afferma. «Per i primi due anni ogni volta che mi veniva in mente qualcosa pensavo, “Devo dirlo a Jackie”, e poi, “Non c’è più, è vero”. Siamo state sempre molto unite. Quasi sempre. Purtroppo all’inizio degli Anni 80 il nostro rapporto si è un po’ incrinato, non so bene per quale ragione. Sto ancora cercando di capirlo».

Il quinto matrimonio: lui ha 30 anni di meno

Esce per andare a prendere una bottiglia d’acqua, continuando a pensare alla sorella. «Jackie infatti odiava l’uomo che avevo sposato», spiega rientrando nella stanza. «E francamente anch’io. Quando le dissi che avrei sposato Peter Holm, mi rispose che se lo avessi fatto non mi avrebbe mai più rivolto la parola. “Non dici sul serio”, le risposi, e naturalmente non fu così». Collins è ora al suo quinto matrimonio, con Percy Gibson, un produttore cinematografico più giovane di lei di oltre 30 anni. (Corre voce che, alle domande sulla differenza di età, risponda: «Se muore, muore»). Definire la sua vita sentimentale tortuosa è un eufemismo. Il suo primo marito fu Maxwell Reed, un attore nord-irlandese che la stuprò rubandole la verginità a 17 anni, dopo averle messo della droga nel bicchiere, un’esperienza che l’attrice ha definito «disgustosa e degradante» nella sua autobiografia, Passion for Life . Ha scritto di avere sposato Reed spinta dal senso del dovere, perché «lo avevamo fatto». Tuttavia, il matrimonio non durò a lungo e Collins convolò poi a nozze con l’attore e cantautore Anthony Newley, da cui ha avuto due figli, Tara e Sacha. Fu poi la volta di Ron Kass, manager dei Beatles, il padre di Katy. Dopodiché fu sposata per un breve periodo con l’indesiderato Holm, cantante e playboy rivelatosi poi un uomo prepotente e sgradevole al punto che per anni, quando l’attrice parlava di lui, si limitava a chiamarlo «lo svedese». Poi finalmente incontrò Gibson, «assolutamente e senza ombra di dubbio» il migliore di tutti.

«Non potrei sopportare di avere un marito della mia età»

A febbraio festeggeranno il ventesimo anniversario di matrimonio e Collins sta pensando di regalargli un portasigarette di platino. A un tratto Gibson si affaccia allegramente alla porta, per salutare. Gli occhi dell’attrice si illuminano: «Ciao tesoro», cinguetta. «È il migliore, non posso immaginare una vita senza di lui», spiega. «È la roccia che mantiene unita la nostra famiglia. Grazie a Dio ho sposato un uomo che ha 30 anni in meno. Non potrei sopportare di avere un marito della mia età». Tuttavia, persino questo legame idilliaco ha dovuto fare i conti con l’atmosfera claustrofobica del lockdown. Collins ha trascorso giorni interi camminando in tondo per il salotto per fare esercizio, facendo il pieno di TV a letto e prendendosela con i muratori che per gli ultimi nove mesi hanno sgobbato su e giù dal ponteggio fuori dal palazzo in cui abita. «Avevo paura», racconta. «Disinfettavamo i giornali, non andavo al supermercato. Ci andava Percy e poi igienizzavamo tutto». Hanno fatto abbuffate di serie TV, in particolare Good Girls, La regina degli scacchi e Ray Donovan, e chiacchieravano con gli amici dal balcone. Ora ha fatto il richiamo del vaccino e sta lottando per tornare alla normalità. È stata a teatro tre volte, è andata in America, in Francia e a breve partirà per la Spagna. È determinata a «tornare a vivere».

Champagne a colazione

Collins pensa però che quest’atmosfera di sofferenza nazionale sia un po’ deprimente. «Non è sbagliato avere voglia di divertirsi, ce lo meritiamo», afferma. «Alle persone che dicono “tutti dobbiamo soffrire, stiamo soffrendo, i prezzi stanno aumentando, mancano i camionisti, quest’inverno saremo senza riscaldamento”, rispondo che non possiamo starcene tutti seduti a soffrire. Credo che la vita sia un banchetto e i più fessi stanno morendo di fame». Probabilmente non stupisce che l’attrice, che tiene una rubrica sullo Spectator ed è una leggenda della vecchia Hollywood, si schieri nettamente contro le «guerre culturali Woke», e affermi che al momento «appoggia i Tory». (...) Collins forse è diventata giusto un po’ reazionaria con gli anni, ma è ben ancorata al presente. Segue attentamente le guerre culturali e sa leggere con acume il panorama mediatico. Ma se si esclude qualche saltuario post “leggero”, in genere l’attrice si tiene alla larga dai social media per via della cancel culture . «Non voglio avere niente a che fare, per nessun motivo e in alcun modo, con questi idioti», dice. Forse è per questo che non vuole parlare del Principe Harry e di Meghan. «Penso che abbiano già avuto abbastanza attenzioni dalla stampa», afferma freddamente Collins. 

«Non sopporto si rinneghi Churchill»

Quando non è impegnata a punzecchiare gli attivisti, Collins ama assaporare ogni giornata, soprattutto la routine mattutina della colazione con caffè e giornale, anche se non è più la stessa da quando Piers Morgan se n’è andato sbattendo la porta dal set di Good Morning Britain. «Lui è il più interessante di tutti», afferma. Oggi, la sua critica alla Gran Bretagna è che, a parte Morgan, nessuno si sente in grado di parlare liberamente. «Le persone non possono dire ciò che pensano perché subiranno questa “cancellazione”, appunto» afferma. «È assurdo riportare a galla tweet di 15 anni fa su qualcosa che una persona può avere detto quando aveva 14 anni». L’attrice non sopporta poi «il modo in cui stanno rinnegando Churchill, che ci ha salvato, e ripeto, salvato dai nazisti. Al tempo ero troppo giovane per rendermene conto, ma erano veramente a due passi. Se non fosse stato per Churchill, ora ce ne andremmo tutti in giro con la svastica al braccio». Dopo un’ora di conversazione su Hollywood e la Storia, sono colpito da come la vita quotidiana di ciascuno di noi sembri così squallida rispetto al suo mondo da favola rivestito di seta e velluto. Questa vita incontenibile, con le 16 valigie al seguito e la colazione a base di champagne sembra molto distante dal disorientamento da schermo e dalla realtà introversa che conosciamo oggi. Rievocare il passato insieme a Joan Collins è come pranzare al Ritz con Roger Moore, stappare una bottiglia di Bollinger da Ciro’s in compagnia di Frank Sinatra e andare a un cocktail party nella villa di Valentino insieme alla principessa Margaret, il tutto nello stesso istante: un mondo in cui non si può e, forse, nemmeno si vorrebbe entrare. Il glamour del XX secolo si sta affievolendo, ma sono felice che lei sia ancora qui a mostrarci quanto può essere luminosa la vita.

·        Jo Squillo.

Da "leggo.it" il 13 aprile 2021. Jo Squillo, il dramma rivelato a Pomeriggio 5 nello studio di Barbara D'Urso: «Non posso più correre e ballare». Jo Squillo nel salotto tv ha rivelato oggi che è iniziato tutto a causa di un'incedente durante "L'Isola dei Famosi" nel quale si è fratturata il piede. Da lì un lunghissimo calvario medico ancora senza fine. Lo ha raccontato su Instagram con numerose stories e oggi anche in televisione. Jo Squillo ospite di Barbara d'Urso a "Pomeriggio Cinque" spiega perché non potrà più "correre e ballare". "Sono due anni che ho la tendinite e dalla rottura del piede ho cambiato postura - racconta lei - ho usato troppo il ginocchio e ballando mi sono giocata la cartilagine. Adesso sto facendo delle infiltrazioni che sono dolorosissime - aggiunge Squillo che conclude - ho la fobia degli aghi e fare queste punture è stata una grande sfida per me". Barbara D'Urso durante la trasmissione ha cercato di rincuorarla.

Verissimo, i sessanta giorni terrificanti di Jo Squillo: "Fatico a parlarne, dolore enorme". Doppio lacerante lutto, trauma insuperabile? Libero Quotidiano il 14 febbraio 2021. Siamo nel salottino di Silvia Toffanin, a Verissimo su Canale 5, la puntata è quella di ieri, sabato 13 febbraio. E tra i numerosi e prestigiosi ospiti ecco anche Jo Squillo, che si è raccontata nella consueta intervista a cuore aperto, ripercorrendo la sua carriera, dagli esordi nella musica al passato prima nel mondo della moda e poi in quello della televisione. Ovviamente, c'è stato spazio anche per la vita privata, per gli affetti, per i dolori. Toccante, in particolare, il momento in cui Jo Squillo ha parlato della scomparsa dei suoi genitori, un trauma che di fatto non ha mai superato. Tanto che afferma: "Faccio fatica a parlarne è un dolore enorme". E ancora, in una riflessione sulla sua persona, Jo Squillo ha aggiunto: "Sento molto il dolore, non mi è stato regalato niente, ma capisco che la vita è proprio così. La vita me la sono conquistata giorno per giorno, pensando alla discriminazione che viene fatta spesso sulle donne. È stato tutto faticoso, ma devo dire che sono molto orgogliosa di aver fatto un percorso di sorellanza", ha rimarcato. Il discorso dei genitori è emerso quando la Toffanin le ha chiesto: "Te la ha trasmessa mamma tutta questa grinta?". E Jo Squillo: "Non oso pensare a quelle persone che hanno perso i loro genitori senza il saluto. Io l’ho salutati a distanza di un mese dopo sessant’anni di matrimonio". La madre ha avuto una malattia degenerativa, insomma un male che si è protratto per molto tempo: "È stato un percorso lunghissimo. Quando è morta l’ho rappresentata con uno stormo di libellule", ha concluso Jo Squillo.

·        John Carpenter.

Carpenter, il regista-rockstar che sa "Cosa" terrorizza l'uomo. Luigi Mascheroni il 26 Settembre 2021 su Il Giornale. Un maestro del cinema horror e di fantascienza (e straordinario compositore di colonne sonore) Tra flop, capolavori e cult movie. Nessuno dei suoi grandi film fu un record di incassi all'uscita, né fece gridare i critici al capolavoro. Anzi. Ma, col tempo, molti sono diventati - come si dice - di culto, punti di riferimento del genere horror e fantascientifico per più di una generazione di cinema-goers...Col tempo John Carpenter, da Carthage, villaggio di nulla e di dannati nello Stato di New York, è diventato un maestro del cinema, costruendo una carriera in cui di volta in volta, e spesso contemporaneamente, è stato regista, sceneggiatore, compositore, musicista, attore, produttore e montatore. Una vita sul set, iniziata prestissimo: figlio di un professore di musica, una passione per il cinema sbocciata a otto anni («Era il 1956: dopo aver visto Il pianeta proibito ho deciso di voler fare film»), studi abbandonati prima della laurea - University of Southern California -, Carpenter debutta nel mondo della celluloide collaborando alla sceneggiatura di The Resurrection of Broncho Billy, cortometraggio western diretto da James R. Rokos che nel 1971 vinse il Premio Oscar come Miglior Cortometraggio. Da quel momento la strada fu tutta in salita. Osteggiato da una critica spesso miope e poco incline a valorizzare le sue opere, Carpenter ha dovuto sfruttare tutto il suo talento, la sua creatività e la sua ostinazione per dare vita a lavori destinati a entrare nel canone mainstream. E ce l'ha fatta. Con i suoi film, molte volte in anticipo sui tempi, tanto che al momento dell'uscita nelle sale non furono capiti dal pubblico (l'esempio più corrosivo è Essi vivono, capolavoro anti-consumista dei consumistici anni Ottanta), il regista-leggenda adorato dalle leggende (tra i suoi fan: Tarantino, Guillermo del Toro, Paul Thomas Anderson e Robert Rodriguez) ha segnato immaginario e subconscio di generazioni di spettatori. Ormai John Carpenter è da qualche tempo fuori dall'inquadratura. Anche se sembra vivere una seconda vita da musicista: autore, da autodidatta, delle colonne sonore di tutti i suoi film, ad eccezione de La cosa, per cui riuscì a coinvolgere Ennio Morricone, da anni gira in tournée col figlio Cody. È diventato una vera star della musica elettronica, mentre gli album con i suoi temi cinematografici continuano a essere ristampati con successo. Non a caso è tornato momentaneamente sui grandi schermi per comporre la colonna sonora di Halloween Kills, l'ennesimo sequel, firmato da David Gordon Green, del suo (im)mortale Halloween, pellicola horror-thriller - anno di altissimo cinema a bassissimo costo 1978 -, capofila del sottogenere slasher. Ma tutti vorremmo rivedere un'opera tutta sua. Intanto, aspettando il ritorno (Carpenter ha promesso che finita la pandemia si rimetterà a girare), ecco la bio-bibliografia più originale uscita da tempo sul maestro: Guida ai film di fantascienza di John Carpenter (Italia Storica) firmata da Paolo Prevosto, super esperto di fantascienza e strepitoso collezionista di oggetti di scena provenienti dalle più famose produzioni cinematografiche degli universi sci-fi. Il libro è un magazzino di documenti (pagine di sceneggiatura, liste di effetti speciali richiesti per i film, programmi delle riprese), e poi di fotografie inedite regalate dal regista all'autore, polaroid, disegni di modellini, locandine, e soprattutto di molte interviste a produttori, attori, direttori della fotografia e maghi degli effetti speciali che hanno lavorato nei suoi film. Ed eccoci atterrati sul pianeta Carpenter. Tutto inizia con Dark Star (1974), tragicomico viaggio spaziale antitetico all'Odissea di Kubrick: tanto ipertecnologico, asettico, ordinato, preciso il secondo, quanto abborracciato, sporco, disordinato, zoppicante il primo. Un film in cui l'uomo non governa la tecnologia, ma perde il controllo e viene annientato. Soggetto e sceneggiatura furono scritti da Carpenter assieme a Dan O'Bannon che, cinque anni dopo, consegnerà a Ridley Scott la sceneggiatura di un altro orrorifico viaggio spaziale: Alien. Poi una pietra miliare dietro l'altra, sulla lunga strada della storia del cinema: 1997: Fuga da New York (1981), film che con l'icona Snake Plissken-Kurt Russell, veterano della Terza guerra mondiale, ispirò un intero filone post apocalittico, sfruttato anche da registi italiani (Enzo G. Castellari con 1990: I Guerrieri del Bronx o Sergio Martino con 2019: Dopo la caduta di New York); La cosa (1982), un'opera assoluta le cui (pessime) critiche ricevute sono inversamente proporzionali all'influenza (straordinaria) che ha avuto sui generi horror e fantascienza; Essi vivono (1988), il cui contenuto ferocemente anti-capitalistico e anti-consumistico ancora non si capisce come sia stato accettato da una major hollywoodiana; Villaggio dei dannati (1995) e Fantasmi da Marte (2001), un flop, ma di quelli che sei disposto a rivedere. Aneddoti e testimonianze inedite che spuntano dal saggio di Paolo Prevosto. Ne citiamo tre. Uno: l'aspetto più futuristico di 1997: Fuga da New York, rivisto oggi, sono gli effetti di computer grafica, in particolare la rappresentazione in 3D della mappa di Manhattan, la spettacolare sequenza della discesa dell'areo presidenziale e gli schermi dell'aliante di «Jena» Plissken; mentre la difficoltà maggiore del film fu recuperare da un cimitero di aerei il velivolo presidenziale schiantato, tagliarlo in tre sezioni e trasportarlo nella location di St. Louis. Due: la sceneggiatura del film La cosa (per il quale rimandiamo al capitolo sugli avveniristici e insieme artigianali effetti speciali...), su cui la Universal Picture aveva molti dubbi e paure, fu consegnata al presidente della produzione per l'approvazione definitiva in modo molto teatrale, con una macchina per il fumo e due comparse vestite con giacconi parka e racchette da neve. La reazione della major - nonostante il cast tutto maschile che oggi non passerebbe mai dalle forche caudine neo-gender-MeToo-femministe - fu entusiasta. E capolavoro fu. Tre: per girare Fantasmi da Marte, in una cava di gesso in New Mexico, ogni mattina una squadra irrorava di rosso il terreno completamente bianco per farlo sembrare il pianeta rosso, e alla sera la pioggia lavava via tutto, con costi altissimi. Fino a che fu assunto un meteorologo in grado di avvisare 15 minuti prima che stava per diluviare, in tempo per ricoprire tutto con enormi teloni... Storie, fantascientifiche, di cinema.

Luigi Mascheroni lavora al Giornale dal 2001, dopo aver scritto per le pagine culturali del Sole24Ore e del Foglio. Si occupa di cultura, costume e spettacoli. Insegna Teoria e tecniche dell'informazione culturale all’Università Cattolica di Milano. Tra i suoi libri, il dizionario sui luoghi comuni dei salotti intellettuali "Manuale della cultura italiana" (Excelsior 1881, 2010);  "Elogio del plagio. Storia, tra scandali e processi 

Alba Solaro per “il Venerdì di Repubblica” il 17 febbraio 2021. Il paradosso per un maestro ("il" maestro?) dell' horror come John Carpenter è che poche cose gli fanno paura, ma una di queste era salire su un palco e suonare dal vivo. Al telefono dalla villa sulle colline di Hollywood dove mangia il tempo giocando a videogame sparatutto come Destiny e Borderlands, ricorda allegro: «Ho sempre sofferto di panico da palcoscenico, sin da ragazzo. Non mi sembrava una buona idea andare in tournée ma mio figlio Cody ha insistito e siamo partiti. Appena abbiamo cominciato con i primi concerti, incredibile, ho scoperto che adoro stare sul palco! Ed è molto, ma molto più divertente che fare il regista!». Roba da matti. Quattro anni fa, quando si è esibito al Primavera Sound di Barcellona, il festival forse più cool in Europa in quel momento, il regista di La cosa ha rubato la scena a musicisti con almeno quarant' anni meno di lui - che ne ha da poco compiuti 73. Era il tour per promuovere Lost Themes, il suo primo album di musiche originali, che è stato poi doppiato da Lost Themes II, e oggi è in uscita Lost Themes III: Alive After Death. «Prima ero un regista cult, ora sono un musicista cult» chiosa soddisfatto, l' accento pesantemente yankee. La seconda vita di Carpenter come star della musica elettronica è un affare di famiglia. In pratica, sono lui, il figlio 36enne Cody («musicista di professione, ma fa cose molto diverse dalle mie, anche sotto il nome Ludrium»), e il tastierista Daniel Davies, a cui Carpenter ha fatto da padrino: «Suo papà, mio grande amico, lui sì che è una rockstar». Infatti è Dave Davies, chitarrista dei leggendari Kinks. I tre hanno iniziato quasi per caso, improvvisando in casa un po' di blues, qualche cover rock, una pausa ai videogiochi, poi di nuovo ai synth, al basso, per buttare giù «temi musicali che sono tutti possibili colonne sonore di film che sono nella mia testa. Improvvisiamo, componiamo, ci divertiamo, tutto estremamente semplice. E se mi chiede che tipo di film c'è dietro a Wheeping Ghost o Carpathian Darkness la risposta è: quando ascolta i pezzi lei cosa vede? Perché di questo si tratta, non di me ma della sua immaginazione». In un mondo dove l'egocentrismo regna sovrano, Carpenter sorprende per la scarsità di protagonismo. Se gli chiedi come sarà Halloween Kills (ennesimo reboot del suo classico Halloween. La notte delle streghe, atteso in autunno) risponde placido «è lo splatter definitivo, ma il resto lo deve chiedere al regista, io ho solo composto le musiche». Il suo ultimo film, Il reparto, è ormai del 2010, e chissà se tornerà mai dietro la macchina da presa («potrebbe succedere», butta lì quasi casualmente). Peraltro ha molto spesso scritto in proprio le colonne sonore (tra le rare eccezioni, Ennio Morricone per La cosa) ma ovviamente si affretta a ripetere: «Uno studente di cinematografia agli esordi e senza un dollaro non può permettersi un compositore o dei musicisti professionisti, così ho fatto tutto da me. Col synth perché almeno suonava come se avessi un'orchestra. Non capirò mai quelli che lo usano per tirarne fuori il minimo». Non per questo si è mai sentito un autore influente, in passato gli piaceva dire che gli altri compositori ascoltandolo pensavano "se lui può fare colonne sonore, io posso essere Stravinskij".

Ma come ha imparato a comporre?

«Sono cresciuto con la musica, mi viene naturale. Da ragazzino, nel Kentucky, passavo un sacco di tempo nei cinema, andavo a vedere i film grazie ai biglietti che trovavo nelle scatole dei cereali. E immagino di aver assorbito lì così tante idee musicali, infatti quando improvviso controllo sempre di non aver involontariamente copiato qualcuno. In casa si ascoltava quasi solo classica, i dischi di mio padre che era un insegnante di musica. Poi finalmente sono riuscito a farmi regalare una radiolina a transistor. Ho cominciato ad ascoltare il rock' n'roll. E mi sono innamorato».

Però nella sua musica, che ha sempre un retrogusto anni Settanta, di rock quasi non ce n'è. C'è piuttosto l'amore per band come i Goblin.

«Beh, però qualche anno fa ho chiamato gli Anthrax a fare le musiche di Fantasmi da Marte. Comunque sì, amo i Goblin e Dario Argento, da Inferno ho imparato la libertà dalle costrizioni narrative, la potenza di concepire un film come un brutto sogno».

In questo album sembrano esserci persino tracce del Giorgio Moroder anni Ottanta, è mai possibile?

«Lo è. Guardi che ero il Re della Disco! In quegli anni a Los Angeles andavo spesso in discoteca più che altro per rimorchiare. È la prima a cui lo racconto (ridacchia, ndr). Mi piaceva la disco, e mi piaceva il rock, erano due mondi diversi ma coesistevano, non dia retta a chi le dice che non si potevano amare entrambi.  E in un certo senso la disco era come il cinema horror».

Qualcuno potrebbe essere d' accordo con lei per le ragioni sbagliate.

«Horror e disco sono sempre stati considerati nient' altro che dei "generi". Destinati al puro intrattenimento. Ma se guardiamo alla storia, la disco music racconta cos' era il mondo giovanile bianco, povero, pensi a Travolta nella Febbre del sabato sera. E quando ho girato Essi vivono, erano gli anni di Reagan e il film parlava esattamente di questo: una società che mette i soldi e il profitto davanti a tutto, il controllo assoluto del potere. Non a caso il cinema horror esisteva già ai tempi del muto, con la Grande Depressione. E non se ne andrà mai, perché nasce da qualcosa che tutti proviamo. Tutti abbiamo paura».

Di cosa?

«Della morte. Di perdere le persone care. Per questo l'horror non tramonta. Perché ogni generazione lo reinventa, mettendoci le proprie paure».

E che cosa fa di un horror un grande horror?

«La storia».

Il che ci porta a riflettere su come persino La cosa, il suo capolavoro del 1982 all' inizio bocciato, sia tornato d' attualità.

«Perché oggi la realtà è diventata un film dell' orrore, specialmente per tutta la gente che è morta con la pandemia e quella che ancora ne morirà».

Ma allora chi sono oggi i mostri?

Carpenter tentenna, non vuole dare una risposta facile: «Uno dei peggiori è come si chiama? Il presidente della Siria».

Bashar al-Assad.

«Ecco, è la dimostrazione di come non sono i film a fare paura, è la realtà che è un inferno».

E nel personale inferno di John Carpenter che musica suonano?

«Oh Gesù un' orchestra di fisarmoniche, ma non mi chieda perché».

·        Johnny Depp.

Johnny Depp, il disilluso: «Il mio più grande successo? Sono i figli». Stefania Ulivi su Il Corriere della Sera il 17 ottobre 2021. L’attore ospite della rassegna Alice nella città: «Sono lontano dai film d’oggi, troppo superficiali. Hollywood? Ormai è soltanto un luogo di vacanza. Non mi piace più lavorare lì». «Hollywood? Ormai è un luogo di vacanza. Non mi interessa più, c’è poco scavo e conoscenza». Là dove c’era Jack Sparrow, il leggendario capitano della Perla Nera de «I pirati dei Caraibi», ora c’è Johnny Puff, la pulcinella di mare protagonista della webserie d’animazione «Puffins» a cui Johnny Depp presta la voce, oltre che bandana e orecchino, presentata in anteprima ad Alice nella città. Per sua fortuna i fan non vanno per il sottile e gli perdonano anche le due ore di attesa intorno al red carpet dell’Auditorium, sotto il poster del film di Pif «E noi come stronzi rimanemmo a guardare», perché il diavolo, si sa, è nei dettagli. Bis in serata per la masterclass, sold out già da giorni, questa volta all’Auditorium della Conciliazione. La giornata di Depp alla Festa di Roma, e dei suoi adoratori, era iniziata la mattina sotto l’hotel Eden, da cui ha avuto difficoltà a uscire visto che molti di loro gli facevano la posta. Quando finalmente si presenta, lo fa in divisa d’ordinanza: giubbotto di pelle chiara, cappello nero sopra la bandana, stivali, occhiali scuri, collanine. Prigioniero del suo mito che non sbiadisce, almeno negli occhi del pubblico, e che ripaga con gratitudine: «I fan? Sono loro i miei veri datori di lavoro». Un mestiere di cui l’attore americano, 58 anni compiuti lo scorso giugno, parla al passato. «Quello che è stato il mio lavoro come attore, mi ha permesso di affrontare tante sfide diverse attraverso i personaggi che mi sono stati offerti , in genere accolti dal pubblico con gioia». Come Jack Sparrow, appunto, che la Disney ha congelato, preferendo proseguire la saga senza di lui. Così come la Warner ha scelto di fare a meno del suo Gellert Grindelwald per «Animali fantastici», dopo che le accuse di violenze ai danni dell’ex moglie Amber Heard erano state giudicate da un tribunale britannico «sostanzialmente vere». Depp ha sempre negato, non risponde a domande sulla vita privata. Preferisce rendere omaggio ai suoi figli. «Il mio più grande successo? Sono loro. Niente si avvicina a quello, né lo può superare. Se invece me lo chiedete in campo lavorativo, appartengo a quella scuola di pensiero di chi non si ritiene mai soddisfatto. In questo mestiere se lo fai sei finito, ti adagi sugli allori». Di girare film avrebbe ancora voglia, ammette. «Spero di farne con Andrea Iervolino e Monika Bacardi che hanno prodotto e ideato “Puffins”. Ma per fortuna mi sento lontano dal cinema di oggi, un meccanismo che sputa battute, formule predefinite, stereotipi superficiali. Non mi interessa. Né sono in cerca di grandi registi e grandi attori. Piuttosto, vorrei aiutare la gente a fare film, magari ragazzini di 15 anni che hanno qualcosa da dire, anche se girano con il cellulare». Quello che sembra stargli più a cuore, al momento, «è far ridere i bambini» . Qui lo fa sul red carpet, cercando i più piccoli, e spiega che lo fa grazie a Johnny Puff, il protagonista della serie web della Ilbe (su Amazon e Apple). «È solo una voce, non comunica con le parole. Quando mi hanno proposto l’idea mi ha convinto perché non assomiglia a nulla. Mi sembrava bello esprimermi mescolando il linguaggio che mi sono inventato ai suoni delle pulcinelle di mare. Mi sono fatto ispirare anche dalle ricerche dell’etologo Desmon Morris sulla nascita del linguaggio, sui suoni di fronte a cui reagiscono i neonati». È andato a pescare anche nei suoi ricordi d’infanzia. «La domenica pomeriggio c’era un programma di marionette in tv e poi i film muti di Chaplin e Buster Keaton. Una grande scuola. Come quella dei cartoni animati che vedevo con i miei figli. Mi è servita per Jack Sparrow, cercavo un personaggio al di fuori dei parametri, che piacesse dai 5 agli 85 anni». Fa il clown con l’interprete Bruna Cammarano, le mette il suo cappello, le fa il baciamano, cerca l’applauso. Lontano da Hollywood è un conto, lontano dal pubblico sarebbe troppo anche per un pirata.

Marco Consoli per "la Stampa" il 24 settembre 2021. «È stato incredibilmente doloroso rivivere la rottura della mia relazione, vedere le mie motivazioni e la mia verità messe in discussione e i dettagli più traumatici e intimi della mia vita con Johnny condivisi in tribunale e trasmessi in tutto il pianeta». Le parole di Amber Heard sono risuonate a sorpresa, diffuse probabilmente da un'attivista infiltratasi tra i giornalisti, durante la conferenza stampa per il Donostia Award, il premio alla carriera assegnato a Johnny Depp dal festival di San Sebastian. L'attrice le aveva pronunciate fuori dall'Alta Corte di Londra nel 2020, durante il processo per diffamazione intentato da Johnny Depp contro il Sun, che aveva scritto come ci fossero prove indiscutibili che l'attore avesse picchiato l'ormai ex moglie durante il loro matrimonio, fatti che Depp ha sempre negato, finendo però poi per perdere la causa contro il quotidiano. L'interprete di film molto amati come la saga di Pirati dei Caraibi, Donnie Brasco, Edward mani di forbice e Chocolat è apparso frastornato per l'evento inatteso, prima di rispondere a una delle tante domande della stampa presente. Il riconoscimento a Depp già al suo annuncio nell'agosto scorso aveva scatenato la protesta dell'Associazione delle registe spagnole, secondo cui «non è importante se abusi delle donne purché tu sia un buon attore», rintuzzata subito dal direttore del festival, José Louis Rebordinos con una dichiarazione netta: «Secondo i dati in nostro possesso, Johnny Depp non è stato arrestato, incriminato o condannato per nessuna forma di violenza o assalto contro nessuna donna». Ciò non toglie che il matrimonio burrascoso tra Depp e Amber Heard, conosciutisi sul set di The Rum Diary nel 2009, fidanzati dal 2011 e convolati a nozze nel 2015, abbia riempito le pagine dei tabloid quando lei nel 2016 ha chiesto il divorzio accusandolo di averla picchiata e di essere spesso stordito da alcol e droghe. Gli avvocati della star nel frattempo hanno ribattuto che la donna cercava uno scioglimento della relazione con compensazione finanziaria inventando gli abusi. Al processo non si è mai arrivati perché l'attrice, che prossimamente vedremo nel sequel di Aquaman e in Justice League, ha accettato l'offerta di chiudere il caso per un assegno da 7 milioni di dollari che, secondo il settimanale People, ha poi dato in beneficenza. Intanto però sono emersi dettagli poco edificanti sui litigi della coppia, con prove video e audio pubblicate in rete, in cui ad esempio si vede Johnny Depp adirato e probabilmente in preda ai fumi dell'alcol accorgersi che la moglie lo sta registrando e spaccare una bottiglia per terra e si sente Amber Heard ammettere di avere colpito il marito e accusarlo di essere un bambino per essere scappato di fronte alla sua rabbia, in un crescendo di accuse e ammissioni in cui è difficile capire da che parte stanno i torti e le ragioni. Intanto la carriera di Depp, che nel frattempo ha fatto causa all'ex moglie chiedendo 50 milioni di dollari per diffamazione, per un articolo scritto sul Washington Post dove lei si dipingeva vittima di abusi coniugali, è colata a picco: il 6 novembre scorso, 3 giorni dopo aver perso la causa con il Sun, l'attore è stato sostituito da Mads Mikkelsen nel terzo capitolo di Animali fantastici e dove trovarli della Warner Bros., dopo avere interpretato i primi due e lui stesso ha dichiarato a The Times di essere stato boicottato da Hollywood. E così, prima che una domanda sulla protesta dell'Associazione delle registe spagnole fosse messa a tacere dal moderatore durante la conferenza stampa a San Sebastian, Depp ha avuto modo di rispondere a un'altra su cosa pensi della cosiddetta« cancel culture», quella forma di ostracismo che ha colpito molti protagonisti del cinema americano finiti nel tritacarne dei social media perché accusati di abusi di varia natura, e non necessariamente condannati in tribunale, come ad esempio Woody Allen. «Questa cultura dell'annientamento o questa corsa istantanea al giudizio basato essenzialmente su ciò che equivale ad aria inquinata è un tema molto complesso. È talmente fuori controllo che posso assicurarvi che nessuno è al sicuro, nessuno di voi, perché basta una sola accusa per rovinarti la vita. Non è successo solo a me, ma a tantissime persone. Se sei armato della verità, quello deve bastarti e quando c'è un'ingiustizia, se capita a te o a qualcuno che ami o qualcuno in cui credi, agisci, non restare fermo. Quelle persone hanno bisogno di te».

·        José Luis Moreno.

Da repubblica.it il 30 giugno 2021. In Italia era diventato famoso negli anni Ottanta grazie a numerose apparizioni televisive in veste di ventriloquo insieme all'inseparabile corvo Rockfeller. José Luis Moreno, 74 anni, è stato arrestato martedì mattina a Madrid nell'ambito di una grande operazione di polizia che indaga su frode, riciclaggio ed evasione fiscale. Moreno è stato fermato nella sua casa a Boadilla del Monte mentre contemporaneamente oltre cinquanta persone coinvolte nella maxi operazione venivano prelevate dalla polizia spagnola. Truffa, riciclaggio, associazione a delinquere e bancarotta fraudolenta sono le accuse a suo carico: secondo l'accusa avrebbe creato una rete di oltre settanta società con cui avrebbe riciclato circa cinquanta milioni di euro. In Italia era arrivato grazie a Raffaella Carrà, che lo aveva notato nella televisione spagnola e aveva deciso di portarlo nella sua trasmissione Pronto, Raffaella? Oltre a Rockfeller negli anni Ottanta aveva ideato altri pupazzi con cui si esibiva: Monchito e Macario. Ma dopo aver visto la sua fama - spesso contestata - di ventriloquo in declino, Moreno si era dedicato ad altre attività nel mondo dello spettacolo, dalla regia alla recitazione, alla registrazione di alcuni album musicali, ma negli ultimi tempi si era concentrato sulla produzione televisiva, con serie tv e trasmissioni in onda non solo in Spagna ma anche in America Latina.

·        Junior Cally.

Candida Morvillo per corriere.it il 25 agosto 2021. Il 15 luglio, con un post su Facebook, il rapper Junior Cally annunciava di essere in rehab per curare le dipendenze da alcol e sesso compulsivo e il Doc, il disturbo ossessivo compulsivo. Ora, è appena uscito dalla clinica toscana, un brufolo post detox gli è spuntato sulla fronte proprio stamane e lo fa sembrare molto più ragazzino dei suoi quasi 30 anni, forse, un Antonio Signore rinato nuovo. Così si chiamava a Focene, provincia di Roma su un mare senza un orizzonte, di giorno a spaccarsi la schiena facendo le pulizie e, la notte, a sognare, rappando per fare della sua rabbia la sua speranza. Lo guardi, sbarbato, i capelli corti. Cerchi il rapper «brutto sporco e cattivo» che esordì con una maschera a gas, cantando la trilogia delle carceri, Alcatraz, Guantánamo, Arkham, e che a Sanremo 2020 fu massacrato per una vecchia canzone ritenuta sessista e per quella nuova, No grazie, invisa a Salvini. Ma chi sa dove vanno a finire le persone che siamo state quando eravamo arrabbiati, avvelenati. Lui spiega: «Ho chiesto io di essere ricoverato. Volevo smettere di bere, staccare ogni contatto. Ma ogni giorno scoprivo che non ero pronto affatto. Da quasi 45 giorni non tocco un goccio, ma non è facile». 

Come è stato il mese in rehab?

«Di psicanalisi, meditazione, yoga e mi sono reso conto di cosa perdevo quando già prima di pranzo iniziavo col vino e, la sera, dopo altre tre bottiglie di rosso, passavo a grappa, amari, fino a svenire. In rehab , ho scoperto il sapore del caffè la mattina senza postumi della sbornia. Poi, ovvio, ho avuto momenti bui. Ancora ci sono. Quelli in cui mi dico: voglio bere. E quelli in cui mi vengono in mente cose di quand’ero piccolo, del perché sto così. Credo che bevo per anestetizzarmi, per insicurezza. L’alcol mi fa sentire forte, mi fa evadere dal Doc di cui soffro da quando ho 18 anni».

Che era successo a 18 anni?

«Mi hanno detto che non sarei morto. A 14, giocavo a calcio. Faccio i provini per il Perugia, il Verona, vanno alla grande, ma mi respingono: avevo le piastrine troppo basse. Cominciano le visite, mi dicono che è leucemia. Quattro anni per ospedali e mille divieti: non posso giocare a pallone, tatuarmi, andare in motorino... A 15 anni, dico a mamma: se devo morire, me lo devi dire. A 18, i medici capiscono che era invece una malattia autoimmune. Mi è rimasta la paura di morire, il Doc è nato così: ho iniziato a pensare che, se accendevo e spegnevo la luce quattro volte o giravo la maglietta due o evitavo i numeri dispari, non sarei morto. Bere aiutava: se sei ubriaco, non riesci neanche ad aprire la porta, figuriamoci a contare le volte che spegni la luce». 

Come è arrivato alla decisione di ricoverarsi?

«La situazione è peggiorata col lockdown. Ho sempre bevuto, ma lì ho aumentato. La mattina, non mi ricordavo che avevo fatto il giorno prima, tremavo, il Doc era amplificato, le insicurezze prendevano il sopravvento. Dopo, con le riaperture, stavo sempre in giro per discoteche, conoscevo una ragazza, ci andavo a letto, e il giorno dopo mi sentivo sporco, sbagliato».

Siamo arrivati al sesso compulsivo?

«C’entrava l’alcol: la sera, vai a letto con una; il giorno dopo, conosci un’altra a pranzo e pure ci vai a letto... Sono andato avanti così per quasi un anno. A primavera, con lo psicologo, mi sono detto: perché devo cercare conferme col sesso? Non mi serve questo scudo da rockstar». 

Nel nuovo singolo, «Come Monet», va a letto con tre donne e poi con le mogli di politici e calciatori, felice di sentirsi dire che è meglio di loro. Quanta verità c’è?

«Era così. Rappresenta i tre mesi più sessualmente densi, peggiori. Mi dicevo: devo essere il primo, è sposata, ma vuole me. Di spiegazioni ce ne sono tante. A Focene, ero sempre il diverso, lo sfigato che voleva fare rap e nessuno ci credeva. Ma rischiavo la morte per tutto e rappare era il mio sfogo. Sentivo di avere talento, facevo le pulizie, il cameriere e mi pagavo la musica. Lì, ho messo la maschera».

Cally, all’inizio, non mostrava il viso.

«Perché, tanto, al Paese, qualunque cosa avessi fatto, non mi avrebbero considerato. Dovevo diventare un altro per essere un idolo. Poi, da famoso, ho scoperto che Internet è peggio del paese. Quindi, è arrivato Sanremo e il noto casino». 

Centomila firme per escluderla.

«Io non ho mai fatto male a una donna, ho cantato cose che esistono, ma che non ho fatto. Tante cose brutte di questi due anni sono figlie di quel Sanremo. Mi hanno demonizzato. Ora, non vedo l’ora di iniziare il tour, il 15 gennaio al Largo Venue di Roma e il 29 all’Alcatraz di Milano». 

Il 10 settembre esce il terzo album: «Un passo prima». Un passo prima di che?

«Prima che sia troppo tardi. Ci sono questa sofferenza e brani più luminosi, spero simili al mio futuro». 

Cosa è più bello dopo il rehab?

«Vedo e sento più cose. Mi accorgo dell’insetto sul fiore. Prima, ero a letto con una, ma non la vedevo. Ora, so che si è più ubriachi da sobri».

·        Justine Mattera.

Dagospia il 14 gennaio 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Justine Mattera è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei del mattino. La Mattera ha commentato i recenti fatti avvenuti in America: "Le immagini che abbiamo visto mi hanno ferito. Impossibile dire che non me ne freghi niente, mi sono sentita ferita, forse avremmo dovuto aspettarcelo purtroppo, ma non pensavo si potesse arrivare a questo punto, che la gente avesse potuto attaccare dove facciamo le leggi, dove è nata la democrazia, sono state immagini incredibili, surreali. Io sono italo-americana, prima vivevo negli Usa ma con genitori di origini italiane, rimango con un piede da una parte e uno nell'altra. Non c'è una parte che predomina nel mio cuore, ci sono cose per le quali mi sento ancora molto americana e altre cose italiane che adoro. L'Italia per me è il posto più bello del mondo, è un Paese ricco di cultura, di storia, di poesia. Mi sento più americana per l'idea di meritocrazia, per l'idea che negli Usa ognuno potrebbe farcela anche senza una raccomandazione. In America se arriva uno bravo senza spinte, agganci e conoscenze ce la può fare. Magari la salita è più dura, ma ce la può fare. Quando arrivo a New York c'è una energia che mi fa pensare che qualsiasi cosa sia possibile". Sul suo rapporto con lo sport: "Io continuo ad allenarmi, nonostante la pandemia, lavoro comunque. Quest'anno faccio cinquant'anni, punto ad impormi nella mia categoria anziana. Ho una grande motivazione per fare ancora di più. Sono sempre stata sportiva, ho iniziato a fare le gare di nuoto a sette anni, poi nuoto sincronizzato e canottaggio, poi quando sono venuta in Italia per anni ho ballato, lavorando in televisione. Poi mi hanno proposto di correre una maratona, non l'avevo mai fatto, mi sono messa ad allenarmi duramente e sono riuscita a fare mezza maratona in meno di due ore. Da lì mi si è accesa una lampadina e ho deciso di tornare allo sport. Lo sport è nobile. Magari se hai voglia di fare due foto provocanti, osè, in lingerie, è giustificato. Ti fai un mazzo così allenandoti sempre, allora è giusto che magari ti mostri in modo un po' osè. Ma mai volgare. Qualcuno continua a criticarmi per le foto che posto su instagram, spiazza il fatto che a cinquant'anni puoi essere ancora essere attraente, bella, sensuale. Questo spiazza, anche se ci sono tanti esempi di donne di cinquant'anni che lavorando e curandosi fanno sempre la loro figura". Ancora sui social: "A puntare il dito sono di più le donne. Di solito fanno certi commenti perché hanno qualche frustrazione dentro. Come faccio io, possono fare tutti. Non faccio del male a nessuno. Tendo a pensare che le persone che criticano hanno qualche frustrazione loro, io provo a capirle, ma non ci riesco. Io ho sempre usato il mio corpo, magari ti puoi anche rimettere in gioco, facendo tanto sport, mi permetto anche di far vedere il mio corpo, che alla mia età è abbastanza in buone condizioni. Non voglio competere con le ventenni, quando me lo scrivono rido, io voglio semplicemente vivere bene con la mia età, ed è possibile farlo, con costanza e volontà. Perché deve essere attaccata una donna che mette delle foto un po' attraenti sul proprio profilo instagram? Ormai andando avanti sono arrivata a un momento in cui riesco a difendermi bene. Non stiamo parlando di volgarità, non capisco perché e a chi possano dare fastidio le mie foto. Una foto è come l'arte, può anche farti ragionare su qualcosa. Proposte strane sui social? La gente vuole sempre comprarti le calze o le scarpe". Sul suo rapporto con il proprio aspetto estetico: "Essere giudicati sull'apparenza per chi ha un certo aspetto è inevitabile, purtroppo. Io mi sono resa conto di essere attraente a 16 anni. Prima ero una secchiona, avevo tutti i capelli rasati, erano gli anni '80, pensavo solo alla scuola, la vedevo come l'unico modo per fuggire dalla mia piccola realtà. Ho vinto borse di studio, per andare a studiare nei posti migliori degli Stati Uniti. Poi a 16 anni sono andata in viaggio a studiare biologia marina in Florida, nel posto in cui studiavo c'erano tante ragazze bellissime, sono tornata da lì cambiata, ho fatto crescere i capelli e ho iniziato a vedermi bella, non avevo mai pensato all'estetica, ma sempre allo studio e alla testa. Mi sono detta che avrei potuto essere una studiosa ma anche attraente. Si può essere tutte e due le cose. Molto spesso la gente vede una bionda, americana, con l'accento, e allora pensa che tu sia una idiota ignorante. Ma forse anche questo pregiudizio è stato una opportunità. Sono sempre stata la rivelazione, mai una delusione. La somiglianza con Marylin Monroe? Ce l'avevo già al liceo, nel mio ultimo anno al liceo mi vestii da Marylin. Poi Paolo Limiti ebbe l'idea di farmi fare la sosia in televisione, il mio era un omaggio, credo divertente". 

·        Gabriele Pellegrini: Dado.

Enrico Chillè per leggo.it il 7 dicembre 2021. Stavolta c’è poco da ridere. Il comico e cabarettista Dado aveva raccontato di essere stato picchiato brutalmente dall’ex fidanzato della figlia, ma le indagini non hanno permesso di accertare quelle accuse. Insomma erano infondate. Era l’aprile del 2019 quando Dado, Gabriele Pellegrini in suo vero nome, aveva rivelato in un’intervista di aver riportato 30 giorni di prognosi per la frattura del naso, dopo essere stato colpito con un pugno in faccia da Federico Molteni, che all’epoca era minorenne. Il ragazzo era l’ex fidanzato della figlia (quattordicenne) e secondo il comico si era reso protagonista in più occasioni di stalking, insulti e minacce, fino a rendere necessario il suo intervento in difesa della ragazza. Proprio durante un acceso confronto sotto casa, Dado sarebbe stato aggredito, ma secondo le indagini quel pestaggio così violento non sarebbe in realtà mai avvenuto. La posizione di Federico Molteni, difeso dall’avvocato Pasquale Landolfi, è stata infatti archiviata dalla Procura di Roma circa un mese fa. Per gli inquirenti, le accuse di Dado sono da ritenersi infondate perché il fatto non sussiste. E di fronte ad accuse così pesanti, tra l’altro diffuse a mezzo stampa tramite un’intervista su un quotidiano e poi in tv, il pubblico ministero non ha potuto far altro che procedere d’ufficio con una richiesta di rinvio a giudizio, a carico di Dado, per diffamazione aggravata. L’udienza è prevista per i prossimi giorni. Si attende quindi la decisione dei giudici per stabilire se Dado andrà o meno a processo, ma intanto per Federico Molteni è arrivata la fine di un incubo, quello di trovarsi descritto come un “mostro” e di rischiare dure conseguenze penali anche se innocente.  A Leggo il ragazzo, oggi maggiorenne, ha spiegato: «Ho vissuto un inferno per due anni e mezzo, mi sono ritrovato travolto da una bomba mediatica che mi ha rovinato la vita. Sarò presente in aula, per l’udienza, insieme alla mia famiglia, sono stato vittima di una menzogna pesantissima e mi sono sentito troppo a lungo impotente di fronte a un’ingiustizia». 

Da fanpage.it il 10 dicembre 2021. "La cosa più giusta da dire non dovrebbe essere: ‘Dado dice', ma si dovrebbe fare un'inchiesta per verificare se le cose che dico sono vere": così si apre la telefonata di stamattina con il comico Gabriele Pellegrini, conosciuto con il nome d'arte "Dado", che rischia il processo per aver diffamato l'ex ragazzo di sua figlia, all'epoca, 14enne. "Gli avvocati di questo ragazzo, facendo il loro lavoro, hanno individuato un estremo di reato, cioè diffamazione per fatti non veritieri. Cioè, io ho diffamato dicendo che era un aggressore, quando in realtà, secondo loro, aggressore non era. E i giornalisti che si informano in maniera relativa danno voce a degli avvocati che stanno facendo il loro mestiere". Dado se la prende con i giornali che non avrebbero investigato, limitandosi a riportare cosa è emerso nelle aule di tribunale.

Il bullismo nei confronti della figlia?

l'aprile del 2019 quando Dado racconta la sua esperienza a televisioni e giornali riguardo all'aggressione che avrebbe subito da parte dell'ex ragazzo della figlia la quale, stalkerizzata e bullizzata dal giovane, all'epoca aveva 14 anni. Il ragazzo, recatosi a casa della famiglia di Dado, avrebbe cercato di investire il comico senza successo e poi lo avrebbe colpito con un pugno, fratturandogli il setto nasale. La sua scelta di parlare della vicenda, come dice oggi a Fanpage.it, è legata all'impegno e alla sensibilità verso il tema, avendo collaborato con il Centro Nazionale contro il Bullismo, reinterpretando così la celebre sigla dei Puffi: "I bulli sanno che a picchiare te non rischiano un granché".  Il ragazzo, però, come già ricordato, accusa Dado di diffamazione: sostenendo di essere stato lui la vittima in quella fatidica sera e non l'aggressore. 

Cosa è successo dopo

All'aggressione sono seguiti altri episodi che hanno coinvolto il comico, stavolta in rete. "Sui social ho individuato più di nove profili falsi, fake, tutti profili che in qualche maniera molto arrabattata cercavano di diffamarmi. Però sui social io sono un po' abituato ad avere persone che quando pubblico un video dicono che è bello, ma poi c'è qualcuno che scrive "che schifo". Di detrattori da social ne conosco: i famosi "haters", però questi erano dei profili fake tutti mirati, con dovizia di particolari sull'aggressione. […] Io ho fatto la denuncia contro ignoti e dopo, da questa denuncia, è venuto fuori purtroppo per lui che questi nove profili falsi, successivi all'aggressione erano tutti profili derivanti da utenze telefoniche della famiglia." Poco dopo, a seguito di quelli che Dado definisce "gravi motivi ancora al vaglio degli inquirenti", sua figlia ha cambiato scuola: "mi mettevano sullo stesso piano del ragazzo che mi aveva aggredito". In chiusura, Dado ha nuovamente specificato che secondo lui il gesto del giovane sarebbe stato dettato dalla "moda di essere belli e dannati", come se si vivesse in una puntata di Suburra o Gomorra: forse anche sua figlia è stata attratta dal personaggio "sopra le righe" proprio per questo. "Anche la storia del cinema dice questo, pensa a Grèase. Il protagonista era il bullo dell'università, del collage e lei, Olivia Newton John, fa di tutto perché attratta da lui e alla fine diventa come lui."

Zelig, il ritorno di Dado: gli inizi, la canzone da Guinness dei primati e gli altri segreti su di lui. Arianna Ascione su Il Corriere della Sera il 2 dicembre 2021. Tra i protagonisti delle nuove puntate del programma comico, in onda il giovedì su Canale 5 in prima serata, c’è anche il mitico cantante-attore dalla camicia leopardata.

Riso in Italy

«Alice guarda i gatti, i gatti guardano le alici». Alla Zelig «reunion», le puntate speciali dello storico programma comico attualmente in onda il giovedì in prima serata su Canale 5 fino al 9 dicembre (è stata infatti aggiunta una puntata alle tre originariamente previste), non poteva mancare Dado, il cantante-attore dalla camicia leopardata. Nato a Roma nel 1973 Gabriele Pellegrini (questo il vero nome all’anagrafe) ha mosso i suoi primi passi nel mondo dello spettacolo al concorso nazionale di cabaret Riso in Italy nel 1997, vincendo tutti i premi. In seguito, nel corso della sua carriera, oltre a Zelig è apparso in molte altre trasmissioni televisive come il Seven Show, Maurizio Costanzo Show, I raccomandati, Top of the Pops, Colorado, I migliori anni e Made in Sud. Ma queste non sono le uniche curiosità su di lui.

La canzone più lunga al mondo

Forse non tutti sanno che Dado, insieme al suo gruppo Dado e le Pastine in Brothers, nel 1999 si è esibito al Centralino del Foro Italico - a Roma - con «La canzone più lunga al mondo». Durata totale da Guinness dei primati: 25 ore e un minuto (sette in più di «Cara ti amo» con cui gli Elio e le Storie Tese avevano stabilito il precedente record). Successivamente, nel 2003, Dado è stato superato dai Folkabbestia che hanno suonato «Styla lollo man» per 30 ore di seguito.

Suono, canto recito e ballicchio

Nel 2000 Dado partecipa per la prima volta a Zelig - Facciamo cabaret (nello stesso anno vincerà il Premio Massimo Troisi). Cinque anni dopo porterà in giro per l’Italia brani originali e mini-cover di grandi successi nello spettacolo «Suono, canto recito e ballicchio». Nel 2006, dopo aver partecipato a Sanremo contro Sanremo, esce l’album «3/4 della palazzina tua», successore di «Vorrei» (pubblicato nel 1995).

Notizie in musica

Cantante ma anche comico satirico: nel 2015 Dado inizia la sua collaborazione con Servizio Pubblico di Michele Santoro su La7 e si esibisce a Imola sul palco della convention annuale del Movimento 5 Stelle. Nello stesso anno prende vita il progetto Canta la Notizia: Dado, in collaborazione con l'autore televisivo Emiliano Luccisano, sul suo canale YouTube mette in musica le notizie date dai tg. A causa di una di queste parodie satiriche (quella sul funerale-show di Vittorio Casamonica) riceverà minacce di morte.

Attore in «Tutti all'attacco» e «Nemici»

Nel 2005 Dado ha recitato nel film di Lorenzo Vignolo «Tutti all'attacco». Non è stata la sua unica esperienza cinematografica: è apparso anche in «Nemici» di Milo Vallone (2020).

L’aggressione

Il nome di Dado nel 2019 è finito sotto i riflettori: il comico infatti denunciò - anche pubblicamente sui social - di essere stato aggredito e picchiato dall’ex fidanzato 17enne della figlia («48 ore senza dormire di cui 16 al pronto soccorso, ringrazio l’addetto alle pulizie che mi ha rimediato un caricatore per il cellulare per rispondere a tutti - scriveva il comico su Facebook -. Dopo avere molestato mia figlia in vari modi da circa 7 mesi, dopo vari provvedimenti inutili da parte della famiglia e della scuola, venerdì sera il bullo dell’istituto scolastico di mia figlia si è espresso nel suo ruolo da bullo»). Il giovane in seguito ha respinto ogni addebito e al termine delle indagini è stata disposta l’archiviazione del fascicolo (nella nota diramata dei legali si legge anche che il pm «ha chiesto il rinvio a giudizio del signor Gabriele Pellegrini per diffamazione aggravata»).

·        Giovanni Scialpi, in arte Shalpy.

Scialpi, il cantante senza più un euro: "Cosa sono pronto a fare". Drammatico, come è ridotto. Libero Quotidiano il 16 gennaio 2021. Vi ricordate Scialpi? Il mitico cantante ha bisogno di aiuto. "Mi trovo in una situazione di estrema indigenza, come il 90% della gente che fa questo mestiere" ha detto in una intervista a Rolling Stone, "sarei anche disposto a fare il cameriere o qualsiasi altra cosa mi venisse proposta".  Il cantautore, 58 anni, ha spiegato di aver investito tutti i suoi risparmi nell'ultimo singolo prodotto, Let It Snow, e ha ricordato che la pandemia di Covid gli ha praticamente interrotto il suo lavoro. "Faccio parte di una fetta di persone che non sono calcolate né dallo Stato, né dall’immaginario collettivo" ha ricordato. "Io sono molte cose, posso affrontare tanti ambiti lavorativi. Farei qualsiasi cosa mi dia la possibilità di essere me stesso. Non sono una cattiva persona e vorrei aiutare il prossimo come fa un prete in chiesa o un professore a scuola", l'appello lanciato attraverso la Bibbia del rock'n'roll. Probabilmente presto lo vedremo in qualche talk-show pomeridiano o serale dove racconterà la sua vicenda drammatica. Sperando che almeno le ospitate possano portare fortuna all'autore di Rocking Rolling.

Da Scialpi a Shalpy: com'è cambiato in 30 anni. Libero Quotidiano il 16 giugno 2020. "Dopo un periodo di grande travaglio dovuto a numerose cause ho finalmente preso la decisione di ritirarmi dalla musica alla fine del 2020". Poche ma decise parole con le quali Giovanni Scialpi, in arte Shalpy, annuncia al pubblico la decisione di ritirarsi dalla scena musicale alla fine del 2020. Il cantante di Parma, che aveva raggiunto la sua massima popolarità negli anni Ottanta con brani come “Cigarettes and Coffee” e “Pregherei”, non rivela nel post nulla di più su quali siano precisamente le cause della decisione. Moltissimi però i messaggi di vicinanza e affetto da parte dei suoi (ancora) numerosi fan.

Scialpi annuncia il ritiro e attacca Fiorella Mannoia & Co: "Gentaccia, ogni occasione è buona per mostrare il proprio ego". Libero Quotidiano il 18 giugno 2020. Ritiro dalla musica. Ritiro con polemica, quello annunciato da Scialpi su Facebook: "Dopo un periodo di grande travaglio dovuto a numerose cause ho finalmente preso la decisione di ritirarmi dalla musica alla fine del 2020". Poche parole per dire addio, quelle di Giovanni Scialpi, 58 anni compiuti a maggio, che dal 2012 ha cambiato il nome d'arte in Shalpy. "Ho deciso di smettere perché non riesco più ad andare avanti", annuncia il cantante che salì alla ribalta negli anni Ottanta. E intervistato dal Messaggero, aggiunge: "Sì, ho deciso di smettere: così non riesco ad andare avanti. Negli ultimi tempi ho dovuto affrontare la fine di un matrimonio e anche gravi problemi di salute: dal 2015 vivo con un pacemaker, per problemi cardiaci. Insomma, sono un caso umano. Ma non ho voluto fare proclami come fanno le varie Laura Pausini, Fiorella Mannoia, Tiziano Ferro". Cosa c'entrano loro?, gli chiedono. "Gentaccia. Non si fanno sfuggire un'occasione per poter mostrare il proprio ego. Il fatto è che in Italia se non hai le giuste conoscenze, sei fuori dai giochi. Come me". E ancora: "Se non fai parte del giro giusto, non hai accesso a canali come il Festival di Sanremo, Amici, programmi tv di successo, prime serate. Devi produrti da solo, organizzare concerti in piazza. E non guadagni una lira". Come detto, un ritiro con grande polemica. Ammesso e non concesso che questa volta sia davvero un ritiro definitivo.

·        Kabir Bedi.

E Kabir Bedi scoprì di essere... Sandokan l'eroe degli italiani. Kabir Bedi il 19 Ottobre 2021 su Il Giornale. L'attore indiano, nella sua autobiografia, racconta l'improvviso successo raggiunto nel nostro Paese. Speravo che la mia serie TV Sandokan, che dieci giorni prima era approdata in Italia, mi avrebbe portato nel firmamento della celebrità. Ma non ero sicuro di come fosse andata. Anzi, ero seriamente preoccupato. Nessuno mi aveva chiamato dall'Italia e nessuno era raggiungibile. Anche la mia agente, Emi De Sica, figlia del leggendario regista Vittorio De Sica, non aveva chiamato, né rispondeva alle mie chiamate (in seguito parlò di una crisi personale). Negli anni Settanta, comunicare con l'estero non era facile. Niente Internet, niente mail, niente cellulari. Le chiamate a lunga distanza dovevano essere prenotate sui telefoni fissi tramite operatori telefonici che richiamavano dopo ore. Il regista Sergio Sollima era perennemente irraggiungibile, il suo telefono «ancora occupato, signore». Anche il produttore Elio Scardamaglia non aveva chiamato, né nessun altro della RAI. Quel silenzio collettivo sembrava un presagio di cattive notizie. Tuttavia, una chiamata solitaria di un giornalista italiano, Corrado Corradi, mi aveva dato un briciolo di speranza. Aveva il mio numero da quando era venuto in India, tre mesi prima, per un articolo che la più popolare rivista italiana, TV Sorrisi e Canzoni, avrebbe pubblicato prima della messa in onda. Parveen e io sembravamo un principe e una principessa indiani nelle foto che il suo fotografo aveva scattato al Lake Palace di Udaipur. «La tua serie è un grande successo» aveva detto Corrado nel suo inglese stentato, attraverso i disturbi della linea telefonica. «Devi venire». Il suo incoraggiamento fu sufficiente a farmi prenotare i biglietti per Roma. Mentre l'aereo rullava rallentando sulla pista, vidi un accenno di sorriso sulle labbra di Parveen. Mi rassicurò. Mi fidavo del suo istinto di attrice. Quando scendemmo dall'aereo, i flash dei paparazzi ci accolsero con uno sbarramento accecante dal bordo della pista. Non potevo credere che mi stessero fotografando e mi girai per vedere quale celebrità fosse dietro di noi, ma una gomitata nelle costole da parte di Parveen mi riportò alla realtà.

«Sorridi» sussurrò. «Sono qui per te».

Fu uno di quei momenti che ti cambiano la vita. Nel guardare la folla di fotografi ai piedi della scaletta, sentii una scarica di adrenalina. Ero una star in Italia? Me lo chiesi incredulo. Parveen mi fece strada mentre salutavo come un imperatore appena incoronato. Eravamo una coppia perfetta: esotici, giovani e affascinanti. I fotografi incespicavano gli uni sugli altri nella fretta di immortalare il nostro arrivo. Questa scena all'aeroporto sarebbe diventata la norma a ogni mia visita in Italia: folle di persone, giovani e meno giovani, che gridavano «Sandokan! Sandokan!» e si lanciavano verso di noi mentre ci dirigevamo verso una Mercedes in attesa. La gente mulinava intorno a me, spingendo e spintonando, chiedendomi l'autografo. Niente selfie a quei tempi. I fan mi stringevano la mano, mi baciavano, mi tiravano i vestiti, tutti volevano un pezzo di me. In quell'occasione, alcuni troppo impazienti spinsero Parveen da parte mentre cercavamo di salire in macchina. Le misi un braccio attorno alle spalle e mi scusai, ma lei era furiosa e mi ignorò.

***

Avevo chiesto a Corrado, il giornalista che mi aveva sollecitato a venire, di trovarmi «un bell'albergo»: mi aveva prenotato il più caro di Roma. Come diavolo avrei fatto a pagarlo? Non avevo guadagnato una fortuna con Sandokan, né nei miei pochi film indiani. E a quei tempi la più grande seccatura era far uscire soldi dall'India: c'erano limiti molto rigidi. Era strano che, con la celebrità alle porte, io mi preoccupassi di come far quadrare i conti. Ma i grossi compensi erano nel futuro, le spese nel presente. Le carte di credito e di debito non esistevano, all'epoca. Sapevo che sarebbe stato un grosso problema, ma lo misi da parte per affrontarne uno più urgente. L'umore cupo di Parveen mi preoccupava, anche se capivo le sue ragioni: era una star e non le piaceva essere messa in disparte; in India era sempre al centro dell'attenzione. Quando non riusciva a esprimere i propri sentimenti, era come un vulcano in ebollizione e dovetti blandirla per rompere il suo silenzio.

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Sandokan ebbe un successo travolgente in tutta Europa, battendo ogni record di ascolto, record che durarono per decenni. La canzone della sigla di Sandokan veniva trasmessa da tutte le stazioni radiofoniche, la si sentiva nei bar e nelle discoteche, e salì ben presto in cima alle classifiche. La gente la cantava ovunque andassimo.

I fan non impiegarono molto a scoprire dove alloggiassimo e presero d'assedio l'Excelsior, costringendo i poliziotti a lottare di continuo per dirigere il traffico davanti al nostro hotel in via Veneto. Ironia della sorte, prima di arrivare a Roma, avevo chiesto a Corrado Corradi di trovare qualcuno che si occupasse di pubbliche relazioni e che mi facesse «ottenere qualche intervista». Scelse Mario Natale e Simona Barabesi, un duo che, per l'aspetto, mi ricordava Stanlio e Ollio. Si rivelò una mossa intelligente. Ogni canale televisivo, ogni radio, ogni rivista o quotidiano in Italia voleva intervistarci, filmarci o fotografarci. Non avrei potuto gestire tutto da solo. Mario e Simona erano dei maestri di strategia che sapevano come cavalcare il successo. Decidevano l'ordine delle interviste, il look dei nostri servizi fotografici, l'orario e il luogo delle nostre apparizioni. Ai giornalisti venivano assegnati spazi di mezz'ora, dalla mattina alla sera. Era un carnevale mediatico! I media italiani mi hanno riempito di encomi senza precedenti. Il Corriere della Sera pubblicò un articolo in prima pagina in cui si diceva che avevo «riportato in Italia la mania per le star». La gente non vedeva «una tale frenesia di fan a memoria d'uomo». Altri dissero che ero il nuovo Rodolfo Valentino, Tyrone Power o Errol Flynn. La rivista britannica Screen International definì lo sceneggiato «il più grande successo nella storia della rete televisiva. Ventisette milioni e mezzo di persone incollate ai televisori. Durante la messa in onda, per le strade non c'era anima viva. Adolescenti urlanti hanno preso d'assalto la sede della RAI per vedere il nuovo idolo quando è apparso alla fortezza per una conferenza stampa. È stato necessario chiamare la polizia per trattenerli». Il merchandising di Sandokan inondò il mercato di bambolotti con le mie sembianze. In tutta Italia impazzavano gli album di figurine dedicate allo sceneggiato. La gente battezzava Sandokan le proprie barche. Molte persone avrebbero voluto chiamare i loro figli «Kabir», ma furono respinte all'anagrafe. In un momento memorabile, Parveen e io incontrammo Liza Minnelli sul set di un film diretto da suo padre Vincent, e lei ci definì «la coppia più bella del mondo». Negli ultimi giorni che trascorremmo a Roma, guardammo l'edicola di fronte all'Hotel Excelsior: eravamo sulla copertina di quasi tutti i giornali e le riviste. Kabir Bedi e Parveen Babi erano diventati famosi in Italia. Gli occhi di Parveen brillavano di gioia mentre i miei erano pieni di lacrime. Il ragazzo di Delhi ce l'aveva fatta. Kabir Bedi

Kabir Bedi: «Prima di essere Sandokan intervistai i Beatles». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera il 19 ottobre 2021. L’attore racconta la sua vita: i 130 film, serie come Beautiful e Dynasty, i quattro matrimoni, il dramma del figlio. «Sul set del Corsaro nero rischiai di annegare». Kabir Bedi è in camicia a fiori a Mumbai, dove vive dopo anni fra Londra e Los Angeles. Ha capelli e barba più scuri di quelli arsi dal sole di Sandokan, per il resto, gli occhi penetranti sono gli stessi di 45 anni fa e sembra atletico come quando lottava contro le tigri, a Labuan, per conquistare Carol André, nel celebre sceneggiato tv. Oggi, Kabir esce con la sua autobiografia Mondadori, Storie che vi devo raccontare – La mia avventura umana. Non ci sono solo le 130 pellicole interpretate, incluso uno 007 e serie come Beautiful e Dynasty. Lui dice: «Ho avuto una vita straordinaria anche per fallimenti e tragedie».

Qual è il giorno che le cambia la vita?

«Quando intervistai i Beatles a New Delhi. Avevo vent’anni. Lavoravo in una radio per pagarmi il college. Fu uno scoop clamoroso, che la radio non capì: cancellarono il nastro. Fu un tale choc, che mi misi su un treno con sole 700 rupie in tasca e andai a cercare fortuna a Mumbai».

E il giorno del provino per Sandokan?

«A Mumbai diventai pubblicitario, non pensavo di fare l’attore, ma mi trovai a recitare in film e a teatro, dove interpretai Tughlaq, un re pazzo. Il sipario si alzava su di me, nudo, di spalle. Tutta la città parlava di quella scena. Quando arrivò il regista Sergio Sollima con la troupe, cercando un attore alto, atletico, tutti fecero il mio nome».

Nino Novarese, che aveva già vinto l’Oscar per i costumi di Cleopatra, raccontava che la vide e vide Sandokan.

«Ma Sollima volle continuare a cercare e mi chiese di andare a Roma a mie spese per un altro provino. Arrivato in Italia, non immaginavo facesse così freddo. Nino mi vide tremare, mi portò a comprare un cappotto e dovetti confessargli che non avevo soldi. Mi disse: «Me li restituirai perché, un giorno, sarai ricco». La sua gentilezza ancora mi commuove. La mia vita cambiò, anche perché Bollywood richiedeva numeri di canto e ballo che non erano il mio forte: lì, non avrei avuto la stessa carriera».

Chi era il giovane uomo che diventava Sandokan?

«Il figlio di due genitori incredibili: mia madre era inglese, mio padre indiano, studiavano insieme a Oxford e li univa il desiderio di aiutare i poveri e combattere il colonialismo. Papà discendeva del fondatore della religione sikh, ma rinunciò alle sue ricchezze e andammo a vivere in capanne senza luce, senza acqua, per solidarietà alla popolazione. Mia madre finì in prigione perché guidava le manifestazioni di Gandhi. Papà è stato un filosofo, ha scritto libri, è stato un guaritore. Mia madre divenne una suora buddista del più alto grado: fu lei a insegnare l’inglese ai Lama, così che il buddismo si diffondesse nel mondo. Sono stati scritti tre libri su di lei».

Dal set, lei scrisse ai suoi: «Niente sudore, tensione, nulla da preparare. Io sono Sandokan nello spirito: libero, indomito, nobile, un leader fra gli uomini». Perché si sentiva Sandokan?

«Perché lui lottava per la libertà del suo popolo e questa era anche la storia di mio padre e mia madre che mi avevano insegnato come e perché qualcuno crede in qualcosa».

Che ricorda del successo?

«Atterrato a Roma, dalla scaletta dell’aereo, vidi pieno di fotografi. Mi voltai per vedere chi c’era di famoso. Non c’era nessuno. Pensai: sono diventato una star».

Le donne impazzivano per lei e tutti fantasticavano su un amore con Carol André.

«Ma io ero troppo concentrato sul ruolo e lei soffriva per la malattia che le avrebbe portato via il padre».

Hollywood come arriva?

«In Europa, non mi offrivano parti: ero troppo Sandokan. In America, fu difficile: se serviva un asiatico, i registi prendevano un bianco e gli scurivano la pelle. Dall’82, sono nella giuria degli Oscar e tante lotte per la diversity hanno dato i loro frutti».

La scena più rischiosa che girò è quella sul tetto del treno con lo 007 Roger Moore?

«Ho rischiato la pelle solo girando Il corsaro nero: il galeone affondò e stavo per annegare nei miei stivali».

Ci si sposa quattro volte se si crede troppo nell’amore o se non si è bravi in amore?

«Un poeta ha scritto che, se una storia non può procedere, va fermata nel punto più bello lungo la strada. Oggi, con Parveen ho l’amore sempre cercato. Ero in Italia a girare Un medico in famiglia quando le chiesi di sposarmi».

Il libro è dedicato a suo figlio Siddharth morto suicida a 25 anni. Come si fa pace con una perdita simile?

«Non lo so. Gli diagnosticarono la schizofrenia mentre si laureava alla Carnegie Mellon. Era un genio della tecnologia. Ho fatto di tutto per salvarlo. Ricordo le passeggiate a Santa Monica: stordito dai farmaci, soffriva perché non sentiva più il sapore delle cose di tutti i giorni. Il suo desiderio non era di essere genio, ma di essere normale. Noi dimentichiamo che esperienza straordinaria sia la normalità».

·        Kayden Sisters.

Barbara Costa per Dagospia l'11 aprile 2021. Sono scandalose. Sono scioccanti. Sono selvagge. Sono due vere sorelle. E fanno porno. Insieme. Sullo stesso set. Lo stesso letto. Lo stesso uomo. Ma mai tra loro. Queste due sc*pano insieme ma non tra loro, sono i loro corpi che leggeri si sfiorano, mentre le loro mani toccano, e accarezzano, altri corpi, e le loro bocche leccano, e poi succhiano, gli stessi peni fortunati, passandoseli. Prima una, poi l’altra. A turno. O una ne tiene la base perché l’altra se li lavori e divori interi. Signori, lo so, non ce la fate più: a voi, le Kayden Sisters! Sono qui, sono tornate, dopo forzato fermo Covid e pure ferme per passate scelte e turbolenze personali (fidanzati gelosi). Ma quest’anno, l’hanno detto e lo faranno, porneranno, e ancora, e insieme! Le Kayden Sisters sono Kayla e Kendall, 32 e 30 anni. Bionde, occhi scuri, con curve prosperose eppur minute (entrambe sono 157 cm per 45 kg), Kayla e Kendall sono nate quasi lo stesso giorno (il 6 e l’8 settembre) e, fierezza tra le fierezze, sono italiane. Per metà, per origine, in verità sono nate e cresciute a Syracuse (N.Y.), e pure usano termini italiani come “la mia famiglia” nei loro post social. Se non Kendall ma Kayla è per un po’ sparita dal porno, è perché è una mamma, da un anno e mezzo, e una moglie, da qualche mese. Ed è l’esser diventata moglie e madre che l’ha porno-scatenata! Kayla ha firmato un nuovo contratto, dove, giura, “sono pronta a fare di tutto. Non vedo l’ora. Gang-bang e blow-bang? Sììì. Doppia penetrazione e squirting? Sì. Doppia vaginale e doppia anale? Di nuovo sì!”. Se serve lo specifico, che le blow-bang sono le orge di fellatio, e se serve, lo scrivo, che non per tutti vale il concetto che una vagina che ha partorito ha acquisito santità, e se Kendall ha un poco scurito i capelli ma il suo corpo è chirurgicamente intatto, Kayla ha aumentato i seni ai tempi in cui esordiva quale modella di Playboy Magazine e volto di Playboy TV. Le Kayden Sisters sono legatissime, si sostengono a vicenda, e hanno la mamma dalla loro parte. Al contrario di altre sorelle pornostar che pornano ma giammai insieme, e a differenza di altre sorelle che nel porno insieme hanno iniziato ma poi si sono separate tra insanabili invidie, le Kayden Sisters risultano unite e non hanno problemi a lavorare in tandem, in scene di sesso mai vero, mai realmente incestuoso. Sesso inscenato, simulato, in ogni posa recitato. C’è chi marca e rimprovera vi siano, nella porno-recitazione, confini etici invalicabili: quali, se è tutto finto e altresì consapevolmente e liberamente recitato? Quali, visto che il porno finto-incesto è tra i più visti? Chi però tali remore le ha, questo genere porno è libero di non guardarlo, certo, ma, a pensarci bene, quel che ne scrivo… non lo dovrebbe leggere! Invece, se è curioso, può beatamente continuare: le Kayden Sisters son rette, spinte e guidate da altre regole, altre moralità. Altri o zero tabù. La pandemia è stata per loro macigno grave perché non solo ha chiuso i set, ma ha bloccato il piatto forte delle due: le loro esibizioni live. Le pepate sorelline son due valenti ballerine, fanno lap-dance, e strip-tease e, quando non sono sui set, sono in tour negli Stati Uniti per spettacoli hot seguitissimi. Se la pandemia le ha viste duettare in cam-sexy-show, è esattamente un anno fa, all’inizio del primo lock-down, che la fama delle Kayden Sisters è esplosa, con il porno "Sister Sister": qui le due si divertono e fanno fellatio a 6 uomini, segue la scena di Kayla alle prese con 2 maschioni, e si chiude con le sorelle che a turno fanno sesso prima con Jessy Jones, poi con il rude James Deen. Le Kayden Sisters sono viziose, sfrenate, e tempo fa hanno girato un altro porno peccaminosamente esagerato, "Swap Sister", dove a pornare erano in 4, e tutte e 4 sorelle! Sul serio! "Swap Sister" vede in azione le Kayden Sisters con e a confronto delle… Starr Sisters, Natasha e Natalia, anche loro due vere sorelle. Natasha e Natalia sono nate in Polonia e si sono trasferite negli USA – New York, Queens – da piccole. È stata Natasha, più grande di 6 anni, a entrare per prima nel porno (era una estetista e una modella part-time) e a invogliare allo stesso eccesso la sorellina appena 18enne e neodiplomata. E all’insaputa dei loro genitori! Natasha e Natalia hanno pornato i primi tempi insieme, in threesome con un uomo nel mezzo, e in foursome di massage lesbici. E continuano, e individualmente: peccato che le loro pompate "svolte" estetiche abbiano riposto in soffitta visi e corpi eterei che sfoggiavano al principio. Ma né le Kayden, né le Starr, sono eccezionalità nel porno, dove le sorelle gnocche e disinibite mai sono mancate, e sono (e si intuisce!) presenza richiestissima (come le italiane Eveline e Silvia Dellai, anche se ha porno-proseguito, e bene, e con successo, solo Eveline). Voi, Dago-lettori i più porno-istruiti, considerate Sandra Romain, le cui grazie glutee infuriarono a metà dei primi 2000, quando nel porno l’anale era sì estremo, ma… senza fondo! Sandra, regina delle triple a doppia penetrazione anale e singola vaginale, entrò nel porno a 22 anni, ed era già sposata, e 10 anni dopo Alice, sua sorella più piccola, ne seguì l’esempio. Recitarono anche qualcosa insieme, se non erro una loro scena per Brazzers non è mai stata fatta uscire, e i loro nomi figurano in porno produzioni di John Stagliano e di Mario Salieri. Se Alice, oggi 30enne, risulta attiva, fillerata e godentissima, sui social e non solo, sua sorella Sandra, ammetto di essermela un po’ persa… per la miseria, il suo c*lo maestoso è inattivo su Twitter dal 2012!??

·        Kasia Smutniak.

Intervista all'attrice al Festival di Locarno. Intervista a Kasia Smutniak: “Nella mia carriera ho avuto la fortuna di sbagliare”. Federico Fumagalli su Il Riformista il 7 Agosto 2021. È sempre una conferma Kasia Smutniak. Intelligente, riflessiva, bellissima. È bene partire dall’ultimo dei tre, doverosi complimenti. Quello per cui servono gli occhi, a testimoniare ulteriormente quanto la macchina fotografica e da presa, già dimostrano da oltre un ventennio. Gli anni di appassionata carriera (moda, cinema, televisione), dell’attrice nata in Polonia nel 1979, due volte mamma e sposata in Italia (con il produttore Domenico Procacci, patron di Fandango), adottata dal nostro cinema (fra i suoi registi: i Taviani, Ozpetek, Sorrentino) e corteggiata all’estero (la serie Diavoli con Patrick Dempsey, il film From Paris with Love con John Travolta). Si presenta in un sobrio hotel di lusso sopra Locarno, in jeans e camicia e invisibile make up, comunque coperto dalla mascherina. Che lei toglie soltanto per bere un po’ d’acqua, e in fretta se la rimette. Non mostra fretta invece, quando racconta il suo mestiere amatissimo. Verso cui però, sa anche muovere critiche: «Ho fatto tanti film. Non so quanti, ma di sicuro sono troppi. Alcuni li ho sbagliati». Un mestiere che la porta alla 74esima edizione del Locarno Film Festival, per ritirare il Leopard Club Award (ieri) e tenere (oggi) una conversazione con il pubblico. Non nasconde le macchie della pelle. Come non nasconde ciò che pensa. Lo dice. Riflessiva e intelligente, quando risponde a queste domande. Al termine delle quali, ringrazia sempre (le piacciano o meno) chi gliele ha poste.

Il suo è un recitare spesso in sottrazione. È un modo per meglio rendere il personaggio? Coglierne la sensibilità?

Al cinema, togliere vuol dire dare. Perché girare un film non è recitare a teatro. La macchina da presa permette agli spettatori di essere “dentro”, di sentirsi quasi il personaggio che interpreti. Per me, entrare in un ruolo non è difficile. E nemmeno è difficile spiegarlo.

Spieghi, allora…

È come quando leggi un libro e dai un volto ai personaggi. In una sceneggiatura, io devo vedere chi andrò a interpretare. In questo, l’istinto è fondamentale. A volte porta a commettere errori. Ma se davvero ci credi, sbagliare è difficile. Magari è il progetto a essere sbagliato. Non ciò in cui hai creduto.

Eppure ammette, in una carriera ormai lunga e prolifica, di avere sbagliato qualcosa.

Sì, certo. E ho avuto la fortuna di poter sbagliare. Forse perché ho fatto questo mestiere, in Italia da straniera. Lontana dai critici in genere più severi. Come gli amici d’infanzia, o i genitori.

Affrontare poco più che ventenne “Nelle tue mani”, il film di un autore complesso come Peter Del Monte (da poco scomparso ndr.), è stata una decisione coraggiosa.

Fra i miei migliori lavori. Ero giovanissima, Peter Del Monte mi ha scelto anche per la mia ingenuità. A ogni mia richiesta di spiegazione, su come interpretare una scena, lui diceva sempre “fai!”. Mi ha concesso la libertà, che poi ho ricercato in ogni altro mio film. Chissà come sarebbe stato, lavorare ancora con Peter.

Era il 2007. Da allora il cinema è cambiato?

È cambiato il mondo. E così anche il cinema. Con l’avvento delle piattaforme (di streaming, ndr.), non si è mai assistito a un cambio di questo genere. Prima, un progetto era messo alla prova del tempo. Oggi invece, è tutto molto veloce. Questo cambiamento enorme, chissà dove ci porterà.

Quanto di buono c’è, in questa radicale mutazione? E quanto di cattivo?

Di buono, c’è che ai film si è aperto un intero mondo. Mentre prima, per molti prodotti la sola vetrina erano i festival. Si credeva però, di avere portato aria fresca. Anche per il cinema d’autore. Invece, persiste una globalizzazione del racconto. La richiesta di storie che si somigliano. Io non cerco la sicurezza, anche da spettatrice.

Figurarsi da interprete. Insieme a Pierfrancesco Favino e Nanni Moretti, è la protagonista del prossimo “Il colibrì” di Francesca Archibugi. Il film è tratto dall’omonimo libro di Sandro Veronesi, Premio Strega nel 2020.

Quello di Veronesi è un grandissimo romanzo, una storia bellissima. Tutti noi attori e la regista Francesca Archibugi, sentiamo molto la responsabilità. Per ora non posso parlare del film. Le riprese sono in corso e la data di uscita deve essere ancora fissata.

Attendiamo. Con la curiosità di vedere sullo schermo un personaggio femminile di spessore, come emerge dal romanzo. Per lei sarà l’ennesimo ruolo “da premio”, nella sua filmografia. Come attrice, ha da lamentarsi?

A noi donne, rispetto a qualche tempo fa, oggi il cinema offre maggiori opportunità. I personaggi femminili stanno prendendo sempre più spazio nel racconto. Ma non dobbiamo accontentarci. È un lavoro che dobbiamo fare bene. Lo facciamo anche per i nostri nipoti.

Tocca anche al cinema contemporaneo, destinare ai posteri il meglio possibile?

Se quello che il cinema mostra fosse soltanto al maschile, racconterebbe non la totalità ma soltanto una metà. Noi donne dobbiamo prenderci il nostro spazio. Non troppo, il giusto. La metà.

La sua Livia Drusilla della serie Sky “Domina”, è una delle sue donne-forti. Pensa di avere qualcosa di lei?

Mi sarebbe piaciuto, essere così razionale e controllata. Ma non lo sono (ride, ndr.). Portare a compimento un progetto come Domina, fino a qualche tempo fa non sarebbe stato possibile. Una serie in costume, realizzata da un punto di vista femminile, non avrebbe avuto grossi finanziamenti. Federico Fumagalli

·        Kate Moss.

Simona Marchetti per corriere.it il 3 gennaio 2021. Anche le celebrità si emozionano incontrando altre celebrità e alcune hanno persino un mancamento. È accaduto a Kate Moss quando ha conosciuto Frank Sinatra a Hollywood 25 anni fa. All’epoca la modella aveva 21 anni e stava con l’attore Johnny Depp che l’aveva portata alla festa per il compleanno del celebre cantante, morto nel 1998 all’età di 82 anni. «La cosa più emozionante che mi è capitata con una star è stata quando ho incontrato Frank Sinatra – ha raccontato infatti la 46enne Moss a Vogue che l’ha messa in copertina per il numero di gennaio 2021 – e poi sono svenuta! C’era ancora quel luccichio nei suoi occhi azzurri… incredibile. Ero seduta a fumare una sigaretta, lui mi ha notata e si è diretto verso di me. Si è avvicinato con tutta la sua security, così Johnny non poteva raggiungermi. Eravamo circondati e lui mi disse una cosa del tipo «Come stai, piccola signora?», al che io risposi «Buon compleanno». Allora lui si è lanciato verso di me e mi ha baciato sulle labbra, poi mi ha dato una sigaretta senza filtro. Ero completamente stordita e lui è stato favoloso».

Lila in passerella. Nell’intervista la Moss, che dal 2015 sta con il conte Nikolai Von Bismarck, ha anche parlato della sua soddisfazione di mamma nel vedere la figlia Lila Grace debuttare in passerella nella sfilata di Miu Miu a ottobre 2019. «È stato davvero emozionante vedere Lila in passerella – ha ammesso la top model – ma ero anche molto nervosa per lei. Ero seduta al tavolo della cucina e c’erano Katie England, Rosemary e altre amiche e stavamo aspettando che iniziasse lo show e quando lei è uscita, abbiamo iniziato a sussultare «Lo sta facendo, lo sta facendo! Ed ero così orgogliosa». Nata dalla relazione fra la modella britannica e l’ex compagno Jefferson Hack, Lila – oggi 18enne – ha già iniziato da tempo a rubare i vestiti alla mamma. «Lila mette già le mani nel mio armadio – ha concluso la Moss – ma del resto io ho conservato la maggior parte delle cose per lei».

·        Kate Winslet.

Simona Marchetti per "corriere.it" il 23 febbraio 2021. Quando nel 1997 è uscito «Titanic», Kate Winslet aveva 21 anni e si ritrovò giudicata non tanto per la sua performance accanto a Leo DiCaprio, quanto per il suo peso. Non a caso la comica Joan Rivers la prese in giro ai tempi, chiosando sul fatto che «se avesse perso anche solo un paio di chili, Leo sarebbe riuscito a restare sulla zattera». Una battuta fuori luogo, ma nemmeno la più cattiva di tutte quelle che la 45enne attrice si sentì ripetere in quegli anni e che hanno comprensibilmente minato la sua sicurezza, al punto da farle passare la voglia di andare a Hollywood «perché pensavo “se è questo che mi dicono in Inghilterra, cosa succederà quando arriverò lì” – ha confessato la Winslet, ora paladina della "body positivity", in una lunga intervista al Guardian - . Quelle continue osservazioni sul mio peso hanno danneggiato la fiducia in me stessa e hanno anche alterato la mia idea di bellezza. Mi sono sentita molto sola e ricordo di aver pensato che quello che stavo vivendo era orribile e che volevo che passasse in fretta. Di sicuro è passato, ma credo mi abbia fatto capire che probabilmente all’epoca non ero pronta per la celebrità».

Non riesce da darsi pace. Ripensandoci adesso, dopo oltre 20 anni, l’attrice non riesce ancora a darsi pace di certi commenti crudeli sulla stampa e non solo. «La gente sembrava parlare solamente del mio peso e nelle interviste non mancavano mai di mettere l’accento sul mio fisico in carne o sulla mia taglia. È stato orribile. Mi hanno affibbiato l’etichetta di coraggiosa e schietta, ma in realtà stavo solo difendendo me stessa». Allargando invece il discorso sulla sua carriera, il premio Oscar per «The Reader» del 2008 ha ammesso che il suo attuale rammarico è di aver lavorato con Roman Polanski per «Carnage» del 2011 e con Woody Allen per «La Ruota delle meraviglie» del 2017, viste le accuse di violenza sessuale mosse in seguito contro di loro. «Non avrei dovuto lavorare con Woody o Roman e sarò sempre alle prese con questi rimpianti. È semplicemente incredibile per me pensare che quegli uomini siano stati tenuti in così grande considerazione nell’ambiente e per così tanto tempo, ma al tempo stesso sfido chiunque nell’industria cinematografica a negare che avere una parte nei loro film non fosse una cosa molto ambita».

·        Katherine Kelly Lang- Brooke Logan.

Tutti i segreti di Brooke di Beautiful: "Vi racconto la mia vita sul set". Da Los Angeles dove Katherine Kelly Lang sta girando la nuova stagione di Beautiful ci racconta in esclusiva tutti i segreti di Brooke il personaggio che ormai è entrato a far parte del nostro immaginario collettivo. Roberta Damiata, Venerdì 12/02/2021 su Il Giornale. Trentaquattro anni di messa in onda oltre 8500 puntate e più di 250 storie d’amore ogni anno. Numeri da capogiro per la soap Beautiful entrata a far parte ormai del nostro immaginario collettivo. Proprio come lei, Brooke Logan, la più cattiva e forse anche per questo la più amata della serie. A parlarci e a raccontarci tutto del suo personaggio è l’attrice che la interpreta, Katherine Kelly Lang, ormai una vera e propria presenza fissa nel pomeriggio degli italiani.

Quando ha iniziato a lavorare come attrice si sarebbe mai aspettata di interpretare un personaggio come quello di Brooke per così tanto tempo?

“Sinceramente no. Quando Beautiful iniziò nel 1987, pensavo che potesse durare due anni, forse cinque. In effetti c’erano tutti gli elementi che facevano pensare ad un grande successo perché è stato creato dalla famiglia Bell per la CBS. Ma se nel 1987 mi avessero detto che l’avrei interpretata fino al 2021 non sono sicura che ci avrei creduto. Non è stata una cosa pianificata ma che si è evoluta giorno dopo giorno e stagione dopo stagione. Ora mi rendo conto di quanto sono fortunata. Non molti attori hanno avuto un'opportunità come questa”.

Nei 34 anni che la sta interpretando ha mai "litigato" con il suo personaggio?

“Non so se le chiamerei delle vere e proprie ‘liti’. Ci sono state scelte che Brooke ha fatto che erano auto-sabotanti e che hanno ferito lei e i suoi cari. Questo a volte rende difficile interpretarla. Però come attrice sarò sempre dalla sua parte. Riesco a vedere del buono in Brooke anche se ha commesso gravi errori. Il cuore puro e la sua coraggiosa lotta per superare le varie tragedia la rendono un personaggio molto interessante”.

Ha spesso detto di non essere d'accordo con alcune delle scelte fatte da Brooke. Quali sono le cose della sua personalità che assomigliano al suo personaggio e quelle che sono invece molto diverse?

“In cosa siamo uguali? In molte cose. Entrambe amiamo i nostri figli, siamo ambiziose e motivate. Siamo molto appassionate e competitive. Abbiamo la determinazione di voler essere felici. Siamo tutte e due sensibili e abbiamo e viviamo emozioni molto profonde. Poi siamo entrambe note. Come lei io vivo nel sud della California e lavoro nell'industria dello spettacolo. In cosa siamo diverse? Sono una sportiva che ama stare all'aria aperta in mezzo alla natura, Brooke si sente più a suo agio come amministratore delegato a fare giochi di potere. Io indosso spesso jeans e maglietta e spesso non mi trucco. Brooke invece è sempre perfetta, indossa abiti eleganti e tacchi a spillo. Come mamma, metto sempre i miei figli al primo posto, non sempre Brooke lo ha fatto”.

Secondo lei, qual è il motivo che ha reso Beautiful una delle soap opera più longeve della storia?

“Non è facile dire cosa rende una serie di successo. Ha qualcosa a che fare con le singole parti che diventa qualcosa di più grande nella totalità. I produttori hanno messo insieme una squadra straordinaria. Il successo è dato dallo sforzo collaborativo di un team e dal modo in cui ci ispiriamo e supportiamo a vicenda. Beautiful ha un cast e una troupe di circa 75 attori principali tutti di grande esperienza. Tra di noi c’è una grande chimica. Inoltre, la sceneggiatura è fantastica. I personaggi vivono in una città leggendaria, Beverly Hills, e hanno una vita affascinante nel settore della moda. Però in tutto questo personaggi sono ancora riconoscibili, perché dal lato umano tutti sognano di trovare il vero amore. Molti di loro non lo hanno mai trovato, o hanno avuto difficoltà a tenerselo. Raccontiamo sempre una storia molto umana in cui chiunque può identificarsi”.

Nella sua esperienza di attrice, il pubblico si affeziona maggiormente ai buoni o ai cattivi?

“Ogni spettatore vede le cose in modo diverso. Alcuni personaggi li ami e altri ami odiarli. C'è n’è per tutti. I personaggi di Beautiful, proprio come nella vita, non sono tutti buoni o cattivi. L'importante è che, indipendentemente da ciò che un personaggio ha fatto, ha la possibilità di ritrovare la via della redenzione. Anche i ‘buoni’ devono avere dei difetti per essere credibili. Così come i cattivi devono essere affascinanti in qualche modo. Per me come attrice è più divertente interpretare un personaggio imperfetto piuttosto che qualcuno perfetto sotto ogni punto di vista”.

Avendo impersonato Brooke per così tanto tempo è quasi una gemella per lei? Come riesce a separarla dalla sua vita privata?

“Brooke è una buona amica a cui voglio bene, piuttosto che una gemella. Non la vedo come un lato diverso di me, ma allo stesso tempo non mi vedo affatto come lei. È un essere completamente diverso: è una donna che interpreto. La lascio volentieri fuori della porta del palcoscenico. Però lei mi aspetta sempre quando torno il giorno dopo e sono felice di rivederla”.

Cosa l’ha convinta a continuare per così tanti anni?

“Ho deciso stagione per stagione. Ci sono stati momenti in cui desideravo davvero fare qualcosa di diverso, e alla fine i produttori mi hanno permesso di dedicarmi in parte anche ad altri progetti. Però ho sempre ritrovato la via del ritorno e sono felice di averlo fatto. Lavoriamo con un gruppo meraviglioso di persone creative e in un certo senso siamo come una famiglia. È confortante avere quel tipo di struttura e sicurezza. Come dicevo prima è anche un grande dono avere l'opportunità di lavorare come attore ogni giorno, per un periodo di tempo così lungo”.

A quante altre offerte di lavoro ha rinunciato per interpretare Brooke?

“Non mi piace pensare 'cosa sarebbe successo se'. Non ho rimpianti e per questo non riesco a dare una risposta a questa domanda. Ho avuto una grande carriera che ho scelto e ne sono felice. Tra l’altro mi permette anche di avere molto tempo libero tra una ripresa e l’altra per portare avanti anche altri progetti, quindi non ci penso a quelli a cui ho rinunciato”.

Parliamo di matrimoni, ricorda quanti ne ha avuti in Beautiful?

“Ho perso il conto sinceramente. La maggior parte di questi era con Ridge. Raccontiamo circa 250 storie d'amore all'anno. Finora in 34 anni abbiamo girato poco meno di 8500 episodi. Sono state tante le storie e di conseguenza anche tanti matrimoni”.

Tra i tanti ce n’è stato uno a cui è rimasta profondamente legata?

“Probabilmente il primo matrimonio di Brooke con Ridge sulla spiaggia di Malibu. Brooke arriva a cavallo lungo la scogliera con un abito da principessa e fiori tra i capelli, per incontrare il suo principe azzurro. È stato un sogno”.

Di tutti gli altri personaggi di Beautiful, ce n'è uno che le sarebbe piaciuto interpretare?

“No. Amo il mio. Non lo cambierei per niente al mondo”.

Lei è molto legata all'Italia. Ha mai pensato di trasferirsi nel nostro Paese?

“ Sì, certo. L'Italia ha un posto speciale nel mio cuore. Ci sono stata tante volte sia per lavoro che in vacanza. Le persone sono così cordiali, amichevoli, creative e accoglienti. Abbiamo stretto tante amicizie e collaborazioni creative nel corso degli anni. Non vedo l'ora di tornarci presto, ogni volta che sarà possibile. Spero che un giorno di avere anche una casa nel vostro Paese. Mi piacerebbe moltissimo”.

Beautiful ha ora una nuova stilista l'italiana Erica Pelosini, che la veste con un gusto più europeo. Le piace questo cambio di direzione?

“Dopo così tanti anni è sempre bellissimo lavorare con nuove persone, che si tratti di attori, scrittori o in qualsiasi altra cosa. Erica Pelosini, la nuova consulente italiana per i costumi di Beautiful, ha portato un cambiamento fantastico per il look per Brooke. Adoro lo stile europeo che ha scelto. Credo che l’intera serie sia migliorata”.

Viviamo in un periodo di Covid, in che modo la pandemia ha cambiato la sua vita e anche il suo lavoro?

“Per tutto il mondo è la stessa cosa. Qui a Hollywood come in Italia. Le nostre vite sono cambiate perché dobbiamo tenere al sicuro noi stessi, i nostri cari e anche i colleghi. È stata una rivoluzione sia privata che per quanto riguarda il lavoro. Il mio cuore va a tutti coloro che per questo virus hanno perso una persona cara. Sono molto grata a tutti gli operatori sanitari che hanno fatto di tutto per salvare vite umane. È un momento difficile, ma amo il modo in cui tutti noi ci siamo uniti per vincere questa sfida. Incoraggio tutti a stare al sicuro e a rimanere con la speranza. Forse stiamo vedendo la luce alla fine del tunnel. Sono sicura che possiamo farcela”.

Tempo fa in alcune interviste ha detto che dopo due matrimoni nella sua vita privata non vuole più sposarsi. La pensa ancora così?

“Penso che ciò che conta davvero in una storia d'amore tra due persone siano i sentimenti genuini e l'impegno che entrambi si prendono l'uno per l'altra. Questa è una cosa molto personale perché ogni persona definisce la propria relazione in virtù di quello che vive al momento. Su questo non mi sento di dire di più”.

·        Katia Ricciarelli.

Gf Vip, quanto incassa Katia Ricciarelli ogni settimana: filtrano le cifre, roba pazzesca. Libero Quotidiano il 17 dicembre 2021. Anche dentro al Grande Fratello Vip i personaggi famosi guadagnano. È il caso di Katia Ricciarelli. Il soprano, per essere concorrente del programma di Canale 5 condotto da Alfonso Signorini, guadagna ben 15 mila euro a settimana, lo stesso cachet di Raffaella Fico. A snocciolare i numeri è il portale di economia e finanza "I love trading", che ricorda come i partecipanti al reality staranno nella casa più spiata d'Italia da metà settembre fino al 14 marzo. Alto cachet, vista la giovane età, anche per Manuel Bortuzzo e Sophie Codegoni. L'ex nuotatore guadagna sui 5mila euro a settimana. Stessa cifra per l'ex di Uomini e Donne, il programma di Maria De Filippi. Entrambi dunque arrivano a prendere oltre 20 mila euro al mese. Numeri che Elisabetta Gregoraci, nella scorsa edizione, portava a casa in soli sette giorni. Poi ci sono gli altri concorrenti: Miriana Trevisan e Carmen Russo dovrebbero guadagnare circa 7.000 euro a settimana, mentre i personaggi meno noti (come Gianmaria Antinolfi, Tommaso Eletti e la soubrette Ainett Stephens) avrebbero ottenuto un cachet di 5.000 euro. Quelli di quest'anno, al Gf Vip 6, sono numeri leggermente inferiori a quelli della scorsa edizione. Almeno in termini di compensi. 

Da "liberoquotidiano.it" il 17 novembre 2021. Un amore che Katia Ricciarelli non può dimenticare. Così anche al Grande Fratello Vip il soprano torna a parlare dell'ex marito Pippo Baudo. Durante la puntata di venerdì 15 novembre, la Ricciarelli ha raccontato ad Alfonso Signorini e ai suoi telespettatori i vent'anni passati con il conduttore, con cui negli ultimi tempi ha ripreso i rapporti. "Pippo, che intanto saluto - ha spiegato la concorrente - è stato molto importante. Nell'85 eravamo innamoratissimi. Avevo detto basta uomini e 5 mesi dopo ero sposata. Lui non era geloso ma io sì, che vallette che aveva!". La Ricciarelli ha raccontato con ironia le ragazze che accompagnavano Baudo nei programmi tv: "Erano le più belle d'Italia e io ero gelosa come una pazza, guardavo dentro le tasche ma non ho mai scoperto niente. Gli dico che sono felice di avere ripreso a parlare con lui perché comunque dopo 18 anni di matrimonio, non dobbiamo essere separati. Dobbiamo parlarci ogni tanto. Ti voglio bene e ti rispetto, Pippo". Le emozioni però non sono finite qui. Il soprano ha commosso tutti ricordando la mamma: "Per lei ho fatto tutto. Io lavoravo per lei a me i soldi non importavano davo tutto a lei, le ho comprato un castello perché se lo meritava. Quando stava morendo però io ero ad un concerto, ho cantato la sua aria preferita e sono corsa a Spoleto da lei. Sono arrivata e lei era appena entrata in coma. Io le ho detto (e lo potete chiedere anche a mia sorella): 'Mamma non lottare lasciati andare', volevo vedere finalmente la serenità sul suo viso". Applausi e lacrime in studio. 

Arianna Finos per “la Repubblica” il 18 gennaio 2021. Katia Ricciarelli festeggia oggi 75 anni di vita e oltre mezzo secolo di carriera da stella della lirica occasionalmente attrice. Il cinema è il presente, ha appena girato Mancino naturale, film di Salvatore Allocca ispirato alla storia di Paolo Rossi e c' è un progetto d' autore «ma non ho ancora firmato». Chissà se si tratta di Pupi Avati, che ieri a Domenica in si è augurato di ritrovarla presto sul set. Nell' albergo romano vicino piazza Mazzini, stretta in uno scialle grigio, la cantante racconta che «la passione per il cinema è nata tardi. Da bambina non avevo i soldi per andare al cinema. Pensavo solo alla musica».

Tra i suoi primi flirt Alberto Sordi.

«Veniva a teatro con Luchino Visconti e altri amici ad ascoltarmi. Mi inviò cento rose bianche, i maligni dicono che le mise sul conto di una produzione, ero lusingata. Ci sorpresero i paparazzi in macchina, c' era grande differenza d' età, finimmo sui giornali. Ci siamo lasciati ridendo, come avevamo iniziato. Condividevamo l' idea che sposarsi era mettersi un estraneo in casa».

Il primo film con Franco Zeffirelli.

«Sì. L' Otello con Placido Domingo, andammo a Cannes. Ogni scena era un quadro di bellezza unica. Con Franco c' erano affetto, intesa e reciproca ironia. E anche con Domingo, abbiamo fatto insieme i teatri più importanti. Ero una bellissima ragazza, ma non ha mai detto una parola fuori posto. Con altri è successo, anche se riuscivo a buttarla a ridere, così l' altro fingeva di aver scherzato. Ho avuto uno stalker: dopo un mio spettacolo si presentò a casa mia rompendo i vetri. Mia madre riuscì a rabbonirlo, diceva che voleva sposarmi. Al processo spiegò che lo avevo provocato guardandolo durante lo spettacolo, malgrado fosse in galleria».

La grande occasione è arrivata con Pupi Avati e "La seconda notte di nozze", vinse il Nastro d' argento.

«Sì. Pensai che mi avesse chiamato per cantare, invece mi spiegò il ruolo, si fidò. Sul set ero naturale per inesperienza. Mai mi sarei aspettata un premio. Con Pupi ho fatto Gli amici del bar Margherita , con Cristina Comencini Il bianco e il nero . Carlo Mazzacurati mi volle in La sedia della felicità : temevo perché c' erano molte parolacce in veneto, poi invece sul set il turpiloquio fu liberatorio. Ho appena girato Mancino naturale , sono la nonna del giovane calciatore. Non è facile trovare i ruoli giusti».

Il grande amore è stato il canto.

«Da quando ho otto anni è la mia vita, il mio strumento incorporato».

Nascere povera le ha dato o tolto?

«Mi ha dato la consapevolezza di non aver nulla e di poter conquistare tutto. Non ho avuto un padre, ho adorato mamma. Si proponeva nelle case per lavare i panni, l' assunzione da bidella fu un traguardo. Le regalavo pellicce e tanti anelli che non toglieva mai. Prima di morire era così magra che per non farli scivolare dalle dita teneva le mani rivolte in alto. La lirica non è un mondo elitario, è nata per il popolo. Non contano le prime alla Scala, i biglietti carissimi. Io ho rispettato sempre il pubblico, non sono mai sgattaiolata via come i colleghi a cui dicevo "quando non avrete più il pubblico piangerete"».

Il momento migliore e il peggiore della carriera?

«Il momento meno bello è quando mi sono sposata nell' 86 e mi hanno contestato alla Scala. Vennero con i fischietti. In Italia va bene quando sei un nuovo talento, se hai successo vogliono buttarti giù»

Il ricordo più forte?

«Ricordo e rivivo ogni spettacolo e ciò che c' era intorno. I miei maestri, Abbado, von Karajan, Kleiber, Muti. Quando si slacciò la sottogonna sul palco e cantando la scalciai dietro le quinte. Il principe Carlo che gettava i fiori, l' incontro con Burt Lancaster. I poker con i colleghi nel residence americano, i calderoni di pasta di Pavarotti».

Del matrimonio con Baudo che bilancio fa?

« È stato e sarà il mio unico matrimonio. Pensavo sarebbe durato fino in fondo. Ho avuto due amori. José Carreras: avevo 22 anni, eravamo innamorati della lirica, è durata 13 anni, lui andava e tornava dalla moglie, nascevano i figli e io non volevo fare l' eterna fidanzata. Con Pippo ci siamo sposati dopo 5 mesi ed è durata 18 anni. Era prestante e gentiluomo. Ma i nostri caratteri erano già formati e diversi. I primi anni sono stati belli, adorava l' opera, a Mosca addirittura tirava lui le corde del sipario. Poi sono arrivati i silenzi».

Rimpianti?

«Pensavo a un figlio, ma non è stato destino e non ho voluto forzare. Con Baudo andammo a Londra, feci una cura ormonale, il primario, che era un mio fan, mi disse "sarete l' ultima coppia che seguo prima della pensione". Morì due giorni dopo, quel capitolo l' ho chiuso».

Oggi?

«Vivo da sola, ho le mie abitudini e il cane Ciuffi. Mia sorella è in una struttura, per il Covid non me la fanno vedere. Gli ultimi mesi sono stati duri. Ho partecipato a qualche streaming. ma mi sembra di cantare in un cimitero: noi artisti abbiamo bisogno di tornare nei teatri. Senza il pubblico non siamo nessuno».

·        Kazumi.

Da today.it il 14 dicembre 2021. Talmente impegnata da non riuscire nemmeno a concedersi un po' di intimità con il proprio partner, e dunque, pur di soddisfarne gli appetiti, questa modella ha deciso di regalargli sesso con un'altra donna. Si tratta di Kazumi, modella 24enne che lavora per OnlyFans (sito che offre servizi di intrattenimento tramite abbonamento). I guadagni a quanto pare vanno a gonfie vele, ma la ragazza è talmente indaffarata con il lavoro che teme che il fidanzato possa avere bisogno di un po' di 'divertimento extra'. E dunque Kazumi ha deciso di provvedere direttamente lei a regalare al suo ragazzo un po' di tempo con una prostituta. La 24enne che vive in Florida - come racconta il Mirror - ha ammesso di essere, con il suo fidanzato, in una relazione poliamorosa, e lo ha accompagnato così in un bordello (legale) in Nevada per un regalo di Natale del tutto particolare. "Sono stata così impegnata a lavorare su OnlyFans che ho capito che il mio ragazzo aveva bisogno di un po' di sesso extra, mi sono preoccupata perché era solo. Mi supporta molto ma ho l'impressione che a volte sia timido". Allora lei gli ha parlato della sua idea per Natale, e lui si è mostrato subito interessato: "Il sesso tra noi due funziona ma volevo che esplorasse un po' al di fuori della coppia". I due in quel momento si trovavano a Las Vegas, e hanno deciso di provare uno dei bordelli legali vicini. Kazumi ha aspettato nella sala d'attesa mentre il suo fidanzato 'consumava' con un'altra donna: l'appuntamento è durato in tutto 30 minuti. La modella ha detto di aver pagato più del normale per un'esperienza di lusso per il suo partner, in quanto voleva che lui consumasse in tutta sicurezza e comodità. Kazumi pensa che il 'sex work' non debba essere più considerato un tabù, e pensa che chiunque debba avere la possibilità di sentirsi desiderato, anche pagando. Sempre al Mirror ha rivelato: "La gente non dovrebbe vergognarsi di comprare sesso. Molti lo fanno, una comunicazione più aperta sarebbe utile a tutti. Mi sono sempre interessata al mondo dei sex worker. Se vogliamo qualcosa, perché non pagare per farlo lecitamente ed eticamente in un bordello legale? Non è diverso da molte altre cose: ad esempio io so cucinare, ma a volte mi piace andare al ristorante e pagare per mangiare. So come passare il tempo in casa, ma occasionalmente perché non acquistare un biglietto per il cinema? Se siamo d'accordo nello spendere soldi per cose che ci piacciono, perchè non farlo anche con il sesso, purchè sia fatto legalmente, in maniera consensuale e in tutta sicurezza? Molte persone non si sentono a loro agio pensando di pagare per un po' di intimità, ma non c'è davvero ragione di considerare questo argomento un tabù visto che compriamo già un sacco di altre cose". Al fidanzato l'esperienza è piaciuta, e adesso Kazumi, incuriosita, sta cercando un sex worker che possa intrattenere lei: "Magari sarà il regalo di Natale per me".

·        Kevin Spacey.

Andrea Carugati per "la Stampa" il 24 novembre 2021. «Ci sono due tipi di dolore, quello che ti rende forte e quello inutile», diceva, mentre con espressione impietosita tira il collo a un cane ferito agonizzante sulla strada, nel primo episodio di House of Cards. Oggi Kevin Spacey, da tempo in disgrazia e definitivamente rinnegato da Hollywood, ha incontrato anche un altro tipo di dolore, quello economico. L'attore premio Oscar per «I Soliti Sospetti» e «American Beauty», deve infatti versare trentuno milioni di dollari a causa della «sua condotta indecente». Un verdetto figlio di oltre due anni di battaglie legali tra l'attore e la Media Rights Capital, produttrice della popolarissima House of Cards, lanciata da Netflix nel 2013 dove Spacey vestiva i panni di Frank Underwood, spregiudicato politico che riesce a diventare presidente degli Stati Uniti. La sentenza condanna l'attore - già in passato più volte accusato di molestie sessuali - per avere «ripetutamente rotto gli obblighi contrattuali, violando i codici di condotta sul sexual harassment». Spacey era stato uno dei primi ad essere coinvolto nell'onda lunga creata dallo scandalo Harvey Weinstein. Nel 2017, dopo le accuse nei suoi confronti da parte dell'attore Anthony Rapp che sosteneva di essere stato molestato da Spacey quando era ancora minorenne, anche un nutrito gruppo di giovani uomini della crew della serie lo aveva denunciato. Poco dopo era stato allontanato dal set. Mrc e Netflix avevano infatti interrotto le riprese e avviato un'inchiesta interna al termine della quale Spacey era stato sospeso dal suo ruolo di protagonista e dal team di produzione. Nell'arbitrato, divenuto pubblico ieri perché la Mrc si era rivolta alla Superior Court di Los Angeles per imporre il pagamento della somma all'attore, si legge che «Mrc ha subito danni milionari per via della condotta del divo, tra cui la necessità di riscrivere completamente la sceneggiatura e abbreviare la sesta stagione da tredici a otto episodi». Nell'arbitrato erano inclusi oltre un milione di dollari in spese legali. Secondo alcune fonti giornalistiche Spacey aveva creato un ambiente tossico sul set di House of Cards, facendo commenti volgari e mettendo le mani addosso a ragazzi dello staff, episodi che avevano reso necessario il suo allontanamento. Spacey, seppure mai ritenuto colpevole di molestie da parte di un tribunale, è stato uno condannato immediatamente dall'opinione pubblica e dalla comunità hollywoodiana, in cerca di riscatto dopo anni di compiacenza. Così come accaduto con Weinstein, il cui comportamento era un vero e proprio segreto di Pulcinella, anche le abitudini di Spacey erano note ai professionisti del settore, tanto che, ben prima che scoppiasse lo scandalo, in un episodio di Family Guy (I Griffin) l'autore Seth Mac Farlane aveva inserito una scena in cui un bambino seminudo correva dentro un supermercato gridando: «Aiuto, aiuto sono scappato da un ripostiglio in cui mi teneva chiuso Kevin Spacey». Prima complici silenziosi e poi inflessibili carnefici a Hollywood hanno letteralmente cancellato Spacey. Il regista Ridley Scott ha eliminato le sue scene nel film «Tutti i soldi del mondo» dove aveva la parte del petroliere John P. Getty, ruolo che poi è stato precipitosamente affidato a Christopher Plummer premiato con una nomination agli Academy Awards. Solo di recente, rompendo per la prima volta il tabù, l'italiano Franco Nero ha affidato a Kevin Spacey un ruolo nel suo nuovo film: «L'uomo che disegnò Dio». Spacey, che si è sempre dichiarato innocente, pur senza negare i rapporti con i giovani uomini che ha definito consensuali, aveva provato a rilanciare: «Tutta questa presunzione ha portato a un finale così insoddisfacente, e pensare che avrebbe potuto essere un addio memorabile». Un addio comunque memorabile c'è stato, vale oltre trenta milioni di dollari e sicuramente avrà fatto soffrire l'attore, cui senza tante remore hanno tirato il collo.

·        Kim Kardashian.

Irene Soave per "corriere.it" il 7 maggio 2021. Un’«oasi di purezza e luce», un «monastero belga d’ispirazione futurista», la supervilla in stile minimal di Kim Kardashian e Kanye West a Calabasas, enclave di ricchissimi in California, è finita sulla prestigiosa rivista Architectural Digesta febbraio 2020, esattamente un anno prima del loro divorzio. Stanze monocrome, corridoi vuoti, soprattutto opere d’arte in ogni stanza: tra queste, scelte una a una dal progettista e mercante d’arte belga Axel Vervoordt, una statua romana in pietra calcarea che a Calabasas però non è mai arrivata, sequestrata al porto di Los Angeles perché «ottenuta in modo illegale e frutto di un saccheggio». Il governo degli Stati Uniti ha ordinato venerdì di restituirla. «Kim Kardashian coinvolta in un furto d’arte antica», titolano i tabloid di tutto il mondo: lei, attraverso un portavoce, si è detta ieri «estranea» all’intera vicenda. «Ha appreso della statuetta dai giornali. Lo spedizioniere ha usato il suo nome senza autorizzazione, e lei non ne aveva idea. Speriamo che la statua sia restituita in fretta a chi ha i diritti di possederla». Cioè lo Stato italiano: solo nel 2020 i carabinieri del Nucleo di tutela beni culturali hanno recuperato più di 500 mila opere, libri antichi, reperti rubati. L’ultimo qualche giorno fa: un togatus rubato da una villa privata romana nel 2011, e prima direttamente dal Foro Romano, sequestrato in Belgio. E all’asta a Montecarlo stava andando, a dicembre, una testa romana rubata forse in scavi clandestini. Anche la statuetta comprata (inconsapevolmente, confermano anche gli atti dell’ordinanza di restituzione) da Kardashian era passata dal Belgio, spesso snodo di traffici. E le dichiarazioni del mercante d’arte e star dell’interior design, Axel Vervoordt, sono quelle che hanno insospettito la polizia Usa e i carabinieri italiani, che dal 2001 lavorano a braccetto sul rimpatrio delle opere esportate illegalmente. Vervoordt, spiegano fonti del Nucleo tutela beni culturali, aveva dichiarato che la statua gli era stata venduta dalla galleria parigina Chenel, specializzata in antichità romane, nel 2012. Peccato che i carabinieri italiani avessero fotografato la stessa statua, nel 2011, nello stand di Axel Vervoordt alla fiera d’arte di Maastricht. Si tratta di una «Atena Samiana di Mirone», cioè della copia in pietra calcarea, prodotta in epoca romana imperiale (cioè I-II secolo d.C.) di una Atena greca, scolpita probabilmente da Mirone. La statua, fanno sapere i carabinieri, non figurava nemmeno nel catalogo delle opere rubate, una lista di un milione e trecentomila pezzi aggiornata con la collaborazione delle polizie internazionali: potrebbe essere frutto di uno scavo clandestino. Nella spedizione indirizzata alla superdiva, 5 tonnellate etichettate «oggetti d’arredamento e d’arte», c’erano opere per complessivi 750 mila dollari. Sequestrate al porto di Los Angeles nel 2016, sono state per anni al centro di indagini delle forze dell’ordine americane e italiane, che hanno interpellato anche il ministero dei Beni culturali italiano, che ne ha chiesto «la pronta restituzione». Il giudice federale a Los Angeles, venerdì, l’ha ordinata. Dopo quattro anni «congelata» al porto californiano, la statuetta tornerà in Italia presto e sarà assegnata all’istituzione museale più adatta.

Dagotraduzione dal DailyMail il 7 maggio 2021. La neo single Kim Kardashian ha lasciato poco all'immaginazione giovedì quando ha condiviso una sua foto su Instagram. La star, 40 anni, ha mostrato il suo corpo nel bel mezzo di un allenamento a casa mentre indossava un monokini. Anche il look è diverso rispetto alle ultime foto: i lunghi capelli biondi hanno preso il posto delle ciocche nere. La foto sembra essere parte di un servizio più che uno scatto preso durante un allenamento: Kardashian è ben truccata e senza una goccia di sudore. Non è chiaro neanche se sia stata scattata adesso oppure se faccia parte di un precedente servizio fotografico: è stata bionda per un lungo periodo nel 2017. A febbraio, Kardashian ha annunciato la fine del suo matrimonio con Kanye West e la coppia è sta discutendo con gli avvocati la custodia dei 4 figli: North (7), Saint (5), Chicago (3) e Psalm (2).

·        Kissa Sins.

Barbara Costa per Dagospia il 3 luglio 2021. “Io sono una p*ttana dell’attenzione. Chi non fa porno non lo sa, ma il porno rende potenti. Mostrarmi nuda, coi miei buchi aperti, ripresa da telecamere, mi fa sentire forte e libera. E sarò sempre più sfacciata!”. Ragazzi, Kissa Sins è pornostar di parola, quindi prepariamoci, a quel suo corpo che non solo a me toglie sonno e ragione, e poi, a guardarla bene… Kissa ha "rimpolpato" le tette! Le pornostar ferme per pandemia questo hanno fatto, alcune hanno messo al mondo figli, altre hanno reso il loro corpo ben più gustoso. Così ha fatto Kissa Sins, e poi lei… è un anno e mezzo che si è lasciata con la sua metà di porno e di vita, e metà con cui però ancora sc*pa. Il porno è come gli altri un settore dove ti puoi innamorare di colleghi e te li sposi, colleghi che diventano coniugi con cui però devi con altri colleghi dividerne il corpo ma non i sentimenti, e coniugi che se diventano ex… è difficile ripornarci insieme! Non per tutti è così, ci sono le eccezioni, come Kissa e Johnny Sins, coppia di vita e di porno per 4 anni, coi loro video girati a casa, sui set, o on the road in giro per il mondo, e porno sempre fatto a due, o con una e più donne, ma mai con un altro uomo in mezzo. I patti erano chiari: sesso tra marito e moglie ma pure con una terza femmina o con orge di femmine da scambiarsi, e in gang-bang al contrario (un uomo preda di donne che lo squirtano e lo sc*pano). Filmati anche di 24 ore, in stile Grande Fratello porno perché no, ma mai un altro uomo per Kissa. Lo aveva deciso lei, l’aveva voluto lei, entrata nel porno per lui, per Johnny. Quando si sono conosciuti, Johnny Sins era già un pornostar, e Kissa una wedding planner che lo seguiva sui social. Kissa, f*ga notevole, e mai stata senza un fidanzato in monogamia. A 28 anni, alla sua terza lunga storia a due finita male, Kissa si mette in testa di provare il sesso da una botta e via, e scrive a Johnny via social “Ehi! Voglio sc*parti!”. Per scherzo, aspettandosi nulla, figurarsi la risposta di Johnny che la invita a uscire (Kissa ha mal stimato la potenza seduttiva del suo corpo, specie del suo sedere!?). Dopo una notte di sesso, Kissa e Johnny non si sono lasciati. E Kissa è entrata nel porno-mondo di Johnny tramite il sito di lui, con gli amatorial che di sesso giravano e postavano. Risultato? Views a milioni. Il sesso dei Sins è diventato impresa, con un fatturato che ha prodotto utili fino al 2019 (Kissa ha altresì girato porno lesbici pluripremiati). Che l’incanto tra i Sins si stava incrinando si capiva dacché Kissa la prima volta senza Johnny ha girato "The Corruption of Kissa Sins", con Markus Dupree e Mick Blue, attori coppia d’assi a porno esaltare la fortunata in mezzo a loro, e coi quali Kissa ha girato la sua prima doppia penetrazione (e non solo!). Esperienza per cui non ha scelto il marito…Kissa Sins, italo-russa, 34 anni, cinofila e anti-gattofila, un corpo talmente erogeno per cui ha chiesto consulto a un medico (se la pizzichi sulla schiena, orgasma) ha lasciato il marito (che l’ha introdotta al pissing) ma non il porno e la carriera, per i quali i rapporti con la sua famiglia d’origine non sono rosei. Che fosse una figlia "audace" ne dava segni fin dalla pubertà: “In prima media, il preside mandava a chiamare i miei, perché secondo lui vestivo da prostituta, e non ero adeguata a frequentare la sua scuola”. “Ma io col porno sono cambiata”, dice ora Kissa, “ho imparato tantissimo come persona e donna. È la mia personalità – e la mia sessualità – che è cresciuta ed è esplosa. Prima del porno non mi sentivo sessualmente a mio agio, e mi inibivo, e credevo che squirtare fosse sbagliato e schifoso”. Prima del porno “il sesso era solo il missionario, io invece sono una donna a cui piace essere sc*pata da dietro il più forte possibile, e meglio se metti anche un dito nel mio c*letto stretto!”. Come altre donne, è più facile per Kissa squirtare con le dita, e con lei sopra l’uomo. Nel porno, invece, le piace girare fellatio e scene in cui secrezioni e squirting delle colleghe la insozzano. Oggi Kissa riconosce di aver messo l’ex marito su un piedistallo anche se “rimaniamo amici intimi”, e continuano ogni tanto a girare per registi terzi. Lei ha da poco firmato un contratto esclusivo con "Brazzers" a parecchi zeri (con scene in cui le fanno anale e squirta e del suo stesso squirting si disseta). Per chi vuole vederla in tutto il suo splendore, cioè in leggins senza trucco e parrucco, può degustare il porno all-women girato con quell’altra invasata di sesso di Angela White per la regia della superba Bree Mills. Ci sono i dietro le quinte, c’è sul serio come si gira un porno, il prima e il dopo, come ci si prepara, e come ci si ritrova, bagnate, sudate, sfatte, dopo più di un’ora di girato lesbico. Con corpi e visi rossi e stanchi, stremati, e con Angela, Kissa e Bree che spiegano e svelano come il porno sia lavoro allietante esigente preparazione e professionalità altissime, e un ambiente dove la violenza, la costrizione e la sporcizia morale, il peccato, e tutte le maldicenze che mi tocca sentire, non hanno decenza né motivo d’accusa.

·        Lady Gaga.

Lady Gaga: «Provo risentimento per l’immagine che si dà delle donne: si dice che cercano i soldi». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 13 Novembre 2021. La cantante è la protagonista di «House of Gucci» dove interpreta Patrizia Reggiani. Un nome che è sinonimo di moda e di tragedia, di stile ma anche di avidità cupa, nera, folle. Una storia da film, e infatti eccola sullo schermo. House of Gucci segue gli eventi che nel 1995 portarono Patrizia Reggiani a essere la mandante dell’omicidio di Maurizio Gucci, suo marito, probabilmente sedotta non tanto dall’amore ma perché erede di un marchio che oggi fattura quasi 5 miliardi di euro. Una lettura che Lady Gaga — che interpreta la donna che nessun uomo vorrebbe al fianco — non condivide: «Non credo che la sua fosse avidità — spiega —. Provo risentimento per l’immagine che si dà spesso delle donne, si dice che cercano semplicemente i soldi, che vogliono sposare uomini ricchi e far strada nel mondo in questo modo. Quando cresci ti ripetono che conti solo se sei bella, se sei ricca, se qualcuno si inginocchia per chiederti in sposa: una lezione che è stata insegnata a me, a Patrizia, a tante ragazze. Anche il mondo dello spettacolo contribuisce a creare certe immagini: troppi si concentrano sulla bellezza. Questo film è una riflessione su una donna che vive in un ambiente in cui tutto è concentrato sul denaro e non su di lei, una donna che è stata spinta oltre il limite. Ho un messaggio per le donne: se ritenete di non contare tenete duro; se sopravvivete cercate di restare integre». Innato, naturale e istrionico senso dello spettacolo, Lady Gaga (il nome omaggio a Radio Ga Ga dei Queen) sa anche cos’è il senso dell’impegno: sostenitrice del Partito Democratico, attenta ai temi della comunità Lgbtq+, pronta a sostenere le battaglie all’Aids, sempre dalla parte delle donne. In musica ha cantato tante inquietudini contemporanee: la paura dell’amore, degli uomini, del sesso, del giudizio, di un partner ossessivo, della dipendenza, della fama. Qui invece impersona un’ossessione, quella per i soldi. Lei sempre determinata, lui (a vestirne i griffati panni Adam Driver) spesso impacciato, lei confonde Picasso con Klimt ma poi tanto quando lo compri non c’è tanta differenza: sempre un mucchio di soldi servono. In sala dal 16 dicembre in 500 copie distribuito da Eagle Pictures, House of Gucci è diretto da Ridley Scott e nel supercast ci sono anche Jared Leto, Jeremy Irons, Al Pacino e Salma Hayek. Lady Gaga ringrazia però Bradley Cooper, «è stato straordinario lavorare con lui in A Star Is Born, senza di lui non sarei qui perché Ridley Scott mi ha scelto dopo avermi visto recitare in quel film». Le ispirazioni per interpretare il personaggio hanno radici molto italiane: «Ho guardato tanti film con Gina Lollobrigida e Sophia Loren. Ma vengo da una famiglia italoamericana e ho guardato anche allo stile di mia nonna, di mia mamma che si vestiva come Patrizia Reggiani, ho pensato al glamour italiano che era di casa. Nel film però non mi interessava essere bella, piuttosto onesta e sincera; mi sono concentrata sulla vita interiore del personaggio perché non volevo farne un’imitazione. Quando parlo di questo film con la mia famiglia, mio padre continua a piangere — e si commuove anche lei, il volto rigato di lacrime, le parole spezzate e non chiarissime — e non riesco a smettere di pensare alle sue lacrime, al fatto di essere riconosciuta per qualcosa che è così profondo». Per costruire il personaggio ed entrare nella storia si è documentata a fondo, del resto il suo sogno era fare la giornalista (a occhio le è andata meglio...): «Patrizia Reggiani era prigioniera in un sistema guidato dagli uomini. Ed era cresciuta con un trauma: a 12 anni sua madre le mostrava le foto di scapoli da sposare, in questo senso ha subito un vero abuso, una violenza. E quando, diventata adulta, è riuscita a sposare Maurizio Gucci penso fosse orgogliosa di avercela fatta. Era una donna forte che a un certo punto implode perché perde tutto: il padre delle sue figlie la lascia, lei viene scartata ed emarginata. È stata una sfida enorme interpretare una persona che ha commissionato un omicidio, ma ho trovato il modo di volere bene a Patrizia Reggiani, una donna che sognava una vita in grande, che ambiva all’amore». Con cieca ferocia, però.

Lady Gaga da Fazio fa lo spot al ddl Zan. Francesca Galici il 14 Novembre 2021 su Il Giornale. Durante la lunga intervista rilasciata in Rai per il lancio di House of Gucci, Lady Gaga si è sbilanciata in un commento sul ddl Zan. Per quasi una settimana, uno degli argomenti principali delle discussioni sui social è stata la partecipazione di Lady Gaga a Che tempo che fa, il programma di Fabio Fazio in onda la domenica su Rai3. In Italia per l'anteprima esclusiva del film House of Gucci, il premio Oscar ha trascorso alcune ore a Milano dove, oltre a partecipare alla proiezione al cinema Odeon, sabato pomeriggio ha registrato la puntata del programma di Fazio andato in onda questa sera. Tra una battuta sulle sue origini italiane, che per Lady Gaga sono un orgoglio e un motivo di vanto, l'attrice e cantante non ha esitato ad affrontare l'argomento dei diritti civili in relazione al ddl Zan, che in Italia è stato affossato in Senato qualche settimana fa. Lady Germanotta, icona e simbolo della comunità Lgbtq internazionale, dalle telecamere di Fabio Fazio ha lanciato un messaggio agli italiani: "Volevo semplicemente dire una cosa alla comunità Lgbtq+ in Italia: siete i più coraggiosi, siete i più gentili, siete un'ispirazione e che succeda una cosa di questo genere dobbiamo gridare al disastro. Voi dovete invece essere protetti, a tutti i costi, come tutti gli esseri umani che vivono su questa Terra. Io continuerò a scrivere musica per voi, e, cosa più importante, cercherò di lottare per voi". Il "disastro", per Lady Gaga, è il passaggio al Senato del ddl Zan, che non ha superato la tagliola anche a causa della mancanza dei voti da parte dei franchi tiratori del Partito democratico, lo schieramento che più di tutti ha spintio affinché la legge a prima firma Alessandro Zan venisse approvata. Evidentemente, c'erano passaggi di quel disegno di legge che non erano pienamente convincenti. Si dovrà ripartire da una proposta attuabile e meno ideologica rispetto al ddl Zan, che non vada a interferire con altre sfere della società in maniera ambigua. Durante al lunga intervista, che ha visto Fabio Fazio quasi intimidito davanti alla cantante, Lady Gaga ha dichiarato anche il suo amore per il nostro Paese: "Io credo che avere coraggio abbia forme diverse, non mi sono mai sentita bella, ma l'arte mi fa sentire bella, la moda, la tua fantasia ti fanno sentire bella. L'Italia è il luogo dove mi sono sentita più bella in assoluto in tutta la mia vita perché in America quando la gente vede qualcuno come me dice che è pazza, ma in Italia in piazza di Spagna le donne sono vestite in modo incredibile, come le loro unghie perfette, i capelli biondi, sono vibranti, belle".

Francesca Galici. Giornalista per lavoro e per passione. Sono una sarda trapiantata in Lombardia. Amo il silenzio.

Paolo Giordano per “il Giornale” il 14 novembre 2021. Prima arriva un bicchiere con una tisana tinta ambra. Poi arriva lei, serafica, biondissima, un anello d'oro alla mano destra: «Non siamo lontani da dove Maurizio Gucci è stato ucciso e nel film io sono Patrizia Reggiani, sua moglie, una sorta di cercatrice d'oro: volevo capire che cosa è successo». Lady Gaga è la protagonista di House of Gucci (in Italia dal 16 dicembre in 500 copie, preview a pagamento il giorno prima con prenotazioni su houseofgucci.it), la storia scespiriana di una donna che fa uccidere il padre delle sue figlie, presidente di una delle case di moda più famose del mondo. Un film attesissimo con un cast favoloso (Salma Hayek, Al Pacino, Jeremy Irons, Jared Leto, Adam Driver), accolto da pareri divisivi e destinato a diventare un serbatoio di discussioni e nomination. Vedremo. Ma dimenticate la Lady Gaga di canzoni e tour mondiali. Qui, all'Hotel Palazzo Parigi con la folla che l'aspetta fuori, lei parla da attrice entrata così dentro il proprio ruolo da faticare ad uscirne. L'italoamericana Lady Gaga alle prese con una storia italiana. «Conoscevo l'impero Gucci, naturalmente. Ma non conoscevo la storia della famiglia Gucci, cresciuta con il duro lavoro in Toscana. Ricorda un po' quella della mia famiglia. Mio nonno Giuseppe Germanotta so che mi sta guardando dall'alto e mio padre era un calzolaio, ogni volta si commuove parlando di questo film e io non posso che pensare alle sue lacrime». (le scendono le lacrime - ndr) 

Come è entrata nel ruolo di Patrizia Reggiani in Gucci? 

«Avevo un "book" per coprire trent' anni della sua vita. Mi sono accorta che mia mamma si vestiva come lei e per interpretare questo ruolo mi sono ispirata anche a mia nonna. Non volevo essere bella. Volevo essere onesta e sincera».  

Finito il film, che idea si è fatta di Patrizia Reggiani? 

«Lei implode quando viene estromessa dalla famiglia, si vede anche da come si veste e si trucca dopo la separazione».  

Le parlerebbe adesso? 

«Non le chiederei nulla, sarebbe difficile parlarle, per ovvi motivi. È una donna che ha commissionato un omicidio, ma ho trovato il modo di volerle bene».

Dopo questo film il pubblico potrebbe cambiare opinione su questa donna che ha scontato la sua condanna? (Patrizia Reggiani è libera dal 2017 dopo 16 anni dietro le sbarre - ndr) 

«Non so se cambierà opinione. Per quanto mi riguarda, credo che in questa vicenda in palio non ci fossero solo i soldi ma l'amore. Lei è stata spinta oltre il limite e avrebbero dovuto prestarle più attenzione. Di sicuro in questa storia il "focus" era il business, non a vita vera. Perciò questo film è anche un messaggio alle donne». 

Quale?

«Se ritenete di non contare, tenete duro. Se sopravvivete va bene, perché l'importante è rimanere integre. Però...».  

Però?

«Molti credono che i Reggiani avessero delle attività non particolarmente oneste, ma per Patrizia entrare nella famiglia Gucci è stato uno stimolo a migliorare. Poi è rimasta prigioniera di uno schema molto maschile. Da ragazzina la mamma le faceva vedere le foto di grandi scapoli d'oro, una cosa che, se l'avesse fatta mia mamma, l'avrei trovata un abuso. Molte ragazze crescono con l'idea che conti solo se sei bella, se sei ricca, se qualcuno si mette in ginocchio per chiederti in sposa. Io provo molto risentimento di fronte a questi cliché».  

Che cosa trovava Maurizio Gucci in Patrizia Reggiani? 

«Abbiamo fatto una ricerca con molte persone che lo conoscevano e tutte sono concordi nel dire che lui fosse attirato soprattutto dalla forza di Patrizia».  

Scusi Lady Gaga, dopo aver vinto un Oscar (miglior canzone) per A star is born stavolta spera in quello per miglior attrice? 

«È già stato un onore vincere l'Oscar per A star is born: grazie a quel film il regista Ridley Scott mi ha notato e ho potuto fare questo. Stavolta sarei già contenta se arrivasse una nomination». 

In futuro sarà soltanto attrice? 

«Ho iniziato a studiare recitazione a 16 anni, ho frequentato anche il Lee Strasberg Theatre and Film Institute. Recitare per me è uno degli obiettivi fondamentali».  

Quindi?

«In futuro reciterò e farò musica, purché ci siano messaggi importanti e significativi come in questo film, che può sembrare semplicemente una storia sexy con un finale sanguinoso, ma è girata con il cuore e la passione». 

Reciterebbe anche in italiano? 

«Non a caso il mio sogno è di imparare perfettamente l'italiano e poi recitare in una produzione tutta italiana». (e nel corso dell'incontro lei ha parlato in inglese ma era chiaro che capisse molto bene le domande - ndr)

House of Gucci, Lady Gaga giustifica la Reggiani: “Vittima degli uomini”. LE PAROLE ALLA PRIMA MILANESE DI HOUSE OF GUCCI. LA PALOMBELLI LINCIATA PER MOLTO MENO. Nicola Porro il 14 Novembre 2021 su Nicolaporro.it. Vi ricordate Barbara Palombelli? Fu linciata, due mesi fa, perché osò dire, sulle donne uccise dai loro partner, che “a volte è lecito domandarsi: questi uomini erano completamente fuori di testa, oppure c’è stato anche un comportamento esasperante e aggressivo dall’altra parte?”. Capirai: litri d’inchiostro inquisitorio, ore di teleindignazione, finché la Palombelli non aveva provato a troncare la polemica, scusandosi davanti alle telecamere. Il solito copione, il solito rito “woke”: una frase fuori posto, la riprovazione dei salotti buoni, la pubblica ammenda. Ebbene: ieri, alla prima milanese di “House of Gucci”, Lady Gaga, che nella pellicola interpreta Patrizia Reggiani, ha detto praticamente la stessa cosa della Palombelli, ma a sessi invertiti. Eppure, di commentatori scandalizzati non se ne vede manco uno: al contrario, si registrano fiumi d’applausi per la pregevole prova di Stefani Germanotta, lodi sperticate per il luccicante red carpet del sabato meneghino. Come sapete, la Reggiani, moglie di Maurizio Gucci, fu condannata per essere stata la mandante dell’omicidio del marito, avvenuto nel 1995. La donna fu accusata di aver versato 600 milioni a un sicario, Benedetto Ceraulo, e al suo autista, Orazio Cicala, che aiutò l’assassino a fuggire dal luogo del delitto – l’ufficio della società di Gucci, in via Palestro, nel capoluogo lombardo. Ebbene, intervistata da Fanpage, la cantante e attrice italoamericana ha pensato bene di infilare un po’ di filosofia femminista nel commento a margine del film: “Patrizia Reggiani era una donna traumatizzata, schiacciata da un sistema dominato dagli uomini”, anche se “per me resta colpevole”. E ci mancherebbe: il “patriarcato” ancora non è considerato una circostanza scriminante. E non finisce qua: al Corriere, la Germanotta ha confessato che “è difficile dire che provo un senso di empatia per Patrizia, ma ho imparato ad amarla, […] penso che fosse devastata e abbia avuto un momento d’ira”. Alla faccia del momento d’ira: Maurizio Gucci non l’ha mica ucciso a padellate in testa, in preda a un raptus. Ha pagato due persone per farlo fuori: ci avrà riflettuto più di “un momento”? Alla fine, Lady Gaga ha concluso che la Reggiani fosse semplicemente pazza. Insomma, una vittima del sistema maschilista, in cui gli uomini erano talmente “concentrati sul potere che non la notavano nemmeno”. La storia della Reggiani, dunque, “serve a farci capire cosa succede alle donne quando sono spinte oltre il limite”. Lezioncina femminista finita. Non serve nemmeno dire: immaginate che casino sarebbe successo, se si fosse trattato di un uomo che aveva ammazzato la moglie. Il controesempio, appunto, ce l’abbiamo già: l’incidente capitato alla conduttrice di Rete 4. Certo, se Lady Gaga avesse ragione, dovremmo essere assaliti da un moto d’indignazione nei confronti della giustizia penale italiana: se la Reggiani era, in fondo, una martire, come si sono permessi di condannarla? Nicola Porro, 14 novembre 2021

Lady Gaga parla dell'Italia, così piange davanti a Fazio. Il Tempo il Lady Gaga ospite di Fabio Fazio a Che Tempo che Fa. La Germanotta si racconta e parla anche delle sue origini italiane: «Mia mamma e mia nonna sono le mie eroine. Io vengo davvero da una famiglia che ha lavorato duramente per consentire a me e a mia sorella di ricevere una buona istruzione. La domenica pomeriggio mangiavamo sempre la pasta al sugo con le polpette». E poi parla dell'Italia, Paese nel quale si sente bella. «Io credo che avere coraggio abbia forme diverse, non mi sono mai sentita bella, ma l’arte mi fa sentire bella, la moda, la tua fantasia ti fanno sentire bella. L’Italia è il luogo dove mi sono sentita più bella in assoluto in tutta la mia vita perché in America quando la gente vede qualcuno come me dice che è pazza, ma in Italia in piazza di Spagna le donne sono vestite in modo incredibile, con le loro unghie perfette, i capelli biondi, sono vibranti, belle». Lo ha detto la popstar Lady Gaga a «Che Tempo Che Fa» su Rai3. L’artista si è poi commossa per una clip omaggio: «Provo tantissima gioia perché penso che quando la mia famiglia vedrà queste cose sarà orgogliosa. E ringrazio Bradley Cooper per l’opportunità di "A star is born", il personaggio era un pezzo di me, è come sono veramente io e la gente non mi aveva mai visto».

Luciano Ferraro per corriere.it/sette il 24 settembre 2021. «Tutta la mia carriera è una risposta al bullismo di cui sono stata vittima. La mia vita è duro lavoro, rispetto e amore per la mia famiglia che arriva dall’Italia». Lady Gaga lascia nell’armadio il vestito di carne bovina, il reggiseno a forma di doppio mitra, il cappio, il sangue finto e tutte le provocazioni portate sul palco in 12 anni da regina del pop. E torna ad essere «la ragazza cattolica che sa come funzionano le cose». Così si descrive. La sua voce arriva da una calda mattina di Los Angeles. Risponde puntale all’appuntamento al telefono. Un piccolo esercito di agenti, addetti stampa e curatori dell’immagine è all’ascolto. Tra loro i francesi di Dom Pérignon, lo champagne di cui Lady Gaga è diventata testimonial. Lady Gaga saluta in italiano e parla senza fermarsi. «Solo un paio di risposte», frena il suo staff. Ma lei risponde (quasi) a tutto. 

La violenza iniziata a scuola. Da quando ha raccontato a Oprah Winfrey lo stupro subìto 16 anni fa, continua a svelare l’altro volto di sé stessa, quello di una donna ricca ma tormentata, acclamata ma sofferente, che deve farsi forza per restare in equilibrio tra la depressione e le cure, a base di farmaci, meditazione, fisioterapia. Riemergono i traumi che l’hanno resa fragile. Non si nasconde più Stefani Joanne Angelina Germanotta. E trova il suo approdo sicuro nella famiglia, originaria di Naso, in provincia di Messina. Il primo trauma è stato proprio il bullismo. Una violenza iniziata alle scuole medie. «Alcuni ragazzi mi prendevano e mi buttavano nel cassonetto dell’immondizia. Mi dicevano che quello era il posto a cui appartenevo e che io ero spazzatura», ha raccontato al Guardian. Alcune sue amiche ridevano, invece di difenderla. Lei non riusciva a reagire, era «pietrificata, imbarazzata, mortificata, inutile». 

I traumi subiti a 14 anni. La madre Cynthia ha racchiuso in tre parole la prostrazione della figlia adolescente: «Umiliata, derisa, isolata». Aveva 14 anni quando un giorno finì tra i rifiuti. E a quel punto perse la gioia di vivere, «da ragazzina felice si trasformò in una persona piena di dubbi che metteva in dubbio il suo valore», ha ricordato Cynthia Germanotta. Unite ancora di più da quell’esperienza, madre e figlia sono diventate ambasciatrici dell’ONU per la salute mentale e hanno creato la «Born This Way Foundation» che aiuta giovani con problemi legati alla salute mentale. Ora che ha 49 milioni di follower su Instagram, Lady Gaga ha superato lo sconforto che le provocò la frase di una compagna di scuola su Facebook, con soli 12 like: «Non diventerai mai famosa». Ma adesso la prima donna nella storia a vincere un Oscar, un Grammy, un BAFTA e un Golden Globe (tutti nello stesso anno), ha bisogno di tornare con la memoria a quegli anni, forse perché è l’unico modo per fare i conti con il suo lato buio e oltrepassarlo. 

Come fa, Lady Gaga, a ridurre le cicatrici lasciate dai bulli degli anni di scuola?

«Quando sei bullizzata, soprattutto da piccola» ci racconta la popstar, con una voce sicura, pacata come se stesse riassumendo la trama di un romanzo appena letto «attraversi momenti molto duri. A me, personalmente, ha lasciato un obiettivo: dimostrare a chi mi ha bullizzato che si sbagliava. E in qualche modo, la mia intera carriera è una risposta a quel rifiuto sociale che ho subìto». 

Ha attraversato gli anni dell’adolescenza tra il bullismo e una violenza, e ne ha tratto la volontà del riscatto.

«Ma non è purtroppo così per tutti» continua Lady Gaga. «E rispetto profondamente chi, anche se bullizzato da piccolo, non si è lasciato sopraffare. Oggi viviamo in un’epoca dominata dai social media, ed è tutto diverso per le giovani generazioni. Con “Born This Way Foundation” stiamo lavorando a fondo per cambiare questa situazione. Vogliamo celebrare il mondo nella sua diversità, sia essa di cultura o di genere. Questo impegno rende la mia vita degna». 

Il suo penultimo disco si intitola Chromatica. È il settimo album di Lady Gaga, che ha subito scalato tutte le classifiche digitali nei principali mercati del mondo. Nei sedici brani ci sono un duetto con Ariana Grande e il contributo di Elton John. Lady Gaga ha lanciato Chromatica in l’Italia con una intervista a Tiziano Ferro, andata in onda su Rtl 102.5. L’album è nato durante uno dei periodi in cui la cantante era provata dalla depressione. Nello studio-casa di registrazione di Frank Zappa, il suo produttore BloodPop cercava di schiodarla dalle ore di ritiro e di silenzio. Si era richiusa al piano superiore. «Scendi, vieni a scrivere una canzone, facciamo musica», la supplicava BloodPop. Quando si sentiva un po’ meglio, Lady Gaga lasciava il suo eremo, si sedeva al pianoforte e suonava qualche accordo, pronta a registrare con il microfono aperto, «perché le prime idee sono sempre le migliori». Alla fine questo album è stato terapeutico. Il tema è «danzare attraverso il dolore, cantare fino a far passare il dolore», ha spiegato a Ferro.

 «Non me ne rendevo conto dell’effetto terapeutico, poi ho capito che anche quando tocco il fondo, c’è ancora una parte di me che vuole danzare e gioire, e sono così grata per quello che ho. Ho un rapporto con il divino, forse si tratta solo di energia, un’entità senza sesso, mi spinge a chiedermi come le mie storie possano aiutare gli altri a danzare verso il dolore». 

La discesa nella depressione ha preso la forma di un pianoforte, come ha raccontato Lady Gaga nella trasmissione Sunday Morning della Cbs: «Odiavo essere famosa. Odiavo essere una star. Mi sentivo esausta e usata. Un giorno ho guardato il pianoforte e ho pensato che mi aveva rovinato la vita, mi aveva trasformato in Lady Gaga, il mio peggiore nemico. Adesso quando guardo quel pianoforte penso che lo amo, che mi permette di esprimermi, di fare poesia».

LADY GAGA 7 

Una delle canzoni di Chromatica, 1000 Dove s, parla del bisogno di aiuto quando a soffrire è la mente. Lady Gaga scandisce il testo.

«Ho bisogno che mi ascolti, per favore credimi. Sono completamente sola, per favore non giudicarmi. Quando piangerai, prenderò le tue lacrime prima che cadano. Ho bisogno che tu mi ascolti, per favore non lasciarmi. Non sono ancora perfetta, ma continuerò a provarci. Quando piangerai, prenderò le tue lacrime prima che cadano». Un piccolo sospiro. «Questa canzone parla di gentilezza», ha spiegato. 

La famiglia e la santona indiana. Gentilezza è una parola che Lady Gaga ripete spesso. Anche quando ricorda il suo incontro con Amma, la santona indiana che regala abbracci, che le ha spiegato la formula per guarire: «Tempo, impegno e grazia divina». Un incontro che le ha fatto capire «l’importanza della gentilezza, del tendere una mano a chi soffre». L’altro volto di Lady Gaga è la sua disponibilità all’apertura verso gli altri. Se le chiedi di raccontarsi da bambina, spiega che è sempre stata così. «Da piccola» ci ricorda «ero una sognatrice, estroversa, appassionata di musica, mi piaceva prendermi cura degli altri ed ero estremamente curiosa. E spero che questa innata curiosità mi accompagni per tutta la vita». Merito anche dell’educazione ricevuta a casa. «La mia famiglia» assicura «mi ha insegnato i valori dei miei antenati, che arrivavano dall’Italia: duro lavoro, rispetto e amore per la propria famiglia». Un legame molto “italiano” quello con i genitori e tutti gli altri parenti più vicini. Come una qualsiasi bambina immersa nelle tradizioni tricolori, Lady Gaga ama cucinare, e conserva la memoria del profumo del sugo fresco sui fornelli, polpette e salsicce di maiale, ogni domenica alle 14, dopo la messa, con tutti seduti a tavola. Gentilezza e importanza della famiglia sono il filo conduttore del colloquio via Zoom che collega Los Angeles e Milano. 

Anche quando la domanda è: qual è stata l’emozione più grande della tua vita: vendere 15 milioni di copie con il disco d’esordio? Cantare e vincere agli Oscar?

Lady Gaga ci risponde: «La mia più grande emozione? La nascita di mia sorella Natali! L’adoro e sono così felice che sia nata. Mi ha davvero cambiato la vita e il mio modo di pensare. Per me e per la mia famiglia».

Ma quando la conversazione si sposta su come nascono i brani di Lady Gaga, quale sia la fonte della sua creatività, quanto si senta libera di creare e da dove tragga ispirazione, la popstar diventa una neoromantica.

«La creatività per me» ci spiega «arriva dall’umanità, dalla natura, da come l’uomo e la natura interagiscono tra loro. L’artista cerca sempre di tradurre la gioia, la bellezza e la grandezza della natura stessa. E qualche volta creiamo arte piena di dolore. Per me la libertà creativa non è qualcosa che tutti abbiamo dalla nascita, ma qualcosa che tutti possiamo provare a raggiungere. Nella mia vita la libertà creativa è stata la fonte principale per raccontare la mia essenza, la mia verità. Non credo che nessun artista sia riuscito a concepire qualcosa di bello come la natura stessa. Noi artisti cerchiamo di fare del nostro meglio».

Spesso il suo nome è stato accostato a quello di Madonna, per la carica di rottura iniziale e la qualità musicale. Ma quali sono le donne (e gli uomini) che davvero hanno ispirato Lady Gaga?

«Può sembrare uno statement» ci spiega «ma mi lascio ispirare da tutti! Credo che ognuno di noi abbia qualcosa da offrire, e tutti noi abbiamo qualcosa da cui imparare, anche dagli aspetti negativi. Nel mio lavoro come nella mia vita, sono le persone che rispetto a offrirmi l’ispirazione con il loro esempio, ma posso imparare anche dalla natura. Non escludo nessuno come mia fonte di ispirazione: ogni persona che ho incontrato mi ha permesso di imparare e imparare. Ed è questo che mi spinge come artista a crescere». 

Maureen Callahan, famosa giornalista musicale che ha dedicato alla cantante una controversa biografia, ha riportato una serie di definizioni che sono state scagliate su Lady Gaga: «Bizzarra, drag queen, ermafrodito, un uomo gay intrappolato in un corpo di donna, hardcore, grottesca, trash». E poi ha scritto: «È una che sul palco urla “Sono una zoccola dallo spirito libero”, ma tolti i vestiti di scena è cupa e insicura». È un ritratto che forse poteva essere nel 2010, quando è uscito il libro. Adesso, a 35 anni, Lady Gaga è una donna che vuole fare dei suoi traumi una bandiera, e intende usare questa operazione verità per rafforzare il suo lato solidale, attraverso la fondazione. Questo svelarsi a colpi di ricordi e ferite, l’ha portata davanti al microfono di Oprah Winfrey per raccontare di quando, a 19 anni, è stata stuprata, ed è stata lasciata subito dopo davanti alla casa dei genitori, mentre stava male e continuava a vomitare. Era rimasta incinta. Il responsabile è un produttore che le aveva ordinato di togliersi i vestiti e le aveva spiegato che se non lo avesse fatto poteva dire addio al mondo dello show business. Una violenza che le ha causato un disturbo post-traumatico da stress. Non ha fatto a tempo ad occuparsi di se stessa dopo il trauma, travolta dal suo stesso successo, tra i concerti e le limousine. Senza terapia, è precipitata nell’autolesionismo. Si tagliava e si lanciava contro un muro. Poi si è ammalata di fibromialgia: «Provavo intenso dolore in tutto il mio corpo, simile a quello che ho sentito dopo essere stata violentata». Quattro anni fa ha capito che a ripresentarsi era il fantasma di quel giorno, e l’ha affrontato con l’aiuto di uno terapista che ancora interviene durante le crisi. 

Il dolore e la consapevolezza della fragilità. Un percorso di consapevolezza della propria fragilità, che l’ha spinta ad impegnarsi per il rispetto dei diritti umani, dopo aver scritto testi come quello in cui invita ad amarsi come si è, diventando una icona per il mondo Lgbtq+.

Ora la domanda è: come crede possa cambiare il mondo in termini di diritti fondamentali?

«Quando si tratta dell’umanità» ci risponde Lady Gaga «dobbiamo tutti avere un occhio critico e consapevole sul sistema che ci circonda. Che non è stato costruito in modo perfetto. Quindi dobbiamo organizzarci come movimento per smantellarlo». 

Un appello a darsi da fare, a combattere per ottenere i diritti. «Credo che tutta l’umanità» spiega «debba adottare questo approccio, ma prima di tutto dobbiamo guardarci all’interno, far crescere e maturare quello che riteniamo giusto per noi stessi. Amarsi, comprendersi, accettarsi è il primo passo che tutti dobbiamo compiere per raggiungere questo traguardo». E a questo traguardo è dedicata anche la collaborazione con Dom Pérignon. 

Come è coinvolta la «Born This Way Foundation»?

«Come sa sono una persona molto orientata alla famiglia» ci ricorda ancora una volta Lady Gaga. «Ho avuto modo di conoscere la famiglia di Dom Pérignon ancora prima di decidere di collaborare insieme. Mi hanno colpito da subito la passione, l’arte e la creatività che si cela dietro la nascita di ciascun Dom Pérignon. Anche dopo tutti questi anni dalla fondazione della maison da parte del monaco benedettino Dom Pierre Pérignon, resta immutata la grandissima arte dietro alla creazione di questo Champagne. Una volta che ho visto l’arte e il fascino che emana questa maison ho capito che c’era un legame che si poteva instaurare con la mia “Born This Way Foundation”, perché condividiamo lo stesso sogno di generosità, e abbiamo iniziato a collaborare».

Il regista della campagna è Nick Knight, il fotografo che ha realizzato il ritratto della Regina Elisabetta con il principe Carlo per i 90 anni della sovrana. «Quando ho parlato del suo possibile coinvolgimento ho ricevuto una tale risposta di affetto che ho capito che Dom Pérignon era composto da un gruppo di persone meravigliose con cui lavorare, perché erano entusiaste di osare ed essere audaci. Essere audaci vuol dire essere un passo avanti agli altri». 

Un’ultima domanda: come definisce l’amore? Lady Gaga, si ferma, sorride, saluta di nuovo in italiano, «ciao, ciao Luciano». Non è ancora tempo per parlare dell’amore e tanto meno dei suoi amori. E se ne va con il suo stuolo di agenti e addetti stampa. 

·        La Gialappa's Band.

Gialappa’s Band: «Noi in tv da 35 anni e nessuno ci riconosce: ecco come sono nati Tafazzi e Caccamo». Walter Veltroni su Il Corriere della Sera il 28 Dicembre 2021. Siamo tre amici sul divano, ma tra noi non mancano le liti Guardammo il nostro debutto in tv con i genitori e ci vergognammo da matti. Ci piacerebbe rifare Sanremo.

Gialappa’s, cominciamo dagli inizi, come è giusto fare.

«Nel 1985, c’era un programma a Radio Popolare che esisteva ben prima che noi cominciassimo a condurlo. Si chiamava Bar Sport ed era una trasmissione che cercava di dissacrare il calcio. Erano anni lontanissimi. Si fa fatica a ricordare quanto fosse serio e ingessato l’approccio al calcio. Biscardi era nel massimo fulgore. Gilberto Evangelisti era il capo del pool sportivo, Rai Sport di allora. Proponemmo il nostro modo di raccontare le partite. La sua risposta fu ferma e sdegnata: “Il calcio è una religione, non si bestemmia sul sagrato”. Adesso è una frase che fa ridere o forse anche arrabbiare, ma allora ci parve tutto sommato comprensibile. Quelle erano le regole linguistiche del tempo. Alcuni avevano provato a dissacrare: sulla carta stampata Gianni Mura, in televisione l’indimenticabile Beppe Viola. Il Bar Sport era il contrario del Processo del lunedì di Biscardi: i giornalisti lì erano teoricamente seri ma in realtà erano tifosi. Noi invece eravamo tifosi dichiarati».

Quando decideste di mettervi insieme?

«All’inizio eravamo in quattro. C’era anche Sergio Ferrentino. Quella stagione finiva con i Mondiali di calcio dell’86. Dalla regia avevano stabilito che ci dovessimo dividere le squadre per cui tifare. Veniva una schifezza. Raccontammo Francia-Canada dicendo qualsiasi cagata e ovviamente ebbe un successo travolgente. In effetti faceva ridere. Da Mediaset ci chiamarono senza assolutamente sapere chi fossimo. Ci trovammo tutti e quattro a fare gli autori e dei piccoli filmati all’interno di uno dei programmi più brutti che la storia della televisione possa ricordare. Si chiamava Quel fantastico tragico venerdì con Paolo Villaggio e Carmen Russo e chiunque altro. Un autentico minestrone. Autori Terzoli e Vaime».

Esito?

«Di prassi eravamo in redazione o in montaggio per preparare i testi a uno che doveva imitare Biscardi. La prima cosa nostra, la prima in voce, era Tutte le telenovela minuto per minuto. Ci collegavamo da tre telenovelas che avevano in magazzino a Mediaset fingendo fossero campi di calcio. Nella nostra giovanile ingenuità eravamo convinti che il programma fosse decente. Avvertimmo orgogliosi le famiglie: “Guardate che venerdì inizia il nostro programma”. Dopo mezz’ora, eravamo a casa con i nostri genitori, ci vergognavamo da matti».

Qual è il primo programma che voi considerate veramente vostro?

«Mai dire Banzai. Lì è nato il “Mai dire”. Cercavamo idee per un titolo. Quell’anno c’era un film di James Bond con Sean Connery: Mai dire mai. Il programma che volevamo fare era sul Giappone e ci venne in mente Mai dire Banzai. E da lì abbiamo sempre mantenuto il “Mai dire”. Era più semplice non dover cambiare il titolo ogni volta. Ai giornalisti dicevamo “Tutti quanti cambiano i titoli e rifanno lo stesso programma. Noi invece facciamo programmi sempre diversi e allora teniamo il titolo uguale”».

Voi siete stati tra i principali protagonisti della storia della televisione negli ultimi trent’anni.

«Trentacinque».

Però se girate per strada nessuno vi riconosce. È il paradosso estremo, perché la gente fa la televisione anche per essere riconosciuta. Voi invece fate la televisione da trentacinque anni, fate divertire milioni di italiani, però nessuno vi dà la carne migliore, quando andate dal macellaio.

«È vero, però nessuno ci rompe le balle con i selfie, gli autografi. Ci va benissimo così. Non lo sapevamo allora, ma forse siamo stati longevi per questo motivo. Pensa trentacinque anni in video come avremmo rotto le palle. È vero che c’è chiunque in video per lustri e lustri. Però nella comicità la vita è più breve, se metti sempre in mostra il faccione. La nostra comicità funziona proprio perché è “esterna” al contesto. Come un punto di vista altro, un controcanto. Eravamo bravi a fare la radio e a portarla in televisione. Noi fondamentalmente siamo tre “spalle”, abbiamo bisogno del capocomico da dileggiare. È come il pubblico nel varietà di un tempo».

La «spalla» il Carlo Campanini o il Gianni Agus di turno, è stato di volta in volta diverso, da Lippi fino a Savino...

«Il nostro meccanismo di base è il presentatore che fa o dice una minchiata e noi che gli diciamo “Ma cosa stai dicendo, pirla!”. Avemmo un problema quando prendemmo come conduttore di Mai dire gol Gioele Dix, perché Gioele ha una comicità intelligente, raramente dice cazzate e quindi non c’era il batti e ribatti. Veniva da dire sì ha ragione e quindi non funzionava. Lo cambiammo e mettemmo Bisio. Se c’è uno che sa fare il coglione meravigliosamente è Claudio».

Chi è stato in questi anni il vostro conduttore ideale? Il Mario Castellani della Gialappa’s ?

«Il mago Forest, non abbiamo dubbi. Lo ha fatto per quasi venti anni. Con quell’aria da scappato di casa, con quella meravigliosa e geniale cialtroneria, con dei tempi comici perfetti è sempre stato il nostro capocomico ideale».

Quanto è scritto e quant’è improvvisato nel vostro lavoro?

«Quando noi leggiamo una cosa lo si capisce lontano un miglio, perché non sappiamo recitare. Abbiamo ovviamente delle tracce, talvolta delle battute o dei dialoghi preparati. Ma molto è improvvisazione. E ovviamente scelta dei personaggi».

Come li sceglievate?

«Li cercavamo in giro nei teatri. A Zelig, che non era ancora programma televisivo, avevano dei comici da farci vedere, ogni tanto ce li segnalavano. Aldo Giovanni e Giacomo, per esempio. Ci dissero che avevano dei pezzi e li mandarono, ci piacquero molto. Abbiamo visto lì Fabio De Luigi, la Littizzetto, Albanese e altri. Paola Cortellesi mandò un Vhs in redazione. Marco lo vide in una pausa pranzo e rimase con il boccone in mano: era uno straordinario talento. Faceva tre, quattro personaggi. Tutti riusciti. Le telefonammo e lei, che come sogno aveva fare Mai dire gol, era convinta che la stessimo prendendo in giro, che fosse uno scherzo. Allora le demmo il numero del centralino dicendo: “Chiama Mediaset e chiedi di Mai dire g ol. Vedrai che ti rispondiamo noi».

In una puntata Teo tirò giù la chiusura lampo del vestito di Simona Ventura. Oggi sarebbe impensabile, come il Tuca Tuca. Come è possibile fare il vostro lavoro nel tempo del politicamente corretto?

«Molti dei personaggi di Mai dire gol probabilmente oggi non potrebbero andare in onda. Ne citiamo due: il personaggio di Bebo Storti. Faceva un bianco leghista dipinto di nero. Era un pezzo chiaramente contro la Lega, però oggi sarebbe un problema. Il conte Uguccione, anche lui obiettivamente sarebbe discusso. Il problema è che questi moralisti della tastiera oggi hanno voce. Una volta, come diceva Umberto Eco, stavano al bar del paese e si lamentavano. Oggi bastano duecento incazzati che protestano sui social e i giornalisti che scrivono “il web esplode”. Parliamoci chiaro: il vero problema è che tre scriteriati scrivono baggianate sul web e poi tutti i giornali titolano che la Rete si indigna. Ma non è vero. È una minoranza. Farla passare per pensiero generale è sbagliato e pericoloso».

I social spesso riescono ad essere divertenti. In fondo, nel commentare, sono come una gigantesca Gialappa’s Band.

«Sì, in fondo sì. Noi commentiamo da uno studio televisivo. Il pubblico dal salone di casa propria. Azione e reazione o, come dicono i moderni la “reaction” come linguaggio comico, come sede della dissacrazione. Noi siamo sempre stati tre amici sul divano che commentavano quello che vedevano».

Arbore, ma anche Dandini o Boris non raccoglievano decine di milioni di spettatori, eppure il loro mondo è entrato nell’immaginario del paese più di tanti primatisti assoluti dell’audience.

«Perché sono cult, le cose cult raramente hanno grande successo. Se pensi a Animal House, Blues Brothers, non furono dei grandi successi, quando uscirono. Neanche i fratelli Coen. Anche Totò fu bistrattato dai critici e trattato sdegnosamente dalle èlites».

Il calcio, il «Grande Fratello» dall’interno di Mediaset e Sanremo dall’interno della Rai. Mi sembra che in voi ci sia l’idea che esista sempre un muro contro il quale è giusto lanciarsi.

«È molto più bello prendersela con cose importanti e super popolari. Più bello e più rischioso. Noi vogliamo rompere le palle a chi è sulla cresta dell’onda, non a chi cerca di sopravvivere in seconda o terza fila».

Chi ha avuto più influenza su di voi dal punto di vista comico?

«Woody Allen, Beppe Viola, sicuramente una certa comicità milanese del Derby. Abbiamo iniziato con Teo Teocoli, Gaspare e Zuzzurro, Paolo Rossi, che a Milano era un mito. E poi sicuramente Renzo Arbore perché come stile un po’ a lui ci siamo ispirati. Renzo ci ha sempre definiti i suoi nipotini e noi ne siamo orgogliosi. Arbore non ha mai fatto le repliche dei suoi programmi perché sa che sono legati ciascuno al proprio tempo».

Il film che vi ha fatto più ridere in vita vostra?

«Forse Benigni — Troisi, Non ci resta che piangere, la scena del passaggio a livello e del fiorino. John Belushi, Animal House o Blues Brothers. E poi dei film che hanno fatto scuola: Prendi i soldi e scappa di Woody Allen e Clerks di Kevin Smith perché da lì è nata tutta la comicità americana politicamente scorretta. Se vogliamo poi risalire alle fonti troviamo Hellzapoppin e i Fratelli Marx».

Di tutti i personaggi che avete fatto quale è quello a cui siete più affezionati?

«Caccamo, popolare e surreale insieme. Aspettavamo il suo momento noi che facevamo la trasmissione, figurarsi il pubblico. Ma anche quelli che non hanno avuto quella fortuna. Come Bisio quando faceva l’agente dei calciatori. Ma l’emblema del successo e della follia di quegli anni è Tafazzi. Tafazzi è un personaggio che sarà stato in onda in tutto un minuto e mezzo, ed è passato alla storia. Allora l’Unità lo citò giustamente come emblema di una certa sinistra e da quel momento il suo nome è entrato nel linguaggio comune».

Di chi fu l’idea di Tafazzi?

«Una sera Giacomo aveva questa bottiglia in mano, si annoiava e aveva cominciato a darsela sui coglioni. Così, perché non sapeva cosa fare. Come certa sinistra».

Carcarlo Pravettoni come fu accolto in Mediaset?

«Carcarlo di Hendel è stato un personaggio che abbiamo amato tantissimo, anche perché era l’emblema di mille persone viventi. Secondo noi a Mediaset non capirono, abbiamo sempre avuto questo dubbio. Almeno nessuno ci ha mai detto nulla. È veramente la parodia del berlusconismo. In un viaggio all’estero beccammo l’amministratore delegato di una società di viaggi che era un Pravettoni integrale. Ovviamente era entusiasta di Pravettoni. Ma lui era consapevole di essere un minchione e contento che ci fosse un minchione che lo rappresentava. Lo considerava un omaggio e non una critica».

Far ridere in pandemia com’è?

«Noi siamo stati fermi per un anno, quindi non l’abbiamo fatto. C’era un grande bisogno di leggerezza, in quel clima tetro. Ma la tv in quel periodo era paralizzata perché sono crollati gli investimenti pubblicitari e quindi nessuno produceva più programmi. Infatti l’unica valvola di scarico sono stati i social. Noi abbiamo fatto gli Europei su Twitch. La tv tradizionale era completamente paralizzata, non si è investito più dalla pandemia in poi in televisione e lo stiamo ancora pagando. Il programma preferito adesso è: I numeri della pandemia. Si è fermata la creatività. Ormai in televisione si fanno solo talk show, perché costano poco. E poi c’ è l’ossessione presentista degli ascolti. Se dopo tre puntate non crescono, ti chiudono».

Avete mai litigato voi tre?

«Sì».

E avete mai pensato di lasciarvi?

«Carlo è uno che lo pensa da vent’anni. Ultimamente ha diradato molto le sue partecipazioni, lui dice che la ragione è che porta dentro come un retaggio atavico la vergogna di questo mestiere. Lasciamo parlare lui: “Io l’ho vissuto sulla mia pelle, perché mi chiamo Taranto e sono lontano parente di Nino Taranto. Anche di Carlo Taranto, che faceva la parodia di Herrera in Il Presidente del Borgorosso football club. Quando veniva Nino Taranto a Milano — le compagnie allora stavano un mese — la mia famiglia si industriava a trovare trenta scuse per non andarlo a vedere. Lui veniva a visitare la famiglia e in casa c’era la fuga. E mi è rimasta questa convinzione: il mestiere dell’attore è per persone che non vengono poi sepolte in terra consacrata. È stato così per secoli”».

Se i nostri figli vi chiedono che mestiere fate cosa rispondete?

«Il cretino. Papà fa il cretino in tv. Il figlio di Marco due anni fa aveva quattro anni e all’asilo, alla domanda “Cosa fanno i vostri papà?”, rispose in un tema: “Mio papà non fa niente”. Aveva ragione, nel senso che in quel periodo lavoravamo molto poco. I nostri figli adolescenti non ci hanno mai considerato per il lavoro che facciamo. Però quando abbiamo usato Twitch hanno incominciato a guardarci con occhi diversi, perché eravamo star di quel social. Per i ragazzini Twitch è ovviamente il top. Sulla carta d’identità non sappiamo mai cosa scrivere, come tutti i colleghi. Il figlio di Giorgio aveva otto anni, faceva le elementari, e una volta arrivò un altro ragazzino della sua scuola che disse: “Ma il tuo papà è uno della Gialappa’s?”. E lui gli rispose: “Sì, perché, anche il tuo?”. Voleva condividere la vergogna».

Per concludere: quale è il programma che ora vi piacerebbe fare? «L’unico programma che assomiglia a quelli che abbiamo fatto in passato, è quello di Maurizio Crozza. Non c’è nient’altro, purtroppo, che possa assomigliare come atmosfera, come approccio, come desiderio di non far solo ridere, a quello che abbiamo tentato noi. Verrebbe da dire che sarebbe bello rifare un Mai dire gol. Ma oggi è difficile reperire gente nuova che faccia davvero ridere. Una cosa che rifaremmo volentieri, a parte un film, è un dopofestival o qualcosa che riguardi Sanremo. Hai miliardi di cose da prendere per il culo lì. E dissacrare il mostro sacro che fa ascolti allucinanti, con tutta l’Italia ferma, è davvero bello. Ci piacerebbe anche partecipare fuori campo ad un talk show politico, tipo Di martedì o Carta Bianca. Disturbare veramente i politici, perché non lo si fa quanto si dovrebbe. E poi commentare i Mondiali e gli Europei. Quello lo faremmo fino a novant’anni».

Alessandro Ferrucci per il “Fatto quotidiano” il 25 agosto 2021. Sono i The Voice della televisione italiana, vuoi per longevità ("andiamo avanti da oltre 35 anni, chi l'avrebbe detto"); vuoi per indiscusse capacità ("Molti comici ci dicono grazie? Il grazie è reciproco"); vuoi perché i volti, per anni e anni, sono rimasti celati: di loro, appunto, si sentiva solo la voce come se fossero tre amici al bar seduti davanti alla tv e un accumulo di birre nel corpo ("questo dato ci ha preservato dal montarci la testa o derive simili"). Giorgio Gherarducci è uno dei tre della Gialappa's Band (gli altri sono Marco Santin e Carlo Taranto) e dal 1986 ha interagito con la "Nazionale" della risata: da Paola Cortellesi a Maurizio Crozza, da Antonio Albanese a Teo Teocoli, fino a lanciare Aldo, Giovanni e Giacomo ("con un 'però': abbiamo sempre e solo coinvolto chi sentivamo affine a noi").  

Dopo sua maestà Pippo Baudo siete i più amati, osannati e ringraziati della tv... 

Ci fa piacere: abbiamo lavorato bene e lasciato un buon ricordo; soprattutto abbiamo sempre cercato di tutelare i comici rispetto ai meccanismi della televisione che sono un po' fagocitanti: per questo a volte siamo passati per stronzi.  

Tradotto? 

Chi lavorava con noi doveva stare solo con noi, quindi vietavamo impegni paralleli e solo per non sputtanare i personaggi e non stressare certi meccanismi; comunque tra noi c'è stato un mutuo scambio.  

Come li sceglievate? 

Prendevamo gente che aveva alle spalle una gavetta e li curavamo, seguivamo testi, li affidavamo ad autori di fiducia, mentre altre trasmissioni sceglievano comici che avevano nel curriculum cinque serate, poca esperienza eventi minuti di repertorio; magari diventavano famosi in un attimo: dopo due mesi si compravano una Mercedes e dopo un anno finivano nel dimenticatoio. E con danni psicologici. 

Quanto siete stati pressati dagli artisti per entrare nei vostri programmi? 

Poco: non eravamo facili da raggiungere, non avevamo neanche un agente; anzi, a volte siamo stati supportati dalla fortuna, specialmente quando se n'è andato Teo (Teocoli). (Sorride) In realtà non se n'è andato: ci ha proprio abbandonato, creando un grosso vuoto in scaletta, circa un quarto d'ora di trasmissione.  

Una voragine. 

Teo ci lasciò a tre ore dalla messa in onda, con noi senza presentatore: lo sostituimmo con Claudio Lippi che per caso passava dagli studi televisivi e per salutarci: lo avevamo preso in giro in trasmissione e sempre per caso conoscevamo i suoi lavori degli anni precedenti, quando Canale5 si chiamava Tele Milano.  

E lì... 

Ci siamo guardati e deciso all 'istante: "Fermo!" Così abbiamo organizzato una prova di tre minuti, lui ha risposto da pirla alle nostre provocazioni, noi felici, e dopo mezz' ora era in onda.  

Pazzi, consapevoli o solo disperati? 

Sicuramente disperati, ma ci siamo affidati al segno del destino. 

Con Teocoli che era successo? 

Quell'anno si erano aggiunti molti nuovi comici come Francesco Paolantoni e Bebo Storti, e lui ne soffriva: avevano successo tanto quanto lui; (pausa) questa roba gli stava ''sulle palle e Teo quando è in buona è l'uomo più meraviglioso del mondo, ma quando non è in buona lo prenderesti a testate.  

Sembra lo stereotipo dell'artista. 

Lo sa anche lui e siamo amici, ma è il suo approccio alla vita: quando è al top va giù, e poi trova il gusto a risalire.  

Il casus belli? 

Prepariamo uno sketch con tutti i protagonisti del programma e Teo rifiuta di partecipare. Andiamo avanti senza di lui e al momento di guardare il risultato per decidere se andava bene o meno, arriva e sentenzia: "Questo non va in onda". E io: "Invece sì".  

Ahi. 

A quel punto si toglie la giacca da Peo Pericoli (uno dei suoi personaggi) e se ne va dagli studi tutto truccato sul viso e con i ciglioni finti: ancora rido se immagino chi l'ha incontrato per strada.  

Ci vuole pazienza... 

Metà del lavoro degli autori televisivi è un concentrato di psicanalisi; però quando costruivamo i cast, l'aspetto caratteriale è sempre stato centrale: mai lavorato con chi non avevamo affinità o non ci stava particolarmente simpatico. Ci dovevano convincere pure umanamente.  

Umanamente, cosa rifiutate? 

Premesso: tutti i comici sono un po' egocentrici. Detto questo? Evitiamo chi parla solo di se stesso; esistono due categorie di professionisti: chi pensa che qualsiasi cosa che dice fa ridere e chi pensa che qualsiasi cosa che dice non fa ridere; (pausa) una volta, grazie a Rolling Stone, ho intervistato Woody Allen e gli ho chiesto in quale delle due categorie si riconosceva. 

Risposta? 

Ovviamente nella seconda e ha aggiunto: "Chi appartiene alla prima recita pure nella vita"; (pausa) una chiave per capirli è stare con loro quando riguardano il proprio sketch: assumono un'espressione unica.  

Qual è? 

Un po' compiaciuti, ma avvolti da un filo di timore. 

Il più solido con il quale ha lavorato. 

Difficile dirlo; Paola Cortellesi è sempre molto tranquilla; poi Aldo, Giovanni e Giacomo, ma erano aiutati dall'essere in tre; quando si è un gruppo, ed è accaduto anche a noi della Gialappa's, se uno perde il filo, si monta la testa o altre casualità, gli altri due lo rimettono a posto.  

Un comico del gruppo degli insicuri. 

Fabio De Luigi era una costante ed eravamo pronti alla sua reazione: alla fine dei suoi sketch derubricava tutto a merda.  

Chi altro? 

Paolo Hendel: micidiale; (ride) anni fa scopriamo di stare entrambi ad Amsterdam: era lì con la sua futura moglie e io con la mia; ci vediamo un pomeriggio e per cena aveva prenotato in tre ristoranti.  

Perché tre? 

Appunto, per l'insicurezza; (cambia tono) dopo cena lo porto al Bulldog (celebre coffee shop), ci fumiamo una canna e sua moglie sviene, mentre disperato urla: "Cosa hai fatto!". Lui si era astenuto.  

Chi dei vostri ha dato meno del previsto? 

Bebo (Storti) e Francesco (Paolantoni) sono bravissimi ma pigri. Ed è un peccato: avrebbero potuto ottenere molto di più.  

Invece voi Gialappa' s rientrate nella categoria dei fuoriclasse... 

No, in quella del mistero: siamo solo tre persone con un po' di senso dell'umorismo, con un bagaglio culturale assolutamente medio, appassionati di calcio, che per una serie di coincidenze e circostanze fortuite, si sono ritrovati ad affrontare un lavoro non previsto; il nostro vero talento è stato quello di riuscire a cavalcare queste botte di culo per 35 anni. 

La botta di culo può valere all'inizio...

Con me tutto è nato quando un giorno ho chiamato una trasmissione di Radio Popolare Milano e dopo la telefonata mi hanno invitato in trasmissione; (sorride) passati quattro anni eravamo già candidati al Telegatto.  

Da girare la testa. 

Non andare in video è stato un grosso aiuto: abbiamo mantenuto una vita normale, senza perdere la testa e, come dicevo prima, in tre ci siamo marcati rispetto alle derive dell'ego. 

Voi tre culturalmente di sinistra... 

Esatto. 

E nella tv di Berlusconi non vi siete mai sentiti... 

(Anticipa la fine della domanda) Foglie di fico?  

Eh... 

Certo, e per anni; (pausa) e che devo di'? La verità è una: abbiamo portato in tv ciò che volevamo, senza censure, a parte due o tre casi piccoli.  

Su cosa? 

Una volta per Previti: sostenevamo che teneva per le palle Berlusconi e Mediaset ci disse che quella parte non poteva andare in onda. E noi: "Allora chiamiamo i giornali". "No, mettiamoci d'accordo".  

Risultato? 

Firmammo una carta che dava a noi la responsabilità del servizio; Previti ci intentò una causa per diffamazione e con la richiesta di un miliardo di lire. Abbiamo vinto e ha pagato pure le spese legali. 

Una goduria. 

Non piccola; in un altro caso il direttore di Rete si appellò alla par condicio per un servizio su Maurizio Gasparri; però sono due casi, in Rai sicuro succede di peggio; (pausa, ride) Berlusconi lo puoi prendere per il culo su qualsiasi aspetto tranne che sull'altezza.  

Soffre. 

Con Albanese creammo il personaggio di Pier Piero (il giardiniere gay di Arcore): anni dopo andiamo a una festa di Raimondo Vianello e troviamo pure Pier Silvio Berlusconi che ci ferma: "Come sapevate che il nostro giardiniere è gay?".  

Le malelingue sostengono che il giardiniere gay fosse una parodia proprio di Pier Silvio. 

Non è vero.  

In trasmissione siete celebri per i vostri scherzi. 

Ad Alessia Marcuzzi abbiamo lasciato il microfono aperto mentre andava in bagno.  

Oggi verrebbe definito "molestia". 

Ma era goliardia! Anni fa, ad altri, lo hanno lasciato aperto per sbaglio e se ne sono sentite delle belle.  

Il politically correct ha reso tutto più complicato? 

Se anni fa ci fosse stato questo clima, avremmo subito perenni rotture di palle.  

Esempio. 

Il conte Uguccione che pensava solo alle trombate, oppure Alfio Muschio, il leghista di colore che parlava in bergamasco. Oggi per chi fa satira la situazione non è semplice.  

Non troppo. 

Attualmente siamo su Twitch (piattaforma streaming) e lì non puoi dire "negro" ma puoi bestemmiare.  

Quanto avete contribuito alla fama del Grande Fratello? 

Anche qui, solo un mutuo scambio: il GF ci ha allungato la carriera di dieci anni e Mai dire Grande Fratello ha permesso a un certo tipo di pubblico di parlare con cognizione di causa del programma del momento e senza vederlo (la Gialappa' s prendeva in giro i vari partecipanti assegnando loro dei soprannomi che ancora oggi li definiscono).  

Alcuni sono celebri grazie a voi. 

Nella prima edizione c'era l'Ottusangolo (al secolo Sergio Volpini) che non combinava nulla ma se ne usciva con una serie infinita di stupidaggini, quindi è diventato un nostro eroe: quando è andato in nomination con uno più forte a livello drammaturgico, ha vinto, e il giorno dopo ci hanno chiamato quelli della produzione avvelenati.  

Il comico che le suscitava maggiore ilarità. 

È dura; (silenzio) non ci riesco.  

Il Mago Forest ha parlato di amore per voi. 

Alt! Dico lui. Due anni fa mi ha pure sposato: quaranta minuti di cerimonia con gli invitati piegati in due per le risate. Lui è una persona speciale.  

Un errore che non rifarebbe. 

Forse, ed è una stupidaggine, nei titoli di coda dovevamo mandare le immagini dei comici e associare i nomi reali.  

Perché? 

Alla fine del programma andavamo al ristorante, magari con Crozza, De Luigi e la Cortellesi; solo che in trasmissione erano sempre truccati e soprattutto non li chiamavamo mai con il loro nome, e fuori dagli studi mi rendevo conto che venivano riconosciuti ma senza sapere chi fossero.  

È importante. 

In parte, e tutti, dopo un po' se ne sono andati: con noi gli è mancata una completa riconoscibilità. Però non ci possiamo lamentare della carriera, abbiamo sempre lavorato come se il primo anno fosse anche l'ultimo, e alla fine ne abbiamo inanellati 35. 

Se riguarda a lei di 35 anni fa, cosa pensa? 

Alla mia faccia da pirla, vestito di merda e con i capelli da nerd. 

Voi chi siete? 

Tre medioman con un po' di senso dell'umorismo.

·        La Rappresentante di Lista.

La Rappresentante di Lista: “Nel mondo della musica le donne hanno più ostacoli da oltrepassare”. Le Iene News il 09 aprile 2021. Abbiamo incontrato per la nostra intervista doppia Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina, il gruppo queer pop rivelazione dell’anno La Rappresentante di Lista. Insieme parliamo del loro Sanremo e del mondo della musica. Hanno un nome femminile, ma sono in due. Abbiamo incontrato per la nostra intervista doppia Veronica Lucchesi e Dario Mangiaracina del gruppo queer pop rivelazione dell’anno La Rappresentante di Lista. Ma che cosa significa il nome che si sono scelti? “È nato quando ho fatto la rappresentante per un referendum è al singolare perché è un progetto che ha una voce femminile”, dice Veronica. “E quando abbiamo iniziato a scrivere lo abbiamo fatto al femminile”. Hanno iniziato nel 2011, insieme hanno fatto quattro dischi ed erano sul palco di Sanremo 2021 dove si sono classificati all’undicesimo posto. “È andato una bomba”, dice Dario. “Con alti e bassi”, aggiunge Veronica. “Abbiamo preso in prestito la parola queer che significa libero oltre il genere, trasversale. Possiamo passare da una canzone rock a una pop a una funky o folk”, dicono. “Essere queer ha a che fare con l’essere gender fluid: quindi essere fluidi, liquidi, scivolare da una parte all’altra. Insomma una fluidità di genere”. Ma non tutti i cantanti si sentono liberi di esprimere la loro omosessualità. “Credo che ci sia ancora tanta discriminazione a riguardo”, dice lui. “Credo che ci siano alcune persone attorno all’artista che pensano sia una cosa da non rendere pubblica”, dice lei. Per Veronica l’ambiente musicale è un po’ omofobo e maschilista: “Spesso e volentieri le donne hanno più ostacoli da oltrepassare: il fatto che il corpo sia un oggetto da vendere, battutine di sottofondo…”. C’è chi pensa che Veronica e Dario siano fidanzati: “Tra noi c’è stato qualcosa ma sporadicamente”. Lei ha provato tanto nella vita “ma la droga che preferisco è la vita”. 

·        Lando Buzzanca.

Renato Franco per il "Corriere della Sera" il 16 novembre 2021. «Su 40 parole ne ha comprese 4; su 20 frasi non ne ha capita nessuna, zero su venti. Se l'anno scorso aveva un deficit di 7 su 10, oggi siamo a 9. I risultati degli esami a cui è stato sottoposto sono questi. Anche se non vorrei parlarne pubblicamente perché mi dà un dolore enorme raccontare come sta papà». Massimiliano Buzzanca, il figlio di Lando - il merlo maschio del cinema anni Settanta - ha deciso di alzare il velo sullo stato di salute di suo padre, un uomo di 86 anni che non sembrerebbe pronto a sposarsi, eppure c'è chi (Francesca Della Valle, 35 anni in meno) assicura che questa sia la sua volontà. Come sta suo padre? «Tutti lo conoscono come il grande attore, ma papà purtroppo è malato e ha anche la demenza senile. Fino a due settimane fa dicevo a me stesso che era solo "scordarello", perché chiamarla demenza senile mi strugge il cuore. Non tornerà mai più indietro, è destinato a stare sempre peggio, non guarirà mai». Circa sei anni fa nella vita di Buzzanca è entrata la giornalista Francesca Lavacca (in arte Della Valle): «Il problema non è la differenza di età, perché prima di lei papà (vedovo dal 2010, ndr) aveva avuto altre persone molto più giovani di lui che gli sono state vicine. Si è acceso il campanello d'allarme quando ho scoperto che esisteva una Buzzanca Della Valle Production che ha realizzato prodotti non certo di Serie A che papà non avrebbe mai firmato come regista o attore. L'ultimo alert sulla signora Lavacca è stato il rinvio a giudizio (poi tutto si è prescritto, ndr) per reati commessi ai danni di un uomo anziano. La verità è che da 6/7 anni papà ha cominciato ad avere deficit di comprensione e cognitivi, è facile convincerlo a fare cose che non avrebbe mai fatto o a dire cose che non avrebbe mai detto». La settimana scorsa Le Iene hanno mostrato due video: in uno Lando Buzzanca sollecitato dalla fidanzata dice «sì» alla proposta di nozze, nell'altro fatto dal figlio risponde di «no»: «Sono due video orrendi, sono video che mostrano un uomo in palese difficoltà. Gli occhi di papà sono vuoti, si capisce che non ha compreso il senso della domanda. Io ho fatto quel video solo per far capire che è facile fargli dire quello che uno vuole che dica». Nella trasmissione di Italia 1 Francesca Della Valle ha sostenuto però le sue tesi: «Lando sta benissimo, ha la piena capacità di intendere e di volere, mi abbraccia, mi dice ora basta: dobbiamo sposarci. Era felicissimo, diceva che non poteva immaginare di essere così felice». L'impressione sembra però un'altra, il declino fisico e mentale di Buzzanca è in atto da tempo. «Nel corso della pandemia io e mio fratello ci siamo rivolti al giudice tutelare perché - alla luce del suo stato di salute - gli assegnasse un amministratore di sostegno per il patrimonio. Una serie di esami hanno confermato i problemi di capacità comprensiva e mnemonica, la difficoltà a capire e ricordare, dunque a metà 2020 è stato nominato l'amministratore». Lo scorso aprile invece un altro colpo: «È caduto e si è procurato un trauma cranico con versamento celebrale. E ancora adesso è ricoverato in una struttura di riabilitazione». Ora l'ipotesi delle nozze: «Papà non è in grado di capire il 90% di quello che gli succede intorno, di certo non capisce gli effetti giuridici di un matrimonio». Lando avrebbe firmato i moduli per le pubblicazioni però... («certo che la firma è sua» ha ribadito Della Valle). «Ci sono esperti che stanno verificando se la firma sia autentica o meno. E comunque il giudice tutelare ha emesso anche una sentenza in cui si dichiara che papà non è in grado di sposarsi, ma la signora adesso si è opposta e ha fatto ricorso». L'augurio è il silenzio su una dolorosa vicenda privata: «Vorrei che la giustizia facesse il suo corso e si spegnessero le luci su questa storia. Per noi figli è una situazione drammatica, hai in testa un padre che è sempre stato quello forte, l'Hercules della situazione, ma quell'uomo non c'è più».

Anticipazione da “Oggi” il 2 giugno 2021. «Mio padre Lando Buzzanca sta meglio e presto potrebbe tornare a casa. Non sappiamo ancora se il malore ha lasciato dei danni, ma il peggio è passato». Così Massimiliano, secondogenito dell’attore, al settimanale OGGI, in edicola da domani. Massimiliano, anche lui attore (recita in Un posto al sole), ricostruisce il malore – un’emorragia cerebrale - che un mese fa ha portato al ricovero di Buzzanca: «È stato incosciente per qualche giorno, andavo a trovarlo ma potevo vederlo solo attraverso una finestrella», racconta. Una “lontananza” determinata dalle restrizioni ospedaliere legate al Covid-19. È riuscita a vederlo anche Francesca Della Valle, da cinque anni compagna di Lando Buzzanca, che in un’intervista esclusiva a OGGI aveva “denunciato” che l’amministratore di sostegno (incaricato dal 2020 di gestire il patrimonio dell’attore) le impediva le visite. «Sono riuscita a salutare Lando dalla “famosa” finestrella, ho ottenuto di poterlo vedere per pochi minuti e di constatare di persona, con i miei occhi, il suo stato di salute. Dopo più di un mese mi sono rincuorata», ha detto Della Valle a OGGI, cui ha consegnato un annuncio: «Quando Lando uscirà, ci batteremo per dare un riconoscimento giuridico a quelle coppie che manifestano pubblicamente sentimenti come l’affetto e l’amore. Nel nostro caso sono stati violati diritti e libertà».

Dagospia. Comunicato da Oggi – oggi.it il 19 maggio 2021. Il settimanale OGGI, in edicola da domani, pubblica lo sfogo di Francesca Della Valle, al fianco di Lando Buzzanca da cinque anni: «Io amo Lando e voglio salvargli la vita. Tenermi lontana da lui è violare il suo benessere psicofisico, che è fondamentale per la salute. Mi sembra di vivere in un incubo, la notte non dormo pensando a quanto possa sentirsi solo». I figli, dopo l’ischemia che ha colpito Buzzanca nel 2014, hanno voluto mettere accanto al padre qualcuno che potesse aiutarlo a gestire i propri beni. Oggi l’attore è ricoverato all’ospedale capitolino Santo Spirito per una caduta. Francesca Della Valle, su richiesta dell’amministratore di sostegno, non essendo legalmente la moglie, non può vederlo né ricevere notizie sul suo stato di salute. Dice la Della Valle: «Non parlo solo per me, ma anche per tutte quelle donne che, pur non essendo mogli, sono le compagne di una vita. Noi siamo una coppia riconosciuta da anni, abbiamo vissuto il nostro amore pubblicamente. Lando ha dichiarato in tv che mi voleva sposare… Ho persino scritto al presidente della Repubblica per chiedergli aiuto. Perché Lando Buzzanca è un pezzo di storia del cinema italiano, patrimonio della nostra cultura. E come tale va tutelato».

Emilia Costantini per il "Corriere della Sera" il 26 maggio 2021. «Sono isolata da Lando. Non so cosa succede, cosa farà», afferma Francesca Della Valle (al secolo Francesca Lavacca), fidanzata di Lando Buzzanca. «Falso. Noi familiari non abbiamo posto limitazioni», ribatte Massimiliano Buzzanca, figlio dell'attore. Una dolorosa vicenda che riguarda il protagonista di tanti film della commedia all' italiana, ora 85enne, che da un mese è ricoverato all' ospedale Santo Spirito di Roma a causa di un trauma cranico dovuto a una caduta in casa. L'attrice-scrittrice-giornalista (di 40 anni più giovane di Lando), comparsa a fianco di Buzzanca cinque anni fa, ha rilasciato un'intervista al settimanale Oggi affermando che «l'incidente domestico si è verificato il giorno dopo il vaccino, il 21 aprile. Lando era contento di farlo, perché per lui era un grido di libertà, però era debilitato ed è caduto, riportando un trauma cranico... Ci tengo a evidenziare che il malore è stato causato dal fatto che fosse debilitato da un punto di vista psicofisico, non dal vaccino». Poi, però, la fidanzata afferma: «L' amministratore di sostegno ha detto che non mi farà sapere nulla». Quindi si lamenta per l'«allontanamento» dal suo compagno, accusando i figli dell'attore, Mario e Massimiliano, di averlo espressamente voluto. «Non devo essere informata su nulla. Non so quali siano le sue condizioni di salute. C' è un muro attorno a questa vicenda. Hanno tolto il telefono a Lando, ma per lui sentirmi è determinante e avermi vicino gli sarebbe d' aiuto. Io sono la sua luce!». L'attore Massimiliano Buzzanca dà la sua versione dei fatti: «Innanzitutto non è stata ancora chiarita la dinamica della caduta, cioè non si sa se mio padre ha avuto un'emorragia celebrale che lo ha fatto cadere oppure il contrario, ma pare sia escluso un effetto negativo del vaccino. Quella mattina di un mese fa sono stato chiamato da Elena, la collaboratrice domestica, che lo aveva trovato a terra in camera da letto. Sono corso da lui e ho subito chiamato la guardia medica che mi ha messo in contatto con il 118. Poi ho avvisato i miei parenti stretti e siamo andati tutti al Santo Spirito ma, per ovvi motivi di Covid e per le precarie condizioni del ricoverato, siamo stati tutti allontanati. Volevo lasciare a papà il cellulare, ma il medico di turno mi ha quasi rimproverato: come potevo pensare di lasciargli il telefonino, nello stato confusionale in cui si trovava? Papà ha bisogno di stare tranquillo, rilassato e avremmo voluto mantenere un po' di privacy sull' accaduto. Invece la signora Francesca ha reso pubblico un fatto molto privato e di questo, forse, se ne occuperà la magistratura». Riguardo poi all' allontanamento della fidanzata dal suo compagno, Massimiliano risponde: «Casco dalle nuvole. La relazione con Francesca è iniziata dopo un lungo periodo di vedovanza vissuto da mio padre con profondo dolore e non è mai stata una convivente. Comunque, in questa difficile circostanza, né io, né gli altri familiari abbiamo messo limiti, se non quelli imposti dai medici e, come tutti noi, Francesca ha potuto vedere papà dalla "finestrella" della sua stanza: di più non si può fare date le sue condizioni. Mi dispiace per questa sua eccessiva reazione, non c'era bisogno di sollevare tanto clamore e poteva telefonare a noi per avere notizie». Nel 2014, l'attore era stato colpito da ischemia, con conseguente afasia: «Sì, da allora papà è diventato sempre più distratto e scordarello. Al momento la diagnosi di quanto è avvenuto ancora non è definitiva, però i medici non sono pessimisti: sta migliorando e non è in pericolo di vita. Appena sarà possibile lo porteremo in una struttura per la riabilitazione, e speriamo bene».

·        Laura Chiatti.

Valerio Cappelli per il "Corriere della Sera" il 16 febbraio 2021. Laura Chiatti è una donna libera e anticonformista che si rispecchia nel ruolo che interpreta in Addio al nubilato di Francesco Apolloni, dal 29 su Amazon. Lei è una delle quattro ragazze che si conoscono da sempre e si ritrovano per il matrimonio di una di loro. Solo che la donna in procinto di andare all' altare, non c' è.

Com' è stato il suo addio al nubilato?

«Meraviglioso e doloroso, aspettavo già il mio primogenito, Enea, ed ebbi un distacco di placenta che mi costrinse a letto per venti giorni. Così le mie amiche mi organizzarono una festa nel giardino del paesino in Umbria dove sono nata e cresciuta. Mi hanno fatto trovare un trono. Io seduta, spettatrice, e loro che ballavano. C' era una drag queen, la gigantografia di Kate Moss che è il mio idolo».

Il suo ruolo nel film.

«Sono una fotografa con uno stile che va di moda: i soggetti di vent' anni prima, li ritrae vent' anni dopo nella stessa posa. Mi adopero per riunire il gruppo, faccio da paciere e ho una sessualità fluida, non chiara, ho una relazione con la figlia di Chiara Francini, una delle quattro».

Diceva che le scene intime sono una rottura di scatole...

«Devono essere funzionali. Nel film bacio la ragazza e non ho avuto alcun tipo di imbarazzo, lo devi riportare in modo reale ma fingendo, l' imbarazzo è in quello, più che nel mostrare il mio corpo».

In una sequenza dite che una donna vale la misura del reggiseno che porta.

«Da giovane ero ossessionata dal seno piccolo, lo ritoccai dopo che dimagrii molto.

Dodici anni fa ero caduta in depressione per amore. Sono ritornata alla seconda».

I suoi ruoli da fatalona?

«Nella vita non lo sono per niente. Avendo un animo maschile, più cameratesco, non conosco competizione e invidie, sono cresciuta così. Ma in fondo essere etichettata come donna sensuale mi fa piacere, mi sento più sensuale ora, a 38 anni ho acquisito delle certezze al di là del corpo».

È meno insicura?

«No, sono ancora una paranoica insicura, vorrei fare teatro e ho paura, sarà il mio cruccio. Solo che la maternità mi ha raddrizzato e ho più paure rispetto ai miei due figli, Enea e Pablo. Sono diventata ipocondriaca, cosa che non ero mai stata. La maternità è il mio più grande successo».

Ambizioni?

«Zero. Non ho mai avuto la smania della carriera, ho cominciato per gioco, ho sempre accettato il mio percorso e non quello delle altre attrici, conosco i miei limiti».

Questa sua libertà, in un mondo conformista come quello del cinema «L' ho pagata, ho perso incontri, possibilità, film. Non riesco a omologarmi. Nel cinema ti devi allineare, ti giudicano a seconda di quello che sei rispetto a quello che fai, è come se dovessi prendere una posizione, se fai Sorrentino non puoi fare Vanzina, e invece a me piace passare da un film d' autore a uno popolare. Per fare questo mestiere devi essere forte».

Le sue radici umili l' hanno aiutata?

«Mio padre era metalmeccanico, mamma era impiegata in un negozio. Io sognavo di diventare estetista o parrucchiera, non pensavo di fare l' attrice. I miei figli, che hanno 6 e 4 anni, mi chiedono, che lavoro fai? Mi vedono baciare nei film Scamarcio o Riondino e rimangono perplessi e gelosi; il padre invece (l' attore Marco Bocci, ndr ) nei film spara e va tutto bene per loro».

Ma è vero che reciterà in un film di suo marito?

«Sì, sta ultimando la storia drammatica di quattro fratelli e sono la compagna di uno di loro. Quando litighiamo gli dico, guarda che non lo faccio il tuo film».

Ha sempre 9 tatuaggi?

«Ora ne ho 14, tutti piccoli, dov' è possibile la copertura.

Gli ultimi sono due cuori sulle cosce, i miei bambini».

·        Laura Freddi.

Paolo Bonolis, "non è stata una questione d'amore": Laura Freddi svela la verità sulla loro separazione. Libero Quotidiano il 24 luglio 2021. La separazione di Paolo Bonolis e Laura Freddi fa ancora discutere. La coppia legata dal 1990 al '95 è rimasta in ottimi rapporti nonostante i due abbiano intrapreso strade differenti. A raccontare quanto realmente accaduto e il vero motivo dell'addio è stata la Freddi al settimanale Di Più: "Non è stata una questione d’amore: diciamo che non ci siamo trovati con i tempi. Però non ho nulla da recriminargli, anche perché parliamo di una vita fa: sono passati ventisei anni!". La showgirl ha ammesso che all'epoca con Bonolis sognava una famiglia, ma lui aveva divorziato da poco dalla psicologa americana Diane Zoeller, dalla quale ha avuto due figli, Martina e Stefano. Questo il motivo per cui il conduttore di Mediaset ha frenato e i due hanno deciso di lasciarsi. La coppia, come detto prima, mantiene comunque i buoni rapporti tanto che la Freddi è stata ospite di Avanti un altro, il programma di Canale 5 condotto da Bonolis. Non solo, Laura ha un bel legame pure con Sonia Bruganelli, l’attuale moglie di Bonolis. Tra le due non c’è alcuna gelosia o rivalità: ogni tanto si sentono e scherzano sul conduttore Mediaset. Bonolis è dunque felicemente sposato con la Bruganelli, mentre la showgirl dal 2013 è legata a Leonardo D’Amico, rinomato fisioterapista della Nazionale di beach volley. La coppia ha una bimba di tre anni e mezzo, Ginevra, e convolerà a nozze nel 2022.

Da corrieredellosport.it il 17 maggio 2021. Laura Freddi è stata ospite di Paolo Bonolis ad "Avanti un altro pure di sera". La nota conduttrice ha avuto una relazione con il presentatore negli anni '90. All'ingresso in studio Bonolis ha fatto finta di non conoscere la Freddi facendola presentare: "Mi chiamo Laura Freddi, ho una splendida bambina che tu hai anche "battezzato" al mio sesto mese di gravidanza, ha sentito la tua mano. Ora ha 3 anni ed è molto intelligente e bella". Pronta la replica del conduttore: "E per forza, ho messo la mano. Pensa se mettevo tutto… cioè intendevo... l'altra mano". Ma le provocazioni tra i due non sono terminate con Bonolis che ha continuato a punzecchiare la Freddi: "Eri più pesante una volta". La showgirl ha replicato con un: "Sei più bello di prima" e il conduttore ha risposto: "Gli anni passano, ma sono come il buon vino". A chiudere il siparietto la richiesta della Freddi, prima di pescare dal "pidigozzo", di toccare il fondoschiena di Bonolis per stimolare la fortuna: "Posso sentire come sei rimasto?". E il conduttore: "Sono in imbarazzo totale, c'è qui la mia signora". In chiusura ci ha pensato Luca Laurenti a stemperare l'imbarazzo: "Ma magari ci rimani male...". 

·        Laura Pausini.

«Io sì», Laura Pausini vince Golden Globe con la colonna sonora del film girato a Bari. «La vita davanti a sé», di Edoardo Ponti, con Sophia Loren. La Gazzetta del Mezzogiorno l'01 Marzo 2021. Un Golden Globe per Laura Pausini. «Io Sì» da «La vita davanti a sé» di Edoardo Ponti è la migliore canzone originale del 2020. L’annuncio oggi ai premi della Hollywood Foreign Press. La canzone è frutto di una collaborazione di Diane Warren, Laura Pausini e Niccolò Agliardi. «Grazie mille» ha detto Laura nel corso della diretta sulla Nbc. «Non ho mai sognato di vincere un Golden Globe, non ci posso credere». Una Laura Pausini incredula interviene su Instagram per ringraziare la Hollywood Foreign Press Association e Diane Warren, che ha collaborato con la cantante romagnola. «Dedico questo premio a tutti coloro che vogliono e meritano di essere «visti» - aggiunge Laura - e a quella ragazzina che 28 anni fa vinse Sanremo e non si sarebbe mai aspettata di arrivare così lontano». Non manca un omaggio a Sophia Loren: «Tutta la mia gratitudine e il rispetto per la meravigliosa Sophia Loren, è stato un onore dare voce al tuo personaggio, per trasmettere un messaggio così importante, di accoglienza e unità». Pausini, nella lunga serie di ringraziamenti, dedica il riconoscimento anche «all’Italia, alla mia famiglia, a tutti coloro che hanno scelto me e la mia musica e mi hanno reso quello che sono oggi. E - conclude - alla mia bellissima figlia, che da oggi vorrei ricordare la gioia nei miei occhi, sperando che cresca e continui sempre a credere nei suoi sogni».

"Emozionata e orgogliosa. Ora corro per l'Oscar poi cerco un'altra sfida". Laura Pausini: "Emozionata e orgogliosa. Ora corro per l'Oscar poi cerco un'altra sfida. Il mio segreto? Mai accontentarsi. Nel 2022 vorrei pubblicare un disco". Paolo Giordano - Mer, 17/03/2021 - su Il Giornale. «Ora mi chiedo: quale sarà la mia nuova sfida?». Laura Pausini è così, senza filtri, scatenata e verace anche dopo esser stata nominata agli Oscar con la canzone Io sì (Seen): «Da quando ho vinto il Festival di Sanremo 28 anni fa, non mi sono mai accontentata». E infatti: mai nessuna canzone cantata in italiano era stata candidata agli Oscar, anche se l'italiano Giorgio Moroder ne ha vinti due (più uno per la miglior colonna sonora). Ieri Pausini ha incontrato (via Zoom) oltre duecento giornalisti e ha «resistito» soltanto per qualche domanda prima di mettersi a nudo: «Sono una donna che si sente sempre come quella ragazza di 18 anni che andò a Sanremo. Ancora oggi quando mi chiama Pippo Baudo ho ansia, sono più tranquilla a parlare con Beyoncé». Intanto si prepara per la cerimonia del 25 aprile e lo dimostra a modo suo, sfoggiando una bottiglia con una tisana drenante perché «bisogna andarci vestiti eleganti e quindi ho iniziato subito a mettermi in forma, anche se durante il lockdown sono stata forse l'unica a dimagrire», scherza. E poi spiega come si sente in questo periodo: «Da due anni non viaggio, sono abituata da 28 anni a stare 20 giorni a casa, faccio un po' di fatica a trovare equilibrio perché sento che devo essere sempre wow, ma io non sono wow» dice commossa.

Allora parliamo del brano.

«Mi ha scelto Sophia Loren perché questa canzone è il proseguimento del film nel quale recita, La vita davanti a sé, diretto dal figlio Edoardo Ponti che è stato molto presente anche durante la registrazione del brano. Il testo originale era in inglese ma Edoardo mi aveva chiesto di aggiungere qualche verso in italiano e, alla fine, l'autrice Diane Warren mi ha proposto di farlo proprio tutto in italiano (poi l'ha scritto Niccolò Agliardi)».

Ci sono versi che si adattano bene a questo periodo: «Quando impari a sopravvivere e accetti l'impossibile».

«L'abbiamo scritta ad agosto e, quando la cantavo, mi dicevo: va che tra poco queste parole non mi faranno più pensare alla pandemia. E invece. Quando essere invisibile è peggio che non vivere è una sensazione che tantissimi provano ancora oggi».

È arrivata la nomination.

«Sono davvero orgogliosa di essere italiana, e dedico la nomination a mio papà, così come gli dedicherò l'Oscar se lo vincessi perché mi ha insegnato tutto anche se non mi ha mai chiesto di cantare. Il giorno del mio ottavo compleanno ho voluto un microfono in regalo e lì è iniziato tutto».

E che cosa voleva fare?

«Sognavo di essere la prima donna della mia zona a fare il pianobar, lui mi diceva che avevo sogni piccoli».

Adesso all'estero cantano le sue canzoni in italiano.

«Quando lo sento un po' me la tiro... Ma in Italia sono sempre molto paurosa, all'estero no. Forse posso dire che il successo in Sudamerica e nel resto del mondo mi ha formato come donna. Ma io canto negli stadi soltanto qui da noi».

A proposito, che cosa le ha detto sua figlia Paola dopo la nomination?

«Mi ha detto che lo sapeva già ma ha aspettato che lo confermasse la televisione. Poi ho videochiamato la sua classe e tutti i suoi compagni sapevano tutto dell'Oscar. Io a otto anni manco sapevo che ci fosse l'Oscar...» (sorride - ndr).

Ancora oggi Laura Pausini dopo ogni concerto o esibizione chiama sempre i genitori.

«Sempre. Mia mamma fa il punto su quasi tutto, del tipo: trucco e capelli bene, le risposte così così, non hai detto parolacce, per il canto lascio la parola a papà».

Previsioni sull'Oscar?

«Questa volta voglio crederci un po' e, se non vinco, un po' mi rode. A questo punto proviamoci e se non va, rimane tutto com'è, non cambia nulla. I miei compagni di scuola mi hanno scritto che ormai mi rimangono solo le Olimpiadi...».

I successi spesso fanno sentire in colpa.

«Non so cosa abbia di particolare la mia vita, ma mi chiedo continuamente perché ho avuto quello che ho avuto. Sono anche andata dallo psicologo».

Più che le Olimpiadi, le manca di condurre il Festival di Sanremo.

«Me lo hanno già chiesto in passato un paio di volte, prima Bonolis e poi la Rai per farlo con Paola Cortellesi, ma non mi sentivo pronta».

E il prossimo anno?

«Direi di no, voglio uscire con un nuovo disco. Un giorno lo farei con Paola Cortellesi ma bisognerebbe trovare un momento in cui siamo libere. Comunque, se accettassi, non seguirei la direzione artistica: sono troppo plagiabile, ho le mie preferenze, metterei solo i miei amici...».

Il premio alla Miglior Canzone Originale. Laura Pausini vince il Golden Globe con "Io sì": “Non ci credo, grazie alla meravigliosa Sophia Loren”. Antonio Lamorte su Il Riformista l'1 Marzo 2021. Laura Pausini ha vinto il Golden Globe per la Migliore Canzone Originale. “Sono così orgogliosa, grazie tante. Grazie Edoardo, Sophia, Diane, Niccolò Agliardi e tutto il team che ci ha aiutato a costruire questo progetto pazzesco della ‘Vita davanti a sè'”, ha detto commossa la cantante, in collegamento da casa, seduta al pianoforte a coda bianco. La cerimonia dei Golden Globe si è tenuta quest’anno a distanza, causa pandemia, presentata da Tina Fey e Amy Poehler, con un red carpet virtuale. La canzone è Io sì (Seen), contenuta nel film La vita davanti a sé, tratto dal romanzo omonimo di Romain Gary e diretto da Edoardo Ponti. Protagonista Sophia Loren. Il brano è nato dalla collaborazione tra la cantante, Diane Warren e Nicolò Agliardi. “Non ho mai sognato di vincere un Golden Globe, non ci posso credere. Grazie mille alla Hollywood Foreign Press Association – ha scritto Pausini su Instagram – Voglio ringraziare Diane Warren dal profondo del mio cuore. È un onore incredibile poter ricevere un tale riconoscimento per la nostra canzone, e il fatto che sia la nostra prima collaborazione lo rende ancora più speciale”. Il messaggio e la dedica infine, con un ringraziamento speciale a Sophia Loren: “Tutta la mia gratitudine e il rispetto per la meravigliosa Sophia Loren – ha scritto la cantante sui social – è stato un onore dare voce al tuo personaggio, per trasmettere un messaggio così importante, di accoglienza e unità. Dedico questo premio a tutti coloro che vogliono e meritano di essere ‘visti’. A quella ragazzina che 28 anni fa vinse Sanremo e non si sarebbe mai aspettata di arrivare così lontano. All’Italia, alla mia famiglia, a tutti coloro che hanno scelto me e la mia musica e mi hanno reso quello che sono oggi. E alla mia bellissima figlia, che da oggi vorrei ricordare la gioia nei miei occhi, sperando che cresca e continui sempre a credere nei suoi sogni”. Premiato come miglior film Nomadland di Chloe Zhao: la regista è anche la prima donna premiata come Miglior Regista dal 1984. Miglior Film Straniero a Minari di Lee Isaac Chung mentre Borat Susequent Movie Film vince come Miglior Film Comico dell’anno. “Donald Trump sta contestando il risultato”, ha commentato il protagonista di quest’ultimo Sasha Baron Cohen che ha anche ringraziato la “giuria tutta bianca” della Hollywood Foreign Press. Come Miglior attore drammatico è stato premiato Chadwick Boseman, scomparso lo scorso agosto a causa di un tumore per il film Ma Rainey’s Black Bottom. Premio alla carriera a Jane Fonda.

Golden Globe 2021, tutti i vincitori. L'Italia vince con Laura Pausini. Trionfo "Nomadland" e "The Crown". Chiara Ugolini su La Repubblica il 28 febbraio 2021. La prima edizione dell'era Covid è una cerimonia su due sponde, New York e Los Angeles, condotta da Tina Fey e Amy Pohler. Il nostro Paese vince con la canzone "Io sì (Seen)" di Diane Warren, mentre il miglior film straniero è il sudcoreano "Minari". Trionfo della serie "The Crown", per i film vincono il sequel di "Borat" e "Nomandland". Chloé Zhao miglior regista 37 anni dopo Barbra Streisand. Un premio arriva per l'Italia. La migliore canzone dei primi Golden Globe dell'era Covid, è Io sì (Seen) di Diane Warren cantata da Laura Pausini per il film con Sophia Loren La vita davanti a sè. In questi premi così diversi da ogni altra stagione Nomadland vince come previsto e consegna a Chloé Zhao il premio come miglior regista, è solo la seconda donna nella storia del premio 37 anni dopo Barbra Streisand che ha subito twittato "era ora". Collegata dalla sua casa, seduta al suo bellissimo pianoforte a coda bianco, Laura Pausini ha ringraziato in italiano e in inglese: "Sono così orgogliosa, ho la pelle d'oca. Grazie mille" dice in italiano e ha ricordato Edoardo Ponti e Sophia Loren e naturalmente Diane Warren. La cantante romagnola aveva detto che già la nomination agli Oscar sarebbe stata un bellissimo riconoscimento, quella candidatura adesso è quanto mai vicina. "Dedico questo premio a tutti coloro che vogliono e meritano di essere "visti" - ha scritto subito dopo Laura Pausini su Instagram - e a quella ragazzina che 28 anni fa vinse Sanremo e non si sarebbe mai aspettata di arrivare così lontano. All'Italia, alla mia famiglia, a tutti coloro che hanno scelto me e la mia musica e mi hanno reso quello che sono oggi. E alla mia bellissima figlia, che da oggi vorrei ricordasse la gioia nei miei occhi, sperando che cresca e continui sempre a credere nei suoi sogni". Non ce la fa invece il film di Ponti battuto nella categoria miglior film straniero da Minari, il film di Lee Isaac Chung, regista americano di origine sudcoreana che con la figlia di sette anni in braccio ha detto: "lei è la ragione per cui ho fatto questo film. Il mio racconta di una famiglia che sta imparando a parlare una sua lingua: la lingua del cuore. Io stesso ho cercato di impararla e trasmetterla agli altri soprattuto in questo ultimo anno". Il film, parlato in coreano ma girato negli Stati Uniti, racconta la storia autobiografica per il regista di una famiglia di immigrati dalla Corea del Sud che nell'Arkansas vuole costruire una fattoria e del rapporto, complicato e tenero, che si instaura tra il figlio più piccolo e la nonna arrivata dalla Corea. La cerimonia, condotta dalle colonne storiche del Saturday Night Live  - Tina Fey e Amy Pohler, a New York in diretta alla Rainbow Room (sulla cima del Rockefeller Center) la prima, dalla storica location dei premi della Hollywood Foreign Press, il Beverly Hilton Hotel di Los Angeles la seconda, è il primo Golden Globe dell'epoca Covid si è svolta con i premiati collegati dalle loro case. Una cerimonia ibrida, in parte in presenza sui due palchi dove si alterneranno i "presenter", le star che consegnano i premi, e in parte virtuale, con le finestre zoom che si aprono sui salotti (affollatissimo quello di Aaron Sorkin premiato per la sceneggiatura di Il processo ai Chicago 7), sulle cucine (assolutamente "normale" quella della protagonista di Normal People, Daisy Edgar-Jones), sulle assurde lampade della casa di Kate Hudson o nella casa di Jodie Foster premiata per The Mauritanian che fa il suo discorso accanto alla moglie in pigiama con in braccio il cagnolino Ziggy.

Tina Fey e Amy Pohler hanno fatto del loro meglio per far partire uno show che in passato ha lasciato tutti a bocca aperta con balletti, musica e strepitosi numeri di apertura (ricordate l'anno di La La Land con Jimmy Fallon?) e quest'anno si deve accontentare dei siparietti comici di queste due veterane e altri colleghi del SNL. La serata inizia con un dialogo su due sponde, split screen per le due comiche entrambe in abito nero, in platea ci sono persone che si sono occupate dell'emergenza sanitaria "Grazie mille che siete qui voi così le celebrità se ne stanno tranquille e sicure a casa - hanno scherzato le comiche - Solitamente qui ci sarebbero Meryl Streep che non sa nemmeno per quale film sta qui o Tarantino che tocca i piedi a tutti sotto i tavoli e invece". Un riferimento anche alla polemica che ha riguardato l'assenza di membri neri nella comunità della Hollywood Foreign Press "90 giornalisti stranieri purché non neri" hanno detto le conduttrici. I primi premiati sembrano però la risposta alla polemica: i primi ad agguantare il premio sono stati Daniel Kaluuya (Scappa - Get Out) qui premiato per Judas and the Black Messiah in cui si racconta la storia vera l'attivista Fred Hampton, presidente della sezione dell'Illinois delle Pantere Nere, ucciso dall'FBI. e John Boyega poliziotto che si batte contro il razzismo nell'Inghilterra anni Sessanta nella miniserie Small Axe di Steve McQueen.

Quest'anno il preshow non ha visto il classico tappeto rosso sostituito da una sorta di sfilata virtuale con le star che postano sui social le foto dei loro abiti d'alta moda, ma da una serie di collegamenti virtuali nelle case dei candidati con tanto di interviste e commenti. Niente banchetto innaffiato di champagne, le cucine del celebre hotel però non sono inattive: hanno contribuito ad organizzare più di 3 milioni di pasti per senza tetto e anziani che hanno difficoltà ad uscire di casa in questa emergenza.

Capelli d'argento e tailleur bianco Jane Fonda era al Beverly Hilton a ricevere il Cecil B. Demille, il premio alla carriera. E il suo discorso di ringraziamento, come previsto, ha lasciato il segno: "Siamo una comunità di narratori e in momenti di crisi e turbolenza è sempre stata essenziale la capacità di racontare per cambiare la nostra mente e vivere l'empatia - Con le nostre diversità siamo tutti esseri umani, nella mia vita ho visto tanta differenze ma con cuore aperto e andando sotto la superficie. Gesù e Maometto ci hanno parlato attraverso la poesia perché le forme di narrazione non lineare come l'arte sono quelle che parlano ad un'altra frequenza e penetrano le nostre difese. Tanti film quest'anno, da Nomadland a Minari, mi hanno aperto all'amore e ricordato quanto è fracile la nostra democrazia e quando piccolo e fragile il nostro pianeta. C'è una storia che abbiamo paura di vedere e sentire e riguarda le voci all'interno della nostra comunità che prende decisioni e attribuisce premi; portiamo avanti senza paura la diversità. In passato abbiamo marciato, è di nuovo ora di prendere il bastone e rimetterci in marcia".

Trionfo per The Crown, la quarta stagione della serie sulla famiglia reale ha vinto come miglior serie drammatica e per i suoi attori. Premiata Emma Corrin per il suo ritratto della principessa Diana in The Crown a cui dedica il riconoscimento; tra commozione risate la ventincinquenne attrice inglese ha detto: "A Diana che mi ha insegnato l'empatia oltre ogni limite". E poco dopo anche Josh O'Connor, il principe Carlo di The Crown è stato premiato come miglior attore in una serie drammatica e dopo i ringraziamenti di rito ha voluto ricordare "io sono molto fortunato ad essere in grado di lavorare ma tante persone non lavorano e sentono un senso di isolamento, il lavoro è una priorità per tutti". Premiata anche Gillian Anderson per il suo ruolo di Mrs T come la chiama lei, cioé Margaret Thatcher. Sul fronte della commedia doppio riconoscimento per Schitt's Creek, miglior serie e anche migliore attrice Catherine O'Hara (la ricordate sicuramente come madre di Mamma ho perso l'aereo, qui candidata per la serie inedita in Italia Schitt's Creek). Come miglior attore di una serie drammatica invece ha vinto Mark Ruffalo (I Know This Much Is True- Un volto due destini dove interpreta due fratelli gemelli) che, commosso, ha fatto un bellissimo discorso con i figli che spuntavano alle sue spalle per abbracciarlo: "Dobbiamo essere coraggiosi, è il momento per la nostra nazione di girare la pagina per ottenere più giustizia e inclusione e per curare la nostra madre terra". Ottimo risultato anche per la serie La regina degli scacchi, serie fenomeno che ha fatto impennare le vendite di scacchiere e di ragazzi che vogliono imparare a giocare e che ha fatto conoscere al grande pubblico l'attrice Anya Taylor Joy che ha vinto come miglior attrice.

I Golden Globe hanno fatto la storia con tre nomination su cinque a registe donne e il premio va a Chloé Zhao per il suo Nomadland, già Leone d'oro. La regista cinese commenta brindando con una mug dal suo computer: "Questo film appartiente a tutto il team di Nomadland, grazie ai nomadi che hanno condiviso le loro storie. La compassione può rompere ogni barriera e creare legami e una vera condivisione, fare film ci dà la possibilità di imparare uno dall'altro". Era dal 1978 con Yentl di Barbra Streisand che una donna non si aggiudicava il Golden Globe per la miglior regia. Tra fiction e documentario (alcune sequenze tra cui una memorabile con protagonista Rudolph Giuliani che hanno fatto esplodere uno scandalo) Sacha Baron Cohen con il sequel di Borat, premiato come miglior commedia e pure come miglior attore, ha strigliato il suo Paese ancora sotto il giogo di Donal Trump. Ha scherzato "Donald Trump sta contestando il risultato, dice che tanti di quelli che hanno votato in realtà sono morti". Cohen tra battute e riflessioni ha voluto ringraziare tutta la troupe "che è stata coraggiosa rischiando più di una volta di farsi arrestare o prendersi il Covid. Era importante per noi che il film arrivasse prima delle elezioni e ringrazio tutti compresa la mia moglie, molto paziente" dice accanto a Isla Fisher. Tra gli sconfitti Mank che aveva 6 nomination e non ha portato a casa nulla e Una donna promettente battuto in tutte le categorie.

La miglior attrice di commedia è Rosamund Pike, spietata e senza scrupoli tutore legale di anziani in case di riposo nel film I care a lot, "Oh ladies santo cielo vi rendo omaggio - ha detto l'attrice ringraziando per il premio. Me ne importa molto, il titolo del film è indovinato. Grazie di cuore di aver riconosciuto l'aspetto dark della nostra commedia". E poi ringrazia il coraggio di Maria Bakalova (Borat 2): "Celebro il coraggio di essere in una stanza con Rudolph Giuliani". Miglior attrice protagonista è l'esordiente Andra Day che ha incarnato Billie Holiday nel film che racconta la persecuzione dell'FBI nei confronti della cantante afroamericana. Un riferimento alla pandemia e al momento difficile che il mondo sta vivendo invece nel discorso di ringraziamento di Pete Docter, regista di Soul - miglior cartoon - "la vita è come il jazz, non possiamo controllarla ma possiamo tirarne fuori qualcosa di bello".

Come previsto il premio per il miglior attore è andato a Chadwick Boseman, ex Black Panther Marvel che nel film Ma Rainey's Black Bottom interpreta il rivale artistico di Ma Rainey, il trombettista Levee, un talento puro ma un carattere difficile anche a causa della violenza subita. Un'interpretazione intensa che potrebbe valergli un riconoscimento postumo. Commossa la moglie di Boseman: "Se lui fosse qui ringrazierebbe il Signore, il suo team e tutti quelli che hanno lavorato a questo progetto. Direbbe qualcosa di bellissimo e di grande ispirazione che amplifica la piccola voce che abbiamo dentro di noi e direbbe di tenere duro che ce la faremo. Io non ho le sue parole ma dobbiamo prendere tutti i momenti che possiamo per festeggiare quelli che amiamo. Tesoro, sei sempre con me".

A poche ore dalla cerimonia è scoppiata una polemica che ha scosso l'organizzazione dei Golden Globe. Con l'ashtag #TIMESUPGlobes e lo slogan "cosmetic fixes is not enough" (che si riferisce alla scelta di avere diversi presentatori afroamericani nello show, i primi arrivati sono stati infatti i fratelli Jackson e Satche figli di Spike Lee, ambasciatori di quest'anno) molte star della comunità nera ma non solo (Shonda Rhimes, Ava DuVernay ma anche Olivia Wilde e Ellen Barkin) hanno protestato nei confronti della Hollywood Foreign Press che tra i suoi membri non ha nessun nero. L'associazione ha risposto con un comunicato in cui ha dichiarato che lavoreranno per allargare la partecipazione a colleghi neri e di altri background non rappresentati. Vedremo che succederà durante la cerimonia. Intanto non è stato zitto Spike Lee (il cui film sui soldati afroamericani in Vietnam Da 5 Bloods - Come fratelli non è stato candidato) che a Variety ha detto: "La Hollywood Foreign Press ha chiaramente molto da fare. Tuttavia, è stata una gioia vedere i nostri figli Satchel e Jackson come ambasciatori ai Golden Globe. Spero che l'HFPA capisca che per rimanere rilevante, deve diversificare la propria appartenenza. Mettete alcune sorelle e fratelli su quel muro. Siete tutti fuori di testa!"

·        Le Carlucci.

Gabriella Carlucci, l'accusa alle sorelle Milly e Anna: "Il libro che non mi fanno scrivere", un grosso caso in famiglia. Annamaria Piacentini su Libero Quotidiano il 14 agosto 2021. Gabriella, Milly e Anna, sono le sorelle Carlucci. Figlie di un generale dell'Esercito hanno sempre seguito le regole imposte dalla vita. E dalla famiglia. Niente colpi di testa. In un'atmosfera rigida, ma di grande serenità hanno fatto le loro scelte. Insomma, donne in gamba, brillanti e decise come i loro personaggi. Peccato che di Anna si siano perse le tracce, perché quando ha fatto il suo ingresso nel mondo dello spettacolo piaceva molto al pubblico. Era bella e aveva anche talento nella regia. Milly, invece, è sempre sulla cresta dell'onda grazie alla sua prorompente professionalità. Gabriella? È un fiume in piena. Bella come Milly e Anna, ha iniziato la sua carriera nel 1983 con la trasmissione Portobello, condotta da Enzo Tortora. Da lì è stato un susseguirsi di successi, fino ad arrivare al festival di Sanremo. Ma la tv forse le andava un po' stretta e nel '94 si è iscritta a Forza Italia. La vita politica le piaceva. E soprattutto puntava alla difesa delle donne. Venne eletta anche sindaco di Margherita di Savoia, cittadina in provincia di Barletta-Andria e Trani. E deputato della Repubblica dal 2001 al 2013.

Gabriella, perché ha lasciato la politica?

«Ho lasciato Forza Italia in un periodo difficile, mi sentivo molto in crisi. Sono andata nell'Udc, perché dal punto di vista valoriale rispettava le mie idee. Vengono dalla vecchia Dc e il Centrodestra è appoggiato a pieno titolo. Infatti mi hanno sempre sostenuta. Facendo politica ho imparato tanto, e il Parlamento mi è stato utilissimo».

In che senso?

«Ho avuto modo di utilizzare ciò che assorbivo. È stato come aver fatto tre Università insieme».

Prima forse... ma oggi?

«Oggi è difficile. La politica si è trovata a fronteggiare problemi enormi con l'arrivo della pandemia. Non si può giudicare comodamente seduti sul divano di casa. Anche se certe cose danno fastidio, bisogna viverli questi momenti. Io l'ho fatto, ho cercato di migliorare le cose, di aiutare andando incontro a tutte le richieste. Spero di esserne stata capace».

Qual è la qualità che si riconosce?

«Quella di non mollare mai l'obiettivo che mi sono prefissa. Dovrebbe essere così per tutte le donne».

Ha fiducia in Draghi?

«Sì, ne ho molta. Ora ha un'occasione unica al mondo: i fondi del Recovery Fund che arrivano dall'Unione Europea. È un piano nazionale di ripresa e l'Italia è la prima beneficiaria. Anche il Centrodestra ha competenze alla stesura del piano».

Quando era in politica aveva proposto di istituire un'anagrafe nazionale per i minori non accompagnati che sbarcano in Italia...

«Che fine ha fatto, me lo chiedo anch' io! Ora che succede di questa gente? Il problema è serio e i bambini stringono il cuore. Ma chi se ne deve occupare è anche l'Europa, non solo l'Italia».

Intanto, lei batte per il cinema e crea nuovi festival. Quando è nata questa passione?

«Credo da sempre. Pensi alla località di Marettimo dove si svolge il festival del cinema, nato grazie a Cettina Spadaro. Ho scoperto quest' isola bellissima delle Egadi quando ero bimba. Andavo in barca con la mia famiglia, avevo 12 anni. Mi è piaciuta subito e non l'ho mai dimenticata».

È andata bene questa seconda edizione del festival?

«Benissimo. Pensi che sull'isola ci sono 150 abitanti, durante il periodo del festival sono arrivate 800. persone. Ma era un turismo consapevole, felice di poter partecipare a questo appuntamento. Andati via loro l'isola è nuovamente vuota. Con Cettina Spadaro che è il cuore del festival, voglio fare sempre di più per questo luogo che è tra i miei ricordi più belli».

Gabriella, a settembre riparte nuovamente con altri due festival: in Spagna e a Belgrado: ce ne parla?

«C'è sempre uno scambio culturale, e il cinema ne è il protagonista. Sia in Spagna (dal 10 al 14) che a Belgrado (dal 18 al 22), porto le migliori produzioni italiane. E i film spagnoli e serbi arrivano da noi per far conoscere i giovani talenti, che in questi paesi, come in Italia, esistono. Hanno entrambi prospettive internazionali, tra cui quella della commercializzazione delle migliori opere prime e seconde».

Lei è una bellissima donna. È stato difficile arrivare sino a qui senza accettare compromessi?

«Non sono mai stata abituata al compromesso e come donna non ci sto. Con il mio carattere non riesco ad accettare certi discorsi, devo ribellarmi. Ho realizzato tutto da sola. Non è stato facile, ma ne sono orgogliosa. Quando sono andata all'Ambasciata, prima spagnola e poi in quella della Serbia, ho esposto le mie idee sul cinema internazionale. Ero sola, e nessuno aveva fatto una telefonata per raccomandarmi. Temevo che qualcuno mi avesse ricevuto solo per pura cortesia. Allora sarebbe tutto finito».

Invece?

«Il mio progetto è piaciuto e mi hanno detto: "Sì, ti aiutiamo". Mi sono messa subito al lavoro e i risultati sono davvero positivi. Mi considero una frenetica, ma sono fatta così, quando c'è qualcosa da risolvere, mi metto subito all'opera".

Tutti hanno un sogno nel cassetto. Qual è il suo?

«Mi piacerebbe scrivere una storia sulla mia famiglia, ma so già che le mie sorelle non saranno mai d'accordo. Eppure è una storia così bella! Mio padre era un generale dell'Esercito, mia madre una donna splendida. Ci hanno insegnato l'amore, l'aiutarsi in ogni circostanza, essere sorelle per sempre. Li ringrazio per ciò che mi hanno regalato e per l'esempio che hanno dato a me, Milly e Anna. Non li dimenticherò mai!». 

·        Lele Mora.

Lele Mora si racconta: "Tanti errori, mi ha salvato la mia famiglia". Giovanni Terzi su Il Tempo il 12 dicembre 2021. Lele Mora mi manda un video del 29 maggio del 2005 in cui suo papà e sua mamma, Arno e Amerina, celebravano a Bagnolo Po, un comune di poco più di mille abitanti in provincia di Rovigo, il loro sessantesimo anniversario di matrimonio. Lele Mora in quel periodo era l’incontrastato dominus della televisione e non c’era personalità televisiva che, per avere successo, non doveva passare da lui. In quel video, in quella celebrazione che festeggiava l’amore tra i suoi genitori, c’erano tutti attori, conduttori, star del cinema al cospetto di Re Lele Mora. Ma si sa, quando si cade in disgrazia, pochi rimangono accanto.

Ed oggi Lele chi hai vicino?

«I miei figli, Mirko e Diana e la mia famiglia e, credimi, non è poco».

Ho saputo che sei stato operato di un brutto male. Adesso come stai?

«Poco prima del lockdown, era dicembre 2019, mi hanno trovato un sarcoma molto grande tra i reni e i polmoni. Sono dovuti intervenire d’urgenza e per fortuna l’hanno asportato.

Ho dovuto fare cinquanta cicli di radioterapia e, quando sono uscito dall’ospedale, ero pieno di “sacchetti della spesa” come li chiamo io, che raccoglievano le urine. Ed anche qui mia figlia Diana insieme a mia sorella Gabriella, oltre che a Mirko mio figlio, sono stati a me accanto rendendo possibile la mia guarigione».

Insomma la famiglia come valore assoluto per te?

«Così mi hanno insegnato i miei genitori ed io ho cercato di trasmettere loro la stessa educazione. La mia famiglia era di origine contadina: mio papà zappava la terra e non faceva carezze ma con gli occhi sapeva dirti che ti voleva bene».

Ed oltre alla tua famiglia chi ti è rimasto accanto in questi ultimi quindici anni, da quando non sei più solamente il potente agente delle “star” televisive?

«Iva Zanicchi veniva tutte le settimane in carcere a trovarmi. Quando era in vita Nilla Pizzi mi ha dimostrato grande affetto e presenza così come Orietta Berti. Ma stiamo parlando di persone con una virtù morale superiore alla norma».

E sei stato deluso da qualcuno?

«Impossibile dire una persona sola, in tanti mi hanno voltato le spalle; mia mamma diceva “fai del bene e mettilo da parte”, come dire non aspettarti nulla in cambio. Ero un uomo potente e tutti venivano per corteggiarmi, ero il sultano, il Cardinale Richelieu, che risolveva ogni problema. In realtà io sono un umile ragazzo di campagna che amava accogliere gli amici così come mi aveva insegnato mia mamma. Ed anche oggi, seppur quasi settantenne, mi sento ancora molto giovane e per questo ho sempre pensato che andare in pensione ti renda un uomo inutile».

Quindi lavori ancora?

«Certamente e lo farò fino all’ultimo giorno della mia vita».

Come è cambiato il mondo dello show biz?

«Una volta fare un evento era un fatto di cultura popolare straordinaria.

Oggi è finita l’epoca delle "vacche grasse", non ci sono più le risorse per fare produzioni davvero importanti.

Però, a sensazione, credo che prima o poi tornerà un periodo di magnificenza».

Sei caduto ma hai saputo rialzarti. Quali errori pensi di aver commesso?

«Credo che il mio grande errore sia stata l’esposizione mediatica. Fino a quando agivo dietro le quinte nessuno mi toccava poi, improvvisamente, appena sono andato da Santoro ospite del suo programma "Sciuscià" ho iniziato a subire attacchi. Poi un altro errore è stato quello di guadagnare troppo».

In che senso?

«Quando guadagni troppo hai molte distrazioni e vieni preso dalla fobia di spendere e spandere. Fai errori anche dal punto di vista della gestione delle risorse; diciamo che vivi in un vortice senza più avere il controllo preciso delle cose. Così ho commesso molti errori anche dal punto di vista fiscale».

La tua pagina di Wikipedia si apre con questa tua frase sui soldi «Si crede che il profitto, in particolare il profitto di breve periodo, sia l'unica misura di valore. Spesso in questa situazione il profitto è a scapito del bene generale e in violazione dei fondamentali princìpi di etica e correttezza, però il successo che se ne ottiene è ammirato e riverito dai media, diventa santificante e rende irrilevante ogni altra considerazione». È una frase riferita al tuo rapporto con i soldi o anche valida per altre persone?

«Per me e per altre persone che magari sono state a me vicine»

Ti riferisci a qualcuno in particolare?

«Uno su tutto Fabrizio Corona. Un ragazzo di una intelligenza straordinaria ma schiavo del denaro. Quando Fabrizio si libererà da questa sua dipendenza sarà per lui un bene».

Rispetto agli anni in cui eri il Dominus della televisione, come è cambiata la comunicazione?

«Tutto è cambiato in modo radicale. I social, internet hanno reso tutti autodidatti e gli agenti non servono più a nulla».

Chi sono i nuovi comunicatori che ti piacciono?

“Fedez e la Ferragni; due assoluti fuoriclasse».

Ma Fedez entrerà in politica?

«Spero di no.

È bravo su altre cose e poi lasciamo fare la politica a chi la sa fare».

Per esempio chi sa fare politica oggi?

«Giorgia Meloni secondo me sta dimostrando un grande talento e acume politico.

Stando all’opposizione è riuscita a portare Fratelli d’Italia ad essere il secondo partito scavalcando la Lega di Matteo Salvini».

Secondo te quale è stata la caratteristica che ha premiato la Meloni?

«La coerenza. Giorgia Meloni ha saputo tenere il punto facendo capire che non è disposta a retrocedere rispetto alle sue idee solo per le poltrone e con un certo Mario Draghi al Governo».

Cosa pensi di Draghi? 

«Una persona capace che ha saputo con il generale Figliuolo organizzare le vaccinazioni e non solo. Spero che Draghi diventi, insieme all’Italia, il punto di riferimento per tutta l’Europa».

Tra poco il Parlamento si esprimerà sul nuovo Presidente della Repubblica. Chi vorresti?

«Su tutti Silvio Berlusconi anche se, alla fine non ci riuscirà.

Penso che a Silvio si debba l’elezione a Presidente».

Invece in televisione chi sono oggi le star?

«Nessuna oggi è una star come quelle che ho avuto io.

Parliamo della Carrà, la più grande in assoluto, della Ventura, della Ferilli e metterei anche la Marini perché ovunque passa lascia il segno o per il suo essere o per il suo apparire».

E chi invece non lascia il segno?

«Un nome su tutti è Antonella Elia secondo me sopravvalutata.

Molto meglio di lei una come la Cipriani».

E cosa guarda oggi in televisione Lele Mora?

«Nulla. L’unica cosa che guardo è "Report" ma quello di adesso con Sigfredo Ranucci; quando c’era la Gabanelli era troppo di sinistra».

Hai mai tradito una artista assistita da te?

«Mai. Per me erano davvero famiglia ed infatti Antonio Marano di me ha sempre detto "un signore come Lele Mora non l’ho mai incontrato"».

·        Lello Arena.

Emilia Costantini per il "Corriere della Sera" il 12 luglio 2021. Il suo debutto è avvenuto al circo, ma non da attore, né tantomeno da acrobata. «Eh no... come maestro elementare - racconta Lello Arena -. Ho fatto le magistrali e siccome il problema era trovare lavoro, dopo qualche mese di inutili domande a vari istituti scolastici, mi recai un po' incacchiato al provveditorato e dissi: scusate, ci diplomiamo maestri e poi non troviamo posto nemmeno come supplenti. L' impiegato rispose: eh sì, perché voi siete viziati, il lavoro ci sarebbe ma non lo vuole nessuno. E io gli chiedo: che vuol dire? E quello ribatte: c' è un posto da maestro itinerante in un circo... Avevo davvero bisogno di portare i soldi a casa e, per dare un senso alla mia idea di didattica, mi sono messo all' opera. D' altronde il mondo del circo mi piaceva moltissimo, però c' erano delle regole che andavano un po' oltre la mia idea». 

Cioè?

«Quando arrivai al mio primo incarico, ero molto determinato, ma una mattina vedo una bambina che stava a testa in giù con una sveglia davanti agli occhi... Pensavo stesse giocando e, dato che era orario di lezione, le ho detto: andiamo, devi sederti al banco. Intervenne il direttore del circo e mi spiegò che quella ragazzina si stava preparando a un numero acrobatico che faceva su una pertica alta 30 metri, quindi dovevo farle fare l'allentamento. Allora ho capito che per insegnare in un circo dovevo integrarmi, imparare quelle dinamiche». 

È riuscito nell' intento?

«Sì, ma lo stipendio era molto basso e così mi proposi per fare anche altro. Certo non il clown, ma nei momenti in cui la pista doveva essere ripulita dopo il numero degli elefanti, che facevano un vero macello, io assieme ad altri intrattenevamo il pubblico con scenette ridicole: facevamo finta di litigare, di tirarci l'acqua addosso, spargevamo coriandoli... In quel periodo ho imparato il gioco di squadra, che non ho dimenticato: in un circo tutti sono uguali, dai grandi performer agli inservienti, non ci sono differenze, una grande famiglia». 

La sua di famiglia è nata quasi per caso...

«Sì, mio padre Ugo prima di partire per la guerra si era fidanzato con una bella ragazza bionda e mentre si trovava in Abissinia le mandava i soldi che sarebbero serviti al futuro matrimonio. Ma quella ragazza, pensando forse che papà non sarebbe più tornato dalla guerra, dato che era finito in prigionia, si era fidanzata con un altro, stanziale, e si era spesa tutto. Quando papà tornò si ritrovò cornuto e mazziato. Ma gli Arena non si perdono d' animo: aveva saputo che ai reduci venivano assicurati posti di lavoro e ne trovò uno alla manifattura tabacchi. Proprio là conosce mia madre, alla quale quell' ex soldatino piaceva tanto e fu proprio lei a fargli la proposta». 

Davvero?

«Sì, una bella faccia tosta, data l'epoca. Il fatto è che nel quartiere si era saputa la faccenda della precedente fidanzata e mamma gli disse: non sono bionda, sono mora e non mi mangio i soldi degli altri, ci facciamo compagnia? Si sono sposati e sono stati insieme tutta la vita». 

È stato educato dalle suore e voleva fare il chierichetto. Dove nasce la passione attoriale?

«Forse dal fatto che mi prendevano in giro i compagni di scuola. Prima di tutto per il mio cognome: Arena significa sabbia, e mi avevano soprannominato Lello Sabbia... poi, per il mio strabismo, mi chiamavano "occhiestuorte". Pian piano, la mia è stata una reazione, recitavo un ruolo, lo strabismo un marchio di fabbrica, una piccola diversità che mi ha reso riconoscibile al futuro pubblico... Ma la volta che mi spinsero giù dalle scale non recitavo...».

Cosa accadde?

«Un compagno voleva vedere che effetto faceva uno che ruzzolava giù. Arrivo fino all' ultimo gradino e, lì per lì, non avverto grande dolore. La notte, però, comincia a gonfiarsi il piede, alle tre del mattino sveglio mio padre. Decidiamo di andare al Pronto soccorso, ma non avevamo la macchina, a quell' ora i taxi non c' erano, trovammo in strada una carrozzella di quelle che accompagnano i turisti sul lungomare. Il cocchiere ci fa salire ma, per raggiungere il Cardarelli, c' è una salita ripida: il cavallo scivola e stramazza. Il cocchiere ci fa scendere e noi proseguiamo a piedi. Io camminavo a fatica, quando arriviamo l'ospedale è chiuso. Bussiamo, ci apre una suora addetta alle medicazioni notturne, che fa appena in tempo a farci entrare e scivola sul bagnato... tutti gli aghi, le siringhe, le bottigliette di medicinali finiscono a terra, un casino. Lei ci urla di andare a cercare il medico di guardia: bussiamo alla porta, quello dormiva... bussiamo di nuovo, poi mio padre spinge la porta e il medico, che intanto si era svegliato e stava per aprirci, riceve una portata in faccia, gli esce sangue dal naso, ci urla di andare da un altro medico. Era il primario che, sentendo le urla e vedendoci mi chiede incavolato cosa avessi. Gli faccio vedere il piede e lui mi domanda: lo puoi poggiare a terra? Io rispondo di sì. E quello, urlando: allora cammina e andatevene! Avevamo compiuto una strage ed era stato tutto inutile». 

Come chierichetto è andata meglio?

«Macché! Una notte di Natale, dopo la succulenta cena della Vigilia, ebbi il compito di tenere la candela accesa vicino al parroco che celebrava messa. Il prete parlava lento, noioso, e io con tutto quello che mi ero mangiato mi appisolo. La candela finisce addosso al parroco e vengo svegliato dalle urla: la tonaca aveva preso fuoco e lui si era trasformato in una torcia. Cerco di spegnerlo con l'unico liquido che c' era lì, l'acqua santa... ma era poca. Allora con altri lo avvolgiamo nel tappeto della navata centrale: sembrava un sigaro, era rosso in faccia e gli fumava la testa. Ma non basta: un'altra volta vengo coinvolto, al Duomo, nel battesimo della figlia del sindaco. Mi chiedono di tenere la bambina in braccio, mentre loro scattano le foto con gli invitati. La neonata era avvolta in eleganti fasce di seta e io, temendo che mi cadesse, la stringo forte per non farla finire nella fonte battesimale che era enorme, sembrava una piscina: la stretta fa effetto banana, la bimba schizza in alto e finisce in acqua. Per fortuna il suo istinto fu di nuotare e io, per uscire dall' imbarazzo, grido: o' miracolo!». 

Come nasce La Smorfia con Massimo Troisi ed Enzo Decaro?

«In verità, la nostra prima formazione si chiamava I Saraceni, ma quando venimmo a Roma, ci consigliarono di cambiare il nome. Ce ne voleva uno meno localizzato, più nazionale e legato al nostro mestiere. Nel lavoro dell'attore la mimica facciale è fondamentale, da qui La Smorfia. Ci divertivamo da matti: io ero il più brutto e giocavo sulla mia diversità. Enzo, il più bello: a teatro le prime file erano gremite dalle signorine che venivano per lui». 

Tanti successi insieme, a teatro, in tv e al cinema. Poi la prematura scomparsa di Troisi.

«Il mio più caro amico, una persona sensibile, delicata, una bella mente. Nelle sceneggiature lui mi assegnava il ruolo e poi ci lavoravamo assieme, con lui era un gioco continuo...».

Tra voi mai incomprensioni?

«Sì, ci fu un periodo di rottura sul set di un film "Le vie del Signore sono finite". Dovevo interpretare un personaggio, un paralitico, poi affidato ad altro attore. Ne avrei dovuto fare un altro, ma la troupe insisteva che dovevo fare proprio quello e Massimo credette che fossi io a insistere per il ruolo, che tramassi alle sue spalle. Non era vero... Negli anni seguenti, tra una telefonata e l'altra, ci riconciliammo e ho un rammarico: averlo lasciato troppo solo». 

I suoi maestri?

«Peppino De Filippo: non l'ho mai conosciuto di persona, ma i suoi duetti con Totò erano il mio pane quotidiano. E il grande Eduardo che una volta accolse noi tre nel suo camerino al Teatro Giulio Cesare di Roma e ci chiese: "Voi state ancora a Napoli? Fuitevenne!". Allora la considerava una città ingrata».

Una città che lei, nel suo libro «Io, Napoli e tu», definisce «una turista». Perché?

«È l'unica città al mondo che invece di farsi visitare, ti visita, ti costringe a fare il punto su te stesso. Poggia saldamente su migliaia di teschi, testimonianze vere della morte, e poi è rimpinzata di santi patroni. La sua tradizionale accoglienza è mitigata dalla tendenza a non fidarsi degli altri, che sono stati spesso degli invasori. Ormai da tempo vivo a Roma, ma quando torno a Napoli vado sempre in un piccolo hotel a via Toledo, mi affaccio da un balconcino e assisto a scenette straordinarie». 

Per esempio?

«Una sera, a ora tarda, vedo un bambino con il suo cane: la bestia si era sdraiata sul marciapiede e non ne voleva sapere di alzarsi per tornare a casa. Il ragazzino non lo strattona, ma comincia a parlargli con dolcezza per convincerlo: ho assistito a un monologo struggente». 

Un personaggio che sogna di interpretare?

«Ce n' è uno che mi perseguita, anzi due. Ogni anno mi propongono di interpretare Falstaff, dicendo "sei perfetto!", perché non c' è nemmeno bisogno di mettermi la pancia finta, ce l'ho di mio. E poi, quando vado a Napoli per le feste natalizie, i ragazzini mi scambiano per Babbo Natale, avendo capelli e barba bianca. Mi rimproverano perché l'anno prima avevano chiesto il trenino e gli è arrivata la bici...». 

Il 13 luglio sarà all' Auditorium San Domenico di Foligno, dando voce a un grande personaggio, con lo spettacolo «Oh, that Chaplin!».

«È la storia del suo più grande disastro economico. Prima di diventare il genio che conosciamo aveva studiato da violoncellista: era mancino e aveva dovuto far costruire uno strumento che suonava al contrario. Con il pianista con cui si esibiva scrive un vasto repertorio. Stampano gli spartiti, tanti, per farli comprare al pubblico dopo i concerti. Non ne vendono uno e falliscono. Ma quando divenne famoso invitava la crème hollywoodiana a serate esclusive dove si esibiva al violoncello. Era fissato!».

·        Leo Gullotta.

Gullotta: "Renzi in Arabia? Mi ha profondamente offeso..." Intervista a 360° con l'attore siciliano: "Il Pd? Un partito confuso con mille correnti, mentre non credo alla conversione europeista di Salvini. Su Draghi..." Claudio Rinaldi - Lun, 22/03/2021 - su Il Giornale. Quando Leo Gullotta ha fatto coming out nel 1995, erano davvero in pochi i personaggi famosi che dichiaravano la propria omosessualità in pubblico. La paura di essere allontanati dal mainstream la faceva da padrone, meglio non esporsi. Non per Gullotta: attore, doppiatore e imitatore - in una parola “interprete” così come lui stesso si definisce - che sull’ironia, sul sarcasmo e sulla libertà di pensiero ha costruito una carriera lunga cinquant’anni. Partito da un quartiere popolare di Catania, figlio di operaio, ha scalato le vette del teatro e del cinema; con le sue imitazioni (le più celebri quella di Maria De Filippi e Raffaella Carrà) è stato uno dei protagonisti del Bagaglino; ha vinto una quantità di premi che non basterebbe un’ora per citarli tutti e oggi a ilGiornale.it racconta il Gullotta pensiero che parte da un presupposto: “La politica in 30 anni non ha fatto nulla e la pandemia ci ha solo consentito di scoprire questo fallimento”.

Ma chi l’ha delusa di più?

“Non si può fare di tutta l’erba un fascio. Sono molti i politici che hanno dimostrato in questi anni di pensare più al proprio futuro che al futuro del paese”.

Ci faccia un esempio...

“Sicuramente Matteo Renzi. Il suo atteggiamento mi ha profondamente offeso come cittadino. Quando ha deciso di far cadere il governo Conte mentre morivano centinaia di persone, più che un politico è sembrato un bambino al quale avevano tolto un giocattolo che rivoleva a tutti i costi. Ma non è solo questo ad avermi indignato…”.

E cos’altro?

“Non ci sono parole per descrivere il suo comportamento nella questione Arabia Saudita. È andato da un assassino definendolo ‘un principe da invidiare’ (il principe ereditario saudita Mohammad bin Salman, ndr), ha parlato di ‘rinascimento’ e non ha detto una parola sul giornalista ucciso, Jamal Khashoggi… questo sarebbe il rinascimento? Merita solo una risatona di quelle con l’eco”.

E chi altro merita una “risatona”… Conte?

“No, secondo me, Conte ha fatto degli errori, ma ha interpretato al meglio la pandemia. Non era affatto semplice, piuttosto credo abbia avuto attacchi scomposti e cinici”.

Si riferisce agli attacchi che l'ex premier ha ricevuto dall’opposizione?

“Mi riferisco in particolare alle destre che hanno spesso usato insulti e toni da campagna elettorale”.

Ora però c’è Draghi e il governo delle larghe intese…

“Non si discute ovviamente il valore di Draghi. È un uomo importante che sa il fatto suo, molto fermo e deciso anche nella comunicazione. Ma non crederò mai alla conversione europeista della Lega”.

Non si fida di Salvini?

“Certo che no. È un bugiardo. Venerdì, per esempio, ha mostrato subito il suo intento, tenendo in ostaggio il consiglio dei ministri per tre ore. E poi lui - come quasi tutti i politici, chiariamo - è affetto da una malattia…”.

Una malattia?

“Sì, la “dichiarazia”, ovvero dichiarazioni a tutto spiano pur di attrarre consenso”.

E della sinistra invece cosa pensa?

“Quando Zingaretti si dimette e dice "mi vergogno", vuol dire che c’è realmente da vergognarsi. Il Pd è un partito formato da mille correnti che ha una confusione totale. Non credo affatto alla sua unità”.

Una confusione che toccherà ad Enrico Letta ricomporre…

“Ho tirato un sospiro quando è arrivato, ma vediamo cosa sarà in grado di fare. Anche perché molti di quelli che l’hanno votato, sono gli stessi che l’hanno accoltellato ai tempi di Renzi. E comunque bisogna pensare a qualcosa di nuovo”.

In che senso?

“Stando chiusi a casa siamo bombardati da notizie, ma questo ci consente anche di fermarsi e riflettere. Bisogna vedere la pandemia come un’occasione per ripensare il sistema e capire dove si è sbagliato. Ma se ancora si parla del Ponte sullo Stretto di Messina…”.

È contrario al Ponte?

“Certo, prima del Ponte serve molto altro soprattutto alla Sicilia, una terra ancora sofferente”.

Ecco, ma allora dove si è sbagliato in passato?

“I tagli che abbiamo fatto per anni alla scuola, all’università, alla ricerca e alla sanità ci hanno poi penalizzato nel momento del bisogno e si sono dimostrati folli. Ora, per esempio, si comincia a parlare di autonomia nella produzione di vaccini… ma mi viene una domanda: perché solo adesso? Potevano pensarci prima…”.

Così come forse l’Europa poteva muoversi prima sui vaccini… non crede?

“Sì, ci sono stati interessi contrapposti e credo sia mancata esperienza da parte di chi si è seduto a trattare con le case farmaceutiche. Ma questo non deve assolutamente farci credere che l’Europa non sia importante. Anzi c’è bisogno di una direzione centralizzata che dia una linea uguale per tutti”.

Una linea uguale che non sembra abbiano le regioni…

“Esatto. Vanno un po’ tutte in ordine sparso ed è assurdo. Sulla vaccinazione serve un piano unitario”.

Ma lei si vaccinerà?

“Certo, credo fortemente nella scienza. Ho 75 anni e ho aspettato il mio turno. Ho avuto già la possibilità di prenotarmi qui a Roma e mi hanno dato appuntamento il 21 aprile per la prima dose. Così presto potremo tornare ad abbracciarci”.

E ad andare a teatro… è giusto che siano stati chiusi per così tanto tempo?

“Non credo sia stato giusto. I teatri e i cinema sono luoghi sicuri dove è possibile rispettare delle regole precise ed è facile evitare assembramenti. E poi non ci dimentichiamo che si sono migliaia di persone che vivono grazie al mondo dello spettacolo e che meritano rispetto. Come si fa poi a parlare di streaming rispetto al teatro...”.

Non sono compatibili?

“Non scherziamo. Hanno tempi diversi… a casa è tutto rallentato, ci si annoia”.

Della nuova generazione di attori chi le piace di più?

“Ci sono molti talenti che hanno imparato la lezione dei grandi attori degli anni ’60. Penso a Elio Germano, Favino, Giallini… solo per citarne alcuni. Ecco, quello che si fa nel mondo dello spettacolo, non si riesce a fare in politica".

Perché?

"Manca la cultura e la cultura si educa con le scuole di formazione. C'è poca attenzione nei confronti dei giovani e non dobbiamo scandalizzarci se molti di loro vanno all’estero anziché restare in Italia”.

In chiusura, lei ha fatto coming out nel 1995. Rispetto ad allora è più semplice dichiarare la propria omosessualità?

“Sicuramente, ma bisogna ancora lavorare molto. La legge sulle unioni civili è stato un primo passo, ma ancora molti omosessuali vengono insultati mentre passeggiano. C’è bisogno di una legge contro l’omofobia, una contro il femminicidio e perché no, una sullo Ius soli. Credo sia arrivato il momento…”.

·        Liana Orfei.

Antonio Gnoli per “Robinson – la Repubblica” il 2 settembre 2021. In una giornata di caldo che abbioccherebbe anche i leoni vado a trovare Liana Orfei. Vive a Roma in una bella casa borghese dove non vedo particolari testimonianze circensi. E lei dal circo proviene. Lì è nata ed è cresciuta. Poi ha fatto tante altre cose: cinema, teatro, televisione. Ma il circo è stata la lingua appresa naturalmente, la radice che nei momenti difficili le ha consentito di sapere chi era: «Negli intervalli, a volte lunghi, in cui ero impegnata a girare qualche film, era importante sapere che il circo c'era, che i fratelli c'erano, che gli odori che avevo imparato a riconoscere continuavano ad esistere. Il circo è come una patria che non si dimentica».  

Il nome Liana come è venuto fuori?

«Mio padre aveva visto un film di Tarzan e quando fu il momento di battezzarmi lui disse al prete che voleva chiamarmi "Liana". Il prete disse ma che nome è? Il calendario non ha nessuna santa Liana, come faccio a battezzarla? Mio padre rispose non importa, lei la battezzi come Orfei poi al nome ci penso io».

Suo padre era nel circo?

«Si chiamava Paride e c'erano suo fratello Riccardo, padre di Moira, che morì giovanissimo e poi Riccardo, Irma e Orlando. La generazione precedente alla mia. Erano tutti nel circo».

Quando è nato il circo Orfei?

«Mio nonno sosteneva che il circo fosse nato in pieno Ottocento, da una coppia di sposi piuttosto singolare. Lui era uno spretato e lei una zingara. Lui si innamorò e si lasciò la tonaca alle spalle. Siccome suonava l'organo cominciò a fare qualche concerto nei teatri di provincia. Ma la chiesa perseguitò questi mie avi. Considerava indecente e blasfemo il loro rapporto. Perciò gli fu vietato di fare spettacoli al chiuso». 

E a quel punto?

«Non si persero d'animo e inventarono un teatrino ambulante con tanto di tendone e di animali e qualche numero ginnico. Tutto ebbe inizio da una scomunica!». 

Perché gli Orfei sono diventati così famosi?

«Perché eravamo bravi, fantasiosi e fedeli all'idea che il circo venisse prima di tutti noi. Se difendevi il circo difendevi te stesso. E la famiglia. Il che non ha impedito litigi e rotture. Ma questo fa parte della natura umana».

Quando dice rotture pensa a qualcuna in particolare?

«Penso soprattutto all'anno in cui i miei due fratelli si divisero. Era il 1976, oltretutto si veniva da una tournee pazzesca, un kolossal che avevamo chiamato "Il circo delle amazzoni", perché l'idea era di affidare soprattutto alle donne i ruoli principali». 

Cosa non funzionò?

«La causa che scatenò il dissidio tra Nando, il fratello più grande, e Rinaldo, il più piccolo di noi tre, non la conosco. Lo scontro, al di là di questioni personali, fu sulla diversa prospettiva da dare al circo. Riccardo se ne andò in America Latina, riscuotendo tra l'altro un successo clamoroso, e Nando restò in Europa». 

E lei in tutto questo?

«Non volevo prendere le parti di uno o dell'altro. È vero che io ero intrinseca alla famiglia, ma avevo da tempo iniziato a fare cinema e con un certo successo. Mi ritagliai anch' io uno spazio personale. Però soffrivo per quello scontro in atto. La situazione per me precipitò quando decisi di andare all'inaugurazione del nuovo circo che Nando e Anita avevano allestito. Per quel debutto vennero le maggiori famiglie circensi di Europa, le personalità più importanti del mondo dello spettacolo e della politica». 

Cosa accadde?

«Fui trattata peggio di un'estranea. Come se nello sguardo di mio fratello e di sua moglie leggessi disapprovazione e rancore. Come se dicessero non ti vogliamo, perché sei venuta? L'ostilità credo dipendesse dal fatto che non mi ero schierata con il fratello maggiore. Ma se per questo neppure con il più piccolo. Caddi in una forte depressione che durò alcuni mesi».

Accennava al cinema e al successo che le ha arriso.

«Fu tutto molto casuale. All'inizio mi contattò un signore il quale mi disse che un grande regista voleva conoscermi. All'inizio lasciai perdere. Ma lui insisteva con bigliettini e mazzi di fiori. Alla fine, esasperata, gli chiesi ma chi è questo regista? Si chiama Federico Fellini mi risposte. Sapevo della sua passione per il circo, era venuto anche a un nostro spettacolo e quindi incuriosita andai all'appuntamento negli studi di Cinecittà». 

Era un provino o cosa?

«Credo fosse proprio un provino. Federico mi squadrò da cima a fondo e lo vedevo dubbioso. Si avvicinava, si allontanava. Si sedeva e poi guardava Pippo Fortini, quello che mi aveva portato, scuotendo il capo. Alla fine, quasi a malincuore, mi disse che non andavo bene, che la mia faccia era troppo pulita per la parte che aveva in mente».

Ci restò male?

«Rimasi delusa, in fondo uno dei più grandi registi al mondo ti convoca e poi ti dice scusi, mi sono sbagliato. Però le cose stranamente si erano messe in moto. Ma vorrei anche dire a proposito della delusione che non mi sentivo respinta. Non ho mai pensato di essere bella, soprattutto da giovane: con questa faccia larga e gli occhi piccoli, mai avrei pensato di fare cinema. No, decisamente non mi sentivo bella, come poteva esserla mia cugina Moira. Però avevo la sicurezza dell'insicurezza».

Cosa vuol dire?

«Aver rischiato di morire a quattro anni, e dopo la malattia trascorrere un lungo periodo praticamente immobile nel letto, mi ha forgiato. Mi ha dato la forza di lottare. Lottare per il trapezio, per girare film con registi importanti, per parlare le lingue che non conoscevo. E quindi anche il rifiuto di Fellini fu la "sicurezza dell'insicurezza", cioè la presa d'atto che da quel no poteva nascere qualcosa di nuovo». 

Se non ricordo male Fellini prese suo fratello Nando.

«Gli affidò una parte in Amarcord, interpretava il "Patacca"». 

A Roma "patacca" è uno poco affidabile.

«E un po' Nando lo era, ma questo era anche il suo bello».

Quindi si chiuse la porta di Fellini e cosa si aprì?

«Il classico portone. Fu lo stesso Fortini che mi telefonò un paio di settimane dopo: è andata male col maestro, ma c'è un contratto pronto per una coproduzione italo-francese, un film leggero per la regia di Mario Mattoli, il titolo Guardatele ma non toccatele. Fu il mio esordio». 

Chi erano gli altri attori e attrici?

«Lauretta Masiero, Gloria Paul, Johnny Dorelli, Vianello e Tognazzi. Durante la scena di un bacio Tognazzi, che ci provava con tutte, mi infilò la lingua in bocca. Scandalizzata gli mollai un ceffone, con tutta la troupe che non sapeva se ridere o temere il peggio. Ugo, col quale saremmo diventati molto amici, si scusò dicendo che quella linguaccia gli era proprio scappata. Il film ebbe enorme successo e aprì un genere».

Tra le disavventure lei racconta nel suo "Romanzo di vita vera" un episodio che la vide coinvolta con Luchino Visconti.

«Accadde a Genova, la sera dopo la premiazione della Caravella d'Oro che fu assegnata a me a Rina Morelli, Paolo Stoppa e a Visconti. Seguì una cena, in cui tutti noi premiati fummo messi allo stesso tavolo. Luchino mi era accanto. E continuava a sbirciare nella mia scollatura. Per il resto fu impeccabile, pieno di attenzioni, charmant come poteva essere un aristocratico come lui. Alla fine, mentre ci stavamo congedando, mi propose una passeggiata». 

E lei accettò?

«Ma sì, era una notte bellissima. Ma a un certo punto decisi di rientrare in albergo e provai a salutare Luchino, il quale mi afferrò la mano tirandomi verso di lui. Anni di esercizio al trapezio mi avevano dato forza sufficiente per divincolarmi. Ero stupita e scappai verso l'albergo e lui dietro a inseguirmi. Riuscii ad arrivare nella mia stanza. E dopo un po', ancora leggermente sconvolta, mi affacciai alla finestra. Era lì sotto. Mi vide e cominciò ad arrampicarsi su un glicine che arrivava proprio sotto la finestra. A quel punto temendo il peggio mi rifugiai nella stanza di Lina Morelli». 

Immagino restò sorpresa.

«Sì le raccontai tutto, lei era molto amica di Luchino. E allora io le dissi: ma scusa al maestro non piacciono gli uomini? Sì, ma non sopporta che qualcuno o qualcuna gli possa dire no. E poi scoppiò in una risata».

Tra i grandi che ha conosciuto e con cui ha lavorato figurano Orson Welles ed Eduardo De Filippo.

«Con Welles lavorai nel film I tartari. Fisicamente imponente, era scortese e scontento di tutto. Una delle poche persone del set che lo incuriosivano ero io, per i miei trascorsi al circo. Ricordo la costante presenza della moglie, Paola Mori, cui affidava un paio di bottiglie di whiskey che a fine serata si scolava. Non ho mai visto ubriaco quel bestione con la voce di velluto. E penso che fosse un genio, come lo è stato il grande Eduardo». 

Con De Filippo come andò?

«Aveva scritto un testo teatrale per Domenico Modugno, reduce da un grande successo con Rinaldo in campo. Fu De Filippo a volermi. Io gli dissi che non parlavo napoletano e lui mi rispose: se le piace la parte al resto ci penso io. Mi affidai a lui. Ma quando fummo in prossimità del debutto persi la voce. E ciò significò rimandare il tutto. Lo spettacolo, nonostante i nomi, iniziò nel modo peggiore e non ebbe il successo che ci si aspettava». 

Perché?

«Credo che Eduardo avesse scritto un testo bellissimo, intenso, profondo, ma inadatto per il teatro Sistina. Modugno gli chiese di accorciarlo, di renderlo più leggero. E De Filippo si rifiutò dicendogli: per quello che lei ha in mente non doveva venire da me. Litigarono. Lo spettacolo fu interrotto e quando qualche tempo dopo Modugno volle riprenderlo senza Eduardo, continuò a non incontrare il gusto del pubblico». 

Qualcosa di più generale e profondo è accaduto anche con il circo.

«Se si riferisce alla sua decadenza sì, ormai il pubblico va altrove. Noi Orfei facemmo il grande circo a tema, quasi trent' anni prima del Cirque du Soleil. Ma i costi di quella meravigliosa avventura furono insostenibili. Per fare circo occorre la passione di chi lo fa e molto denaro. Collaborai fin dagli esordi con il circo di Montecarlo. Lì la competenza e il valore degli artisti si unì alla passione del principe Ranieri e di sua moglie Grace. Che ho conosciuto a una cena e fu incuriosita da un anello che avevo al dito».

Cosa aveva di speciale?

«Era semplicissimo: un minuscolo sasso con incisi due piccoli cavalli circensi. Gliene feci dono con grande scandalo, sia perché eravamo a un pranzo ufficiale e anche per il motivo che i doni ai regnanti devono seguire un protocollo. A lei piacque e in fondo era come tornare alla semplicità delle sue radici americane. Quando morì nel terribile incidente del settembre del 1982 tutti la piansero. E fu in un certo senso come una prova generale dell'altra grande tragedia che avrebbe coinvolto quindici anni dopo la principessa Diana». 

Una morte mediatica.

«Ma non per questo meno dolorosa. Io so cosa vuol dire il dolore. Sono rimasta l'unica dei fratelli Orfei. Non ci sono più Nando e Rinaldo e mi dico per quanto ancora? Ho Cristina, mia figlia, una nipote che adoro, mio marito Paolo. A volte penso che diversamente dai miei fratelli ho "tradito" il circo per fare altro. Ma è la mia natura. È l'irrequietezza che mi ha condotto tra alti e bassi a fare della vita la mia vita».

"Diedi un ceffone a Tognazzi per quel suo bacio troppo osé". Non solo "signora del circo" ma anche attrice. Fu scoperta da Fellini e ha lavorato con Eduardo e Totò. Nino Materi - Mar, 02/03/2021 - su Il Giornale. Per Liana Orfei lo spettacolo più bello del mondo non smette mai di scendere in pista. Quell'arena del circo, dall'inconfondibile odore di sabbia e segatura mista all'afrore selvaggio dei leoni e al sudore ardimentoso dei trapezisti. The show must go on! Così, da 84 anni: l'età di Liana, donna senza tempo, sempre ammantata di fascino e bellezza. Ogni giorno una replica. Avvolta dall'eco degli applausi del pubblico. Non meno forte, anche adesso che la standing ovation è solo un ologramma di ricordi. Lei, la «regina del circo»; una corona che però tiene a condividere con la propria gente: «Un mondo meravigliosamente spettacolare in cui tutti sono re e regina». Ma circoscrivere l'esistenza di Liana Orfei nel perimetro del tendone circense sarebbe un errore. La sua carriera ha spaziato infatti dai set del cinema alle tavole del teatro passando per la tv, sempre senza «reti di protezione»: pericolo che non poteva spaventare una ragazza con nelle vene sangue da funambola volante. Ha girato il mondo freneticamente. Una trottola. Però senza mai perdere la testa. Mostrando coraggio da tigre, abituata com'era a stare in gabbia tra ruggiti ancestrali. Ma Liana da quei recinti di ferro ha sempre saputo - e voluto - evadere, affrontando nuove sfide umane e professionali. Sogni realizzati. Coerente coi suoi principi. Ma con la determinazione di chi ha la forza di allargare le sbarre, per passarci dentro. Costi quel che costi. Una vita di successi, resi forse ancora più belli dall'eredità di momenti duri, tristi, drammatici.

Liana ha sofferto la fame, è stata povera; poi ha conosciuto la ricchezza, lo sfarzo; è nata in un carro, ha abitato in regge. La ruota gira. Perché la vita (di tutti) è un circo con mille luci, che però possono spegnersi d'improvviso. E allora ti tocca sfidare il buio della notte confidando nei bagliori dell'alba. E forse non è un caso che la mamma di Liana si chiamasse proprio Alba. Il tutto racchiuso in un libro di memorie, Romanzo di vita vera (Ed. Baldini+Castoldi) che Liana Orfei ha scritto con la delicatezza di una lady d'altri tempi e l'incisività di una giovane influencer. Ricordi sì, ma che profumano di futuro.

Un'esistenza da fiaba cominciata con un incubo.

«È vero. Dai 4 ai 7 anni inchiodata al letto per una polmonite, curata erroneamente per tifo. Mi salvò un medico, si chiamava Fortunato».

Nome di buon augurio.

«E infatti mi strappò alla morte che in ospedale avevano già decretato. Riuscì a procurarsi una medicina rara e costosa che si chiamava Streptosil. E così guarii».

Un miracolo.

«Fu quello che disse mia madre, ringraziando Sant'Antonio. Ma suscitando la vivace reazione del dottor Fortunato...».

Cioè?

«Il dottore era ateo e quindi reagì: Ma quale grazia di Sant'Antonio, il merito è mio!».

Papà Paride e mamma Alba. La storia d'amore dei suoi genitori è romantica e travagliata come quella tra Renzo e Lucia ne «I Promessi Sposi».

«Con tanto di parroco alla don Abbondio, ma al contrario...».

«Al contrario»?

«Sì, perché lui fece in modo di favorire il matrimonio tra mamma e papà, non visto di buon occhio dalla famiglia di mia madre».

E perché?

«Mamma aveva origini nobili, mentre papà era un saltimbanco con un circo composto da un solo animale: il babbuino Toto».

Come si conobbero papà Paride e mamma Alba?

«Lui si esibiva in paese e mamma andò a vedere lo spettacolo. Fu amore a prima vista. Scapparono insieme. Il parroco convinse i genitori di mamma che nulla di male era stato commesso e così la coppia convolò a nozze. Una storia alla Romeo e Giulietta da cui nacquero tre figli, e chissà quanti ne sarebbero nati ancora se papà non fosse morto a 46 anni, lasciando mia madre vedova a soli 38».

Come ha fatto Liana e i suoi fratelli (Nando e Rinaldo) a trasformare il micro-circo di papà Paride in uno dei circhi più famosi e ammirati al mondo?

«Il segreto è stato la passione per il nostro lavoro. E la devozione verso il pubblico».

Lei e sua cugina Moira avete rappresentato per il circo un po' quello che Coppi e Bartali sono stati per il ciclismo. C'è mai stata rivalità tra voi?

«No, eravamo diverse. Moira è diventata meritatamente un'icona del circo perché il circo ha rappresentato per lei un impegno quasi totalizzante. A un certo punto le nostre strade si sono divise. Io ho avuto un percorso più diversificato tra cinema, teatro e televisione. Con Moira ci eravamo riavvicinate negli ultimi anni. E la sua morte ha lasciato un gran vuoto».

Ci fu un'epoca in cui il Circo Orfei era una città viaggiante.

«Negli anni '70 avevamo un tendone a tre piste, centinaia di animali, i migliori artisti del mondo lavoravano per noi. Giravamo il pianeta in lungo e in largo. E ovunque il successo era strepitoso».

Poi per il mondo circense cominciò un lento declino. Sempre più inesorabile. Ora dal Covid è arrivato il definitivo colpo mortale?

«Non sono d'accordo. Il circo non morirà mai e sopravviverà anche al Coronavirus. E sa perché?».

No.

«Il professor Mario Verdone (il padre di Carlo, ndr) sosteneva che il circo, in quanto espressione di spettacolo, è parte integrante del ciclo naturale dell'esistenza. I nostri antenati preistorici, riunendosi attorno al fuoco, dettero vita al primo circo dell'umanità».

In questo periodo di contagio i circhi non possono più lavorare. Chi sfama e si prende cura degli animali?

«Gli unici aiuti arrivano dalla gente comune e dalla Caritas. Dallo Stato italiano nessun ristoro».

Lei nell'immaginario è un'icona del circo, ma sui set ha lavorato con grandissimi attori e registi. Passiamoli in rassegna. Cominciamo da Marcello Mastroianni.

«Con lui ho girato la scena del bacio più lungo nella storia del cinema italiano. Quella storia fece scalpore. Anche a causa di una battuta che venne fraintesa».

Ci racconti.

«Marcello era considerato un sex symbol. Dopo quel bacio i giornalisti cominciarono a tempestarmi di domande: Ma cosa ha provato?, Ma come bacia Mastroianni?, È stato emozionante? e via con banalità di questo tipo. Al che io, infastidita, me ne uscii con una frase che scatenò il finimondo».

Quale frase?

«Baciare Mastroianni è stato come baciare un manifesto. Volevo dire che per un attore baciare sulla scena un collega è un fatto di routine e non comporta necessariamente un coinvolgimento emotivo. Il senso era chiaro, ma la frase fece comunque scalpore».

Più o meno come lo schiaffone che rifilò a Ugo Tognazzi, sempre per «colpa» di un bacio.

«Quella fu una vicenda tragicomica. Tognazzi sul set doveva darmi un bacio cinematografico. Ma, da latin lover impenitente qual era, si fece prendere dalla passione e andò un po' troppo in profondità. Allora io reagii con una sonora sberla. Ugo, regista e troupe rimasero per un lunghi secondi in attonito silenzio, poi scoppiammo tutti a ridere».

Un bacio ci scappò anche con Renzo Arbore.

«Interpretavamo il ruolo di due innamorati per un fotoromanzo. A un certo punto la sceneggiatura del fumetto prevedeva un bacio finto. Lui si avvicinò a me e, molto timidamente, mi chiese: Cos'è un bacio finto? Io conosco solo i baci veri».

Ma è vero che Luchino Visconti una sera perse la testa per lei e si arrampicò sul balcone della sua camera da letto?

«Ero appena stata premiata con La Caravella d'oro e durante la cena di gala Visconti, uomo di grande fascino, mi aveva ricoperto di complimenti culminati in un abbraccio focoso con annesso tentativo di bacio. A quel punto lo spinsi con forza - da ex trapezista avevo delle braccia decisamente allenate - e mi rifugiai in camera».

Visconti si rassegnò al «due di picche»?

«Macché. Ancora agitata per quanto appena accaduto, aprii la porta del balcone. Era una sera meravigliosa con una luna enorme e un profumo di glicine nell'aria. Improvvisamente sento degli strani rumori e riconosco Visconti che si sta arrampicando sull'inferriata del mio balcone. Gli chiusi la finestra in faccia e scappai nella camera di una attrice mia amica dove trascorsi la notte. Luchino non l'ho più visto ma quell'episodio non l'ho mai dimenticato».

Il regista che ha segnato maggiormente la sua vita artistica è uno solo: Federico Fellini.

«Federico è stato un punto fermo non solo per la mia esperienza cinematografica, ma un maestro di vita. Era intimo amico di tutta la famiglia Orfei e con Giulietta Masina veniva a mangiare i tortellini fatti da mia nonna. Era anche lui amante del circo, evocato in molti dei suoi capolavori, e questo ha contribuito a tenerci sempre affettuosamente uniti».

Ma Alberto Sordi era davvero tirchio? Si narra di un bellissimo mazzo di rose che l'attore le fece pervenire, mettendolo però in conto alla produzione del film nel quale stavate lavorando insieme.

«Alberto era un uomo di cuore e generosità. A Montecarlo sono stata testimone di un episodio commuovente: c'era un bambino malato che necessitava di una costosa operazione negli Stati Uniti. I genitori non potevano economicamente permettersela. Intervenne Alberto e pagò tutto lui, imponendo che non fosse data nessuna pubblicità al suo gesto. Tutti sanno che non è stato l'unico atto di questo tipo».

E di Totò cosa ci dice?

«Ho conosciuto tanti veri nobili, ma mai un principe della signorilità come lui. Mi chiedeva sempre dei clown, era convinto che nel loro privato fossero persone profondamente tristi. Forse proiettava in loro un suo stato d'animo malinconico, come del resto ben dimostra la sua celebre poesia dedicata proprio ai clown».

Altro monumento: Eduardo De Filippo.

«Un genio. Mi insegnò a cantare in napoletano e non volle che fossi sostituita neppure quando mi ammalai gravemente alle corde vocali. Aspettò che guarissi, nonostante Domenico Modugno che era il produttore dello spettacolo insistesse per la mia sostituzione».

L'addio al cinema l'ha fatta soffrire?

«Ho ricevuto enormi soddisfazioni. Ma la più grande è stata quella di avere ottenuto consensi senza mai scendere a patti con la coscienza. Quando hanno cominciato a offrirmi parti inadeguate mi sono ritirata dalle scene per crescere mia figlia e non tradire il pubblico di bambini che al circo mi vedevano come una specie di fatina».

Lei nel corso degli ultimi 80 anni ha visto cambiare 4 papi ed è stata testimone di sconvolgimenti epocali che sono già nei libri di storia.

«Sono stata la prima volta in Cina quando in un'intera giornata in giro per Pechino contai solo quatto automobili circolanti. Erano tutti in bici e vestiti uguali. Sembrava un paese cristallizzato nell'arretratezza. Ci sono tornata di recente e ho visto la megalopoli tecnologicamente più sviluppata al mondo. Un'evoluzione costata a caro prezzo, e pagata anche col sangue di tante persone schiacciate dai carri armati nel massacro di piazza di Tienanmen».

Anche lei, in Africa, se la vide brutta.

«Fui catturata da una tribù cannibale e mi salvai grazie a due pacchetti di sigarette. Ma questa è un'altra storia. Magari la scriverò nel prossimo libro».

Possibile titolo: The show must go on!

·        Licia Colò.

Roberta Scorranese per il "Corriere della Sera" il 3 novembre 2021.  

Licia Colò, è vero che lei voleva fare la pilota di elicotteri?

«Verissimo».

Però da anni la vediamo in televisione ad arrampicarsi sui pendii innevati o accanto alle iguane giganti delle Galapagos.

«La spiegazione è semplice. Sono nata nel 1962 e dopo la maturità, quando ho cercato di capire come prendere il brevetto, mi sono accorta che quel mondo allora era precluso alle donne. Sarei dovuta andare in America per farlo». 

Ma eravamo nel 1979, mica nel Medioevo.

«Eppure era così. E se devo dirla tutta io come donna mi sento discriminata ancora oggi».

Perché?

«Perché se io vado a fare un reportage in alta quota e, com' è comprensibile, appaio in video con i capelli scompigliati, puntualmente il giorno dopo mi arriva una pioggia di critiche. Nessuno però muove mai gli stessi rilievi, per dire, a Mario Tozzi». 

Cioè la vorrebbero con parrucchiere al seguito, anche in cima all'Himalaya?

«Diciamo che vedere una donna con i capelli in disordine è inusuale in una televisione come la nostra. Così avviene che se un collega spiega un fenomeno naturale ci si concentra sulle sue parole, altrimenti...».

Se invece è lei a raccontare l'origine dei ghiacciai che cosa dicono?

«Mi scrivono: "ma perché non si pettina"?». Pensi se davvero avesse fatto l'elicotterista. «Poi c'è un'altra cosa. Mi sono sentita più volte dire: "Ma alla tua età fai ancora televisione?". Bene, nessuno oserebbe dirlo a, poniamo, un Piero Angela. Doverosa precisazione: per me Angela è un maestro, mi sono ispirata tanto a lui e al suo modo di divulgare i temi della natura». 

C'è da dire che di donne divulgatrici televisive in Italia ce ne sono poche.

«Ci possiamo contare sulle dita di una mano». A ridosso di Natale riparte «Eden» su La7, a fine novembre la rivedremo con «Il mondo insieme» su Tv2000. Con «Il pianeta. Istruzioni per l'uso» (Solferino) ha appena vinto il Premio Internazionale di Letteratura Città di Como - Opera a tema.

«Mi è andata bene, dai». 

Ma, elicotteri a parte, lei voleva fare questo lavoro?

«Di certo non lo immaginavo quando, a sei anni, mi trasferii con la mia famiglia da Verona a Casal Palocco, nell'Agro Romano. Seguivamo papà, che era un pilota dell'Aeronautica e adesso non mi faccia parlare della vicenda Alitalia, ché mi si spezza il cuore». 

Lei ha studiato psicologia, vero?

«Ma non mi sono mai laureata. La verità è che avevo cominciato a mantenermi facendo la segretaria in un centro sportivo ma poi venni licenziata: mi ero rifiutata di lavorare a tempo pieno. Un amico mi disse: perché non fai la modella? E così andai a Milano». 

Gli anni Ottanta. La televisione privata stava nascendo allora.

«Feci un provino ad Antenna Nord. Mi raccomandarono di sistemarmi i capelli».

Be' ma allora è un destino!

«Ma io non mi truccavo, mettevo i jeans, non ero una vampona da televisione. Poi avevo fatto volontariato nelle associazioni ambientaliste, ero già una militante all'epoca». 

Però lei non è vegetariana.

«No, ma mica bisogna esserlo per forza. Diciamo che preferisco mostrare gli orrori che avvengono in certi allevamenti intensivi». 

Di lei si dice che è intransigente nella scelta degli interlocutori in trasmissione.

«Se c'è una cosa che non sopporto è il chiacchiericcio su temi importanti. Che senso ha, per esempio, fare una trasmissione dividendo i cosiddetti opinionisti tra vegani e carnivori? Meglio intervistare un esperto come lo era Umberto Veronesi, per dire».

Tornando alla tv anni Ottanta, lei è stata tra le prime conduttrici del mitico «Bim Bum Bam».

«Una vita fa. Ma che bella che era quella televisione così libera, creativa. Avevamo la sensazione di dover inventare ancora tutto». 

Poi ha affiancato Maurizio Costanzo a «Buona Domenica».

«Maurizio è una delle persone a cui devo di più. Mi ha insegnato a fare televisione, mentre da Alberto Castagna ho imparato un'altra cosa: ascoltare. Lui ascoltava davvero le persone, si interessava ai loro problemi non per posa ma per sincera empatia».

Nel 1989 arriva la sua prima trasmissione dedicata alla natura, «L'arca di Noè». Da allora la sua strada è stata segnata.

«Tutto è stato molto naturale, ho solo ascoltato quello che sono. Non nascondo che a volte partire e tornare dopo settimane, a volte mesi, è stato complicato». 

In un'intervista al «Corriere della Sera» Nicola Pietrangeli di recente ha detto: «Non ho ancora capito perché con Licia sia finita». Glielo riveliamo adesso, qui?

«Ma che paroloni. Cercava una frase a effetto. Semplicemente gli amori finiscono. Nicola per me è stato una figura straordinaria, tutti notavano la differenza d'età (quasi trent' anni, ndr ) tranne me. Non è stata quella la causa della rottura. O forse sì, chissà. Di certo quello non era un problema quando stavamo insieme». 

Licia, lei sembra uscita da un trattato di filosofie orientali. Sorridente, chiara nel pronunciare le parole, spettinata ma con grazia.

«Eh, ma pure io ho avuto momenti neri».

Racconti.

«Non l'ho mai detto pubblicamente ma io ho avuto un cancro alla tiroide».

Adesso come sta?

«Bene. L'ho scoperto, mi sono preoccupata, mi sono curata, mi controllo costantemente. Cerco di prendere così le cose, perché farne un caso nazionale?». 

In fondo, lei è abituata a trattare con tigri e rinoceronti...

«Be', c'è stata una volta in cui mi sono spaventata davvero».

Nella giungla?

«No, in Sardegna». 

E che mai ci potrà essere in Sardegna da spaventare una che nuota con le balene?

«Ero lì per lavoro in un piccolo paese. Cammino per strada e vedo un cane chiuso in un'auto, al sole con quaranta gradi. Entro in un bar vicino e chiedo "di chi è quella macchina?". Un energumeno mi viene davanti e comincia a insultarmi pesantemente. "Fatti i fatti tuoi" è la frase più gentile. Minaccia. Sudo, ma non mollo.

Gentilmente lo invito ad avvicinarsi alla macchina, volevo constatare che il finestrino fosse davvero aperto come lui diceva. In effetti, lo era. Ficco la testa nell'auto, lui fa la stessa cosa dall'altra parte. Ci ritroviamo quasi muso contro muso, io non arretro di un millimetro. Solo molti giorni dopo mi sono resa conto che poteva finire male, molto male». 

Ha rischiato le botte per salvare un cane.

«Be', coerente, no?»

Senza mai perdere la calma.

«Non l'ho persa nemmeno quando ho scoperto, in tarda età, di avere una sorella». 

Figlia di suo padre fuori dal matrimonio?

«Sì, ma maggiore di me. Papà non ha mai tradito mamma».

Vi frequentate?

«Da poco. Non è facile intavolare dei rapporti con un familiare "ritrovato"».

La sua vita sembra una telenovela senza enfasi.

«Una volta a "Buona Domenica" avevamo come ospite Sean Connery. Tensione in studio, la solita frenesia che precede la messa in onda. Ad un certo punto saltò l'impianto elettrico. Panico per tutti, tranne che per Connery. Chiese solo una sedia e un caffè. Pace. Per me fu una lezione di vita, non soltanto di televisione». 

Perché ha chiamato sua figlia Liala, come la scrittrice?

«Io e Alessandro (Antonino, il marito di Colò, ndr ) volevamo chiamarla Andrea ma poi ci spiegarono che per battezzarla avremmo dovuto ripiegare su Andreina. No, grazie. Così abbiamo unito le iniziali dei nostri nomi e la "a" finale sta per always . In questo modo lei sarà sempre figlia di entrambi, comunque andranno le cose tra noi due». 

Adesso Liala ha sedici anni.

«E non mi stanco mai di ricordarle che per lei tutto sarà più difficile di quanto lo sia stato per me. Mi spiego. Questa generazione è molto più competitiva. Ai ragazzi si richiede moltissimo: competenze, saperi, elasticità mentale. Non c'è paragone con l'adolescenza dei loro genitori. Qualche volta mi chiedo come facciano a reggere tanta fatica». 

Liala (la scrittrice) ebbe una relazione con un pilota dell'Aeronautica. Anche qui qualcosa torna pensando alla sua vita e a suo padre.

«Infatti quando la nascita di mia figlia venne resa pubblica ricevetti una bellissima lettera della figlia di Liala. Scoprii che la scrittrice era stata una donna fortissima, indipendente, coraggiosa. Mi sembrò un ottimo auspicio». 

Licia, perché abbiamo impiegato anni per capire che il riscaldamento climatico è un problema serio?

«Perché viviamo poco. Rimaniamo sulla Terra lo spazio di una vita troppo breve per preoccuparci seriamente del futuro. Se lei ci pensa, cento anni sono nulla rispetto ai tempi dell'universo. Se campassimo trecento anni ci preoccuperemmo eccome». 

Lei pensa che qualcosa si stia muovendo?

«Sì, ma ancora si dà troppo poco peso mediatico a certe cose. Penso agli incendi in Australia o alla mattanza dei canguri. Lei lo sa che l'Italia è tra i principali importatori di pelli di canguro, che vengono usate per abbigliamento sportivo e di lusso? Se ne parla ancora troppo poco». 

E pensare che la gente guarda i suoi capelli.

«Ma io vado avanti. Come sempre». 

·        Lillo (Pasquale Petrolo) & Greg (Claudio Gregori).

Giusi Fasano per il “Corriere della Sera” il 17 agosto 2021. Da «Fiore Calabro» a «Lol: chi ride è fuori». Suona e canta. È un comico ma anche conduttore in radio e in televisione. Lillo Petrolo compie 59 anni fra dieci giorni. 

Quanti ne aveva quell'estate che si innamorò perdutamente?

«Ne avrò avuto 16-17. Ero molto timido e mi piaceva questa ragazzina della mia stessa età che ora non ricordo neanche più come si chiamasse, forse Alessandra. Non era fidanzata ma vedevo che usciva con quelli di 19-20 anni. Ne ero molto rapito».

Farsi avanti no?

«Figurarsi se avevo il coraggio... La osservavo a distanza. Ci conoscevamo da anni ma quell'anno lì lei era fiorita, come fanno a un certo punto le ragazze. E invece io, come i maschi a quell'età, ero ancora un bambinone». 

Ho capito: non se n'è fatto niente.

«Diciamo che non è andata come avrei voluto. Ma mi sono molto impegnato. Avevo perfino studiato un piano per conquistarla». 

Un piano?

«Ho visto che era molto presa da un ragazzo che suonava la chitarra durante una festicciola con falò in spiaggia. Allora mi sono detto: mi metto a suonare la chitarra anch'io».

Ma ci vuole tanto tempo per imparare!

«Dettagli. Io pensavo al risultato... Avevo un amichetto che sapeva suonare bene e l'ho costretto a darmi lezioni tutte le mattine. Gli altri al mare e noi lì a provare accordi minimi tipo il giro di do e poco altro. Mi sono messo così d'impegno che alla fine un po' di cose le ho imparate. Ricordo che ho studiato a memoria note e testi di un pezzo degli America che andava per la maggiore». 

Scommetto: era «A Horse with no name».

«Proprio quella. Avevo imparato tutto per lei. Ho pensato: al prossimo falò è fatta». 

Non mi dica che non ci fu nessun altro falò.

«Peggio. Il falò ci fu eccome, e io cantai e suonai benissimo».

E allora che cosa andò storto?

«Andò storto che lei, rapita dalla musica e dall'atmosfera di quel momento, si baciò con un altro mentre io suonavo». 

No! Che boccone amaro.

«Avevo studiato per un mese per fare da sottofondo musicale a lei nelle braccia di lui... Li ho pure aiutati... La vita è ingiusta. Quella scena era la peggiore che potesse capitarmi».

Non avrà rotto la chitarra per la rabbia?

«Ma no! Però l'ho riportata a casa e non l'ho più voluta vedere per un paio d'anni». 

La buona notizia è che grazie a quell'occasione ha iniziato a studiare da chitarrista, altrimenti non avremmo mai avuto il rock demenziale della band «Latte & i suoi derivati».

«Questo è vero, se oggi suono la chitarra è grazie a quella volta lì». 

Ma si è poi dichiarato con lei?

«Timido com'ero e dopo quel che successe... figurarsi se mi dichiaro». 

E l'amico che le insegnò a suonare?

«Non ha mai saputo perché avessi insistito tanto per imparare, e ovviamente anche a lui non ho mai raccontato di come andò sulla spiaggia. Era stupefatto. Mi ha chiesto un sacco di volte: ma come? adesso che hai imparato un pochino molli così? Io non ti capisco. E io pensavo: lascia fare, so io perché mollo...». 

Quindi quell'insuccesso è stato un percorso in solitaria dall'inizio alla fine.

«Sì, non ho detto niente neanche agli amici più cari perché mi vergognavo. Mi avrebbero preso in giro. Me li immaginavo mentre ridevano e chiedevano: Lillo, vieni a suonare per me stasera? Sarei diventato uno zimbello, il reggimoccolo della compagnia...».

E la ragazza? L'ha più rivista?

«No, perché cambiò casa e non venne più dove andavo io d'estate. Adesso che ci ripenso: sì, si chiamava proprio Alessandra e ora è da qualche parte ignara di tutto. La mia storia d'amore con lei è stato un film che mi sono scritto, girato e guardato da solo». 

Oggi come la ricorda quell'estate?

«Con piacere, anche se allora ho sofferto come un cane. Quegli anni lì sono un periodo stupendo dell'adolescenza, visti da lontano svelano tutto il romanticismo che avevano, delusioni comprese».

Cambiamo argomento: «Lol: chi ride è fuori». Quanto vi siete divertiti, tutti?

«Molto. Ha funzionato perché aveva una base semplice, era divertente, appunto, leggero e senza pretese. Non c'era competizione e non c'era il comico che si esibiva per essere il più bravo. Era un gruppo di amici che si vedono e cazzeggiano fra loro. Si capiva, vero?». Sì, in effetti si capiva.

Arianna Finos per “la Repubblica” il 6 giugno 2021. «Pronto? So' Lillo». La telefonata arriva puntuale e strappa il sorriso. Perché quel saluto rilancia il tormentone della stagione, dopo il successo di LoL, coniato da Pasquale Petrolo in arte Lillo. «Gli ultimi sei mesi sono stati una montagna russa, ho accumulato tante esperienze, drammatiche ed esaltanti, che mi bastano per un decennio». Dalla terapia intensiva per Covid allo straordinario successo con il programma su Prime Video, dal concerto del Primo Maggio con annesse polemiche di Fedez al set da regista con il sodale Greg (Claudio Gregori). L'attore, 58 anni, è tra i protagonisti di Tutti per Uma, prodotto da Vision e disponibile su Sky, girato della debuttante Susy Laude che «ha avuto il merito di rilanciare un genere, la favola, che il nostro cinema non frequenta spesso. Si racconta di una famiglia di uomini lacerata dalla scomparsa della madre: nonni, zii, nipoti, persino il cane, tutti maschi. L'arrivo di una misteriosa, deliziosa ragazza li aiuterà a uscire dalle difficoltà e a dare il meglio». Un film per bambini che conta sulle citazioni comiche dell'affiatata coppia Lillo-Pietro Sermonti, «era proprio questo l'intento, proporre quel tipo di comicità immediata che da ragazzino mi faceva tanto ridere quando guardavo le comiche in tv il sabato mattina». L'attore si è scoperto molto amato dai più piccoli durante LoL, «una mamma mi ha raccontato che il figlio ha pianto quando sono stato eliminato. Quello dei bambini è un pubblico critico che non puoi ingannare. Ne sono orgoglioso, sono un immaturo e il bambino che sono stato me lo porto dietro». I tanti successi arrivati dopo la malattia alla fine del 2020 sono stati anche accompagnati da qualche polemica, «LoL è stato accusato di essere puerile, ma non lo accetto. L'idea era ricreare un'atmosfera simile a una cena tra amici, con leggerezza, a cui il pubblico prendeva parte. Più che le cose costruite facevano ridere quelle spontanee: una trombetta suonata vicino all'orecchio più che una battuta alla Woody Allen. Alcune frasi - "ho il metabolismo fortunato" - sono quelle che faccio in realtà con i miei amici. Abbiamo riportato un po' di risate in un momento triste per il paese». Lillo, con il suo approccio disarmante, è stato uno di quelli che ci è riuscito meglio. «Eppure da ragazzino non cercavo di far ridere gli amici, ero riflessivo, solitario. Giocavo con i soldatini, inventavo storie in cui dovevo salvare la principessa e siccome non avevo un pupazzetto femmina prendevo quello dell'oplita greco, che aveva il gonnellino. Quando mamma invitava i figli delle amiche per socializzare era un incubo». L'amore per la comicità è nato da spettatore, «leggevo, guardavo i film comici, sul palco sono finito per trasmettere ciò che piaceva a me». Lillo ha debuttato con Greg alla regia l'anno scorso, la commedia D.N.A. (Decisamente non adatti). Tra dieci giorni parte il nuovo set, stavolta a sei mani, con Eros Puglielli. «Non c'è ancora un titolo, uno in ballo è Gli idoli delle donne, vedremo. Affrontiamo il tema del rapporto tra sessi, il confronto tra la psicologia femminile e maschile. Sono luoghi ricchi di comicità estrema, fertile». Nei mesi scorsi Lillo ha raccontato come i 26 giorni di ospedale, la paura, la malattia abbiano cambiato per sempre la sua percezione della vita, i valori, l'idea di assaporare le piccole gioie quotidiane, «il caffè al mattino con mia moglie». Ma perfino in quella condizione ha vissuto un momento di comicità assurda: «Un infermiere, mio fan, mi aveva chiesto "prima che esci dall'ospedale facciamo una foto insieme”. Quando il primario, vedendomi peggiorato, mi ha detto che mi avrebbero trasferito in terapia intensiva, l'infermiere è rientrato e mi ha detto "facciamolo sto' scatto, perché magari non torni”. Ovviamente intendeva al reparto, ma quel cinismo involontario mi ha strappato una risata, perfino in quel momento».

Emilia Costantini per il “Corriere della Sera - Edizione Roma” il 6 giugno 2021. Lillo&Greg, coppia inossidabile. Martedì, ore 21, tornano in palcoscenico insieme, riavviando la stagione estiva della Cavea all'Auditorium Parco della Musica, nel ruolo di irresistibili frontman del Latte e i suoi Derivati. 

Che effetto fa riapparire in uno spettacolo dal vivo?

«Abbiamo sempre vissuto dal vivo, nasciamo dal vivo, è importante, emozionante esserci nuovamente e finalmente dal vivo», esordisce Lillo (Pasquale Petrolo). 

«Io di recente ho già assaporato tale emozione - interviene Greg (Claudio Gregori) - portando in scena Pierino e il lupo di Sergej Prokofiev, e devo dire che la mezza sala mi ha fatto uno strano effetto, un po' impressione... ovvio, ci si rende conto della situazione, quindi della necessità del contingentamento del pubblico, ma appena vedi pochi spettatori la prima cosa che ti salta in testa è che la sala non è piena per colpa tua, perché non hai le qualità giuste per attirare gente... E invece non è così, e mi sono rassicurato. Però - aggiunge - al distanziamento tra spettatore e spettatore, si aggiungono le mascherine che tolgono il piacere, per noi attori, di carpire la risatina che è ovattata... Insomma, avverti un po' di ghiaccio in platea».

La pandemia non è totalmente superata, ma pare si vada verso un periodo più sereno: come avete vissuto il periodo duro del lockdown?

«Io mi sono beccato pure il Covid - risponde Lillo - con tanto di tre giorni in terapia intensiva, a causa della polmonite bilaterale. Inoltre sono scomparse delle persone a me care, quindi non posso certo affermare di aver vissuto bene la questione, anche se per fortuna ne sono uscito bene».

Ribatte Greg: «Fortunatamente sono stato risparmiato dal virus, ma non mi sono fatto mancare il distacco della retina nel febbraio scorso, con una lunga convalescenza... e ora è tutto passato. Il mio approccio con la pandemia è stato molto fatalista. Non ho avuto paranoie particolari, anche perché le normali norme igieniche, lavarmi spesso le mani, utilizzare l'amuchina, le mettevo in pratica già prima del Covid… come esperienza mi mancava solo l'uso della mascherina, che ovviamente non mi era mai capitato di dover indossare. L'aspetto più triste è stato naturalmente i mesi di tournée annullate, tuttavia il confinamento sotto il profilo creativo è stato utile e fertile: ho composto musiche».

La vostra coppia esiste dal 1991, quasi un record. Qual è il segreto per andare d'accordo?

«È mantenere, sia pure nella condivisione delle scelte, la libertà artistica individuale - spiega Lillo -. In tutti questi anni di lavoro non abbiamo mai rinunciato alle nostre rispettive passioni, senza disturbare il rapporto di coppia. Perché se fosse il contrario, un po' di stanchezza l'avremmo provata, invece….». 

«Invece no - concorda Greg - Ci diverte molto fare progetti insieme, lasciandoci però ampio margine per i progetti individuali. L'anno prossimo, per esempio, ho intenzione di portare in scena Il calapranzi di Pinter, e lo farò per conto mio, perché so che a Lillo il teatro classico non interessa molto. Sogno di interpretare, prima o poi, Zio Vanja di Cechov».

Insomma, non avete mai litigato? Mai ipotizzato un divorzio consensuale?

Rispondono all'unisono: «Qualche battibecco ovviamente c'è stato, ma divorziare mai! Abbiamo una totale affinità d’intenti».

E a proposito di intenti, quale sarà il programma che proponete alla Cavea?

Dice Lillo: «Proporremo il meglio del nostro repertorio: Alla fiera der Tufello, Otto il passerotto, Ginoska…». 

Conclude Greg: «E oltre ai pezzi celebri che non mancheranno, ci prenderemo delle libertà...».

Alberto Mattioli per “La Stampa” il 23 aprile 2021. «Comunque, so' Lillo». Come per tutti i tormentoni, il trucco sta non nel cosa si dice, ma come. Fatto sta che queste tre semplici parolette hanno fatto la fortuna di Lol - Chi ride è fuori su Amazon Prime, il successo tivù più clamoroso degli ultimi tempi, metà reality e metà cabaret. Semplicissima anche la formula: chiudi dei comici in una casa stile Grande fratello, ognuno cerca di far ridere gli altri, l'ultimo a sghignazzare vince. Rivelazione della rivelazione, appunto, «so' Lillo», cioè Pasquale Petrolo alias Lillo, 58 anni, comico di lungo corso ma anche conduttore radiofonico, musicista, attore, fumettista e adesso anche star del web.

Lillo, la domanda che si fanno tutti: come faceva a non ridere?

«Non lo so. So solo che è stata durissima».

Strabuzzare gli occhi aiuta?

«Mi veniva così naturale che sono rimasto sorpreso quando la mia faccia ha fatto il giro del web. Ma non recitavo. Se non vedi le telecamere, dopo mezz'ora ti scordi di essere ripreso».

È sorpreso di questo trionfo?

«Sorpresissimo. Oltretutto non è che proprio tutti abbiano Amazon Prime. Capivo che era divertente perché mi divertivo, ma non credevo a questo livelli».

Si sarà dato una spiegazione.

«Sì. Questo programma ha dato agli italiani quello che manca a tutti da più di un anno: il cazzeggio con un gruppo di amici».

Sembrava anche l'esorcismo dell'incubo del comico: nessuno che ride.

«Incubo, ha detto bene. Io l'ho sognato spesso: sono in teatro davanti al pubblico, dico la battuta e nessuno batte ciglio. Terribile».

E poi che succede?

«Di solito mi sveglio tutto sudato. Il colpo di genio del programma è chiedere di non ridere a chi di mestiere fa ridere».

Perché il suo Posaman piace tanto?

«Intanto perché faccio vedere che ci credo davvero. Funziona il contrasto fra la pochezza del supereroe e la serietà con cui si atteggia».

E poi?

«E poi penso che in questo periodo Posaman rappresenti l'impotenza di cui tutti siamo vittime davanti alla pandemia. Nemmeno un supereroe può farci nulla».

Il Covid: lei l'ha «fatto»?

«Eccome. Sono anche finito in ospedale, tre giorni in terapia intensiva, per fortuna non intubato. È stato doloroso e ho avuto davvero paura».

Perché quasi nessuno è riuscito a ironizzare sul Covid?

«Credo che la voglia di sdrammatizzare ci sia, l'ho visto da come sono stati accolti i miei post su Instagram. Però questo periodo ci ha tolto l'energia, ci ha svuotati. Non abbiamo più nemmeno la voglia di scherzare».

Nell'evo d.C., dopo Covid, la comicità cambierà?

«Credo che ci sarà una gran voglia non solo di ridere ma anche di farlo in compagnia. Spero che la gente venga a teatro a divertirsi insieme con gli altri».

Torniamo a Lol e ai suoi tormentoni. Perché una frase così semplice come «Comunque, so' Lillo» fa tanto ridere?

«Perché è surreale. È chiaro che sono io, anche prima di togliermi la parrucca. E poi perché non era per nulla preparata. Posaman me l'ero studiato prima di entrare, "so' Lillo" è nato così, improvvisando».

Ciro ha vinto perché era più bravo?

«Sicuramente era il più concentrato. Il gioco premia la concentrazione».

Davanti a chi ha fatto più fatica a restare serio?

«A Elio che balla il tip tap».

Come padrone di casa sadico peggio Maionchi o Fedez?

«Sono stati bravissimi. Maionchi è di una simpatia devastante anche nella vita, quindi sapevo che avrebbe funzionato. La sorpresa è stata Fedez: faceva il giudice, quindi una figura istituzionale, però rideva a crepapelle. E senza recitare: si divertiva davvero».

È vero che lei ha copiato da un concorrente della versione tedesca dello show?

«Ma no, è stato tutto chiarito. Io ho rifatto, citandolo, delle gag di un comico israeliano, il Mago Lioz, di cui sono un fan sfegatato. Il tedesco ha avuto la stessa idea, non so se dichiarandola. Ma io non l'avevo nemmeno visto».

Grillo fa ancora ridere, magari senza volerlo?

«Sono spesso andato a vederlo. È un comico che ho sempre amato, anche se molti dei suoi monologhi, in effetti, erano già dei comizi. Di base, credo che la bellezza del nostro lavoro sia di farlo in palcoscenico. Quello che devi dire, denunciare, satireggiare lo fai lì».

Dia un consiglio a Draghi per diventare, o sembrare, più empatico.

«Per carità. Non si può avere tutto. L'empatia non è la prima qualità che chiedo a chi governa. In politica ci sono già stati fin troppi gran simpatici che hanno fatto danni».

Iniziali SB, per esempio?

«Mi creda: ci sono in tutti i partiti».

Del pasticcio Super Lega che pensa?

«Nulla. Sono l'unico italiano che non sa niente di calcio. La regola del fuorigioco l'ho capita solo due settimane fa, grazie a un amico molto paziente».

Un sabato sera di Raiuno lo farebbe?

«No. Primo, perché non me lo chiederebbero e, secondo, perché non ne sarei capace. I miei sketch surreali nel sabato di Raiuno? No, grazie, non funzionerebbero. E un varietà alla Fiorello è meglio che lo faccia lui che è bravissimo».

E un Sanremo?

«Sì, ma come concorrente. Insieme a Greg con la nostra band di rock demenziale, Latte & i suoi derivati».

Già, Greg: una volta eravate un'entità duale.

«Lo siamo ancora. Ogni tanto uno dei due fa qualcosa da solo, ma per me è impensabile recitare senza di lui. Infatti a giugno gireremo un film di cui siamo autori, registi e protagonisti».

Titolo?

«E chi lo sa? Non l'abbiamo ancora deciso».

·        Linda Evangelista.

Sfigurata dal trattamento, Linda Evangelista chiede 50 mln. ANSA il 24 settembre 2021.  La top model Linda Evangelista chiede 50 milioni di dollari alla società responsabile del trattamento cosmetico di 5 anni fa che l'ha "sfigurata" in una causa intentata presso la corte federale di New York. In un post su Instagram, la supermodella che negli anni Novanta con Naomi Campbell e Kate Moss dominava le passerelle globali, ha detto che, dopo aver ricevuto un trattamento di "CoolSculpting" (criolipolisi) che provoca riduzione non invasiva del grasso del corpo attraverso il raffreddamento cutaneo localizzato, ha sviluppato un raro effetto collaterale che ha provocato una metamorfosi radicale del suo aspetto al punto da renderla irriconoscibile. La top model chiede un risarcimento per il "disagio emotivo" e per le "perdite economiche" subite, secondo la denuncia presentata martedì a New York e di cui i media sono venuti a conoscenza nel corso della settimana. Secondo il documento, Il trattamento l'ha resa "disoccupata e incapace di guadagnare come modella". La Evangelista sostiene di non aver ricevuto alcun compenso dall'incidente, tranne il pagamento per una campagna prima del trattamento estetico, in quanto ha dovuto rinunciare agli impegni che le imponevano di comparire in pubblico. (ANSA).

Francesca Pierantozzi per "il Messaggero" il 24 settembre 2021. La foto del profilo è quella degli anni '90, quando con Naomi Campbell e Christy Turlington erano la Trinità. Ma le parole che Linda Evangelista ha pubblicato ieri su Instagram raccontano un'altra storia, un'altra fotografia: «Oggi faccio un importante passo avanti per riparare un errore di cui sono stata vittima e che ho tenuto solo per me per oltre cinque anni». «Sono sfigurata, irrimediabilmente» scrive Linda, 56 anni, in una confessione siglata da due hashtag: #thetruth, la verità e #mystory, la mia storia. 

IRRICONOSCIBILE La storia è quella di un intervento di chirurgia estetica andato male, una crioliposi che ha provocato una iperplasia adiposa paradossale: la tecnica che promette una riduzione localizzata del grasso grazie al freddo ha in realtà avuto l'effetto opposto, aumentando la massa lipidica. «Sono irriconoscibile», scrive Linda confessando ai suoi follower «ecco perché non lavoravo più, mentre le carriere delle mie coetanee prosperavano». Linda racconta tutto: che non era stata informata dei possibili effetti collaterali, che farà causa contro la società che commercializza il trattamento, che ha vissuto barricata in casa, perché quello che è successo «non ha distrutto soltanto il mio lavoro, ma mi ha gettato in una lunga depressione, profonda tristezza, nell'abisso dell'odio di sé. Voglio liberarmi della vergogna, rendere pubblica la mia storia, sono talmente stanca di vivere così: vorrei poter uscire fuori a testa alta, anche se non troverò mai più il fisico di prima». Prima era quando la chiamavano il camaleonte, perché cambiava colore e taglio di capelli in un baleno, carré, caschetto, bruna, bionda, sempre bellissima, con un sorriso diventato il simbolo di un'epoca.  Gli oltre 900 mila follower che hanno continuato a seguirla nonostante vivesse «come una reclusa» hanno reagito, subito: cuori e dichiarazioni di amicizia da parte di migliaia di anonimi, ma anche gli amici vip e le colleghe del passato. Cindy Crawford ha esaltato «la forza e la tua vera essenza che saranno per sempre riconosciute e considerate un'icona. Brava». E poi Naomi, Marc Jacobs, Gwyneth Paltrow. «Sono scoppiata a piangere leggendo questo post scrive Helena Christensen E' talmente importate e bello quando qualcuno riesce a uscire dall'ombra per essere onesto e sincero. Grazie per essere bella dentro e fuori». E lo stilista Jeremy Scott, direttore creativo di Moschino: «Sei e sarai sempre un top model e adesso puoi aggiungere anche un modello di coraggio al tuo magnifico curriculum. Ti voglio bene».

CONTRO L'EX MARITO Linda ha rotto l'autoimposta clausura due anni fa, sostenendo le donne che hanno accusato di violenze e aggressioni sessuali il suo ex marito, l'ex direttore dell'agenzia Elite Gérard Marie. «Credo che dicano la verità, mi spezza il cuore, perché sono ferite che forse non guariranno mai. Ammiro il loro coraggio e la loro forza di denunciare», affermava. Canadese, Linda Evangelista si è fatta notare per la bellezza travolgente a 16 anni, al concorso di miss Niagara Falls, che non vinse. Nonostante le offerte delle più grandi agenzie completò gli studi prima di volare a New York, e ottenere, nel 1987, la prima copertina di Vogue. Diventa, con Naomi, Claudia, Carla e le altre, il volto e il corpo di un'epoca. «Ti ho sempre visto come una donna bellissima ma soprattutto come un essere che ha una grande luce interiore le ha scritto ieri lo stilista Brandon Maxwell Anche nei tuoi momenti più bui, non dimenticare la luce che hai saputo dare agli altri».

Linda Evangelista e la criolipolisi: cos’è successo e il trattamento spiegato da un’esperta. Dal post denuncia sui social di Linda Evangelista, il trattamento di criolipolisi è al centro dell'attenzione per i possibili effetti collaterali. Ma in cosa consistente? E, soprattutto, è così facile che il trattamento abbia conseguenze così negative come nel caso della super top? Eleonora Gionchi su Il Corriere della Sera l’1 ottobre 2021. La notizia è di quelle che ha fatto immediatamente il giro del mondo: in un post pubblicato su Instagram, Linda Evangelista, 56 anni, senza mezzi termini ha dichiarato di essere stata «sfigurata» dal trattamento di Coolsculping, ovvero una criolipolisi, e per questo di «Vivere ormai reclusa», ha scritto. Ma, se nel mentre la top ha proceduto per vie legali contro Zeltiq Aesthetic, responsabile del suo trattamento, cos’è la criolipolisi,  oggi molto diffusa, e com’è potuto succedere il danno causato alla modella? Paola Tarantino, medico estetico e dermatologo, ambasciatrice della Medicina Estetica Gentile, risponde ai dubbi.  

Criolipolisi, che cos’è?

Partiamo quindi dall’inizio: la criolipolisi è un trattamento che riduce le adiposità localizzate, ovvero i cuscinetti. «Gli adipociti sono molto sensibili alle basse temperature. Arrivando al congelamento si porta la cellula adiposa a una morte programmata detta “apoptosi”. È una riduzione graduale perché muoiono poco alla volta e senza nessun tipo di aspirazione, riducendo così il cuscinetto» spiega la dottoressa Tarantino. Molto utilizzata in medicina estetica, «esistono diversi tipi di tecnologie in base all’azienda e di protocolli che variano a seconda della potenza della tecnologia», precisa l’esperta. «Detto ciò, la criolipolisi è un trattamento sicuro, solo all’inizio poteva portare a delle piccole ustioni della cute in superficie, ma adesso ciò non avviene perché è prevista una pellicola trasparente che va a proteggerla evitando qualsiasi tipo di rischio. Non solo, ma è una tecnica che da sempre funziona molto bene e che è molto apprezzata in quanto porta dei risultati graduali, e quindi assolutamente non invasivi, soprattutto perché non si aggredisce in maniera traumatica la cellula adiposa. Per questo nella maggior parte dei casi porta sempre a dei risultati soddisfacenti». 

Dove e quando fare il coolsculping

Specifico per quelle parti del corpo in cui l’adiposità è maggiore come addome e fianchi, la criolipolisi può essere una soluzione anche per ridurre i piccoli accumuli di grasso sul viso, in particolare sulle zone del sottomento e del contorno mandibolare. «Si prevedono mediamente 5 sedute, 1 volta a settimana, della durata di circa 40 minuti, ma possono variare a seconda della potenza della tecnologia. Il trattamento è indolore e la macchina è caratterizzata da manipoli che si posizionano localmente raffreddando l’adiposità e quindi portando la cellula alla morte». Ma quindi, cosa non ha funzionato nel caso della top? «A Linda Evangelista, purtroppo, è successo qualcosa di assolutamente imprevedibile, raro, se non addirittura impossibile. Si tratta di un effetto mai descritto dalla comunità scientifica mondiale e dalle numerose pubblicazioni scientifiche in merito a questo trattamento. Parliamo di un 0,0065% di possibilità che potesse succedere una cosa del genere» precisa la dottoressa Tarantino. «Nel caso della top si è verificato l’iperplasia adiposa paradossale. Ovvero, all’abbassamento della temperatura, le cellule adipose invece di morire hanno subìto uno stimolo producendo maggiore adiposità. L’adipocita è una cellula che, seppur molto conosciuta e analizzata dal punto di vista scientifico, può però portare comunque a reazioni inaspettate». 

I possibili rimedi

«Nel caso di Linda Evangelista, l’effetto collaterale subìto che ha portato a un aumento spropositato dell’adiposità, potrebbe essere risolto a livello chirurgico con una liposcultura che migliora l’adiposità. Anche se, essendo tessuti già iperstimolati e in un certo senso “traumatizzati”, questa soluzione potrebbe non sortire l’effetto eccellente che di solito produce nelle altre pazienti». La top, nel suo lungo messaggio via social, ha inoltre sottolineato di essere stata poco informata sulle conseguenze negative del trattamento: «L’informazione è fondamentale. Fin dalla a prima visita col paziente, bisogna conoscerlo a fondo, la sua storia, l’anamnesi familiare, se presenta o ha avuto patologie particolari. Solo così si può stabilire il giusto protocollo di trattamento e raggiungere il successo sperato. Questi sono trattamenti medici a tutti gli effetti e meritano di essere valutati e affrontati con il giusto percorso diagnostico. Ascoltare il paziente, informarlo e supportarlo nelle varie fasi del percorso, è fondamentale». 

Linda Evangelista sfigurata, cos'è la criolipolisi e quali sono i rischi. Francesco Ridolfi su Il Quotidiano del Sud il 24 settembre 2021. UN dramma, una vera e propria tragedia per chiunque ma ancor più per chi ha fatto del proprio aspetto fisico e della propria bellezza uno strumento di lavoro. Linda Evangelista, 56 anni canadese con origini italiane (la sua famiglia proviene dalla provincia di Frosinone), tra le più famose e belle modelle al mondo, ha raccontato come sia ormai sfigurata in modo permanente a seguito di un trattamento estetico che, in teoria, doveva essere una procedura non chirurgica apparentemente di routine.  Attraverso i propri canali social Evangelista ha spiegato che dopo aver ricevuto un trattamento di criolipolisi, (una procedura che, attraverso il raffreddamento cutaneo localizzato, provoca una riduzione non invasiva del grasso del corpo), ha sviluppato un effetto collaterale che ha causato un cambiamento radicale del suo aspetto al punto da renderla quasi irriconoscibile. L’intervento, racconta Linda Evangelista, è avvenuto cinque anni fa e due successive e dolorose operazioni correttive non hanno ottenuto i risultati sperati lasciando evidenti i segni della deformazione.

L’annuncio di Linda Evangelista. La modella è uscita allo scoperto chiarendo che «A chi di voi si chieda come mai non abbia più lavorato, mentre la carriera delle mie colleghe ha prosperato, vorrei dire che la ragione è questa: sono stata brutalmente sfigurata dalla procedura Zeltiq CoolSculpting, che ha fatto esattamente l’opposto di quanto promesso». In sostanza quello che è accaduto è che «invece di diminuire, ha aumentato le mie cellule adipose lasciandomi deformata in modo permanente, anche dopo aver subìto due interventi correttivi dolorosi e inutili». In sostanza Linda Evangelista ha raccontato di aver «sviluppato una iperplasia adiposa paradossale che non solo ha messo in crisi le mie fonti di sussistenza, mi ha provocato anche una profonda depressione e un enorme disprezzo del mio aspetto. In questo processo mi sono chiusa in me stessa. Sono diventata una reclusa».

Che cos’è e come funziona la Criolipolisi? La criolipolisi (dal greco kryos, freddo, e lisi, che indica lo scioglimento) promette di “sciogliere” le cellule adipose, ossia le cellule grasse, tramite il raffreddamento cutaneo di una specifica parte del corpo. Lo scioglimento, se così si può dire in termini non scientifici, viene causato dall’applicazione di alcune ventose che trasmettono il freddo che raggiunge le cellule adipose. Una volta sciolte i materiali di scarto vengono smaltiti nei giorni successivi attraverso il sistema fisiologico naturale del corpo umano (ossia il fegato e il sistema linfatico).

Non è un sistema miracoloso, serve cautela. Potrebbe apparire come un sistema miracoloso ma non è così, anzi esistono degli accorgimenti e delle necessarie cautele. Come per la liposuzione anche la criolipolisi mira ad ottenere una riduzione della massa grassa ma, a differenza della prima, questo trattamento non prevede un intervento chirurgico invasivo. Tuttavia presenta dei limiti di efficacia in quanto può essere applicata solo a zone molto ridotte e a parti specifiche del corpo. A parte il costo (si parte da 2-3 mila euro a salire) che naturalmente costituisce una barriera all’utilizzo di questa tecnica, esistono anche specifici requisiti legati alla fattibilità o meno di una applicazione di criolipolisi. In primo luogo ad esempio è necessario che la pelle e i tessuti siano tonici (per cui è consigliabile che a farla siano persone di non troppo avanti con l’età) al fine di ottenere il corretto effetto di retrazione della pelle. Ma, soprattutto, ciò che deve ispirare cautela sono i possibili rischi. In primo luogo inestetismi, come ad esempio nel caso in cui la retrazione della pelle non sia omogenea (ossia si retragga di più in alcuni punti rispetto ad altri). Oppure rischi di necrosi cutanee oppure, come nel caso della Evangelista, un aumento del tessuto adiposo (ossia l’esatto contrario che ci si aspetterebbe) che può sfociare in un inspessimento del tessuto adiposo per risolvere è necessario un vero e proprio intervento chirurgico.

·        Lino Banfi.

Dagospia l'1 novembre 2021. Da “Ti Sento – Rai2”. Durante l'ultima puntata di TI SENTO (domani in seconda serata su RAI 2) Pierluigi Diaco ospita Lino Banfi e lo provoca sul periodo in cui era protagonista di film sexy insieme a bellissime donne. 

Pierluigi Diaco: Dalla Fenech a Nadia Cassini di docce ne hai condivise parecchie diciamo…

Lino Banfi: La doccia era un passaggio, io ho girato scene proprio senza la doccia, proprio direttamente i toccamenti le cose abbracci baci

PD: Questo lo sappiamo tutti, ma dico dentro la doccia e fuori dalla doccia… ti è mai partito il desiderio o la professionalità ha sempre prevalso?

LB: A questo volevi dire? Hai perso tutto ‘sto tempo a dire così per tuo garbo? Certo, certamente, lapalissianamente!

PD: L’hai governato il desiderio?

LB: L’ho governato, l’ho governato!

PD: Sempre?

LB: Sempre, perchè sono intelligente. E uno è intelligente quando,fa l’esame in un attimo, di fronte al diniego assoluto di una cosa che a te piacerebbe fare, si dice ‘ma come sei scemo? ma come ti permetti?’,questa sarebbe stata una pugnalata che mi sarebbe durata tutta la vita. L’intelligenza ti fa fare una gran figura a fare il contrario.

Elvira Serra per il “Corriere della Sera” l'1 novembre 2021. Lino Banfi ha vinto il suo Oscar alla carriera il 26 luglio 2021, festa dei santi Gioacchino ed Anna, nonni di Gesù. È datata quel giorno la lettera che lo accredita come «il nonno di una Nazione intera», che ha «condiviso con tante generazioni il dono del sorriso, che viene da Dio ed è una missione». L’attore pugliese viene ringraziato «per essere testimone della gioia» e gli viene chiesto di continuare «a trasmettere i valori della famiglia, i valori che contano». Firmato: Francesco. Il Papa. 

Racconti tutto. Come nasce la lettera del Papa?

«Bisogna spiegare l’antefatto e tornare a dicembre, nei giorni in cui il pontefice festeggiava il compleanno». 

Ottantaquattro anni.

«Ero stato accompagnato dal mio amico don Sergio Mercanzin a Santa Marta, prima dell’udienza del mercoledì. Avevo espresso il desiderio di incontrare il Papa, monsignor Domenico Calcagno mi aveva aiutato. Ed eccomi davanti a due guardie svizzere, desiderando sotto sotto che mi rivolgessero la parola». 

Com’è andata?

«Ero lì che le fissavo, quando arriva il Papa che mi prende quasi sottobraccio e mi fa entrare in questa stanza. “Lei è una persona molto importante, mi hanno detto che la chiamano il nonno d’Italia”, esordisce. E io: “Allora lei è l’abuelo del mundo!”. Aggiungo che abbiamo la stessa età, sono pure io del 1936, e lui: “Ma lei può dire anche meno!”. E ci paragona al buon vino, che invecchia bene».

Quanto è rimasto?

«Venti minuti. Abbiamo parlato di famiglia, gli ho raccontato dei miei quattro anni al seminario. Poi a un certo punto gli ho detto: “Santità, io faccio l’attore e se racconto che ci siamo visti non mi crede nessuno. Non possiamo fare una foto?”. Mi ha chiesto se avevo il cellulare, ma lo avevo lasciato a don Mercanzin. Allora l’ho chiamato e ci ha scattato lui le foto». 

E così abbiamo le prove. Dopo, gli scrisse?

«Sì, in primavera, per ringraziarlo e dirgli che mi era rimasto impresso un fotogramma indelebile: lui che mi posava la mano sulla schiena e mi diceva che ero una persona importante». 

La risposta è del 26 luglio.

«La sua lettera è arrivata dentro quattro buste, una sopra l’altra. L’ho incorniciata nel mio studio, accanto alle onorificenze più importanti, da quella di cavaliere di Gran Croce ad ambasciatore Unicef a membro della commissione italiana all’Unesco. Poi ho pensato: ma è troppo bella per tenerla tutta per me. Però non è che puoi condividere una cosa così senza permesso. Faccio chiedere e una decina di giorni fa mi arriva la telefonata: “Sono il segretario di Sua Santità. Può dirlo a chi vuole, anche a un giornale”».

Che effetto le ha fatto sentirsi chiamare dal Papa «nonno di una Nazione intera»?

«Mi sono emozionato: il Papa aggiunge che è “davvero impegnativo” esserlo». 

«I nonni sono i custodi della memoria e delle radici».

«Anche sul “dono del sorriso” mi sono commosso e il mio moviolone personale, che funziona da Dio, è il caso di dire, è andato indietro di 75 anni, in seminario ad Andria, quando alle recite interpretavo San Pietro o Giuda e monsignor Giuseppe Di Donna, poi dichiarato venerabile, mi disse: “Zagaria, la tua vocazione non è di fare il prete, ma di far sorridere le persone». 

Aveva già incontrato Ratzinger. Con lui come andò?

«L’ho visto più volte, l’ultima dopo che ha dato le dimissioni. Andai a trovarlo e rimasi tre quarti d’ora. Quando era in Vaticano voleva darmi un’onorificenza, me lo disse Monsignor Georg. Tu puoi aver fatto cento film, 500 puntate tra fiction e varietà, ma quando ti trovi a parlare a tre centimetri dal Papa... Anche a lui trovai la forza di chiedere un ricordo: scripta manent! E infatti, dopo, mi ha mandato una foto con una bellissima dedica. Quando lasciai il suo salotto bianco con il pianoforte aperto, mi accompagnò all’ascensore e sotto trovai le suorine pugliesi che mi assicurarono che lui avrebbe avuto più tempo per guardarmi in tv. Seppi da loro che amava i prodotti pugliesi». 

Qual è il suo sogno, ora?

«Uno è di diventare il giullare del Papa. Quando lui è triste qualcuno dice: “Chiamate Banfi!”. E arrivo io con la mia valigetta, come un medico». 

E l’altro?

«Il primo marzo del 2022 festeggio le nozze di diamante. A Lucia dico che saranno nozze di amante, perché dopo 10 anni di fidanzamento e 60 di matrimonio, con il tempo che ci rimane faremo gli amanti. Ci sposammo al freddo a Canosa di Puglia, alle 6 del mattino. In sagrestia, le promisi: un giorno faremo una festa come si deve e voglio pure U’ Pep».

Come sta sua moglie?

«Con i migliori neurologi stiamo cercando di rallentare il corso della sua malattia. Però la lettera le è rimasta impressa. Mi ha detto: “Ma ti rendi conto? U’ Pep».

Da Chi il 7 settembre 2021. «Non capisco queste polemiche sull’espressione “porca pu**ena” nel mio spot pubblicitario. Quell’espressione è un gioco, fa ridere, per noi pugliesi è come “ostrega” per un veneto, non c’è volgarità», così Lino Banfi, commenta in una intervista con Chi (in edicola da mercoledì 8 settembre) l’attacco ricevuto dal Moige per lo spot televisivo nel quale il popolare attore riprende il personaggio dell’allenatore Oronzo Canà con la colorita espressione pugliese diventata il portafortuna della nazionale italiana campione d’Europa e uno dei tormentoni dell’estate 2021. «Prima del lockdown», racconta Lino Banfi a Chi «nella mia orecchietteria a Roma (Orecchietteria Banfi, che gestisce con i familiari, ndr) avevo una scorta di 400 confezioni di sugo “Porcapu**éna”, che rischiavano di scadere se non avessimo riaperto in tempo. Allora ho pensato di metterli a disposizione di chi non aveva da mangiare: ho fatto arrivare da Barletta un gran quantitativo di orecchiette, tramite un amico prete della Caritas ho contattato l’elemosiniere del Papa e a lui ho spiegato il progetto di offrire 2.000 piatti di pasta con il mio sugo a chi aveva bisogno. Prima però l’ho avvisato: “Eminenza, guardi che questo ha un nome un po’ piccante...”. Se lo è fatto dire, si è fatto una bella risata... E alla fine con il mio “Porcapu**éna” abbiamo sfamato tante persone».

Da Chi il 7 settembre 2021. «Non sarebbe ora di pensare al povero Banfi, che con 100 e passa film ha rappresentato una grossa fetta del cinema italiano, prima che ci lasci la pelle? Non dico un Leone alla carriera, ma magari un coniglietto, un topolino... Premi ne ho ricevuti, ma partecipare a un festival, un riconoscimento lì, sarebbe un’altra cosa. Mi consolo con la bellissima lettera che mi ha scritto a luglio papa Francesco: quello è il mio Oscar». Con un velo di ironica amarezza, ma con la commozione di chi ha ricevuto un importante riconoscimento Lino Banfi, racconta in esclusiva a Chi, in edicola da mercoledì 8 settembre, l’inattesa lettera che ha ricevuto nel luglio scorso da papa Francesco per la sua lunga e fortunata carriera di attore. «Ho ricevuto la lettera il 26 luglio scorso», spiega Lino banfi a Chi «in essa, tra tante splendide cose il Santo Padre mi ha scritto: “Grazie per aver condiviso con tante generazioni il dono del sorriso che viene da Dio. Grazie per essere testimone della gioia italiana. Continua a far sorridere tutti perché il sorriso è una carezza fatta col cuore”».

Dagospia il 26 giugno 2021. Da I Lunatici – radio2.it. Lino Banfi è intervenuto ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte, dalla mezzanotte alle sei del mattino, tra la mezzanotte e trenta e le due circa in diretta anche su Rai2. Il popolare attore è tornato a parlare del suo rapporto con la Nazionale di Roberto Mancini: "Il giorno della finale coincide con il mio 85esimo compleanno. Faccio gli anni l'undici luglio e i ragazzi mi hanno promesso che festeggerò con loro la Coppa. Come è nato il “porca puttena” gridato da Immobile e Insigne dopo i loro primi gol all'Europeo? Io questa espressione lo uso da decenni, perché ha varie possibilità di interpretazione. L'ho sempre considerato un intercalare che vuol dire quattro o cinque cose. Meraviglia, gioia, amore, bisogna vedere come lo dici. In questo caso del gol è una liberazione, quel 'porca puttena', con l'accento sulla e, vuol dire finalmente, si allenta il covid, stiamo tornando allo stadio, e il calciatore lo grida per sfogarsi che ha segnato un gol. Io la sera prima della partita dell'Italia con la Turchia ho mandato un messaggio a Chiellini, l'unico che conosco personalmente, e gli ho detto caro capitano, tieni tu le fila, parla con il mister, gli devi dire ha detto Lino “mi raccomando, Spinazzola e Immobile, si deve creare questo asse. Così Immobile segna, va vicino alla bandierina e grida porca puttena”. Io ho detto questo come se fosse una cavolata, ma me lo sentivo. E Immobile poi l'ha fatto davvero. Ora tornando seri, io sono già ai tempi supplementari, farò il secondo tempo supplementare, poi tirerò i rigori, ma dopo i rigori la partita finisce. Forse questa cosa ha commosso i calciatori. Hanno preso a cuore questa mia richiesta. Quando Immobile ha gridato “porca puttena” sono stato veramente felice. Questo è un grande riconoscimento per me, è stato bello, è stato come avermi dato un premio. Poi si è parlato di me in molte trasmissioni, è stato bellissimo. Un'idea per Italia-Austria? Vediamo...Io credo che Immobile segnerà ancora. Attenzione ai crisantemi francesi. Gli unici che stanno gufando affinché noi perdiamo". Ancora sul calcio. Lino Banfi è un grande tifoso della Roma: "Mourinho? Sono felicissimo del suo arrivo in giallorosso. Mou in dialetto stretto pugliese significa adesso. Lui i calciatori se li farà comprare adesso. Agli americani gli dirà compratemi tizio e caio, Mou. Non dopo. Ora. Io sono convinto che la Roma farà una bella squadra". Sulla sua carriera: "Sta ricominciando. Nel periodo del covid non ho voluto fare il vecchio in pandemia. Ho accettato tutto quello che mi hanno offerto. Anche a cifre inferiori rispetto al solito. Ho fatto due film. Uno a Bologna e uno in Puglia. Avrò fatto cinquanta tamponi. Andavo avanti indietro, ma è stato giusto così. Il film fatto a Bologna si chiama 'Vecchie Canaglie', è ambientato in una casa di riposo. Finalmente si sta vociferando di qualche premio per me. Qualcuno si sarà pentito di tutte le critiche riservate ai miei film nella mia vita. Ne hanno sempre scritto male, poi i miei film improvvisamente sono diventati cult movie. Il pubblico mi vuole bene, il vento sta cambiando, anche da parte di alcuni radical chic. La gente mi vuole bene, io ho avuto due o tre giornalisti pentiti, come quelli della mafia, che mi hanno detto che andavano a vedere i miei film di nascosto tanti anni fa. Un David alla carriera per me? Chi ce lo proibisce! Proponetelo voi ragazzi! Se ho paura di essere celebrato post mortem? No, anzi mai come in questo momento mi sento un grillo. Ho una grande energia, mi sento il cervello di un ventenne, non penso ai coccodrilli". Ancora Lino Banfi: "Un bilancio sulla mia vita? Rifarei tutto quello che ho fatto. Soprattutto i sacrifici che ho fatto nella mia famiglia. Le pene e le forche caudine che ho imposto a mia moglie, che da ragazza aveva il benessere, un negozio, e per venire a seguire me che volevo fare l'artista a Roma senza una lira, a dormire in subaffitto, a prendere i soldi dai cravattari, a pagarli dopo tre o quattro anni con il cento per cento di interesse. Oggi vedere davanti la felicità che ci stiamo godendo mi ripaga di tutto. Faremo sessant'anni di matrimonio a marzo, più abbiamo altri dieci anni di fidanzamento. Vedo la felicità dei miei figli. E finalmente adesso si sposa mia nipote, il 3 luglio. Quindi potrei diventare anche bisnonno. E addirittura il matrimonio, in forma civile, lo celebrerò io".

"Papà mi voleva prete. I critici mi rinnegavano ma li ho fatti pentire". Paolo Scotti il 17 Giugno 2021 su Il Giornale. La vita dell'attore in un libro: "Iniziai povero mi feci togliere le tonsille per stare in ospedale". «È successo tutto per caso. Volevo fare gli in bocca al lupo alla nostra Nazionale di calcio. E ho mandato al capitano Chiellini un video in cui suggerivo ad Immobile, nel caso avesse segnato, di esclamare porca puttena!». Detto fatto. Italia-Turchia, partita inaugurale degli Europei di Calcio, 66esimo minuto. Ciro Immobile segna e urla alle telecamere, davanti alla platea continentale, l'inconsueta esclamazione «pugliese-banfiota». «Chi avrebbe pensato lo facesse davvero? ride Lino Banfi -. E dopo di lui l'ha fatto anche Insigne. Ora la squadra intera sembra intenzionata a proseguire. Hai visto mai. La finale è l'11 luglio. E io il 9 compio 85 anni». Proprio alla vigilia del suo compleanno si conferma, dunque, la popolarità dell'«allenatore nel pallone», di cui il libro Le molte vite di Lino Banfi di Alfredo Baldi (edizioni Sabinae) ripercorre tutta la movimentata, romanzesca, chilometrica carriera.

Ma è vero Banfi che, quanto a carriera, la sua avrebbe dovuto essere quella sacerdotale?

«Verissimo. Dagli undici ai quindici anni ho vissuto in seminario. Ma il vescovo, come un padre, capì tutto. Tu devi fare l'attore; altro che prete!. Ma mio padre, quello vero, non voleva saperne: io mi esibivo nelle feste di piazza, e lui mandò i carabinieri a riprendermi fino a Taranto, dov'ero finito dietro una ballerina...».

Eppure riuscì ad arrivare fino a Milano, dove condusse la vera vita da bohémienne.

«Era il 53, avevo 17 anni, e a Milano facevo la fame. Non per dire: la fame vera. Fuori delle pensioni c'era scritto Non si affittano stanze ai meridionali. Allora io, che sono nato ad Andria, cancellai la n dai documenti e fingevo d'essere di Adria, parlavo veneto. Così trovai una stanza a Baggio, ci stavamo in dieci! Alla stazione Centrale uno con la faccia da criminale mi fa: i soldi te li trovo io. E mi porta a fare il posteggiatore abusivo in via Broletto. Solo che prima mi taglia il fondo delle tasche. Così non ti freghi tu tutte le monete. Ma alla fine l'ho fregato io: le monete me le nascondevo tutte nelle calze».

Fino all'episodio dickensiano di quando finse d'essere malato solo per dormire al caldo dell'ospedale.

«A Milano nevicava, io dormivo nei treni vuoti e gelati. Avrei potuto tornare a casa, ma non volevo darla vinta a mio padre, Devo diventare famoso, diventare ricco!. Finché un altro disperato mi fa: Ce l'hai ancora le tonsille?. Perché?. Le tonsille sono come la milza: non servono a niente. Ti bevi questo intruglio, la gola ti s'infiamma, ti ricoverano in ospedale, e per dieci giorni dormi al caldo e mangi gratis. Io come uno scemo eseguo. Finisco all'ospedale, mi operano, e dopo soli due giorni (in cui mangiai solo gelati) mi volevano buttare fuori. Confessai tutto a un dottore. Che s'impietosì e mi tenne una settimana in più».

Ma chi la dura la vince. E a furia di avanspettacolo e cabaret venne battezzato adirittura da Totò.

«Mi scrissero un biglietto di presentazione per lui. È un comico fine. E non si perde nei congiuntivi e nei condizionali». Il principe apprezzò. E quando mi chiese del mio nome d'arte, Lino Zaga (diminutivo di Pasquale Zagaria), Cambialo ordinò perentorio- i diminutivi dei cognomi portano jella. Io lo cambiai e...».

...Ed ebbe fortuna. I primi show televisivi, più di cento film...

«Ebbi il coraggio di non rinnegare le mie origini. La Pugliesità non esisteva, perché la Puglia non una sua drammaturgia. Così a Senza Rete, con Alberto Lupo, m'inventai un pugliese mio: Lupo era Lupolo, Baudo Baudolo e così via. La gente rideva. Ma l'intellighenzia barese mi odiava. Quelli si dannavano perché si dicesse Bari e non Beri, e ora io rovinavo tutto. Oggi però Checco Zalone mi ritiene un apripista».

Fino a Un medico in famiglia, e a papa Benedetto XVI che pubblicamente la definì Nonno d'Italia.

«Confesso: al Medico io non ci credevo affatto. Quando il grande Carlo Bixio mi sottopose la sinossi non ci capii niente. E poi quel nonno mi stava antipatico: comunista sfegatato, sindacalista assatanato L'ho dovuto trasformare a modo mio».

E oggi? Molti hanno cambiato idea nei riguardi di Lino Banfi?

«Oh non sa a quanti pentimenti sto assistendo! M'ero rassegnato: mi dicevo non sono copertinabile (adatto alle copertine), meno che mai scopertinabile (spogliano la Fenech o l'Antonelli, non certo me). Finché un giornalista molto famoso una volta mi confidò: Non dirlo a nessuno, ma trent'anni fa io andavo a vedere di nascosto i tuoi film. Se l'avessi confessato, m'avrebbero cacciato dal giornale». 

Lino Banfi: «Una carriera tra docce e quintali di spaghetti». Paola Medori su Il Quotidiano del Sud il 4 gennaio 2021. «Nei miei film ho spesso rappresentato la mia terra, l’amata Puglia. E il racconto non è ancora finito». Parole di Lino Banfi, nome d’arte di Pasquale Zagaria, 84 anni, più di cento film e tante fiction alle spalle. Da un paio d’anni alterna il cinema alla tavola: la sua “Orecchietteria Banfi” è un ristorante aperto con tutta la famiglia nell’elegante quartiere Prati di Roma, mentre “Bontà Banfi” è una sua linea di prodotti, tutti rigorosamente pugliesi, presenti nella grande distribuzione dei supermarket.

Banfi, come nasce l’idea di darsi alla cucina?

«Mio padre era un ortolano, curava i suoi orti e quelli degli altri, e fin da bambino mi raccontava storie sulle verdure; da dove venivano, le origini, la stagionalità a km 0. Ne ero affascinato e le ho portate con me, negli anni anche facendo l’attore. E così ho deciso di aprire il ristorante».

Tutto a gestione familiare, tre generazioni che lavorano insieme.

«Vista la mia passione per l’agro-alimentare, i miei figli, Rosanna e Walter, mi hanno detto “perché non apriamo un locale a Roma?”. In cucina c’è mia nipote Virginia, la figlia di Rosanna, con il suo compagno che è lo chef. Walter, Rosanna e mio genero stanno in sala, parlano con le persone e dirigono. Si può dire che ho un genero alimentare!».

Cosa si mangia?

«I migliori piatti della tradizione pugliese: dalle orecchiette come “Porca puttène” che è piccante, ai panzerotti farciti fino alle friselle condite. Tutti prodotti freschi che ogni giorno arrivano dalla Puglia, come la burrata di Andria o il capocollo di Martina Franca. Accompagnati dai vini, come il corposo nero di Troya che io ho chiamato “Salute”. Proprio qualche giorno fa abbiamo festeggiato un anno dall’apertura».

Le capita mai di mettersi dietro ai fornelli?

«No. Quando vado assaggio le novità e mi invento anche qualche piatto nuovo. Prima faccio qualche prova a casa. Sperimento e poi propongo. Ogni volta che entro al ristorante si ferma il traffico. La gente si alza, mi abbraccia e vuole fare i selfie. Sono tutti molto affettuosi».

L’ingrediente o il suo piatto preferito?

«Amo molto i nostri sottaceti, come i lampascioni perché sanno di profondo, di terra e di buono. E poi anche i funghi cardoncelli che crescono solo nelle Murge».

Qualche consiglio doc pugliese?

«Pranzi e cene richiedono sforzi, poi stando a casa non si può neanche smaltire. Consiglio di alternare un pasto con delle sfiziosità tipiche: i nostri tarallini speciali, il “tarallocchio” con curcuma e finocchio. Per le merende olive grandi di Cerignola, caciocavallo e cardoncini».

Con “Bontà Banfi” i sapori di Puglia raggiungono tutto il Paese.

«E non solo visto che esportiamo anche all’estero: i prodotti vengono venduti nei grandi supermercati anche del Nord America, ci sono gli italo-americani che mi adorano perché hanno seguito tutta la mia carriera. La linea è nata da un desiderio che avevo da sempre e volevo realizzare da “vecchio”. Mi faceva piacere che su molti cibi pugliesi, sull’olio e la salsa ci fosse la mia faccia. Noi attori siamo un po’ megalomani. Anche perché quando non ci sarò più, nessuno parlerà più di me. È il modo per lasciare qualcosa di buono».

Il suo sogno è ancora una cucina di 100 metri quadrati, come quella di Aldo Fabrizi?

«Si, abitavamo vicini nel quartiere romano di Piazza Bologna ed eravamo molto amici. Quando andavo a casa sua aveva questa poltrona con le rotelline e si spostava in questa cucina, grande come un salone, dove aveva tutto a portata di mano come i coltelli affilati per tagliare il pane ciociaro. A tavola era un grande intenditore e amava molto mangiare».

Spesso nei suoi film c’era molto cibo, Spaghetti a mezzanotte, Occhio malocchio prezzemolo e finocchio.

«C’erano soprattutto molte docce e donne meravigliose, forse le più belle del cinema di quel periodo: Edwige Fenech, Barbara Bouchet, Laura Antonelli e Nadia Cassini. Si mangiava tra un’insaponata e l’altra…».

Il suo film più popolare è forse L’allenatore nel pallone.

«Credo di sì, un cult intramontabile. Ho conosciuto perfino Bearzot, uno dei commissari tecnici più amati dagli italiani. Bearzot che aveva visto L’allenatore nel pallone, un volta mi portò in ritiro con la Nazionale a Pescara e mi disse “così mi darai dei consigli tecnici”. È un film che hanno amato in molti. Oronzo Canà è entrato nel mondo del calcio facendo sorridere tutti. Gli stadi, quando riapriranno, dovranno essere luoghi solo all’insegna del sorriso».

·        Linus.

Linus: «Celentano? Lavorare con lui è inutile. Nicola Savino? Una moglie con i baffi». Renato Franco su Il Corriere della Sera il 5 settembre 2021. Il direttore di Radio Deejay ospite al Festival di Dogliani: «Tanti artisti sono troppo centrati su se stessi che sono grandi sul palco, ma noiosi nel privato». «Chiamarsi Pasquale Di Molfetta e arrivare dalla Puglia a Milano non è stato semplice, mi sembrava che tutti i Brambilla mi guardassero storto: venivamo additati come qualcosa di esotico». C’è anche Linus tra i protagonisti del Festival della Tv e dei Nuovi Media di Dogliani. Intervistato da Aldo Cazzullo (subito autoironico: «Pensa a me con il mio cognome...»), il direttore di Radio Deejay («più duraturo di Ceausescu», sempre Cazzullo) ripercorre la sua vita, figlio di un operaio di un zuccherificio che ha trovato a Milano il suo successo fino a lavorare anche per Celentano: «Come è stato? Umanamente utile, ma lavorativamente inutile: alla fine fa quello che vuole lui e ti senti un po’ frustrato. Ma è un personaggio come pochissimi. Quando ero tra gli autori di 125 milioni di caz..te gli chiesi come mai non aveva ancora cantato la mia canzone preferita, Storia d’amore: disse che non si ricordava le parole, perché lui ha sempre fatto pochi concerti dal vivo. La improvvisò nel suo salotto. Fu meraviglioso». Il primo ricordo privato? «Io a 3 anni che corro fuori dal vialetto di casa, ho il sole al tramonto alle spalle e rimango sorpreso dalla lunghezza della mia ombra davanti a me. Il primo ricordo pubblico risale invece al 1963, quando fu assassinato Kennedy, fu l’ingresso nell’età adulta». Per essere artisti sostiene che conta «più la personalità della tecnica», tra gli amici c’è Elio (delle Storie Tese): «È un matto vero, e per me è un complimento. È doubleface: timido e riservato in privato, detesta quando lo riconoscono e lo fermano per strada; a una signora che gli chiedeva se era famoso, rispose che era il celebre cantante Franco Baglioni. Sul palco invece si trasforma, non ha paura di niente: non ho mai visto nessuno come lui». Non è uno da vita spericolata: «Di solito un dj ha una ragazza in ogni porto, io ho conosciuto mia moglie nel 1987 a Riccione». Grandi parole per Jovanotti: «Penso che la sua grandissima forza sia la curiosità: Lorenzo legge, ascolta e parla tantissimo. Altri personaggi che ho conosciuto sono invece talmente centrati su se stessi che sono grandi sul palco, ma noiosi nel privato». Con Nicola Savino lavorano insieme da più di 20 anni: «Ormai è un matrimonio, lui è la moglie con i baffi».

·        Liza Minnelli.

Dario Salvatori per Dagospia il 13 marzo 2021. Nel 1972 gli appassionati di jazz romani vivevano in pieno interregno. Aveva chiuso i battenti il “Blue Note”, in via dei Cappellari, zona Campo de Fiori, e ancora non aveva aperto il “Music Inn”, in Largo dei Fiorentini, via Giulia. Ci si arrangiava alla meglio, per esempio incontrandosi in via del Casaletto, in una cantina dove ogni martedì si tenevano lunghe jam sessions , a volte con qualche musicista di passaggio. Arrivò a Roma Liza Minnelli, fresca del successo di “Cabaret” e Carletto Loffredo riuscì ad avvicinarla invitandola per il giorno dopo alle loro jam sessions. “Ragazzi! Ho invitato Liza Minnelli a raggiungerci! Non vi prometto nulla, ma mi è parsa convinta.” Prevalse lo scetticismo, almeno fino a quando, il giorno dopo, alle 23, una macchina depositò l’attrice proprio davanti all’ingresso. Si divertì molto, e dopo una sollecitazione di quaranta minuti, accolse l’invito a cantare un brano, “I remember Clifford”, storica ballad. Nei giorni seguenti Liza rimase in città per completare delle registrazioni e i jazzisti tornarono alla carica. Tornò. Stavolta si fece pregare per un quarto d’ora e cantò “Misty” e “Summertime”. Splendidamente. Arrivò il martedì successivo e la Minnelli, salì sul palco dall’inizio ed egemonizzò la serata. Dopo qualche giorno, Loffredo organizzò di nuovo l’appuntamento del martedì, con qualche avvertimento: “Ragazzi, allora martedì al Casaletto, mi raccomando non fatelo sapere a quella rompicoglioni della Minnelli!”.

Giorgio Gosetti per "ansa.it" il 13 marzo 2021. Si può essere divi per dono divino, per cromosomi ereditari, per tenacia mista a istinto. Si può dire che Liza May Minnelli lo è per la somma di queste indispensabili caratteristiche ed è un peccato che il festeggiamento per i suoi 75 anni, venerdì 12 marzo, possa essere celebrato solo virtualmente. Alle otto di sera (ora di New York) la piattaforma Stellar si illuminerà per un grande spettacolo in suo onore ideato dal produttore Daniel Nardicio, con incasso devoluto in beneficenza. Tra i grandi che hanno garantito la loro partecipazione e che rappresentano le tre carriere della diva (musica, teatro, cinema): Joel Grey, Lily Tomlin, Catherine Zeta-Jones, Chita Rivera, Joan Collins, Harry Connick Jr, Ute Lemper, Billy Stritch, Sandra Bernhard, Mario Cantone , Tony Hale, Coco Peru, John Cameron Mitchell, Andrea Martin , Seth Sikes e Neil Meron. "Sono entusiasta di poter fare questo per Liza e per i suoi amici e fan - annuncia trionfante Nardicio - . Una serata per dire tutti insieme in totale sicurezza e rispetto delle norme: 'ti amiamo tutti Liza'". Lei naturalmente ci sarà, signora del palcoscenico come sempre ha saputo essere, rinata dalle sue ceneri almeno tre volte, protagonista e testimone di età diversissime dello spettacolo americano. Nata a Los Angeles nel 1946 da una diva senza mezze misure come Judy Garland e da uno dei registi più raffinati degli Studios, Vincente Minnelli, la piccola Liza ha dovuto mordere la vita fin dalla più tenera età per far fronte all'allontanamento del padre e alle intemperanze della madre, ormai preda di alcolici e stupefacenti che la rendevano spesso incapace di occuparsi dei tre figli, due dei quali fratellastri di Liza. Ancora in fasce si ritrova su un set, nella scena finale di "I fidanzati sconosciuti" con Garland protagonista. In casa passa la gioventù dorata della Hollywood splendente e molti dei suoi coetanei le resteranno legati, come Mia Farrow, Candice Bergen, il suo padrino Ira Gershwin. A 16 anni la madre la spinge sul palcoscenico di Broadway procurandole una parte nel musical "Best Foot Forever" (1963) e l'anno dopo duetta con Judy Garland a Londra in un concerto che resterà negli annali. In Europa conosce il cantautore australiano Peter Allen che sarà il primo dei suoi quattro mariti. Dalla madre ha ereditato il carattere tenace e sulfureo, dal padre l'innata eleganza, il gusto del bello e l'amore per il cinema. Si ritroveranno, quando Liza è ormai una star, a Roma sul set di "Nina"(1976), omaggio di Minnelli a quell'Italia di cui è originaria la famiglia palermitana e a un cinema felliniano che assomma fantasia e sogno. Se in sala d'incisione e in palcoscenico Liza Minnelli si afferma molto presto, in entrambi i casi all'inizio degli anni '60, il cinema la accoglie davvero soltanto nel 1969 con "Pookie" di Alan J. Pakula che le varrà la prima nomination all'Oscar. La sua filmografia è più che selettiva - appena 15 titoli - e per lo più non memorabile, mentre il percorso fra teatro e musica è costellato di premi e ovazioni: sei statuette tra Emmy e Grammy. Ma le bastano due film per entrare nella leggenda di Hollywood: grazie a Bob Fosse (che poi la avrà in teatro per "Chicago") vince nel 1973 l'Oscar come migliore attrice con "Cabaret", le cui canzoni restano popolarissime anche oggi. Cinque anni dopo, nel 1977, è Martin Scorsese a chiamarla al fianco di Robert De Niro in "New York, New York": sarà un trionfo per entrambi: la canzone-guida, dedicata a Manhattan e scritta da John Kander per il film, rimane un simbolo inossidabile della Grande Mela e la cover incisa da Frank Sinatra nel 1980 non ha fatto che rilanciarne il mito. In questi due film Liza Minnelli propone una carica vitale, una spontaneità contagiosa fatta di fragilità e orgoglio che commuove fin dalla prima inquadratura e che disegna personaggi destinati a diventare icone. E' una senza-paura questa eterna ragazza che ha attraversato una carriera lunga quanto la sua vita tra momenti esaltanti e abissi disperati, scendendo gli stessi gradini della madre tra dipendenze multiple e assistenza psicologica, per ritornare ogni volta più forte. L’abbiamo vista per l'ultima volta in Italia al Summer Festival di Lucca nel 2014, mentre in tv è apparsa un anno fa nella popolare serie "The Great British Sewing Bee". Ma nell'immaginario di tutti è ancora e sempre l'ingenua Francine che si lascia sedurre dal genio del sassofonista Jimmy Doyle e che da crisalide diventerà farfalla solo allontanandosi da lui per diventare diva e cantante sulle note di quel "New York, New York Theme" che tanto tempo prima Jimmy aveva composto per lei. Con lui entriamo nel tempio della musica a Manhattan, spiamo Liza risplendere in palcoscenico, cantiamo sommessamente all'unisono con lei e la percepiamo irraggiungibile…come una autentica diva d'altri tempi.

Liza Minnelli, con i suoi 75 anni ancora tutti da vivere, è una donna d'oggi, ma il suo carisma e la sua icona appartengono a un altro tempo, quello della Hollywood che non ci sarà mai più.

·        Lo Stato Sociale.

Lodo Guenzi. Da it.mashable.com il 9 dicembre 2021. (…) 

Nello spettacolo si affronta anche il tema del bullismo. Come mai questa scelta?

"Elenco tutte le ragioni del perché mi picchiavano da piccolo e del grande errore che hanno fatto nel non farlo abbastanza, più forte. Sappiamo tutti che è sbagliato, che il bullismo, soprattutto fra ragazzini, è deleterio, però in scena ha senso portare questa parte della verità, perché se ci sei passato ti fa capire qualcosa di te e ti fornisce una qualche vaga forma di catarsi". 

Qualche tempo fa ha scritto che sente che la sua band Lo Stato Sociale, ha perso un po' la bussola. In che senso intendeva?

"Credo sia uno smarrimento generale, non solo della mia band. Tutta la nostra generazione napoleonica, per usare una categoria letteraria, che poi è la generazione degli anni '10, che faceva quel tipo di musica indipendente, che va da Le Luci della Centrale Elettrica fino ai Ministri, o i Fast Animals, i Tre Allegri Ragazzi Morti, tutta l’esperienza di Tempesta Dischi per essere più preciso: ecco noi a un certo punto eravamo diventati davvero un'alternativa al sistema. Come Stato Sociale facevamo delle cose improbabili, come i palasport con i prezzi popolari, senza sponsor, senza alcun tipo di multinazionale dietro. Poi ci siamo fatti mangiare dal mercato. Certo, non è avvenuto solo a noi, ma secondo me è un fallimento. Il fatto che un ragazzo di 15 anni che inizia a fare musica, ascolta noi come riferimento e la sua ambizione è quella di fare i grandi numeri e non di farli fuori da quel tipo di circuito, ecco questo nel nostro piccolo è una sconfitta". 

(…) 

Vivete un momento di crisi?

"Ma no, siamo bravissimi a litigare anche quando va tutto bene". 

In qualche modo però lei sta iniziando una carriera solista.

"In realtà non è assolutamente uscire dalla band, ma in questo momento è molto difficile progettare nel mondo della musica, dove prima i concerti si possono fare, poi si chiude tutto, poi si decide per la capienza limitata. Ho iniziato a dire di sì ai film che mi proponevano perché c’era la certezza che sarebbero stati realizzati". 

·        Loredana Bertè.

Marinella Venegoni per "la Stampa" il 4 novembre 2021. È una Bertè molto affaccendata e un pochino nervosa nell'esercizio multitasking. Prova che questa Loredana appare personaggio credibile, mentalmente e fisicamente vivace: anche se sempre un po' sopra le righe, altrimenti che Loredana sarebbe. E' in sala La famiglia Addams 2, dove presta la sua voce alla nonna; negli studi Rai a Milano lavora nelle vesti di giurata in The Voice Senior per interpreti over 60: format che ha avuto l'anno scorso un successo inatteso, con la conduzione di Antonella Clerici. Da poco c'è stato un tour, ma riprenderà sotto la spinta del nuovo album Manifesto che esce domani. Il nervosismo è dunque comprensibile, ma giova sapere che in Manifesto l'artista abbandona il solipsismo delle ultime produzioni per una impresa più corale; è una specie di concept album sul tema a lei caro della condizione femminile. Storie attuali e ficcanti, che coinvolgono body shaming e violenza domestica, senza perdere leggerezza stilistica. Sotto il segno dondolante del reggae e dell'elettronica, Bertè si apre duttile e con bella resa complessiva a collaborazioni con colleghi di diverse scuole: primo fra tutti Ligabue, tornato all'accorata ispirazione dei bei tempi in Ho smesso di tacere; fra gli autori il produttore Chiaravalli, Curreri, Legno, Zanotti dei Pinguini Tattici che apre con «Bollywood, mentre il verso più originale è del Cile: «Vorrei tutti i miei sbagli patrimonio dell'Unesco». 

Ospiti cantanti Fedez, J-Ax, il rapper Nitro. Tante ispirazioni, cara Loredana. Ma quale vita è più ispirante della sua?

«Ci sono tante sfaccettature che rappresentano me, ma anche tante donne diverse. Però c'è un vissuto che è mio nell'arco della mia vita, per questo l'ho chiamato Manifesto». 

Quale è il gioiello?

«Ho smesso di tacere di Ligabue. Mi ha presa molto, è incredibile che lui, come uomo, abbia scritto con una sensibilità pazzesca, dopo aver letto una mia intervista di una violenza a 15 anni a Torino, massacrata di botte e violentata. 

Un pezzo delicato, me l'ha mandato senza che glielo avessi chiesto. E mi fa schifo che una donna si debba vergognare se le succede una cosa simile». 

S' immagina la sua furia per l'esito del Decreto Zan.

«Io dico che dovremmo riandare tutti a votare per cacciare questa gente. In quell'aula è stato come quando uccidono i tori alle corride. Poi per diritti sacrosanti: gli altri paesi hanno leggi da anni, ho voglia di scappare dall'Italia che sta regredendo. E tutto quell'assenteismo alle elezioni? Forse si protesta troppo sui social e poi non vanno più a votare».

Disco all'insegna del reggae.

«Mi è sempre appartenuto. Questa volta con la mia manager abbiamo ascoltato centinaia di brani e ci abbiamo lavorato sopra: alcuni li abbiamo cambiati, alcuni li ho bertizzati. Otto mesi di lavoro».

C'è Fedez in Lacrime e Limousine, ispirato ad Amy Winehouse. J Ax canta Donne di ferro» e Curreri il rock bello tosto di Quelli come me.

«Con Fedez c'è un omaggio a Amy, non troppo velato. Alcuni finiscono in abissi da cui non tornano; la vita di chi fa il mio mestiere è spesso complicata anche se può sembrare affascinante, si è sempre in viaggio e si perde il contatto con noi stessi. Con J Ax e Curreri scorrono personalità fuori dalle righe: sono ritratti di una donna forte e indipendente, che fa paura agli uomini. I femminicidi ricorrenti non si possono più sopportare». 

Ora si è buttata sul cinema.

«Io faccio la nonna rock che ascolta i Talking Heads: mi sono innamorata del doppiaggio. Gli Addams mettono in discussione la mancanza di identità e la diversità. Sono molto più avanti dei nostri politici ».

Rita Vecchio per leggo.it il 4 novembre 2021. Donna di ferro. Dark lady coraggiosa, che si schiera contro ogni forma di violenza. Che si ribella al ruolo di donna oggetto. Non ha mai avuto paura, Loredana Bertè. Nella vita, prima ancora che nella musica. La sua Non sono una Signora (certificato Platino per il digitale a 40 anni dalla pubblicazione) l’hanno cantata quasi due generazioni. A dimostrare, ancora oggi, che lei è fuori da ogni schema, è il nuovo disco Manifesto, prodotto da Luca Chiaravalli per Warner, in uscita il 5 novembre. E allora, perché proprio il titolo “Manifesto”? «Perché non mi sono mai smentita. Sono sempre stata coerente con me stessa, con gli altri… con le altre. È il mio “manifesto” più vero. In questo album rappresento le donne in cui mi riconosco».

Dalla Dark Lady alla donna di “Smettere di Tacere”.

«Quest’ultima è un gioiello, senza retorica. Ligabue ha scritto il brano prima di tutto per lui. Me l’ha inviato immediatamente dopo avere letto un’intervista in cui raccontavo di essere stata massacrata di botte e stuprata. L’ho cantata subito. Quasi piangevo. Mi ha ricordato quei giorni bui e terribili della mia vita che ancora non riesco a dimenticare. Ci ho messo 20 anni a denunciare, quando bisognerebbe denunciare subito. La violenza tutta va denunciata. Ma allora avevo vergogna. Ero stata l’oggetto di questo schifo, di questa bruttura così terrificante. E la cosa grave è che spesso a farti sentire sporca è la stessa società». 

Per smettere di tacere serve coraggio, scrive Ligabue. Qual è il prezzo da pagare?

«Anche la morte. Tre femminicidi al giorno da quando è iniziato l’anno. I numeri parlano». 

Nel singolo “Bollywood”, scritto con Zanotti dei PTN, dipinge la società attuale.

«È un brano di denuncia di un “musical” chiamato politica. Guardi in Senato cosa è successo con il DDL Zan. È una vergogna. Si figuri che in Italia c’è un sindaco che ha vietato alle ragazze di indossare minigonna e abiti scollati (sindaco di Terni, ndr) perché sarebbe sinonimo di prostituzione. Vorrei proprio sapere da questo sindaco idiota che nesso c’è. Sono scene inaccettabili. Siamo tornati al Medioevo. Siamo in un Paese retrogrado».

Un Paese che discute se approvare la parità stipendiale.

«È un Paese da dove si scappa. Da dove si fugge. Abbiamo una classe politica che nemmeno alla Corrida. Il popolo sovrano non conta nulla. Invece di protestare sui social, dovremmo andare al voto e mandarli tutti a casa. Di questa politica non stimo nessuno, nemmeno le donne».

Per chi è il dito medio in copertina?

«Per chi mi pare. Io voglio essere chi cavolo mi pare. Anche il dito medio è giustificato. Se non vi sta bene è uguale (ride, ndr)».

Tutto avanguardista in questo album.

«Non posso non ricordare Andy Warhol e un anno fantastico alla Factory. Mi stimava come artista, come donna e come persona».

Loredana Bertè è stata avanguardista.

«Amo stare avanti. La curiosità è la mia forza. È la mia febbre. Voglio sperimentare, giocare, divertimi. Le contaminazioni sono importanti per me. Qui ne ho dato prova, collaborando con i giovani». 

Da Fedez, in “Lacrime in Limousine” in cui ricorda Amy Winehouse, a Il Cile, J-Ax, Nitro. Ma ritorna pure Gaetano Curreri in “Quelle come me”. E come sono quelle come lei?

«Quelle che non vanno in Paradiso, perché portano in Paradiso... Curreri da quando mi ha scoperto, è impazzito. Le sue canzoni - come le canto io - nessun’altra (ride, ndr)».

“Vorrei i miei sbagli patrimonio dell’Unesco”, canta.

«Certo. Perché li rifarei tutti. Nelle vita, le sconfitte servono». 

Tra le note a margine, il ringraziamento ad Alda Merini.

«Perché mi sento come i suoi versi. “Ma da queste profonde ferite usciranno farfalle libere”. Non a caso le farfalle, a Sanremo, me le sono messa in testa».

M. M. per "il Messaggero" il 28 ottobre 2021. La sceneggiatura, dice lei, c'è già: «Non so se ha letto la mia autobiografia Traslocando: ho raccontato tutto, lì». Il libro, uscito sei anni fa, ripercorre viaggi, amicizie e disavventure di una vita vissuta da rockstar vera. Una vita che ora, a cinquant' anni dagli esordi, a Loredana Bertè piacerebbe vedere raccontata sul grande schermo. Col cinema, evidentemente, la 71enne leonessa del rock italiano che lunedì ha pubblicato il nuovo singolo Bollywood, primo estratto dall'album Manifesto in uscita il 5 novembre ci ha preso gusto. Dopo il cameo in Addio al nubilato di Francesco Apolloni, uscito su Amazon Prime all'inizio dell'anno (con un omaggio alla sua Non sono una signora), ora la Bertè torna a prestare la voce al personaggio della nonna ne La famiglia Addams 2, nelle sale da oggi.

Chi dovrebbe girarlo, il suo biopic?

«Muccino o Sorrentino».

Addirittura?

«Non seguo molto il cinema italiano, ma loro sono riusciti ad attraversare le frontiere. Amo molto anche la regia alternativa di Asia Argento». 

L'attrice perfetta per il ruolo della protagonista?

«Emma. È la mia figlioccia rock (il duetto Che sogno incredibile, uscito quest' estate, è Disco d'oro, ndr). E poi ormai è lanciatissima anche come attrice». 

Sarebbe un film corale, considerando che la sua carriera è costernata di incontri: Renato Zero a chi lo farebbe interpretare?

«Forse a Damiano dei Maneskin, per la presenza scenica e per come gioca con i vestiti». 

La canzone principale della colonna sonora?

«Non saprei, il mio repertorio è una Treccani».

Ci sarà un brano che sente di più.

«Luna, del '97. Un pezzo autobiografico in cui misi tutta me stessa dopo aver trascorso anni chiusa in casa a fissare il soffitto dopo la morte di mia sorella. Era un grido di rabbia, ma anche di rinascita». 

Le capita mai di riprovare quel senso di solitudine, oggi?

«Ci sono dei momenti in cui la cerco. Ho imparato a starci bene. Alla fine, è un risultato delle mie scelte, di quello che mi è capitato. Non ho mai nemmeno convissuto con i miei fidanzati e con il primo marito (Roberto Berger, figlio del miliardario Tommaso, sposato nell''83 sulle Isole Vergini, ndr). Sono sempre stata indipendente».

La sua famiglia?

«Prima era Mimì. Ora sono rimasta solo io. Venderei l'anima al diavolo per riaverla».

Va sempre a dormire all'alba con la foto di Che Guevara sul comodino, come cantava in Amici non ne ho?

«No. Oggi ho dei ritmi regolari e abitudini sane. Passo le ore sulla cyclette: mi tengo in forma così».

Ha chiuso col rock' n'roll?

«Sono più serena. Il rock, comunque, è uno stato mentale». 

Cioè?

«Per me è essere sé stessi, la più grande trasgressione». 

È sempre una manifestina militante?

«Sì, i miei voti vanno sempre in quella direzione, dai tempi di Rifondazione e dei Radicali».

Ieri il senato ha bloccato il ddl Zan. Della classe politica di oggi cosa gliene pare?

 «Una volta c'erano personaggi carismatici: oggi il nulla». 

E dell'attualità?

«In Bollywood, scritta da Riccardo Zanotti dei Pinguini Tattici Nucleari, canto che c'è una sottile linea tra caos e libertà: c'è troppa confusione». 

Altri ospiti del disco?

«Fedez, J-Ax. Mi piace lavorare con i giovani, ma mi diverte anche fare il giudice a The Voice Senior (tornerà il 19 novembre su Rai1, ndr)».

Le piacerebbe interpretare un brano di Vasco?

«Perché no? So che è fan del singolo Figlia di, lo ha scritto sui social (ride)». 

La vedremo in gara a Sanremo?

«No, l'ho vinto già nel 2019».

Arrivò quarta.

«Dimentica le quattro standing ovation della platea, con i cori da stadio mai sentiti all'Ariston: fui la vincitrice morale» 

C'è qualcosa che le fa paura?

«Il buio. Dormo sempre con una lucina accesa».

Ci pensa mai a come sarà il suo funerale?

«Ci scrissi su una canzone, nel 2016: Se non venite non apparirete in nessuna tv, cantavo. Oggi va così».

Dal "Fatto quotidiano" il 3 agosto 2021. Da domani in edicola il MagBook (giornalibro) di agosto edito da ReWriters. Il tema è il Queer e la curatela è a firma dei due artisti in drag più noti d’Italia, i KarmaB. Con prestigiose firme come quelle di Loredana Bertè (di cui qui anticipiamo il contributo); Massimo Recalcati; Vittorio Lingiardi; Immanuel Casto; Francesca Vecchioni; Tindaro Granata e molti altri. 

Testo di Loredana Bertè. Lgbtq+: a quanto pare questo acronimo altro non serve che a identificare tutte le sfumature della sessualità, umana (eccetto quella comunemente più accettata dell'eterosessualità,): Lesbiche, Gay, Bisex, Transgender, Transessuali, Queer, Questioning, Intersex, Pansessuali, Two-Spirit, Asessuati, Ally (amico, sostenitore e difensore della causa della comunità, Lgbt, ndr). Ecco, Ally è la "categoria" in cui posso essere me stessa, sono una "Ally ante litteram". Da sempre ho supportato e mi sono trovata quasi più a mio agio con la comunità, Lgbtq+, pur non facendone necessariamente parte, anche quando nessuno ci diceva che fosse giusto farlo, a noi Ally.

AL CONTRARIO, "ai miei tempi", oltre a non esserci nessun riconoscimento in quanto comunità, di persone vere, in carne e ossa come tutti gli altri, anche solo il simpatizzare per un non-eterosessuale o con qualcuno fuori dalla "norma" non era visto di buon occhio, per usare un eufemismo. Anche tra ragazzi, a parte nell'ambiente artistico, c'era una sorta di ghettizzazione, di repulsione verso ciò che non era uguale, omologato. Ricordo una volta, ero con Panatta, verso gli inizi degli anni 70, dovevamo andare a prendere Renato (Zero, ndr) in macchina e quando Adriano lo vide, vestito con un costume attillato e boa di piume di struzzo, tutto truccato e con i capelli lunghi, non voleva farlo salire in auto con noi. Non ho mai capito il perché. Io, da eterna outsider, mi sono sempre trovata meglio con le persone fuori da certi schemi, con altri outsider come me.

Per me "diversità," è sempre stata sinonimo di originalità, di unicità. La cosiddetta "normalità," dopo un po' mi annoiava. Ancora oggi, io stessa, non posso di certo essere considerata una "normale signora di 70 anni". Io da sempre mi considero una persona diversa e aperta, ma non aperta come quelle che dicono "ho tanti amici gay", aperta nel senso del "vivi e lascia vivere": l'amore per me dovrebbe essere una cosa universale. L'amore, quello vero, spazia dentro e fuori dai confini imposti dalla società. Va un po' dove gli pare, non lo puoi "inscatolare" in una confezione come, ad esempio, la "famiglia tradizionale". Io sono cresciuta in una famiglia etero tradizionale, eppure di amore non se ne respirava un briciolo.

Esistono tante sfumature, tanti modi di sentire, di essere, di amare, di voler esprimersi...io stessa sono stata tante persone, nel corso dei miei "secoli", un po' come l'Orlando di Virginia Woolf. E ne ho anche viste e fatte tante... Alla luce di quanto ho vissuto, vi posso assicurare che la comunità, Lgbtq+ proprio una minoranza non è. Da sempre... non lo è. Purtroppo in Italia vigeva e vige ancora questo retaggio bacchettone e ipocrita per cui le cose si fanno ma non si dicono... Quando invece bisognerebbe sempre battersi per la propria libertà, e per quella degli altri: vivi e lascia vivere, continuo a ripetere. Vivila tua propria libertà, e fa sì che anche per gli altri possa essere lo stesso. Ora, non vorrei essere banale ma, il mio migliore amico, Leonardo Pastore, gay dichiarato nonché uno dei bracci destri di Fiorucci, l'ho perso perché si è ammalato. 

A metà degli anni 80 andammo in ospedale a Parigi da Luc Montagnier. Allora nessuno conosceva l'Hiv, c'era tanta ignoranza e si pensava che il contagio potesse avvenire anche solo stringendo la mano, che fosse la "malattia degli omosessuali", addirittura: l'omosessualità, in sé era considerata una malattia ed era fonte a sua volta di un'altra malattia ancora. Leonardo morì poco dopo, l'ho assistito fino alla fine, lavandogli anche i vestiti e le lenzuola sporchi... ancora oggi porto con orgoglio appuntato sui miei abiti il fiocco rosso simbolo della lotta contro l'Hiv. Tanto per non dimenticare.

Negli anni 80 ho frequentato assiduamente la discoteca No Ties di Milano, per gusto e per divertimento (così come tanti centri sociali, come il Leoncavallo). E negli anni 2000 si può dire che abbia fatto più serate in locali Lgbtq+ che concerti canonici: erano anni duri e volevo sentirmi "a casa". In fondo anche io sono sempre stata una "non-binaria", non ricordo chi, una volta, mi ha definita come "la donna più dolce e allo stesso tempo l'uomo più incazzato che avesse mai conosciuto". Ma poi chi lo ha mai stabilito che una donna debba essere per lo più dolce e un uomo per lo più rude? È una sciocchezza bella e buona. Anche nel vestire adoro spaziare. Vesto a seconda di come mi va.

Come ha detto Stephen Hawking, "l'intelligenza è la capacità, di adattarsi al cambiamento". E i tempi per fortuna sono cambiati, solo gli stupidi vogliono vedere ancora tutto grigio, guai a colorarlo. A volte mi sembra di assistere al nuovo Medioevo, pandemia inclusa! Ed è davvero un paradosso perché da una parte vedi giovani tranquilli, rilassati, sessualmente fluidi e dall'altra il rinascere di gruppi e idee di estrema destra, pronti a intervenire con brutalità, e violenza (anche verbale) al minimo accenno di libertà, e lo Stato è assente. Dobbiamo uscire da questo Nuovo Medioevo e riscrivere tutto l'immaginario. Spero solo, davvero, che un giorno, "da qualche parte oltre l'arcobaleno" non ci sia più bisogno di sventolarla questa bandiera poiché saremo tutti liberi e fusi in un'unica parola senza bisogno di acronimi: umanità. E l'umanità, si sa, è variegata.

Andrea Laffranchi per il "Corriere della Sera" il 29 giugno 2021. «I concerti mi mancano come l'aria. La mia valvola di sfogo è il palco. Quando sono dietro sono terrorizzata, ancora oggi dopo 45 anni di carriera, e solo quando sento che sono padrona del pezzo mi calmo e i dubbi e le incertezze si trasformano in grinta: mi mangio il palco». Loredana Bertè è pronta a tornare dal vivo con i concerti del «Figlia di... Summer tour» che partirà a fine luglio. A lei è dedicato l'Artista Day di oggi, l'iniziativa di Corriere e Radio Italia che celebra i protagonisti nostrani con interviste, speciali e approfondimenti...

In attesa dei suoi show è tornata a cantare dal vivo all' Arena di Verona con Emma con cui duetta in «Che sogno incredibile». 

«La adoro. È la mia bambina e io la sua mamma rock. Quando mi ha proposto il brano ho accettato subito. Le contaminazioni mi incuriosiscono, ho sempre avuto voglia di sperimentare». 

Ha anche cantato nell' album di Giordana Angi. Ai suoi esordi chi sono stati i big che l' hanno aiutata e sostenuta?

«All' epoca nostra non c' erano i featuring. Esisteva solo la gavetta stanziavamo davanti agli studi della Rca, facevamo cori, musical, di tutto».

Ma chi sono allora la sua mamma e il suo papà rock?

«I Ramones che vidi suonare in un bar in America. E Janis Joplin che mia sorella Mimì metteva dalla mattina alla sera: usufruivo dei suoi dischi preferiti». 

In «Figlia di...», il suo ultimo singolo di Sanremo, fa autoanalisi: «Ho fatto invidia e ho fatto pena».

«Alcune fesserie le ho fatte. Sono state discutibili». 

La più grande?

«Lasciare la mia carriera per seguire Björn (Borg, il campione di tennis con cui è stata sposata dal 1989 al 1992, ndr ) in Svezia. Credevo di farmi una famiglia ma non è andata così». 

Il pancione di Sanremo 1986 fu un errore?

«Di quello non mi pentirò mai. È stato un atto di liberazione, il grido di emancipazione di una donna. Una donna incinta non è malata, anzi è il momento in cui è più forte, dà vita a un altro essere umano. Quell' esibizione fu come un video fatto dal vivo: un mese di prove a Roma, un balletto in stile Madonna pensato da Franco Miseria, ma tutti parlarono solo della pancia». 

Nel video di «Figlia di...» quel momento della sua carriera lo ha fatto rappresentare con una versione cartoon di Chiara Ferragni.

«Mi piaceva che fosse lei a rappresentare l'emancipazione. La stimo molto: bella, libera e indipendente».

Lo scorso anno in Italia c' erano solo 8 donne nelle prime 100 posizioni della classifica degli album.

«Io c' ero? No, perché il mio ultimo disco è del 2018... (ride). Non è un Paese per donne, ma noi lavoreremo perché lo diventi». 

In carriera più volte ha affrontato la censura. Per le foto nuda del progetto grafico di «Streaking», per frasi leggermente allusive di «Sei bellissima» e «Dedicato»...

«Oggi quelle censure fanno sorridere e impallidiscono davanti a certi testi odierni». 

Gli artisti contemporanei hanno una libertà più ampia della vostra, ma sembrano sterilizzati. Non provocano più. Cosa è successo?

«Oggi la vera trasgressione è la "normalità"... Il problema è anche il pubblico: con tv e internet ormai si è assuefatto a qualsiasi cosa, per quanto estrema possa essere». 

C' è stato un momento della carriera in cui hai pensato di mollare?

«Quando è venuta a mancare Mimì nel 1995. Mi sono chiusa in casa a fissare il soffitto per 2 anni. Poi ho incanalato tutto quel dolore sempre e comunque nella musica».

Bob Marley morì 40 anni fa. Lei è stata la prima in Italia a rendere popolare il reggae: era il 1979 con «...e la luna bussò».

«Ero stata in vacanza in Giamaica e un giorno seguendo la corrente di migliaia di persone ero finita in uno stadio. Ho visto questa figura pazzesca coi capelli lunghi fino a terra e quando ha cominciato a cantare sono rimasta incantata. Ho chiesto chi fosse e finito il concerto ho comprato tutti i suoi dischi e li ho portati a Mario Lavezzi (il suo produttore e compagno dell'epoca, ndr ) dicendogli "studia". Dopo 8-9 mesi arrivò quella canzone». 

La sua vita è stata piena di incontri internazionali. Non solo musicali. Ha collaborato anche con Andy Warhol. Come vi conosceste?

«Era convinto che facessi la barista da Fiorucci. Ero la madrina del marchio che si apriva al mondo. Nello store di New York passò Warhol, chiese un cappuccino e glielo feci.

E lo stesso nei giorni seguenti. Una volta il manager del negozio disse: "Vi conoscete?

Lei è una cantante italiana rock e sapessi come cucina...". Fu così che Warhol mi chiamò per preparare una cena di lavoro, voleva cucina italiana. Andai a fare la spesa, comprai pure lo scolapasta, e alla Factory, in mezzo ai suoi Campbell' s Soup, preparai gli spaghetti. Feci un patto con lui: per 6 mesi gli ho fatto da cuoca, mi chiamavano "pasta queen", e in cambio ricavai il video di "Movie" e la copertina di "Made in Italy". Gratis».

È uscito ieri il vinile di «Traslocando», suo album dell'82 in una versione limitata per il Pride. Che ne pensa del dibattito sul ddl Zan?

«Serve che in Italia si ponga fine alla discriminazione per questioni di orientamento sessuale, di identità di genere o per disabilità. È arrivata l'ora di dire basta».

Verissimo, Loredana Bertè e il terrificante racconto: "Presa a calci e pugni, poi violentata in uno scannatoio". Libero Quotidiano il 13 giugno 2021. Un racconto straziante quello di Loredana Bertè fatto a Silvia Toffanin. Nell'intervista riproposta a Verissimo il 12 giugno, la cantante ha premesso che "per anni non mi sono fatta avvicinare da nessuno, ero traumatizzata". La Bertè negli studi di Canale 5 ha voluto raccontare la violenza subita da un uomo che per circa un mese l’ha corteggiata mandandole rose ogni giorno. “Dopo un mese ho deciso di prendere una cosa da bere con lui”, una scelta che le ha cambiato per sempre la vita. L’uomo l’ha picchiata e violentata in una casa, dalla quale è riuscita a scappare con difficoltà. “Tornata a casa non l’ho detto a mia madre altrimenti avrei preso botte anche da lei, allora me lo sono tenuto per me.” Ma la violenza la cantante rock più famosa d'Italia l'ha vista anche in casa: “Le violenze fra le mura domestiche sono le più frequenti, di cui nessuno parla. Avevo cinque anni e mi sono salvata, mio padre, un padre padrone, prendeva di mira mia madre. Alla nascita della quarta figlia femmina si è defilato, perché lui odiava le donne, comprese le sue stesse figlie”. Ci sono scene che difficilmente potrò dimenticare. “Ho visto mio padre massacrare di botte mia madre all’ottavo mese di gravidanza. Ho visto le mattonelle del bagno bianche imbrattate di sangue. Ogni volta che metteva Beethoven qualcuno doveva essere picchiata. Mia madre mi portava al mare per dimenticare, ma non ho dimenticato”. Poi, tornando sulla violenza subita a soli 17 anni quando è fuggita dalla propria città per inseguire il suo grande sogno: “C’era questo ragazzo che mi portava le rose ogni giorno, come una cretina, ci sono cascata. Una volta mi ha invitato a cena e io ho accettato. Non avrei dovuto farlo”. Quell'incontro altro non fu che un incubo: l’uomo si ferma in un posto isolato nei pressi di uno scannatoio, "mi ha preso a botte. Sono volati calci e pugni e mi ha violentata". E ancora: “ero vergine in un mondo in cui tutte erano navigate. Sono riuscita a sopravvivere. Sono corsa via e mi sono trovata davanti un taxi che, per fortuna, mi ha portata in ospedale”. Un ricordo indelebile che la cantante ha voluto condividere per invitare tutte le donne a denunciare.

Giuseppe Videtti per “il Venerdì di Repubblica” l'11 giugno 2021. Una calza di seta sull' abat-jour / J' adore Venise / Giusto ai piedi del letto / Un giornale / La questione d' Algeria La scrittura di Ivano Fossati è ricca, sensuale, immaginifica, misteriosa: J'adore Venise fu pubblicata nel 1981 come lato B del singolo Panama (già, c' erano ancora i 45 giri), canzoni profumate d' intrighi e popolate di Mata Hari e James Angleton. L' anno dopo risorge nell' album-capolavoro di Loredana Bertè, Traslocando. Fossati non è geloso della sua creatura, partecipa attivamente alla realizzazione del disco e regala altre perle: Non sono una signora, Stare fuori, I ragazzi di qui. Lei aveva trentuno anni, non più solo pop e trasgressione, ma disinibita diva rock al settimo album. Ricordo distintamente due cose di quell' anno: una serie d' immagini scattate dal fotografo Guido Harari nell' appartamento milanese della cantante, nuda dentro un sacco a pelo a forma di sneaker; le prime date del tour Traslocando - band mezzo americana (Platinum Hook), una corista blues che faceva tremare i vetri dei palazzetti (Aida Cooper), il palcoscenico spoglio, con al centro una scala grigia e risicata - quanto bastava per sottolineare l' entrata in scena della provocante sirena dai riccioli rossi. Bellezza incendiaria da Fuoco nella stiva con quel chiodo di Norma Kamali su minigonna jeans. Qualcuno esclamò:«Cazzo! È la Sophia Loren della canzone italiana». Vero. Cancellando dalla memoria le discese ardite e le risalite, quarant' anni fa la Bertè era la numero uno del nostro rock, e non solo per le gambe strepitose, ma perché ogni fibra del suo corpo e della sua storia rivendicavano l' appartenenza al territorio in bilico tra Janis Joplin, melodramma e canzone d' autore; glamour e sex appeal solo stuzzichini pop. «Lui venne alla finestra / Io gli dissi: "Mi sa che il buio se ne va" / Così calma e seduta pareva proprio / Stessi ancora là».

Ernesto Assante per la Repubblica il 22 febbraio 2021. Amadeus l'ha invitata, lei è contenta dell'invito. Il ritorno di Loredana Bertè sul palcoscenico dell'Ariston come superospite sarebbe il giusto coronamento di una carriera straordinaria, iniziata sulle pedane del Piper negli anni 60. Nonostante una vita "spericolata", segnata da grandi successi e grandi drammi, Bertè è senza dubbio una delle grandi personalità della musica italiana, capace da mezzo secolo di scalare le classifiche, raccogliere applausi e complimenti, restare al passo dei tempi con assoluta libertà tra generi, stili, follie, sorprese. All'Ariston c'è stata ben undici volte.

Signora Bertè, cosa significa Sanremo per lei?

«È un festival famoso in tutto il mondo, rappresenta un colosso della storia della musica italiana».

La sua lunga storia con il Festival inizia nel 1986 con lo "scandalo" del pancione. Come le venne l'idea di andare in scena così? Una provocazione?

«In realtà sono stata totalmente fraintesa, il messaggio che volevo trasmettere è che una donna quando è in stato interessante non è malata ma forte, è una forza della natura perché sta per dare la vita a un altro essere umano. Lady Gaga si è presentata sul palco con un vestito molto simile al mio trent' anni dopo e nessuno ha gridato allo scandalo. Forse sono sempre stata un po' troppo avanti».

Per lei hanno composto grandissimi autori. Nel 1991 andò al Festival con una canzone scritta da Pino Daniele. Come nacque quella collaborazione?

«Pino ha scritto per me diverse canzoni che canto sempre ai miei concerti. Resterà sempre nel mio cuore perché era una persona speciale, come del resto era Mango, grandissimo artista purtroppo dimenticato totalmente dal mondo della musica. Nel 1986 cantavo Re, una sua canzone strepitosa che nessuno ha "sentito" perché hanno voluto guardare solo la "pancia"».

Immagino che la partecipazione più emozionante sia quella del 1993, insieme a sua sorella Mia Martini...

«Quello è un Sanremo che vorrei cancellare. Credo di aver deluso Mimì. Ho dei rimorsi terribili, se non fosse stato per me Mimì lo poteva vincere, quel Festival. Io ho rovinato tutto». (Uno screzio, poi un'influenza, impedirono alle sorelle di esibirsi assieme, ndr)

Cosa accadde, invece, davvero nell'edizione del 2008?

«Del Sanremo del 2008 non voglio parlare. No comment, perché dovrei nominare gente che è stata veramente infame». (La canzone fu esclusa dalla gara con l'accusa di plagio, ndr )

Si è tolta una bella soddisfazione con le standing ovation del 2019.

«Ecco, quello credo che sia stato il mio Sanremo migliore. Sono arrivata concentrata, mi sono preparata e ho dato tutta me stessa. In genere il pubblico dell'Ariston non è molto caloroso. Sembrano dei cartonati. E sentire tutto quel calore, tre standing ovation, e la quarta con i cori da stadio, ma di protesta, il giorno della finale, è una cosa che non dimenticherò mai, una delle più grandi soddisfazioni della mia vita».

Sanremo è ancora il Festival della canzone italiana? Le piace il fatto che quest' anno ci siano tanti giovani della nuova scena indipendente?

«La scena musicale sta cambiando prepotentemente da qualche anno, quel cambio generazionale che sembrava non arrivasse mai. Mi ritengo fortunata, quando ho visto che ero terza su Spotify con Cosa ti aspetti da me ho pensato di essere una sorta di Highlander della musica. Per la mia innata curiosità ho sempre prediletto le contaminazioni e continuerò a farlo. Penso alle collaborazioni con Rovazzi, J-Ax, Fedez, Clementino, Takagi & Ketra, Paradiso, Calcutta, artisti con cui ho instaurato un bel rapporto, collaborazioni che continuerò a fare. Oggi faccio più che mai quello che voglio, non ho più niente da dimostrare a nessuno. Ho molti progetti in cantiere».

A Sanremo c'è stata undici volte, Amadeus ha detto che la vorrebbe quest' anno. «Dopo l'ultimo Sanremo strepitoso mi sono ripromessa che ci sarei ritornata solo come superospite e quell'invito è arrivato!».

E canterebbe anche senza pubblico?

«Come dicevo, il palco dell'Ariston è un palco tosto. Per un'artista il pubblico è tutto, infatti non vediamo l'ora di tornare a cantare dal vivo e sentire quell'abbraccio che per noi è linfa vitale. Quanto a Sanremo, non dimentichiamo che ci sono milioni di persone che lo seguono da casa, non esiste pubblico di serie A e pubblico di serie B, tutti meritano il nostro massimo impegno. E il nostro cuore».

Paolo Giordano per “il Giornale” il 10 settembre 2021. Loredana Bertè mica la fermi, è scatenata oggi come negli anni Ottanta: «Si rende conto che il pezzo Sei bellissima ha 47 anni? Da non crederci». Stasera arriva all'Arena di Verona dopo aver girato l'Italia con un concerto dopo l'altro giusto per celebrare una ripartenza che, come si sa, per la musica è ancora più difficile viste le condizioni di sicurezza talvolta persino contraddittorie imposte ai concerti: «Non è stata proprio una passeggiata riuscire a lavorare rispettando tutte le accortezze e le normative anti Covid», spiega lei che tra dieci giorni compie 71 anni restando tra le signore della musica italiana. «La ringrazio del complimento», dice con modi d'altri tempi. Comunque ce ne fossero di artiste che non fanno compromessi né passi indietro e, come si dice, ci «mettono sempre la faccia». Da quando negli anni '60 faceva show con Renato Zero e recitava (anche nuda) nel musical Hair è rimasta sempre la stessa Loredana Bertè: una ribelle a vita. 

Però la vera ribellione questa estate è stata la normalità.

«In effetti è stata finalmente un'estate un po' più normale, almeno per quanto riguarda la musica. Stiamo finendo il mio Figlia di... Summer tour anche se non è stato semplice lavorare».

Ma come è stato ritrovarsi il pubblico davanti dopo così tanto tempo?

«Non c'è neanche da dirlo: è stato bellissimo». 

Anche i concerti hanno attirato polemiche qui e là per il green pass.

«Ho trovato il mio pubblico rispettoso delle regole, caloroso ma attento. Alcune volte, presi dall'entusiasmo, si alzavano al ritmo della musica, io chiedevo di restare seduti e si sono mostrati quasi sempre molto collaborativi. Dopotutto ho dei fan intelligenti».

Uno dei brani dell'estate è stato Che sogno incredibile.

«L'ho cantato con Emma. Da sempre adoro le contaminazioni musicali». 

Ce ne sono altre in vista?

«È tutto ancora abbastanza top secret, ma non ho finito con le contaminazioni, questo di certo no. Sto finendo il mio nuovo album di inediti dopo LiBertè uscito nel 2018».

Quello con Maledetto Luna Park e Non ti dico no, uno dei brani dell'estate di quell'anno. A proposito, come sono i tormentoni 2021?

«Ho trovato riuscitissima la collaborazione tra Orietta Berti, Fedez e Achille Lauro. Mille è un brano azzeccato che ci ha riportato con la voce da usignolo di Orietta alle atmosfere spensierate degli anni 50/60 affiancate alla modernità e al talento di Fedez e Lauro. Loro sono davvero un trio vincente». 

Non sono una signora compirà 40 anni nel 2022.

«Ma lo sa che Non sono una signora, E la luna bussò e Sei bellissima in versione digital sono state certificate oro proprio come Figlia di... che è uscito a marzo». 

È diventata una signora? «No di certo, non sono ancora una signora». 

Però ha sempre idee chiare. Mai pensato di fare politica?

«Sono troppo poco diplomatica per poter fare politica».

Siamo nell'epoca del «politically correct».

«Ho fatto battaglie per i diritti Lgbt o per i diritti dei neri 40 anni fa, non posso tollerare che nel 2021 ci sia ancora chi bullizza una persona gay o chiama negro una persona africana... Per questo ho accettato con grande orgoglio il premio del Rewriters Festival: mi hanno premiata per aver riscritto in qualche modo la terza età».

Loredana Bertè e i talent show.

«Quest' anno sarò ancora coach sulla mia poltrona rossa di The Voice Senior 2». 

C'è qualcosa che gli altri giudicano sbagliato ma che lei è contenta di aver fatto nella sua carriera?

«Rifarei altre mille volte la mia apparizione con il pancione a Sanremo 1986! Per qualcuno è stato un errore ma per me no. Volevo dimostrare che una donna quando è incinta non è malata ma è forte! E poi cantavo il pezzo di Mango (Re - ndr): è stato il primo pezzo rock mai presentato al Festival. Solo Sting mi capì e mi disse passando di fianco a me: Wow that' s amazing, è meraviglioso!».

·        Lorella Cuccarini.

Lorella Cuccarini: «Pippo Baudo mi notò a una convention di gelati. E ho ispirato Beyoncé». Candida Morvillo su Il Corriere della Sera l'11 settembre 2021. La showgirl: «Le botte in camerino con la Martinez? Non è mai successo. L’unica volta che ho alzato le mani fu con una ragazza che faceva la gattamorta con il mio fidanzato»

Lorella Cuccarini, lei che è stata a lungo «la più amata dagli italiani» di un celebre spot, a che punto della vita è?

«Mi ritrovo in quel refrain di Jovanotti: sono un ragazzo fortunato perché mi hanno regalato un sogno. Se penso alla mia infanzia, alla situazione che vivevo, fatico a non emozionarmi: sognavo di fare della mia passione il mio mestiere, magari diventare ballerina di fila, ma tutto è stato più bello e gigantesco di ogni ambizione di quella bambina».

Siamo al quartiere Prenestino di Roma, fine anni ’60, primi ’70.

«Mamma sarta, mi ha cresciuta lei, con tanti sacrifici, dopo la separazione da papà. Due fratelli molto più grandi: ancora oggi, a 56 anni, sono la piccola di casa che deve essere protetta. A tre, allo specchio emulavo i balletti dei varietà tv. Da lì a studiare danza, ho dovuto aspettare i nove anni e mezzo, quando abbiamo cambiato casa e c’era vicino una palestra con qualche lezione di balletto».

Quando ha capito che, nella vita, voleva fare quello?

«Non lo so, so che finite le medie, scelsi di fare la segretaria nella scuola di danza pur di continuare ad allenarmi, e so che avevo due modelli: Carla Fracci e Raffaella Carrà, scegliere fra danza classica e moderna è stato un dilemma. Nel 1980, per vedere una memorabile Fracci con Rudolf Nureyev in Giselle all’Opera di Roma, feci con tutta la famiglia una staffetta al botteghino, di notte, per prendere i biglietti più economici in piccionaia. Poi, sei anni dopo, ero con lei sulla copertina di Tv Sorrisi e Canzoni e mi sembrò qualcosa di inimmaginabile, uscito dalla sceneggiatura di un film».

A quel punto, era la star di Fantastico: 22 milioni di telespettatori ogni sabato sera e la danza classica messa da parte.

«A 12 anni, non fui ammessa all’Accademia, fu una delusione enorme, la vissi come un’ingiustizia. Ma cominciai a implementare danza moderna e jazz, in fondo, ero sempre stata attratta dai lustrini, dalla donna di spettacolo a tutto campo, da Raffaella. Anche lì, accadde una cosa inimmaginabile: Enzo Paolo Turchi selezionò dei ragazzi per un numero con lei. Avevo forse 13 anni, mi scelsero. A vederla a un passo da me, con un lungo abito bianco, mi emozionai così tanto che, a casa, mi venne l’orticaria».

Quando Carrà è mancata, sui social qualcuno ha tirato fuori un vecchio post in cui lei diceva che non vi siete parlate per anni.

«Con Carla, c’è stato un rapporto che è cresciuto nel tempo; con Raffaella, non ho avuto questa fortuna, ma nessun incidente di percorso può cancellare quello che una persona ha rappresentato per te: la possibilità di vedere un sogno e poterlo inseguire».

Le sue sliding doors quali sono?

«Una convention di gelati che, se avessi guardato alla retribuzione, avrei rifiutato. C’era Pippo Baudo, mi vide e mi fece chiamare dal suo agente. Io mi dicevo: non può capitare a me, dov’è la fregatura? Nel dubbio, mi feci accompagnare da mamma».

Temeva un caso di Me Too?

«Pippo ancora se lo ricorda con divertimento. Poi, capii che entravo dalla porta principale».

E, se uno entra dalla porta principale, è in salvo dalle brutte esperienze?

«No, ma sono stata molto attenta. Dove sospettavo il pericolo, sono sempre fuggita in tempo».

Cosa significava essere la prima ballerina del più importante varietà degli anni ’80?

«La bellezza di lavorare senza l’ossessione per costi e ascolti. Stavamo otto ore al giorno in sala prove, provavamo anche due balletti, la sigla. Oggi, ti danno forse due giorni per far tutto, la tv è cambiata. Un balletto costava, solo di costumi e scenografia, una cifra che oggi sarebbe l’intero budget di una prima serata».

Quanta fatica sono otto ore di sala prove?

«Nel nostro mestiere deve esserci una componente di masochismo... Ricordo le volte che sono finita al pronto soccorso... Per i lividi alle gambe, mi faceva dolore tenerci sopra il lenzuolo. Gino Landi dice che sono stata un modello perché non ho mai detto no a un coreografo. Era uno sperimentatore, mi ha mandata all’ospedale quattro o cinque volte. Un giorno, mi fece fare una serie di spaccate su una fila di dieci tavolini messi a distanza di un metro e mezzo. Passavo da uno all’altro con due porteur che mi tenevano per l’ascella, su una musica tipo can can: gamba, spaccata; gamba, spaccata. Avevo i polpacci neri. Una volta, sono caduta e ho dato una botta alla nuca; un’altra, un ballerino non fece in tempo a prendermi... Ma mi chiamano bertuccia: cado sempre bene. È una qualità che affini col tempo».

Beyoncè, che le ha copiato una coreografia al Billboard Music Awards 2011, ha detto che lei è un genio.

«È bello pensare che un pezzettino di creatività italiana, una cosa che facevo tutte le sere a teatro e avevo portato a Sanremo, ha varcato l’oceano. Devo ringraziare Antonella, la truccatrice che gliela fece vedere su Youtube».

Quando l’era del varietà è finito, ha fatto di tutto: da Paperissima a Buona Domenica e Domenica in, da Scommettiamo che a La sai l’ultima?, a Vita in diretta, e ora l’insegnante di canto ad Amici. Rimpianti per la fine di un’epoca?

«No, perché mi sono sempre vista come una donna di spettacolo. Nella mia vita, ci sono tante prime volte, segno che rischio in prima persona. Mi piace quando puoi dire di aver aperto una strada, come il musical: fare Grease sembrava impensabile e invece siamo stati in scena tre anni di seguito. Le cose cambiano e io mi proietto in avanti: non puoi fermare il vento con le mani. Il momento più brutto fu quando la Rai mi lasciò a casa tre anni senza lavorare e senza darmi una spiegazione. Nello stesso periodo, persi mamma, mi operai alla tiroide. Ma, col senno di poi, è stato uno di quei momenti in cui dai il giusto valore a ciò che hai costruito, capisci che nulla ti è dovuto e ogni conquista va guadagnata».

L’amore per Silvio Capitta, in arte Silvio Testi, quando e come arriva?

«Prima, a Fantastico, avviene l’incontro professionale col produttore musicale. Mi è piaciuto subito, ma in quel momento, non poteva scattare nulla: mi stavo giocando l’opportunità della mia carriera, non avevo in testa altro. Poi, ci siamo persi e quindi ritrovati: lo volli con me quando andai in Fininvest, lavorò anche alla celebre sigla La notte vola. Quando si sta bene insieme, possono venire solo cose belle. Insomma, io ero libera, lui si liberò. Il 3 agosto abbiamo festeggiato 30 anni di matrimonio».

Con quanti alti e bassi?

«Momenti difficili non mancano in nessuna famiglia, ma l’aspetto più bello è accorgerti che cammini sempre insieme».

Perché ben quattro figli?

«Perché non ho avuto il tempo di farne altri. Vengo da genitori separati e le strade erano due: o perdi la fiducia di fare famiglia e o ci credi fermamente».

Le rivalità con Alessandra Martinez e Heather Parisi quanto erano marketing e quanto erano vere?

«Io sono sempre andata d’accordo con tutti».

Con Martinez si disse che eravate arrivate alle mani in camerino.

«Alle mani mai. L’unica volta che sono arrivata alle mani con qualcuno fu a 18 anni, con una ragazza: faceva la gatta morta col mio fidanzato e, prima di prendermela con lui, me la presi con lei. Dopo, sono stata sempre pacifica».

Parisi in tempi recenti le ha dato della «ballerina sovranista».

«Lasciamo stare, parliamo della bellezza di essere italiani».

Ce l’aveva con lei che si era espressa contro l’utero in affitto, e che dopo, si è meritata un retweet di Salvini per aver plaudito alla linea dura sui migranti.

«La maternità surrogata non è questione di appartenenza politica: la mia posizione è proteggere i bambini e le donne. Per il resto, si tratta di temi complessi dove c’è troppa polarizzazione per non essere etichettati. Io sono solo una che, ogni tanto, ama dire come la pensa».

L’anno scorso, è uscita da Rai e da Vita in diretta dando del maschilista al coconduttore Alberto Matano: la lettera che è trapelata esiste?

«Era una lettera interna, poi uscita fuori, manipolata. Non c’è bisogno che ci torni su: quello che dovevo dire l’ho scritto a chi dovevo. Penso sia il modo migliore di dire le cose. Pensate e meditate. Ora, sono felice di tornare a Mediaset, ad Amici, con Maria De Filippi: mi piace mettere a disposizione dei giovani la mia esperienza. È come restituire parte del regalo ricevuto da ragazza».

Alla fine, si è poi laureata?

«No, mi sono diplomata nel 1994, mentre aspettavo Sara, la primogenita. Pensavo potesse essere pane per il mio cervello. Poi, mi sono iscritta a Lettere, ma il lavoro, la famiglia... Era un delirio, ho alzato bandiera bianca. Magari, ci riprovo con la terza età».

Ballare le manca?

«Sì, anche se non ho mai smesso. Mi alleno quattro volte a settimana per un’ora: non ho né fisico né l’elasticità e la forza dei vent’anni, però quando potrò tornare in teatro so che supplisco con esperienza, passione ed energia che non hanno uguali. Lavoro a delle idee, ma i miei spettacoli vivono di pubblico: con una capienza bassa per Covid non starebbero in piedi».

È d’accordo sul green pass a teatro?

«Lo sono con tutte le misure che possono aumentare la capienza, ma visto che anche i vaccini non evitano il contagio, l’unica soluzione mi sembra il tampone rapido e, senza facilitazioni economiche, non puoi pensare che una famiglia, oltre al biglietto, si accolli 80 euro di tamponi. Non che debbano essere gratuiti, ma costare molto poco sì».

Lei è sì vax, no vax, boh vax, nì vax?

«Sono per la libertà di scelta, che è molto più semplice. Noi, a casa, abbiamo fatto tutti il Covid, per fortuna con pochissimi sintomi, per cui, il vaccino non l’abbiamo fatto».

Sogni ne ha ancora?

«Certo, uno mai realizzato è fare cinema. Ma la prima ambizione è essere la migliore mamma per i miei figli. Presente, non ingombrante, dispensatrice di consigli, ma non giudicante».

·        Lorenzo Jovanotti Cherubini.

Angela Calvini per “Avvenire” il 22 novembre 2021. «Il Jova Beach Party è la cosa che mi assomiglia di più. Quindi ripartiamo da qui». È un fiume in piena Jovanotti, 55 anni e non sentirli, che presenta alla stampa milanese il suo ritorno in pista con un lungo ed entusiasta monologo sul Jova Beach Party 2 in cui c'è di tutto e di più: ambientalismo, speranza, musica, nuove canzoni in arrivo e l'ombra della pandemia da sconfiggere. Perché Lorenzo Cherubini da sempre pensa positivo e mentre i dati della risalita del contagio allarmano, lui già guarda oltre, alla ripartenza una volta superata la quarta ondata, fiducioso nei vaccini che possano portarci a liberatorie feste di famiglia sulla spiaggia come tributo alla vita. La sfida è imponente per quella che lui definisce «una roba da matti, un'utopia che dura un giorno», e i rischi non mancano. Perché se nel 2019 il suo Jova Beach Party era riuscito a portare sulle spiagge italiane ben 600mila spettatori di tutte le età, 63 artisti e ben 1000 persone di staff, replicare l'esperienza nell'era della pandemia è una vera scommessa. «Preoccupato? Come tutti, ma sono fiducioso - aggiunge -. I dati ci dicono che in primavera saremo in grado di tornare a fare concerti all'aperto. Al Jova Beach Party 2022, biglietti già in vendita, non ci sarà l'obbligo di mascherina e la capienza sarà al 100 per 100, altrimenti l'operazione non è sostenibile. Rispettando tutte le leggi che speriamo favoriscano il ritorno completo al lavoro del settore». L'inizio di una nuova era, si augura Jovanotti. Ma cos' è esattamente il Jova Beach? «Un villaggio, un festival, un gioco, un rito - elenca entusiasta -. Io sono nato nella ritualità, il mio babbo lavorava in Vaticano, mi ha passato il senso della ritualità come evento sacro e la musica è il mio elemento sacro».

Concerti ed eventi in tutta Italia

Saranno 12 i luoghi italiani coinvolti. Il via dal 2 luglio, data di debutto a Lignano Sabbiadoro, al 10 settembre, quando si chiuderà all'aeroporto di Bresso, provincia di Milano. Due date per ogni località, con Tim partner tecnologico, fra cui Marina di Ravenna, Aosta, Albenga, Marina di Cerveteri, Barletta, Fermo, Roccella Jonica, Vasto, Castel Volturno, Viareggio. Questo perché non si tratta solo di un concerto ma di una vera e propria festa dove si può prendere il sole, fare il bagno, mangiare, ascoltare "belle storie" che verranno raccolte da Radio Italia, e ballare sotto tre palchi, con dj set, ospiti italiani ed internazionali, gruppi sconosciuti e lo stesso Jovanotti che torna a fare il suo primo mestiere, quello di Dj facendo ballare il pubblico sui suoi grandi successi. Le suggestioni musicali di quest' anno arriveranno dal Mediterraneo, ed anche il palcoscenico principale avrà la forma di «un relitto, un veliero passato attraverso la tempesta, ma uscito più bello di prima, realizzato tutto con materiale riciclato». Vista oggi in piena era Covid, una cosa così, con 50mila spettatori ad evento, sembra davvero «un'utopia», ma se la sfida andrà in porto significherà che siamo davvero usciti dal tunnel.

Ambiente e ambientalisti

«Il futuro? Dobbiamo pensare a come continuare ad esistere senza compromettere i sistemi ecologici. Al Jova Beach creeremo un clima per sensibilizzare sul clima - aggiunge Lorenzo -. Inviteremo, come abbiamo fatto, filosofi, scienziati, testimonial. Inoltre saranno totalmente abolite le bottigliette di plastica. L'acqua sarà gratis e distribuita da autobotti in borracce di materiale sostenibile che regaleremo. Inoltre ci sarà particolare cura per il cibo, affidato a piccole realtà locali che propongono street food». Tra i partner, Banco Alimentare che raccoglierà e ridistribuirà il cibo non adoperato. Jovanotti però ci tiene a sottolineare «non sono saltato sul carro del "green wash", l'ecologia non è un elemento di promozione, ma un tema fondamentale che mi sta a cuore». L'artista replica così alle critiche ricevute la volta scorsa da alcune associazioni ambientaliste per l'impatto antropico, compreso l'inquinamento acustico, di una manifestazione di tali proporzioni sull'ecosistema. «Le spiagge sono un ambiente delicato: farne un luogo di concerti è sbagliato materialmente e culturalmente» ha fatto sapere ieri la Lipu-BirdLife Italia contraria al nuovo Jova Beach Party. Mentre l'Oipa (Organizzazione internazionale protezione animali) chiederà l'accesso agli atti autorizzativi relativi ai luoghi prescelti per i concerti. «Io sono un ambientalista, chi mi accusa non tiene conto del mio stile di vita. C'è anche chi fa polemica in cerca di visibilità» replica l'artista. Chi invece sostiene Jovanotti è Wwf Italia la cui presidente Donatella Bianchi, ieri al fianco del cantante, ha confermato fiducia: «Sui temi dell'ambiente serve una mobilitazione globale. Noi ci fidiamo di te». Un impegno declinato insieme al Wwf e a Intesa Sanpaolo, con il progetto Ri-Party-Amo, che mira a raccogliere 5 milioni di euro per pulire 20 milioni di metri quadri di spiagge, laghi, fiumi e fondali oltre ad attività di formazione che coinvolgeranno 100mila studenti. Non quelli dei concerti, «cui pensiamo noi», come successo nel 2019 quando - ricorda Lorenzo - le spiagge furono lasciate più pulite di come erano state trovate». 

A dicembre 7 nuovi brani

«Non capisco la prospettiva, ma ora non pensarci e muoviti seguendo il Boom boom» è il manifesto futurista scacciapensieri del nuovo singolo di Jovanotti uscito ieri per Polidor Universal Il Boom, prodotto da Rick Rubin. Ma questo è solo l'antipasto di una nuova produzione in arrivo dopo il blocco della pandemia. «Non riuscivo non solo a scrivere, ma neanche ad ascoltare musica - racconta Jovanotti -. Quando un anno fa con l'arrivo dei vaccini si è riaperto il cielo, mi è tornato il desiderio di fare musica e mi sono uscite 30 canzoni in maniera istintiva, festosa, celebrativa, per recuperare il senso della vita nel suo aspetto più bello». Idealmente questi brani fanno parte de L'album del sole, un album che però Jovanotti non ha intenzione di pubblicare. «Io stesso non ascolto più gli album, e non ha senso uscire con un supporto fisico di 12 canzoni che diventano subito superate. Meglio uscire solo online e ogni tanto. A dicembre uscirò quindi con altre 7 nuove canzoni in digitale». E i contenuti? «Saranno molto diversi, ci saranno emozioni forti, molto pop di quello che tira dentro la gente - rivela -. C'è vitalità, voglia di vivere, tantissimo amore, voglia di abbracciarsi e gratitudine, tutti elementi pieni di chiaroscuri».

La app e le altre inziative

 Il costoso e colorato carrozzone del Jova Beach Party (tre anni fa si sforarono i costi, lezione che verrà tenuta presente per il prossimo tour) è una fucina creativa a 360 gradi. Viene ora rilasciata una app dedicata che proporrà una radio, dei podcast ed anche le puntate del docutrip Non voglio cambiare pianeta, con il cantante in sella alla sua bici in Patagonia. Inoltre grazie a un accordo con la Scuola Holden verranno proposti incontri e lezioni su arte, design, ambiente, musica ed ecologia. Infine per Crocetti editore (Feltrinelli), verrà pubblicata la raccolta Poesie da spiaggia, «le 100 più belle poesie sul mare per avvicinare anche chi non è appassionato. Per me - rivela - la poesia è la cosa più importante che esiste al mondo» 

No comment su Sanremo

«Non rispondo, e mi dispiace perché io preferisco sempre rispondere. Ma su Sanremo non rispondo, non sono abile». Scherza così Jovanotti, rispondendo su una sua eventuale partecipazione al prossimo Festival con gli amici Amadeus e Fiorello. Un non detto che lascia però trapelare una possibilità.

Lorenzo c’è Jovanotti si muove seguendo il boom e torna alle radici (e in spiaggia). Stefano Pistolini su L'Inkiesta il 19 Novembre 2021. Non ha mai smesso di essere un eterno ragazzo e con il nuovo singolo – traino di un album che arriverà a breve – ripesca suoni vintage ma sofisticati, privilegiando il ritmo alla melodia, proprio come tanti anni fa. E a luglio torna il Beach Party in 12 spiagge: si parte da Lignano per finire all’aeroporto di Bresso. Eccolo qua, Jova. In controtendenza coi nuovi allarmismi che si diffondono nel Paese, torna Lorenzo e ci racconta una storia diversa, soprattutto una storia “post” e ovviamente viene voglia di starlo a sentire. Ma conviene prenderla un po’ alla larga e collocare questo evento e anche altri – ad esempio la sortita di promo-politica helzapoppin inventata da Fedez, per lanciare un nuovo disco e stuzzicare certe opzioni di irritualità e disubbidienza – in un quadro più ampio, utile per rispondere alla domanda: a che servono oggi i cantanti, soprattutto quelli che hanno tra le mani il potere d’essere ascoltati, non solo quando gorgheggiano, ma anche quando parlano? La risposta ovvia è che possono servire a offrire una narrazione più libera – con tutti i rischi connessi – meno vincolata ai criteri della generale correttezza e più connessa al fattore dell’empatia, analizzando la verità in cui siamo tutti immersi e di cui spesso ci sfuggono le istruzioni – quelle da ritagliare lungo i bordi, come scherza Zerocalcare. Queste figure, destituite per un biennio del loro ruolo naturale sui palchi italiani, fortunate capofila di un settore sventrato dalla crisi, non hanno perduto il loro carisma, anzi, in assenza, l’hanno sentito perfino vagheggiato da pubblico, quando non addirittura mitizzato. Insomma, se n’è sentita la mancanza. E loro hanno cominciato, per caso o per noia, a occuparsi anche d’altro oltre la musica, generando caoticamente un genere diverso di leadership, i cui risvolti soltanto ora si vanno precisando, ma che delinea una specie di second life, rispetto alla malmostosa vita politica del nostro Paese. E tutto ciò, inutile dirlo, è interessante. Veniamo al ritorno di Lorenzo, leone in gabbia se mai ce n’è stato uno, nel lungo esilio pandemico. Il Jovanotti adulto non smette d’essere un eterno ragazzo fatto di aria, terra e inquietudine, in moto perenne, con la testa piena di vorticanti idee e cose da fare. Le deve aver compresse al punto tale, durante la nostalgia delle magnifiche biciclettate andine, che adesso saltano come un tappo di spumante, raccontando tutto quanto ha in mente e sta per fare. La musica, innanzitutto. Esce “Il Boom”, singolo di traino di un album che non tarderà e che si colloca nel profondo solco di “Oh Vita” e del Jovanotti musico-rinato, grazie al salvifico, rinfrancante incontro con Rick Rubin, il guru-producer che ha saputo avvicinarsi straordinariamente a lui, ben prima di tirarlo a sé e alle regole delle sue sonorità. Il risultato è stato un ritorno alle radici formative di questo artista, condito dalla spoliazione dagli accessori e da una semplificazione dinamica delle lavorazioni, privilegiando il Jovanotti del ritmo a quello della melodia. E ne “Il Boom” continua a essere così: i suoni sono vintage ma sofisticati, le coloriture inattese, la bocca di Lorenzo spalancata per far transitare la Babele dei pensieri che gli corrono nel cervello, le citazioni e le incazzature, le agnizioni e le antiche lezioni. Un suono e una figurazione artistica che collocano Jova sempre più fuori, “a parte”, rispetto alle scene ricorrenti e dominanti e ne fanno un unicum, che ottimizza così la sua età matura. Il resto è festa, o almeno annuncio del grande spasso e delle fantasie connesse: «Per due anni ho sfogliato quelle fotografie», racconta Lorenzo presentando il monumentale sistema di spettacolo che torna a muoversi. Riparte il Beach Party: 12 spiagge, tre palchi, dozzine di ospiti a sorpresa, Lorenzo ovunque nel ruolo del Mago di Oz, la garanzia dell’evento che ricerca la straordinaria efficacia della prima volta, in un revival slanciato verso la declinazione ecologica e filo-ambientalista, a cui lui tiene non da oggi. Si parte il 2 luglio a Lignano, si finisce a settembre nell’aeroporto di Bresso, vicino Milano. Tutte le informazioni online e biglietti già in vendita. Tante iniziative “attive” di corredo, impegno alla massima cura, nessuna violazione: si fa festa e si ripulisce, si ripristina e si controlla che tutto funzioni nel modo migliore, col Wwf coinvolto in prima linea. Poi che deflagri l’oceanico party della momentanea dimenticanza, rispetto al guaio collettivo che stiamo ancora passando.

Non resta che sperare che davvero affonderemo i piedi nella rena passeggiando sul bagnasciuga, mentre il ragazzone di 55 anni spara dischi a volume megatronico dalla console dell’eterno pirata dei Caraibi.

Futurismo, pop e poesia. È "Il boom" di Jovanotti. Paolo Giordano il 20 Novembre 2021 su Il Giornale. Il cantautore annuncia il "Jova Beach Party" "Non ascolto dischi, perché ne devo fare uno?" Comunque è rimasto identico: dopo quasi due anni di pandemia, Lorenzo Jovanotti è inarrestabile come sempre, parla e parla e si entusiasma come quel ragazzino che continua a essere. Figurarsi poi se deve annunciare la nuova edizione del Jova Beach Party, il tour che con il concerto a Linate il 21 settembre 2019, ha sostanzialmente chiuso l'era dei megaeventi all'aperto prima della nebbia Covid. «Quando sono sceso dal palco, la sensazione forte è che non fossi alla fine di una cosa ma all'inizio, avevo ancora voglia». E difatti ritorna, dal 2 luglio a Lignano Sabbiadoro fino al 10 settembre, chiusura all'aeroporto Bresso vicino a Milano. «Per me è come una ripartenza da zero. In ogni caso, ritorniamo più o meno negli stessi posti, da Viareggio ad Albenga, raddoppiando quasi ogni data, vuol dire che abbiamo lasciato un bel ricordo», spiega lui riferendosi anche alle polemiche spesso strumentali che gli ambientalisti (ma non solo) avevano sollevato per quei concerti: «Leggere che a 90 km dal nostro concerto al Lido degli Estensi c'erano dei fenicotteri disorientati per colpa mia mi è sembrato davvero esagerato. Ma allora mi usate!». Dopotutto Jovanotti è un bel passepartout per attirare attenzione e conquistarsi un po' di visibilità. Proprio per questo, nonostante tutte le spiagge del tour siano state lasciate pulite meglio di prima, lui precisa che, sia chiaro, «non saliamo sul carro del greenwashing: noi siamo una impresa e tutte le imprese dovrebbero essere attente a questi temi». In poche parole, nell'estate del 2022 sarà qui la festa, sulle spiagge del nuovo Jova Beach Party, dove la scaletta sarà libera, il palco avrà una gigantesca scritta Jova e gli ospiti saranno come l'altra volta ossia deejay, musicisti, sperimentatori, tutti imprevedibili, spesso di nicchia, sempre votati a un unico obiettivo: il ritmo. Unica condizione: il cento per cento di capienza e l'assenza di mascherine. «Altrimenti niente Jova Beach Party». In sostanza, il tour si candida a diventare un appuntamento fisso. Quella che era sembrata solo una delle tante intuizioni transitorie di Lorenzo Cherubini, una «start up» come l'ha definita il suo promoter Maurizio Salvadori della Trident, potrebbe diventare come il Lollapalooza oppure (una volta) l'OzzFest negli Stati Uniti: autentici appuntamenti nomadi e rituali, capaci di raccogliere ogni volta centinaia di migliaia di persone anche se «in Italia la cultura del festival non è ancora così ben sviluppata». Oltretutto, il Jova Beach Party (che ha Tim come partner tecnologico) sarà pure un potente supporto ecologico che, attraverso l'iniziativa Ri-Party-Amo con Wwf e Intesa San Paolo, intende raccogliere 5 milioni di euro per pulire e ripristinare 20 milioni di metri quadri di spiagge, laghi, fiumi e fondali. Mica male. Quindi spieghiamoci: in questi mesi di forzata assenza dalle scene, Lorenzo ha messo in piedi un kolossal che sarà protagonista della prossima estate.

Ma non solo.

C'è pure la nuova musica, che per lui resta comunque «il centro di tutto». Ieri è uscito Il boom, una sorta di «brano futurista» nel quale lui gioca con le parole. Parlando, Jovanotti conferma di conoscere bene il futurismo («È cambiata solo la prospettiva, possiamo giudicare il passato ma non il futuro che continua ad avere delle promesse»), cita Filippo Tommaso Marinetti e poi conferma che «la mia lotta è superare il linguaggio della lotta, l'uso continuo di parole di contrapposizione o di contrasto». Per capirci, il riferimento (non esplicito ma comprensibile) è alla lingua dei social network e di tanti altri contesti, come ad esempio molti talk show tv. In ogni caso, Jovanotti non smette di essere un serbatoio di iniziativa. Ha già pronti sette nuovi brani che usciranno a dicembre (uno di questi, La primavera, sarà forse un singolo), ha pronto una specie di «Disco del sole» che uscirà forse il prossimo anno («Mia moglie Francesca ha detto che sembra un titolo di Al Bano, ma io ne sono contento») e conferma la tendenza più chiara di questi tempi: farà album sempre più raramente, meglio singoli brani. Dopotutto «io stesso non ascolto dischi e mi affido alle playlist. E se io non ascolto album, perché dovrei fare album?». Perciò il nuovo Jovanotti sarà sempre più legato a progetti innovativi, a musica «fluida», a idee trasversali che mescolino note, visual e poesia (è in continuo contatto con il gigantesco Nicola Crocetti). È insomma il solito Jovanotti in continua evoluzione, una evoluzione così instancabile da aver convinto persino i critici più feroci. Paolo Giordano

Lorenzo Jovanotti e la malattia della figlia: “Le gambe cedevano, sorpreso dalla forza di mia moglie e di Teresa”. Redazione su Il Riformista il 7 Ottobre 2021. Lorenzo Jovanotti torna a parlare della malattia di Teresa, la figlia 22enne, che dopo anni di battaglie è riuscita a sconfiggere il linfoma di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico. Il cantautore italiano è intervenuto alla riunione annuale “Ieo per le donne” organizzata dall’Istituto Europeo di Oncologia e fortemente voluta dal professore Umberto Veronesi, scomparso nel 2016. Interrotta per due anni a causa del covid, la riunione è andata in scena nel teatro Manzo di Milano dove Lorenzo Cherubini ha raccontato alle donne presenti l’esperienza con il cancro vissuta dalla giovane figlia, e di conseguenza dall’intera famiglia, concludendo il suo intervento cantando alcune sue celebri canzoni. “Qualche anno fa mia figlia Teresa – ha spiegato Jovanotti – ha scoperto di avere un nodulo al seno e allora ho fatto una telefonata all’IEO e Mi hanno passato Paolo Veronesi (figlio di Umberto, ndr)”. All’Istituto Europeo di Oncologia “ho trovato degli amici. Poi per fortuna il nodulo – spiega l’artista – si è dimostrato non preoccupante: un fibroadenoma. Si dice così, no? Ormai conosco anche questi termini”. Un paio di anni dopo, tuttavia, la figlia Teresa scopre di avere un linfonodo che le fa male. “Tutto è iniziato ad agosto 2019 con un prurito alle gambe” aveva raccontato la giovane sui social lo scorso gennaio quando annunciò la sua guarigione. “Siamo andati da un infettivologo – spiega Jovanotti – che le ha fatto fare un esame e mi ha detto di essere un po’ preoccupato e consigliato di farla vedere ‘meglio’. Quindi ho richiamato Paolo. Nel frattempo ci eravamo sentiti per gli auguri di Natale, lui era venuto a un concerto. Ed è cominciata un’avventura che è continuata l’estate scorsa con mesi difficili. Solo oggi – osserva il cantante -, che Teresa per fortuna sta bene e la malattia è scomparsa e ha ripreso la sua scuola, comincio a rendermi conto in maniera un po’ più razionale di tutto quello che è successo, degli incontri che ho fatto, delle scoperte che ho fatto rispetto alle persone vicine a me, alle mie due ragazze, mia moglie e Teresa, che hanno affrontato questo viaggio con una forza che mi ha sorpreso. Io credevo di essere quello forte del gruppo e invece ero quello che aveva le gambe che cedevano”. “Quello che io ho imparato da padre, in quel momento, da essere umano coinvolto direttamente, è che queste cose si affrontano, oggi con strumenti molto più avanzati, evoluti, complessi, un giorno alla volta, con un obiettivo davanti, pensando al futuro, ma – ha sottolineato Jovanotti – con coraggio, con speranza e con fiducia. Queste sono le parole fondamentali. Ma ne aggiungerei una, forse un po’ più astratta ma necessaria, con l’amore”. La pandemia ha paradossalmente aiutato Jovanotti perché “ci ha facilitato l’isolamento. Io sono ad esempio riuscito a tenere a bada tutti i parenti perché proiettavano su Teresa la loro preoccupazione”. E poi “il mio lavoro, con il covid, ad esempio, si è fermato. E meno male che si è fermato, se no avrei dovuto spiegare a tutti che non potevo suonare, perché mia figlia… Questo dal mio punto di vista è stato un aspetto positivo”. Poi la conclusione: “Questa è un’avventura per la quale l’obiettivo è uscirne più forti, dal punto di vista interiore e anche dal punto di vista fisico. Certo, siamo più vulnerabili. Ma la vulnerabilità di per sé non è un fatto che ci rende deboli, ci rende più umani, più consapevoli e quindi anche più forti”.

Il post di Teresa del 13 gennaio scorso dopo l’avvenuta guarigione. Per gli ultimi sette mesi ho tenuto un segreto, faccio fatica a raccontare una storia prima di conoscerne la fine. Il 3 luglio 2020 mi è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico. Tutto è iniziato ad agosto del 2019 con uno prurito alle gambe. Non ci ho dato peso pensando che sarebbe andato via con il tempo, ma non è stato così. I mesi passavano e non faceva che peggiorare. A giugno 2020 si era sparso per tutto il corpo, non riuscivo a dormire più di un paio d’ore a notte, avevo la pelle piagata. Quando mi si é ingrossato un linfonodo sotto il braccio ho capito che era qualcosa di più serio e questo ha portato finalmente ad una diagnosi e ad un piano di cure. In questi ultimi mesi ho fatto 6 cicli di chemioterapia seguita dai meravigliosi dottori ed infermieri dell’Istituto Europeo di Oncologia a Milano. La chemio non mi ha fatto cadere i capelli del tutto, ma il 9 dicembre dopo l’ultimo trattamento ho deciso di rasarmi come segno di un nuovo inizio. Dopo mesi di ansie e paure la storia é finita, e posso raccontarla, perché da ieri, 12 gennaio 2021 sono ufficialmente guarita. Sono stata incredibilmente fortunata ad avere una famiglia, amici e team di medici spettacolare che mi hanno seguito e aiutato durante tutti questi mesi. Vorrei tanto ringraziare le persone che allo IEO si sono prese cura di me e di chi si trova in una situazione come la mia. Sono persone spettacolari. Il prof Paolo Veronesi che mi ha operato. Il Prof Corrado Tarella primario di oncoematologia e il suo staff, tra loro la meravigliosa Dottoressa Anna Vanazzi e suoi collaboratori. Gli infermieri e le infermiere Alice e Lucia, i radiologi, tutto il personale dell’ospedale, GRAZIE! Ed ovviamente, un grazie speciale ai miei genitori che ci sono sempre stati. Per un certo verso il cancro è una malattia molto solitaria, ma il supporto di chi ti sta vicino è fondamentale per superarla, io non ce l’avrei fatta senza di loro. La paura non é andata via, e ci vorrà del tempo perché possa fidarmi di nuovo del mio corpo, ma non vedo l’ora di ricominciare a vivere. Teresa

Federica Taddia per la Stampa il 14 gennaio 2021. «È stata pazzesca». C' è tutto il Jovanotti che conosciamo in questa frase, un urlo d' amore paterno che avvolge la figlia Teresa. Teresa, la figlia che pazzesca forse non si è mai sentita, proprio perché da sempre ha cercato una sua normalità, una sua strada, fuori dai clamori. Prima fan del padre, spesso presenza sorridente e dallo sguardo orgoglioso e incuriosito nei backstage, ma che mai si è fatta distrarre dai decibel dello show. Una serenità concreta e gioiosa, che traspare in ogni frase scelta per raccontare una storia da non raccontare prima di conoscerne la fine. Parole che arrivano dirette, che penetrano, che nella loro spontaneità sono una sferzata di energia e consapevolezza da cui attingere nei momenti di riserva. Ed è proprio ai giovani, ai suoi coetanei, che Teresa sembra parlare. A 22 anni, quando la vita sta per esplodere, parole come malattia, cancro, chemioterapia fanno ancora più orrore. Appaiono ingiuste. Lontane. Inaccettabili. Teresa le ha usate. Dando il giusto nome alle cose. Puntando gli occhi verso il male, così come punta gli occhi verso le siringhe in vena nel proprio braccio. Senza ostentare, senza nascondere: ma affrontando la situazione. Da protagonista. Sono parole che fanno bene quelle di Teresa, e non solo perché sono la trama di una guarigione. Fanno bene perché non parla di una battaglia, non tratta il tumore come una guerra, dove vinci se sei il più forte, se sei il più coraggioso, se sei il più combattente. Certo, lo devi essere, ma il messaggio che Teresa riesce a lanciare «in questo giorno bellissimo» va oltre: il cancro è una malattia solitaria, per vincerlo serve il supporto, il sostegno, la vicinanza. Il fidarsi e l' affidarsi quindi, alla famiglia e ai medici. Agli affetti e alla scienza. La cura passa dal prendersi cura. Dal farsi prendere cura. E nei suoi grazie a mamma, a papà, a tutto il personale medico, c' è il grazie di una aspirante fumettista abituata a dare corpo alle immagini e che mai avrebbe immaginato di essere tradita dal proprio corpo. Un corpo di cui dovrà imparare ancora a fidarsi, ma dal quale proprio ripartire, tagliando i capelli come segno da rinascita. Si può ripartire, si può - silenziosamente - affrontare il baratro, si può e si deve trovare la volontà di farlo dentro di sé e facendosi abbracciare, stringere, da chi ci vuole bene. Si può aver timore - tanto - del male. Della solitudine. Del futuro. Ma esplorare, tentare, affrontare strade per uscirne, e già un po' uscirne. Tante volte non basta - lo sappiamo - ma è doveroso verso l' esistenza provarci. A vent' anni come a 80. E' quella tensione vitale così ben spiegata da quel gigante della filosofia che era Franco Bolelli. Quella tensione evolutiva così tante volte cantata da Lorenzo Jovanotti. Quella tensione che non ci fa essere immortali, ma ci fa andare avanti, affrontando la quotidianità qualunque essa sia. E ci dà la scintilla, anche dopo essere caduti, di ricominciare a vivere.

Vera Martinella per corriere.it il 14 gennaio 2021. Quello che a soli 22 anni ha colpito Teresa Cherubini, figlia del cantante Lorenzo Jovanotti e di Francesca Valiani, è un tumore poco frequente e che, fortunatamente, ha una buona prognosi. Sono circa 1.200 i nuovi casi di linfoma di Hodgkin diagnosticati ogni anno in Italia: si presenta soprattutto nei giovani (prima dei 45 anni, è più frequente nelle fasce d’età intorno ai 20 anni, ma può svilupparsi più raramente anche oltre i 60) e oltre l’80 per cento dei pazienti è vivo e può essere considerato guarito a cinque anni dalla diagnosi. Oggi, grazie ai progressi della ricerca scientifica, le moderne terapie consentono in molti casi di ottenere la guarigione anche se la malattia si è diffusa ad altri organi. O quanto meno di mantenerla in remissione per molti anni.

Almeno l’80% dei pazienti con linfoma di Hogkin guarisce. I linfomi si dividono in due macro-gruppi: il linfoma di Hodgin (dal nome del medico inglese Sir Thomas Hodgkin, che l’ha descritto per primo nella prima metà dell’800) e i linfomi non Hodgin (tutti gli altri). Si tratta di un gruppo di malattie eterogenee, comprendenti vari sottotipi anche molto diversi fra loro, che possono avere un’evoluzione e un’aggressività differenti e che quindi richiedono trattamenti specifici a seconda della singola patologia. «Si sviluppano a seguito della degenerazione maligna del tessuto linfatico, diffuso in varie parti del nostro organismo, ma più spesso nelle ghiandole linfatiche (linfonodi) superficiali e profonde - spiega Corrado Tarella, direttore dell'Oncoematologia dell'Istituto Europeo di Oncologia (Ieo) di Milano, dove Teresa Cherubini è stata curata -. Talvolta c’è poi anche il coinvolgimento di milza e midollo osseo e, meno frequentemente, di fegato, stomaco e altri organi. Fortunatamente i linfomi rappresentano indubbiamente uno degli esempi di neoplasia in cui la moderna onco-ematologia ha ottenuto i migliori risultati terapeutici e, secondo le statistiche più recenti, oltre l'80% dei pazienti con un linfoma di Hodgkin è vivo all'importante traguardo dei 5 anni dalla diagnosi, superato il quale i controlli si fanno sempre meno frequenti e si può parlare di guarigione». Come tutti i malati di cancro ben sanno, bisogna infatti aspettare a lungo prima di potersi considerare completamente fuori pericolo da una recidiva, ma è molto importante che a conclusione del ciclo di terapie non resti alcuna traccia del tumore: per questo nel suo post su Instagram Teresa Cherubini (che ha ricevuto la diagnosi e iniziato le cure a luglio 2020, dopo aver notato l’ingrossamento di un linfonodo ascellare asportato da Paolo Veronesi, direttore della Divisione di Senologia Chirurgica dell’Ieo) si dichiara «ufficialmente guarita» dopo l'ultimo controllo effettuato il 12 gennaio 2021.

Terapie e cadute dei capelli. Quali sono le cure? «Ad oggi, i principali tipi di trattamento del linfoma di Hodgkin sono chemioterapia e radioterapia, che possono essere usate da sole o in combinazione in funzione dello stadio della malattia, ed eventualmente anche la terapia intensificata con un trapianto di cellule staminali - risponde Tarella -. Negli ultimi anni si sono poi resi disponibili anche nuovi farmaci biologici «intelligenti» che riescono a guarire una proporzione consistente di pazienti nei quali la malattia non è più controllata dai trattamenti tradizionali. Quali strategie scegliere, fra le molte disponibili, dipende dal sottotipo di tumore, dalle sue caratteristiche, dall'età del paziente e da molti altri parametri che vanno considerati caso per caso». Ogni anno circa 32mila italiani devono fare i conti con un tumore del sangue, le cui cause sono ancora oggi in gran parte sconosciute. I linfomi sono, insieme a leucemie e mieloma, fra i tipi più frequenti e da soli costituiscono più di un terzo di tutte le neoplasie del sangue, ma ne esistono molti tipi diversi e la prognosi dei pazienti può variare molto. Anche per quanto riguarda la temutissima caduta dei capelli ci sono molte variabili da tenere in considerazione: è un effetto collaterale molto comune in corso di chemioterapia, ma non tutti i farmaci citotossici causano l’alopecia, che a volte può essere talmente lieve da essere quasi irriconoscibile. In altri casi può verificarsi invece un’alopecia temporanea, parziale o totale, ma quasi sempre i capelli ricrescono: a seconda del tipo di tumore e quindi della terapia effettuata, la ripresa del ciclo vitale del capello vari e generalmente, a 3-6 mesi massimo la ricrescita è compiuta.

Sintomi ed esami diagnostici. Quali sono i sintomi che devono insospettire? «Purtroppo è difficile giungere a una diagnosi precoce di un tumore del sangue perché i segnali iniziali sono sempre piuttosto vaghi e poco specifici e potrebbero essere spia anche di molte altre patologie (come nel caso de prurito riferito dalla figlia di Jovanotti, ndr) - sottolinea Tarella -. È però importante parlare con un medico in presenza di: febbre o febbriciattola (in particolare pomeridiana o notturna) e un senso di debolezza che perdurano senza cause apparenti per più di due settimane; perdita di appetito e dimagrimento importante e ingiustificato; formazione di ematomi o lividi spontanei; sanguinamenti e ulcerazioni che non guariscono (come quelle del cavo orale); gonfiore, spesso indolore, di un linfonodo superficiale del collo, ascellare o inguinale. Possono essere presenti anche una sudorazione eccessiva, soprattutto di notte, che obbliga a cambiare gli indumenti e un prurito persistente diffuso su tutto il corpo». In presenza di sintomi sospetti è bene andare dal medico di medicina generale che, dopo la visita, può prescrivere degli accertamenti (esami del sangue più o meno specifici a seconda dei sospetti) e, se lo ritiene opportuno, suggerire di consultare un ematologo per una più approfondita valutazione ed eventuale esecuzione di ulteriori indagini (come una biopsia del midollo osseo o di un linfonodo ingrossato).

 “Ho deciso di rasarmi come segno di un nuovo inizio”. Chi è Teresa Cherubini, la figlia di Jovanotti guarita dal linfoma di Hodgkin: il padre le dedico "Per te". Antonio Lamorte su Il Riformista il 13 Gennaio 2021. Teresa è la figlia Lorenzo Jovanotti Cherubini, uno dei cantanti e cantautori più apprezzati della sua generazione. Ha rivelato sui social di essere guarita da un tumore: il linfoma di Hodgkin. Il padre ha condiviso il suo post sui suoi social. “Oggi la mia Teresa ha voluto raccontare la sua storia degli ultimi sette mesi. Ieri gli esami di fine terapia hanno detto che la malattia se n’è andata, oggi per noi è un giorno bellissimo, lei è stata pazzesca”, ha scritto Jovanotti. La malattia è stata tenuta segreta fino a oggi. La diagnosi nell’estate scorsa, poi sei cicli di chemioterapia. Ieri, il 12 gennaio 2021, la guarigione ufficiale. La 22enne si è rasata i capelli, dopo l’ultimo trattamento agli inizi di dicembre, presso l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, nonostante non fossero caduti del tutto dopo il trattamento. “Ho deciso di rasarmi come segno di un nuovo inizio”. Teresa Cherubini è figlia di Lorenzo ‘Jovanotti’ Cherubini e di Francesca Valiani. I genitori si sono sposati il 6 settembre 2008 a Cortona, nella chiesa di Santa Maria Nuova. La madre era amica di Anna, sorella del cantante. Alla moglie Francesca Valiani Jovanotti ha dedicato una delle sue canzoni più celebri e conosciute, A te, singolo dell’album Safari, pubblicato nel 2008. Teresa Lucia è nata il 13 dicembre 1998. Alla figlia il padre ha dedicato Per te, altro grande successo, singolo dell’album del 1999, Lorenzo 1999 – Capo Horn. La canzone è stata scritta insieme con Michele Centonze e Saturnino. La 22enne vive a Cortona. Studia da artista grafico, specializzata nelle produzioni sui cartoons: sul suo profilo Instagram, Terry Cartoons, è possibile vedere le sue opere. Ha studiato alla School of Visual Arts cartoonig. Il messaggio, condiviso dal padre, che ha postato sui social, ha raccolto da subito numerose condivisioni e messaggi di solidarietà. Un post in molti passaggi toccante: “Per gli ultimi sette mesi ho tenuto un segreto, faccio fatica a raccontare una storia prima di conoscerne la fine. Il 3 luglio 2020 mi è stato diagnosticato un linfoma di Hodgkin, un tumore del sistema linfatico. Tutto è iniziato ad agosto del 2019 con uno prurito alle gambe. Non ci ho dato peso pensando che sarebbe andato via con il tempo, ma non è stato così. I mesi passavano e non faceva che peggiorare. A giugno 2020 si era sparso per tutto il corpo, non riuscivo a dormire più di un paio d’ore a notte, avevo la pelle piagata. Quando mi si é ingrossato un linfonodo sono il braccio ho capito che era qualcosa di più serio e questo ha portato finalmente ad una diagnosi e ad un piano di cure. In questi ultimi mesi ho fatto 6 cicli di chemioterapia seguita dai meravigliosi dottori ed infermieri dell’Istituto Europeo di Oncologia ( @institutoeuropeodioncologia )a Milano. La chemio non mi ha fatto cadere i capelli del tutto , ma il 9 dicembre dopo l’ultimo trattamento ho deciso di rasarmi come segno di un nuovo inizio. Dopo mesi di ansie e paure la storia é finita, e posso raccontarla, perché da ieri, 12 gennaio 2021 sono ufficialmente guarita. Sono stata incredibilmente fortunata ad avere una famiglia, amici e team di medici spettacolare che mi hanno seguito e aiutato durante tutti questi mesi. Vorrei tanto ringraziare le persone che allo IEO si sono prese cura di me e di chi si trova in una situazione come la mia. Sono persone spettacolari. Il prof Paolo Veronesi (@prof.Paolo.veronesi) che mi ha operato. Il Prof Corrado Tarella primario di oncoematologia e il suo staff, tra loro la meravigliosa Dottoressa Anna Vanazzi e suoi collaboratori. Gli infermieri e le infermiere Alice e Lucia, i radiologi, tutto il personale dell’ospedale, GRAZIE! Ed ovviamente, un grazie speciale ai miei genitori, @lorenzojova e @fravaliani che ci sono sempre stati. Per un certo verso il cancro è una malattia molto solitaria, ma il supporto di chi ti sta vicino è fondamentale per superarla, io non ce l’avrei fatta senza di loro. La paura non é andata via, e ci vorrà del tempo perché possa fidarmi di nuovo del mio corpo, ma non vedo l’ora di ricominciare a vivere, Teresa”.

·        Loretta Goggi.

Candida Morvillo per il “Corriere della Sera” il 2 ottobre 2021. Loretta Goggi dice che ha imparato a non aver paura d’invecchiare parecchio tempo fa: «Prima che mio marito Gianni Brezza mancasse, quando curava le regie dei miei spettacoli e gli dicevo “ho le borse sotto gli occhi” o “quando canto, si vedono le vene del collo che si gonfiano”, lui mi rispondeva: “Se ti guardano le borse degli occhi, vuol dire che stai sbagliando la canzone”». Due settimane fa, Loretta ha annunciato che chiudeva col mondo dei social, ferita dai commenti alla sua esibizione ai Seat Music Awards per i 40 anni di Maledetta primavera, insulti tipo «se non ti sei fatta un ritocchino, è meglio che te lo fai» o «sembri la strega di Biancaneve». Da allora, sono successe le seguenti cose: la fiction Rai F ino all’ultimo battito di Cinzia TH Torrini, in cui fa una nonna, ha quasi doppiato Canale 5 in ascolti; Tale e quale show, in cui fa la giurata, ha battuto il Gf; e il direttore di Raiuno Stefano Coletta ha detto che sogna uno show di prima serata tutto di Loretta Goggi.

Sono soddisfazioni che stemperano l’amarezza?

«Quella era passata subito. Noi artisti siamo abituati a essere amati o criticati. Non mi hanno fatto male le offese, ma i sentimenti di quelle persone: l’invidia, la frustrazione». 

Ne approfittiamo per difendere il diritto di dimostrare gli anni che si hanno?

«Io non mi sono mai rifatta niente. Se no, non sarei così. Il 29 settembre, è stato il mio compleanno: 71 anni, 61 di carriera a contare dal primo concorso canoro con Corrado e dai primi ruoli di attrice bambina. Insomma, fra i tanti auguri, un biglietto diceva che gli anni sono importanti non per l’età, ma per le emozioni che hai accumulato. Ecco: io ho un serbatoio di emozioni per affrontare il futuro, verso il quale sono proiettata felice di essere come sono».

Lei ha fatto Canzonissima, sceneggiati, film, imitazioni, è stata la prima donna a condurre un varietà da sola e la prima ad avere il suo nome in uno show. Quando uno ha talento, è meno preoccupato di invecchiare?

«Non aver impostato la carriera sulla fisicità mi ha aiutato ad affrontare il tempo che passa. Agli esordi con Alighiero Noschese, facevo già la vecchia col viso bitorzoluto. Ora, da tre anni mi tengo i capelli bianchi. Prima, mi tingevo di scuro, ora faccio bianchi quelli scuri. È il massimo, no?». 

In tv, sembra bionda.

«Saranno le luci, sono bianco-grigia. E sempre Gianni, con l’età, mi consigliò di indossare solo tailleur neri. Mi diceva: devi dare l’idea di una donna dinamica, che sale, scende, scherza, gioca». 

Vivendo sotto i riflettori, non è stata tentata da un lifting, un minilifting?

«Ne avrei più bisogno se le luci tv non usassero lo Skin tone: la telecamera prende un punto del viso senza rughe, fa fuoco su quel colore lì e le rughe risultano sfumate. Lo usiamo tutte noi che abbiamo una postazione seduta, perché carinamente pensiamo: perché devo spaventare i bambini? Però, le rughe si vedono, invece, nelle fiction e a me sta bene fare la nonna o la bisnonna. Farò un ruolo bellissimo, da gennaio, anche nella serie Mediaset Più forti del destino, un dramma ottocentesco. La chirurgia estetica non fa per me: ho avuto tante persone in famiglia finite sotto i ferri che, per una cosa così frivola, non mi viene in mente di farmi operare. Faccio la luce pulsata per le macchie, l’ossigenoterapia al viso, ma niente chirurgia o botulino». 

Mai avuto il mito dell’eterna giovinezza?

«Mai. Mio marito era un gran bell’uomo, molto ammirato delle donne, ma gli dicevo: la virtù sta nel mezzo, non nell’essere bellissimi o bruttissimi, perché, in vecchiaia, si pareggiano i conti, tu diventerai bruttino, mentre io diventerò una bella signora». 

Anche lei è stata una bellissima ragazza.

«Bella, forse, ma non la bona che fischiano per strada». 

Ci sarà lo show di Raiuno che auspica Coletta?

«Me lo chiede da due anni e ne sono onorata. Ma, la prima volta, mi ha proposto due puntate celebrative e io non voglio fare la Loretta dei ricordi. La seconda, mi ha offerto Wonderbox, un format francese, ma molto simile alla Canzone segreta e ho detto no. Sarei felice di avere uno spazio mio, ma mi voglio proporre per come sono oggi: una donna matura, che s’informa, sa di ricerca scientifica, di politica, di donne afgane. Vorrei un programma come se uno mi scoprisse oggi».

Nella terza età, innamorarsi ancora, per dirla con Maledetta primavera, è un’ipotesi?

«No, sono troppo grande per un sentimento forte e travolgente e detesto il pensiero di trovarmi qualcuno solo per avere compagnia. Sto bene in compagnia di me stessa e di quello che Gianni mi ha lasciato dentro. Avrò un badante, non un compagno». 

Da leggo.it il 13 settembre 2021. Loretta Goggi lascia i social dopo gli insulti ricevuti per la performance ai Seat Music Awards. La sua presenza aveva emozionato il pubblico perché l'artista era stata invitata all'arena di Verona per festeggiare i 40 anni di "Maledetta primavera", uno dei brani più di successo della canzone italiana. Eppure i "leoni da tastiera" hanno commentato l'esibizione negativamente. L'artista non ha nascosto le lacrime quando ha visto l'accoglienza calorosa del pubblico sul palco dei Seat Music Awards. Una volta finito tutto però è rimasta male per le parole degli utenti dei social.  È lei stessa a spiegare, con un messaggio comparso sulla sua pagina Facebook, cosa è accaduto e cosa l'avrebbe spinta ad abbandonare i social. L'esibizione è andata in scena venerdì 10 settembre ai Seat Music Awards, ma la giurata di Tale e Quale Show fa non entra nel dettaglio delle critiche. «Miei cari tutti - scrive - ma proprio tutti tutti, anche coloro che mi seguono su altri siti, vorrei riuscire a ringraziarvi uno ad uno per avermi amato e seguito per 61 anni, sapete bene che non sarei ancora qui senza il vostro sostegno e la vostra stima. Ma oggi, oltre alla gratitudine, Vorrei parlarvi del rammarico che provo nel leggere commenti, anche sul mio sito ufficiale, di una cattiveria, un'arroganza, una gratuità indescrivibili, tali da costringere il mio staff a Cancellarne alcuni e la cosa non mi piace, però l'educazione ha un limite e il mio sito non deve dare spazio a certi signori. Censurare nemmeno è bello. L'unica cosa è prenderne le distanze». «Non starò - continua - ad elencarvi gli insulti arrivati in occasione di una delle più grandi emozioni della mia carriera, un momento di cui avrei voluto godessimo insieme, nella comune gioia per un grande traguardo raggiunto e non certo per parlare di trucco (mi trucco da sempre da sola e mi piace quello scelto per quest'anno, inutile criticarlo no? Lo cambio secondo il mio spirito), di vestito da pagliaccio (uno splendido abito di Etro!), di chirurgia estetica (vi sfido a trovare sul mio volto, vicino alle orecchie o fra i capelli cicatrici in proposito, confesso che ho preso un chiletto però), di playback (usato da tutti, tranne che da chi essendo un cantante di professione ha potuto portare la sua band o suonare un suo strumento). Io non canto né incido più da anni, non saprei nemmeno in che modo avere una base moderna o aggiornata della vostra canzone del cuore. Mi sembrava comunque bellissimo esserci (come tanti altri, in playback o senza) per ricevere il riconoscimento ad una canzone e ad un'interprete che dopo 40 siano ancora nel cuore di milioni di persone. So da Carlo e dal direttore di Rai 1 di aver avuto l'ascolto più alto della serata e tanto mi basta! Non scenderò oltre al livello dei leoni e, ciò che più fa tristezza, delle leonesse (alla faccia della solidarietà femminile!) della tastiera, sono già andata oltre il mio stile. Ho deciso di allontanarmi definitivamente da social e dai relativi insulti che oltre a ledere la libertà di chiunque su come desideri vestirsi, pettinarsi o truccarsi (e guardando bene le foto dei profili di chi li manda forse dovrebbe solo spolverare il suo specchio, sempre che ne abbia uno in casa, ma dubito), offendono il comune senso del buon gusto! Non lo faccio solo per me, che sono una "tosta", ma per tutte le donne e gli uomini che subiscono il body shaming. Eccomi perciò a comunicarvi che questa è la mia ultima visita, non solo sul mio sito, ma anche su tutti gli altri. Di certo mi defilo facendo arrivare il mio grazie di cuore (sempre che non sia di ‘plastica', come il mio viso!) ai miei paladini Vincenzo e Davide, cui voglio molto bene e che sento e frequento, e a tutti i relativi admin che con amore hanno accompagnato la mia carriera in questi ultimi anni e ai tanti, ‘tuttissimi' cari fan. Con grande affetto, felicità».

Assia Neumann Dayan per "la Stampa" il 14 settembre 2021. Voi pensate, arrivate sul palco dell'Arena di Verona con 61 anni di carriera alle spalle a cantare quella che sicuramente è una delle canzoni più popolari di tutti i tempi, la tua canzone, quella che ti ha regalato l'amore di una nazione e un successo inaudito, e non succede niente di quello che ti aspetti. Loretta Goggi si è svegliata il giorno dopo aver cantato all'Arena di Verona per il programma Seat Music Awards di Raiuno con i social pieni di offese di varia natura. Li ha chiusi. Pubblico offeso perché ha cantato in playback. Mi sembra evidente che viviamo in un'epoca che ha pretesa di verità in ogni ambito, anche quando si parla di arte, che non metto in maiuscolo per amor proprio. Ci sono quelli che si indignano quando un attore recita un ruolo che non corrisponde alla propria identità di genere, ad esempio, dimenticando che, insomma, fare l'attore significa esattamente essere qualcosa di altro da sé. Canti in playback? Che indignazione, quella non è la tua voce qui, ora, subito, come si permette signora Goggi. Gli indignati del playback da casa si sentono presi in giro e non capisco bene in che modo, perché io davvero vorrei sapere chi in quel momento non era in piedi sul divano a perdere la voce urlando «che fretta c'era, maledetta primavera». Come succede da 40 anni a questa parte. Quando l'inquadratura si è spostata sul pubblico, si vedevano questi ragazzi molto giovani con le lucine in mano che sillabavano sotto le mascherine, perché Maledetta primavera è uno di quei pezzi che tutti sanno, tutti autocompletano il testo anche in conversazioni quotidiane, ogni primavera tutti, ma proprio tutti, postano questa canzone sui social, e non importa che tu abbia 70 o 15 anni, tu Maledetta primavera la onori. Eh ma il playback, signora mia. Io spero solo che la signora Goggi questi commenti li abbia letti facendosi aria con le banconote dei diritti Siae. D'altra parte, nello status di Facebook in cui Goggi si congedava dai social, c'era scritto che le sono piovute offese anche su trucco, parrucco, vestiti, faccia. Possiamo tranquillamente affermare che una donna è libera di fare ciò che vuole della propria faccia solo se non urta il nostro comune senso del pudore. Hai visto come si è rifatta? Non sembra più lei! Già, il feticismo del vero non si accontenta nemmeno del verosimile. È pur vero che il chiacchiericcio sui corpi delle dive è sempre esistito, tra riviste patinate e negozi di parrucchieri, ma non vedo il motivo per cui sia necessario andare sul profilo di un'artista a scriverle che sembra di plastica. Chissà cosa si prova a essere quel tipo di persona, chissà cosa si prova ad avere troppo tempo libero. Chiara Ferragni è diventata bravissima a fatturare gli scandalizzati, e mi immagino anche lei che legge i commenti orrendi che le scrivono facendosi aria con le banconote delle sue azioni milionarie. Perché non fomentarli e guadagnare sugli insulti? Penso però che la signora Goggi abbia tutto il diritto di ritenersi offesa, e di volerla chiudere qui. Pensiamo che ci sono persone che chiamano un magnifico Etro «un vestito da pagliaccio». Io toglierei il diritto a scrivere sui social per molto meno. Goggi nel suo post su Facebook scrive: «Non scenderò oltre al livello dei leoni e, ciò che più mi fa tristezza, delle leonesse (alla faccia della solidarietà femminile! ) della tastiera, sono già andata oltre il mio stile». La solidarietà femminile è un grande mito a cui abbiamo creduto per molto tempo, ma credo che oggi come ieri l'arte dell'insulto sia forse l'unica grande parità che abbiamo. Continueremo a cantare Maledetta primavera ancora per moltissimi anni, e spero che Loretta Goggi ci dia il privilegio di vederla su un palco ancora molte volte, anche in playback andrebbe benissimo.

·        Lory Del Santo.

Dagospia il 15 dicembre 2021. Da “Un giorno da Pecora - Radio1”. “Col mio toy boy stiamo per festeggiare i dieci anni insieme, lui ormai ha quasi 29 anni. E gli ho fatto il regalo per l'anniversario: un jeans, una t-shirt e un orologio”. A parlare è Lory Del Santo, che oggi a Un Giorno da Pecora, su Radio1, si è lasciata andare a considerazioni e rivelazioni varie sui regali, natalizi e non solo. “In realtà i dieci anni insieme scadono a settembre del 2022, ma almeno così i regali si gode...”, ha aggiunto la soubrette. Il suo compagno la aiuta nei lavori di casa? “No, non è una persona che sa fare molto: a casa l'unica cosa che fa sono preparsi 5 o 6 piadine al giorno e poco altro”. Lei invece ha già ricevuto qualche regalo natalizio? “Si, ma un salame e una bottiglia di vino rosso, vi rendete conto?” Una volta le regalavano gioielli ed oggetti preziosi....”Una volta bastava esprimere un desiderio: passavo davanti ad una vetrina, dicevo che bello quell'orologio e me lo regalavano”. Chi è che le ha fatto il regalo più bello? “Quelli famosi non regalano quasi mai niente. Una volta però Eric (Clapton, ndr) mi fece una cosa molto preziosa”. Quale? “Un braccialetto d'oro di una marca molto famosa. Ma per averlo ho dovuto lottare, rimarcando più volte che lo avrei voluto per il mio compleanno. Lui da questo punto di vista era sordo, non ci sentiva...”

Lory Del Santo: “In carcere hanno tentato di uccidermi”. Alice Coppa il 07/10/2021 su Notize.it. Lory Del Santo ha svelato che durante il suo arresto durato circa 10 giorni una detenuta avrebbe tentato di ucciderla. Lory Del Santo ha confessato di aver quasi rischiato la vita quando a vent’anni venne in carcere ingiustamente per circa 10 giorni. Lory Del Santo ha confessato per la prima volta di aver trascorso in carcere 10 giorni a causa di uno scambio di persona. La showgirl ha infatti ammesso che a causa di una “vicenda di droga” sarebbe stata scambiata per qualcun’altro e per questo avrebbe trascorso ingiustamente una decina di giorni in carcere. Lì Lory Del Santo – a suo dire – avrebbe rischiato la vita: una detenuta infatti avrebbe tentato di rubarle la catenina che portava al collo. “Durante l’ora d’aria una detenuta mi ha stretto le mani al collo per avere la mia collanina”, ha dichiarato, e ancora: “Mi stava soffocando, ho resistito”. La showgirl ha anche precisato: “Fu uno scambio di persona, non c’entravo nulla…”, e ha continuato: “È stato assurdo…Ero innocente, sono rimasta dentro per 10 giorni”. 

Lory Del Santo: i figli

La vita di Lory Del Santo è stata alternata da momenti estremamente difficile: due dei suoi figli, Conor e Loren, sono scomparsi in circostanze tragiche. Il primo (avuto insieme ad Eric Clapton) è precipitato da un grattacielo di New York nel 1991. Loren invece si è tolto la vita negli Stati Uniti nel 2018 a seguito di alcuni gravi problemi psicologici. “Lui non ha mai saputo chi fosse il padre, io non glielo ho mai raccontato. Avevo conosciuto questo ragazzo che voleva lavorare nel campo musicale come dj. Mi è piaciuto subito e abbiamo avuto una relazione di tre mesi. Ci vedevamo non troppo spesso, fino a che all’inizio di dicembre lui è partito. Ci siamo salutati e io dopo un po’ scopro di aspettare un bambino. Ho pensato ad un dono di Dio e quindi ho deciso di tenerlo, ma non sapevo dove trovare questo ragazzo che era in giro per il mondo”, ha dichiarato Lory Del Santo in merito a suo figlio Loren. La showgirl ha anche un terzo figlio: Devin.

Lory Del Santo: la vita privata

Per quanto riguarda la vita privata la showgirl è legata da circa 6 anni al modello e imprenditore Marco Cucolo, con cui sembra aver trovato la serenità nonostante i drammi che l’hanno colpita.

Dagospia il 23 settembre 2021. Da "I Lunatici - Radio 2". Lory Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte da mezzanotte alle sei e tra l'una e le due e trenta circa in onda anche su Rai 2. La Del Santo ha parlato del suo compleanno in arrivo: "Il 28 settembre sarà il mio compleanno. Mi sento ancora super giovane, però vedo che le date rappresentano una realtà. Stiamo andando rapidamente verso la fine dei nostri tempi. Troppo velocemente. E' tutto velocissimo. Mi sembra di essere in un treno ad alta velocità. Non vivo questa cosa in maniera negativa, anzi. E' un destino comune, lo vivo come un incentivo a cercare di non perdere neanche mezzo secondo. Non bisogna avere paura della morte, ma consapevolezza. Sto facendo un percorso già di preparazione generale, sto regalando alcune cose, liberando alcuni armadi. Sto già traslocando per l'aldilà. Sto preparando la mia dipartita. Con calma e serenità. Bisogna essere consapevoli del gioco della vita. A breve uscirà la mia autobiografia. La differenza d'età in amore? Il mio compagno deve ancora compiere trent'anni. Dovrebbe essere quello sportivo, che scala le montagne, oggi mi ha detto che quest'inverno non potremo andare a sciare forse perché non è allenato. E allora lancio un appello, chi vuole sciare con me me lo faccia sapere. Devo trovare un altro uomo che mi assista nello sport. L'inverno ancora non è arrivato, può mettersi in forma, invece è uscito dicendomi che non dovevo fargli questi discorsi. Io al momento sono più scattante di lui". Sugli uomini: "Devo dire che sono ancora molto corteggiata. L'altra sera sono andata a una festa, ho incontrato degli uomini, uno mi ha rimproverato perché tra di noi non c'è mai stata una storia, ha detto che dobbiamo recuperare. Non pensavo che alla mia età qualcuno ancora mi chiedesse questo... . Vuol dire che Lory Del Santo ancora piace, ancora c'è qualcosa che gira nell'aria". Sul tradimento: "Sono stata tradita moltissime volte. In una relazione seria, invece, non ho mai tradito. Qualcuno ha storto il naso perché una volta sono stato con George Harrison e mi ha rimproverato di aver tradito Eric Clapton. Erano entrambi nello stesso hotel, io ero andata da Eric per parlare della nostra relazione. Volevo recuperare la nostra storia, siamo andati a pranzo, ho assistito a tutti i concerti, eravamo in Giappone. Poi ha fatto una cena con la band e non mi ha invitato. Ci sono rimasta malissimo. Ho trovato una cosa brutta quella di lasciarmi sola in hotel. Alle ventidue e trenta ho ricevuto una telefonata...'Hello, i'm George...'. Credo che Eric mi abbia tradito con Naomi Campbell. Stavamo ancora insieme, ma c'erano delle titubanze. Eravamo a Londra. Lui non mi aveva invitato al suo concerto, ma un'altra persona mi ha dato il pass riservato ai familiari. Ho visto Naomi uscire dal suo camerino. Poi mi hanno detto che lei ha trovato Eric noioso". Sulla sua autobiografia: "Il titolo è 'la felicità come optional'. Non ho parlato molto delle cose tristi. Ho dei capitoli nella mia vita che se ci penso mi viene da piangere ora. Non so se mai riuscirò a toccare certi punti. Ho cercato di parlare delle cose che ho osservato, come interprete e come spettatrice".

Dagospia il 24 giugno 2021. Da I Lunatici Rai Radio2.  Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte, dalla mezzanotte e le sei, tra la mezzanotte e trenta e le due circa in diretta anche su Rai 2. 

Sul suo rapporto con l'estate: "Nelle mie estati sono sempre successe tante cose. Magari incontri uno e diventa il tuo fidanzato, magari il padre dei tuoi figli. Tante storie finiscono nel nulla. A volte i flirt estivi sono determinati da mancanza di calcoli. Ti fai un flirt estivo con uno che ti piace a pelle ma non indaghi se poi è davvero la persona giusta per te. Spesso non c'è un seguito. Pensiamo all'estate come a un flirt continuo. Mi ricordo sempre le vacanze che volevo farei nel lusso, magari partivo, andavo nel Principato di Monaco, ma non avevo una stanza dove dormire, non avevo i soldi, dovevo cercare un posto dove dormire. Ma sono stata geniale, mi arrangiavo. Sono sempre riuscita a barcamenarmi, ora non ho più quel senso di avventura. Andavo a dormire in hotel a una stella, ma magari andavo nella hall di un hotel cinque stelle a salutare, a trovare amici. Non stavo a casa per la paura di andare, ero molto coraggiosa. Andavo sempre all'avventura". 

Ancora Lory Del Santo: "Ci sono stati uomini che mi hanno offerto uno stipendio mensile per essere la loro fidanzata. Mi hanno detto se tu stai con me ogni mese ti do tot. Delle cifre enormi, che mi avrebbero sistemato per un po' di tempo. Ma non ce l'ho fatta". 

Sul #metoo: "Io sono sempre stata molto chiara, ho sempre pensato che anche accettando delle offerte di un certo tipo, se non avessi avuto talento poi non sarei riuscita. A me direttamente certi ricatti non li hanno mai fatti. Comunque ci sono molte persone, sia donne che uomini, che sarebbero pronti a tutti pur di essere raccomandati. A me sono capitate cose sottili, ma talmente sottili che non rappresentavano reali offerte o reali ricatti. E' sempre stata una cosa sotto traccia. Ragazzi che ci hanno provato con me solo per avere visibilità o diventare famosi? Me ne sono capitati, più di uno! Alcuni ci hanno provato e ci sono anche riusciti. E io lì ho allevati a piedistallo di fidanzati. Ne ero consapevole, ma ho pensato che questa persona mi piaceva, voleva visibilità, io gliel'ho data. Io sono consapevole dei meccanismi della vita, non mi sorprendo, basta capirli e decidere se ti va bene o no. Non si può aspettare l'amore puro, senza interessi. Che noia. A me è capitato, ho calcolato, la persona mi piaceva e io l'ho accettato. Voleva farsi vedere e io ho fatto di tutto affinché venisse visto. Non ero immensamente innamorata, volevo star bene, stare con una persona che mi facesse stare bene. Alla fine ci siamo lasciati perché lui voleva volare più in alto di me, si era stancato di essere in ombra. Con me ci hanno provato anche molte donne".  

Sul rapporto con la sua bellezza: "Mi sono accorta di essere in un certo modo a scuola. Da quando vedevo che i professori non mi facevano neanche le domande. Non mi interrogavano, non mi chiamavano, non mi facevano le domande. Non ci hanno mai provato però. Un mio professore un giorno mi ha offerto un passaggio in macchina, io ho accettato, ma alla fine ha cambiato idea. Non ho mai capito perché. Io non ci vedevo malizia, ho capito poi negli anni che lui si è reso conto che sarebbe stato meglio evitare. Era un bell'uomo. Ma anche altri professori non mi interrogavano mai. Lì ho capito il potere visivo, il potere del tuo arrivo. Tu arrivi e generi subito interesse. Poi è chiaro che serve abilità oltre all'estetica".  

Lory Del Santo ha svelato un suo aspetto particolarmente intimo: "Se ho paura della morte? Penso che la morte vada considerata. Non siamo immortali, anche se molte volte pensiamo di esserlo, pensiamo di avere un percorso lunghissimo. Bisogna considerare la morte, sapere che è dietro l'angolo. Così ci può far prendere delle decisioni diverse. Io considero la morte da tanto tempo, ho fatto anche gesti a questo riguardo, ho devoluto delle cose, sto iniziando a pensare a chi destinare quelle poche cose che ho. Se sto pensando al testamento? Certo! Non ho paura della morte, la considero come una cosa che fa parte del nostro essere. E' lecito che lei arrivi e che ti prenda, è successo a tutti quelli che ci hanno preceduto. Se la consideri un'amica la morte resta lì in attesa. Cosa c'è dopo la morte? Secondo me non c'è assolutamente niente! La polvere, che diventa concime. Noi siamo piccoli diamanti grezzi, veniamo limati, brilliamo per la nostra esistenza e poi finisce lì. Si vive nella memoria di chi ci ha voluto bene". 

Sul suo breve flirt con Roberto Mancini: "Avevo due possibilità. Potevo scegliere tra lui e Vialli. Sapevo che era solo per una volta, ero capitata per caso ad una cena, non mi ricordo neanche chi mi avesse invitato. Era finita tardi, non sapevo dove andare a dormire, quindi ero rimasta in questo posto. Avevo capito che tutti e due erano interessati a me, dovevo scegliere con chi dormire, poi la mattina sarei partita. Ho scelto Mancini anche se Vialli era bellissimo, ma mi sembrava più playboy. Mancini mi sembrava più dolce, forse ho scelto l'uomo della sicurezza. Si è dimostrato un uomo di una dolcezza incredibile. Ha un suo mondo interiore particolare". 

Dagospia il 26 aprile 2021. Da I Lunatici Rai Radio2. Lory Del Santo e quella volta che Eric Clapton la tradì con Naomi Campbell. Ospite di Un Giorno da Pecora, su Rai Radio1, la showgirl ha raccontato di un flirt che il leggendario chitarrista, a cui era legata, ebbe con la modella. “Una volta dovevo andare ad un concerto di Eric a Londra ma lui non voleva. Così mi feci invitare un'altra persona, amica di Elton John, che suonava con Clapton, e andai a vedere il live con un altro pass”. E cosa accadde? “Quando arrivai nel locale vidi Naomi Campbell che usciva dal suo camerino: ci rimasi molto male. Per fortuna so che la cosa è durata una sola volta e che a lei non è piaciuto”. Come fa a saperlo? “Una persona che conosceva entrambi mi disse che la cosa non le era piaciuta, tanto che l'aveva definito “too boring”, troppo noioso”. Come reagì? “Feci finta di niente e ad Eric non dissi mai niente”. E lei, invece, ha mai tradito? "No, io non ho mai tradito", ha concluso la Del Santo a Un Giorno da Pecora.

Dagospia il 22 aprile 2021.Da I Lunatici Radio2. Lory Del Santo è intervenuta ai microfoni di Rai Radio2 nel corso del format "I Lunatici", condotto da Roberto Arduini e Andrea Di Ciancio, in diretta dal lunedì al venerdì notte dalla mezzanotte alle sei (una parte del programma viene trasmessa in diretta anche su Rai 2).

Lory Del Santo ha parlato dell'amicizia tra uomo e donna: "Per me non può esistere. Con me ci hanno provato sempre tutti. Anche i migliori amici dei miei fidanzati".

Sul momento che stanno vivendo le donne: "La rivoluzione delle donne ormai è compiuta. Anche nelle roccaforti che sembrano impossibili da abbattere. La cosa che a me dà fastidio è quando dicono 'non si deve insultare una donna'. Se c'è la parità, bisogna dire che non si devono insultare gli esseri umani. Punto. Questa frase nasconde l'ultima frontiera del maschilismo. Bisogna smettere di considerare le donne come una categoria fragile".

La Del Santo, poi, ha raccontato: "Ho rischiato la vita, ho guardato la morte in faccia, mentre ero in Australia, con la guardia del corpo di Bob Dylan. Sono stata risucchiata dalla corrente, stavamo per morire insieme. Ero andata a vedere un tour di Bob Dylan, conoscevo la sua guardia del corpo. Siamo andati su una costa piena di surfisti. Era il giorno più bello della mia vita, il cielo azzurro, il mare, le onde, tutto magnifico. La guardia del corpo di Bob Dylan mi ha invitato a fare il bagno, all'inizio non volevo, poi ho ceduto, sono andata. E' arrivata un'onda che ci ha portato a largo. E' basta una frazione di secondo e ci siamo ritrovati a non vedere più la riva. Sono stata risucchiata dalla corrente, circondata da onde alte sei o sette metri. Non riuscivamo a tornare a riva, nuotando in avanti andavamo indietro. Sono andata nel panico, ho pensato di morire. In quel tour, in una piscina di un albergo, ho incontrato Bob Dylan: era silenzioso, taciturno, solitario. Ero in piscina, è arrivato lui, da solo. Avrei voluto andare a parlargli, ma poi ho lasciato stare, non avrei mai voluto disturbarlo".

La Del Santo ha parlato un po' di se: "Io e il mio fidanzato ormai stiamo insieme da sette anni. Se la differenza d'età inizia a pesare? No. Questa è una delle storie d'amore più lunghe che ho avuto. L'amore si rinnova sulla base di condividere una quotidianità piacevole, senza eccessivi stress. Nella vita si rinuncia a tante cose, ma a un certo punto non hai più voglia. E quando trovi un compagno che ti accetta per quello che sei la storia va avanti. Non ci vuole stress, arriva il momento in cui tiri i remi in barca, ti rilassi, ti accontenti di te stessa, delle esperienze che hai fatto, delle esperienze che hai avuto. Io non sono una che cambia uomo ogni secondo. Per chiudere una storia collaudata deve accadere qualcosa di straordinario, è molto difficile che accada. Meglio stare con le ciabatte comode, le scarpe nuove possono sempre far male".

Ancora Lory Del Santo: "Se mi vedo per sempre con questo ragazzo? Io odio la parola sempre. Per me per sempre non c'è niente. Io se ho occasione gli ricordo che lui è libero di cambiare binario. Lo capirei. E continuerei comunque a volergli bene. Ma è difficile cambiare binario quando sei su un binario di prima classe e un'altra classe non c'è. Come non far pesare la differenza d'età? La differenza d'età si basa su due problematiche. L'estetica e il fatto che i giovani hanno voglia di andare, di scoprire. La differenza d'età ha un grande valore, non è vero che non conta. C'è sempre uno dei due che soffre. A volte però si soffre su cuscini d'oro e ne vale la pena. Per me la differenza d'età non pesa perché il mio ragazzo corrisponde a dei canoni estetici che mi appagano. L'estetica per me è importante. E ormai si può portare avanti la bellezza per molti più anni di una volta. Nel futuro sarà sempre più facile trovare coppie sbilanciate negli anni. Ormai la giovinezza sta diventando eterna. Come è nata la nostra storia? Lui mi ha cercato su Facebook. E' iniziata sui social. Sui social è pieno di ragazzi che mi scrivono. E' un continuo. Anche ragazzi molti ragazzi giovanissimi. La donna di qualche anno in più affascina".

·        Luca Barbareschi.

Francesca D'Angelo per "liberoquotidiano.it" il 18 aprile 2021. Luca Barbareschi, mi sa che qui si arrabbieranno tutti... L'attore e regista Luca Barbareschi (64 anni) condurrà «In barba a tutto» da lunedì su Rai 3 «Pazienza. Gli aerei decollano solo controvento, altrimenti restano a terra». Dunque, decolliamo: lunedì Luca Barbareschi debutta con In barba a tutto. Il nuovo programma tv, in diretta alle 23.15 su Rai Tre, ambisce niente meno che a demolire le logiche del politicamente corretto. Anzi, di più: con ironia, vuole mettere alla berlina la stupidità degli italiani.

Cos'è il politicamente corretto?

«È una sorta di tumore maligno della cultura occidentale. Sento fare affermazioni sulle più disparate materie (politica, vaccini, cinema...) e mi domando se queste sparate siano scritte da autori raffinati oppure se il nostro cervello si stia addormentando».

Propenderei per la seconda.

«Già. Oltre al Covid esiste un altro virus, per il quale non c'è ancora vaccino: la stupidità. Prenda Internet: in altri Paesi viene chiamato rutto libero, noi invece lo abbiamo confuso con un luogo di informazione».

A proposito, ma questa storia che sua moglie la picchia?

 «Appunto: a I soliti ignoti ho detto, scherzando, che mia moglie mi aveva dato un ceffone, il giorno dopo leggo: "La moglie di Barbareschi lo picchia". Ormai l'intelligenza è diventata un optional. Con In barba a tutto proviamo a vaccinare gli italiani dalla stupidità».

Metterete in discussione temi intoccabili come la parità di genere?

«Vorrei parlare di tutto. Sono sempre stato un super liberale: non ho pregiudizi su nulla, anzi, l'evoluzione del mondo mi incuriosisce. Oggi le nuove generazioni sono molto più serenamente bisessuali ma bisogna distinguere tra le scelte personali e la genetica: posso uscire con le piume, il tacco dodici e la minigonna, e non c'è nessun problema, ma ciò non toglie che sono un uomo con i tacchi e le piume. Puoi anche metterti le tette o rifarti, ma geneticamente resti un uomo».

Con cosa sostituirebbe la parità di genere?

«Con la dignità della differenza. Tra l'altro sto preparando un film provocatorio, dal titolo The good bench, che racconta la storia di una famiglia etero discriminata in una città dove il sindaco è un filippino trans e l'assessore alla cultura un neonazzista nano».

È vero che già Angelo Guglielmi, quando dirigeva RaiTre, le aveva proposto uno show?

«Sì, infatti all'inizio In barba a tutto doveva chiamarsi Mi voleva Guglielmi. Anche Coletta, quando era a Rai Tre, mi voleva ma alla fine non abbiamo concretizzato. Forse l'idea non era giusta, e poi c'è da dire che all'epoca ero una notevole testa di ca... La vecchiaia in generale fa bene! (ride, ndr)».

Torna in tv perché, come ha dichiarato, ormai il teatro è morto?

«La verità è che se non faccio l'artista mi deprimo. Quanto al teatro, quello italiano è morto a causa delle scarse risorse. Il Fus potrebbe essere ampliato da 70 a 700 milioni di euro: le risorse finanziarie ci sono ma le categorie dovrebbero muoversi e chiederle. L'Anica ha fatto un ottimo lavoro per il cinema. Purtroppo la rappresentanza alta del teatro è fatta da gente incapace e noi siamo così anarchici che fatichiamo a metterci insieme».

Nel suo show avrete ospiti politici?

«Mi piacerebbe avere il ministro della giustizia Cartabia e il ministro della Cultura Dario Franceschini».

Come si vede tra qualche anno?

«Vorrei insegnare. Nella staffetta della vita il testimone è il pensiero e il nostro teatro ha un disperato bisogno di formazione».

Aldo Grasso per il “Corriere della Sera” il 12 maggio 2021. Anima o animella? Quando Luca Barbareschi ha presentato il cuoco stellato Diego Rossi, famoso per le sue provocatorie creazioni culinarie, ho pensato fosse quella la chiave per capire l'anima di In barba a tutto, il nuovo lite show di Rai3 presentato come «spiazzante, ironico, controcorrente, curioso, alto ma al tempo stesso pop». In fondo, la televisione è solo cucina. Diego Rossi, stufo della cucina troppo ricamata e anemica dei grandi chef, si è buttato sugli «scarti» (come Barbareschi?): i suoi panini, infatti, sono composti da animelle, coratella, rognoni, cuore, polmone, ecc. Una novità? Forse la novità sta nel panino, perché molti sono i piatti regionali fatti di scarti. Penso, per esempio, alla finanziera, piatto tipico piemontese nato dal riutilizzo delle parti scartate durante la trasformazione dei galletti in capponi e di alcuni scarti di macellazione dei bovini. Prima Barbareschi aveva intervistato Sergio Rubini che si è molto dilungato su una sua sfortunata avventura norvegese, e Ilona Staller, ormai pronta per entrare in convento o per una cappella votiva di Francesco Vezzoli. Ha confessato che con lei ci hanno provato tutti (specie quando era parlamentare) e Barbareschi ha commentato: «Quella roba lì piace a tutti». Insomma, in tv, come in cucina, non s' inventa mai nulla di nuovo. È solo questione di ingredienti (gli ospiti) e di capacità di combinarli (il conduttore). Così in queste prime puntate abbiamo visto un po' di «maledettismo» (Morgan, Asia Argento), un po' di «piagnonismo» (Silvano Agosti è così, fin dai tempi in cui frequentava il regista Franco Piavoli, prima di diventare il guru di Fabio Volo), un po' di «nostalgismo» (Katia Ricciarelli). Sono sicuro che se Luca Barbareschi intervistasse Woody Allen saprebbe fargli domande interessanti, ma non basta declamare una celebre poesia di Konstantinos Kavafis per entrare nel club della «scorrettezza politica».

Luca Barbareschi? Un po’ come Brontolo. Il piccolo Sgarbi della provocazione ad hoc è tornato in tv con “In barba a tutto”. Perché quel che conta è la provocazione a prescindere. Anche se a volte la diretta gioca piccoli scherzi. Beatrice Dondi su L'Espresso il 3 maggio 2021. Brontolo, il più indisponente tra i sette nani di Biancaneve, ha le braccia conserte e il muso lungo. È contrario a prescindere, ha sempre da ridire e il suo risentimento verso il mondo è talmente congenito da diventare uno stereotipo. Alla fine però basta un bacino sulla fronte della principessa per arrossire e andare in confusione. Un po’ come accade a Luca Barbareschi nel suo nuovo programma. Attore di stirpe, produttore, direttore artistico, conduttore ed ex politico irruento, nella sua proficua carriera ha spesso usato il vezzo gigione dell’attacco come difesa, condito con generose spruzzate di vittimismo e costellato da esternazioni dove il dito puntato su chicchessia aveva la metodicità del piccone nella miniera di diamanti. Insomma una sorta di piccolo Sgarbi, dalla provocazione ad hoc che si sa, fa tanto colore. Dopo qualche anno di assenza dalla tv ha pensato che il pubblico avesse di nuovo bisogno di lui e si è buttato nella prova in diretta del suo “In barba a tutto”, in onda su una Rai Tre in cerca casuale di nuovi esperimenti. Ma nel giro di una manciata di minuti Luca Giorgio Barbareschi da Montevideo si è sciolto dall’emozione, e con la fronte sudata ha lasciato del polemico brontolone solo tracce annacquate. In una corsa col fiatone, mentre ridacchia dicendo parole come “trojan”, “cesso” o “culo”, il nostro mette insieme interviste, monologhi, temi caldi e soprattuto elogio del suo stesso ego. Al suono di “Mio figlio, il mio cane, mia moglie, la mia chitarra” e soprattutto io, io e io, Barbareschi con il suo maglioncino quasi ceruleo, che se fosse infeltrito a sufficienza meriterebbe lo sguardo sprezzante di Miranda Priestly, ci prova a proporsi come il novello fustigatore contro il politically correct, ma con un’ostinazione tale che con un doppio avvitamento si ingabbia da solo e gli argomenti proibiti, che vuole affrontare a viso aperto, si congelano in uno stereotipo mogio mogio. E incalza agitato, e spinge e pungola i suoi invitati di vario genere, dall’ex pm Palamara a Morgan, da Katia Ricciarelli a Paolo Rossi, per trascinarli sul tema della Libertà (oggi di espressione, dopo le passate esperienze con il “Popolo delle” di Berlusconi e col “Futuro e” di Gianfranco Fini), ma pochi riescono a seguirlo, nessuno ci casca e la palla vola in alto ben sopra la traversa. Così senza gol di rilievo, tra le «scoregge delle aringhe» e «Fabrizio Corona vittima del sistema» si arriva alla fine, Barbareschi saluta sorridente con la sua bella faccia, aspetta che si spengano le luci e finalmente a suo agio può rimettere su il broncio.

Maurizio Caverzan per "la Verità" il 12 maggio 2021. Il video su Facebook nel quale rivolge un appello a Mario Draghi perché prenda a cuore la narrazione del Paese ha avuto 140.000 visualizzazioni. Luca Barbareschi è così, individua delle battaglie, azzera scrupoli e mediazioni e si butta, faccia al vento. In barba a tutto, oltre che essere il titolo del suo programma su Rai 3 è anche una filosofia di vita.

Prendersi a cuore «la narrazione del Paese» fa Nichi Vendola.

«Anni fa feci un confronto con Vendola sui temi della cultura e della politica. Il pubblico sperava che ci scannassimo, invece su tanti temi ci trovammo d' accordo. Vendola ha creato la Film commission della Puglia, tra le migliori d' Italia. Detto ciò, m' interessano i contenuti non le appartenenze politiche».

Perché Draghi dovrebbe occuparsi della narrazione del Paese con tutte le grane che ha?

«Perché è un motore economico straordinario. Più dei cavi e delle parabole, sono i contenuti a far rendere la ricerca e la produzione tecnologica. L' America è la grande potenza economica che conosciamo grazie alla vendita dei propri prodotti audiovisivi. Israele è leader mondiale nel settore dell' intrattenimento e della serialità pur essendo un Paese di soli 8 milioni di abitanti, con una lingua che si scrive da destra a sinistra, e pieno di problemi, come vediamo in questi giorni».

L' Italia cosa dovrebbe fare?

«Possibile che l' Italia, in possesso di una storia e una ricchezza artistica straordinarie, non riesca ad attivare un sistema virtuoso che non guardi solo al suo passato, ma sappia creare business per il futuro? L' ha fatto nella moda e nell' alimentare, perché non può farlo nella produzione cinematografica e televisiva?».

Parlando dell' alimentare poche multinazionali decidono cosa farci mangiare, avviene lo stesso anche con il cinema e le serie tv?

«Sette multinazionali decidono il cibo per la pancia di 7 miliardi di persone e altre poche multinazionali dello streaming, da Netflix ad Amazon ad Apple a Disney +, decidono il cibo per la mente. Noi europei, soprattutto noi italiani abbiamo abdicato ai contenuti anglosassoni. Qualche giorno fa ho visto una serie americana che racconta in maniera contemporanea i miti greci, una storia che può essere potentissima per la formazione dei nostri ragazzi. Perché dobbiamo lasciarla raccontare agli americani?».

Siamo figli delle piattaforme?

«Non ancora perché sono nate pochi anni fa. Hanno conquistato una quota di mercato con l' ok della politica. Quando Sky è arrivata in Italia con l' aiuto della sinistra ha avuto un budget pubblico enorme che solo parzialmente ha reinvestito nella narrazione del nostro Paese. Cosa interessava a Rupert Murdoch della narrazione italiana? Zero. Sono stati bravi a vendere il marchio meglio della Rai. Hanno vinto con il marketing. Grazie al quale, ancora oggi, la Rai, che è migliore sul piano dei contenuti ma incapace di promuoversi, appare un' azienda superata, mentre Sky è moderna e brillante».

La pandemia ha accelerato il processo di globalizzazione?

«Assolutamente. Il plagio totale, che viene da lontano, sta arrivando allo stadio finale. Gli inglesi prima hanno creato un mercato, il Commonwealth, poi hanno imposto la lingua che tutti parliamo, e ora stanno diffondendo i contenuti che tutti vediamo. Rai 1, il primo canale pubblico italiano, trasmette in diretta i funerali del principe Filippo di Edimburgo».

Non è troppo parlare di colonizzazione?

«Hanno colonizzato la nostra fantasia e abbiamo iniziato a comprare i jeans quando abbiamo visto John Wayne indossarli nei film western».

Che cosa può fare il premier di un Paese periferico come il nostro?

«Siamo una delle maggiori potenze economiche mondiali. Possiamo e dobbiamo iniziare a scegliere i contenuti come fanno i francesi e i tedeschi che tutelano la loro produzione interna. Serve una politica degli investimenti. Serve fare le nomine Rai in base a questa logica. Per la nostra fiction sono previsti 130 milioni, all' incirca il budget che Netflix impiega per una serie. Con 130 milioni, se va bene, ne possiamo fare dieci di modeste. Invece, la strategia dev' essere produrre per vendere all' estero, altrimenti non si va da nessuna parte. Il mio J' accuse (L' ufficiale e la spia, diretto da Roman Polanski ndr) è stato venduto in 100 Paesi in tutto il mondo».

La Rai gode già del finanziamento pubblico del canone.

«Il punto di partenza non è quanto si investe, ma perché si investe. Dobbiamo allargare lo sguardo, investendo sulla formazione di professionisti, scrittori, registi, sceneggiatori, autori per alimentare tutta la filiera produttiva».

Con che criterio andrebbero fatte secondo lei le nomine dei vertici della tv pubblica?

«Non conosco le candidature in campo. So che le nomine fatte in passato hanno finito per trasformare la Rai nel bancomat delle multinazionali dell' intrattenimento. Se vado in Germania con la mia società devo dare lavoro ai professionisti tedeschi. Noi abbiamo delle eccellenze in questo settore, eppure siamo l' unico Paese che ha finanziato Hollywood».

In che senso?

«Abbiamo finanziato sale cinematografiche che non avevano alcun obbligo di programmazione italiana. Anche i 1.000 euro di bonus distribuiti ai diciottenni sono serviti a comprare videogame americani. Potevamo stabilire l' obbligo di spenderli in prodotti europei se non proprio italiani».

Teme che le nomine delle aziende pubbliche vengano fatte con il manuale Cencelli dei partiti più che in base a un progetto da perseguire?

«Manca una visione globale. La politica dovrebbe incentivare persone competenti che promuovano un progetto favorevole alla cultura del Paese».

Che cosa chiederebbe al ministro della Cultura Dario Franceschini e a quello dell' Economia Daniele Franco?

«Di cambiare le regole della distribuzione dei fondi ora che, con il Recovery plan ci saranno 6 miliardi per la cultura. Puntiamo sulle eccellenze in grado di creare dinamiche virtuose. È inutile andare a prendere l' acqua al pozzo se abbiamo i rubinetti in casa».

Di fronte alla potenza di fuoco delle piattaforme la sua è un' idea un po' donchisciottesca?

«Wall Street non potrà continuare a sostenerle sempre come ha fatto finora. Prima o poi la bolla si sgonfierà. Ma intanto, se abbiamo rispetto della nostra cultura e della nostra storia, noi dobbiamo contrattaccare, con un progetto degno di questo nome».

·        Luca Barbarossa.

Rita Vecchio per leggo.it il 12 aprile 2021. Stivali da cowboy e chitarra. Parte da qui Luca Barbarossa per un viaggio a ritroso che, a pochi giorni dal suo sessantesimo compleanno (il 15 aprile), gli fa ripercorrere la vita, raccontandola nel romanzo “Non perderti niente”. L’adolescenza in campagna. La strada. L’arresto per fede calcistica e l’escamotage per evitare la naja. La musica dei Beatles. Le canzoni, da “Roma puttana” (poi “Roma spogliata” con trascrizione di Bacalov) a “Passame er sale”. Sanremo. Gli incontri fortunati, da Springsteen a Maradona, a Morricone e Pavarotti. L’amore per la moglie Ingrid.

Barbarossa, la sua è una vita intensa.

«Fin da quando distribuivo copie dell’Unità invece che andarmene al mare, dal cineforum alla Fgci di Mentana (in provincia di Roma, ndr) e l’andirivieni con la corriera per trovare i film di Totò, Sordi, Fabrizi. Avevo stabilito un principio rivoluzionario per l’epoca: “anche i comunisti possono ridere”».

Adesso ci sono 60 candeline da spegnere.

«Non sono pronto. È una cosa davvero scortese (scuote la testa, ndr)».

Non si può lamentare, anche se lei considera la notorietà un imprevisto e non un desiderio.

«Sognavo di suonare, indipendentemente dalla popolarità che manco sapevo cosa fosse. Mi esibivo a piazza Navona. Ero disposto a dormire per strada. Sono uno ansioso, ottimista asintomatico affezionato di più agli insuccessi. Sto comunque migliorando, grazie a mia moglie Ingrid e ai nostri tre figli, Valerio, Flavio e Margot».

A proposito: hanno letto il romanzo?

«Sì. Certo, scrivendo che a scuola entravo dalla porta e uscivo dalla finestra, mi sono tirato la zappa sui piedi. Adesso hanno un’arma contro di me».

La sua vera scuola era la strada.

«Da cui vengo e a cui appartengo. Per strada ci si annusava e, se ci si piaceva, si faceva un tratto insieme. A 60 anni mi piace che il Luca adulto incontri il ragazzo che era, che lo ringrazi per averci creduto quando nessuno gli diceva che ce l’avrebbe fatta. In comune i due Luca hanno gli ideali, la voglia di giustizia sociale e di lealtà. Allora si lottava contro lo sfruttamento delle classi deboli,  oggi lottiamo per i diritti delle minoranze in un momento in cui i diritti sono sospesi dall’emergenza pandemica, contro l’omofobia».

C’è una sua canzone, "L’amore rubato” che parla di violenza sulle donne. Il riferimento era allo stupro subito da Franca Rame.

«Mi sentivo in colpa verso tutte le donne vittime di abuso. E questo brano - che inizialmente avevo pensato di scrivere per Fiorella Mannoia - poteva essere un modo per dirlo. Alla fine, la cantai io e fu in gara al Sanremo 1988. Racconta la violenza sessuale subita da Franca Rame il 9 marzo 1973: nessuno pagò mai per quel crimine. E io non mi ero mai vergognato così tanto di appartenere al genere maschile. Gli uomini fanno sempre gli stessi errori. Nelle interviste di allora dicevo che speravo che episodi del genere non accadessero più. E invece, oggi, a distanza di anni, se ne parla ancora. Anzi, si parla sempre di più addirittura di femminicidio. La canzone è terribilmente attuale».

Tra le pagine si parla anche di eroina.

«Per amore di Sophie, una ragazza francese che conobbi a piazza Navona durante le mie performance da strada a suon di accordi di un repertorio che andava da Neil Young a James Taylor. Me ne innamorai. Era una eroinomane e io, che poco o nulla sapevo di tossicodipendenza (eravamo negli anni Settanta), pensavo di riuscire a salvarla con il nostro amore. Non fu così. Per quanto mi riguarda, io sono riuscito a non fare uso di droghe: mi orientai soltanto verso il menefreghismo cannarolo tendente al teppismo (ride, ndr) e a bere del buon vino».

Parafrasando il titolo del libro, pensa di essersi perso qualcosa?

«Non credo. Vivo delle mie passioni: canzoni, radio (dal 2010 a Radio2 Social Club, ndr), teatro con Neri Marcorè. Da ragazzo avrei voluto essere Adriano Panatta. Ma la vita sorprende».

E la musica fa cambiare direzione.

«Il jazz nelle cantine e al Music Inn club di Roma con mio padre, che mi portava a sentire quel genere di musica che allora era “carbonaro”. I concerti di Chet Baker e quelli di Bob Dylan a Londra (dove c’era uno che con le spalle al palco rollava canne e le regalava). Gli incontri, fortunati e inaspettati: Bruce Springsteen che, super ospite al Sanremo 1996 in cui io ero in gara con “Il ragazzo con la chitarra”, mi chiese di incontrarlo e mi invitò al concerto che avrebbe fatto qualche mese dopo all’Auditorium Santa Cecilia di Roma. Luciano Pavarotti, nella sua casa pazzesca a Manhattan e la mia ricetta diet degli “spaghetti alla Barbarossa” (come poi li chiamò): lo incontrai quando scrissi “Il canto”, brano che inizialmente era stato commissionato per Placido Domingo (che poi cantò anni dopo con Il Volo) e che registrò Pavarotti. Non mi pareva possibile che il Maestro avrebbe potuto cantare un mio testo (sbagliarono i crediti e in stampa figurò il nome di Giorgio Pintus invece che di Luca Barbarossa, ndr). Ricordo anche l’incontro con Maradona a un mio concerto a Napoli, con Benigni e quello con Ennio Morricone che mi presentò alla moglie come quello che mesi prima lo aveva fatto apparire “persino simpatico” durante una puntata a lui dedicata di Radio2 Social Club. Sono incontri che, ancora adesso a pensarci, mi emozionano».

Domani potranno leggere tutti la sua autobiografia. 

«Sarà una settimana impegnativa. Il 13 aprile esce il romanzo. Il 15 compio 60 anni. Il 17, il ventiduesimo anniversario di matrimonio (sorride, ndr). E come ogni anno da quando io e Ingrid ci siamo sposati, le scrivo un biglietto con su la frase: “Non funziona”. Era quello che mi disse per tranquillizzarmi quando abbiamo deciso di stare insieme: "Se non funziona me ne torno a Parigi”. Quel “non funziona” ha portato fortuna».

Dopo il romanzo un nuovo disco?

«Prossimo romanzo tra altri 60 anni (ride ancora, ndr). Per il disco, qualcosa nell’aria c’è».

·        Luca Bizzarri.

Renato Franco per Sette – Corriere della Sera il 25 gennaio 2021. «Io vivo in un lockdown volontario cominciato ben prima della pandemia: sono totalmente asociale, quindi la situazione è perfetta, non ho mai avuto voglia di socialità e non capisco tutta questa voglia di volersi riunire a ogni costo. Sono costretto a fare dei tamponi per lavoro ma sono assolutamente inutili, perché vivo isolato: l’unico che mi può attaccare il Covid è il mio cane». Luca Bizzarri ha molte vite fuori: comico, attore, scrittore (il debutto con il romanzo Disturbo della pubblica quiete), presidente della Fondazione Palazzo Ducale di Genova. Un uomo dalle mille relazioni che alla fine preferisce quella con se stesso. Quindi per lei va benissimo. Il distanziamento obbligatorio è la rivincita del sociopatico. «Sì, ma non del tutto. Il sociopatico ha bisogno che ci sia un fuori perché ci sia un dentro, il sociopatico gode del fatto che tutti escono e lui no. In questo momento manca il brivido, il piacere, perché sai che sono tutti come te. Semplicemente tu sei più attrezzato degli altri per star bene lo stesso».

Qualcosa le mancherà?

«Mi manca andare al ristorante da solo, in tempi normali ci vado spessissimo. Mi manca andarci da solo, ma non mi manca affatto andarci in compagnia».

È il periodo d’oro dei complottisti. Corrado Guzzanti ha riassunto perfettamente la situazione: «Attento negazionista a non negare troppo: se neghi due volte la stessa cosa diventi affermazionista».

«Guzzanti è sempre geniale... Io ho avuto la fortuna di ritrovarmi sotto casa la manifestazione dei negazionisti dell’Illinois: è un mondo che sarebbe meraviglioso se non fosse tragico. Non avevo mai visto così tanti scemi tutti insieme e tutti uno diverso dall’altro. La cosa bella del complottista è che non ha colore: ci sono i nazisti, le mamme, i figli dei fiori... portatori di tante idee diverse ma indirizzate tutte verso la medesima scemenza. È bello un mischione così di imbecilli, un tempo eravamo abituati a dare un colore ai cretini, il virus invece ci ha fatto capire che ci sono imbecilli dovunque. E abbiamo scoperto anche un’altra verità: non c’è più distinzione tra un ministro e un complottista».

Che effetto le ha fatto vedere lo sciamano trumpiano che attaccava il Campidoglio?

«Lui è entrato con la forza, noi abbiamo fatto di meglio: abbiamo portato questa gente folcloristica in Parlamento con i voti. Da noi ci sono parecchi “onorevoli” d’accordo con quello che ha fatto il signore con le corna».

A occhio il Bizzarri studente avrebbe fatto i salti di gioia per la «dad».

«Ero un mago nel copiare. Con la didattica a distanza io avrei risolto tutti i miei problemi scolastici che sono stati tanti. La direttrice di Palazzo Ducale mi ha mandato una foto di suo figlio che aveva dietro lo schermo un atalante di bigliettini e memo. Che tenerezza, mi sono riconosciuto tantissimo. Posso dire una cosa seria?».

Prego.

«In momenti come questo mi sembra che si possa anche studiare così. C’è gente che ha fatto la guerra e non è andata a scuola per anni. Insomma è un dramma, ma non una tragedia».

Per i single è durissima, no?

«No, anzi. Durante il primo lockdown ho sentito la mia ex fidanzata e dentro di me ho pensato con enorme sollievo che fosse ex, perché se avessimo dovuto passarlo insieme sarebbe stato un disastro. La convivenza forzata è una prova tremenda per qualsiasi coppia. Dopo un po’ di tempo, sempre in casa, sempre insieme, sempre chiusi, cosa ti dici? Poi con i figli ancora peggio... roba da esaurimento nervoso».

Sì, ma i single?

«È una gioia, perché ti alzi e puoi scegliere: leggo, guardo un film, gioco all’Xbox, mi alleno o vado fuori con il cane? Fantastico. Io faccio sempre le stesse cose».

Il sesso però diventa on demand, fai da te...

«Il sesso è sopravvalutato, è il grande sopravvalutato della nostra epoca».

Lei passa per conquistatore però.

«È un mito assolutamente fasullo. Sarà per la faccia da guascone, sarà per il ruolo che gioco a fare in tv, ma non è così. Io sono esattamente il contrario: ho paura dei rapporti, sono un orso che vive nella tana senza vedere nessuno. Ho un cane totalmente anaffettivo che se gli fai tre carezze alla quarta se ne va. Chissà da chi ha preso».

Per gli amanti è durissima

«Invece può essere ancora più stimolante perché diventa ancora più difficile: la parte complicata e trasgressiva è la linfa vitale nelle storie tra amanti, questo aspetto migliora la situazione e la rende più calda».

Si capisce che sa di quel che parla...

«Ho qualche ricordo da ragazzo».

Tempi duri anche per i comici. Il vaccino del politicamente corretto ha prodotto l’immunità di gregge. Ormai non si può scherzare su niente.

«Da una parte non si può dire niente di sconveniente, dall’altra si può dire tutto lo sconveniente possibile in nome di una libertà di parola non bene identificata. Il paradosso vero è che non si può scherzare su niente, ma seriamente si possono dire le più grosse puttanate della Terra. Sono serio, giuro solo un attimo. Vedo molti convinti che il concetto di libertà significhi “dire e fare tutto il cazzo che ti pare”. Se sei in un teatro pieno non sei libero di urlare che c’è una bomba (se la bomba non c’è) e forse — ma dico forse — non è “libertà” dire che il Covid lo portano i neri dall’Africa sui barconi, che l’Olocausto non è mai esistito o che i vaccini fanno venire l’autismo (questo lo hanno fatto pure ministro, altro che censura). Ecco questa non è libertà, è programma di prima liceo: libertà è prima di tutto responsabilità. Me lo ricordo ancora e mi ha pure rimandato, quella stronza».

Sugli anziani riesce a scherzare?

«Non ce la faccio perché ho i genitori in là con gli anni. Tutte le volte che vedo mio padre di 84 anni che mi vorrebbe abbracciare ma non può mi viene un cuore piccolissimo, è straziante. E so che per tante persone di quell’età è così. Ripeto, per noi non è una tragedia, per loro, che ne hanno vissute tante, sì: credi di aver visto tutto e poi arriva questa cosa impensabile».

Sull’eliminazione dei parenti invece sfondiamo una porta aperta?

«Lo dico vergognandomene come un cane, ma quando ho scoperto che al pranzo di Natale ci saremmo stati solo io, papà e mamma ho tirato un sospiro di sollievo enorme. Me ne vergogno, so che è sbagliato, so che non è giusto, mi pento e mi dolgo dei miei peccati... però... che sollievo. Eppure ho un fratello che amo alla follia, così come i miei nipoti... Però, ecco, una liberazione».

Ne usciremo?

«Non migliori, mi sembra chiaro. Anzi. All’inizio cantavamo dai balconi, ora ci spareremmo volentieri dai terrazzi. Dunque ne usciremo peggiori. Già sto pensando che se ci fosse una scorciatoia per poter far vaccinare i miei genitori io quasi quasi ne approfitterei... Che pensiero meschino. Me ne sono vergognato quasi subito. Quasi...».

·        Luca Tommassini.

Fulvia Caprara per "la Stampa" il 16 giugno 2021. Una danza verticale, con otto ballerini-acrobati pronti a volteggiare sui quattro lati della Mole Antonelliana, alternandosi con le immagini dei volti più noti del cinema italiano e con scene di ballo di film che hanno fatto epoca. Si chiama Torino' s Dreaming Photocall ed è l'ultima visione di Luca Tommassini, ballerino, attore, coreografo, regista, anche se il suo vero mestiere si può sintetizzare in due parole, cacciatore di emozioni. Uno che, dai drammi della vita, ha saputo tirarsi fuori cercando sempre nuove sfide: «La danza è stata la via di fuga, la prima conquista, poi è venuto tutto il resto». Un «resto» che va dalla collaborazione con Madonna, con cui ha intrecciato i passi del celebre tango di Evita, a quelle con altre luminosissime star, da Prince a Angelina Jolie, da Alicia Keys ai «Take that», per non parlare dei sodalizi italiani, con Baglioni, Ferro, Jovanotti, dei programmi di successo, degli spettacoli teatrali con Mariangela Melato e con Gabriele Lavia, delle campagne pubblicitarie, dei talent «evergreen» come Amici: «La carica? Mi viene quando mi trovo davanti a una cosa che non so fare. Imparare mi emoziona sempre, l'importante è che siano cose difficili. Quello che mi fa alzare dal letto la mattina è il rischio dell'attacco di panico».

Che rapporto ha col cinema?

«Per me il cinema è come la Formula Uno, la forma più alta e completa di espressione, mette insieme tutte le arti, ti prende al buio e ti cattura. Faccio tantissime cose in campi diversi, la moda, la musica, ma, quando mi arriva una proposta cinematografica, è come se ricevessi una medaglia. Il cinema resta per sempre». 

Su quale idea si basa la performance in programma sulla Mole?

«L' importante, come mi ha insegnato Michael Jackson, è mettere tutto in sincrono. Ci saranno coppie di danzatori agganciati agli oblò della Mole: danzeranno sospesi nell' aria». 

Quali sono stati gli incontri fondamentali della sua vita?

«Tanti, ma il primo momento che mi viene in mente è quello in cui io e mia madre abbiamo letto il cartello sotto casa che annunciava l'inaugurazione della scuola di ballo e per noi significava l'apertura ai sogni, alla vita, al cambiamento. Poi, certo, ho incontrato Madonna e Michael Jackson, e Claudio Baglioni che mi ha regalato l'esperienza degli stadi, ma sono state molto importanti anche le persone che mi hanno fatto dormire a casa loro, a Los Angeles, quando non avevo un tetto».

Non ha mai fatto mistero della sua infanzia difficile, del suo passato di ragazzino bullizzato, di suo padre, da cui non si sentiva nè amato nè accettato. Oggi sente di essere guarito?

«Ho avuto una vita fortunata, ma certe ferite sono sempre aperte. Qualche mese fa ho trovato sul mio citofono un bigliettino con su scritto "frocio, vattene", sono stato malissimo, mi sono andato a nascondere in camera per la vergogna, ho pianto sotto le coperte, come un bambino. Per guarire bisogna fare comunità, parlare, far capire a chi ha sofferto che esiste sempre la possibilità di riprendersi quello che ci è stato tolto». 

Il suo impegno con l'associazione «Pangea» è un modo per concretizzare questa convinzione?

«Sì, ai miei tempi "Pangea" non esisteva e i bambini e le mamme vittime di violenze domestiche, come lo siamo stati noi, non avevano nessuno a cui chiedere aiuto. Per questo sostengo "Pangea" che offre alle persone in difficoltà la possibilità di lasciare le loro case piene di dolore. Il problema mio e di mia madre era che non avevamo i soldi per andarcene». 

Quali sono le sue coreografie preferite?

«La coreografia deve essere una sfida, una cosa che non è mai stata fatta in quel modo.

Oppure deve coinvolgere, dare allegria, aiutare la gente a celebrare la vita». 

Lei è stato direttore artistico di «Amici», che cosa ha pensato della fine tragica di Michele Merlo?

«Non l'ho conosciuto, ma ho pensato tanto, a lui, alla famiglia, e mi è dispiaciuto moltissimo. Mi ha colpito il fatto che tutt' Italia sia rimasta scioccata e ne abbia parlato, il dolore certe volte unisce, ed è una cosa che, ultimamente, ci sta capitando spesso». 

Stiamo venendo tutti fuori da un periodo difficile, lei dove trova la voglia di ricominciare?

«Cerco sempre la luce. Anche io, dopo la pandemia, sto camminando sui gomiti, ma sono convinto che, quando si è a terra, sia sempre il momento per alzare lo sguardo». 

Sta per tornare a lavorare per il cinema, che cosa l'attende?

«Mi hanno appena chiamato i fratelli Manetti per la nostra seconda collaborazione e mi ha cercato Ferzan Ozpetek, che sta girando la serie dalle "Fate ignoranti", mi ha detto "devi venire sul set e far ballare tutti"».

·        Luca Zingaretti.

Luca Zingaretti: «Così ho conquistato Luisa Ranieri. Sopravvivo a Montalbano e farò anche il regista». Aldo Cazzullo su il Corriere della Sera l'11 Novembre 2021. I 60 anni dell’attore, dalle risse in borgata agli esordi da calciatore: «A Luisa facevo trovare fiori ovunque. Cedette per sfinimento» 

Luca Zingaretti, qual è il suo primo ricordo?

«Il corridoio della nostra casa alla Magliana. Da lì all’Eur erano tutti prati. Ci avevano assicurato che sarebbero diventati piscine e campi da tennis». 

Invece?

«Crebbe la borgata. La considerai una buona notizia. Divenni un po’ un ragazzo di strada; e la strada — non è retorica — fu una scuola». 

Scuola?

«Impari a relazionarti con gli altri. In fondo siamo animali: la prima impressione è sempre legata all’aspetto, all’odore, al modo di porsi. Ancora adesso, pure nel luogo più pericoloso del mondo, mi sento relativamente tranquillo. Se poi c’è un pericolo vero, lo avverto un quarto d’ora prima». 

Faceva a botte?

«Bastava uno sguardo storto, o una lite per il pallone, ed era subito rissa. Ma con le mani; non c’erano coltelli o pistole, come adesso». 

E il primo ricordo pubblico?

«Un grande corteo urlante del Sessantotto in corso Vittorio a Roma, io e mio fratello Nicola per mano a nostro padre Aquilino, che sorride della mia paura. E poi i funerali di piazza Fontana, in tv. Ricordo l’atmosfera di stupore: la gente non capiva quel che era accaduto, la guerra era finita da poco e tornavano le bombe. E ricordo una folla diversa da oggi proprio sul piano antropomorfo: eravamo più piccoli, più scuri, più “terroni”, più italiani». 

Lei faceva politica.

«Nel Pdup: partito di unità proletaria. I capi erano Lucio Magri e Luciana Castellina. Si diffondeva il Manifesto, si distribuivano volantini, si teneva testa ai fascisti, che a Roma erano forti. Tutti gli studenti facevano politica». 

Lei quindi era di estrema sinistra.

«No. Noi eravamo l’ala critica del Pci, e guardavamo con sospetto agli estremisti veri: Lotta continua, Autonomia operaia. Tutta la sinistra però seppe fare argine alla tentazione del terrorismo. Oggi si tende a dimenticarlo; ma senza quell’argine la storia del nostro Paese sarebbe stata ancora più terribile».

Suo fratello Nicola, di quattro anni più giovane, scelse invece la Fgci: Federazione giovanile comunista.

«Lui aveva la pazienza necessaria a fare politica, che a me mancava. Fece tutta la trafila: segretario di sezione, di Roma, della provincia, nazionale. Poi entrò nel partito».

Lei quattro anni fa disse al «Corriere»: «Speriamo che Nicola non diventi segretario del Pd».

«Avevo ragione. Il Pd è divenuto un partito molto turbolento. Non dico il centralismo democratico; ma un po’ di spirito unitario ci vorrebbe».

Draghi?

«Non mi dispiace per niente, anzi».

Lo vede al Quirinale?

«Sarebbe un ottimo presidente. Ma preferirei che proseguisse lo straordinario lavoro che sta facendo».

La destra italiana non è mai stata così forte, Salvini e Meloni insieme fanno il 40%. Qualcuno paventa un nuovo fascismo. Esiste questo pericolo?

«La destra italiana è legata indissolubilmente al ventennio fascista. Il che è inaccettabile: perché era una dittatura; e perché non si può affrontare il 2021 con le logiche di un secolo prima, sarebbe come fare il giro del mondo con la topolino amaranto. Ma è un’involuzione che non riguarda solo la destra italiana. Ovunque i social soffiano sul fuoco dell’irrazionalità. Si ragiona sul sentito dire. I No Vax nascono da lì».

Una parte della sua famiglia è di origine ebraica.

«Mia bisnonna Ester, la nonna di mia madre, fu portata via dal ghetto il 16 ottobre 1943. Qualcuno aveva dato l’allarme, lei era scappata, ma aveva lasciato a casa l’orologio. Tornò a prenderlo. I nazisti fecero irruzione e la mandarono ad Auschwitz. Morì durante il viaggio. Suo figlio, mio nonno Angelo, si salvò nascondendosi in convento. Il fratello, mio zio Ugo, grazie ai documenti falsi che gli procurò una rete di resistenti cattolici, poté tenere aperto il suo negozio di antiquariato. Quando partivano i rastrellamenti nazisti, alla ricerca di braccia da mandare in Germania, i giovani del quartiere si avvertivano l’un l’altro, e si nascondevano. Ero legatissimo a zio Ughetto».

Come mai?

«Scapolo impenitente, tutti in famiglia lo amavamo molto. Un giorno lo accompagnai a una visita medica. Temeva di avere un brutto male. Ne uscì rassicurato e si fumò una sigaretta. Mi disse: “Luca, io la mia vita l’ho vissuta. La morte non mi fa paura, perché non ho rimpianti”. È una lezione che mi porto ancora dentro».

Lei non ha paura della morte?

«Io adoro la vita. La mia vera paura è vivere male. È guardarmi indietro e dire: potevo giocarmela meglio».

Crede in Dio?

«Ho un rapporto molto personale con il trascendente. Avverto il desiderio di qualcosa che ci comprenda tutti, l’aspirazione all’immortalità; ma fatico a inquadrarla in una fede religiosa. Se mi succedesse qualcosa, vorrei una benedizione da cattolico; ma lo so che è una posizione di comodo».

Come immagina l’Aldilà?

«Non me lo immagino. La vita è ora e qui. Bisogna cercare di stare bene; che non vuol dire andare alle Maldive, ma vivere appieno ogni momento, anche il peggiore; perché può sempre riservare sorprese».

Come ha vissuto i lockdown?

«Il primo in modo quasi euforico. Al netto del dolore e della paura che ci circondava, ero felice che fossimo tutti insieme: le cene con le figlie, Emma e Bianca; le chiacchiere con mia moglie; il tempo per leggere un libro, riflettere, financo per annoiarsi…».

E il secondo lockdown?

«Il secondo anche basta».

Lei dovette scegliere tra il calcio e il teatro.

«Il calcio è stata un’altra grande scuola. L’allenamento, la fatica, la tattica, lo scontro, il gol, la gioia: mi piaceva tutto. Mi presero in serie B, al Rimini. Scappai dopo pochi mesi. Mi avevano ammesso all’Accademia d’arte drammatica. E Rimini d’inverno era triste come un lunapark chiuso».

Suo docente di regia televisiva era Andrea Camilleri.

«Non c’era una lira per le telecamere. Così insegnava per tre ore con la sua affabulazione».

Al cinema lei esordì in ruoli da cattivo.

«In Vite strozzate ero un commercialista che presta soldi ai disperati e cerca pure di rubargli la moglie: un essere spregevole. Ho fatto anche il viddano, il corleonese che nella Piovra 8 uccide il suo capomafia. E il violentatore ne Il branco. Una storia affrontata da Marco Risi con uno sguardo realistico che trovavo efficace, senza una condanna preventiva e quindi catartica; come a dirci che il malvagio poteva essere chiunque. Ma a Venezia Uma Thurman, che era in giuria, non capì, pensò che difendessimo gli stupratori. Si levarono i fischi, gli insulti. Gillo Pontecorvo disse a Risi di affrontarli, lui si alzò in piedi, e io gli fui accanto. Poi scappai in albergo a piangere».

Come divenne Montalbano?

«In una piccola libreria comprai un romanzo di Camilleri: era Il cane di terracotta. Scoprii questo personaggio strepitoso. Avrei comprato volentieri i diritti, ma non avevo né i soldi, né il nome. Per fortuna se li procurò un piccolo produttore, Carlo Degli Esposti. Dissi alla mia agente: anche se cercano un attore alto e biondo, voglio quella parte. Scelsero me».

Camilleri che disse?

«Che avrei fatto un bel lavoro. Anche se lui aveva in mente un altro tipo di attore, tipo Pietro Germi quando fa il commissario Ingravallo».

Forse Camilleri avrebbe voluto che il pubblico identificasse Montalbano con il suo autore, cioè con lui, anziché con il suo interprete, cioè con lei.

«È possibile che talora si sia seccato, quando qualcuno gli chiedeva del Montalbano personaggio della fiction anziché del personaggio letterario; tanto che poi in Riccardino, il suo ultimo romanzo, ci ha anche scherzato sopra. Ma Camilleri era superiore a queste cose. Prima di un grande scrittore, era stato un grande uomo di spettacolo. Conosceva la differenza».

Non soltanto l’ennesima replica di Montalbano vince ancora la serata tv; la fiction è stata esportata in tutto il mondo, America compresa. Qual è il segreto?

«I segreti sono tre. Una scrittura magica, propria della scuola siciliana, in cui il bianco è nero e il nero è bianco. La scelta di Degli Esposti di girare quasi tutto sull’isola, con un regista di Gallarate come Alberto Sironi che creò uno scollamento dalla realtà senza che lo spettatore se ne accorgesse, ad esempio mettendo in scena una Sicilia senza traffico. E un cast d’eccezione, che ha inventato un modo di recitare all’apparenza naturale eppure artefatto, da commedia dell’arte con note tragiche. A volte pare un film di Almodovar, a volte Boldi e De Sica, a volte Bergman».

Montalbano ha avuto un solo momento di impopolarità: quando lasciò la fidanzata al telefono.

«Credo sia stato uno stress test cui Camilleri sottopose il personaggio. Gli fece fare una cosa non da lui, per vedere se il pubblico avrebbe perdonato il tradimento. Infatti quella scena la girai in modo diverso; come se non fosse il vero Montalbano. Che avrebbe preso un aereo, sarebbe andato a Boccadasse, e avrebbe detto alla sua donna negli occhi: il nostro amore è finito».

Lei sua moglie, Luisa Ranieri, se la tiene stretta.

«La conquistai sul set di Cefalonia. Le facevo trovare fiori dappertutto. Prenotavo l’intero ristorante, c’erano fiori su ogni tavolo. Cedette per sfinimento».

E i suoi genitori?

«Mamma se n’è andata l’anno scorso. Papà l’ha seguita undici mesi dopo. Non potevano stare l’uno senza l’altra».

Cos’è stata per lei la morte di Camilleri?

«L’addio a un grande, da cui mi ha sempre separato un’affettuosa distanza, dovuta al rispetto e alla timidezza».

E la morte di Montalbano?

«Ho dato molto, ho avuto tantissimo. È stata una cavalcata meravigliosa. Ma dovevo imparare a sopravvivergli».

E lei ora cosa farà?

«Il doppiatore: lo zio profeta di Encanto, il prossimo cartone Disney. L’attore del primo prison drama italiano per Sky, Il re: il direttore di un carcere che si crede onnipotente. E il regista. Del mio primo film. Una storia di rinascita». 

·        Luca Ward.

"Vi racconto il calvario di mia figlia. Ho una sola paura...". Roberta Damiata il 18 Maggio 2021 su Il Giornale. Un libro che racconta la sua vita, un'esperienza familiare dolorosa e una carriera che ha portato Luca Ward ad essere uno dei doppiatori e attori più amati. Questo e molto altro nell'intervista che il nostro "Gladiatore" made in Italy ci ha concesso con la modestia di dire che il suo talento è: "Essere nessuno". “Il talento di essere nessuno” un titolo emblematico per il libro di Luca Ward (Sperling & Kupfer) che di cose nella vita ne ha fatte in realtà molte. Iniziando dal suo primo lavoro quello di doppiatore, che lo ha portato all’attenzione del grande pubblico. Russell Crowe nel 'Gladiatore', Samuel L. Jackson in 'Pulp Fiction' o Pierce Brosnam in 'James Bond', sono solo alcuni degli attori a cui ha prestato la sua incredibile voce. Ma non solo. Anche la sua carriera d’attore gli ha regalato un certo prestigio, ponendolo tra i personaggi italiani più amati. Eppure parlando con lui in questa lunga intervista, quello che viene fuori è sì un uomo molto battagliero e sempre pronto a scendere in campo per il sociale, ma estremamente severo con sè stesso e con il proprio lavoro, che nella vita guarda più al sodo che alla fama.

Mi ha colpito il titolo del suo libro: "Il talento di essere nessuno”. In realtà di cose ne ha fatte molte. A parte la sua carriera lavorativa, parlo anche dell’impegno che ha sempre profuso nei confronti del sociale.

“Ho 60 anni e parlando di questo tema comincio a diventare veramente intollerante per quello che succede nel nostro Paese. Cose che definisco stucchevoli e pericolose. Credo bisogna tornare a partecipare e a scendere nuovamente in piazza, altrimenti verremo schiacciati da questo sistema”.

Cosa la spaventa di più, la poca partecipazione popolare o la sopraffazione da parte di chi ha il potere?

“Il fatto di non essere immortale. Sono padre di tre figli e prima o poi dovrò lasciarli e non voglio farlo nelle mani sbagliate. Noi italiani dobbiamo svegliarci, non possiamo sempre fare spallucce. Siamo un Paese culturalmente elevato, veniamo dall’Impero”.

Secondo lei esiste una manovra da parte dei poteri forti? In caso, quale sarebbe lo scopo?

“Sembra tutto fatto apposta per mandare in default alcuni paesi europei e questa cosa cominciano a pensarla in molti. Faccio parte della generazione che l’Europa l’ha voluta, ci siamo battuti per l’unione dei popoli e lo abbiamo fatto con grande spirito di partecipazione. Però non volevamo questa Europa a cui hanno modificato il dna. Dobbiamo combattere i poteri forti come quelli delle banche che fanno solo i propri interessi. Della società o del sociale non gli interessa nulla e lo dimostra il fatto che con questa pandemia sono stati chiusi i corridoi sanitari. L'Europa deve ritornare ad essere quella per cui è nata a Ventotene. Noi, la Spagna, il Portogallo e la Grecia siamo gli stati del sud e al massimo possiamo fare unione tra di noi, ma con quelli del nord abbiamo poco a che spartire. Per fare un esempio personale, la Francia mi ha chiuso le porte in faccia quando mia figlia doveva andare a fare un intervento importante a Lione”.

Che tipo di problema ha avuto?

“Da nove anni mia figlia Luna era in cura all’ospedale di Lione perché ha la Sindrome di Marfan (una malattia rara ereditaria del tessuto connettivo che causa alterazioni oculari, ossee, cardiache, dei vasi sanguigni, polmonari e del sistema nervoso centrale. ndr). Solo in Francia fanno un busto anti-rotazione della colonna, che le avrebbe permesso di arrivare alla fine dello sviluppo e poi operarsi. È un’assurdità che un Paese come l’Italia non si riesca a farlo. Voglio fare un parallelo: all'inizio della pandemia tutti chiedevano a gran voce i vaccini ma ci dicevano che ci sarebbero voluti anni. Sono arrivati soldi a fiume e in otto mesi la ricerca è riuscita a fare miracoli. Questo per dire che se i soldi ci sono, la ricerca è veloce e non solo sui vaccini ma anche per altre malattie. Allora perché in Italia non diamo soldi alla ricerca visto che siamo gli ultimi Europa. Questo è inaccettabile. Quando per il Covid a marzo dello scorso anno hanno chiuso i corridoi sanitari, di fatto hanno impedito sia a me, ma anche a centinaia di altri malati che dovevano per forza maggiore curarsi all’estero, di non poterlo fare. La cosa più assurda è che la Carta Europea del malato, che è stata creata negli anni ’50, parla molto chiaro: neanche in caso di conflitto atomico si possono chiudere i corridoi sanitari perché è una cosa criminale. Invece in barba a tutto così è successo”.

Nessuno nel nostro Paese è intervenuto? Non dico solo per lei, ma per tutti quelli che avevano necessità di salute importanti come quelle di sua figlia.

“Il vice questore di Roma mi aveva dato la possibilità di partire, dicendomi però che in Francia avrei trovato le porte chiuse. Aveva ragione perché anche il professore di Lione che ci aveva in cura, ci ha confermato la stessa cosa al telefono: neanche gli infermieri avrebbero toccato mia figlia in caso fossimo partiti. Questa storia non avrei mai voluta raccontarla, l’ho fatto nella speranza che se mai dovesse succedere di nuovo non si agisca come è stato fatto a marzo”.

Com’è ora la sua situazione?

“Questo tipo di intervento doveva essere fatto a fine crescita, ora invece mia figlia sarà operata all’Ospedale Bambino Gesù che per fortuna è un’eccellenza, con professori che il mondo ci invidia. Nonostante le incognite siamo quindi relativamente tranquilli, però se non ci fossero state la chiusura dei corridoi sanitari, Luna poteva non essere operata e magari aspettare fino alla fine dello sviluppo, come era nei piani”.

Parlando di diritti, lei è sceso in campo anche per un’associazione: la ‘NuovaImaie’.

“È una cosa a cui tengo molto. La 'NuovaImaie' è un’associazione che difende gli artisti a livello gratuito. Oggi è diventata la seconda collecting al mondo per il diritto connesso, ovvero la redistribuzione dei diritti per gli attori, autori e cantanti, per questo fa gola a molti. Nella mia carriera non mi sono mai iscritto ad un sindacato e non ho mai fatto parte di una fazione politica, ma quando ho capito che poteva succedere quello che è accaduto dieci anni fa, quando era finita in mano a tipi loschi che l’avevano fatta fallire, allora mi sono deciso e mi sono candidato nella lista 3. Ci tengo affinché la ’NuovaImaie’ continui a lavorare come ha sempre fatto, tutelando gli iscritti in modo onesto. Non vogliamo interferenze e siamo pronti a dare battaglia a chiunque voglia tentare di fare la scalata. Mi auguro che gli artisti che ne fanno parte se ne rendano conto”.

Cambiando argomento, secondo lei come è stata gestita la pandemia?

“Non posso dire se sarei riuscito a fare di meglio, siamo stati travolti da una cosa nuova e ci sta fare qualche errore. Però dopo il primo momento di smarrimento reiterare sugli sbagli è una cosa grave. Di sicuro molte cose potevano essere fatte diversamente. Penso che se non si è in grado di portare avanti un compito è meglio lasciare. Invece la cosa terribile che succede in italia è che anche di fronte agli errori nessuno si prende la responsabilità”.

Tornando al libro da cosa nasce questo suo desiderio di mettersi un po’ a nudo?

“Per caso. Me lo ha chiesto Mondadori perché in base ad una ricerca che avevano fatto, sono risultato al primo posto nel gradimento degli italiani. All’inizio ho rifiutato perché il mio lavoro è un altro. Sono un bravo marinaio, faccio doppiaggio e recito, ma non sono uno scrittore. Poi però ci ho riflettuto e ho pensato che la mia storia potesse essere d’aiuto per qualcuno, soprattutto per i giovani che a mio parere non sono aiutati. L’ho fatto con questo intento. Ho chiesto aiuto ad un bravo giornalista come Mariano Sabatini che mi ha indirizzato nella stesura e nel modo di raccontare la mia storia”.

Quanto è stato terapeutico per lei scrivere questo libro, rivivendo magari le problematiche di vita di cui racconta?

“A 60 anni capita di tirare un po’ le somme. Mi sono sempre considerato come qualcuno che non ha fatto grandi cose e ho sempre pensato che in tanti ambiti avrei potuto fare di più. Invece rileggendo il libro mi sono detto che tutto sommato non è andata così male. È vero sono molto critico con me stesso, ma ho capito che il mio percorso non era tutto da buttare. Scriverlo e rileggerlo mi ha fatto bene allo spirito e mi ha riappacificato con me stesso”.

Ha avuto il talento di essere nessuno, in realtà quel 'nessuno' è riuscito a scrivere in qualche modo una storia a lieto fine.

“Sì, perché nella vita servono anche le ripartenza e questo libro io l’ho sto usando per questo: ripartire un’altra volta”.

Ci sono cose che non ha fatto e che invece con questa ripartenza vorrebbe approfondire?

“L’idea è sicuramente quella di fare cose nuove e oggi la possibilità esiste. Si sono affacciati nel nostro Paese nuovi produttori, parlo di Netflix e Amazon con progetti belli, innovativi e soprattutto internazionali, cosa che manca ai nostri italiani. Vediamo, magari mi metterò a fare il documentarista”.

Dopo questo suo approccio alla scrittura magari una sceneggiatura?

“Sì, potrebbe. Non farei mai il regista perché non mi piace, ma magari lo scrittore di sceneggiature sarebbe bello”.

Lei ha doppiato personaggi importantissimi ce n’è uno a cui è legato particolarmente?

“Sicuramente il “Gladiatore” perché inconsapevolmente mi ha riportato a fare televisione. Noi doppiatori siamo sempre stati un po’ banditi dalla tv perché considerati non attori, e questo è uno sbaglio. Non parlo solo per me, ma ci sono centinaia di doppiatori straordinari che hanno fatto teatro, ed è un peccato che non vengano utilizzati nel cinema e nella tv. Alla fine vediamo sempre le stesse facce”.

Sarà forse perché vengono scelte le facce piuttosto che gli attori?

“Non lo so, ma per Sergio Leone non era così”

Visto che ne doppia molte, quali sono le serie tv che l’hanno particolarmente colpito?

“Mi è piaciuta molto 'The Undoing - Le verità non dette' , perché ho visto Hugh Grant fare il killer e non me lo sarei mai aspettato. Quando l’ho doppiato non conoscevo la storia, perché le parti arrivano man mano. Quando sono arrivato al quarto episodio ho detto: ‘Ma è lui il killer!’. Per me è stata una sorpresa e mi ha colpito la sua bravura come attore drammatico visto che ha sempre rappresentato un po’ la commedia, e in quella serie si è dimostrato straordinario. Poi c’è ‘Barbarian’ un’altra serie tedesca molto bella. Anche ‘Viking’, ma purtroppo ha un doppiaggio orribile. Netflix a volte dà per scontato che in Italia il doppiaggio lo sanno fare tutti, ma non è così. È vero che siamo molto bravi, però se dobbiamo farlo in quel modo scriteriato, meglio la lingua originale”.

Lasciando un secondo da parte il fatto di essere molto critico con sì stesso, qualche grande soddisfazione?

“Ho lavorato con Stanley Kubrick che era un grande amante del doppiaggio e per ‘Full Metal Jacket’ lo ha seguito personalmente in studio. Allora avevo 30 anni ed ogni volta che finivo una scena si alzava in piedi battendo le mani. In italia il doppiaggio è trattato malissimo, ma quando penso a lui o Ridley Scott che per il ‘Gladiatore’ mi ha detto che avevo superato me stesso dico: ‘Chi se ne frega delle altre critiche!’”.

Come diceva lei il doppiaggio in italia è considerato un’eccellenza, chi ne parla male?

“All’estero ci riconoscono le nostre capacità ma in Italia lo fa solo il pubblico non la critica. Sono usciti molti articoli di giornali che del doppiaggio italiano parlano malissimo e lo fanno senza neanche conoscerci. Addirittura il nostro presidente della Repubblica Mattarella, ha sentito l’esigenza di intervenire dicendo che il doppiaggio italiano è un’eccellenza e va difeso in tutto il mondo, quando l’attore Vincent Cassel ci ha definito come dei mafiosi. Ognuno può esprimere la sua idea, ma la mafia in italia è un problema e di questo doveva rendersi conto prima di parlare”.

Roberta Damiata. Sono nata a Palermo ma Roma mi ha adottato da piccola. Ho iniziato a scrivere mentre andavo ancora al liceo perché adoravo la British Invasion. Mi sono poi trasferita a Londra e da lì ho scritto di musica per vari anni. Sono tornata in Italia per dirigere un teen magazine e un paio di testate gossip. Amo la cronaca nera, il gossip, raccontare i personaggi e guardare sempre oltre la notizia. Il mio motto è "treat people with kindness", ma le mie grandi passioni sono i gatti e scrivere romanzi. 

Manuela Croci per corriere.it l'11 aprile 2021. “Mio padre, il mare e io. A ripensarci, è una situazione che si è ripetuta spesso, nei momenti salienti della mia vita di ragazzino. Eravamo molto legati: sono stato il suo primo figlio, mi ha avuto da grande, a quarantasette anni”. Comincia dall’inizio, dai ricordi di un bambino Il talento di essere nessuno, libro dell’attore e doppiatore Luca Ward. Edito da Sperling & Kupfer, in libreria dal 30 marzo, racconta la vita dell’artista romano che ha dato la voce «a tutti i gli attori hollywoodiani della mia generazione», come ha spiegato nella diretta video fatta sull’account Instagram di 7 (e ancora disponibile su @7Corriere).

La carriera nel mondo del cinema. L’adolescenza difficile («Mio padre è morto quando avevo solo 13 anni»), il primo matrimonio contro tutto e tutti, l’amore per Roma (“Mi ritengo un privilegiato a essere nato nella capitale italiana, la culla della cultura. Ho l’acqua del mare al posto del sangue, ma mi sento profondamente romano. Roma la amo e la odio, come accade a molti”, scrive nel libro). Ma anche tanto cinema. Una passione nata in famiglia: «Entrambi i miei genitori erano attori. Non famosissimi, ma molto molto bravi. Papà recitava in sette lingue, mamma ha dovuto tornare in scena quando lui è mancato. Non volevo fare questo lavoro, troppa precarietà. Guardavo i miei e capivo che a volte era difficile arrivare a fine mese», ha raccontato nella diretta Instagram. E, sempre nell’incontro social ha spiegato che «un doppiatore deve venire dal teatro, deve essere prima di tutto un attore. I grandi registi di Hollywood capiscono subito se hai una formazione attoriale».

I film. Quindi, dopo aver regalato ai follower che seguivano l’incontro l’interpretazione di alcune delle frasi che l’anno reso celebre - non poteva mancare Massimo Decimo Meridio, il gladiatore Russell Crowe -, ha spiegato che il film più difficile da doppiare è stato Pulp Fiction («era impossibile, una vera sfida») e che una delle frasi che più ha amato è nel Corvo, «quando una sera lui incontra la ragazza e le dice “Non può piovere per sempre” . E’ anche nella mia pagina Facebook e in questo momento più che mai, è attualissima».

La figlia e la malattia rara. Infine, tornando a Il talento di essere nessuno”, Luca Ward ha spiegato di averlo scritto per sua figlia Luna, affetta da una malattia genetica. «E’ una ragazza forte, ha gli attributi. E li hanno anche la mamma e il papà. Da questa pandemia abbiamo capito che gli investimenti possono aiutare la ricerca, in breve tempo è stato creato un vaccino. Ecco, se investiamo, se ci crediamo anche la ricerca sulle malattie rare può andare avanti. E trovare delle cure. Con il mio libro, voglio dire anche questo».

"Amori, risate e inferni. La mia vita spericolata da gladiatore delle voci". Attore per cinema e tv, è il re dei doppiatori. E racconta trucchi e segreti in un'autobiografia. Massimo M. Veronese - Lun, 12/04/2021 - su Il Giornale. Più che un'autobiografia è un film d'avventura: scommesse impossibili, eroine bellissime, amori contrastati, morti romanzesche, figlie perdute e ritrovate. Luca Ward è il Principe delle tenebre più amato del doppiaggio, quasi un milione di follower su Facebook, è la voce più famosa del cinema, la voce più famosa e basta. In Il talento di essere Nessuno (Sperling&Kupfer) racconta con coraggio e tenerezza il suo mondo segreto, a partire dalla malattia della figlia Luna. Pensare che nemmeno si sognava di farlo.

«Me lo ha chiesto l'editore. Mi hanno detto: Sei molto popolare sui social, 7 fan su 10 sono donne e, caso più unico che raro, non ha haters».

In effetti non avere odiatori è miracoloso. Forse perché con la voce si acchiappa?

«Sì, ma io non ne ho mai approfittato. Certo se ti capitava la ragazza un po' dubbiosa, allora buttavi lì una poesia di Prevert e tac!»

Ma la voce è stata un vantaggio o un limite?

«Una volta ai casting per attori se facevi il doppiatore ti scartavano. Per Elisa di Rivombrosa sono stato l'ultimo a fare il provino perché Mediaset aveva dei forti dubbi su di me. Cinzia Th. Torrini me lo fece fare in tre dialetti diversi per dimostrare che ero un attore vero. Fu un successo spaziale».

Ma anche «Al mio segnale scatenate l'inferno»

«L'avrò ripetuta miliardi di volte, ma mi fa piacere. Anni fa c'erano signore che al bar chiedevano a Ferruccio Amendola la frase degli Intoccabili Sei solo chiacchiere e distintivo. Gli dissi: arrivare alla gente solo con la voce è grandioso. Mi rispose: succederà anche a te».

Avrebbe avuto lo stesso successo quella frase in originale: «Al mio segnale scatenate i cani»?

«A Ridley Scott è piaciuta così tanto che ha cambiato la versione originale. Il doppiaggio ha migliorato l'originale».

Perché tutte queste cattiverie su voi doppiatori, che siete i migliori del mondo?

«Per ignoranza. Il cinema italiano è diventato grande grazie al doppiaggio. Sergio Leone quando entrava in sala di doppiaggio diceva: adesso cominciamo a fare il film...».

Scrive: «Non si doppia solo con la voce, ma con il cuore, con la testa e con la vita». E questo algoritmo che imita la vostra voce e doppia i film?

«Ho sentito la mia voce campionata: più o meno ci siamo. Ma una macchina, per quanto perfetta, dentro non ha niente, la vita non ce l'ha. E il cinema senza la vita è morto».

Ha incontrato Russell Crowe?

«Nel 2005. Mi disse: sono a Roma solo due giorni e voglio vederla di notte. Gli mostrai la Roma imperiale, aveva gli occhi fuori dalle orbite. Ma sapeva tutto della città, mi raccontava persino la storia di ogni colonna. A me che so' de Ostia»

Si farà il Gladiatore 2...

«Spero di no, è un cult perché è unico. Tentarono la stessa operazione con Il Corvo ma fu un disastro. E io mi rifiutai di doppiarlo».

Quando ha scatenato l'inferno?

«Quando sono andato in Brasile a prendermi mia moglie Gaia. Lasciai un lavoro a metà fingendo un casting con Anthony Hopkins. Ma tornai vincitore».

Chi è stato più Gladiatore: suo papà o sua mamma?

«Tutti e due. Mio padre ha dovuto lottare contro la famiglia di mia madre che gli ha rovinato la carriera, facendolo persino finire in galera. Mia madre ha cresciuto tre bambini dopo la morte di papà con niente, contro tutto e tutti».

Non riuscì a salutarla però, quando se ne è andata

«Recitavo a teatro e lei moriva. Arrivai tardi: è il più grande rimpianto della mia vita».

Ha fatto il camionista, il bagnino, il restauratore, il bibitaro. Ha rischiato la vita in Afghanistan. Ai ragazzi che dicono Ci hanno rubato il futuro cos'ha da dire?

«Che il futuro te lo devi andare a prendere. Il futuro la mia generazione se l'è conquistato, nessuno ci ha regalato niente. Da una generazione che ha lottato per farcela hai solo da imparare».

Non era facile la vita dell'attore ieri, non lo è oggi.

«I set hanno ripreso a lavorare ma il problema grosso è il teatro: è fermo da 13 mesi e per ripartire ha bisogno di programmazione, non di via libera a caso. Ci vogliono mesi per fare i calendari, non puoi dire li apriamo tra 20 giorni o a settembre perché così lo ammazzi. Il ministro Franceschini è un uomo intelligente, ma forse non conosce il nostro settore e bisogna che qualcuno glielo spieghi. C'è gente disperata che non merita improvvisazioni».

Avrà la sua vendetta in questa vita o nell'altra o è un uomo in pace con te stesso

«Il lavoro mi ha appagato. Mi spaventa invece il futuro dei miei figli. Non vedo orizzonti, una politica che abbia una visione, uomini capaci di guidare i cambiamenti, la tecnologia che governa le nostre vite. Sa cosa mi manca?».

Mi dica

«Da ragazzo quando uscivi di casa nessuno sapeva più niente di te. Oggi che tutti sappiano dove sei e cosa fai non le pare un inferno?».

·        Luce Caponegro: Selen.

Selen compie 55 anni: storia della pornostar che si convertì e divenne estetista. Silvia Maria Dubois su Il Corriere della Sera il 17 dicembre 2021. Luce Caponegro compie 55 anni: sex symbol del cinema a luci rosse negli anni’90, ha poi lasciato le scene dell’hard, nel segno della spiritualità e di una nuova professione.

Il compleanno

Dalla notte al giorno. Da Selen (dea della luna, ndr) a Luce. Ci sono due film nella vita di Luce Caponegro, romana, nata il 17 dicembre 1966, figlia di un industriale petrolifero, ribelle prima alle regole dei genitori, poi al contrassegno della pornostar. L’inquieta Selen inizia ad esibirsi presto in alcuni locali per adulti, che negli anni Ottanta e Novanta, fra yuppie stressati e addii al celibato, vivono il loro apice di successo ed espansione. Lì, dentro tanga e luci soffuse, scrive il prologo della sua carriera hard. Per tutti diventerà presto Selen. Un sibilo, un desiderio, che la porterà in pochi anni ad essere “la pornostar più desiderata d’Italia”

IL PRIMO FILM (E QUEL DETTAGLIO NOIR)

Selen ha circa 26 anni, gira la sua prima pellicola “spinta”, diretta da Eugenio De Lorenzi, “Orgia di compleanno”: è il 1992, il biondo dei suoi capelli è ancora fermo ad un anonimo cenere, il seno si accorda ancora con il corpo magro. Lei, però, è già lanciatissima, protagonista senza esitazioni di amplessi esperti. Ma il film non viene ricordato per le sue performance. Bensì per una curiosità macabra. La citazione di “Orgia di compleanno” verrà trascinata nei pezzi di cronaca, per anni, come souvenir noir dei retroscena di un delitto: fra gli attori porno della pellicola, infatti, figura Ferdinando Bordogna, poi noto per aver assassinato la cognata a coltellate.

ANNI 90: NASCE LA NUOVA STELLA DEL PORNO

È il 1993: Selen decide di operare il suo seno, i capelli diventano più scuri (poco dopo passerà al biondo). È il tempo di “Signore scandalose di provincia”, di Alex Perry: è il suo patentino dell’ingresso al porno, a tutti gli effetti, con tanto di “padrino” che risponde al nome di Rocco Siffredi. “Ho la passione per l’esibizionismo e il piacere di considerare il sesso come ribellione alle forme” dichiarava Selen. Fuori dal set, i genitori imbarazzati e arrabbiati, che cambiavano casa e città per sfuggire al clamore. “A quei tempi ero curiosa, ingenua e ho fatto scelte inaspettate per la mia classe sociale – dirà intervistata da Sonia Grey nel 2020 – scelte compiute anche con tanta leggerezza, che poi ho pagato”. Nel frattempo, il successo non si arresta: vince 17 premi in carriera, è super ospite fissa agli “Erotica” e passa da un Hot d’or all’altro.

1993-1999: TUTTI PAZZI PER SELEN

Eros Cristaldi, Mario Salieri, Luca Damiano, Joe D’Amato: tutti i registi “di settore” la vogliono, lei non si risparmia. Si creano film cuciti addosso al personaggio (“Selen dalla testa ai piedi”, “Selen e l’isola del tesoro”, “Desiderando Selen”) come in principio si fece con Emanuelle/Linda Gemser. Nasce il mensile “Selen, cultura erotica a fumetti” (3ntini Editore) dove l’attrice viene trasformata in sexy eroina dalla matita di Luca Tarlazzi. Fan e curiosi vogliono sapere sempre più cose su di lei: arriva il disco, le ospitate. Si fantastica e si discuterà per anni su quella clausola che avrebbe fatto inserire nei suoi contratti e che esclude alcune “categorie” nelle scene di sesso estremo.

 “MENEGHETTI, TE MI FAI IMPAZZIRE!”

Dal letto al divano (della tv). Il pubblico, già avvezzo alle passate incursioni delle pornostar sul piccolo schermo, si affeziona alla bionda Selen: ha il sorriso stampato, gli occhi buoni e sa stare al gioco. È la fine degli anni Novanta, lì c’è il primo cambio strada. Sempre meno film, sempre più telecamere. L’attrice scopre la sua verve comica, indimenticabili i suoi finti spot per il fantomatico industriale Meneghetti (interpretato da Enrico Bertolino) a “Ciro, il figlio di Target”, con appiccicati imbuti, ruote, mollette nei surreali réclame (“Compra un camion di ghiaia: la ghiaia è per sempre”). Arriva il “Maurizio Costanzo Show”, i talk e i salotti del pomeriggio.

L’ADDIO AL PORNO

Il commiato è “Millenium” di Gianfranco Romagnoli, ultimo film porno consegnato al secolo scorso. Interpellata più volte sulla sua scelta, proprio al Corriere della Sera, Luce dirà, nel 2017: “Il mondo hard era scanzonato all’inizio, tutti i giovani con gli ormoni a mille. Poi si è rivelato un mondo dark. Io? Ho fatto tutto alla luce del sole. Avevo un contratto capestro, negli ultimi anni ho dovuto fare film anche quando volevo già smettere”. Non solo: l’ormai ex Selen si lascia andare a sfoghi sullo squallore degli ultimi tempi, sui tour de force delle colleghe dell’Est, sui difetti di alcuni attori. Lì inizia il lungo lavoro di ritessitura con i genitori. Ma anche il nuovo investimento artistico: teatro, serate da deejay, film impegnati, conduzioni, reality. Selen riparte proprio da qui: fra galline e zappe, a “La Fattoria”

CONVERSIONE E SECONDO ADDIO

Mentre sul web si assiste alla “solita” moltiplicazione postuma dei suoi film vietati ai minori, nel 2006 Luce si libera di tutto: dopo il porno e il ritorno al nome d’origine, è la volta del distacco totale dalle scene. Diventa mamma per la seconda volta, si trasferisce a San Bartolo. Intraprende un cammino di conversione spirituale: già avvicinatasi da anni alla meditazione, nel 2012 riceve il sacramento della Cresima dal vescovo di Ravenna. “Sono felice come mamma e di essere me stessa”, dichiara. E poi c’è il lavoro, quel centro di bellezza a cui tiene tanto (“Estetica e benessere Luce”) e di cui è titolare ed estetista da tempo. “Ho fatto tanto felici gli uomini, ora faccio felici le donne” ama ripetere l’ex attrice, sorridendo. Anche oggi che compie 55 anni

Niccolò Zancan per “Specchio - la Stampa” l'11 aprile 2021. Si chiamava Selen, ma adesso non più. «Mi chiamo Luce, Luce Caponegro. Questo è il mio vero nome. Sono passati 23 anni dalla mia ultima esperienza nell'hard, rimango stupefatta quando ancora mi chiedono di quell'epoca». Non deve essere facile riappropriarsi della propria identità dopo aver abitato sotto mentite spoglie le fantasie di molti italiani. Il primo film di Selen si intitolava «Orgia di compleanno», il secondo «Signore scandalose di provincia».

Venti titoli a luci rosse in otto anni di carriera.

«Ne è passata di acqua sotto i ponti. Ho lavorato nel mondo dello spettacolo, ho fatto televisione e pubblicità, ho studiato, ho aperto un centro estetico. Sono cambiata come persona. E io penso che cambiare, cercare di evolvere, sia la cosa più importante nella vita di ogni essere umano. Ma voi giornalisti ancora continuate a farmi le stesse domande».

Qual è la domanda che le rivolgono più spesso?

«Se rinnego o non rinnego l'hard. No, non lo rinnego. Fa parte della storia della mia vita. Ma se tornassi a nascere, non lo rifarei più. Cambiare richiede grandi sforzi e anche una buona dose di dolore».

Perché non lo rifarebbe?

«Quando ho incominciato avevo sposato la filosofia hippy, mi interessava sperimentare. Era libertà di giocare con me stessa e di combattere certi stereotipi borghesi, volevo vedere cosa c'era oltre la famiglia, la lavastoviglie, il lavoro in banca. Quello che facevo era considerato trasgressivo, adesso lo sarebbe molto meno. Non lo rifarei perché è un mestiere che ti lascia un marchio. Non lo rifarei perché è venuto meno il senso politico e sociale di quella ricerca espressiva. Non lo rifarei perché tutta la libertà che mi sono concessa la sto ancora pagando».

Luce Caponegro risponde al telefono da una casa di Ravenna, la sua città. Ha avuto il Covid in questa terza ondata, ma ne è uscita bene grazie a cure molto tempestive. Sogna un viaggio in Oman, a vedere i delfini. Se gli domandi quale sia stato il giorno più felice della sua vita, non ha esitazioni: «Quando è nato Gabri. Per me c'è una vita prima e una vita dopo di lui, come avanti e dopo Cristo. La nascita di Gabri ha sancito definitivamente il mio modo di essere donna. Ho avuto un figlio anche a 19 anni, che amo di altrettanto amore. Ma a quell'età ero troppo giovane. Diventare ancora madre a quarant' anni è stato un dono, un'esperienza catartica e travolgente. Speravo di avere oltre a un figlio anche una famiglia, ma le cose sono andate diversamente. Sono una mamma single. Gabri me lo sto crescendo da sola».

Al tempo della nascita del secondo figlio, quattordici anni fa, Luce Caponegro si è presa un anno sabbatico per studiare. Voleva saldare un conto con se stessa.

«Quando stavo per finire il liceo, appena compiuti 18 anni, me ne ero andata di casa e avevo abbandonato la scuola. Soffrivo tantissimo per il fatto di avere soltanto la terza media. Mi sono diplomata con ottimi voti e dopo avrei voluto iscrivermi a Scienze dell'alimentazione all'Università di Urbino, ma Gabri era piccolo e non potevo permettermi quella trasferta. Così ho deciso di fare una scuola di tre anni per diventare estetista. Mi piace prendermi cura del corpo delle donne».

È la vita di adesso.

«Non ho mai smesso di studiare e di aggiornarmi. Amo questo lavoro, ma noi dei centri estetici siamo fra quelli più colpiti dalla pandemia. Ci hanno imposto protocolli rigidissimi, giusti, che noi abbiamo adottato senza reticenze. Abbiamo fatto investimenti importanti per poter lavorare in sicurezza, ma poi ci hanno chiusi lo stesso».

Qual è la morale della favola?

«I ristori sono una presa per il culo. In un anno io ho ricevuto in tutto 800 euro. Siamo di nuovo chiusi, ma il tassametro delle spese non si ferma. Conosco personalmente un imprenditore che ha perso 2 milioni di fatturato e ha ricevuto 19 mila euro di ristori. L'Italia non è la Germania. Se questo pandemia è una guerra, l'Italia è il Paese che perde. L'ultimo. Ci danno indietro le briciole».

Cosa la fa arrabbiare?

«Per esempio, l'abusivismo spericolato. Ci sono personaggi famosi che mostrano di avere parrucchiere ed estetista a casa. Eppure le regole dovrebbero valere per tutti».

Cosa le manca di più?

«Socializzare veramente, abbracciarsi, il contatto fisico. Questa estrema digitalizzazione ci sta disumanizzando».

Margherita Montanari per corriere.it il 19 giugno 2021. Cinquantacinque candeline spente, almeno tre vite vissute, forse di più, e un bilancio in cui conta «più sofferenze che gioie». «Mi sento una mamma realizzata. Come donna non ho avuto la stessa fortuna», si confida Luce Caponegro, 55 anni compiuti oggi (il 17 dicembre, ndDago). Da tempo vive a Ravenna, con il suo secondo figlio, e si dedica con passione a far crescere il centro estetico che ha aperto 8 anni fa. Ma in molti ancora la ricordano come Selen, il nome d’arte con cui è diventata una delle più amate star del cinema hard, ma anche paladina della lotta per la libertà sessuale nell’Italia degli anni ’90. 

Un capitolo chiuso con convinzione 25 anni fa, dopo il quale Luce si è dedicata per qualche anno alla tv e allo spettacolo.

Si può dire che lei abbia vissuto tante vite. Qual è il bilancio di questi 55 anni?

«Ogni tanto mi fermo e ci penso. Con il mio modo di interpretare la vita, mettendosi in gioco sempre, sono riuscita a viverne tante. Non voglio apparire pessimista, ma se devo fare un bilancio, mi sembra che siano state più le sofferenze che le gioie. Però è anche vero che attraverso la sofferenza si cambia, e probabilmente è stato il dolore a permettermi di evolvere, alla ricerca di continui cambiamenti». 

Qual è stato il cambiamento più importante della sua vita?

«Molti credono che il più clamoroso sia stato l’abbandono al cinema hard. Per me non è stato questo il più determinante. La svolta più bella è stata diventare madre a 40 anni. Dico sempre che per me esiste un prima di Gabri e dopo Gabri (il secondogenito si chiama Gabriele, ndr). Un bambino inaspettato, che mi ha regalato una seconda vita. Gli ho fatto da mamma e da papà da sola e sono orgogliosa di dire che ho cresciuto un ragazzo sereno, affettuoso e rispettoso delle donne».

Cosa significa essere madre? Com’è il rapporto coi suoi figli, che hanno uno 36 e uno 16 anni?

«Dico sempre che ho due figli unici, il primo avuto a 19 anni, l’altro a 39. È stato un modo diverso di concepire la maternità, perché ero io ad essere diversa. Ho avuto l’opportunità di vedere due esperienze di vita da due angolazioni completamente diverse. Durante la seconda maternità ho sviluppato un senso di responsabilità, di consapevolezza e un modo di amare diverso che mi ha fatto sentire una mamma realizzata. Come donna non ho avuto la stessa fortuna». 

Però oggi è imprenditrice, ha aperto il suo centro estetico a Ravenna. Non si sente fortunata?

«È un lavoro che faccio con enorme passione e la massima professionalità. Seguo costantemente corsi di aggiornamenti e sono un po’ una secchiona. Le mie collaboratrici mi chiamano “la dottoressa”, perché cerco di informarmi su ogni cosa nel dettaglio».

Come mai, dopo anni nel mondo dello spettacolo, ha scelto proprio il settore dell’estetica e del benessere?

«Aiutare le donne ad amarsi è come una missione per me. Forse anche perché io non mi sono amata così tanto, forse perché ho sbagliato a non cercare sempre la felicità, accettando passivamente quello che mi accadeva. Invece ho imparato che bisogna saper dire dei no. Come donna ho subìto violenza, e anche per questo ho iniziato a dedicarmi all’estetica: per far sentire altre donne bene con se stesse, belle, coccolate anche attraverso il corpo». 

Ha spiegato in alcune interviste che da giovane ha vissuto all’estremo una curiosità per la conoscenza della sessualità, che era anche un desiderio di ribellione culturale. Con il senno di poi rifarebbe la carriera nel mondo del cinema porno?

«Non rinnego nulla, quella situazione era giusta per una ragazza di allora. Ma se potessi non lo rifarei. Non vorrei più portare il peso che una scelta così estrema e fuori dai canoni ti lascia addosso, impedendoti di essere riconosciuta per ciò che diventi dopo».

Negli anni ’80 e ‘90 le icone della sessualità come lei avevano anche una funzione politica: sdoganare una cultura e un diritto alla libertà sessuale. Oggi questi ideali non sono più incarnati forse da chi anima il mondo dell’eros, ma vengono divulgati dagli influencer, a volte senza filtri, attraverso i social network. Come valuta questa trasformazione, se è d’accordo?

«Ai nostri tempi la nostra sessualità era oppressa, attorniata di concetti assurdi. L’immagine del sesso come una cosa volgare, che non andava nemmeno menzionato. La mia generazione ha portato avanti una giusta lotta per la libertà sessuale, che io stessa sento di aver combattuto. Mi viene riconosciuto ancora oggi di aver segnato un’epoca, in termini di rivendicazioni sociali, libertà e cambiamenti culturali. Oggi la sessualità fronte è libero, non servono più battaglie, e sono contenta che i ragazzi dell’età di mio figlio abbiano un rapporto aperto e sano con questo tema. Parlano di sesso liberamente, ci giocano e vivono l’eros serenamente».

Rimpiange qualcosa nella sua vita?

«Di non essermi separata prima durante il primo matrimonio. Avevo l’idea dell’amore per sempre, e, anche se mi son trovata a vivere un rapporto tossico, l’ho portato avanti per anni. Poi avrei dovuto dire basta a certe scelte lavorative».

Perché a un certo punto ha abbandonato il mondo dello spettacolo? Le piacerebbe replicare l’esperienza in televisione?

«Avevo voglia di vedere com’è la vita vera, lasciando tutta la superficialità del mondo dello spettacolo. Ritornare in tv? Perché no. Chi è nato artista rimane sempre artista. Mi piacerebbe fare un reality, magari “Ballando con le stelle”, un modo di mettersi in gioco che trovo artistico ed elegante».

Su Patreon parla e chatta con i suoi fan. In tanti la cercano, nonostante siano passati molti anni da quando lei si è allontanata dai riflettori. Che cosa le dicono?

«È un modo per parlare e stare in contatto con chi mi ha seguita per tanti anni. Con loro parlo del più e del meno. C’è chi mi chiede che cosa ho fatto durante la mia giornata, chi mi racconta la sua vita o fa riflessioni profonde. Non parliamo di erotismo. Può succedere che si affronti il tema del rapporto uomo donna o che qualcuno mi parli delle sue problematiche sessuali, ma sempre con molto rispetto».

Come vive oggi l’amore?

«Vengo da delusioni molto forti. In passato sono stata ferita e così ho deciso di rinunciare all’amore per molti anni. Adesso sono in fase di osservazione. Con grande difficoltà ho riaperto questo capitolo. È merito di mio figlio, che mi ha spronata a trovarmi qualcuno. Voglio una persona gentile e rispettosa. Passare l’esame con me non è facile». 

Mattia Pagliarulo per Dagospia il 7 gennaio 2021. Una giovane ragazza anticonformista di nome Luce Caponegro scelse di percorrere i sentieri dell’erotismo con tale forza e passione da diventare Selen, una delle più note pornostar degli anni 90’ ed un’icona di bellezza e seduzione intramontabile e senza tempo. Oggi dopo più di vent’anni in cui ha deciso di ritirarsi dal mondo dell’hard la splendida Luce (di nome e di fatto) è una donna saggia e consapevole: una madre affettuosa, autorevole ma non autoritaria ed un’imprenditrice del settore beauty innamorata del suo lavoro. In quest’intervista in esclusiva per Dagospia ci racconta la sua nuova vita: una vita normale tanto desiderata, cercata e voluta.

D. Da svariati anni ha deciso di uscire dal mondo dello spettacolo e dedicarsi ad una nuova carriera, quella imprenditoriale, aprendo un centro estetico nella sua città natale, ce ne parli.

R. Da 14 anni ho intrapreso questa nuova strada, aprendo un centro estetico a Ravenna chiamato “Estetica e Benessere Luce” che tra l’altro è il mio nome di battesimo, in cui sono sia titolare sia estetista. Questo nuovo lavoro l’ho preso come una missione: volevo occuparmi delle donne, della loro bellezza, femminilità, del loro sapersi amare di più e prendersi del tempo per curare il loro aspetto nel migliore dei modi; così ho fatto la scuola, mi sono diplomata ed ho aperto questo mio centro.  “Luce” è un centro molto bello, accogliente, luminoso, che ho voluto curare in ogni dettaglio e renderlo confortevole al massimo.

D. Imprenditrice ed estetista ma soprattutto madre di due figli: il più piccolo è adolescente, che mamma è? 

R. Sono una mamma coccolona, affettuosa, molto presente che fa sentire i propri figli protetti. Con mio figlio che oggi ha 14 anni ho un rapporto da mamma ma anche di amicizia e rispetto. Sono fortunata perchè ho un figlio maturo e con la testa sulle spalle. Viviamo insieme io e lui, non essendoci mai stata la figura paterna, ho dovuto fare sia da madre sia da padre e questo ci ha unito molto.

D. Le manca il mondo dello spettacolo?

R. Premetto che l’allontanamento dal mondo dello spettacolo è avvenuto volutamente perché sentivo la necessità di disintossicarmi da quell’ambiente che non è per niente facile ed estremamente competitivo. Avevo voglia di vivere una vita normale; ogni tanto il mondo dello spettacolo mi manca, ma sono sicura che in futuro qualcosa tornerò a fare.

D. A parte delle ospitate televisive sporadiche il suo ultimo impegno nella tv nazionale è stato nel 2004 con la prima edizione del reality show La Fattoria condotto da Daria Bignardi. Che ricordo ha?

R. Il ricordo che ho è ambivalente. Bello perché capita poche volte di vivere un’esperienza così forte e totalizzante tutti insieme in più persone, inevitabilmente nascono delle dinamiche che difficilmente si innescano nella vita di tutti i giorni. Brutto perché non c’è stato un grande legame tra le persone, c’era un clima molto litigioso e si creavano fazioni e gruppetti, e di questo sono stata vittima anch’io. Proprio per questi motivi durante il reality come segno di protesta e ribellione mi sono tagliata a zero i capelli. Dopo 16 anni, rifarei un altro reality, magari il Grande Fratello Vip.

D. Cambierebbe qualcosa del suo passato o rifarebbe tutto quanto?

R. Se tornassi a vivere con l’esperienza di adesso non rifarei tutto. Invece farei delle cose che non ho fatto. Oggi faccio scelte molto diverse rispetto a quando ero giovane, direi quasi in modo opposto.

D. È felice oggi?

R. Non credo di essere felice, sono sempre alla ricerca di qualcosa per  migliorare la mia vita. L’unico aspetto in cui mi sento totalmente realizzata è il mio essere madre.

D. Il suo cuore è impegnato?

R. No, sono single da circa 5 anni. Di ammiratori ne ho, ma nessuno di loro corrisponde a ciò che vorrei io. Trovare un uomo che mi completi non è così facile, o forse è destino...

D. Come si vede tra venti anni?

R. Mi vedo come un’imprenditrice di successo, perché ora come ora tutti i miei sforzi sono proiettati lì. Mi piacerebbe che un giorno si potesse ricordare il mio nome anche al di fuori del mondo dello spettacolo. Spero di essere una madre realizzata e di vedere il mio secondo figlio con una sua vita serena.

D. Prova fastidio o imbarazzo quando la fermano per strada chiedendole un selfie e magari dicendole la tipica frase “ho visto tutti i tuoi film”?

R. Dipende sempre com’è l’approccio! Se una persona si avvicina a me in maniera gentile e carina, e non ha il rigolino di bava che gli cola giù dalla bocca, mi fa piacere anche fare una foto. A seconda delle persone che mi trovo di fronte posso provare imbarazzo per un passato particolare, non consueto, trasgressivo. Con le mie amiche parlo del passato senza alcun problema e ci scherzo anche sopra. Non ho un problema con il mio passato come molti credono, diciamo che mi dà fastidio quando mi fanno un intervista e la prima cosa che mi chiedono è del mio passato come se esistesse solo quello nella mia vita.

D. Ho notato che anche lei è presente sulla piattaforma Patreon: è possibile uscire a cena con lei per 500€ o fare una videochat di un’ora a 300€, di cosa si tratta di preciso?

R. È nato tutto un po’ per gioco da un mio amico ingegnere informatico che mi ha convinta ad iscrivermi dicendo che alcune sue amiche lo fanno. Così ho pensato che potesse essere un bel punto di incontro con i miei fans. Avevo deciso di istituire questa possibilità perché molti fans mi chiedevano di uscire e avevo deciso di tenere un prezzo alto appunto per renderla una cosa speciale. Poi però c’è stato un giornalista che ha scritto un articolo su questa cosa equivocando tutto; le mie intenzioni erano cristalline e senza alcuna possibilità di proseguire con un dopo cena, quindi visto questo fraintendimento ho deciso di togliere l’opzione cena. È rimasta attiva invece la possibilità di chattare con me, non sono assolutamente chat erotiche ma si parla del più e del meno.

D. Cosa le piacerebbe fare che ancora non ha fatto?

R. Il mio libro, che faccio fatica ad ultimare perché non ho mai tempo per scrivere gli ultimi capitoli, si intitolerà “Da bambina sognavo di volare” e sarà pubblicato e distribuito da Cairo Editore prossimamente, appena lo termino!

·        Luciana Littizzetto.

Daniela Seclì per fanpage.it il 3 dicembre 2021. Luciana Littizzetto è stata ospite della puntata di Domenica In del 7 novembre, dove ha presentato il suo libro "Io mi fido di te", in cui parla dei figli Jordan e Vanessa presi in affido insieme al compagno Davide Graziano. L'intervista rilasciata a Mara Venier ha avuto inizio con la consueta dose di ironia. In collegamento, ha spiegato: "Sono bella? Ho messo le luci della D'Urso, me le sono fatte sparare in faccia. Salutiamo Barbarona".

Luciana Littizzetto e l'affido dei figli su consiglio di Maria De Filippi

Fino ai 40 anni, la comica non sentiva l'impellenza di diventare madre. Poi, un giorno Maria De Filippi le ha parlato della possibilità dell'affido, che permette a bambini che hanno un contesto difficile alle spalle, di vivere nel calore di una famiglia e ottenere la giusta serenità. Ne ha parlato con il suo compagno, il batterista Davide Graziano e hanno deciso di fare questa esperienza: "Io ero preoccupata. Mi chiedevo come noi che siamo persone note, saremmo riusciti a mantenere la privacy e a proteggere questa esperienza. Maria, che è fantastica, mi ha detto: "Ma che te ne frega? Tu fai come sei capace. Certo che lo proteggi, figurati se non lo proteggi". Sono stata un po' consolata. Avevo già avuto dei contatti, perché ogni tanto mi chiamavano in alcune comunità di minori. C'erano tanti bambini già grandi d'età, che stavano in queste comunità da tanto tempo. Questo avvicinamento è arrivato pian piano alla scelta definitiva. Volevamo un bambino e ne sono arrivati due". L'arrivo dei due fratelli Jordan e Vanessa, non ha spaventato Luciana Littizzetto perché è "fatalista" e ha creduto che il destino volesse quello per lei: "Davide era un po' più spaventato. Due, in effetti, erano tanta roba insieme. Io ero una splendida 40enne, ingenua, non sapevo come fare. Loro sono arrivati che era il primo giorno di scuola. Ho dovuto pensare a tutto, ma alla fine ce l'ho fatta".  

Il rapporto di Jordan e Vanessa con la madre biologica

Quando Vanessa e Jordan sono arrivati nella vita di Luciana Littizzetto e di Davide Graziano avevano rispettivamente 11 e 9 anni. Jordan era molto incuriosito da Davide e dai suoi tatuaggi. Quando ha saputo che fa il batterista, gli ha chiesto speranzoso: "Di chi? Di Max Pezzali?" e lui: "No di Vinicio Capossela" e Jordan ha commentato deluso: "Ah, non di uno famoso". Vanessa, invece, ha associato subito Luciana Littizzetto a "quella della pubblicità del detersivo" e le ha chiesto se sarebbe stata la sua nuova mamma: "Come fanno spesso le mamme, ho procrastinato: "Vediamo". Da quel giorno sono passati 15 anni, tantissimi. Al momento, per una questione legale, non hanno più contatti con la madre biologica se non qualche messaggio. Ma io sono grata a lei perché li ha messi al mondo e poi perché credo che la vita possa dare delle bastonate fortissime e non mi sento di giudicare. Penso che abbia fatto quello che ha potuto. Non ho alcun tipo di condanna nei suoi confronti". 

Quando Jordan scomparve per giorni

Infine, Mara Venier ha raccontato che in un'occasione, Jordan è scomparso per cinque giorni causando grande preoccupazione in Luciana Littizzetto. La comica ha ricordato: "Cosa ho fatto quando è tornato? Ho ucciso il vitello grasso. Cosa dovevo fare? A te non è successo mai che ti facessero girare tantissimo le balle. E poi cosa hai fatto? Hai ucciso anche tu il vitello grasso, cosa dovevi fare. Se n'era andato perché sono una rompiscatole, sono un po' una rompipalle. Lui è uno spirito libero, ha sempre voglia di andare in giro, farsi i fatti suoi, non rendere conto. Solo che era relativamente piccolo, aveva 18 anni". 

Da liberoquotidiano.it l'11 ottobre 2021. "Io mi fido di te". È questo il titolo del nuovo libro di Luciana Littizzetto, che per l'occasione l'ha presentato a Che Tempo Che Fa. Durante la puntata del 10 ottobre del programma di Rai 3 la comica ha raccontato qualche aneddoto a Fabio Fazio sui figli, tema dello stesso libro. "Penso di essere stata la mamma che ha più ricevuto chiamate dalla scuola al mondo". Inizia così la descrizione delle marachelle del figlio della Littizzetto: "Una volta mi hanno chiamata perché faceva delle palle di carta e intasava i bagni, oppure una volta ha venduto i miei autografi". Il figlio, ha ricordato lo stesso conduttore, ha venduto a 1 euro l'uno gli autografi della madre. "Una volta mi chiama l'insegnante - ha spiegato la Littizzetto - e mi dice 'tuo figlio vende i tuoi autografi', era passata una settimana. Io mi ero accorta perché ritagliava le mie firme sul diario e io gli avevo detto: 'perché lei hai ritagliate? C'erano i gattini?' e lui: 'Sì, sì' e invece lui lo faceva per scambiare le figurine". La Littizzetto definisce il suo ultimo libro un atto d'amore, "questo è Luciana". Al centro Jordan e Vanessa, i figli in affido: "Ci sarebbero tante persone disposte a intraprendere questa esperienza. è diverso dall'adozione perché è come dire 'faccio un pezzo di strada con te, non so cosa succederà, però intanto io ci sono, questa porta è aperta'".

Gianluca Veneziani per "Libero Quotidiano" il 9 marzo 2021. «Finalmente uno studio defazizzato dopo tanti anni. Mi sento come la Gregoraci senza Briatore. Quando Fazio non c'è, le tope ballano». Con questo esordio folgorante Luciana Littizzetto ha battezzato la sua prima volta da conduttrice di Che tempo che fa su RaiTre, vista la momentanea assenza del titolare, Fabio Fazio, costretto a casa a seguito di un'operazione chirurgica (a proposito, buona guarigione). I risultati della sostituzione al comando del programma sono stati eccellenti in termini di efficacia della conduzione e di ascolti: due giorni fa il Che tempo che fa "littizzettato" ha ottenuto il 10,3% di share e ben 2 milioni e 814mila spettatori. Una performance nettamente migliore di quella dell'ultima puntata condotta da Fazio: il 21 febbraio il format domenicale di RaiTre era rimasto inchiodato al 9,1% con 2 milioni e 414mila spettatori. Anche rapportando la puntata dell'altro ieri rispetto a tutte le altre del 2021, è netto il balzo in avanti: se si esclude la serata evento con l'intervista a Obama, il programma in versione faziesca viaggia su medie vicine al 9% e 2 milioni e mezzo di telespettatori. Con la Littizzetto, insomma, Che tempo che fa guadagna oltre un punto di share e 300-400mila spettatori. Ma qual è la ragione di questo scarto e il valore aggiunto portato da Lucianina? Innanzitutto il piglio e il brio: con la sua guida Che tempo che fa perde i toni compassati e acquista ritmo, a tratti assume le sfumature del varietà e non solo quelle del programma di infontainment. In secondo luogo, aumenta la dose di ironia e autoironia. La Littizzetto non si prende mai sul serio e prende sul serio solo in parte gli ospiti. Quando la scrittrice femminista Michela Murgia pontifica sulle donne risolute che spaventerebbero gli uomini, Lucianina ci scherza su con un «Appena sveglia, anche io li spavento gli uomini». Il woman power passa anche da una risata. Piace molto anche il suo essere o fingersi impacciata, una dilettante che si improvvisa in un ruolo non suo: le gaffe o i passaggi della scaletta non seguiti alla perfezione le guadagnano simpatia, rendono sia lei che il programma più veri e genuini. E da ultimo piace, ma questo è un suo aspetto tipico, la sua irriverenza che a momenti, udite udite, riesce a essere anche un filino politicamente scorretta, come quando presenta in studio le due badanti rumene di Fazio, sottolineando che «sono a posto coi contributi», senza porsi troppi problemi perbenisti sul fatto di aver reiterato il cliché rumena=badante. Brava Luciana, dunque, se non imbrigliata nei venti minuti in cui, distesa sul tavolo del conduttore, deve arrabattarsi per far ridere spettatori che nel frattempo si sono annoiati. Così invece si prende tutta la scena, fuori dagli schemi che le impongono il ruolo di comica e i tempi ristretti del suo intervento. A maggior ragione però non si capisce perché non sia stata lasciata del tutto libera e abbia invece avuto, quasi a teleguidarla, un Fazio che da remoto faceva da co-conduttore, si prendeva le parti più impegnate (come le interviste ai giornalisti Massimo Giannini e Concita De Gregorio e al dottor Franco Locatelli) e la bacchettava a distanza. «Hai dato le spalle alla telecamera, hai impallato l'inquadratura. Un disastro!», la rimproverava lui, «Devi prima far uscire la Murgia», «Devi prima far entrare l'ospite», «Luciana, tocca a te, devi dare la pubblicità», la ammoniva. Per carità, è il gioco delle parti, però non è bellissimo, dopo il predicozzo della Murgia sulla parità uomo-donna, ritrovarsi una Littizzetto sorvegliata a vista dal capo maschio che si vede sottrarre lo scranno. «Guarda che roba, ha preso il potere», commentava lui. Ma sarebbe bello che la Littizzetto se lo prenda davvero il potere e inizi lei a condurre Che tempo che fa: sarebbe una bella ventata di novità in un programma eternamente uguale a se stesso, e forse la dimostrazione che i tempi (che fanno) sono davvero cambiati.

·        Luciana Savignano.

Luca Pallanch per "la Verità" il 26 giugno 2021. Luciana Savignano, una delle ballerine più famose al mondo. Una stella assoluta e senza tempo, la cui luminosità illumina la scena ancora oggi, con l'entusiasmo e la passione che l'ha sempre contraddistinta e un talento naturale, forgiato ogni giorno grazie a una dedizione assoluta. Restia a parlare di sé stessa e della sua arte, Luciana accetta di svelare la sua filosofia di vita in occasione del festival internazionale Novara Dance Experience, in programma dal 23 al 27 giugno, dove le verrà conferito un premio alla carriera, che lei preferisce definire un riconoscimento all' artista «per quello che ha fatto e per quello che farà». Quindi con lo sguardo, e il corpo, sempre rivolto verso il futuro.

Come si è avvicinata al ballo? È stata una decisione sua o della sua famiglia?

«Io ho avuto due genitori meravigliosi: sono figlia unica e mi tenevano come in una bomboniera, quindi sono io che facevo le scelte e che ho voluto ballare perché ero abbastanza idonea per farlo. Mio padre era un grande amante del teatro e dell'opera, per lui quindi è stata una cosa bellissima che la figlia amasse entrare in questa scatola magica: la Scala di Milano». 

Quanti aspettative aveva?

«Ho cominciato senza l'intenzione di dire: "Da grande farò la ballerina". Io ballavo perché mi piaceva ballare, mi piaceva quel mondo, senza la smania di voler arrivare. Ho seguito tutti i miei corsi da brava allieva e poi, pian piano, ha preso corpo questa cosa e mi sono resa conto che sarebbe diventata la mia vita». 

Ricorda la prima volta che è entrata alla Scala?

«L' impatto è stato tale che mi ha dato la spinta per continuare. È stato un momento magico». 

Quanti anni aveva?

«Non è importante l'età. Ero piccola!».

Aveva una fisicità diversa dagli standard dell'epoca, per la sua altezza.

«Ho avuto un fisico sempre molto proiettato verso il futuro. Non mi ha creato difficoltà, anzi per certi versi mi ha agevolato poi». 

Qual è stato il momento in cui ha capito che questa grande passione poteva diventare la sua vita?

«Non c' è stato un momento preciso, è stato tutto un divenire. Non c' è stato un clic. Ho continuato sempre fiduciosa perché facevo quello che mi piaceva e mi dicevo: "Da qualche parte arriverò". Dove non lo sapevo nemmeno io». 

Era la passione a spingerla.

«Non era il punto d' arrivo che mi interessava. Per me era importante ballare. È la mia filosofia di oggi. Non ho punti precisi di arrivo: mi proietto in avanti e vado, vado, fino a quando non si sa, non lo so ancora».

È un confronto continuo con dei limiti, reali o immaginari. «Ma certo, bisogna sempre mettersi alla prova». 

Quali sono stati i momenti più importanti all'inizio della sua attività?

«Non ce n' è stato uno in particolare forse quando ho fatto Il lago dei cigni perché mio padre era un grande amante del balletto classico, quindi per lui è stato un momento magico». 

Anche sua madre la seguiva?

«Meno. Mia mamma era più preoccupata per l'impegno richiesto e per la mia salute fisica, vedendomi sempre così magrolina. Però era orgogliosa di me e, quando è mancato mio padre, mi ha seguito dappertutto». 

Era un impegno gravoso

«Il tempo che dedicavo alla danza era tanto e non avevo energie per occuparmi di altro, a parte lo studio. Non avevo tempo per fare sport. Io non capisco oggi le ragazzine che seguono danza, pattinaggio, scherma, nuoto: fanno un po' di tutto, ma non al top. Meglio una cosa fatta bene che cento fatte male». 

Diventare prima ballerina della Scala non è stato quindi un punto d' arrivo?

«Ero molto orgogliosa di raggiungere dei risultati ed è stata una gratificazione che mi ha fatto molto piacere. Non è stato un punto d' arrivo, perché poi ho continuato, sono diventata étoile, ho fatto altre cose. La mia è tutta un'evoluzione in divenire».

Un incontro fondamentale nella sua vita è stato quello con Maurice Bejart, il grande coreografo francese.

«È stato un incontro assolutamente importante. Mi ha scelto per la Nona sinfonia che abbiamo fatto a Bruxelles. È stato subito attratto da questo mio modo di essere, da questa mia fisicità un po' anomala: era come lui intendeva la ballerina. È stato un artista meraviglioso, con una cultura immensa, e lavorare con lui è stata un'esperienza che mi ha fatto crescere in modo esponenziale: mi ha forgiato e mi ha proiettato verso mondi che magari non avrei neanche immaginato. Con lui sono cresciuta, questa è stata la cosa più importante. Ogni giorno era un'esperienza». 

Ha incontrato altre figure di questo livello?

«Ne ho incontrate altre: Mario Pistoni, Micha van Hoecke e poi ballerini meravigliosi che hanno accompagnato il mio percorso artistico. Tante persone sono state importanti nella mia vita». 

Si è esibita con un talento come Rudolf Nureyev

«Nureyev, più che talento, aveva un carisma che gli apparteneva, e basta: quando entrava in scena, era lui».

L' aveva solo Nureyev questo carisma?

«L' ho riscontrato anche in altri, uno su tutti Jorge Donn». 

In colleghe?

«Ballerine brave ce ne sono tantissime. Io avevo un'ammirazione incondizionata verso Majja Pliseckaja, Margot Fonteyn, la stessa Carla Fracci, personaggi da conoscere e che ho avuto la fortuna di veder ballare». 

Che ricordo ha di Carla Fracci, recentemente scomparsa?

«È stata una collega verso la quale ho avuto molto stima. Soprattutto c' era sempre da imparare guardando i grandi e lei era un'altra di quelle ballerine che, quando entravano in scena, c' erano, come Nureyev».

Ricorda la prima volta che l'ha vista all' opera?

«Ero più piccola di lei: io facevo il cavallino e lei Cenerentola, quindi già la guardavo con ammirazione, con stupore. L'ho seguita sempre perché magari partecipavamo a serate, dove lei faceva delle cose, io ne facevo delle altre, perché avevamo due repertori diversi. È un po' come se fosse venuta meno una parte della mia famiglia: non vederla mi mancherà tantissimo». 

Non ci sono grandi rivalità nell' ambiente del ballo?

«Ci saranno anche, ma non fanno parte del mio mondo».

È soprattutto un viaggio dentro sé stessi, per superare i propri limiti.

«Io trovo che ognuno è un caso a sé: ogni artista è diverso dall' altro, per il repertorio, la sensibilità, la personalità. È questa la bellezza dell'arte». 

A 20 anni ha fatto un corso di perfezionamento al Teatro Bolshoi di Mosca.

«Sono andata per imparare. Anche lì c'era da guardare e apprendere, vedere i ballerini, gli spettacoli. Mi rendevo conto che eravamo delle privilegiate perché avevamo una maestra russa tutta per noi che ci curava e ci accompagnava nel nostro studio quotidiano». 

C' erano differenze nel metodo di insegnamento rispetto alla Scala?

«La danza, quando è con la D maiuscola, non è che presenti grandi differenze. È stata un'esperienza che mi ha aiutato a far sì che controllassi di più il mio corpo perché, essendo molto duttile, in alcuni momenti dovevo capire cosa usare con il mio fisico». 

Qual è il rapporto con il suo corpo, che è la forma e lo strumento della sua arte?

«Io ho sempre ascoltato molto il mio corpo e questo è il mio segreto. Per far sì che ti risponda con l'andare del tempo bisogna ascoltarlo perché ti lancia dei messaggi e se li senti, hai dei vantaggi. Io, avendolo sempre fatto, mi posso permettere di ballare tutt' oggi. Faccio ancora degli spettacoli. Se le regalano una pianta di fiori e lei la innaffia tutti i giorni e la cura, la pianta dura nel tempo, se la trascura invece».

I messaggi del corpo sono ovviamente diversi nelle varie fasi della vita.

«Bisogna intelligentemente capire di cosa il corpo ha bisogno in quel momento». 

E questo consente di ballare in ogni età?

«Sì, se si tratta bene il materiale a disposizione. Ci siamo detti tutto?». 

Tutto no, molto! Un' ultima domanda: lei vive a Torino?

«No, io vivo a Milano, mio marito vive a Torino. Mi destreggio tra queste due città.

Mio marito fa il medico a Torino ed è un modo di vita che io consiglio a chi si sposa».

Vivere tra due città?

«È un modo per far sì che tutto continui nella maniera più idilliaca. Il fatto di vivere un po' qui e un po' là permette, ogni volta che ci si incontra, che il rapporto si rinnovi e non cada nella routine del quotidiano». 

Rinnovarsi è il verbo che la contraddistingue!

«Il segreto è che bisogna sempre rinnovarsi, nell' arte come nella vita».

·        Luciano Ligabue.

Luciano Ligabue: «Ho ancora il senso di colpa nei confronti di mio figlio per quel matrimonio fallito». Pasquale Elia su Il Corriere della Sera il 18 Dicembre 2021. Il rocker: «Non sono più cattolico, ma ho bisogno di credere. Non abbattete San Siro, se non servirà più al calcio che venga destinato ai concerti».

E un altro mito è sfatato. Perché, diciamo la verità, la proverbiale riservatezza di Luciano Ligabue è poco più di una leggenda che si è alimentata negli anni. All’inizio della carriera probabilmente gli veniva più facile nascondersi per via di quella timidezza congenita che ha faticato a scrollarsi di dosso. Ma adesso di quel ragazzo che malvolentieri si lasciava andare a confessioni private è rimasto ben poco. «Anzi, a volte racconto pure troppo», suggerisce il Liga, che proprio di recente ha messo in piazza i fatti suoi nella docu-serie È andata così disponibile su RaiPlay. Un biopic in cui il rocker di Correggio, dialogando con Stefano Accorsi, ricorda piccoli e grandi aneddoti che lo hanno visto protagonista in oltre 30 anni di carriera consumati su e giù da un palco. A conti fatti, in quelle puntate Ligabue mette in fila le tappe fondamentali della sua vita: la pubblicazione del primo disco, il dialogo con il pubblico, la consacrazione, i film da regista, i successi. Ma con onestà parla anche di cadute e di crisi, personali e artistiche.

Ma allora, dov’è tutta questa riservatezza?

«Proprio non lo so. Mi fa perfino sorridere che la gente mi veda così, forse c’è qualcosa in me che porta le persone a percepirmi in questo modo. Sicuramente sono cambiato nel tempo, soprattutto perché si è instaurato un rapporto di fiducia tra me e i fan: loro hanno incominciato a credere in me ed io in loro. Probabilmente l’equivoco sorge perché tutto sommato, ne sono convinto, bastano quattro o cinque aggettivi per essere definiti dagli altri».

A proposito di definizioni, nella serie ce n’è una che la riguarda riferita da Pierfrancesco Favino, tra i protagonisti di Da zero a dieci, il suo secondo film da regista. Ricordando l’atmosfera di quel set del 2002, l’attore ad un certo punto esclama: «Luciano è un grandissimo cazzaro».

«Mi sono sempre reso conto che stare dietro una macchina da presa non è esattamente il mio posto “naturale”, di mestiere faccio il cantante. E allora quando tra un ciak e un altro mi accorgevo che si stava scherzando un po’ troppo, per dimostrare di essere un regista autorevole, facevo scendere davanti a me una tenda di serietà per apparire più credibile. Detto questo, io sono un cazzaro, solo che questo lato del mio carattere non arriva così bene all’esterno».

In È andata così c’è un’altra confessione a sorpresa, questa volta di Francesco De Gregori. Che spiazzando un po’ la platea tira fuori una lista di sensazioni provate nei suoi confronti: «All’inizio mi stava antipatico, per invidia e per gelosia. Aveva molto successo, era giovanissimo, un bellissimo ragazzo, cantava bene ed era pieno di capelli».

«Affermazioni così non me le aspettavo, diciamo che ha un po’ esagerato. Francesco ed io siamo diventati amici e mi ha fatto piacere che abbia accettato di partecipare al biopic».

Riprendiamo la questione capelli: nella serie ci sono continui salti temporali, dai tempi della gavetta di un esordiente dalla folta chioma castana, ai concerti più recenti di una star dalla capigliatura sale e pepe. Nel riguardare quelle sequenze, il suo sguardo si riempie di tenera nostalgia per quel giovane musicista o di angoscia per il tempo che passa?

«Più che angosciato, direi che sono turbato per lo scorrere degli anni. Fortunatamente non mi guardo quasi mai allo specchio, e comunque sono contento che la mia faccia sia la mia faccia. Certo, nonostante possa contare su una buona forma fisica, ho la consapevolezza che ormai la “direzione” è unica. E quello che posso fare è mettere a frutto quella saggezza che spero di aver acquisito nel tempo».

Facciamo un salto indietro e andiamo al 1993, l’anno di pubblicazione di Sopravvissuti e sopravviventi che stava per far vacillare la sua carriera. Un album cupo e infarcito di dubbi che poco o nulla aveva a che vedere con l’euforia assaporata per il successo dei due dischi precedenti. Una svolta che non fu accolta bene e che si stava per trasformare in un «suicidio» artistico: si è mai chiesto perché fece quella scelta?

«Da cosa sia dipeso non lo so, dovrei farmi vedere da uno bravo che me lo sappia spiegare… Tuttavia, ho fatto delle ipotesi. La prima: tendo a voler accogliere tutte le parti di me e quindi a volte capita che ho delle urgenze espressive che finiscono per andare contro il mio stesso interesse. La seconda: siccome questa faccenda si verifica sempre dopo momenti di grandissima felicità personale, o è una forma di espiazione o è il classico senso di colpa cattocomunista accumulato in abbondanza da ragazzo».

Un sentimento che non sembra incontrare troppo le sue simpatie…

«Quando ti viene “instillato” nella fase di formazione, e che poi va avanti fino all’adolescenza, è impossibile liberarsene. So di averlo e me lo tengo. Anche se mi sarei volentieri portato dietro cose migliori».

È ancora cattolico?

«Ero un praticante convinto, non lo sono più da tempo. Però ho bisogno di credere, anche se non sento il bisogno di avere una figura a cui rivolgermi. Ma continuo a pensare che non sia tutto qui».

Della sua fede comunista cosa è rimasto?

«Innanzitutto va ricordata una cosa importante: essere comunista negli anni 60-70 a Reggio Emilia voleva dire credere nella possibilità che ci fosse una chance per chiunque; e inoltre significava avere un’attenzione speciale per gli ultimi. Ma se i miei genitori avessero mai pensato che quella condizione corrispondesse al vivere un tipo di esistenza come in Unione Sovietica, non avrebbero mai votato per quel partito. Ecco, di tutto questo mi sono rimasti i valori di base, perché ancora adesso continuo a idealizzare una possibilità di mondo in cui condividere le esistenze ad un livello che non sia solo quello dettato dall’ipercapitalismo».

Ha fatto un accenno ai suoi genitori e allora viene da chiederle: suo padre era un tipo estroverso, innamorato della vita, lei invece un ragazzo introverso, poco chiacchierone. Com’è andato il viaggio insieme?

«Lui faticava a capire che esistessero persone timide e il dialogo tra noi era difficile. Però mi spiazzò quando mi regalò la mia prima chitarra, nonostante dicesse che i musicisti erano tutti morti di fame».

E lei gli ha reso omaggio quando ha inciso Bambolina e barracuda perché in qualche modo lo ha citato.

«Ma l’ho scoperto solo dopo aver pubblicato quel brano che, se paragonato a tutti gli altri del mio repertorio, risulta abbastanza anomalo con quel refrain che fa: “Ba-ba-ba, bambolina / Ba-ba, fammi giocare”. Praticamente è identico al ritornello di un pezzo che canticchiava spesso mio padre: “Ba, ba, baciami piccina / Con la bo, bo, bocca piccolina”. Eh sì, il mio babbo e la mia mamma insieme rappresentavano la gioia di vivere. E quando il papà tornava a casa lo si sentiva arrivare perché quasi sempre fischiettava lungo le scale».

Lei ha due figli, Linda (avuta dalla sua attuale moglie Barbara), e Lenny (nato quando era sposato con Donatella): le è mai capitato di pensare «mannaggia, questa volta non mi sono piaciuto tanto come padre»?

«Beh, Lenny ha dovuto assistere alla separazione dei suoi genitori ed è quindi figlio di una coppia divorziata. Perciò è fuori di dubbio che rispetto a lui ho avuto un senso di colpa enorme che per diversi aspetti rimane ancora piantato dentro di me. Ed essendo io cresciuto in una famiglia in cui la gente stava bene insieme fin che morte non li separava, mio figlio è anche la testimonianza di un fallimento personale. Da lì in poi quello che faccio, anche con lui, è frutto alle volte di un recupero che tento di fare. E non so mai quando ci prendo e quando sbaglio. Recentemente però parliamo molto di più perché abbiamo diverse cose in comune: anche lui lavora nel campo della musica e di recente ha prodotto un album dei ClanDestino, la mia band degli esordi».

Le va di riavvolgere il nastro?

«Lui era di Correggio e quando andai sotto le armi, a salvarmi da una sorta di depressione che mi aveva assalito fu il suo Altri libertini. A parte il racconto iniziale, gli altri episodi del romanzo parlavano di qualcosa che io riconoscevo, che avevo sotto gli occhi tutti i giorni. Essendo entrambi del borgo, vedevo gli angoli che raccontava, le persone che descriveva, che per me non erano per nulla interessanti, mentre nel suo libro assumevano un aspetto intrigante. Quindi la lezione enorme che mi veniva recapitata era: anch’io posso posare lo sguardo su ciò che mi sta attorno senza il bisogno di andare a vivere in una grande metropoli per cercare storie particolari. Tutto questo avrei dovuto raccontarglielo, avrei dovuto fermarlo e dirgli: “Poterti leggere per me è stato molto importante”. E invece non l’ho mai fatto, malgrado abitassi nello stesso palazzo in cui vivevano i suoi genitori e dove lui tornava quando rientrava a Correggio. Non so quante volte l’ho incrociato per le scale, ma tra noi c’è sempre stato solo un “ciao-ciao” di due timidi. Il mio rammarico più grande resta quello di non averlo ringraziato come meritava».

San Siro, che rappresenta il suo esordio negli stadi, rischia di essere abbattuto: lei che dice?

«Non tiratelo giù, permetteteci di usarlo ancora. Anche se non verrà più sfruttato per il calcio, che venga destinato ai concerti: sarebbe un modo per iniziare a risolvere la questione degli spazi dedicati alla musica».

·        Lucrezia Lante della Rovere.

Lucrezia Lante della Rovere: «Quante liti con mamma Marina Ripa di Meana. Con Malagò facemmo due gemelle, poi scappai». Emilia Costantini su Il Corriere della Sera l'1 settembre. Intervista all’attrice: «Il cognome aristocratico mi ha creato dei complessi. Con Giovanni Malagò abbiamo fatto subito due gemelle, ma aveva troppa determinazione e stabilità, pure troppa: e scappai. Barbareschi era bello, trasgressivo e già antipatico a tutti». Lucrezia Lante della Rovere con la madre Marina Ripa di Meana.

«Ero molto giovane e non amavo la mondanità, ma quella volta mi convinse ad andare alla prima alla Scala di Milano: l’evento più mondano che possa esistere. E per convincermi mi regalò addirittura un vestito favoloso che era bordato di visone bianco: sembravo Audrey Hepburn. Ma non sapevo cosa aveva architettato...». Lucrezia Lante della Rovere ricorda divertita e con affetto il «tranello» progettato dalla madre Marina Ripa di Meana. «Io, ignara, in pelliccia dentro al teatro, lei fuori nella piazza davanti alla Scala mentre, a seno nudo in pieno gennaio, faceva una manifestazione animalista contro l’uso delle pellicce bruciandole... Venni travolta da un turbine di paparazzi, perché era clamoroso che la madre usasse la figlia per una denuncia sociale... Luca (Barbareschi ndr) che mi accompagnava, sembrava il mio bodyguard».

Si arrabbiò con Marina?

«Non ci parlai per un anno... Ma ora ci rido. Mamma era fatta così, perennemente sopra le righe, la sua esistenza un’altalena di eventi... Quando aveva un’idea non guardava in faccia a nessuno, passava sul cadavere di chiunque e se io mi arrabbiavo, ribatteva che non avevo ironia, esclamava: e fatti una risata! Però ha compiuto tante battaglie civili e politiche, per lei il gusto della provocazione era più forte di qualunque cosa ed era un’abile stratega, venditrice di se stessa. È stata molto coraggiosa anche quando si è ammalata, diventando portavoce e mettendosi a disposizione di chi era colpito dalla stessa malattia, spronando gli altri a non vergognarsi, a superare i pudori, i pregiudizi, a parlare del problema e non sentirsi malati nella vita. Ha persino realizzato un video-testamento, il giorno prima di morire, per l’associazione Luca Coscioni a favore dell’eutanasia, che è un modo per andarsene da questa terra in maniera dignitosa... Ma siccome siamo in un Paese cattolico, è difficile».

Era una donna speciale.

«Sì e mi manca sempre di più. A differenza di mio padre, che aveva il mal di vivere, si limitava a sopravvivere, era dipendente dall’alcol e non ha avuto una bella vita, ho ereditato per fortuna da lei dei cromosomi veramente tosti, direi maschili. Era una madre forte, anche severa e bacchettona».

Davvero? Trasgressiva e bacchettona?

«Sì, una contraddizione davvero buffa per una donna così libera, spregiudicata. Quella volta che mi beccò a letto con un mio fidanzato, mi fece una scenata, poi se ne andò infuriata e scandalizzata. Però era creativa, mi ha insegnato a usare la fantasia per affrontare la vita, me lo ha inculcato persino in maniera aggressiva, brutale, dicendomi “mettiti un carciofo in testa, ma fai qualcosa!”... Era un’artista».

E a proposito di arte, lei Lucrezia è discendente del papa Giulio II che commissionò a Michelangelo gli affreschi della Cappella Sistina.

Ride: «Ho saputo, recentemente, che quando il Papa vide il lavoro ultimato, pare che disse a Michelangelo: ci potevi mettere una bella tappezzeria! Insomma era un bel rompiscatole. Comunque, per quanto mi riguarda, quando ero bambina sono cresciuta con il complesso del cognome importante, della famiglia aristocratica alle spalle...».

Perché?

«Si dice che gli aristocratici non lavorano, non he hanno bisogno, possiedono i palazzi, le proprietà, una mentalità conservatrice, tradizionalista... Tutte cose in cui non mi riconoscevo, non sono cresciuta come ragazza aristocratica e avrei voluto chiamarmi Maria Rossi, insomma essere normale. Oggi, che sono invecchiata, la penso diversamente: della mia famiglia non è rimasto più nessuno, sono l’unica superstite ed è un peccato che non ci siano eredi, oltre me, che abbiano il mio cognome, una discendenza importante... All’epoca invece mi pesava e desideravo nasconderlo anche quando ho iniziato a lavorare».

Prima modella poi attrice...

«Volevo emanciparmi, essere autonoma, autosufficiente, guadagnare i miei soldini e affrancarmi dalla famiglia. Fare la modella era la cosa più facile: ero carina, magra, ero dotata di un certo portamento... Tuttavia sapevo che, essendo una tipa inquieta, non avrei fatto la modella a vita, era un passaggio per approdare ad altro. Infatti poi arrivò l’occasione giusta: Mario Monicelli cercava una ragazza che conoscesse le lingue e sapesse andare a cavallo, mi scelse per Speriamo che sia femmina . Ben presto ho capito che raccontare delle storie era per me la strada giusta, pane per i miei denti».

In che senso?

«In fondo ero una giovane timida e interpretare dei personaggi mi ha permesso di dare delle risposte alle mie domande, superare delle sfide, vincere le paure, mi sono innamorata di questo mestiere. Per un timido è come mettersi alla prova, di fronte a un baratro, un modo per superare le insicurezze».

Però non ha frequentato scuole, accademie per attori, giusto?

«No ma Luca, grande attore e regista, mi ha insegnato molto. Quando ci siamo messi insieme, lui a 36 anni era già famoso: era bello, trasgressivo, intelligentissimo, già antipatico a tutti. Avevo dieci anni di meno, ero acerba e pazza di lui, lo stavo ad ascoltare con la mascella che mi cascava, a bocca aperta, ma era durissimo, severo... Diceva che ero dotata di un mondo emotivo, di grande sensibilità che lo affascinava, ma altrettanto priva di tecnica. Mi scritturò per lo spettacolo Oleanna di David Mamet e mi fece studiare tantissimo, non solo il copione... Mi costringeva a tenere una matita in bocca fino allo sfinimento per migliorare la dizione e poi si inventava dei trucchetti quando ci trovavamo in palcoscenico. Era pericoloso».

Per esempio?

«Se non era convinto della mia recitazione, se non la sentiva vera, con il pubblico presente in sala, era capace di uscire improvvisamente di scena, per andarsi a nascondere dietro le quinte... Creava il panico, mi mollava da sola, mi portava sull’orlo del precipizio, lui sapeva come farlo e, data la sua esperienza, mi costringeva a reagire, conducendomi dove voleva... Un escamotage anche per sconfiggere la ripetitività delle repliche».

Intanto, precedentemente, lei era già diventata mamma...

«Quando ho conosciuto Giovanni (Malagò, ndr) avevo 21 anni e abbiamo fatto subito due gemelle, Vittoria e Ludovica. Anche lui era un tipo deciso e mi interrogava spesso sul mio futuro, su ciò che volevo fare. Io rispondevo che non lo sapevo, che mi sentivo una zingara scappata di casa, la buttavo sul ridere... Ma quando una volta gli chiesi: perché tu lo sai cosa vuoi diventare? Lui rispose serio: sì, il presidente del Coni. Aveva solo 28 anni!».

Idee chiare e determinazione...

«Accipicchia! Tanta determinazione e stabilità, forse troppa. Tanto che poi da Giovanni sono scappata a gambe levate come Willy il coyote».

Attrice affermata, tra cinema, teatro e televisione: è soddisfatta?

«Assolutamente no. Oltretutto detesto rivedermi, sono molto esigente, inflessibile, non mi piaccio quasi mai e do anche poca soddisfazione a chi lavora con me, tanto che i colleghi mi dicono: a Lucre’, e dattela una carezza ogni tanto... Eppure non ci riesco, sono ipercritica e mi prendo in giro da sola per i miei difetti».

È la voglia di migliorare sempre?

«Certo e anche di cimentarmi in ruoli diversi. Per esempio, mi capitano quasi sempre personaggi drammatici, tormentati, mentre mi piacerebbe affrontare una commedia dove possa emergere la mia indole, che è frizzante, allegra, per sfruttare il mio lato brillante».

Tuttavia adesso si prepara a portare in scena L’uomo dal fiore in bocca con la regia di Francesco Zecca, che non è un testo leggero, frizzante...

«Certo che no, parla di morte... E inoltre, sia pure rispettando in pieno l’opera pirandelliana, è un monologo dove io, nel ruolo della moglie del personaggio, che esiste nel testo originale ma non dice nulla limitandosi a spiare il marito, uso le parole del protagonista, cioè l’uomo che sta per morire a causa dell’epitelioma, il tumore alla bocca. Però...».

Però?

«Però sto lavorando a un progetto curioso: un docufilm su Lucrezia Borgia, diretto da Diego Schiavo e Marco Melluso».

Le due Lucrezie in scena?

«Ebbene sì. Due Lucrezie che hanno in comune, oltre al nome di battesimo, pure la vicenda dei papi. Lei figlia di Alessandro VI che salì al soglio pontificio prima di Giulio II, di cui io sono la discendente... E tra i due non correva buon sangue, al contrario, una forte rivalità».

Abbiamo iniziato ricordando mamma Marina. Lucrezia che madre è stata?

«Una madre ragazzina, sono cresciuta insieme alle mie figlie, che ovviamente hanno fatto le spese della mia inesperienza. I figli hanno bisogno di punti fermi, solidi, io cercavo di essere una brava educatrice, a volte mi inventavo di essere persino severa, ma ero ansiosa, spaventata dal fatto di non riuscire a essere una brava madre. Anche perché col mio mestiere, tra set e tournée, sono sempre stata in giro. Però per fortuna ho due bravissime figlie, che non fanno le attrici... E mi hanno dato quattro nipotini: tre femmine e un maschio».

Si fa chiamare nonna?

«E che mi faccio chiamare zia? Sono molto fiera di farmi chiamare nonna... Quando sento quelle vocine cucciolette che mi chiamano nonna Lu mi sciolgo, mi si apre il cuore... Poi scopriremo, strada facendo, se sarò capace di essere, almeno, una brava nonna».

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Si arrabbiò con Marina?

«Non ci parlai per un anno... Ma ora ci rido. Mamma era fatta così, perennemente sopra le righe, la sua esistenza un’altalena di eventi... Quando aveva un’idea non guardava in faccia a nessuno, passava sul cadavere di chiunque e se io mi arrabbiavo, ribatteva che non avevo ironia, esclamava: e fatti una risata! Però devo dire che ha compiuto tante battaglie civili e politiche, per lei il gusto della provocazione era più forte di qualunque cosa ed era un’abile stratega, venditrice di se stessa. È stata molto coraggiosa anche quando si è ammalata, diventando portavoce e mettendosi a disposizione di chi era colpito dalla stessa malattia, spronando gli altri a non vergognarsi, a superare i pudori, i pregiudizi, a parlare del problema e non sentirsi malati nella vita. Ha persino realizzato un video-testamento, il giorno prima di morire, per l’associazione Luca Coscioni a favore dell’eutanasia, che è un modo per andarsene da questa terra in maniera dignitosa... Ma siccome siamo in un Paese cattolico, è difficile».

Era una donna speciale.

«Sì e mi manca. A differenza di mio padre, che aveva il mal di vivere, si limitava a sopravvivere, era dipendente dall’alcol e non ha avuto una bella vita, ho ereditato per fortuna da lei dei cromosomi veramente tosti, direi maschili. Era una madre forte, anche severa e bacchettona».

Davvero? Trasgressiva e bacchettona?

«Sì, una contraddizione davvero buffa per una donna così libera, spregiudicata. Quella volta che mi beccò a letto con un mio fidanzato, mi fece una scenata, poi se ne andò infuriata e scandalizzata. Però era creativa, mi ha insegnato a usare la fantasia per affrontare la vita, me lo ha inculcato persino in maniera aggressiva, brutale, dicendomi “mettiti un carciofo in testa, ma fai qualcosa!”... Era un’artista».

E a proposito di arte, lei Lucrezia è discendente del papa Giulio II che commissionò a Michelangelo gli affreschi della Cappella Sistina.

Ride: «Ho saputo, recentemente, che quando il Papa vide il lavoro ultimato, pare che disse a Michelangelo: ci potevi mettere una bella tappezzeria! Insomma era un bel rompiscatole. Comunque, per quanto mi riguarda, quando ero bambina sono cresciuta con il complesso del cognome importante, della famiglia aristocratica alle spalle...».

Perché?

«Si dice che gli aristocratici non lavorano, non he hanno bisogno, possiedono i palazzi, le proprietà, una mentalità conservatrice, tradizionalista... Tutte cose in cui non mi riconoscevo, non sono cresciuta come ragazza aristocratica e avrei voluto chiamarmi Maria Rossi, insomma essere normale. Oggi, che sono invecchiata, la penso diversamente: della mia famiglia non è rimasto più nessuno, sono l’unica superstite ed è un peccato che non ci siano eredi, oltre me, che abbiano il mio cognome, una discendenza importante... All’epoca invece mi pesava e desideravo nasconderlo anche quando ho iniziato a lavorare».

Prima modella poi attrice...

«Volevo emanciparmi, essere autonoma, autosufficiente, guadagnare i miei soldini e affrancarmi dalla famiglia. Fare la modella era la cosa più facile: ero carina, magra, ero dotata di un certo portamento... Tuttavia sapevo che, essendo una tipa inquieta, non avrei fatto la modella a vita, era un passaggio per approdare ad altro. Infatti poi arrivò l’occasione giusta: Mario Monicelli cercava una ragazza che conoscesse le lingue e sapesse andare a cavallo, mi scelse per Speriamo che sia femmina. Ben presto ho capito che raccontare delle storie era per me la strada giusta, pane per i miei denti».

In che senso?

«In fondo ero una giovane timida e interpretare dei personaggi mi ha permesso di dare delle risposte alle mie domande, superare delle sfide, vincere le paure, mi sono innamorata di questo mestiere. Per un timido è come mettersi alla prova, di fronte a un baratro, un modo per superare le insicurezze».

Però non ha frequentato scuole, accademie per attori, giusto?

«No ma Luca, grande attore e regista, mi ha insegnato molto. Quando ci siamo messi insieme, lui a 36 anni era già famoso: era bello, trasgressivo, intelligentissimo, già antipatico a tutti. Avevo dieci anni di meno, ero acerba e pazza di lui, lo stavo ad ascoltare con la mascella che mi cascava, a bocca aperta, ma era durissimo, severo... Diceva che ero dotata di un mondo emotivo, di grande sensibilità che lo affascinava, ma altrettanto priva di tecnica. Mi scritturò per lo spettacolo Oleanna di David Mamet e mi fece studiare tantissimo, non solo il copione... Mi costringeva a tenere una matita in bocca fino allo sfinimento per migliorare la dizione e poi si inventava dei trucchetti quando ci trovavamo in palcoscenico. Era pericoloso».

Per esempio?

«Se non era convinto della mia recitazione, se non la sentiva vera, con il pubblico presente in sala, era capace di uscire improvvisamente di scena, per andarsi a nascondere dietro le quinte... Creava il panico, mi mollava da sola, mi portava sull’orlo del precipizio, lui sapeva come farlo e, data la sua esperienza, mi costringeva a reagire, conducendomi dove voleva... Un escamotage anche per sconfiggere la ripetitività delle repliche».

Intanto, precedentemente, lei era già diventata mamma...

«Quando ho conosciuto Giovanni (Malagò, ndr) avevo 21 anni e abbiamo fatto subito due gemelle, Vittoria e Ludovica. Anche lui era un tipo deciso e mi interrogava spesso sul mio futuro, su ciò che volevo fare. Io rispondevo che non lo sapevo, che mi sentivo una zingara scappata di casa, la buttavo sul ridere... Ma quando una volta gli chiesi: perché tu lo sai cosa vuoi diventare? Lui rispose serio: sì, il presidente del Coni. Aveva solo 28 anni!».

Idee chiare e determinazione...

«Accipicchia! Tanta determinazione e stabilità, forse troppa. Tanto che poi da Giovanni sono scappata a gambe levate come Willy il coyote».

Attrice affermata, tra cinema, teatro e televisione: è soddisfatta?

«Assolutamente no. Oltretutto detesto rivedermi, sono molto esigente, inflessibile, non mi piaccio quasi mai e do anche poca soddisfazione a chi lavora con me, tanto che i colleghi mi dicono: a Lucre’, e dattela una carezza ogni tanto... Eppure non ci riesco, sono ipercritica e mi prendo in giro da sola per i miei difetti».

È la voglia di migliorare sempre?

«Certo e anche di cimentarmi in ruoli diversi. Per esempio, mi capitano quasi sempre personaggi drammatici, tormentati, mentre mi piacerebbe affrontare una commedia dove possa emergere la mia indole, che è frizzante, allegra, per sfruttare il mio lato brillante».

Tuttavia adesso si prepara a portare in scena L’uomo dal fiore in bocca con la regia di Francesco Zecca, che non è un testo leggero, frizzante...

«Certo che no, parla di morte... E inoltre, sia pure rispettando in pieno l’opera pirandelliana, è un monologo dove io, nel ruolo della moglie del personaggio, che esiste nel testo originale ma non dice nulla limitandosi a spiare il marito, uso le parole del protagonista, cioè l’uomo che sta per morire a causa dell’epitelioma, il tumore alla bocca. Però...».

Però?

«Però sto lavorando a un progetto curioso: un docufilm su Lucrezia Borgia, diretto da Diego Schiavo e Marco Melluso».

Le due Lucrezie in scena?

«Ebbene sì. Due Lucrezie che hanno in comune, oltre al nome di battesimo, pure la vicenda dei papi. Lei figlia di Alessandro VI che salì al soglio pontificio prima di Giulio II, di cui io sono la discendente... E tra i due non correva buon sangue, al contrario, una forte rivalità».

Abbiamo iniziato ricordando mamma Marina. Lucrezia che madre è stata?

«Una madre ragazzina, sono cresciuta insieme alle mie figlie, che ovviamente hanno fatto le spese della mia inesperienza. I figli hanno bisogno di punti fermi, solidi, io cercavo di essere una brava educatrice, a volte mi inventavo di essere persino severa, ma ero ansiosa, spaventata dal fatto di non riuscire a essere una brava madre. Anche perché col mio mestiere, tra set e tournée, sono sempre stata in giro. Però per fortuna ho due bravissime figlie, che non fanno le attrici... E mi hanno dato quattro nipotini: tre femmine e un maschio».

Si fa chiamare nonna?

«E che mi faccio chiamare zia? Sono molto fiera di farmi chiamare nonna... Quando sento quelle vocine cucciolette che mi chiamano nonna Lu mi sciolgo, mi si apre il cuore... Poi scopriremo, strada facendo, se sarò capace di essere, almeno, una brava nonna».